jV\ VUUVVUVOY VA AVO VUve‘ UVE pus dù AMM vr VA vi VA o CIAMAMA A veri 9 ui AWAY PIVIMA Me vani vi SO va | AMOUNT n vi I° scaill VV I { i Ì | AVAAATAA A A AA I Sa BAEgA 0 d E : A è Cc { i i CS h = G @ Ri (CAT £ EC. 2; « ( O ( { ( : = “ (al n ( (€ A CC NV. i I i n: 7 i ZA NIZZA I E dà fa (SN Pi VAANAN7 £ i POM NA ala ì OM LANZI x io IZ x f ù Ù È \ N N.) 04 MEMORIE DELLA ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELLL' ISTITUTO DI BOLOGNA SERIE TERZA —0— TOMO IV. BOLOGNA TIPI GAMBERINI E PARMEGGIANI GA pCELLED Di By trenefer frem Pat. Office Lib, April 1914, } ni si È &4. i $ LR ee 8 DI UNA NUOVA GALLA DELL'ESCHIA E DELLE SPECIE DA AGGIUNGERSI ALLA FLORULA DELL'ISOLA DEL TINO NEL GOLFO DELLA SPEZIA MISCELLANEA ENTOMOLOGICA-FITOLOGICA SECONDA PROF. CAV. GIUSEPPE BERTOLONI (Letta nella Sessione 24 Aprile 1873 ) P roseguo in questa mia Miscellanea Entomologica-Fitologica Se- conda ad aggiungere ulteriori scoperte, ed interessanti notizie relative all’ imenottero Diplolepis Quadrum F. che è produttore, come già dissi delle tre Galle, delle quali io diedi la storia l'anno passato, onde rendere questa maggiormente ricca di notizie intorno alla vita dell’animale. Quando davanti a quest’ illustre Sodalizio esposi quel lavoro, avevo già traveduto che non da tutte quelle tre diverse forme di Galle erano nati gli individui perfetti che ne dovevano venire alla luce, e che i nati si erano sviluppati non tutti in breve spazio di tempo, ma cominciarono nell’ ottobre, e proseguirono a nascere sino al maggio, e poi più non ne vidi venire alla luce. Allora supposi che lo stato di chiusura delle tre galle conservate sotto tre recipienti di cristallo separate le une dalle altre avesse potuto influire ad impe- dire l’ ultima metamorfosi, ed anche a produrre la morte di quegli in- dividui che non erano nati, tuttavia lasciai gli apparecchi contenenti le rispettive Galle intatti per pure accertarmi se più tardi qualche individuo sortiva dal suo nido, e questo accadeva sino al dodicesimo giorno di febbrajo dell’ anno appresso cioè di questo 1873, quando ripetendo la pratica di osservare a diverse epoche successive se sotto le campane di cristallo si presentasse qualche novità mi sono accorto che dopo un anno e mezzo di chiusura compariva nato di recente un individuo sanissimo del sunnominato Diplolepis Quadrum. Appresso 4 GIUSEPPE BERTOLONI questa contingenza estrassi tutte le Galle dal recipiente, nel quale si conteneva l’ animale vivo e vispo, essendo curioso d’ aprire quelle di esse che non mostravano foro esterno relativamente alla Galla Coro- nata, ed alla Galla Fimbriata, e che con ciò mi rendevano certo che l’animale non era uscito dalle medesime. Quelle Galle che in numero di cinque o sei aprii con istrumento tagliente tutte contenevano l’ ani- male allo stato perfetto, e vivo, che con destrezza estrassi dal bozzo- letto senza offenderli, e che conservati sotto altra campana di cristallo più piccola mi diverti a vederli girovagare per molti giorni, e poi dopo un lasso di tempo più o meno lungo morirono d’inedia fra il quindicesimo e ventesimo giorno di tanta schiavitù, e preparati li os- serverete conservati al N.° 9 Marzo nella collezione, che avete sot- t' occhio. Allora domandai a me stesso avranno finito a quest’ epoca gli sviluppi, e le nascite di tutti gli individui? Il seguito dell’ osserva- zione deciderà il sì ed il nò. Frattanto collocai le tre Galle in tre re- cipienti di cristallo grandi chiusi a toracciolo pure di cristallo, che disposi nella collezione dei prodotti vegetali del giardino botanico, ed ho constatato che fra il 12 febbraio ed il 5 aprile di questo anno 1873 sì sono sviluppati entro due bottiglie altri individui perfetti, cioè dalla Galla Fimbriata, e dalla Galla Coronata o Nespoliforme, ma nessun individuo è nato dalle poche Gallette, perchè probabilmente queste poche avevano prima della loro chiusura tutte subìta la nascita del- l’animale; la quale non potendosi in queste constatare dal carattere del foro esterno, che sempre esiste nell’apice per cagione della natu- rale costruzione della Galletta, come già descrissi l’anno passato perchè non ha d' uopo l’animale di praticare corrosione alcuna per uscirne alla luce del giorno. Ciò che mi pare dìfficile a spiegarsi è l’altro fatto che le Galle Fimbriate e le Gallette al tardo autunno del 1871, quasi tutte si erano staccate dagli alberi, per terra marcivano, e si decom- ponevano, che anzi al venire della primavera alcuna più non vidi, e l’animale che molte pure avranno contenuto, sarà rimasto entro la Galla tra le foglie marcite, e l’ erba del bosco per isvilupparsi poi progressivamente ad epoche assai lontane, oppure rimarrà spento col- l’ alterazione della Galla prodotta dall' umidità del terreno. Fra gli individui a me nati in sì lungo lasso di tempo cioè dall’ ottobre del 1871 all'aprile 1873 predominano assai le femmine, e pochissimi sono li maschi, la quale previdenza di natura potrebbe essere legata DI UNA NUOVA GALLA DELL’ ESCHIA 5 anche strettamente al lungo e successivo sviluppo ad epoche diverse delle molte femmine, perchè un dato numero si presentasse immanca- bilmente allo stato di perfezione ad incontrare il maschio, onde rima- nere dal medesimo fecondate. Non debbo inoltre tacervi, siccome dissi l’ anno passato, che la Galletta aveva in provincia una certa importanza commerciale pel suo uso nella concia delle pelli, ma che allora non potevo precisare la quantità del principio astringente della medesima in confronto colle altre due Galle, ed in confronto della scorza di Quercia del nostro commercio, perchè i saggi chimici non erano stati fatti, ma io invitai un nostro abile chimico a farne quest’ analisi ed eccovi i risultati della gentile sua cooperazione a stabilirne le proporzioni. L’ opera dell’ analisi è stata fatta col processo volumetrico del Wagner, ed ha dato per risultato che la Galletta dei campagnoli contiene il 16 per cento di tanino, mentre la Galla Coronata o Nespoliforme ne contiene il 10 e 78, e la Galla Fimbriata il 5 e 35 per cento, per cui i conciatori di pelli potranno stabilire qual valore conciante abbia ognuna di dette Galle relativamente alla scorza di Quercia, che da loro quasi esclusivamente è adoperata in Bologna. Nell’ anno passato già dissi che avrei seguitato la raccolta e lo studio delle Galle, e così feci; ma nel 1872 la produzione delle mede- sime è stata scarsissima nelle provincie d’Italia, che ho percorse, ed il Bolognese me ne ha somministrate poche. Una, che distinguo col nome di Spongiosa e che per prima di tutte sviluppasi alla fine del verno, ha richiamato sopra le altre le mie osservazioni e perchè corri- sponde a mio giudizio a quella che il Malpighi descrisse e figurò al N.° 33. nel suo trattato de Gallis, ed Egli asserisce di avere ottenuto due specie diverse d’insetti dalla medesima che a quei tempi non po- teva distinguere con nome specifico, come ho ottenuto io ancora in grande abbondanza, l’ una specie natami alla metà di maggio del 1872 con pochissimi individui della seconda, mentre la Galla si era svilup- pata in aprile sui rami dell’ Eschia costituente boschetti cedui quando questa pianta comincia a sviluppare le foglie, l’altra specie minore cioè la seconda nacque nell'autunno quando meno vi pensavo dalle preparazioni già collocate nella collezione, le quali due specie potrete osservare al N. 23, A. B. in grande quantità. La prima specie è un Cymindis cagione certamente della formazione della Galla, la seconda LI è il parassito che è vissuto, e sviluppatosi a distruzione di moltissimi 6 GIUSEPPE BERTOLONI individui del primo entro alla Galla stessa, dalla quale molto più tardi veniva alla luce. Il Malpighi non travide il parassitismo, perchè a suoi tempi nemmeno si aveva alcun sospetto del medesimo. Per ora sospendo di esporre la storia di cotali sviluppi, perchè mi sono necessarie molte altre osservazioni per istabilire il quando ed il come l’imenottero parassito attacca 1’ imenottero autore della Galla, se pure io riescirò scuoprirlo, essendo osservazioni da farsi sullo stato selvatico nell’ aperta campagna; frattanto si distinguerà questa Galla col nome da me datole di Spongiosa perciocchè un nome proprio alle Galle non è stato in generale sino ad ora dato anche per detto del Sig. Guerin Meneville, col quale si richiamino subito alla mente dall' osservatore i caratteri esclusivi di ognuna delle medesime, e come io l’ anno scorso intrapresi ad applicare alle nove o dieci diverse Galle che vi presentai, e da me raccolte nel bolognese. Inoltre dal Sig. Amilcare Lorenzini ho ricevuto altre quattro diverse Galie, due che Egli ha raccolto sul Cerro, e due sull’ Eschie nei dintorni della Porretta. Anche intorno a queste debbo per ora tacermi per certificare quali specie sono cagione del loro sviluppamento, e per la stessa ragione sono co- stretto a tacere di alcune altre che avevo raccolte, e che conservo nella mia collezione già da vario tempo. Invece passo a parlare di una produzione dello stesso genere novella alla scienza, e della quale darò la descrizione, a farò noto l’animale, che ne fu la cagione. Nella state passata ho soggiornato circa quaranta giorni in un pae- setto del golfo della Spezia allo scopo di possedere e studiare i ve- getabili di qualle amenissime ed incantevoli località. Mentre ne racco- glievo tutte le specie, e percorrevo alacremente quegli erti, ed aspri monti pieni di ubertosi oliveti, di ficetti, di boschi di pini, e di quercie sempre dirigevo principalmente l'occhio sopra gli alberi di queste ultime per iscuoprire se vi fossero novelle Galle da me non ancora vedute e trovate. Di fatto sui monti Branzi che sovrastano al paese di Lerici, e che sono nella catena del promontorio del Corvo in un boschetto interrotto di Cerri, di Eschie e di Elci scuoprii sulle cime dei rami d’un Eschia delle Galle. Feci subito salire sopra quegli alberi poco alti il marinaio già abilissimo ad arrampicarsi sulle corde e sul- le antenne delle navi, il quale mi serviva di guida. Il medesimo presto mi porse le non molte Galle trovate sul Cerro e sull’ Eschia, ed os- servatele da vicino conobbi subito che la Galla prodotta sull’ Eschia singolare nella sua forma non avevo mai trovato e veduto, e che DI UNA NUOVA GALLA DELL’ ESCHIA "7 nemmeno doveva essere stata conosciuta, rappresentata, e descritta dal Malpighi, perchè avevo presente alla mente tutte le figure delle sue tavole, e perciò la giudicai oggetto interessante. Procurai di fare rac- cogliere tutti gli individui che erano sopra due alberi d’ Eschia, nei quali si mostravano assai scarsi, e gli altri individui a questi due vicini non ne avevano. Feci raccolta ancora di quelle del Cerro, intorno alle quali subito non sapevo pronunciare se sì trattasse di produzione novella, perchè intorno alla medesima non mi venne nemmeno il so0- spetto come invece fu dell’altra singolarissima per la sua forma. Ambe portai a Bologna, e nel mio studio le collocai separatamente sotto campane di cristallo per osservarle a tutto mio agio colla speranza che mi nascesse l’ animale cagione del loro sviluppo. Inoltre coll’ opera del Malpighi sotto gli occhi mi accertai viemaggiormente che questa Galla dell’ Eschia non era stata da lui rinvenuta, e perciò nè descritta, nè figurata nel suo trattato De Gallis, e siccome nemmeno in altri autori trovai descritta e figurata cotale bizzarra e singolare forma così a Voi Colleghi Umanissimi la presento in natura nella collezione delle mie Galle al N.° 22, collocata vicino altre tre Galle delle quali vi diedi la storia l’anno passato, perchè come sentirete più sotto, le conviene di necessità questo posto, e figurata la vedrete nella tav. I. fig. 1, 2, 3. Descrizione della Galla. La lunghezza sua è fra i due e tre centimetri o poco più, la larghezza dai due ai cinque centimetri scarsi di forma non sempre bene determinabile, ma per lo più paragonabile a due ombrelli chinesi aperti, e soprapposti, anzi uniti insieme da un peduncolo piuttosto grosso che rappresenta, ed è infatti il centro della Galla, perchè in- ternamente al medesimo Tav. I. fig. 3, @, risiede l’ animale contenuto nel proprio bozzoletto. La superficie superiore dell’ ombrello, che costi- tuisce la cima della Galla, per lo più è convessa con una sporgenza o colmignolo centrale, ma ancora piana col centro un poco ombellica- to; il margine di ambi gli ombrelli mostrasi assottigliato e si prolunga in cornetti apiattiti, più o meno disugualmente sporgenti, ed acuti, piuttosto ricurvati in basso, ed anche coll’ apice uncinato, ed un poco bifido, oppure ottusi e meno sporgenti, ed alcuno anche ripiegato in alto (veggansi le preparazioni N.° 23 in diversa posizione) inoltre l’ombrella inferiore si ripiega di più in basso della superiore e si ri stringe addosso al rametto che porta sempre foglie e ghiande, e le prime 8 GIUSEPPE BERTOLONI quasi anichilite (Preparazione N.° 22, G) Fig. N.° 35. Il suo colore ros- so-fosco-marrone è risplendente come fosse stato ricoperto da uno strato di vernice, e col tenere le dita sulla superficie di questa Galla si co- nosce che la sostanza, che la spalma, è attaccaticcia. Il peduncolo che unisce i due ombrelli, e che è continuazione de’ medesimi mostrasi piuttosto grosso, ed internamente all’ unione coll’ombrello inferiore ha una cavità o nicchia (vedi fig. 3, N, e preparazione N.° 22, N) entro la quale stanzia il rotondo bozzoletto della stessa figura, dimensione e sostanza del bozzoletto delle tre Galle, che vi descrissi 1’ anno pas- sato, e contenente lo stesso animale, cioè il Diplolepis Quadrum F. il quale perciò può dare sviluppamento a quattro Galle, o nidi di for- ma diversissima l’uno dagli altri, e cioè alla Galletta, alla Galla Fimbriata, alla Galla Coronata o Nespoliforme, ed a quest’ ultima che ho chiamata Galla Biombrellata, posciacchè da quest’ ultima nel mese di marzo trascorso chiusa sotto recipiente di cristallo mi nacque l’insetto perfetto, due individui del quale si osservano al N.° 22, vi- cini alla rispettiva Galla, dalla quale ognuno era uscito naturalmente. Del medesimo non vi ripeto la descrizione e la storia, perchè abba- stanza estesa la feci l’ anno passato, soltanto debbo aggiugnere, che quando sorte dal suo bozzolo col rossicchiarlo si apre, rodendo oriz- zontalmente la dura sostanza del peduncolo, un cunicolo, dal quale per un foro esterno rotondo viene alla luce del giorno (vedi Tav. I. fig. 190C; \preparaz.iN(2200). Quando raccolsi le poche Galle Biombrellate subito vidi che dalla maggior parte di esse pel foro che era nel peduncolo l’ animale doveva essere di già nato, ma alcune poche mi si mostrarono intatte nella loro superficie, e queste furono quelle che nacquero il marzo passato nel mio studio. Per la qual cosa anche in questa Galla 1’ animale non muta i suoi costumi cioè sviluppasi in stagioni diverse, ed in epoche lontane le une dalle altre come ho detto avvenire nelle sunnominate. La sostanza di questa Galla è dura, legnosa, come quella della Galletta, colla quale ha anche qualche carattere di maggiore vicinanza più cho colle altre due, però la nicchia interna del bozzolo non presenta nes- sun cunicolo o via naturale, come per esempio presenta la Galletta nella sua costruzione e per la quale senza corrodere la sostanza dura e legnosa può escirne alla luce del giorno dalla parte superiore, mentre la Galla Biombrellata è nelle stesse condizioni delle altre due, che mancano di viadotto, e che perciò l’ animale se lo deve fare rosic- chiando la sostanza della Galla; però internamente e longitudinalmente DI UNA NUOVA GALLA DELL’ ESCHIA 9 al peduncolo ed alla grossezza dell’ ombrello superiore mostrasi come l’ indizio di un canale analogo molto, più sottile di quello della Gal- letta, ma obliterato si direbbe dalla materia attaccaticcia, che inverni- cia la superficie esterna di questa Galla, e direbbesi che detta sostanza si sia insimuata dal centro superiore dell’ ombrella superiore verso la parte inferiore del peduncolo o gambo (vedi preparaz. N.° 22 0). Ora io domando a me stesso sarà questa la quarta ed ultima foggia di Galla che produce sull’ Eschia e sulla Rovere il Diplolepis Quadrum F. oppure se ne incontreranno delle altre ? Le diligenti ri- cerche che saranno fatte in avvenire spero che chiariranno la cosa. Frattanto avendo avuto l’ onore tre giorni or sono di una visita del- l illustre Naturalista ed Entomologo Sig. Guerin Meneville che passava di Bologna, ed avendogli io detto dei miei lavori sulle Galle, e mo- strate tutte le prepazioni delle medesime, che moltissimo a Lui piaquero, perchè mi diceva nessuno degli Entomologi ha fatto lavori di questo genere, che fanno conoscere le specie che producono le diverse Gialle, mentre gli autori hanno descritto le medesime senza interessarsi ed in generale nemmeno per la maggior parte conoscere le Galle, dalle quali nascevano ; osservava la Galla Biombrellata e credette ravvisarvi quella da Lui veduta nelle basse alpi della parte della Francia vicino a Ma- dosca, e disse potrebbe darsi che Oliver l’ avesse descritta nella Enci- clopedie Methodique, ma certamente non è stata dal medesimo figurata e nessuno ha conosciuto e pubblicato, che sia il prodotto del Diplote- pis Quadrum F. Io il dì appresso consultai 1° Enciclopedie Methodique di Oliver, e conobbi nel Tom. V. Par. II. p. 46, n. 8, che vi è citato un Diplolepis de la Gal en Parasol che corrisponde alla mia Galla Ombrelliforme della preparazione N.° 20, della quale pubblicai il nome di Ombrelliforme l’ anno passato e distingue il Diplolepîis in discorso colla seguente frase , Noir. partie anterior de la téte et pates jaunes ,; per cui questa Galla trovata pure nelle nostre colline da me l’anno passato non ha che fare colla mia Galla Biombrellata, e la frase detta non esprime alcun carattere del Diplolepis Quadrum F. La qual cosa mi induce a sospettare che anche la Galla che il Meneville osservò nelle basse alpi francesi fosse la mia Ombrellata, o la Gale en Parasol di Olivier e non la Biombrellata; ma l’ Oliver non distingue il suo Diplolepis con nome specifico. Frattanto si conchiude dietro quanto ho potuto osservare sino ad ora che sopra l’ Eschia questo animale produce la Galla Fimbriata, TOMO IV. 2 10 GIUSEPPE BERTOLONI la Galla Coronata o Nespoliforme, e la Galla Biombrellata, mentre sulla Rovere non produce che la Galletta. Credo poi che la Galla Biombrellata non si sviluppi nel Bolognese sull’ Eschia perchè mai la vidi nei nostri monti, nè il Malpighi perciò l’ha descritta e figura ta nel suo trattato De Gallis, e credo che sia particolare delle Eschie meno sviluppate delle nostre ne’ monti marittimi di rupi calcaree, ma le ulteriori ricerche ed indagini potranno chiarire meglio la cosa. Ho cercato poi di scuoprire la cagione di tanta diversità di svi- luppo, e di forma delle quattro Galle sunnominate, ed a me pare probabile che questo possa derivare dal diverso luogo o tessuto, sul quale esordisce ognuna; perchè la Galletta trae origine dalla parte interna del calice cupulato della Rovere, ed anche in parte dal guscio della ghianda, la quale perciò rimane per lo più guastata, rotta e come anichilata; la Galla Biombrellata trae origine vicino e framezzo alle gemme gregarie ed anche fruttificanti dei rametti dell’ Eschia, per cui non riescendo aderente al calice cupulato non attacca e non guasta la ghianda, però impedisce lo sviluppo delle gemme vicine ed anche delle ghiande pel nutrimento, che assorbe pel proprio sviluppo (veggasi Tav- I. fig. 3, G, e preparazione N.° 23, G); la Coronata esordisce dalla gemma dell’ apice dei rami quando prende il maggiore sviluppo od anche dalle gemme laterali dei rami quando ne presenta uno mi- nore, ma nel primo e nel secondo caso sempre con distruzione della gemma, e mai la vidi vicino alla fruttificazione; e la Galla Fimbriata dall’ interno della gemma pure, ma in vicinanza alle gemme fruttifi- canti con diminuito sviluppo delle ghiande, mentre la Galla Coronata sempre vidi nascere sui virgulti rigogliosi dell’ Eschia non arborescente e non fruttificante dei boschi e delle siepi cedue, che ben di rado portano qualche ghianda. Queste sono le notizie attinte dalle mie os- servazioni fatte in quest’ anno per completare la storia dell’ animale, del quale intrapresi a parlarvi l’anno passato. Col titolo di Miscellenea che porta questo mio scritto, passo ora a completare vieppiù quella mia dissertazione botanica che ebbi l’ onore di leggere davanti a questa illustre Accademia, e che espone la Florula delle due isolette più piccole del golfo della Spezia. Posciachè il Sig. Ammiraglio Guglielmo Acton, il quale era comandante di detto golfo quando io percorrevo ed erborizzavo le due isolette sì interessò assai di conoscere le specie di quegli ameni luoghi, ed io lo invitai a visi- tarli nella stagioue primaverile, durante la quale a me non era per- messo di assentarmi da Bologna. Pertanto due anni dopo di me nel DI UNA NUOVA GALLA DELL’ ESCHIA al mese di maggio del 1868 allo scopo scientifico erborizzava nella mag- giore delle due isolette, cioè nel Tino, e vi raccoglieva 115 specie circa fra le quali sono una cinquantina non ritrovatevi da me. Io ho studiate e nominate con scrupolosa diligenza le specie tutte della raccolta fatta dal Sig. Ammiragli» Acton, ed ora espongo le sole non prima da me ritrovatevi per aggiungere a quelle raccoltevi che già nominai e pubblicai nella dissertazione inserita nelle Memorie della nostra Accademia. Fra le Dicotiledonali Guglielmo Acton nella famiglia delle Papavera- cere venne il Papaver Dubium L. nelle Crucifere il Sisymbrium offici- nale Scopol. nelle Poligalacee la Polygala vulgaris L. nelle Linacee il Linum angustifolium L. nelle Ipericee l’ Hypericum perforatum L. nelle Geraniacec il Geranium lucidum L. nelle Papilionacee la Genista tinctoria L. la Medicago Tenoreana Dec. il Trifolium procumbens L. la Bonjeanea hirsutu Reich., il Lathyrus Cicera L. il Lathyrus syl- vestris x. Bertol., lo Scorpiurus subvillosus L. nelle Ombrellifere il Daucus Gnidium x. Bertol. nelle Aragliacee l’ Hedera Helix L. nelle Rubiacee la Scrrardia arvensis L. il Galium erectum 8. Bertol. nelle Composte il Bellis perennis L. la Cupularia viscosa Gren et Godr. l Inula odora L. V Asteriscus spinosus Gren et Godr. la Centaurea paniculata 8. Bertol. il Cirsium lanceolatum Scop. il Carduus py- cnocephalus L. l Helmintia echioides W. il Sonchus oleraceus L. la Crepis leontodontoides All. l' Hieraceum florentinum W. nelle Ericacee l’ Erica carnea L. nelle Primulacee 1° Anagallis arvensis L. nelle Gen- zianee l’ Erythrea Centarium Pers. V’ Erythrea maritima Bertol. nelle Labiate la Stachys recta L. nelle Plantaginee la Plantago lanceolata L. nelle Euphorbiacee 1’ Euphorbia exigua L.; fra le Monocotiledoni nelle Orchidee I’ Orchis pyramidalis L. la Serapias cordigera L. 1’ Aceras anthropomorpha Brow., nelle Iridee il Gladiolus communis L. nelle Dio- scoreacee il Thamnus communis L. nelle Giliacee 1’ Ornithogalum narbonense L. nelle Ciperoidee la Carex vulgaris Fries. nelle Grami- nacee la Melica pyramidalis Roen. Schul. il Bromus scaberrimus Tenor. l’ Hordeum murinum L.; fra le acotiledoni nelle Felci 1’ Asplenium Trichomanes L. V Asplenium Adiantum nigrum L. il Ceterac offici- narum \W. nei Licheni da ultimo la Cladonia pyridata Flòrk. Qui metto fine al mio dire, col quale vi avrò abbastanza tediati trattandosi di aridissima scienza che non ha altra base che le osserva- zioni spesso di fenomeni difficili a constatarsi; ma che bene scoperti danno spiegazione delle singolarità sconosciute del vivere di certe fa- miglie di animali. . Mem. Ser. 3° Tom.IIl. Galla Biombrellata Berto ME Fran® Boschi dis® dal vero [ib F°° Casanova G. Bettini dis in pietra DI UNA ANTICA COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E L' ATLANTICO PEL GOLFO DI GUASCOGNA MEMORIA DEL DOTT. GIAN ANTONIO BIANCONI ( Letta nella Sessione 17 Aprile 1873) Gi studi da me intrapresi già da vari anni, e che ho avuto l’ onore di presentare a questa illustre Accademia intorno alle cause, e conseguenze dell’ epoca glaciale su questa nostra parte del Globo, mi sono stati presentemente soggetto di ulteriori ricerche; alcune delle quali mi permetterò di sottoporre al vostro savio giudizio, come tema della presente lettura. Se quei passati lavori mi lasciarono luogo a temere che potessero venir riguardati come appoggiati ad una opinione un po’ troppo ipo- tetica, non esito a dire che doppiamente io temo un tale giudizio per le idee che verrò esponendo in quest’ oggi. Io amo però di allontanare da me questa taccia, dichiarando sino da questo primo momento che col presente lavoro intendo di esporre in oggi soltanto alcune conget- ture, le quali sono dirette a sciogliere una difficoltà emessa contro le passate ricerche. La obbiezione a cui alludo è di persona assai competente in que- sti studi, e riguarda il perimetro del Mediterraneo, el’ alto livello delle sue acque interne, quali io già supposi per l’ Epoca glaciale. Io congetturai infatti che il Mediterraneo d’allora, chiuso a Gibilter- ra, avesse il livello delle sue acque ad una tale altezza da cuoprire molti terreni che circondano il suo odierno bacino, quali il Sahara, le steppe del Caspio, e cento altre, e che quindi un notevole volume d’ acqua transitasse sopra l’ odierno Istmo di Suez per andare a scaricarsi al 14 GIAN ANTONIO BIANCONI mar Rosso, e da questo nel mar delle Indie. Ma le acque di quei mari, io notava, che dovendo per ciò transitare per le strette dei Dardanelli di Suez, e di Bab-el-Mandeb, erano nella loro sovrabbondanza tratte- nute dagli ingorghi, e portate quindi ad alto livello, accresciuto ed alimentato dalla grande copia d’acqua che 1’ epoca glaciale sommini- strava a quel bacino. Ma io non avevo poi abbastanza tenuto calcolo, benchè lo accennassi, che nel margine appunto del Mediterraneo si -trovava un basso terreno ai piedi de’ Pirenei, sul quale si estende da un lato il celebre Canal du midi, e dall’ altro scorre con lento corso la Garonna. È il punto più basso del contorno del Mediterraneo, se tolgasi Suez e Gibilterra ed alcune sponde algerine; ed avrebbe po- tuto fornire una uscita ad acque interne se avessero avuto un assai alto livello, per riversarle nell’ oceano al Golfo di Guascogna. Una obbiezione sì giusta non poteva a meno di produrre in me il desiderio di vedere chiarito il nuovo dubbio e di conoscere quali conseguenze potevano sorgere da essa. Intrapresi quindi le seguenti ricerche. Quel piccolo tratto di paese che lega i Pirenei alla Francia spar- tendo le acque che da un lato si versano all’ Oceano per la Garonna, e sull’ altro si stende il Canal du midi sino a Cette nel Mediterraneo, ha la sua cresta culminante alla altezza di 189 metri. È una diga, un argine di separazione fra il Mediterraneo, e l’ Oceano; tratto di paese di notabile estensione, ma sul quale 1’ arte congiunta colla natura ha saputo superarne 1’ altezza, giacchè oggi si naviga dal Mediterraneo all’ Oceano pel nominato Canal du midi, e per la Garonna. Questo terrenv ha dato soggetto a due ipotesi, e cioè, o fu esso durante l’ epoca glaciale alto come è oggi, ovvero fu molto basso, ed inferiore al livello dei mari, ed alzato più tardi per causa di un sol- levamento. La prima ipotesi ci offrirà varie considerazioni che io mi serbo di toccare in appresso, ma una più immediata che non lascio di far notare sin d’ ora, si è che questa sponda di 189 metri, quando fosse esistita sin da prima, avrebbe permesso alle acque del bacino Mediter- raneo di alzarsi per eguale altezza di 189 metri, e dar luogo a molti dei fenomeni accennati ne’ miei passati lavori. La seconda supposizione, che cioè quel corpo di terreno su cui scorre la Garonna fosse anticamente tanto basso da essere sommerso COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E L’ ATLANTICO DD dalle acque dei mari adiacenti, porta, come è chiaro che si sarebbe avuto in questo lato dell’ ambito del Mediterraneo una vera bocca di comunicazione fra l’ un mare e l’ altro, sicchè i flutti dell’ uno sareb- bero andati a confondersi con quelli dell’ altro. Qualunque idea pertanto di un alto livello delle acque interne sarebbe addivenuta assurda, ed insostenibile in faccia alla supposizione per la quale si sarebbe avuto a questo luogo uno stretto analogo a quello che odiernamente si vede a Gibilterra, ed i due mari avrebbero comunicato assieme. Oggi la elevazione che unisce i Pirenei alla Francia meridionale è ben notevole, e da questa diga o rialzo di terreno sono separati li due mari per una distanza di oltre a 360 Chil., giacchè i flutti del- l’ Oceano s’ infrangono sui lidi della Garonna, mentre le onde del Mediterraneo percuotono le foci del Rodano. Quelli pertanto che suppongono che un tempo fosse mare aperto fra il Golfo di Guascogna e quello di Lione, credono che l’ odierno rialzo sorgesse per causa, come si è detto, di un sollevamento. Ma questa supposizione implica una conseguenza di tanta importanza per l'argomento che abbiamo per le mani, che chiedo mi sia permesso di fermarmivi sopra con alcune considerazioni. Se un sollevamento avesse portato in alto e fuori delle acque marine quel fondo di mare che oggi costituisce il rialzo su cui scorre la bassa Garonna, questo terreno sarebbe, ciò che dicesi, un terreno emerso. Le vestigia della sua emersione non potrebbero pertanto man- care, e i sedimenti marini dovrebbero ammantarlo più o meno da ambo i lati. E diffatti questi sedimenti non mancano sul versante Mediterraneo, avendosi quivi la continuazione di quel deposito marino pliocenico notissimo che cuopre tutta quella costa da Montpellier alle spiaggie della Spagna mediterranea di Catalogna, di Valenza ecc. Ma al versante oceanico, o della Garonna le cose sono affatto diverse. Pur troppo è a dolere che la descrizione geologica di quel territorio sia stata cagione di tanta disparità di opinioni fra li geologi che la visitarono. Lo che si raccoglie dalle descrizioni che io conosco e dalla confessione fattane dal sig. Raulin con queste parole (1) » Dans les terrains tertiaires de 1’ Aquitaine, Poitou, Angoumois, (1) Mem. de ia Soc. des Sciences de Bordeaux, Tom. i. 1855 pag. 19. 16 GIAN ANTONIO BIANCONI et Quercus, M. Boué réconnut cinq assises; M." Dufrenoy qui en établit six, et moi qui en ai admis dix ,. » Que d’ incertitudes pourtant régnent encore, mème par rapport aux questions fondamentales! , » Ainsi, tandis que M." Drouot, et moi nous admettons que l’Aqui- taine était un vaste estuaire dans la quel se formaient simultanément des dépots marins sur un point, et des dépòts d’ eau douce sur un autre, M." Delbos, avec des autres geologues, est plus disposé è admettre que les dépòts marins et d’ eau douce, étaient successifs, non simultanés. , » Ainsi, tandis qu’ avec tous les géologues aquitains, je considére les sables, et les minerais de fer du Perigorde comme contemporains des molasses éocénes des environs de Libourne, M." Coquand, d’ aprés des observations toutes récentes veut les rattacher au terrain tertiaire le plus recent....... di » Ainsi, tandis que M. Delbos et moi nous persistons à ranger les gypses de Beaumont (Dordogne ) dans la molasse éocéne, M. Co- quand veut les classer dans la molasse miocéne. , » Ainsi, tandis que je place les dépòts caillouteux de l’ Entre- Deux-Mers, du Médoc, et de la Lomage, dans le terrain diluvien MM. Leymerie et Coquand veulent les rapporter au terrain pliocéne. , » Des divergences d’ opinion bien plus grandes existent encore entre nous, tous les géologues aquitains, et plusieurs de nos confréres mème les plus eminents du nord de la France. L° ordre de succession des assises telle que nous le constatons presque dans chaque colline, est mème parfois interverti par ecux.... Il arrive méme qu’ une assise, une et indivisible, le falun de Merignac par exemple, est considéré par eux comme éocéne sur un point à S. Justin, et comme miocéne sur un autre à Mérignac. Mais je m’ arréte car il est inutile de pousser plus loin cette enumeration d’ erreurs. Elles tiennent à 1’ époque ou nos confréres ont fait leurs exploration, et è la rapidité de celles-ci, esperons, qu’ a l’ aide d’ observations nombreuses et des pubblications frequentes, nous parviendrons a la bannir de la science. , Tuttavia infine se in nulla anche si accordassero que’ Geologi, in ciò per altro concordano col dare abbastanza a conoscere che sul ver- sante oceanico, non vi ha quel terreno marino rispondente all’ altro or nominato del versante mediterraneo. Vi hanno invece terreni assai variati per età, e per origine, molti essendo di acqua dolce. COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E L' ATLANTICO 17 A me duole sommamente di mancare di alcune opere recenti nelle quali sono riferiti gli ultimi lavori sulla Geologia di quella parte deila Francia, come pure sento tutto il danno di non aver potuto vi- sitare que’ luoghi per istudiarli sotto il punto di vista che esporrò in appresso. L’ esaminare e il conoscere la natura di quei terreni compa- rativamente su quei due versanti è cosa di moltissimo interesse nella presente ricerca. Tuttavia quanto alla nostra questione il punto fonda- mentale è abbastanza, io credo, posto in sodo; in quanto che chiara- mente risulta che il terreno marino di una data età, ossia il sedimento di un antico mare è manifesto nel versante mediterraneo, e manca nel versante oceanico. Un sollevamento non avrebbe lasciato le cose a questo modo. Se quel terreno fosse stato dapprima sommerso, gli stessi sedimenti non avrebbero mancato di deporsi su ambo le parti di esso, e dopo il sollevamento si mostrerebbero in un versante come nell’ altro e do- vrebbero aversi anzi pressochè uniformi, e sincroni di età per en- trambi i versanti. Ma non vedendosi una data qualità di sedimenti che sopra uno di essi, ne consegue che quel terreno non fu sollevato, ma che trovandosi sporgente come ora è, esso fu diversamente occu- pato in un tal periodo dalle acque marine, le quali avendolo lunga- mente coperto, lasciarono sedimenti sopra uno dei versanti, e sull’ al- tro no. Il versante dal lato del Mediterraneo, è, come ho accennato, co- perto dai depositi marini pliocenici, lo che mostra che appunto in questo lato le acque interne erano sino al sommo della diga, allora- quando il lato opposto cioè quello dell’ Oceano era allo scoperto, e le acque oceaniche basse come oggi. In tale guisa si spiega come i depositi pliocenici che si formavano attorno al bacino mediterraneo, poterono assai più tardi restare al- l’ asciutto, ed allo scoperto, in causa dell’ abbassamento successivo della acque interne per l’ apertura di Gibilterra; e mostrarsi apparentemente sollevati, mentrechè !’ Oceano conservando sempre il suo primo livello mantiene sepolti sotto le proprie onde le formazioni coetanee e sincrone a quelle che il Mediterraneo ha abbandonato. Poste così le cose il Mediterraneo poteva adunque avere il suo livello più alto dell’ odierno per quanto si eleva il punto culminante o spartiacque di questo tratto della sponda mediterranea. Ma pure esso è sempre un punto assai basso, e resta da indagare quali difficoltà TOMO IV. 3 18 GIAN ANTONIO BIANCONI o quali conseguenze poteva offrire questa depressione del littorale francese in rapporto alle viste esposte nei passati lavori. Lo spartiacque fra l’ Oceano ed il Mediterraneo per le livellazioni fatte, e specialmente per quelle dell’ Andreossi (1) che riguardano il Canal du midi si eleva come accennai in addietro ad un incirca a 600 piedi, cioè 189 metri sopra il pelo d’acqua dei mari adiacenti. Ora con questo dato vedesi intanto che non s’incontrano difficoltà per supporre che il Mediterraneo antico potesse avere le sue acque a 189 metri sopra l’ odierno livello, ed in conseguenza di che noi po- tremo facilmente immaginare che le terre basse del suo perimetro quali le steppe del Caspio, le aride sabbie di Suez, e le deserte solitudini del Sahara potevano essere ricoperte dai suoi flutti. Soltanto, ove un mag- gior afflusso. d’acqua avesse portato il livello interno del Mediterraneo superiore anche ai 189 metri, avrebbero esse necessariamente trovato una foce di emissione per iscaricarsi giù pel declivo della Garonna nel Golfo di Guascogna. Ma anche questa prima ipotesi ha essa pure le sue conseguenze, e non di piccolo momento; perciò merita di essere presa in particolare considerazione. Una prima conseguenza pertanto senza dubbio sarebbe, che se le onde esuberanti del Mediterraneo travalicarono la diga in discorso, tanto li reliquati da esse lasciati sul terreno, sul quale avrebbero avuto corso, quanto gli animali che dal Mediterraneo passavano con esse al- l'Oceano, dovrebbero dare prove della discesa delle acque interne nel- l'Oceano Atlantico pel Golfo di Guascogna. Al fine pertanto di chia- rire questi due punti mi sono posto a cercare nelle opere che erano a mia disposizione, e nelle quali si descrive il paese dell’antica Aquitania, le notizie che potevano riferirsi a questo soggetto. Il nostro Accademico Prof. Capellini ne’ suoi studi sopra i Felsi- noteri trovati nel bolognese ha esposto per uno dei primi l’idea di una comunanza degli animali fra 1’ Atlantico, ed il Mediterraneo per mezzo di una comunicazione fra i due mari al Golfo di Guascogna. Dopo avere fatto osservare l’ affinità che esiste fra li Sirenoidi del Mediterraneo, e quelli dell’ Atlantico, dedotta dall'esame delle parti ca- (1) Andreossi - Jour. des Mines, Tom. 16, anno XII. pag. 356. COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E I ATLANTICO 19 ratteristiche di questi animali sì fossili che viventi, egli indica come quella comunicazione renderebbe conto della distribuzione dei resti fossili dei Sirenoidi che in tanta copia trovansi sparsi nel suolo ora solcato dalla Garonna. Mediante infatti quell’ antico stato di cose li Sirenoidi avrebbero potuto passare dall’ un mare nell’ altro (1). Dei Sirenoidi fossili o viventi di questa regione si sono occupati altri naturalisti, il Lartet, ed il Fischer. È lungo tempo, dice il Lartet, che le formazioni marine del bacino della Garonna , ont fourni des débris de divers cétacés, et autres mammiféres aquatiques, qui frequen- taient la mer tertiaire , (2). Ed il Fischer ci dice , Un fait interes- sant...... de la Mediterranée reste acquis par la découverte de 1’ exis- tence de Ziphius vivants dans l’ Atlantique, car jusqu’'a présent on n’en avait trouvée des traces que sur les còtes de la Mediterranée. , (3). La opinione citata dal Prof. Capellini è pure stata emessa da naturalisti inglesi. Il Fischer in una sua nota presentata alla Accademia di Francia nel novembre 1868 parlando sui risultati dei dragaggi fatti nel Golfo di Guascogna, si esprime così , Autori inglesi hanno osser- vato che un certo numero di Molluschi che ora abitano le grandi pro- fondità del Mediterraneo, non si trovano che nei mari d’ Inghilterra, senza presentare delle stazioni intermedie; essi ne concludono che... alla fine del periodo terziario, il Mediterraneo comunicasse coll’ Oceano col mezzo di un braccio di mare che traversava l’ Aquitania, e la Linguadoca ,. Il Fischer però non si mostra persuaso di questa opinione, ed anzi la combatte appoggiandosi sulle osservazioni geologiche del suolo dell’ Aquitania, della Garonna ecc. ecc. Questi primi indizi di comunanza di animali del Mediterraneo con questo seno dell’ Atlantico mi fece nascere naturalmente il pensiero che la fauna vivente del Golfo di Guascogna potesse spargere qualche lume sul difficile argomento. Per buona sorte molti dragaggi, e molte pesche sono state fatte di recente allo scopo appunto di studiare la fauna del Golfo. Il (1) Mem. dell’ Accad. delle Scienze di Bologna, Serie III. Tomo I. pag. 605. 1872. (2) Lartet, Bull. Soc. geol. Vol. 23, pag. 683. 1866. (3) Fischer, Comp. rend. Vol. 63, pag. 272. 1866 20 GIAN ANTONIO BIANCONI già citato Fischer ha somministrato l’ elenco di molti degli animali che vivono in quelle acque, e nello scorso anno 1872 egli ha pubbli- cato quello dei pesci che abitano quel Golfo (1). Delle molte specie che egli indica io ho cercato di precisare, per quanto mi era possibile, la estensione dell’ habitat di esse specie nei vari mari. Ponno distinguersi tre categorie. Alcuni pesci abitano nell’ Oceano, e nel Golfo di Gua- scogna; altri vivono nel Mediterraneo, nel Golfo, e nell’ Oceano; altri infine abitano, per quanto è noto, soltanto nel Mediterraneo, e nel Golfo. Questi ultimi sono le specie seguenti: Labrus viridis, Mugil cephalus, Mugil saliens, Mugil chelo, Mugil labeo, Blennius palmicornis, Blen- nius basiliscus, Aterina Boieri, Sargus Rondeletii, Chavanx puntazzo, Pagellus mormyrus, Cantharus vulgaris. Io ho riferito queste specie perchè sono le sole che interessano la presente questione; ma nel loro numero confermano già l’idea di una antica comunicazione fra i due mari, essendochè, come si è detto, esse si trovano abitare il Mediterraneo ed il Golfo di Guascogna. Fra gli animali però che sono ascritti alla Classe dei pesci me- rita speciale menzione l’ Amphioxus lanceolatus, che è stato per molti anni, e per celebri scienziati argomento di numerosi studi, allo- rachè si pescava solo nelle acque di Napoli. Esso si è recentemente presentato ancora nelle acque di Guascogna. Mi servirò delle parole stesse del Dott. Paolo Bert scritte a questo riguardo e così concepite: n L' Amphioxus avait èté recontré dans la Baltique, la mer du Nord et les còtes sableuses de la Grande-Bretagne ; la Méditerranée, en Italie en Sicile, en en France ou moins le posséde, M. de Quaterfages è la Rochelle..... M. Jourdain dans le Calvados, moi meme à l’ embouchure de la Somma, et sans doute bien d’ autres naturalistes a d’ autres points l’ avons en vain cherché. La station d’ Arcachon est donc non seulement nouvelle, mais-elle fournise presque les premieres Amphioxus trouvés sur les còtes Océaniques de la France, en outre elle semble d’ une richesse excéptionnelle , (2). Passando poi a considerare i Molluschi, il Fischer stesso ci som- ministra dei preziosi confronti , Sopra 326 specie di Molluschi rac- (1) Actes de la Soc. de Bordeaux, Tom. XXVIII. pag. 237. 1872. (2) Bert, Sur la presence de l’ Amph. lanceolatus dans le Bassin d’ Arca- chon. Mem. de la Soc. des Scien. de Bordeaux, Tom. IV. 1866. pag. 56. COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E I ATLANTICO 21 colti nel Golfo di Guascogna (1), egli dice, non calcolando i nudi- branchi, 277, cioè °4 sono comuni al Mediterraneo, ed ai mari Bri- tannici; inoltre osserva che presentemente non si conosce che vi sieno delle forme speciali nel Golfo di Guascogna, ma le forme mediterranee predominano, e sono ad un incirca due volte più abbondanti che le forme meridionali. , Precedentemente il Fischer aveva già notato un fatto assai singo- lare, riguardo ad una specie di Conchiglia bivalve che dal luogo della sua abitazione nel Mediterraneo è chiamata Avicula tarentina , Uno dei fatti zoologici i più curiosi egli dice (2) della terrazza sottomarina di cui noi parliamo, è la presenza di un immenso banco di Avicole viventi ( Avicula tarentina Lk) collocata a quattro leghe al largo della imboccatura del bacino d’ Arcachon.... la sua lunghezza è calcolata di 25 leghe, e la largezza di una lega, ma non è però perfettamente continuo ,. Ma più recentemente ancora, e cioè pochi giorni addietro, alla Accademia di Francia in una seduta di marzo 1873 il Fischer stesso presentò i risultati delle esplorazioni batimetriche della fossa del Capo Bretvne, dalle quali emerge che la Tellina balaustina raccolta, come egli dice, soltanto nel Mediterraneo, e al nord delle isole Britanniche è stata pescata presentemente nella fossa del Capo Brettone, donde pure la draga raccolse alcune forme mediterranee di Foraminiferi. Ivi ancora rinvenne la Tellina serrata, la Marginula adriatica, la Leda commutata, e molte altre a fisonomia, come esso esprime, francamente mediterranea. La Tellina compressa Broc. conchiglia , qui n’ etait connue qu’a l’état fossil, et qu’ on commence a recuieillir par des grandes profondeurs dans la Mediterranée, on la trouve encor dans la fosse du Cap Breton. Citons encore un Gasteropode mediterranée le Fossarus costatus ,. In questo stesso recentissimo lavoro cita un Crostaceo con queste parole , Nous avons trouvé au Cap Breton à notre grande sourprise le Lambrus massena que nous croayons propre à la Méditerranée ,. Nello scorso anno agli undici di Marzo li Sig.' Fischer e Folin comunicarono alla stessa Accademia delle Scienze di Francia, i risultati di nuovi (1) An., des Mines, Tom. XX. 1871. pag. 633. (2) Comp. rendus. 1868. Tom. 67. pag. 1006. 99 GIAN ANTONIO BIANCONI dragaggi fatti nel precedente 1871. Fra le moltissime cose che egli rinvenne cita una , Platidia davidsonii.... qu’ on n’ avait encore ren- contrée que bien rarement dans la Mediterranée , una magnifica serpula n Serpula echinata de la Méditerranée ,, e fra i Coralliari il , Para- cyathus striatus..... polypier de la Méditerranée..... , (1) Gli Echinodermi abitatori delle acque di questo seno dell’ Oceano sono pure stati soggetto di altri studi per parte del Sig. Fischer. (2) Merita però riguardo ad essi di considerare la grande difficoltà che gli Echini in particolare hanno per trasportarsi da un luogo ad un altro. Ora nella già citata opera egli dice , di 27 specie di Echinodermi che ho trovato in queste acque, 22 sono proprie del Mediterraneo , così egli dice ancora avere trovato l’ Ophiura Chiaiei specie anch’ essa del Mediterraneo. Infine trovasi in quelle acque anche un Polipaio del Mediterraneo il Car:ophyIlus clavus (3). In seguito di questi fatti somministrati dalla Fauna vivente e fossile del Golfo di Guascogna, Ì ipotesi di una antica comunicazione fra due mari addiviene ognor più fondata, ma sarebbe, in conseguenza di quanto si è detto, una comunicazione di semplice deversamento delle acque interne nel gran bacino dell’ Atlantico. La loro corsa sa- rebbesi effettuata su quel suolo dolcemente inclinato che discende all’ Oceano, e sul quale lentamente va ora serpeggiando la Garonna. Dal culmine dello spartiacque ai lido dell’ Oceano vi è una distanza di ben 280 Chilometri, e la sua elevazione totale sui mari odierni è come si è detto di 189 metri. Il pendio pertanto di quel tratto di paese è di 69 cent. per chilometro vale a dire di una inclinazione dolcissima, e che avrebbe permesso una corsa assai lenta delle acque marine esu- beranti sopra di esso nelle condizioni ordinarie. Da ciò si comprende che quel versamento non poteva essere una precipitosa alluvione, bensì un lento scorrere delle acque. Per lo che vedesi non esservi difficoltà che animali mediterranei potessero venir trasportati da quelle acque giù all’ Oceano senza perire, e senza deterioramento. Riserbo più avanti considerare gli effetti delle acque sul terreno. stesso, il quale per le osservazioni qui fatte non poteva soffrire abra- sione di qualche momento. (1) Comptes. rend. 1872. Tom. 74. pag. 750. (2) Ann. des Mines, Tom. XX. 1871. pag. 633. (3) Comptes. rend. 1871. Tom. 72. pag. 875. COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E L’ ATLANTICO 23 Quanto alle acque del Golfo, ove si trova oggi la copia di ani- mali mediterranei, si può comprendere che esse fossero favorevoli alla vita di quegli esseri che venivano dal Mediterraneo d’ allora. È noto che il Golfo di Guascogna è percorso da una corrente marina che conduce le acque fredde polari verso l’ Equatore; laonde quel seno dell’ Oceano deve aver goduto in ogni tempo una temperatura per certo non elevata e propria ad accogliere animali marini che provenissero da latitudini più nordiche. Se pertanto noi rammentiamo le considera- zioni fatte sul Mediterraneo all’ epoca glaciale forse chiaro potrebbe apparire, che gli animali che abitavano quell’antico mare, qualora fossero stati per una causa qualunque gettati in questo seno dell’ Atlantico, ivi avrebbero trovato circostanze favorevoli per proseguire la lor vita. Non però indistintamente tutti gli animali di quella provenienza vi avrebbero potuto vivere egualmente bene, ma forse alcune specie sol- tanto, quelle cioè che noi oggi incontriamo effettivamente nelle acque di Guascogna. Sole esse pertanto forse avrebbero meglio potuto reggere al cambiamento del mare. Secondariamente non debbo illudermi sopra una obbiezione che si potrebbe opporre. Noi presentemente andiamo ragionando sul fatto di animali mediterranei esistenti nel Golfo di Guascogna per trarne la congettura che passarono da un mare all’ altro, mercè della comu- nicazione diretta per deversamento del Mediterraneo nell’ Atlantico. Ma potrebbe pur quel fatto essere da qualcuno giudicato invece una sem- plice conseguenza della attuale apertura di Gibilterra, che mantiene in libera comunicazione le acque del Mediterraneo con quelle dell’ Oceano. Fuori d’ogni dubbio la nuova foce di Gibilterra può aver lasciato un largo campo agli animali del Mediterraneo ad uscire, e ad emigrare nelle acque oceaniche. È pure fra i casi possibili che la emigrazione di alcuni di essi si spingesse a lontani paraggi, e quindi sino alle coste Aquitane della Francia. Ma quando avessero essi compito questo tragitto è chiaro che sarebbe accaduto ciò che suole avvenire quando hanno luogo tali lunghe emigrazioni; e cioè che nelle località inter- medie si trovano altri individui di quella stessa specie che rimasero dietro via in guisa da formare una catena non mai interrotta dal punto di partenza al luogo estremo ove sono giunti ad abitare. Se 1’ apertura dunque di Gibilterra avesse lasciato uscire gli animali del Mediterraneo per recarsi sino al Golfo di Guascogna, questi stessi animali si do- vrebbero trovare ancora nelle spiagge del Portogallo, e nelle occiden- 24 GIAN ANTONIO BIANCONI tali della Spagna. Per contrario dalle ricerche fatte risulterebbe che tale continuità di stazioni di animali mediterranei in queste spiaggie sino al Golfo di Guascogna non esisterebbe punto, e quindi manche- rebbe un fondamento principale per supporre la provenienza di questi abitatori del Mediterraneo nell’ Oceano in virtù dell’ apertura di Gibil- terra; quand’ anche si volesse pure supporre, cosa invero assai difficile che gli Echini avessero potuto eseguire un viaggio sì lungo, e contra- rio all’ andamento delle acque. Dalla esistenza di animali mediterranei nelle acque di Guascogna, essendo ormai cosa troppo bene accertata, pare che nasca quasi spon- taneamente l’idea già superiormente accennata di una diretta comuni- cazione per una linea più breve fra il Mediterraneo e questo Golfo in forza di un trasporto d’ acqua, il quale avesse trasferito unitamente alle acque, ancora degli animali. Così i molluschi mediterranei trovati dai naturalisti inglesi, nei mari britannici, avrebbero avuto una loro prima stazione al Golfo di Guascogna provenienti dal Mediterraneo, e di là si sarebbero poi estesi verso le regioni nordiche ancor più con- facenti per essi sino alle acque d’ Inghilterra; e così le specie citate dal Fischer, e dal Bert che abitano il Golfo, si sarebbero fermate a soggiornare in questa prima località. Ma se l’insieme di questi fatti deve indurci a ritenere vera la comunicazione dei due mari, pare che non dovesse restar dubbio per qual via le acque avessero potuto comunicare insieme, dal momento che viene esclusa quella di uno stretto che attraversasse la Aquitania, essendo che si ha pur ragione di credere che 1’ altura odierna abbia sempre esistito. Conviene dunque ricorrere di nuovo alla idea che alte fossero le acque interne del Mediterraneo, e più alte anzi di 189 metri sicchè sorpassando il crine del rialzo che separa li due mari, andassero a versarsi giù pel declivo della Garonna all’ Oceano. Sarebbe stato quel rialzo uno sfioratoio. Ma è ben verosimile che tale sfioratoio non fun- zionasse sempre uniformemente, nè servisse come continuo emissario. Imperocchè ricordando l’ ipotesi che questo stato di cose si riferisce all’ epoca glaciale, si comprende che avrebbe funzionato soltanto a pe- riodi, ed in circostanze speciali, quando cioè sopravvenivano, o le epoche dei forti disgeli, od i lunghi periodi di continuate pioggie. Era forse allora che inalzandosi il livello del Mediterraneo più del consueto, come avviene anche presentemente nel mar Nero alle stagioni delle grandi pioggie, potevano le acque esuberanti del Mediterraneo river- sarsi nel Golfo di Guascogna. COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E L’ ATLANTICO 25 In queste occasioni un fiume di acqua marina avrebbe corso per la vallata della odierna Garonna seco portando li pesci, li molluschi, li echinodermi, i cui discendenti vivono anche oggi nelle acque di Arcachon e del Golfo. Per tal modo la Fauna servirebbe ad indicare dopo tanti secoli l’ antica comunicazione fra i due mari. Se non che se le cose erano quali si sono qui supposte, il con- tributo di un mare all’ altro, quanto alla Fauna, non poteva essere reciproco, nè uguale. Gli animali del Mediterraneo sarebbero stati fa- cilmente tradotti dalla corrente di esuberanza nell’ Oceano, ma da questo al Mediterraneo non avrebbero potuto passare se non quelli cui forze vigorose e speciale velocità avessero concesso di montare contro acqua. Una controlleria di questo supposto si avrebbe nell’ esame delle specie che abitano le acque del Golfo di Lione; ma mi è mancato il tempo di istituire un sì interessante riscontro. Dopo la Fauna viene in campo, dietro questo concetto, la condi- zione geologica del versante oceanico, sul quale si suppone che avessero corso le acque di eccesso del Mediterraneo. È impossibile immaginare che un fatto di tanto momento, se sia avvenuto, non avesse dovuto lasciare importantissime traccie sul terreno. È vero, come ho avvertito in addietro, che le acque scorrendo con lieve cadente, il terreno non poteva in via ordinaria venire abraso, ma per contrario alcuni sedi- menti o reliquati marini potevano formarsi qua e là, ove le acque avessero impaludato. Del pari siccome a quel tratto di paese sovrastava in antico, come sovrasta oggi, la catena dei Pirenei, così le acque plu- viali che scaricavansi da quei monti finivano per adunarsi nella valle della odierna Garonna, e mescersi forse colla corrente marina, ovvero stagnare in laghi, e paludi. Se pertanto il terreno dell’ Aquitania non era continuamente percorso dalle onde che uscivano dal Mediterraneo, sarebbersi formati depositi marini, ma solo a tratti, ed a riprese. Nei . periodi di tempo poi che il suolo fosse stato perfettamente libero dalle acque marine, ovvero percorso da piccola corrente, le forti fiumane che discendevano dall’ alta catena de’ Pirenei per le pioggie e pel disgelo del manto di Ghiaccio onde dovevano essere essi rivestiti all’ epoca glaciale, sarebbero venute depositando una formazione alluvionale, e lacustre. Forse è a questa che si riferisce il Garrigou, quando parla delle , plaines alluviennes du bassin sous-pyranéen (1). (1) Com. rend. 1872. Tom. 74. pag. 1124. TOMO IV. 4 26 GIAN ANTONIO BIANCONI La somma varietà pertanto di depositi che secondo queste idee sarebbersi formati avrebbe potuto dare a quel terreno, ora intera- mente abbandonato dalle acque marine, un aspetto affatto singolare, e per certo fuori delle ordinarie condizioni geologiche dei terreni. Certo che presentemente terreni di una grande varietà, e di natura molto questionabile occupano questa regione della Francia. La dissonanza di giudizi recati da vari Geologi, come già sopra ho ricordato, non è che troppo in accordo con queste osservazioni. Ma è d'altronde ben certo che il terreno di quella località non fu mai studiato sotto questo punto di vista, fosse perchè niun Geologo lo avrebbe trovato meritevole di attenzione, e perchè a prima vista si offre come troppo congetturale e leggero. D'altronde il diffetto in cui mi trovo ancora di alcune opere recenti descrittive di questa loca- lità, non mi permette di internarmi nello studio dei terreni, nè intendo di uscire dai termini dapprima segnatimi, cioè di propormi per oggi la esposizione di sole e semplici congetture. Con maggiore esitazione ancora aggiugnerò che gli abbondanti depositi di resti fossili, e specialmente di Sirenoidi che trovansi oggi giorno nel bacino della bassa Garonna potrebbero avere una qualche spiegazione in questo che cioè nelle circostanze sopra supposte dei de- versamenti del Mediterraneo, li Sirenoidi, od altri animali che fossero stati travolti da quella corrente d’acqua, avrebbero potuto perire lungo il tragitto dal Mediterraneo all’ Oceano, o per il volume d’acqua non abbastanza adeguato alla mole del loro corpo, ovvero perchè, abbando- nati in qualche lembo di terreno, ivi fossero stati costretti a morire. Un’ ultima avvertenza che reputo possa essere aggiunta alle cita- zioni qui soprariferite parmi possa essere la seguente. Nel 1855 il Sig. Delbos (1) studiò il modo di ripartizione dei Vegetabili, nel di- partimento della Gironde e ne dedusse che la maggior parte di quelle piante erano singolari per un carattere tutto mediterraneo. Egli enu- merò la Quercus ilex, Ficus carica, Buxus sempervirens, Lavendula spica, Coriaria myrtifolia, ed altre molte. Qualcuno potrebbe però dimandare qual legame vi possa essere fra il passaggio delle acque del Mediterraneo sul suolo della Garonna colla Flora che oggi vi cresce. Sono ben lungi certamente dall’ attri- (1) Mem. de la Soc. des Sciences phys. de Bordeaux, Tom.I. p. 427. 1855. COMUNICAZIONE FRA IL MEDITERRANEO E L’ ATLANTICO 27 buire un’ alta importanza a questa osservazione, ma parmi che, quando si consideri in unione colle altre indicazioni, non sia affatto priva di fondamento la supposizione, che qualora all’ epoca glaciale le acque mediterranee si fossero gettate nella valle della Garonna, probabilmente semi delle piante che crescevano sui margini del Mediterraneo, galleg- giando avessero potuto essere trasportati dalla corrente a gettarsi nell’ Oceano. Ma in quest’ ultimo tragitto qualcuno dei semi poteva essere trattenuto o fermato sulle terre di quel versante oceanico. Ivi - germogliando e crescendo avrebbero potuto perdurare a vivere in quel suolo in cui erano stati trasportati, e così essere tramandati per suc- cessive moltiplicazioni sino a noi. Io ora non mi innoltro di più; conoscendo che forse anche troppo ho vagato in un campo soverchiamente congetturale. RICERCA DELLA SOLANINA NEI CASI DI AVVELENAMENTO MEMORIA. DEL PROF. FRANCESCO SELMI ( Letta nella Sessione 6 Febbraio 1873) Piva di venire alla descrizione del processo da seguire e delle reazioni caratteristiche con cui si può svelare la solanina, mi conviene di premettere l’ esposizione di alcuni principii generali che mi furono di norma nell’ operare. Nell’ anno scorso quando lessi in Accademia le due Memorie, una sul modo di scoprire il fosforo, e l’altra sulla maniera di svelare la picrotossina e la colocintina, feci già intendere come io credessi, che nelle indagini tossicologiche si debba procurare di ottenere parecchie reazioni consecutive e speciali sopra una stessa quantità della sostanza tossica, e come, trattandosi di alcaloidi e di glucosidi, fosse opportuno di valersi del microscopio per accertarsi più sicuramente del loro tro- vamento; cercando d’indurli in qualche combinazione cristallizzata, la quale per la forma dei cristalli, pel colore e per altri aspetti fosse specifica dell’ alcaloide o del glucoside cercato. Condotto da questi due concetti fondamentali, mi accinsi ad uno studio di quelli tra i detti principî, per cui più comunemente succedono casi di attossicazione, applicandoli per quante volte mi fu concesso dalla natura del corpo sul quale erano dirette le mie indagini. Mi parve che volendosi conseguire prodotti cristallizzati da sottoporre al micro- scopio, e far succedere più reazioni sulla stessa quantità di sostanza sì dovesse: 1° preferire i reattivi che ad un dato grado di temperatura sono facilmente volatili, acciò la loro eccedenza possa facilmente essere 30 FRANCESCO SELMI dissipata; 2° dovendo valermi di reattivi che non posseggono la vola- tilità, scieglierli fra quelli che non cristallizzano per se, affine di non avere confusione tra i loro cristalli e quelli della sostanza che si esamina; 3° eseguire le operazioni su lastre di vetro, di qualità e misura tale da sottoporle indi al microscopio, procedendo non a tem- perature indeterminate, ma sibbene ad un grado costante di calore, a quello cioè in cui esperimentando si verificò, che la reazione succede più manifesta, più precisa e senza formazione di prodotti secondarii. È da avvertire che trattandosi di investigazioni delicate, torna indispensabile di usare reattivi di perfetta e conosciuta purezza, di una data composizione e diluzione; di adoperarli con ogni possibile ri- guardo affinchè nel corso delle operazioni non si vadano inquinando ; di servirsi di recipienti ed utensili perfettamente puliti, di acqua di- stillata che non lasci la più che menoma traccia di residuo; insomma di osservare tutte quelle cautele delicate, per le quali non possa mai nascere sospetto, che sia stata introdotta qualche cosa di estraneo. È unicamente, attenendosi a tali precetti, che si può riuscire rimanere tranquilli, allorchè sì pronuncia un giudizio sui risultamenti ottenuti. Per applicare ad un primo caso il metodo di ricerche quì accen- nato prescelsi la solanina, quantunque si trattasse di sostanza la quale non è di troppo facile scoprimento nella condizione sua originaria, co- me dirò in appresso; e le diedi la preferenza, perchè, qualora venissi a buon fine, mi sarebbe stata di garanzia, che passando a sostanze più agevoli da trovare il metodo suddetto non mi avrebbe fallito. La solanina come è noto è un glucoside con portamenti di alcaloide, che si riscontra nel Solanum Dulcamara, nel Solanum Nigrum ed in altre solanacee, e che sì forma nelle patate in via di germogliamento, o quando si guastano, sia per effetto del loro invecchiare, sia perchè mal conservate. Dall’ ingenerarsi di essa nelle patate successe più volte che coloro i quali le usano frequentemente per cibo n’ ebbero a soffrire gravissimi sconcerti e per anco soggiacquero a morte; onde i periti chimici furono chiamati a farne ricerca ed a riconoscerla mediante le reazioni che le sono particolari. La solanina, quando si fa bollire coll’acido cloridrico o coll’acido solforico diluiti, si sdoppia in parecchi prodotti, tra cui un nuovo al- caloide detto solanidina, due altri alcaloidi che non furono peranco studiati, ed un glucoso speciale che riduce il reattivo cupropotassico. Ma è da osservare, che, senza l’ uopo del calore, lo sdoppiamento av- RICERCA DELLA SOLANINA ECC. 3 viene ancora nelle soluzioni acide coll’ andare del tempo, e tanto più presto quanto è maggiore la temperatura ambiente, e con sollecitudine più grande se il sale di solanina si tiene in soluzione alcolica piutto- stochè in soluzione acquosa. Nelle operazioni che si devono eseguire per estrarre gli alcaloidi dai visceri, si deve far uso come è noto dell’ alcole dopo un inacidi- mento precedente della materia, ed occorrono evaporazioni, le quali, sebbene si facciano a temperatura non elevata, non di meno addiman- dano un grado di calore che arriva ai 35°. Così facendo, una parte della solanina si sdoppia; come pure si deve sdoppiare almeno in parte quando dimora nel ventricolo, in cui trova acidi liberi ed una tempe- ratura favorevole al suo decomporsi. Per assicurarmi che realmente debba succedere ciò che venni a presupporre, feci digerire per 24 a 36 ore la solanina nel succo gastrico, indi, estraendola, trovai che era già convertita parzialmente in solanidina, come lo dimostrarono le forme dei rispettivi cloridrati, ed altre reazioni che descriverò in ap- presso. Ne consegue che nel caso di una ricerca parziale, o si riscon- trerà solanina mista colla solanidina, ovvero soltanto la seconda, e perciò si avranno contrassegni e reazioni promiscue o del solo alcaloide derivato. Di quì il tornare indispensabile, che si posseggano reazioni delicate e sicure per ambedue affine di accertarsi della loro esistenza, le quali reazioni a dir vero la chimica fino ad ora non fornì che ri- strettamente. Per risvelare la solanina gli autori ci somministrano i dati seguenti : 1.° Quando si tratta una piccola quantità di solanina, o di ta- luno de’ suoi sali scoloriti, con una goccia o due di acido solforico concentrato e freddo, la materia immediatamente si tinge di un arancio bruno, che poi volge lentamente al giallo, e dopo alcune ore passa ad un bruno di porpora, e col tempo si divide in liquido scolorito ed in precipitato gialliccio o bianco sporco. 2.° Adoperando una soluzione di jodio nel joduro di potassio sulle soluzioni concentrate dei sali di solanina si ha un precipitato rosso arancio, non modificabile dagli acidi. 3.° Col cromato di potassa neutro, i sali di essa in soluzione non troppo concentrata forniscono un precipitato giallo ed amorfo, insolu- bile in un eccesso del cromato, ma solubile nell’ acido acetico, e che trattato con qualche goccia di acido solforico concentrato si scioglie diventando azzurro a poco a poco, e poi inverdisce, e rimane verdiccio per alcune ore. 32 FRANCESCO SELMI 4.° Coll’ acido bromidrico bromurato a saturazione i sali di sola- nina producono un precipitato amorfo, di colore giallo arancio, lieve- mente solubile nell’ acido acetico diluito, che indi sbiadisce e poi si dilegua (1). 5.° Swenger e Kind aggiungono che, trattando coll’ acido nitrico concentrato la solanina non salificata, si ottiene un coloramento rosso che scompare, mentre si depone una resina bruna. 6.° Il prof. Missaghi pubblicò in nota nell’ Enciclopedia Chimica una nuova reazione caratteristica del glucoside, da lui scoperta, la quale consiste nel fare agire il bicloruro di platino in certe date con- dizioni per cui si sviluppa un bel violaceo che scompare per raffred- damento e si risveglia quando si espone di nuovo al calore la me- scolanza. Per conseguirla fa d’ uopo di porre su bagno maria una casso- lina di porcellana, versare alcune goccie di acido cloridrico sulla so- luzione del glucoside, ridurre a secco, poi toccare con uno specillo in- triso lievemente di cloruro di platino. Nei punti toccati si rende ma- nifesta la tinta violacea (2). Le diverse reazioni che abbiamo riferite pressuppongono che si possa trovare la solanina non decomposta, e che se ne abbia a propria disposizione una quantità sufficiente per vari assaggi, in ciascuno dei quali una proporzione piccolissima non potrebbe bastare; di guisa che nel caso pratico si può asseverare con certezza, che non si verrebbe a scoprirla dai visceri se non qualora vi si riscontrasse in copia rag- guardevole e poco decomposta; cosa la quale non è probabile, poichè siccome non agisce come veleno violento e di azione immediata, la maggior parte deve essere stata espulsa colle urine e colle materie escrementizie, e quella che rimase si deve essere sdoppiata e indi si deve sdoppiare nelle operazioni occorrenti per la ricerca. La reazione poi descritta dal prof. Missaghi, sebbene di non pic- colo pregio, non di meno ha il diffetto di non potersi ottenere costan- temente, essendo accaduto tanto a me ed al prof. Casali, quanto al mio assistente Sig. Ciro Bettelli, di trovarla talvolta mancante, sebbene sì fosse proceduto in condizioni identiche di temperatura e di ma- (1) Wormley, Micro-chemistry of poìsons. New-Jork 1869. (2) Enciclopedia Chimica, vol. V. pag. 158. RICERCA DELLA SOLANINA ECC. da nipolazione. Forse ciò accadde perchè torna indispensabile una qualche condizione che non fu avvertita dall’ autore senza le quale non piglia nascimento il prodotto colorato. In ordine poi alla solanidina, i tossicologi non forniscono cogni- zione alcuna di reazioni caratteristiche per renderla manifesta; silenzio, il quale provenne senza dubbio o dal non averle trovate o dal non avere creduto di qualche importanza la ricerca. Per riuscire nel mio proposito, cioè di venire in possesso di rea- zioni che svelino la solanina in tenuissima quantità diverse, specifiche ed osservabili col microscopio, ed in condizioni perfettamente note, tantochè non dovessero mancare giammai; ed eziandio per riconoscere la solanidina e distinguerla dal glucoside donde deriva, mi fu d’ uopo ‘ di ripigliare lo studio da principio, non solo coll’ intento di chiarire quale il valore delle reazioni note ed indi più convenienti al loro con- seguimento, ma pur anco per cercarne di nuove aventi un valore in- controvertibile. Perciò procedetti come sto per esporre. Acido jodidrico jodurato. Facendo cadere una gocciola di acido jodidrico jodurato in una dissoluzione cloridrica di solanina si forma un precipitato rosso rubino, insolubile in un eccesso dell’ acido jodurato. Osservandolo col microscopio appare composto di pellicole, ciascuna delle quali deriva da aggregati di piccolissimi granellini tra- sparenti e di un rosso che pende all’ arancio, i quali col tempo non assumono forma cristallina. Avendo esplorate dette pellicole coll’ etere, colla benzina, col solfuro di carbonio non vi si disciolsero, bensì a poco a poco si scolorarono perdendo del jodio. Per lo contrario furono solu- bili nell’ alcole, e tale soluzione evaporata spontaneamente lasciò un residuo di colore giallo cedrino, il quale coll’ ingrandimento di 650 diametri si mostrò formato di macchiette od agglomerazioni di granoli, quali tondeggianti, quali un poco oblunghi, ma privi di apparenza cristallina definita. Cloruro platinico. Una goccia di cloruro platinico stillata so- pra un’ altra di soluzione cloridrica di solanina non diede precipitato visibile; lasciato il liquido ad evaporazione spontanea si formarono cristalli isolati di cloruro di platino con altri cristalli aghiformi e sco- loriti sparsi qua e là. Esponendo il vetro su piano caldo, (tra 40 e 50° C) s’incominciò a manifestare agli orli della macchietta un colo- ramento violaceo che si propagò all’ interno. Esaminando sotto il microscopio si vide che il colore viola circondava, come tante aureole, TOMO IV. 5) S4 FRANESCO SELMI i cristalli del bicloruro di platino; seguitando a scaldare, la tinta di- venne più intensa ed indi passò al giallo bruno. Quando feci uso dell’acetato di solanina col cloruro di platino, in cambio del colore violaceo ebbi un ingiallimento, il quale divenne più palese ponendo la lastrina di vetro su piano caldo. In allora ba- gnando la macchietta con un poco d’ acido cloridrico allungato e ri- ponendo sul piano caldo si svolse il colore violaceo all’ orlo, ma più stentatamente che non valendosi primitivamente di cloridrato di solanina. Siccome poi accadde che talvolta il coloramento violaceo non ap- parve così cospicuo come in altre prove; così fui condotto ad investi gare quali le condizioni precise pel sicuro e costante riuscimento della reazione. Senza riferire i modi diversi che venni tentando, esporrò sol- tanto quello che mi parve il più certo e conveniente. Si prende una gocciola di cloridrato di solanina sciolto nell’ acqua, si fa cadere su lastra di vetro che si pone su piano caldo a temperatura dì 66 a 67° C, aggiungendole una traccia sì lieve di soluzione diluita di cloruro di platino che la gocciola ne acquisti appena una tinta giallognola, discerni- bile da un occhio esperto. Lasciando evaporare a detta temperatura fino a secco, la macchietta diviene a poco a poco di un bel violaceo, che diminuisce nel raffreddare ma non si dilegua. Osservandola col microscopio vi appajano manifesti lunghi cristalli aghiformi e scoloriti, con altri gialli e di apparenza cubica del cloruro di platino, ciascuno dei quali circondato dall’ aureola violacea. Se la proporzione del cloruro metallico è soverchia, il coloramento caratteristico o si rende palese a mala pena od anche può mancare assolutamente. Da ciò si spiega come nel modo di operare descritto dal Missaghi, ora la reazione colorata succeda chiaramente ed ora non si ottenga, poichè, non essendo designata la proporzione del cloruro platinico, se questo sovrabbonda, il colore non si può formare. Aggiungasi che tenendo il glucoside a temperatura di 100° con alcune gocciole di acido clo- ridrico, esso può sdoppiarsi e convertirsi in solanidina, e ciò avvenendo non è più sperabile l’ apparire del colore, poichè la detta solanidina non è capace di produrlo nella maniera descritta. Acido solforico. Wormley nel suo Trattato di Micro-chimica consiglia di stillare una o due goccie di acido solforico concentrato e freddo sopra un poco di solanina o di taluno de’ suoi sali con che si sviluppa un colore giallo arancio, il quale è tanto più sensibile quanto più è maggiore la proporzione della solanina. Qui devesi riflettere che RICERCA DELLA SOLANINA ECC. 35 la cosa procede nitidamente, dato che la solanina sia pura nè contenga sostanze organiche eterogenee le quali possano imbrunire coll’ acido; ma poichè quale si ritrae dai visceri non è mai scevra di impurezze, occorreva modificare il modo di agire onde la reazione fossa conseguita senza che le impurezze suddette abbiano da mascherarla. Per questo effetto si fa cadere una goccia della soluzione clori- drica su lastrina di vetro, indi vi si aggiunge colla punta di uno specillo, e mescolando, un poco di acido solforico concentrato; si pone il vetro su piano caldo a temperatura di 65 a 70°, ed osservando si vede che la gocciola piglia un colore violaceo agl’ orli, e che poi si propaga fino all’interno, passando all’ arancio. Togliendo il vetro dal piano caldo la tinta sbiadisce e si dilegua nel raffreddare, poi torna a ren- dersi palese mediante nuovo riscaldamento. Se la soluzione cloridrica di solanina è alquanto concentrata, il colore è di un rosso piuttosto vivo. Mentre è in pieno coloramento se toccasi nel mezzo con un specillo bagnato di acqua, il rosso volge rapidamente all’ azzurro che digrada nel viola verso la periferia. Svanito l’ azzurro, un’ altra gocciola di acqua toglie qualsivoglia tinta, meno un lieve gialliccio. Riconcentran- dola sul detto piano caldo riprende il rosso, ma un po’ bruno, e riba- gnandola, l azzurro ricomparisce tal volta, ma sempre più debole della prima volta. Esaminando col microscopio la macchietta rossa si vede formata di isolette violacee circondate di cristallini bianchi i quali sono sparsi anche per l’ intero campo. Acido bromidrico. Una gocciola di acido bromidrico puro aggiunta ad altra di cloridrato di solanina, concentrando a blando ca- lore (tra 40 e 50° C) dà nascimento a lunghi aghi sottili parte a ciuffi, e parte isolati; frattanto in sull’ orlo ove succede più sollecita la concentrazione si va formando una materia granulosa di colorè giallo azzurro debole. In allora stillandovi sopra un poco di acido sol- forico diluito, e scaldando a temperatura di 65 a 70° 1’ acido solforico produce un manifesto coloramento violaceo. Acido arsenico od acido fosforico, poi acido solforoso. Una goccia di cloridrato di solanina a cui si aggiunge una tenuissima quantità di soluzione di acido arsenico, o di acido fosforico (cioè quel tanto che rimane aderente alla punta di uno specillo ) evaporata a circa 65° c. non dà reazione sensibile. Se non che quando si bagna la macchietta lasciata dal cloridrato con una goccia di soluzione di acido solforoso, scaldando sempre a 65°, e replicando due volte il detto 36 FRANCESCO SELMI x trattamento, e in ultimo (allorchè il liquido è ridotto al volume della gocciola primitiva), si aggiunge tenuissima quantità di uno degli acidi arsenico o fosforico, e si evapora a secco, il residuo prende un bellissimo color viola il quale svanisce nel raffreddare e si riappalesa riscaldando. Acido acetico, acido nitrico, e soda. Si aggiunge qualche gocciola di acido acetico alla soluzione aquosa del glucoside, in casso- lina di porcellana; si evapora su lampada ad alcole tenuta bassissima fino a dispersione dell’ odore acetico; si bagna con una gocciola di acido nitrico puro, scolorito e non fumante; si evapora a secco tenendo sempre bassa la fiamma, si stilla una goccia di soda, di potassa, o di ammoniaca caustica al residuo caldo; con ciò si forma un bel giallo cedrino persistente, solubile nell’ alcole assoluto senza perdere la tinta. Acido fosforico con acido molibdico. La solanina deve es- sere in istato di acetato. Si fa evaporare in cassolina di porcellana o su lastrina di vetro a temperatura di 70 a 75°, si aggiunge al residuo una gocciolina di soluzione diluita di acido fosforico, più un granellino di acido molibdico, grosso quanto uno di sabbia e vi si stritola con un cannello. Si scalda di nuovo alla detta temperatura fino a secco; nel seccare si sviluppa un bellissimo color di viola che dura qualche tempo, indi passa al verde ed all’ azzurro e talvolta si dilegua del tutto nel raffreddare. Col cloridrato la reazione non riesce. Dopo avere descritte le reazioni col mezzo di cui si può. svelare la solanina, diremo di quelle che sono particolari del suo derivato, la solanidina. La facilità con cui la prima si trasforma zella seconda, e la probabilità, dirò anzi la certezza, che quella in parte ed in tutto si riscontri così convertita nei visceri, mi condussero a cercare per quali reazioni la detta solanidina sia riconoscibile, empiendo così una lacuna che suole essere comune ai Trattati di Tossicologia. Presa solanidina la trasformai in cloridrato e la trattai coi seguenti reattivi: Acido jodidrico jodurato: diede precipitato giallo chiaro. Acido bromidrico bromurato: d. p. giallo cedrino. Percloruro d’ oro: d. p. bianco. Percloruro di platino: non formò precipitato. Acido picrico: d. p. giallo. Acido tannico: d. p. bianco copioso. Cromato di potassa: nulla Reattivo di Mejer: d. p. bianco. RICERCA DELLA SOLANINA ECC. Dil Eseguito questo primo scandaglio, lasciai che le gocciole delle ri- spettive lastrine di vetro su cui aveva fatte le reazioni, evaporassero spontaneamente a secchezza, indi esaminai i residui col microscopio e trovai che mediante l’ acido bromidrico bromurato erasi formato una macchietta di cristalli aciculari, uniti a ciuffi e sparsi qua e là con un cerchio all’ interno di colore giallo arancio caratteristico. Nulla avendo trovato di notabile col mezzo dei reattivi generali mi volsi a studiare la solanidina tanto per riconoscere la forma cri- stallina di taluno de’ suoi sali, quanto per vedere come si comportasse differentemente rispetto alla solanina. Cloridrato di solanidina. Allorquando si neutralizza coll’acido cloridrico la solanidina in soluzione acquosa e se ne pone ad evapo- rare spontaneamente una gocciola su lastrina di vetro, e indi si esa- mina col microscopio si osserva una bella cristallizzazione a foglie stellate ed arborizzate; forma caratteristica e ben diversa da quella del cloridrato di solanina, che si dissecca in pellicelle di aspetto gom- moso. Ma per conseguire cristalli ben formati torna meglio che sì abbia il cloridrato in soluzione alcolica. A questo oggetto, fatta la soluzione, si prende lastrina di vetro e nel mezzo si pone uno spe- cillo di vetro a perpendicolo e stabile, indi con altro specillo, bagnato nella punta nel liquido alcolico, si fa discendere dietro al primo una gocciola del liquido. Si ripete per quattro o cinque volte, finchè il re- siduo corrisponda a quel tanto che si contiene in un quarto di centi- metro cubo circa della soluzione. Lo specillo perpendicolo agendo per attrazione capillare impedisce che le goccie alcooliche si dilatino troppo estesamente sulla lastra. Si porta indi sotto al microscopio e la cri- stallizzazione apparirà tanto bella quanto si può desiderare. Vedi Ravwsgles fio de Acido bromidrico. Una soluzione acquosa e quasi neutra di solanidina nell’ acido bromidrico diluito fornisce su vetrino per evapo- razione lunghi cristalli aghiformi, quali uniti al centro e raggianti alla periferia, quali intralciati insieme e quali solitari. Se facciasi in guisa che la gocciola evaporata non sia secca del tutto, si copra con vetrino sottile, che si chiude con carta gommata, e si lasci a se per un certo tempo (per lo più occorrono alcuni giorni), in allora si de- pongono lunghe tavole romboidali; ed altre più brevi e di forma be- nissimo spiegata. Quando coll’ acido bromidrico bromurato si opera sulla solanina, si ridiscioglie il residuo con acqua e si ripone ad eva- 38 FRANCESCO SELMI porare, appaiono cristalli perfettamente simili ai descritti; onde pare manifesto, che la solanina per opera del reattivo indicato si converte in solanidina. Probabilmente i cristalli di bromidrato di solanina raffi- gurati dal Wormley nel suo Trattato sono del sale di solanidina. Acido solforico. Facendo agire 1’ acido solforico ora concen- trato ora diluito sulla solanidina, ed osservando le condizioni a cui mi attenni per la solanina non ebbi mai coloramento di sorta, tranne del caso in cui non fosse ben scevra dalla solanina. Il Dragendroff nel suo Manuale di Tossicologia afferma che la solanidina fornisce un rosso sbiadito coll’ acido solforico (1); io non l’ottenni mai quando la sostanza era stata perfettamente purificata. Acido bromidrico bromurato, indi acido jodidrico jo- durato ed in ultimo acido solforoso. Una gocciola di soluzione di cloridrato evaporata a secco su piano tiepido fino a scacciamento di qualsivoglia eccedenza di acido cloridrico, poi bagnata con acido bromidrico bromurato dà origine al calore giallo arancio caratteristico, che notammo in addietro, insieme con cristallini aciculari uniti a stella o sparsi qua e là. Aggiungendo in allora una gocciola di acido jodi- drico jodurato, evaporando a temperatura ordinaria e seccando a 40° C. si ha un residuo di cristalli aghiformi e di altri aghetti isolati, con macchiette qua e là di materia gialla. Se poscia si tratta con acido solforoso più e più volte, le macchie gialle scompajono e si finisce per avere nel centro dei cristalli aciculari e all’ orlo altri cristalli coll’ aspetto di quelli del bromidrato di solanidina. Acido nitrico e un alcali. L’ acetato di solanidina evaporato a secco in cassulina di porcellana fino che sia dissipato tutto 1’ odore acetico lascia un residuo scolorito, che si bagna con una gocciola di acido nitrico puro e non fumante e si evapora di nuovo a secco su piccola fiammetta di lampada ad alcool. Si tocca il residuo caldo an- cora, con una gocciola di soda o di ammoniaca caustica e si ha un colore giallo cedrino più vivace di quello che si ottiene colla solanina trattata in modo eguale e che si scioglie nell’ alcole assoluto senza perdere la tinta. Acido fosforico con acido molibdico. Si aggiunge una goc- (1) Manuel de Toxicologie, par Dragendorff, traduit par E. Ritter; Paris, Savy, 1873. RICERCA DELLA SOLANINA ECC. 39 ciola di soluzione diluita di acido fosforico sul residuo lasciato per evaporazione da una gocciola di acetato di solanidina, si scalda da 70° a 75°, si aggiunge una traccia di acido molibdico solido come sarebbe un granello di sabbia, che si stritola con cannello. L’ acido molibdico si scioglie, e, seguitando 1’ azione del calore, si svolge un bellissimo color viola che dura qualche tempo a freddo e indi passa al verde ed all’ azzurro, dileguando qualche volta del tutto. Col cloridrato di sola- nidina (e lo stesso si ripeta per la solanina) non si riesce alla reazione descritta. Con una mescolanza di solanina e di solanidina si ottengono le reazioni dell’ una e dell’ altra e i cristalli della seconda con pellicelle che rappresentano la prima. CONCLUSIONI La solanina quando è in soluzione acida e principalmente nel- l’ alcole si scompone rapidamente, dando origine a solanidina; ciò suc- cede con più celerità a temperatura superiore dall’ ordinaria. La solanina nel ventricolo deve soggiacere senza fallo all’ indicato sdoppiamento, come si può dedurre dalla osservazione premessa e come si conferma facendola digerire nel succo gastrico a 35° per 24 ore. Le reazioni principali per cui si riconosce sono: 1° il coloramento viola che ingenera coll’ acido bromidrico bromurato; 2° il coloramento rosso violaceo che produce coll’ acido solforico diluito, concentrando a blando calore; 3° il coloramento giallo cedrino che fornisce coll’ acido nitrico ed un alcali; 4° il coloramento rosso che dà coll’ acido solforoso e l’ acido arsenico od il fosforico aggiunti successivamente; 5° il colo- ramento purpureo che svolge con traccie di cloruro platinico; 6° il coloramento consimile che rende manifesto coll’ acido fosforico e traccie di acido molibdico; 7° la formazione di cristalli aghiformi lunghi e stellati a cui dà nascimento coll’ acido bromidrico bromurato dopo la disseccazione e il trattamento coll’ acqua. La solanidina può essere svelata: 1° per la forma speciale dei cristalli del suo cloridrato; 2° per quella dei cristalli del suo bromi- drato; 3° pel colore giallo vivo che fa palese nella reazione coll’ acido nitrico ed un alcali caustico; 4° pel colore viola che ingenera coll’ aci- do fosforico e traccie di acido molibdico; 5° pel colore giallo arancio che svolge coll’ acido bromidrico bromurato allorchè si evapora a sec- chezza. 40 FRANCESCO SELMI Operando colla debita delicatezza, ed avendo quella pratica indi- spensabile che occorre per indagini di tale natura si potranno scoprire indubbiamente quantità minime dell’ una o dell’altra sostanza, corri- spondenti a qualche frazione di milligrammo. Per avere un piano caldo di temperatura costante giova una cas- settina di latta o di zinco, fatta in modo che il piano di sopra abbia uno spazio nel mezzo che si sprofonda per qualche centimetro ed in forma da ricevere una lastrina di vetro rettangolare; con una gola da un lato che riceva il bulbo di un termometro, ed altra dall’ altro per empirla di acqua e per lo sfogo del vapore. Si sostiene su trepiede e si scalda con lampada ad alcole. es SOPRA UN NUOVO PROCESSO PER L'ESTRAZIONE DEGLI ALCALOIDI DAI VISCERI E RICERCA DELLA NICOTINA, DELLA BRUCINA E DELLA STRICNINA NEI CASI DI AVVELENAMENTO MEMORIA DEL PROF. F. SELMI (Letta nella Sessione 20 Marzo 1873) 9 L estrazione degli alcaloidi dai visceri, seguendo il metodo di Stas modificato dall’ Otto o quello di Uslar, riesce lunga e penosa, e non sempre conduce a risultati sicuri, dacchè difficilmente si riesce ad ottenere la sostanza cercata in istato di sufficiente purezza, qualora non si sottoponga ad operazioni speciali di purificazione, con che si corre il rischio di perderne buona parte, od anche tutta qualora non ve n’ abbiano che tenuissime quantità. Per la qual cosa volli tentare se non si potesse procedere per altra via a conseguirne l’ intento, con risparmio di tempo, di manipolazioni, di solventi, e con pericolo mi- nore di perdita. Senza dilungarmi circa ai modi diversi che venni sperimentando per tale proposito, esporrò in succinto quello che mi parve meglio corrispondere allo scopo. Metodo di estrazione degli Alcaloidi dai Visceri Dati i visceri si trattano come al solito, tagliuzzandoli, sopraver- sandovi dell’ alcole comune e indi aggiungendovi qualche gocciola di acido solforico ben puro fino ad acidità manifesta del liquido. Sì TOMO IV. 6 492 F. SELMI lascia in digestione per qualche ora a temperatura comune, si feltra il liquido per pannolino in cui si raccoglie la parte solida, che si spre- me e che si sottopone a nuova digestione con nuova quantità di al- cole, ripetendo la filtrazione e la spremitura. Mescolati insieme i li- quori si pongono ad evaporare in bagno-maria ed a blando calore fino a dissipazione di tutta la parte spiritosa; si feltra per carta bagnata con acqua, si concentra a consistenza di denso sciloppo e al residuo si mescola idrato di bario. Il quale dev’ essere stato preparato poco prima, irro- rando con acqua distillata la barita anidra ed aggiungendo nuov’ acqua dopo lo sfioramento, fino ad averne una pasta umida e dura. Nello stemperare l’ idrato di bario coll’ estratto, questo s’ illiquidisce, onde a renderlo indurito per agevolare le operazioni successive, giova che gli si aggiunga barita anidra finamente polverizzata ed anche vetro pesto, macinando in mortajo di vetro o di porcellana ed usando tutte quelle cautele che occorrono, perchè la mescolanza rimanga bene tri- turata nè si coaguli quando si viene al trattamento coll’ etere. Si deve introdurre la materia già in polvere grossolana come sabbia, entro palloncino e sopraffondervi etere puro con cui si dibatte più e più volte. L’ etere poi dev’ essere stato purificato in precedenza affine di toglierne tutto l’ alcole che suole contenere, avendo osservato che la coesistenza dell’ alcole fa che si sciolgano sostanze eterogenee le quali fanno troppo impuro il prodotto. Quando l’ operazione fu condotta colle debite maniere l’ etere ri- mane perfettamente limpido e scolorito; si decanta, si rinnova la di- gestione con altro etere per due o tre volte, si uniscono i liquidi eterei e se ne prende una piccola quantità da evaporare in vetro di orologio per conoscere se il residuo che rimane possiede reazione alcalina, se si abbiano goccioline oleose di odore acuto, quali danno la nicotina e la conina, o se, scaldando blandemente detto residuo, la reazione al- calina permane o scompare. Quando il residuo dà gl’indizii citati, 1 quali si manifestano al- lorché si tratta di un alcaloide volatile, 1’ evaporazione del liquido totale dev’ essere condotta con massima diligenza affine di nulla per- dere dell’ alcaloido; é vantaggioso anzi in detto caso inacidire con una gocciola di acido solforico e poi lasciare evaporare in cassula di porcellana finchè tutto l' etere sia dissipato. Se l’ alcaloido è fisso, in allora si mette ad evaporare ugualmente senza d’uopo di un previo inacidimento. ESTRAZIONE DEGLI ALCALOIDI DAI VISCERI 43 Generalmente parlando, il residuo ottenuto contiene 1’ alcaloido con traccie di materia grassa, più o meno copiosa, onde conviene che sì ridisciolga in acqua distillata, si feltri per feltrino di carta bagnata e si concentri di nuovo fino a poche gocciole. Non pertanto risulta puro, dacché neppure la feltrazione ultima ne separa compiutamente le materie grasse e certe altre materie estranee di natura non bene riconosciuta. A conseguire una buona purificazione, che talvolta riesce perfettissima, si prende idrato di piombo preparato di recente, lavato con grande accuratezza ed umido ancora, si mesce col prodotto e si fa digerire con esso a blanda temperatura per qualche ora, tenendo chiuso frattanto il palloncino o la campanella entro cui sì fa la dige- stione. Si ripete il trattamento coll’ etere per due o tre volte, e la soluzione eterea fornisce 1’ alcaloido, scevro interamente o quasi dalle impurezze, per cui si può indi passare coi rettivi a determinarne la specie. Quando l’ operatore acquistò una certa pratica nel condurre le diverse manipolazioni che furono descritte, in due giorni può avere già estratto l’ alcaloido e purificatolo opportunamente. Di un reattivo utilissimo per la ricerca degli alcaloidi Nella Memoria sulla ricerca della Solanina feci cenno dell’ acido iodidrico iodurato, come di un buon reattivo per determinare gli al- caloidi, preferibile alla tintura d’ iodio ed all’ ioduro di potassio iodu- rato, ed ora dichiarerò le ragioni per le quali si rende utilissimo in più casi. In primo luogo è uno tra i reattivi generali per gli alcaloidi da cui si ottiene più di frequente il contrassegno che l’ alcaloide sus- siste nel liquide in esplorazione, e per ciò da questo lato è parago- nabile interamente coll’ ioduro di potassio iodurato; in secondo luogo offre il vantaggio di nulla lasciare di fisso e di cristallizzabile da’ suoi componenti, come fa l’altro reattivo, onde non arreca confusione, quando si esamina col microscopio il precipitato a cui diede nascimento per riconoscere se cristallizzato od amorfo. Oltre di che possiede il pregio, meglio ancora dell’ acido picrico, d’ ingenerare coi più degli alcaloidi venefici, de’ composti cristallizzati, che sembrano iodidrati dell’ alcaloido periodurato, i quali, sebbene si somiglino strettamente 44 F. SELMI nella forma fondamentale, che è il romboedro, nondimeno differiscono distintamente pel colore, per la disposizione e varietà della forma, pel modo di aggregazione, onde si può ben distinguerli l’uno dall'altro. L’ acido iodidrico iodurato si prepara in tre gradi diversi di con- centrazione, di cui si preferisce ora l’ uno ora l’ altro per lo svela- mento di un dato alcaloido, conforme fu insegnato dall’ osservazione. Per preparare il reattivo concentrato si prendono 20 grammi d'’ iodio puro, si polverizzano finamente, si stemprano in 150 grammi di acqua stillata e vi si fa gorgogliare una corrente di gas solfidrico fino a totale estinzione di esso iodio. Si decanta il liquido dal magma di solfo che si depose, e che si lava con un poco di acqua da aggiun- gere alla soluzione dell’ acido iodidrico formatosi, e questa si scalda a blando calore ad iscacciare l’ acido solfidrico eccedente; si feltra e sì satura il feltrato con iodio libero, aiutandone la saturazione mediante il bagno-maria. Così facendo si ottiene un liquido bruno, che depone parte dell’ iodio per raffreddamento e che indi si travasa in boccia di vetro a tappo smerigliato. È questa la soluzione di 1° grado. Si avverte che a conservarla inalterata torna necessario che si tenga all’ oscuro perfettamente, onde giova che la boccia sia coperta all’esterno o di vernice nera e bene opaca, o di carta nera ed impermeabile dalla luce; senza la cautela indicata, il reattivo va deponendo iodio a poco a poco in cristalli che 8’ ingrossano ; passa dal bruno intenso al bruno rossigno chiaro, notabilmente diminuendo di forza. La cagione proba- bile dell’ alterazione consiste nell'azione decomponente che la luce dif- fusa esercita sull’ acido iodidrico, tanto da sdoppiarlo ne’ suoi compo- nenti, con che il liquido diventa meno capace di mantenere sciolto l’iodio libero. E ciò pare comprovato dal fatto, che la semplice di- luzione con acqua, fa precipitare immediatamente una parte dell’iodio. La soluzione di secondo grado si prepara diluendo un volume della precedente con un volume di acqua. Operando la diluzione a poco a poco, nulla o quasi nulla si separa d’ iodio. Quella di terzo grado si ottiene con un volume della seconda e tre volumi di acqua. Una parte dell’ iodio disciolto precipita. L’uso del reattivo consiste nel prendere una lastra di vetro ret- tangolare, lunga da otto a dieci centimetri e larga da 2,5 a 3, stil- larvi nel mezzo una gocciola della soluzione acquosa dell’ alcaloido, sia libero o salificato, e sovr’ essa farvi cadere una gocciola del reat- tivo. Producesi immediatamente un torbido od un precipitato bruno, ESTRAZIONE DEGLI ALCALOIDI DAI VISCERI 45 il quale nel suo primo apparire è amorfo, in frustoli od in goccioline quando si osserva col microscopio, e che col tempo senz’ altra opera- zione, o scaldando a dolce calore, si converte in cristalli, di forma più o meno precisa ed ampia secondo che la cristallizzazione si compie con maggiore o minore lentezza. Talvolta si veggono due forme cristalline diverse, con colori anche diversi, una di tinta cupa e di fondo rosso, arancione od avana, e l’ altra di tinta chiara e di un giallo cedrino; effetto che proviene senza fallo dall’ essersi ingenerati due addizioni, in proporzioni differenti, dell’ iodio coll’ alcaloido. Sovrapponendovi a piccola distanza una cartolina inamidata ed umida, e tenutavi per qualche tempo, si vede ad inazzurire per isviluppo d’iodio libero, collo svanire del quale i cristalli tendono ad alterarsi e si guastano di fatto. Laonde non è sempre facile conservarli intatti, che anzi i più cupi in breve, da un giorno all’altro per esempio, non si mantengono, qualora non si usi lo spediente di coprirli con vetrino sottile, masti- catovi all’ intorno in guisa da impedire 1’ evaporazione. Spesse volte alterati che siano si può ricomporli, ribagnando la macchietta, con una gocciola della soluzione iodica, e questo anche replicatamente. Ricerca della Nicotina Per la nicotina il tossicologo non possiede che la reazione detta di Roussin, che sia capace di determinarla con qualche esattezza. Con- siste nel mescere due soluzioni diluite, ambedue nell’ etere, cioè dell’ alca- loide e dell’iodio; la mescolanza a termine di alcune ore depone aghetti di colore rosso rubino, cristalli che le sarebbero speciali e caratteristici. Tale reazione è preferita al di sopra di quelle del cloro e del cianogeno (il primo la tinge di un rosso sanguigno, ed il se- condo di bruno) poichè ad ottenerle occorre troppa materia (1). Wormley indicò come reattivi sufficienti, l’ acido picrico poichè forni rebbe con essa cristalli ramificati, discernibili distintamente sotto il microscopio, ed i cloruri mercurico e platinico, perchè la inducono in combinazioni, capaci di deporsi in cristalli di forma particolare per (1) Dragendorff, Manuale di Tossicologia. 46 F. SELMI ciascuno (2). A vero dire la reazione del Roussin non riesce distin- tamente qualora la soluzione eterea non contenga almeno !4,, di ni- cotina (0, 01 in 5,00 gr. di etere), e le cristallizzazioni indicate da Wormley non sempre appaiono uniformi e tali da condurre ad un ri- conoscimento perfettamente certo, ed in ispecie quando 1’ alcaloido non sia scevro del tutto da materie eterogenee, o siasi troppo abbondato di reagente, o la soluzione dell’ alcaloido fosse tropo acida. Coll’ acido iodidrico iodurato il riconoscerla è facile, sicuro, quan- d’anche non se ne abbia raccolta che una quantità tenuissima, una traccia per così dire. A tale effetto si prende una goccia del liquido inacidito in cui si sospetta esistere, si fa cadere su lastrina di vetro, si pone ad evaporare a blandissimo calore (nella state basta la temperatura or- dinaria) e si bagna la macchietta rimastane con una tenuissima quan- tità di acido acetico od anche di uno degli acidi solforico o cloridrico diluitissimi, avvertendo che l’ acido aggiunto deve bastare appena per isciogliere la materia secca. La descritta operazione è necessaria quando la nicotina fu salificata con un’ eccedenza soverchia di acido, perchè se l'acido è troppo può impedire la formazione dei cristalli. Ridisciolta la macchietta, come si disse, si tuffa l’ estremo di uno specillo piuttosto sottile nella soluzione di 1° grado dell’ acido iodi- drico iodurato, in modo che gliene rimanga aderente una gocciola, e si fa cadere sulla macchietta disciolta, che si farà dilatare alquanto sulla lastrina di vetro, tanto da formare un dischetto della larghezza di un centesimo circa, ponendola poi ad evaporare in luogo ove il termometro segni da 15 a 20° c. A capo di mezz'ora ad un’ora si hanno già bellissimi cristalli, visibili anche ad occhio nudo, bruni, e che coperti con vetrino sottile e sottoposti al microscopio di 500 a 600 diametri, appaiono in lamine trasparenti, romboidali od anche in prismi più o meno sviluppati, di colore avana, uniti spesse volte a denti di pettine, od a gruppi od in altre maniere ( vedi Tav. I, fig. 3). Quando si abbonda coll’ acido sciogliente dell' alcaloido ed anche colla soluzione iodurata, i cristalli e non si manifestano o. tardano lungo tempo. Se in allora si copre la gocciola con lastrina sottile di vetro, e si lascia a se per varii giorni, avviene che si producano de’ cri- (2) Wormley, Microchimica. ESTRAZIONE DEGLI ALCALOIDI DAI VISCERI 47 stalli rari, ma che ingrossano lentamente, ed in allora pigliano forma più regolare, come quelli della fig. 4 nella Tavola citata. Occorrendo il caso che pel soverchio dell’ acido i cristalli non si formino sollecitamente, e si desiderasse pure od occorresse di certifi- carsi se realmente nel liquido esplorato vi sussiste nicotina; si può ottenere l’ effetto collo spediente che sono per dire. Si bagna la mac- chietta con una gocciola di acido nitrico puro, scolorito, non fumante, con che si svolge iodio libero; si mette ad evaporare a temperatura ordinaria sino a secchezza e poi si tratta di nuovo con acido iodidrico iodurato. Così operando i cristalli si formano distintissimi. Da quanto fino ad ora esponemmo devesi dedurre la convenienza di usare un acido vaporabile per salificare la nicotina; per conseguenza nè il solforico, nè il fosforico, nè il lattico, sebbene, quando sono in giusta misura, non si oppongano per nulla all’ ingenerarsi dei cristalli. In luogo tepido, o durante i calori estivi i cristalli di nicotina lodurata non durano intatti che un certo numero di ore; tuttavolta quand’ anche si guastino, non molto importa dacchè torna facile d’in- durli a ricomporsi, bastando che si ribagni la macchietta con una nuova gocciola del reattivo iodidrico. È un mezzo semplicissimo, che mi valse per ottenerli rifatti non meno di quattro volte. Volendo poi conservare i cristalli come testimonio della sostanza venefica estratta dai visceri da presentare al tribunale, converrà co- prirli con vetrino sottile non appena formati, incollare tutt’ attorno del vetrino una striscia di carta ingommata ed applicare sulla carta una spalmatura di mastice resinoso, con che s’ impedisce l’evaporazione e l’introdursi dell’ umidità atmosferica. Non si deve credere tuttavolta che usando l’ indicata precauzione i cristalli si mantengano inalterati inde- finitamente, poichè per quanto si faccia essi vanno deformandosi ed a lungo andare finiscono per essere guasti del tutto. Il tossicologo per sua tranquillità maggiore farà ottima cosa, se eseguisca un esperimento di confronto sopra una gocciola di soluzione acquosa di cloridrato di nicotina puro ed in uno stato di diluzione conveniente. Dall’ uguaglianza dei cristalli, per forma, colore, disposi- zione etc. conseguiti in quest’ assaggio e in quello sull’ alcaloido estrat- to dai visceri, potrà dedurre con piena sicurezza, che realmente nel cadavere sussisteva la nicotina, quand’ anche non ne possegga in quan- tità bastevole per altre prove cogli altri reattivi che sono consigliati nelle Opere di tossicologia. 48 F. SELMI Volli tentare se con qualche altro reattivo si potesse rendere manifesta la nicotina quando si riscontra in proporzioni piccolissime; ma è pur d’ uopo confessare che a nulla riusci di meritevole da essere tenuto in conto. Ricerca della Brucina La ricerca della brucina torna più agevole di quella della stri- cnina per la reazione colorata, distintissima e caratteristica, a cui dà nascimento coll’ acido nitrico, o coll’ acido solforico monidratato a cui si aggiunge acido nitrico od acqua bromata. Ma nel caso che la proporzione dell’ alcaloido estratta dai visceri sia molto esigua, tanto da concedere poche prove, e su traccie appena apprezzabili di materia, gioveranno le operazioni seguenti. Abbiasi la brucina in soluzione acquosa, se ne trasporti con ispecillo una goc- ciola su lastra di vetro e si lasci evaporare a secco; sulla macchietta sì faccia cadere altra gocciola, che pure si lascia seccare, replicando con una terza ed una quarta se abbisogna, fino al punto cioè che si abbia nell’ ultima gocciola una soluzione discretamente concentrata per conseguire reazioni di bastevole evidenza. Sulla goccicla così ridotta se ne porti una di acido bromidrico saturo di bromo; si produrà im- mediatamente un precipitato giallo chiaro, il quale svanirà in pochi minuti, tornando la gocciola ad apparire scolorita e limpida. Collocan- do in allora la lastra di vetro su piano tiepido, a circa 40°, od anche lasciando che evapori a temperatura ordinaria se la stagione è calda, ne rimane una macchietta trasparente con orlo di colore violaceo. Col microscopio il colore dell’ orlo si vede più manifestamente. Bagnando in appresso la macchietta con una gocciolina di acido nitrico, puro, scolorito e di media concentrazione, evitando accurata- mente la sovrabbondanza, il cerchio violaceo si avviva, passa al rosso e più tardi al pavonazzo. Può conservarsi sebbene un po’ sbiadito, per più giorni. Alla esperienza descritta se ne fa succedere altra coll’ acido iodi- drico iodurato. Si fanno evaporare una sull’ altra, tre o quattro goc- ciole della soluzione acquosa, e sopra vi si fa cadere una gocciola del reattivo iodurato, quello cioè di primo grado. Si formerà immediata- ESTRAZIONE DEGLI ALCALOIDI DAI VISCERI 49 mente un precipitato bruno, il quale, posto ad evaporazione spontanea, in luogo di aria non umida ed a temperatura di circa 15 a 16° c., finisce per lasciare una macchietta di colore rugginoso, la quale esa- minata col microscopio si mostra composta di tanti ciuffi cristallini, di colore tra l’ arancio ed il rosso, semitrasparenti e ramificati; con dischetti qua e là, isolati, di un giallo più o meno cupo e raggiati dal centro. Palesemente si hanno due o più iodobrucine, che presero nascimento ad una volta, dal medesimo reattivo. Non vi si scorge, che di raro, forma regolare; tuttavolta ben cercando si riesce a scoprirvi qualche laminetta lunga, taluna incurvata e tal’ altra dritta, che si direbbero rettangolari a primo aspetto, ma che, osservando attenta- mente, si ravvisano per romboidali. Comunque sia, la disposizione dei cristalli è sì specifica per la brucina, che qualora si ottenga non rimane dubbio a quale appartenga degli alcaloidi. Nel caso poi che la brucina non risultasse perfettamente scevra di materie eterogenee che può tra- volgere seco dai visceri, in allora i cristalli sono sì male determinati da non servire di criterio per l’ esperimentatore; onde quando ciò sia, fa d’uopo procurare che la cristallizzazione si effettui con maggiore regolarità, procedendo nelle due maniere che sto per dire. Abbiasi la soluzione acquosa della brucina, o dell’ alcaloide che sì crede tale; si concentra quasi a secco, si bagna con una gocciola del reattivo iodurato di 1° grado, indi si scalda su fiammella di lam- pada ad alcole ad un calore da potersi sostenere per qualche istante apponendovi il polpastrello dell’ indice, e gli si aggiunge una gocciola di acido lattico diluito, tornando a scaldare finchè il precipitato sia ridisciolto quasi del tutto. Se la ridissoluzione non avviene si aiuta con altra gocciola dell’ acido lattico, concentrando alquanto, finchè il liquido sia del volume di una gocciola sola. Mettendolo a raffreddare, coperto con vetrino sottile, a termine di 12 a 24 ore si avranno cristalli di. colore giallo, entro un liquido gialliccio, quali sono rappresentati dalla fig. 1 della Tavola II. L’ acido lattico occorrente per l’esperienza dev’ essere stato pre- parato con 10 cent. cubi di acqua ‘stillata e 10 gocciole di acido scilopposo. L'altra maniera di operare quando la brucina non è pura, per averla cristallizzata mediante il reattivo iodurato, consiste nel saturare a lieve acidità la soluzione acquosa dell’ alcaloido; a scaldare su lampa- da con piccola fiamma, a toccare la gocciola con uno specillo intriso TOMO IV. 7 50 F. SELMI per la punta nell’ acido iodidrico iodurato di 1° grado, indi a scaldare di nuovo spargendo alquanto la gocciola sul vetro, lasciando poi a raffreddare. Così procedendo la brucina si depone in cristallini micro» scopici, quali isolati quali uniti a due ed a tre, od a stella od a croce, come nella fig. 2 della Tavola II. Frattanto credo opportuno di avvertire che al tossicologo torna sempre conto di procurare che l’alcaloido riesca puro al possibile; quindi non deve tralasciarne la purificazione quand’ anche sospetti di averlo ottenuto in quantità minima, poichè le materie eterogenee che sogliono accompagnarlo dai visceri, tornano di grave ostacolo a conse- guire reazioni di sufficiente precisione e cristalli ben definiti, Quando si ha in istato di vera purezza, la cristallizzazione coll’ acido iodidrico iodurato riesce con apparenze sì particolari da bastare per la determi- nazione, onde un occhio esercitato non possa cadere in abbaglio o rimanere in dubbio. Una prova di confronto con brucina del labora- torio gioverà poi sempre a riconferma del risultato. Ricerca della Stricnina Oltre all’ uso dei rettivi conosciuti, la stricnina può essere svelata e determinata coll’ acido iodidrico iodurato, essendone sufficiente una traccia appena; se non che all’ effetto occorre che l’ alcaloido sia stato purificato dalle materie eterogenee, le quali possono rimanergli aderenti dai visceri: una stricnina impura non fornisce cristalli che a stento, imperfetti, o più frequentemente non ne fornisce. La purificazione mediante l’ idrato di piombo è più che sufficiente per averla in con- dizione da cristallizzare. i Si fa cadere su lastra di vetro una gocciola della soluzione acquosa dell’ alcaloido convertito in acetato, si scalda sulla fiammella di una lampada ad alcole, e vi si stilla sopra una gocciola del reattivo iodu- rato, seguitando a scaldare lievemente finchè il liquido sia chiaro o quasi, poscia si copre con vetrino sottile e si lascia raffreddare. Se ne ha una bellissima cristallizzazione in lunghi aghi sottili, di colore marrone scuro, parte intralciati, parte a croce ed a stella, od anche isolati, terminati a punta in ambedue gli estremi, e con aspetto e di- sposizione proprie e caratteristiche. Tale maniera di cristallizzazione si ESTRAZIONE DEGLI ALCALOIDI DAI VISCERI 51 forma quando il reattivo non fu adoperato in troppa abbondanza, onde il liquido sia rimasto di un giallo pvco intenso. La fig. 3 della Ta- vola II. fa vedere questo modo di cristallizzare. Nel caso in cui l’ acido iodidrico iodurato si aggiunga in copia maggiore ed il liquido rimanga di un giallo scuro, la eristallizza- zione avviene più lenta; con che i cristalli appaiono meglio conformati e sviluppati, cioè in lamine lunghe, di colore marrone, parte tagliate in isbieco e parte quasi ad angolo retto come nella figura 4 della Ta- vola citata. Se poi la cristallizzazione tardò a lungo, ed i cristalli si nutri- rono a poco a poco, per esempio nello spazio di due o tre giorni; in allora si hanno sviluppatissimi, a stella, con lamine addossate, ma non diversi da quelli della detta figura 4. OSSERVAZIONI PRATICHE PEL RICONOSCMENTO DELL ACIDO CIANIDRICO NEI CASI DI AVVELENAMENTO MEMORIA DEL PROF. FRANCESCO SELMI ( Letta nella Sessione 24 Aprile 1873) ai nei Trattati di Tossicologia chimica non sono date. le norme precise con cui riescire alla scoperta dell’ acido cianidrico, quando si giova a tal uopo della reazione onde s° ingenera l’ azzurro di Prussia; dal che succede alle volte che i poco esperti non sappiano cogliere il punto, non ottengano la formazione dell’ azzurro e credano che non si trovi acido cianidrico in liquidi nei quali realmente è con- tenuto. Perciò ho reputato non inopportuno di esporre il modo di operare, coi particolari occorrenti affinchè non abbia mai da mancare l’ effetto. Abbiasi il liquido acquoso, raccolto dalla distillazione delle ma- terie sospette già inacidite, e si saturi con qualche goccia d’ idrato di potassa o di soda: contemporaneamente si abbia una soluzione non troppo concentrata di solfato ferroso, privo al possibile di ossido fer- rico, se ne versi qualche goccia nel liquido cianidrico alcalizzato, con aggiunta d’ idrato potassico se occorre, per avere ben distinta la rea- zione alcalina. Si lasci in quiete per qualche tempo acciò il cianuro di potassio possa reagire compiutamente coll’ idrato ferroso, indi sì di- batta sino alla formazione di un color verde scuro. In allora stillando qualche goccia di acido cloridrico tanto che la reazione sia passata all’ acidità, si ha l'azzurro di Prussia di quella bella tinta che gli è speciale. I tossicologi dicono che può sostituirsi al solfato di ferro un misto di esso e di cloruro ferrico, ovvero si possono saturare le basi 54 FRANCESCO SELMI con acido cloridrico contenente del detto cloruro; ma è pratica da non seguire, dacchè per poco che si sovrabbondi di ossido ferrico, l’ effetto non si consegue o succede insufficientemente. Se di fatto si mesce al solfato ferroso una certa quantità di sale ferrico tanto da oltrepassare certi limiti, l'azzurro di Prussia non si produce, per cui neutralizzando coll’ acido cloridrico, ogni cosa si scioglie in giallo di ruggine. Dall’ azzurro di Prussia ottenuto nella maniera descritta si può agevolmente far passaggio ad altre due reazioni, ambedue caratteristiche dell’ acido cianidrico; onde colla quantità di sostanza con cui si riuscì al primo contrassegno per dimostrarne l’esistenza si possono raccogliere altre due testimonianze che servino di conferma. Siano pure scarsi 1 fiocchetti dell’ azzurro precipitato; si prenderà un piccolo feltrino di carta berzeliana e si filtrerà il liquido; sul feltro rimarrà l’ azzurro, che si laverà con acqua stillata fino a totale cessazione della acidità del lavacro. Si prenderà il feltrino, s’ introdurrà in cam- panella di vetro con acqua ed un poco di ossido di mercurio macinato finamente, e si farà bollire per alcuni minuti, indi si rifeltra. Il li- quido limpido e scolorito uscente dal feltro conterrà tutto il cianogeno dell’ azzurro di Prussia convertito in cianuro mercurico; e il fatto che si disciolse mercurio per la decomposizione scambievole tra azzurro ed ossido, e la cristallizzazione di esso cianuro, varrà di seconda prova per l’ acido cianidrico. Stillando a goccie acido solfidrico nel liquido, ne prè- cipiterà solfuro nero di mercurio, mentre si svolgerà odore sensibile di acido cianidrico purchè non abbiasi troppo abbondato coll’acido solfidrico. Si rifeltra, si versa solfidrato giallo di ammoniaca nel feltrato ; si evapora blandemente a secco, si inacidisce con acido cloridrico il residuo, e si esplora con un sale ferrico: immediatamente il colora- ramento rosso sanguigno darà una terza o quarta prova dell’ esistenza dell’ acido cianidrico nel distillato che fu sottoposto all’ esplorazione. Nella ricerca adunque dell’ acido cianidrico è mio consiglio ado- perare tutto il distillato per formare l’ azzurro di Prussia ad ottenere una reazione copiosa e manifesta per quanto si possa, dacchè il chimico ha facoltà di procedere più innanzi, trasformandolo in cianuro di mer- curio dal quale estrae l’ acido cianidrico di nuovo per la ‘prova col solfidrato di ammoniaca ed un sale ferrico. Nella formazione dell’ azzurro di Prussia occorre, come è no. to, l’ acido cloridrico per isvelarlo valendo a sciogliere l’ idrato ferroso ferrico che gli sta in mescolanza. Potrebbesi anche far uso dell’ acido RICONOSCIMENTO DELL’ ACIDO CIANIDRICO 55 solforico ma non dell’ acetico, perchè quest’ acido ridiscioglie quasi tutto il precipitato senza che appaia il coloramento speciale del ferro- cianuro di ferro. Essendomi nata vaghezza di esaminare il fatto un po’ curioso a cui accenno, vidi che il liquido giallo di ruggine, prodotto per l’azione sciogliente dell’ acido acetico, pigliava però un azzurro verdiccio od un verde schietto mediante 1’ aggiunta di acido cloridrico o del solforico, e fui condotto per tal maniera a scoprire una nuova reazione con cui rendere manifesto l’ acido cianidrico, non meno squi- sita di quella che si ottiene col metodo consueto. Prendasi solfato ferroso in soluzione vi si stilli tanto di potassa caustica piuttosto allungata da precipitare l’ idrato ferroso rimanendo un’ eccedenza dell’ alcali; si dibatta fino a che il precipitato apparisca di un verde chiaro, cioè non troppo incupito, e si saturi con acido acetico allungato (1 vol. di acido cristallizzato, e 3 vol. di acqua) tanto che il precipitato sia disciolto, l’ odore acetico rimanga palese moderatamente, e la reazione sulla carta azzurra di tornasole dia un arrossamento non troppo gagliardo. In allora si versi in campanella di vetro, vi si stilli l’ acido cianidrico saturato con potassa, e si dibatta per due o tre minuti. Il liquido si intorbida alquanto e acquista un giallo più intenso. Si tratta con qualche gocciola di acido cloridrico mescolando, e se ne ha un coloramento verde con fiocchi verdognoli che si depongono più o meno sollecitamente secondo che l’ acido cia- nidrico era in proporzione più o meno ragguardevole. Il precipitato è di un bel verde erba, che si può raccogliere su feltro, lavarlo, seccarlo senza che soffra alterazione. Bollito con ossido di mercurio si scompone come l’ azzurro di Prussia formando cianuro del detto metallo. Per conseguenza qualora piacesse, potrebbesi colla medesima quan- tità di acido cianidrico raccolto dalla distillazione dei liquidi o visceri sospetti, produrre di seguito non meno di sei reazioni caratteristiche 1° Trasformarlo in azzurro di Prussia. 2° Dall’ azzurro di Prussia passare al cianuro di mercurio. 3° Dal cianuro di mercurio ricuperare l’ acido cianidrico libero. 4° Da questo ottenere il composto verde. 5° Dal composto verde rigenerare l’ acido cianidrico mediante la bolli- tura coll’ ossido di mercurio, e l’azione successiva dell’ acido solfidrico. 6° Dall’ acido cianidrico saturato col solfidrato d’ ammoniaca dare na- scimento al coloramento rosso di sangue valendosi di un sale ferrico. fi NSA, i MARNI AAT di Tav. LL Tnt. ran" Casanova Tn E 00 0a a \ì \ ù eu; a G. Betkini ine. Tav. IL. IS i TRS Lello \ SIA iS RESGÌ IN ATA °° Casanova Hib. Fran" | (Bettini ino. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE DELLA PROVINCIA DI BOLOGNA MEMORIA DEL PROF. CAV. LUIGI BOMBICCI ( Letta nella Sessione 1 Maggio 1873) INTRODUZIONE Scopo e significato della presente Memoria Quando due anni or sono intrapresi il lavoro che oggi mi pregio di sottoporre a questa illustre Accademia, stimai potermi limitare ad un » Catalogo dei prodotti minerali utili della provincia di Bologna ,; ed infatti diedi opera precipuamente a riassumere con cura le meglio accertate particolarità della litologia e della mineralogia del territorio bolognese per annoverare le già attivate applicazioni dei relativi materiali metallici e litoidei, e per segnalare quelle che potreb- bero ritenersi profittevoli. Se non che coordinandosi colle mie ricerche e con i miei studi in proposito, la formazione e l’ ordinamento di una speciale collezione mi- neralogica della provincia; divenendo questa collezione poco a poco cospicua ed istruttiva; comprendendosi in essa i saggi più caratteristici e più di frequente citati nelle mie descrizioni per il suddetto catalogo, mi persuasi esser cosa utile ed opportuna la fusione in una sola opera delle due distinte maniere di illustrazione cui prestasi la mine- ralogia generale del nostro territorio, al pari di quella di un paese qualunque ; vale a dire, l’ illustrazione scientifica pei minerali conside- rati nel loro caratteri indipendentemente da qualsiasi loro attitudine alle utili applicazioni; e l' illustrazione tecnica, che nei minerali con- sidera appunto, e quasi esclusivamente, le possibili applicazioni ed i rispettivi valori artistico ed industriale. TOMO IV. 8 58 LUIGI BOMBICCI Diviene perciò questo lavoro una , Descrizione dei prodotti minerali noti della provincia di Bologna; della loro im- portanza tecnica; delle applicazioni loro, e della collezione che nel Museo Universitario ne comprende i saggi più belli ed istruttivi ,. Tuttavia il titolo conveniente a siffatto lavoro può ridursi alla più semplice forma di , Descrizione della mineralogia gene- rale della Provincia di Bologna ,. RIVISTA DELL’ORDINAMENTO DATO ALLA NUOVA COLLEZIONE DELLA MINERALOGIA BOLOGNESE A partire dal 1869 potè vedersi classificata e già ragguardevole fra ie ricche collezioni del Museo Universitario nostro quella dei mi- nerali del bolognese e di molte fra quelle roccie che ne rappresentano il natural giacimento (1). Oggi tale collezione, molto arricchita ed ordinata in modo defini- tivo, occupa la Sala C. dello stesso Museo di mineralogia. Alcuni bellissimi saggi che in essa figurano, esistevano nei museo prima che ne venisse affidato a me la direzione; molti altri saggi di mi- nor pregio, ma pure utili ed istruttivi, stavano distribuiti nelle raccolte di mineralogia generale. La massima parte venne ricercata, raccolta, studiata e messa in serie in questi ultimi tempi. L'intiera collezione è divisa in dieci sezioni. Nella prima sezione comprendonsi i minerali metalliferi di rame, di ferro, di nichel e di manganese, con i già lusinghieri blocchi di (1) V. La Reiazione sul Museo mineralogico della Università bolognese che precede la « Guida alle Collezioni ecc. » del museo medesimo, pubblicata nel 1870, per cura dello scrivente. — Giova notare che nel nominato stabilimento figurava altresì una collezione litologica e geognostica del bolognese corredata di alquanti minerali e prodotti metalliferi; la composero con solerti cure i Professori Bianconi e Santagata; se non che tale collezione, diretta piuttosto ad avvalorare vedute teoriche di geologia e porre in vista certe speciali serie litologiche della provincia, venne aggregata al gabinetto geologico, e differisce veramente per l’ indole, per lo scopo, e per il materiale ordinamento da quella di cui adesso si tratta. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 59 ricca Erubescite, colle minime forme acicolari della Millerite, colle notevoli incrostazioni della manganite amorfa o pseudo-regolare sui ciot- toli di Alberese. Nella seconda sezione, i combustibili fossili, idrocarburi, ligniti e solfo nativo, colla variata serie delle nostre ambre mioceniche, col no- stro limpido petrolio di S. Clemente e con i tronchi carbonizzati e silicizzati ad un tempo della Pietra Colora. Nella terza sezione, le argille, le marne e le altre roccie che ac- compagnano i minerali della seconda sezione e ne rappresentano lito- logicamente e cronologicamente il giacimento caratteristico. Vi si ag- giungono le qualità per la plastica, per la figulina, e pei laterizi, con alcuni campioni dei rispettivi prodotti. Nella quarta sezione, i solfati di bario, di strontio, di calcio, di magnesio, di sodio ecc., colle singolari e spesso voluminose manifesta. zioni della famosa pietra fosforica e della selenite in ‘cristalli geminati, limpidissimi o variamente argilliferi, e bene spesso magnifici e colossali. Nella quinta sezione stanno riuniti i carbonati di calcio, di ma- gnesio, di ferro ecc., colle stupende cristallizzazioni della pura Calcite e della Dolomite; colle strane e multiformi modalità della Aragonite delle argille scagliose; colle singolari associazioni del brunispato, colle concrezioni stallatitiche e stallagmitiche delle nostre caverne, e colla preziosa serie dei calcari compatti e brecciati da costruzioni, da calce idraulica; da cemento idraulico e da altri usi pregevolissimi; ai quali calcari si aggiungono in appendice i rispettivi campioni di cementi, di calci idrauliche, e dei prodotti iudurati che se ne ottengono. Nella sesta sezione domina affatto la Silice colle celebrate e bellissime forme cristalline del Quarzo jalino, dalle quali sono resi classici i giacimenti di Porretta e di Monte Acuto e che vedonsi rappresentate nella collezione da una stupenda serie di cristalli e di gruppi vera- mente preziosi; gli sceltissimi cristalli ora vi si ammirano grandiosi e regolari, ora limpidi ed aeroidri, ora eslusivamente dodecaedrici, liberi, completi e di colore bluastro; ora in simmetrici aggruppamenti, ora con variatissime distorsioni e con tremìe quasi caratteristiche. Vi si coordina pure la selce amorfa colle masse che fanno passaggio alla corniola, alla sardonica, al diaspro agatato, al diaspro compatto; con i legni silicizzati, e con i ciottoli silicei agatizzati o gremiti di forami- nifere, dei conglomerati miocenici o dell’ alveo di alcuni dei nostri torrenti. 60 LUIGI BOMBICCI Nella settima sezione si adunano le Arenarie silicee, ridotte ai tipi del macigno eocenico, delle molasse e delle brecciole silicee 0 pud- dingoidi, mioceniche; i conglomerati, le sabbie, i ciottoli e le ghiaje incoerenti, ed altri materiali spettanti ai terreni terziari e post-terziarii, il cui deposito tuttodì si prosegue localizzato nell’ alveo dei torrenti e dei fiumi, al pari dei diversi altri prodotti della attuale denudazione. Nell’ ottava sezione, sono raccolti i silicati delle roccie verdi serpentinose, magnesiane, con alcuni tipi litologici eminenti delle nostre eruzioni serpentinose. Nella nona sezione, stanno invece i silicati delle roccie verdi prevalentemente feldispatiche, i cui tipi litologici grandemente si colle- gano con quelli della sezione precedente spesso esistendo fra gli uni e gli altri un graduato passaggio. In una sottosezione figurano alcune di tali roccie verdi che suscettibili di ricevere un bel polimento, ne traggono gradevole apparenza e carattere decisamente ornamentale. Finalmente nella decima sezione, si ritrovano taluni materiali erratici, gneiss, granito, micaschisto e cloroschisto granatifero, alcuni arnioni geodici ed alcune septarie. Si riassumono i titoli delle dieci indicate sezioni: SEZIONE I. Minerali metalliferi Calcosina, Erubescite, Calcopirite, Rame nativo, Pirite, Magneto- pirite, Mispichel, Millerite, Limonite, Manganite. SEZIONE II. Idrocarburi e Combustibili Petrolio, Ambra, Lignite, Stipite, Solfo. SEZIONE III. Minerali e roccie a base d° Allumina Caolino, Argilla scagliosa, Argille marnose bluastre, biancastre, turchine, ferruginose, silicifere, Argille plastiche e figuline. Laterizi e prodotti ceramici rispettivi. SEZIONE IV. Solfati di Bario, Strontio, Sodio, Calcio, ecc. Baritina, Barito-celestina, Mirabilite, Thenardite ecc., Selenite ( pie- tra da Gesso). DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 61 SEZIONE V. Carbonati di Calcio, Magnesio, Ferro Aragonite, Calcite, Dolomite, Mesitina, Brunispato, Calcare Albe- nese a fucoidi, Calcare marnoso da cemento idraulico, Breccie calcari ecc. Calci e Cementi che ne derivano. SEZIONE VI. Silice Quarzo cristallizzato, prehnitoide, manganesifero; Quarziti; Selce piromaca, Agate e Calcedonie, Resiniti, Selce termogene, Selce concre- zionata fossilifera (ciottoli ecc.); Diaspro e ftaniti diasproidi, Legno silicizzato, ecc. SEZIONE VII. Materiali prevalentemente Silicei Arenaria macigno, Arenaria molassa, Brecciola silicea, Conglo- merati, Sabbie gialle indurate, dette fossilifere, dette puddingoidi, Ciottoli sabbie e ghiaie dei torrenti e dei fiumi. SEZIONE VIII. Roccie verdi prevalentemente magnesiane Serpentina, Serpentina diallagica, Ranocchiaja, Ofite, Diorite, Eurite, Pietra ollare, Oficalce, Ofisilice e Spilite. Minerali componenti normali od accessorii. Actinoto, Analcime, Asbesto, Caporcianite, Crisotilo, Da- tolite, Diallagio, Prehnite, Quarzo, Sausurrite, Savite, Serpentino, Steatite. SEZIONE IX. Rioccie verdi prevalentemente feldispatiche Eufotidi, Iperiti, Oligoclasite. Minerali componenti, normali ed accessorii ( Bronzite, Caolino, Crisocolla, Diallagio, Ipersteno, Labrado- rite, Oligoclasio, Olivina, Ortose, Petunzà, Pirosseno verde, Sausurrite, Serpentino, Steatite, ecc, ). SEZIONE X. Materiali erratici e Concrezioni Ciottoli di Granito, di Gneiss, di Porfido, di Micaschisto granati- fero, con Ortose, Mica, Clorite, Sismondina, Granato ecc. Septarie, Arnioni ecc. 62 LUIGI BOMBICCI RIASSUNTO DELLE GENERALITÀ DI TOPOGRAFIA DELLA PROVINCIA Non dovendo entrare in alcuna descrizione o discussione geolo- gica o cronologica circa le formazioni rocciose della nostra provincia; giovandomi invece di accettare il portato degli studi tuttodì valorosa- mente condotti da taluni nostri colleghi sulla geologia del Bolognese, così non istarò a precisare i confini della provincia (1), i quali tanto nell’ alto crinale dell’ appennino, per le vette del Corno-alle-scale, del Granaglione, della Sambuca, del Monte Casciajo, di Monte Beni, e per le Filigare, il Sasso-Leone, Casalfiuminese, e Fognano; quanto nella pianura, in contiguità delle provincie di Ravenna, di Ferrara, e di Modena, sono indipendenti dalla condizione orografica e geognostica dei terreni che vi si succedono. Per la stessa ragione, mi limiterò a ricordare, circa 1’ orografia e la cronologia di questi stessi terreni che dal grande asse appenninico, dal Corno-alle-scale fino alle sorgenti del Sillaro e del Santerno, scen- dono verso la pianura bolognese parecchi contrafforti montuosi, i quali si allimeano in un generale parallellismo, e quasi perpendicolarmente alla direzione ivi seguita dallo stesso appennino, gradatamente deprimen- dosì fino alle belle colline che rasentano con ridentissimo amfiteatro la nostra nobile città, spingendosi da Bazzano, a ponente, fino oltre Castel S. Pietro, verso levante: che il corso dei fiumi e dei principali torrenti della provincia bolognese naturalmente si coordina a tale disposi- zione generale dei rilievi montuosi che fanno ufficio di spartiacque; donde le vallate parallele e principali della Samoggia, del Reno, della Setta, della Savena, dell’ Idice, del Sillaro e del Santerno ed i bacini idrografici rispettivi. Inoltre, che ai rilievi montuosi normalmente di- (1) Estensione della Provincia di Bologna 3603, 80 chilom. quadrati; divisa in tre circondarj: di Bologna (chil. quadr. 2215, 59), di Vergato (chil. quadr. 785, 29), e di Imola (chil. quadr. 652, 92). Vi si comprendono: 40 Comuni nel circondario di Bologna, 12 in quello di Vergato, 7 in quello d’ Imola; vale a dire 59 comuni per l intiera provincia. — L’ estensione delie regioni montuose sta a quella delle pianeggianti, come 4:5. Il Corno alle Scale è il più elevato monte della provincia, e sorge per 1937 metri sul livello del mare. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 63 pendenti dalle diramazioni dell'appennino si aggiungono, a rendere più complessa la locale orografia, molte sporgenze serpentinose, specialmente laddove le roccie eoceniche conseguono maggiore sviluppo; e gli alli- neamenti dei grandi adunamenti gessosi, 1 quali si susseguono con di- rezione prevalente da N. O. a S. E., quasi ai margini della regione montuosa; il resto del territorio è pianeggiante, e degradasi con dolce declivio verso la grande vallata del Po. Infine, che mentre la pianura è coperta da fertilissimo terreno agrario di recente alluvione, i cui lembi quasi si appoggiano alle ultime pendici delle colline, appariscono sopra queste e sulle montagne appenniniche i rappresentanti litologici di periodi alquanto più antichi, succedendovisi, in ordine discendente, a partire dalle alluvioni quaternarie, le serie dei terreni terziarii plio- cenici, miocenici ed eocenici, fino alle formazioni del cretaceo, inclusive, sottostanti al piano del calcare nummulitico. Sono assai numerose e distinte le forme litologiche che s° incon- trano nel suolo montuoso della Provincia, e che si riferiscono a questi periodi. Credo utile di riportare quì il prospetto delle principalissime, il qual prospetto per la sua semplicità non richiede particolareggiate dilucidazioni. PROSPETTO DEI TIPI LITOLOGICI PRINCIPALI DELLA PROVINCIA DI BOLOGNA DISPOSTI PER SADINZ CRONOLOGICO Post-terziario (Sahariano) Alluvioni e depositi fluviali. Concrezioni delle acque calcarifere, nelle caverne ecc. Conglomerati attuali. Terre cimiteriali con resti d’ industria umana. Marne alluviali, arenacee, con filliti. Terre delle pianure e delle paludi. — Torbe ecc. ( segue ) 64 LUIGI BOMBICCI Pliocene (Sub-apennino ) Sabbie gialle tipiche. Sabbie gialle agglutinate, fossilifere dei colli suburbani. Conglomerato pliocenico superiore. Conglomerato a ciottoli silicei, detto della Croara. Conglomerato a ciottoli improntati, del Rio gemese. Argille turchine sciolte, ed Argille turchine indurate. Argille marnose includenti resti di cetacei. Molassa pliocenica, detta del Sasso. Puddinga e molassa pliocenica di Gesso. Lumachella arenacea pliocenica di Pieve del Pino. Lignite pliocenica di Monte Mario. Miocene Gessi di varia struttura, in amigdale ecc. Marne biancastre interposte ai Gessi. Marne biancastre e cenerognole. Travertini della grotta di Labante. Sabbie quarzose, sciolte o agglutinate. Molassa puddingoide. Molasse di Vergato, Sasso, Battidizzo, Varignana ecc. Macigno schistoso. Breccia alla base del terreno miocenico. Focene Macigno e varietà. Schisti galestrimi. Marne eoceniche di Monte Venere. Macigno nummulitico. Macigno puddingoide. Calcare screziato, nummulitico. Pietra colombina, e Pietra coltellina. Calcare alberese, a fucoidi. Diaspri e ftaniti degli schisti galestrini. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 65 Cretaceo superiore. Formazione delle argille scagliose. Pietra forte con nemertiliti, Inocerami, Ammoniti, Belemniti, ecc. di Pian di Casale, con vertebre di Octodus, con Hamites ecc. Passaggio degli schisti galestrini alle argille scagliose. Argille scagliose e varietà. Ftaniti, Diaspri manganesiferi, Diaspri ordinarii ece. Pietra colombina e Calcare a fucoidi. Ciottoli di alberese, inclusi e metamorfosati dalle argille scagliose. Breccia calcare diasproide. N. B. Nella formazione delle argille scagliose stanno inclusi ar- nioni e nuclei di concentrazione di varii minerali, quali per. es. la Baritina o pietra fosforica, 1’ Aragonite, la Dolomite, il Gesso, la Pirite, la Manganite, il Quarzo fibroso, manganesifero ecc. ( V. descrizione). KRoccie di emersione idroplutonica e di concentrazione cristallina. Serpentina diallagica. Serpentina oligofirica. Ranocchiaje, Steatite, Asbesto ecc. Diorite granulare. Diorite porfiroide. Eufotide oligofirica e fervifera. Oligoclasite ferrifera di Monte Cavaloro. Eufotide sausurritica. Iperite. Ofisilice, spilite ecc. Oficalce e varietà. Gabbro rosso variolitico. Quarziti ofiolitiche, petroselci ecc. TOMO 1V. 9 66 LUIGI BOMBICCI SUNTO STORICO DELLE PUBBLICAZIONI FATTE IN ITALIA SUI PRODOTTI MINERALI DELLA PROVINCIA DI BOLOGNA DAL COMINCIARE DEL SECOLO XVII. Nella decorosissima storia della Geologia e della Paleontologia dei Bolognese implicitamente comprendesi quella, relativamente molto subordinata e povera, degli studi mineralogici compiuti sui prodotti della provincia medesima. Poche sostanze minerali fermarono la seria atten- zione dei naturalisti bolognesi, e raramente se ne pubblicarono speciali illustrazioni monografiche. La scarsità di minerali metalliferi, di mi- niere propriamente dette, nel territorio, ridusse alle specie litoidee, adunate in masse rocciose, o diffuse più o men copiosamente nelle roccie di emersione o di sedimento, la maggior parte delle raccolte e delle descrizioni. La scoperta della celebre pietra fosforica di Bologna ( varietà fibroso-raggiata del solfato di Barite), attribuita da varj scrittori, fra i quali il Masini, il Liceti, il Cellio, ed altri, fino al Galvani, al cal- zolajo alchimista Vincenzo Casciarolo, e così riportata al cominciare del secolo XVII, pare che costituisca la prima ricerca sui prodotti minerali utili della provincia bolognese, attivatasi ad un intento deter- minato, cui in certa guisa, andavasi pure coordinando la scienza. Da quell’ epoca fino ad oggi, i terreni ed i giacimenti minerali del bolognese vennero consecutivamente studiati da uomini dotti ed egregi, e venne alla luce una moltitudine di fatti d’alto pregio scien- tifico, via via interpretati a seconda delle idee che prevalevano nell’ in- dirizzo della geologia e della mineralogia di quei tempi, o nelle menti dei singoli osservatori. Così, tacendo del Carro Antonio Mancini (1625), del Pierro Po- TeRIO ° (1642), e del MonraLBano OvipIo, * nei cui numerosi scritti, pub- blicati dal 1618 al 1660, si trovano citazioni che ponno interessare DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 67 la geognosia bolognese, troviamo il Liceri ForruNo * (*) che nel suo libro - Litheosphorus etc. ,, pur facendo la storia più completa che per lui si potesse sulla pietra fosforica di Bologna, rapidamente annovera le virtù delle pietre che in allora apparivano più meravigliose ed arcane, ed i naturali prodotti del territorio bolognese; cita il Vincenzo Ca- sciarolo come primo scopritore della pietra fosforica; riassume quanto dissero di questa il Mangini ed il Montalbani; descrive i giacimenti di Paderno, di Pradalbino ed altri; discute l’ origine dei bezoar e delle aeroliti; finchè, dopo di aver minutamente esposti i caratteri della Ba- ritina medesima e le virtù sue proprie, viene a discorrere della sua fosforescenza, dei modi più acconci a sperimentarla, e del processo per prepararne la pietra onde ne risulti il singolarissimo effetto ; conclu- dendo, col paragonaria ad altre in allor celebrate pietre, di altre spe- cie e di altri giacimenti. Hl Masini Paoro AnronIo, ? registra fino dal 1666, molti prodotti minerali della nostra provincia, sotto forma di indicazioni locali, nella sua ., Bologna perlustrata ,, e più oltre ne riporteremo alcuni singo- lari periodi. 7 Marcantonio Celio, È nel libercoletto , il fosforo, ecc. ,, più cu- rioso forse per la forma eccessivamente cortigianesca delle prime pa- gini, di quello che considerevole per le descrizioni scientifiche, insegna il modo che pretende migliore ad ottenere la modalità fosforescente ( V. Baritina, più oltre), narra qualche aneddoto relativo alla cele- brata sostanza, ed accompagna il testo con una piccola tavola di quattro mediocri figure. Succede il libro di Paoro Boccone ” , Osservazioni naturali sce. , nel quale i trattati sui , fosfori diversi ,, e sui , fuochi sotterranei d’ Italia ., sono veramente notevoli per le curiose discussioni sulle cause allora recondite e misteriose, di questi fatti naturali. Nella , osservazio- ne nona ,, Egli discorre dell’ ambra (Carabe), gialla di Scannello nel Bolognese, del Sasso, di Paderno, di Monte Rumice, e di Ozzano, ( V. più oltre, Ambra ecc.); nella decimaquinta, del fosforo o , Pietra lucida ,, di Bologna, ed indicando il . metodo facile di sua prepara- zione ,, ripete le cose già dette da Cellio, altre poche aggiungendone relative ai suoi particolari esperimenti. (*) Questo numero di richiamo, e gli altri similmente disposti presso i numi degli Autori, corrispondono a quelli progressivi della Nota bibliografica. 68 LUIGI BOMBICCI Contemporaneamente il famoso MevrzELIo, È come erasi interessato, oltre a tanti e disparati soggetti di studio, delle Oetif: ferree e sìlicee, geodiche ed enidre, così scriveva (1675), intorno alla Pietra di Bologna, trattando della relativa , virtute lucifera ,, in confronto di quella ri- putata più eccellente del fosforo ermetico o di Balduino, e cercando di spiegare il fenomeno luminoso sopratutto ponendo mente al solfo che vi sì era già riconosciuto. Le descrizioni che questo autore ci porgo sui caratteri esterni, sulle ubicazioni ecc., della detta pietra si accordano con quelle già date dal Liceti nella sua sopracitata opera. Ferpimnanpo Marsieti, © pubblica nel 1698 in Lipsia due Memorie, che vengono ristampate nel 1702, sulla barite e sul gesso del terri- torio di Bologna. Circa la barite, divide il trattato in quattro parti, prima toccando dei luoghi nei quali essa pietra si rinviene, e descri- vendo alcuni minerali e fossili concomitanti, specialmente le efflorescen- ze saline sulle argille e le glebe geodiche a septaria, da Lui denomi- nate ventri tartarini; indi dimostrando la struttura della pietra stessa; in appresso, riferendo le operazioni chimiche, attivate, ma senza ri- sultato, per analizzarla e determinarne la composizione; ed in ultimo, indicando il modo più adatto a renderla fosforescente, ripetendo presso a poco le stesse poche cose già proposte dal Cellio e da altri. Correda il libro con oltre venti figure, per vero dire poco fedeli e pochissimo Istruttive. Antonio GueEDINI, !‘° in una lettura accademica, del 1705, sulle be- lemniti, tratta, sebbene brevemente e per incidenza, delle cristallizzazioni minerali ed in particolare di quella del quarzo. Quasi contemporaneamente allo studio delle sabbie gialle plioceniche suburbane, istituito nel 1711 dal Beccari Bartolomeo che in queste scuopriva le interessanti foraminifere, delle quali pubblicava una note- vole illustrazione, il Gusmano Gatrazzi, !! nel 1719, faceva noto all’ Ac- cademia delle Scienze di questo nostro Istituto il suo , Iter Bononia ad Alpes S. Pellegrini ,, di cui troviamo un estratto nei Com- mentarii, nel quale lavoro fa cenno dei naturali prodotti del Monte Cimone, dei fuochi di Barigazzo, delle sorgenti petroleifere, della salsa di Sassuolo, ecc. (1) (1) Una accurata relazione dei lavori scientifici del Galeazzi è offerta dal di lui « elogio », dettato nel 1847, dal Michele Medici. Mem. Accad Scient. Bo- logna. T. I, pag. 1. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 69 Il BarroLonro Beccari, ! testè nominato, scuopriva frattanto, in quei tempi la fosforescenza del Diamante, e nel suo scritto , De quamplu- rimis phosphoris ete ,, classifica ingegnosamente tutte le sostanze fo- sforescenti allora note, sia minerali che organiche, ne tratta l’ istoria, ne propone spiegazioni e teorie, compiendo così il ragionamento più diffuso sui fosfori che fin allora si avesse. Francesco Maria ZawortI, ‘* nella stessa epoca, eseguiva sulla pietra fosforica di Bologna quelle esperienze che vennero riassunte in una comunicazione alla Accademia, nel 1728. Quasi alla metà del secolo XVIII, Giuseppe Monni, !! pur tacendo del copioso quarzo bolognese scriveva sulle cristallizzazioni del quarzo istesso, nel suo breve articolo , De christallo montano , avvisando pel primo la costanza delle forme esagonali del minerale, e contra- stando le inesatte asserzioni del Velschio, combatte l’ erronea idea della grande efficacia del quarzo nella medicina per reazione contro le aci- dità dell’ organismo. Ed il Monti Garrano, !° illustrava, nel 1745, quelle conchigliette, con bellissimi nuclei di calcedonio, trovate sul Monte della Guardia, sul quale sorge il Santuario della Madonna detta di S. Luca. Ciò nello scritto , De testaceis quibusdam achate plenis, ecc. ,, dove avverte che non potè trovare in altri siti tali graziosi fossili, i quali liberava dal rivestimento calcare col mezzo di una soluzione acida. Successivamente Frrpimanpo Bassi, !° studiò il gas accensibile delle terme porrettane, descrisse il vulcanello del Sasso-Cardo, citando gli elegantissimi e mitidissimi cristalli di monte, della pietra serena di quella località. G. Giacinto Voati, !’ fino dal 1752 aveva posto mente ed interesse a taluni prodotti minerali del bolognese, siccome apparisce dall’ elogio che ne tesseva il Michele Medici nel 1851, secondo il quale spette- rebbe ad esso Vogli la scoperta degli schisti gessosi ittiolitici del senigalliese, a Scapezzano ; ed il loro giusto ravvicinamento cronologico con quelli del Bolca nel Veronese. Nell’ elenco delle sue pubblicazioni, posto in appendice al sud- detto elogio, troviamo citate le seguenti, che attengono alla mineralogia : Sopra il Gesso (23 marzo 1752), con istudio pratico sopra il coagulamento della poltiglia di gesso cotto. » Altra c. s (1754), per iscuoprire se nel gesso contengasi un principio vetriolico. 10 LUIGI BOMBICCI s Sopra una pietra lucida, che sembrava vetrificata (1755). » Sopra i fosfori dei marmi calcinati (1759), annunziando che il marmo di Verona ed altri, possono acquistare la proprietà fosforica, in analogia della pietra lucida di Bologna. » Intorno un fosforo riminese, che giudicò marmo, e che debita- mente calcinato acquistò in alto grado la proprietà fosforica sopra tutti gli altri fosfori conosciuti, quello compreso di Monte Paderno. Giacomo Brancani, !* il fortunato scovritore nelle argille plioceniche delle nostre colline di quelle ossa fossili di cetacei, il cui alto pregio scientiflco quasi veniva eclissato recentemente dalle mirabili scoperte di altri cetacei fossili, così valorosamente condotte e illustrate dal no- stro collega Prof. Capellini, il Biancani, io diceva, nel suo , Iter quaedam agri bononiensis loca ,, descrive i minerali di Monte Vez- zano, argille, efflorescenze che paragona all’ Agarico minerale, geodi e concrezioni e piani del diavolo; oltre le molteplici specie di molluschi fossili del rio Martignone annovera le singolari produzioni del Rio-delle- Meraviglie, già descritte e figurate dall’ Aldrovandi; accenna le due forme litologiche del pliocene ai Monticelli; la baritma, la marcasita, i gessi del rio d’ Oliveto, i petrefatti dei calanchi di Castiglione e il carbon fossile (lignite), di questa ubicazione medesima. Ciò nella prima parte. Nella parte seconda, fa menzione delle selci calcedoniose della Ghiara di Serravalle, che stima degne di servire pei lavori d’ in- taglio in pietra dura; dei legni silicizzati trovati nel letto di Samoggia, ed altrove; annovera molti fossili del Monte Giorgio e dei rivi della Lezza, di S. Andrea, e de’ Soavi, non tacendo delle foraminifere ed insistendo sulle pietre ruiniformi di Monte Tozzo. Nel 1777, venivano illustrate da An. Boxriori-Mavvezzi, !° le infiam- mabili emanazioni gassose dette , fuochi di Pietramala ,; tornava ad essere studiata ed illustrata la Barite di Paderno, da Zanotti, da G. Mar- caetmi, ©! è più diffusamente da CawiLLo GaLvani, °° il quale pubblicava nel 1780, un libretto , sulla pietra fosforica bolognese Ì s Tiassumendovi le cose da altri già esposte in proposito ed aggiungendovi alcune proprie osservazioni. Finchè, sul cominciare del secolo XIX, il celebre CamiLLo RANZANI, con solerti studj e con preziose raccolte, elevava nobilmente il grado della mineralogia e della paleontologia anche in questa regione d’ Italia, G. Ianazio Monia, °° inseriva il ragguaglio delle proprie osserva- zioni sulla fisica costituzione e sui prodotti della montagna bolognese, DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE o nel 4° Vol. degli opuscoli scientifici, nel 1813, confutando le opinioni che sieno inclusi in essa tesori di metalli e di sostanze preziose, e contradicendo, sulla base delle proprie dirette ricerche, le affermazioni false od esagerate del Masini, circa le cave di oro ed argento a poca distanza da Bologna. Cita poi, come primo scuopritore della miniera di Bisano il Conte M. Antonio ErcoLani, e nota come i poggiuoli rossi di Monte Paderno sieno ritenuti dal volgo quali inesauribili depositi di ricchezze metalliche e di tesori incantati. E registrando i var) minerali del Bolognese indica esistenti minerali di ferro a Castelluccio ed in altre località del circondario di Porretta; quelli di rame in alcuni giacimenti ofiolitici; i marmi che dice qua- dricolori di Bombiana, tricolori di Castel Nuovo di Labante, i brec- ciati, variegati, bigi, rossi, ecc., di altre località; menziona le belle Alabastriti dell'acquedotto romano , di Mario , al Sasso ece., i calcari ed i gessi così diffusi nel territorio, interessandosi alla formazione del gesso ed all’ origine dell’ acido solforico che vi sta combinato. Dopo di aver detto del solfato efflorescente , sale di glauber ,, delle piriti, del sal gemma, ferma l’ attenzione sull’ antichità delle in- dustrie ceramiche nel bolognese, attestata dai prodotti ceramici etruschi ecc. Nomina varii giacimenti di argille figuline, gli schisti ittiolitici dei colli di Guzzano, le novacoliti di Granaglione, di Bisano, di Monte Acuto; alcuni boli; la pietra fosforica di Monte Paderno e di altrove. Loda le cave di arenarie delle Varignane e del Sasso; ed indi- cando i Quarzi cristallizzati di Capugnano, di Vizzero, ecc., finisce coll’ annoverare i bitumi, i carboni fossili, e le acque minerali, citando come località petroleifere i colli di Bago, Monte Renzio, Grizzana, Monte Severo, Veggio, Stifonti e Sassonero, quest’ultima essendone, secondo Lui, feracissima. Conclude colla citazione di varie singolarità, fossili e minerali, OEtiti, belemniti, ceraunie, petrificazioni, legni sili- cizzati, scheletri giganteschi; la voragine del Dragone di Sassuno, la fontana fredda di Canà, presso Capugnano, e gli antri caldi di Lizzano. Giungesi così ai tempi nei quali, con singolare zelo e con mira- bile accuratezza di osservazioni si condussero molti importantissimi studj sulla costituzione geologica del territorio bolognese, sulle più rimarchevoli roccie che vi si coordinano, sulle molte emersioni di ser- pentine che vi si avverarono, sulle deiezioni delle argille scagliose, sulla storia naturale dei terreni ardenti che qua e là vi si riscontrano, e sopra numerosi fatti di metamorfismi e di sollevamenti. 2 LUIGI BOMBICCI Questo, per 1’ opera precipua e commendevolissima dei Professori D. Sanracara e G. G. Branconi, autori delle molte Memorie che regi- striamo per ordine cronologico nella nota bibliografica seguente, e delle quali teniamo conto nelle descrizioni delle varie sostanze minerali del territorio, e della relativa collezione nel Museo nostro Universitario. Ci limitiamo perciò, adesso, a confermare che mentre, fino dal 1824, il Prof. Antonio Santagata, “ padre del Prof. Domenico, attuale titolare della cattedra universitaria di chimica inorganica, aveva van- taggiato la mineralogia e la geologia locale coll’ analisi dell’ areolite di Renazzo, colla escursione mineralogico-chimica al Monte della Rocca, collo studio della terra interposta ai cristalli di gesso,” e del bitume che accompagna i cristalli di solfo, nel cesenate; °° colla illustrazione tecnologica della terra di Monte Armato, ** e coll’ analisi dei sali efflore- scenti nelle argille scagliose di Paderno e di Bisano, ‘ il Prof. Dome- nico °* aveva fino dal 1838, cominciato a scrivere sulle nostre serpentine, sui metamorfismi del calcare compatto nel Bolognese, © sulle formazioni dei gessi e dello solfo di Perticara,” dell’ origine delle argille scagliose; ‘ e nel 1857, pubblicava, insieme al padre suo, uno studio sulle ligniti del bolognese ‘° corredato di alcune analisi chimiche. Successivamente riferiva intorno alla roccia puddingoide di Carpineta e della Serra dei Frascari, ‘° e suoi cristalli di gesso nelle argille; ‘ nel 1861, dava in luce una relazione sul gabinetto geologico del Bolognese, ‘ e nel 1867, leg- geva in questo nostro Consesso Accademico una Memoria coll’ intento » di esporre insieme le antiche (sue) opinioni, in confronto di quelle s Nutrite oggigiorno, facendone ancora la debita critica e la ragione- Vol difesa pago In questa Memoria, il chiarissimo Autore ricorda l’idea fonda- mentale che trent’ anni avanti dominava il di lui sistema geologico, vale a dire che le serpentine del Bolognese erano tutte di origine ignea, eruttiva, formate per via di fusione, e sospinte allo stato pastoso, at- traverso i terreni sedimentarj del calcare compatto e del macigno eoce- nico; e che poteva attribuirsi alla pastosità e fusione delle medesime serpentine, l’ apparenza di stratificazione, e di divisione poliedrica che in queste roccie si osservano. Ricorda pure come ritenesse nelle ubi- cazioni di Pietramala e Monte Beni (alto Appennino) il massimo cratere di sollevamento. E venendo a dire delle argille scagliose, con- ferma nella Memoria di cui è parola, ciò che i lunghi suoi studj in questa roccia lo avevano condotto a stabilire, che cioè 1’ argilla sca- DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 15) gliosa è il risultato del mutarsi del calcare compatto, del macigno e del conglomerato ofiolitico in argilla, in analogia delle conclusioni già portate in altre precedenti comunicazioni. Dopo di che conclude per l’ origine essenzialmente metamorfica delle roccie serpentinose. Al Prof. G. G. Bianconi °° © deve la scienza un classico e lodatissi- mo lavoro sui fenomeni operati dal gas idrogene, dove comprendesi la storia naturale dei terreni ardenti, dei vulcani fangosi, delle sor- genti infiammabili, dei pozzi idropirici, ecc., con ampia descrizione delle argille scagliose del nostro terreno, dopo un importante cenno sulla costituzione geologica dell’ appennino, e col corredo di un erudi- tissimo riassunto storico, relativo a siffatti argomenti. Nei ., Cenni storici, sugli studj paleontologici e geologici in Bo- logna °° ,, inserisce un Catalogo ragionato della collezione geognostica dell’ appennino bolognese, che nei suoi 7 gruppi, disposti per ordine cronologico, dai più ai meno recenti, offre la serie delle principali for- me litologiche state raccolte nelle più instruttive ubicazioni. Nelle , escursioni geologiche e mineralogiche nel territorio por- rettano ,, effettuate unitamente al proprio figlio, Dott. Anronio Brax- coni, ‘’ lo stesso chiarissimo Professore descrive accuratamente e con grande chiarezza, il terreno ardente del Sasso-Cardo, i bei prodotti geyseriani della Ca-di-Bettmo, le Eufotidi ed i Serpentini del Castel- luccio, con i rispettivi fenomeni di sollevamento, e le argille scagliose, con i concomitanti fenomeni di metamorfismo di Rio Maggiore, presso Porretta. Accennati i prodotti magnesiani della Castellina, espone le interessanti particolarità stratigrafiche e litologiche del macigno del monte Granaglione, concludendo colla illustrazione scientifica delle Terme di Porretta. Dal Dott. A. Bianconi sono annoverati i caratteri mine- ralogici della Pirite, della Baritina e dei cristalli di Quarzo dei con- torni porrettani; del quarzo, del Brunispato e della Steatite, di Lizzo; delle bellissime Calciti e Dolomiti di Porretta e vicinanze, come pure delle Aragoniti, dei Diaspri, delle Calcedonie, di questa stessa ubica- zione. Annovera il Diallagio, il feldispato di Castelluccio, e le princi- pali roccie che nel territorio porrettano si offrono più importanti per sviluppo, per modo di origine, e per particolari caratteri. Il Prof. Firipro Scmiassi, ©” leggeva all’ accademia nostra, nel 1840, un discorso sulla Malachite. Il Prof. G. Searzi, #* #* analizzava nel 1846 uno degli Aeroliti caduti a Monte Milone (Macerata), nel 1846, corredando 1’ esposiziono TOMO IV. 10 14 BUIGI BOMBICCI del processo analitico con alcune considerazioni sulie varie teoriche sulla formazione delle meteoriti, discutendo il soggetto, e propugnando l’ origine cosmica di queste materie fenomenali. E nel 1855, esponeva alla Accademia un , pensiero sulla petrificazione del legno ,, in cui, riferendo molte diverse opinioni sulla petrificazione, attribuisce questo fatto alla lenta scomposizione del legno sott’ acqua, da principio con l’intervento dell’aria, successivamente senz’ altra influenza, tranne quelle dell’ acido carbonico che svolgendosi durante la decomposizione agisce sui carbonati e sui silicati che costituiscono il limo circostante. Veniva intanto alla luce, nel decorrere del 1845, la Memoria di CLopovro Biaci °°, intitolata , Alcune osservazioni geognostiche sul- l’ Appennino Bolognese ecc. ,, dove, in seguito alla descrizione delle pittoresche località che da oltre Porretta gradatamente salgono all’ al- tissima valle del Baggioiedo ed al crinale della catena, donde scor- gonsi le Alpi, i due mari ed il panorama Toscano, entra a dire della costituzione litologica dell’ Appennino, discutendo la rispettiva posi- zione delle arenarie ivi dominanti e delle serpentine. Nota, poscia, le apparenze di orizzontalità delle stratificazioni, realmente oblique, presso il Corno-alle-Scale, e sul confine modenese; considera alcune quistioni della , Meccanica dei sollevamenti ,j; e parlando, infine, delle più mi- nute particolarità, cita i cristallini di quarzo delle arenarie, ammetten- done acquea la formazione; rileva la presenza delle fresche, limpide e copiose fontane nelle alte regioni della montagna; e riportando talune opinioni sulla Joro origine tende ad escludere la teoria dei serbato] sotterranei, propugnata dallo Spallanzani, propendendo per le perenni filtrazioni delle acque nelle roccie permeabili delle vette appennine, che per nove mesi dell’ anno son coperte di nevi, e che son sempre bagnate dalle pioggie od umettate dalle nebbie e dai vapori. Conclude con un cenno sul lago Scaffaiolo. Nel 1853 comparve, per opera dell’ egregio geologo G. ScaraBanti Gowmmi Fram, # la prima e pur pregevolissima carta geologica della provincia bolognese, ad illustrazione della quale dottamente si discutono varii argomenti della locale geognosia. Ed anche adesso, gli studi di questo illustre scienziato si aggiungono a quelli che il Prof. Capellini va proseguendo con mirabile successo, ed avvalorando con belle sco- perte e con sapienti osservazioni le vedute fondamentali sulla cronologia di queste formazioni terziarie e sub-apennine. Dell’ idrologia minerale della provincia nostra scrisse dottamente DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 75 il Prof. P. Gawserini, ‘° nel suo ., Manuale teorico pratico d’ idrologia minerale medica dello stato romano ,, dove le prime 40 pag. della seconda parte sono consacrate alle acque minerali della provincia di Bologna, riportandovisi le analisi, discutendosene le proprietà fisico- chimiche e terapeutiche ed indicandosene i metodi curativi. In appresso il Dott. PaoLo PrepirrI ?* © scrisse due interessanti Memorie sulla , Statistica medica delle acque minerali della provincia di Bologna ,, dopo di aver pubblicata una , Relazione sulle acque pota- bili della provincia medesima ,, nella qual relazione molto opportu- namente sì considerano le condizioni geognosiche e climatologiche del territorio bolognese ed i gravi danni anche quivi occasionati dal di- sastroso diboscamento della montagna. Recentissima e pregiata pubblicazione è la ,, Carta geologica dei contorni di Bologna, ecc. ,, colla quale il chiarissimo Prof. Grovanmi Capennini °° ha viemaggiormente arricchito la già splendida serie dei suoi importanti e ricercatissimi lavori di geologia stratigrafica e di paleontologia. Allo scrivente, infine, toccò in sorte di riconoscere fra i minerali e fra le roccie del bolognese alcune varietà dotate di rare ed eccezio- nali condizioni; donde, aleune Memorie sui Quarzi aeroidri di Porretta, suli’ Analcime e sulla Millerite delle nostre Eufotidi, sulla bella Oligo- clasite del Monte Cavaloro, sull’ Ambra di Scanello, e di S. Clemente, e sulle distintissime Calciti primitive dei contorni di Porretta. Se cotanto nobilmente costituita ci si offre la storia della geologia della paleontologia e della mineralogia generale del Bolognese, sopratutto dal punto di vista esclusivamente scientifico, pressochè nulla troviamo di notevole per la storia della mineralogia applicata, tecnica, industriale, della nominata provincia. La quasi completa mancanza di produttive miniere metallifere; la comunanza con le contigue provincie dei mate- riali edilizi ed ornamentali, subordinati alle formazioni stratificate del- I Appennino ed alle emersioni serpentinose ; il carattere delle costru- zioni e delle decorazioni architettoniche precedenti a questo ultimo decennio, verosimilmente influirono sulla limitatissima produzione delle pietre da edificare e da decorare, delle calci e dei cementi; e non de- terminarono alcun lavoro di relativa statistica, alcuna notizia mono- grafica, alcuna esposizione locale, cui valga la pena di citare, non che di descrivere. meo (6 LUIGI BOMBICCI L’ illustre geologo Scarabelli, descrivendo la carta geologica del Bolognese, da esso pubblicata, accenna rapidamente i principali mate- riali litologici utili di questa provincia, gesso, macigno, molassa, calcare alberese e sabbie, pur rilevando il limitatissimo sviluppo che in allora vi avevano le industrie estrattive montanistiche, ed incitando alle effi- caci ricerche delle ligniti, delle serpentine, ed alla perforazione dei pozzi artesiani. Sta pure in fatto, che nella Esposizione industriale ed artistica della provincia, tenutasi a Bologna nel 1856, la Società Mineralogica Bolognese, e per essa il Cav. E. Loup, presentava saggi delle miniere di rame, in Bisano ed in Sassonero; che il Prof. Cav. Giuseppe Bian- coni esibiva la collezione dei saggi geologici rappresentanti le forma- zioni e le roccie del Bolognese, ed il Prof. D. Santagata esponeva la collezione delle ligniti di cui si faceva allora commercio, e quella dei minerali che Egli definisce , singolari ,, della provincia; ma il significato dominante di tali raccolte, il prevalente intento cui doveva mirarsi nel -comporle, erano di indole scientifica, tranne, se vuolsi, ciò che concerne i minerali dei due citati giacimenti ramiferi. Devesi pure al Sig. Ing. L. Francescani # una pregevole memoria sui dati statistici del bacino del torrente Samoggia; l’ argomento, pe- raltro, dei materiali da costruzione, delle pietre e delle fornaci da calce e da laterizi, vi è come interposto agli altri molteplici presi ad esame in quell’ interessante lavoro; d’ altronde, le indicazioni e le cifre spettano ad un tratto assai limitato del nostro territorio. Ultimamente poi, il Prof. ApoLro Casati, °° conduceva l’analisi di alcuni terreni del Bolognese, pubblicandone i risultati in un opuscoletto edito in Bologna nel corrente 1873. Nasceva da siffatta condizione di cose la conseguenza che, tanto la collezione normale dei materiali edilizii e decorativi della provincia di Bologna, quanto la relativa descrizione e la statistica relativa, erano fin qui da iniziarsi; a ciò subordinandosi un lavoro nuovissimo e per così dire originale. Sembra perciò che debba essere bastevolmente giu- stificato il carattere, quasi provvisorio, della collezione da questa Giunta provinciale trasmessa nel decorso mese di aprile a Roma per Vienna, dei materiali suddetti, ed il ritardo ulteriore di una completa illustra- zione della mineralogia e litologia di questa stessa provincia, corre- data di tutti quei dati statistici che debbonsi registrare intorno ai più cospicui prodotti litoidei. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE ATA Giova di notare, eziandio, in proposito, che certe difficoltà strane ed inaspettate, sorsero talvolta a contrariare, e perfino a deludere, l’ in- tento di chi ricercava notizie sulla produzione di taluna cava, o di taluna secondaria fabbrica di laterizi o di cementi; per es. il dubbio che le ricerche avessero il fine recondito ed insidioso di nuove gra- vezze d’ imposte, o di qualche maniera di concorrenza sfavorevole. Oltracciò, la produzione delle cave minori, e delle fabbriche più limitate, avvenendo bene spesso interrottamente, dietro richiesta, ed in proporzione della medesima; in generale procedendo a conto di lavo- ranti cui vien data in affitto l’ azienda, e cui poco preme di tenere esatto registro delle variabilissime partite rispettive, così fa d’ uopo rassegnarsi tuttavia ad indicazioni puramente approssimative, e di ca- rattere veramente precario. —)—- 78 Epoche 1725 1746 1748 1645 1757 1762 5 | Ghedini Antonio. LUIGI BOMBICCI NOTA BIBLIOGRAFICA DEGLI AUTORI I QUALI SCRISSERO, PIÙ G MEN DIFFUSAMENTE, SUI MINERALI DEL BOLOGNESE E CHE VENGONO CITATI IN QUESTA MEMORIA. delle Edizioni Licetus Fortunius . Poterius Petrus . . Ambrosinus Barth. Montalbanus Ovid. Masini Ant. Paolo. Cellio Marcantonio Boccone D. Paolo. Mentzelio Marsigli Ferdinando | Galeazzi Gusmano Zanotti Franc. M.* Beccari Bartholom. . Monti Giuseppe . . i Monti Gaetano Bassi Ferdinando | Vogli Giacinto. . . Litheosphorus, sive de lapide bononien- | sis ete. Utini. (280 pag. in 8°). Pharmacopea spagirica ete. (citazioni | interposte ad altri trattati) Musaeum metallicum (Ulyssi Aldro- | vandi), in libros III., distributum. Bononiae, Typis Joh. Bapt. Ferronii (citat varie nei numerosi suoi scrit- | ti). Bon. Bologna perlustrata (a pag. 179-182 | de Vol): Il fosforo, ovvero la pietra bolognese | Roma. | Osservaz. Naturali { 400 pag. in 16°) | | Bologna. Citaz. in Acta Acad. Curios. naturae | i Ann. V. VI. Norimberga. Del fosforo minerale. Dissert. epistol. | con oltre 20 incis. nel testo (62 | pag. in 4°). .| Mem. nei Comm. dell’ Accad. Bol.| pag M2 fece: Iter Bononia ad Alpes S. Pellegrini | eee! Comm lnst Bono | Della pietra fosfor. di Monte Paderno. | Comm. Acad. Bon. T. I | De quamplurimis phosphoris ete. De chrystallo montano. Comm. Acad. | Bons bd . | De testaceis quibusdam achate plenis. | Comm. Accad. Bon. T. II. p. 285. .|De porrectanarum acquarum accensi- | bili vapore. Comm. Acad. Bonon. | RIVE Npaz: 72/906 Del fosforo bolognese. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 79 Epoche delle Edizioni 18| 1767 | Biancani Giacomo . | Iter per montana quadam agri bonon. { i loca. Comm. Inst. Bonon. T. V.| pag. (151 e 159. i 19| 1777 | Bonfioli-Malvezzi A.{ Intorno ai fuochi di Pietramala. l 20|1780| Galvani Camillo. .|Sulla Pietra fosforica del Bolognese. | Bologna (circa 90 pag. in 8° piccolo). È 21| 1791 | Marchetti Giovanni | De phosphoris quibusdam ac praes. de | O Bon. Comm. Inst. Bon. 'T. VII. p.289. | 22) 1813) Molina G. Ignazio | Osservaz. sulla costituz. fisica e sui | | | prodotti della montagna bolognese. | | Bologna, Opuscoli Scient. Vol. IV. Ì Ì i 23! 1836 | Santagata Antonio. | Iter ad Montem vulgo , Della rocca , 4 | Novi Comm. Acad. Bonon. T- II | pag. 371. ecc. 24/1838 | Santagata Domenico | Osservazioni geolog. intorno alle roccie | | | | | serpentinose dal Bolognese ed al ter- | I reno che le contiene. N. Annali delle | | | Sc. Nat.SerieI.(T.I. pag. 48. T.IL|} | O pag. 81, 266. T. III. pag. 81, 190).| 25/1840 | Bianconi Giuseppe. | Storia naturale dei terreni ardenti, ecc. | i Bolog. (215 pag. in 8° con 2 tav.). | 20 Idem | Prospectus d’une collection des roches f | i des appennines ecc. Bologna. N.| Î (RAM SeAeNat vAmnop Wil tTSRVva i! 20), |Schiassi Filippo . .| De Malachita. Novi Comm. Acad.| MieBononi IV. pag: LT. | 28/1842 | Bianconi Giuseppe . | Tentamen disposit. systematicae lapi- | | dum etc. Mem. Acad. Bon. (pat) 29|1845 | Biagi Clodoveo . .| Alcune osserv. geogn. sugli Ap penn. | Bolog. ec. N.Ann. Sc. nat. Ser. II. T.3 | 30|1845 | Santagata Antonio | De bitume sulphurifero. Novi Comm. | AVID paso: 1543. i » |Santagata Domenico | Dei gessi della formazione dello zolfo | di Perticara ecc. i » |Sgarzi Gaetano . .|Sulla torba di Longastrino. 33 | 1848 | Santagata Domenico | Dei metamorfismi del calcare compatto | | nel Bolognese. Mem. Accad. Bol., RSS ((200/pasd). i si 1849 | Santagata Antonio | Della pietra del Monte Armato nella | | provincia bolognese. Gamberini Pietro .| Idrologia minerale, medica dello stato | | romano. Bolog. (284 pag. 8° piccolo). | S| Du 1850 4 80 LUIGI BOMBICCI &poche delle Edizioni 1850 | Sgarzi Gaetano . .|Intorno ad alcune ligniti del Bolog. 1852 | Bianconi Giuseppe |Per l’ apertura del nuovo Museo di Storia naturale in Bologna. Discorso pronunziato il 2 Luglio 1852. 1853 | Scarabelli Giuseppe | Carta geologica della provincia di Bo- logna ecc. Imola. (pag. 26 di testo e Carta geol. al 300 m.). 1854 | Santagata Antonio |Della terra interposta ai cristalli di gesso. Mem. Accad. Bol. T. VI. Serie I. pag. 113. 1855 Idem Dei sali efflorescenti nelle argille di Bisano e di Paderno. Mem. Acecad. Bol. T. VI. Serie I. pag. 533. » | Santagata Domenico | Origine delle argille scagliose. Mem. Accad. Bol. T. VI. pag. 449. e seg. » |Sgarzi Gaetano . .|Analisi dell’Aerolite caduto a Monte Milone ( Macerata nel 1846). Mem. | Accad. Bol. T. VI. Serie I. pag. 89. P Idem | Pensiero sulla petrificazione del legno | Mem. Accad. Bol. T. VI. Serie I | pag. 475. 1856 | Franceschini Luigi | Dati statistici sul bacino della Samog- gia. Mem. Soc. Agr. Bologna. 1857 | Santagata Antonio e Domenico . . .| Dei carboni e legni fossili del Bolog. Mem. Accad. delle Sc. Bol. pag. 385. 1859 | Santagata Domenico | Studio geol. sul puddingo di Carpi- neta ecc. 1860 Idem Dei cristalli di gesso, nelle argille del | Bolognese. Mem. Accad. Bol. p. 55. 1861 | Idem Il gabinetto mineralogico e geologico i del Bolognese. 1862 | Capellini Giovanni | Geologia e Peleontologia del Bolog. 1 Bolog. 1862. (prelez. pag. 27 in 8°). » |Bianconi Giuseppe |Cenni storici sugli stud} paleontol. e geolog. in Bologna, e catalogo ra- zion. della collez. geogr. dell’ apenn. Bol. Atti Soc. Scienze Nat. Milano 1862. (30 pag.). » |Capellini Giovanni |Sulconglomerato a ciottoli improntati. Resoc. Atti Accad Bol. 1862-63. 2' 1864 | Scarabelli Giuseppe | Sui gessi di una parte del versante DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 81 Epoche delle Edizioni N-E. dell’apennino. Lettera al Prof. | Santagata. Imola. (opuscolo in 8°). 53|1866|Stoppani Antonio .|I petrolii in Italia (a pag. 76....80, | del petrolio nel Bolognese e nel-| 1’ Imolese). Milano. i 54| » |Predieri Paolo. . .| Delle acque potabili nella prov. di| Bologna. (Relaz.) Bol. 1866. 32 pag. { 55|1867| Bianconi Giuseppe |Intorno al giacimento delle Fuciti, e | sulle origini del calcare eocenico. Atti | Soc. Ital. di Scienz. natur. Vol. X. | 56| » |SantagataDomenico Idee geologiche, intorno alle roccie | serpentinose del Bolognese. Mem. | Accad. Bol. T. VII. Serie. II. p. 14.1 57| ,» |Bianconi Giuseppe e Dott. Antonio .| Escursioni geologiche e mineralogiche. | nel territorio Porrettano. Bologna. | 58| 1868 | Bombicci Luigi . .| Notizie intorno ad alcuni minerali | ital. (... Baritocelestina... Dolomite... | | Brunispato... Caolino). Atti Soc. Ital. { di Scienze natur. Milano. DINT Idem Sulla Oligoclasite di Monte Cavaloro. | | ( Riola) ecc. Mem. Acc. Bol. T. VIII. | 60| 1869! Capellini Giovanni | Pesci e insetti fossili nella formazione | | | gessosa del Bolognese. Gazz. Emilia 4 | Maggio 1869. 61| , | Bianconi Giuseppe |Osservazioni sopra i gessi di Monte $ Donato e sopra i loro fossili. Bol. | 14 pag. in 8°. i 62| ,» |Predieri Paolo. . . | Statistica medica delle acque minerali della provincia di Bologna. Mem. 2. pag ioeiat88 63] » |Bombicci Luigi . .| Notizie di mineralogia italiana ( Quart | zo aeroidro, analcime ecc.)Mem. Acc. | Bolt nine : 64|1871 Idem Studi sul minerali del Bolognese. (Mil. | lerite, Petrolio, Ambra, Calcite ecc.) | Mem. Acc. Bol. T.I. Ser. 3° pag.167.| » |Capellini Giovanni | Carte géologique des environs de Bo-/ logne ec. Pour les membres du V| Congrés international d’ Anthropo- { logie et d’ Archeol. préhistoriques | ec. Bol. 1871. (12100, 000). TOMO IV. dl 65 I 66 | 1873 0: 859 ;1870|/ LE SPECIE MINERALI NOTE, DEL BOLOGNESE, PER ORDINE ALFABETICO | Agata. i Alabastrite. ( Alabastro gessoso. i Albite. i Allofane. i Almandino. i Ambra. i Amfibolo. i Amianto. i Analcime. j Aragonite. | Argilla. i Asbesto. i Baritina. i Barito-celestina. i Bitume. i Bronzite. Brunispato. Calcare. Calcedonio. Calcite. Calcopirite. Calcosina. Caolino. Caporcianite. Carbonato di Soda. Clorite. Cloruro di Sodio. Corniola. { delle Edizioni 65 |.1872 | Capellini Giovanni i Casali Adolfo . LUIGI BowmBICcCI | i Bisano. Sulle roccie serpentinose del Bolo- gnese e in particolare di quelle dei dintorni Accad. Bol. Dicembre 1872. Analisi meccanica e chimica di alcuni Resoc. Mem. terreni del Bolognese Bol. 1873. Me Rapporti alla Soc. mineralogica del Bolognese, sui lavori ecc. nella mi- niera di Bisano ece. Crisocolla. Crisotilo. Datolite. Diallagio. Diaspro. Dolomite. Epidoto. Erubescite Gabbro rosso. Gesso. Giada. Granato. Ipersteno. Labradorite. Legno silicizzato. Lignite. Limonite. Magnetite. Magnetopirite. Manganite. Marcasita. Mesitina. Mica. Millerite. Mispichel. Muscovite. Nafta. Ocra. Oligisto. |ì Olivina. Ortose. Petrolio. Petunzòè. Pirite. Pirosseno. Prehnite. Quarzo. Rame nativo. i Rame carbonato. Salmare. Sardonica. Sausurrite. DSavite. Selce (Resinite). Selenite. Semiopale. Septaria. Sericolite. Serpentino. Siderose. Sismondina. Solfato di soda. Solfo nativo. Steatite. Succinite. ‘T'alco. Thénardite. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 83 DESCRIZIONE DEI MINERALI METALLIFERI _— CATALOGO DELLA RELATIVA SEZIONE NELLA COLLEZIONE DEL MUSEO La sola miniera metallifera di cui attivossi fin ora la coltivazione nella provincia nostra, è quella ramifera situata nel comune di Loiano e precisamente presso il paesetto di Bisano sul torrente Idice; vedremo peraltro, che sonovi altre ubicazioni nelle quali le roccie di emersio- ne si rivelano compenetrate di solfuri metallici, particolarmente di ferro e di rame. Come nella vicina Toscana, quì nel Bolognese il principal giaci- mento dei minerali di rame stà in quelle roccie di emersione che si dissero serpentinose, perchè il silicato idrato di magnesia, detto Ser- pentino, ne è il principale componente. Queste roccie non sono costan- temente metallifere; ma nel Bolognese, come in Toscana, contengono bene spesso i solfuri di rame e di ferro, più raramente, e quasi come accessorio, il rame allo stato nativo. È noto che fino dal 1848, costituivasi in Bologna una società detta ,, Mineralogica Bolognese ,, la quale, sul cadere del 1855, eri- gevasi coltivatrice delle miniere ramifere di Sassonero, nel comune di Villa, sul Sillaro, miniere subordinate alle emersioni delle Dioriti, dei Gabbri, ed alle roccie ofiolitiche ricche di minerali di rame; e di Bi- sano, sul torrente Idice, dove copia di massi serpentinosi vedesi sor- gere dall’ ampia formazione circostante delle argille scagliose. Le ricerche attivate per conto di questa società posero in vista altri giacimenti ramiferi, oltre i due menzionati; quelli cioè della Fe- narina, circa un chilometro e mezzo sopra Bisano, con ofioliti ed ofi- silici, impregnate di solfuri di ferro e di rame e colorate in verde dal rame carbonato; delle Pianelle presso Cà-di-Perla, a quattro chi- lometri circa, in linea retta, da Bisano, con un masso di serpentina non diallagica, intersecato da reticolature di Asbesto, e attraversato da un filone di serpentina metallifera, ricca di bellissima Calcopirite ; e delle Fontanelle, o di Sasso-Gurlino, con varj massi di roccia ofioli- tica, con numerose varietà di serpentino, con abbondanza di Calcopi- rite nell’ oficalce e nell’ ofisilice, con colorazioni di carbonato di rame, e con frequenti lamine e rilegature di rame nativo. 84 LUIGI BOMBICCI Di questi quattro giacimenti si tralasciò definitivamente la colti- vazione. 1 rapporti che intorno all’ andamento dei lavori della singolare miniera di Bisano vennero successivamente redatti dall’ illustre direttore geologo della medesima, il chiarissimo Professore Cav. Meneghini, nel 1853, 1858, 1866, 1868, 1870 ‘, ne compongono una ben decorosa istoria, dimostrando come nella direzione dei lavori, si facesse tesoro d’ogni dato di scienza, di ogni risultato delle più solerti investiga- zioni, e come, malgrado lunghi anni di poco produttive ricerche, di lavori dispendiosi, e profondi oltre 300 metri, la benemerita società abbia persistito sempre, costante e coraggiosa, nell’ impresa già tanto lusin- ghiera, eppure arrestata oggidì, quando speravasi giunta alla vigilia di un evento felice. | Nè mancarono, di tratto in tratto, 1 più efficaci incoraggiamenti, e i dati per ammettere la possibilità, nella miniera di Bisano, di un ricco deposito di minerale di rame. Questo vi si trova in blocchi che si suppongono diffusi in una dica serpentinosa detta di seconda eru- zione; ed uno di tali blocchi, veramente colossale, dell’ ingente peso di circa 39 tonnellate, composto di ottima Erubescite, o rame pavo- nazzo, erasi trovato insieme a vaste accumulazioni di altro minerale . eccellente, nella regione intermedia al secondo ed al terzo piano della miniera stessa. Fra il terzo ed il quarto piano, se ne erano incontrati altri due noccioli, uno del peso di 1200 chilogrammi, l’ altro di 114; noccioli minori, di sempre ottimo minerale apparivano dal 5° al 6° piano; e nell’ ottavo, per una lunghezza di circa 16 metri, trovossi la serpentina riccamente impregnata di Erubescite e di Calcopirite. Alcune diecine di tonnellate del minerale di Bisano e di Sassonero, poterono fino dal 1858 spedirsi a Liverpool; di più, le condizioni della miniera, e del minerale relativo, sono state sempre generalmente fa- vorevoli. I minerali utili che si raccolsero nella miniera di Bisano sono il rame pavonazzo o Erubescite; il rame giallo o Calcopirite; il rame grigio o Calcosina; in oltre, tenui rivestimenti o compenetrazioni di rame carbonato e di rame nativo. Resterebbe forse a studiarsi questo interessante giacimento, sotto un punto di vista, diverso da quello fin ora adottato per la ricerca del minerale utile; quello cioè per riconoscere se la detta dica metal- lifera, # filone fin ad oggi infruttuosamente seguìto, invece di rappre- DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 85 sentare la via tenuta da un’ eruzione idroplutonica di materiali serpen- tinosi già includenti noccioli di rame solforato, rappresentasse piuttosto porzione dell’ area della prevalente concentrazione degli elementi me- tallici, già diffusi, come per infiltrazione, nella massa delle argille sca- gliose e delle serpentine; nel qual caso sarebbe opportuno l’ esplorare anche le zone dove si raccolsero altra volta cospicui saggi, sporadica- mente disseminati. Questo concetto, che non debbo adesso discutere, potrebbe avva- lorarsi con favorevoli argomenti, fra i quali la circostanza segnalata nel rapporto del 1870 dallo stesso chiarissimo Direttore geologo, che cioè » i due filoni serpentinoso-ramiferi corrono parallelamente alla direzio- » ne delle stratificazioni, sedimentarie, le quali, sebbene non sieno » manifeste nelle argille, s' appalesano nella forma e nella collocazione » dei massi calcari che vi sono interposti; e si rendono poi evidenti y peri piani nei quali le argille stesse si sfaldano nel rigonfiarsi (1) ,. L’ Erubescite di Sassonero e di Bisano è finamente granulare, spesso compenetrata da venuzze serpentinose, da particelle di calcare e di silice, ed alcuni nuclei di essa presentarono un miscuglio intimo colla Pirite, colla Calcopirite, colla Calcosina, ciò che accenna ad un graduato passaggio fra questi differenti composti minerali. Segue 1’ in- dicazione del titolo, o percentaggio, in rame di alcune varietà di Eru- bescite e di Calcopirite di Bisano e di Sassonero : (1) Non esito nell’ attribuire la presenza dei noccioli di rame solforato, anche nella celebre miniera di Monte Catini, presso Volterra, in Toscana, ad un fatto di concentrazione di particelle metallifere compiutosi nella stessa pasta argilloso-magnesifera, e steatitosa, della dica ivi coltivata. Concentrazioni di tal natura sono assai più frequenti nelle formazioni della crosta terrestre, ed assai più connesse con i fenomeni di metamorfismo e con gli stessi mutamenti orografici locali, di quello che non si sospettasse fin ora. I noccioli ramiferi, starebbero nel rispettivo giacimento loro, come quelli di Pirite, di Marcasita, di Baritina, di Aragonite, le Septarie ecc., stanno sporadicamente disseminati nella stessa formazione delle argille scagliose. Nelle Collezioni del Museo Universitario vedonsi noccioli ramiferi, sia di Bisano, sia di Montecatini, nei quali il minerale gradatamente diffondesi in par- ticelle nella ganga circostante, la quale, a sua volta, sembra compenetrare la massa metallifera che include. 86 LUIGI BOMBICCI LODO ra RI: i ZIE 16,60: c. Di Minerale di Sassonero 29,00: e. da, 17,,25.:\evs.iil JCalcopirite di Bisano (al3-Lbele.s. Erubescite di Bisano Calcopirite in noccioli, nel calcare silicifero 13,00 :% Un bel nocciolo di questa stessa Erubescite di Bisano, tuttora incastrato nella ganga argilloso-steatitosa, e pur posseduto dal Museo, offre una bella varietà compatta, paonazza, iridescente nella frattura, sce- vra di miscuglio meccanico apparente. La Calcosina, sottosolfuro di rame, è assai più rara e general- mente vi sì trova, come negli analoghi giacimenti, in intimo miscuglio colla Erubescite e colla Calcopirite. S' incontrano poi anche nella mi- niera di Bisano copiose varietà di roccie, quali per es. le Spiliti, le Eufotidi, le Ofiti, le Oficalci e le Ofisilici oltre le argille scagliose e le serpentine nelle cui concomitanti formazioni essa miniera va adden- trandosi con i dieci piani delle sue gallerie; avvi pure un assai copiosa serie di specie minerali, non di raro derivate dalle reciproche azioni di contatto, di metamorfismo e di dinamismi molecolari; per tal guisa, oltre i solfuri cupriferi sopra indicati, e la Pirite comune in compene- trazioni ed aggregati di cristalli, trovansi pure, quali componenti le masse ofiolitiche, il Serpentino, il Talco, la Steatite; si hanno nelle Eufotidi, il Diallagio, i feldispati Labradorite ed Oligoclasio, le petro- selci compatte, i Caolini, che derivano dalla scomposizione dei feldi- spati suddetti; si hanno pure il Quarzo, il Calcedonio, la Selce, nelle Ofisilici; lo spato Calcare e 1’ Aragonite in vene, nelle Oficalci; e come minerali accessorii, rinvengonsi eziandio la Datolite, della quale un bellissimo saggio venne raccolto dal Prof. Meneghini in uma galleria laterale alla Galleria Augusta, ed attualmente ostruita; la Savite aci- colare, intimamente associata ai silicati componenti una specie di Dia- rite verde, poco tenace e quasi granulare; finalmente, in efflorescenze sugli impasti argilloso-steatitosi, i solfati di soda e di magnesia; come esempio di azioni molecolari cristallogeniche attivatesi per entro le masse litoidee, blocchi di Ofite e di bellissima oficalce orbicolare, con graziosi rosoncini a sezione circolare ed a zone concentriche di diffe- rente colorazione. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 87 Oltre ai giacimenti ramiferi adesso indicati, altre località della provincia nostra offrono le traccie di minerali metallici più o men considerevoli dal lato della loro natura chimica, del loro sviluppo e e delle possibili loro applicazioni. Esperienza di secoli ed autorità di scientifiche osservazioni non bastarono per anco a distruggere quelle strane volgari tradizioni di vaste miniere nel seno delle circostanti montagne. Avidi intenti e su- perstiziosi giudizi fecero sperare, in antico, che ogni bizzarra montagna ed ogni roccia che fosse, o paresse, derivata da profonde azioni sot- terranee, celasse gelosamente un tesoro metallico. Cosa questa che soli- tamente ripetesi in quei paesi tutti dove la natura del suolo si presta a cotali concetti. E quì nel Bolognese riesce anche più agevole lo spiegarsi come talune persone, anche colte e di buon senso, volgano tuttodì il pensiero alle supposte miniere di oro e di argento nelle cir- costanti colline, ogniqualvolta conoscasi 1’ erronea indicazione che ne dà il già citato Masini, nella sua , Bologna perlustrata ecc. ,, nel seguente brano a pag. 179 del suo primo volume: ,..... fuori della » Sopradetta porta di S. Mamolo, ne’ monti circonvicini, et ancora in » Altri luoghi di questo contado si trovano miniere di ogni sorta di » metallo, cioè oro, argento, rame, ferro, et altro. Vero è che non » Si esercitano per le troppe spese che vi vorrebbono. Si cava dalle y Istorie che Giovanni Bentivogli aveva cominciato a far cavare molto » profittevolmente l’argento da un monte tre miglia lontano dalla città, » detto gli Arienti, dove ora hanno gli Paleotti un bellissimo palazzo, » fuori porta S. Stefano, ed in quei contorni si trova sale ammoniaco, » Marchesetta, ferro, antimonio, ed altri minerali, misti con terra, ecc. ,. A pag. 474, aggiunge ,... strada chiamata - Borgo dell’ Argento -, e » l'altra strada più vicina e più prossima alla città, - Borgo dell’ Oro -, » poichè nella prima si purificava 1’ oro che si cavava dalle miniere » del contado di Bologna ,. Notizie queste ricisamente rifiutate dal Molina, siccome abbiam detto nel cenno storico precedente, e dichia- rate prive di qualsiasi fondamento positivo. Certo è invece, che il bisolfuro di ferro si rinviene in copia nelle varie frazioni del territorio occupate dalle argille scagliose e dalle marne; questo minerale offre talvolta le forme isometriche della Pirite gialla o Pirite di ferro propriamente detta, talaltra le forme trimetri- che della Marcasita. Quando si raccoglie da terreni incoerenti, disgre- gati e sciolti, appunto come i citati, si trova in arnioni, in aggregati 88 LUIGI BOMBICCI sferoidali, ellissoidali, discoidi, calcitrapoidi, mammillonari, ece., con cristalli più o meno voluminosi, regolari ed appariscenti, quindi con infinita varietà di forme e di dimensioni. Bellissimi e splendidi esem- plari ne somministrano le argille scagliose di Paderno, di Monte Veglio, di Rio Oliveto presso Vezzano, dei Rii detti di Stiore e di Botti, di 5. Clemente sul Sillaro, dei contorni di Porretta, ecc., esemplari che raggiungono qualche volta il peso di più chilogrammi. Non se ne trae partito di sorta essendo minerale di ben tenue profitto, e troppo irre- golarmente sparso per poterne attivare una produttiva ricerca. È noto che le piriti dei grandiosi giacimenti italiani e stranieri si utilizzano per trasformarle, con facile torrefazione, in solfato di ferro o vetriolo verde; per ricavarne l’ acido solforico, e 1’ oro, alloraquando sieno aurifere. Negli strati del macigno, sia presso Monte Paderno e Monte Ve- glio, sia nei contorni di Porretta, ed in altre località, la Marcassita si distende in eleganti cristallizzazioni, rivestendo in parte la superficie degli strati medesimi; al Rio-Muro di Porretta impregna il calcare e le marne argilloso-silicifere, facendo passaggio dalle masse granulari e tubercolose, alle rilegature e reticolature che compenetrano il calcare marnoso bluastro, intrecciandovisi con minute cristallizzazioni, e rive- stendo gli strati con eleganti gruppetti di Pirite esaedra, giallo dorata e lucentissima. Nella stessa ubicazione raccolgonsi pure ed in copia gli arnioni isolati di marcassita, lasciati liberi dallo sfacelo della roccia che già ne era matrice. A Cà-di-Cardella, avvi un calcare talora co- piosamente compenetrato di marcassita amorfa, od in nucleetti fibroso- raggiati. Decomponendosi naturalmente sotto l’ influenza degli agenti atmo- sferici, la marcassita dà luogo a solfato di ferro ed ossido idrato di ferro, in forma di ocra gialla o di Limonite. Di questa epigenesi si ha bell’es. presso Bombiana, nelle vicinanze della Castellina e di Lizzo, e presso S. Clemente sul Sillaro. Avvertirò finalmente, sempre a proposito delle specie minerali metallifere, che nelle Dioriti variolitiche di Sasso Gurlino, sì trovarono belle lamine flessuose ed intrecciate, di rame nativo, e così nelle ser- pentine di Bombiana; che il rame carbonato idrato, forse silicifero, vedesi infiltrato bene spesso nelle roccie dei var) giacimenti cupriferi, come a Sasso Gurlino, a Bombiana, dove accompagna traccie di Cal- copirite, mentre ai Poggiuoli rossi di Monte Paderno, fossilizza ele- gantemente piccoli denti di Lamia. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 89 Il Mispichel e la Magnetite, in granuli e in particelle cristalline non di raro compenetrano certe Serpentine e certe Eufotidi, la Magne- tite offrendosi specialmente abbondevole in forma di reticolature e di noduletti nel masso della bellissima roccia detta Oligoclasite, che sorge presso il Monte Cavalloro, a Riola, e che viene più oltre descritta. La Pirite magnetica si associa alle piriti comuni ed alla Magne- tite, in analoghi giacimenti. Nelle oficalci e nelle petroselci di Bom- biana, si scoprì ultimamente il solfuro di nichel e di ferro, vale a dire la specie minerale denominata Millerite, che vi forma tenuissimi aghetti, intrecciati fra loro, in minimi gruppi, nella massa rocciosa, ovvero divergenti e liberi nelle piccole geodine e nelle fenditure della petroselce. Di questa Millerite, segnalata primamente dal Dott. A. Lo- renzini, assistente alla Cattedra di Mineralogia nella Università di Bologna, potei pubblicare un cenno descrittivo nel Tomo I. della Se- rie III. delle Memorie del nostro Istituto, insieme ad altre notizie monografiche di minerali bolognesi ®. I caratteri dipendenti dal colore, dalla lucentezza, dalla superficiale alterabilità e dalla sfaldatura, coincidono con quelli proprii della Mil- lerite, già raccolta in molti giacimenti della Beomia, della Sassonia e della N. America. Solo v’ induce un criterio di differenza la grande tenuità, ed il frequente isolamento degli aghetti di questa nostra di Bombiana. Si aggiungono alla Millerite, nelle indicate roccie della no- minata località, altri minerali, quali per es. le Mesitina in cristallini lenticolari; la Calcite in piccoli romboedri, ed i soliti silicati magne- siani componenti le comuni Eufotidi e Îe serpentine calcarifere. Moltissimi ciottoli di calcare alberese, quali le acque diveigono dallo smosso terreno delle argille, riducendoli nelle lavine e nell’ alveo dei torrenti e dei fiumi, si presentano avvolti da una crosta nera, compatta e lucente, di ossido idrato di Manganese, o Manganite. È notevole che questa crosta, producendo, sia un sottile intonaco, sia uno strato di considerevole spessore, suol dividersi normalmente alle superficie in poliedrini prismatici, quando sì contrae per disseccamento; talvolta nelle fratture penetra l’ ocra gialla di ferro che rilega i sin- goli poliedri, li addensa nella regione centrale ed altera il calcare preesistente. Ne risultano allora graziosi esemplari a superficie. nera, reticolata di giallo e di bruno, i quali dal modo di origine e di co- stituzione vengono evidentemente associati alla serie delle pietre geo- metriche e delle septarie, di cui è riccamente fornita la medesima for- TOMO IV. 12 90 LUIGI BOMBICCI mazione delle argille scagliose, dove quei ciottoli manganesiferi hanno il loro natural giacimento. È pure notevole 1’ esemplare N.° 75, bis. della collezione del Museo, il quale presenta un bell’ ellissoide di calcare a fucoidi, incro- stato di Manganese compatto, e tuttavia perforato da molluschi lito- domi. Si raccolse nelle argille scagliose di Tossignano sul Santerno. Catalogo della 1.° Sezione - MINERALI METALLIFERI Krubescite N.° 1. D.* in grosso esemplare, misto a particelle di Calcopirite, Cal- cosina e Rame carbonato (pesa chil. 18). Bisano sull’ Idice. 2. D.* in frammento di un bel nocciolo, rivestito di Steatite, con particelle di Calcopirite, e compenetrazioni di spato calcare. c. s. 3. D.® in massa compenetrata in parte da spato calcare, con traccie di Calcopirite, e parziale rivestimento steatitoso. c. s. 4. D.* compatta, in piccolo esemplarino lavorato a forma di semi-el- lissoide. c. s. Calcopirite 5. D.* in nocciolo quasi completo pesante chil. 4. Bisano c. s 6. D.* in nocciolo misto ad Erubescite, con rivestimento di rame car- bonato idrato, verde ed azzurro, prodottosi per alterazione. c. s. 7. D.* in frammenti di grosso nocciolo con struttura finamente granu- lare e quasi brecciforme. c. s. 8. D.* in massa brecciforme, con Erubescite e rivestimento parziale di argilla scagliosa. c. s. 9. D.* in aggregato di particelle cristalline nelle piccole geodi di Quar- zo, in nocciolo quarzoso steatitoso. c. s. 10. D.* in forma di concentrazioni in rocca ofisilicica. Pianelle presso Cò-di-perla ( Sillaro). 11. D.* in nocciolo incluso nel conglomerato ofiolitico c. s. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 91 12. D.* in compenetrazione nella ofisilice. Rio Maggiore Porretta. 13. D.* in particelle, con rame carbonato ed ocra gialla, nella ofisili- ce. Lizzo, versante di Limentra. Rame nativo 14. D.° in laminette sulla Diorite variolitica. Sasso Gurlino. Rame Carbonato idrato 15. In velature e particelle amorfe nell’ argilla frammentaria ecc. Mon- te dell’ oro, Bombiana. 16. D.° amorfo verde, concretato nelle cavità di una ofisilice, con Quarzo. Sparvo (?). 17.° Rame puro, metallico, in rotella lavorata al tornio, ottenuto dal minerale di Bisano. Marcasita 18, 19. D.* in concrezioni botrioidali di varia forma e grossezza, con rilievi annulari, o ad armille, con tubercoli o grumi cristallini, e con altre svariate e bizzarre disposizioni. Monte Paderno. 20, 21. D.* in gruppetti isolati, di cristalli aggregati e distinti. e. s. 22. D.* in massa concrezionata botroidale, con rilievi cristallini; tratta dalle argille scagliose. Monte Veglio. 23, 24. D.* in masse concrezionate, botrioidi a grandi tubercoli tondeg- gianti e armille concentriche; la struttura è finamente granulare; la pasta è quasi argillosa. Monte Veglio. 25. D.*° in grosso strato cristallino che riveste il calcare marnoso a venature spatiche, con superficie interrotta da assai ampie scre- polature (lavorato in parte a polimento). ce. s. 26. Concrezione stratiforme di Pirite, sulla marna schistoide. c. s. 27. D.* in concrezioni sferoidali botrioidi, cristalline. Porretta. 28. D.* in due gruppetti cristallini alterati per epigenia, sopra un ciottolo di Alberese. Porretta. 29. D.* argillifera, a grana fina, alterata, in concrezione stratiforme, con serpeggiamento di venuzze spatiche. Porretta. 30. D.* in minuta, ma assai nitida cristallizzazione, cubo ottaedrica, distesa in istrato interrotto da ampie screpolature originarie, so- 31. 32. 33. 34 35. 36. IT. 38. 39. 40. 41. 42 43 44. 45 46 47 48 49 92 LUIGI BOMBICCI pra una lastra di calcare marnoso, verdastro, con venuzze spa- tizzate. Porretta. D.* in assai più ampia e distinta cristallizzazione stratoide, sul cal- care marnoso, schistoso. c. s. D.* simile alla precedente, nell’ alberese compatto. c. s. D.* in concentrazioni di Pirite a sezione triangolare, sulla marna. Porretta. D.* in nuclei, nel calcare, con alveoli occupati da ocra gialla, prodottasi per decomposizione del solfuro di ferro. 0 fonti c. s. Pirite isometrica, in aggregato sferoidale di cristalli cubici. Monte Paderno. D.* in nucletti sferoidali nella marna. c. s. D.* in aggregati multipli di cristalli cubici, logorati parzialmente. c. s. D.* in concrezione cristallina elissoidale a superficie ineguale, tu- bercolosa. Dalle argille scagliose. c. s. D.*° in gruppetti irregolari, alterati ed isolati di cristalli. S. Cle- mente sul Sillaro. D.* in arnione sferoidale, a superficie irta di sporgenze cristalline cubo-ottaedriche. Rio della Berzantina, Porretta. D.° in gruppetti di cristalli lucenti, con forma cubica, in poliedri multipli e poco regolari, sopra una massa finamente granulare, argillifera. Porretta. . D.* in aggruppamento di piccoli cristalli, nitidi ed iridescenti, con la forma esaedrica prevalente. S. Martino di Montese. . D.* in eleganti gruppetti di cristalli esaedrici, lucenti e assai re- golari. Dalle argille scagliose. S. Martino di Montese. D.° che compenetra la ofisilice diasproide. Quercetelle, Casio-Castello. . D.* consimile alla precedente, nella ofisilice verde. Castellina. I.imonite .* D.* in piccoli nidi, o alveoli, derivata dalla decomposizione delle Piriti, nel calcare alberese. Porretta. . D.* concrezionata, amorfa. Monte dell’ oro, Bombiana. . D.* c. s. in piccole masse epigeniche, dalle argille scagliose. Castellina. . Calcare marnoso (alberese), perforato di alveoli sferoidali già indotti ed occupati dalla Marcassita in nucleetti di concrezione. Monte Paderno. 50. 51 n 55 n D9 SI 63, 66 67, 68. Si 69. 70. T: 72. {65 74. 75, DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 93 Limonite ocracea, in piccole masse geodiformi, frantumate; dalle concrezioni di Marcasita, nelle argille scagliose della Castellina. Millerite 52, 53, 54. Var. in minutissimi aghi nelle piccole geodine quar- zifere, nella Sausurrite bianca, compatta, con Dolomite ecc. Dalle oficalci cellulari, silicifere. Casale ( Bombiana). 56, 57, 58. Var. simile alla precedente annidata nelle geodine quarzose della parte dolomitica lamellare, che passa all’ oficalce. c.s. 60, 61, 62. Var. simile alla precedente, in piccoli nidi nella ofi- silice intersecata da filoncelli di Dolomite, con geodine quarzose. c. s. 64, 65. Var. in piccole druse di tenuissimi aghetti, irraggianti, nell’ oficalce diallagica, alterata. c. s. Manganite Manganite amorfa in massa. S. Martino di Montese. D.* terrosa, decomposta. c. s. D. in rivestimenti amorfi, neri, lucenti, dei ciottoli di alberese. tu- me Reno. D.® in rivestimento c. s., con nucleo centrale di ocra gialla. c. s. D.° in arnioni, di conformazione tabulare, neri, lucenti, con note- volissima tendenza a screpolarsi e suddividersi in poliedrini pseudo- regolari, quasi accennando ad una singolare specie di septarie, O pietre geometriche. c. s. Var. in arnioni di aspetto tabulare, angolosi, neri, lucenti alla superficie e completi di forma. c. s. Var. in piccoli arnioni e. s., di figura irregolarmente poliedrica, aventi nuclei di calcare alberese, aggregati in una specie di se- ptaria a rilegature dolomitiche giallognole, lamellari. c. s. D.° in forma di rilegature reticolate, a maglie poligone, sopra una specie di pietra geometrica a nucleo di alberese ed incrostata di limonite ocracea. Porretta. D.* che forma il rivestimento e le rilegature a sepimenti poligo- nali di una gleba poliedrica di ocra gialla. Pian di Casale. (6. D.* in istraterelli ed in nucleetti nell’ ocra gialla e bruna, in massa. c. s. 94 Î LUIGI BOMBICCI 17. D.* consimile. Serra de’ Frascari. 78. D.* in concrezioni, cilindroidi nere, lucenti, deformate. Porretta. 79. D.* in grosso arnione ellissoidale, perforato dai litodomi marini delle cui conchiglie restano le traccie in posto. Tossignano sul Santerno. 80. Ftanite manganesifera, con rivestimento steatitoso. Castellina. 81. Quarzo fibroso manganesifero. Porzione di un grosso arnione elis- soidale, a struttura fibroso-raggiata. Burgianella. 82. D.° c. s. (frammento). Serra della Querciola ( Belvedere). 83. D.° e. s. a struttura quasi bacillare. Serra de’ Frascari. 84. D.° Enorme arnione, completo, del peso di chil. 58, di forma quasi sferoidale con il maggiore diametro di 42 centimetri. c. s. IDROCARBURI E COMBUSTIBILI FOSSILI CATALOGO DELLA RELATIVA SEZIONE NELLA COLLEZIONE DEL MUSEO Attraversano il territorio bolognese due interessantissime zone, pressochè parallele fra loro, caratterizzate da azioni metamorfiche e da fenomeni idroplutonici e nel cui allineamento ebbero origine e svi- luppo due importanti sostanze minerali. Una di esse è la zona delle masse gessose, che viene più oltre descritta; | altra è la zona petro- leifera dell’ Emilia che dai confini del Piemonte e della Lombardia può segnalarsi fino al territorio d’ Imola, colla prevalente direzione ivi seguita dall’ Appennino, dal N. O. a S. E. I terreni più particolarmente interessati da questa zona sono le sterili argille e le marne. Essa quasi serpeggia lungo la serie delle prime elevazioni che gradatamente salgono all’ Appennino e tende ad espandersi con maggiore sviluppo volgendosi all’ Appennino medesimo verso Pietramala e Fiorenzuola, sul confine toscano, verso Pieve a Pe- lago su quel di Modena, comprendendo le celebri fontane ardenti di Sasso Storno e di Barigazzo. Accurate descrizioni, nonchè molte ed interessanti considerazioni scientifiche, sopra questa zona petroleifera, si possono riscontrare in quelle opere dei Prof. Bianconi e Stoppani che trattano appunto dei terreni ardenti e dei petroli in Italia (1). (1) Bianconi Storia naturale dei terreni ardenti ecc. Bologna 1840 25). DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 95 Il distinto geologo Emilio Stohr ha pubblicato nel 1866 una carta delle salse e delle località oleifere di Monte Zibio e di Nirano nel Modenese, colle indicazioni geologiche dei terreni nei quali si producono le salse medesime e si diffonde il petrolio. Dovendo qui limitare i cenni descrittivi al territorio bolognese av- vertiremo, sulla guida del Prof. Stoppani, come la zona petroleifera, alla quale si coordinano frequentissimi getti di gaz infiammabile, ed altre analoghe manifestazioni di una speciale vulcanicità, vada assotti- gliandosi ed impoverendosi all’ E. cioè verso il territorio di Bologna, raggiunto il quale con permanente parallelismo al grande asse dell’ ap- pennino protraesi da N. O. a S. E. passando per i comuni di Bazzano, Monterenzio, Castel S. Pietro, Bergullo e Riolo, mentre ,.... una zona » trasversale, parallela a quella del Panaro, sarebbe pur segnata dalle » Sorgenti gassose saline di S. Martino, dalle salse di Sassuno, dai » fuochi di Pietramala; forse un’ altra dai fuochi di Porretta (1) ,. Avverte giustamente il Prof. Stoppani che devesi al Prof. Bianconi la maggior parte delle notizie sui fatti che si vanno esponendo circa gl’ idrocarburi dell’ Italia centrale, e che nell’ eruditissimo libro , dei fenomeni geologici operati da gas idrogene ,, egli parla di , scoli di » petrolio nel bolognese, del bitume che si appalesa all’ odore nelle » argille scagliose, ed in una lettera del 10 Gennaio 1866, discorre » di lievissimi scoli di petrolio i quali accompagnarono le emanazioni > di gaz infiammabile nelle gallerie in attività di scavo per 1’ estra- zione di un minerale di rame ,. A Bazzano, all’ O. di Bologna sulla sinistra del torrente Samoggia, sono alcune sorgenti con gaz infiammabile. Risalendo la valle del Reno attraverso le ripetute manifestazioni delle argille scagliose si giunge a Porretta. In questo paesetto, ben conosciuto per le efficacissime sorgenti di acque termali e sulfuree, dalle quali pure svolgesi in copia il gas idrogeno carbonato, formò da secoli soggetto di meraviglia e di studio il così detto wulcanello. Consiste nello sprigionarsi del gas ora nominato, (mescolato, secondo il Prof. Bianconi, coll’ idrogeno puro e coll’ idro- geno solforato), dalle screpolature degli strati di macigno in diverse ubicazioni, comprese in una ristretta area di una diecina di metri alla così detta lastra bruciante (Bianconi, escurs. Porrett. v. bibl.), e sulla » (1) Sfoppanî 1 petroli iu Italia pag. 77. Milano i866. 96 LUIGI BOMBICOI sommità della rupe chiamata il Sasso-cardo, dal cui piede sgorgano appunto le sorgenti delle acque minerali sulfuree. Quando il gas vi è acceso dà luogo a tenui fiammelle di pochi decimetri di altezza appena visibili di giorno chiaro, cerulee e rossic- cie, ed in apparenza assai più luminose, durante 1’ oscurità della notte. Sembrano sorvolare, sul suolo; sono tranquille, poco rumorose, nè possiedono molto elevata temperatura; vi si può tuttavia fondere lo zinco, con molta facilità. Le pietre che vi si trovano in contatto subirono, poco a poco, le stesse alterazioni che loro deriverebbero da un semplice arroventa- mento; a breve distanza dall’ emanazione del gas, come pure a pochi centimetri di profondità, il suolo si mantiene illeso ed alla ordinaria temperatura. Si crede che il gas idrogeno carbonato di questo vulcanello sia lo stesso che trovasi in soluzione nelle acque termali delle sottostanti sorgenti; dice a questo proposito il Prof. Stoppani: , quella parte di y esso gas che trovasi più impigliata nella massa acquea con lei sgorga » ® piè della rupe; l’altra più libera, non sottomessa alle leggi idro- » Statiche, si leva in alto, impregna le crepature della rupe conver- » tita in gazometro, ed ascende ad alimentare quei fuochi le cui ori- » gini si perdono nel buio dei tempi ,. Giova notare che in questa parte dell’ Appennino, gli strati del macigno sono rialzati e condotti quasi alla verticalità, talmentechè si appoggiano, alla base del sistema, sulle argille scagliose, nelle cui più profonde latebre, verosimilmente si svolgono le azioni produttrici del gas, che in parte si scioglie nelle acque ivi circostanti. Una ben fatta ed accurata descrizione del vulcanello di Porretta può leggersi nell’ opuscolo del Dott. G. A. Bianconi , Escursioni ecc. nel territorio porrettano °. Procedendo da Porretta verso Castel S. Pietro, ripigliasi 1’ anda- mento della zona petroleifera. Risalendo l’ alveo del torrente Sillaro trovansi sorgenti minerali, emanazioni gassose, e secondo il Bianconi, particolarmente presso S. Martino in Pedriolo sul confine del bolognese e dell’ imolese e sempre nella bassa linea delle colline subappennine e nel Rio Servino alle radici opposte del monte stesso di Pedriolo. La salsa di Sassuno denominata < Dragone per l’ impeto, quasi diremmo il furore, con cui talvolta ha prodotte le proprie eruzioni, sì trova a circa dieci miglia da Castel S. Pietro, sulle colline della DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 9 sinistra sponda del Sillaro cui fiancheggiano, ivi, le marne bluastre conchiglifere e poco sopra altre colline di argille scagliose. Nello stato di quiete questa salsa offre una forma di monticello a Vertice pianeggiante, ma profondamente solcato, quasi per effetto di un sollevamento di quella superficie, composta di materie fangose più o meno consolidate. Torrenti di fango si vedono prodotti sui lati; nel mezzo dell’ area gorgogliano bolle assai voluminose di gas idrogeno carbonato, infiammabile. Sostanze bituminose accompagnano il gas, talché ogni bolla scoppiando nc lascia una traccia circolare sul terreno. Sulla riva destra del Sillaro in faccia al paesetto di S. Clemente, nel comune di Casal-Fiuminese, avvi una sorgente di petrolio detta delle tombe di Sassatello, indicata dal Bonfioli fino dal 1791. Siede sopra una collinetta, presso un ruscello influente nel Sillaro; vi si edificò all’ intorno una rozza celletta con sassi ammucchiati a secco, e consiste in un pozzuolo ingombro di melma argillosa. Questa melma cavata in parte lascia sgorgare acqua carica di olio minerale, e talvolta zampilli di petrolio puro. Siffatto petrolio è assai limpido di color giallo-verdastro dicroico, e molto scorrevole. Le argille circostanti al pozzuolo sono esse pure imbevute di petrolio, il cui odore emana dalle screpolature che vi serpeggiano. I fuochi delle Filigare, e di Pietramala, siedono sull’ alta cresta dell’ Appennino all’ Est di Conegliano, presso 1’ antica via che da Bo- logna conduce a Firenze. Ad una distanza minore di un chilometro dal paesello di Pietramala, sul pendìo del monte, avvi un’ area di poche tese sulla quale, come nel vulcanello porrettano, ondeggiano piccole fiamme, appena visibili di giorno, e solo da vicino, le quali di notte appariscono assai meglio visibili, di colore bluastro. Il terreno attraversato dal gas che genera queste fiammelle è sciolto, arido, leggiero, alquanto sassoso. Non è difficil cosa lo spegnere queste fiamme, sia con un forte soffio per le più piccole, sia con la sovraposizione di terra ben compressa per le maggiori; nel qual caso le altre aumentano di energia. Nel riaccendersi producono sempre una specie di esplosione. Proseguendo sempre verso S. E. troviamo a Bergullo ed a Riolo nell’ imolese le ultime manifestazioni della medesima zona petroicifera. Nulla frattanto dimostra che essa quivi realmente finisca; sembraci an- zi molto ragionevole l’idea espressa già dal Prof. Stoppani, nella sua opera sui petrolii d’ Italia, del continuarsi di essa medesima zona, na- D) TOMO 1V. (9) 98 LUIGI BOMBICCI scosta e latente, , lungo il grand’ asse dell’ appennino, per confondersi s in un solo sistema colle salse ed i petrolii degli Abruzzi, via via » spingendosi fino alle estreme propaggini dell’ Appennino ,. Dalle salse o bollitori di Bergullo svolgesi gas idrogeno carbonato, come dalle marne subappennine di Riolo. Devesi avvertire infine che le formazioni delle serpentine e delle argille scagliose, così vastamente sviluppate anche nel bolognese, offrono frequentissime traccie di idrocarburi gassosi e liquidi, i quali vi si dif- fondono e si rendono più specialmente avvertibili nelli scavi praticati entro le argille medesime, d’ altronde bene spesso corrispondenti alle cosidette argille petroleifere e salifere di altre località. Nella ,, Bologna perlustrata , del Masini, a pag. 182, vi è la citazione seguente: , fra il comune di Samoggia e quello di Tiola nel s bolognese, scorre un rio che sgorga nella Samoggia e parte da un » luogo chiamato Pradonone, lontano un quarto di miglio circa da » una chiesetta chiamata S. Salvadore, nel fondo del qual rio e ripa » Si vedono certe strisce ontuose coll’ odore dell’ olio di sasso, in » una delle quali ripe, dalla parte della Samoggia, nel 1657, fu n fatto un pozzo da Francesco Aglio, dal qual pozzo ne cavano olio » di sasso , (1). Le gallerie di esplorazione della miniera di Sassonero sull’ Idice, laddove il terreno è costituito prevalentemente da impasti di roccie ofiolitiche con Eufotide metallifera, furono ripetutamente invase da copiose emanazioni di gas infiammabili; altrettanto avveniva nelle gal- lerie più profonde della miniera di Bisano, praticate attraverso le ar- gille scagliose, Concludiamo questi brevi cenni sul petrolio della provincia, espri- mendo il voto che per mezzo di ben dirette esplorazioni giungasi un giorno ad utilizzare, sopra proporzionata scala, questo importante combu- stibile, la cui industria va ricevendo oggidì un nuovo impulso in altre (1) Al disotto dei banchi di Salgemma di S. Lorenzo, nella Val di Cecina in Toscana, si è trovato, mediante le trivellazioni, l’argilla scagliosa bitumini- fera corrispondente litologicamente e stratigraficamente alle argille petroleifere più profonde di Kolibasc, Tzinta e Baicocoi in Valacchia (Capellini giac petrol. di Valacchia. Bologna 1868). Nei viaggi in Toscana di G. Targioni a pag. 207 del T. II. seconda ediz., citasi pure il petrolio del Bolognese, e così nei viaggi delle due Sicilie, di Spallanzani a pag. 289 del T. III DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 99 parti della zona petroleifera dell’ Emilia, nelle quali stavasi finora ab- bandonato a private ed insufficienti ricerche. AMBRA Il primo cenno intorno all’ ambra gialla, o Succino, del bolognese trovasi nella già citata opera del Masini , Bologna perlustrata , del 1666. Successivamente ne tennero parola, senza darne peraltro parti- colareggiata descrizione, il Boccone, nelle sue , Osservazioni naturali , del 1684, il Brocchi nella , Conchigliologia fossile subappennina , del 1843: ed infine i Prof. Bianconi e Capellini in alcune recentissime loro pubblicazioni. Lo scrivente ne diede una monografia più completa nel 1871, riassumendo tutto quello che per l’ avanti se ne conosceva, ed aggiun- gendo il risultato di nuove investigazioni. 5 Si rileva da questa Monografia che l Ambra apparisce in vari punti del territorio bolognese nelle formazioni delle molasse mioceniche, ma più particolarmente a Scanello, presso Lojano, ed a S. Clemente presso Monterenzio; che nelle due località 1° Ambra, pur conservando tutti suoi generali caratteri, offre alcune differenze di aspetto e di strut- tura, quella di Scanello costituendo piccoli nucletti completamente for- mati, tondeggianti e omogenei; essi hanno la superficie scabra ed irregolare cui aderisce una specie di corteccia argilloso-arenacea, con pagliole di Mica. Nei pezzi più voluminosi la struttura diviene fina- mente screpolata talchè le interne superficie delle discontinuità riflet- tendo la luce nelle varie incidenze danno luogo al fenomeno dell’ Av- venturina. La varietà invece di Monterenzio {S. Clemente), trovasi agglutinata in masse di maggiori dimensioni, con perdita tuttavia di diafaneità e di purezza. I pezzi sono in parte costituiti da un infor- me aggregato di frammenti giallo-bruni, translucidi, talvolta opachi, cui s' interpongono masse granulari, giallo di miele, o lionate, brune o rossastre, ovvero altri frammentini limpidi di color giallo-vinato chiaro. Vi si osserva altresì la divisione delle masse maggiori in vari strati concentrici, irregolari ed interrotti, involgenti i singoli nuclei, ciò che ravvicina grandemente quest’ Ambra alla così detta Walcowite, sostanza bituminosa, concrezionata, in arnioni, e talora simile all’ Am- bra, copiosa nelle ligniti della Moravia. 100 LUIGI BOMBICCI Non di raro piccoli ciottolini, quasi limpidi, di carbonato spatico di calce, con superficie lievemente scabra, quasi per chimica e lenta corrosione, stanno inclusi in quest’ Ambra di S. Clemente, ovvero aderiscono alla superficie dei pezzi. In nessun caso fu possibile scoprire nell’ Ambra del bolognese avanzi di piante o di animali; è noto che 1° Ambra di Sicilia, e di altre località, frequentemente include insetti ed aracnidi, foglioline e corolle di fiori, ed in qualche caso contiene dei vacui, occupati in parte da liquidi idrocarburi. Durante la stampa della citata monografia perveniva al Museo un pezzo di calcare marnoso, derivato dalla formazione del macigno eocenico di Porretta, nel quale pezzo vedesi strettamente imprigionato un nucleetto di Ambra, che non differisce dagli altri se non che per una più inoltrata alterazione. Nel catalogo della raccolta mineralogica del Museo Salina, con- servato nell’ Archiginnasio, trovasi la seguente indicazione: , Ambra scoperta superiormente al ponte di Riola, strada di Porretta, al luogo detto il Pallasio, comune di Savignano. Gli scavi, oggimai famosi, dei sepolereti etruschi nella nostra stupenda Certosa bolognese, posero in luce molti pezzi di Ambra, per la massima parte lavorati a perla, traforati e talvolta riuniti in Collane, insieme alle solite perle di vetro o di smalto. Sono più alterati che non sieno quelli tolti dal loro giacimento naturale, originario ; sono friabili, screpolati fittamente nella loro massa, ed avventurinati. Il colore ne è giallo rossastro intenso, simile talvolta a quello della colofonia. Somiglia perciò tale varietà di Ambra assai più alle varietà note del Bolognese di quello che a qualsiasi altra di Sicilia, di Prussia, di Valacchia ecc. Notevole, che dai medesimi scavi della Certosa si traggono pure, in- sieme ai nucleetti ed alle perle di Ambra, di Vetro e di Smalto, molti ciottolini per la maggior parte silicei, di diaspro, di agata, di ftanite, di serpentina, di eufotide, di sausurrite, di petroselce ecc. , perfettamente simili a quelli copiosissimi nell’ alveo di certi torrenti della provincia; vari di tali ciottolini furono dirozzati dall’ arte ed ingentiliti nella loro forma, e nel grado del loro naturale polimento. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 101 COMBUSTIBILI FOSSILI Come nella maggior parte delle provincie d’Italia mancano nel Bolognese i veri carboni fossili, litantrace ed antracite, spettando solo alle più antiche formazioni geologiche il possesso di questi meravigliosi prodotti delle primitive flore della Terra. i Tuttavia la maggior parte dei terreni della provincia, appartenendo all’ epoca terziaria, e più specialmente ai periodi miocenico e plioce- nico in tutta la zona orografica al N. E. dell’ Appennino, sembrerebbe che non dovessero mancarvi quei depositi di lignite, che in altre re- gioni d’ Italia, delle quali alcune contigue o vicinissime a noi, il Mo- denese, il Parmense, la Toscana, si palesarono già assai sviluppati e produttivi. Le ripetute, antiche investigazioni, abbenchè rese viemaggiormente accurate ed attive, fino dal 1850, da una opportunissima promessa di premio, per parte della benemerita Società Mineralogica Bolognese, non condussero ad altro risultato fino ad oggi, se non quello della scoperta, in molteplici punti del territorio, e sempre nelle formazioni delle mo- lasse e delle marne mioceniche, di piccoli ed interrotti adunamenti di lignite, di legno bitumizzato, e talora invece silicizzato, ben poco pro- fittevoli per le cospicue e durature applicazioni. Le località dalle quali si trassero fin ora più o men copiosi saggi di lignite, e che talvolta permisero una specie di regolare e prolungata raccolta, sono Porretta {alle Capanne}, Bombiana, Pietracolora (con parziale silicizzazione di grossi tronchi), Ruine di Liserna, con il fatto medesimo di silicizzazione parziale, Livergnane, Pianoro, Scaricalasino, Laguna, Varignana e Sasso. Il Prof. G. Sgarzi pubblicava, dal 1850, nelle , Memorie della Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna (1), una relazione » intorno ad alcune ligniti del Bolognese, citando altresî le località di Coriano, di Salvaro, di Casola Valsenio, e di sopra al Rio Brasi- mone, siccome produttive di pregevoli qualità di questo combustibile. Nel lavoro del Prof. Sgarzi sono descritte le appresso qualità di lignite : (1) Sgarzi G. Intorno ad alcune ligniti del Bologiiese. Mem. Accad. delle Sc. di Bologna. T. I. 1850. 35 102 LUIGI BOMBICCI I. Var. Fibrosa, con struttura legnosa, di color nero bruno, fragile, staccandosene minuti frammenti, ora lucidi, ora appannati. Trovasi presso il torrente Savena. II. Var. Piciforme, lamellare, di bel color nero, lucido, fragi- lissima, di Coriano. IIl. Var. Piciforme brillante, fragile, con frattura concoide, in tenui straterelli quasi foliacei, nell’ arenaria della suddetta località. IV. Var. Piciforme fibrosa, con struttura xiloide, di color bruno cupo, o nero. Con frattura in parte concoide. V. Var. Terrosa opaca, in istato di disaggregazione di color bruno scuro; trovasi sopra il Brasimone. VI. Var. Piciforme lucida, simile al Giajetto per il bellissi- mo colore nero, e la lucentezza, ma fragile. Spetta al territorio di Casola Valsenio. VII. Var. Piciforme opaca, pur di questa or nominata località. VIII. Var. Schistosa opaca, di color nericcio di difficile spez- zatura, della località come sopra. Queste varietà, giudicate dall’ A. siccome di qualità pregevolissima perchè piciformi, spettano al terreno miocenico inferiore, delle molasse, delle puddinghe e delle sabbie quarzose biancastre; la descrizione ne è corredata da un prospetto di analisi che stimiamo utile di qui ripro- curr (OVFENS10) 103 DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE i > | 04 00 i 09 ‘00 l O0glof 00 a) OOO 1 00 ‘30 00 ‘10 09 ‘00 08‘00 00 ‘G6 di 3 =, | 09400 | sz‘00 | 09°%0 | 09‘6 |} cumavgli i #4 x È de ni «si e È 09 ‘OEN | UO O | UO ‘EN 2018 1.09 ‘OO | s0:lV 094 i 3°N | VILIIVOOT 2 00 ‘9 Celzi TEE E IZ EEE aes 08 ‘II 08 ‘96 00 ‘9 07 ‘G 4% ‘ goedo-0pion] QuLIOFIOTA | 00 ‘G 07 ‘96 00 ‘83 09 ‘OI I VAI ‘ Epion] QuLIOJIOI] | 9 00 ‘07 03 ‘EE I 03 ‘LI 09 ‘6 | 0$4|:::°* eso voedo |g 00 ‘ 08 ‘07 00 FF i 03 ‘II mg | ‘S0IQy QULIONog |Y 07 ‘91 03 ‘8% 00 ‘9% 0% ‘FI — | BWISSIUE][KIQ QUITOFIOIA | € 00 ‘FI 08 ‘7g 0% ‘66 00 ‘GG AAC | QIU][eure] Opron] QULIOFIDIT | 00 ‘874 03 ‘II 08 ‘43 00 ‘9T 4g | auuogiord è esosqng | I 019] Ip Opisso 3 coneumamduo 0110 00110}[OSOApI OPY SE | cm | Pi i a BT pruntun]]Y queaey — enbov OJRuO(eo 9UIT0P] osod ILINDIT HTIGA VLITVNO Z 0J1og = 908 Si USOUUIE UIUALVI | :g010 SpmbI MOPoIT | 2019 ‘ISOSSe5 1)10poIq NI ONOATOSIH IS HO HSONINOLIA SIIALVIE PINO OOO MI | C0 6c_eO_O_omm.mrE.._________EEEEEEEEEE::EERE ZZZ E ASANDOTOE TIC ITINOIT ANNOTY IC ODILITYNY OLLAdSOdd 104 LUIGI BOMBICCI Nel 1856, i Prof. Antonio e Domenico Santagata pubblicavano, pure nelle Memorie della stessa Accademia dell’ Istituto Bolognese, un lavoro sui Carboni e legni fossili della Provincia, ‘* notando come a Cavriano, sulla destra riva del Reno, due miglia prima di Vergato, nel fondo del Rio Cassari, sieno piccoli straterelli di lignite, con pochi centimetri di spessore, privi di apparenza legnosa, i quali alternano con Arenarie siliceo-argillose, in banchi più potenti dei carboniosi, che sono sconvolti e discontinui. S' indicano pure in quel lavoro indizi di lignite sulla sinistra del Reno, a Ronco Vecchio, a Malandrone presso Gaggio-Montano, ed a Pietra Colora, dove le piante carbonizzate (con parziale silicizzazione), sono generalmente giudicate spettanti al genere degli abeti, ed a quello delle quercie. I risultati analitici consegnati in questo lavoro sono re- gistrati nel prospetto N.° 2, pag. precedente. Stipite. Nel punto di vista della litologia delle formazioni del- l Appennino Bolognese, riesce notevole la presenza e la copia, in al- cune varietà del Macigno dei contorni di Porretta (al ponte della Madonna ece.), di una materia carboniosa, secca, lucente, friabile, che compenetra la pasta arenacea della roccia, e ne accresce la schistosità, addentrandosi fra gli straterelli, ed impartendo alla massa una colo- razione quasi nera. Questa materia può ritenersi vera Stipite. Le su- perficie di clivaggio di questo macigno a Stipite. presentano frequen- temente dei singolari rilievi e delle impronte variatissime, messe in vista appunto dalla stipite medesima, le quali imitano la disposizione a scaglie embriciate che suoi vedersi nelle vere ittioliti, ovvero le nervature di certe filliti. Tutto questo non offre altro interesse che quello puramente scientifico, per lo studio della grande formazione eocenica del macigno dell’ Appennino. Appendice ai COMBUSTIRILI FOSSILI Selfo nativo. Il solfo nativo è scarso molto nella provincia bolognese, mentre invece ne esistono, come è ben noto, cospicui giaci- menti e ricche miniere nella vicina Romagna. È pur noto che da queste miniere, oltre ad una serie di ottime qualità di pietra solforica, donde uno zolfo commerciale purissimo e ricercato, si estraggono pur non di raro stupende cristallizzazioni dello zolfo medesimo, e di altri DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE ; 105 minerali, ornamento dei Musei, ed importante argomento di ricerche scientifiche. Nel bolognese invece, si trova in piccola dose il solfo na- tivo, amorfo, pressochè terroso, sia mescolato intimamente alla marna gessosa gremita di cristallini di Selenite a ferro di lancia, come verso Pianoro, sia in grumetti e in piccole glebe, pur nelle marne, come al Farnè (un miglio sulla sinistra oltre la chiesa ), presso Monte Calvo, sul torrente Zena. In questa località, nell’ autunno di quest’ anno (1872), scuoprivasi un ammasso solfifero assai promettente e si produceva, sca- vandolo, una specie di caverna che attualmente si trova inondata. Vero- similmente lo sviluppo considerevole nel territorio nostro delle forma- zioni gessose nelle quali trovasi il solfo in combinazione diretta col calcio e coll’ ossigeno, con l’ acqua di cristallizzazione associatasi, rende conto della scarsità del solfo medesimo; poichè mentre esso tendeva a ridursi libero dalle emanazioni di gas solfidrico, passava sotto l’ in- fluenza dell’ ossigeno dell’aria, ed in presenza dell’ acqua, allo stato di acido solforico, che reagendo sul carbonato di calce in seno alle acque operava la gessificazione di questa sostanza ed originava i sedi- menti di calce solfata così sviluppati ecc. Si conchiude che il solfo nativo fin ora trovato nella provincia bolognese, non costituisce giaci- menti di vera utilità, suscettibili di qualsiasi applicazione industriale. Catalogo della 2. Sezione - IDROCARBURI E COMBUSTIBILI Petrolio N.° 85. D.° limpido, di color giallo aranciato, con dicroismo. S. CVe- mente presso Monte Renzio. 86. D.° alquanto addensato per ossidazione. €. s. 87. D.° che galleggia sull’ acqua del pozzuolo donde venne tratto. cs. 88. bis. Acqua bituminifera e petroleifera del pozzuolo a petrolio della indicata località. Ambra 89. D.* in Arnione concrezionato, screpolato, della var. giallo-bruna, o verdiccia per tendenza al dicroismo; fragile, translucida, con superficiale alterazione, e con nucleetti spatici. Monte Renzo. TOMO IV. 14 106 LUIGI BOMBICCI 90. D.* in aggregato di frammenti, simili alla pece della Colofonia, con marna argillosa. c. s. 91. D.* in aggregato simile al precedente di frammenti irregolari, di color giallo topazio dominante, con nucleetti spatici distintissimi. cs. 92 D.* c. s. della varietà in parte bituminifera, con bel nucleetto spa- Licosiet sì 93. Nucleetti spatici che sogliono aderire ai pezzi di Ambra, isolati e messi a parte. 94. Ambra della var. avventurinata, in nucleo vestito di tenue vela- tura quarzo micacea. Scannello. 95. D.® cs. in altri piccoli esemplari. c. s. 96. In piccoli nuclei, completi, translucidi. c. s. 97. Porzione di grosso nucleo d° Ambra con superficie tagliata e la- vorata a polimento. c. s. 98. Nucleo di Ambra; di color bruno carico, in parte opaco, irrego- lare. c. s. 99. Frammenti varicolori di nucleetti di Ambra. c. s. 100. Altri c. s., della varietà simile alla Colofonia, con tendenza al dicroismo. c. s. 101. Altri c. s., della bella varietà avventurinata, color fuoco, con tendenza al dicroismo. 102. Detti c. s. della var. gialla, pellucida, o quasi opaca. c. s. 103. Detti c. s. con superficie sagrinata. c. s. 104. Miscellanea di nucleetti completi di detta Ambra. c. s. 105. Ambra della varietà pellucida resinoide, in frammenti irregolari. Lojano. 106. D.* resinoide, in nucleo parzialmente bruciato per accensione alla fiamma. 107, 108, 109. Nuclei completi di Ambra nella molassa schistoide miocenica. c. s. 110, 111, 112.. Marna argillosa ambrifera. Loyano. 113. Macigno con nucleetto d’ Ambra, alterata. Porretta. I.ignite 114. D.* fibrosa compatta, in grosso es., irregolare deformato. Cave delle Varignane presso Scaricalasino. TNESE 116. LI: 118. MIC 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126, 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135. 136. 137. 138. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 107 D.* schistoide, nera, lucente. c. s. D.*° in tenui straterelli nella Molassa. c. s. Tdem:wexsi D.* schistoide con superficie divisa in poliedri di apparenza gra- nulare, per iscrepolamento ed alterazione. c. s. D.* consimile in esemplare assai più voluminoso. ‘d. D.* idem. c. s. D.* schistoide di Pianoro. D.° in massa lamellare cuneiforme, incompleta, con lucentezza quasi grafitoide. c. s. D.*, porzione di caule cilindrico, accompagnato da concrezioni arenacee botroidali. c. s. D.* porzione di caule, cs., con nucleetti di arenaria. c. s. D.* stratiforme, frammentaria. Ri0 gemese ( Lagune). D.* xiloide fibrosa. Monzuno. D.° in istraterelli, con frattura ed aspetto resinoide. Sasso. D.* in frammenti irregolari. ce. s. D.° in frammenti piciformi, nella molassa grigia, arenacea. c. s. D.* in compenetrazioni lamellari, resinoidi nella molassa, c. s. Sabbia della molassa cs., compenetrata di particelle carboniose. cs. Sabbia della medesima formazione. c. s. Lignite schistoide. Mulinetto delle Livergnane. D.° schistoide piciforme. Sadurano ( Livergnane). D.° a frattura poliedrica. Monte Biancano. Frammento di tronco lignitizzato, coperto di efflorescenze saline, e di detrito ocraceo, per la scomposizione della marcasita da cui era compenetrato. Fosso della Berzantina ( Porretta). Lignite. Montese. stipite D.* che compenetra il macigno schistoide, simulando impronte di vegetali, ittioliti ecc. Porretta. 139 al 144. Serie di esemplari della varietà precedente di stipite, con disposizioni diverse ed imitative, della stipite nel macigno. c. s. 108 LUIGI BOMBICCI Filliti 145. Filliti, sul calcare marnoso. Campo Vecchio ( Porretta). 146. D.° bellissime, associate, piccole e grandi, nella marna schistoide. 147. D.° sull’ arenaria macigno. Campo Vecchio (Porretta). 'lL'orba 148. Varietà in massa; di assai buona qualità. Credesi delle quore di Po. 149. D.* frammento d’ incerto carattere. .Sasso. TLegno Silicizzato 150, 151, 152. Legno in parte carbonizzato ed in parte compenetrato di silice. Pietra Colora (Riola). 153. D.° c. s. con superficie di sezione artificiale, tirata a polimento. c. s. 154. Arenaria compenetrata di particelle carboniose, e attraversata da reticolature spatiche bianche, con struttura che ricorda quella di certi tronchi di lignite. Porretta. Ssolfo 155. D.° nativo, in particelle, nella marna gessosa, con cristallini di Selenite. Farnè sulla Zena. 156. Solfo nativo in piccoli grumetti, o nuclei amorfi. c. s. Sezione terza MINERALI E ROCGIE PREVALENTEMENTE CONTITULTE DAL SILICATO DI ALLUMINA CATALOGO DELLA RELATIVA SEZIONE NELLA COLLEZIONE DEL MUSEO —0— ARGILLE Dal precedente prospetto della classificazione cronologica delle roccie del Bolognese apparisce che oltre alla formazione cretacea su- DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 109 periore delle così dette Argi/le scagliose, le quali intersecano con fe- nomeni d’ inerente idroplutonismo i calcari, le arenarie e le serpentine di più recenti formazioni, si hanno i depositi delle marne eoceniche di Monte Venere, e le argille schistose silicifere, galestrine, dello stesso periodo, le argille marnose biancastre che accompagnano i gessi del miocene e vi si frappongono in letti fossiliferi, e finalmente le argille turchine, che insieme alle sabbie giallastre includono i resti, oggimai famosissimi, di rari ed interessanti cetacei, spettando ai piani messt- niano ed astiano del terreno pliocenico, o subapennino. Queste formazioni argillose potrebbero dar luogo a varietà litolo- giche numerosissime, e pur dipendenti dai tipi meglio caratterizzati dell’ Argilla plastica e figulina, dell’ Argilla ferruginosa, usata per la- terizi, della marna biancastra, con arnioni del così detto calcinello, della marna ocracea, della marna conchigliare, della marna silicifera, ecc., fino al tipo interessantissimo dell’ Argilla scagliosa. Nel darne contezza, indicheremo primamente i caratteri litologici e mineralo- gici delle argille scagliose, sià perchè precedono le altre nell’ ordine cronologico, sia perchè sono dotate del più alto interesse dal punto di vista mineralogico e nella storia generale del metamorfismo. ARGILLA SCAGLIOSA Venne così opportunamente denominata una forma litologica la quale abbondantemente sviluppata nel bolognese, potè riconoscersi in varie altre località italiane e straniere (1), ed è non di rado distinta con i nomi di argilla salifera e argilla petroleifera, secondochè fra le sostanze minerali i cui depositi sogliono accompagnarla, prevalgono il sale marino od il petrolio, facendola sede di produttive ricerche. Delle argille scagliose del bolognese scrissero vari autori, ma più diffusamente i -Prof. Santagata e Bianconi °’, ‘° il Pareto (2) e lo (1) I recenti studj sulla formazione solfifera in Sicilia hanno confermato che anche in quest’ isola sono presenti le argille scagliose con il loro corredo di abituali caratteri, con i blocchi interclusi di alberese a fucoidi, e con evi- denti alternanze del calcare a nummuliti. Vi si associano i diaspri in istrati di considerevole grossezza, quasi a ricordare la formazione silicifera degli schisti galestrini della Toscana e delle Alpi Apuane. (2) Pareto. Bullet. de la Socc. Gélog. T. XIX. pag. 277. 110 LUIGI BOMBICCI Scarabelli, ai quali debbonsi perciò le notizie più interessanti in pro- posito. Abbiamo già avvertito (pag. 73), che nella celebrata opera del Prof. G. Bianconi , sui terreni ardenti ecc. ,, trovasi una delle più complete descrizioni delle argille in discorso, e delle dottrine che vi sì riferiscono. La più manifesta particolarità di queste nostre argille scagliose, quella cui debbono la specifica denominazione che le distingue, si è la singolare loro attitudine a dividersi molto facilmente in iscaglie rigon- fiate nel mezzo ed a margini assottigliati, lisci e lucenti alla superficie, e di varia colorazione. Ciascuna scaglia per lieve percossa o pressione si disgrega in altre minori che nel pezzo preesistente stavano così per fettamente adese da impedire all’ occhio di scorgere e sospettare siffatta maniera d’ aggregazione; e nelle piccole scagliette ripetesi questo me- desimo fatto come nelle maggiori, fino ad un limite quasi estremo di suddivisione. Il tatto ne risulta ontuoso o saponaceo come quello della Steatite. Il colore ne è molto variabile avendosene di verdi come le serpentine, di rosse come i gabbri e le ftaniti, di grigie come certi schisti arde- siaci, di violacee e di giallo-brune come gli schisti galestrini, e perfino di nere. Una analisi delle argille scagliose di Monte Paderno, eseguita dal Dott. Muratori, per conto del Prof. Bianconi, diede : ARONA n 6,00 SIVORI ZI DO Beonio. 0:00 Ca0 00% Liegi Bi15500 Ca0, SO + 2 aq . , 42,50 Acqua igrometrica , 15,00 100, 00. 1l più appariscente carattere della loro formazione sta poi nel grandioso sconvolgimento da esse medesime indotto nelle roccie strati- ficate del calcare a fucoidi, dei calcari marnosi, e del macigno; tal- mente che, dalle ripide pendici di quelli scoscendimenti e di quelle lavine che bene spesso produconsi nei più elevati adunamenti delle argille scagliose, a guisa di tagli naturali e vastissimi, vedonsi sporgere DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 111 le indicate roccie eoceniche ridotte a frammenti di strati irregolari ed angolosi, allineati talvolta, sebbene distanti, e separati dalla pasta ar- gillosa, talvolta invece confusamente disseminati nella massa che sol- levò, infranse e sconvolse i rispettivi loro depositi stratificati e sedi- mentari (1). Nel territorio di Bologna, come anche nell’ Imolese, le argille in discorso, al pari dei prodotti delle salse tuttodì attive, ogni qualvolta si espandano entro valli in declivio è perciò vadano tendendo ad una lenta, progressiva discesa, riproducono in guisa notevolissima taluni dei fatti generali che accompagnano e caratterizzano î movimenti dei ghiacciai. Quindi la speciale mobilità, dovuta per altro alla plasticità del materiale argilloso inzuppato di acqua; e crepacci che si appro- fondano nelle masse ivi generate dal superficiale prosciugamento di queste; gli adunamenti di ciottoli e di blocchi che ricordano in certa guisa le vere morene di ghiacciajo; la striatura e la politura delle roccie trasportate e di quelle contigue. Ai quali fenomeni di un moto lento e progressivo si aggiungono quelli, forse più appariscenti ma assai meno istruttivi, delle lavine, delle frane e degli scoscendimenti, comuni del resto ad ogni qualsiasi formazione rocciosa, adagiata sopra di altre inclinate, dalle quali le infiltrazioni delle acque, o 1’ interpo- sizione di strati mobili ed incoerenti, tendano a disgiungerle ed a provocare un definitivo scivolamento. Non dobbiamo certamente discuter qui il modo nè il tempo di origine di questa importante roccia; e tanto più volentieri ce ne aste- niamo non trovandosi finora in pieno accordo su tale proposito i di- stinti geologi che ne fecero, anche recentemente, soggetto dei loro studi. (1) Il seguente brano tolto dalla sullodata opera del Prof. Bianconi, a pa- gina 74, rappresenta stupendamente il carattere che assume il paesaggio delle località dove predomina questa sterilissima roccia: « Monti intieri di Argille, « per lo più nere e bigie, offrono da cima a fondo un aspetto uniforme tanto « per identità dei componenti che della tinta, la quale è soltanto interrotta da « larghe macchie e da vene di color rosso e da qualche pezzo di calcare a fu- « coidi che sporge biancheggiando dalle medesime. Monti, in cui le acque fanno « le maggiori rovine e che quindi sporgono in ottusi ciglioni, s° intercalano a « profonde solcature che vanno a perdersi in cupi burroni. il tetro colore di « queste aspre pendici, colpite dalla più nuda sterilità, prive d’ ogni albero e - « d’ ogni filo d’ erba, eccetto l’ Inula glutinosa, da loro un carattere tutto pro- « prio e fa sì che sftieno assai bene a parallelo con i terrenì serpentinosi, ecc. » 112 LUIGI BOMRICCI Certo si è, che questa medesima roccia, nel bolognese come al- trove, associasi cronologicamente ad altre del periodo eocenico; che deriva dal profondo ed intenso metamorfismo di roccie più antiche; che 1’ origine sua intimamente connettesi con fenomeni idroplutonici dei quali le traccie di antiche salse, simili alle salse attive nelle pros- sime regioni dell’ Emilia, danno prova evidente, rivelandone altresì il prevalente carattere; e che molteplici analogie, graduati passaggi lito- logici e mineralogici stabiliscono un legame innegabile fra la forma- zione delle argille scagliose e quella delle serpentine. Il Prof. Bianconi, ravvisa giustamente un attestato della espansione loro, senza intervento di azioni ignee e di fusione, nella stato di niuna alterazione che i bloc- chi di calcare, così copiosamente disseminativi, sogliono presentare allo sguardo. Litologicamente considerate le argille scagliose confermano vieppiù quei rapporti di analogia colle serpentine che abbiam detto emergere da altre particolarità. Alcuni tipi di esse possiedono infatti il tatto ontuoso, il colore verde e grigio-cupo o rosso-bruno e la levigatezza superficiale dei loro frammenti, ciò che si riscontra con piena somi- glianza nelle serpentine scagliose, quelle per esempio di Baldissero in Piemonte, di Valle Antigoria e di tante altre località. Potrebbe perciò affermarsi che nelle argille scagliose il silicato di allumina funziona nella stessa guisa che il silicato di magnesia nelle serpentine; e che la più sostanziale differenza fra le due forma- zioni idroplutoniche e metamorfiche è il portato della differenza mi- neralogica fra i due silicati idrati, alluminoso o magnesiano. Sotto questo punto di vista non troviamo dissimile il modo di origine di queste forme litologiche da quelle del così detto Gabbro-rosso e degli schisti galestrini. L’ azione metamorfizzante dell’ acqua ad alta temperatura, e con elementi solubili, alcalini, magnesiani, ferruginosi, silicei, in varia proporzione secondo i casi, invadeva le formazioni profonde qualunque ne fosse -la natura mineralogica e la condizione stratigrafica; ed un medesimo magmas sedimentario, argilloso, ovvero marnoso e calcarifero, ovvero arenaceo o granulare, poteva ridursi in argilla scagliosa, in serpentina, in gabbro-rosso, in ftanite, in oficalce, in ofisilice, in schisto galestrino ecc.; e colla sua espansione, per au- mentato volume e per energia di gaz o di vapore acqueo sopra 100°, DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 113 poteva indurre nelle sopra-incombenti formazioni, sollevamenti, dislo- cazioni, fratture, e nuovi metamorfismi (1). Così le argille scagliose si sarebbero formate da depositi argillosi anteriori al nummulitico, quindi in grado di includere, come di fatti includono, ammoniti ad altri fossili cretacei; ma avrebbero raggiunto la fase del loro più valido metamorfismo, con accompagnamento di fenomeni idroplutonici (non ancor cessati in alcune località dove per- durano salse ed emanazioni, e sorgenti termali), nel passaggio dall’ eocene al miocene; così, sconvolgendo il macigno, l’ alberese ecc., ed incor- porandosi cogli elementi delle arenarie eoceniche in guisa da sembrar- ne perfino costituite. Saremmo del resto propensi ad ammettere che le masse di ser- pentina, quali assai numerose emergono delle argille scagliose del ter- ritorio di Bologna, come emergono del Gabbro rosso in Toscana, anzi- chè essere roccie veramente eruttive, fossero il semplice portato di grandiose concentrazioni, quà e là attivate e localizzate, di quei sili- cati di magnesia, ferro ed allumina, che tuttora stanno copiosamente diffusi nelle argille scagliose e nei gabbri di certe ubicazioni; le ser. pentine riprodurrebbero, in questo modo di vedere, e rispetto alle ar gille scagliose, la condizione delle amigdale gessose, dei noccioli di alabastro, degli adunamenti solfiferi, relativamente alle marne argillose mioceniche nelle quali s° includono; e riprodurrebbero pure la condizione, più limitata in vero ma assai più istruttiva, degli arnioni di Baritina, di Marcasita, di Quarzo manganesifero e di Aragonite i quali, con le sin- golari septarie, stanno profusamente disseminati nella roccia in questione. (1) Predominando |’ allumina, con ferro e con manganese, nel deposito che poi diede luogo agli schisti galestrini, l'invasione silicifera non produsse per effatto di metamorfismo d’ indole idroplutonica, con silicatizzazione, se non l indurarsi, l’arrossarsi, il diasprizzarsi quasi delle masse stratificate, le quali poco variando di volume, poco disturbavano le stratificazioni alternanti del calcare alberese e delle arenarie, generalmente sottostanti al piano del calcare nummulitico. Invece, prevalendo assolutamente i composti di magnesia nei depositi donde poi derivavano le serpentine, la idratazione e la silicatizzazione, generando composti definiti, e specie minerali con forti attitudini cristallogeniche, spesso assolutamente ed ampiamente cristallizzate, vi addussero grandi muta- menti di volume e fenomeni termodinamici assai più considerevoli, donde i sol- levamenti, le emersioni, i trabocchi, d’ indole eruttiva. Laddove, nelle argille sca- gliose, erano commiste la magnesia e l’ allumina, i risultati dinamici e petro- logici risultavano intermedj, quasi, a quelli ora ricordati. TOMO IV. 15 114 LUIGI BOMBICCI La denominazione di argille scagliose fu primamente data e con molta opportunità a questa interessante formazione del Prof. G. Bian- coni nelle prime notizie descrittive, dal medesimo pubblicate nel pre- gevolissimo suo libro , Storia naturale dei terreni ardenti. Bologna 1840 ,; °° sta a significare che , tanto i grandi blocchi quanto le n minime divisioni delle medesime hanno superficie tendenti alla forma n di cuneo, di lente e di scaglie. Spesso di lucidissima e levigata su- » perficie e di colori i più variati, i quali meglio che altri appalesano p i rivolgimenti ai quali furono esse soggetto ,. Il Prof. G. Meneghini, pur facendone cenno nei suoi , rapporti , sulle miniere cuprifere del bolognese, le indica come , argille compatte, » secche, ontuose, fragili, a frattura scagliosa e lustrata, variamente » colorata, includenti più o men frequenti o voluminosi pezzi di al- » berese, intonacati essi pure tutto all’ intorno di argilla compatta » @ lustrata ,. Sembra indubitato, anche in vista delle recentissime esperienze del Tresca sulla laminazione dei solidi, sulla artificiale schistosità ecc., che la struttura scagliosa debbasi a potenti azioni meccaniche di pres- sione e di scivolamento, durante il periodo di massima energia di me- tamorfismo. Notevolissima particolarità della formazione delle argille scagliose si è la copiosa ed ora accennata disseminazione, nei loro maggiori adunamenti, di arnioni, nuclei, glebe e concrezioni svariatissime di dif- ferenti sostanze minerali; è fuor di dubbio che questi oggetti i quali, sporadicamente dispersi nelle argille, si palesano dovuti ad attrazioni mo- lecolari cristallogeniche, sieno prodotti posteriormente al costituirsi della forma litologica che li racchiude ed in seno di questa per mezzo delle particelle minerali, che forse le stesse azioni idroplutoniche vi avevano addotte. Riescono specialmente degne di attenzione le concentrazioni ed i nuclei cristallini delle specie seguenti: 1.° Barite Solfata (baritina) in arnioni globosi con struttura fibroso-raggiata e lamellare, detta pietra fosforica di Bologna. 2.2 Aragonite fibrosa in lastre, in dischi, in forma di sce- dellette o di coni ad imbuto, in lenti, e in pietre geometriche. 3.° Pirite di ferro, cubica o prismatica, in gruppi di cristal- li, in noduli a superficie irta di piccole piramidi, ovvero in forme lenti- colari, discoidali, nummiformi, globose, tubercolose, in incrostazioni sui frammenti di roccie, ecc. ecc. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE IU 4.. Gesso in cristalli, in forme discoidali ed a guisa di lente, in massi lamellari a ferro di lancia, ecc. Questo gesso è un prodotto puramente accidentale di una doppia decomposizione per parte del ferro solforato e del calcare; la pirite facilmente risolvendosi in sol- fato di ferro consente la generazione del solfato di calce e del ferro limonitico ; le sostanze or nominate stanno tutte contenute nelle argille scagliose medesime. 5.* Quarzo fibroso, manganesifero, in glebe con struttura fibroso-raggiata. Inoltre, incrostazioni e patine superficiali sui ciottoli di alberese formate dalla manganite compatta, dall’ ocra ferruginosa, ecc. Fanno parte altresì della composizione chimica e mineralogica delle argille scagliose varie sostanze saline che il Prof. Antonio Santagata determinava ed illustrava nello scritto pubblicato nel Tomo VI. delle Memorie dell’ Accademia delle Scienze di Bologna nel 1855 3°. Questi sali sono: il cloruro di sodio, il carbonato di soda, che si rivelano bene spesso per via di efflorescenze; i solfati doppi di soda e di magnesia, di magnesia e di calce, ed il doppio cloruro di sodio e di calce. Questi ultimi sonosi notati più fre- quenti nelle argille scagliose presso Bisano ; il solfato di soda si è ri- conosciuto assai copioso in quelle di Monte Paderno. La particolareggiata illustrazione di queste varietà mineralogiche può riscontrarsi negli altri capitoli di questo medesimo scritto, e nel- I’ elenco descrittivo della collezione mineralogica che ne forma corredo. MARNE Le marne propriamente dette si trovano molto sviluppate nella provincia Bolognese, al pari che nelle altre contigue, in ordine alle formazioni mioceniche. Quelle del periodo Langhiano sono associate alle molasse ed alle puddinghe; sono vastamente rappresentate nell’ alta valle del Reno, risalendo dal basso verso Vergato, o lungo la Setta, da Monte Mario, Battidizzo, Badalo ecc., fino all’ altezza di Monte Venere, come pure nei contorni di Monte Renzio, di Sasso Leone, e via dicendo. Costituiscono così una zona cui limitano a sud, verso l’ Appennino, le formazioni eoceniche di questa stessa catena, ed a settentrione, verso la pianura, le sabbie gialle e marnose del pliocene inferiore. 116 LUIGI BOMBICCI La forma litologica in discorso, non rappresenta alcuna condizio- ne notevole dal lato tecnico od industriale. Le marne biancastre del miocene superiore, messiniano, nei de- positi delle quali si costituiscono le grandi amigdale gessose che ripe- tutamente vi emergono, si distendono sulle ultime pendici dei contrafforti dell’ appennino, sulle colline sovrastanti alla pianura, con ampia su- perficie qua e là interrotta dalle argille scagliose, dai gessi, e dai lembi pliocenici delle sabbie gialle e delle argille turchine. In queste marne biancastre, delle quali può bene studiarsi l’ an- damento ed il carattere litologico nei colli suburbani, a Ronecrio, a Paderno, a Tizzano, a Moglio, a Tignano, al Monte della Guardia o di S. Luca, a Luminaso, a Lamola, a Rastignano ed a Monte Calvo, trovasi il così detto Calcinello, vale a dire una forma concrezionata, geodica, di carbonato di calce magnesifero, le cui masse globose, con- tengono rivestimenti cristallini di Dolomite, nelle pareti delle loro in- terne cavità, o screpolature. Nel Monte della Guardia, queste marne medesime includono pic- cole conchiglie fossili a nucleo calcedonioso, il quale facilmente si pone in vista, corrodendone con una soluzione acida il rivestimento calcare. Le marne bianche, silicifere, di Monte Armato, portate ad alta temperatura divengono quasi diasproidi. Le argille turchine plioceniche, quasi contornano, nelle vicinanze di Bologna, i lembi delle ultime colline, ed assumono, insieme alle sabbie ocracee, un più esteso sviluppo fra Casalecchio e Gesso, ed oltre Zola Predosa, a S. Lorenzo in collina, S. Martino, Pradalbino, ece. divenendo talora ferruginose, giallo-brune, o rossastre; così per es. sulle prime pendici del colle sul quale fa bella mostra di se la Villa Baruzziana, avvi una argilla ferruginosa, plastica con marna geodica, o calcinello, adoprata nelle fabbriche di stoviglie in città. Del resto queste argille sono intimamente connesse colle sabbie marnose giallastre e colle sabbie gialle propriamente dette, e dal punto di vista geologico e paleontologico assumono pressochè lo stesso significato. Considerate le argille e le marne del Bolognese in riguardo delle loro applicazioni industriali, ben di raro ci si offrono immediatamente opportune per la ceramica e per la fabbricazione dei comuni laterizi. Sì ottengono invece buone qualità di argille plastiche e figuline, a Paderno, nel bacino di Savena, fra Rastignano e S. Ruffillo, con un DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 117 semplice processo: che è questo: si conducono ad arte le acque del torrente, in apposite vasche praticate presso le sponde, perchè vi si depositino, poco a poco, i materiali argillosi più tenui e disgregati che le acque medesime asportarono dalle elevazioni dei versanti dello stesso bacino, dilavandole mentre vi cadono e scorrono nei periodi delle pioggie. In questi sedimenti artificiali raramente si consegue lo spessore massimo da 25 a 30 cent. Le argille figuline di Monte Paderno, considerate anche dal lato tecnico, sono di due ben distinte qualità, le quali peraltro si raccolgono a breve distanza 1)’ una dall’ altra e promiscuamente s’ impiegano nella fabbrica di olle, stoviglie e laterizi di Monte Paderno. Giova avvertire in proposito che presso Paderno trovasi una delle regioni di contatto della formazione idroplutonica delle argille scagliose con quella assai più recente delle marne biancastre fossilifere. A_Ron- crio, per es., (a N. verso Bologna), dominano queste seconde; men- tre a S. dalla parte di Sabbiuno, a Paderno, Cassina, Cavajone ecc., sono già bene sviluppate le prime. Frattanto, mentre le acque di pioggia che dilavano la superficie delle marne biancastre, formano dei depositi di argilla bianca, quelle invece che agiscono sulle argille scagliose producono sedimenti di argille ferrifere rosso-brune. Anche a Paderno, come lungo la Savena, le acque torbide pei materiali argillosi in sospensione, vengono artificialmente condottate fino ad apposite vasche di riposo, ove depositano un limo fino ed omogeneo che si presta appunto per i lavori ceramici, e pei laterizi; si dissecca, si tritura e si rimpasta, prima di modellarlo e di cuocerlo; cotto che sia, emerge vieppiù la differenza fra le due qualità indicate delle argille in discorso, poichè tratti che siano dalla fornace i rispet- tivi prodotti appariscono di un bel color rosso vivace i laterizi ed i vasellami la cui materia prima derivò dalle argille scagliose, mentre gli altri sono di color giallo-ceciato chiaro. A Monte Paderno, la classica località della pietra fosforica, avvi una fornace da terre cotte, oggi posseduta da Labanti Gaetano, nella quale dai più comuni laterizi, mattoni, tegole ecc., si passa ai vasel- lami da uso demestico, fino alle grandiose olle da olio, capaci perfino di otto ettolitri. Il valore annuo dei prodotti ceramici rispettivi, senza tener conto dei mattoni comuni, sembra oscillare da L. 1500 a 2000. La terra da stoviglie, sottostante al colle della villa Baruzziana, si 118 LUIGI BOMBICCI paga L. 1 per Biroccia (Biroccia, equivalente a circa 350 decimetri cubici ), fuori di città, e L. 1, 75 trasportata che sia dentro le mura, dove viene impiegata da quattro fabbriche, per un prodotto in stoviglie e terre cotte di valore forse superiore a Lire annue 154 mila. ; Non possiam chiudere queste indicazioni sulle argille e sulle marne, senza riporre in vista la circostanza del possibile impiego di alcune speciali varietà di queste ultime nella confezione dei cementi idraulici artificiali, dei quali può farsi così provvido uso in Italia, e che già largamente adoperativi sono in gran parte acquistati all' estero, con gra vissimo e non giustificato dispendio. Catalogo della 3.° Sezione MINERALI E ROCCIE PREVALENTEMENTE COSTITUITE DAL SILICATO DI ALLUMINA ARGILLE E MARNE —0=—= Argilla plastica e figulina 157, 158. D.* in grumetti disseccati. 159. D.* in pani. 160. D.* in cubi modellati, senza cottura ecc. Dalle vasche de’ renaj di Savena, presso Rastignano. 161. D.* e. s., mattonella collo stemma di Bologna. 162. D.* c. s. in forma di bel bozzetto, per una statua al celebre Prof. Alessandrini, preso nello studio di scultura del Cav. Salvini. 163. D.* e. s. due porzioni di fregio, una delle quali cotta. 164. D.* c. s. piccolo busto rassomigliante a C. Goldoni. 165. Argilla plastica. Porretta. 166. D.* c. s. ferrifera. c. s. 167. Marna argillosa, in tenuissimi straterelli varicolori, dai banchi interposti alle gessaje di Monte Donato; con resti fossili di Lebias crassicauda e di larve di Libellula Doris. Bell’ es. di Monte Donato. 168. Idem. c. s. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 119 169. Marna argillosa con filliti. Molino di Montese. 170. D.* c. s. ferrifera, con fucoidi. c. s. 171. Idem. c. s. Porretta. 172. Marna argillosa conchigliare. 173. Argilla ferrifera, figulina, dalle argille scagliose. Monte Paderno. 174. Idem. c. s. Rio Ravano. 175. Idem. c. s. Poggiuoli rossi. 176. Idem. c. s. Lucchio. 177. Marna compatta con rivestimento ocraceo. Porretta. 178. D.* c. s. di color giallo lionato, con colorazioni a cicloliti. Montese. Ig 1:80xIdem. c..s. 181. D.* terrosa, a strati concentrici bene demarcati, ma interrotti. Alcune screpolature trasversali accennano ad un passaggio alla formazione di septaria. c. s. 182, 183. Marna argillosa da laterizi, che contiene i grossi cilindri a dischi, con baritina, dei numeri seguenti. Montese. 184, 185, 186, 187. Dischi dei grossi cilindri marnosi, indurati, con interposizioni di Dolomite e di Baritina, che stanno inclusi nelle marne argillose. Montese 188. Marna calcare, granulare, giallastra. Modognano sopra Porretta. 189. D.* verdastra, ferrifera. Porretta. 190. Argilla che passa alla formazione scagliosa. Paderno. 191. Galestro rosso che passa all’ argilla scagliosa ce. s. 192. Galestro verde, idem. c. s. 193. Argilla scagliosa rosso-bruno, ferrifera. c. s. 194. Argilla scagliosa, lucente, rossa. c. s. 195. Argilla scagliosa lucente verde, in massa. c. s. 196. Argilla scagliosa, in piccole masse lucenti. 197. Schisto nero bituminoso, della formazione del macigno, il quale passa all’ argilla scagliosa. Porretta. 198. Argilla grigio-cupa, in frantumi poliedrici. c. s. 199. Argilla scagliosa verde-cupa. c. s. 200, 201. Argilla scagliosa verde-lucente. Pian di Casale. 202. D.* e. s. rosso-bruna, poco lucente. c. s. 203. Argilla scagliosa gialla e rossa, ferrifera, decomposta. e. s. 204. Argilla scagliosa grigia. Bisano sull’ Idice. 205. Argilla scagliosa verde, che passa alla serpentina; con nucleetti di Calcopirite. c. s. 120 LUIGI BOMBICCI 206. Argilla scagliosa, amorfa rosso-bruna. Bombiana. 207. Argilla scagliosa, rosso-bruna, metallifera. Castelluccio. 208. Argilla scagliosa, grigio-verdastra, a fratture poliedriche. ‘asso delle Castelline. 209. Argilla c. s., in forma ellissoidale. e. s. 210. Argilla scagliosa, verdastra, che passa allo schisto steatitoso. Riola. 211. Argilla scagliosa verde, che passa allo schisto cloritico, con ve- nuzze dolomitiche. S. Martino di Montese. 212. Ciottolo di Alberese, compenetrato di elementi ferriferi e man- ganesiferi, con esterno rivestimento ocraceo. Dalle argille scagliose di Rio fonti, Porretta. 213. Idem. c. s. in forma di lastra, nella quale le compenetrazioni ferro-manganesifere, seguendo tenui screpolature parallele, accen- nano alla formazione di una pietra paesina. c. s. 214. Frammenti di ciottoli di Alberese, ferro-manganesiferi, alterati, ocracei. Porretta. 215. Argilla scagliosa, grigio-cupa, silicifera, che passa alla ftanite. Ca- stellina. 216. Porzione di un filoncello quarzifero, geodico; dalla argilla sca- gliosa del numero precedente. EFtaniti 217. Ftanite rossa, diasproide. Porretta. 218. D.* c. s. meno omogenea. c. s. 219, 220. D.® c. s. venata, simile all’ oficalce. Suviana presso Lizzo. 221. D.* c. s. venata, diasproide. c. s. 222. D.* c. s. var. diasproide. S. Martino di Montese. 223. D.* ec. s. var. simile all’ oficalce. 224. D.* e. s. var. diasproide venata. c. s. 225. D.* c. s. var, simile al diaspro agatato. c. s. 226. Ftanite argilloso-schistoide, con vene spatiche, in singolare infles- sione ad arco dei suoi straterelli. S. Clemente sul Sillaro. 227. Ciottoli marnosi, compressi, screpolati, che accennano alla forma- zione di piccole septarie. Colline Bolognesi. 228. Marna biancastra da laterizi con impronte vegatali. M. Paderno. 229. Un quadrettone bianco, cotto dell’ argilla bianca di Paderno. 230) {UnWeubo, Wes" cos DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 121 231. Un quadrettone rosso, cotto, dell’ argilla rossa di Paderno. 232. Un'’'cubosiieltestte: si 233. Un mattone refrattario dalle argille di Porretta. 234. Marna biancastra, arenacea; Colli suburbani. 235. Caolino, dalla scomposizione delle roccie verdi, feldispatiche. 2i- sano sull’ Idice. DESCRIZIONE DEI SOLFATI DI BARIO, STRONTIO, CALCIO, SODIO ece. CATALOGO DELLA RELATIVA SEZIONE NELLA COLLEZIONE DEL MUSEO —=)— BARITINA Vedemmo già nel sunto storico precedente che questo minerale venne quivi scoperto sul principiare del seicento. Ammirato per la sua pro- prietà di produrre splendida fosforescenza dopo speciale preparazione ed arroventamento; ricercata e descritta successivamente, con varia esattezza e diffusione, dal Poterio, dal Montalbano, dal Du Fay, dal Mangini, dall’ Herbert, dal Macquer, dal Liceti, dal Mentzelio, dal Marsigli, dal Beccari, dagli Zanotti, dal Vogli, dal Galvani, dal Mar- chetti (vedi Nota bibliografica), spesso citata dagli autori più mo- derni o contemporanei, la Baritina del Bolognese è un minerale fa- moso, e per le collezioni orittologiche ricercatissimo. Basterà quindi il ricordare rapidamente che questo solfato anidro di Bario, le cui stupende cristallizzazioni ortorombiche accompagnano i minerali metal- liferi di molte miniere dell’ Ungheria, della Boemia, dell’ Hartz, del Cumberland, della Sardegna, ecc. ecc., quì nel Bolognese, fra le argille scagliose, forma arnioni, nuclei, glebe, di variatissima grossezza, le minime avendo pochi millimetri di diametro, e pochi grammi di peso, mentre se ne hanno con oltre 22 centimetri di diametro, pesanti oltre 20 chilogrammi. La struttura interna di queste glebe è fibroso-raggiata, in taluni saggi, mentre in altri diviene bacillare e laminoso-radiata, o decisa- mente lamellare. La sfaldatura vi pone in evidenza, come di solito, le TOMO 1V. 16 1:42, LUIGI BOMBICCI faccie del prisma ortorombico primitivo, sia parallelamente, sia trasver- salmente alla direzione divergente dei cristalli allungati. Quando costituisce degli straterelli irregolari e frammentati, con struttura fibrosa, le fibre sono normali alle superficie più estese; ciò si osserva nelle argille di Monte Paderno, di Monte Renzio, di S. Clemente, e dei contorni di Porretta. Una varietà rossastra, in tenui straterelli ed in frantumi si rim- viene a Casaglia, ed ai Poggiuoli rossi presso Paderno. È poi note- volissima la var. stellata, inclusa nel calcare Alberese, di cui un bel- l’ esemplare trovato presso Monte Velio e citato dal Prof. Bianconi, è compreso nella collezione del Museo al N.° 215. L’ esemplare N.° 219 offre una varietà di questo stesso minerale in aspetto madreporiforme, assai raro; il successivo, N.° 220, si pre- senta quasi in forma di grappolo di tubercoletti ben distinti fra loro, costituiti per concrezione, e parzialmente rivestiti da velature cristalline di Marcasita, e dalla polvere nera che proviene da questa. Le località nelle quali si raccolse finora, per quanto è noto, la Baritina, nel territorio Bolognese sono: Monte Paderno, Monte Veglio, Monte Mag- giore, Pradalbino, Vezzano, S. Clemente di Monte Renzio, la Castellina, Rio Muro di Porretta, e Monte Granaglione. Devesi anzi alle zelanti richerche nel Sig. Dott. A. Lorenzini, la conoscenza di un nuovo giacimento di Baritina cristallizzata, presso le fornaci di Montese sul confine della provincia di Modena. Trattasi di un’ arenaria calcarea, frammentata, sulle cul superficie di frattura ve- donsi distese minute cristallizzazioni di Dolomite verdastra ( forse Mie- mite ), insieme a nitidissimi cristallini della Baritina limpida, di color giallo lionato o bruniccio. Questi belli cristallini sogliono essere accom- pagnati da lamine irregolari, da prismi imperfetti, della stessa sostanza, che .con disposizione bacillare radiata, e con fratture irregolarmente distribuite, non offrono alcuna forma determinabile e determinata. Avvi pure una marna argillosa finamente granulare, grigio giallastra, che similmente ritiene nelle cavità geodiformi fasci di prismi imperfetti, allungati e divergenti della stessa baritina giallo-bruna, qua e la inco- lora o celestognola. Anche quivi si osservano, e meglio, i rivestimenti di nitidi cristalli di Miemite, con forma di romboedro inverso e'=(201), e dello stesso colore verdognolo. I cristalli bacillari della baritina non offrono altre faccie se non quelle di sfaldatura; ma 1’ esemplare N.° 224 presenta un cristallo quasi incoloro, translucido, con rilievi aventi la DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 123 nota forma Pe'a'= (001, 101, 011); e l'esemplare N.° 222 tiene una superficie ineguale, vestita di minutissima e incerta cristallizzazione di calcite, con varii nitidissimi cristallini quasi incolori e diafani di baritina colla non frequente combinazione P, e', ba = (001,101, 111), ed M,el,g'bz, =(110, 101,100, 111). Resta a dire intorno alla proprietà di questo minerale d’ acqui- stare una pronunziata fosforescenza se esposto al sole e poi tratto al- l'oscuro, dopo di essere stato previamente calcinato in certe opportune condizioni. È noto che, oltre a certe materie organiche che divengono fosforescenti durante la loro putrefazione, vi sono parecchie altre so- stanze minerali, le quali sia per azioni meccaniche, sia per alterazioni d’ indole chimico-strutturale, sia per riscaldamento, sia per insolazione manifestano il fenomeno della rilucenza all’ oscuro. Per citarne alcuna nominerò la Blenda, la Calamina, la Fluorina detta Clorofane, il fosfa- to di Uranio, l’ Apatite ed il Diamante. Ma potrebbesi affermare che nessuna di queste levò tanta fama di se, nè destò così alto interesse, e tanto zelo di ricerche, di esperimenti e di ipotesi dirette ad espli- care il fenomo luminoso, quanto la nostra barite di Monte Paderno. Abbiamo già annoverati i nomi dei dotti e dei semplici scrittori che la illustrarono e la citarono; quelli poi che più diffusamente ne trat- tarono, in appositi libri, come il Liceti, il Cellio, il Marsigli, gli Za- notti, il Vogli, il Galvani ed il Marchetti, danno norme assai partico- lareggiate per ottenerne la migliore modalità fosforescente, e gli effetti più sorprendenti. Talvolta il medesimo processo è suggerito da più autori, talvolta sono lievissime ed insignificanti le modificazioni consi- gliate. Tutti sono pertanto in pieno accordo sulla necessità di calci- nare, ossia arroventare violentemente la pietra, nella sua forma natu- rale di glebette, in contatto dei carboni ardenti, dopo di averla avvi- luppata con una specie di pasta formata con polvere di essa medesima pietra e con un liquido un pò glutinoso o gommoso, come acquavite, soluzione di zucchero, di gomma adragante, di albumina od altre. Ov- vero di arroventare addirittura dei pastelli formati colla polvere, me- scolata all’ albumina od alla somma adragante. Gli antichi preparatori di questo fosforo di Bologna, prescrivono la formare la grandezza del fornello, e tre ore almeno di effettivo arroventamento. Stando a ciò che ne dice il CamiLto Ganvani °°, si usava generalmente un fornello cilindrico, formato di due pezzi so- vrapposti, con cupola di riverbero, o coperto soltanto con una lastra 1294 LUIGI BOMBICCI di ferro, e con pietre, e di tale capacità da mantenere per oltre tre ore una viva combustione colla prima carica dei pezzetti di car- bone dei quali deve essere riempiuto. Le glebette o le pastiglie formate colla pietra e la polvere ag- glutinata, si situavano sopra una graticoletta di rete di filo di ferro, interposta ai carboni, in alto e prima di dare il fuoco. Si sceglievano le varietà di baritina, più diafane, pure, e possi bilmente di color rossigno per trasparenza. Se ne passava per setaccio finissimo la polvere; questa impastavasi con acqua e con chiaro di uovo, o con acquavite, e si foggiavano generalmente a guisa di dischi di pochi millimetri di spessore, e del diametro di uno scudo circa. Nelle prove affatto empiriche, per tentare effetti vieppiù completi, si aggiungevano il salnitro, l’alcool e l’orina; e per avere diversa colo- razione nella luce emanata dalle pietre fosforescenti, si mescolavano alla pasta di barite, dei sali di soda, delle ceneri, delle particelle ramifere. Quando le pastiglie erano ben disseccate, si ponevano sulla graticola del fornelletto, si dava il fuoco, più attivo che si potesse, e quando si era il tutto definitivamente raffreddato si estraevano e se ne esami- nava il grado di virtù fosforescente che avevano conseguito. Certo sì è che quando la preparazione riesce bene, queste pastiglie, esposte che sieno per pochi momenti al sole, poi guardate all’ oscuro, sembrano carboni incandescenti, e conservano per anni questa loro attitudine. La luce diffusa, quella stessa delle candele e delle lampade, e suffi- ciente per produrre il fenomeno di siffatta fosforescenza (1). BARITO-CELESTINA Dal Sig. Prof. G. Bianconi fu raccolto, nel 1866, questo minerale che ebbi luogo di descrivere in una breve nota inserita negli Atti della Soc. Ital. di Sc. Nat. in Milano, nel 1868. Il chiarissimo Professore ora nominato lo scuopriva, sotto forma di amigdale appiattite e con (1) Così ne scrive il Masini (V. op. cit.) «..... quella singolarissima e fa- mosissima pietra Bolognese, detta da alcuni Ziteosforo, e da altri pietra illu- minabile e spongia di luce, la quale debitamente calcinata s’ imbeve di ogni sorta di lume, tanto del sole quanto della luna, e del fuoco, e lo ritiene per qualche spazio di tempo fra le più oscure tenebre, si che pare un carbone ac- ceso od un ferro infuccato, ecc. » DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 125 non bene demarcati contorni, nelle arenarie eoceniche del Rio male- detto, nel bacino del torrente Samoggia. Questa barito-celestina, risulta dall’ associazione poligenica dei due solfati ortorombici anidri di Bario e di Strontio, al pari di quella già nota di Seisser, nel Tirolo. Vi sì uniscono traccie di calce, ed un poco di acqua d’ interposizione. Il minerale, litoideo, è bianco traente al celestognolo; translucido nei tenui frammenti, diafano nelle laminette sottilissime di sfaldatura. Ha lucentezza madreperlacea; Dur. = 3.... 3,5 — P.Sp.= 3, 92. Strut- tura fibroso-lamellare, raggiata, con elementi rettilinei divergenti, da pochi millimetri di lunghezza, a più di sei centimetri, nei pezzi esami- nati fin ora; è fragilissimo al cannello, lo stesso minerale diviene opaco, splende di viva luce, si calcina rigonfiandosi, ma senza traccie di vera fusione. È insolubile, inattaccabile dagli acidi e dall’ acqua regia. Bisogna fonderlo con un eccesso di carbonato di soda puro, per averne la soluzione e condurne l’ analisi quantitativa. SELENITE La zona deile formazioni gessose che da Casale in Piemonte a Senigaglia presso Ancona dirigesi quasi in linea retta da N. O. a S. E. con vario sviluppo di forme litologiche distendesi nel Tortonese, si manifesta in alcuni punti del Piacentino, del Parmense, del Reggiano e del Modenese, ed attraversa i territori di Bologna e di Imola, quasi rasentando con i suoi più cospicui affioramenti la prima delle due nominate Città. I gessi del bolognese sporgono prevalentemente dalle così dette - mar- ne biancastre - del miocene superiore, e costituiscono vaste amigdale di un circoscritto deposito iniziale e di successive concentrazioni cristalline. Nella distribuzione di questa amigdale il Prof. Capellini distingue due zone o due allineamenti che crede poter attribuire ad uno spo- stamento nella direzione del torrente A posa. Nell’ una di tali zone starebbero allineate da S. O. a N. E. le masse gessose di Monte Donato, Barbiano e S. Vittore, di Miserazzano e Rastignano; di Monte Calvo, di Castel de’ Britti, di Ozzano di so- pra, di Varignana ece., verso Castel S. Pietro; nell'altra zona si comprenderebbero i gessi di Gaibola, Casaglia, Tizzano e Monte Capra. Spettano pure a questo complessivo allineamento le masse gessose di 126 LUIGI BOMBICCI Sassatello presso il Santerno, e dell’ Imolese. Il punto culminante di tali rilievi gessosi sta nel così detto , Cupolino della Rocca ,. Quì come altrove tali masse sembrano dovute ad un processo di gessificazione del carbonato di calce prodottosi contemporaneamente al deporsi di questa sostanza dalle acqne che la contenevano sospesa o disciolta; talmente che, come egregiamente avverte il Senatore Scara- belli, ,.... laddove la causa metamorfosante le particelle calcari o s marnose era insufficiente si formava un deposito di calcare concre- » zionato, in alcuni luoghi anche affatto seleioso; in altre parole, in » questi paesi, nel periodo cui appartiene il piano del gesso, si sa- » rebbero depositate stratificazioni di travertino se non si depositavano » gessi ,, e potrebbe pure aggiungersi, che laddove fossero state in- vece deficienti le particelle calcari, dalla riduzione del solfuro di Idrogeno sarebbesi probabilmente costituito solfo allo stato libero, e ne avrebbe tratto la sua origine una vera solfara analoga alle no- tissime di Sicilia e di Romagna. La struttura ampiamente cristallina di quelle amigdale pone in tutta evidenza una potentissima attività molecolare e cristallogenica la quale, costituitesi una volta le particelle del gesso, e adunatesi con marne ed argille in istrati più o meno considerevoli, costringevano quelle medesime particelle ad assumere le orientazioni più convenienti alla genesi dei grandi cristalli. Sospinte da siffatta attività esse parti celle meglio si adunavano presso i centri della massima sua manife- stazione; da ciò derivando eziandio la quasi completa separazione del gesso dall’ argilla e dalla marna che tutto al più restavano interposte al fitto intrecciamento dei cristalli, o diffuse fra 1 rispettivi piani di accrescimento, quasi formandovi la madrimacchia della porzione cen- trale, o delle zone intermedie e parallele. Il fatto della concentrazione cristallina, molecolare, singolarmente favorito dalle circostanze locali nelle masse gessose del territorio di Bologna, e notato quivi come carattere dominante nelle grandi ami- gdale che vi si riscontrano, risulta confermato da vari documenti, oltre la grande frequenza degli arnioni di Selenite acicolare, dei nidi a cri- stalli, dei blocchi e delle glebe gessose con struttura finamente cristal- lina e con forma tondeggiante e tubercolosa, quali s’ incontrano nelle argille di questo e di altri giacimenti. Per esempio, a Monte Donato, venne scoperta nel 1860 una enorme geode a cristalli colossali, accuramente descritta dal Prof. Do- DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 127 menico Santagata {1) cui fu dato di arricchire il Museo nostro con una grande serie di quei cristalli medesimi. Non è difficile discernere nella struttura ampiamente cristallina dei grossi strati di Selenite a ferro di lancia certe aree nelle quali la cristallizzazione riesce oltremodo grandiosa ed appariscente con tenden- za nei singoli cristalli a convergere con i loro assi principali verso un punto centrale. Che anzi, sul torrentello detto Centonara, sotto le balze ed i calanchi di Ozzano, nel luogo detto Dozzola, vedonsi de- nudate alcune masse gessose le quali per essere conformate a grandi sferoidi, con diametro spesso di 1,50, dimostrano sulle loro naturali sezioni la bellissima struttura di zone concentriche, nelle quali la cri- stallizzazione, pur mantenendosi irvaggiante dal centro verso la periferia, assume grado differente di sviluppo e di depuramento. Tutto questo non toglie che 1 originaria stratificazione si riveli chiaramente anche laddove più largamente cristalline si resero le con- centrazioni e le amigdali; ed infatti mentre da una parte la cristalliz- zazione non pervenne a cancellare i piani di sedimento meglio demar- cati dei grossi strati che si andarono sovrapponendo durante il proce- dere della formazione, dall’ altra parte, fra strato e strato, si distesero certi straterelli di argilla e di marna a contrassegnare quegli intervalli di relativa sosta, ai quali appunto si deve la distinzione stratigrafica in una formazione sedimentaria; intervalli, 1 quali nel caso di cui è parola, si sarebbero probabilmente subordinati a quelle intermittenze di attività che contrassegnano la maggior parte dei fenomeni vulcanici. Nelle componenti masse di gesso del vicino Monte Donato possono vedersi distintamente questi straterelli di argilla frapposti ai potenti banchi selenitosi, ed anzi fu in essi straterelli che vennero recentemente scoperti, siccome poco avanti dicemmo, i fossili più caratteristici delle gessale dell’ intiera zona or ora indicata, fossili che il Prof. Capellini aveva primamente scoperti nel celebrato giacimento della Castellina presso Volterra, il Lebias crassicauda, le larve della libellula doris ed alcune filliti. Ed anzi prima di descrivere la serie di esemplari di Se- lenite della nostra collezione del Museo, e quindi implicitamente le particolarità mineralogiche e cristallografiche della Selenite medesima, (1) Santagata Dom. Dei cristalli di gesso nelle argille del bolognese. Mem. Accad. Bol. pag. 55. 1860. 128 LUIGI BOMBICCI amo di riportare ciò che lo stesso chiarissimo Professore scrisse circa l’ origine e la cronologia delle rispettive formazioni gessose in un re- cente breve cenno sulla geologia del Comune di Bologna, colle frasi che appresso: , le grandi escavazioni dei gessi di Monte Donato hanno permesso di riconoscere ben distinta la stratificazione e l’ associa- zione con marne gessose fossilifere. Fino dal 1860 avevo scoperto nelle marne gessose di Monte Donato fossili vegetali, ma i pesci e le larve d’ insetti fin d’ allora preconizzati si trovarono soltanto nello scorso anno 1869. I Lebias e le larve di libellula ormai ci assicurano che i gessi e le marne gessose del bolognese sono contemporanee di quelle del Senigalliese, Tortonese, Livornese, Volterrano. » 1 gessi si depositarono in bacini di acqua dolce, in mezzo alle n» » bi) ” » marne marine sopraccennate. SERIE DEGLI ESEMPLARI DI SELENITE E DEI PRODOTTI CEE NE DERIVANO 1. Categoria SELENITE IN CRISTALLI VOLUMINOSI GENERALMENTE ISOLATI Nelle regioni delle grandi amigdale selenitose, dove il lavorìo cristallogenico potè svilupparsi presso grandi fratture, nelle disconti- nuità e nei vacui geodiformi, si annidano quei meravigliosi cristalli prismatici o lenticolari di pura selenite, i quali talvolta di sorprendente limpidezza, più spesso nebulati o cosparsi di tenuissime particelle ar- gillose raggiungono un metro colla loro lunghezza e più chilogrammi col loro peso assoluto. Se ne hanno di così limpidi, trasparenti ed incolori che sembrano forme affatto vuote. La già citata geode scoperta dal Prof. Santagata ne fornì di stu- pendi, come può a colpo d’ occhio vedersi nella sala della mineralogia Bolognese, nel Museo, e tuttodì se ne trovano dai minatori e vengono accumulati presso le cave, destinandosi alla preparazione della scagliola. L’ argilla bluastra o giallognola suole compenetrare i cristalli di Selenite e qualche volta in tal copia da renderli opachi, senza tuttavia DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 129 impedire il facile prodursi delle sfaldature. Generalmente l’ argilla resta localizzata in certe parti di tali cristalli, subordinatamente alla simme- tria della loro forma geometrica. Ora si è lungo l’ asse principale che si addensa tale argilla; ora, e più spesso, in zone parallele alle faccie più sviluppate e caratteristiche. Non di rado la medesima sostanza, distribuendosi per via di azioni molecolari nella limpida massa di un cristallo geminato, vi riproduce la forma del ferro di lancia e pone in vista il piano stesso di geminazione; sono poi bellissimi quei cri- stalli di selenite, solitamente voluminosi e ben conformati, nei quali la sostanza argillosa, resa tenuissima e quasi omogenea, occupa una sola parte longitudinale facendo brusco ed immediato passaggio alla porzione limpida e pura, o vi degrada insensibilmente, rarefacendosi, e poco a poco divenendo indiscernibile. Spesse volte rappresenta di- stinti straterelli piani e paralleli fra loro, ovvero un solo strato la cui superficie, verso la parte interna e limpidissima del cristallo, è legger- mente ondulata o increspata siccome quella di un liquido addensato e fluttuante; ovvero, una quantità di nuvolette a contorno sfumato e di una configurazione bizzarra e svariatissima. La serie dei cristalli di selenite che fa parte della collezione della provincia bolognese nel nostro Museo dà bastevole idea delle partico- larità principali offerte dagli esemplari di Monte Donato e di qualche altra ubicazione. Ci limitiamo a precisare i simboli delle faccie 0s- SesvatefimWoraWciod: SM: —4li0vos (010 (010 de 11718, g°—= 120, ed a riportarne letteralmente, un poco più oltre, i] catalogo descrittivo. Litologicamente considerato il solfato di calce nella provincia nostra trovasi caratterizzato da differenti strutture, a partire dalla più cospi- cuamente cristallina e già bastevolmente descritta, fino alla più deci- samente compatta. Laddove sporgono i rilievi delle amigdale, quindi presso ai centri di massima azione cristallogenica, la roccia gessosa consiste in una vera congerie di grossi cristalli le cui facilissimi sfaldature pongono in vista ampie superficie piane e lucentissime; inoltre 1’ abituale gemi- nazione v'imparte la forma che dicemmo a ferro di lancia, e che notammo così frequente nei cristalli isolati tanto se purissimi quanto se inquinati di argilla; a misura che ci si allontana dai punti di più attiva concentrazione vedesi degradare lo sviluppo delle forme polie- driche nel gesso, prevalere 1’ elemento argilloso e marnoso nelle masse TOMO IV. AT 130 LUIGI BOMBICCI rispettive, manifestarsi un passaggio alle varietà granulari, alle glebe finamente cristalline, e quasi saccaroidi come 1’ alabastro, finchè il sol- fato di calce si rende veramente accessorio e subordinato. Insieme al gesso in cristalli suol trovarsi anche quello fibroso o sericeo detto pure sericolite; se ne trovarono talvolta degli esemplari così belli ed eleganti da essere riuscito di ricavarne, lavorandoli, gra- ziosi oggetti di ornamento. Il Prof. A. Santagata nel libro , Iter ad montem vulgo della Rocca , ©, descrive questa sericolite, ed il Museo bolognese ne possiede una bella colonnetta, una collana, una scodelletta ed un tazza che si ricavarono per cura caello stesso Professore da taluni pezzi da esso pure raccolti (vedi N.° 234, 235, 236 del catalogo). Non sapremmo lasciar questi cenni sul gesso senza notare il sin- golare fatto di gessificazione che continuamente si produce, sebbene in piccola scala, laddove si decompongono le piriti in contatto delle marne e dei calcari. Le piriti allo stato di arnioni o di masse cristalline, de- componendosi per ossidazione lenta del solfo e del ferro, si riducono in ossido ed in solfato di ferro; per doppia decomposizione in contatto del calcare producono ocra di ferro e solfato di calce. Presso Rio-muro a Porretta questa origine della selenite si produce veramente in modo istruttivo; avvi un agglomerato di nucleetti piritosi addossati ad un calcischisto, coperti di sabbia ocracea, decomposti in gran parte e tra- sformati in limonite nella loro decomposizione avendo prodotto del solfato di ferro, e questo essendosi trovato in contatto del carbonato di calce, si è formato del gesso in concrezioni compenetrate di ocra gialla e di carbonato di ferro in particelle cristalline. Mancano nella provincia di Bologna le magnifiche e preziose va- rietà saccaroidi che col nome di alabastri gessosi sono tanto sviluppate e profittevoli nella provincia di Volterra in Toscana e che dalla com- pleta candidezza e translucidità passano alle più graziose apparenze di marmi colorati con infinite gradazioni di tinte e con piena attitudine ad un perfetto e durevole polimento. Tuttavia una varietà alabastrina ed ornamentale di gesso, adoprato come marmo, grigio-venata, suscet- bile di polimento, trovasi a Sassatello sul fiume Santerno, presso il con- fine del territorio Imolese. Abbondante come essa è la Selenite nel circondario di Bologna si adopera in grande proporzione per gli usi edilizi e decorativi e per le applicazioni alla scultura ed alla plastica ornamentale. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 9 Le varietà largamente cristalline nelle quali un fitto intrecciamento di cristalli geminati frammisti a tracce di argilla, induce una notevole tenacità, furono usate anco dagli antichi costruttori bolognesi come pietre da costruzioni la cui poca durezza e la cui disgregabilità sotto le azioni meccaniche di attrito e di pressione può essere compensata dalla stabilità di composizione chimica e dalla provata resistenza all’ azio- ne degli agenti atmosferici. Talmente che, mentre vedonsi tali pietre far meschinissima prova di se, adoprate che sieno per farne stipiti e parapetti nei fabbricati ovvero paracarri lungo le strade, vedonsi riu- scire singolarmente opportune, e dirò ancora eleganti e decorative, lad- dove vennero da secoli applicate in forma di grossi parallelopipedi nei muraglioni, o di lastroni nei rivestimenti di certi edifici come la mu- raglia del giardino pensile dietro il Teatro Comunale, 1’ imbasamento delle antiche torri dell’ Arcivescovado, della Garisenda, dei Galuzzi ecc., entro la Città di Bologna, nonchè molti muri di sostruzione lungo le strade suburbane, verso le colline. Le pioggie poco a poco dilavano le superficie di tali lastroni dal tritume argilloso e gessoso che per effetto del taglio dovette adunarsi sui cristalli; le faccette e le lamine di sfaldatura di questi tornano nitide e se ne appalesa la variatissima orientazione; e quando siano per- cosse dai raggi del sole assumono uno splendore argentino vivacissimo. Spezzata in piccoli blocchi la pietra lamellare di selenite si ado- pera altresì per contornare in vaga maniera le ajuole dei giardini, per erigere fantastiche grotte nei parchi, e ridotta in più minuti frammenti per cospargerne i viali ai quali non sogliono accedere che i soli pedoni. Ma il consumo più esteso della selenite si fa riducendola allo stato di gesso cotto, da adoperarsi come cemento nei muramenti, co- me pasta da modellare o da gettare negli stampi per averne i rilievi, e come materia prima per la confezione degli stucchi e delle imita- zioni di marmi e di altre pietre d’ ornamento. È noto che la selenite, scaldata che sia, senza oltrepassare i 60° per non alterare la struttura delle sue particelle fisiche cristalline, perde l’acqua di idratazione che già possedeva, si riduce bianca disaggre- gata, polverulenta ; se in tale stato riducasi con acqua in poltiglia quasi liquida torna ad idratarsi e tende a riordinare con assettamento rego- lare, cristallogenico, le proprie particelle. Se non che, questo assetta- mento producendosi con rapidità, le particelle intrecciandosi fra loro ed aggregandosi confusamente in massa, ne resta impedito lo sviluppo TS9 LUIGI BOMBICCI di nitidi e voluminosi cristalli mentre ne deriva il pronto solidificarsi di quella liquida poltiglia che quasi s’ impietrisce, svolgendo calore, ed aumentando sensibilmente il suo proprio volume. Interposta tale poltiglia, avanti che si rapprenda e si solidifichi, fra pietra e pietra, serve da cemento ; distesa sulle muraglie e sulle can nicciate funziona da intonaco; versata entro stampi in incavo di 0g- getti di arte e di preparazioni scientifiche serve per modellarli e per riprodurne le forme con tutta facilità e precisione. Nei contorni di Bologna, e specialmente a Monte Donato fuori di porta S. Stefano, si prepara il gesso cotto da costruzioni e da in- tonachi, disidratandolo grossolanamente ed imperfettamente nel luogo stesso della cava con un processo molto semplice e primitivo. Si com- pone una piccola vòlta pertugiata con grossi blocchi di pietra a gesso appoggiandola ad una parete della stessa cava; sopra questa vòlta si caricano ed accomodano i pezzi gradatamente più piccoli a misura che il cumulo si va elevando; e si accendono dei fascinotti sotto la volta medesima finchè non si giudichi bastevole la cottura così impartita alla massa. Il gesso disidratato si pesta o sì macina riducendolo in polvere di aspetto farinaceo; questa polvere si staccia e si abburatta per di- viderla dai frantumi troppo grossolani, e posta nei sacchi si trasporta a Bologna od altrove. Il gesso per i lavori di modellamento, per li stucchi a rilievo e per altre applicazioni di carattere decorativo, quello per gl’ intonachi a polimento detto di scagliola, con i quali così bellamente si adornano palazzi, chiese, teatri, monumenti, imitando le più pregevoli specie di marmi ed i più eleganti mosaici, si prepara invece cuocendo la sele- nite in appositi forni, scegliendo i grossi cristalli ed i pezzi più puri, quali vengono appositamente messi in disparte durante le escavazioni. A Monte Donato vedonsi aperte parecchie cave in diverse e non lontane ubicazioni della grande massa; cinque per altro sono le più considerevoli sia per l’ imponenza delle moli che somministrano il materiale da gesso, sia per l’ attività della rispettiva coltivazione. I Sig." Dallanoce e Lorenzini ne sono i proprietari; vi lavorano circa 50 giornalieri, fra quelli che attendono alle mine e quelli che tengono dietro alle varie altre operazioni di cottura, macinazione, imballatura e trasporto del gesso da consumo; vi si aggiungono due piccoli e rozzi edifici per la triturazione meccanica del gesso cotto, nei quali le ma- DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 11535) cine, disposte come nei comuni franto] da olive, sono mosse a forza di cavallo. L’ escavazione vi procede a cielo aperto, od in brevi cuni- coli di attacco. Vi si impiegano le mine. I dati numerici sulla produzione del gesso cotto in questa nomi- nata località sono incerti, poichè sommamente variabili, sia di anno in anno, sia nelle diverse stagioni di un anno medesimo. Anche la molteplicità dei proprietari e la loro indipendenza nel traffico di cui si tratta; il sistema delle affittanze, la generale noncuranza nel tener conto della produzione e del dispendio a questa inerente, impediscono la probabilità di una conveniente approssimazione nel calcolo del valore netto che da tale industria suole derivare. Tuttavia addurremo i ragguagli che poterono, qua e là, conse- guirsi. La macina principale pone in commercio fino a 500 corbe bo- lognesi da gesso, per settimana; la minore, da 200 a 300 corbe. Altrettanto può riferirsi alle pestature a mano, prese in complesso; quindi circa 1500 a 1600 corbe per settimana, in cifra tonda e van- taggiosa, equivalenti a 90, 96 tonnellate. Ciò darebbe da 2700 a 2880 tonnellate mensili, ed oltre a 30, 000 tonnellate annue per la complessiva produzione del gesso cotto nelle principali cave del terri- ritorio Bolognese. Nella Memoria , Sui dati statistici del bacino del torrente Samoggia , letta alla Società Agraria di Bologna, dal Sig. Ing. Luigi Franceschini, nel Maggio 1856, e successivamente stam- pata, si riscontra che la più copiosa cava di pietra da gesso della vallata del Lavino, precisamente situata nella parrocchia di Gesso, produceva allora circa 30,000 tonnellate annue, equivalenti a circa 2500 metri cubici, rappresentanti un valore di circa L. 17,000; ciò per opera di una decina di famiglie di gessajuoli, e di una operosità di 10 mesi lavorativi per anno. Giova pertanto d’ insistere sulla poca sicurezza dei dati sui quali dovette basarsi il calcolo, e sulla frequente mutabilità della misura nelle richieste di questo prodotto. Fuori di città il gesso cotto vale in media L. 1,06 per quintale. In città, compreso il trasporto ed il dazio, vale circa L. 1. 25, per quintale metrico. Non fu possibile di sapere la cifra media dell’ importazione in città, poichè nei registri del dazio consumo confondesi il gesso cotto colle calci e con altri materiali da costruzione. Oltre al considerevole impiego che se ne fa in provincia, il gesso 134 LUIGI BOMBICCI medesimo viene esportato a Firenze, nelle provincie di Ferrara e di Modena, e nelle vicine Romagne. Baritina » 236, 237. D.* le due porzioni «li un magnifico arnione, con struttura raggiata, assai regolare di forma, del peso di 20 chil. Monte Veglio. 238. Grosso arnione sferoidale pesante 5 chil. c. s. 239. Arnione ellissoidale, o lenticolare, sezionato, a struttura distinta- mente laminosa. c. s. 240. Arnione irregolarmente discoidale, a superficie lucente in parte, per levigatura meccanica naturale. c. s. ‘241, 242, 243, 244. Serie di arnioni di media grandezza, della var. prevalentemente lamellare. Monte Paderno. 245. Serie di straterelli frammentati, fibroso lamellari. c. s. 246. Tre arnioni, a struttura laminosa, translucidi, lavorati in forma ellissoidale, a superficie polimentate. 247. D.* in tenui straterelli di color rosso mattone, translucidi, fram- mentati. Casaglia. 248. D.* simile alla precedente. Dei Poggiuoli rossi. 249. D.* c. s. in straterelli curvilinei, frammentati. c. s. 250. D.* che compenetra la marna di un frammento di septaria. Porretta. 251. D.* in piccola concentrazione, a guisa di stelletta, nel calcare alberese. 252. Arnione fibroso-raggiato, nell’argilla scagliosa. R70-Muro. Porretta. 253. Arnione ellissoidale, allungato e compresso, con superficie ine- guale, e con una specie di peduncolo, nel senso dell’ asse mag- giore. Monte Granaglione. 254. Arnione diviso per metà, con struttura fibroso-raggiata. Castellina. 255. Piccolo arnione con rivestimenti concentrici di ossido mangane- SLfero: c.(S.. 256. D.* concrezionata in forma di grappolo, a tubercoletti ben di- stinti, aggregati, con argilla interposta e con tenui parziali vela- ture cristalline di Marcassita. Porretta. 257. D.* di forma madreporitica bianca, cristallina in massa, con ve- lature nerastre, terrose, superficiali, con argilla ecc. Porretta. 258, 259. Porzioni di un grosso arnione nel quale la baritina lamel- lare, bruna raggiata, forma un rivestimento periferico, di circa un DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 35 centimetro, attorno un nucleo grigio bluastro, a struttura uniforme, finmamente lamellare. 260, 261. D.* in piccoli e nitidi cristallini giallognoli, bruni ecc., con masse laminose, giallo-brune, nella marna. JSornaci di Montese. 262, 263. D.* c. s. incolora e bruna, bacillare con Miemite romboedri- Cad: 264. D.* in cristallini, e poliedrini di sfaldatura, dal sunnominato gia- cimento. €. s. 265. Barito-celestina, bianca fibrosa, raggiata, nella molassa. 0 Maledetto sulla Samoggia. 266. D.* c. s. in istraterello, nella molassa, 267. Solfato di Magnesia; dalle efflorescenze delle argille scagliose nella galleria Augusta. Bisano sull’ Idice. Selenite 268. Var. fibroso-sericea, a fibre trasverse, in massa, del Monte Capra. 269. D.* quasi bacillare. c. s. 270. D.* fibroso-sericea, a fibre parallele. Monte Capra. 271, 272. D.* c. s., con bella apparenza c. s. 273, 274. D.* c. s. fibroso-sericea. Monte Donato. 275. D.* a fibre separate, delicatissime, amiantiformi. c. s. 276. Colonnetta di gesso fibroso (sericolite), lavorata al tornio, per cura del Prof. A. Santagata, che la descrisse nella citata Memo- ria. Monte della Rocca. 277. Capsula lavorata. ce. s. 278. Collana di perle, lavorate c. s. 279, 280. Gruppo di cristalli di Selenite, con geminato a ferro di lancia, compenetrati di materia argillosa grigio-bluastra. 281, 282. Var. c. s. Gruppo di cristalli più voluminosi dei preceden- tibi CHNS: 283. Var. c. s. in aggregato regolare di cristalli, confusi in una sola massa nella regione centrale, distorti, informi e curvilinei. c. s. 284, 285, 286. Var. in piccoli cristalli, a ferro di lancia, grigio blua- stri, argilliferi, aggregati fittamente nella marna. Monte Donato. 287. Var. M.gl'i=(110.010.111). Gruppo di piccoli cristalli emi- tropi, a ferro di lancia, compenetrati e cementati di argilla. Mon- te Donato. 136 LUIGI BOMBICCI 288. Var. in piccoli cristallini liberi, incompleti, multipli, irregolari. c. s. 289, 290, 291. Var. fortemente argillifera, quasi opaca, di color gri- gio cupo, con singolare struttura cristallina che forma un sistema tabulare, contorto a paraboloide, di elementi laminosi, addossati in piani perpendicolari alle superficie più estese, e lievemente diver- genti. Monte Donato. 292. Var. laminosa limpida, giallognola, in massa. c, s. 293. Grosso cristallo che dalle forme M.g'.i, passa alla lenticolare con sfaldature, e marna aderente. c. s. 294, 295. Grandi lastre di sfaldatura con zona mediana limpida ed incolora, e con zone laterali limpide, più o meno vivacemente colorate in bel giallo topazio, ed in giallo-bruno, con lieve diffu- sione argillosa. Il piano di geminazione è visibile nella linea mediana della zona incolora. 296. Var. lenticolare, grigia argillifera, con faccie irregolari, appannate, indeterminabili, con parte di un cristallo laminoso, incastrato late- ralmente. c. s. 297. Assai grosso cristallo, completamente lenticolare, grigio, translu- cido, con piccoli cristallini aggregativi. c. s. 298. Porzione c. s. di enorme cristallo lenticolare, con geminazione a ferro di lancia, assai argillifero, nella cui parte limpidissima si travedono i nitidi piani di geminazione. c. s. 299 al 303. Var. lenticolare, con geminazione a ferro di lancia, nella quale sopra un voluminoso individuo si addossano con direzione trasversale, uniforme, altri individui minori pure lenticolari. Mon- te Donato. 304 al 310. Var. lenticolare in grossi cristalli, con geminazione a ferro di lancia, divisi per metà da un piano di sfaldatura. Sono generalmente limpidi, di colore volgente al gialliccio c. s. 0. 8. 311 al 315. Var. simile alla precedente, in grossi cristalli, mirabili per la loro straordinaria limpidezza; alcuni sono purissimi e per- fettamente incolori c. s. c. s. 316 al 322. Var. simile alla precedente in minori esemplari, lentico- lari in parte, con parziale nebulosità, indotta da tenuissima ma- teria argillosa. c. s. c. s. 323. Var. lenticolare nella quale pur si distinguono le faccie proprie della forma trapezoidale. Elegante cristallo, quasi completo, limpi- dissimo, a superficie finamente rigata per decrescimento. €. s. DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 137 324. Var. lenticolare multipla, nella quale apparisce evidentissima la curvatura paraboloide. c. s. c. s. 325. Grossa lastra di sfaldatura, in parte limpidissima e lievemente giallastra, con irregolari concrezioni di marna calcare, incluse e visibili per trasparenza. c. s. 326. Var. c. s. laminosa, limpida, a ferro di lancia. c. s. 327. Bellissimi cristalli a ferro di lancia, con aree limpidissime, ed altre giallastre-argillifere. c. s. 328. Var. c. s. in parte limpidissima ed in parte con zone argillose e singolari allineamenti capillari, normali al piano di gemina- zione. c. s. 329, 330. Var. geminata in forma di prisma romboidale 331. Var. M,g'.i=(110,010,111),in forma allungata, con rilievi e strie di decrescimento, specialmente sulle faccie i; limpido, in- coloro. c. s. SS200Var ME IDOLI MES ((60 5) oruppo di cristalli dove M, gl i''' forma asse, attraverso la forma M g' i, geminata ecc. a ferro di lancia. 333. Var. a ferro di lancia, molto allungata, in parte argillifera, 334. 335, Var. a ferro di lancia con subitaneo passaggio dalla parte limpida alla argillifera. c. s. 336, 337. Var. c. s., con geminazione a ferro di lancia molto pro- nunciata, e con zone argillose, e parziale colorazione gialla. 338, 339, 340. Var. simile alle precedenti, in sezioni laminari lim- pide. c. s. 341, 342. Var. a ferro di lancia, limpide in parte, con bizzarre dit- fusioni argillose. c. s. 343. Var. c. s. in doppia sezione con diffusione argillosa a bande parallele. 344. Var. a ferro di lancia, con singolari disposizioni argillose, doppia sezione laminare. 345. Var. in elegante cristallino a ferro di lancia allungatissimo, ar- gillifera. 346. Var. geminata a ferro di lancia, argillifera, quasi opaca. c. s. 347. Var. M.g'.i, e. =(110, 010, 111, 011), con geminazione nel piano parallelo ad h' = (100). 348. Var. lenticolare, per decrescimento curvilineo delle faccie i, M, e' = (CIPRIALO: 0). eb! TOMO IV. 18 138 . LUIGI BOMBICCI 349, 350, 351. Var. in massa laminosa argillifera, con grandi ele- menti variamente e irregolarmente orientati, quale si usa anche per pietra da taglio ecc. c. s. 352. Var. c. s. tagliata in forma di cubo. c. s. 353. Var. finamente granulare, o alabastrina, bianco-venata, con mac- chie grigiastre ecc. Sassatello ( Santerno) . 354. Var. c. s. in forma di cubo. c. s. 355. Gesso cotto da formatori di 1° qualità. Monte Donato. 356. Selenite in roccia con minuta ma nitida struttura cristallina. Ce- mento marnoso. Contiene piccoli cogoletti di solfo nativo. Farnè. 357, 358, 359. Var. c. s. con differente sviluppo di cristallizzazione. c. s. 360. Selenite in cristallini che compenetrano una concrezione stalla- gmitica, formatasi nel macigno. Porretta. 361. Incrostazione cristallina a straterelli, formata di acque selenitose. Bolognese. 362. Selenite laminosa nel legno silicizzato. Bolognese (?) 363. Selenite in gruppi di cristalli, e in nucleetti, dalle argille sca- gliose. Paderno. 364. Selenite compenetrata di ocra gialla, in glebette forse derivate dalla scomposizione di arnioni di Marcasita. Monte PRenzio. 365 al 370. Calcare concrezionato, che forma tenui straterelli concor- danti ai banchi colossali di gesso lamellare a Rivola, presso Monte Mauro nel comune di Riolo; questo calcare include nu- merosi fossili del genere Melanopsis. APPENDICE ALLA SERIE DEGLI ESEMPLARI DI SELENITE 371 al 378. Otto grandi cristalli lenticolari, completi, resi bluastri in parte da compenetrazione argillosa, con geminazioni, ed adesioni di piccoli aggregati di altri minori cristalli. Monte Donato (geode Santagata). 379 al 392. Quattordici cristalli lenticolari, taluni di figura traente alla rombica simmetrica, altri in segmenti pure lenticolari, altri DESCRIZIONE DELLA MINERALOGIA GENERALE 139 con geminazione, ma tutti con cristallizzazione completamente circoscritta. Sono giallognoli e translucidi, di varia dimensione. Idem. c. s. 393 al 410. Diciasette porzioni di grossi cristalli, ridotte quasi prisma- tiche dalle due faccie parallele della sfaldatura principale, rimar- chevoli per la estrema limpidezza, per le gradevoli colorazioni giallo-lionate, più o meno diffuse, o per le singolarità delle com- penetrazioni argillose. ldem. c. s. 411 al 425. Quindici assicelle rettangolari, verniciate di colore azzurro, e attaccate in alto alle pareti sovrastanti agli armadj della colle- zione, con superficie, di M. 0,80 X M. 0,54 ciascuna, portanti un complesso di N.° 100 cristalli colossali. Monte Donato ( geode Sant.). 426. Assicella maggiore, con sette cristalli colossali, uno dei quali lungo oltre un metro. Monte Donato. c. s. FINE DELLA PRIMA PARTE VRUIAIOT } (a, di Dei x % n iui Li Tita ii ra bi HI il TI Iii i ì { ; f i n° ) N . PRIN RIARIAO NI) APRO è Ù CR Ac VO: A TIRAITTA ua Ù Ira SPA NALI il # AA Ù I ; N ui MEGA) vi ta, il î LA VACCINAZIONE PUBBLICA E L'EPIDEMIA DEL VAICOLO NEL COMUNE DI BOLOGNA DAL 1° LUGLIO 1870, AL 30 GIUGNO 1872 MEMORIA DEL DOTT. CARLO SOVERINI ( Letta nella Sessione 10 Aprile 1875) Ba delle più gravi quistioni, che in questi ultimi anni abbia tenuto e tenga tuttavia occupata la mente di non pochi illustri Medici ed Igienisti, si è certamente quella che ha per iscopo di stabilire se nella pratica della profilassi vaccinica il metodo wmanizzato ovvero l’animale debbasi preferire. E poichè un tale argomento tanto dispu- tabile e tanto disputato non può venire rischiarato se non se dai fatti nuovamente osservati, così per contribuire a questo importantissimo com- pito ho creduto conveniente di riferire il risultamento delle osservazioni che ebbi campo di fare sulle vaccinazioni pubbliche operate nel Co- mune di questa nostra città, dal secondo semestre 1870, in cui oltre alla linfa umanizzata si cominciò a fare uso pure dell’ animale, fino a tutto il primo semestre 1872. Ed a ciò fare tanto più sono in- dotto, quantochè negli ora accennati due anni essendo malaugura- tamente regnata anche fra noi la epidemia vaiuolosa, ebbi perciò l’ op- portuno incontro di studiare in una certa ampia scala la forza preser- vatrice delle due specie di vaccino in relazione eziandio al morbo epidemico cui fummo sottoposti. Incomincio quindi coll’ osservare che sebbene sia molto probabile che le prime vaccinazioni Jenneriane fossero animali, gli è però fuori di dubbio che lo stesso Jenner addottò in massima generale la vaccina- zione umanizzata, chiamata perciò anche dal suo celebratissimo nome, LI e certa cosa poi è che fin dal suo nascere tale fu il metodo preferito 142 CARLO SOVERINI in Italia. Metodo che per una lunga serie di anni non interrottamente fu accolto con una fede quasi universale, nonostante che fin dal principio di sua pratica i Medici inglesi avessero osservato talora succedere alla pustula vaccinica un’ eruzione sui generis, accompagnata da fenomeni generali, da essi chiamata cow-pox itch e curabile mercè lo zolfo, ed il mercurio. Col progredire del tempo non pochi altri medici sì italiani che stranieri, benemeriti tutti dell'umanità e chiarissimi per sapere, in seguito a prove di fatto accusarono questo motodo di vaccinazione siccome probabile cagione di addivenire il veicolo di esiziali germi al- l'organismo umano e particolarmente del sifilitico. Per la qual cosa entrata nell’animo dei medici una giusta temenza a poco a poco venne inaugurata un’ era nuova di osservazioni, di esperimentazioni, di studi, che guidarono ad ammettersi pur troppo le malaugurate e ben note in- fezioni celtiche in varie contrade d’Italia, di Francia, d’ Inghilterra, e di Germania. Ben è vero che in presenza di fatti sì dolorosi alcuni sì prova- rono d’oppugnarne la verità, o almeno di scemarne | importanza acca- gionandone ad esempio la poca avvedutezza ed imperizia dei vaccinatori, od il difetto del tecnicismo vaccinico; tuttavolta però essa rimase ad- dimostrata. Il ch. Pelizzari fece manifesto con istudi suoi particolari che la trasmissione della sifilide avvenisse per mezzo del sangue, e questo benefico umore rimase sotto l’accusa d’essere il veicolo della lue cel- tica, qualora nell’ atto dell’ insizione se ne verificasse la miscela col virus vaccinico; oppure siccome dice il Simonet, qualora venisse trasportato mediante la lancetta di esso imbrattata sulla pustula del vaccinifero, e di là trasmesso ai successivi vaccinandi. Ma anche in- torno all’ opinione del sangue a valere sulla propagazione della ma- lattia sifilitica, non si trovarono in accordo gli autori; e mentre alcuni la sostennero, fra i quali, e primo anzi 1 Omodei, altri invece l’ oppu- gnarono, siccome fece il nostro Gamberini. Ond° è che i molti esperi- menti e le molteplici prove, e controprove poste innanzi dagli illustri contendenti onde sostenere il rispettivo loro assunto non valsero a far progredire gran cosa questa grande quistione di igiene sociale, la quale perciò rimase, e rimane tuttavia un problema di difficile soluzione. I funesti episodi vaccinici accaduti determinarono però i più di- stinti e benemeriti cultori della nostra scienza in Italia a cercar modo LA VACCINAZIONE PUBBLICA ECC. 143 di sostenere il pericolante edificio della vaccinazione a bene del genere umano, introducendo riforme radicali nel metodo di praticarla. Inaugu- ravasi quest’ opera nobilissima a Napoli dal Ga/biati fino dall’ anno 1810, col mantener vivo nella specie bovina, mediante successivi e non interotti trapassi il cow-por spontaneo, e la si continuò dopo la morte di lui e la si continua tuttavia dal suo discepolo il Negri. Il Palasciano poi ha avuto il merito rilevantissimo di introdurre nel 1864 in Francia questa pratica, la quale solo in questi ultimi sei anni si diffuse realmente nella nostra penisola. E di vero fu dopo le quistioni che seguirono alle solenni discussioni della Francia (quistioni che pos- sono essere comprese in queste due gravissime, possibilità di tra- smissione della sifilide, e fallibilità e degenerazione del vaccino uma- nizzato) che ebbero origine oltre quello di Napoli i principali centri di vaccinazione animale costituitisi quì in Bologna, Milano, Sinigaglia, Venezia, Verona, Ancona, Roma, ed in altre cospicue città d’ Italia. Accolta la quistione nei centri scientifici più valutabili d’ Europa e trovandosi la pratica vaccinica umanizzata quasi che decaduta per le gravi imputazioni mossele contro, si ebbe cura da taluni di rialzarne il prestigio, di rivendicarne il valore. Di quì ebbero incominciamento gli articoli dei Giornali, le dispute accademiche, i resoconti di comi- tati, i prospetti statistici; di quì portato l’ arduo problema ai Congressi Scientifici, nacquero i varii ordini del giorno, % concorsi a premio, le inchieste del governo, tutto tendente al medesimo scopo tanto bene formulato dal dottissimo, e benemerito nostro collega il Cav. Dott. Orsi all’ ultimo convegno medico di Roma nel seguente tema: , Il Vaiuolo, » ed il Vaccino considerati in relazione all’ età, con studi comparativi s fra 1 due sistemi di vaccinazione ,,. Posta adunque la discussione vaccinica nei veri suoi termini, ne scaturisce il dovere che a ciascuno ne incombe di portarvi speciale e accuratissima disamina, senza prevenzione, essendo questo l’ unico mez- zo per risolvere ì’ argomento medesimo. Premessi questi pochi cenni storici sulla vaccinazione, passiamo all’ esame comparativo dei due sistemi di vaccinare basato su dati storici e statistici di confronto. Le cose gravi avvenute in Italia, in Francia, in Inghilterra, ed in Germania mettono fuori d’ ogni dubbio che la vaccinazione uma- nizzata fosse alcuna volta il veicolo del virus sifilitico; ma quello che è a dubitare si è che ciò debba essere sempre avvenuto per ra- 144 CARLO SOVERINI gioni intrinseche ed innamovibili della medesima. Imperocchè qualora noi consideriamo che l’ innesto del vaccino presso noi si fece in molti luoghi, con una soverchia leggerezza, che fu affidato a mani troppo inesperte e mancanti delle necessarie preventive cognizioni, a Flebotomi, a Levatrici, e qualora si ponderi che forse non fu custodito abbastanza dai Comuni, nè abbastanza protetto dai Governi, siamo ragionevolmente indotti a ritenere che nell’ incompetenza dei giudizi, nell’ abuso del- l'empirismo si possono il più delle volte rinvenire le cause dei dolo- rosi fatti accennati. Se adunque la vaccinazione umanizzata la si garantisce dai men- tovati inconvenienti, se la si mette sotto la gelosa e sicura custodia delle Leggi, se se ne cura dai medici l’ intelligente applicazione, retta e veramente scientifica, se scelgonsi a vacciniferi bambini robusti e di sana e ben nota provenienza fuori dell’ età in cui la sifilide ereditaria mantiensi latente, se diligentemente si esamina la pustula, e la si studia a dovere, prima di trarne l’ umore perchè sia veramente esente da qualunque anche remoto indizio di celtica infezione, se la si perfora nelle località e coi modi voluti ad evitare I’ escita del sangue, potrassi avere per cosa quasi certa che non si mostreranno conseguenze dan- nevoli agli innestati con tale materia. A fronte poi della sifilide vaccinale, stà nella vaccinazione animale il pericolo della trasmissione della tubercolosi bovina, e di altre non meno gravi malattie dalle quali può essere affetta la vacca stessa. Pe- ricolo che puossi però con una certa tal quale sicurezza evitare me- diante gli opportuni esami praticati da valente medico-veterinario al- l’animale prima di assoggettarlo all’ innesto del vaccino, e molto più poi coll’ uccisione e autopsia dell’ animale stesso prima di servirsi delle pustole vacciniche dal medesimo presentate come venne suggerito e praticato nel Belgio. Accennato quanto di più rimarchevole viene posto in discussione dai sostenitori dell’ uno piuttostochè dell’ altro metodo di innesto vac- cinico, e accennato eziandio che siamo di credere che addottate le re- gole, e le cautele cui alludemmo, sia per luna che per l’altra ma- niera di vaccinare, i pericoli di trasmissione morbosa se non ver- ranno asseverantemente e affatto scongiurati, si renderanno per lo meno tanto rari da rialzarne così gli animi a sottoporsi senza esitanza al benefico preservativo, e lasciando finalmente al tempo ed allo studio indefesso de’ cultori questo ramo di pubblica medicina di trovare i mezzi LA VACCINAZIONE PUBBLICA ECC. 145 di prevenire ogni possibile danno; vengo a toccare anche l’ altra qui- stione relativa alla degenerazione, o diminuzione d’ efficacia preservativa a cui vogliono alcuni sia andata soggetta la linfa vaccinica umanizzata nei successivi e numerosi trapassi da uno in altro umano organismo. Anzi tutto è a dirsi che fu addimostrato dallo stesso Jenner la facoltà preservativa del vaccino contro il vaiuolo non essere che tem- poranea. E tale sentenza venne confermata dalla insufficienza di im- munità vedutasi anche nei regolarmente vaccinati, massime nelle non poche epidemie che dai tempi di Jenner in avanti si succedettero e che mieterono molte umane vite. Non parmi questo il momento di ricercare la ragione della tem- poraneità del virus vaccinico a preservarne dal contagio; non credo però di potermi dispensare dal far conoscere che sarebbe un troppo pretendere dalla virtù vaccinica, calcolandosi che lo stesso arabo va- iuolo il quale talvolta in modo violento e confluentissimo assale ed invade l’ organismo umano, dopo superatone il pericolo, 1’ individuo non può ritenersi immune affatto da quello; e la storia più antica, e la recente ci offrono casi di recidive e con esiti letali (1). Ma la semplice temporaneità del virus non parve per alcuni suf- ficiente a spiegare le epidemie che di frequente si ripetevano per cui si diedero seriamente a pensare di trovare modo di rendere vieppiù assicurata la profilassi vaccinica in quanto che ritennero che in causa del continuato trapasso da braccio a braccio la linfa del vaccino fosse degenerata e perduta avesse della sua forza preservatrice, anche perchè, secondo essi, era stata allontanata dal terreno suo naturale quale era quello della vacca. Questi princìpi e queste massime vennero appoggiate quì in Italia dai rapporti statistici di alcuni Comitati di vaccinazione animale sia di Napoli, Milano, Ancona, Venezia, e avvalorate da varie esperienze microscopiche che rese pubbliche il Tigri; e nel Belgio da Warlomont ecc. Sono però a contrapporvisi gli studi gravi del Simon, di Bousquet, Guérin, Jaccoud, Fonssagrives, e degl’ italiani Maragliano, Carenzi, Gualdi, Minervini ecc. non esclusa la medesima Società Medico-Fisica di Firenze. (i) Parecchi di questi casi si osservarono nell’ ultima nostra epidemia: nella quale anzi due individui di età avvanzata perirono essendo stati attaccati per la terza volta dal vaiuolo. TOMO IV. 19 146 CARLO SOVERINI Mentrechè per la degenerazione del vaccino, del pari che per la sifilide vaccinale combattesi con passione da ambo le parti, parmi certamente opportunissima cosa il preparare appunto dei materiali va- levoli ad illuminare la quistione e possibilmente scioglierla affinchè la grande profilatica scoperta torni a quell’ altezza voluta, dalla sua mol- tissima importanza, e così non si vaccini più pel semplice obbligo che ne corre, ma si adempia a questa pratica con tutte quelle cautele e tutto quell’ interessamento che merita, al fine di compilare statistiche esatte di confronto. Così adoperando e concorrendo ciascuno a fornire il contingente delle proprie accurate osservazioni, si arriverà a formare quel complesso di fatti certi, inconcussi, al quale mirano le sapienti sollecitudini del nostro Governo. A questo utile intendimento mi diedi cura di registrare tutto quanto mi occorse di osservare nei menzionati due anni, e così ho potuto radunare un materiale non iscarso che raccolsi a forza di non lievi fatiche in tavole addimostrative le quali accompagnano il presente mio scritto. Tavole che servono a confrontare gli esiti avvenuti sia colla vaccinazione animale, sia coll’ umanizzata in questo Comune; regi strano i casi di vaiuolo, e di vaiuoloide in relaziona all’età, alla gra- vezza dei vaccinati, e non vaccinati, donde infine le brevi conclusioni che ho stimato derivarne. Sorta la vaccinazione animale in Bologna nel decembre 1866 per opera di alcuni chiarissimi e benemeriti nostri Colleghi si mantenne tuttavia ristretta ai soli privati per alcuni anni: allorquando l’ onore- vole Municipio, con risoluzione consigliare del 1 Febbraio 1870, stabilì che: ferma restando la pratica della vaccinazione umanizzata, si te- nessero anche alcune sedute pubbliche di vaccinazione animale, tanto nella primavera come nell’ autunno di ciascun anno (1). Questa nuova (1) A questo proposito stimo opportuno anzi doveroso di riportare la Noia aggiunta alla mia Memoria « Sopra il cow-pox scoperto nel Comune di S. Laz- zaro ecc. » ( vedi Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bo- logna Serie ILI. Tomo II. pag. 265), la quale è del tenore seguente: « Agli scritti del celebre Prof. F. Palasciano di Napoli, pubblicati nel suo Archivio di Memorie ed Osservazioni di Chirurgia Pratica ecc. devesi la origine in Bologna della vaccinazione animale. Imperocchè dalla lettura di quegli scritti invogliatosene il Cav. Prof. Giovanni Brugnoli, ed eccitato da prima senza suc- cesso altro collega ad unirsi con lui per tale pratica, nella seduta delli 19 Aprile 1866 ( Bull. delle Scienze Mediche, Serie V. Vol. II. pag. 122, anno 1866 ) LA VACCINAZIONE PUBBLICA ECC. 147 istituzione municipale che cominciò a funzionare nell’ autunno del men- zionato 1870, acquistò maggiore stabilità, ed estensione maggiore, dacchè per la scoperta del cow-pox indigeno nelle nostre campagne avvenuta il 31 Ottobre 1871 (1), lo stesso onorevole Municipio ne affidò la con- servazione ad una Commissione composta dei vaccinatori d’ ufficio, cui in precedenza aveva dato l’incarico di eseguire la vaccinazione ani male medesima. Colla fine del decorso Giugno 1872 si compirono adunque i due anni, dei quali soltanto intendiamo occuparci col presente lavoro, che nella pubblica sala comunale oltre la umanizzata si praticò la vacci- nazione animale, facendo sempre uso per quest’ ultima del detritus. Aggiungerò ancora che per l’ innesto animale ci servimmo della lancetta arrotondata alla guisa di Napoli, praticando superficialissime incisioni o quasi scalfiture nelle quali sovrapposto il dezritus vaccinico, si cercava di insinuarlo fra le labbra dell’ incisione stessa, onde metterlo in condizioni favorevoli per essere agevolmente assorbito. Però dal 18 fece alla Società Medico-Chirurgica la proposta che - ora che tanto si parta della vaccinazione animale napoletana, la nostra commissione di vaccinazione si occupî di questo argomento e vegga se sia utile, conveniente e fattibile coî nostri mezzi istituire ricerche ed esperienze in propostto -. Ma anche questa proposta non essendo stata coronata da esito felice, il nominato Prof. Brugnoli si assocciò in seguito al Dott. Cesare Belluzzi, ed entrambi istituirono i relativi primi esperimenti, che furono fatti nell’ Autunno 1866 in una delle Ca- scine della Villa suburbana detta 7 Farinello fuori porta Lamme; esperimenti che allo spirare del medesimo anno vennero ripetuti in Città. Quivi pure al principio del 1867 si proseguirono le prove, e a queste assistè il Comm. Prof. F. Rizzoli, il quale con isqusita cortesia rispose all’ invito fattogli e largo si mostrò de’ suoi efficaci consigli. Iniziata per tal guisa in Bologna la così detta vaccina- zione diretta, i sopradetti Medici stimarono opportuno in appresso di giovarsi per la pratica della medesima dell’ aiuto del Dott. Giovanni Piila che loro non venne mai meno; tanto più che il Prof. Brugnoli per le crescenti sue occupa- zioni non poteva prendervi parte attiva. Per quattro anni circa l’uso della prefata vaccinazione rimase ristretto fra noi ai soli privati, ed in questo lungo lasso di tempo ne furono costanti propagatori e principali esecutori i lodati Dottori Belluzzi e Pilla. Dopo di che l'onorevole nostro Municipio nella seduta consigliare del 1 Febbraio 1870, avendo stanziato un fondo annuo per la isti- tuzione della vaccinazione animale per uso del pubblico affidandone la direzione al R. Vice- Conservatore, e la esecuzione ai Vaccinatori d’ Ufficio, una tale istitu- zione cominciò effettivamente a funzionare nell’ immediato successivo autunno ». (1) Vedi Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Serie III. Tomo II. pag. 261. 148 CARLO SOVERINI Febbraio 1872 a questa parte il Chiarissimo nostro Collega il Cava- liere Dott. Ferdinando Verardini, altro dei Vaccinatori d’ ufficio, ha usato con ottimo successo della Lancettina coperta di sua invenzione. Fra gli altri vantaggi che si hanno dall’ uso di questo ingegnoso e lodatissimo instrumento è rilevante quello di potere con esso insi- nuare facilmente e sollecitamente sotto la epidermide il detritus, sottraen- dolo per tal modo dal pericolo che esso venga rimosso dal luogo prima del necessario assorbimento. Locchè è di pregiudizio pel buon esito dell’ innesto, come è accaduto di verificarsi sovente adoperando il me- todo delle insizioni alla napoletana nella sala pubblica, in cui per la grande affluenza di vaccinandi non si possono sopravegliare i singoli vaccinati per tutto il tempo necessario ad evitare il segnalato incon- veniente. Erano adunque in corso nella pubblica sala comunale i due metodi di vaccinazione come abbiamo accennato, allora quando nell’ Ottobre 1870, il vaiuolo arabo che andava serpeggiando in molte parti d’ Italia incominciò a mostrarsi anche fra noi. A scongiurare il pericolo della temuta epidemia 1’ onorevole Signor Sindaco con avviso a stampa av- vertiva la popolazione, e la sollecitava caldamente affinchè si sotto- ponesse all’ innesto vaccinico, il quale ne era l unico provato mezzo di preservamento, e che intanto i benemeriti vaccinatori ufficiali avreb- bero sino a cessazione intera del morbo continuate le sedute pubbliche di vaccinazione. E mi gode l’ animo di poter affermare in questo luogo che tutti 1 Colleghi vaccinatori si prestarono con uno zelo straordinario, e il numero ingente delle praticate vaccinazioni faranno ampla fede alle mie parole. Nei quattro semestri compresi dal 1° Luglio 1870 al 30 Giugno 1872, le vaccinazioni, e rivaccinazioni pubbliche eseguite nel nostro Comune ascendono alla rilevante cifra di 7,004 (vedi Tav. V.), delle quali 1,183 praticate nel Forese dai medici-chirurghi condotti pure vaccinatori ufficiali, e mediante linfa vaccinica umanizzata e da brac- cio a braccio, ad eccezione di sei che nel primo semestre del decorso anno 1872 vennero eseguite con detrito animale conservato in capsule di cristallo dal Dott. Raffaele Cocchi. Il quale perciò è stato il primo, e l’unico fra gli otto medici condotti de’nostri appodiati che abbia messo alla prova il vaccino animale negli abitanti del distretto alle sue cure affidato (vedi Tav. IV.) Le rimanenti 5,821 inoculazioni furono operate dai vaccinatori LA VACCINAZIONE PUBBLICA ECC. 149 ufficiali di città nella sala comunale, e nel seguente modo, cioè in quanto a 1,789 con 47 vitelle vaccinifere, in altrettante sedute, ed in quanto a 4, 032 con linfa umanizzata e da braccio a braccio in 92 sedute. Il complesso delle ora accennate vaccinazioni dimostrato nei suoi particolari dalla Tavola V. è poi stato diviso per ordine crono- logico semestrale pure coi particolari relativi a ciascuno dei quattro semestri di sopra indicati nelle prime quattro Tavole (vedi Tavola Tee DIL TV: >): Coll’ ispezione quindi della Tavola V. nella quale si ha un pro- spetto generale di tutte le vaccinazioni animali, ed umanizzate prati- cate nei quattro suddetti semestri chiaro apparisce, rispetto alla forza di attecchimento dei due virus, l’ inferiorità dell’ animale nelle prime vaccinazioni, e al contrario la sua superiorità nelle rivaccinazioni. Infatti per gl’innesti con detrito animale verificati si ha 1’ 82,91 per cento di successi felici pei primi vaccinati, il 51,40 per cento pei rivaccimati; mentre per gli innesti con linfa umanizzata pure verificati risulta il 95,79 per cento di esiti favorevoli pei primi vaccinati, e il 45,74 per cento pei rivaccinati. La quale inferiorità del virus animale in confronto dell’ umaniz- zato, noi la crediamo attribuibile a causa estrinseca ed ammovibile, alla poca cura cioè adoperata dagli accorrenti alla sala pubblica nello evitare che il detrito venga rimosso dal suo posto prima che 1 orga- nismo l'abbia assorbito. Del che si ha una prova convincente negl’ in- nesti animali fatti da noi stessi, dai Dottori Belluzzi e Pilla, e da altri rispettabili Colleghi, presso le famiglie private, nelle quali per le cure adoperate evitandosi l’ accennato inconveniente si ha il 98 per cento d’ esiti favorevoli nei primi vaccinati, e circa il 60 per cento nei rivaccinati. Rispetto poi alla forza premunitiva dei detti due virus ognuno di leggieri comprende che recentissima essendo fra noi la vaccinazione animale pubblica non possiamo da essa pretendere questa seconda prova di confronto, la quale non ci sarà fornita che da una lunga serie di anni, e da ulteriori epidemie se malauguratamente ci assaliranno. È nostro debito però il notare che nessun caso di vaiuolo, o vaiuoloide si ebbe finora a verificare nei vaccinati col virus animale nella nostra sala durante la epidemia testè cessata. Dal prospetto poi riassuntivo dei vaiuolosi dei quattro semestri di epidemia (vedi Tav. X.), si può inferire che nel grandissimo numero 150 CARLO SOVERINI di antichi vaccinati con linfa umanizzata esistente nel nostro Comune si ebbe o la comparsa della vaiuoloide, o un numero proporzionato di malati di vaiuolo assai piccolo, mentre nella cifra relativamente piccola dei non vaccinati il numero dei colpiti dal vaiuolo è stato grandissimo. A dimostrare colla debita estensione quanto è stato da noi ora accennato, tanto i quattro prospetti speciali di ciascuno dei quattro se- mestri della nostra epidemia (Tav. VI., VII., VIIL e IX.), quanto il generale o riassuntivo (Tav. X.) sono stati divisi in Vaiwolo e Vaiuoloide, differenti soltanto nel loro grado, per l'interesse che può fornirci 1’ esame retrospettivo delle vaccinazioni dal punto di vista della loro efficacia premunitiva in relazione all’ età dei malati, ed alla forma più o meno grave della malattia vaiuolosa cui andarono sog- getti. I malati poi sono stati divisi in quelli vaccinati nella infanzia, vaccinati di recente, non vaccinati, e morti senza che fossero stati denunziati; nei guariti, e nei morti relativamente alla sofferta, o non sofferta vaccinazione ; e nei vaccinati, e non vaccinati, morti e qua- riti in rispetto alla età, che fino ai 20 anni è stata divisa in cate- gorie di 5 in 5, e di 10 in 10, dai 20 in su. Osservando perciò i punti più rimarchevoli del prospetto riassun- tivo (Tav. X.) si affaccia tosto alla mente che sopra 345 vaiuolosi vaccinati si hanno 51 morti, e cioè il 14,78 per cento; con questo però che due soli dei decessi fanno parte dei 27 vaccinati di recente con linfa umanizzata e questi vennero vaccinati mentre avevano in casa il vaiuolo (Tav. VIII. A. B.), vale a dire avendo già nel proprio organismo il germe del morbo in istato di incubazione, che poi svi- luppò indipendentemente dal sofferto innesto vaccinico, il quale se ha la virtù di preservare dal vaiuolo, non ha quella di sospenderne il corso. Ugualmente si rileva che dalia nascita ai 90 anni (sempre nei vaccinati) l’ attacco del vaiuolo è stato per così dire parabolico, ascen- dente cioè dall’ ingredire della vita fino ai 20 anni, massimo da 21 ai 30, discendente dai 31 ai 40, e così progressivamente fino ai 90 anni; e ciò in armonia coll immunità dei vaccinati, che va indebo- lendosi mano mano che ci allontaniamo dal primo innesto, e che per le nostre osservazioni possiamo dire fino ai 20 o 30 anni circa, per poi rinvigorirsi dai 30 in su, probabilmente per la sola età, la quale fino ad un certo segno è preservatrice per se stessa. Per lo contrario in 393 non vaccinati si trovano 138 morti, e cioè il 35,11 per cento con grande attacco e col massimo di morta- LA VACCINAZIONE PUBBLICA ECC. 151 lità dal principio della vita ai 5 anni, stabilendosi così quella legge di contrapposto fra vaccinati e non vaccinati nell’ infanzia che formò la regola della vaccinazione fin dal tempo in cui 1’ innesto del vaccino sì cominciò a praticare; e così seguendo la medesima legge per le successive età, si ha una linea discendente sino alla quarta categoria (16 ai 20 anni), in cui risale e molto più poi nella quinta (21 ai 30 anni), da superare il numero degli attaccati ma non la mortalità dei primi anni di vita, per quindi ridiscendere dalla quinta in poi. Per queste osservazioni e per questi calcoli si rendono manifesti tanto pei vaccinati quanto pei non vaccinati, i punti estremi per ista- bilire la forza preservativa del vaccino in via però opposta. E vera- mente nei primi anni della vita si osserva una immunità pressochè assoluta pei vaccinati, ed un attacco di vaiuolo pressochè massimo pei non vaccinati; dai 16 ai 30 anni una decisa diminuzione di immu- nità pei primi un deciso aumento di disposizione pei secondi, in con- fronto di quelli che all’ età intermedie appartengono. Alle cifre somministrateci dal vaiuolo, abbastanza eloquenti per se, fanno un significante contrasto quelle che ci sono fornite dalla valuoloide, il che viene a confermare la prefata legge di immunità stabilita dalla vaccinazione. Imperocchè mentre nel vazuolo, su 7383 malati abbiamo 393 non vaccinati, e 345 vaccinati, nella varuoloide per contrario su 223 malati abbiamo 209 vaccinati, e 14 non vacci nati, col minimo di preservazione dai 16 ai 30 anni, il che dimostra chiaramente la necessità che in genere si ha della seconda vaccinazione e non più tardi dello spirare del terzo lustro di età. Queste considerazioni che siamo venuto esponendo sul prospetto generale, e che abbiamo stimate necessarie per farne rilevare l’ impor- tanza e l'interesse pratico, valgono ancora per i quadri speciali relativi a ciascuno dei quattro semestri nei quali il terribile malore del vaiuolo affisse più o meno gravemente gli abitanti di questo nostro Comune. Dobbiamo da ultimo avvertire che ai casi di Vaiuolo e Vaiuoloide, abbiamo aggiunta in ciascun prospetto una terza classe di morti, il complesso dei quali ascende a 126 (Tav. X.), la massima parte della prima età e non vaccinati, i quali soccombettero all’ arabo esantema senza visita medica e solo si rilevarono dai registri dello Stato Civile. Era necessario il tenerli separati non potendo essi come gli altri ser- vire di base ad una giusta proporzione fra il totale dei morti ai ma- lati, poichè con essi vi andrebbe pure compresa la cifra proporzionale 152 CARLO SOVERINI dei guariti che ascenderebbe a 494, la maggior parte affetti da vaiuolo benigno, che non servendosi dell’opera medica non vennero denunziati, e solo si verificarono o da noi stessi nel visitare i vaiuolosi denunziati, o da altri nostri rispettabili Colleghi degnissimi di tutta la fede. Con questi calcoli si verrebbe a stabilire che il totale dei malati nell’ ulti- ma epidemia vaiuolosa sarebbe stato non di 961 con 195 morti come si rileva dal prospetto generale (Tav. X.), ma sibbene di 1,581 con 321 morti. Ad ogni modo la proporzione dei morti ai guariti sarebbe sempre la stessa vale a dire il 20,30 per cento. Ora mi rimane a dire poche parole sulla forma, andamento, e eura del vaiuolo che regnò epidemicamente fra noi. Il vaiuolo nell’ ultima nostra epidemia non assalì moltissimi indi- vidui, posciachè supposto ancora che il numero degli attaccati ascen- desse a 1,581, come risulta dai calcoli or ora esposti, una tale cifra messa a fronte della popolazione del nostro Comune che ascende a 115, 957, darebbe la proporzione dell’ 1,30 per cento. Però se si consideri che fra i colpiti non pochi furono i vaccinati, e che la mortalità dei vaiuolosi in genere fu del 20,30 per cento non si può a meno di non ravvisare nel modo con cui ho proceduto questo fatalissimo morbo fra noi una certa non comune gravità. Del resto questa epide- mia non ci offrì nulla di straordinario e di differente da ciò che pre- sentano generalmente le epidemie vaiuolose. Il primo caso di vaiuolo fu denunziato il 28 Ottobre 1870, in un facchino della stazione ferroviaria abitante nell’ appodiato Bertalia ; il quale per l’ esercizio del suo mestiere trovandosi in continui con- tatti con persone e bagagli provenienti da luoghi infetti porgeva facile spiegazione del modo con cui avesse potuto contrarre il morbo da esso lui presentato. Di lì a poco qualche altro caso in Bertalìa stesso e nei limitrofi appodiati si verificarono. Costituito così un primo, un secondo, un terzo centro di infezione, doveva essere facile a questo virus puramente contagioso sulle prime epidemico poi, diffondersi specialmente nei luoghi in cui per lo stato poco felice dell’ igiene trovava maggiore disposizione negli organismi a riceverlo. Poco appresso dal Forese penetrò in città in cui si estese ad ogni classe di persone, dall’ Ottobre 1870 a tutto il Giugno 1871, con una certa tal quale lentezza, con allarmante rapidità ed estensione invece nel secondo semestre di quest’ ultimo anno per poi restringere gradatamente la sfera dei suoi attacchi nei primi mesi del successivo LA VACCINAZIONE PUBBLICA ECC. 058) 1872, sino a finire quasi onnimamente allo spirare dell’ ultimo scorso Giugno. Sotto l’ influenza pertanto di una costituzione già divenuta epide- mico-contagiosa le altre poche malattie prevalenti rivestivano di sovente un carattere speciale da ricordarci quello del morbo dominante. E perciò si vide che l’ esordire delle comuni febbri era accompagnato quasi co- stantemente da elevamento straordinario di temperatura (40 gradi circa del centigrado ), da cefalalgie ostinate, non di rado dal vomito, agitazione, delirio. Questo apparato di fenomeni allarmanti si verificò spessissimo nel principio del vaiuolo modificato, per cui si può stabi- lire la massima in genere che l’ invasione febbrile non fu per nulla in relazione colla gravezza e colla estensione del vaiuolo, tanto più che venne osservato che anche nei vaccinati, casi confluentissimi, e le- tali ebbero invasioni mitissime, e per contrario casì discreti, e benigni, invasioni brusche, e spaventevoli. In quanto alla diagnosi del vaiuolo ci parve che un attento esame dei polsi ci somministrasse il mezzo meno incerto a stabilirla fin dai primordi della febbre. Imperocchè o si trattasse di forma grave o benigna, di discreta o confluente, lo stato dei polsi, indipendentemente dal grado di temperatura, si trovò sempre lo stesso e cioè celeri, frequenti, e quel che più monta con un certo tal quale urto vibratorio, si direbbe caratteristico, molto simile a quello che si sente in chi soffre per insufficienza delle valvole semilunari. Sulla forma e andamento del morbo e sulle cause della morte dei vaiuolosi, niuna cosa degna di speciale menzione abbiamo a regi- strare: una trentina circa perirono di vaiuolo emorragico, dieci o dodici per sopravvenute affezioni flogistiche pulmonari, il maggior numero poi per assorbimento del pus e delle materie putride, ossia per quella con- dizione patologica chiamata dal Piorry setticemìa. La cura seguita dagli egregi Dottori Ercole Galvagni, e Cav. F. Verardini preposti successivamente alla direzione medica del Lazzaretto dei vaiuolosi nel locale detto la Trinità, a ciò destinato da questa illu- strissima amministrazione centrale degli Spedali, non che dagli altri medici che assistettero consimili malati nelle case particolari, fu in generale la così detta sintomatica ed aspettativa come quella che es- sendo più razionale meglio corrisponde al bene dei malati, e all’ indi- rizzo pratico, e positivo della medicina. In quanto a me come medico primario dello Spedale e Conserva- torio delle Zitelle Esposte, mentre nel dicembre 1870 si praticava la TOMO IV. 20 154 CARLO SOVERINI rivaccinazione alle circa 200 zitelle di ogni età che in quello stabili mento esistevano, essendosi sviluppato il vaiuolo e avendo avuto a curarne circa una ventina di casi dai primordi della malattia fino al termine della medesima, nel seguire il suddetto metodo di cura mi valsi dei revulsivi nel periodo d’ invasione quando 1 eccitamento del sistema nervoso era alquanto forte, dei bagni freddi al capo nelle cefa- lalgie ostinate, dei chinacei nello stadio di suppurazione, dei tonici, e ricostituenti nella convalescenza massime se protratta o stentata. E qui hanno termine le principali osservazioni intorno alla epide- mia vaiuolosa che per due non interrotti anni ci afflisse. Dalle cose poi fin ora discorse a noi pare che le conclusioni finali che in ordine alla profilassi vaccinica possono dedursi sieno le seguenti: 1.° Riguardo alla forza di attecchimento, se la vaccinazione animale praticata direttamente con vitella ci diede risultamenti alcun poco inferiori a quelli della vaccinazione umanizzata eseguita da braccio a braccio, non per questo pare se ne debba dedurre la conseguen- za dell’ assoluta sua inferiorità; convinti come siamo per le continue nostre osservazioni che tale differenza lungi dal provenire dalla natura stessa del virus, debbasi piuttosto attribuire, nel caso nostro, alla poca cura dei vaccinati o di chi per essi, onde impedire che il defritus animale non venga rimosso dal luogo su cui venne applicato prima che ne sia accaduto il necessario assorbimento. ‘Tolta col tempo questa accidentale cagione di insuccesso, massime generalizzando 1’ uso della lancettina coperta del Verardini siamo d’ avviso che nella sala pubblica la vaccinazione animale uguaglierà se pure non lo supererà nel buon esito la umanizzata come già si verifica nelle case private, e come accade nelle rivaccinazioni (1) in cui il vaccino animale spiega una forza d’ attecchimento di una incontrastabile superiorità. 2.° Riguardo alla possibilità di trasmettere malattie virulenti, e particolarmente la sifilide, noi riteniamo che a rimuovere una sì funesta probabilità sia preferibile l’uso del vaccino animale tolto dalla giovenca, e da questa passato direttamente all’ uomo perchè garantisce contro l’ eventuale trasmissione di germi morbosi di cui la specie umana può essere affetta a preferenza della bovina, e specialmente di (1)Gli adulti, che si fanno rivaccinare, seguono d’ ordinario il consiglic di curare che il detritus rimanga al suo posto pel tempo necessario onde sia assorbito. LA VACCINAZIONE PUBBLICA ECC. 155 quello della sifilide; la quale come nel sistema umanizzato, o da brac- cio a braccio fu causa di gravi infezioni, così non può essere comuni- cata all’ organismo bovino essendo malattia propria esclusivamente dell’ uomo. 3.° Riguardo alla degenerazione e alla fallibilità della linfa umanizzata, quantunque il non piccolo numero di vaccinati colpiti dal vaiuolo nell’ ultima nostra epidemia ce lo facesse a prima giunta sospet- tare, pure considerando che la mortalità dei medesimi è del 20,33 per cento minore di quella dei vaiuolosi non vaccinati, siamo ragionevol- mente indotti a credere che nella maggior parte dei vaccinati il va- iuolo fosse di indole benigna e quindi scambiato facilmente colla va- iuoloide, per cui la refrattarietà dei vaccinati pel vaiuolo sia stata nella nostra epidemia molto più estesa di quella che dai registri delle de- nunzie ci è dato rilevare. D’ altra parte ammesso pur anche che la linfa umanizzata sia fallibile, non è però meno capace di virtù preser- vativa di quello lo fosse per lo passato, restando a stabilirsi il contra- rio colle prove che ci verranno fornite dal tempo e dagli esperimenti fatti coll’ animale. Laonde mentre attendiamo appunto dal tempo, e dalla esperienza nuovi, e più stringenti argomenti per confermarci nella opinione circa la preferenza da noi data alla vaccinazione animale in virtù segnatamente delle ragioni indicate nel $ 2.° di queste finali conclusioni, siamo d’ av- viso che non debbasi per ora pronunziare una condanna d’ ostracismo per la umanizzata, convinti come siamo degli eminenti servigi che ha reso, e che può tuttavia rendere alla umanità, massime in tempi di vaiuolosa epidemia qualora sia adoperata colle opportune e doverose cautele. Nei À ii \ 4 2 % Ù \ f DIST "i 2) I A] Ti lo Dati il NI) N \ { Ni AVOLA LL Indicazione delle Divisioni del Comune CETTÀ Frazioni Arcoveggio 3,894 I. 100) 5,423 IV. Arcoveggio II. S. Egidio S. Egidio II. . Alemanvi Alemanni V. 2,843 WC S. Giuseppe 4,568 VII. S. Giuseppe. S. Ruffillo / . S. Ruflillo S. Mamolo YI. Bertalia 4,495 VIII. Bertalia 26, 520 (1) In questa ciffra sono compresi 909 (2) Il Censimento della popolazione del Distretti Sanît Calamosco £ INE SL'LO vaccinazione ee — se Non Nullo |Verifi- calo 1] La ‘ “ i na pass di DI Ta) did ESsL'ILUO della rivaccinazione L A LTT A Tr rr ‘cinazio- Reso- 4 S Nullo | Fotale dei Fotale dei ia Non Spurio Verifi- | cinati ne lare itivo Medico-Chirurgo Condetto. Rivac- BOLOGNA fatale dei Vacci nali e Rivac- cinati Tolale genera le di tutti i Tucci nati e Rivae- cinali i mali fin Città. A. Le Vaccinazioni Ani- furono operate tutte B. Di queste 205 Vacci- f nazioni umavizzate 180 fu- { rono praticate in Città e f nel Forese. 28 KI Di 3]. Ì pa tr] TAVOLA I. VACCINAZIONI PUBBLICHE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Secondo Semestre 1870 SCANDELLARI dott. GARTANO. SOVERINI dott. CARLO Guadiuto- VACCINAZIONE ANIMALI VACCINAZIONE UMANIZZA'TA Totale | i 2 = — - trenti- È = : x : i ; a ‘Tr i TEN Matalo ET = 1a N ; EP Numero ; DA Prima | ESÌ TO. Rivac- ESITO È Tutale È prima ESI LO: SELE TR ESITO Patale| 10 di Ì Indicazione delle Divisioni Nome Cognome, e qualità della 1° vaccinazione | Totale della rivaccinazione |Totale | dei della 4% vaccinazione | Totale della rivaccinazione. | Totale | dui | EU ICQRPA AT TÈ leali a i Vacei Fr ti tino: “e LI Vicci Se O === it ; Viosi- Vucti” ZIONI bui INR i Roco- î Non. | Vacci- |!MAZI0 Renn! 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Egidio 1007) EI IIT. Calamosco £ III Alemanvi 5,423 IV. Alemanni 5,423(1) BAJETTE dott. ALFONSO. V. S. Ruffillo BERNAROLI dott. PIETRO. VI. S. Mamolo {S,411 GOZZI dott, IGNAZIO. VII. S. Giuseppe”. MALAISI dott. CALISTO, IV. S. Ruffillo 2,843 V. Sì Giuseppe 4,568 Chir. Cond.e Vice. Uff. del Fore VI, Bertalin 4,495 VIII. Bertalin 4,495 BIAVATI doll. GAETANO. o) | | I | i I | | 20,520 20 z Ì Ì ! 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Calamosco (1,1 T | AE ar er TE sa ch iL] i a] Alemanni 5,564 IV. Alemanni 5! T | È, | ARA ORE Un Ao " ET I | | i V. S. Raffillo 3)! 1° | Sr | -|{-{-1I-|- 44 44 | S. Ruffillo 3,851 DI RESI TOO A RECARE I IEEE VI. S. Mamolo < 2; | l 46 | 230 | ;S 60 100 | 82 280 326 0 È S. Giuseppe 4,570 | 9! 9 È E 9 c SNO VII. S. Giuseppe 23 T i) | 12 | 8 2 2 | —_ 12 21 | 21 È IIENAZONI | | 15 % Bertalia 4,593 VIII. Bertalia = 4j| T | 2 rr | a | pon i 3A nil dra io Le h | | | i | | | | | CSI Pr | | 26,853 26, COS SZ 0 I] | î j | 240 1526 599 | 107 69 169 194 539 2065 | 2727 Ì =: ce Do ESS RO II e 7A IE RTRT NOR TS E I IT In questa cifra sono compresi 909 ir Il Censimento della popolazione del i idico-Chirurgo Condotto. lel Comure di Bologna pubblicato dal Comune stesso — Regia Tipografia). de TAVOLA HI. VACCINAZIONI PUBBLICHE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Primo Semestre 1871 VACCINAZIONI ANIMALE VACCINAZIONE UMANIZZA TA Totale > SE = = PS Lo e genera | Totale ISIN | 8 — mr le di ; \\ Prima s jvae= |] = L Se RR ESTTO Rome ESITTO Tatale| i. Indicazione delle Divisioni | so Nome Cognome, e qualità pirione Qu Totale della rivaccinazione |Potale | dei nm della 1° vaccinazione ale [tv | della rivaccinazione |'Wotale | dei | !!UI OSSERVAZIONI | i | pai — tei | Vacci o e ie |vacci-] OSSERVAZION degli | Vacci- i ci | Mat pra | ol int: asi | dei | Vaeci=| Dai Da | | ato aan | Vacci- Resco Non |Rivac-| nati e Rogo | Non | Rosa | Non |Rivac-| nati e ni È el Comune | del Vacematori sole, [Spurio] Nullo |Verifi- | nati A (on | Spurio | Nullo |Verifi- | cinati | Rivac-f-_. | 1° © [Spurio | Nullo {Verifi- | nati no io. | Nullo | Verifi-| cinati | Rivac- Mivao= | Abitanti | nazione] lare | cato | ne lare | cato cinati [nazione lare | al ne | lare Pon cinati | cinoti a | | ì Ì i CITTA 89,104 | BELLUZZI dott. CESARE. 248 192 | — 12 Ri 24 din dine no 92 | 168 | 414 | 662 fl I210 | 953 | Ì 52 | 224 | 1210 Ì 245 | 59 A 67 112 | 245 | 1455] 2117 BORZAGHI dott. GIULIO. | | | I MODONINI dott. BERNARDO. | | | | PILLA dott. GIOVANNI. | | | RASI dott. DEMETRIO Vice-Con- | servatore, | | | SCANDELLARI dott. GAETANO. | | SOVERINI dott. CARLO Cuadiuto- | | | | re deli Vice-Conservatore, | | | | VERARDINI cav. dott. FERDI- \ 5 | | H NANDO. \ | I I | | | | | | | | | | | | | | | | il Il Il Î FORESE 26, 858 | i | | | | Trazioni Distretti Sunitari x | | | ; È x | z | 3 L Arcoveggio 8,910 I. Arcoveggio 3,910 COCCHI dott, RAFFABLLO. / aledle = ee | eee lie eee 5a 28 i 2 | - — | - 52 sa Z I È 7 SU, È II. S. Egidio (2,559 AMADUZZI dott. LORENZO. sio | {Se dea ee eda TA alli 7 20 IMSA EIA | i n STRASS ARSA Il S. Egidio To) È | x | III. Galamosco È1,806 MONTEBUGNO HA TESS ot ae e eee dala ace Il Alemanni 5,564 IV. Alemanni 5,564(1) BAJETTI dott. ALFONSO. gioleleltleijl=slolelela[|lalkl=ejs dis Mi ea | Oo e e n 49 | 49 (I Il 7 7 5 DIE Ate ESS PERO ESS MESSE e A i eo ene ES ul ole | 15 TON RESISTE ES I Ai W. 8; Rufo 9,851 V. S. Ruffillo (3,427 BERNAROLI dott. PIETRO. \e Î | I 2 x £ i Vi (SIG dà VI. S., Mamolo < 2,262 GOZZI dott, IGNAZIO. 5} — _ “ie = = = ll a = ll — asa) = == 9) 45 Co | — l 46 | 250 S 60 100 s2 280 26 26 * Si Giuseppa 4,57 È ‘ 3 2 ) VII. S. Giuseppe l 2,732 MALAISI dott. CALISTO. ale[=ef[=sjoyqed=sdfjefe{(e|o]lae]j= | = 9 oe i={|s= nile 8 2 A 1 A VI. Bertalia 4,593 VIII Bertalin 4,593 BIAVATI dott. GAETANO. delel=lelsfj= | =|=|={[{e[l={j=]|{= OR Sai Ce e e RE fe = \s I | 26,858 26, 853 SÉ Ì i I est i ] 1 | Totale] 115,957 | 248 Lo: —_ | 12: 44 243 414 135 19 92 168 | 414 | 662 | 1520 | 1253 l 32: 240 | 1526 | 539 107 69 | 169 194 039 | 2065 | 2727 | I 1_[___11—=e”=—\— a ia”"èNy :ìi YDZID—_—_ZIzIip WY*;/)I!€SZ.I@»J)&)Ò€Wililllli EN: )NO (1)/In questa cifra sono compresi 909 individui circa degenti nell'Ospedale di S. Orsola e R. Ricovero di Mendicità, i quali sebbene nel perimetro di questo distretto sanitario, non sono soggetti alla cura del relativo Medico-Chirurgo Condotto. ; 8) Il(Censimento della popolazione del nostro Comune tanto nel suo E anita ‘quanto »elle sue divisioni è stato approssimativamente stabilito alla mezzanotte del 31 Dicembre 1871. (Vedi Censimento della popolazione dellComune di Bologna pubblicato dal Comune stesso — Regia ‘lipografia). Snai ti PRA fe MIR MONT | hi. tobconrvblimipi D SO l \ ly Ì A | VENU Mio Ia puoi Ra AVOLA HIER DI BOLOGNA AZIONE UMA NIZZA TA 1097 tp LI , UTI H sione delle Divisioni. Indicazione ( o Totale SS + |cinazio- del Comune Non Vacci- Verifi- | nati ne Ho _j cato - CULLA 362 | 1083 ! 640 FORESE Frazioni Distretti II. S. Egid S. Egidio 4,365 far III. Calamo . Alemanni 5,564 IV. Alemar V. S. Ruff . S. Ruffillo 3,851 9 30 VI. S. Mam 55 VII. S. Giusé —_ ) S. Giuseppe 4,570 . Bertalia 4,593 VIII. Bertalii Arcoveggio 3,910 I. Arcoveg _ | RS | = | nel i i | 26,853 (1) In questa ciffra sono compre a (2) Il Censimento della popolazio-Chirurgo Condotto. ESLTO della rivaccinazione | Rivac- | CT n se” 72 a Comune di Bologna pubblicato dal Comure stesso — Regia Tipografia). OSSERVAZIONI (A) Uno di questi indivi- { dui prima di essere vaccina- { to aveva sofferto il va]uolo i naturale. (B) Quattro di questi in- 1 { dividui prima di essere vac- cinati avevano avuto il va- fi juolo naturale, anzi uno di essi l’ aveva soflerto per i due volte. (C) Nessuno si presentò f nl Medico-Chirurgo Condot- d to per essere vaccinato, es- sendosi tutti recati per tale i oggetto alla Sala pubblica i di Bologna. -__ennnir=- E a re = a ciii t TAVOLA HI. VACCINAZIONI PUBBLICHE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Secondo Semestre 1871 VACCINAZIONE ANIMALE VACCINAZIONE UMANIZZA TA Totale - - = = gonera- Log SONIA Numero : Prima ESITO, ran» ESITO Totale | n; ESITO . s p| le di Indicazione delle Divisioni Nome Cognome, e qualità della 4°% vaccinazione |Totale Rivao della rivaccinazione |Totale | dei Prima della 1° vaccinazione |T [Riva s ESITO Tolalo ii Sesia? nazione |Totale | dei ella 1° vaccinazione | Totale | della rivaccinazione |Totale | dei |!!! s ZION cha Vacci: 7 Tn TT—_ NI cinazio SA n= —P | dei | Vacci- Vacci 27 is CI lg È dei vi È ‘| Vacci- OSSERVAZIONI È i Non | Vacci- "| Non | Rivae-| nati e [°° Non | Vacci- |*MAZI0 pa SS nali e alel Comune dei Vaccinatori Rego- Spurio | N Poni ; Rego- x AL FSE Î Rego- RIGO r dela Reso- Non |Rivac=| nati e | N° stanti MI — |Spurio | Nullo |Verifi- | nati 2° {Spurio Jerifi- { val. 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È cl P.le ese] | [|a deere |Sepoeflotlelalflasditodls {4 Ke (C) Nessuno si. presentò do È 2 Medico-Chirurgo Condot- Il S. Egidi sgssf” SAbEdio ESE AMADUZZI dott LORENZO, mi = ca = “ = Ca) = = _ _ i _ 20 Ro — _ i 20 Ri el a Lo J2 39 32 al n AE i S. Egidio 4,365 = i RA re A INT. Calamosco {1,806 MONTEBUGNOLI dott. ALESSA.ro BE — | — | = |-|-{|-{|-|-{|-{|{-}|-|= | + male dae Si e STA REESE el a TRE Ai EE Il Alemanui 9,564 IV. Alemanni 5,564(1) BAJETTI dolt, ALFONSO. Se iene eo AES tele ag CESA Fase e ga IE p alia a Z ma aaa V._ S. Ruffillo , 3,427 BERNAROLI dott. PIETRO, dia [= = [e je|e oe — -|{-{|- | 30 19/| — 2 9| 30 4 2|- | 2 4 34 34 S DI o 1 D) 2 Ì tion VI. S. Be GOZZI dott. IGNAZIO. I - = I ai E = = 2 | — _ _ 33 3l| 2| 93 40 6 4| — 30.| 40 73) 73 *_S: Giuseppe 4,5 S) VII. S. Giuseppe! 2,732 MALAISI dott. CALISTO. > |=|S {=== = | I > |elala 5 ao | | > 5 18) n 4 Ol 18) 238 23 VI. Bertalia 4,593 VIII. Bertalia 4,593 BIAVATI dott, GAETANO. ©) =. | = = e _ _ | _ _ — | — _ 5 wi — SI 15 8 2 5 1| RRteNNiZa 23 = ESSA 5 Î Ì 20,858 26, 853 Si i I i | Totale] 115,957 120. 34 _ | 6 80 120. | 500. 90 | 6 70 433 590, Î 739 q 1221 | 796 2 52 371 | 1221 || 729 168 31 91 439. 729 | 1950 | 2669 (2) (1) In (8) Il Questa cifra sono compresi 900 individui circa degenti nell'Ospedale di S. Orsola e R. Ricovero di Mendicità, î quali sebbene nel perimetro di questo distretto sanitario, non sono s Censimento della popolazione ilel nostro Comune tanto nel suo complesso, quanto nelle sue divisioni è stato approssimativamente stabilito alla mezzanotte del 31 Dicembre £871. (Vedi tti alla cura dell relativo Medico-Chirurgo Condotto. Censimento della popoluzioze del Comune di Bologna pubblicato dal Comure stesso — Regia Vipografia). AVOLA IV. NE DI BOLOGNA INAZKONE UMA NIZZA TA Totale gencra- | TAR 2 ) di HO. Rivae ESITO le n gt mini. Rinazione |Totale |“ | della rivaccinazione |Totale| dei |y. OSSERVAZIONI Indicazione delle Divisioni [se ni 2 ma — | dei | Vacci- Vacci- Ri n» |Cinazio- | VARE È “. |nalie Non | Vacci- Toso C | | Non !Rivac-| nati e SHE del Comune ilo | Verifi- | nati Sé Spurio | Nullo | Verifi- | cinati | Rivac- | MIÉ fel UOmMUNE | | ne lare |" «e | cinati cato ! cato cinali TIE aa (rea | > = > S Elo 149 466 è 192 39 CINSLANS 129 192 65S | 1,029 (©].64 N q 1° | | | | | | | | | | | | (d ! | j | | | | | | | | | { i SR | | i | } | | | | Ì | NE i WFORIESIL i Î ! | | i Ì I | n Trazioni Distretti Sui | î I | | | | è NE È — — 50 | SÙ li — | 5 D5 DI (A) Queste sono le prime Arcoveccio 3.0 Arcoveooi 4 SURI OSE >, cal i. Arcoveggio 3,0.0 I. Arcoveggii i | | | | vaccinazioni animali prati- = _ 13 3 3 — did — — i 3 19 19 f cate nei Forese. Il. S. Egidio i | I | | SA Sica lcanclazonese S$. Egidio 4,305 9 2 i tg | ia 31 | III. Calamosco, © | | | a | Î È Li CNIT PANE APONLO A val Alemanni 5,564 IV. Alemanni | | On): eno RI MO I | 3 38 È È (V. S. Ruffillo ; | . S. Ruffillo 2021) EI 3 SRL INCERTE | O ; VI. S. Mamola | ; ì DE S. Giuseppe 4,570 BI) ito 15 1. 00 | | - VJI. S. Giuse ppi O i î | QI - - I « Bertalia = 4,593 VIII. Bertalia (nor sa ; | i i | | n | 26,853 Medico-Chirurgo Condotto. 1) In questa ciffra sono compresi gf < (2) Il Censimento delia popolazione | 3) Vacante per rinuncia dell'egregi) o ) \ \ I DI Ì i D sa \ di i ) 2. Ù \ } à Î ate i dii Ù \ Tu i LA A nu j TAVOLA IV. VACCINAZIONI PUBBLICHE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Primo Semestre 1872 VACCINAZIONE ANIMATE VACCINAZIONE UMANIZZATA Totale ic === - " = i dg Sr a genera SERE Numero o : Prima ESITO, urea | Rivac- ESITO Totale Mina ESILIO Rivac ESITO Tatale | 1° di (fanta dolo titti | Nome Cormome, e qualità della 1° vaccinazione. |Molale della rivaccinazione |Motale | dei "| della I° vaccinazione | Totale || della rivaccinazione Totale | dei | IM OSSERVAZIONI 3 TT n ——_ss I PT, È È n Sen à o À i Deira S Ù f MICeli Mak ; Lul cinazio- I ZE I] | \fandk ve eee N la Mat i a 3 È eno Ragno Non | Vacci- iReeoni Non |Rivae-| nati ef" Roo nel Non. | Vaeci- | MAZIO= | non: {(Rivac= | nati o | MAUC ile] Comune Abitanti | dei Vaccinatori Paone Ulieo Spurio | Nullo Vate] nati n tr Spurio | Nullo |Verifi- | cinati | Rivac- Tono no (ispunio Nullo |Verifi- | nati } pel Spurio | Nullo | Verifi- Rivae- | Rivac- Abiti EVAIDI È 5 f di vanfi frazione! lare le are scopi | cinati 154 cato | I calo cinati | calo | x cato cinati cinati è | [] Ù CITTÀ 89, 104 | BELLUZZI dott, CESARE, 2 i sl O) 3555 zz MNe35 N65. lo | #9 | sl | 235 {| 302 J| 466 | so7 | 2 sl 149 | 406 1 192 | 39 | 6 18 | 129 | 192 | 653 |\n020 BORZAGIH dott. GIULIO. 5 Ì | MODONINI dott. BERNARDO. — | = DILLA dott. GIOVANNI, = I RASI dott. DEMETAIO Vice-0on- /£ | | servalore, Si i Ro 3 E | [ | SOVERINI dott. CARLO Coadiuto- Y È | | i | ie del Vice-Conservatore, 2 | | | | VERARDINI cav. dott. FERDI- | E | Î | | NANDO. \ | | | | | | Ì | | | Î Î | FORLKSH 26, 853 Ì ì | ' Trazioni Distretti Sunitavi | | Ì ; Ei Ì Ì ‘ | Î. Arcoveggio 3,9.0 1. Arcoveggio 3,010 COOONI dot, RAFPAELLO, li _ = cp = _ ra ol d S| 2 IS 60 |(A)6 50 50 = | = 30 DI 5 _ = —_ 5 DD Òl (A) Queste sono le prime E ioni animali prati- TTNSI 2,550 AMADUZZI doll. LORENZO, a = eee uo ii glelaele alcol arenaria È îl. S. Egidio 15105) C | | IT. Calamosco (1,806 MONTEBUGNOLI doll, ALESSA.ro Q=&4 — | — | TI |{=-{=|=1l-|- | -— |-|- O i = 9) | 49 Î 12 on n= 1 2 Ol dl Ul: Alemanni 5,504 IV. Alemavni 5,504(1)! BAJETTI dott. ALFONSO. gle [= dada |a > | = [= {|a 28] 24f—- | Di Bic [eq|e |a 2 26 z I | I é V. S. Rufillo (3,427 BERNAROLI dott, PIETRO. “lasfefefe=j=j|l=elpoelodbelaeltads= 3] al asl ST E SEZ a IV. S. Ruffillo 3,851 i | n È VI. S. Mamolo | 2,262 GOZZI dott. IGNAZIO. al di ee bale =ualeeale=aee 53h OSE cirie Miri Vi Mo a st n e 5] 58 \. S.Giuseppe 4,570 Ra o 2 3 VIT. S.Giuseppe 2 MALAISI dott. CALISTO, > [e|[Sfodgje [ls d{e de |a ea ||= |> 15 bl [eq bi -l_-{|[|={={l-= {+ ml Vir Bertalia 4,593 VII Bertalia 4,593 BIAVATI doll. GAETANO, Sa SE a ee a 39 33 i i RAT a ea di eo O, aa = | sr 7 7 | toute 115,937 127 31 6 95 55 127 | 241 69 | 10 si sl 241 Î BIS | Noli bia 2 ll 164 | 751 | 219 | 63 6 | 19 | 131 | ZI9 | 970. 1008 | (2) I Ì rr —————. En II*;;..;.©..éEé.. Li LL r_Tr _tteER['-rs ent 1 _ oc’ _"_1rr__ "———. Cc’. co rr prrrt([T[> ‘ "rr. LO) (1) In questa ciffca sono compresi 909 individui circa degenti nell'Ospedale di S. Orsola e R. Ricovero di Mendicità, i quali sebbene nel perimetro di questo distretto sanitario, non sono soggetti alla cura del relativo Medico-Ohirurgo Condotto, (2) Il Censimento della popolazione del nostro Comune tanto nel suo complesso, quanto nelle sue divisioni è stato appressimativamente stabilito alla mezzanotte del 31 Dicembre 1871. (3) Vacante per rinuncia dell'egregio collega dott. Guetano Scandellari. VOLA V._, PRECEDENTI — Prospetto | 1° Luglio 1870 al 30 Giugno 1872 Totale gene Pd INAZKIONE UMANIZZATA LO | Rivac- ESITO | 2 | Tatale de i i Indicazione delle Divisioni sinazione | Totale delia rivaccinazione | Totale | dei Ta OSSERVAZIONI e EC OO gufi Dr a dei | Vacci- i | | Non 'Yacdie RO OT | Non |Rivac-| nati e SE È del Comune fullo Verifi- | nati | I i Spurio | Nullo | Verifi- | cinati | Rivac- ae calo | | cato | | cinati Ù } { 1,093 | 233 | 31 | 188 641 | 1,093 | 4,060 | 5,849 d A. Da questo prospetto i emergerebbe che delle 7,004 | 7 Vaccinazioni e Rivaccinazio- | fé ni praticate pubblicamente f nel Comune di Bologna dal 1° Luglio 1870 al 30 Giu- È i gno 1872, 5849 appartenes- È j sero alla Città, e le residuali | | $ 1155 al Forese. Però ove | i | fd si rifletta che nel 2°Seme- I | j stre 1870 (Vedi Tavola 1°) È | | { | i le 28 vaccinazioni umanizzate | | | s del Forese furono incorpo- | | | | | rate in quelle di Citta, ne | j consegue che la somma to- | tale delle vaccinazioni di | Città è solamente di 5821, | | i mentre quella del Forese si | | | i eleva a 1183. FORESE o Distretti Sanitari lFcoveggio 3,910 I. Arcoveggio 3,97 | 102 % D| — _ = DI OLO7A LS I. S. Egidio (257 | — | 73 | RI A a na LOR ROO o SÒ £ 3% Egidio 465) IL i) 9 2 113 O 12 9 AED ] 2 12 125 125 lemanni 5,564 IV. Alemanni 5,97 | 2 n de “i Gi i Ù 100 100 V. S. Ruffillo (34 3| 35| 12; 4 “oa A Lea Io glio 3.851 VIS MESIA 2 ne 7A 300 MA 64000 2A Mi320 or 457 0 VII. S. Giuse ppe® 2,7 T ua 29 30 19 6 Dr 30 39 59 | x , 5 [4 03 ertalia 4593 VIIL Bertalia 4,57 | cr RS SI NE OO] Agia leali Di E co 26, 853 26,8 | | i | | i MONO | d 118 | 786 | 3,706 | 1,503 | 338 | 106 | 295 764 | 1,503 | 5,209 | 7,004 A. siffe resi 909 ind Medico-Chirurgo Condotto. i ici i e oloni del none del Comune di Bologna pubblicato dal Comune stesso — Regia Tipografia.) tapito agli amici ed alla Scienza da | TAVOLA V. Prospetto O RIASSUNTO DELLE QUATTRO TAVOLE PRECEDENTI Generale delle Vaccinazioni Pubbliche praticate nel Comune di Bologna dal {° Luglio 1870 al 30 Giugno 1872 VACCINAZ DD; TONI ANIMALI VACCINAZIONE UMANIZZA TA Totale = Ds generi "DE, SOTTO Numero Prima ESTLO TA ESITO Totale fp. ESILI ot s T le di Indicazione delle Divisioni | Nome Cognome, e qualità i della 4% vaccinazione | Totale Rive della rivaccinazione |Totale | dei Prima della o A A Totale Rivac- TERERO. n Fatale Ti i o Td ss . da ] > Ss hi fi "cinaz a î ni "Ri î ì degli | Vacci- | | di ig EEA va —_e—<| wi |. .| e n ile a Vacci OSSERVAZIONI BU | I anono Vara; ||CIMAzIO=] | Tira ara= af ol er | N cinazio- | LOLA ALU ea del Comune dei Vaccinalori Rogo- Spurio | N ema 7 Reso- | È A fon LIVES MEU Reso- Non | Vacci- | Non. |Rivac= | nati e | MOlÎ itanti È ni (2° | Spurio | Nullo | Verifi- | nati 2° |Spurio| N Jevifi- || cinati | Rivac- ©507 | Spurio | N feri ali Rego= | courio | a RR SLO ine Abitanti id to N si ( ne | tare | Sputio Nullo VE cinati Rivac- PRATO oo Spurio | Nullo |Verifi- | nati e tipe | Spurio Nullo | Verifi- | cinati | Rivac- Rimes | cato einati calo | | i | cato | cinati cinati CITTÀ 89,104. | BBLLUZZI dott, CESARE asa | 206 6 | 55 | 186 (54 |a feso | 35 | ea 6 5 7 nos | [een SA 4 È "A 2 2 Di 8 î 248 | 2 95. || 241 ;e2. | 1,248 | 1,789] 2,067 | 2,103 5 ll } 746 | 2,967 11,093 | 235 ; nile BORZAGHI dott. GIULIO. S \ 248 18 I 5 | ) 746 | 2,967 | 1,093 | 233 31 | 188 641 | 1,093 | 4,060 | 5,849 A. Da ARR SrRGSREtO pi a > en bbe che delle 7,004 | MODONINI dott. BERNARDO. S ! Vaccinazioni e Rivaccinazio- PILLA dott. GIOVANNI (3). D Ì ni praticate pubblicamente RASI dott, DEMETRIO Vice-Con- ) £ Î N° Laglio. 1870. 1 40 (Gite nr = Î 1° Luglio 1870 al 30 Giu- — Servalore. D | | gno 1872, 5849 appartenes- SCANDEBLARI dott, CARTANO. — J'z | sero n ie eresia SOVERINI dott, CARLO Goadinto- f È RO dott. | E | si rifletta e 2° Seme- re dlel Vice-(onservatore. | i stre 1870 (Vedi Tavola 1°) VERARDINI cav, dott. FERDI- | È | e Nera Do ana NANDO i I del Forese furono incorpo- NDO. | | i rate in quelle di Citta, ne consegue che la somma to- | tale delle vaccinazioni di | Città è solamente di lì, mentre quella del FPorese si | | eleva a 1183 | FORESE 20,859 | DES | | Frazioni Distretti Sanitari Î | I. Arcoveggio 3,910 I. Arcoveggio 3,910 COGGHI dott, RAFFAELLO. S| — = = ul = || 6 4| 2|- 6 6] 102! 102] — |—- | 102 5 Ole ie e Si LOI GLILO, E, (Il. S. Egidio (2;559 AMADUZZI dott. LORENZO. _ = = = = = = = = = = = = 78 (34 _ = 10) 17 ui = = 17 90 90 Il S. Egidio 4,365 4 Ì III. Calamosco (1,806 MONTEBUGNODI dott. ALESSA.ro Ss ad=i= [e lee fede e = | | Moe gl 2| ua Pi 9a . 2| 12] 185) 125 | Ul Alemanni 5,564 IV. Alemanni 5,554(1) BAJETTI dott. ALFONSO. gi a [Sere etereo e 2a) 6039 e ( 7 | 100| 100 V. S. Ruffillo (3,427 BERNAROLI dott, PIETRO. Cae[edijs {e [e [|a [ef = ae Ea SI Ei SLI eo o a GA I RON EU | |IV. S. Ruffillo 3,851 è iS * Me VI. S. Mamolo 2,262 GOZZI dott, IGNAZIO. la eee | ite eee RR 2 1 137] 320] 44 (64/ 100] 112 | 320] 457 | 457 VW. S. Giuseppe 4,570 È | VII. S. Giuseppe! 2,732 MALAISI dott, CALISTO. a dacia acacia RL ERRO | |VL Bertalia 4593 VIIL Bertalia 4,593 BIAVADI doll, GAETANO. di-lotfeal=|efe te |e|e|ed=|=|= |. S eofp= [ee] 80M do SS O SSA O «£ È ‘Totale|| 115,957 | 541 | 296 | 6 55 | 184 | 541 |\1,254]\ 294 | 95 || 243 | 682 | 1,254 1705 | art | 2,197 | 5 ns | 786 | 3,706] 1,508] 338 | 106 | 295 || 764 | 1,503 |/5,209,|17,004 | 2 | A. | (1) In questa ciffra sono compresi 90N individui circa degenti nell’ Ospedale di S. Orsola e R. Ricovero di Mendicità, i quali sebbene nel perimetro di questo distretto, sanitario, non sono soggetti alla cura del relativo Medico-Chirurgo Condotto. a ni è stato approssimativamente stabilito alla mezzanotte dell 81 Dicembre 1871 (Vedi Censimento della Popolazione del Comune di Bologna pubblicato dal Comune stesso — Regia ‘lipografia.) (I Censimento della popolazione del nostro Comune tanto nel suo «complesso, (3) Rapito agli amici ed' alla Scienza da violentissimo morbo il 30 Gennaio 1878, compianto da tutti co quanto nelle sue divisio: loro che ebbero la fortuna di conoscerlo. TITAN { Ùi ai abili, Li iii ine SRI pani) 7 1 ee DI BOLOGNA ?’opolazione 1 VAJUO LO NUMERO vo OTALE “paro dei iN mero 04 MOSSERVAZIONI Malati denunziati | nati | Dei | Dei dei Malati Dei O i | De | | non denunziati Vacci- | Vacei | Morti : Guariti nati pic 25 12 | lE ee e nati pr ‘| | 10 26 DEL 00 6 (A) I 2 | 4 alla Nascita a 5 Anni i (A) Questi 6 malati non de- nunziati furono verificati dopo la j loro morte dal medico necroscopo i municipa!e Sig. Dott. Adriano Va- | i suri, e quindi rilevati dai Registri | i dello Stato Civile. i __—— 5) 2 Ì , Dalla Nascita a 5 Anni O | Da 6 anni a 10 4 1 2 I 1 1 — — Da 6 anni a 19 j Da 11 anni a 15 [fis — l _ 1 3 1 | Da 11 anni a 15 Da 16 anni a 29 1 5 —_ Ze _ 6 4 Da 16 anni a 20 I I J I i | A Da 21 anni a 30 1 8 4 Da 21 anni a 30 Da 81 anni a 40 3 2 2 — Da 31 anni a 40 Da 41 anni 1 Da 41 anni a 50 2 ni TAVOLA VI. VAJUOLO E VAJUOLOIDE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Secondo Semestre 1870 l’opolazione 114,645. VAJSJUOLO VASUOLO MODIFICATO (VAJUOLOIDE) VAJTUOLO S| dEE a aa NATIA CINATI| NUME N NUME TOT TOTALE / DI VACCINATI] NUMERO [Numero] NUMERO | TOTALE $ VACGINATI| NUMERO |\umero| NUMERO | TOTALE Total TIA NUMERO NUMERO Numero RESA TCA = Pg ea Til] NUMERO Nr IC dei | ca ESE. G NUMERO ———— NO ver nena| Di | Dei | Dei | non | oi | Dei | Dei | pei | dei dei Vacci- | Nella | Di | Dei | Dei pm | Dei | Dei | Du | Dei | dei | pei | Dei | Di dei Malati Dei | DA | ne ‘ace Vacci= uni acci- 3 I rs | NON Te ziati | nati ati Malatif - Malati denunziati | MAU 3 ..| nati o Di 3 | Malati A 3 : non denunziati ME MR aenunziati Infanzia Recente] Morti |Guasiti |" | xporti |Guariti | Morti |Guariti Infanzia[Recente] Morti |Guaritî | ""% | Morti {Guariti | Morti | Guariti Malati | Morti | Guariti nali | DA | uo OSSERVAZIONI 25 12 15 25 TO0DODE 19 I 36 10 20 GA) 4 | 6 | ] [a] ES ro a FO) = 8 6 6 6| = Ola — = _ 6 6 14 3 ll 2 Da 31 anni a 40 Da 81 anni a 40 Da 81 anni a 40 2 _ -|-l-{|1-{|-{=-}|-{|{|-j|{|=-}|=- | 2 1 1 1 Da 41 anni a 50 Da 41 anni a 50 Da 4l anni a 50 | | | (A) Questi 6 malati non de- mR furono verificati dopo ]n loro morte dal medico necroscopo municipu!e Sig. Dott. Adrinno Va- suri, e quindi wilevati dni Registri dello Stato Civile. b] 10 15 Ù | | | | 1 | Li | Il | ul | 88 Dalla Nascita a 5 Anni Dalla Nascita a 5 Anni | Dalla Nascita a 5 Anni 5 1 l 1 1 3 3| — 4 l 5 _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ | S 2 Î 1 Da G anni a 10 Da 6 auni a 10 | Da Gunni a 10 | = -|]-|l-|-{|=-}{-j|-{|=-}!-}|+ _ _ o.elloo{leloiledioloela.ljlajs 1 = ] 1 Da 11 anni a 15 | Da ll anni a 15 | Da Il anni a 15 3 | 1 2 1 l 1 2 3 3 3 glo | = gleladuaja 3 3 6 1 2a AE Da 16 anni a 20 Da 16 anni a 20 Da 16 anni a 20 | 6 al | 4 ul al al el 6 2 ol olio olalolaela el el sl ©» E | cea ae Da 21 anvi a 30 Da 21 anni a 30 Da 21 anni a 30 i I | | | | | e a» |» © Hi I | I I I | = E; 5 ro Cì 4 eroe: dci ag REVRAINOTTI il A; Da LA CATA COIN puoi UE e Ji LU ‘ di i NI \ Lera (144 L KH VANI ì iui HI H (E Wi Di ponga adibite n Si) I I ET sc ss I IE AIN vocLa vin. DI BOLOGNA polazione 115 VA.JUO LO | (# vacknerate | numero | NUMERO SEI ALÌ ì Je ) IVA du Î UMERO \mer | — — | OSSERVAZIONI , | dei | Dei | Dei dei Malati Dei i Dei | Doi dei Vaeci Nelli | Vacci ! non I 2-0 rete Î non denunziati AC | Yacci- alati denunziati | "" ; Morti ! Guariti nati . | Morti nti ISS AE RR E nati i A Cane vi 25 Bo 19) (A) 12 TY 19 | | 54 9 he e (A) Questi 19 malati non de- | la Nascita ai © Anni | 6 13 IMORIOL . : | Da 6 anni a 19 suri, e quindi rilevati dai Registri | Da 6 anni a 10 | dello Stato Civile. ti ì Da li anni a 15 Da 11 anni a 15 1 li i ERA 10 l E Da 16 anni a 20 Da 16 anni a 20 19 — x 19 Ri DI al Da 21 anni a 30 Da 21 anni a 830 26 12 1l Da 31 anni a 40 2) | Da 41 anni a 50 anni < Da 51 anvi a 60 Dalla Nascita ai D Auni | nunziati furono verificati dopo la 4 $ (0 6 — G 6 { loro morte dal medico necroscopo | municipale Sig. Dott. Adriano Va- { il | | Ù | | i 28 sà | “| | 19 | 12 AVOLA VIE. VAJUOLO E VAJUOLOIDE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Primo Semestre 1871 Popolazione 115,957. VASITUOLO VAJSUOLO MODIEFICA'bTO (VAJUOLOIDI) VAJUOLO n — x CSC Tua Ta 1 i = — == NUMERO |xuner vacci SUI sie Line NUMERO | LOTALE [a ONTO lina VACCINATI) NUMERO Pina NUMERO | LOTALE Total LIE NUMERO NUMERO Z ? oi 5 a NE ; (ia Rie See "-==*s°t —— —m——_ OSSERVAZIONI dei Vac | Nella | Dî | Dei | Dei | MO | Dei | Dei | De | Dei | dei dei Vacci- | Nella | pi | pei | Dei vin | Dei | Dei | Dai | Du | di | Dei | Dei | Du dei Malati pri | Di | Dei $ 0 | ; o Sur { 7 | ; non Malati denunziati | nali Mino ot | Gato nati ci [uni Malatif Malati denunziati nati tile start (mn tf Treia Malati Malati orti cum non denunziati bi LEE sa ! nati | * 87 24 24 _ 3 21 63 21 2 | 60 di 1 lò 14 | 2 | 1 15 l | _ l 1 16 17 104 | 25 79 19 (A) 12 7 | 19 | Dalla Nascita ai © Anni } IS, Dalla Nascita ai 5 Anni | | Ì Dalla Nuscita ni D Anni | (A) Questi 19 mulati nou pa ta DR RI (aa CSI ANNOIA ANI ISLA i) l i e|=el |=ae[{=]|=|[={| *% sl | af o 0 SR ER Da 6 anni a 10 [E Da 6 anni a 10 Da 6 anni n 10 RN SOI ATI FRE Na î 1 alle 1 6 2 4 2 5 7 4 3 Ri S| ES 3 lla vile 4 alcu el = TS _|ICOlO}Sinto (Give Da Il auni a 15 h Da ll anni a 15 Da UL anni a 15 10 I Il _ —_ l 9 l 8 1 o 10 2 2 pd _ _ 2 —_ _ _ _ a DI 12 l lì =. sa tea <= Da 16 anni a 20 | Da 16 anni a 20 Î Da 16 anni a 20 19 4 4 _ _ 4 15 4 ll i 4 15 19 4 | 4 2 2/ — 4 _ _ _ — 4A 4 23) 4| 19 = = = | = Da 21 anni a 50 Da 21 anni a 30 | | | | | Da 21 anni a 30 28 ll ll _ l 10 bri a 12 () F33 28 4 4 A — _ 4 — _ = | = 4 4 32 | B| 26 12 ll Il 12 Da 31 anni a 40 Da 31 aoni a 40 Î Î | Da SI anni a 40 D 3 3 _ 2 l 2 _ 2 2 d D l Il l _ l _ —_ — | 1 _ l (H) 3 | 3 —. — a c= Da 41 anni a 50 Da 4l anvi a 50 | Da dl anni a 50 4 3 3 _ _ 3 l _ l —_ 4 4 l 1 l _ ct 1 _ _ = = l l 9] | D —_ _ _ =; Da 51 anni a 60 Da 51 anni a 60 Da 51 anui a 60 l _ _ —_ _ _ l 1 —_ l = 1 Co Ca = ni | ca Ca ra = — | - = 2 l l = l 1 = l DI | | MEG SOSSbScDOMNESESSSE l —_ l l 16 | 7 104 20 79 19 | 12 ti 19 | ala fi 4 i } NR I NRE (I 1 i PRESTI W) Ì 7 ll i » tr t ! fi i) f È ‘ De ) Ù \ È } Xi ti | SARA Ò N) più ae D RUORI 3 Ù 1 bili pei \ b FASAI i AVOLA VII. DVI BOLOGNA opolazione 115,957 VA « VASTUOLO CALI VENTI nE reg \ DI i RAI » VACCINATI lE Ii NUME IERALE NUMERO NUMERO Bo pera n “in I > ; i Dei î dei Malati I dei Vacci- | Nella | ) De to) i | non di. nati Î no: denunziati 39 | Vacei alati denunziati Infanzia|Recente| forti ; Guariti nali 1 e ] | 486 | 234 | 209 25. ||30 | 510 (C) 81 | 10 | EI IRR OSSO È ; Dalla nascita a 5 anni | (A) Di questi 25 Morti due erano 7° ci 0 ann i ., | Stati vaccinati di recente: la Lesi 67 9 2 64 4 60 64 | Caterina di Cesare, giornaliero, È TO | d'anni 4 e mezza abitante in Bor- È Da 6 anni a go S. Giacomo N. 3239, vaccinata pacino 0 | cor felice successo con linfa uma- 44 12 10 6 ==: 6 | 6 { nizzata il 4 Luglio avendo il vajuo- MIE lo dì a Hi de: RIE È î mestre 1871 N. 3 ), denunziata af- eggicanni a do | fetta di vajuolo il 15 ( Reg. Den. 64 37 36 2 li 1 2Î N. 221 ), e morta del medesimo il TRI a sr 20 dello stesso mese (Reg. Morti 3 = A 20 a anni a N. 132); e la Sanniotti Ida di giorni tate | ignoti genitori, di mesi 10 abitan- 99 54 5) l sor 1 l {te in Borgo Tovaglie N. 764 vac- Dalai an cinata essa pure con linfa umaniz 9 ia t80 a 21 anni a 3 zata il 12 Dicembre mentre aveva na ba A - | il vajuolo in casa (Reg. Vacc. 2° 144 86 CH 7 4 3 ‘ { Semestre 1871 N. 1678), malata di è D va]juolo il 17 (Reg. Den. N. 810), Da 31 anni a 40 Da 31 anni a 4 e morta del medesimo il 22 stesso mese (Reg. Mort. N, 214). 5A 23 21 = Sa a =F (B) Due dei quali vaccinati di i lecente vedi la nota qui sopra let- Mg anni a 50 Da 41 anni a 50 tera (A). } (Cì Questi 81 malati non denun- 10 7 6 a ua va “|| ziati furono verificati dopo la loro TE. sa morte dal medico necroscopo mu- ili agni a 60 Da 51 anni a 60 nicipale Sig. Dott. Adriano Vasuri 1 e quindi rilevati dai Registri dello 5 2 2 ! | =" 1 | Stato Civile, Da GI anni a 70 Da 61 anni a 70 a è 1 1 1 a “i = Ga Da 71 anni a 80 Da 71 anni a 80 Ad 1 [ 3 2 2 ® D Di FE Da 81 anni a 90 Da 81 anni a 90 1 1 , ® ge e _— _- ___—’ 486 294 209 81 | 10 | 71 81 | ti Perc 2 MATA Y x) Ù TAVOLA VII. VAJUOLO E VAJUOLOIDE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Secondo Semestre 1871 Popolazione 115,957. Pai r N VAJUOLO VASJUOLO MODIFICATO (VAJUOLOME) VASUOLO 7 TI N î dc ‘ DI POTALE |, o g VUME AIN DI 'OTALE TOTALE ° ZEMERO: Nn VAGCINATI| NUMERO |vumero| NUMERO | TOTALE lm rumeERroO |vunero ASGINATI NUMERO (Numero NUMERO | TOTALE |nyae| TOTALI NEREO NUMERO dei ae di flo ù x oi ea dei => — | NERO STA OSSERVAZIONI dei Vacci- | Nella | Di | Dei | Dei VIE Dei | Dei | Dei | Dei | ll dei Vacci- | Nella | Di | Dei i Dei Voi Dei | Dei | Dei | Dei dei | Dei | Dei | Dei dei Malati Dei | DU Dai ; a ti È fit Ai demimnziari nati eo » init | NON Malati denunziati | 22 È ; ME s x , «| Malati Malati denunziati o E cul ni E DA ; Malati » denunziati Vacti- | ieri i Infanzia|Recente| Morti |Guarili Morti |Guariti | Morti |Guariti Infanzia] Recente Morti | Guariti|{ "| Morti |Guariti | Morti | Guatiti Malati } Morti | Guarili VISA nati; | Vee Monti STD nati |° 486 | 234 | 209 | 25 O. 209 | 252 100 152 | 125 361 si | 154 146 116 30. 2 144 | 8 3 | 5 5 149 154 640 130. | 510 (C) 81 i_l0 7 NI e Ì Dalla nascita a 5 anni | Dalla nascita a 5 anni AAA È ) nl Dalla nascita a 5 anni È (A) Di questi 25 Morti due erano 07 9 2 tl 4 5 58 35 23 39 28 67 8 6 3 3f| 6 2 2 _ 2 6 8 75 41 n u 2, f Stati vaccinnti di recente: In Lesi n: 34 64 LI 50 54 | Caterina di Cesnre, giornaliero, Da 6 anni a 10 Da 6 anni a 10 Da 6 anni a 10 d'i SEO e mezzn abitante in Bor- î go iincomo N. 3289, vaccinata Î ® To 3 LI 5 32 do vi i 33 da 13 12 10 9 1 mu 1 Cei i 1 12 13 57 12 45 6 Sa A | È con felice successo con Tinta um | ù ui Nina il 4 Luglio avendo il vajuo- Rn Dalton ta ti5 ; tESar o in famiglia (Reg. Vaco. 2° Se- Da fi anni a 19 ci L Da ll auni a 15 TAGS 1871 ) N AU denunziata nfe 4 E Mi nt i si MT n TG 5a e: 25 zi gi ele al il cl 1 | s| a 6 IR RT POL | : d 89 83 2 l l 2.1 N..221), e morta del medesimo il Da 16 anni a £0 Da 16 anni a 20 Da 16 anni a 20 Si dello stesso miele (Reg. on i ela Muniotti Ida Il 99 54 | si sl sl 40 4) 12] a3| 7) 82] 99 39 di sl eli e] 8 1 2 1] 38) 39| 138 18] 120 1 = 1 1 | ignoti genitori, di mesi 10. abitan- te in Borgo Tovaglie N. 704 vac- Da 24 anni a_ 30 Da 21 anni a 80 Da 21 anni a 80 cina CERO con linfa umaniz zata | Jicembre mentre nvevn sel 77] 9| 71 90] 58) 24) 384] 30) 118) 144 54 8] | oa al | a 7 7 4 qi||(ULMUolo)in-icasa MRegi Waoca iz {44 citi 7 5 9 9: 198 31 | 107 Ù 4 3 T SOUS 1871 N. 1678), malata di i Da 34 40 ne n vajuolo il 17 (Reg. Den. N. 810), Da 31 anni a 40 a anni a Da 81 anni a 40 e morta del medesimo il 22 stesso 5I 23| zi e| 3) 20) 28) 12| 16) 15) 960) 51 10 Wi el el il ol [pa|a]| «| 9 0) i wl _ SN AN (B) Due dei quali vaccinati di Da 4i anni a 50 Da 41 anni a 50. Da dl anni n.150 o la nota qui sopra let- ; | È a Î 4 4 3 A =; cre AI Ca 2 4 4 pe Lies Es. fe. (G) Questi 81 malati non denun- | 10 7 6 1 2 5 1 2 3 Li 0 4 14 giri ziati NET verificati dopo In loro . . morte dal medico neer o mu- Da 51 anni a 60 Da 51 anni a 60 Da 51 anni a 60 nicipale Sig. Dott. ATTO ant 2 2 gi = 1 1|— = — 1 1 2 1 1 i|- —_ 1 _ = = _ 1 1 3 1 2 1 LS 1 Suini dui Registri dello Da tel'anni a 70 Da 61 anni a 70 Da Gl anni a 70 1 1 1|— i|]-|-|-|- il = Ù _ = |-|=-|=}|= asian 1 i|- - ie Da 71 anvi a 80 Da 71 anni a 80 Da 71 anni a 80 3 2 DIS = 2 i) — I| — 3 3 = = = = bo F ci = a = SF a Je o) o” | ca "a a Da 81 anni n 90 Da 81 anni a 90 Da 81 anni n 90 1 ‘ n= e eee 1 | _ 1 S ICI =|= -| -| | | —| -— 1 TRIATZS = = |a I 480 234 209 | 25 | 25 | 209 292 100. | 152 125 361 486 | 154 | IE O) 116 | 30. 2 144 8 | 3 5) | 5 | 149 154 540 | 130 | 510 | gl 10 71 sl ———_—___—_____—rrs.rCk€. C-._-- o cc II —___—_————___——_——r—coe—oazz@2* lmcrt-‘1IPI@1@8G-#STRTÙ E Sii > i Ku diacieviiira Ri ORI RT Ni i SORIA DT { i SRI iii zae ian CC N RE On i Re LAM ei fear Di Fold Ei | A N SILA Mi Cera pe9re STAI 3 i } } j J \ It | vi I, f Ni Li) AVOLA IX. DI BOLOGNA opolazione 11° VATOTALE NUMERO RO. |Nunero ° n DA î SE mero GENERALE | INTWTMIBDRRO OSSERVAZIONI dei Vacei- | Nel; Î Dei | Dei dei Malati Dei Dei | Dei Mic sog È NON alati denunziati | Ni Inti i | non denunziati VEE ra Dial {i | forti !Guariti nati + | Movii { | nai | doni TA | 30 | 151 | 20 (A) iQ a lla Nascita ai 5 Anni | I Dalla Nascita ai 5 Auni | È (A) Questi 0 malati non de- | | LÌ { I | i nunziati furono verificati dopo la f 13 | DI Tollo abi 8 — Ss S } loro morte dal medico necroscopo Î I j municipale Sig. Dott. Adriano Va- Da 6 anni a 10 | Da 6 anni a 10 f suri, e quindi rilevati dai Iegistri | j Cello Stato Civile. 1 = 1 Da 11 anni Da ll anni a 15 ì SI } Di * \ Ci E) n % Ì NI U i L Ù 1 v TAVOLA IX. VAJUOLO E VAJUOLOIDE NEL COMUNE DI BOLOGNA durante il Primo Semestre 1872 1 | Popolazione 115,957. —_—_—_—_——_ lle elleemce___t_— rr VAJSUOLO VASUOLO MODIFICA TO (VAJUOLOIDE) VAJUOLO 3 VAGCINADI| NUMERO |N NUMERO | TOTALE | my 5 VACCINATI] NUMERO |\umero| NUMERO | TOPALE |m,, TOTALE NUME NUMERO [im "| _ SEE a DR NUMERO {im ul a & E NURILEO SE OSSERVAZIONI dei Vacci- | Nella | Di | Dei | Dei | MO | Dei | Dei | Dei | Dei | dei dei Vacci= | Nella | Di | Dei | Dei | MO | pe | Dei | Dei | Dei | dei | poi | Dei | Dei dei Malati Dei | Dei | Dei Malati denunziati nati ARS: No È i 3 Malatif - Malati denunziati nati ra | 9 .| Malati 5 non denunziati Vacci- | (od Tufanzia| Recente Morti | Guani Morti {Guariti | Morti | Guarit Infanzia[Necente] Morti |Guariti {/* Morti {Guariti | Morti I Guarili Malati | Morti ! Guariti nati | Do | Monti 140 5 | l 21 54 65 9 56 30 | 110 | 140 | 4l 36 36 | = | = 36 5 _ 5 - 4l A SL RON I | 20 (A) 9 | Il | 20 | Dalla Nascita ai 5 Anni ! | | Dalla Nascita ai 5 Anni Ì i Dalla Nascita ai 5 Anni | (A) Questi #0 malati non de- 13 | 1 l _ l — 2 6| 6 7 6 13 5 | l l _ — Ì | A _ 4 —_ b) 5 18 vi ll 8 — | S s TA rt cel O Da 6 anni a 10 Ì Î s Da 6 anni a 10 | | Da 6 anni a 10 A RM 13 SISSA e 13 2 | u 2 | 18 2 as) ua I vii — ila ol 2 sl el va 1 = 1 A SIAICe Da 11 anni a 15 | | Da ll anni a 15 | Da Il anni a 15 | 16 | 9 sl — 2 7 qili = 7 2 g4 16 10 | Mi fel well =|= 10] 10 26 2] e 2 1 1 o Da 16 anni a 20 | Da 16 anni a 20 | Da 16 anni a 20 I 30 | 16 | 16] — 3 13 Vi 14 8 27 30. 10 i IRRIDI e | 0i — - = —_ 10 10 40 si &n 1 ila | I Da 21 anni a 30 I | Da 21 anni a 30 | x | Da 21 anni a 30 43 34 33 1 Ss 26 9 l 8 ‘) 34 43 Y | îi ul — _ 71) i = Ù Di 51) o) di ò D I IH Da 31 anni a 40 | Da 81 anni a 40 | Ù Da 81 anni a 40 15 E ala | 3 5 CS 7 al i 5 5 al Set globo ibalto 5 5| 20 3| 17 2 °| = 2 Da Al anni a 50 | | Da 41 anni a 50 Da 4l anni a 30 Ù 8 5 5| — | 3 2 | 3] — 3 3 5) 8 2 2 2| — _ 2] _ = = 2 2 10 STIA = = —_ = Da 51 anni a 60 | Î Da 51 anni a 60 | Da 51 avui a 60 2 2l ela | l 1 | = | = | 1 1 2 2 -|l-|{-|-{-|1=|J={=|=1{-|+ ol gi dl = =f=|]|= (dsc bei 140 dual ale 0 | 56 | 30 | 110 | 140 Al | so, | 360 — {— | 36 5 | 2 6 = | tf 4] aa 0 fa 20 geo ILS ZO | E E I O o e a T_T i i e e Es st ..P—_ee—_—_2111—_—___+_ __——+---—-—_-—_-—_—_—-____mm TINO. Arene da f a È AGLIO! Deda i Fn è ) ; FS — nin ao am i dvd rapa rit api sappia asp fr 1 Te x ( SO N 9: siii ri 5 MAR A attana di ettgi| PRESI et oiran 7 À È sE gin RT a SIA TRA i rt x TE è A bi Hr VINO \ EN tc AE o) fi È pl aa x Ss dol Segr nin cirio ER re dà rt E ord 7 DI DEE rane ì ER, SE | ; ; ‘ i 01 Ù Lu È li Merita Ari i SI Ì NA Prabplbeltaemciioi alri { i ì rich Î \ È AVOLA X. O TAVOLE Prospetto Grerdal 1° Luglio 1870 al 530 Giugno 1872 popolazione 115, VASTTOLO DEld NACGIEO AI NUMERO UMERO pere | GENERALE NUMERO OSSERVAZIONI xo >_> — Pei ce 7 diei | 5 SIA f } dei | Yacci- | Nella Jei | Dei | Dei dei Malati Pei na | Dei i JEeto n : ISO ae Tonia alati denunziati | Pol "RRG] Aes RIT non denunziati Vacei | Vacei-| |. | iinfanzidlati | Morti !Guarili nati Morti | | {nati î 345 | 318 BI | 195 | 766 | 126 (C) | 390 R93 | 126 Ì (A) Di questi 51 Morti 2 erano stati vaccinati di recente. — Vedi fl Tav. VIII Osservazione A. (B) Due dei quali vaccinati di È recente — Vedi Tav. VIII. Osser- | vazione B. {C) Questi 126 malati non de- | nunziati furono verificati dopo la { loro morte dal medico recroscopo | S municipale Sig. Dott. Adriano Va- suri, e quindi rilevati dai Registri f dell’ Ufficio dello Stato Civile. Dalla Nascita ai 5 Anni 30 Ut I Si Da 6 anni a 10 Da 6 anni a 10 G4 13 11|83 16 Da ll anni a 15 154 78 75 [69 26 Da 21 anni a 30 I 223 135 | 125/94 | 49 Da 81 arni a 40 13 34 a 41 ammi a 59) a Dl anni a 60 ò 4 a 6l anni a 70 1 1 a 71 anni a 80 Da 7ì anni a 80 Ì Da 16 anni a 20 | H il | | | do 9 (Di Sl anni Da Sl anni a 90 TAVOLA X. RIASSUNTO DELLE ULTIME QUATTRO TAVOLE (©) Prospetto Generale dei casi di Vajuolo e Vajuoloide verificatisi nel Comune di Bologna dal 1° Luglio 1870 al 30 Giugno 1872 ty Popolazione 115,957. it IZ VASUOLO VAJSUOLO MODIFICA bTO (VAJUOLOME) VAITUOLO NUMERO Iumero vaconari NU Vunero DAZAS | I { Punito NUMERO Numero PRI SS aa A Si Totale ILA LIO NUMERO NUMERO OSSERVAZIONI dei are Nella | _ Di Vane Dei | Dei | Dei | pei | dei dei Co Nella | Di Dei «© Dei | MO | Dei | Dei | De | Dei dei | Dei | Dei Dei dei Malati ini | DI ia Malati denunziati | nali AR nni È | Mali Malati denunziati nati | | Mes | Malati i non denunziati feti | pied I scia Recente] Morti | Guasiti Morti |Guariti || Morti {Guariti Infanzia! Recente Morti |Guariti] !® | Morti !Guariti | Morti | Guariti Malati | Morti | Guarit vr nati De | Morti 738 345 | 318 27 I 294 | 393 | 138 | 255 | 189 | 549 | 788 253 | 209 | 177 32 3 206 la 3 ll 0) 217 | 223 | 961 | 195 | 766 | 120 (0) 38 | 98 126 = 7 Dalla Nascita ai 5 Anni Dalla Nascita ai 5 Anni Dalla Nascita aî 5 Anni | (A) Di questi 51 Morti 2 erano 98 8 si seo 2) ss) a2| so) 53) o) os 14 gi I al sel el «| 20 cel i vel el so e RT vi Da 6 anni a 10 Da 6 anni a 10 Da 6 anni a 10 reco Dee dal Vanoni 64 13 ll 2 Si 13. 51 15 36 | 15. 49 64 19 16 TR: 2 l 15 3 = 3 l 18 19 83 16 07 8 —_ Ri s I 126 malati non de- Da ll'anmi a 15 Da Il anni a 15 i Da TL arni a 15 ER PO 98 48) 47 1 3 45 45 gi EB del es sal 40 90, 183 Oi > 39 = ul = 40,| 40. 133] 10] 125 4 2 2 4 to AI Regi Da 16anni a 20 | Da 16 anni a 20 | SI IRE dell Ufficio dello Stato Civile. 154 78 75 Bi s 70 76 17 59 | 25 179 154 n) DR dd s _ 5a 3 Î l 2 l DA4 DD 209 26 183 2: l Il 2 Da 21 aoni a 30 Î Da 21 anni a 30 | Da 21 anni a 30 223 135 125 10 17 118 88 32 56 49 174 RR: nl 70 60 10 =. R — ì = TI nl 204 40 245 Ti 21 6 ri Da 31 arvi a 40 Da 31 ansi a 40 | ì Da 31 anni a 40 } 73 34 32 2 s 26 39 18 26 21 52 18 lù 16 14 2 e) 14 — _ = 2 | 14 lù SO 29 80 3 2 l 53 Da 4l anni a 50 Da 4l anni a 50 { Da 41 anti a 50 Î 23 16 15 Il 5 ll 7 1 O) i) 7 23 7 7 6 1 IRE 7| — — |-1- 7 7 50 6 34 = = ed Da dI anni a 60 Da 51 anni a 60 | | Da 5! anvi a 60 D 4 4 _ £ 2 1 1 | _ 3 2 D l 1 l - _ 1 _ _ _ = l lì Ù 3 } 2 2 = 2 Da Gl anni a 70 Da 61 anni a 70 | Da GI anni a 70 1 1 ul al= {=== ua 1 = A I — | - 1 ua _ = [=> | = Da 71 anni a 80 Da 71 anni a 80 Da 71 anni a 80 3 2 SES 2 Tuc Lul 3 3 Di aac Meg iS enni toi Sa ala 3 a ei aa Da Sl anni a 99 Da Sl auni a 90 Da 81 anni a 90 1 1 Le REA Su Di 1 _ ST = = = = | = = = — _ l l| _ — 1-1 3 VO Hit na miti 9 Î, x REASON LIAN ì pia 10, 0000 } [| È A n LIGAVO. (11 N TRO ua MRITA A AI ‘ MNT ORI OLI Verona | TRI PE; IAA MRI ; Mniaito ; 7 i 3 S NARO RICLECIIH SULL CORRENTI INTERROTTI KD INVERTITE STUDIATE NEI LORO EFFETTI TERMICI ED ELETTRO-DINAMICI MEMORIA PROF. EMILIO VILLARI (Letta nella Sessione 1 Maggio 1873) $ 1. Introduzione. — Gli studi di molti fisici hanno dimostrato che la ‘corrente elettrica prima di circolare per un condut- tore ha bisogno di caricarlo elettricamente; e perciò nello stabilirsi della corrente in un circuito vengono distinti due periodi diversi. Nel primo il filo si carica, la corrente acquista mano mano il suo valore normale passando per uno stato variabile; e nel secondo, o stato costante, la corrente invece è stabilita ed il suo valore dipende dalle condizioni indicate dalla legge di Ohm. Lo stato variabile non ha una durata costante; esso cresce con la lunghezza e la resistenza specifica del circuito, e cresce inoltre col così detto coefficiente di carica del filo ; il quale coefficiente ‘è misurato dalla quantità di elettricità necessaria per impartire la carica uno ad un filo di lunghezza unità. Laonde tutte le cagioni che possono far variare codeste condizioni debbono di necessità portare una modifica- zione nella durata dello stato variabile della corrente elettrica. Ora nei metalli noi scorgiamo troppo grandi differenze nelle loro proprietà fisiche per non supporre, che almeno il loro coefficiente di carica non debba variare da un corpo all’ altro, e con esso la durata dello stato variabile della corrente. Ed invero tutti i metalli forte- mente magnetici, quali il ferro, il nichelio, il cobalto ecc. debbono magnetizzarsi al passaggio della corrente, e perciò deve questa generare 158 EMILIO VILLARI in quelli un lavoro che non ha luogo, almeno con la stessa intensità, in altri metalli: e perciò la quantità di elettricità spesa dalla corrente per istabilirsi nei vari metalli non può essere la stessa. Tali considera- zioni condurrebbero ad ammettere una differenza di durata nello stato variabile della corrente nei diversi metalli, e quindi una serie di altre variazioni in tutti quei fenomeni elettrici e magneto-elettrici che con lo stato variabile delle correnti hanno relazione. $ 2. Riiassunto di Ricerche Anterio- ri. — lo già studiai altravolta (1), per mezzo di un mio metodo calorimetrico speciale, il ferro sotto l’ azione della corrente elettrica ed esservai: che un filo di detta sostanza si riscalda poco con una corrente continua, molto con una corrente interrotta, e moltissimo con una corrente invertita; supposte tutte e tre le correnti di eguale intensità e durata: e le differenze son tali che le quantità di calorico svolte nello stesso filo stanno fra loro (chiamando 1 quello svolto dalla corrente continua) in alcuni casi come 1:3 per la corrente interrotta e come 1:7 per la corrente invertita. Ora se noi ci ri- feriamo alla legge di Joule (la quale ci dice che la quantità di calorico svolta nei fili nello stesso tempo è proporzionale alla resi- stenza loro) saremmo condotti ad ammettere che la resistenza opposta dal ferro a quelle tre diverse correnti sia cresciuta nelle medesime proporzioni dello sviluppo di calorico nel filo. Il calorico maggiore che si sviluppa nel ferro al passaggio del- le correnti interrotte fa supporre che nel ferro il coefficiente di carica sì sia aumentato per codeste correnti, o più esattamente, che con esse una maggior quantità di elettricità si trasforma in calore, in confronto a ciò che accade con la corrente continua. La quale conclusione ci conduce all’ altra assai importante: a ritenere cioè con molta probabilità e come s’ era supposto, un’ aumento di durata nello stato variabile della corrente nel ferro ; aumento che deve riescir mag- giore con la corrente invertita che con la interrotta e diretta, perchè con quella il calorico svolto, e perciò il coefficiente di carica, è mag- giore che con questa (2). Ed inoltre siccome la velocità della corrente (1) E. Villari, Nuovo Cimento, Vol. IV. pag. 287. 1870. (2) È qui bene di avvertire che il significato da me attribuito qui ed in se- guito al coefficiente di carica è alquanto diverso da quello adottato. Io nel caso SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 159 è intimamente legata con codesto stato variabile, così ne segue che nel ferro l’ elettricità deve propagarsi più lentamente che nel rame. Il che risulta pienamente dimostrato dalle esperienze dirette di Fizeau e Gounelle (1). Le misure dirette però di molti fisici ed ancora alcune mie espe- rienze mostrano, che la conducibilità elettrica del ferro non viene sen- sibilmente modificata dalla sua magnetizzazione. Laonde 1’ eccesso di calorico svolto dalla corrente interrotta non parrebbe potersi attribuire ad un semplice aumento di resistenza del ferro magnetizzato, come la legge di Joule avrebbe per avventura fatto supporre. Perciò mi venne in pensiero di studiare e ricercare la cagione propria del maggior calorico svolto nel ferro dalla corrente discontinua e possibilmente di determinare il meccanismo di questi fenomeni. E tale studio appun- to, forma lo scopo principale della presente communicazione. $ 3. Metodi di Misura. — Una prima quistione ci si presenta in queste ricerche, e si è quella di stabilire se il maggior riscaldamento del ferro prodotto dalle correnti discontinue è dovuto ad un aumento puro e semplice, e quasi direi passivo della sua resistenza, ovvero a qualche altra condizione non per anco nota nè studiata. A risolvere un tale problema io sperimentai con le correnti de- rivate. Ora si sa che in due fili di derivazione le intensità delle cor- renti che li attraversano sono inversamente proporzinali alle loro rispettive resistenze; e perciò basterà pel nostro scopo determinare l’ intensità delle correnti in due fili di derivazione, p. e. di rame e del ferro intendo misurato il coefliciente di carica non solo dalla quantità di elet- tricità necessaria per caricarne elettricamente un filo unità, ma eziandio da tutta quell’ altra quantità di elettricità che bisogna al ferro per la produzione dei suoi fenomeni magnetici, e che, in parte almeno, si trasforma in calore. Così che nel caso del ferro e di altri corpi magnetici posti nelle stesse condi- zioni, il coefficiente di carica sarebbe misurato, secondo la mia definizione, dal coefficiente di carica elettrico e da quello che potrei dir magnetico. (1) Questi sperimentatori trovarono che la velocità della corrente nel rame è in numero rotondo di 180,000 K. a secondo, e nel ferro di soli 100,000 a secondo. Dalle ricerche dirette poi del Guillemin risulta che la durata dello stato variabile in un filo di ferro lungo oltre i 500 chilometri e grosso circa mill. 4 sarebbe 0",018 adoperando la corrente diretta, e 0",033, sperimentando con una corrente invertita. 160 EMILIO VILLARI di ferro prima a corrente contimua e poscia a corrente discontinua per poter risalire alrapporto delle loro resistenze inei due casi considerati. Vero è però che in queste misure non si può adoperare una bussola ordinaria, giacchè bisogna poter sperimentare anche a correnti alterne. Invece ssi potrebbero adoperare, o gli elettro-dinamometri ovvero, fon- dandosi sulla legge di Joule, si potrebbe icon dei colorimetri deter- minare il calorico svolto nei fili,.e da .esso risalire alla intensità delle correnti derivate e quindi alla resistenza dei circuiti corrispondenti. Lo ho seguito entrambi questi metodi ed ho ottenuto dei risultati intiera- mente concordanti. Prima però di descrivere il modo con cui ho eseguito le esperienze è ‘necessario di dire qualche cosa intorno al metodo in generale. Sieno adunque (Fig. 1, a e è i due poli di una pila riuniti coi Fig. 1 ‘e dk b fili be ed ad, chè si derivano poscia nei due capi e' ed e'': Chiamiamo r la resistenza ridotta dei due primi, ed »' ed y"' le resistenze ridotte dei due capi e' ed e'': sostituiamo 7°, x" con due fili equivalenti per conducibilità, ma di lunghezza eguale all’ unità e di sezione ' ed «' ed avremo per le leggi delle resistenze dei circuiti, i isa vena I due fili derivati e' ed e'' si troveranno così sostituiti da due altri che hanno la medesima lunghezza e che agiranno come un solo filo di sezione Ario 1x4: SLTX +72 = ie ia a Vv e che avranno per lunghezza ridotta SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 161 Aggiungendo a questa resistenza quella dei due tronchi ad e de che abbiamo indicata con » si avrà un circuito unico la cui lunghezza ri- dotta totale sarà espressa da LÀ II Dia e sleep At E per la formola di Ohm avremo, chiamando È la forza elettromotrice della pila, che l’intensità Z della corrente sarà espressa dalla relazione E(r+r') Da r(r' +?!" ) r' r'! j (a) Riguardo poi all’ intensità delle due correnti d' ed i'' dei due circuiti derivati esse si ottengono facilmente ammettendo che la intensità to- tale / si divide in due altre proporzionali alle sezioni x' ed «'' dei due circuiti derivati e quindi inversamente alle loro resistenze. Perciò si ottiene 5 ; (b) = 7 = dalla quale relazione e dalla precedente si ricavano i valori di è e di <' rispetto all’ intensità e resistenza totale, i quali sono Di vi! Er' «J «J «If dee // MESE RIE ( rn EI] rr +) (0) i r' Er' È *FI Old DAL d'a(d+i) aq =D = e: ( ae + a+) +ro v! Per conoscere il rapporto fra le due resistenze — basta determi- di PL nare quello fra le due correnti de. al che io pervenni determinando Ù per mezzo dei colorimetri il rapporto fra le quantità di calorico svol- tesi nei due fili di derivazione nelle varie condizioni delle esperienze. La relazione poi fra l'intensità delle correnti e le quantità di calorico svolte da esse in un filo vien data dalla legge di Joule la x quale è espressa dalla formola ZII TOMO 1Y. 21 162 EMILIO VILLARI chiamando g la quantità di calorico svolto in una parte del circuito, r la sua resistenza è l’ intensità della corrente, # il tempo e % una co- stante. Quindi chiamando g e g'' le quantità di calorico svolte nel tempo # nei due fili derivati di resistenze r' ed +'' avremo r n . gl (eee lee e sostituendo per é' ed 2 i due valori dati dalle formole precedenti avremo E? 112 q =ita Tr 7 n rr 39 [e(e+r)+ rr" ] ) E? r'? q' — kir' e finalmente dividendo l’ una per l’ altra si ha cioè a dire si ricava: che le quantità di calorico q' e q'' svolte nello stesso tempo in due circuiti derivati stanno fra loro in ragione @n- versa della resistenza dei circuiti medesimi (1). (1) Queste leggi di Joule ed Ohm io credo che si possono applicare al caso delle mie esperienze con le correnti interrotte ed invertite, e tanto più in quanto che i risultati con esse ottenuti saranno più appresso confermate da altre mi- sure fatte con metodo totalmente diverso. La legge di Joule poi è stata veri- ficata dal Ries per le scariche interrotte ed invertite delle bottiglie; e quella di Ohm si applica alle correnti indotte, che sono di brevissima durata; per cui esse sono con molta probabilità applicabili al caso mio. Ed aggiungerò inoltre che le correnti interrotte con le quali io ho esperimentato duravano in ciascun, i i AITIOO | LATO À passaggio mai meno di 600? e tale tempuscolo è quasi infinito rispetto a quel- lo necessario alla corrente per istabilirsi in un filo di ferro di 2 a 4 metri di lunghezza e di circa 4 mill. di diametro. Le esperienze mostrano infatti che in un filo di ferro di circa 4 mill. di diametro e di 500 chil. di lunghezza la durata dello stato variabile è al massimo di 0", 038 ("); e la teoria dice che detta durata è proporzionale al quadrato delle lunghezze. La corrente totale adunque nelle mie esperienze può considerarsi come composta di una serie di tronchi di correnti, tutti pervenuti da molto tempo al loro stato permanente; e perciò devono ad essa corrente totale potersi applicare le leggi precedenti. (*) Vedi nota 1 a pag. 159. SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 163 Noi adunque potremo determinare il rapporto delle resistenze misurando quello delle quantità di calorico svolto nei fili; ed a ciò si perviene senza esser costretti a misurare tutto il calorico che si svol- ge nell’ intiero filo di derivazione; essendo invece sufficiente di mi- surar solo quello che si svolge in una determinata lunghezza di cia- scun filo derivato, purchè dette lunghezze rimangono sempre le stesse in tutte le esperienze di confronto. Ed invero a noi basta solo cono- scere il rapporto fra le diverse quantità di calorico svolto nei due fili nelle diverse circostanze, per risalire al rapporto fra le resistenze loro. Così chiamando g, g;; il calorico svolto nel filo derivato di rame e di ferro a corrente continua, g, quello svolto nel filo di ferro a cor- rente interrotta, ed x, r,, 7» le rispettive resistenze, avremo per le for- mole precedenti n) r Iter pel caso delle correnti continue AA, r Neri bg per le correnti discontinue, VII dic Tail percui — = £; che fa conoscere il rapporto fra la resistenza del ferro r f a corrente discontinua e quella a corrente continua, che è ciò che si vuol determinare. $ 4. Esperienze. Ciò premesso veniamo a dire dell’ ap- parato adoperato per la misura del calorico svolto nei fili. Esso consta come già si disse di due calorimetri ab a'd', (fig. 2. Tav. I.); l’ uno dei quali contiene un filo di rame e l’ altro uno di ferro. I calorimetri sono formati ciascuno da una canna di vetro di circa 1 metro di lunghezza, nell interno delle quali si trova il filo di rame o di ferro ripiegato 2 o 4 volte sopra sè stesso, così da avere i due capi in basso della canna, ove passano attraverso un tappo di sughero, che chiude ermeticamente l’ estremità inferiore di ciascun tubo. I fili poi vanno a fissarsi nelle quattro viti a pressione n. L° estremità superiore di ciascun tubo è chiusa parimenti da un sughero, che porta un sottile tubo da termometro m ed m', al quale è adattata una scala di ottone divisa in millimetri, che può muoversi lungo il tubo. Le dette scale servono a misurare in millimetri e frazioni di millimetri l’ altezza del liquido, che riempie i 164 EMILIO VILLARI calorimetri. Ciascuno dei tappi poi che porta il tubo è mobile così da potere pel suo spostamento nella canna corrispondente far variare il livello del liquido e metterlo sempre alla medesima altezza nel tubo; e ciò a fine di evitare gli errori che potrebbero provenire dal non esser calibrati i tubi termometrici adoperati. Riguardo al modo di chiudere i calorimetri dirò, che quello di adoperare i tappi di sughero mi è parso il modo più semplice, più comodo e nello stesso tempo più perfetto possibile. Infatti i calorimetri tappati coi sugheri chiudevano così perfettamente, che potevano adope- rarsi per più mesi senza bisogno d’aggiungervi nuovo liquido nell’ in- terno. Ad ottenere però delle chiusure ermetiche io prendevo dei tappi di buonissima qualità e li rendevo elastici con reiterate pressioni; poscia vi praticavo con la lima due piccolissimi fori attraverso i quali spingevo a viva forza i capi del filo, che doveva esser contenuto nel calorimetro. I tappi poi erano limati in forma cilindrica e fatti del- l’ opportuno diametro e quindi, spalmati con sego, a forza erano cacciati per 4 o 5 centimetri nelle canne di vetro ; le quali a bella posta erano preventivamente state slargate ad imbuto alle loro estremità. In tal maniera i tappi erano strettamente incastrati nelle canne che venivano a chiudere ermeticamente. Fra i vari liquidi calorimetrici ho sperimentato 1’ etere, il solfuro di carbonio e l'alcool. I due primi per una stessa quantità di calorico si dilatano più dell’ alcool e perciò sarebbero da preferirsi: tuttavia essi sono troppo evaporabili e riempiono perciò 1’ apparato di bolle di vapore, che riescono nocive all’ esattezza delle esperienze; il solfuro di carbonio poi attacca facilmente i fili posti nei calorimetri, e perciò detti liquidi non si possono adoperare che in casi speciali e con spe- ciali cure. L’ alcool per lo contrario non presenta alcuno degli incon- venienti citati e la sensibilità del calorimetro ad alcool, già per sè molto grande, può accrescersi a piacimento adoperando sia dei tubi più sottili, sia sperimentando su fili più lunghi. Ecco ora come si procedeva nelle misure. Si costruiva prima il calorimetro col filo di ferro ben ricotto e si riempiva d’ alcool, quindi col ponte galvanico se ne misurava la resistenza; si prendeva poscia un filo di rame di egual resistenza e di due metri circa di lunghezza e si costruiva con esso un secondo calorimetro, adoperando una canna di vetro della stessa capacità circa dell’ altro calorimetro. Ciò fatto si fissavano entrambi i calorimetri sopra un sostegno appropriato Fig. 2; SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 165 x si mettevano in derivazione nel circuito della pila, come è rappresentato nella figura, e si modificano in o ed in p le lunghezze dei fili con- giuntivi fino ad ottenere che col passaggio della corrente continua per alcuni minuti, entrambe le colonne calorimetriche montavano nei tubi di un numero eguale o quasi eguale di millimetri. Queste misure erano ripetute più volte e servivano a calcolare il rapporto fra il riscal- damento del rame e del ferro a corrente continua ossia 7 (1). Poscia sì sperimentava a corrente interrotta od invertita, interrompendo od invertendo la corrente per mezzo di un inversore di Poggendorff I G fig. 4, il quale era girato rapidamente per mezzo di un roteggio mosso a mano: e così si determinava il rapporto dei due riscaldamenti del rame e del ferro a corrente discontinua, cioè il valore 7', il quale insieme al precedente dava il rapporto cercato, cioè Mi I n ossia il rapporto fra la resistenza del ferro determinata a corrente discontinua e quella determinata a corrente continua. Gli accorgimenti necessari in queste misure sono, come di leggieri st comprende molti ed indispensabili. Egli è necessario di aspettar sempre fra un’ esperienza e l’ altra che i calorimetri sien quasi asso- lutamente fermi: ed io ho sperimentato solo quando in 5 o 6 minuti primi le colonne calorimetriche si spostavano di 3 a 4 decimi di mil- limetro od anche meno. Ciascuna osservazione si faceva avendo cura di riportare sempre la colonna liquida al medesimo punto nel tubo; il che facilmente si otteneva muovendo i sugheri che portavano i tubi, essendo i detti sugheri, come si disse, molto lunghi e perciò chiu- devano sempre ermeticamente anche dopo averli molte volte spostati. Aggiungerò inoltre che nelle mie esperienze avendo adoperato un filo di ferro grosso oltre 4 millimetri, mi è occorso di osservare che il calorimetro corrispondente seguitava a riscaldarsi per circa 60' dopo interrotta la corrente della pila. Le misure adunque col calorimetro a ferro furono fatte sempre 60'' dopo l’ interruzione della corrente. Tale (1) Qui si possono prendere gli spostamenti delle colonne calorimetriche per le quantità di calorico, giacchè le misure son solamente relative e fatte sempre coi medesimi calorimetri. 166 EMILIO VILLARI ritardo nella misura abbisognava di una nuova correzione, dovuta alla variazione di temperatura che il calorimetro poteva subire per 1’ am- biente esterno. La quale correzione si praticava anche sul calorimetro a rame e si calcolava osservando per 5 minuti avanti e 5 dopo l’ e- sperienza, la variazione d’ altezza nella colonna calorimetrica, dovuta all’ influenza della temperatura ambiente; quindi sì calcolava la varia- zione subita durante il tempo della esperienza e si praticava la neces- saria correzione. Esse pel rame specialmente erano piccolissime (di qualche decimo di millimetro) giacchè la corrente si faceva agire per solo 15 o 30'' e poscia si facevano le osservazioni immediatamente. $ 5 Raisultati ottenuti a correnti deri- vate. — Così furono eseguite moltissime misure, ed i dati di alcune di esse sono registrati nelle tabelle seguenti : TAVOLA I. CORRENTE BIFORCATA E DIRETTA (8 el. B.) Ferro grosso mill. 2 confrontato al piombo (1) | | Riscaldamento del calorimetro Resistenza S | Rapporto Interruzioni SI a piombo a ferro qr i punenglo per ° —_, — RES d È qr ar! gr i A SONLO Mae SR5) (011) 1 6,3 5, 9 1,07 Tor 64 2 TA 5, 4 1, 33 1,33 346 3 10,7 9,0 1, 20 1, 20 428 A 7,5 6, d 1, 40 1, 40 083 Ò 5, 7 3, 4 1, 70 1, 70 799 6 8,9 5,7 1, 60 1, 60 1102 7 6,9 4,4 1, 60 1,60 1314 Ferro grosso mill. 4,2, lungo m. 4, confrontato al rame (45 B in 8 serie) (10767) 1 5, 0 6, 4 0, 78 1, 16 160 2 ò, 5 6, 6 0, 83 1, 20 192 3 5, 6 6, 8 0, 82 1,20 448 A 2, 8 2,8 1,00 1, 50 1280 5 2,2 2,4 0, 92 1, 40 1376 (1) Queste esperienze nelle quali confrontavo il ferro al piombo furono tra le primissime che feci; in seguito ho sempre preso il rame per termine di con- fronto. SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 167 TAVOLA II. CORRENTE BIFORCATA ED INVERTITA (8 Bunsen ) Ferro grosso mill. 2, lungo m. 2 paragonato al piombo Riscaldamento del calorimetro Resistenza S Rapporto Inversioni E a piombo a ferro Hi Aci per = , ra AES secondo _ qr af dd i “e (0°=1) | 1 9 5,9 { (0%, 34 1,34 74 2 8,2 5,4 1,50 1,50 108 3 ai 5,7 | 170 170 194 4 18,5 | 9,3 2,00 2, 00 376 5 103 4,2 EZZzo, 2,70 788 6 22,5 | 10, 2 (2:20 2,20 561 7 ZIO 9,2 MMPAGA 2, 20 583 8 4320) \| 56 | 2,60 2, 60 1285 Ferro grosso mill. 4,2, lungo m. 4, paragonato al rame (45 B. in 8 serie) | | (@—=0,55) 1 6,0 4,4 1, 36 2,5 296 2 8,1 6, 6 1, 23 07 456 3 5,6 | 3,6 1, 05 Zak 624 È 7,8 | 5,9 1, 03 2,4 656 5; 7,2 ! 4,5 | 1,06 2,9 1232 6} 2,0 | 1,4 | 1,44 2,6 1617 ZA 3, 5 | 2,0 | LuUS ea 1312 Nelle due precedenti tabelle sono registrate nella prima colonna i numeri d’ ordine delle esperienze; nella seconda e terza, g, ed gq, sono trascritti in millimetri gli innalzamenti delle colonne dei calori- metri prodotti dalle correnti discontinue nel piombo e nel ferro: nella I —7' fra i suddetti riscaldamenti: q f quarta sono registrati i rapporti J nella quinta sono trascritti i rapporti —= £ ossia le resistenze del ferro IT a corrente discontinua (che chiamerò resistenza aumentata) prendendo per unità quella a corrente continua; e sono scritti nelle tavole stesse ed in parentesi i valori di 7. Da ultimo nella colonna sesta sono indicate il numero delle interruzioni od inversioni a secondo con le quali si è sperimentato. Tale ordine di colonne fu anche tenuto presso a poco in tutte le tabelle seguenti, e le diversità saranno a luogo opportnno indicate. 168 EMILIO VILLARI Ora i valori precedentemente trascritti mettono avanti tutto in rilievo due cose: cioè a dire che in primo luogo la resistenza del ferro è maggiore a corrente interrotta, e più ancora a corrente invertita che a corrente continua; ed in secondo luogo che codeste differenze sono più spiccate quando si sperimenta col ferro grosso che col sottile, e che crescono mano mano col crescere della rapidità delle interruzioni od inversioni a secondo. E ciò già risultava dalle esperienze discusse nella mia precedente Memoria. Quello però che qui riesce nuovo e che forse non sarebbesi potuto prevedere si è, che le resistenze a corrente diretta od invertite misurate con questo metodo delle derivazioni, re- sultano assai minori e circa la metà di quelle ottenute con 1’ altro metodo, cioè a correnti non derivate (1). $ 6. Esperienze a correnti non deriva te e derivate. — A viemeglio mettere in rilievo la differenza dei risultati ottenuti coi due metodi trascrivo quì appresso i valori ottenuti da due serie di esperienze eseguite con la medesima pila e con la medesima rapidità d’ interruzioni od inversioni a secondo; nell’ una però sperimentavo col primo metodo, cioè a correnti non derivate, e nell’ altra col secondo cioè a correnti derivate. Ecco questi valori trascritti nei seguenti specchietti. TAVOLA III. CORRENTE INTERROTTA, DIRETTA E NON BIFORCATA Ferro grosso mill. 4, 2 Riscaldamento del calorimetro (= =0,83) IMioiZiIoNI a rame | a ferro qr Si a È OY = n! ll a d qr I af af o I ZO Lisi 622 22,4 | 40, 1 1,8 | ;j 20, 0 37,5 1,9 DI ff 19,1 95,2 1,8 ” Sn _38,6 BRE Da) (1) Il metodo che quì richiamo consiste nel far passare la corrente della pila pel calorimetro a rame e per quello a ferro, messi in un solo circuito e senza derivazione; e così dal riscaldamento prodottosi nel rame e nel ferro, una volta con la corrente continua ed un’ altra con quella interrotta od in- vertita, si ricava nel modo consueto il rapporto per le due resistenze del ferro. Vedi Memoria citata. SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 169 TAVOLA IV. CORRENTE INVERTITA E NON BIFORCATA Ferro grosso mili. 4, 2 ; 5 Rapporti Riscaldamento del calorimetro Genio) lavorsiohi con rame con ferro gr i Dl È a 9 ar! gf = Era secondo 35, 8 190, 8 Ema 622 18,9 88, 7 4,5 5; Tegl 81,1 DIO. 5,5 % RON uo 4,8 i: 16, 4 78,3 | 4,8 da TAVOLA V. CORRENTE INTERROTTA DIRETTA E BIFORCATA Ferro grosso mill. 4, 2 Riscaldamento del calorimetro | ela: Interruzioni con rame con ferro | qr Si a i 2 —. 7! 29 d gr gf | = secondo 15,2 8,0 ILS O) ll 613 13,5 7,0 | 1,9 Î Ù) 124S) 6,3 JESS 2,0 DI 14,5 7,0 2,1 Li 14, 2 6, 6 2,1 , TAVOLA VI. CORRENTE INVERTITA E BIFORCATA Ferro grosso mill. 4, 2 Riscaldamento del calorimetro Sono MIL (=) Inversioni con rame con ferro | da cl R a È —n=% = Gr of dà ui secondo las 5, 2 909) \ 627 23, 4 Ts 390) i to 20, 6 iz 2,9 ONESTO) 5 20,3 6,7 300000 n 19, 4 5,2 DU J S (-——c@@———r@——_—__—_É@&__@t@t@@re@1t@è crescente siae e me] 2390 ene ren nto eee oe TOMO IV. 22 170 EMILIO VILLARI I risultati qui sopra riferiti, ottenuti da esperienze eseguite, come si disse, in circostanze perfettamente analoghe confermano le deduzioni accennate più sopra; cioè che la resistenza aumentata (1) del ferro misurata a corrente non derivata risulta assai maggiore (circa il doppio) di quella misurata col metodo delle derivazioni. Queste differenze mi parvero in principio tanto singolari ed ine- splicabili, che io credei necessario di confermarle con nuove prove. E siccome tutte le misure eseguite col primo metodo, in parte trascritte nella presente Memoria ed in parte in quella sopra riferita, non che le varie altre non pubblicate sono molte e concordi, così io reputai utile ripetere solo quelle eseguite a correnti derivate; e ciò feci adoperando due modi di esperimentare alquanto diversi fra loro ed eziandio da quello già praticato e descritto. $ 7. Nuove misure a correnti deriva» te. — La fig. 3 tav. 1 mostra la disposizione dei circuiti in queste esperienze. I due calorimetri F ed R (di cui nella figura sono rappresen- tati solamente i fili interni) erano riuniti alla pila Pin derivazione, in modo che la corrente si biforcava in n ed o. Nel circuito del calorimetro a rame È vi era introdotto il filo ad di platino di un ponte galvanico, e disposto così che per mezzo del corsoio d si poteva facilmente au- mentare o scemare la lunghezza del filo ad, e quindi la resistenza del circuito derivato contenente il calorimetro a filo di rame £. Ecco ora come sperimentavo. In una prima misura e dopo molti tentativi ho così situato il cor- soio d, (a mill. 5,5) che i due calorimetri R ed Y' si riscaldavano egual- mente a corrente continua; percui il rapporto I — 1 era in questo f caso eguale all’ unità. Poscia ho fatto passare per essi la corrente in- vertita, ed allora il rame si riscaldava più del ferro per la resistenza aumentata di questo, ed il rapporto fra il riscaldamento del rame e quello del ferro misurava la resistenza aumentata di questo posta, al solito, quella normale del ferro eguale all’ unità. Nella seconda maniera di sperimentare ho dopo moltissimi tenta- tivi situato il corsoio d del ponte a 198 mill. della sua scala: posi- (1) Chiamerò da qui avanti, come si disse, resistenza aumentata del ferro quella che questo oppone alle correnti dirette od invertite. SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 171 zione nella quale i due calorimetri si riscaldavano quasi egualmente ( ossia le colonne liquide montavano di egual quantità ) pel PEER della corrente invertita, ed ottenevo così il solito valore di 77'. Quindi senza muovere il corsoio ho sperimentato con la corrente continua, la quale incontrando nel ferro minor resistenza che la corrente invertita sì derivava maggiormente in esso e lo riscaldava più del calorimetro a rame; ed il rapporto fra il riscaldamento del calorimetro a rame e quello a ferro, ottenuto in quest’ultima condizione con la corrente continua ci darà il solito valore 7; il pati insieme al precedente ci farà conoscere la resistenza aumentata cioè —. Questo doppio modo T di' misura ha il vantaggio di compensare gli errori dovuti alle irradia- zioni esterne perturbatrici, giacchè in un caso si riscalda di più il rame ed in un altro si riscalda più il ferro, e perciò prendendo la media delle due misure deve ottenersi il valore esatto della resistenza aumen- tata del ferro. Questi valori sono consegnati nelle tavole seguenti. TAVOLA VII. CORRENTE CONTINUA REOSTATO A MILL. 5,5 È | Riscaldamento del calorimetro Rapporto a Rame a Ferro Sg OE IRA af ar I Serie 4,20 4,20 SO) 7,90 7,90 1,0 II Serie 12; 65 12, 65 1,0 11, 80 11, 80 ls) 11, 60 11, 60 | 1,0 Media 1,0 Corrente invertita q ar È = iI Serie 10, 9 4,95 RNZ o 10, 1 4, 80 Zia: ED) 4, 50 202, Î 9,3 4,10 DÒ II Serie 5, 6 2,70 ZI 6,8 3, 30 24 CT 8, 40 ZAO | 6,7 3,00 2,2 6,3 3, 00 201! 6.4 3, 00 ZI Media, 2, 14 T=-R=2,14 N let2 EMILIO VILLARI TAVOLA VIII. CORRENTE INVERTITA REOSTATO A 198 MILL. Riscaldamento del calorimetro Rapporto a Rame | a Ferro _a qr on n RO 59,9 0, 85 9,5 10,2 0, 93 8,9 9, 6 0, 93 8,5 9,0 0, 94 9 8,2 0, 96 9,5 10, 2 0, 94 Media 0,93 — Corrente continua t or Lx I Serie 4, 55 | 12, 45 0, 37 4, 80 13, 20 0, 36 4, 20 12, 10 0, 35 II Serie 2, 50 6, 50 0, 39 4, 20 13, 00 0, 32 4,50 13, 30 0, 34 4,10 12, 40 0, 33 4,10 12, 40 0, 33 3, 00 10}150 0, 26 3, 50 11, 00 0, 32 3, 50 11,10 0, 32 Media 0, 84 T —R=9,7 TT Dall’ esame delle tavole precedenti si rileva, che la resistenza au- mentata per la corrente invertita è in media di 2,1 col primo dei modi (Ta. VII) e di 2,7 col secondo ( Tav. VIII); laonde prendendo la media di questi valori otteniamo per resistenza aumentata il valore 2, 4 che è perfettamente d’accordo con gli altri precedentemente riferiti. Qui intanto prima di procedere oltre ci piace di ricapitolare i vari dati relativi alla resistenza aumentata del ferro ottenuti coi di- versi metodi, tanto con la corrente interrotta e diretta, quanto con la invertita, prendendo come unità quella del ferro a corrente continua ed avremo così: LN 1.° Col metodo delle correnti non derivate si è ottenuto: a) Resistenza aumentata del ferro a corrente diretta = 2,2 db) ” ” ” 5 invertita = 5,5 SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 173 2.° Col metodo delle correnti derivate si è ottenuto: a) Resistenza aumentata del ferro a corrente diretta = 1,8 db) n A A 5 invertita =2,7 $ 8. Influenza dell’ intensità della core rente. — Per darmi ragione di queste differenze io feci delle nuove esperienze con un dinamometro elettro-dinamico di mia costruzione che descriverò più appresso. Qui però per semplificare il discorso dirò sola- mente come da quelle misure dovetti concludere che la differenza notata di sopra, riguardo alla resistenza aumentata del ferro, tiene esclusivamente alla diversa intensità della corrente adoperata. Ed invero siccome io ado- peravo correnti generalmente della stessa intensità, ne seguiva che a circuiti non derivati tutta la corrente passava pel ferro e pel rame, ed a circuiti derivati invece metà circa della corrente passava pel rame e metà pel ferro in derivazione. E per dimostrare che realmente l’ ori- gine delle differenze sopra accennate era dovuta alla diversa intensità della corrente, io feci una doppia serie di misure con una corrente invertita un egual numero di volte per minuto, Nella prima sperimentai a correnti non derivate e nella seconda a correnti derivate; ed ebbi cura in questo caso di sperimentare con una corrente di intensità doppia di prima, affinchè la corrente biforcandosi nei fili di derivazione ser- basse in ciascuno di essi, e quindi nel ferro, una intensità eguale a quella che lo percorreva a corrente non derivata. I risultati che ottenni da queste misure sono riassunti qui appresso : MEDIE 1.° Resistenza aumentata del , non derivata 3,9; 3,8; 4,0 3,90 ferro misurata a corren- te (1) derivata 3,4;3, 45 3, 42 Da qui si scorge, che le resistenze aumentate misurate coi due metodi sono quasi eguali fra loro e che tutta o quasi tutta la diffe- (1) Queste esperienze furono fatte con 246 inversioni a secondo; la inten- sita della corrente nelle prime misure era espressa da 0,643 e nelle seconde da 2 (0,743); le misure a correnti derivate furono fatte coi circuiti disposti come nella figura 3 Tav. 1 e col metodo descritto al paragrafo 7 con l’epiteto di seconda maniera. 174 EMILIO VILLARI renza notata precedentemente, era dovuta alla diversa intensità della corrente che attraversava il ferro nelle due circostanze (1). Questa grande influenza dell’intensità della corrente nei fenomeni che studiamo mi fecero praticare delle nuove misure onde metterla meglio in rilievo; e queste eseguii coi soliti calorimetri a rame ed a ferro ed a correnti non derivate. Le esperienze furono fatte con un filo di ferro di mill. 4,2 di diametro e di m. 4 di lunghezza, le inversioni fu- rono 298 a secondo ed i risultati ottenuti sono qui sotto riassunti. ESPERIENZE A CORRENTE INVERTITA Intensità della corrente Resistenza aumentata del ferro 0, 231 d09 0, 369 36 0, 383 do Ode SO 0, 783 39 Questi dati fanno forse scorgere che la resistenza aumentata del ferro cresce con l’ intensità della corrente fino ad un certo limite, oltre il quale la resistenza aumentata rimane costante, anche crescendo l’inten- sità della corrente. Il limite massimo a cui perviene la detta resistenza aumentata ha intime relazioni col massimo di magnetismo delle cala- mite, giacchè come vedremo in appresso, la resistenza aumentata del ferro è dovuta al magnetismo trasversale o circolare del medesimo e questo, come il magnetismo ordinario, deve presentare un massimo nel suo valore. Sull’ effetto dell’ intensità della corrente in questi fenomeni e so- pra altri particolari noi più estesamente ritorneremo nella seconda parte del presente lavoro, giacchè in essa sono discusse le esperienze eseguite con un metodo assai più pronto e comodo che non è stato quello dei calorimetri fino ad ora adoperati. (1) Questa lunga discussione la quale ci conduce alla dimostrazione del fatto: che i risultati diversi, ottenuti col metodo delle correnti derivate e non derivate, sono dovuti alla diversa intensità della corrente, che nei due casi per- corre il ferro, è stata qui necessaria avendo io già altravolta notato nel Nuovo Cimento (v. Villari l. c.) la differenza ottenuta coi due metodi, ed avendo io allora promesso di studiare e ricercarne la cagione, che in quell'epoca non seppi indicare. SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 175) PARTE SECONDA ESPERIENZE DINAMOMETRICHE $9. Apparati. — I risultati delle ricerche riferite pre- cedentemente mi parvero per sè stessi abbastanza importanti per proseguirle; non solo per meglio studiare i nuovi fenomeni osservati, ma ancora per trovare ad essi una adeguata interpretazione. Io mi proposi di ristudiar quei fenomeni con un processo affatto diverso da quello dei calorimetri, ma però con un’apparato tale che fosse go- vernato dalle medesime leggi di quelli, onde poter confrontare gli an- tichi coi nuovi risultati. Noi sappiamo che la quantità di calorico svolto in un filo da una corrente elettrica che lo percorre è proporzionale al quadrato dell’ intensità della stessa corrente; e sappiamo ancora che da legge analoga son governate le azioni elettrodinamiche fra i due rocchetti di un’ elettrodinamometro quando l’ istessa corrente li percorre entrambi. Per tale analogia io in queste nuove esperienze mi sono ser- vito d’ un’ elettro-dinamometro il quale presenta 1’ altro gran van- taggio, di poter cioè con esso sperimentare sia a correnti dirette che alterne; e ciò perchè le deviazioni od indicazioni di codesti appa- rati sono indipendenti dalla direzione delle correnti che li attraver- sano. Ho inoltre adoperato in queste misure un reostato, un’ inversore ed una bussola dei seni; dei quali istrumenti è necessario discorrere prima di dire del modo di sperimentare. Elettro-dinamometro differenziale. Il dinamometro da me adope- rato è di una costruzione speciale ed io lo dirò elettro-dinamometro dif- ferenziale, perchè attraverso di esso, e per due circuiti differenti, si pos- sono far contemporaneamente circolare due correnti separate ed opposte, le quali producono una deviazione nell’ apparato corrispondente alla differenza delle loro azioni elettrodinamiche. Esso è rappresentato della fig. 4, Tav. II ed è formato essenzial- mente da due rocchetti di filo di rame; uno esterno a a' mobile ed a sospensione bifilare, e l’ altro interno 6 d' fisso, come scorgesi dalla figura. Il primo porta superiormente una specie di morsetto a vite c, il quale stringe più o meno in c un’asticella di ottone cd, grossa 5 mill., lunga 10 cent. ed articolata in c per mezzo di una pallina, che permette 176 EMILIO VILLARI di spostare comunque il rocchetto sull’ asticella, onde centrarlo ed orien- tarlo come torna più comodo. Essa superiormente porta una picco- la carrucola d nella cui scanalatura passa il filo di sospensione, che è fissato coi due suoi capi in un appropriato morsetto e. Questo morsetto consta di due lastre di ottone, una delle quali è mobile, e con due viti si preme contro l’ altra, che è fissa e serve per stringere i capi del filo di sospensione. La lastra fissa è raccomandata ad una asticella orizzontale ef, la quale è unita ad un corsoio a vite f, che scorre lungo la colonna di ottone J/N e può così esser fissata a varie al- tezze. Con questo modo facile di sospensione è agevol cosa modificare la mobilità del rocchetto bifilare e quindi la sensibilità dello apparato; giacchè si possono adoperare fili di sospensione di diversa lunghezza e coi capi stretti nel morsetto e, a maggiore o minor distanza fra loro. La colonna MN è fissata sulla tavoletta A A', che forma la base dell’ apparecchio ed è munita di tre viti di livello. Finalmente il roc- chetto d d' è fissato per mezzo di una forchetta di legno ad un’ asta di ottone P, la quale per mezzo di un morsetto doppio m può fissare il rocchetto sulla colonna MN, dove e come meglio conviene. Il rocchetto bifilare @ @' è formato da un cilindro di ottone sot- tilissimo alto 18 mill. di 100 mill. diametro e con due bordi alti 10 mill. in modo da lasciare una vera scanalatura fra essi ed il cilindro. Esso poi è tagliato secondo la linea a' in tutta la sua grossezza e quindi è riunito con un pezzo di avorio perchè non formi un circuito elet- trico. Nella scanalatura detta di sopra sono avvolti insieme in 7 strati, due fili di rame di 1 mill. di diametro e ricoperti di seta: i capi dei fili vanno a terminare nelle quattro vaschette di ottone n, n', x", n''', ripiene di mercurio e tre di esse sostenute da colonnette di otto- ne lungo le quali possano muoversi. Il rocchetto fisso è di legno ed è simile al precedente, alto 30 mill., di 90 mill. diametro esterno ed offre una scanalatura profonda, nella qual e vi sono avvolti insieme in 9 strati due fili di rame di mill. 1,3 di diametro e ricoperti di seta: ed i suoi capi vanno a terminare a quattro viti a pressione, delle quali solo due, d e d' sono visibili nella figura. Dai suddetti morsetti partono quattro fili indicati nella figura che vanno a terminare a quattro altri morsetti corrispondenti fissati sulla base dell’ apparecchio, e dei quali solo tre sono visibili in 0, 0', o". Finalmente sulla me- desima base ed ai suoi angoli sonovi altre quattro viti a pressione, A, B, A', B' le quali servano a mettere in comunicazione l’ apparato SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 177 con la pila. L' apparato resta rinchiuso in una cassa di vetro, non di- segnata nella figura per semplicità; da essa rimane fuori la colonna MN, e per mezzo di appositi fori praticati nel vetro vengono fuori l’asticella P e quella ed. Le deviazioni al passaggio della cor- rente si manifestano nel rocchetto bifilare e sono osservate col solito metodo di Gaus, per mezzo dello specchietto s; il quale è fissato in una cornice d’ottone che è mantenuto a strofinio sulla asticella ed per mezzo di una molla. Questo apparecchio può adoperarsi sia come differenziale, sia al- trimenti: nelle mie esperienze fu adoperato sempre come differenziale. La corrente della pila arrivata ad un determinato punto @ si biforca- va, come è rappresentato schematicamente nella fig. 6 Tav. I; quindi dopo esser passato pei due circuiti del dinamometro si riuniva e ri- tornava alla pila; ed ecco come. Un capo dei due fili di derivazione, p. e. il rame, perveniva in A fig. 4 Tav. II, e per un filo di comunica- zione arrivava alla vaschetta n''', dalla quale montava pel filo in essa immerso, attraversava uno dei circuiti del bafilare ed arrivava per l’altro suo capo alla vaschetta n' nella quale era immerso: da detta vaschetta veniva alla colonnetta corrispondente e per un filo di comunicazione arrivava al morsetto 0, dal quale passava al filo corrispondente e se- guendo la direzione della freccia a coda passava per uno dei fili del rocchetto interno, quindi per l’altro capo, seguendo l'’ altra freccia a coda, arrivava al morsetto 0'' e da questo finalmente si portava in A' ed all’ altro polo della pila. Così che la corrente seguendo la direzione delle frecce a coda teneva la via indicata dalle seguenti lettere, A n'' aa'n'obb'o''A'. L'altra corrente derivata analogamente, e seguendo la direzione delle frecce senza coda, percorreva l’altro circuito nell’ ordine seguente Bn''a a'no'bb'o'"' B' (1). Le direzioni delle correnti nei due cir- cuiti erano, come già si disse, fra loro opposte, per cui il rocchetto bifilare deviava per la differenza della azione loro. Reostato. Questo istrumento consisteva in un ponte galvanico con due fili di platino grossi 0,95 mill. e lunghi 1 m. ciascuno. Essi erano tesi egualmente sopra una tavola di legno ed i loro capi erano (1) La lettera 0'" corrisponde ad un serrafilo simile ad 0" e non rappre- sentaio nella figura. TOMO IV. 23 178 EMILIO VILLARI fissati a due viti a pressione. Un corsoio mobile a contatto di platino scorreva lungo i fili, ed una scala ne determinava la posizione. Il con- tatto doveva essere sempre perfettissimo e perciò i fili ed il platino del corsoio erano sempre puliti con carta smerigliata finissima, ed il corsoio era premuto contro i fili con dei pesi di piombo. Questo reostato messo in uno dei circuiti di derivazione serviva a modificarne la re- sistenza. i Inversore. Questo apparecchio rappresentato in Z/ fig. 5 Tav. I, era un’ inversore di Poggendorff, formato da un cilindro d’ avorio lungo 50 mill. e di 30 mill. circa di diametro, sul quale vi appog- giavano quattro molle di ottone m. Esso era fissato sopra un apparec- chio di rotazione mosso a mano, per mezzo del quale poteva facil- mente ricevere varie velocità, sia perchè detto inversore si poteva fis- sare a vari alberi del rotismo, sia perchè si poteva girare la manovella con diversa rapidità, regolandone il movimento con un metronomo. Bussola. Per misurare le intensità relative delle varie correnti adoperate facevo uso di una piccola bussola dei seni B, che a cagione delle correnti troppo energiche era messa in @d in derivazione nel circuito della pila fig. 5; e siccome alcune volte mi bisognava ancora diminuire la intensità della corrente che l’ attraversava, così solevo introdurre fra a e d un secondo filo di egual resistenza di @d, e rie ducevo quindi esattamente alla metà la corrente che percorreva il filo della bussola. Disposizione degli apparecchi. Questi istraumenti, che provai essere tutti assai adatti per l’ esperienze alle quali li destinavo, erano messi nel circuito di una pila, come è rappresentato dalla fig. 5. La corrente arriva dalla pila alla molla w/'' dell’ inversore; quindi per m'' va in c, ove si biforca e dall’ una parte percorre il ferro 7, l’ uno dei cir- cuiti df' del dinamometro, e quindi pel filo fm' va all’ inversore ed alla pila; l’ altra corrente derivata, da c percorre il rame £, il filo no del reostato, il filo 0d', 1’ altro circutio d'f del dinamometro ed arriva quindi per m' all’ inversore ed alla pila. Ora dalla disposizione indicata si scorge di leggieri, che modificando la posizione del corsoio o del reostato si può modificare la resistenza del circuito derivato che lo contiene, e così rendere eguali le due correnti derivate in /' ed È e portare a 0° il dinamometro che ne è attraversato; il che si può solo quando le resistenze originarie dei due fili derivati non sieno molto diverse. In tutte le mie misure io ho sempre riportato a 0° il SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 179 dinamometro, perchè allora l'apparato è più sensibile, ed inoltre l’azio- ni perturbatrici del magnetismo terrestre sono evitate, giacchè nella posizione dello O° del bifilare il suo asse era parallelo al meridiano magnetico del luogo d’osservazione. Con tale disposizione ecco come si eseguivano le misure delle varie resistenze del ferro. $10. Esperienze. — Si cominciava dal determinare la resistenza dei fili di rame & e di ferro Y (fig. 5 tav. I). Per lo che si metteva avanti tutto il dinamometro a 0° della scala, e così che l’ asse del rocchetto mobile fosse nel meridiamo magnetico e quello del fisso perpendicolarmente ad esso. Dopo si eliminavano È ed Y dal circuito, immergendo il capo 2 del filo da nel bicchierino con mercu- rio s, ed il capo 2' di ce' in s'; e poscia si faceva passare la corrente per m''esd f'm', ed m'es'od'fm'. Il dinamometro generalmemte de- viava dalla sua posizione, alla quale però tosto si riportava spo- stando opportunamente il corsoio o del reostato. Ciò fatto si introdu- ceva nel circuito il filo F} riportando il capo 2 del filo da da s in e: quindi si faceva di nuovo passare la corrente e si riportava il dinamome- tro a O° spostando il corsorio 0, del reostato: è chiaro che detto spo- stamento misura, in lunghezza del filo reostatico la resistenza del filo F. Lo stesso si ripete dopo avere introdotto nel circuito il filo A, e si determina parimenti la resistenza di questo. Misurate così le resistenze di questi fili a corrente continua si passa a misurare quella del ferro a corrente discontinua. Per ciò si toglievano nuovamente come sopra i fili #' ed KR dal circuito, e per mezzo dell’ interruttore // si mandava la corrente discontinua attra- verso il circuito. Allora il dinamometro deviava un poco, e smuo- vendo il corsorio o del reostato lo si riportava a 0°. Dopo di che si introducevano nuovamente i fili # ed È nel circuito e fattolo attra- versare dalla corrente discontinua si riportava di nuovo a 0° il dina- mometro per mezzo del reostato. Prese così le varie posizioni del cor- soio 0 sì comprende facilmente, che la resistenza del ferro Fa cor- rente discontinua è misurata da quella del filo di rame È già nota, più dalla lunghezza reostatica ultimamente introdotta per riportare a O° il dinamometro. Dividendo poi detta resistenza del ferro a corrente discontinua per quella già determinata del ferro a corrente continua si ha il rapporto cercato fra le due resistenze. Farò quì intanto avvertire che ho trovato necessario aggiungere nel circuito il filo di rame È di lunghezza eguale al ferro Fe pie 180 EMILIO VILLARI gato nella medesima guisa di questo, onde compensare le induzioni che si producono nei fili ripiegati. Tutti gli altri errori, che potevano nascere da altre induzioni generate nel resto del circuito e da man- canza di simmetria dei fili del dinamometro, erano completamente eli- minati, sperimentando io sempre a corrente discontinua; e riportando a O° il dinamometro, sia quando nel circuito vi erano i due fili Ped A, sia quando ne erano stati esclusi. In queste esperienze io non ho cercato i valori assoluti delle resi- stenze, giacchè mi basta di conoscere solo i rapporti fra le resistenze del ferro a corrente discontinua ed a corrente continua, misurandoli in lunghezze del filo reostatico; e perciò i dati che seguono si riferiscono solo a codesti valori relativi. $ 11. Riesistenza aumentata. — Ciascuna mi- sura era eseguita varie volte ed essa si riteneva esatta quando i vari risultati erano concordi fra loro; nel ricercare i quali bisogna sempre curare che il platino del reostato fosse nettissimo e che il corsoio fosse sempre fortemente compresso contro il filo. Con queste ed altre piccole pratiche, che un corso di simili esperienze consiglia, ho eseguito mol- tissime misure sul ferro, a corrente interrotta e diretta, ed a correntj invertite, e qui appresso trascrivo alcuni dei numeri ottenuti. TAVOLA IX. CORRENTE INTERROTTA E DIRETTA Ferro grosso mill. 4, lungo m. 4, piegato in 4 Interruzione Resistenze Resistenza reostatiche Intensità a secondo aggiunte aumentata 246 Ta 1, 44 0, 577 129 Do 129 I ” | 129 | di Ti csioni Stesse misure eseguite a corrente invertita 246 | 511 3, 0, 577 515 NA Î 508 si 516 % Sez chi 510 he Stesse esperienze ripetute 246 513 SAT 0, 619 | 511 DB O 515 5 SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 181 I valori delle resistenze aumentate sonosi ottenuti come si è detto ponendo la resistenza del ferro a corrente discontinua eguale a quella del filo di rame compensatore (= 117 mill. del filo reostatico) più al 511 mill. del filo reostatico aggiunto per riportare il dinamometro a 0°; e quindi dividendo codesta somma per la resistenza del ferro a corrente continua, la quale era di 172 mill. del solito filo reostatico. $ 12. Confronto fra i risultati calorime»= trici e dinamometrici. — I risultati precedenti perfet- tamente concordanti mostrano chiaro, che la resistenza del ferro per la corrente interrotta e diretta è di poco superiore alla normale, mentre che quella per la corrente invertita è molto maggiore. Per potere però confrontare questi valori ottenuti col dinamometro con quelli già stu- diati coi calorimetri, io ripetei con questi le misure tanto a corrente derivata quanto a corrente non derivata; ed ebbi cura in queste mi- sure di adoperare sempre tale una corrente che il ferro ne fosse percorso nei due casi con una intensità sempre costante; ed inoltre sperimentai col medesimo numero d’inversione a secondo che aveva adoperato nelle esperienze dinamometriche precedenti. Queste misure furono fatte con la massima esattezza, ed esperimentando con le correnti non derivate d’ intensità eguale a 0,629 e con 246 inversioni a secondo ottenni per valore della resistenza aumentata i tre numeri seguenti 3, 92 3, 84 4,04 media = 3,9 I medesimi valori ottenuti con le correnti derivate furono 3, 4 3, 45 media 3,4 (1) Cosichè si ha per media di questi due valori il numero 3,66 che rappresenta la resistenza aumentata del ferro determinata coi calori- metri; il quale valore è eguale a quello trovato col dinamometro, che è 3,7 della Tav. IX. Tale concordanza di risultati, singolare ve- ramente quando si pensa alla diversità dei metodi adoperati per otte- nerli, mostra in un modo evidente l’ esattezza delle misure eseguite. (1) Queste misure furono fatte col metodo indicato nella nota l del $ 8, e l’ intensità della corrente come in quelle citate in detta nota era eguale a 2 X 0, 682. 182 EMILIO VILLARI $ 13. Intensità della corrente. Col dinamome- tro io ripetei poscia le esperienze fatte coi calorimetri relative alle influenza dell’ intensità della corrente sulla resistenza aumentata del ferro, ed ottenni i seguenti valori che riguardano solo la corrente invertita. TAVOLA X. CORRENTE INVERTITA Resistenza aumentata del ferro di mill. 4 di diametro e m. 4 di lunghezza Da questo specchietto si scorge con tutta evidenza che la resi- stenza aumentata del ferro va continuamente crescendo con l’ intensità della corrente, fin però ad un certo limite, oltre il quale una corrente di maggiore intensità non è accompagnata da un corrispondente ac- crescimento della resistenza aumentata. Sicchè può dirsi che coeteris paribus vi è un massimo di resistenza aumentata il quale corrisponde probabilmente al noto massimo di magnetismo del ferro; perchè, come già si notò, in appresso vedremo che questi fenomeni del ferro sono dovuti alle sue proprietà magnetiche. $ 14. Erapidità delle interruzioni. — Ho inoltre fatto delle misure per studiare l'influenza che aveva la rapi- dità delle interruzioni od inversioni sul valore della resistenza aumen- tata. Le esperienze vennero tutte praticate nello stesso modo e con la medesima intensità di corrente ed i risultati ottenuti furono i seguenti Resistenza aumentata Inversioni 1 ità a secondo Intensità 246 0, 131 0, 174 0, 284 0, 350 0, 454 0,519 0, 523 0, 595 0, 646 0, 695 vw vw » v DD) D Td UT A O Ot 00 0 lo HB 09 09 DI DI iS) SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 183 TAVOLA XI. CORRENTE INTERROTTA DIRETTA I=0, 777 Ferro grosso mill. 5 lungo m. 4 piegato in 2 Interruzioni Resistenza a secondo aumentata DI 1, 24 69 JerS2 92 1, 42 124 1, 49 168 1, 58 Ji 1, 56 262 IN58 (I Da questo specchietto si rileva che nel caso della corrente inter- rotta e diretta la resistenza aumentata cresce un po con la rapidità delle interruzioni; ma si vede però che presto rimane costante ed al- lora più non hanno influenza il numero delle interruzioni a secondo. $ 15. ERrapidità delle inversioni. — Più dis- tinti ed importanti sono gli effetti della rapidità delle inversioni sulla resistenza aumentata del ferro, e ciò rilevasi dai numeri seguenti: TAVOLA XII. CORRENTE INVERTITA Filo di ferro grosso mill. 4,2 lungo m. 4 e piegato in 4. 18 Bunsen I=0, 545 . ; Inversioni Inversione | Resistenza È RA, pala aumentate a secondo Hib ba aumentata di più per secondo Ti 69 232 92 ZI 120 Si 89, DO 168 4, 00 ZA 4, 26 246 4, 59 262 5, 02 | 0, 010 320 5, 63 } 365 5, 93 435 6, 61 512 6, 82 0, 0076 563 6,90 582 7, 59 184 EMILIO VILLARI Da questi numeri rileviamo chiaramente che la resistenza aumen- tata del ferro a corrente invertita va continuamente crescendo col nu- mero delle inversioni a secondo; però l’effetto dell’ accresciuta rapidità d’ inversioni, pare che vada decrescendo lentamente con 1’ aumentarsi della rapidità stessa. Così nella terza colonna sono calcolate per 4 o 5 esperienze l’ aumento di resistenza, che si verifica nel ferro per una inversione di più a secondo; cioè prendendo p. e. le prime quattro osservazioni, si vede che da 69 a 168 si sono aumentate 99 inversioni a secondo, come indica la colonna quarta, e l'aumento di resistenza del ferro è stato di 4,00 — 2,32 = 1,68: ora dividendo 1,68 per 99 si ottiene 0, 017, che corrisponde all'aumento di resistenza prodotto per una inversione di più per secondo. E calcolando analogamente gli altri numeri della stessa colonna terza si osserva da essi, che l’ effetto dell’accresciuta velocità va continuamente scemando ; laonde non è dif- ficile che anche nel caso delle correnti invertite si possa col crescere molto la rapidità delle inversioni pervenir forse ad un limite di resi- stenza aumentata del ferro, come si è riscontrato per la corrente in- terrotta e diretta. La quale cosa porterebbe ad amettere che oltre una data rapidità di inversione i moti molecolari magnetici non pos- sono più aumentare; forse perchè allora la breve durata della corrente è insufficiente a sviluppare nel ferro tutto quel magnetismo che per la sua intensità e per una più lunga azione vi svilupperebbe. Studiato così minutamente questi fenomeni cerchiamo ora d’ in- terpretarli. PARTE TERZA $ 16. Spiegazione dei fenomeni prece» denti. — Tutti i fenomeni sino ad ora studiati si possono ridurre a due principalissimi e cioè: 1.° Una corrente elettrica diretta od in- vertita svolge in un filo di ferro maggior quantità di calorico, che una corrente continua di eguale intensità e durata. 2.° Un filo di ferro oppone alla corrente diretta od invertita maggior resistenza, che ad una corrente continua di eguale intensità. Questi due fenomeni sono quasi una conseguenza l’uno dell'altro e si spiegano insieme col ma- gnetismo del ferro, come qui appresso verrò esponendo. Una corrente elettrica nel percorrere un filo o cilindro di ferro SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 185 lo magnetizza circolarmente (1): cioè può supporsi che in tal caso tutti gli elementi magnetici, o se si vuole solenoidi elementari, si di- spongono in giro così da formare un vero anello magnetico per cia- scuna sezione del filo. Un’ idea di ciò che probabilmente deve accadere nel ferro al passaggio della corrente per esso, il lettore potrà farsela facilmente col supporre, che ogni sezione di un tubo di ferro magne- tizzato circolarmente sia rappresentato presso a poco da un solenoide piegato ad anello in modo da formare un circuito chiuso. Un tubo di ferro risulterebbe da una serie di questi solenoidi eguali fra loro e soprammessi gli uni agli altri, così da avere i loro centri tutti sulla medesima linea, che sarebbe 1’ asse del tubo. Evidentemente tale dispo- sizione magneto-molecolare sarebbe alquanto diversa nel caso di aste di ferro non cilindriche. Ora se soprapponiamo concentricamente l’ uno all’altro una serie di codesti tubi magnetici elementari avremo un’ idea di ciò che deve esser un tubo od un cilindro di ferro reale (2). Se ciò avviene durante il passaggio della corrente, è chiaro che alla sua interruzione gran parte del magnetismo circolare sparisce; e si inverte la polarità magnetica al passaggio di una corrente diretta in senso con- trario alla prima. Questi movimenti molecolari non possono accadere senza una cagione od una forza, che nel nostro caso è l’ elettricità; ed essa eseguirà un lavoro proporzionato, che consiste nel vincere le forze molecolari del ferro e nello smuoverne le particelle magnetiche ; il che, quasi accadesse con forte attrito, non può prodursi senza svolgimento di calore e corrispondente perdita di forza viva: e questo calore naturalmente tanto più sarà grande quanto più estese sono (1) D'ora in avanti adopererò l’ espressione di magnetismo circolare in- vece di trasversale adoperata per lo passato, perchè mi pare che quella espres- sione meglio che questa corrisponde alla maniera di magnetizzarsi di un cilin- dro o di un tubo di ferro percorsi per lo lungo da una corrente elettrica. Evi- dentemente però la disposizione circolare degli elementi non è indispensabile alla spiegazione dei fenomeni, ed invece per essa è sufficiente supporre una disposizione trasversale qualsiasi degli elementi magnetici. (2) L’ illustre Prof. Cantoni sostiene in vari suoi lavori l'ipotesi di un magnetismo circolare non solo nel ferro ma ancora in tutti i conduttori per- corsì dalla corrente elettrica; ed egli mette questa sua ipotesi, invece di quella di Ampère, per base nella interpretazione di tutti i fenomeni magneto-elettrici noti. TOMO 1V. 24 186 EMILIO VILLARI state le oscillazioni o moti delle particelle del ferro (1). Il calorico quindi svolto dalla corrente interrotta e diretta deve essere ed è in- fatti assai minore di quello svolto dalla corrente invertita: ed in tutte le circostanze esso deve essere, per la quantità, dipendente da tutte le condizioni dalle quali dipende il momento magnetico del filo, come in realtà risulta delle esperienze precedenti (2). $ I7. Aumento di resistenza. — Veniamo ora a dire come può spiegarsi 1 aumento di resistenza nel ferro al pas- saggio della corrente diretta od invertita. Nel ferro al momento che vi si orientano le molecole magnetiche deve prodursi un’ estra-corrente inversa; e nel momento dell’interruzione della corrente primaria deve produrvisi un’ estra-corrente diretta; la prima deve di necessità opporsi al passaggio della corrente pel ferro, e prolungarne lo stato variabile. Se adunque insieme al ferro vi è un filo di derivazione, come era appunto il caso delle mie esperienze, allora la corrente si deriverà ab- bondantemente per esso ; e noi osserviamo un fenomeno simile a quello prodotto da una accresciuta resistenza del ferro. L° estra-corrente diretta o di interruzione, opposta per direzione all’ altra tenderebbe forse a diminuire od anche distruggere l’ effetto prodotto dalla prima; se non che per una felice disposizione dei circuiti del dinamometro detta estra- corrente diretta non può entrare in azione e perciò è nulla la sua efficacia: il che si comprenderà di leggieri guardando il dinamometro rappresentato schematicamente nella figura 6 Tav. I. Ed infatti esso può mantenersi a 0° per una corrente proveniente da P solo perchè le azioni del circuito 0n sono opposte a quelle del circuito 7 n, come viene indicato dalle frecce (3); e tale contrasto di azione si verificherà (1) Dell’ attrito molecolare magnetico già ne parla il Wiedmann nel suo libro sul Galvanismo Bd. II $ 393. Braunschweig 1863. (2) Il Jamin in una sua Memoria sulle correnti interrotte nelle spirali a nucleo di ferro fa la supposizione che in ciascuna calamitazione del ferro una parte di elettricità passa nel ferro dolce per magnetizzarlo e che al mo- mento della smagnetizzazione si trasforma in calore (V. Compt. R. v. 68 p. 1017). Il Moutier su questo soggetto si esprime dicendo che l’ effetto della calami- tazione corrisponde ad una perdita dì forza viva che è la misura dell’ effetto termico prodotto, se questo effetto è il solo che accompagna la magnetizzazione ( V. Compt. R. v. 75, p. 1621). Questi modi di interpretare lo sviluppo di calore nei fenomeni magnetici hanno molta analogia coi fenomeni d’ attrito supposti più sopra i quali accompagnano i moti molecolari magnetici. (3) Nella figura i due fili centrali rappresentano ì due circuiti del rocchetto mobile, ad i due laterati quelli del rocchetto fisso. SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 187 ancora per l’ estra-corrente diretta che nasca in /, giacchè essa per- correndo il circuito Fyn secondo le frecce, si invertirà in nof; e quindi il dinamometro anche in questa circostanza rimarrà a 0°; come appunto mi sono assicurato avendo aggiunto una pila fra a ed F. La cagione adunque dell’ aumentata resistenza del ferro tiene ad un’estra- corrente inversa che si manifesta allo stabilirsi della corrente della pila. Nel caso dei calorimetri in derivazione l’ estra-corrente inversa agisce come nel dinamometro e si manifesta per essa la resistenza aumentata del ferro. I° estra-corrente diretta invece, che diminuisce l’ effetto dell’inversa, non può avere che una azione assai seconda- ria. Essa infatti nascendo in Y' fig. 3 deve percorrere il ferro F ed il rame /, che riscalderà insieme, e quindi poco potrà far variare il rapporto dei loro riscaldamenti, già per la corrente della pila sof- ferti; ed inoltre questa estra-corrente nel percorrere il ferro dovrà es- ser rallentata e quindi dovrà perdere in tensione ed efficacia termica. Questa interpretazione farebbe supporre che col metodo dei calorimetri e delle correnti derivate la resistenza aumentata del ferro deve tro- varsi un po’ inferiore a quella trovata con le correnti non derivate perchè l’estra-corrente diretta nata in F tende ad eguagliare il riscal- damento dei due calorimetri a rame ed a ferro: ed invero la resistenza aumentata fu trovata nel primo caso eguale a 3,90 con una corrente di intensità 0,643, e nel secondo eguale a 3,42 con una corrente d’ intensità anche maggiore cioè 0, 743. $ 18. Elstra-correnti del ferro. — Che che ne sia di quest’ ultima interpretazione relativa ai calorimetri, la esistenza delle estra-correnti nel ferro non avvolto a spira è un fatto reale, e l’ esperienza dimostra che esse sono d’una intensità straordinaria, in confronto di quelle che nascono in condizioni analoghe nei metalli non magnetici, giacchè con questi sono trascurabili. Le esperienze per di- mostrare l’esistenza di tali estra-correnti sono molte e semplicissime, ed a me qui basta di citarne solamente alcune. Pel caso dell’ estra-corrente diretta si prende un’asta di ferro di qualche metro di lunghezza e di 2 a 3 centimetri di diametro, e per mezzo di un interruttore a ruote si mette alternamente in comunica- zione con una pila e con un galvanometro. Così operando è facile far deviare fin oltre a 90° un galvanometro a filo corto. La corrente inversa, che è quella che più ci interessa di studiare non può osservarsi direttamente, giacchè per ottenerla bisognerebbe riu- 188 EMILIO VILLARI nire il galvanometro all’ asta di ferro avanti non solo, ma ancora durante il passaggio della corrente primaria per essa, ciò che non può farsi senza produrre delle forti correnti derivate nel filo del galvanometro per evi- tare le quali bisogna sperimentare nel modo seguente. Si introduce un filo di rame isolato nell’ interno di un tubo di ferro di qualche metro di lunghezza e 3 a 5 centimetri di diametro, e si scorgerà riunendo il filo con un galvanometro, una forte induzione nel filo interno quan- do si chiude od interrompe la corrente di una pila, che si fa passare pel tubo. E viceversa si osserva una corrente indotta nel tubo quando questo comunica col galvanometro e si chiude od interrompe la cor- rente nel filo interno. Queste correnti indotte corrispondono esatta- mente alle correnti inverse e dirette ordinarie, sono analoghe alle estra- correnti ed hanno una grande energia: adoperando invece un tubo di metallo non magnetico le induzioni sono affatto inapprezzabili. Per dare un'idea di questi fenomeni riporto qui un solo esempio. La corrente della pila passa pel filo interno isolato ed il tubo comunica con un galvanometro di Weber a specchio: La corrente si Deviazioni del galvanometro chiude — 190 interrompe + 190 Invertita la corrente nel filo Chiude oltre + 501 fuori la scala interrompe — 213 chiude + 310 invertita la corrente nel filo Chiude — 412 interrompe + 214 Risultati perfettamente analoghi, abbenchè un po’ meno cospicui si ottengono quando la corrente passa pel tubo e l’ induzione si spe- rimenta nel filo. Dai dati qui sopra riferiti si scorge con evidenza, che fenomeni energici di induzione elettromagnetica si svolgono fra il tubo di ferro ed il filo interno ad esso; e si osserva altresì che dette induzioni sono assai più energiche alla prima chiusura della corrente invertita, SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 189 sicuramente perchè alla chiusura della corrente inversa il magnetismo residuo del ferro si disfà per ristabilirsi in senso opposto, e perciò ne risulta un esteso movimento magnetico che deve essere accompagnato da una più forte corrente indotta. Fenomeni analoghi debbonsi verificare per l’ induzione del ferro su sè stesso quando è percorso dalla elettricità e però come si era supposto, in esso debbono manifestarsi delle vere e proprie estra-correnti le quali debbono agire nel modo che già si disse; e siccome l’estra- corrente di chiusura è assai più energica quando si sperimenta a cor- rente invertita che a corrente diretta, così il ferro deve mostrarsi più resistente alle correnti alterne che alle interrotte e dirette, come ap- punto si è osservato più sopra. $ 19. Rtkesistenza aumentata del ferro misurata con la induzione. — Questi esperimenti mi fecero pensare di poter ripetere le misure della resistenza aumen- tata del ferro per mezzo dell’ induzione. Presi perciò due tubi di ferro lunghi circa 1, 5 m. ciascuno, li disposi vicini e paralleli fra loro (fig. 7, Tav. I), e feci passare nel loro interno un filo di rame ade coperto di guttaperca. Quindi misi detto filo nel circuito del dinamometro, nel posto del filo Y fig. 4, ed alla solita maniera misurai la resistenza del filo abc interno ai tubi, che trovai, per la corrente invertita, eguale a 617 mill. del filo di platino del mio reostato. Poscia estrassi il filo dai tubi, lo ripiegai come quando era in essi e ne misurai nuovamente la resistenza a corrente invertita e la trovai eguale a 379 mill. del solito filo reostatico (1). Laonde 1’ eccesso di resistenza di 238 mill. della prima misura sulla seconda era dovuta alla induzione e contro corrente prodotta dal tubo di ferro nel filo di rame interno (2). Quest’ azione diviene assai più energica se si sperimenta con un filo ripiegato più volte nei tubi come indica la fig. 8: ed infatti io trovai allora che la resistenza del filo nei tubi (che erano quelli stessi precedentemente adoperati) era di 1993 mill. del filo reostatico; e (1) La resistenza del filo fuori del tubo a corrente continua era di 345, ed a corrente invertita era di 379; la differenza di 34 mill. era quindi dovuta ad induzioni perturbatrici. (2) Qui ci piace di ricordare che il fenomeno della resistenza aumentata non è che un’ effetto secondario prodotto da fenomeni d’ induzione, non mu- tando perciò la conducibilità propria del filo. 190 EMILIO VILLARI fuori dei tubi era di soli 804 mill.; e perciò l’ effetto del ferro sul rame equivaleva ad accrescerne la resistenza per 1189 mill.; cioè l’ effetto in questo caso era quasi 5 volte maggiore che nel caso prece- dente. Il che tiene evidentemente a due cagioni, la prima si è che l’ induzione avviene sopra un filo più lungo: e la seconda si è quella che un filo disposto come nella fig. 8 magnetizzando il ferro assai più fortemente di quando il filo passa una sola volta nel tubo l’ estra-cor- rente inversa deve essere in corrispondenza più energica. $ 19. Henomeni che si manifestano con le spirali. — Tutti i fatti precedentemente studiati ed in ispecial modo l’ultimo dei tubi, presentano una grandissima analogia con un’altra serie di fenomeni, che manifestano le spirali quando sono percorse da una corrente discontinua; che anzi il fenomeno dei tubi forma quasi l’ anello di unione fra i fenomeni della resistenza aumen- tata del ferro e quelli delle spirali. Io qui dirò brevemente di questi fenomeni solo per collegarli tutti coi noti fatti del magnetismo ordi- nario, e presenterò più tardi all’ Accademia ed in una nota separata le ricerche eseguite su questo soggetto. Le prime esperienze intorno all’ azione delle spirali sulle correnti elettriche furono eseguite dal Matteucci (1); quindi furono riprese dal Cazin (2) e Bertin (3); e le indagini loro si limitarono a studiare l’ influenza che aveva una spirale sull’intensità d’una corrente, che interrotta poche volte a secondo l’attraversava. Il Jamin et Roger (4) hanno studiato i fenomeni termici che produce una corrente elettrica interrotta e diretta, quando passa in una spirale, tanto col nucleo di ferro quanto senza. Le mie ricerche su questo soggetto sono diverse da tutte quelle dei fisici citati. Io ho studiato i fenomeni delle spirali per mezzo del dinamometro mettendole in circuito con un filo di derivazione. Ho poi sperimentato ora con la corrente interrotta e diretta ed ora con la corrente invertita; ed ho avuto cura di operare sempre con un gran numero di interruzioni od inversioni a secondo, così che i risultati delle mie esperienze sono diversi da quelli degli altri sperimentatori. (1) Matteucci, Ann. de chim. et de phys. V. 54, p. 297, 1858. (2) Cazin, Ann. de chim. el de phys. V. 17, p. 385, 1869. (3) Bertin, Ann. de chim. et de phys. V. 16, p. 25, 1869. (4) Jamin et Roger, Comp. Rend. V. 68, p. 682, 1869. SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 191 Ho preso adunque una spirale di filo di rame grosso mill. 1, rive- stito di guttaperca ed avvolto in 100 giri sopra un rocchetto di legno, di 10 cent. di diametro interno. Quindi ho situato questa spirale invece di F nel solito circuito derivato, fig. 4 Tav. I, dal quale era stato tolto il rame È come inutile per queste misure e l’ estremità del filo 2 era stato unita direttamente ad s. Dopo di che ho misurato la resistenza della spirale a corrente continua e l’ ho trovata eguale a 276 mill. del mio filo reostatico; quindi ho rimisurata (con le stesse cure che adoperai nelle altre misure delle resistenze del ferro) la resistenza della stessa spirale a corrente interrotta e diretta, ora col nucleo di ferro ed ora senza, ed ho ottenuto i risultati che seguono : Corrente interrotta 246 volte a secondo Resistenza della spirale senza ferro col ferro 585 1489 Dai quali numeri risulta, che la resistenza della sola spirale misurata a corrente interrotta è poco superiore al doppio della stessa resistenza misurata a corrente continua; ed invece la resistenza diventa 4 o 5 volte maggiore quando nella spirale vi è un’ ancora di ferro dolce. Dei fenomeni analoghi abbenchè più vistosi si manifestano con le correnti invertite come si vede qui appresso: Corrente invertita 246 volte a secondo Resistenza della spirale senza ferro col ferro 705 1785 Confrontando questi coi precedenti risultati si vede, che l’ effetto del- l’ inversione è maggiore di quello delle interruzioni semplici della corrente; ed il più singolare si è, che detto predominio per la cor- rente invertita si trova anche quando nella spirale non vi è il nucleo di ferro. Circa poi al significato da me attribuito all’ espressione di resi 192 EMILIO VILLARI stenza aumentata della spirale non bisognava farsi delle illusioni. In queste esperienze la spirale essendo in un circuito derivato apparisce più resistente per le correnti discontinue, in quanto che queste si derivano nel filo di derivazione assai più che la resistenza propria della spirale non indicherebbe ; ma questa maggior derivazione avviene non già perchè la resistenza della spirale è realmente aumentata, ma perchè in essa si produce come nel ferro l’ estra-corrente inversa, la quale impedisce il pronto passaggio dell'elettricità per la spirale, e quindi la derivazione maggiore nell’intervallo di derivazione. Ed inve- ro le esperienze di Jamin e Roger (1) mostrano che nella spirale, per la corrente interrotta e diretta si svolge precisamente quella quantità di calorico che si deve all'intensità totale della corrente ed alla resistenza propria della spirale; ed invece è il nucleo di ferro quello che si ri- scalda eccessivamente; così che fra la spirale ed il nucleo si produce tale una quantità di calorico, per una data corrente, quale realmente corrisponderebbe ad una resistenza aumentata nella spirale. Questi fenomeni come ognun vede sono analoghi a quelli che sì manifestano nel filo di rame messo internamente al tubo di ferro ed a quelli che presenta un filo di ferro percorso per lo lungo da una corrente elettrica. Essa adunque agisce sempre in un medesimo modo, sia che faccia da nucleo in una spirale, sia che faccia da tubo che involge un filo, sia che venga direttamente percorso da una corrente : ed in tutti questi casi la corrente trasforma il ferro in una solenoide o spirale elettro-magnetica; ora nella maniera ideata da Ampère (ma- gnetismo ordinario ) ed ora nel modo indicato più sopra da me (ma- gnetismo trasversale o circolare). Nel formarsi o sformarsi intanto di codeste calamite prendono origine, come si è detto, le estra-correnti e tutti i fenomeni più sopra studiati; e dall’ ampiezza dei moti moleco- lari magnetici dipende la intensità dei fenomeni medesimi. E qui è opportuno di riferire un’ esperienza fatta da me, la quale dall’ una parte mette in maggiore evidenza la intimità dei fenomeni dovuti al magnetismo trasversale con quelli dovuti al ma- gnetismo ordinario, e dall’ altra mostra in un modo diretto l’ influen- za che ha l’ampiezza dei moti magnetici sui fenomeni che studiamo. (1) Vertice: SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 193 Ho preso il solito filo di ferro di 4 m. di lunghezza chiuso nel calorimetro ripieno di liquido, e 1’ ho introdotto nell’ interno di una grossa spirale di filo di rame, lungo m. 1, così da potere con una energica corrente elettrica magnetizzare fortemente il suddetto filo. Dopo di che ho determinata la resistenza del ferro a corrente continua e l’ ho trovata eguale a 174 mill. del mio filo reostatico: poscia ho determinata, con le solite cure, la stessa resistenza a corrente invertita 246 volte a secondo, e 1’ ho trovata eguale a 788 mill. (media di 3 misure): così che la differenza fra la resistenza a corrente invertita ed a corrente continua era data da 788 — 172 = 616. Fatte queste prime misure ho per mezzo della spirale, e con 10 grossi elementi Bunsen, magnetizzato il filo di ferro sperimentato, e poscia ne ho de- terminato la resistenza a corrente invertita 246 volte a secondo e 1° ho trovata eguale a soli 564 mill. (media di 3 osservazioni) del solito filo reostatico; così che la resistenza aumentata del filo magnetizzato è espressa da 564 — 172 = 392. Dal che si rileva nettamente, che per la corrente invertita l’ aumento di resistenza del ferro magnetizzato è molto minore di quella del ferro allo stato naturale. E se si prende, come si è fatto precedentemente, per unità la resistenza del ferro a corrente continua si avrà, che la resistenza aumentata del ferro ma- gnetizzato sarà eguale a 3,3 e quella del ferro non magnetizzato sarà, 4, 6. Questa differenza tra il ferro magnetico e quello allo stato natura- le, che anche con altre misure ho messo in evidenza, non può dipen- dere da altro se non da ciò: che il ferro quando è magnetizzato nel modo ordinario da una spirale non può magnetizzarsi che debolmente nel senso circolare o trasversale: perchè la disposizione polare degli ele- menti magnetici non può essere che una. Quindi segue, che i moti magnetici risvegliati dalia corrente che percorre il ferro magnetizzato sono più difficili e ristretti, quasi come se il ferro avesse acquistato una speciale forza coercitiva. E perciò si può facilmente ammettere che qualora si fosse sperimentato coi calorimetri si sarebbe trovato che per la corrente alterna il ferro magnetizzato avrebbe svolto meno ca- lore che il ferro allo stato naturale. Tutti questi fenomeni adunque si vede, che sono intimamente connessi fra loro. Essi stabiliscono degli intimi rapporti fra i fenomeni che si manifestano nelle spirali con e senza il nucleo di ferro, e quelli che si manifestano nei fili di ferro percorsi dalla corrente: non che TOMO IV. 25 194 EMILIO VILLARI l’ ultimo fatto citato nel precedente paragrafo stabilisce più intimi le- gami fra il magnetismo ordinario ed il trasversale e quindi mette sotto nuova luce tutti quei fenomeni già da Matteucci, Wiedmann e da me studiati che manifestano la calamite quando sono percorse dalla cor- rente elettrica; ed intorno ai quali mi propongo di ritornare non es- sendo per anco il soggetto del tutto esaurito. Prima però di chiudere la presente Memoria mi piace quì ap- presso di ricapitolarla in breve: 1.° Una corrente elettrica interrotta, e meglio ancora una cor- rente invertita, riscalda un filo di ferro assai più che una corrente continua, poste le altre cose eguali. | 2.° Questo maggiore riscaldamento prodotto dalle correnti discon- tinue può riguardarsi pei suoi effetti come dovuto ad un aumento di resistenza del filo di ferro. 3.° Per questa resistenza aumentata del ferro segue, che in un filo di rame posto in derivazione con uno di ferro, sì deriva una cor- rente elettrica assai più energica, quando si sperimenta a corrente in- terrotta diretta od invertita, che a corrente continua. 4.° La resistenza aumentata può determinarsi coi calorimetri, misurando il calore svolto nel rame e nel ferro messi o no in deri- vazioni; ed essa può essere per le correnti invertite fino a 7 od 8 volte maggiore di quella misurata a corrente continua: però i valori ottenuti con la corrente diretta sono di gran lunga inferiori a quelli ottenuti con la invertita. 5.° La resistenza aumentata può misurarsi col mio elettro-dina- mometro differenziale, ed i risultati concordano con quelli ottenuti coi calorimetri. 6.° La resistenza aumentata cresce con la grossezza del filo e cresce con la intensità della corrente, ma fino ad un certo limite: cresce inoltre, e fino ad un limite assai prossimo, con la rapidità delle in- terruzioni; e finalmente cresce assai rapidamente col numero delle in- versioni a secondo, e poco meno che in proporzione del numero stesso. 7.° L'aumento di calore prodotto nel ferro dalla corrente diretta od invertita può riguardarsi con molta probabilità come l’ effetto di un’ estesissimo movimento magneto-molecolare e d’ una proporzionata trasformazione di elettricità in calore. 8.° L’ aumento di resistenza poi che si manifesta nel ferro per questo più esteso moto magneto-molocolare, è dovuto semplicemente alle SULLE CORRENTI INTERROTTE ED INVERTITE 195 estra-correnti magneto-elettriche inverse, le quali si oppongono al pronto stabilirsi della corrente della pila nel ferro; e perciò in esso la dura- ta dello stato variabile deve essere ed è infatti maggiore che in un flo non magnetico e diritto. 9.° Lo stesso accade nelle spirali e specialmente in quelle conte- nenti un nucleo di ferro; non che in un filo di rame teso interna- mente ad un tubo di ferro. 10.° L’ esistenza di dette estra-correnti magneto-elettriche, oltre che nelle spirali è stata dimostrata da me nei fili di ferro diritti, ed in quelli di rame tesi nei tubi di ferro: e dette estra-correnti sono assai più energiche con le correnti inverse che con quelle dirette. 11.° Finalmente l’ intensità di tutti codesti fenomeni dipende dal- l’ ampiezza delle oscillazioni magneto-molecolari che li produce, percui sono assai deboli con l’acciaio. E da ciò trova spiegazione il fenomeno singolare che l’ aumento di resistenza che può opporre il ferro alla x corrente alterna è assai minore se questa è fortemente magnetizzato con una spirale, che se il ferro non è magnetizzato: nel primo caso il magnetismo ordinario del ferro rende più difficile e minore il ma- gnetismo trasversale e però le oscillazioni da esso ingenerate, e l’ estra- corrente inversa risultante. u > E ESE (e / \ pei Ser.5° lm IV. E Villari Sulle correnti discontime Tav |. \ WOTTI NITÀ LI "Moti d -Elettrodinamometro differenziale. TavIl RT FAO I DESCRIZIONE DI ALCUNI NUOVI EOLIDIDET SALVATORE TRINCHESE ( Letta nella Sessione 3 Aprile 1873 ) Maiani il mio soggiorno a Genova, mi occupai esclusivamente degli animali che vivono nelle acque del porto di quella città. Rivolsi in modo speciale la mia attenzione agli Eolididei, famiglia dei mollu- schi gasteropodi nudibranchi non ancora bene studiata. Vari lavori sono stati fatti intorno a questi graziosi animali. Milne Edwards, De Quatrefages e Blanchard hanno pubblicato in Fran- cia alcune interessanti ricerche anatomo-fisiologiche sopra alcuni Eoli- didei del Mediterraneo. Alder e Kancock hanno dato alla luce una serie di stupende monografie sulle specie che vivono nelle acque in- glesi, e recentemente Bergh pubblicava in Germania un commendevole lavoro intorno ad alcune specie trovate nel mare delle Filippine. In Italia è stato pure pubblicato qualche lavoro su questo argo- mento. Abbiamo un catalogo degli Eolididei del porto di Genova com- pilato dal Verani. Questo lavoro però non ha la menoma importanza, poichè le brevi descrizioni che lo accompagnano sono così abborrac- ciate e confuse che non è possibile riconoscere alcuna specie colla loro guida. Il Prof. Achille Costa ha pubblicato, nel suo Annuario, la descri- zione di non poche specie del Golfo di Napoli e ne ha dato figure discrete. Io mi sono adoperato, per quanto ho potuto, a fare un disegno esatto di ciascuna specie, ed ho in particolar modo rivolto la mia at- tenzione ai colori e agli altri caratteri ornamentali che in questo 198 SALVATORE TRINCHESE gruppo di animali sono di un grande aiuto per la determinazione delle specie. Per fare il disegno generale di ciascuna specie, mi sono costan- temente servito del microscopio binoculare, il quale permette di vedere in un colpo d'occhio gli organi situati nei diversi piani dell’ animale. Senza questo prezioso istrumento, non è possibile acquistare un’ idea chiara della forma generale degli animali, nè eseguire dei disegni che li rappresentino fedelmente. Genere LAURA (rrNcEEsE) Corpo allungato, cilindrico, assottigliato posteriormente. Testa piccola, distinta. Rinoforî foliacei, longitudinalmente accartocciati. Branchie cilindriche, allungate, disposte in serie longitudinali ai due lati del dorso, sparse di macchie violette, munite nel loro interno di un cieco epatico semplice, non ramificato, e circondato da una glandula a tubo ramificato (glandula dell’ albume). Capsule auditive con un solo otalite. Anello esofageo formato di sei gangli. Nervi ottici lunghi. Idrocardio breve, limitato alla ragione cardiaca, visibile ad occhio nu- do sotto forma di una macchia bianca ovoide. Orifizio idroforo sulla linea mediana longitudinale del dorso, spostato qualche volta un poco a destra, qualche volta a sinistra. Ano situato sulla linea mediana del dorso innanzi all’ idrocardio. Verga conica munita di un tubo chitinico tagliato in isbieco alla sua estremità libera. Orifizio maschile presso la base del rinoforio destro. Orifizio femminile alquanto più in basso e dietro al maschile. Piede di una discreta larghezza, cogli angoli anteriori arrotondati e due strisce violette nella sua faccia inferiore. Le mascelle mancano. La radula è formata di denti robusti, semplici, non dentellati, col- l’ apice molto acuto. Si trova al molo nuovo, nei mesi di maggio, giugno e luglio, sui rami della Bryopsis plumosa, pianta di cui sembra nutrirsi esclusiva- mente. DESCRIZIONE DI ALCUNI NUOVI EOLIDIDEI 199 SPECIE I. LAURA TARDY Il colore generale del corpo è violetto, sul dorso trovasi una striscia di un colore più scuro di quello del resto del corpo. I rinoforî sono lunghi, sottili e accartocciati soltanto alla loro parte inferiore. L’ idrocardio è bianchissimo, senza macchie violette. Le branchie sono lunghissime, sparse di macchie violette molto piccole, munite di un cieco epatico di color giallo. L’ apice di questi organi offre un bel color rosso con splendore metallico. Lo stesso colore ve- desi nella vescica copulatrice. Lunghezza dell’ animale dal margine an- teriore della testa all’ apice della coda, 10 millimetri. SPECIE II.* LAURA BREVIRHINA Corpo di un colore violetto scuro. Einoforî molto larghi e brevi. Branchie di mezzana lunghezza, munite di un cieco epatico di color verde cupo. Lunghezza dell’ animale dal margine anteriore della testa all’ apice della coda, 16 millimetri. SPECIESIII.® LAURA VIRIDIS Corpo e branchie sparsi di grosse macchie violette di forma irre- golare, le quali si accumulano sull’idrocardio. I rami del sistema epa- tico hanno un color verde scuro e sono visibili in tutto il corpo per la grande trasparenza dell’epitelio che tappezza il comune integumento. I rinoforî sono lunghi, grossi, arrotondati al loro apice e accar- tocciati in tutta la loro lunghezza. Specie comunissima. Vi sono degli individui che raggiungono 20 millimetri di lunghezza. 200 SALVATORE TRINCHESE rai Su questa specie ho potuto fare alcune osservazioni anatomiche che esporrò brevemente. L'anello esafageo è formato di sei gangli, due dei quali sono situati sopra e gli altri sotto 1’ esofago. I due primi che costituiscono il cervello, sono più grossi degli altri quattro, portano i nervi ottici di una discreta lunghezza, e sono congiunti insieme da una commis- sura piuttosto lunga. La struttura dei Rinoforî non differisce gran cosa da quella da me descritta in questi organi nel genere Ercolania. Le terminazioni nervose a guisa di setole sono visibilissime ad un ingrandimento di 250 diametri, esse abbondano specialmente all’ apice di questi organi. Entro le branchie di un individuo di questa specie, io vidi per la prima volta un organo non ancora descritto da nessuno, benchè esso si trovi anche nelle cavità branchiali di un altro genere molto conosciuto: l’ Hermaca. Questo organo è una glandola a tubo rami- ficato, la quale si estende dalla base della branchia sino al suo apice. Esso abbraccia colle sue ramificazioni il cieco epatico. Si vedono spesso delle anastomosi le quali girano intorno al cieco epatico e mettono in comunicazione il ramo di un lato con quello dell’ altro lato. Questi rami sono formati di due parti distinte: di una parete e di un conte- nuto; la parete è trasparentissima e lascia vedere delle sottilissime striscie longitudinali e trasversali, la sua faccia interna è tappezzata di un epitelio cilindrico vibratile, i cui cigli hanno un movimento di- retto dall’ apice verso la base della branchia. La cavità di quest’ or- gano è piena di un liquido vischioso e di grosse cellule contenenti granulazioni grossolane, simili a quelle che si osservano nel bianco dell’ uovo di questi animali. La parete di queste cellule è sottilissima, e si rompe facilmente sotto l’ urto dei cigli vibratili: allora le granu- lazioni si spargono nel liquido vischioso e trasparente che si trova nella cavità della glandula. La parete del tubo glandulare offre di tratto in tratto delle emi- nenze che si avvanzano nella cavità, formando come dei promontori, contro i quali urtano e si frangono le cellule piene di granulazioni. Nel condotto escretore di questa glandula, siffatte eminenze si estendono talmente, da ridurre la cavità ad uno strettissimo canale che non lascia più passare le cellule intere, ma soltanto le loro granulazioni. Questa glandula è destinata alla secrezione dell’ albume. Le ragioni che m’in- ducono ad attribuirle questa funzione, sono le seguenti: Manca la DESCRIZIONE DI ALCUNI NUOVI EOLIDIDEI 201 glandula dell’ albume nel posto ordinario, il liquido contenuto nei tu- bi e le granulazioni che in quello nuotano, somigliano per tutti i loro caratteri fisici all’ albume delle uova; i tubi sono affatto vuoti quando vengono esaminati subito dopo le deposizione delle uova. Non è que- sto l’ unico caso di un intimo rapporto tra qualche organo dell’ appa- recchio della generazione icon. quello della respirazione: in qualche altro genere di questa famiglia, l’ ovario stesso, quando è pieno di uova mature, s’avvanza entro le branchie. Le capsule. auditive contengono in questo genere un solo otolite, come nella Hermaea, nell’ Ercolania ece: La radula è formata in questa specie da un numero molto va- riabile di denti: ne ho contati in un individuo 29, in un altro ‘soltanto 20. Il nidamento è nastriforme, incoloro; ed ha circa un millimetro di larghezza: il cordone delle uova vi è disposto dentro a’ spira, co- me nell’ Ercolania. Quadro dei caratteri distintivi più appariscenti dei generi affini Ercolania, Hermaca e Laura. ERCGOLANIA HERMAEA LAURA Branchie . ......, Ellittiche, rigonfie Gilindriche Cilindriche Cieco epatico branehizte { Ramificato, con ramifi- | Ramificato, con ramifi- | Semplice, non ramifi- cazioni grosse, cazioni fini, cato, Idrocardio . ..... Si stende lungo il dorso | Sistende lungo il dorso | È limitato alla regione sotto forma di sacea sotto forma di due cardiaca e visibile ad a pareti bianche e grossi vasi traspa- occhio nudo: sotto opache. renti e incolori. forma di una. sacca a pareti bianche e opache. Faccia inferiore del Piele f Senza alcun ornamento. | Senza alcun ornamento. | Con due striscie di color violetto. Genere CAPELLINIA (rrvcÙsse) ll corpo è cilindrico, allungato; snello, di un color bianco sudi- cio; sparso di piccole macchie di color giallo ranciato scuro, le quali si accumulano sul dorso per formare una macchia più grossa tra i due primi gruppi di branchie. La testa, piuttosto grossa, continua col resto del corpo senza re- stringersi posteriormente per formare il collo. TOMO IV. 26 202 SALVATORE TRINCHESE Il piede è molto stretto posteriormente, largo in avanti e SEL angoli del margine anteriore arrotondati. Le branchie sono in numero di undici per ogni lato. Le prime tre sono molto ravvicinate tra loro e formano un gruppo: così pure la quinta branchia e la sesta; la quarta e l’ ottava superano in lun- ghezza tutte le altre. Questi organi hanno una parete trasparentissima e sparsa di macchie di color giallo-ranciato: un anello di questo stesso colore trovavasi all’ apice di ciascuna branchia, al disotto di una pic- cola cupola bianchissima. Il cieco epatico contenuto nella cavità branchiale ha una forma veramente singolare. Esso sembra formato di tre coni tronchi rove- sciati e messi 1’ uno sull’ altro. Dalla base di ogni cono si staccano brevi prolungamenti che vanno ad inserirsi alla parete della branchia la quale in questo punto è alquanto sollevata e spinta infuori, e porta un gruppo di globetti bianchi con riflessi metallici. Il cieco epatico ha un colore verde chiaro. All’ apice delle branchie trovasi un nematoforo di forma cilindrica. I Rinoforî sono lunghi, sottili, lisci, colla base sparsa di piccole macchie giallo-ranciate. Nella parte superiore offrono una macchia gial- lastra tendente un poco al verde. L’ estremità libera è bianca. I tentacoli sono più corti dei rinoforî, e presentano nella loro metà inferiore un gran numero di piccole macchie bianche e nella parte superiore una grossa macchia verde. Il loro apice è bianco. Lunghezza dell’ animale dal margine anteriore della testa all’ apice della coda, 15 millimetri. Finora non mi è capitato che un solo individuo; per circostanze speciali, non potei determinare nè la posizione dell’ ano nè quella degli orifizi della generazione. Mi riserbo però di fare l’ anatomia di questo grazioso animale, non appena potrò procurarmi degli altri individui. Ho dedicato questo nuovo genere al mio egregio amico prof. Comm. Giovanni Capellini, ed ho preso come nome specifico quello dell’ altro mio amico carissimo il marchese Giacomo Doria, formando così il nome di Capellinia Doriae. DESCRIZIONE DI ALCUNI NUOVI EOLIDIDEI 203 Genere EOLIS (cuvier) HKOILIS TIMIDA (rrNcEESE) Testa molto bene distinta dal resto del corpo. Intorno agli occhi vi sono due macchie allungate di color giallo-ranciato. Sulla testa e sulla parte anteriore del dorso, si stendono tre macchie di color giallo di cromo, aventi una forma ellittica, la macchia posteriore è più grossa delle altre. Lo spazio intorno a queste macchie è bianco con riflesso metallico. Il resto del corpo è sparso di piccole macchie bianche e giallo-ranciate. Le branchie sono ellittiche, rigonfie e disposte in cinque gruppi. Nella loro metà inferiore si vede trasparire attraverso la parete bran- chiale il cieco epatico che ha un color marrone scuro. La metà supe- riore di questi organi è coperta di epitelio bianco opaco ed offre al l'apice una zona di color giallo-ranciato. Il piede è largo in avanti, molto stretto in dietro, ed ha gli an- goli del suo margine anteriore arrotondati. I rinoforî sono bianchi ed offrono nel mezzo una macchia grigia. I tentacoli sono più corti e più sottili dei rinoforî, ed hanno nel mezzo una macchia allungata di color giallo-ranciato. L’ano è situato a destra, sotto il terzo gruppo di branchie. La radula è formata di denti ad arco, con dentini molto acuti cuspide non molto prominente. Le mascelle sono armate, nel loro margine masticatorio, di una semplice fila di denti. Lunghezza dell’ animale, dal margine anteriore della testa al- l’ apice della coda, 4 millimetri. Ho denominato questa specie Eolis timida, perchè vive nascosta sotto le pietre, o rannicchiata e immobile entro gli avvolgimenti delle foglie delle Alghe, e perchè quando si tira fuori dal suo nascondiglio, cerca di fuggire come se avesse paura. Abbandonata a se stessa, si nasconde subito sotto il primo sasso, o la prima Alga che trova. VASTA ali È a NUOVE RICERCHE SULLA STRUTTURA DEL FUSTO DEL ZOOBOTRYON PELLUCIDUS cnrenseR® MEMORIA del Prof. SALVATORE TRINCHESE (Letta nella Sessione 3 Aprile 1873) Il Zoobotryon pellucidus è un briozoo scoperto da Ehrenberg nel mar rosso. Questo animale vive in colonie sopra tubi trasparenti come il vetro e ramificati tricotomicamente e tetratomicamente. Gli animali sono infitti sul ramo in guisa da formare due serie parallele tra loro. Federico Miiller studiò per il primo il tessuto che trovasi nell’in- terno della cavità di questo albero singolare che ha degli animali per frutti. F. Muller descrisse come sistema nervoso coloniale, una rete di fibre che si trova nell’ interno dei tubi. Questa rete nervosa, secondo Miiller, metterebbe in comunicazione tra loro i diversi individui della colonia in guisa che le impressioni sensitive di ogni individuo potreb- bero essere trasmesse a tutti gli altri. Si avrebbe come una città di cui le case comunicherebbero tra loro per mezzo di un filo elettrico sotterraneo. i La cavità dei rami è precisamente nel punto in cui questi si di- vidono per dar luogo ad altri rami, presenta dei tramezzi paragona- bili, all’ ingrosso, a quelli che nelle canne ordinarie corrispondono ai nodi. Nel centro di questi tramezzi vi è un organo fusiforme che Miiller crede sia un ganglio nervoso, al quale giungerebbero i nervi dei rami più vecchi e dal quale partirebbero dei nervi che andrebbero ai rami più giovani. F. Miiller descrisse pure un ganglio nervoso alla base di ciascun individuo. Quì si arrestarono le ricerche di questo di- stinto naturalista: egli non descrisse con esattezza nè la struttura delle pareti dell’ albero coloniale, nè quella degli animali che vivono su questo. 206 SALVATORE TRINCHESE Più tardi Reichert, Professore all’ Università di Berlino, riprese lo studio di questo importante argomento, sul quale pubblicò un este- sissimo lavoro. Reichert non accetta le idee di Miiller circa la natura della rete interna dell’ albero coloniale. Questa rete sarebbe formata, secondo questo osservatore, di tubi di diverso diametro e non già di fibre, o filamenti pieni. Essa non trasporterebbe ai diversi individui della colo- nia le impressioni sensitive, ma un liquido nutritivo; e i nodi che si trovano tanto alla base di ogni ramo, come a quella di ogni individuo, non sarebbero centri nervosi, ma stazioni destinate a questo liquido. Tutto questo sistema di canali coi loro rigonfiamenti basali, è parago- nato da Reichert al sistema linfatico dei vertebrati. Reichert descrisse pure la struttura della parete dell’ albero colo- niale: egli la trovò formata di uno strato esterno duro, forse chiti- noso, e di uno strato interno molle. Lo strato esterno, o ectocisti, sembra formato di varie lamine sovrapposte, ed è trasparentissimo : lo strato interno, o endocisti, è formato di una sostanza omogenea nella quale si vedono sparsi quà e là dei nuclei che certamente non appar- tengono a cellule e forse sono dei prodotti artificiali. Nella sostanza dell’ endocisti si vedono poi di tratto in tratto dei piccoli vani, forse accidentali pur essi, e prodotti dall’ azione dei reagenti chimici che si adoperano per le preparazioni (alcool, acido cromico, ece.). Se vi fos- sero cellule, dice Reichert, dovrebbe vedersi il limite che le separa, come si vede nei tessuti epiteliali degli altri animali. Questa opinione di Reichert non ha alcun solido fondamento. Le mie preparazioni dimostrano chiarissimamente che l’endocisti è formata di vere cellule composte di un corpo evidentissimo, di un nucleo piut- tosto grosso e di un nucleolo. Il limite del corpo delle diverse cellule é appariscente come quello delle cellule epiteliali della cornea degli animali vertebrati. Però la natura delle cellule che formano l’ endocisti è molto diversa da quella delle cellule epiteliali ordinarie. Gli elementi epiteliali, qualunque sia il metodo col quale si preparano, si presentano sempre colla stessa forma e serbano sempre tra loro i medesimi rap- porti. Le cellule dell’ endocisti invece presentano diversi aspetti. Esse ora sono poliedriche e disposte regolarmente le une accanto alle altre come quelle dell’ epitelio pavimentoso ordinario; ora sono discoste le une dalle altre e munite di due, tre, e talvolta quattro prolungamenti che sembrano metterle tra loro in comunicazione. Questi diversi aspetti DEL ZOOBOTRYON PELLUCIDUS 207 si vedono quando si esamina un ramo conservato nell’ alcool. Nello stato fresco, le cellule sono talmente trasparenti, che non si possono vedere. Le diverse forme sotto le quali si presentano gli elementi del- l’ endocisti, dimostrano che essi, durante la loro vita, si muovono alla maniera delle amebe. Essi conservano nell’ alcool la forma che avevano nel momento in cui vennero immersi in questo liquido. Se essi nello stato di vita avessero sempre la stessa forma, la conserverebbero an- che nell’ alcool. Questo liquido potrebbe al più rimpiccolirli un poco ma non cambiare completamente il loro aspetto generale. Per ciò che riguarda la rete interna di tubi che Reichert chiama organo comune del movimento, è chiaro che è formata in gran parte di tubi con pareti nucleate; ma in mezzo alle maglie di questa rete si trovano delle fibre piene che potrebbero essere di natura nervosa, tanto più che in connessione di esse si riscontrano cellule bipolari, tripolari e tetrapolari, somiglianti alle cellule nervose degli animali superiori. I rigonfiamenti da Reichert descritti come vesciche e diverticoli della parete dei tubi dell’ organo comune del movimento, sono vere cellule bipolari, munite di un grosso nucleo e di un nucleolo. È molto probabile che esse siano di natura nervosa. REZZA IDI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ATTRAVERSANTE LA PARETE DEL CRANIO COSTITUITO DA UN GROSSO RAMO DELL'ARTERIA OCCIPITALE SINISTRA E DAL SENO TRASVERSO DESTRO DELLA DURA MADRE, NON CHE DI UN ALTRO ANEURISMA, E DI RERITE PURE DELL'ARTERIA OCCIPITALE MEMORIA DEL PROF. COMM. F. RIZZOLI (Letta nella Sessione 6 Novembre 1874), ì) (x; studi anatomo-patologici 6 clinici sugli aneurismi che emanano dalle arterie del capo, non avendo per anco raggiunto quello sviluppo che può servire a renderli veramente fecondi di scientifiche e pratiche utilità, indurre denno coloro che li coltivano, a non omettere di ren dere palese il frutto delle proprie osservazioni, acciocchè se ne possa trarre il dovuto profitto. Egli è per tale motivo, che mentre io riassumerò quì in breve le più importanti nozioni che mi fu dato raccogliere, singolarmente intorno gli aneurismi intracranici, e che furono pubblicate da diversi autori, non ometterò in pari tempo di offrire il mio tributo, il quale in ispe- cial modo consiste nella esposizione di un fatto che io eredo unico, e che sarebbe biasimevole dovesse cader nell’ obblio, Per prima cosa adunque dirò, che sebbene Morgagni opini non doversi considerare le cavità che nell’ apoplesia sanguigna rinvengoni nel cervello e rapidamente si riempiono di sangue, come vere cavità aneurismatiche, ammette però che i varii vasi che serpeggiano nel cer- vello stesso possono, prima che ciò avvenga, in modo lento o celere dilatarsi, e poi rompersi, per dar luogo così alla formazione di esse caverne (1). Aggiunge di più che Brunner nel descrivere una caverna 95 D (1) Morgagni, Lettera II, TOMO IV. DAL ( 210 FRANCESCO RIZZOLI di simil natura, dice d’ avere osservato arteriuzze affette da malattia ovvero da aneurisma, e che sembrava fossero state dilatate da scver- chia copia di sangue. E cita pure una osservazione del Wepfero tolta dal Sepulchretum da cui si arguirebbe, che anche esso rinvenuto avreb- be una simile dilatazione arteriosa, che denominò aneurisma spurio. Avverte altresì il Morgagni che nel cadavere di un uomo man- cato alla vita per insulti epilettici riscontrò ineguali dilatazioni in alcuni punti d’ una delle arterie vertebrali e di quella in cui queste si scaricano, denominata basilare dal celebre Winslow (1). Ma sebbene fra gli scrittori non moderni Fernel e Boerhaave ab- biano pure parlato di tumori sanguigni osservati entro il cranio, lo hanno per altro fatto in un modo sì vago e sì poco preciso da non poterne ricavare qualche utile ammaestramento. Hodgson è forse il primo che ha descritto veramente con cura un aneurisma intracranico. Sandifort, Magendie, Krimmer, Ribes, Serres, ne hanno pure riferiti degli esempi. Due dissertazioni inaugurali dovute ai Dottori Nebel e Albers della scuola di Bonn, ed una Memoria del Breschet pure ne parlano. Dallo studio di questi autori e da quanto ancora scrissero il Le- bert (2) ed il Giraudet (3) ed altri, si apprende che aneurismi sonosi rinvenuti in quasi tutte le arterie del cervello; nella carotide interna alla sua entrata nel cranio da Sandifort, Albers, Breschet, Giraudet, ed Orsì (4). Nell’ arteria oftalmica dal Giraudet stesso, da Gioppi, da Holmes (5). Nella cerebrale anteriore da Spurgin, Hodgson, Copeland. Nell’ arteria comunicante di Willis da Chevalier, in quella del corpo calloso da Nebel, nella basilare da Hodgson, Serres, Kreisig, Lebert, Fossati {6); nella meningea da Krimmer, Ribes, Consolini (7), (8). (1) Morgani, Lettera IX. N.° 18. (2) Lebert pag. 574, Vol. 1, Tav. LXXII fig. 4. (3) Giraudet, Gazette des Hopitaux N.° 27, pag. 105, 1857. (4) Orsi, Caso di tumore intracranico diagnosticato nella sua precisa sede. Milano 1869. (5) Lancet 1873. (6) Bullettino delle Scienze Mediche di Bologna, Ser. 3, Vol. 6, pag. 32. (7) Rizzoli, Collezione di Memorie Chirurgiche ed Ostetriche, 1869. (8) Il Dott. Echeveria osservò per trombosi l’ occlusione dell’ arteria ba- silare, e delle due vertebrali al loro punto di congiunzione, la quale non pro- dusse necrosi della sostanza cerebrale in virtù della circolazione collaterale fornita dal circolo di Willis, ma il trombo portò la dilatazione aneurismatica delle arterie cerebrali vicino al punto della occlusione, finchè per rottura di uno degli aneurismi il paziente periva per apoplesia cerebrale. — John Lidell, The American Journal of the medical sciences; Aprile 1873. DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO DAI A queste potrei aggiungere varie altre osservazioni, ma per bre- vità mi limiterò ad alcune recenti soltanto che sono molto pregevoli. L’ onorevole Sig. Dott. Raggi medico assistente al Manicomio Provinciale ed alla Clinica delle malattie mentali di Bologna, in una sua pregevolissima Memoria sull’ ateromasia delle arterie cerebrali nelle malattie mentali (1) nel mostrare la parte che può assumere l’ ateromasia d’ esse arterie cerebrali sulla produzione delle malattie mentali istesse, dimostra che l’ateromasia di queste arterie si presenta a processo inoltrato coi seguenti caratteri. Le arterie di maggiore calibro confluenti nella basilare, e 1’ arteria basilare stessa si offrono maggiormente affette di quello nol siano le diramazioni vascolari che da questa si dipartono. Sì presentano ingrossate esternamente, benchè il loro lume sia di molto più ristretto del naturale per ingrossamento delle pareti; e poichè questo rigonfiamento non è uniforme ma disposto irregolarmente a chiazze sulle pareti del vaso, le arterie si mostrano gozzute là dove essendo la resistenza minore ha potuto la tensione interna del sangue dilatare la parete. Per le osservazioni però di Benedicht verrebbe dimostrato che questa forma a rosario, che assumono alcune arterie, può derivare an- che da una condizione anatomica diversa. In molte arterie diffatti, negli angoli che i tronchi formano coi rami, si trovano fibro-cellule muscolari che sono disposte più o meno perpendicolarmente, e la di cui contrazione produce una dilatazione della porzione terminale del tronco e l’ origine d’ un ramo. Qualora queste dilatazioni si verifichino in più punti successivi di divisione d’ un’ arteria, la medesima acquista allora la forma a rosario. Il Dott. Zenker poi (2) confermò la esistenza nel cervello di pic- colissimi aneurismi in tutti i casi di emorragia spontanea cerebrale da lui osservati. Gli aneurismi, dice l’ autore, aveano sede non solo nelle località dell’ emorragia, ma ancora in varie altre località del cervello. La forma era molto simile a quella degli ordinari aneurismi, la gran- dezza di molto svariata. Spesse volte era appena percettibile, in altri casì giungeva a quella d’ un capo di spillo. In questi la degenerazione sempre procedette dall’ interno all’ esterno, e spesso fra il processo re- (1) Bullettino delle Scienze Mediche di Bologna, 1872. (2) Ass. Wiener Med. Zeitunz. 22 FRANCESCO RIZZOLI gressivo rimase soltanto un piccolo tubercolo pimmentoso, in altri la membrana esterna più non esisteva e così si produsse l’ emorragia. Contrariamente però alle osservazioni dei Dottori Carchot e Boucharel, il Zenker crede che la produzione di questi minuti aneurismi sia do- vuta a sclerosi della membrana interna delle stesse piccole arterie ce- rebrali (1). Finalmente alla Società Medico-Fisica Fiorentina narrava il Dott. Filippi (2) come nel Dicembre 1870, un mese cioè avanti di avere rinvenuto negli annali di Virchow la memoria del Sig. Ammtd relativa alla dilatazione ampollare dei capillari della terza circonvolu- zione dell’ emisfero cerebrale sinistro riscontrata in un caso d'’ afasia, gli accadessse di notare in una donna stata epilettica nei primi anni di vita, e morta per eclampsia, una alterazione identica a quella de- scritta dal citato Autore, e che avea sede nella protuberanza anulare per la estensione di pochi millimetri, senza che la sostanza cerebrale circostante nè il resto del cervello presentasse veruna alterazione, e senza riescire a notare qualsiasi altra morbosità in tutto il restante di quel cadavere. Aggiunge poi come nell’ Aprile del 1871 accadesse al Dott. Brigidi, mentre sezionava il cadavere di una lipemaniaca, di im- battersi in una simile alterazione che egualmente avea sede nella pro- tuberanza anulare. Il Dott. Filippi presentò anco alla stessa Società Medica Fiorentina, alcuni disegni di queste alterazioni microscopiche osservate da lui e dal Dott. Brigidi, e sulla lavagna prese ad illustrarle dicendo come oggi la scienza abbia accettato e verificato 1.° Una forma di ectasia ampollare completa, nella quale un punto della parete dei capillari si dilata ad ampolla spingendo avanti a sè la membrana avventizia. 2.° Una forma sacciforme che accade in un modo eguale alla prima, menochè invece di essere ad ampolla è a sacco. 3.° Una forma disseccante nella quale accade rottura della parete vasale, ed i globuli si stravasano nello spazio linfatico. 4.° Una forma nella quale la tunica vasale è integra, ma 1’ av- ventizia è ectasica. 5.° Finalmente una forma mista che non è altro che la combi- nazione di queste diverse forme. (1) Lancet, Gazzetta Medica Italiana-Lombarda, 19 Aprile 1873. (2) Lo Sperimentale, Luglio 1873. DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 213 La diagnosi degli aneurismi intracranici è ben di frequente cir- condata da grandi difficoltà. Morgagni sospettò che 1’ apoplesia che rapidamente privò di vita il celebre Ramazzini fosse derivata dalla rottura d’un aneurisma intracranico, in ispecial modo perchè 1’ apoplesia fu preceduta da un vizio cardiaco, e da due aneurismi non più grandi di una fava, sorti sul dorso di ambe le mani al vertice di quell’ angolo che trovasi fra l’indice ed il pollice, il che rendeva verisimile che lo stesso fatto patologico si fosse ripetuto in qualche arteria intracranica, e che avvenutane la rottura ne derivasse tale emorragia da produrre con rapidità la morte. Di questa congettura non potè per altro aversi una prova di fatto in quanto che l’ autopsia non venne eseguita. Il Prof. Giovanni Fossati membro corrispondente della nostra Società Medico-Chirurgica, e che dimorò per molti anni a Parigi, avendo in questa metropoli curato nel 1833 il Sig. Aristide Voisin de Gartampe d’ anni 40, capo squadrone d’ artiglieria nell’ esercito francese, notò in lui vertigini, indebolimento delle membra, andamento incerto e vacil- lante come quello degli ubbriachi, dei quali fenomeni con appropriata cura si ottenne un qualche miglioramento. Dopo parecchi mesi lo ri- vide, ma come ei dice, in uno stato affatto disperato con paralisi estesa a tutte le membra, ed ai muscoli della faccia, appena i sensi esterni e qualche conoscenza gli restava negli ultimi giorni di vita. Nessun caso di malattia del cervello giammai presentò al Fossati i sintomi dell’ ubbriachezza al più alto grado come questo. Pregò qualche collega a fare indagini patologiche sui soggetti dediti all’ abuso del vino, e dei liquori spiritosi o anche periti in istato di ubbriachezza, e parve che realmente si riscontrasse in essi sensibile dilatazione dell’ arte- ria basilare, anzichè degli altri tronchi arteriosi intracranici. Morto che fu quell’infermo poco dopo, si rinvenne diffatti un voluminoso aneu- risma dell’ arteria basilare, che il Fossati mandò in dono alla nostra Società, dalla quale conservasi, accompagnandolo con una lettera in cui premesse le più onorevoli e sincere espressioni di predilezione e di stima verso il Corpo Scientifico, termina colle seguenti ben gradite parole: questo pezzo mi fu chiesto per essere posto nel Musco Dupuy- tren, ma io preferisco che si trovi in un Museo Italiano, giacchè non ho mai cessato d’ appartenere alla mia Nazione (1). (1) Bullettino delle Scienze Mediche di Bologna 1837 e 18344. 214 FRANCESCO RIZZOLI Un fatto non meno interessante fu pure descritto dal chiarissimo Prof. Francesco Orsi, Clinico Medico a Pavia (1). Dalla esatta storia che ne dà l’autore risulta, che dopo il più attento ed accurato studio da esso lui fatto potè stabilire la sede precisa di un tumore intracra- nico, e per gravi argomenti ritenerlo con molta probabilità associato ad aneurisma della carotide interna sinistra fra il canale carotideo, ed il seno cavernoso, non che ad ateroma delle arterie cerebrali. L’auto- psia confermò la diagnosi, rispetto alla sede precisa del tumore, e di più rivelò l’ ateromasia dell’ arteria cerebellare superiore e cerebrale posteriore del lato sinistro, 1’ ectasia della carotide interna sinistra tanto prima del suo ingresso nella cavità cranica quanto nel canale carotideo e nel seno cavernoso e dentro la stessa cavità cranica. I progressi però che si sono fatti nelle diagnosi ai tempi nostri mediante l’ uso della percussione e della ascoltazione non furono se- condo alcuni, fin quì proficui per ciò che spetta al diagnostico degli aneurismi intracranici, e non contribuirono a rendere la diagnosi mag- giormente sicura. E di vero, scrive il chiarissimo Prof. Roncati (2) la percussione ha finora sul cranio ben poche applicazioni, sebbene possa farci chiari, massime nei bambini, intorno alla grossezza e maniera di congiungi- mento reciproco delle sue ossa. Ad onta degli studi fatti dal Berti, dal Betz, dal Piorry l’ utilità pratica delle loro ricerche sul cranio non appare ancora bene fondata. Anche 1’ ascoltazione, aggiunge lo stesso Prof. Roncati ha trovato sul capo pochissime applicazioni (3) non ostante che fino dal 1833 Fischer di Boston vi richiamasse l’ attenzione dei medici e Roger l’ab- bia fatto soggetto di lunghi studi. L’ ascoltazione dice il Roncati non va fatta che sulla testa dei bambini oltre le venti settimane di vita, ma non così attempati da avere del tutto saldata la fontanella anteriore sulla quale appunto viene messo l’ orecchio immediatamente, ovvero coll’ intermezzo dello stetoscopio, il cui tubo potrà essere con vantag- gio di guttaperca ( Hennig ). Il bambino verrà ascoltato nel mentre dorme o poppa, ma sarà sempre a rammentare come per l’ ascoltazione (1) Gazzetta Medica Lombarda, Serie VI, Tomo II, Anno 1869. (2) Roncati, Indirizzo alla diagnosi delle malattie del petto, del ventre, e del sistema nervoso. Napoli 1869. (3) Roncati, Opera citata, pae. 779. DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 215 sul cranio possano anche venir sentiti rumori estranei, propagatisi dalla bocca e prodotti pel respiro, pel poppare, deglutire, biascicare. Ascol- tando un qualsiasi bambino sano sulla fontanella anteriore nel detto periodo d’ età viene percepito un rumore di soffio sinerono al pulsare delle carotidi, prodottosi appunto nelle maggiori o più superficiali ar- terie del cervello, e tanto più intenso, quanto più il bambino è plet- torico o con azione energica del cuore, il quale rumore venne già da medici americani falsamente giudicato per esclusivo fenomeno di alcuni stati morbosi. Nei bambini deboli e denutriti, con ossa del cranio molli, e pa- rimenti negli stati di grave anemia, non che per quelle malattie del capo le quali fanno crescere fuori misura la tensione delle pareti del cranio, come dire i processi essudativi, e le acute iperemie, viene tro- vato diminuire, od anche cessare del tutto il rumore cefalico in di- scorso. Similmente esso rumore vien meno per la trombosi dei seni meningei. Però senza menomare il valore di queste pregevolissime osserva- zioni vediamo un po’ se almeno in alcuni particolari casi d’ aneurismi intracranici, l’ ascoltazione può utili lumi somministrare. Il Giraudet opina che in alcuni casi l’ ascoltazione del cranio possa realmente riescire giovevole per meglio stabilire la diagnosi (1). Egli diffatti così scrive: Malgrado la spessezza delle pareti craniali 1’ ascoltazione lascia udire un certo numero di rumori intensi poco studiati, che meritano particolare attenzione. E di più il chiarissimo Holmes per varie osservazioni ne avrebbe di recente resa certa l’ utilità (2). Anzi prima che 1’ Holmes le pubblicasse, io stesso ne ebbi indubitata prova in un caso che ora passo ad esporre e che è appunto quello di cui dissi ritenere non esservi esempio. Giulia figlia di Giovanni Lacchini e di Giuseppina Rossi, nacque senza alcun aiuto dell’ arte, e mostrossi vispa, e bene conformata. Ebbe il latte dalla madre per 15 giorni, poi fu affidata ad una nu- trice, la quale poco stante riconosciuta gravida, le fu tolta la bam- bina, che poscia per sette mesi venne nutrita col latte vaccino. Per (1) Gazette des Hopitaux civiles et militaires. Paris 1857. (2) Lectures on the surgical treatment of aneurism in its various forms. The Lancet 1873. 216 FRANCESCO RIZZOLI quanto era noto ai genitori di lei, non fece cadute sul capo, e giam- mai vi ricevette percosse, non ebbe altre malattie infuori di quelle dell’ infanzia ed un doloroso reuma al collo. tunta all’età di otto anni, e cioò nel Settembre 1872, stette all’ aperta campagna parecchie ore di un tal giorno esposta ai cocen- ti raggi del sole colla testa scoperta; verso sera ritornando a casa era intontita. Poco dopo accusò intenso dolore al capo cui susseguì vo- mito ripetuto. La bocca si torse, cominciò a balbettare, perdette la facoltà visiva, rimase cogli occhi fissi, venne colta da movimenti con- vulsivi, e finì per cadere a terra e perdere del tutto i sensi. In que- sto grave stato rimase alcuni giorni poi a poco a poco si riebbe, e tornò come se nulla avesse sofferto. Ma scorse che furono due setti» mane i fenomeni morbosi riapparvero, cedendo e ritornando con pari gravezza ogni quindici o venti giorni. Soltanto dopo tre mesi la ma- dre nel pettinare la figliuola si accorse d’ una piccola tumidezza alla regione occipitale, che di poi adagio adagio andò crescendo. ‘Tutto questo avveniva senza che i parenti si prendessero pensiero in pro del- l’ inferma, ma in un ultimo accesso essendosi temuto di perderla, fu deciso di sottoporla alle mie cure nell’ Ospedale Maggiore ove entrò il 23 dello scorso Aprile (1873). La fanciulla mostrava quello sviluppo di corpo che era proporzio- nato alla sua età. In lei appariva non poca intelligenza, bontà di carat- tere e docilità. Il suo capo era piuttosto voluminoso, le pareti ossee mediante la percussione apparivano marcatamente sottili, le bozze parietali e frontali vedevansi assai sviluppate e più le prime, i capelli aveano un colore castagno seuro. Scorrendo con una fetuecia sul vertice dalla gla- bella alla unione del cranio colla prima vertebra misuravansi 37 centi- metri da un’ apofisi mastoidea all'altra 40, la circonferenza di esso cranio era di 54 centimetri. La pupilla sinistra vedevasi un po’ più dilatata della destra, notavasi leggero strabismo convergente dell’ occhio sini- stro, l'apertura oculare mantenevasi perfetta. La direzione delle labbra era alquanto obliqua da sinistra a destra, e dal basso all’ alto, obbli- quità che si rendeva vieppiù manifesta nel ridere e nel parlare. Muoveva la fanciulla la lingua in tutti i sensi, ma la volgea un poco a sinistra; lo stato degli arti toracici ed addominali era questo: maggiormente sensibili apparivano quelli di destra a fronte degli altri di sinistra, la forza musculare era un po’ scemata da questo lato, ove la muscula- tura vedevasi anche meno sviluppata. Nel camminare a passo ordinario DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC, DI inerociechiava alquanto le gambe rivolgendo il piede allo indentro, & passo accellerato nulla di questo si rimarcava. Tenendo flessa e solle- vata la gamba destra e sostenendosi convenientemente sulla sinistra la fanciulla non poteva reggersi che per brevissimo tempo, e a stento con- servava l'equilibrio del corpo, il contrario accadeva reggendo la per- sona coll’ arto opposto. Nella regione posteriore del capo, e precisamente sulla occipitale al di sotto della sutura lambdoidea notavasi un tumore pulsante a convessità rivolta in alto avente la figura di un semielissi colle sue due estremità dirette in basso. Il tumore partendo da sinistra a due dita trasverse dalla linea mediana del capo si estendeva a destra fin quasi all’ apofisi mastoide, misurava in lunghezza centimetri nove, centimetri tre in altezza nel suo tratto di mezzo, poi diminuiva gradatamente ai suoi lati. La pelle che lo ricuopriva era inalterata e coperta da fini capelli. Il tumore ad occhio nudo vedeasi visibilmente pulsante, ma in modo più marcato nel tratto suo culminante. Accostandovi superficial- mente il dito avvertivasi un tremolio o frizzo, quale suole notarsi al- lorquando piccole diramazioni arteriose sonosi fatte cirsoidee; il frizzo decresceva esercitando una maggiore pressione, e cessava affatto qualora questa fosse anche più energica. Ascoltando il tumore coll’ orecchio nudo, o munito di stetoscopio nell’area più sporgente, ossia nella sua re- gione media, era sensibilissimo un soffio espansivo piuttosto forte. Tale rumore di soffio si udiva pure ascoltando in qualsiasi punto il vertice, la sua intensità per altro scemava a misura che si accostava 1’ orecchio in avanti, era isocrono poi col cuore, e colle più cospicue arterie. Quasi sempre comprimendo la carotide sinistra cessava affatto qualsiasi rumore, e diminuiva il volume della tumidezza specialmente sul suo tratto più culminante, niun marcato cambiamento si notava premendo anche con forza la carotide primitiva destra. Qualche rara volta però, sebbene fosse compressa la carotide sinistra rimanea un rumore di soffio, ma appena percettibile nel tumore. Comprimendo poi amendue le carotidi, costantemente cessava ogni rumore. Desistendo dalla pressione della carotide sinistra il tumore di nuovo intumidiva, si facea pulsante e manifestavasi tanto in esso quanto allo interno del cranio il forte rumore di soffio. Esplorato 1’ osso occipitale nella regione della tumidezza sentivasi notevolmente incavato a sinistra, ed a destra, mentre nel mezzo di essa regione, un po’ verso destra, ove appunto era più sporgente la tumidezza, rinvenivasi in esso occipite un’ apertura pressochè circolare del TOMO IV. 28 218 FRANCESCO RIZZOLI diametro di un cent. e sette mill. Si noti infine che nessun cambia- mento avveniva nel tumore facendo tossire la fanciulla, e neppure nei moti di deglutizione e di respirazione, e nessuna sofferenza in essa notavasi protraendo a lungo e con forza la pressione sul tumore istesso. Tutto ciò conducea a credere che il medesimo fosse costituito da un aneurisma attraversante l’ occipite ed in comunicazione coll’ interno del cranio, ed al di fuori ricoperto e fiancheggiato da diramazioni arteriose della occipitale dilatate e resesi cirsoidee. E siccome il caso era veramente straordinario, così bramai fosse pure veduto dai Colle- ghi Professori Brugnoli, Taruffi, Vella, e Verardini. Convennero essi pure potesse trattarsi d’aneurismatico tumore; ma per rendere la dia- gnosi anche più sicura accolsero la mia proposta di fare il saggio del tumore stesso mediante la spillo-puntura. La mattina pertanto del 30 Aprile collocata la fanciulla in un letto col capo poggiante a sinistra su di un guanciale, dopo avere fatti radere i capelli, per mettere la parte più saliente del tumore, che corrispondeva all’ apertura craniale meglio allo scoperto, infissi pian piano nel tumore uno spillo sottile d’acciaio, e così entrai in una cavità, nella quale potei liberameute ed estesamente girare lo spillo in tutti i versi. Appena lo ebbi levato escirono immediatamente alcune stille di sangue, e non ebbesi all’ istante nè poi inconveniente alcuno per fatto di quella puntura. Sebbene non scorgessimo che puro sangue. e da ciò potesse arguirsi che niun altro umore fosse raccolto in quella cavità, tuttavia mi venne il dubbio che quelle goccioline fossero sca- turite da uno dei rami dell’ occipitale fattisi cirsoidei, ricuoprenti, e fiancheggianti il tumore, che dallo spillo fosse rimasto trafitto. Per questo motivo nel giorno 4 Maggio trovandosi presenti 1 Professori Brugnoli e Vella non che altri distinti medici e chirurghi, punsi il tumore mediante la sottile cannula di uno schizzetto di Pravaz, ed introdotta che fu colle dovute cautele ben addentro nel cavo del tumore, potè essa pure girarvi in tutte Je direzioni. Ritirando allora gradatamente lo stantuffo dello schizzetto, penetrò in questo sangue arterioso. Estratta di poi dal tumore la piccola cannula di esso schiz- zetto, spruzzò dalla fatta puntura sangue parimenti arterioso. Posto il sangue raccolto nello schizzetto in un piccolo bicchiere ben presto si coagulò. Mentre tutto questo servì a togliere ogni dubbio sulla natura aneurismatica del tumore, l’ eseguito esperimento non arrecò danno al- DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 219 cuno alla fanciulla, per cui noi potemmo di poi continuare le nostre indagini affine di conoscere il vaso da cui l’ aneurisma era sorto. E siccome, per quanto dicemmo, più volte potemmo confermare che compressa perfettamente la carotide sinistra quasi sempre cessavano in totalità i rumori aneurismatici e diminuiva il volume del tumore, così si ritenne dovesse la sua origine ad una diramazione della carotide istessa. | A prima giunta anzi, considerazione fatta che i disordini cerebrali si manifestarono nella fanciulla prima che la madre si accorgesse della tumidezza in essa lei esistente all’ occipite, si sospettò che potes- se essere dipendente da un ramo della meningea, che pel particolare successivo sviluppo del tumore fosse avvenuta in quel punto la ero- sione dell’ osso occipitale, e che per questo il tumore stesso avesse potuto fare sporgenza al di fuori del cranio. E davano valore a questa supposizione il riflesso che Begin e il Dott. Krimer (1) aveano veduto in due casi analoghi la perforazione dell’ osso prodotta dallo sviluppo del tumore, e che Giraudet ammetteva pure la possibilità della ero- sione della sostanza ossea in simili casi (2). Ma un esame più minuto e diligente ci fece conoscere erronea la nostra supposizione. Esplorando diffatti e comprimendo contro il sot- toposto osso in varii punti l’ esterna parete del tumore, che come ho detto era cospersa di diramazioni arteriose dell’ occipitale dilatate, 0 cirsoidee, m’ accorsi che premendo a destra dell’ occipite poco al di sotto della formatasi apertura craniale una diramazione arteriosa ser- pentina piuttosto grossa, scompariva ogni pulsazione e rumore nella aneurismatica tumidezza ed allo interno del cranio, e nel tempo istesso la tumidezza avvizziva. Questo ramo dunque era quello da cui l’ aneu- risma sorgeva. Ma stando al punto in cui esso ramo rinvenivasi si sarebbe detto appartenere alla occipitale destra, mentre non potea esserlo, giacchè se la cosa fosse stata così le pulsazioni nel tumore e nello in- terno del cranio avrebbero dovuto cessare comprimendo la carotide di questo medesimo lato, ma ciò non avveniva, ed invece, come dissi, quelle pulsazioni dileguavansi quasi sempre affatto comprimendo la carotide primitiva sinistra. (1) Journal des progrés des sciences médicales, Tom. X pag. 237. Jarjavay Traité d’ anatomie chirurgicale. Paris 1854, Tom. 2, pag. 25. (2) Giraudet, pag. 105 Gazette des Hopitaux 1857. 220 FRANCESCO RIZZOLI dl In causa di ciò considerato avendo che qualora diramazioni ar- teriose, comprese pure quelle del capo, fannosi cirsoidee si slanciano e si spandono su tratti anche molto estesi, ritenni per questo che quel ramo spedito fosse dall’ occipitale sinistra, e slanciatosi a destra avesse poi potuto originare il sottoposto aneurisma. E lo avere scoperto quel vaso sarebbe stata per me grande ven- tura, (qualora le condizioni della fanciulla lo avessero potuto permet- tere) pel trattamento curativo dell’ aneurismatico tumore, giacchè o mediante la compressione meccanica o digitale indiretta eseguita sulla carotide sinistra, o per mezzo della pressione diretta praticata sullo stesso ramo serpentino, o con uno spillo passando sotto questo vaso e dipoi eseguendo su d’ esso mediante un filo girato ad otto di cifra la spillo-pressione, o legando il vaso stesso si sarebbe potuto sperare di fare sparire il tumore. Conosciuto il vaso arterioso da cui l’ aneurisma sorgeva e pone- vasi in comunicazione all’ interno del cranio poteasi altresì ritenere che il soffio aneurismatico, il quale udivasi mercè 1’ ascoltazione così estesamente nelle interne regioni del cranio stesso, fosse percettibile a motivo nun solo della sottigliezza delle sue pareti, ma fors’ anche perchè il tumore aneurismatico si trovasse in comunicazione con qualche seno venoso. Intorno a ciò per altro mi astenni dal dare un assoluto giudizio, non avendo in questo caso l’ aneurismatico rumore quei ca- ratteri che all’ aneurisma arterioso-venoso si addicono. Conveniva infine stabilire se i fenomeni di paralisi appariscenti nella fanciulla, e gli altri fenomeni morbosi assai gravi che di tratto in tratto l’ assalivano e ne minacciavano d’appresso la vita fossero attribuibili all’aneurisma istesso insinuatosi allo interno del cranio, od invece ne fossero indipendenti ed occasionati piuttosto da altre anche più temibili cerebrali lesioni. Ma considerazione fatta alla anamnesi, ed in ispecial modo all’ essersi i disordini cerebrali manifestati innanzi la comparsa dell’ aneurismatico tumore all’ occipite, e più volte verifi- cato avendo che quand’ anche si premesse con forza il tumore, ed il sangue nel medesimo contenuto si spingesse entro il cranio, la fanciulla affatto non se ne risentiva, credetti ne fossero indipendenti; nullameno per viemeglio accertarmene, stimai conveniente cosa lo attendere la ri- comparsa dell'accesso, che io non avea per anco potuto osservare, e che stando a ciò che preceduto avea, non potea tardare molto a presentarsi. Per vero la mattina del 9 Maggio la fanciulla fu presa da nausea, DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 221 e da qualche conato di vomito, ed accusò dolore di capo; nullameno alzatasi dal letto per tempissimo, come era solita, non potè reggersi in piedi, e fu costretta a coricarsi di nuovo. Continuò in questo stato alcune ore, poi riprese le forze e si trovò bene come prima, per cui mangiò, e poscia dormì tranquillamente nella notte. Nel giorno successivo (10 Maggio) riapparvero i morbosi feno- meni, ma più rimarchevoli del giorno precedente. Era pallida in volto ed il suo aspetto accennava a tristezza, era agitata ed il tumore pul- sava più dell’ ordinario. L’ undici Maggio, mangiò pochissimo, fu smaniosa, si. lagnò, e passò la notte agitata. La mattina del 12 parve tranquilla, per questo si alzò, ma poco dopo sentì il bisogno di coricarsi nuovamente. Accusò un senso di stira- mento agli arti di sinistra, e si osservò che fletteva il capo ed il tronco da questo lato, verso sera si fece rossa in viso, fu presa da febbre, la temperatura giunse ai 39%, il polso si fece forte con 100 pulsazioni per minuto primo; la febbre continuò al medesimo grado nel giorno successivo. A] 14 Maggio avea un tremore generale, non potea stringere e sostenere colla mano qualsiasi corpo anche leggero, il dolore di capo era fortissimo, si lagnava per le grandi sofferenze che provava. Il 15 verso le ore 4 pom. fu assalita da un accesso di convul- sione, avea gli occhi aperti e rivolti verso destra, le pupille erano di- latate, tenea la testa fortemente ritta, gli arti erano in flessione, il polso, frequente, piccolo, intermittente, non rispondea alle dimande nè mostrava avvertire le impressioni esteriori, per cui anche punta con uno spillo introdotto nel derma ad una certa profondità non se ne risentiva. Terminato l’ accesso, dopo varii minuti, rimase cospersa da un sudore profuso, e in preda ad intorpidimento e stupore delle fa- coltà intellettuali. Il 16 mentre teneva il capo poggiato sul guanciale coll’ occipite, e col tronco giacea sul fianco destro; volendole cambiare posizione si accresceano sensibilmente le sue sofferenze. Nel 17 Maggio ebbe due accessi di convulsione alla distanza di sei ore l'uno dall’ altro, il secondo fu fortissimo, e si ripetè il giorno 18. Nel 19 si notò la perdita totale della vista, le pupille mostra- ronsi dilatatissime con strabismo convergente, sopravenne emiplegia a sinistra, meteorismo, ed iscuria, indi per lo aggravarsi dei morbosi 999 FRANCESCO RIZZOLI fenomeni, rendendosi fuori d'ogni dubbio patenti lesioni profonde ed irremediabili dell'encefalo, la fanciulla dopo altri tre giorni di pa- timenti ad onta delle nostre più assidue, e premurose cure soccombette. Acciocchè 1’ esame anatomico del capo fosse eseguito colla mag- giore possibile accuratezza, il cadavere della estinta fanciulla fu spedito al laboratorio di anatomia patologica di questa Università ed affidato al chiarissimo Prof. Taruffi che gentilmente si offrì d’ interessarsene. Il Professore, essendo già trascorse 24 ore dalla morte, per prima cosa legò le arterie vertebrali indi iniettò per le carotidi della gelatina colorata in bleu. Nel giorno appresso aperta la cavità toracica ed ad- dominale, non vi rinvenne particolarità degne di rimarco per cui pas- sò all’ esame della testa, al quale io stesso e parecchi altri cultori di questi studi si trovarono pure presenti. Nello aprire il cranio si ebbe cura di lasciare integra tutta la regione posteriore del capo affine di potere debitamente esaminare lo stato anatomico delle parti costituenti ed attornianti l’ aneurismatico tumore. Scoperta che si ebbe la dura madre nella sua volta, ed esa- minate allora debitamente le ossa craniali sì rinvennero oltremodo as- sottigliate e trasparenti. Sulla faccia esterna della dura madre si tro- varono sottili strati di essudato fibrinoso purulento che estendevansi lungo le arterie meningee medie. Continuando gli esami si rinvenne un trasudamento sieroso nelle maglie della pia madre, le circonvo- luzioni cerebrali di tutta la porzione superiore dell’ emisfero destro erano depresse, e i solchi interposti leggermente allargati. Nello staccare ed asportare il cervello, dalla base escì in copia un liquido trasparente, e nel tempo stesso il cervello nella sommità degli emisferi si abbassò, e si deformò. Aperti i ventricoli laterali si rinvennero ol- tremodo dilatati. Le pareti del ventricolo sinistro non presentavano alterazione sensibile, meno uno stato anemico pronunziato; quelle del destro posteriormente erano inalterate, anteriormente rammollite e spap- polate. La sostanza cinerea degli emisferi era piuttosto pallida e legger- mente assottigliata, la sostanza bianca vedevasi anemica, splendente ed umida. I plessi coroidei non aveano vasi molto grossi, o varicosi, e nep- pure varicose e grosse erano le vene dell’ ependima dei ventricoli. Il talamo ottico ed il corpo striato di sinistra erano di consistenza pres- sochè normale; a destra invece il talamo ottico era rammollito nella sua porzione anteriore, come pure era rammollito il corno d’ammone, nè al contorno nè in tutta la spessezza della sostanza rammollita si DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 223 osservavano quelle emorragie puntiformi, che sogliono accompagnare il rammollimento cerebrale. Il cervelletto esaminato superficialmente non offriva alcuna ano- malia di forma, anzi il lobo sinistro presentava la consistenza e la struttura ordinaria. Ma osservando il lobo destro più accuratamente si trovarono le meningi, per un’ ampia zona circolare, aderenti stretta- mente alla sostanza cerebellare sottoposta, la quale avea una superficie leggermente bernoccoluta con echimosi. Incidendola, era in modo no- tevole resistente; la superficie del taglio vedevasi uniforme fig. 1 @ compatta, e di color giallo paglia. Questa sostanza aveva circa il vo- lume d’un piccolo ovo di gallina, era circondata da tessuto cerebellare ordinario, ed osservata al microscopio si mostrava formata da fasci di fibre nervose con andamento abbastanza regolare, molti dei quali fasci offrivano la particolarità di presentare abbondantemente sostanza amorfa interfibrillare, e alcuni vasi grossi che vi si frapponevano. In qualche punto si vedeva la guaina propria delle fibre fornite di nuclei, ed in nessun luogo cellule nervose ed avanzi dello strato granuloso; per tali caratteri fu il tumore ritenuto per un Neuroma. Nella superficie interna poi dell’ osso occipitale si rinvenne una particolare anomalia, giacchè il braccio sinistro della croce fig. 2 6 era più basso del destro fig. 2 a e lo stesso dicasi dei corrispondenti angoli. Immediatamente a destra ed in alto della eminenza crociata bi- forcando la linea perpendicolare fig. 2 c rinvenivasi un’ ossea apertura comprendente tutta la spessezza dell’ occipite, e che metteva in commu- nicazione la cavità dell’ aneurisma fig. 3 a coll’interno del cranio. Questa apertura pressochè circolare era più angusta allo interno e quivi avea i suoi diametri della lunghezza di circa sette millimetri, allo esterno era più ampia ed i suoi diametri misuravano cent. 1 e 7 mill. fig. 4 a. Invece a sinistra della eminenza crociata sotto l’ ori- gine della linea trasversale di questo medesimo lato rinvenivasi una piccola lacuna a margine quasi circolare del diametro di 3 mill. fig. 2 d la quale si approfondava in modo da comprendere buona parte della spessezza dell’ osso. Di contro questa piccola lacuna, e di contro l’ ampio osseo foro che rinvenivasi a destra scorrevano i due seni trasversi della dura ma- dre di cui il destro era più grosso e rimaneva più alto del sinistro fig. 1 b, c in causa della anomalia offerta dalla croce dell’ osso occipi- tale fig. 2. Ambedue i seni erano pertugiati nella loro origine, ma il ’ 224 FRANCESCO RIZZOLI pertugio di sinistra era più ‘angusto di quello che nol fosse quello di destra fig. 1 c, 6. Mediante esso pertugio il sinistro versava al- cune stille di sangue nella corrispondente piccola occipitale lacuna fig. 2 d, ed il destro si poneva in comunicazione col sacco aneurisma- tico mediante l’ intermedio foro craniale di questo lato fig. 2 c, fig. 4 a. Avendo tolta la cute alla regione posteriore del capo si poterono al- lora facilmente scuoprire le ‘arterie occipitali, delle quali la sinistra invece d’ assottigliarsi allontanandosi dal suo punto d’ origine progres- sivamente si ingrossava e diveniva tortuosa in ispecial modo in corri- spondenza del tubercolo occipitale esterno fig. 3 è, , è e mandava fra gli altri un grosso ramo a forma serpentina a destra fig. 3 c, al quale inferiormente dirigevansi alcuni esilissimi ramoscelli della occi- pitale destra fig. 3 d, d. Quel grosso e serpentino ramo poi finiva per aprirsi sotto il pericranio in corrispondenza alla formatasi ampia aper- tura craniale fig. 3 e, il quale pericranio rialzatosi veniva così a for- mare la parete esterna del sacco aneurismatico fig. 5 a, mentre poi la parete interna era costituita dal bordo dell’ indicata apertura craniale fig. 2 c, e profondamente dal seno trasverso destro della dura madre che comunicava coll’ aneurisma mediante il pertugio in esso seno esi- stente fig. 1 d, fig. 5 d. Allo interno orlo poi dell’ osseo forame infe- riormente sorgeva un canale che rimaneva nascosto entro le pareti dell’ osso occipitale, della lunghezza di cent. 3 fig. 2 e e, fig. 4 d, il quale canale forse avea rinchiuso un vaso sanguigno, di cui però non rimanevano patenti traccie. Da tutto questo adunque risultava. che le varie e profonde lesioni rinvenute nel cervello e cervelletto originarono i fenomeni gravissimi che furono cagione della morte della fanciulla, mentre poi rimase manifesto che anche nella diagnosi dell’ aneurisma errore alcuno non si era commesso. Noi trovammo infatti che l’ arteria occipitale sinistra fattasi cirsoidea erasi in realtà slanciata con parecchi dei suoi rami a destra. Noi scuoprimmo quel ramo serpentino più grosso spedito pure a destra dall’ occipitale sinistra, e che apertosi sotto il pericranio avea così dato luogo alla formazione del sacco aneurismatico, il quale perciò mentre la fanciulla fu in vita, cessava di pulsare comprimendo quel ramo serpentino stesso in prossimità dell’ origine dell’ aneurisma, non che comprimendo la carotide sinistra, nel quale ultimo caso, se pure in alcuni momenti ci parve di sentire nel tumore un debolissimo soffio, potea allora il medvsimo attribuirsi alle esili comunicazioni DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 225 vascolari che quel serpentino ramo avea inferiormente colla occipitale destra fig. 2 d, d. Noi confermammo che quell’ aneurisma era in per- fetta comunicazione colla apertura ampia ceraniale, e vedemmo che mediante piccolo pertugio esistente nel seno trasverso destro esso tu- more era davvero in diretta relazione col seno medesimo. Il quale fatto convalidò adunque il sospetto da noi emesso, e cioè che sen- tendosi forte il soffio aneurismatico nelle varie regioni intracranichée della nostra inferma, e quindi anche a molta distanza dall’ aneurisma, (che era piuttosto piccolo ) potesse perciò il soffio medesimo attribuirsi non solo alla sottigliezza delle ossee pareti del cranio stesso, ma fors’ anco ad aneurisma arterioso venoso. Chiediamo però venia se intorno a ciò allo istante recisamente non ci pronunziammo; e nol facemmo perchè quel rumore non era, come si disse, quale all’ aneu- risma arterioso e venoso si addice. E di vero, recentemente l’ Holmes (1) a questo proposito così si esprime. Il carattere del rumore aneurismatico è il principale per la diagnosi della forma arteriosa, o dell’ arterioso-venosa degli aneurismi intracranici. Un chiaro intermittente rumore di soffio può difficil- mente dipendere da una comunicazione arterioso-venosa, la quale al contrario offre un soffice continuo mormorio interrotto dall’ intermit- tente sibilo arterioso, e quest’ ultimo è per lo più esagerato, secondo Deleus a modo da avvicinarsi al pigolio o suono di lamento. La dif- ferenza nel rumore può quindi essere bastevole nei casi più incerti ad escludere l’ idea dell’ ordinario aneurisma. Forse nel caso mio il non trovarsi 1’ apertura formatasi nell’ ar- teria occipitale in diretta comunicazione con quella orditasi nel seno venoso trasversale, ma l’ essere amendue disgiunte dal tumore aneuri- smatico intermedio potrebbe supporsi cagione sufficiente a variare la qualità del rumore. Una dubbiezza poi togliere conveniva e cioè se quell’ ampia apertura craniale, erasi esclusivamente formata, perchè il sangue del seno meningeo destro, mediante l’apertura in esso formatasi, riescì da solo colla sua presenza e pressione a corrodere la corrispondente parete dell’ occipite, ed a porsi così in comunicazione sotto il pericra- nio colla serpentina diramazione arteriosa sorta dalla arteria occipita- (1) The Lancet 1873. TOMO 1V. 29 226 FRANCESCO RIZZOLI le sinistra ivi apertasi, o piuttosto se la erosione dell’ osso stesso, fosse dipendente esclusivamente dal piccolo aneurisma iniziatosi fra il pericranio ed il sottoposto osso. Stava in favore della prima supposizione lo studio di altri tumori pieni di sangue e comunicanti essi pure coi seni della dura madre, i quali ponno formarsi in varii modi come ha dimostrato singolarmente Erm. Demme (1). Uno stravaso emorragico sotto l’ aponeurosi, com- preso poi col tempo da una membrana cistica, può trovarsi in ‘co- municazione col seno rispondente della dura madre per un foro emissario del Santorini, o per altro qualunque pertugio osseo, quale potrebbe succedere all’ assorbimento dell’ osso in rispondenza d’ una granulazione del Pacchioni (ed un caso di quest’ ultima fatta oc- corse già alla osservazione del Demme). Vasi venosi dell’ esterna superficie del cranio possono farsi varicosi e così accadere che esterne cavità piene di sangue comunichino coi seni, come con questi co- municano le vene normali: ma i casì di tale specie sono rarissimi. Per ultimo l’ esterna cavità o cisti piena di sangue può essere for- mata dalla primaria dilatazione d’ un seno della dura madre, il quale giunga ad estendersi fuori del cranio quando per un foro preesistente e quando ancora pel successivo assorbimento dell’ osso in causa della continua pressione fatta su lui da un seno dilatato. E di questa specie si conoscono forse due soli esempi, l’ uno già narrato da Beikert, l’ altro osservato dal Demme su un bambino di nove mesi, rachitico in lieve grado, nel mezzo della sutura sagittale: il tumore avea larga base, era grosso come una mela, mostrava in varii punti della sua superficie diverso grado di consistenza, e per una graduata compres- sione impiccoliva d’ assai, mentre la faccia illividiva: per gli atti del gridare, e per la compressione sulle giugulari si faceva più turgido e teso, non pulsava ma si innalzava nell’espirazione e ricadeva con l’in- spirazione. La necroscopia del bambino, venuto a. morte per tabe, dimostrò che il tumore esterno era semplicemente formato da una di- (1) Roncati, Indirizzo alla diagnosi delle maiattie del petto, del ventre, e del sistema nervoso pag. 777. 1869. DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 2201 latazione enorme del seno longitudinale e l’ osso presentava in sua ri- spondenza un’ apertura a foggia d’ imbuto (1). (1) Un caso interessantissimo e che per le sue particolarità è forse unico venne descritto dal Prof. Antonio Marcacci, e fino dal 1843 osservato dal Re- gnoli e dal Ranzi nella Clinica di Pisa. La sua importanza mi induce ad esporlo per intiero. Riscontrossi in certo Serafino Nucci d’ anni 23 di temperamento linfatico- venoso, ma bene sviluppato. Nel Novembre del 1841 essendo sopra un albero cadde dall’ altezza di circa 12 braccie. Rimase per alcuni momenti privo dei sensi, e poi rialzatosi potè giugnere alla propria abitazione distante un quarto di miglio circa, ma sbalordito, ed appoggiato sui braccio di un compagno. Dopo circa tre ore si sentì dileguare la confusione di capo, e lo sbalordimento. Gli fu praticato un salasso, e stette alcuni giorni in riposo: era spossato di forze ed a quando a quando lo molestava alcun poco il dolore di capo. Non tardò per altro a riprendere le consuete sue fatiche. Nel Novembre del 1842, il Nucci portando a caso la mano sul capo, sentì un piccolo tumore o cocicoletto che esisteva dietro l’ orecchio sinistro, che era indolente, molle, cedevole sotto la pressione, e pulsante. 1] tumoretto andava sempre più sviluppandosi: nel Gen- naio del 1843 dopo lungo cammino a piedi soggiacque ad una effimera, con molto dolore di capo, il quale a poco a poco scomparve, ma dopo questa febbre il Nucci non si sentì più bene, le sue membra erano indebolite, camminava dif- ficilmente, e non poteva attendere alle sue occupazioni, il dolore di capo a quando a quando si riaffacciava, e il tumore dietro l'orecchio andava crescendo, Il 18 Giugno 1843 fu ricevuto nella Clinica. Allora egli era di florido aspetto: bene sviluppato nel sistema musculare, e provvisto di sana pinguedine: ma con tutto questo sviluppo fisico, si congiungeva deficienza di facoltà inteilet- tuali: il padre del Nucci avvertiva che il suo figlio era stato sempre di mente ottusa, ma l’intendimento suo andò sempre più scemando dopo la caduta. Ecco quanto ritrovavasi al capo. Dietro l orecchio sinistro esisteva un tumore largo, pianeggiante e al tempo stesso bernoccoluto, cedevole al tatto, elastico, pulsante e con fremito. Dall’ apice dell’ apofisi mastoidea si prolungava per un pollice e mezzo dietro l'orecchio, ed in basso sulla faccia esterna del muscolo sterno-cleido-mastoideo: prolunga- vasi pure in addietro sulla linea mediana della nuca di contro all’ articolazione occipito-vertebrale. Il tumore, come si è detto, era bernoccoluto, tortuoso, e serpeggiante. Le pulsazioni erano forti da simulare quelle della carotide, ed isocrone a quelle del cuore. Il tumore sotto la compressione si vuotava fa- cilmente senza che avvenisse segno alcuno di compressione cerebrale, talchè la parete esterna del tumore andava a contatto con le ossa del cranio: allora sentivasi il temporale dietro la base dell’ apofisi mastoide scabro, ed eroso al punto da essere perforato poichè il dito mignolo poteva penetrarvi dentro. Un’ altra perforazione esisteva sopra e innanzi a questo foro, la quale era sot- toposta ad un bernoccolo molto distinto dal resto del tumore; questa però era assai più ristretta, e ben non si poteva giudicare se penetrasse nella cavità del 228 FRANCESCO RIZZOLI Ora facendo la dovuta attenzione al caso nostro dirò che ogni- qualvolta si consideri che nel cadavere della estinta fanciulla si rin- cranio oppure si interessasse unicamente il tavolato esterno; ma la facilità con la quale si vuotava anche quel tumore, faceva supporre che comunicasse con la cavità del cranio; se la compressione veniva esercitata al di sotto delle due indicate aperture scompariva il tumore nei punti compressi, ma non superior- mente: ma se la compressione si esercitava sulla metà superiore, e in corri- spondenza delle due aperture craniensi ogni tumore spariva. Se si comprimeva sul foro maggiore soltanto, spariva tutto il tumore eccettuato il bernoccolo in corrispondenza del piccolo foro, e se questo solo era compresso, spariva solo il bernoccolo, ed il resto del tumore non ne sentiva influenza. Se dopo avere compresso i due fori coll’ apice di due dita, si sollevavano adagio adagio le dita medesime si sentiva un fluido che a valide scosse urtava contro quelle, e passava loro al disotto per empire quella specie di sacco che costituiva il tu- more in discorso, cominciando dall’ occupare la parte più bassa. Comprimendo l’ arteria occipitale, quella temporale, e i loro rami non ac- cadeva cambiamento alcuno nella forma e nel volume del tumore, queste ar- terie erano nel loro stato normale. Esercitando le compressioni accennate sul tumore la faccia del paziente si coloriva alquato di lividore, le vene s’ intur- gidivano, senza però che ne avvenisse molestia. Fu compressa la carotide ai lati della trachea, ed allora con sorpresa l ammalato si scosse con violenza, si fece assai livido in volto, e cadde in sopore; cessata la compressione tutti questi fenomeni si dissiparono all’ istante, tutte le volte però che si comprimeva la regione della carotide ricominciavano costantemente i fenomeni accennati, 0s- sia di compressione cerebrale. Le membra dell’ infermo erano assai fiacche, anzi poteano dirsi paralizzate, poichè egli a fatica potea reggersi sulle gambe e le braccia debolmente lo ser- vivano. La sensibilità generale, ed i sensi erano nella loro integrità. La prima idea che correva alla mente all’ aspetto di questa malattia, era quella dell’ aneurisma cirsoideo, o della varice arteriosa. Molte dubbiezze però si affacciarono per confermarci in quest’ idea, infatti la compressione delle ar- terie vicine a quella della carotide istessa non diminuiva il tumore, e non ne faceva cessare le pulsazioni. Perchè invece la compressione della carotide por- tava segni di compressione cerebrale, mentre poteva fare scomparire tutto il tumore comprimendolo, e vuotarne il liquido nel cranio senza che questa com- pressione apparisse? Non essendo possibile una diagnosi esatta, fu tenuto l in- fermo in osservazione, onde la comparsa di nuovi fenomeni potesse venire a rischiararla. L'unico soccorso terapeutico tentato fu la compressione esercitata con una lastra di piombo sul tumore, ma senza risultato alcuno. Intanto le forze dell’ infermo sempre più si affievolivano, le funzioni del basso ventre si fecero torpide, venne incontinenza di urina: la stupidità sempre più aumentava, e talvolta compariva un delirio placido, vago e tranquillo. Finalmente il Nucci fu preso da estrema debolezza, da smania, da vomito, e da febbre, quindi com- parvero tremori in tutte le membra e più sensibilmente a sinistra. La sensibi- DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 229 venne il seno trasversale destro della dura madre molto più grosso di quello che inol fosse il sinistro, che il pertugio in ambo i seni for- lità tattile era alquanto diminuita, le pupille ristrette, la palpebra superiore destra era abbandonata e caduta sull’ inferiore: dei moti convulsivi compari- vano alla faccia livida e sparsa di turgide vene. La conoscenza ed i sensi erano quasi del tutto aboliti, la respirazione lenta e rara, ed i polsi piccoli, duri e contratti; stette in questo stato per alcuni giorni, finchè il 22 di Marzo cessò di vivere. La sezione fu fatta con molta diligenza dal Prof. A. Marcacci, ed ecco co- me il sullodato Professore l’ ha registrata nella sua relazione. L’ esteriore del capo non offriva particolarità veruna, se non fosse a notarsi un certo che di azzurrognolo predominante nel colorito della pelle. Dietro 1’ orecchio sinistro, nel luogo del tumore, non vedevasi intumescenza di sorta veruna, e la pelle assottigliata e lividastra, postasi in contatto cop le parti profonde, lasciava ap- pena trasparire alcuni rilievi tortuosi. Per mezzo della dissezione si fecero scoperte alcune grosse diramazioni vascolari a pareti sottili, le quali come furono disseccate si fecero distese da molto sangue di color nero, e riacquista- rono quel volume che dovevano avere in tempo di vita per offrire quelle ap- parenze che descrivemmo. La sottigliezza delle pareti di questi vasi, la tortuo- sità loro e il sangue nero che li riempiva, non lasciavan dubbio ch’essi vasi non appartenessero al sistema delle vene. La disposizione anatomica di essi era la seguente. Un grosso tronco venoso, non minore certamente della corri- spondente vena giugulare interna si partiva dal maggior forame del cranio, da quello cioè situato dietro |’ apofisi mastoidea, dove si vedeva adeso ai contorni del foro medesimo, e continuarsi in dentro manifestamente. Presso questo foro presentava un rigonfiamento allo infuori e quindi perdendo alquanto del suo volume discendeva sulle inserzioni dello sterno-cleido-mastoideo, e del trapezio, si aggirava tortuosamente in vario modo intorno l’ apofisi mastoide e di poi si approfondava tra i muscoli della parte superiore della regione laterale del collo. Nel suo principio al foro del cranio si staccava una grossa diramazione che si portava indietro e in basso sotto la cute, la quale arrivata poi sulla parte media della nuca si approfondava, e veniva dall’ istesso lato a comunicare colla prima già molto diramata e ravvolta intorno alle apofisi trasverse delle tre prime vertebre del collo, ed ai muscoli che vi si attaccano. Sopra il secon- do foro del cranio sorgeva un’ altra vena di mezzo circa il calibro della prima, che si conduceva tortuosamente allo innanzi sopra l’ orecchio, e ridotta piccola si anastomizzava con la vena temporale superficiale. Aperto il cranio, primie- ramente fu trovato che grande e notevolissimo era lo sviluppo dei vasi diploicj e molto grandi eziandio erano i solchi che danno ricetto alle arterie meningee. La dura madre vedevasi attraversata da vene molto grosse, e i seni di lei, particolarmente i laterali, erano larghissimi e rigonfiati. Era con la parte ante- riore inferiore del seno laterale sinistro che comunicava il primo grosso ramo venoso descritto, talchè in questo luogo il cranio era perforato in totalità: mentre in corrispondenza del secondo foro era perforata la sola lamina esterna 230 FRANCESCO RIZZOLI matosi era nel primo più ampio, e che le dimensioni del foro craniale di destra e quelle della piccola lacuna di smistra erano in relazione dell’ osso, e il ramo venoso minore comunicava col maggiore attraversando la sostanza diploica. La superficie del cervello era tanto e sì moltiplicatamente in- trecciata e ricoperta di vasi venosi, che quasi nascondevano le sottoposte cir- convoluzioni. Grandi e grosse diramazioni e moltissime di medie, e infinite di piccolo calibro erano tutte piene e turgide di sangue nero, e formavano un in- treccio minuto e complicato così, che sembrava piuttosto un panno nero che ricoprisse il cervello che una rete vascolare. Arterie e vene insieme morbosa- mente dilatate e moltiplicate che erano ancor più straordinariamente sviluppate ammassate nei solco del Silvio ed alla base del cervello dove le arterie del poligono del Willis erano pure singolarmente allungate e tortuose. In alcuni luoghi i vasi erano così eccessivamente sviluppati, e riuniti che si erano preso un posto distinto fra le circonvoluzioni cerebrali slontanandole in un modo osservabilissimo tra loro. Dovunque le vene della superficie del cervello, o della pia madre si staccavano per far capo nei seni o nelle vene della dura madre, sì vedevano soprammodo grosse e rigonfie. E le pareti di tutti questi vasi avevano preso un grande ispessimento. L’ aracnoide. se non era più densa del- l’ ordinario, era opacata, di modo che formava un tenue velamento biancastro alla gran massa dei vasi che ricuopriva il cervello. Tagliata la sostanza cere- brale fu trovata vascolosa di maniera, e con tale predominio di venosità che si sarebbe detto volontieri essere mancante la sostanza bianca ed avere preso questa l’ aspetto della grigia, e la grigia fattasi nera. Nei ventricoli laterali era del siero limpido, che poteva ascendere a tre o quattro oncie di peso. Anche il cervelletto era in quel tal modo singolare ricoperto e penetrato da vasi. La consistenza della polpa cerebrale si conchbe assai maggiore del solito, e quale di un cervello stato immerso per qualche tempo nell’ acido nitrico diluito. Dopo tutto questo si rileva che il tumore indicato era costituito da due vene emissarie, le quali sì erano grandemente dilatate, specialmente quella che esciva dall’ apertura che esisteva in corrispondenza dell’ apofisi mastoide, e ve- nivano all’ esterno del cranio a formare con le loro circonvoluzioni, perchè aumentate anche in lunghezza, un tumore, il quale comunicava col seno laterale sinistro per mezzo delle ampliate aperture nelle ossa del cranio. Si dee ammet- tere adunque, che la vena emissaria la quale normalmente attraversa il foro mastoide siasi dilatata fino al punto da erodere o slargare il foro medesimo, Così pure l’ altra vena superiore e più piccola si è fatta strada tra le lamine dell’ osso per uscire al di fuori, e così ha allargato erodendo il canale naturale per cui passava. Sorge poi naturalmente l’idea che i movimenti del cervello in questo caso fossero quelli che comunicavano le pulsazioni, e siccome queste erano isocrone a quelle del cuore, così molto si presterebbe alla spiegazione la teoria la quale trova nelle arterie della base del cervello la ragione dei movimenti di questo viscere (1). (1) Marcacci, Miscellanee, Giornale Medico Chirurgico Pisa 1844, e Regnoli e Ranzi, Lezioni, Firenze 1850 Vol. 4. pag. 84. DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 931 al volume dei seni rispettivi ed all’ ampiezza del pertugio nei medesi- mi seni formatisi, vi era quindi tutta la ragione per supporre che le indicate ossee erosioni si fossero ordite per fatto soltanto dei seni stessi. Ma riflettendo che a sinistra l’ ingresso della piccola incavatura ossea era più spazioso di quello che nol fosse il suo fondo, che invece a destra l’ ingresso dell’ ampio foro craniale era più angusto di quello che nol fosse l’ apertura esteriore, ciò a dir vero fece sorgere alcune giuste dubbiezze. E diffatti ben bene osservando potemmo venire in sospetto che l’ erosione non fosse proceduta uniformemente nelle due tavole ossee dell’ occipite, rimanendo in corrispondenza all’ ampio forame craniale un piccolo tratto interosseo molto visibile specialmente dal lato della linea mediana di esso occipite, il quale tratto invece d’ essere formato dalla diploe presentava un solco ossificato fig. 4 e. E ciò che servì a dileguare ogni dubbiezza si fu 1’ osservare, che nella esterna parete dell’occipite tanto a destra quanto a sinistra del foro attraversante il cranio, i rami cirsoidei fig. 5 d e dell’ arteria occipitale, aveano formata una incavatura così marcata nella sottoposta parete cra- niale fig. 4 d c, fig. 5 m, n (che noi avevamo già avvertita anche quando la fanciulla era in vita) da non rimanere a sinistra che a struggersi un esilissimo setto fig. 6 c per mettere in libera comunicazione anche da questo lato l’esterna incavatura occipitale cagionata dalla sovrapposizione dei vasi cirsoidei della occipitale fig. 4 d, fig. 5 wm, fig. 6 a, coll’altra pic- cola incavatura fig. 2 d, fig. 6 d formatasi nella interna opposta parete dell’ osso occipitale per opera del corrispondente pertugiato seno trasver- so. Motivo per cui poteasi quindi a ragione ritenere che anche l’ ampia apertura attraversante l’occipite a destra, più angusta allo interno, più spaziosa allo esterno fosse essa pure esordita all’ interno per opera del grosso ed aperto seno trasversale destro, e che di poi avesse finito per mettersi in comunicazione colla erosione più ampia determinata all’esterno dai vasi cirsoidei dell’ arteria occipitale sulla esterna parete di quel tratto d’occipite serpeggianti, non che dal forte impulso arte- rioso indotto dall’ aneurisma quivi orditosi al disotto del pericranio. Data per tal modo ragione del come erasi effettuata in questo caso l'apertura craniale, mi piace ora d’ aggiungere che se malaugura- tamente all’ aneurisma dell’ occipitale attraversante il cranio non si fossero congiunte nella sventurata fanciulla, di cui tenni parola, pro- fonde ed insanabili lesioni dell’ encefalo dall’aneurisma indipendenti, si sarebbe realmente di questo potuto sperare la guarigione. HZI FRANCESCO RIZZOLI Me ne confermo pensando che non solo l’ Hodgson (1) potè no- tare alcuni casi d’ aneurismi intracranici guariti anche spontaneamente, ma altresì riflettendo, che sebbene 1’ Holmes nella generalità dei casi non presti molta fiducia alla cura chirurgica, temendo che il corso del sangue possa rinnovarsi nell’ aneurisma per le facili comunicazioni che esistono colle arterie del capo, e tema altresì che la consolidazione dell’ aneurisma quand’ anche avvenisse, non potesse rendere in alcun modo sicuro il paziente della scomparsa dei sintomi cerebrali, pur nullaostante ammette esso pure che in alcuni casi d’aneurismi intracra- nici possa tentarsi la cura. E che la si possa con fiducia intraprendere ne avemmo prova nell’ infermo guarito dal Consolini, mediante la com- pressione digitale della carotide, di un aneurisma traumatico circoscritto dall’ arteria meningea, e che io altra volta vi resi noto (2). E tanto più poi potevamo ritenere suscettibile di cura chirurgica l’aneurisma insinuantesi entro il cranio prodotto dalla occipitale da noi descritto, in quanto che la scienza e per fatti altrui e miei propri, può offrire oggi alcuni casi di guarigione d’ aneurismi, e di gravi fe- rite di quest’ arteria. Vido Vidi (3) fu il primo a notare che talvolta le arterie, com- prese quelle del capo, si tumefanno e diventano varicose. Egli osservò un caso in cui dall’ occipite al vertice erano di tanto le arterie dila- tate da rassomigliare ampie varici energicamente pulsanti. F. Walter rese noto un caso in cui sul tragitto dell’ arteria occipitale, fattosi cirsoidea, eransi formati quattro piccoli aneurismi veri cui affluivano varii rami arteriosi. Di consimili aneurismi cirsoidei i moderni tentarono la cura, ed alcuni anzi ne ottennero la guarigione coll’ elettro-puntura. Il Dott. Caradec osservò di recente (4) un caso d’ aneurisma. cir- soideo derivante dall’ auricolare posteriore, e dal ramo esterno dell’ oc- cipitale il cui lume avea il diametro d’ un centimetro. Ebbe ricorso alla iniezione col percloruro di ferro ed all'applicazione d’un compres- sore. Furono fatte sei iniezioni delle quali talune produssero viva in- fiammazione, l’ ultima fece suppurare e cadere in mortificazione una porzione del tumore. La guarigione stabile del medesimo si. ottenne nello spazio di circa tre mesi. (1) Hodgson, Trattato delle malattie: delle arterie, e delle vene. Milano: 1823: Vol. 1, pag. 130. (2). Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. (3) De curatione generatim, T. II. (4) Gaz. des hop. N.° 29, 1873. DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 233 Il Prof. Olivares dell’ Università di Valladolid in un individuo di 28 anni di buona costituzione osservò un aneurisma dell’ arteria occipitale formatosi dopo avere ricevuto un colpo di bastone sulla protuberanza occipitale (1). Il tumore si estendeva dal mezzo della sutura sagittale fino al di sotto della gobba occipitale un dito trasverso dietro le apofisi ma- stoidee. L’ arteria occipitale destra pulsava fortemente, al tatto ed al- l udito dava la sensazione di tremolio caratteristico nelle dilatazioni aneurismatiche. Si sospettò trattarsi d’ encefaloide, ma legata l’ arteria occipitale destra prima di procedere all’ asportazione del tumore (nel praticare la quale allacciatura si ebbe una emorragia considerevole per cui convenne legare dodici arteriuzze) si conobbe allora 1’ aneurisma- tica natura del tumore istesso. Trentadue giorni dopo l’ operato era completamente guarito. Percy e Cisset pure hanno entrambi riferito un caso d’ aneurisma dell’ arteria occipitale (2), ed io stesso ne aggiugnerò uno non meno importante, di cui darò breve cenno. Nel giorno 15 Ottobre 1870 in seguito ad alterco, certo Bragaglia Cesare fu colpito con un coltello posteriormente al capo nella regione mastoidea sinistra, e subito dopo condotto allo Spedale Maggiore. La ferita era piuttosto profonda, obbliqua d'alto in basso dirigentesi verso le prime vertebre cervicali, e da essa ferita era scaturito sangue arterioso in copia, che poi avea quasi del tutto cessato di sgorgare. Fu riunita la ferita istessa dallo in allora mio Assistente in detto Spedale Sig. Dott. Asostino Barbieri mediante una striscia di cerotto adesivo ed eseguita una fasciatura compressiva, il che bastò perchè del tutto cessasse lo sgorgo del sangue. Il ferito per altro non essendo rimasto allo Spedale, ma recatosi a casa propria, ne assunse la cura } egregio Sig. Dott. Napoleone Vecchi, che fu esso pure mio Assistente. Passarono 1 due primi giorni senza che fosse levata la medica- tura, giacchè nessun morboso fenomeno erasi presentato, al terzo giorno tolto 1’ apparecchio la ferita fu trovata perfettamente cicatrizzata, nè altro si poteva scorgere, come asseriva il sullodato Sig. Dott. Vecchi, (1) Bullettino delle Scienze Mediche di Bologna 1863. (2) Jarjavay, opera citata pag. 29. TOMO 1V. 30 234 FRANCESCO RIZZOLI se non una larga placca echimotica che più in particolare estendevasi lungo il bordo posteriore del muscolo sterno-cleido-mastoideo; per cui limitossi a coprire la ferita con un pannolino, tenuto in sito mediante una nuova fasciatura. La mattina seguente cioè il 19 Ottobre recan- dosi a visitare l’ infermo, questi gli narrò che lo molestava un leggero indolentimento alla ferita, laonde rimossa la medicatura, fu sorpreso il curante nello scorgere una prominenza rotondeggiante della gran- dezza d’ una piccola noce proprio sotto la formatasi cicatrice, la quale però mantenevasi tuttavia perfettamente unita. Notò eziandio che que- sta tumefazione era pulsante, ed applicatovi sopra un dito, sentì che la pulsazione era isocrona alla radiale. Credette allora essersi formato un aneurisma, che poteasi dubitare della vertebrale, o della occipitale di quel lato. Sapendo l’ egregio curante quanto questi casi mi interes- sano indusse l’ infermo a tornare allo Spedale, affinchè ne potessi fare oggetto di studio e ne assumessi la cura, al che di buon grado esso acconsentì. Accintomi tosto ad esaminarlo trovai in primo luogo la cicatrice della pregressa ferita posteriormente all’ apofisi mastoidea in direzione obliqua d’ alto in basso, e dallo esterno all’ interno: ivi sottoposto a detta cicatrice e precisamente verso la regione posteriore della base dell’ apofisi mastoidea stessa, rilevai un tumoretto elissoide avente il maggiore diametro della lunghezza di circa 3 cent., il diametro minore di due centimetri e mezzo, le cui ritmiche pulsazioni erano visibili all’ occhio dell’ osservatore. Applicandovi ancora un dito avvertivasi una manifesta pulsazione molto vibrata e prolungata nello stesso tempo, e collo stetoscopio un profondo rumore di soffio prolungato pure ed espansivo; comprimendo la carotide sinistra nella sua biforcazione cessava affatto qualunque pulsa- zione e qualunque rumore nel tumoretto, il quale sensibilmente avviz- ziva per ritornare duro, teso, e pulsante allorchè si desisteva dal com- primere la carotide nel punto anzidetto. Il tumore poi non avvizziva, nè cessavano in esso le pulsazioni eseguendo la compressione dell’ ar- teria vertebrale al tubercolo di Chassaignac. Per tutto questo e per lo studio topografico minuto della regione, stabilii diagnosi d’ aneurisma traumatico circoscritto dell’ arteria occipitale sinistra. Importa sia no- tato tuttavia, che in questo caso avvisai, che il mezzo più sicuro sa- rebbe stato la spaccatura del tumore, e la legatura dell’ occipitale so- pra e sotto il punto leso. Se non che riflettendo che prima d’ accin- DI UN ANEURISMA ARTERIOSO-VENOSO ECC. 205 germi ad una operazione cruenta, valeva meglio il tentare un mezzo semplice, e facendo calcolo del calibro del vaso aneurismatico, e della sua posizione contro la parete ossea, esercitai una compressione diretta sul tumore, fatta con compresse di tela ed una fasciatura, coadiuvando la compressione diretta colla digitale periodica della carotide primitiva corrispondente. Dopo avere per circa 24 ore continuato in tale metodo di cura si trovò il tumore diminuito di mole, duro e appena pulsante. Tale buon risultato mi determinò a proseguire nell’ adottato metodo per altri cinque giorni consecutivi, trascorsi i quali ebbi il conforto di vedere scomparso affatto il tumore stesso, e cessata ogni pulsazione. Il Bragaglia fu trattenuto altri dieci giorni nell’ Ospedale in via di os- servazione, indi licenziato perchè stabilmente guarito. Ora a compimento di quanto affermai dirò alcune cose ancora della cura di due ferite pure dell’ arteria occipitale. Filippo Masotti contadino d’ anni 55 il giorno 14 Ottobre 1869 cadendo a terra e sulla medesima urtando violentemente colla regione posteriore del capo riportò una ferita lacera e contusa alla regione occipitale che fu accompagnata da profusa emorragia arteriosa, la quale venne al momento arrestata con una forte compressione diretta. Tra- sportato allo Spedale Maggiore e posto nelle mie sale fu tolta la fa- sciatura, e così si conobbe che la ferita, della lunghezza di oltre tre centimetri, avente direzione dall’ alto al basso e dallo interno all’ ester- no trovavasi a sinistra dell’ occipite, nel tratto in cui l’ arteria occi- pitale dopo essersi fatta orizzontale si dirige in alto. I Jembi della ferita erano poi in gran parte staccati dal sottoposto pericranio. L’ emorragia al momento non ricomparendo l’ assistente di guar- dia riunì i bordi della ferita con istriscie di cerotto adesivo ed a mag- giore sicurezza riapplicò una fasciatura compressiva. Nel giorno ap- presso l’ emorragia si riaffacciò e vi si provvide subito coll’ applica- zione di fila imbevute nell’ acqua emostatica del Pagliari, e con altra stretta fasciatura. Ad onta di ciò le perdite sanguigne si andarono in quel dì ripetendo e copiose, e così pure nel giorno successivo, i co- muni mezzi di compressione non valendo a stabilmente frenarle. Vi- sitato da me l’ infermo mentre una nuova emorragia e gravissima si era manifestata, non potendo scorgere il punto preciso da cui il san- gue scaturiva, ed essendo riescito ad arrestarla comprimendo fra il pollice e l’indice della mia sinistra il lembo esterno della ferita verso 236 FRANCESCO RIZZOLI la sua metà, quivi lo attraversai mediante un lungo spillo ricurvo nella sua punta, e giratovi attorno strettamente un cordoncino l’emor- ragia più non riapparve. Ricoperta la ferita con fila assicurate con op- portuna fasciatura, l’ infermo di poi non si risentì affatto della ese- guita spillo-pressione per cui dopo tre giorni lo spillo ed il cordoncino furono tolti. In seguito presentandosi la suppurazione in modo regolare, la ferita si saldò con forte cicatrice. L’ infermo riavutosi delle perdite fatte fu dimesso dallo Spedale il giorno 14 del successivo mese di Novembre in ottima salute. Poco dopo e cioè il 6 Dicembre del medesimo anno fu del pari accolto nello Spedale Maggiore e posto nella mia sezione Domenico Fanti facchino d’ anni 59, il quale in seguito di colpo diretto avea riportato pure all’ occipite, e nella regione istessa dell’ altro infermo or ora ricordato, una ferita lacera e contusa lunga 5 centimetri con scopertura ossea ed accompagnata da grave emorragia arteriosa. I mezzi comuni all’ istante adoperati non valendo che a momentaneamente fre- narla, si ritenne conveniente di ricorrere alla spillo-pressione, che fu eseguita mediante tre spilli insinuati in modo da attraversare e com- prendere a tutta spessezza i tessuti feriti, e da permettere di strin- gerli debitamente con un cordoncino giratovi attorno; e ciò fu fatto perchè attesa la profondità del vaso, o vasi feriti non fu possibile lo scorgere ed il dominare le diramazioni di essa occipitale che davano sangue. Arrestata così l’ emorragia venne ricoperta la ferita con addatto apparecchio di medicatura. Dopo tre giorni essendo insorta tumefazione infiammatoria nella parte lesa accompagnata da dolore di capo, e da intensa febbre vennero tolti gli spilli, fu praticato un salasso, sommi- nistrato all’ infermo un purgante, medicata la ferita con fila unguen- tate, e tenuto l’ infermo a dieta severa. L° emorragia non riapparve, i fenomeni infiammatori andarono via via decrescendo anzi dopo cinque giornate ogni traccia di flogosi era scomparsa, e la ferita avea assunti ottimi caratteri. Si aumentò allora il vitto al malato, e giunti al giorno 20 del mese istesso la ferita trovandosi perfettamente cicatriz- zata potè il Fanti restituirsi alla propria famiglia. Mi auguro che la narrazione dei casi da me osservati, ed esposti in questa Memoria possano concorrere a porgere qualche buon frutto non solo all’ anatomia patologica, ma ben anco al Clinico che deve intraprendere la cura di aneurismi e di gravi ferite d’arterie del capo. Mem Ser.3. Tom. IV.” È Rizzoli- Aneurisma arterioso venoso attraversante l'occipite 0 Nannini dis'dal vero e)n1 SULLA DIMORFOBIOSI O DIVERSO MODO DI VIVERE E RIPRODURSI SOTTO DUPLICE FORMA DI UNA STESSA SPEGIE DI ANIMALI OSSERVAZIONI FATTE SOPRA ALCUNI NEMATOELMINTI DAL PROF. COMM. G. B. ERCOLANI (Letta nella Sessione 27 Novembre 1873 ) Le ricerche ed i risultati importanti, che sono stati forniti alla Zoologia ed alla Patologia in questi ultimi tempi dai cultori le Scienze Naturali, scuoprendo le meravigliose metamorfosi per le quali passano e si trasmettono i vermi intestinali, eccitarono la curiosità dei dotti di ogni paese e gli studi relativi al parasitismo tanto animale che vegetale, formano oggi un argomento prediletto di studio di uomini eminenti presso ogni colta Nazione. Invogliato negli anni miei giovanili alla ricerca dei vermi in- testinali da quel sommo uomo che fu il Prof. Alessandrini, benchè io non facessi più nel corso degli anni argomento esclusivo di studio i detti animali, pure non lasciai mai trascorrere le occasioni favorevoli che mi si presentarono per ricercare le forme, la vita ed i morbi che spesso ai detti animali sono dovuti. Non meraviglierete adunque, 0 Signori, se già molto avanti negli anni, la mente come suol dirsi torna agli antichi amori e di cose elmintologiche intenda oggi tenervi parola. Sprone per intraprendere queste ricerche furono l’ onorata ed insperata accoglienza che un illustre straniero, il Prof. Carlo Siebold, volle fatta ad alcuni miei antichi lavori sugli Elminti ed occasione il fatto, che trovandomi in villa, ebbi ad osservare che tutti i polli del 238 G. B. ERCOLANI luogo indistintamente, portavano nelle loro intestina le due notissime specie di Ascaridi l’ inflessa cioè e la vesciculare. L'occasione frequente e facile per esaminare gli animali porta- tori dei parasiti, circoscritta l’ indagine perchè essi vivevano in uno spazio non molto esteso, che molto ampio non era il prato sul quale pascolavano le galline, mi lasciarono credere che un qualche lume io avrei potuto raccogliere per intendere l’ oscurissimo argomento, che ri- guarda il modo col quale i Nematoelminti si trasmettono, e che le osservazioni fatte in un campo assai modesto, forse avrebbero potuto giovare ad intendere e ad evitare l’ elmintiasi da nematodi nell’ uomo, e non pochi morbi da questi vermi ingenerati nel corpo degli animali. Sperai per poco di avere sollevato il denso velo col quale ia natura sì compiace di coprire ancora la trasmissione dei Nematodi; ma se il fine al quale miravo non fu raggiunto, restò dimostrato ed in mia mano un fatto che agevolando per l’ avvenire la soluzione dell’ oscuro problema, svela per ora ai cultori delle naturali cose, un fatto nuovo e singolarissimo al quale ho dato nome di Dimorfobiosi, perchè lascia vedere la vita sessuata con riproduzione, sotto forme e in condizioni di vita interamente diverse in animali di una stessa specie. Se la tenacità di proposito dopo che ebbi conosciuta e seguita con sicurezza la Dimorfobiosi nelle ascaridi inflessa e vesciculare non valsero a pormi in via per chiarire con sicurezza il modo, col quale si compie il ciclo della loro vita, o in breve come le dette ascaridi viventi sotto altre forme allo stato libero, tornano a diventare inte- stinali, seguitando codeste ricerche acquistai solo la sicurezza che la Dimorfobiosi è molto estesa nei nematoelminti e nei lettamai delle stalle di animali equini, trovai copiosissimi e riproducentisi liberamente e sotto forme microscopiche le due specie di Strongilo, l’ armato ed il tetracanto e l’ Ossiuride incurvata ed altra specie che forse è la Spi- roptera Megastoma, i quali vermi tutti con tanta frequenza si trovano nelle intestina del Cavallo. Delle numerose osservazioni fatte in pro- posito, non dirò oggi, mi limiterò solo ad indicare che nematoel- minti nello stadio di loro vita libera si trovano ancora nell’ interno delle piante e dirò solo di quelli che cagionano una malattia di una pianta, importantissima per la nostra agricoltura quale si è la canepa, e questo non solo perchè, non mi sembri inutile quanto curioso a sa- persi, che i vermi intestinali degli animali vertebrati nelle fasi di loro vita libera nuocciono anche alle piante, ma perchè alcune ricerche SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 239 esperimentali istituite sui nematoelminti che si trovano nella canepa affetta da Calzone, che così gli agricoltori chiamano la malattia, pos- sono forse condurre a risolvere con speciali e determinate indagini, l’ oscuro problema della trasmissione dei Nematodi. Per conoscere il ciclo completo della vita delle due specie di Ascaridi inflessa e vesciculare, che mi ero proposto di seguitare, io dovevo anzitutto conoscere completamente lo sviluppo delle loro uova e le fasi di sviluppo per le quali passavano, durante il loro corso nell’ am- bito intestinale delle galline, per sapere se fuori del corpo delle galli ne, io doveva cercare nel prato le uova o gli embrioni che da quelle fossero nati, e veduto quello che di loro avveniva nel suolo ove colle feci erano certamente state deposte, tentare di riportarle ad arte nel corpo delle galline per avere così l’ artificiale sviluppo delle ascaridi intestinali delle galline. Ricercando lo sviluppo degli embrioni nelle dette uova, e ten- tando anche la loro incubazione artificiale s’ incontrano non poche dif- ficoltà. Le uova mature nel corpo delle femmine adulte non oltrepas- sano nel corpo delle dette specie di ascaridi quel periodo di sviluppo che precede la segmentazione del tuorlo, ricercate le uova normalmente emesse dalle femmine e miste alle feci nell’ ultima porzione dell’ inte- stino retto delle galline, e nelle feci recentemente emesse da queste, le uova si trovano immutate, per cui si ha presto il convincimento che le permutazioni per le quali deve passare l’ uovo, perchè 1’ embrione si formi, avvengono come per altre specie di ascaridi, fuori del corpo dell’ animale che alberga le madri. I tentativi fatti per l’ incubazione artificiale delle uova delle due predette specie di Ascaridi, tolte che esse siano dal corpo delle madri, e poste sul terreno umido e immerse nell’ acqua, non mi riuscirono in molte prove tentate, che dopo pochi giorni nell’ uno e nell’ altro caso le uova si alteravano e si disfacevano, e questo con mia sor- presa, avendo già da anni coll’ amico Prof. Vella ottenuto lo sviluppo degli embrioni dell’ Ascaride Megalocefala del cavallo, mercè 1’ incu- bazione semplice, ed anche nel pulmone dei cani previa 1’ iniezione nel loro sangue delle uova dell’ ascaride sciolte nell’ acqua. Riusciti vani i tentativi di incubazione artificiale delle uova, mi posi allora a cercare le uova nelle masse delle feci delle galline tolte dal pollajo, e se le feci erano essiccate la ricerca per metà soltanto riesciva for- tunata, giacchè non trovai che uova a diversi gradi di sviluppo fino a 240 G. B. ERCOLANI contenere gli embrioni completamente sviluppati ed anche sbocciati dall’ uovo della sola Ascaris inflexa; di quelle dell’Ascaris vescicularis, non ne trovai traccia, per cui era evidente che le condizioni in mezzo alle feci essiccate del pollajo, favorevoli per lo sviluppo delle uova di una specie, riuscivano interamente funeste per quelle della se- conda, come appunto mi era occorso per tutte ponendole sull’ umido terreno o nell’ acqua. È inutile che io qui esponga la lunga e noiosa serie di indagini che io dovetti istituire per ottenere con sicurezza e sopra larga scala lo sviluppo degli embrioni dalle uova delle due dette specie di ascaridi tolte dal corpo delle loro madri. Basterà il dire che non si ottiene il fine cercato se si trascura una condizione che è di lievissimo momento, ma che è indispensabile, di lasciare subire cioè alle feci che contengo- no le uova fuori del corpo, un periodo di asciugamento. Dopo questo ponendo le feci in terreno umido si ottiene con sicurezza lo sviluppo degli embrioni dalle uova. Prolungando l’ asciugamento fino ad essic- camento completo per molti giorni, ce ponendo le feci essiccate nel- l’ umido terreno si ha il vantaggio che si ottiene lo sviluppo solo degli embrioni dell’ascaride inflessa, come quando si adoprano feci di galline da tempo essiccate tolte dal pollajo, invece lasciando asciugare per alcuni giorni sull’ arido terreno le feci fresche e sottoponendole per tempo all’ azione dell’ umidità si ha lo sviluppo solo degli embrioni dell’ Ascaride vesciculare. I primi, quelli dell’ Ascaris inflexa, vivono rigogliosi e si riproducono come or ora dirò in mezzo alle feci di gal- lina miste a terra trovando nelle feci gli elementi necessari per la loro esistenza. I secondi, quelli cioè dell’ Ascaris vescicularis, vivono anche essi e rigogliosamente si riproducono nel solo terreno dal quale trag- gono gli elementi per la loro esistenza. Lo sviluppo, la vita e la riproduzione di queste due specie di nematodi, come avviene artificialmente entro opportuni recipienti in casa, avviene pure ugualmente nell’ aperta campagna, ed è questa fase di loro vita con riproduzione sotto forme microscopiche che era fino ad ora sfuggita ai più attenti osservatori e che vuolsi ora esaminare. SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 241 Dello sviluppo e della riproduzione del- I Ascaris inflexa e vescicularis nella fase di loro vita microscopica fuori del corpo delle Galline. Ricercando fra le feci essiccate di gallina tolte dal pollajo le uova dell’ Ascaris inflexa, ero costretto per fare la detta indagine, a sciogliere le feci nell’acqua, con questo mezzo ripetevo un’ osservazione già altra volta fatta sugli embrioni dello Strongylus Filaria tolti dal pulmone delle pecore, e cioè che lasciatili morire per essiccamento, potevo per più volte alternare negli stessi individui la vita colla morte aggiun- gendo solo dell’ acqua se erano essiccati o morti. Nel caso attuale la morte apparente negli embrioni era avvenuta col completo essiccamento delle feci e sciogliendo queste nell’ acqua .ed esaminandole al micro- scopio, vedevasi che gli embrioni si gonfiavano prima, e stavano per un certo tempo immobili, poi cominciavano a muovere lentamente il capo e poscia con una certa rapidità sì ponevano a guizzare e a con- torcersi. L’ umidità che riesciva letale alle uova tolte di fresco dal corpo delle madri era favorevolissima, dopo il subìto essiccamento, non solo alla vita degli embrioni, ma allo sviluppo completo delle uova che in mezzo a quelle si trovavano. Mescolate porzioni di feci tolte dal pollajo con terra e tenuto il miscuglio per molti giorni inumidito, dopo 5 o 6 giorni si trovavano già alla superficie del miscuglio embrioni che avevano compiuto il loro sviluppo. I primi ad osservarsi completamente sviluppati erano i maschi, poi le femmine con uova a diverso grado di sviluppo nell’ interno del loro corpo fino a contenere gli embrioni già sviluppati, e poscia nu- merosi individui adulti ed i figli di questi a tutti i diversi gradi di sviluppo, indizio sicuro della rapida e veramente straordinaria loro riproduzione. Lo stesso fatto si ottiene per l’ascaris vescicularis adoperando, come più sopra ho detto, le feci fresche di galline ed anche raccoglien- do gli strati superficiali della terra nei dintorni del pollajo. Se questa è naturalmente umida, a settentrione p. e. in vicinanza dell’ abbeve- ratojo, non è raro incontrare avvenire all’ aperto quello che per l’ altra specie di ascaride ottenni, mescolando in copia le feci essiccate colla terra, raccogliendo terra in -luoghi aridi e asciutti anche a non breve TOMO IV. 31 2492 G. B. ERCOLANI LI distanza dal pollajo, mi è occorso di ottenere in casa in appositi re- cipienti numerose e successive generazioni dell’ ascaris vescicularis allo stato microscopico usando la sola avvertenza di tenere il terreno per alcuni giorni continuamente umido. Le uova di questa specie di asca- ride che si disfanno in mezzo alle feci nel pollajo, che si essiccano, trovano invece le condizioni favorevoli al loro progressivo e completo sviluppo con riproduzione, se le uova sono sparse colle feci sulla terra. Quello che è veramente singolare si è che gli esilissimi e micro- scopici nematodi provenienti dalle uova delle ascaridi inflessa e vesci- culare conservano in questa seconda fase di vita libera, salve piccole differenze nelle parti genitali esterne dei maschi, i caratteri zoologici del genere e della specie alla quale appartengono i loro genitori vi- venti con forme macroscopiche allo stato di intestinali nell’ interno del corpo delle galline. Le analogie e la somiglianza delle forme esterne del corpo sono più spiccate e palesi nell’ ascaride vesciculare che tanto allo stato di intestinale, come sotto le forme microscopiche nella vita libera, presenta quella lunga e caratteristica terminazione acuminata della coda (Tav. I, figg 1e 2). Succede lo stesso per altri nematodi come p. e. l’ Ossiuride in- curvata del cavallo, che veduta ingrandita al microscopio nello stadio di sua vita libera, presenta le caratteristiche così chiare e precise della specie intestinale, che non permette alcun dubbio sulla Dimorfobiosi anche di questa specie di nematode. Non è così per altre specie spet- tanti ad altri generi, come p. e. al genere Strongylus: in alcuni di questi, come nello Strongilo armato, nello stadio di vita libera sotto forme microscopiche mancano i denti e gli aculei dei quali è fornita la bocca dei detti elminti nel periodo di loro vita come intestinali nel cieco e nel colon del cavallo, nè questo deve recare meraviglia, giacchè sono già molti anni che osservai e descrissi i mutamenti che avve- nivano nell’ armatura della bocca dello Strongilo armato allo stato di intestinale nelle sue prime fasi di vita giovanile nell’ intestino del ca- vallo. Ma tornando alle ascaridi delle galline, le differenze le più no- tevoli in tanta semplicità di parti fra gli individui microscopici che vivono la vita libera e quelli che vivono allo stato di intestinali, si osservano nel tubo digestivo e negli organi genitali interni delle fem- mine, ossia nell’ ovario o utero propriamente detto. Nelle microscopiche nello stadio di vita libera il tubo digerente è formato dalla bocca che mette ad una faringe musculosa molto robusta, questa ad un ventri- SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 243 glio pur esso musculare, poi viene lo stomaco, che per la sua ampiez- za soltanto si distingue dal seguente intestino formato da un canale uniforme che si restringe solo notevolmente in vicinanza dell’ ano; mentre nelle intestinali la faringe si continua col ventriglio a foggia di un imbuto o canale continuo con forti pareti musculari, che termina confondendosi collo stomaco. In quanto all’ ovario ho già notato che le ascaridi delle galline allo stato di intestinali sono ovipare, e che le uova non oltrepassano le prime fasi del loro sviluppo, mentre nelle fasi di loro vita libera sono ovo-vivipare, vedendosi nell’ interno del loro corpo le uova cogli embrioni completamente sviluppati (Tav. I. fig. 2). L’ovo-viviparità l ho riscontrata del resto costante in tutti i nematoelminti che ho osservati vivere un periodo di vita libera sotto forme microscopiche. Ecco in breve la descrizione dei caratteri delle due specie di ascaridi delle galline allo stato di vita libera. ASCARIS INFLEXA RupovpÙui. Tav. I. fig. 3 e 4. Nella fase di vita libera i maschi e le femmine hanno pressochè uguale la lunghezza del corpo di un mill. e 13 cent. di mill. le fem- mine (fig. 4) però sono alquanto più grosse dei maschi avendo un dia- metro trasversale al centro del loro corpo di 8 cent. di mill. non ar- rivando ai 6 quello dei maschi. La frase colla quale si designano dagli elmintologi i caratteri specifici dell’ Ascaris inflexa tolta dall’ in- testino delle galline, conviene agli individui della seconda generazione, I’ habitat e le misure della mole del corpo sono soltanto così straordi- nariamente mutate. La mole e la trasparenza del corpo permette un esame esatto delle forme dei loro visceri interni che si riassumono nell’ apparecchio digerente e generativo. La testa è munita delle tre papille caratteristiche del genere Ascaris in mezzo alle quali si trova la bocca. Dopo questa si possono distinguere le fauci seguite da una faringe allungata piriforme e musculosa che mette ad un corto e stretto eso- fago, poi un ventriglio musculoso, che mette subito in un ampio sto- maco membranoso e dopo questo un lungo intestino, di grossezza uniforme che si restringe in vicinanza dell’ ano. L’ apparecchio sessuale della femmina (fig. 4) è formato da un 244 G. B. ERCOLANI doppio tubo pieno di uova a diversi gradi di sviluppo, che ha un’ aper- tura di sbocco all’ esterno o vagina al disotto della metà del corpo. Quello del maschio (fig. 3) è formato pur esso da un doppio tubo o testicolo, da un doppio pene che sporge fra le ali caudali al disotto dell’ ano. Le diverse parti che costituiscono l’ apparato digestivo sì distin- guono più nettamente nelle Ascaridi di seconda generazione, di quello facciasi nelle Ascaridi inflesse dell’intestino delle galline, e le princi- pali differenze sono già state indicate più sopra. Una reale differenza si osserva nelle uova, quelle delle Ascaridi di seconda generazione sono lunghe 6 cent. di mill. ed hanno un dia- metro trasverso che supera appena i 3 cent. di mill., mentre quelle dell’ Ascaris inflexa nell’ intestino delle galline sono lunghe 8 cent. di mill. con un diametro poco meno di 5 cent. di mill. Queste si ar- restano come già dissi ad un grado determinato di sviluppo (Tav. I. fig. 5) mentre nelle prime si seguono le diverse fasi dell’ uovo fino a completo sviluppo dell’ embrione (fig. 4). Nel terreno ove mi si riproducevano le dette specie di ascaride oltre ad uova e piccoli embrioni si trovavano molti individui lunghi da 23 a 39 cent. di mill. nei quali le parti dell’ apparecchio genera- tivo interno non si erano per anche sviluppate. In questi individui, tenevano il posto delle ovaje e dei testicoli numerose granulazioni oscure che avvolgevano tutto attorno l’ intestino. Nelle galline trovai una sol volta una femmina di Ascaris inflexa giovanissima, lunga 35 millimetri e grossa 80 cent. di mill. che cor- risponde al terzo della lunghezza ordinaria dei detti vermi, nella quale le uova cominciavano appena a formarsi. ASCARIS VESCICULARIS FrozLica. Tav. I. fig. 1 e 2. I caratteri esterni anche di questa specie vivente allo stato libero, non differiscono notevolmente da quelli degli individui che vivono allo stato di intestinali nei ciechi delle galline, se non per l’ esigua mole del loro corpo. La terminazione assottigliata del corpo negli uni e negli altri offre una analogia di forma così spiccata che il più piccolo equivoco non è possibile. Come negli individui che vivono allo stato di vermi intestinali, così anche nei microscopici che vivono la vita libera, i maschi sono SULLA DIMORFOBIOS1 ECC. 245 molto più piccoli delle femmine, queste sono lunghe compresa l’ esile e lunga coda un millimetro e mezzo, e grosse cinque centesimi di millimetro, mentre i maschi sono lunghi 70 cent. di mill. e grossi tre. La struttura interna dell’ apparecchio digestivo e dell’ apparato generativo, confrontata che sia con quella dell’ascaris inflexa vivente la vita libera, non presenta che lievi differenze, per le quali può ba- stare il semplice confronto delle figure che ho riportato nella Tav. I. La mole esigua del corpo dei maschi lascia meno bene distin- guere che nella specie precedente le ali caudali, che per giunta sono rudimentarie in questa specie: è questa la maggior differenza che si possa notare, salva ben inteso la mole del corpo, confrontando i ma- schi di questo nematode nelle fasi di vita libera, con quelli che vi- vono nello stato di intestinali. Oltre all’ essere le femmine che vivono la vita libera ovo-vivipare, mentre le intestinali sono ovipare come la specie precedente, la mole delle uova delle prime è molto più piccola di quella delle seconde; queste sono lunghe 7 cent. di mill. e misurano nel diametro trasver- sale 4 cent. di mill. (Tav. I. fig. 6); mentre quelle degli individui che vivono la vita libera sono lunghe 4 cent. di mill. e grosse due. Tanto in questa come nella precedente specie, e così anche nei nematoelminti del Cavallo, che ho osservati viventi la vita libera, ho con una certa frequenza osservato negli individui giovani e nel periodo dell’ accrescimento del loro corpo un fatto che indica come una muta della pelle. In questo stato i piccoli nematodi appariscono come con- tenuti in un astuccio rigido e trasparentissimo, che è formato dall’ anti- co invoglio cutaneo. Ho osservato questo fatto in nematoelminti di diversa mole ma sempre ancora agami. Ora se questo valga a significare che ogni indi- viduo giovane subisca più mute della pelle, o invece che la muta si faccia una sol volta e a diverso periodo di sviluppo nelle stesse specie, io non potrei con sicurezza affermare. Saranno già corsi oltre trenta anni, quando con una certa assiduità mi ero dato alla ricerca dei vermi intestinali, che mi occorse di fare due osservazioni che hanno riscontro con quelle che oggi vi ho esposte. Vidi cioè nascere i piccoli dalle uova dell’ Ascaris nigrovenosa e dello Strongylus auricularis che vivono la prima nel pulmone e la seconda nell’ intestino delle rane, quando i detti vermi si ponevano e si la- sciavano morire nell’ acqua, il corpo delle madri si disfaceva per pu- 246 G. B. ERCOLANI trefazione, mentre le uova contenute nel corpo delle femmine comple- tavano il loro sviluppo ed i piccoli nati seguitavano a vivere per più giorni, senza diventare adulti e fecondi. Credetti che permanessero nello stadio di vita embrionale. Pubblicai questa osservazione nel 1859 nel mio lavoro , Dei Parasiti e dei morbi parasitari degli animali dome- stici, Bologna 1859, pag. 279 .; e citai quelle fatte sullo Strongilo, perchè per oltre a 30 giorni senza alcuna cura tenni vivi i piccoli nati nell’ acqua senza che completassero il loro sviluppo. Io non ri- cordo ora codeste osservazioni per reclamare una ingiusta priorità sopra un’ osservazione più completa che nel 1865 fu fatta dal Leukart sull’ Ascaris nigrovenosa, che ottenne la riproduzione in vita libera del detto nematoelminto, ma perchè per le odierne osservazioni quelle da me fatte in antico e sull’ Ascaris nigrovenosa e sullo Strongylus auricularis, che non furono per anche da altri ricordate, conservano non solo anche dopo tanti anni il pregio della novità, ma acquistano una certa importanza dopo la più completa osservazione del Leukart. Tutti sono concordi oggi nell’ affermare che 1’ osservazione del Leukart sull’Ascaris nigrovenosa sia unica ed isolata negli Annali della Scienza Biologica, perchè non riferibile nè alla metamorfosi, nè alla metagenesi, ma da quanto ho già avuto l’ onore di esporre, il fatto al quale ho dato il nome di Bimorfobiosi, che comprende l’ osservazione del Leukart, si osserva invece in larga scala sopra diversi generi di Nematoidei. L'osservazione quindi dell’ illustre elmintologo alemanno merita di essere conosciuta nei suoi particolari, perchè dovrò porla a raffronto colle mie antiche e colle nuove osservazioni che ho fatte in proposito. A me non spetta risolvere la quistione se la scoperta del nasci- mento di nematodi microscopici, sessuati e fecondi allo stato libero, dalle uova dell’ Ascaris nigrovenosa e giudicati Rabditi, spetti al Meczikow come egli pretende (1) o sia esclusivamente dovuta al Leu- kart, certo si è che generalmente viene attribuita a questo illustre elmintologo e che lo Schneider (2) parmi non a torto reclama per sè un qualche merito per una tale scoperta, il Leukart ed il Meczikow (1) Reichert und Dubois Archiv. 1865. s. 409. (2) Monographie der Nematoden. Berlin 1866. s. 151. SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 347 essendo riusciti ad osservare il fatto adoperando il metodo da lui in- segnato per ottenere i nematodi che egli riferì ai generi Pelodera e Leptodera. Per fare codesta osservazione si pongono le ascaridi nigro- venose tolte dal pulmone in un poco di sangue di rana in un vetro da orologio evitandone l’ essiccamento. Il sangue si altera e dopo tre o quattro giorni si veggono nati i piccoli nematodi e sessuati. L’esperi- mento riesce meglio nell'inverno. Le femmine nate portano poche uova, quattro secondo Schneider, due soltanto secondo Leukart. Un’ osservazione che io credo interessante fu fatta dallo Schneider e cioè che dopo la prima, non si hanno con questo mezzo ulteriori genera- zioni. Comunque sia, portato il detto sangue coi piccoli nematodi avuti dalla generazione vissuta liberamente, e che essenzialmente differiscono dalle madri, nello stomaco delle rane, pochi di questi soltanto si por- tano nei pulmoni per trasformarsi in Ascaridi nigrovenose ed in due settimane arrivano già alla mole di 3,5 mm. 7 Come ognuno sa le specie tutte di questo elminto appartengono al sesso femminino e secondo alcuni per partogenesi depongono uova feconde per riprodursi; secondo le osservazioni di Schneider invece la specie dell’ascaride in discorso sarebbe ermafrodita (1) per avere nel- l'interno del suo corpo scoperte e le uova e le cellule spermatiche. Nella scorsa estate per più e più volte ritentai il mio esperimento, ponendo le Ascaridi nigrovenose nell’ acqua, e mantenni in vita per oltre a 20 giorni i piccoli nati nell’ acqua, ma se nel frattanto si ac- crebbero di mole arrivando alla lunghezza di un millim. e 20 cent. di mill. e grossi quasi 3 cent. di mill., non mi fu mai dato una sol volta di vederne alcuno che avesse toccato il suo completo sviluppo e molto meno di vederne la riproduzione. L’ antica mia osservazione, ripetuta e confermata oggi ha il van- taggio di dimostrare quanta sia l’ influenza che le circostanze ambienti hanno sullo sviluppo e sulla fecondità dei nematoelminti nel periodo di loro vita libera. Portati nello stomaco delle rane i numerosi individui agami, che io avevo ottenuto ponendo le Ascaridi nigrovenose nell’ acqua, non mi fu dato una sol volta di ottenere la trasformazione di questi in ascaridi nel pulmone delle rane esperimentate. Ma questi fatti hanno (1) Op. cit. pag. 320. 248 G. B. ERCOLANI bisogno di maggiori schiarimenti e questi verranno più avanti. Per ora non sarà inutile che io qui ricordi come i tentativi per la tra- smissione diretta per mezzo di uova delle Ascaridi Megalocefale del cavallo e Lombricoidi dell’uomo non portassero alcun risultato negli esperimenti eseguiti dal Leukart. Sono già molti anni che io spinsi più avanti codesto esperimento. Mercè la covatura artificiale ottenni lo sviluppo completo degli embrioni nelle uova dell’ Ascaris megaloce- phala del cavallo e vedendo che gli embrioni non escivano dall’ uovo e dopo pochi giorni vi morivano entro subendo una degenerazione adiposa, somministrai migliaja e migliaja di dette uova, appena gli embrioni si erano sviluppati e si muovevano vivacemente entro l’ uovo, ad un cavallo. L’ esperimento non ebbe alcun risultato, e se allora l’ insuccesso pareva non avesse alcuna importanza, ora che ho citati altri fatti analoghi, merita parmi di essere ricordato. Uguali insuccessi toccarono all’ Hering (1) nei numerosi esperimenti fatti coll’ Ascaride marginata dei cani. Questo mio illustre ed antico amico trovò però nell’ intestino di cagnolini lattanti, uova mature ed individui giovanis- simi della predetta specie di ascaride che non avevano per anche svi- luppati gli organi generativi interni, per cui fuori di ogni dubbio le uova mature non potevano provenire da loro. Credette egli per questo che le uova mature fossero portate nell’ intestino dei cagnolini coi lec- camenti delle madri, come coi peli leccando il proprio corpo le por- tano nel loro interno gli individui adulti. Ho già notato come un pe- riodo di essiccamento fosse necessario per ottenere dalle uova delle Ascaridi inflessa e vesciculare lo sviluppo degli embrioni e degli indi- vidui rappresentanti le dette Ascaridi nel periodo di vita libera. Se I Ascaride marginata del cane non fosse sottoposta alla Dimorfobiosi, forse che la trascuranza di questa semplicissima avvertenza potrebbe dar ragione degli insuccessi ottenuti coll’ esperimento diretto, e del successo invece che otterrebbero le madri e gli adulti col trasporto ugualmente diretto delle uova dei vermi nell’ intestino dopo che per un certo tempo stettero e si essiccarono sui peli del corpo delle madri? I felici risultamenti però avuti dal Leukart cogli individui fecondi dell’Ascaris nigrovenosa, mi rendevano quasi sicuro che dalle Ascaridi (1) Beitrage zur Entwicklungsgeschichte einiger Eingeweide-Wurmer. Stuttgart. 1373. SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 249 inflessa e vesciculare straordinariamente feconde che io allevavo artifi- cialmente in copia stragrande nello stadio di loro vita libera, io avrei ottenuto portandoli nell’ intestino delle galline, le dette ascaridi nel loro stadio di vita di vermi intestinali, e mi proponevo di osservare se erano gli individui già fatti adulti nella vita libera che diventavano intestinali, e come da ovo-vivipare le femmine diventavano ovipare, o se invece era dalle uova di queste o dagli embrioni, che trovandosi in condizioni così diverse, avevano origine le ascaridi intestinali. Per studiare codesti fatti spargevo cibo gradito a puleini sulla terra raccolta in diversi piatti nella quale si riproducevano separatamente le due specie di Ascaridi nella loro fase di vita libera. Dopo alcuni giorni uccisi due pulcini che su quei piatti avevano più volte pascolato, non trovai traccia di ascaridi nel loro corpo, e per escludere ogni dubbio ed avere la certezza dell’ insuccesso, mi assicuravo col microscopio di avere raccol- to su di un vetro, numerose delle minime ascaridi che si riproducevano nella terra e a tutti i gradi di sviluppo, aggiungevo allora un poco di farina e fatto un bolo lo somministravo subito ai pulcini. Ripetuto più volte ogni giorno l’ esperimento uccisi dopo 3 giorni due pulcini di pochi giorni così esperimentati e dopo due ore da che loro avevo ammanito come ho detto il pasto. Ero certo così di avere ad ognuno di loro somministrate parecchie centinaja delle minime ascaridi in tutte le diverse fasi del loro graduale sviluppo, ma trovai che i pulcini avevano completamente digerito tutti i parasiti somministrati e non trovai nemmeno traccia di quelli che due ore prima avevo sommi- strato. La soluzione del problema, che mi aveva dato fin qui così belle speranze, mi sfuggiva di mano nel momento che credevo di averla raggiunta. “Le cose fin quì dette e dimostranti la Dimorfobiosi molto estesa nei Nematoelminti, se autorizzano a non riguardare più l’ osservazione del Leukart come un fatto unico ed isolato in natura, dimostrano però alcune differenze nella Dimorfobiosi stessa che debbono essere notate. La più importante parmi quella relativa alla vita unisessuata femminea, o se vuolsi, costantemente ermafrodita dei vermi allo stato di intestinali conosciuta come ho già detto dell’ ascaride nigrovenosa, dalla quale hanno origine i nematoelminti con sessi distinti viventi la vita libera, che il Leukart credette Rahbditi, mentre nei fatti da me osservati nelle ascaridi delle galline, i sessi sono separati e distinti, tanto nei nematodi allo stato di vita libera, come in quello di vermi TOMO 1V. 32 250 G. B. ERCOLANI intestinali, in breve nelle mie osservazioni la dimorfobiosi sarebbe più completa e perfetta. Assai più notevole ed importante sarebbe la differenza fra le mie osservazioni ed il fatto osservato dal Leukart per questo, che egli se- guitò il completo ciclo della vita nell’ Ascaride nigrovenosa, che io non potei seguire nelle due ascaridi delle galline. La separazione fra la vita dei padri e quella dei figli, ossia la Dimorfobiosi, sarebbe nei casi da me osservati veramente perfetta. Ma codesta importantissima differenza potrebbe forse essere apparente e non reale. Ho già indicato che ottenni individui agami dall’ uova delle Ascaridi nigrovenose e da quelle dello Strongilo auricolare, e più avanti dirò come osservassi nell’ interno di alcuni insetti, in alcune piante corrotte e nella canepa affetta da cal- zone, dei nematoelminti in uno stadio di assoluta infecondità ed anche di completa agamia, i quali tornavano fecondi col mutare le loro con- dizioni esterne e la loro alimentazione. Ora se lo stato di infecondità o di agamia pel quale passano in date circostanze i nematoelminti nello stadio di loro vita libera, fosse una condizione necessaria per diventare intestinali, la differenza fra i successi ottenuti dal Leukart e gli insuc- cessi da me avuti, sarebbe come ho detto apparente e non reale. Lo Schneider osservò che le Ascaridi nigrovenose allevate nel sangue delle rane non si riproducevano dopo la seconda generazione, ora se le ultime nate siano infeconde soltanto o agame non è stato detto, ma solo si afferma che non si riproducono ed è questo stato di imperfetto sviluppo al quale le ascaridi nigrovenose nelle fasi di vita libera sarebbero state condotte per le eccezionali condizioni nelle quali sarebbero state poste, e cioè nel sangue, che equivarebbe a quel pe- riodo di sviluppo incompleto che per altre ragioni osservai in altre specie di nematodi. Ad ogni modo le mie antiche osservazioni sulle ascaridi nigrovenose e sugli strongili auricolari che restano agami al- levati che siano nell’ acqua, e non tornano introdotte in questo stato nel corpo delle rane ascaridi nigrovenose, completando le osservazioni di Leukart dimostrano pure, che la vita libera completa con riprodu- zione, ossia la dimorfobiosi completa, è una necessità per avere sotto forme diverse la esistenza di uno stesso essere. Ma le considerazioni ora esposte riceveranno una maggiore esplicazione dalle seguenti osservazioni. I polli adulti che avevo esaminati e che mi avevano invogliato a queste ricerche, avevano dai due ai tre mesi di età, ed albergavano tutti in media dai sei ai dodici individui delle due dette specie di SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 251 ascaridi; il terreno che essi percorrevano non era molto esteso, e se i piccoli nati dalle uova delle ascaridi inflesse che avevo trovati in tanta copia e nelle feci del pollajo e quelli dell’ Ascaris vescicularis riproducentesi nel terreno dai polli percorso, non sì sviluppavano nel- l’ intestino delle galline, come l’ osservazione diretta mi aveva dimo- strato, non per questo però l’ occasione incognita favorevole al loro sviluppo allo stato di intestinali, doveva trovarsi con una certa fre- quenza, se tutti i polli come ho detto del luogo e giovanissimi, ne albergavano un certo numero. Mi posi alla ricerca di questa occasione e sospettai si dovesse trovare in un momento transitorio, che le uova o gli embrioni delle ascaridi nello stadio di vita libera e sotto forme microscopiche, doves- sero passare nell’ intestino di un qualche insetto, per essere con questi portati nell’ intestino delle galline, acquistando così 1’ attitudine allo sviluppo e alla vita di ascaridi intestinali. Fui condotto a questo so- spetto dalle osservazioni di Leukart, confermate poscia dal Prof. Pietro Marchi (1) sullo sviluppo della Spiroptera obtusa Rud. mercè le quali restò dimostrato che le uova della detta Spiroptera emesse colle feci dai topi, sono mangiate colla farina dalle larve del Tenebrio molitor, nel corpo del quale restano incistidati per un tempo indeterminato gli embrioni nati dalle dette uova di Spiroptera, finchè le larve del Te- nebrio molitor che le albergano, sono a loro volta mangiate dai topi, nello stomaco dei quali gli embrioni completano il loro sviluppo: mi posi per questo con ogni cura a ricercare nel corpo e nelle viscere di diversi insetti coleopteri che trovai nel prato, ma senza alcun risultato. Fino dai miei primi anni giovanili avevo trovato nella stagione estiva con molta frequenza una specie di nematoelminto agamo che vive spesso gregario nella tromba o succhiatojo delle mosche, e naturalmente corsi subito colla mente a questa mia antica osservazione, che pure essa è rimasta una novità non avendone mai sentito far parola da altri, e mentre a Bologna nel mio laboratorio nello scorso estate confermavo con molta facilità la detta osservazione, in villa non mi fu dato di trovare mosche che albergassero i parasiti nel loro succhiatojo. Nè solo per questa mancanza, non tentai esperimenti diretti di trasmis- (1) Monografia sulla storia genetica e sulla Anatomia della Spiroptera obtu- sa Rud. Torino 1867. 2952 G. B. ERCOLANI sione alle galline, ma perchè attentamente osservando i nematoelminti delle mosche, m’ accorsi che non presentavano alcun carattere da lasciar credere che fossero solo vicini al genere Ascaris. Sono essi lunghi alcun poco più di due millim., hanno il corpo attenuato posteriormente, misurando anteriormente nel loro diametro trasversale 7 cent. di mill. e tre soltanto verso la coda. Hanno la bocca ampia e rotonda munita di sei denti o esili papille. L’ ano si apre in vicinanza (10 cent. di mill.) dalla coda. Il mio assistente Pietro Piana pose alcuni dei detti nematoelminti nella terra umida senza averne alcun risultato. Seguitando quest’ ordine di ricerche, ebbi speranza di riuscita tro- vando nell’ intestino di un Julus terrestris numerosi nematoelminti agami, che somministrai mescolati alla farina ad un pulcino, ma co- desto esperimento restò pure senza alcun risultato. Rivolsi allora le mie indagini alle piante, ed in queste special mente nell’ interno del fusto di alcune erbe alterate trovai alcune volte dei piccoli nematoelminti agami, e questo con maggiore frequenza nella cuscuta e nell’ orobanca, ma la ricerca di questi minimi esseri nelle piante alterate e corrotte, necessariamente affidata al caso, riesciva non solo oltremodo lunga e nojosa, ma quando era fortunata, se acquistavo la sicura conoscenza dal fatto, questo pel fine che mi proponevo cima- neva sterile, perchè non poteva prestarsi ad esperimenti diretti di tra- smissione che offrissero una qualche sicurezza nei loro risultamenti, non potendo avere io la sicurezza di avere portato la mano sopra esseri che sono impercettibili anche coll’ occhio armato di una buona lente. Una sol volta in un gambo fracido di una pianta di mellone, trovai numerosi nematoelminti agami, pel numero loro l’ esperimento mi parve probabile e lo tentai. Scelsi una pollastra che da 15 giorni era stata posta nella stia e le somministrai un bolo di farina colla quale avevo impastato una parte del detto fusto. L’ uccisi dopo 3 giorni ed esaminati gl’ intestini trovai sette individui adulti dell’ ascaride inflessa e quattro ascaridi vesciculari adulte in un cieco, ma ciò che più monta trovai nella prima porzione dell’ intestino oltre a 30 ascaridi inflesse giovani mancanti le femmine di uova nell’ ovario e lunghe presso chè tutte ugualmente dai 30 ai 33 millimetri. Il loro numero, la mole del corpo pressochè uguale in tutte, l'avere una sol volta trovato una delle dette ascaridi giovani e piccola come le predette nell’ intestino delle numerose pollastre che esaminai, l'essere stata sottratta la gallina, per la vita nella stia, all’ occasione SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 253 di portare nel suo interno gli embrioni nei modi ordinari, tutto in breve lascierebbe credere riuscito l’ esperimento, ma perchè unico, io non lo posso e non lo debbo affermare, e non l’ affermo anche perchè, sebbene tutti gli elmintologi siano concordi nell’ affermare che l’accre- scimento degli embrioni dei nematodi sia rapidissimo, entrati che siano nel corpo degli animali destinati ad albergarli, e desumano questa grande rapidità di accrescimento più che dall’ osservazione diretta, dal fatto che individui piccolissimi delle grandi specie di ascaridi, sono rarità zoologiche, pure io confesso che davanti al fatto che vi ho espo- sto, e convinto del rapido accrescimento dei nematodi, pure nel caso nostro l’ accrescimento sarebbe stato così spaventosamente rapido, che davanti al fatto, la mente si ferma e vuole dimostrazioni più esatte e sicure. Le indagini dirette a ricercare i nematoelminti agami delle piante, se non riuscirono al fine pel quale le avevo intraprese, valsero però a svelarmi una serie di fatti che hanno un qualche interesse anche dal lato agronomico, perchè cancellano un errore universalmente inse- gnato dagli Agronomi intorno alle cause produttrici la malattia assai comune della Canepa, nota col nome di Calzone o volgarmente di Scalfarotto, ma ciò che più monta servono a dimostrare che la Dimor- fobiosi nei Nematoelminti si osserva estesamente in natura, Quando cominciai le mie indagini sui nematoelminti che si tro- vano nei fusti della Canepa affetta da calzone, la stagione era di già avanzata, e la pianta matura era stata in gran parte tolta dal suolo per prepararla pel commercio, fui per questo costretto a seguitare le ricerche nei fusti della canepa con calzone che sono lasciati nel campo per averne la semente. Il più degli agronomi insegnano che le cause della malattia Cal- zone della Canepa sono gli acquazzoni che cadono, quando la pianta è tenera, le grosse goccie d’acqua e pel loro peso e per la forza colla quale battono il suolo, sollevano dicono essi la terra che si at- tacca per questo allo stelo della pianticella e ne cagiona così la ma- lattia. I più riguardosi descrivono la forma esterna della malattia ed i danni che arreca, ma tacciono sulla causa e sulla natura del male. Ora dalle mie indagini risulta che la malattia è prodotta da più specie di Nematoelminti microscopici che ripetono i fatti di Dimorfo- biosi che ho descritti nelle ascaridi inflessa e vesciculare delle galline nello stadio di loro vita libera. 254 G. B. ERCOLANI La ricerca di quelli che infestano la canepa riesce molto facile sia pel numero loro che è stragrande, sia perchè scorzando la pianta e ponendo la scorza ed il fusto in due bicchieri d’acqua, i vermi, pel proprio peso cadono al fondo e si hanno così distinti fra di loro quelli che abitano le due parti della pianta malata. I numerosi vermi, che nel detto modo facilmente si raccolgono, appartengono a tre specie distinte; quale sia il nematode intestinale che esse rappresentano è inu- tile ora sospettare e solo l’ osservazione diretta potrà un giorno dimo- strarlo. Le dette specie vivono come ho detto gregarie nell’ interno del fusto della canepa ed anche in mezzo alla parte tigliosa della pianta, con questa differenza che gl’ individui che vivono nella parte tigliosa o esterna sono tutti completamente agami, e se per la mole del loro corpo, e pel fatto che alcuni muojono presto nell’ acqua ed altri durano a mostrarsi vivi dopo 24 ore di immersione nell’ acqua, sì possa sospettare che appartengano a più specie, pure la certezza di questo si acquista meglio studiando gli individui che si trovano nel- l’ interno fra il midollo della pianta. In questa località si trovano, ol- tre un infinito numero di piccoli embrioni agami come i precedenti, numerosi individui sessuati di mole e forme esteriori diverse, che pre- sentano però il fatto singolare di avere sviluppati all’ esterno i segni caratteristici dei sessi, pene e vagina, mentre nell’ interno del corpo tengono il posto dei testicoli e dell’ ovario ed utero delle numerose granulazioni grassose (Tav. II. fig. 1, 2, 5 e 6 lett. 7). È notevole questo arresto di sviluppo nell’ apparecchio generativo interno ed in gran parte ancora dell’ apparecchio digerente, perchè nel midollo della ca- nepa nella quale si trovano, si riscontra ancora un infinito numero di uova di forma e di mole diversa, nelle quali si riscontrano tutte le diverse fasi di sviluppo per le quali passano per formare l’ embrione che in molte si scorge formato e vivace entro le uova stesse. Ora le dette uova non potendo essere state emesse dai nematoelminti sessuati all’ esterno, ma con arresto di sviluppo negli organi genitali interni e per questo necessariamente infecondi, è giuocoforza concludere che i padri degli individui e delle uova che io osservavo nella canepa nel mese di Agosto, vissero anteriormente una vita estremamente feconda benchè di loro non restasse più alcuna traccia. A stagione opportuna io mi propongo di studiare codesto fatto che parmi interessante perchè forse collega le condizioni diversissime della vita nei detti animali, colle condizioni diverse nelle quali si trova la pianta nelle fasi del suo sviluppo. SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 255 Se la pianta di canepa malata che io esaminavo era stata ta- gliata di fresco i nematoelminti erano tutti viventi, se i fusti invece erano stati tagliati da tempo e per questo essiccati, tutti i vermi an- cora lo erano pure e stavano così raggrinzati in uno stato di morte apparente, ma immergendoli nell’ acqua a seconda della mole del loro corpo e del grado di essiccamento patito dopo dieci o trenta minuti tornavano tutti in vita. Ho ripetuto questo esperimento alla fine del mese di Dicembre con uguale risultato. Cercai di ottenere il completo sviluppo e la riproduzione delle tre specie di nematoelminti sopraindicate e l’ esperimento riescì per due soltanto, i mezzi tentati non furono pochi e verrò or ora indi- cando quelli che riuscirono. Darò una denominazione alle singole specie col solo scopo di distinguerle fra loro, non cerco di riferirle a generi già stabiliti dagli elmintologi, perchè come dirò più avanti, credo che i detti generi deb- bano essere cancellati dalla Zoologia metodica. 1.* Specie che per la forma del corpo chiamerò allungata (Tav. II. fig. 1 e 2}. È questa fra le tre specie quella che ha la mole del corpo maggiore e che trovasi in maggior copia. La bocca è circondata da tre papille nettamente distinte come hanno le Ascaridi. Gli individui adulti sono lunghi da un millimetro ad uno e mezzo, la parte ante- riore del corpo è più attenuata della posteriore, il diametro trasverso del corpo anteriormente è di 2 cent. di mill. alla metà del corpo tre e tale mantiensi fino al disopra del pene nei maschi (Tav. II. fig. 1, lett. x) o della vulva nelle femmine (Tav. II. fig. 2, lett. i). La termi- nazione della coda acuta nei maschi è ottusa nelle femmine. Quasi tutti gl individui erano completamente agami ed avevano il corpo ri- pieno da numerose granulazioni grassose (fig. 1 e 2, lett. 4). Nella parte anteriore la faringe, l’esofago e lo stomaco erano solo apparenti, benchè all’ estremità del corpo si riscontrasse 1’ apertura dell’ ano (lett. g). Pochissimi furono gli individui nei quali le parti genitali esterne erano apparenti, non presentavano altra differenza confrontati che fos- sero cogli agami che per la presenza del pene nei maschi (Tav. II. fig. 1, lett. n) sporgente da un labbro alquanto tumido, e della vagina nelle femmine (Tav. II. fig. 2, lett. <) che si apre verso la termina- zione del corpo, ma alquanto al dissopra dell’ ano. Nel midollo della canepa numerose erano le uova e gli embrioni già sbocciati dall’ uovo di questa specie, i di cui individui adulti erano 256 G. B. ERCOLANI tutti come ho detto agami od infecondi. Le uova a tutti i diversi gradi di sviluppo avevano figura molto allungata misurando otto cent. di mill. nel loro diametro longitudinale e tre soltanto nel trasversale. Gli embrioni molto sottili toccavano quasi un mezzo millimetro in lunghezza. Questa specie dopo l’ essiccamento rivive coll’ immersione nell’acqua e se vivente dura come nel primo caso a vivere per alcune ore poi per plettora acquosa si distende completamente, resta immobile senza dare alcun segno di vita. Ne conservai in vita alcuni individui, sol- tanto per alcuni giorni conservandoli nel midollo di canepa tenuto umido. Nella terra umida mescolata con feci di gallina gli individui adulti ben presto morirono, dalle uova invece sbocciarono tutti gli embrioni, si tennero per qualche tempo vivaci ma poco dopo morirono. 2.° Specie a coda acuminata (Tav. II fig. 3 il maschio, fig. 4 la femmina). Questa specie si mantiene vivace anche dopo due giorni, immersa che sia nell’ acqua, senza però progredire menomamente nello sviluppo. Rarissimi sono i maschi infecondi nell’ interno della pianta, le femmine molto numerose sono tutte agame, senza segno esterno cioè del luogo ove si apre la vagina, come senza traccia esterna del pene sono anche tutti i maschi che si trovano sotto la scorza della canepa. In questo stato tanto i maschi infecondi, come le femmine agame hanno uguale lunghezza, mezzo millimetro, e non toccano nel loro diametro trasverso i due centesimi di millimetro. Posti nel terreno umido col midollo della canepa in mezzo al quale si trovano, la mole del loro corpo aumenta e completano in poco meno di tre giorni lo sviluppo degli apparecchi digestivo e della generazione, deponendo uova numerose, al sesto giorno in molte di queste si scorge già l'embrione a completo sviluppo, ma le condizioni mancano per una continuata riproduzione, e non le trovano in diverse prove che tentai mutando il materiale azotato che aggiungevo al mi- dollo della canepa tenuto sull’ umido terreno. Questa infecondità dirò così secondaria parmi che abbia un qualche riscontro colla infecondità pure secondaria notata dallo Schneider nelle ascaridi nigrovenose alle- vate nel sangue delle rane. La prima traccia del progressivo sviluppo nel corpo delle fem- mine che diverranno feconde, si manifesta per rendersi facilmente vi» sibile al secondo giorno, 1’ apertura esterna della vagina circondata da un bordo rilevato che sporge dalla linea che demarca il corpo del- SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 257 l’animale. L’ apparecchio digerente si completa prima del generativo interno. Giunti che siano i vermi a completo sviluppo, si nota che le pa- pille che circondano la bocca (fig. 3 e 4, lett. a a) si continuano col corpo che è può dirsi ugualmente attenuato, quello della femmina però (fig. 4) termina con una coda lunga e molto acuminata. Nelle femmine la mole del corpo è aumentata quasi del doppio essendo lunghe quasi un millimetro (96 cent. di mill.) e nel diametro maggiore trasversale del loro corpo verso il terzo inferiore dove si apre la vagina (lett. ;) mi- surano quattro cent. di mill. L’ ano si apre all’ estremità del corpo e alla base della coda (lett. 9). I maschi (Tav. II. fig. 3) a completo sviluppu sono più corti e sottili delle femmine, lunghi 73 cent. di mill. e grossi tre. L’ ano si apre in mezzo ad un lieve rigonfiamento (lett. g) in vicinanza all’ ori- gine della coda, che è cortissima in confronto di quella della femmina come uncinata. Subito al disotto dell’ ano sporge l’ apice del doppio e corto pene lievemente curvo. Nessuna traccia di ala caudale. Il tubo digerente e l’ apparecchio generativo interno non presen- tano differenze confrontate che siano con quelle delle ascaridi inflessa e vesciculare nello stato di loro vita libera. 3.* Specie a coda aculeata (Tav. II. fig. 5e 6) allo stato infecondo, (fig. 7 e 8) a completo sviluppo. Anche questa specie si mantiene oltre a 30 ore vivace immersa che sia nell’acqua senza però progredire nello sviluppo. La trovai molto copiosa nel midollo dei fusti di canepa malata; a differenza delle precedenti specie in questa i sessi erano nettamente distinti all’ esterno in tutti gli individui adulti, ma inetti alla riprodu- zione per l’ arresto di sviluppo nelle parti genitali interne; ho chiamati come già dissi infecondi i vermi che si trovano in questo stato per distinguerli da quelli che sono completamente agami: il loro corpo (fig. 5 e 6) è interamente diafano, vi si distingue nell’ interno la faringe, l’ esofago e lo stomaco, l’ intestino è rappresentato da una linea ondu- lata oscura. La vulva nelle femmine ed il duplice pene nei maschi sono manifestamente visibili all’ esterno, ma in luogo delle ovaje e dell’ utero e dei testicoli si veggono nell’ interno del corpo delle fine e rade granulazioni grassose. In questo stato le femmine sono di poco più lunghe (4 cent. di mill.) dei maschi che di poco oltrepassano il mezzo millimetro, ma la grossezza del corpo 3 cent. di mill. nelle femmine è quasi il doppio di quella che hanno i maschi. TOMO IV. 33 258 G. B. ERCOLANI Ponendo questa specie del midollo del fusto della canepa, con mosche peste sul terreno umido, ottenni in soli due giorni il conipleto sviluppo delle parti genitali interne, un aumento nella mole del loro corpo, e la completa loro riproduzione durante il periodo di più giorni. I mutamenti che subiscono alimentati che siano nel modo che ho indicato si rilevano confrontando la fig. 5 e 6 colla 7 ed 8. Le differenze le più notevoli riguardano la mole del corpo, i maschi essendo dive- nuti lunghi 72 cent. di mill. e grossi poco più di tre, e le femmine misurando in lunghezza quasi un millimetro (93 cent. di mill.) e grosse dove si apre la vagina un poco più di 4 cent. di mill. Svi- luppato nei due sessi l'ampio intestino, e le parti genitali interne co- me meglio lo attesta nelle femmine la presenza delle uova nell’ utero. Le uova sono lunghe 5 cent. di mill. e grosse quasi tre. Il completo sviluppo delle uova e la formazione dell’ embrione entro queste, av- viene fuori del corpo delle madri e sparse nel terreno ove si trovano, al quarto giorno si rinvengono già uova a tutti i gradi di sviluppo ed embrioni nati in grandissimo numero. Le forme esteriori del corpo sono più nettamente distinte nei vermi a completo sviluppo, ma non mutano sensibilmente da quelle che hanno allo stato infecondo. Se non tutti, forse alcuni, e certo poi alcune specie congeneri degli animali che ho descritto, erano conosciuti dai Zoologi, e fino dal 1856 il Dott. Schneider (1) comunicò all’ Accademia di Berlino, che mescolando un poco di carne, di sangue o di latte con terra e man- tenendo il miscuglio umido si sviluppavano in questa dei piccoli Ne- matodi, molti dei quali poi descrisse riferendoli al genere Leptodera di Dujardin, per altri formando un nuovo genere che chiamò Pelodera. Le diverse qualità di terra di giardino e di campo, o di melma da lui adoperate per tali ricerche, come pure diverse qualità di legno fra- cido molto probabilmente gli mostrarono come dicevo alcune delle specie che io ho descritto, o che ho vedute esaminando le feci del cavallo e il terriccio dei lettamaj, ma le difficoltà che egli pure in- contrò a determinare con precisione la forma ed il numero delle pa- pille che circondano la bocca dei piccoli animali, e le figure piuttosto schematiche che reali, che egli porta per far conoscere le forme esteriori dei detti nematodi, non permettono un sicuro giudizio di confronto fra (1) Monographie der Nematoden. Berlin 1866. s. 150. SLLLA DIMORFOBIOSI ECC. 259 le specie da me osservate e quelle che da lui furono descritte, ma la- sciato anche questo da parte, io confesso che questa indagine compa- rata per riferire le specie da me descritte ad una o ad altra specie di Pelodera o Leptodera di Schneider, mi è sembrata del tutto inutile, perchè sapendo oggi come alcuni animali riferibili ai detti generi non sono altro che nematoelminti intestinali viventi la fase importante di loro vita libera, dovere della Scienza si è quello di ricercare con precisio- ne quali sono i nematodi intestinali che sono rappresentati dagli an- tichi generi Anguillula, Rahbditis, Leptodera, Pelodera e Agamonema. L'importanza per me delle osservazioni dello Schneider stà negli esperimenti che egli tentò e nelle risultanze che ne ebbe, le quali dopo le esatte osservazioni che ho avuto l’ onore di esporre, dimostra- no come la Dimorfobiosi sia estesissima nell’ ordine dei Nematoidei e come questi animali nello stato di vita libera siano estremamente dif- fusi, se raccogliendo a caso come fece lo Schneider e terra e melma di diversi luoghi, e solo aggiungendo elementi azotati e nutritivi, se ne ottiene lo sviluppo e la riproduzione di più e più specie. Le osservazioni dello Schneider erano fino ad ora rimaste nel campo delle curiosità scientifiche e non avevano ricevuta alcuna in- terpretazione; l’ interpretazione scientifica parmi la ricevano oggi e trovino anche una qualche applicazione alla pratica, mostrando la ra- gione, e come in alcune località, e sotto condizioni di luogo e di stagioni umide, abbondino certe specie di vermi intestinali rotondi, e si diffonda estesamente l’ elmintiasi per questi e nell’ uomo e negli animali. Ma le mie odierne osservazioni non si restringono alla dimostra- zione della Dimorfobiosi, ma invadono ancora il campo della Scienza Zoologica. Per quanto riguarda la Zoologia metodica, anche le osservazioni fatte sui nematoelminti della Canepa hanno un certo valore, perchè dimostrano non potersi più accogliere alcune distinzioni insegnate dagli Elmintologi. La tribù p. e. degli Agamonematoidei e l’ intero genere Agamonema di Diesing, non hanno più un reale valore, avendo con sicurezza osservato che a seconda dell’ età della canepa, o delle parti della pianta nelle quali si trovano le stesse specie di nematodi sono esse agame, o fornite invece benchè infeconde degli organi genitali spet- tanti ai due sessi, riferibili per questo alla Tribù dei Gamonematoidei, e come gli stessi animali agami o sessuati ma infecondi, posti in di- 260 G. B. ERCOLANI verse condizioni ossia in un terreno umido ed azotato, completando gli organi genitali interni e riproducendosi, a seconda dello stato in cui si sarebbero osservati avrebbero dovuto riferirsi a Tribù e a Ge- neri diversi. I fatti sicuri di Dimorfobiosi seguitati nelle loro particolantà nelle Ascaridi delle galline e quelli osservati in diversi nematoelminti del cavallo considerati nei rapporti che hanno coi nematoelminti os- servati nella Canepa richiamano necessariamente l’attenzione dei Zoologi sui generi Anguillula e Rahbditis di Hemprich, Ehremberg ed altri Zoologi, e le specie feconde di codesti animali trovate nelle acque dolci e nelle marine, nell’ aceto, nel grano colpito da rachitide, e nei grani alterati dell’ Agrostide selvatica, come i nematoelminti agami trovati anche da altri nelle patate e nei funghi guasti, e da me con frequenza nelle piante corrotte, nella canepa affetta da calzone, nella tromba o succhiatojo delle mosche, e nell’ intestino del Julus terrestris, aprono un nuovo e vasto campo per ulteriori indagini e ricerche in- torno ai precitati animali, la di cui conoscenza, tolta la cognizione di fatto, non aveva che fornito materia per errati insegnamenti Zoologici. In quanto alla dottrina zoologica propriamente detta, fra i carat- teri fondamentali fin qui adoperati per determinare la specie, furono tenute in gran conto la sessualità e la riproduzione con forme costanti nei padri e nei figli, la costanza di date particolarità di struttura anatomica interna e queste crescevano di valore se erano collegate ad un fatto fisiologico di un qualche interesse, ed in questi ultimi tempi si è aggiunto la continuata persistenza negli individui nel non mesco- larsi od incrocciarsi con specie affini. Ora tenendo queste basi generali universalmente accolte e scen- dendo alla loro applicazione agli animali dei quali ho discorso, le dot- trine generali sovra esposte rimangono grandemente infermate. Per gli animali spettanti all’ ordine dei Vermi e alla classe di Nematoidei o Nematoelminti i fatti che erano fino ad ora noti, persuadevano che-la specie tipica o caratteristica era rappresentata dall’entozoo con organi generativi, allo stato di parasita, e nel caso speciale agli animali noti sotto le denominazioni di Ascaris inflexa R. e di Ascaris vescicularis Fr. Ora pei fatti noti, la sessualità e la riproduzione diretta con forme costanti fra i padri ed i figli si osserva completa e perfetta nei nematoelminti microscopici che vivono la loro vita allo stato libero e non negli Ascaridi intestinali, i quali non si riproducono direttamente SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 261 nell’ intestino delle galline, ma solo per uova. Si sospettava che da queste o dagli embrioni nati da queste, tornassero ad aver luogo le specie dalle quali le uova erano derivate, ma invece hanno nascimento come ho dimostrato da queste, esseri che ad onta della corrispondenza che hanno pei loro caratteri esterni coi loro padri, pure quando la loro provenienza non era conosciuta con sicurezza, a buona ragione si dovevano considerare quali specie sicuramente distinte dai loro genitori, sì per la mole del corpo, la quale se entro certi limiti può conside- rarsi come un carattere differenziale di secondo ordine, pure nel caso nostro è così enorme da acquistare una reale importanza e se ne ha prova sicura dal fatto, che dotti Zoologi e specialisti non dubitarono di creare studiando di tali animali speciali Tribù e più generi e specie diverse. Ma più che la mole valgono per differenziarli, le con- dizioni diversissime della loro vita, le differenze di struttura anatomica che indicai osservabili nel tubo gastro-enterico, la ovo-viviparità che manca negli intestinali, la differenza nella mole delle uova negli uni e negli altri, e il non incrocciarsi fra di loro tenendone riunite più specie in un piccolo spazio, che costituiscono tante differenze anatomiche e fisiologiche che trattandosi di caratteri zoologici, per differenziare le specie sono da riguardarsi di prima importanza. Ad ogni modo certo si è che per una somma di differenze di assai minor conto si distin- guono nettamente fra di loro molte specie di animali di un ordine più elevato ed anche di mammiferi. Ora nessun dubbio che le ascaridi inflessa e vesciculare che ho descritte nelle fasi di loro vita libera, non si colleghino colle due specie note di ascaridi che vivono nell’ intestino delle galline. Rap- presentano queste le specie tipiche dei detti animali? Per verità io non lo credo, sia perchè non si riproducono direttamente nell’ intestino delle galline, sia perchè dalle loro uova non nascono esseri simili ai loro genitori, sia perchè da questi nuovi esseri nati, non si ha diret- tamente il ritorno ad esseri identici ai padri dai quali provennero, per cui, fuori di ogni dubbio, il periodo che essi passano nello stadio di intestinali costituisce una fase di loro vita meno perfetta e completa di quella che nello stadio di vita libera conducono i loro figli, e se questi rappresentano la specie, le Ascaridi intestinali necessariamente altro non sono che una loro notevolissima trasformazione dovuta al luogo e alle circostanze nelle quali si trovano nell’ intestino delle gal- line non solo, ma anche allo stato particolare non per anche con si- 262 G. B. ERCOLANI curezza conosciuto, nel quale la specie vivente allo stato libero si tro- vava, quando fu portata nell’ intestino delle galline. Ho sospettato che questo stato particolare che favorisce la trasformazione della specie in Ascaridi intestinali, dalla forma microscopica cioè alla gigantesca, sia riposto in uno stadio di agamia nel quale le specie che vivono la vita libera, si trovano in alcune circostanze: fra queste circostanze in più specie ho osservato importantissima la temperatura ed il modo del- l alimentazione; ma lasciando per ora interamente libero il campo per così fatte ricerche, è indubitato che una condizione speciale quale essa si sia dei nematoelminti che vivono la vita libera è indispensabile per trasformarsi in intestinali, se compiendosi in modo regolare le funzioni della loro esistenza, e introdotti nell’ intestino delle galline, non sì trasformano e muojono invece sollecitamente. Io non insisto sopra una così grave e spinosa quistione, mi basta di avere indicato un fatto positivo e facile ad osservarsi che si presta alle più gravi meditazioni dei Zoologi, sia che accettino o rinneghino le dottrine che si fondano sulla immutabilità, o la mutabilità invece delle specie animali. SULLA DIMORFOBIOSI ECC. 263 SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE ACAVIO.LARI: Fig. 1 e 2 il maschio e la femmina dell’Ascaris vescicularis Froelich allo stato di vita libera ingranditi 250 volte. Fig. 3 e 4 il maschio e la femmina dell’Ascaris inflexa Rudolphi idem. Le lettere si corrispondono in tutte le figure. a Papille che circondano la bocca. b Faringe museulare. c Esofago. d Ventriglio musculare. e Stomaco. Yf Intestino. 9g Ano. h Apertura della vagina. î Uova contenute nell’ utero. Z Testicolo. m Ala caudale. n Spiculo o pene. Fig. 5. Uovo dell’ Ascaris inflexa allo stato di verme intestinale ve- duto allo stesso ingrandimento di quelli contenuti nell’ utero della stessa ascaride vivente la vita libera fig. 4 lett. è. Fig. 5. Uovo dell’Ascaris vescicularis Froelich. idem idem. fig. 2, lett. è. TAVOLA II. Nematoelminti che infestano la pianta della Canepa affetta dal morbo detto Calzone dagli Agricoltori. Sono tutti rappresentati veduti allo stesso ingrandimento di 250 diametri. Le lettere si corrispondono in tutte le figure. 264 G. B. ERCOLLNI Fig. 162. Prima specie detta allungata nello stato di infecondità perchè nel maschio si scorge il pene, come nella femmina l’aper- tura della vulva, ma nell’ interno del corpo dei due sessi molte granulazioni grassose tengono luogo del testicolo e dell’ ovario. Negli individui agami citati nel lavoro manca la traccia degli organi genitali esterni, e non si distingue la prima porzione del tubo intestinale incompletamente sviluppato come lo è negli in- fecondi. . 3 e 4. Seconda specie detta a corda acuminata. Tutti gli indi- vidui trovati nell’ interno del fusto della canepa erano come quelli della precedente specie con sesso distinto ma allo stato di infecondità. Si resero fecondi come sono qui rappresentati, ponen- doli in terreno umido con materiali azotati. Fig. 5 e 6. Terza specie detta a coda aculeata con sesso distinto ma allo stato infecondo, tolti come i precedenti dall’ interno del fu- sto della canepa. Fig. 7 e 8. La predetta specie resa feconda ponerdola in terreno umido con materiali azotati, per vedere e la mole del corpo aumentata ed il perfezionamento degli organi interni. a Papille che circondano la bocca. b Faringe musculare. c Esofago. d Ventriglio musculare. e Stomaco. f Intestino. 9g Ano. h Granulazioni grassose che riempiono il corpo degli individui infe- condi e tengono il posto dell’ intestino e degli organi genitali interni. i Vulva. I Utero e Uova. m Testicolo. n Pene. er, SR — 1 — Mem Ser 3° Tom.IV 6.B. Ercolani. Tav.] 0. Piana dis° dal vero C. Bettini dis'in pietra rit. Fran: Casanova av. ll . Ercolani. B 6 TIE SLI Roe SERE nasa 9 E° nh PET agi pozioni SE td. er (O So: Bra re OSE ap x CE SENT gite ei Ione tn ie fi iii rie TI mai Trit.Fran®° Casanova C.Bettni dis° in pietra Piana dis° dal vero RR È PERI LI DET? dui DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO DESCRIZIONE ANATOMICA DEL PROF. LUIGI CALORI ( Letta nella Sessione 8 Gennaio 1874 ) P ubblicava, sono ormai cinque anni, negli Atti di quest’ Accademia una relazione delle anomalie più importanti di ossa, vasi, nervi e mu- scoli, occorsemi nel biennio innante facendo anatomia del corpo uma- no (1). Da indi in quà non poche altre mi si sono presentate, il maggior numero note, nè quindi da tenerne discorso. Tre sole riguar- danti il cervello mi hanno offerto e del raro e del nuovo non disgiunto da alcuna importanza. Il perchè ho stimato prezzo dell’opera il de- scriverle. Due di esse vanno di conserva con anomalie dei processi della dura meninge, e tutte tre vanno senza 1’ accompagnamento di deformità craniensi atte e valevoli a farcele di fuori argomentare. Eccomi a divisarvele. 1.° Conformazione cerebrale ritraente quella del cervello di un embrione di due a tre mesi e tentorio anomalo occupante la parte media della volta del cranio. Ho trovato quest’ anomalia in un feto mascolino a termine, nato vivo e vissuto poco più di un giorno. Era desso ragguardevole per un alto grado di dolicocefalismo, essendo che il diametro longitudi- nale del cranio spoglio delle parti molli misurava 138 mill. ed il trasversale 94, onde un indice cefalico di 68. Anche la madre, donna (1) Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Tomo VIII. Serie II. pag. 417. TOMO IV. 34 266 LUIGI CALORI di 3% anni, e due fanciullette ch’ ella aveva tuttor vive e vispe, erano dolicocefale, ma molto meno, e la madre era Anconetana. Del padre altro non ho potuto sapere ch’ era Bolognese. Oltre la detta lunghezza di cranio si notava labbro leporino medio complicato a fessura del palato osseo e molle, gracilezza della persona e piedi torti allo inden- tro. Sezionandolo nulla ne’ visceri toracici e addominali d’ importante, se non che le cassule surrenali erano piccole, e piccoli i testicoli al- tresì, non discesi nello scroto, ma soffermati nella regione lombare. Esplorando esternamente la volta del cranio denudata della pelle si trovavano le sinimensi e le fontanelle un po’ più larghe del consueto; ma la posteriore 1 era sopra l’altre, superando l’ estensione dell’ante- riore; e parea toccandola avesse alcunchè di fluttuante sotto. Tagliato poi circolarmente il cranio e fattomi a levarne cautamente la calotta, rimaneva ben tosto sorpreso delle suindicate anomalie. Il cervello fig. 1 Tav. I. non offriva, come a normale sviluppo, le sue tre vesciche so- prapposte, ma situate l’ una dietro l’ altra in serie, conforme veggiamo primordialmente. Infatti il cervello anteriore o cervello propriamente detto A è anteriore a’ tubercoli quadrigemini, o cervello medio B, e questo è anteriore ed in gran parte superiore al cervello posteriore o cervelletto C. Il cervello propriamente detto A è assai corto, nè ol- trepassa la metà anteriore della regione parietale, e poggia sulle fosse anteriore e media del cranio. È partito pel grande solco 1 negli emi- sferi manchi de’ lobi occipitali, e della porzione posteriore dei parie- tali c, c, d, d, terminati posteriormente dal processo », continuazione della grande circonvoluzione marginale 2, /, m, m, degli emisferi me- desimi. Sui lati mostrano questi la fessura del Silvio 2 che divide il lobo temporale e, f; dal parietale, e cotale fessura è per diffetto del- l’opercolo aperta anteriormente per forma, che l’ isola rimane in gran parte allo scoperto, e mostra appena un indizio de’ suoi processi brevi. I lobi frontali a, è, sono poverissimi di solchi e di circonvoluzioni, e più anteriormente che posteriormente, e queste circonvoluzioni sono la /, /, che è la porzione frontale della grande marginale degli emisferi, la p, che si prolunga dalla circonvoluzione parieto-frontale 0, e la g som- ministrata dal processo verticale anteriore % di Rolando. Il lobo pa- rietale c, d, è meglio solcato, e distinto in circonvoluzioni, ed infatti oltre il processo X presenta i due processi verticali g,%, limitanti la fessura del Rolando 3, ed il processo verticale quarto è del Rolando medesimo, non che il sunnotato prolungamento n della grande circon- DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO 267 voluzione marginale. I quattro processi verticali noverati sono come di solito inseriti nella porzione parietale, o superiore della circonvolu- zione marginale della fessura silviana. Apparisce nella cit. fig. la cir- convoluzione temporale superiore », o porzione inferiore o temporale della marginale silviana anzidetta. Le due altre circonvoluzioni tem- porali sono abbastanza distinte. Nella faccia inferiore degli emisferi i solchi e le circonvoluzioni non sono maggiormente sviluppate, e nella faccia orbitale del lobo frontale quasi nulle. Allontanando gli emisfe- ri trovansi le circonvoluzioni della loro faccia interna in non dissimili condizioni, ed appena delineata è la circonvoluzione marginale interna o dell’ hilo degli emisferi, generalmente conosciuta sotto il nome di circonvoluzione callosa e dell’ ippocampo. Il corpo calloso è corto e fesso posteriormente. I ventricoli laterali non più tricorni ma bicorni, mancando il corno posteriore. Sono piuttosto dilatati e contengono due enormi plessi coroidei, i corpi striati, e i talami ottici, i quali però ne sono fuori in gran parte ed uniti al cervello medio B. Non manca il setto lucido, nè la volta a tre pilastri, nè la fimbria, nè il grande ippocampo, nè la tela coroidea, nè la rima del terzo ventricolo, nè le parti a questo corrispondenti, nè la commessura anteriore. Invano ri- cerchi la posteriore e la glandula pineale. Il cervello medio è rappre- sentato dalla grande vescica B, che diremo dei tubercoli quadrigemini. Tien essa la metà posteriore della regione parietale, la fontanella po- steriore, e l’ angolo lambdoideo, e gravita sui due terzi anteriori della faccia superiore del cervelletto. È più estesa trasversalmente che dallo avanti allo indietro, ed è nella regione superiore quasi del tutto mem- branacea. Racchiude un umore sieroso torbido tenente in sospensione molte particelle di polpa encefalica: in una parola è dessa idropica. Per la compressione non isvuotasi del caputo umore; chè l’ acquedotto del Silvio è obliterato. Il cervelletto C è molto voluminoso, nè occu- pa semplicemente le fosse cerebellose, ma una parte altresì delle fosse cerebrali della porzione lambdoidea dell’ occipite. E sprovvisto del solco longitudinale, e perciò rappresenta tutto un globo non partito in emi- sferi, e senza il verme distinto, massime posteriormente. Offre però la vallecola accogliente la midolla allungata. Ben manifesto ne è il grande solco orizzontale 4 divisante le sue regioni o faccie superiore ed infe- riore. È ricco di lamine, ma indistinti ne sono i varii lobi ch’ esse compongono. Finalmente nella base del cervello descritto non ho tro- vato cose degne di particolare annotazione. 268 LUIGI CALORI x Se straordinaria è l’ anomala conformazione di questo cervello, non l’è meno quella del processo crociato della dura meninge. Qne- sto processo fig. 2, Tav. I. rassembra la lettera romana T coricata coll’ asta longitudinale rivolta in avanti, rappresentante la grande fal- ce a, a, la quale, non altrimenti che il cervello propriamente detto, si arresta alla metà anteriore circa della sinimensi sagittale ove per la sua base sì unisce e continua col tentorio d, c, costituente 1’ asta oriz- zontale della lettera prefata. La grande falce nel suo lato convesso comprende, come di solito, il seno falciforme grande, e nel concavo punto seno; chè il falciforme minore veniva fatto da una sottile vena libera. Nella estremità posteriore questo lato fendesi in due branche, che recansi in addietro ed in basso, l’ una dall’ altra più e più allon- tanandosi e finiscono nel margine libero del tentorio, col quale mar- gine circoscrivono uno spazio triangolare presso al cui apice occorre un hiato o forame e conducente al seno retto. Il tentorio non più oriz- zontale, ma trasversale all’ asse della cavità del cranio trovasi nella parte media e posteriore della regione parietale, e rappresenta un setto verticale trasverso, che separa non più il cervello dal cervelletto, ma il cervello dalla vescica dei tubercoli quadrigemini. È in forma di luna crescente colle corna rivolte in basso e in addietro, terminanti alla base delle rocche dei temporali. La sua maggiore altezza è nella parte media ed aggiugne ai tre centimetri. Leggermente concava n’ è la faccia anteriore e leggiermente convessa la posteriore, e sono amen- due alquanto inclinate posteriormente. Dei margini onde sono circo- scritte, l’ inferiore è concavo, acuto, il superiore convesso ed ottuso, e aderisce al punto medio della sinimensi sagittale, alla concavità dei parietali e delle loro bozze fino al davanti dell’ angolo parietale po- sterior-inferiore, o sopra la base delle rocche temporali, e contiene un ampio seno trasverso d. Al di dietro di questo tentorio anomalo non vi ha alcun altro processo della dura meninge, mancando del tutto un setto che divida il cervelletto dalla vescica dei tubercoli quadrige- mini o in altri termini il normale tentorio, e mancando altresì la pic- cola falce, o falce cerebellosa. Noterò tuttavia che laddove esser do- vrebbero codesti processi, trovansi due vene comprese fra le lamine della dura madre, e che la loro presenza e comprensione dimostre- rebbero un conato di natura alla formazione dei processi medesimi. Tali vene comunicano con il seno trasverso anomalo d. Ed acciocchè sia ben chiara la disposizione di cotali seni o vene, ho aggiunto uno DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO 269 schema teoretico del quale darò quì la spiegazione (fig. 3, Tav. L.): a, è l’ estremità posteriore del grande seno falciforme; 2, la foce del seno retto; €, c, d, d, il seno trasverso anomalo che termina nel golfo della vena giugulare interna; e, e, due vene o seni rappresentanti il seno trasverso normale; /, due rami continui alle vene precedenti, i quali sorgono dai lati del segmento posteriore del grande foro occipi- tale, e rappresentano un seno occipitale posteriore doppio, come ne’ casi di duplicità della falce cerebellosa. Se le anomalie del cervello descritto possono trovare un riscontro in condizioni embrionali transitorie di esso lui, resesi permanenti in forza, a quanto sembra, della idropisia dei tubercoli quadrigemini, e possono per certi vaghi di analogie animali rappresentarne una col- l’ encefalo degli uccelli e dei vertebrati inferiori; non così quelle del processo crociato della dura meninge. Non vi ha alcun periodo em- brionale in cui si trovi un setto di questa meninge frapposto al cer- vello anteriore e medio, nè mi è conto che in alcun vertebrato siasi fin quà rinvenuta una così fatta disposizione. 2.° Modificazioni del cervelletto in un caso di duplicita della piccola falce. Il Winslow è stato il primo ad osservare questa duplicità, ed ha notato che doppia era pure la cresta occipitale interna (1). Altri hanno verificata l’ osservazione del Winslow, ed ultimamente anche il Prof. C. Lombroso nel cranio di un criminale, ed ha aggiunto che fra le due creste giace una fossetta piuttosto profonda data, a suo giudizio, a ricetto di un lobo particolare, o di un verme sopragrande od iper- x trofico (2). Questa congettura non è ita a versi al Prof. A. Verga, x cotalchè è nata fra loro una viva disputa nel seno dell’ Istituto Lom- bardo di scienze e lettere, ma nessuno dei due ha recato innanzi un cervelletto corrispondente a duplicità della piccola falce. La quale as- (1) Exposition anat. sur la structure du corps humain. Amsterdam 1732. Tom. IV. pag. 135. (2) Vedi Archivio per l’Antropologia e l’ Etnografia, Vol. I. fasc. 1. Vol. ill. fasc. 1. Vedi anche Rendiconti del R. Istituto Lombardo Vol. V. fasc. XVIII. — L'uomo bianco e l uomo di colore. Padova 1871, pag. 153. 270 LUIGI CALORI serzione parmi non venga infirmata dal caso descritto dai Prof. G. Bizzozero e C. Lombroso stesso nel fascicolo primo del Vol. III del- l’ Archivio per 1’ Antropologia e 1’ Etnografia; imperocchè in quel caso non è notata la detta duplicità; ma solo che la cresta occipitale in- terna nella sua metà inferiore circa biforcavasi, e i due rami della biforcazione circoscrivevano una fossetta triangolare, la cui base veniva formata dall’ orlo del segmento posteriore del grande foro occipitale ; disposizione che s’ incontra non di rado, e spessissimo poi ad un grado minore. Senza che la figura che essi danno, ritraente il cervelletto dalla parte inferiore, prova che non poteva esservi quella duplicità, avvegnachè gli emisferi cerebellosi appariscano inferiormente e posterior- mente a mutuo contatto, e lascino vedere soltanto una porzione del vermis, porzione più sporgente e voluminosa del consueto, la quale dicono essi, corrispondeva all’ apice della fossetta triangolare, intanto che la base veniva occupata dalla parte posteriore delle tonsille. Due volte ho veduta la duplicità della piccola falce, ma una volta sola ho potuto esaminare il cervelletto corrispondente. La prima volta mi capitò innanzi in quella che uno studente andava stagliando un cervello. Guardando la base del cranio, mi accorsi dell’ anomalia. Rivoltomi subito per osservare il cervelletto, era stato questo così mal- concio pei tagli, massimamente del lobo mediano o verme, ch'era im- possibile farsene una esatta idea. Nullameno mi fu dato di conoscere esserne non troppo estesi trasversalmente gli emisferi. Fra le due pic- cole falci poi non aveva una fossetta; ma una specie di promontorio esteso dalla tuberosità occipitale interna al grande foro occipitale; pro- montorio che avveniva per essersi molto dilatata e fatta troppo spor- gente la cresta interna dell’ occipite, terminata lateralmente da due spigoli, dai quali sorgevano le due piccole falci. Ben s’ intende che la molta larghezza di questo promontorio facevasi a spese delle fosse ce- rebellose. L’ individuo, che presentò codesta disposizione, fu una donna cinquantenne morta per fatto di un cancro uterino, e di cui nulla ho potuto sapere riguardo le facoltà mentali ed i costumi. La seconda volta che m’ incontrai nell’ anomalia, vennemi di fare un’ osservazione completa. Nelle due figure 4,5 Tav. II. è dessa a pieno ritratta. La fig. 5 mostra di prospetto la duplicità della piccola falce, messa in vista mediante un taglio perpendicolare trasverso del cranio già segato orizzontalmente; taglio che cade sulla metà ante- riore del tentorio, sulla base delle rocche temporali e sui processi DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO Zuol mastoidei grandi. La porzione residua 5, 6, 5, è, del tentorio è solle- vata, e così pure le porzioni laterali del segmento posteriore c, c, del forame di Pacchioni, al di sopra di cui apparisce nella parte media uno spazio triangolare formato dal margine acuto della grande falce cerebrale a, nel quale spazio è aperto l’ adito m del seno retto leg- giermente indicato in ». Le due piccole falci d, d, d, d, si estendono dal di sopra dei lati del segmento posteriore del grande foro occipitale a’ lati del tubercolo occipitale interno, o del torcular Erophili /, e limitano la fossetta longitudinale Y, g, lunga 37 millim., di larghezza varia da 14 a 25, e profonda 8, rispetto alle quali due ultime di- mensioni è dessa meno non poco della descrittaci dal Lombroso. Esse falci poi sono sostenute da due creste occipitali interne non molto rilevate, e in corrispondenza del detto torculare si conformano come in due cordoncini, che vengono compresi dalle lamine della dura ma- dre, e ascendono davanti i seni trasversi £, #, e veggonsi in 4, h, pro- lungati sulla faccia inferiore del tentorio fino in e, e, od al lembo c, c, del forame del Pacchioni. Questi cordoncini altro non sono che due piccole vene, le quali mettono capo nel seno cerebelloso posteriore dop- pio come la piccola falce, nel cui margine più largo viene compreso. A’ lati infine delle falci descritte occorrono in 0, 0, le fosse cerebellose meno estese trasversalmente di quanto è larga la doccia, o fossetta da esse falci determinata; e queste fosse sono profonde anzi che no nella loro concavità, manifesta all’ esterno per due bozze tondeggianti se- parate internamente da due fossette per ciascun lato dalla cresta o spina occipitale esterna, la quale presenta un’ eminenza longitudinale media, estesa dal tubercolo occipitale esterno al lembo posteriore del grande foro occipitale, e larga 10 millim. In corrispondenza di questa enorme cresta esteriore, e in un medesimo della doccia limitata dalle due piccole falci, ha l’osso occipitale un centimetro di grossezza. La fig. 4 Tav. II. ne mostra le rispondenti anomalie del cer- velletto A, ritratto dalla sua regione posteriore. Un solco longitudi- nale 1, 1, 1, 1, larghissimo lo divide nei due emisferi a, d, piuttosto piccoli, ed offerentisi in questa vista tondeggianti e globosi. In questi emisferi sono assai bene distinti ed anche più dell’ ordinario i lobi che li compongono, e notansi in c le amigdale fuor di modo volumi- nose e divaricate, costeggianti la midolla allungata B, in d il lobo digastrico, in e il lobo gracile, in f, g, i lobi semilunari superiore ed inferiore, ed in & il lobo quadrangolare. Il verme o lobo medio, o 273 LUIGI CALORI come Gall lo chiamò, fondamentale del cervelletto, è largo più del doppio di quel si avvisi ordinariamente, ed in ispecie nella piramide %, e nel verme inferiore 7. Queste due parti non hanno una proporzio- nata elevatezza; ma sono poco sporgenti, nè toccavano il fondo della fossetta interposta alle due piccole falci; ma rimaneva tra esse e que- sto fondo uno spazio sottaracnoideo, che altro non era se non un prolungamento cerebrale del grande confluente del liquido encefalo ra- chideo. Il monticello i, che è la parte più elevata del verme superiore, ed il suo versante appariscono alquanto più sviluppati del consueto. Il cervello cui apparteneva questo cervelletto, pesava 1197 grammi: il cervelletto in un colla midolla allungata e col nodo 160. L’ indi- viduo, che mi offerse le descritte anomalie, fu certo Vincenzo Benti- voglio di 74 anni, bolognese, morto per acuta pneumonite doppia nello Spedale della Vita. Egli era brachicefalo ortognato, essendo il dia- metro longitudinale del suo cranio di 180 millim. ed il trasversale di 145, onde un indice cefalico di 81. Faceva il mestiere del sensale, e per quanto ho potuto sapere dietro ricerche fattene, nulla egli in vita presentò di anomalo nelle facoltà mentali e nei costumi. Per questa esposizione parmi non meriti la congettura del Lom- broso quella grande disapprovazione cui è stata fatta segno; imperoc- chè alla descritta duplicità della piccola falce, ed alla fossetta interme- dia corrisponde realmente un verme più grande, così divenuto a spese degli emisferi cerebellosi. E nemanco è da proscriversi del tutto l’ analogia dal medesimo scorta fra la detta anomalia ed il cervelletto di certi quadrumani e mammali inferiori, de’ quali ha egli già fatto il novero ne’ suoi scritti, e sono il Cinocephalus babuinus, il Coebus, l’Ateles, 1’ Uistiti, il Jacus, il Gallitrix, 1’ Hapelia bicolor, 1’ Habro- cebus Coquerelii, il Capriolo, il Dasypus, il Felis pardus, il Gulo ece. hi Vero è che in questi il verme è grosso e prominente e come a dire signoreggiante; laddove nell’ anomalia sporge poco, anzi è quasi piano ed è d’ assai soverchiato dagli emisferi cerebellosi. Ma l’ analogia non è identità, ed essa indica un piano generale di composizione del cer- velletto non solo di quei mammiferi e dell’uomo, ma de’ vertebrati in genere, rispetto al quale piano l’ anomalia cessa di essere tale; ma anomalia solo riesce in risguardo del tipo umano, e degli altri che con esso convengono. DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO 273 3.° Mancanza congenita del corpo calloso con integrità delle funzioni mentali. Se rara è quest’ anomalia negli imbecilli o negli idioti, troppo più rara è in coloro che hanno un’ intelligenza comune. E per fermo la storia appena ne consacra alcun esempio: il perchè non sarà al postutto reputato un recar l’ acqua all’ oceano, se io qui ne verrò ad- ducendo un novello corredato di quel maggior numero di notizie, che mi è venuto di raccogliere intorno a’ fatti e costumi di chi me lo ha pre- sentato. Questi fu certo Enea Gardini di Luigi falegname, e della fu Anna Serra tutti e due bolognesi, abitanti nel Borgo tovaglie N.° 746-47 sotto la Parrocchia di S. Procolo. Enea, ad imitazione di altri due suoi fratelli, aveva seguìto il mestiere del padre, ma aveva poca voglia di far bene. Amava di andare aiato e bazzicava assai volontieri con fanciulli della sua età non troppo bene avezzi. Garzonetto di bottega si giuocava spesso la settimana dando ad intendere a’ suoi genitori che il padrone non glie l’ avesse pagata, e non era raro ch’ egli pas- sasse fuori di casa tutta la notte. Di che quanto rincrescimento e duolo n’ avesse la famiglia e il padre soprattutti, nessuno è che nol senta. Egli di continuo l’ ammoniva e talvolta anche castigavalo, ma indarno, onde divenivane più inquieto, e tuttodì metteva il capo a ve- dere come potesse trovarvi un rimedio, siccome quei che ben cono- sceva che, se non si ponesse ogni cura e sollecitudine per ritrarre il figliuolo dalla mala via intanto che era ancor fanciullo (contava allora 14 anni appena), sarebbe poi stato niente qualunque sforzo per ri- condurlo sul retto cammino, fatto ch’ egli fosse più grande. E stato lungamente in varii pensieri, si fermò alla perfine su quello di rin- chiuderlo nell’ Istituto d’ istruzione correzionale, ove sarebbegli conve- nuto di buono o mal grado mutare stile. E addì 14 Marzo 1870 Enea entrava nell’ Istituto, ma escivane il 13 Agosto dello stesso anno ad istanza dei genitori, essendo ammalato di una forte otorrea con sordità e notabilmente dimagrato. Qui mette conto di notare che egli aveva il vizio di pisciare tutte le notti in letto, e che nell’ Isti- tuto non venivagli come in casa sua, quotidianamente asciugato, ma eragli lasciato tutto molle e piscioso, e sovr’ esso così ben concio era egli costretto di coricarsi e dormire. In questa perenne schifosissima TOMO IV. 35 274 LUIGI CALORI umidità fu posta la cagione della malattia, alle produzione della quale però contribuì assaissimo la sua non troppo robustezza ed il suo abito scrofoloso. Tornato a casa stentò molto a guarire dell’ otorrea, ma alla fin fine del tutto se ne liberò; non così della concomitanza sun- notata; chè rimase sordastro, vizio che in un col pisciare in letto l’accompagnò fino al sepolcro. La medicina dell’ Istituto non fu sen- za buoni effetti, essendo egli divenuto meno scioperato, più .solita- rio, più amante del lavoro e più casalingo. Questo miglioramento de’ costumi non giva di pari passo con quello della persona, che anzi questa era decaduta, ed infatti Enea si mostrava magro, sparuto, piut- tosto debole di forze, e a malgrado del detto miglioramento, non più così svegliato come innanzi. L'uso dell’ olio di fegato di merluzzo ferruginoso rimettevalo; ma nol reintegrava nel pristino stato. Aveva superati i 15 anni quando rimaneva orbato della madre. Il padre de- solato della perdita della sua donna, e, per quanto potei intendere dalla viva voce di esso lui, non troppo contento della famiglia, prese la risoluzione di rinunziare ogni suo avere consistente in poco più della suppellettile di casa e di bottega, a’ figli e ritirarsi nel Ricovero di Mendicità. Detto fatto. In sullo scorcio del 1871 vi entrò. Enea e sua sorella Candida oggi in età di 15 anni, rimasero a carico del fra- tello Alfonso ammogliato, il quale li accolse in casa sua e mantene- vali; ma non molto stante, mal reggendosi, convennegli allegierirsi di Enea, e l’allogò presso Vincenzo Bandera falegname, suo amico, il quale aveva aperta bottega in Via S. Vitale rimpetto al Begato ed in oggi l’ha in Broccaindosso. Mi recai al Bandera per avere ulteriori notizie di Enea, e trovai in lui un uomo veramente di buon cuore. Egli aveva preso a cibarlo, e ad alloggiarlo, tenendolo a dormire nella bottega, ma vedendo ch’ egli pisciava in letto, gli trovò a sue spese una cameruzza presso gente che avesse la premura di asciugargli ogni giorno il letto. Egli poi me ne faceva questo ritratto. Enea era un ragazzo più che mezzano di statura, gracile, macilente sì che era una compassione a vederlo in tale stato comparire ogni mattina alla bottega. Del resto era desso una buona pasta, attento, rispettoso, ub- bidiente, di rado parlava, ed alcun poco tartagliava. Apprendeva fa- cilmente l’ insegnatogli, e traduceva in pratica 1’ appreso con quel garbo di cui maggiore non avrebbe saputo usare qualunque altro della sua età; ma non poteva a lungo lavorare, impedendoglielo e la debolezza sua, e più ancora un’ ostinata tosserella, che se gli era cacciata addosso. DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO 275 Questa facendosi sempre più spessa, e molesta, e prendendosi a com- pagna la febbre, mise in apprensione il Bandera, e spinselo a far pra- tiche, acciocchè Enea fosse ricevuto in qualche Spedale, e il 17 No- vembre 1872 lo fu in quello della Vita sotto il turno dell’ Eecel.mo Sig. Dott. Pietro Belletti. La sua infermità fu giudicata una tuberco- losi polmonale subacuta, la quale a dì 15 Gennaio 1873 toglievalo a vivi nella età di diecisette anni. Dagli infermieri ho saputo che du- rante la sua dimora nello Spedale si fu sempre taciturno, e sembrava come attonito, se alcuno si accostasse al suo letto. Non si lamentò mai di cosa veruna. Contento di tutto, indifferente di ogni cosa e perfino della morte; apatìa che venne da quelli giudicata stupidità ma che per le cose notate di sopra non poteva come tale qualificarsi. Due giorni dopo la morte ne apersi il cadavere, e ne fu a pieno confermata l’ esattezza della diagnosi suddetta. Abbisognando del cer vello per mostrarne alcune particolarità al Modellatore anatomico, lo levai di sede e feci portarlo nello studio di esso modellatore, ove mi posi a tagliarlo secondo che richiedeva la bisogna, ed in ciò fare mi fui accorto dell’ anomalia. Per buona ventura io non aveva coi tagli guasto che un emisfero, il destro; onde che mi rimase tutto il campo di studiarla, e ne feci sul sinistro la forma ed un getto di cera. E innanzi tratto dirò che il solco interemisferico era nel- la parte media molto più profondo che non suole, ed aveva per confine la tela coroidea, ed i pilastri del fornice, con questo però che l’ aracnoide passando da un emisfero all’ altro non toccava le dette parti, ma rimaneva alquanto distante da esse formandovi sopra come un ponte, sotto cui si aveva uno spazio o cavità longitudinale occu- pata dall’ umore cotugnano od encefalo-rachideo. Separando poi l’ emi- sfero stagliato dall’ intatto si vedeva che oltre la tela coroidea gli emisferi venivano uniti da queste altre parti: dalle commessure ante- riore y fig. 6, Tav. II. (1), posteriore 1, e molle 4, più sviluppate del solito, dalle sostanze perforate medie posteriore e anteriore, dal tuber cinereum p, dal chiasma 7, dei nervi ottici g, e dall’ ependima del terzo ventricolo. Rovesciati poscia gli emisferi sopra un piano orizzontale in modo che ne apparissero le faccie interna ed inferiore (1) Questa figura è stata copiata da una fotografia del sumentovato getto di cera, fotografia ritraente il vero minore di un terzo della grandezza naturale. 276 LUIGI CALORI come nella citata figura, non iscorgevasi nè corpo calloso nè setto lucido, chè entrambi mancavano onninamente. Occorreva solo la volta s bene sviluppata co’ suoi pilastri nulla coerenti in verun punto, continui gli anteriori #, come di solito, coi bulbi od eminenze mammillari o della base del cervello qui alquanto più grosse del costume; ma convenienti e proporzionate con lo stato della volta stessa, ed i posteriori w con- tinui pure conforme l’ usato coi corpi fimbriati v. Questa volta poi non poggiava sulla porzione di tela coroidea che copre il terzo ventri- colo; ma sui talami ottici # al lato esterno dei peduncoli o frenuli 2 della glandula pineale, con interposizione però di alquanto di essa tela, e fra i pilastri anteriori, e l’ estremità anteriore dei talami, era aperto lo spiraglio 6, conosciuto sotto il nome di forame del Monro, pel quale insieme commnicavano i ventricoli laterali ed il terzo, non che i plessi coroidei corrispondenti. La faccia superiore della volta toccava l’ estremità inferiore delle circonvoluzioni della faccia interna de’ lobi parietali, ed il margine esterno della medesima, in corrispon- denza specialmente della metà posteriore dei talami ottici, aderiva per una sottile espansione al tetto o volta (tegmentum) dei ventricoli la- terali, formato solo dal centro semiovale di Vieussens. Tali ventricoli poi ritenevano la loro figura tricorne, se non che il corno medio o discendente era alquanto più corto, ed il corno posteriore alquanto più lungo, e contenevano una piccola quantità di liquido encefalo-rachideo, e due plessi coroidei per forma e per volume normali, non apparenti nella figura 6 per essere stati levati in un colla tela coroidea, a fine di ben mettere in vista la volta e le altre parti con esso lei attinenti. I corpi striati, i talami ottici e la tenia cornea erano normali. Nella prefata figura 6 non si parano davanti ì corpi striati, perchè, sebbene non abbiavi il setto lucido che ne li tolga alla vista, vengono però nascosti dal discendere più in basso e recarsi più verso il mezzo le circonvoluzioni interne 9g, X, &, 2, dei lobi frontale A B, e parietale BCD. Dond’è avvenuto un restringimento nell’ hilo degli emisferi, e di qui l’impedimento ad essere veduti i corpi mentovati. Ma se i corpi striati non fanno mostra di sè, la fanno ben di vantaggio i talami ottici x, che sono in gran parte allo scoperto, o fuori di cavità. Nor- mali poi sono ancora lo sprone di uccello, 0 piccolo piede d’ ippocampo, l’ eminenza collaterale di Meckel, il grande ippocampo, e la fimbria. Nulla aveva di notabile rispetto al terzo ventricolo 3, 3, all’ acque- dotto del Silvio 5, al quarto, a’ tubercoli quadrigemini e, alla glan- DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO 277 dula pineale, al cervelletto, alla midolla allungata, al nodo ed alle gambe & del cervello. Ma notabilissime erano le circonvoluzioni della faccia interna degli emisferi. Mancava per intero, sì certamente come circonvoluzione longitudinale, la porzione frontale e parietale della cir- convoluzione marginale interna, o dell’ hilo degli emisferi denominata circonvoluzione del corpo calloso, o gyrus cinguli, e solo aveva la porzione temporale /, #m, di esso lei, detta subiculum cornu amonis, o circonvoluzione dell’ ippocampo. Il posto che avrebbero dovuto te- nere le due nominate porzioni di essa circonvoluzione marginale, ed il corpo calloso mancanti, veniva occupato dalle circonvoluzioni g, h, k, 1, che movevano dalla grande circonvoluzione marginale a, d, c, d, e, de- gli emisferi, e discendevano convergendo all’ orlo fronto-parietale del loro hilo ov’ esse terminavano, ricordando le pieghe raggiate di una borsa a scorsojo chiusa, o meglio semichiusa ; e così nella faccia interna degli emisferi, e soprattutto dei lobi parietali, dominava presso che sola la direzione trasversale delle circonvoluzioni. Le circonvoluzioni cerebrali poi erano tortuose senza eccessiva tortuosità, di mezzana lar- ghezza, piuttosto tondeggianti che piane, e distinte da solchi abbastanza profondi, cotalchè se il cervello non poteva dirsi complicato sotto questo rispetto, neppure dir potevasi semplice. Il lobo quadrilatero D, distinto pei due solchi 7, 8, era assai bene sviluppato, e così I’ occipi- tale E, F, ed il temporale F, G. Le due sostanze grigia e bianca del cervello erano sì nelle circonvoluzioni, come nelle altre parti, normali, se ne traggi alquanta injezione sanguigna maggiore del consueto. Nulla presentavano i nervi cerebrali di deficiente o di anomalo, nè di mor- boso. Raccolte tutte le parti di questo cervello, e poste sulla bilancia me ne risultò il peso di 1169 grammi così ripartiti: 1007 apparte- nevano agli emisferi cerebrali, 137 al cervelletto, e 25 alla midolla allungata ed al nodo. Il cervello infine ed il cranio che capivalo, ave- vano un leggierissimo grado di assimetria, e cadevano sotto il tipo in- termedio, od ortocefalo, misurando il diametro longitudinale del cranio 170 millim., il trasversale 134, per forma che la proporzione di questo a quello considerato come 100, o l'indice cefalico, era di 79. Confrontando il caso descritto cogli osservati e discorsi dagli au- tori, come Reil, Ferg, Griesinger, I. Sander, Longdon Down, Gaddi, Palmerini e De Lorenzi troviamo che l anomalia non è sempre così semplice, ma che alla mancanza del corpo calloso, e del setto lucido può aggiugnersi quella della volta, ed in gran parte anche delle com- 978 LUIGI CALORI messure. Senza che vengono quasi sempre notate di altre imperfezioni del cervello, quali sono la sua picciolezza od atrofia, lo scarso peso, il non protrarsi così in addietro da coprire il cervelletto, l’ avere i lobi frontali pochissimo sviluppati, l’ avere le circonvoluzioni semplicissi= me ed irne povero, l'avere i solchi che le distinguono, poco profondi ecc. Le quali concomitanze sono avute per di grande momento, avve- gnachè in esso loro più che nella mancanza del corpo calloso siensi avvisate le cagioni di questi due principalissimi effetti, cioè: 1° della mancanza stessa del corpo calloso, siccome leggiamo nel- la Fisiologia dei centri nervosi encefalici di F. Lussana e A. Lemoigne, i quali, discorso che hanno di quest’ anomalia, conchiudono che dalla congenita atrofia delle circonvoluzioni cerebrali dipendeva la deficienza organo-genetica del corpo calloso; 2° della debolezza cerebrale, o del perfetto idiotismo che per le più volte accompagna la congenita mancanza di esso corpo. Intorno alla quale ultima conclusione io non vorrò certo spende- re molte parole; avvegnachè io mi penso che saremo tutti d’ accor- do nel credere non valere la semplice mancanza del corpo calloso a produrre imbecillità o idiotismo, essendo in esso lui scaduta quel- la massima nobiltà postagli dal Lapeyronie, che salutollo qual sede dell’ anima, nè comprovata l’ opinione del Treviranus, che 1’ ebbe per un nesso fra i due emisferi così necessario da essere, insiem con le altre commessure, cagione della unità delle funzioni intellettuali: opi- nione già inclusa, se mal non mi appongo, in quella del Lapeyronie. Lo che tutto a tutti è già conto e saputo, e la conclusione di cui è discorso, viene senza fallo convalidata dall’ osservazione recitatavi; con- ciossiachè l’ individuo mancante del corpo calloso aveva, secondo che si argomenta dal dettone di sopra, un’ intelligenza comune; ma aveva in un medesimo il cervello abbastanza bene sviluppato nelle circon- voluzioni, e di peso certamente non piccolo, soprattutto negli emisfori che vedemmo di 1007 grammi. Ma passiamo oltre e fermiamoci al- quanto sulla prima conclusione, che la mancanza organo-genetica del corpo calloso dipenda dalla congenita atrofia delle circonvoluzioni ce- rebrali, o in altri termini che la formazione del corpo calloso sia su- bordinata allo sviluppo delle circonvoluzioni, e da questo dipenda. E vuolsi qui fare considerazione, che hanno cervelli piccoli, atrofici, a circonvoluzioni poco sviluppate, quasi nulle; eppure il corpo calloso non manca, ed hanno invece cervelli non atrofici a circonvoluzioni ab- DI TRE ANOMALIE DEL CERVELLO 279 bastanza sviluppate e contuttociò il corpo calloso manca. Lo che ci dà a vedere che la presenza, o la mancanza del corpo calloso, non dipende veramente od almeno necessariamente dal grado di sviluppo delle circonvoluzioni cerebrali; anzi uom potrebbe credere non ne di- pendesse di sorte. E per fermo i primordi della sua formazione sono a tre mesi, tempo in cui non ha alcun vestigio di circonvoluzioni; le quali poi cominciano ad apparire sol presso la fine del quarto, ed in- tanto il corpo calloso si è ito via via sviluppando e crescendo non altrimenti che si abbiano fatto in quella gli emisferi cerebrali. Questa corrispondenza, o simultà di sviluppamento, è molto notabile, e potrebbe far credere che la formazione del corpo calloso, piuttosto che dallo sviluppo delle circonvoluzioni, dipendesse da quello degli emisferi. Se non che vedemmo poter essere questi abbastanza bene sviluppati e non esservi il corpo calloso. Egli è dunque mestiero derivarne d’ altronde la formazione. Tiedemann e Foville posero che la formazione del corpo calloso fosse direttamente dalle irradiazioni peduncolari, le quali non prima escite dai grandi ganglj cerebrali, ed in ispecie dagli ante- riori o corpi striati, ripiegansi con una parte di esso loro internamente e compongono il corpo calloso. Ma questa non fu che mera ipotesi la quale dovette ben presto restituire il posto alla non per anche di- smessa derivante il corpo calloso dalle fibre convergenti originate dalle circonvoluzioni: ipotesi che vedemmo non essere nel caso nostro nep- pur essa sufficiente. Ma se così è, dove ne troveremo l’origine ? Ognuno sa che tutto viene da cellule e che la sostanza grigia è matrice della bianca. Ognuno sa che a’ lati del corpo calloso nel centro semiovale di Vieussens trovasi normalmente della sostanza grigia, e che codesta sostanza abbonda nel ginocchio e nello splenium di esso corpo (1). Posto ciò, egli è ovvio il pensare che il corpo calloso debba originare da questa sostanza, e che la esistenza, o la non esistenza di lui dipen- da dalla esistenza, o non esistenza di essa. L’ esservi o non esservi poi tale sostanza non dee importare allo sviluppamento degli emisferi e delle circonvoluzioni, se può mancare il corpo calloso ed aversi gli uni e le altre abbastanza bene sviluppate. Io ho la formazione del corpo calloso siccome indipendente dalle circonvoluzioni e dagli emis- (1) Vedi Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, Vol. III. Serie III. pag. 3. Osserva le Tav. 1-2. 280 LUIGI CALORI feri, considerando cotale corpo collegato in pari tempo cogli emisferi e colle circonvoluzioni, ma collegato per un legame nulla a quella necessario. Questo legame si effettua mediante quei processi delle grandi cellule della sostanza grigia del corpo calloso, i quali si prolungano ed anastomizzano coi processi delle cellule del centro semiovale, i processi delle quali pure congiungonsi con quelli delle cellule della sostanza grigia delle circonvoluzioni. Solo in questo senso si può, a parer mio, chiamare il corpo calloso la grande commessura degli emisferi cerebrali. Solo in questo senso; imperocchè ognun vede non essere, come loro immediata commessura, ammissibile. Concludo dunque che la presenza o mancanza del corpo calloso non dipende dal grado di sviluppo delle circonvoluzioni cerebrali o degli emisferi, ma dalla presenza o man- canza della sostanza grigia ad esso lui pertinente, e che il corpo cal- loso è bensì collegato cogli emisferi e colle circonvoluzioni, ma nè a queste, nè a quelli è subordinato nella sua formazione. Lo che con- sente col dettato che ogni parte si forma da sè, indipendentemente dalle altre, e che poi tutte convengono e congiungonsi alla produzione di quell’ uno meraviglioso che cotanto singolarizza l’ economia animale. FRACÀSDA? PADUESE O “GUBLI ‘9IT YU o ul ; oSIP_IMY8g 9 L. Calori. Anomalie del cervello. Tav Il mm Sa Lit. Frano® Gasanova SULLA CURA DELL'EMPIEMA STORIE E CONSIDERAZIONI DEL PROF. CAV. GIO. BRUGNOLI ( Letta nella Sessione 20 Novembre 1873) Netta dissertazione che nello scorso anno ebbi l’ onore di leggere innanzi a questo illustre Consesso, parlando delle applicazioni della toracentesi capillare nella cura degli essudati sierosi pleuritici, dissi pure che di questo mezzo terapeutico mi era mirabilmente servito per stabilire e confermare la diagnosi dell’ empiema e ad iniziarne almeno la cura. L’ empiema è certamente una delle più gravi successioni morbose, una delle più terribili malattie che si presentano nell’ esercizio pratico della medicina; è assai raro che la raccolta purulenta nel cavo tora- cico si procuri spontaneamente da sè stessa un’ uscita al di fuori per la via de’ bronchi o per le pareti toraciche ; è raro pure che, ciò av- venendo, non si formino infiltrazioni purulenti o un’ infezione generale pioemica; ovvero che non vi tengan dietro la permanenza di un cavo suppurante, di una fistola, la consunzione generale, ed il fatto morboso abbia a finire con una completa guarigione. Quando a raccolta sia di entità non è possibile 1’ assorbimento, e senza 1’ uscita di quelle marcie non vi ha salute, e già fino dalla più remota antichità fu stabilito che quando eranvi dati per ammettere con sicurezza un em- piema e che tolte le poche speranze di una risoluzione per assorbi- mento, o di una spontanea evacuazione per la via dei bronchi, o col formarsi un ascesso, si dovesse ricorrere all’ operazione dell’ empiema; oggi viene anzi dichiarato essere un punto di pratica medica sul quale tutti i medici sono d’ accordo, cioè la necessità di un atto operatorio TOMO 1V. 36 282 G. BRUGNOLI ogni volta che la natura purulenta del liquido espanso sia nettamente constatata. Ma l’ esperienza aveva già da molto tempo mostrato che anche questo mezzo non offriva nel più dei casi che una risorsa in- sufficiente ed incerta, e che in molte circostanze abbrevia la vita dei poveri pazienti. È certamente assai di sconforto il sentire solenne- mente (1) rammentare che un Dupuytren in 50 casi ebbe 48 morti, un A. Cooper nella sua lunga e numerosa pratica non potè registrare un sol caso di guarigione, e così il Velpeau nei suoi dodici operati. Però i casi di guarigione in individui che sembravano già spac- ciati, assicurando manifestamente la possibilità di felici risultati da un atto operatorio hanno interessato, a mio avviso, i cultori delle scienze medico-chirurgiche a studiare attentamente quali sieno le cagioni che così di spesso portano la morte negli affetti da empiema, quale invece sia la via ed i metodi di operare, i mezzi tutti che più facilmente possono condurre a buon fine. E già in questi ultimi tempi noi con- tiamo molti studi e ricerche che gli uomini più competenti hanno dato e danno tuttora alla scienza a beneficio della pratica su questo argo- mento; e l’esito ne è assai favorevole; difatti non sono rarissimi pui i casi di guarigione di empiema che sono stati riferiti: citerò in fra gli altri quelli menzionati da Chassegnac, Guerrin e da altri nella notevole discussione che nello scorso anno ebbe luogo all’ Accademia di Parigi (2); e qui in Italia quelli del Baccelli, del Cataneo, dell’ Orsi, del Rizzoli. Di questo felice successo che ha conseguito la terapeutica dell’ empiema non vi è accordo nello assegnare la causa. Vi hanno alcuni difatti 1 quali ne attribuiscono il merito ai metodi seguiti nel- l’operare; ma questi metodi sono diversi. Chi riporta guarigioni con- seguite colla semplice puntura, ripetuta al bisogno e fatta colla pre- cauzione che non entri aria nel cavo toracico, ritenendola un agente micidiale e funesto sul processo suppurativo. Chi ha fatti importanti per magnificare i risultati della puntura sottocutanea anche ripetuta. Chi non temendo mali dall’ ingresso dell’ aria nel cavo pleuritico introduce nel foro praticato un tubo da drenaggio; chi invece una cannula di gomma elastica; chi usa di una cannula metallica, e chi anche col trapano ha perforato una costola e al foro viene adattato una cannula (1) Bullet. de l’Académie de Méd. de Paris. S. 2. T. I. 1872. (2) Idem. SULLA CURA DELL’ EMPIEMA 283 con opportuno apparecchio. Chi diffendendo 1’ operazione dell’ empiema fatta colla incisione dalla taccia d’ essere il metodo più disastroso, af- ferma essere invece quello che dà maggiori speranze di buon successo, perchè una larga apertura lascia assai meglio dominare il cavo sup- purante e meglio topicamente medicarlo, e più facilmente ne escono le pseudo-membrane, i massi di fibrina concretizzata. Per altra parte vi hanno alcuni che riconoscono doversene i buoni successi alle cure di proprietà, di nettezza, di mezzi speciali con cui oggi si circondano i malati con vaste piaghe suppuranti; chi vede la salute di questi negli abbondanti lavacri, nelle iniezioni detersive, antifermentative, caustiche ecc. p. e. di acido fenico, di acido tannico, di tintura di jodio, di nitrato d’ argento. Chi in fine vuol dare la palma ai mezzi diagnostici oggi conquistati dalla scienza, i quali presto facendo conoscere con molta sicu- rezza la malattia, danno luogo ad operare quando l’ infermo è ancora dotato di forza, di resistenza organica ed il pulmone non ha perduto la facoltà di nuovamente espandersi e funzionare. Ma quando si volesse compilare una statistica di casi di empiema condotti a guarigione, sulle pubblicazioni periodiche ed in genere sugli annali della scienza, non se ne avrebbero che cifre ben esigue; e quindi ognun vede che le varie proposte ed i diversi metodi ed opi- namenti che ho accennato, hanno fatti clinici così scarsi a loro fonda- mento da lasciare in forse sul partito da adottare nella circostanza di un empiema da causa interna. La pratica medico-chirurgica aspetta ancora una definizione relativamente al metodo ed alla via da seguire in simili contingenze. Avendo io avuta occasione di curare parecchi casi di empiema sotto alcuni aspetti assai importanti; e specialmente di ottenere la guarigione in due assai gravi ove sollecitamente operai, constatando colla puntura capillare la diagnosi, ho stimato che le storie di questi fatti clinici anche per loro stesse possano tornare d’ interesse e da meritare annotazione. Ed è perciò che oggi a solvere il penso accademico ne fo argomento del mio discorso, non già colla persuasione di appianare le controversie annunciate, ma soltanto ho in mira di aggiungere alcuni altri materiali che ne preparino la definitiva soluzione, e di mostrare con essi il van- taggio che può ritrarsi dalla puntura capillare per stabilirne bene la diagnosi affine di poter agire presto e con sicurezza, e solamente az- zarderò di sottoporre al vostro savio giudizio A. P. l’ avviso che porto sul grave argomento che vi ho posto innanzi. 284 G. BRUGNOLI E subito passo alla narrazione dei fatti clinici che vi ho annunziato. Osservazione 1.2 Francesco Grandi, uomo simetrico, robusto, di 41 anni, di professione ortolano, non disordinato nel vivere, soltanto un po’ troppo propenso al ber vino, non però da essere dichiarato un ubbriacone, in seguito a gravi fatiche per strapazzi e per vicissitudini atmosferiche ammalò nel giugno 1871, gravemente ed acutamente, e nel giorno 17 di detto mese entrava fra gli infermi assegnati alla mia Sezione Medica in questo Spedale Maggiore contando, a quanto pareva, il 5° giorno di malattia ma non bene definito, giacchè anche prima di allettarsi da due o tre giorni assai male si trovava in salute. L’ in- fermità presentossi fin da principio grave e violenta, febbre ardita, tosse, dolentezza a tutto il petto specialmente a sinistra, respirazione affannosa ed escreato mucoso sanguigno pneumonico, polso a 100, temperatura 39%, ottusità alla percussione alla metà circa del torace destro e più posteriormente, ivi respiro tubario; in breve dirò che si appalesava abbastanza bene delineata la diagnosi di pneumonite destra siedente al lobo superiore cui devonsi aggiungere gli epiteti di acuta e cruposa. Era già stato medicato con salassi, applicazione di sanguisu- ghe, con diverse pozioni purgative ed altri usuali e adatti presidj. Per tre giorni io gli amministro le polveri di calomelano ed oppio (metodo inglese); poscia 1’ infusione di digitale ed ipecacuana essendo- chè persisteva gagliarda la febbre. Ma passati cinque giorni riscontro i segni della risoluzione in alcuni punti del lobo superiore, mentre l’ottusità alla percussione, la mancanza di suono vescicolare ed il soffio bronchiale si erano estesi in basso in ispecie posteriormente. Per questi dati fui condotto a ritenere che oltre al pulmone il processo flogistico avesse invaso la pleura ed un essudato pleuritico portasse i nuovi sin- tomi. In onta alla cura adatta messa in opera per questa complicazione, e fra i mezzi usati accennerò l'applicazione di un vescicante alla parte, la raccolta aumentava, la febbre perdurava ardita e con notevoli esacerbazioni vespertine, il malato dimagriva, la fisionomia aveva as- sunto un colore sporco terreo, la tosse secca urtante dava talvolta un escreato mucoso che decisamente aveva mescolato del pus; la ri- suonanza della voce, dirò infine, nulla aveva dell’ egofonia, e special- mente il fremito o vibrazione delle pareti toraciche quando il malato parlava anche a voce alta, era affatto scomparso nella parte inferiore del torace destro tanto anteriormente che posteriormente. Per tutti SULLA CURA DELL’ EMPIEMA 285 questi dati entrai nel sospetto che invece di un essudato sieroso con- seguenza della ammessa pleurite reumatica per diffusione o complica» zione, qui si avesse invece una raccolta purulenta proveniente da una pneumonite suppurativa. E fu appunto dietro questi dati e dietro tali ed altre considerazioni, che quantunque fosse palese che la raccolta nel cavo toracico destro non occupasse l’intera cavità, ma soltanto i due terzi di essa, mi decisi a fare una puntura col sottile trequarti da me usato per la toracentesi capillare negli essudati sierosi; e ciò feci nella mattina del 3 Luglio, 16* giornata di dimora nello Spedale, praticando la puntura nel sesto spazio intercostale e nella linea ascellare. Uscì immediatamente dalla cannula un pus cremoso di buona natura, e ne ottenni circa 500 grammi. Chiuso il foro, il malato ebbe grande al- leviamento de’ suoi mali, ma questo durò poco; dopo 4 dì la raccolta era rinnovata e forse maggiore di prima e quindi nel giorno nove, sei dì dopo la prima, feci la seconda puntura, ma questa tenni due dita distante dall'altra di 4 centimetri e più verso la colonna vertebrale nel settimo spazio intercostale perchè le marcie più agevolmente uscis- sero e la praticai con un grosso trequarti da paracentesi addominale e così estrassi in una sol volta un kilog. e 400 grammi di vero pus. Prima di levare la cannula del trequarti vi introdussi una siringa di gomma elastica e feci in modo che, quella tolta, questa rimanesse, e per essa venissero fuori le marcie e si potessero fare iniezioni entro il ca- vo suppurante. Di tratto in tratto la siringa veniva cambiata aumen- tandone il calibro fino a metterci un tubo di gomma elastica del dia- metro di 8 millimetri fenestrato nella porzione che andava a pescare nella cavità, ed allo esterno fermato ad una placca ed inestato ad altro tubo elastico che in seguito metteva capo ad una boccetta di vetro e nella quale liberamente passava la materia che esciva pel foro, imi- tando presso a poco l’ apparecchio che ha descritto il Dott. Cataneo nel suo opuscolo - Sulla cura dell’ empiema ecc. Milano 1871. La quantità di materia che uscì dal foro, fu veramente straordi- naria, quella di due giorni dopo l’ intromissione della cannula ascese ad un Kilo e 380 grammi, poscia se ne faceva l’ estrazione tre, quattro ed anche più volte al giorno usando di una siringa di vetro per fare l’ aspirazione. Ben presto diedi mano a copiosi lavacri mediante inie- zioni, prima con acqua tepida e poi fredda e specialmente con acqua in cui era sciolto acido fenico nella dose di 24,- Procurai di soste- nere le forze con decotti di china china, buon nutrimento ecc. Allora 286 G. BRUGNOLI non tardò a scomparire la febbre ed in ispecie 1’ esacerbazione vesper- tina; a poco a poco rinacquero le forze, si rifece alquanto la nutri- zione e gradatamente andò diminuendo la formazione del pus, ed il pulmone tornò a distendersi ed a far sentire il murmure vescicolare fino assai in basso e come odesi normalmente. Nel lungo corso di questa suppurazione non vi furono sinistre accidentatità di gran mo- mento. Per due volte si presentò con imponenza una diarrea da irri- tazione intestinale da far temere di una infezione pioemica, ma in breve con opportuni mezzi venne dissipata. Alla fine di agosto e cioè circa dopo due mesi e mezzo di malattia, la quantità della marcia che usciva dal foro fistoloso essendo ridotta a poche goccie al giorno, le- vai il tubo elastico ch’ era stato sempre in permanenza e vi sostituii uno stuello di filaccia; ed infine anche questo lasciato da parte e sol- tanto coperto il foro con un globo di fila e cerotto dopo pochi giorni il ritrovai interamente chiuso e cicatrizzato, e nel giorno 12 settembre il Grandi congedavasi dallo Spedale interamente guarito. Se il lato destro del torace nella sua parte inferiore mostravasi anche un po’ ri- stretto, il pulmone respirava bene in ogni lato e soltanto avvertivasi qualche rumore di soffregamento. Questo uomo tornò dopo breve tem- po ai lavori del campo e nel successivo inverno sostenne senza incon- venienti le dure fatiche che ne sono richieste e si è conservato sempre fin quì in ottima e fiorente salute. In questa cura fui coadjuvato dal chirurgo residente Dott. Gia- como Bertoloni, ed in modo particolare dal medico assistente d’ allora il Dott. Luigi Corazza che un morbo fatale rapiva giovanissimo alla scienza medica di cui pei lavori pubblicati era già stato riconosciuto un indefesso e distinto cultore e che quì ho voluto nominare ancora per onorarne la cara memoria. Ora passo ad una seconda osservazione. Osservazione 2. Bongiovanni Arcangelo di Persiceto di professio- ne muratore, d’ anni 37, è un uomo che non ha i segni caratteristici di florida salute; essendo stato malconcio dalle febbri periodiche, i visceri sottodiaframmatici erano rimasti voluminosi, ed il colore e l’ aspetto tutto indicavano a qualche grado di cachessia. Sulla fine del novembre del passato anno 1872 gravemente infermò e la malattia si presentò con febbre acuta preceduta da intenso freddo. Nel 2 di- cembre fu condotto così malato a Bologna e collocato nello Spedale SULLA CURA DELL’ EMPIEMA 287 Maggiore nella Sezione Medica a me affidata. Io lo trovai con febbre gagliarda, accusava dolore a tutto quanto il torace destro, aveva molta tosse con escreato sanguigno; anche i dati fisici tutti confermavano la diagnosi di pneumonite destra al lobo medio e al superiore, e sem- brava pure che il male contasse già l’ ottava giornata. Salasso, polveri di calomelano ed oppio; indi infusione di foglie di digitale e radice di ipecacuana, e poscia polveri del Dower furono i principali compensi terapeutici messi in opera. La malattia sembra cedere e promettere riso- luzione, diminuisce la febbre, e la tosse; l’ escreato si fa mucoso, e tutti i sintomi si ammansano; ma anche quì in 16° giornata il dolore al torace destro riapare e si rende assai molesto, la febbre risorge e nella sera, è più ardita segnando il 39° gr. il termometro ; in allora si pre- senta pure una rilevante ottusità alla percussione sulla parte inferiore del torace destro con mancanza di suono respiratorio e con tale com- plesso di sintomi da indicare la raccolta di un umore in quella cavità. Se non che l’insistenza di tosse assai urtante e ad accessi, 1’ emissione di un escreato purulento però scarso, l’ irregolarità del corso tenuto dalla malattia ed in ispecie dalla febbre, fin d’ allora mi fecero na- scere il dubbio che quella diagnosticata raccolta piuttostochè un essu- dato sieroso fosse materia purulenta, e fossi in presenza di un em- piema. Cionondimeno cerco di ottenere la risoluzione per riassorbi- mento coll’amministrare il joduro di potassio, coll’applicare un largo ve- scicante sul lato del torace affetto, e pare che sulla prima se ne possa sperare bene; ben presto però le condizioni del malato peggiorano e mostrano che il fatto non risponde all’ aspettativa; la febbre vige sempre con esacerbazioni vespertine e sudori notturni, la nutrizione scade assai, la tosse è sempre molesta urtante e ad accessi, la percus- sione colla ottusità indica che quattro quinti del torace destro sono occupati da un liquido e manca ivi ogni suono respiratorio ; nel restan- te, cioè nella parte superiore si sente il murmure vescicolare, con rantoli bronchiali a grosse bolle: la circonferenza di quel lato è mag- giore di quella dell’ altro di 2 centimetri ed è scomparso affatto il fremito della parete toracica quando il malato parla. Fu allora che sempre più per questi dati vedendo appoggiato il sospetto di empiema e quantunque non vi fossero i dati di un versamento completo mi decisi alla toracentesi capillare e come di saggio; e la praticai colle regole e modi altra volta indicati, e ciò fu nel giorno 8 gennaio, 40° di malattia; ed estrassi più di 500 grammi di un liquido purulento assai 288 G. BRUGNOLI denso. Per lo stato e le condizioni dell’ infermo in quel dì, estratto colla siringa aspirante la quantità di pus che potei, stimai conveniente di null’ altro fare che chiudere il foro, e levare la cannula. E soltanto dopo cinque giorni, quando i sintomi tutti si erano di nuovo aggra- vati, resi minaccevoli, e indicanti che la raccolta si era riprodotta e forse in quantità maggiore, mi affrettai a fare nuova puntura, ma questa eseguii con un grosso trequarti, e ricavai altri 500 grammi di pus. Nella cannula introdussi una sonda di gomma elastica che lasciai in permanenza e per essa due, tre volte al giorno con una si- ringa aspirante si procurava di estrarre tutta la materia purulenta che si poteva. Le pratiche seguite furono eguali a quelle dell’ altra osser- vazione. La quantità di marcia che ne uscì fu veramente strabocche- vole e tale da non essere facilmente creduto. Abbondanti lavacri, iniezioni colla soluzione di acido fenico non furono risparmiati più volte ogni giorno; e si cercò di sostenere le forze nel corso di così lunga e copiosa suppurazione con buon nutrimento, decotti di china e qualche po’ di vino. Ma una grave complicazione mise a gran pe- ricolo la vita di quest’ uomo nel momento appunto che sorgeva una lontana speranza di salute. Si presentò sulla fine del Gennaio una febbre continua di gradi 38, 38% e 39, con esacerbazioni meridiane precedute da freddo, risentimento in ispecie alla milza da farmi dubi- tare che l'infezione del miasma palustre sofferta in passato avesse ri- preso dominio; e diffatti quantunque ridotto a condizioni da ritenerlo già spacciato, dopo alcuni giorni di amministrazione di una soluzione di solfato di chinina la complicazione fu vinta e il malato ricondotto alle condizioni di prima. Ma non fu questa la sola volta che 1’ infe- zione miasmatica fece mostra di sè e venne ad imporci come prima per una infezione pioemica. Dopo venti giorni dalla prima invasione della febbre continua periodica si presentò di nuovo 1’ accesso della febbre che fu intermittente; e allora venne troncata coll’ amministrazione del febbrifugo del Warburg. Quantunque poscia usassi di deostruenti e marziali, non passò un mese che la febbre nuovamente si affacciò as- sai intensa e col tipo di continua remittente quotidiana, nell’ accesso la temperatura ascendeva a gradi 39 * indi discendeva ai 38 “A; e così perdurò per sette giorni, mise di nuovo la vita dell’ infermo in gra- ve pericolo; durante il qual tempo fu amministrata una soluzione di bisolfato di chinina la quale venne continuata per altri otto giorni ancora, nè più ebbe a presentarsi altra forma di febbre periodica. E SULLA CURA DELL’ EMPIEMA 289 per rispetto al cavo suppurante non mi fermerò sui molti particolari che sarebbero da notare, accennerò solamente che da prima furono fatte in esso abbondanti iniezioni con una soluzione acquea di acido fenico (1 a 500); in seguito però fu necessario passare ad altro liquido disinfettante ed astringente, mentre le esalazioni d’ acido fenico nel- l’ interno del cavo toracico si facevano sentire alla gola del malato, l’ aria espirata ne era commista, ed arrecava tale urto di tosse da non essere tollerato. Allora vi sostituii una soluzione di solfato di ferro sciolto con poche goccie d’ acido cloridrico, e poscia ricorsi ad una soluzione di acido tannico (2 in 500). Il cavo mostrò che mano mano diminuiva, e la materia purulenta si ridusse a minime propor- zioni a tal che alla fine del mese di marzo fu affatto levata la can- nula ed ogni altro apparecchio, e dopo 15 giorni il foro si chiuse stabilmente. Il Bongiovanni, dozzinante nello Spedale, amò rimanervi fino al 21 maggio nella tema che la guarigione non fosse duratura, e per riprendere maggiormente le forze; ed in vero usciva dallo Spedale in condizioni assai buone, ed ha continuato a godere salute avendo anche ripreso il suo mestiere. Il Medico Assistente Sig. Dott. Annibale Venturi quì merita onorevole menzione per le molte premure con cui mi coadiuvò in questa cura. Di altri due fatti, occorsimi nello Spedate Maggiore e relativi all’ argomento che studio, credo conveniente di fare parola; li accen- nerò soltanto per non oltrepassare i limiti che mi sono fissati. Osservazione 3. In questa trattasi di una donna di 50 anni, Anna Ottani, che nel Novembre 1870 entrava nello Spedale dicendosi malata da un mese; aveva essa una tosse assai molesta che portava fuori un escreato in copia e di un fetore così acuto penetrante da farlo subitamente riconoscere per quello della cangrena pulmonale; eguale fetore aveva l’ aria espirata; non eravi febbre che qualche rara volta sulla sera, la nutrizione alquanto scaduta. Pei dati fisici rac- colti si poteva precisare che alla metà, e più dalla parte posteriore, del pulmone sinistro esisteva il cavo o focolajo cangrenoso; ma l ottusità alla percussione con mancanza di murmure vescicolare si estendeva a tutta quanta la parte inferiore posteriore e laterale dello stesso torace. Per quattro mesi sono messe a prova senza interruzione le medicature che io sapessi più raccomandate in tali evenienze; ed allo interno fu amministrata prima la trementina, i fiori di benzino, la mirra, il catra- TOMO IV. 3° 290 G. BRUGNOLI me, l’acqua del Pagliari, i balsami copaibe e peruviano. Si pratica- rono dalla malata inspirazioni con acque medicate polverizzate con molte delle nominate sostanze, ma tutto riescì sempre ad un risultato insufficiente. Nel dubbio che l’ottusità che si riscontrava nella parte po- steriore del torace sinistro e sulla quale pareva che poggiasse, dirò così, il cavo cangrenoso, fosse data da una raccolta di icore purulento e ad essa fosse dovuto il permanere sì a lungo del processo cangrenoso, mi decido ad una puntura di saggio; dalla puntura fatta vengono estratti circa cento grammi di pus inodoro e con buoni caratteri, non vi hanno segni di comunicazione col cavo cangrenoso. Lasciato chiudere subito il foro, nulla insorge di sinistro; invece dopo poco cessa la tosse e l’escreato; la donna scorsi soli 17 giorni dalla puntura esce guarita dalla Spedale e con mia non lieve sorpresa non sapendo poi darmi ragione intera del fatto ed assegnare quanta parte ebbe la puntura in sì felice esito. Osservazione 4.* Anche la dettagliata istoria della malattia per la quale morì Pizzoli Luigi d’ anni 24, garzone caffettiere, quantunque avesse infausto esito è a mio avviso assai interessante e meritevole di studio. Ed eccone un cenno. Nell'aprile dell’ anno scorso quest'uomo entrò nello Spedale essendo già da qualche tempo malato per palpita- zione di cuore, e disse per affezione vascolare. Mi sembrò che si trat- tasse di una endocardite, però non bene caratterizzata: ma i sintomi prevalenti indicavano senza esitanza ad una cangrena pulmonale, ma- nifesta in ispecial modo per lo sputo caratteristico, un umore scorre- vole scuro fetidissimo, e gl’indizi di un cavo alla parte media del pulmone destro, inferiormente si aveva ancora il mormorio respiratorio e suono quasi normale alla percussione ; la tosse è assai molesta e non lascia riposo al povero infermo che si trova in gravi e temibili con- dizioni. Tuttavia per non pochi giorni tollerò assai bene le sue soffe- renze ed il male procedette senza ulteriore aggravamento. Decorsi venti giorni circa ebbe luogo grave peggioramento portato da impo- nente dispnea, la quale se in parte si doveva alla copiosa secrezione cangrenosa che invadeva i bronchi, dovevasi a mio avviso ripetere di più da una raccolta di liquido entro il sacco della pleura destra e che l'occupava per metà, e difatti per più della metà inferiore del torace destro non più suoni respiratori e ottusità di suono alla percussione. Per questo fondato sospetto, condotto dall'indicazione terapeutica ur- SULLA CURA DELL’ EMPIEMA 291 gente che vi vedeva, quantunque quell’ uomo potesse dirsi moriente, mi decisi di annuire all'invito pressante ch’ ei mi faceva di non la- sciarlo così miseramente perire senza fare il tentativo ch’ era stato ventilato il giorno innanzi. Quindi pratico la puntura di saggio e per essa esce copia strabocchevole di pus così fetido da ammorbare l’ atmo- sfera cireumambiente a modo da minacciare deliquio a chi vi si trovava. Colla sottrazione di quella materia il malato si riebbe alquanto dallo stato di agonia, la tosse e la dispnea si calmarono grandemente, di- minuì d’assai l’escreato, si rianimarono alquanto le forze e fuvvi tale mitigazione di tutti i sintomi per circa quindici giorni da doverne fare le meraviglie, però non fu tale da cambiare la gravità del pronostico. Alla cannula sottile ne fu sostituita una di maggiore calibro e ad essa un tubo di gomma elastica; e più volte al giorno veniva vuotato il cavo che dava sempre materia fetidissima, coi caratteri della cangrena, nè le molte e ripetute iniezioni con acido fenico, con solfato di ferro, con tintura di jodio ecc. valsero a togliere ad essa il cattivissimo odore cangrenoso. Insorsero allora accessi di febbre preceduti da intenso freddo indicanti ad una infezione pio-icoremica la quale dopo cinque giorni portava morte. E la necroscopia fatta dall’ Assistente Sig. Dott. Venturi alla presenza mia e di altri tornò di uno studio assai inte- ressante e mise appieno in luce le diverse fasi della malattia. Si rilevò adunque una cangrena pulmonale che di tanta estensione non vidi mai; essa occupava per ben due terzi del pulmone destro e nella parte infe- riore: di questo processo ben chiaramente ne riscontrammo la causa e cioè l’ occlusione dei due rami del tronco destro dell’ arteria pulmo- nale, ma specialmente di quello che si distribuisce al lobo medio; e l’ occlusione veniva fatta da uno zaffo fibrinoso embolico della gran- dezza circa di un seme di fava con alcune piccole appendici ravvolte sul corpo principale come a gomitolo, e che ritenni provenire da una endocardite del ventricolo destro, giacchè trovai qui il fatto rarissimo della lesione anatomica della flogosi dell’ endocardo sulle valvole del- l’ arteria pulmonale, le quali erano ingrossate, rosse e con essudato a frangie; e a questo processo partecipavano in minor grado la tricu- spidale e 1° endocardo parietale del ventricolo, mentre sull’ endocardo del ventricolo sinistro appena appena ve n’ erano traccie. In altri due casi di empiema vastissimo entropleurico ho pratica- to la puntura l’ uno lo stesso giorno di suo ingresso allo Spedale, l’altro nella stessa visita di consulto a cui fui sopracchiamato, le cose 999 Q. BRUQNODI orano sì gravi da dovere dichiarare tale determinazione un disperato tentativo. E quantunque si estraessero materie purulenti e fetide in copia grande e per qualche ora i malati fossero alquanto alleviati, non tardò di due giorni l'esito letale. Forse un tentativo più solle cito poteva lasciare qualche buona speranza. I fatti clinici che vi ho esposto A. P.a me sembra che ben chia- ramente mostrino quali e quanti vantaggi nella cura dell’empiema da cnusa interna si possono ottenere dalla toracentesi capillare, specialmente poi se mettiamo a calcolo la necessità di dare esito alla materia pu- rulenta raccolta nel cavo pleurico; la ditticoltà di stabilire con sicu- rezza la diagnosi differenziale fra 1 empiema ed un essudato solido, un carcinoma, un echinococo od altro tumore del pulmone o delle parti annesse; e se mettiamo a calcolo la innocuità, e la semplicità del- l'atto operativo della puntura capillare del torace, come ebbi a dichia- raro nella Memoria che l'anno scorso ebbi l onore di leggervi. Per la qual cosa io non credo di null'altro dover aggiungere su questa parto dell’ argomento. Ma la puntura con sottile trequarti certamente non basta alla cura di questa grave morbosità, e ritengo che sieno da porsi fra le eccozioni i casì di guarigione del genere di quelli riferiti da Guerrin e di quello della mia 3.% Osservazione. Tuttavia talvolta è lecito spe- rato anche nelle eccezioni alla regola ordinaria e starne quindi in aspettativa. Quando però il cavo sia vasto io sono d’ avviso che sia necessa- rio moorrere presto ad altro espediente. Ed allora ci vengono innanzi diversi metodi sui quali far cadere la scelta. Non parlerò della tra- panazione di una costola per dar passaggio alla cannula di metallo, al perchè mi sembra metodo già solo rimasto nella storia dell’ arte. Sul tubo a drenaggio posto nel foro del trequarti in oggi tanto racco» mandato dal Chassegnac avrei ad emettere il timore della infiltrazione del pus nelle pareti toraciche, quando non fosse fenestrata soltanto la parte che pesca nel cavo. La contro apertura dall’ interno all’ esterno tanto desiderata dal Prot. Baccelli e da potersi eseguire come bene proponeva l' illustre nostro Prof. Rizzoli colla siringa con asta a dardo, ch' Egli adopera per la puntura del meato uretro-vescicale chiuso, non so sia stata messa in pratica e con quale successo. Per cui i due metodi che si contendono il primato restano a mio avviso, la larga incisione, cioò l'antica operazione dell’ empiema e questa viene racco- SULLA CURA DELL’ EMPIEMA 293 mandata dagli splendidi risultati ottenuti in questi ultimi tempi dal Prof. Rizzoli, dal Romei, dal Moutard-Martin e da altri ancora; e la puntura coll’ introduzione di un tubo di gomma elastica pel quale vuotare e lavare il cavo suppurante come provano i fatti di guarigione pubblicati dal Baccelli, dal Cataneo, dall’ Orsi, e le due istorie ripor- portate quì sopra. Io ritengo però che la preferenza non debba essere assoluta ma relativa alla specialità del caso e quando sianvi materie solide da uscire, quando non si possa ottenere con facilità l’ intero svuotamento del cavo, quando la suppurazione si renda abituale sia di necessità ricorrere alla larga incisione. Come medico mi attenni al foro soltanto, e la guarigione ottenuta completa neanche in tre mesi, me ne rendono soddisfatto. Non tacerò che in ogni metodo le iniezio- ni antisettiche saranno indispensabili e credo che assai a questo mezzo si debba il buon esito della guarigione. Ma non più e termino, e termino trepidante pensando che non chirurgo nel parlare della medicatura di malattie del pulmone e della pleura sono entrato a discutere innanzi a Voi un gravissimo argo- mento di spettanza della chirurgia. CATALOGO MOLLUSCHI FOSSILI PLIOCENICI COLLINE BOLOGNESI DEL DOTT. LODOVICO FORESTI ( Letta nella Sessione 15 Gennaio 1864) PARTE II (CONCHIFERI E BRACHIOPODI) Peso di incominciare il catalogo dei Molluschi Conchiferi e Brachiopodi del pliocene bolognese, catalogo che viene a formare la seconda parte della Memoria già letta nel 1868 in questa illustre Accademia, mi corre l'obbligo di far conoscere come, durante questo lungo intervallo, abbia eseguite ripetute escursioni nelle balze della nostra provincia e fatte interessanti osservazioni sopra molte collezioni di molluschi viventi e fossili, visitate in parecchi musei d’Italia e presso alcuni particolari, per cui posso oggi molte altre specie di Gasteropodi aggiungere al catalogo di già stampato e modificare al- cune denominazioni divenute indispensabili mercè i progressi della con- chiologia. — Fa d’uopo inoltre che faccia manifeste alcune altre in- teressantissime modificazioni da praticarsi nella divisione generale del pliocene della nostra provincia e così essendo al corrente della Scienza rendere più completo ed interessante ai geologi ed ai paleontologi questo mio lavoro sui Molluschi fossili pliocenici delle colline bolognesi. Incominciando da quest’ ultima parte dirò brevemente di quanto concerne la litologia e la geologia essendo perciò indispensabile, per maggior chiarezza, che ripeta alcune cose già dette nella mia prefazione. Varie sono le roccie che prendono parte alla formazione del pliocene nella provincia bolognese, ma a due forme litologiche prin- 296 LODOVICO FORESTI cipali sì riducono quelle che contengono in certa quantità avanzi or- ganici fossili, e cioè le sabbie gialle e le argille turchine. Per mol- tissimo tempo si è creduto che queste due roccie così bene distinte fra loro e per l'apparenza e per la diversità dei materiali di cui si compongono, fossero ancora un facile e ben sicuro limite per distin- guere i piani nei quali si poteva dividere il pliocene, e così mentre tutte le sabbie gialle costituivano il pliocene superiore tutte le ar- gille turchine ne rappresentavano l’inferiore. Per moltissime località si poteva ritenere giusta questa distinzione nel senso che queste due roccie trovandosi l’ una all’ altra sovraposta, ciò dipendeva solo per oscillazioni del suolo e perciò essersi il mare pliocenico ora allargato ed ora ristretto, ma naturalmente poi non erano in generale che de- positi contemporanei di uno stesso mare essendo le sabbie gialle un deposito littorale e le argille turchine invece un deposito d’alto fondo; per altre località poi questa distinzione era inammisibile stantechè le sabbie gialle o sovrastavano ad argille turchine litologicamente ben diverse dalle prime ovvero ad altre roccie appartenenti ad altre for- mazioni. Osservando la natura litologica di queste roccie si è facile l’ac- corgersi come nella provincia bolognese una parte delle sabbie gialle e particolarmente quelle che vestono i fianchi e il culmine delle ulti- me colline che sfumano alla pianura, siano poco aglutinate e si man- tengano sempre collo stesso aspetto più o meno friabile, come si os- serva a Zola-Predosa, S. Lorenzo in collina, Monte Oliveto, Castel 5. Pietro ecc. mentre poi se ne incontrano altre che trovansi in quella zona di colline più alte che più si avvicinano all’Apennino, le quali o sì mostrano interamente compatte come a Pieve del Pino, Ancogna- no ecc; o presentano veri strati di molassa alternanti con strati più decisamente marnosi come a Riosto, oppure presentano delle alternanze di vere sabbie con veri strati di molassa, come si può facilmente os- servare alle Lagune ed in altre località. Anche le argille turchine mostrano delle differenze, ed infatti quelle che s° incontrano nella prima zona sopracitata appariscono di una tinta turchiniccia intensa ed in generale composte di sola argilla, mentre invece in alcune località della zona più apenninica si mo- strano di un colore più chiaro e sono mescolate a della sabbia, percui maggiormente assumono il carattere di una vera marna; ed altro ca- rattere anche maggiormente differenziale si è il modo diverso di di- CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 297 sagregarsi sotto l’ azione degli agenti atmosferici, per cui io ritengo che stiano a rappresentare la porzione più profonda del pliocene in- feriore sì per i dati litologici, per la loro posizione stratigrafica e più ancora per le risultanze derivate dal numero e qualità dei molluschi ivi raccolti, come appare manifesto dal quadro sinottico che forma appendice a questa memoria. Le lunghe e ripetute escursioni praticate nelle colline bolognesi col Prof. Capellini per studiare la geologia della nostra provincia, non che le varie scoperte di preziosissimi resti di vertebrati fossili che sono stati soggetti di interessantissime memorie (1) e che formano sempre la meraviglia degli scienziati che visitano il museo di geologia e pa- leontologia, avevano già da molto tempo fatto nascere il dubbio al suddetto Professore come il nostro pliocene per la sua divisione a- vesse bisogno di subire delle modificazioni. Gli studi fatti dal Prof. Capellini per illustrare il Felsinoterio da me trovato e scavato nelle sabbie marnose giallastre di Kiosto ven- nero a togliere il primo sospetto ed a mostrare col fatto come le suddette sabbie giallastre per la posizione loro stratigrafica e per i fossili che contenevano non potevano più identificarsi con le sabbie gialle d’ altre località bolognesi; ed in appoggio di queste vedute il Professore subito pubblicava una porzione della Carta geologica della provincia di Bologna (2), dandogli di ciò occasione il Congresso prei- storico che allora aveva luogo nella nostra città. In questo brano di carta geologica si osserva infatti come v’abbia una prima zona che dalle colline che cireondano la città si estende a ponente e nella quale si comprendono le note località fossilifere di S. Lorenzo in collina, Pradalbino, Monte Vecchio, Monte Oli- veto ecc. questa zona si compone principalmente di sabbie gialle e di argille turchine, roccie che rappresentano il pliocene superiore e che per comodità di studio si può dividere in due piani, ma nel senso (1) Capellini, Delfini fossili del bolognese (Memorie dell’ Accad. delle Scien. dell'Istituto di Bologna, Ser. 2* Tomo III, 1864). — Idem, Balenottere fossili del bolognese (Mem. dell’ Accad. delle Scien. dell'Istituto di Bologna, Ser. 2° Tomo IV, 1865). — Idem, Sul Felsinoterio sirenoide alicoreforme dei depositi littorali pliocenici dell’ antico bacìno del Mediterraneo e del Mar nero (Mem. dell’Accad. delle Scien. dell’ Istit. di Bologna Ser. 3° Tomo I, 1872). (2) Capellini, Carte géologique des environs de Bologne et d’ une partie de la vallée du Reno. 1871. TOMO IV. 38 298 LODOVICO FORESTI della natura dei materiali di cui si compongono queste due roccie, non già nel senso cronologico, come ho di sopra accennato; ed anche se vuolsi nel senso della forma speciale ai due depositi, essendo l’uno deposito littorale e l’ altro d’ alto fondo. La seconda zona poi, più estesa della prima, si compone in generale di sabbie marnose gialla- stre le quali verrebbero a costituire la porzione inferiore del pliocene, ed esse parimenti rappresenterebbero la porzione littorale dell’antico mare pliocenico, deposito contemporaneo delle più profonde argille tur- chine, le quali starebbero a rappresentare il piano Piacentino del Pa- reto (1), piano che dal bolognese passando nel modenese si estende al parmiggiano ed alla provincia di Piacenza. Comprenderebbersi in questa seconda zona altre località interessantissime per i fossili e cioè : Riosto, Lagune, Rasiglio, Monte Maggiore, Monte Biancano ecc. Trovandosi poi quest’ ultime sabbie marnose giallastre in alcune località sovrapposte ora a marne mioceniche ed ora ad argille scagliose riferibili, la maggior parte, al cretaceo superiore, egli è evidente come questo fatto stia ad indicare a varie e ripetute oscillazioni del suolo: ma per viemeglio spiegare questo fenomeno, a maggior conferma di quanto ho accennato e per stabilire la cronologia di questo deposito, trovo indispensabile il ripetere testualmente le parole del Prof. Ca- pellini, nel suo lavoro sul Felsinoterio (2) — , le sabbie marnose » cementate sopra ricordate doversi considerare come pliocene antico » O parte inferiore del terreno pliocenico. Queste sabbie infatti, essen- n dosi depositate in parte alla fine del periodo miocenico e in parte » contemporaneamente alle più antiche argille turchine plioceniche, i n lembi di esse più prossimi alla riva, per ragioni che accennerò fra » poco, riposano d’ ordinario sul cretaceo e sull’eocene; e mentre la » parte mediana della gran zona s’'adagia sulle roccie mioceniche, il » lembo primo che si costituiva come il più lontano dalla riva sì » trova stratigraficamente paralello alle marne mioceniche superiori, » per cui una parte di queste sabbie sono antiche quanto le più re- » centi marne mioceniche e la maggior parte di esse sono contempo- (1) Pareto, Note sur les subdivisions que l’on pourrait établir dans les terrains tertiaires de l’ Apennin septentrional (Bull. de la Soc. géolog. de Fran- ce. Tom. 22, Ser. 2* pag. 210). (2) Capellini, Sul Felsinoterio ecc. opera citata. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 299 ranee delle argille plioceniche inferiori, come viene confermato anche dalla paleontologia ,. »s La potenza enorme raggiunta da questo deposito littorale, e l’avere parte dell’ estremo lembo più recente adagiato sulle roccie cretacee, rivela che dopo il movimento di sollevamento, per il quale alla fine del periodo miocenico lungo le isole costituite dalle roccie eoceniche, cretacee e giurassiche dell’ apennino, si formarono parec- chie isole minori ed ebbero origine gli arcipelaghi frequentati dai sirenoidi, vi fu un lento movimento inverso di abbassamento, sicchè le acque del mare terziario tornarono ad allargare i loro confini ,. Dietro a tutto quanto ho ora esposto è dunque chiaro come ab- biano a modificarsi le idee generali da tanto tempo professate sulla generale divisione del pliocene e particolarmente su quello della nostra provincia, e perciò in questa seconda parte del mio lavoro saranno meglio precisati gli orizzonti geologici nei quali ho raccolto i mollu- schi fossili di cui seguito a dare il catalogo, aggiungendo un quadro sinottico che servirà a far meglio apprezzare queste nuove vedute. Che queste nuove vedute cronologiche siano giuste, oltre quanto ho ora esposto, meglio poi lo confermano i dati paleontologici, giacchè delle 390 specie di molluschi raccolti nel pliocene della nostra pro- vincia, 359 s'incontrano nel pliocene superiore e solo 207 nel plio- cene inferiore; di queste 390 specie, 186 sono esclusive al piano superiore, mentre sono proprie dell’inferiore solamente 33 e 1’ altre 171 sono comuni ai due piani. Inoltre le argille turchine superiori sono quelle che si mostrano più ricche di specie, contandone esse sole 332, mentre quelle che si rinvengono nelle argille spettanti al plio- cene inferiore giungono solamente a 78; nelle sabbie gialle poi dei due piani il numero delle specie trovasi rappresentato inversamente, avendo raccolto 183 specie nelle sabbie inferiori, e solo 141 nelle superiori. Venendo ora ai confronti colle specie dell’ attualità ho trovato che delle 390 specie fossili, 182 si trovano ancora viventi, la maggior parte però nel Mediterraneo e cioè N.° 176, molte delle quali si rin- vengono ancora nell’Oceano Atlantico, e buona parte nei mari brit- tanici; solamente 3 specie sono proprie di quest’ ultimi mari e cioè la Limopsis aurita, VAnomia striata, citata dal Wood, e l’ Hinnites pusio che si estende ancora ai mari del Nord, e tre altre specie non incontrate nel Mediterraneo e cioè la Cancellaria nodulosa Lk., la S x 300 LODOVICO FORESTI Terebra fuscata ed il Conus avellana che s'incontrano nei mari tro- picali; delle 182 specie viventi, 101 corrispondono a specie che si raccolgono solo nel pliocene superiore, e 15 ad altre che si rinvengo- no nel pliocene inferiore; l’altre 66 sono comuni ai due piani; di più le sabbie gialle superiori contano 112 specie viventi, mentre le inferiori ne segnano solamente 71; e mentre le argille turchine su- periori ne annoverano 144, le inferiori ne contano appena 24; percui egli è ben chiaro da questi dati come più recenti siano i depositi che noi riferiamo al pliocene superiore e come giustamente debbonsi gli altri considerare di un’ epoca anteriore. Quanto ai confronti che si possono stabilire fra i depositi plio- cenici del bolognese con altri di altre località e in pari tempo con depositi od anteriori o posteriori a quest’ epoca cronologica, sarebbe ora troppo lungo l’ esporre, però non ho voluto del tutto trascurare anche questa parte molto interessante e perciò ne ho dato un cenno nel quadro sinottico, dal quale apparisce chiaro come il nostro plio- cene corrisponda per bene, anzi non sia altro che un seguito degli stessi depositi riferibili alla stessa epoca che trovansi in Toscana, nel Piacentino, nel Modenese, trovando però le specie corrispondenti in maggior numero nel pliocene di Toscana, indi in quello delle provin- cie di Parma e Piacenza, in ultimo nel modenese. Le ripetute osservazioni fatte senza idee preconcette, addimostra- no come le divisioni sistematiche non si possono sempre ritenere come invariabili, dovendo anch’esse, a seconda del progresso degli studi e delle località in cui si praticano, subire delle modificazioni; e difatti nel nostro caso pratico il piano Messiniano del Mayer che poteva stare da solo stabilendo un’ orizzonte geologico ben precisato e che forse in tal senso il sarà per alcune località studiate dal distinto pa- leontologo Svizzero, non poteva più per le ragioni sopra espresse esser tale per la geologia della nostra provincia, e perciò come ben si osserva nella citata Carta geologica del Prof. Capellini si è dovuto scinderlo in due parti riferendone una, cioè la parte superiore al plio- cene inferiore e 1’ altra al miocene superiore. — Adottando in ge- nerale per i nostri terreni terziari le divisioni fatte dal Mayer, avres- simo l’ Astiano rappresentato da sabbie gialle e da argille turchine riferibili al pliocene superiore, e il Messiniano la cui porzione supe- riore sarebbe costituita da sabbie marnose giallastre e da marne tur- chiniccie riferibili al pliocene inferiore, mentre poi l’ altra parte del CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 301 Messiniano verrebbe a costituire il miocene superiore e sarebbe rap- presentato da marne biancastre. Accennato così brevemente a quanto era necessario esporre per la parte geologica, prima di venire alla enumerazione delle specie dei molluschi fossili, aggiungerò altre poche parole relative ad alcune con- siderazioni fatte studiando le diverse forme di questi testacei e preso in esame alcuni lavori di conchiologia fossile ultimamente pubblicati. — È primieramente dirò come questi lavori in sè pregievolissimi e di molta importanza per la conchiologia fossile terziaria particolar- mente per le diverse regioni che furono illustrate, non sono in ultima analisi che una ripetizione delle stesse forme salvo pochissime ecce- zioni; e perciò credo che sarìa tornato più utile alla scienza se gli sforzi e le fatiche di tanti studiosi si fossero uniti per dar mano ad un lavoro molto più interessante e molto più completo quale sarìa stato quello di una conchiologia fossile terziaria italiana; opinione e desiderio di già espressi nella 1* parte di questo mio lavoro, ed ora in parte messi in atto del Dott. D’ Ancona per i soli molluschi plio- cenici. Studiando molti esemplari dei molluschi fossili raccolti nella pro- vincia bolognese e trovando fra essi alcune forme speciali e diverse dalle comuni ho creduto interessante l’ illustrarle; non ho poi creduto necessario di farne delle specie nuove, ma semplicemente di accennar- le come varietà, persuadendomi col progredire delle osservazioni come sia molto meglio per la scienza il sopprimere di quello che il creare delle specie, le quali un giorno poi per osservazioni meglio fatte e per nuove forme scoperte debbono sparire per incorporarsi in altre da lungo tempo conosciute. Osservando moltissimi esemplari di età di- versa e di diverse località di due specie affini egli è facile il convin- cersi come gradatamente dall’ una si passi all’ altra o per il semplice aumento di dimensioni o per il graduato accrescimento o disparizione di qualche ornamento, percui torna spesso impossibile lo stabilire la vera linea di demarcazione che separa 1’ una specie dall'altra. Questi fatti che ogni coscienzioso osservatore può sempre verificare, sempre più mi convincono come in natura tutto armoniosamente si accordi e come v’abbia una legge progressiva di continuità mercè la quale dati alcuni tipi si sviluppano da essi alcune forme che gradatamente pren- dendo diverse direzioni, si mostrano simili finchè trovansi presso allo stipite e mano mano allontanandosi si modificano per cui i due punti 302 LODOVICO FORESTI estremi si trovano necessariamente ben diversi fra loro. Fino ad oggi si è fatta di molta analisi, ora è indispensabile anzi è assolutamente necessario per il bene della scienza il fare della sintesi. Molte sono le circostanze da tenersi a calcolo per ben precisare l habitat e le cagioni della maggiore o minore quantità di molluschi fossili in certi depositi degli antichi mari, e perciò fa d'uopo aver sempre presente e la distribuzione geografica di questi animali nei mari attuali e tener molto a calcolo le grandi variazioni che i mollu- schi subiscono a seconda del loro habitat; perciò non bisogna dimen- ticarsi nè l’ influenza della diversità del clima, nè l’azione delle correnti, nè la maggiore o minore profondità in cui vivono, nè la natura diversa del fondo del mare in cui si trovano, essendo ben noto come siano ben distinti quegli individui che soggiornano in un fondo melmoso o lungo la spiaggia arenosa del mare. L'influenza di tutte queste cagioni sono ben studiate e conosciute rispetto i molluschi viventi e perciò eguale applicazione debbesi fare ai molluschi fossili tanto più che di questi ultimi non ci resta che la sola conchiglia la quale può essere immensamente modificata per l influenza di moltissime cause esterne, e perciò poter dar luogo a forme svariate da far credere trattarsi di specie distinte; egli è dunque indispensabile il fare continui confronti fra le cause dell’ attualità e quelle che imperavano all’epoca in cui viverano i molluschi che si prendono a studiare. Con queste considerazioni sarà agevole il poter trovare la cagione per cui negli stessi depositi pliocenici p. e. trovansi alcuni generi od alcu- ne specie molto diffuse od accumulate in una località, mentre in altre o scarseggiano od anche mancano affatto; egli è perciò che anche ulti mamente studiando alcune collezioni di fossili pliocenici della Toscana, raccolti dal Prof. Capellini nelle sue ultime escursioni dell’ autunno scorso, ho constatato come nei depositi del terziario superiore delle vicinanze di Sarteano, v’ abbia buon numero di generi e di specie, ma che poi fra essi trovasi abbondantissimo il Mwurea truncatelus Foresti, però di piccole dimensioni, fossile non molto abbondante, per quanto io mi sappia, negli altri depositi pliocenici Italiani; e così pure in grandissima quantità incontrasi il Dentalium elephantinum L. la Cardita intermedia Broce., il Cardium edule L., la Ranella mar- ginata Brong. ecc. specie che in altre località ho trovato essere molto rare. Così pure in altri depositi del pliocene inferiore a F'arsica, pres- so Castellina marittima, nella Valle del Marmolajo, oltre il mancare CATALOGO DEI MOLLUSCHI Ecc. 303 di alcune delle specie sopracitate, tranne del Dentalium elephantinum, trovasi invece abbondante la Columbella thiara Broce. specie, come ho potuto verificare anche nel bolognese, essere caratteristica, quando tro- vasi in grande abbondanza, della porzione più profonda del pliocene inferiore. Anche nel pliocene della nostra provincia sono ben marcate que ste differenze e non solo pei diversi piani del pliocene, ma anche per uno stesso piano; così p. e. nelle argille turchine delle balze di Bel- Poggio a pochi metri di distanza da quelle delle balze di 8. Lorenzo in collina, ho raccolto esemplari di Mures spinicosta e di Venus fo sciata, mentre neppure un esemplare ho rinvenuto in quest’ ultime, nelle quali invece ho trovato abbondantissimi gl’ individui della Venus ovata e varie specie di Lede e di Nucule quasi mancanti nella prima località; in queste balze sono ben manifesti gl’ indizi di una corrente non chè alcune diversità nella natura della roccia, cause delle diffe renze che s'incontrano nella diversità, nel numero delle specie. Tutte queste considerazioni indispensabili per chi vuol fare della buona conchiologia fossile, facilmente conducono ancora alle conclu- sioni di sopra accennate e cioè che la maggior parte di differenza di forma e di ornamenti che #8’ incontrano nelle conchiglie dei molluschi appartenenti allo stesso tipo, non sono in molti casi caratteri abba- stanza valevoli per stabilire delle specie, poichè altro non sono in ge nerale che modificazioni avvenute per cause estrinseche nel solo invo- lucro esterno, come si osserva nelle conchiglie viventi, mentre poi l animale è sempre anatomicamente identico e per forme e per rela- zioni di parti; e perciò se non si avessero sempre presenti questi fatti, sarìa facile il creare delle specie quasi per ogni individuo, non tro- vandosi nel regno organico due soli individui perfettamente uguali. Esposte queste mie idee che non hanno la pretensione di mo- strarsi come verità inconcusse o come leggi invariabili, ma che si presentano semplicemente come espressioni di un modo mio particolare di vedere e come il desiderio di un migliore indirizzo da darsi a questi studi, passo alla enumerazione dei Conchiferi e dei pochi Brachiopodi che s'incontrano nel pliocene della nostra provincia; aggiungendo un’ appendice per le altre specie di Gasteropodi ultimamente raccolti e non citati nella prima parte di questo mio lavoro. 304 LODOVICO FORESTI MOLLUSCHI CONCHIFERI Fam. PHOLADIDA Gensre TEREDO Adanson. Teredo Norvegica*‘? Spengl. Woop: Monog. of the Crag Moll. pag. 300. tav. 30. fig. 12 a-b. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 8. tav. 1. fig. 5. Lascio dubitativa la specie perchè non ho raccolto di questo ge- nere che nuclei marnosi rappresentanti il modello interno dei tubi for- mati da questi animali; su questi nuclei però trovasi ancora qualche piccolo frammento del tubo stesso, ma nulla resta delle valve della conchiglia. Ne ho raccolto nelle argille turchine di Bel Poggio e di Zappolino, ed in alcuni frammenti di lignite sepolti nelle balze della prima località. Fam. GASTROCHAENIDA Genere CLAVAGELLA Lamarck. Clavagella bacillaris Desh. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 39. tav. 15. fig. 6. ( Teredo bacillum). Desnayes: Hist. nat. des Vers. (Encyclop. method. Vol. II.) pag. 239. Puirippi: num. moll. Sicil. Vol. I. pag. 1. tav. 1. fig. 1 a-b. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 2. tav. 1. fig. 1 a-b. Non ho raccolto che pochi frammenti nelle sabbie marnose gial- lastre di Monte Biancano; il confronto di questi, sebbene mancanti della porzione terminale, con alcuni esemplari completi d’ altre località che tengo nella mia collezione, non mi lasciano alcun dubbio sulla identità della specie. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 305 Fam. ANATINIDA Genere THRACIA Leach. Thracia distorta Montg. sp. Monracu: Test. brit. pag. 42. tav. 1. fig. 1 (Mya distorta). Priuppi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 13. tav. 1. fig. 20. (Erycina anodon) II pag. 17. tav. 14. fig. 2. (7. ovalis) tav. 14. fig. 3. (T. Fabula). Un esemplare quasi completo estratto da un frammento di cal- care alberese raccolto nelle balze di Zappolino; per dimensioni e per forma segna un passaggio fra le figure date dal Philippi delle sue T. ovalis e T. Fabula: sotto la lente ben palesi sono le granulazioni nella faccia esterna delle valve. Debbo alla gentilezza del Dott. Ti- beri la determinazione di questa specie, essendone io stato per lungo tempo dubbioso. Fam. MYACIDA Genere CORBULA Bruguière. Corbula gibba Olivi sp. OLivi: Zoologia adriatica. pag. 101 ( Tellina). Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 327 ( Tellina). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 274. tav. 30. fig. 3 (C. striata). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 34, tav. 3. fig. T. È la sola specie di questo genere che fino ad oggi ho raccolto nel pliocene bolognese; incontrasi in molta abbondanza tanto nelle sabbie gialle ed argille turchine quanto nelle sabbie marnose giallastre, anzi in quest’ ultima formazione in alcune località forma da sè sola degli ammassi molto estesi e ben distinti in mezzo a molte altre specie di molluschi: ciò da a conoscere come negli antichi mari che coprivano le nostre colline questi animali vivessero in colonie e come i depositi che vennero a seppellirli si formassero lentamente stantechè i gusci di questa bivalve oltre il trovarsi tutti radunati in un posto, mostransi ancora interi e generalmente chiusi. La forma che prevale in questa specie si è quella stessa degli individui ancora viventi nei nostri mari, e degli altri che raccolgonsi nel Crag d’ Inghilterra. TOMO IV. 39 306 LODOVICO FORESTI Genere PANOPZAA Ménard de la Groye. Panop=asea glycimeris Born sp. Born: Mus. Caes. Vol. I. tav. 1. fig. 8 (Mya). Prauppi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 7. tav. 2. fig. 2 (P. Aldrovandi). fig. 3 (P. Faujasii). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 283. tav. 27. fig. 1. a-f (P. Faujasit). Piuttosto rara è questa conchiglia nel pliocene bolognese; di pre- ferenza si raccoglie nelle argille turchine e nelle sabbie marnose gial- lastre inferiori; più facilmente incontransi modelli interni che esemplari col guscio ed in generale corrispondono alla Var. gentilis citata e figurata dal Wood nella tav. 27. fig. 1 e-d. Genere SAXICAVA Bellevue. Saxicava arctica L. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 341. tav. 12. fig. 14 (Mya elongata). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 287. tav. 29. fig. 4 a-b. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 24. tav. 3. fig. 1, 3, 4. Specie fino ad ora rarissima, non tengo che un frammento di una valva raccolto nelle argille turchine delle balze di Pradalbino; sebbene in cattivo stato di conservazione, pure non lascia alcun dubbio sulla determinazione della specie. Fam. SOLENIDAZ Genere SOLECURTUS Bla:inville. Solecurtus strigilatus L. sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 252. tav. 25. fig. 3 a-b. (Macha). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 19. tav. 1. fig. 16, 17 ( Psammosolen). Specie piuttosto rara; l’ ho solamente raccolta nelle sabbie mar- nose giallastre del pliocene inferiore ; gli esemplari fossili corrispondono perfettamente per la forma e le dimensioni cogli esemplari viventi. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 307 Solecurtus coarctatus Gmel. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 21. tav. 1. fig. 18 ( Psammosolen). Incontrasi più di frequente della specie sudescritta; di preferenza raccogliesi nelle sabbie gialle superiori, tuttavolta ne ho raccolto anche qualche esemplare nelle argille turchine e nelle sabbie marnose gialla- stre inferiori. Le balze di S. Lorenzo in collina, di Pradalbino e delle Lagune ne offrono in maggior numero ed in buon stato di conservazione. Fam. TELLINIDE Genere TELLINA Linneo. 'Tellina planata L. PoLi: Test. utrius. Sicil. Vol. I. pag. 31. tav. 14. fig. 1-3. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 318 (7. complanata). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 84. tav. 8. fig. 7 a-b. I pochi esemplari che io conosco di questa specie sono stati rac- colti nelle argille turchine e nelle sabbie marnose giallastre. Oltre gli esemplari tipici corrispondenti perfettamente per forma e per dimensionj cogli esemplari viventi, ne ho raccolti altri che presentano una forma quasi triangolare, e ciò per avere il diametro longitudinale, cioè dagli umboni al margine, molto allungato. FL'ellina serrata Ren. BroccHi: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 319. tav. 12. fig. 1. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band pag 99 tav 8. dio 0. Anche questa specie è piuttosto rara nel pliocene bolognese. Tengo un esemplare gigantesco raccolto nelle sabbie marnose di Monte Bian- cano il quale misura 5 centimetri in lunghezza e 34 in altezza; tranne delle dimensioni e per essere di forma molto depressa, corri- sponde benissimo cogli esemplari viventi. 'Tellina compressa Brocc. p BroccHi: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 323. tav. 12. fig. 9. 308 LODOVICO FORESTI Pamippr: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 23. tav. 14. fig. 6. (T. strigilata). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 88. tav. 8. fig. 10. Di questo genere è la specie di cui si raccoglie maggior numero di esemplari; si trova tanto nel pliocene superiore che nell’ inferiore. Gli esemplari del bolognese presentano una forma intermedia fra le figure date dal Brocchi e quelle dell’ Hòrnes; non mostrano esterna- mente quell’ angolo così risentito come si trova espresso nei disegni del conchiologo italiano e nello stesso tempo hanno una forma un poco più allungata delle figure dell’ Hérnes; inoltre le strie oblique esterne sono ancora molto più apparenti. Tellina Cumana Costa sp. Cosra: Cat. sistem. XX. N.° 13. tav. 2. fig. 7. ( Psammobia). Puaruppi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 28. tav. 3. fig. 11. (T. Costae). Debbo al Dott. Tiberi la determinazione di questa specie; non ne ho raccolto che un solo esemplare nelle sabbie gialle di Monte Oliveto, è per dimensioni più piccolo degli individui viventi, ma con essi be- nissimo corrisponde per la forma. Questa specie o deve essere molto rara nel pliocene italiano, oppure è stata confusa con altre specie af- fini, giacchè non la trovo citata come fossile che nei depositi terziari della Sicilia, e menzionata dal Sequenza (1) e dal Marchese di Mon- terosato (2). Tellina incarnata L. Pour: Test. utrius:|Sicil. Vol EUtay. Al5. fig. 1 Paiuippi: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 23 (7. depressa). Anche questa specie è rarissima nel pliocene bolognese, non ne tengo che due soli esemplari raccolti nelle sabbie marnose giallastre di Scopeto, corrispondono perfettamente cogli esemplari viventi ed uno di essi conserva qualche traccia di colorazione, specialmente nelle zone trasversali. (1) Sequenza, Not. succ. pag. 24 (7. Costae). (2) Marchese T. A. di Monterosato, Not. intor. alle Conch. foss. di Monte Pellegrino e Ficarazzi. pag. 25 ( Palermo 1872). CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 309 T'ellina donacina L. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 321. tav. 12. fig. 5. (T. subcarinata). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 233. tav. 22. fio: Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 86. tav. 8. fig. 9. Rarissima; non tengo nella mia collezione che due sole valve sinistre, l’ una raccolta nel pliocene superiore di Pradalbino e l’ altra nel pliocene inferiore delle Lagune; corrispondono in generale agli esemplari della specie vivente nel Mediterraneo e solo presentano la parte posteriore un poco più acuminata. TTellina nitida Poli. PoLi: Test. utrius. Sicil. Vol. I. tav. 15. fig. 2-4. Pumuppi: Enum. Moll. Sicil. Vol. I. pag. 30. Vol. IL pag. 23. Alcune valve di giovani individui ho raccolto nel pliocene supe- riore delle balze di Pradalbino. Anche di questa specie debbo la de- terminazione alla gentilezza del Dott. Tiberi. Genere PSAMMOBIA Lamarck. Psammobia Ferroensis Chemn. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II pag. 320. tav. 12. fig. 2. ( Tellina muricata). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 221. tav. 22. le 9 Last. Tanto nell’ un piano che nell’ altro del pliocene bolognese ho raccolto alcune valve di questa specie; confrontando fra loro i vari esemplari ho potuto notare alcune differenze risguardanti la forma ge- nerale della conchiglia e moltissime variazioni rispetto agli ornamenti. Quanto alla forma dirò come alcuni individui si presentano colle valve piuttosto gonfie, mentre altri invece si mostrano molto schiacciati, e come la porzione posteriore ora è più ed ora è meno troncata per cui la conchiglia si mostra ora più ed ora meno allungata; per le dimensioni, a seconda dell’ età, per nulla diversificano dagli esemplari viventi: tengo però una valva sinistra di un grande esemplare, rac- 310 LODOVICO FORESTI colta nel pliocene superiore di Monte Oliveto la quale misura 31 mil- limetri in lunghezza e 15 in altezza. Quanto agli ornamenti farò no- tare come le pieghe posteriori variano moltissimo di numero, trovan- dosi alcuni esemplari che ne contano cinque, sei ed anche un numero maggiore, ed altri in cui queste scemano fino ad averne alcuni che presentano una sol piega ben distinta e molto grande; quest’ ultima variazione da alcuni è stata considerata come un carattere specifico e perciò il Brocchi ne ha fatto la sua TeMlina uniradiata (1) e così l’ Hornes (2) ed altri conchiologi ancora. Oltre alle varietà ora citate, tengo ancora alcune valve in cui mancano del tutto queste pieghe longitudinali, non essendo apparenti che i cingoli trasversali: questi cingoli poi e queste pieghe variano an- ch’ esse per dimensioni, essendo alle volte appena appena visibili ed altre volte molto prominenti e ben spiccati. Alcune altre differenze ho notato in questa specie, le quali sono relative al piano geologico in cui si raccoglie, così p. e. gli esemplari che si estraggono dalle argille turchine, mostransi coi cingoli trasversali poco salienti, mentre sono pronunziatissimi e più radi in quelli che si rinvengono nelle sabbie gialle superiori e più particolarmente poi nelle sabbie marnose giallastre inferiori; di più in questi ultimi anche le pieghe longitudi- nali del pube sono bene visibili e vengono ad intersecarsi coi cingoli trasversali in modo da dar luogo ad un reticolato rilevatissimo. Bastano questi esempi ora citati e risguardanti una sola specie per far ben palese come senza interruzione si passi da una forma al- l’altra e come la differenza di habitat possa dare alla stessa specie forme ben variate, che senza le considerazioni ora notate, potrebbero far nascere il sospetto che si trattasse di specie diverse. Questa specie non è molto comune, e si raccoglie particolarmen- te a Pradalbino, alle Lagune, a S. Lorenzo in collina. Genere SYNDOSMYA Recluz. Syndosmya alba Wood. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II pag. 323. tav. 12. fig. 8 (Tellina pellucida). (1) Brocchi, Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 320. tav. 12. fig. 4. (2) Hòrnes, Die foss. Moll des Tert.-Beck. von Wien. Il Band. pag. 99. tav. 9. fig. 6 a-e. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 311 Puivippr: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 8. tav. 1. fig. 6. (Erycina Remieri). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 237. tav. 22. fig. 10, a, db. (Abra alba) — pag. 238. tav. 22. fig. 12, a, D. (Abra fabalis). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band pag. 77. tav. 8. fig. 4 a-d. (S. apelina). Rarissima: una sol valva raccolta nelle argille turchine di Pra- dalbino, la quale perfettamente corrisponde sì per la forma che per le dimensioni cogli esemplari che si raccolgono nel Mediterraneo. Genere DONAX Linneo. Donax trunculus L. sp. Por: Test. utrius. Sicil. Vol. II. pag. 76. tav. 19. fig. 12, 13 (Tellina). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II pag. 219. tav. 22. fig. 8. Anche questa specie è rarissima; due sole valve di giovani esem- plari ho raccolto nel nostro pliocene, una delle quali fra i frammenti di conchiglie in mezzo i depositi del Rio Martignone e perciò di que- sta non posso precisare con esattezza il piano geologico in cui fu de- positata; ma avendo raccolto l’altra valva fra le sabbie gialle di Pra- dalbino, probabilmente apparterranno ambidue allo stesso giacimento. Non corrispondono per la forma coi giovani individui della stessa spe- cie che vive nel Mediterraneo, presentando una forma maggiormente allungata trasversalmente quasi simile a quella del D. politus; ma per avere il margine crenulato, per le strie che sulla faccia esterna della conchiglia si mostrano sulla porzione centrale e posteriore, lasciando liscia la parte anteriore, credo doverli a questa specie riferire avendo con essa maggiore analogia. Genere MACTRA Linneo Mactrastriangula Ren. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 348. tav. 13. fig. 7. Woon: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 325. tav. 31. fig: ;2il Hornes: Die foss. Moll. des Tert.- Beck. von Wien. II Band. pag. 66. fig. 11 a-d. 312 LODOVICO FORESTI Specie abbastanza frequente e che si raccoglie tanto nel pliocene superiore che nell’ inferiore. Gli esemplari del bolognese corrispondono meglio colle figure del Wood e del Brocchi, che con quelle disegnate dall’ Hoòrnes; corrispondono ancora cogli esemplari viventi, essendo però generalmente di dimensioni maggiori. Le balze delle Lagune e di Pradalbino ne danno in maggior numero e in quest’ ultima località si raccolgono individui che conservano ancora i colori. Fam. VENERIDA Genere VENUS Linneo. Venus umbonaria Lk. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 118. tav. 12. fig. 1-6. Questa voluminosa e pesante conchiglia, i cui resti trovansi di frequente nelle balze plioceniche delle nostre colline, è dato rarissime volte di trovarla intera. Incontrasi tanto nelle sabbie gialle superiori che nelle inferiori come pure nelle argille turchine, però nelle sabbie gialle superiori è piuttosto rara; si raccoglie particolarmente a S. Lo- renzo in collina, Pradalbino, Lagune, Monte Biancano, Zappolino ece. Venus islandicoides Ik. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 370. tav. 14. fig. 5. var. (V. islandica) n. L. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 121. tav. 13. fig. 2. a-e. Rarissima è questa specie nei nostri depositi conchigliferi; non ne ho raccolto che una sola valva nelle argille turchine di Pradalbi- no: corrisponde per la forma alle figure date dall’ Hòrnes, non però per le dimensioni, essendo la specie del bolognese molto più volu- minosa. Venus Dujardini Hòrn. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag-(L20/0tavari Mg Molto meno rara della precedente e non è difficile raccogliere esemplari perfetti. L'ho raccolta di preferenza nelle argille turchine. Dietro l’ autorità dell’ Hòrnes ho tenuto questa specie distinta dalla CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. SII V. islandicoides, sebbene dubiti non si tratti che di una varietà più globosa e più tondeggiante. Venus multilamella Lk. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 363. (V. rugosa) n. L. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 130. tav. 15. fig. 2, 3. -Del genere di cui ora tengo parola, è questa una delle specie più abbondanti che si riscontrano nel pliocene bolognese ; si raccoglie di tutte le età e di tutte le dimensioni ed in maggior copia nelle ar- gille turchine. V' hanno alcune varietà molto ben distinte; trovansi individui molto globosi e tondeggianti, ed altri meno tumidi, più meno ovali ed alle volte con una forma molto allungata trasversal- mente. Quanto alla forma rotonda si osserva come questa venga as- sunta dall’individuo fino dai primi momenti di sua formaziune, men- tre la forma allungata non si manifesta che solamente quando l’ in- dividuo ha di già raggiunto un certo grado di sviluppo. Questa specie sì raccoglie in gran copia e particolarmente in istato giovane nelle balze di Pradalbino, di Monte Vecchio, delle Lagune ecc. Venus plicata Gml. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 357. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 132. tav. 15. fig. 4-6. Comunissima in valve separate ed in frammenti, rara in esem- plari completi; si raccoglie nelle argille turchine, ma più facilmente nelle sabbie marnose giallastre inferiori. Monte Biancano, Zappolino e le Lagune sono le località più ricche di tale specie. Varia alcune volte per la forma, trovandosi esemplari tumidi ed altri alquanto schiaccia- ti; variano qualche volta anche gli ornamenti, e nella collezione dei molluschi fossili bolognesi che trovasi nel museo geologico della nostra Università, osservasi un esemplare appartenente a questa specie che si presenta con lamine trasversali minutissime ed oltremodo numerose. Venus fasciata Don. BroccHi : Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 355. (V. dysera var.) n. Lin. Privippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 48. (V. Brognarti). TOMO 1V. 40 314 LODOVICO FORESTI Woo: Monog. of the Crag Moll. Vol. II, pag. 211. tav. 19. fig. 5 a-c. Solamente nelle balze di Bel-Poggio in S. Lorenzo in collina ho raccolto alcune valve di questa specie; la maggior parte però nelle sabbie gialle superiori. La V. scalaris Bronn, ha qualche analogia con questa specie, ma ne diversifica per il numero delle lamine e per la sua forma meno triangolare; nella V. fasciata il margine dorsale se- gna una linea retta, mentre invece nella V. scalaris è alquanto cur- vo, percui guardata quest’ ultima specie nella parte interna delle sue valve si mostra di una forma piuttosto tondeggiante. Gli esemplari del bolognese corrispondono perfettamente coi piccoli eseniplari della specie vivente. Venus senilis Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 353. tav. 13. fig. 13. Non molto comune è questa specie nel pliocene bolognese; però si raccoglie tanto nel piano superiore che nell’inferiore ; generalmente è di piccole dimensioni colle valve proporzionatamente molto grosse ; la forma e l’ ornamentazione ben la fanno distinguere dalle altre spe- cie affini, sebbene vada soggetta a moltissime variazioni. Il Brocchi stesso giustamente osserva come abbia moltissima analogia colla V. gallina ritenendo possa essere una varietà di questa; io credo invece col Dott. Manzoni (1) che questa specie fossile si debba considerare come il rappresentante della V. gallina L. ora vivente. Certamente non può dirsi che queste due specie siano identiche, ma tuttavolta v’ ha tanta analogia fra loro che si può benissimo tenere per non e- sagerata l'opinione ora espressa; specialmente se si tien calcolo, come ho già notato altra volta, delle grandi differenze che subiscono i mol- luschi a seconda del loro rispettivo habitat. Venus ovatta Penn. Broccni: Conch. foss. subap. Vol Il. pag. 358. tav. 14. fig. 3. (V. radiata). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 213. tav. 19. fig. 4 a-d. (1) Manzoni Dott. Angelo. Sagg. di Conch. foss. subapp. Fauna delle sabb. gialll — Imola 1868. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 315 Horxes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 139. tav. 15. fig. 12. a-d. Frequentissima è questa specie nel pliocene delle nostre colline, in maggior copia si raccoglie nelle argille turchine, che nelle sabbie marnose giallastre ; generalmente è di piccolissime dimensioni. Le osservazioni fatte dal Dott. Manzoni (1) sulle dimensioni e sugli ornamenti di questa specie nei diversi depositi di Valle Biaia e nelle Vallate del Lamone e del Marzeno nella Provincia di Ravenna in relazione coi fondi sabbiosi e melmosi del Mediterraneo, lo indu- cono a stabilire questo fatto, che cioè la forma piccola è esclusiva delle sabbie gialle, mentre 1’ altra tripla ed anche quadrupla sarebbe pro- pria delle argille turchine. Nel bolognese nulla verificasi di tutto ciò ed anzi le osservazioni fatte fino al giorno d’ oggi mi conducono a delle conclusioni affatto opposte. Ciò ho voluto notare, non già per smentire le osservazioni del Dott. Manzoni, giacchè anzi io le tengo in gran conto, conoscendo quant’ egli sia esatto e scrupoloso negli studi e nelle ricerche di simil genere, ma solamente per dimostrare come non debbasi tenere per regola ciò che forse non costituisce che un semplice fatto che può verificarsi in alcune località per condizioni speciali, mentre in altre non può aver luogo. Genere CYTHEREA Lamarck. Cytherea Pedemontana 4Agass. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 151. tav. 17. fig. 1-4. tav. 18. fig. 1-4. Specie piuttosto rara e solo si raccoglie nelle argille turchine e nelle sabbie marnose giallastre inferiori. Monte Biancano, Zappolino, le Lagune sono le località del bolognese dove non è difficile poter raccogliere qualche esemplare completo. Cytherea Chione Lin. sp. Bronn: Lethaca geogn. II. pag. 954. tav. 38. fig. 3 a-c. Woon: Monog. of the Crag Moll. Vol. IL pag. 207. tav. 20. fig. 4 a, Db. Rara; poche valve di giovanissimi esemplari ho raccolto nelle (1) Manzoni Dott. Angelo. Opera cit. 316 LODOVICO FORESTI sabbie gialle superiori di Monte Oliveto, ed alcune altre di mediocri dimensioni ho incontrato nelle argille turchine di Zappolino e nelle sabbie marnose giallastre di Rasiglio. Cytherea Mediterranea Tiberi. TrgerI: (ex specim. viv. misso). Arapas e Benort: Conchiol. viv. mar. della Sicil. Parte I. pag. 55. Oltre una piccola valva di un giovane esemplare raccolta nel pliocene superiore di Pradalbino, ne tengo un’ altra parimenti raccolta nella stessa località ma di grandi dimensioni, misurando 20 12 mil- limetri in altezza e 24 in larghezza; ambidue, tanto per la forma che per gli ornamenti corrispondono cogli esemplari viventi. Cito con sicurezza questa specie, essendomi stata determinata dallo stesso illu- stratore. Secondo il Marchese A. di Monterosato (1) questa specie del Tiberi non sarebbe che una Varietà della Venus rudis di Poli. Genere ARTEMIS Poli. Artemis exoleta Lin. sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 215. tav. 20 fig. 7 a-c. (A. lentiformas). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 143. tav. 16. fig. 2 (Dosinia). Rarissima : non ne conosco che una sol valva che fa parte della collezione paleontologica del Museo di Bologna e che è stata raccolta a Ponzano? Corrisponde cogli esemplari viventi ed è in ottimo stato di conservazione. Artemis lupinus Poli sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 215. tav. 20. fig. 6 a-d. (A. lincta). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 146. tav. 16. fig. 3 (Dosinia). Arche di questa seconda specie non conosco che una sol valva raccolta nelle sabbie giallastre marnose di Monte Velio ?_ Appartiene (1) Marchese T. A. di Monterosato. Notizie intorno alle conchiglie medi- terranee pag. 23. — Palermo 1872. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 317 essa pure alla collezione dei molluschi fossili del Museo geologico della nostra Università, e corrisponde benissimo cogli esemplari del Medi- terraneo, solo presenta più pronunziate le strie concentriche. Genere GASTRANA Schumacher. Gastrana laminosa /. Sow. sp. J. Sowerpy : Min. Conch. Tav. 573. (Petricola). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 217. tav. 25. fig. 1, a-e. Un giovane esemplare completo ed in ottimo stato di conserva- zione ho raccolto entro un frammento di calcare alberese trovato nelle balze di Monte Oliveto. Per la qualità della roccia di cui eran piene le valve della piccola conchiglia, debbo riportare questo fossile al periodo pliocenico superiore, alle sabbie gialle. In questo esemplare le lamine trasversali sono molto pronunziate e rade, e per nulla, an- che coll’ ajuto della lente, si osservano le strie longitudinali, che sono sì bene visibili nella G. fragilis L. sp. colla quale avrebbe molta a- nalogia ; il lato posteriore si mostra più largo e più tondeggiante, di quello che si osserva negli esemplari viventi e fossili della G. fragilis in cui è più appuntato, forma che si mantiene in ogni età dell’ a- nimale. La forma generale dell’ esemplare del bolognese sarebbe meno rotonda delle figure 1 d, e, e più ovale delle figure 1 a, db, c, dise- gnate del Wood; per dimensioni, trattandosi di un individuo molto giovane, è certamente molto più piccolo, ma per gli ornamenti e per gli altri caratteri corrisponde perfettamente colla descrizione dell’ au- tore inglese. Gastrana fragilis L. sp. Poni: Test. utrius. Sicil. Vol. I. pag. 43. tav. 15. fig. 22-24. ( Tellina). Homes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 80. tav. 8. fig. 5, a-c. (Fragilia). Alcuni esemplari raccolti nel pliocene inferiore di Monte Bianca: no e di Zappolino, trovansi in uno stato di conservazione non troppo perfetto, ma tuttavolta sufficiente per non dubitare della determina- zione della specie: in qualche porzione del guscio della conchiglia sono 318 LODOVICO FORESTI ancora bene apparenti le costicine spesse e sottili che trasversalmente la circondano, come pure bene si osservano le minutissime strie lon- gitudinali ; per forma poi e per dimensioni corrispondono cogli esem- plari viventi. La maggior parte degli individui fossili da me raccolti gli ho estratti o da frammenti di calcare alberese o da valve gigan- tesche di Perne perforate da questo mollusco. Fam. CYPRINIDA Genere ASTARTE Sowerby. Astarte sulcata Da Costa. sp. Woo: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 182. tav. 16. fig. 5 a, D. Rarissima; un solo esemplare completo e ben conservato e poche valve isolate ho raccolto nelle sabbie gialle superiori di Monte Oli- veto. Mentre il fossile bolognese corrisponde per la generalità dei ca- ratteri colla descrizione data dal Wood, diversifica poi un poco colle figure dello stesso autore, presentandosi di forma un poco più allungata. Astarte fusca Poli. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 374. tav. 14. fig. 7. ( Venus incrassata). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II pag. 178. tav. 16. fig. 6. Riferisco a questa specie una sola valva un po’ logora, raccolta nelle sabbie gialle delle Lagune ; per la forma generale meglio corri- sponde colla fig. 6-a del Wood che con quelle del Brocchi; quanto alla somiglianza cogli esemplari viventi, non ne diferisce che per es- sere piuttosto schiacciata. Genere ISOCARDIA Lamarck. Isocardia cor Lin. sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 193. tav. 15. fig..9%a, 6: Horses: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 163. tav. 20. fig. 2. a-d. Molti sono i frammenti che raccolgonsi di questa specie, alcune CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 319 volte anche qualche valva completa, ma quasi mai esemplari perfetti; con una certa frequenza s'incontra nelle argille turchine di Pradalbi- no. Nelle balze poi di S. Lorenzo in collina non è difficile il trovare o delle impronte o dei modelli interni di questa conchiglia. Va sog- getta a molte variazioni a seconda della diversa natura dei depositi in cui si trova, come facilmente si può vedere confrontando anche le figure del bacino di Vienna e quelle del Crag d’ Inghilterra con e- semplari viventi; e queste differenze s’ incontrano ancora nei fossili dei vari depositi pliocenici italiani, come io stesso ho potuto verificare confrontando esemplari del bolognese, con altri del piacentino e della Toscana. Anche nel solo bolognese ne ho riscontrate due forme ben distinte, l’ una delle quali si presenta col margine inferiore schiaccia- to, cogli omboni più grossi, più sviluppati, più ravvolti, e colla for- ma della conchiglia meno globosa della forma ordinaria, ma più tra- sversa. Non le credo specie distinte, ma semplici varietà. Genere PECCHIOLIA Meneghini. Pecchiolia argentea Mariti sp. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 505. tav. 16. fig. 13. (Chama arietina). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band, pag. 168. tav. 20. fig. 4. a-d. Un piccolissimo frammento, costituito dal solo apice della valva sinistra, ho raccolto nelle argille di Pradalbino. Genere CYPRICARDIA Lamarck. Cypricardia lithophagella Lk. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 336. tav. 13. fig. 10. (Chama coralliophaga). Paiuipp1: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 19. ( Sazicava Gue- rini). Rarissima; tengo gli apici e metà circa delle due valve raccolti ancora in posto e cioè entro un foro praticato dallo stesso mollusco in un frammento di calcare alberese. 320 LODOVICO FORESTI Genere CARDITA Bruguiére. Cardita intermedia Brocc. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 330. tav. 12. fig. 15. (Chama). Abbondantissima è questa specie nel pliocene bolognese, special- mente nelle argille turchine ; di rado trovansi esemplari completi, ma raccogliendo con una certa attenzione spesso le due valve dello stesso individuo s’ incontrano a poca distanza l’ una dall’ altra; e ciò prova come in generale i depositi di questo periodo geologico, nella nostra provincia si siano formati lentamente. Trovasi ancora la varietà rRom- boidea citata prima dal Brocchi come specie distinta (1) ma poi dallo stesso riconosciuta come una semplice varietà (2); e difatti confron- tando fra loro parecchi esemplari ben facilmente si vede come grada- tamente si passi dalla varietà alla specie tipo senza alterare i carat- teri principali. Cardita elongata Bronn. Brown: Ital. Terticirgeb. pag. 105. N. 605. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck von Wien. Il Band. pag. 276. tav. 36. fig. 9 a, d. Solamente nelle sabbie marnose giallastre inferiori ho trovato al- cune valve di questa specie; ed un piccolo esemplare completo ho estratto da un foro praticato in un frammento di calcare alberese. Fam. LUCINIDA Genere LUCINA Bruguiére. Loucina borealis Lin. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 368. tav. 14. fig. 6. (Venus circinnata). Woo: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 139. tav. 12. figa: Hornes: Die oss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 229. tav. 33. fig. 4, a-e. n (1) Brocchi. Op. cit. Vol. II. pag. 334. tav. 12. fig. 16. (2) Brocchi. Op. cit. Vol. II. pag. 504. CATALOGO DEL MOLLUSCHI ECC. 321 Pochissime valve di giovani esemplari ho raccolto nelle argille turchine di Pradalbino e di Monte Vecchio; mantengono in generale sempre la stessa forma, ma subiscono delle differenze in quanto alle strie di cui vanno ornate. Lucina spinifera ont. sp. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 236. tav. 33. fig. 8, a, D. Rarissima è questa specie come in generale tutte le altre appar- tenenti a questo genere. Le poche valve che tengo nella mia colle- zione le ho rinvenute nelle argille turchine delle balze di Pradalbino, di S. Lorenzo in collina e nelle sabbie gialle superiori di Monte Oli- veto. Non diversificano per la forma dalla specie vivente, e corrispon- dono alle figure date dall’ Hòrnes, salvo che sono un poco più piccole e di forma un poco meno allungata. Genere LORIPES Poli. Loripes divaricatus Lin. sp. Priiuppi: Enum. moll. Sic. Vol, I. pag. 32. tav. 3. fig. To ( Tellina commutata). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 137. tav. 12. fig. 4 a, D. Alcune piccolissime valve isolate ho raccolto nelle sabbie gialle superiori di Pradalbino ed altre nelle sabbie marnose giallastre infe- riori delle Lagune e di Monte Maggiore: la massima parte di queste piccole e fragili conchigliette le ho trovate nel pulire alcuni grandi esemplari di qualch’ altro mollusco dalla sabbia che li ricopriva. Va- riano per l’ ornamentazione presentando le strie ondulate che le at- traversano ora molto numerose e vicine le une alle altre, ed ora poche e rade; in generale però per la forma corrispondono cogli esemplari viventi. JLuioripes lacteus Lin. sp. Paruppi: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 26 ( Tellina fragilis). Due sole valve di due individui di diversa età, raccolte I’ una nelle sabbie gialle e l’altra nelle argille turchine delle balze di Monte Oliveto; corrispondono perfettamente colla frase del Philippi, non che cogli esem- plari viventi; per dimensioni però gli esemplari fossili sono maggiori. TOMO IV. 41 322 LODOVICO FORESTI Fam. CARDIADA Genere CARDIUM Linneo. Cardium hians Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 316. tav. 13. fig. 6. Hornes: Die oss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 181. tav. 26. fig. 1-5. Specie piuttosto rara: ne ho raccolto qualche frammento nelle argille turchine, ed una valva quasi completa nelle sabbie marnose giallastre. Cardium aculeatum Linn. Pori: Test. utrius. Sicil. Vol. I. pag. 62. tav. 17. fig. 1-3. Puiuippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 50. Vol. II pag. 37. I pochi esemplari completi e le poche valve riferibili a questa specie sono tutte state raccolte nel pliocene inferiore. Corrispondono per dimensioni e per forma cogli esemplari tipici che si pescano nei nostri mari. Cardium paucicostatum sSow. Sowerpy: ZI. Conch. fig. 20. Puivipri: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 37. (C. ciliare L. var. 8). Credo di dover riferire a questa specie due piccole valve di gio- vani esemplari, le quali perfettamente corrispondono colla frase e colla descrizione che ne dà il Philippi sotto il nome di C. ciliare. var. 8. Considerando la forma ed il numero delle coste che si manten- gono costanti anche in individui di mediocre grandezza, come ho po- tuto verificare in esemplari viventi pervenutimi dall’ Adriatico sotto il nome di C. ciliare, credo non possono i miei esemplari tenersi per giovani individui del C. aculeatum od echinatum che si voglia. Con- frontando fra loro esemplari delle stesse dimensioni ed approssimativa- mente della stessa età del C. aculeatum, del CO. echinatum e del C. paucicostatum, oltre la forma che si mostra diversa, ben riesce fa- cile anche il notare come sia vario in tutti il numero delle coste, contandosene da 21-22 nel primo, da 19-20 nel secondo e mai più di 16 nell’ ultimo. Egli è perciò che per conto mio credo buona la CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 323 specie del Sowerby e ad essa riferisco le mie due valve fossili, raccolte nelle argille turchine di S. Lorenzo in collina. Queste due valve con- tano numero 16 coste per ciascuna, quasi triangolari distanti fra loro e cogli interstizi rugosi alla porzione inferiore; queste valve pre- sentano una forma intermedia fra quella dei giovani esemplari del C. aculeatum e del C. echinatum, avvicinandosi però piuttosto alla prima che alla seconda. Cardium echinatum L. Poni: Test. utrius. Sicil. Vol. I. pag. 59. tav. 17. fig. 7-8. Prinippr: Enum. moll. Sicil. Vol I. pag. 49. Vol. II. pag. 37. Tengo non poche valve di questa specie raccolte nelle sabbie gialle superiori ed inferiori, notando però come in quest’ ultime sian state raccolte in maggior numero; per la forma generale della conchi- glia non che per la forma e numero delle coste bene si possono di- stinguere dalle due specie precedenti; sebbene gli esemplari del bolo- gnese siano tutti piuttosto giovani. Oltre queste valve che riferisco alla specie tipo, ne tengo poi altre che appartengono alla Var. Deshayesii Payr. Pavraupeau: Moll. de Corse. pag. 56. tav. 1. fig. 33-35. Pamippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 49. Vol. II. pag. 37. Le poche valve che conosco di questa varietà, specie distinta per alcuni autori, sono state raccolte nelle argille turchine, e nelle sabbie gialle superiori. Fra queste ne tengo alcune che corrispondono benis- simo per la forma e pel numero delle coste colla specie vivente, men- tre poi ne ho raccolto altre le quali mantenendo lo stesso numero di coste, si presentano quasi equilaterali, più tondeggianti, più grosse e molto convesse; le coste poi si mostrano più grosse e più ravvicinate fra loro per cui gl’ interstizi riescono di molto più stretti e più profondi di quelli che si vedono nella forma ordinaria. Tutte queste particola- rità danno alla conchiglia un aspetto ben diverso, ma però da consi- derarsi solamente come una varietà ben distinta della forma tipica, cioè del C. echinatum. Confrontando fra loro gli esemplari della forma tipica con quelli di questa varietà ora accennata, facilmente si seguono i graduati passaggi dall’ una all’ altra. La valva più completa di quest’ ultima varietà che chiamerò Var. globosa, misura in altezza 49 millimetri, ne conta 47 di diametro trasversale, e il punto più sagliente della convessità segna 24 millim. 394 LODOVICO FORESTI Cardium hirsutum ?Pronn. Bronn: Ital. Terticirgeb. pag. 104. N.° 599. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 190. tav. 26. fig. 6-7. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 154. tav. 13. fig. 5. (C. strigilliferum). Rarissimo; una sol valva completa ed in ottimo stato di conserva- zione ho raccolto nelle argille turchine di Zappolino. Per dimensioni corrisponde alle stesse indicate dall’ Hòrnes e così per il numero delle coste e per la forma delle squame; differisce poi dagli esemplari del bacino di Vienna per avere una forma più tondeggiante, e ciò per essere il margine posteriore meno troncato; gli interstizi poi si mo- strano piuttosto punteggiati che striati. Maggiormente poi l’ esemplare del bolognese diferirebbe con quelli del Crag d’ Inghilterra sì per la forma che pel numero delle coste, ma avrebbe con essi maggiore ana- logia per gl’ interstizi punteggiati; punteggiatura però, come indica x l’autore inglese, che non è carattere nè principale nè costante. Cardium papillosum Podi. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 315. tav. 13. fig. 1. (C. planatum). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 154. tav. 13. fig. 3 a-c (C. nodulosum). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 190° tav: 30. fig 8. Rarissimo, l’ ho riscontrato solamente nelle sabbie gialle superiori di Monte Oliveto. Corrisponde per bene cogli esemplari viventi. Cardium edule L. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 155. tav. 14. fig. 2. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 185. tav. 25. fig. 2,39. Specie rara; i pochi esemplari in cattivo stato di conservazione li ho estratti dagli strati di molassa intercalati colle sabbie marnose giallastre che costituiscono in gran parte le balze delle Lagune; unica località del bolognese ove fino ad oggi abbia raccolto qualche esem- plare di questa specie. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 325 Cardium multicostatum. Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 313. tav. 13. fig. 2. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag: 179% tav 0300610201 Una sola valva in discreto stato di conservazione ho raccolto nelle argille turchine di Zappolino. Corrisponde alla frase, alla descri- zione ed alla figura del Brocchi e per dimensioni ne è anche maggiore. Cardium oblongum Chemn. Pour: “est. utrius.iSicii No) IT pag ope tay luis. 9: (0. flavum) n. L. Panippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 50. Vol. II. pag. 37. (C. sulcatum). Rarissimo, due sole valve ho riscontrato nelle sabbie marnose giallastre delle Lagune e di Monte Biancano. Cardium fragile Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 312. tav. 13. fig. 4. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 178, tav. 30. fig. 6. Anche di questa specie non ho raccolto che una sola valva ed anche non completa, nelle argille turchine di S. Lorenzo in collina; corrisponde benissimo colla descrizione e colla figura data dal celebre conchiologo italiano. Fam. CHAMIDA Genere CHAMA Linneo. Chama gryphoides Linn. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 328. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 210. tav. 31. fig. 1 a-f. Specie abbondante in tutti i piani del pliocene bolognese, ma in- contrasi più di frequente nelle sabbie gialle ed argille turchine supe- riori; corrispondono per bene gli esemplari fossili con gli esemplari viventi, ed in quasi tutte le valve inferiori si vede l’ impronta del corpo sul quale aderivano. Non acquistano grandi dimensioni, e fino 326 LODOVICO FORESTI ad oggi non ho riscontrato alcun esemplare fossile che superi le di- mensioni di quelli che si pescano nei nostri mari. Chama sinistrorsa Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 329. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 212. tav. 31. fig. 2 a-d. (C. gryphina). Rarissima; non ne conosco del pliocene bolognese che una sola valva superiore raccolta nelle argille turchine delle balze di Pradalbi- no; per la forma delle lamine trasversali e per la direzione dell’ apice non lascia alcun dubbio sulla sua determinazione. Chama dissimilis Bronn. Puiuippi: Enum. Moll. Sicil. Vol. I. pag. 69. Vol. II. pag. 50. tav. Do ion, Specie meno comune della C. gryphoides e più frequente della C. sinistrorsa ; toltone di un esemplare raccolto nelle argille turchine tutti gli altri li ho riscontrati nelle sabbie marnose giallastre. Fam. ARCADAS Genere ARCA Linneo Arca diluvii Lk. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 279 (Arca antiquata). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 333. tav. 44. fig. 3, 4. a;e. Questa specie è abbondantissima in quasi tutte le balze delle col- line bolognesi, specialmente nelle argille turchine; di rado incontransi esemplari completi. Varia per la forma, trovandosi ancora esemplari più allungati della forma ordinaria, e colla parte posteriore più dila- tata; frequenti sono ancora gli esemplari giovani descritti e figurati dal Brocchi (1) e da altri conchiologi come specie distinta, sotto il nome di A. dydima, e citata del bolognese dal Brocchi stesso. Oltre le suaccennate variazioni di forma, tengo poi un’ altra valva la quale (1) Brocchi, Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 282. tav. 11. fig. 2. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. SIT corrispondendo in generale per la forma alla specie fossile tipo, diver- sifica poi per avere l’ area legamentare molto larga e non proporzio- nata alle dimensioni della conchiglia, la convessità della valva è molto maggiore ed il margine inferiore presenta una sinuosità centrale come pure altra sinuosità si osserva al margine posteriore, là dove corrisponde l’ impressione muscolare. Questo fossile avrebbe qualche analogia coll’ A. Weinkauffi descritta dal Crosse (1); opinione emessa anche dal Dott. Tiberi dopo avere esaminato il mio esemplare. Non avendo nessun esemplare nè vivente, nè fossile di questa specie del Crosse, e perciò non potendo fare i necessari confronti, così credo di citarla solamente come varietà della comunissima A. diluvii. Arca Noae Linn. Poni: Test. utrius. Stcil. Nol: II. tav. 24. fig. 1,2. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 324. tav. 42. fig. 4. a, e. Pochissime valve isolate raccolte nelle argille turchine di S. Lo- renzo in collina, e nelle sabbie marnose giallastre di Zappolino; cor- rispondono per forma e per dimensioni agli esemplari viventi. Arca barbata Linn. PoLi: Test. utrius. Sicil. Vol. II, pag. 135. tav. 25. fig. 6, 7. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 278. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 327. tav. 42. fig. 6-11. Anche questa specie è rarissima nel nostro pliocene; non ne ho raccolto che una sol valva nelle sabbie marnose giallastre delle balze di Monte Biancano; corrisponde per bene alle valve della conchiglia vivente. Arca lactea Linn. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 281. tav. 11. fig. 6 (A. nodulosa). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 77. tav. 10. fig. 2 a-d. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 336. tav. 44. fig. 6. a-e. (1) Journal de Conchyl. 3* Ser. Tom. II. Vol. X. pag. 324. Vedi anche Weinkauff, Die Conchyl. des Mittelm. ecc. Band. I. pag. 201. 328 LODOVICO FORESTI Rara: poche valve raccolte nelle argille turchine e nelle sabbie marnose giallastre; alcune di queste valve sono piuttosto tumide e globose percui credo si potessero riferire alla Var. subrotunda citata dal Weinkauff (1) come una varietà della specie vivente, descritta e figurata dal Payraudeau (2) col nome di A. Gaimardi. Arca mytiloides Broce. Broconi: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 280. tav. 11. fig. 1. Non raccogliesi tanto frequentemente; l’ ho incontrata tanto nelle nelle argille turchine, quanto nelle sabbie marnose giallastre; e così pure ho potuto raccogliere esemplari giovani ed esemplari adulti. Genere PECTUNCULUS Lamarck. Pectunculus glycimeris Linn. sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 66. tav. 9. fig. 6 a-b. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 316. tav. 40. fig. 1-2. tav. 41. fig. 1-10 (P. pilosus). Specie molto rara nel pliocene bolognese, non ne ho raccolto che una sol valva al limite delle sabbie gialle colle argille turchine nelle balze di S. Lorenzo in collina. Pectunculus insubricus Brocc. sp. Broccm: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 297. tav. 11. fig. 10. Trovai questa specie abbondantissima in ambo i piani del plioce- ne; corrisponde per bene alla descrizione data dal conchiologo italiano, come pure agli esemplari viventi. Incontransi ancora moltissimi esem- plari giovani, tenuti da vari autori e dal Brocchi stesso come specie distinta col nome di P. nummarius (3). In una località presso S. Lorenzo in collina, denominata Fornello questa specie è tanto numerosa che si può dire che co’ suoi resti quasi da sè sola formi uno strato, di non molta potenza, dai 40 ai 60 cen- (1) Weinkauff, Die Conchyl. des Mittelm. Band. I. pag. 196. (2) Payraudeau, Moll. de Corse. pag. 61. tav. 1. fig. 36-39 (A. Gaimardî). (8) Brocchi, Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 287. tav. 11. fig. 8 ( Arca nummaria ). CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 329 timetri, sovraposto alle vere sabbie gialle superiori; questo strato pel suo aspetto avrebbe molta somiglianza col Crag rosso del Belgio; ed è interessantissimo per la posizione sua stratigrafica e pei fossili che contiene, i quali però sono tutti in cattivissimo stato di conservazione e quasi tutti ridotti in frantumi. Pectunculus inflatus Brocc. sp. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 299. tav. 11. fig. 7. Riferisco a questa specie alcuni esemplari perfetti raccolti nelle argille turchine di Pradalbino, di S. Lorenzo in collina e nelle sabbie marnose giallastre di Zappolino e Monte Veglio. Presentano una con- vessità in ambo le valve molto maggiore di quella che si osserva nelle specie precedenti; non sono perfettamente orbicolari come si osserva nella figura disegnata dal Brocchi, ma sono invece di forma un poco allungata, ed irregolare; la quale irregolarità deriva dal presentare il margine posteriore un poco schiacciato, quasi retto. Per gli altri ca- ratteri corrisponde colla descrizione data dal conchiologo italiano e specialmente per le linee trasversali che coll’ ajuto della lente si tro- vano tutte punteggiate. Genere LIMOPSIS Sassi. I.imopsis aurita Brocec. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 289. tav. 11. fig. 9. (Arca). Woo: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 70. tav. 9. fig. 2. Specie abbondantissima nelle argille turchine, e qualche esem- plare si raccoglie ancora nelle sabbie marnose giallastre. Non v' ha balza pliocenica nella nostra provincia per sterile che sia di fossile, che pure non presenti qualche valva isolata di questa specie; si può dire l’ unico fossile che con una certa frequenza s’ incontra ancora nelle marne mioceniche. Limopsis anomala ZFichw. sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 71. tav. 9. fig. 3. (L. pygmaea). Hornes: Die Foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 312. tav. 39. fig 2,3. TOMO IV. 492 330 LODOVICO FORESTI Questa specie inversamente alla precedente si mostra piuttosto rara nelle argille turchine, e con una certa frequenza invece nelle sabbie marnose giallastre; non però mai da uguagliare l'abbondanza della L. aurita. Gli esemplari che si raccolgono nelle argille sono generalmente di piccolissime dimensioni, mentre invece sono il doppio ed anche il triplo quelli che s’ incontrano nelle sabbie. Genere NUCULA Lamarck. Nucula placentina Ik. Privippi: Enum. moll. Sicil. Vol. IL pag. 65. Vol. II. pag. 46. tav. DI Mod. Non dirò frequentissima, ma non di rado raccogliesi questa specie nel pliocene bolognese, l’ho rinvenuta tanto nelle argille turchine quanto nelle sabbie marnose: nelle balze di Zappolino meglio che in altre località si trovano esemplari completi ed in ottimo stato di conservazione. Nucula nucleus Linn. sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 85. tav. 10. fig. (6.000: Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 297. tav. 38. fig. 2. Specie molto rara; ne ho raccolta qualche valva isolata tanto nelle sabbie gialle del pliocene superiore quanto in quelle del pliocene inferiore; corrispondono per forma e dimensioni agli esemplari della specie vivente dei nostri mari. Nucula sulcata Bronn. sp. Bronn: Ital. Tertitirgeb. pag. 109. N.° 633. Povi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 63 (N. Poli). Vol. lI. pag. 45. tav. 5. fig. 10. Anche questa specie è rarissima, e l’ ho riscontrata nelle argille turchine e nelle sabbie marnose giallastre; essa pure corrisponde be- nissimo cogli esemplari viventi nel Mediterraneo. Genere LEDA Schumacher. Leda pusio Phil. sp. Puruippi: Enum. moll. Sicil. Vol. IL pag. 47. tav. 15. fig. 5. (Nucula ). CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. aa Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 304. tav. 38. fig. 6. a-e. Pochissime valve isolate ho raccolto fra i detriti di conchiglie depositati dal Rio Martignone, Rio come ho accennato altre volte che ha la sua origine nelle balze di Pradalbino, Monte Vecchio e Monte Oliveto; probabilmente queste valve appartengono alle argille turchine essendo esse che in gran parte costituiscono queste grandi balze. Leda pella Linn. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 284. tav. 11. fig. 5. (Arca). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 305. tav. 38. fig. 7. a-e. Anche questa specie è rarissima, l’ho però riscontrata in ambo i piani del pliocene. Mentre non trovansi differenze notevoli in quanto alla forma generale della conchiglia non così avviene per gli ornamenti, e particolarmente per le strie oblique trasversali le quali cambiano e di numero e di dimensioni. Leda minuta Brocec. sp. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 285. tav. 11. fig. 4. ( Arca). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 307. tav. 38. fig. 8. (L. fragilis). È la specie più abbondante di questo genere e si riscontra tanto nelle sabbie gialle superiori ed inferiori, quanto nelle argille turchine. Le balze di S. Lorenzo in collina ne danno in maggior copia; gli esemplari di questa specie trovansi sempre misti alla specie susseguente, la quale però è molto meno abbondante, e quel che è più curioso si è che insieme ad essi riscontransi sempre esemplari di Venus ovata e giovani individui di Arca diluvii. Alcune insenature delle suddette balze si mostrano, si può dire esclusivamennte, coperte di resti di questi tre o quattro molluschi. Gli esemplari fossili della L. minuta corrispondono per forma e dimensioni cogli esemplari viventi, sola- mente le strie trasversali sono più minute e più numerose. IDE LODOVICO FORESTI Leda nitida Brocec. sp. = Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 286. tav. 11. fig. 3. (Arca). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II. Band. pag. 308. tav. 38. fig. 9. a-e. Riferisco a questa specie alcune valve isolate raccolte nelle ar- gille turchine delle balze di S. Lorenzo in collina e di Pradalbino. Corrispondono per bene colla frase, colla descrizione e colle figure dell’ Hòrnes, ma poco con quelle del Brocchi. Leda pellucida Phil. sp. Puinippi: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 48. tav. 15. fig. 9. (Nucula). Horwnes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 303. tav. 38. fig. D. a-e. Rarissima; anche di questa non tengo che poche valve isolate raccolte nelle argille turchine di Pradalbino; corrispondono per bene alla frase e descrizione dei sopracitati autori, ma in quanto alla forma meglio somigliano agli esemplari del bacino di Vienna. Fam. MYTILIDA Genere MYTILUS Linneo. Mytilus Aquitanicus Mayr. Maver: Journal de Conch. S. 2.2 T. INIL pag. 32. Ho raccolto pochissimi frammenti, nelle argille turchine di S. Lorenzo in collina, di una specie di Mytilus, che presentano moltissi- ma analogia colla specie del Mayer. Avendo questi confrontati con esemplari perfetti del Piacentino gentilmente comunicatimi dal Prof. Cocconi ho potuto osservare la perfetta somiglianza e perciò ho cre- duto doverli riferire a questa specie semplicemente descritta dal con- chiologo Svizzero. Molto diversificano dal M. antiquorum, che non è altro, come giustamente osserva lo stesso Mayer che il M. edulis fossile. Per il cattivo stato di conservazione in cui trovansi gli esemplari del bolo- gnese non ne posso dare le misure, ma calcolando l’ altezza dell’ area legamentare e la grossezza degli apici, ben s’ accorge che dovevano assumere proporzioni gigantesche. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. o) Genere MODIOLA Lamarck. Meodiola adriatica Lk. Parvippi: Enum. Moll. Sicil. Vol. I. pag. 69. Vol. II. pag. 50. (M. tulipa) n. Lk. Non molto frequente; ho raccolto esemplari di svariata grandezza alcuni dei quali molto più grandi di quelli che si pescano viventi nei nostri mari. Generalmente non s'incontrano mai esemplari isolati, ma sempre a gruppi, e specialmente nelle sabbie gialle superiori. Debbo alla gentilezza del Dott. Tiberi la determinazione di questa specie, come pure quella della specie susseguente. Modiola barbata Linn. sp. Panuippi: Anum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 70. Vol. II. pag. 50. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 58. tav. 8. fio 2. Anche di questa specie sono pochi gli esemplari che ho raccolto al limite superiore delle argille turchine nella balza di S. Lorenzo in collina. Gli esemplari fossili sono maggiori per dimensioni e di forma molto meno allungata degli esemplari viventi. Modiola Brocchii Mayer. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. Il Band. pag. 345. tav. 45. fig. 13, a, d. I pochi e mal conservati esemplari che riferisco a questa specie presentano in generale tutti quanti i caratteri descritti dal conchiologo tedesco; avrebbero ancora qualche lontana analogia colla M. incurva- ta Phil. (1), ma ne diversificano poi per avere il margine ventrale molto meno curvo, e per non essere falciformi, caratteristica della specie riscontrata in Sicilia. Le poche valve fra gli esemplari che non sono stati schiacciati si mostrano piuttosto gonfie, e i pochi resti della superficie esterna presentano le strie di accrescimento, come si osserva nelle figure dell’ Hòrnes e non sono trasversalmente solcate come in- dica il Philippi per la sua specie. (1) Philippi, Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 72. tav. 4. fig. 20. 334 LODOVICO FORESTI Tutti gli esemplari che tengo nella mia collezione gli ho raccolti nelle argille turchine di S. Lorenzo in collina. Modiola modiolus L. sp. Var. intermedia For. Tav. I. fig. 1-2. Questa conchiglia che per la sua forma in generale, meglio che con qualunque altra specie, ha moltissima analogia colla specie del Linneo si mostra equivalve, inequilaterale, allungata, rigonfia special- mente nella sua porzione mediana, e rotondata alle estremità; ante- riormente è brevissima, e sorpassa di circa sette millimetri la linea degli umboni; posteriormente si presenta un poco depressa particolar- mente alla porzione superiore là dove il margine dorsale viene ad an- golo ottuso a congiungersi col margine posteriore ed è quivi dove la conchiglia si mostra alquanto dilatata. Il margine ventrale è appena appena depresso nel suo terzo posteriore, mentre invece il margine dorsale si presenta retto e partendo dagli umboni gradatamente s’ in- nalza, percui dà all’ intiera conchiglia un aspetto sub-triangolare allun- gato; gli umboni sono piccoli, ottusi e strettamente combaciantisi. Dagli umboni poi parte una linea rigonfia che un poco ad arco attra- versa obliquamente la conchiglia e va a sfumare allargandosi là dove il margine posteriore si unisce al margine ventrale. Tutta quanta la conchiglia è trasversalmente striata, strie che si confondono in gran parte e s’intercalano colle linee d’ accrescimento; queste strie sono numerosissime e ben distinte su tutta la porzione superiore alla linea rigonfia trasversale ed anche un poco al disotto di essa, e poscia ter- minano regolarmente seguendo una linea parallela colla suddetta linea rigonfia; al di sotto di questa linea non si osservano altro che le linee d’ accrescimento, le quali mano mano che si accostano agli um- boni si fanno meno apparenti per lasciare poi gli umboni stessi lisci e lucenti. Per la maggior parte dei caratteri ora accennati. egli è chiaro come abbia moltissima analogia colla M. modiolus L. = M. grandis Phil. (1) ma pure presenta qualche differenza per la quale non si può (1) Philippi, Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 51. tav. 15. fig. 13: CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 335 identificare colla specie tipo; così p. e. questa varietà presenta la por- zione anteriore sorpassante di qualche millimetro la linea degli umboni, il margine dorsale retto si allunga e s’ innalza, il margine posteriore è molto più dilatato, le strie sono molto apparenti e numerose e limi- tate ad una sola porzione della conchiglia. Considerando poi come il genere Modiola vada soggetto a moltissime variazioni specialmente nelle specie di grandi dimensioni, e dippiù non conoscendo che la M. modiolus la quale nel pliocene italiano assuma tali proporzioni, così ho creduto dovere questa forma particolare attribuirla ad una varia- zione della specie linneana. (1) Maggiori poi sono le differenze che presenta colla M. arcuata Phil. e colla M. Brocchii May. sebbene anche con queste mostri qual- che analogia. E così colla prima diversifica primieramente per essere in generale tutta quanta più retta, il margine ventrale non è arcuato, ed il margine dorsale non corre a questo paralello, per cui la nostra conchiglia necessariamente non si mostra falciforme come la M. arcuata del Philippi che forse non è altro che una mostruosità della M. mo- diolus, come crede ancora il Dott. Tiberi. Diversifica poi dalla M. Brocchii per avere il margine dorsale retto ed aliforme, per essere più gonfia particolarmente nella porzion centrale delle valve, e per mo- strare non solo le linee d’accrescimento, ma delle vere strie nume- rose e ben marcate. Per tutti quanti i caratteri differenziali ora accennati egli è chiaro come non si possa identificare con nessuna delle tre specie ora citate, ma nello stesso tempo è ben manifesto come abbia moltissima somi- glianza colla M. modiolus Linn. e qualche analogia colle altre due specie; egli è perciò che ho creduto doverla considerare come una bella varietà della prima nominandola Var. intermedia, perchè segna una forma intermedia fra le specie ora citate. L’ esemplare che ho fatto figurare, grande al vero, è il solo che posseggo nella mia collezione e l’ho raccolto nelle sabbie marnose giallastre di Monte Biancano. (1) Il Brocchi stesso nella sua Conch. foss. subap. nel Vol. II. pag. 406, nota come questa specie vada soggetta a variazione, e ne cita due ben distinte: la Var. superne oblique truncata ed un’ altra superne rotundata. 336 LODOVICO FORESTI Fam. AVICULIDA Genere AVICULA Bruguière. Avicula hirundo Linn. sp. Pamippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 76. Vol. II. pag. 55. Riferisco a questa specie alcuni frammenti raccolti nelle sabbie gialle superiori e nelle argille turchine delle balze di Bel Poggio e Pradalbino. Questi frammenti egli è vero che presentano una conchi- glia piuttosto grossa con un’area legamentare alquanto larga, ma la forma e la lunghezza dell’ aletta anteriore, il seno profondo che si osserva là dove la base dell’ aletta si unisce alla valva, la forma svelta e l’ acutezza della punta colla quale terminano gli umboni come pure la forma alquanto obliqua della conchiglia, non che il piano geologico in cui li ho rinvenuti, mi han fatto propendere ad identificare questi resti fossili colla specie di Linneo sebbene per alcuni rapporti diversificano dagli esemplari viventi. In tutti manca la porzione posteriore e parte del margine ventrale. Secondo 1’ Hòrnes (1), nel bolognese si è raccol- to anche l’ A. phalaenacea, io non ne conosco nessun esemplare per ora. Il Dott. Tiberi cui feci vedere alcuni di questi frammenti, fu pure della mia opinione riferendoli alla specie di Linneo. Genere PERNA Bruguière. Perna Soldanii Desk. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 402 (Ostrea maxillata). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 378. tav. 53. fig. 1. La struttura particolare di questa conchiglia e la natura della roccia entro cui sta sepolta ben difficilmente permettono di potere estrarre esemplari completi. L’ ho raccolta nelle argille turchine e nelle sabbie marnose giallastre inferiori: in alcune località si riscontrano come dei banchi formati da moltissime valve di questa specie e parti- colarmente nella porzione più inferiore del pliocene. Tengo nella mia collezione alcuni frammenti di valve che certamente appartenevano ad (1) Hòrnes, Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 377. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. DON esemplari giganteschi, giacchè l’ altezza della cerniera misura in alcuni punti fino a 9 centimetri, e la grossezza della valva passa i 5 centi- metri; in questi esemplari vi sono alcune particolarità degne di essere notate. La cerniera non si presenta retta od appena obliqua come si osserva negli esemplari di mediocre dimensione, ma invece forma una curva molto risentita, mercè la quale anche i solchi o doccie che for- mano la cerniera si presentano sensibilmente curvi; di più questi sol- chi o doccie alle volte si biforcano, oppure due solchi vicini si allar- gano per dar posto ad una terza doccia più corta delle altre che in mezzo a loro si forma, come si può benissimo osservare nella Tav. I. AGI. Fra questi frammenti ne ho raccolti alcuni in cui sono bene ap- parenti ancora i colori che li adornavano; sono zone di colore oscuro che attraversano concentricamente la conchiglia, separate le une dalle altre da spazi chiari. Queste zone e questi spazi sono in una certa proporzione fra loro, e mentre relativamente sì gli uni che gli altri si presentano larghi presso gli umboni, gradatamente poi si assottiglia- no venendo verso il margine; vedi Tav. I. fig. 16. Genere PINNA Linneo. Pinna pectinata Linn. Pappi: Enum. moll. Sticil. Vol. II pag. 54. tav. 16. fig. 1. (P. truncata). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 50. tav. 8. Hol. Pochi frammenti mal conservati nei quali oltre mancare buona parte della porzione inferiore sono ancora privi della estremità del- l’ apice; tuttavolta per la forma loro in generale e per il modo con cui appariscono le costicine longitudinali alla porzion posteriore e le linee ondulate alla parte anteriore, non mi lasciano dubbio sulla loro determinazione, tanto più poi che confrontati con esemplari viventi a bastanza con essi corrispondono. Ne ho raccolto nelle sabbie gialle superiori e nelle argille tur- chine e particolarmente nelle balze di Bel Poggio, S. Lorenzo in col- lina e Pradalbino. Probabilmente altre specie vi saranno nel pliocene bolognese, ma la fragilità della conchiglia e la difficoltà di ottenere. esemplari perfetti m’ impediscono fino ad oggi di poterne altre enumerare TOMO IV. 43 338 LODOVICO FORESTI Fam. OSTREID AZ Genere OSTREA Linneo. Ostrea Boblayi Desh. Desnayves: Exped. scient. de Morée. pag. 122. tav. 8. fig. 6-7. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 443. tav. 70. fig. 1-4. È la specie più grande di questo genere che si raccoglie nel no- stro pliocene; si rinviene generalmente nelle sabbie marnose giallastre di Monte Biancano, e nelle argille turchine di Pradalbino e di Monte Oliveto; generalmente raccolgonsi valve isolate. Gli esemplari del bolognese corrispondono perfettamente colla frase, colla descrizione e colle figure date dal Reuss nel seguito dell’ opera dell’ Hòrnes. Gli esemplari più voluminosi da me raccolti misurano 19 centimetri in altezza, 18% in larghezza ed hanno uno spessore dai 5 ai 6 centi- metri. (1) Ostrea lamellosa Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 382. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 444. tav. 71. fig. 1-4. tav. 72. fig. 1,2. Piuttosto abbondante è questa specie nel pliocene bolognese e si raccoglie in ambo i piani di questa formazione geologica, di prefe- renza però nelle sabbie gialle superiori; si raccolgono individui di tutte le età e di tutte le dimensioni, e non è difficile il poter ottenere esemplari completi. Ostrea foliosa Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 380. Pappi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 91. (1) Secondo l’ Hòrnes ed altri, questa specie sarebbe propria del miocene; gli esemplari però del bolognese sono stati raccolti nella porzione più profonda del pliocene, in quella porzione che in alcune località poggia direttamente sul miocene. Io credo che non s' abbia a meravigliare se alcune specie tenute pro- prie di un terreno si possono poi un giorno anche raccogliere nel terreno so- vraincombente o sottoposto e così s' abbia a ringiovanire od invecchiare la loro comparsa o la loro estinzione. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 339 Specie piuttosto rara; si raccoglie particolarmente nelle sabbie marnose giallastre inferiori di Monte Biancano e di Monte Maggiore ; ben di rado nelle argille turchine; per la sua forma allungata spe- cialmente e per altri caratteri, bene corrisponde colla frase e colla descrizione del conchiologo italiano. Ostrea plicata Chemn. Paruiepr: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 91. Vol. II. pag. 64. (O. plicatula). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 439. tav. 72. fig. 3-8. Non molto frequente e sempre s'incontrano valve isolate; 1’ ho raccolta nelle sabbie gialle superiori di Pradalbino, e nelle sabbie mar- nose giallastre inferiori di Monte Biancano e delle Lagune. Ostrea cucullata Born. Born: Test. Mus. Casarei Vindob. pag. 114. tav. 6. fig. 11, 12. Poche valve raccolte in ambo i piani del pliocene; per la forma loro allungata e un po’ ricurva, per avere la valva inferiore molto concava e le pieghe longitudinali grosse ed ineguali, per presentare l’ area legamentare lunga e ristretta, bene corrispondono colla descri- zione e colle figure del Born. Probabilmente questa specie, insieme all’ O. cornucopiae Lk. ed all’ O. Forskalii Chemn. non formano che tre varietà di una specie sola. Ostrea cochlear Poli. borr-lestnuiius i iSica Nol IL para Lu9 tav. 28. fig. 28. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 383 (0. navicularis). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 435. tav. 68. fig. 1-3 a, d. Specie piuttosto rara; pochissime valve ho raccolto nella porzione superiore delle argille turchine nelle balze di S. Lorenzo in collina e di Pradalbino. Genere ANOMIA Linneo. Anomia ephippium Linn. Poni: Test. utrius. Sicil. Vol. II. pag. 186. tav. 30. fig. 9, 10. Pamuppi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 92. Vol. II. pag. 65. 340 LODOVICO FORESTI Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 8. tav. 1. fig. IRlanad: Oltremodo svariata è la forma di questa conchiglia, specialmente per la diversità del corpo sul quale si sviluppa, per cui ogni individuo si mostra affatto differente e perciò molte specie se ne potrebbero creare non tenendo calcolo del suo polimorfismo. Fra i molti esemplari raccolti nei diversi piani del pliocene bolognese ne tengo alcuni i quali si presentano alquanto grossi, ora ovali ed ora rotondi, ed alle volte concavi in modo da somigliare ad un mezzo nocciolo di noce; da questa forma gradatamente si passa ad altre meno concave, irregolari e quasi piatte e così pure diminuirne ancora la grossezza delle valve. Fra queste varietà di forma ora notate, trovansi alcuni esemplari che si mostrano lisci e lucenti, altri con costicine sottili ed appena appa- renti, le quali mano a mano si vedono ingrossare e passare gradata- mente per alcune varietà tenute da alcuni autori come specie distinte e tali sarebbero 1’ A. costata, A. radiata, A. sulcata del Brocchi (1), ed altre ancora, che tutte si potrebbero comprendere come tante varie- tà della A. polymorpha del Philippi (2) la quale, io pure ritengo col Weinkauff, altro non sia che una varietà dell’ ephippium. Fra gli esemplari del bolognese tengo poi una valva superiore di un giovane individuo la quale presenta una ornamentazione tutta speciale e che ho distinto col nome di Var. papillosa. Tav. I. fig. 3-5 come benissimo si può vedere dalla forma degli ornamenti ingran- dita dieci volte Tav. I. fig. 5; questa valva presenta la sua superficie esterna sparsa di piccoli tubercoletti piatti e di forma rotonda nel cui centro appare una piccolissima papilla: questi tubercoletti papilliformi sono quasi equidistanti fra loro e disposti con una certa regolarità. Non avendo mai visto esemplari simili, nè da alcuno, per quanto io mi sappia, citata questa varietà, così ho creduto bene di riprodurla. Anomia striata Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 265. tav. 10. fig. 13. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 11. tav. 2. fig. 3. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.- Beck. von Wien. II Band. pag. 465. tav. 85. fig. 8-11. (1) Brocchi, Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 263-265. Tav. 10. fig. 9, 10, 12. (2) Philippi, Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 92. Vol. II. pag. 65. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECO. 341 Rara, due sole valve raccolte nelle argille turchine delle balze di Pradalbino, che corrispondono perfettamente colle descrizioni dei sopracitati autori e colle figure disegnate dall’ Hòrnes. Genere PECTEN O. I. Muller. Peceten cristatus Bronn. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 392 (0. pleuronectes) n. L. Bronn: It. Terticirgeb. pag. 116. N.° 664. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 419. tav. 66. fig. 1. a-d. Questa specie incontrasi quasi sempre nelle argille turchine tanto in stato giovane che adulto; nelle sabbie marnose giallastre invece ben rari sono gli esemplari adulti; egli è perciò che mentre in generale frequentissime sono le valve staccate di giovani esemplari, così riesce difficilissimo il trovare esemplari adulti perfetti. Questa specie nel bo- lognese occupa un posto interessante per il geologo, segnando essa, almeno in alcune località, il limite superiore delle argille turchine, là dove si rinvengono ancora resti di Delfino, di Balenottere, misti a legni carbonizzati, ad ostriche e strobili di pino. Le balze di S. Lo- renzo in collina m’ hanno fornito i migliori esemplari, raccolti mentre facevo eseguire gli scavi per estrarre i resti di Delfino e di Balenottera, illustrati dal Prof. Capellini, e che oggi si osservano nel Museo paleon- tologico della nostra Università. Pecten pyxidatus Brocc. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 399. tav. 14. fig. 12. ( Ostrea). Questa specie 1’ ho sempre raccolta nelle sabbie gialle, ma più di frequente nelle sabbie marnose giallastre inferiori. Fra i vari esem- plari che posseggo v’ hanno alcuni che presentano la valva inferiore molto convessa, mentre altri si mostrano molto schiacciati, forma quest’ ultima però eccezionale. Non è molto abbondante, ma non dif- ficilmente incontransi esemplari completi. Pecten fiabelliformis Brocc. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 400 (Ostrea). Pupi: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 59. 342 LODOVICO FORESTI Specie piuttosto comune nelle sabbie gialle superiori ed infe- riori; i gusci di questo mollusco trovansi alle volte in ammassi di grande estensione, spesso agglutinati e cementati fra loro in modo da formare delle lastre a bastanza dure da simulare una specie di luma- chella; queste cementazioni di preferenza incontransi a Monte Biancano ed a Monte Oliveto. Pecten Jacobeus Linn. sp. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. IL pag. 391. Paruippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 78. Vol. II. pag. 56. Non molto frequente, incontrasi però tanto nelle sabbie gialle superiori ed inferiori, quanto nelle argille turchine; quasi sempre in frammenti e ben di rado qualche valva isolata completa. Pecten Reussi Horn. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 407. tav. 64. fig. 1. a, d. Pochi frammenti ho raccolto nelle argille turchine della balza di S. Lorenzo in collina e che credo con sicurezza poter attribuire a questa specie: la forma delle coste longitudinali e delle strie interposte, le punteggiature che si osservano, mercè l’ aiuto di una lente, fra gli interstizi delle suddette strie, corrispondono perfettamente colla descri- zione e colle figure date dal conchiologo tedesco. Pecten septemradiatus liUl. Puuppr: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 86. Vol. II. pag. 60. (P. adspersus). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 30. tav. 4. fig. 2. (P. Danicus) Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 412. tav. 64. fig. 4. a-c. Specie in generale piuttosto rara nelle balze più ricche di fossili dei dintorni di Bologna. Trovasi invece in certa quantità nelle sabbie superiori che si estendono nelle vicinanze di Castel S. Pietro, come pure ne ho ultimamente raccolti bellissimi esemplari anche nelle sabbie marnose giallastre di Scopeto e di Rasiglio. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 343 Pecten filexuosus Poli. Porr: Test. utrius. Sicil. Vol. II. pag. 161. tav. 28. fig. 1-3. Brocca: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 397. tav. 16. fig. 17. (O. striata). - pag. 401. tav. 14. fig. 13 (O. discors). - pag. 394. tav. 14. fig. 9, 10 (O. coarctata). Privippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 85. Vol. II. pag. 60. tav. 5. fig. 18-21. (P. polymorphus). Non ho raccolto di questa specie che tre sole valve nelle sabbie gialle di Castel S. Pietro; una di queste è una valva inferiore che corrisponde perfettamente cogli individui viventi e particolarmente con quelli spettanti alla var. e del Philippi (1) e da lui figurata alla Tav. 5. fig. 19. e le altre due sono riferibili alla var. a (2) dello stesso autore. Pecten pusio Linn. sp. Woo: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 33. tav. 6. fig. 4. a-c. Specie rarissima; non mi è stato dato raccoglierne che poche valve nel pliocene superiore, le quali per forma e per dimensioni corrispon- dono cogli esemplari viventi. Pecten varius Linn. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 392. Prauppi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 86. Vol. II. pag. 60. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II pag. 41. Anche questa specie è molto rara, i pochi esemplari che tengo, fra i quali alcuni giganteschi, gli ho raccolti la maggior parte nelle sabbie gialle ed argille turchine di Pradalbino, tranne di qualche in- dividuo trovato nelle sabbie marnose giallastre delle Lagune. Pecten opercularis Linn. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 396. tav. 14. fig. 10. ( Ostrea plebeja). (1) Philippi,Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 80. radîis valvula inferioris sex bipartitis superioris quinque, interstitiis linea elevata mediana. (2) Pnilippi, Op. cit. pag. 79 - radiis 12-14 subequalibus cum intersti- tiis striatis. 344 LODOVICO FORESTI Woo: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 35. tav. 6. fig. 2 a-d. Pochissime valve di esemplari adulti e giovani ho raccolto nelle sabbie gialle superiori di Monte Vecchio e di Pradalbino ; per la forma e le dimensioni della conchiglia, per la forma ed il numero delle coste benissimo corrispondono cogli esemplari viventi. Pecten dubius Brocc. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 395. tav. 16. fig. 16. Woo: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 38. tav. 4. fig. 3. 68,00 119 09. Riferisco a questa specie i molti esemplari che s’ incontrano in grande quantità in ambo i piani del pliocene bolognese; corrispon- dono in generale alla descrizione che ne dà il conchiologo italiano, e così anche alla figura che ha prodotto, salvo qualche differenza che or sono per notare; di molto poi differiscono cogli esemplari del Crag d’ Inghilterra disegnati dal Wood. Gli esemplari del bolognese pre- sentano una forma tendente all’ orbicolare, ma sempre mn poco più allungata dall’un de’ lati; e questo allungamento varia moltissimo, essen- do in alcuni individui appena accennato, mentre in altri è tale da dare alla conchiglia una forma obliqua trasversale molto marcata. Costante è il numero delle coste e cioè dalle 17 alle 18; e queste si mostrano rotondate; le coste poi e gl’ interstizi sono longitudinalmente striati, strie che sulle coste principalmente non si manifestano che ad un terzo circa di distanza dagli apici; le piccole squame che si osservano sulle coste e sugl’ interstizi ora sono spesse e trasversali, ora rade e poco rilevate e spinose. Forse il P. scabrellus di Lk. è lo stesso di quello del Brocchi, ma per la costanza del numero delle coste, almeno negli esemplari del bolognese, che non è mai al disotto di 17, m’ ha fatto addottare la specie del conchiologo italiano. Oltre le diverse va- rietà di forma che presenta questa specie relativamente all’ essere più o meno allungata trasversalmente, altre se ne possono notare che sono in relazione colla maggiore o minore convessità delle valve. Genere HINNITES Defrance. Hinnites crispus Broce. sp. Broccn:: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 386. ( Ostrea). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. II. pag. 19. tav. 3. (H. Cortesi ?). CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 345 Specie piuttosto rara, non ne ho raccolto che una valva superiore nelle argille turchine delle balze di Pradalbino. Hlinnites pusio L. sp. Tav. I. fig. 13-15. Sowerpv: Thes. Conch. pag. 79. tav. 20. fig. 1-3 (H. sinuosus). Caenv: Man. de Conch. Vol. II. pag. 187. fig. 947 (H. SINUOSUS ). Rari nel pliocene bolognese sono gli esemplari appartenenti a questa specie, ne ho raccolto una valva inferiore ben conservata nelle argille tarchine di S. Lorenzo in collina, ed un’altra superiore ed in cattivo stato di conservazione nelle sabbie gialle di Pradalbino ; s° in- contrano invece di frequente nel terziario superiore del Piacentino co- me ho potuto verificare da esemplari gentilmente comunicatimi dal Prof. Cocconi. Questi esemplari della provincia di Piacenza sebbene io li ritenga tutti appartenenti alla stessa specie, pure per alcune parti- colarità diversificano un poco da quelli del bolognese; così p. e. questi ultimi hanno la forma più rotonda, la fossa legamentare più triango- lare e molto maggiore la grossezza della valva inferiore. Mi fa non poca meraviglia come il Prof. Cocconi dopo avermi prestato parecchi esemplari di questa specie, non la citi poi nel suo lavoro; le differen- ze che ho notate fra gli esemplari del Piacentino e quelli del Bolo- gnese sono così minime che non posso supporre abbiano fatto credere trattarsi di una specie distinta. Sebbene ritenga anch’ io che le così dette Hinniti in generale altro non siano che una trasformazione del genere Pecten, dipendente dallo svilupparsi della conchiglia o libera od aderente a qualche corpo, pure il mio esemplare fossile e per quelli ancora del Piacentino, la trasformazione è tale che ho creduto dovere per essi tenere distinto questo genere di Defrance e non identificarlo col genere Pecten co- me vogliono alcuni autori. Non conosco esemplari viventi di questa specie, sebbene sappia come si trovi nei mari del Nord di Europa: ho poi creduto interessante darne la figura in grandezza naturale Tav. I. fig. 13-14, per vedere, specialmente nella valva inferiore, nella parte esterna fig. 13, le mostruose rugosità concentriche e nella parte interna fig. 14, la forma dell’ impronta muscolare e Je strie ben marcate che dal margine di essa impronta si irradiano verso il mar- TOMO IV. 44 346 LODOVICO FORESTI gine della conchiglia. Ho in pari tempo fatto un profilo della stessa valva, mercè un modello di gesso Tav. I. fig. 15, per meglio dimo- strare la grossezza che acquista e per vedere il modo curioso di suo sviluppo. Questa valva come si può ancora vedere dal disegno è ab- bastanza ben conservata, ed ha un colore bruno piombo molto intenso. Genere LIMARA Bronn. Limaea strigilata Brocc. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol Il. pag. 390. tav. 14. fig. 15. ( Ostrea). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. II Band. pag. 392. tav. 54. fig. 7. Specie rarissima; poche valve raccolte nelle argille turchine delle balze di Pradalbino; fino ad oggi non conosco nessun esemplare del vero genere Lima nel nostro pliocene. ENERE SPONDILUS Linneo. Spondilus gaederopus Linn. PoLi: Test. utrius. Sticil. Vol. II pag. 21. fig. 20, 21. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 408. Anche questo genere nel nostro pliocene è molto raro, non es- sendo rappresentato che da questa sola specie, di cui non ho raccolto che pochissime valve: fra queste però oltre la specie tipo, notasi an- cora la varietà citata dal Brocchi: Testa oblonga, lateraliter compres- sa, striis muricatis exasperatis la quale è forse meno rara. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 347 MOLLUSCHI BRACHIOPODI Fam. TEREBRATULIDA Genere TEREBRATULA LlWwoyd. 'Terebratula ampulla Brocc. sp. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 267. tav. 10. fig. 5. ( Anomia). Secuenza: Paleont. malac. dei terr. tere. del distret. di Messina pag. 32. tav. 3. fig. 2, 5. tav. 4. fig. 1 (Mem. della Soc. Ital. di Scien. nat. Tomo I. N.° 4). Da pochissimi individui è rappresentata questa specie nel pliocene bolognese. Nelle argille turchine di Monte Vecchio e di Pradalbino, più che in altre località se ne può raccogliere qualche valva isolata ma sempre incompleta, mentre i pochi esemplari perfetti e pochissimo alterati non li ho trovati che nelle sabbie marnose giallastre di Zap- polino e di Monte Veglio. Terebratula Regnolii Menegnh. Carcara: Mem. sop. alc. conch. foss. rinv. nella contr. Altavilla. pag. 39 (7. ampuila) in parte. Davipson: On ital. tertiar. brachiopoda, pag. 6 (T. grandis) in parte. Menreami: Davidson opera citata pag. 7. Tav. XIX. fig. 3. Secuenza: Studi paleont. sui Brachiop. tere. dell’ It. merid. (Bull. malacol. ital. Vol. IV. pag. 124. tav. IV. fig. 1, 2,3, 4). Anche questa specie è rappresentata da scarso numero di esem- plari e si trova di prevalenza nelle località della specie sopracitata. Debbo alla gentilezza del Prof. Seguenza la determinazione di queste due specie; ed a lui pure son grato di molti saggi consigli mercè de’ quali ho potuto sui pochi esemplari di Brachiopodi che ho raccolto nel pliocene bolognese confermare le giuste osservazioni fatte dal suddetto professore sulle grandi specie del suddetto genere che si trovano nel pliocene italiano. Son ben lieto potermi in parte seco lui sdebitare rendendogli pubbliche grazie, non potendo per ora in altro modo attestargli la mia gratitudine. 348 LODOVICO FORESTI APPENDICE Parte I. a pag. 551. La forma tipica del M. irunculus L. è molto rara nel pliocene bolognese, ed io non ne posseggo che un solo esemplare che perfetta- mente corrisponde agli esemplari viventi; un poco più frequenti invece sono alcune altre forme che per il facies loro particolare tengono di questo tipo, ma che ne diversificano poi per alcuni caratteri, mercè dei quali si sono fatte tante altre specie. Io però inclinerei a ritenere tutte queste forme come semplici varietà della specie di Linneo, stan- techè si osserva fra loro un graduato passaggio; ed inoltre alcune di queste modificazioni si notano ancora negli esemplari viventi. Io non posseggo un numero sufficiente di individui viventi e fossili della forma tipo e delle sue varietà per poter stabilire i necessari confronti e di- mostrare come un fatto quanto ora semplicemente suppongo; so però che v’ ha alcun naturalista che fa degli studi in proposito e perciò le conclusioni che verranno emesse su tale argomento proveranno se sia troppo azzardata la mia supposizione. Espresso così il mio debole parere, aggiungo ai Murici pliocenici bolognesi spettanti al gruppo del M. trunculus le seguenti forme speciali. Murex Pecchiolianus D'Anec. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 32. tav. 5. fig. 3 ad. Pochi esemplari di piccole dimensioni ho raccolto nelle sabbie marnose giallastre di Monte Biancano; per la forma perfettamente corrispondono colla descrizione e colle figure del sopracitato autore. Murex rudis Bors. Borson: Sagg. d. Oritt. Piem. (Mem. dell’ Accad. di Torino. Tom. XXVI. pag. 308. tav. I. fig. 6). i Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I. Band. pag. 674. tav. 51. fig. 6. D'Ancona : Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 33. tav. 6. fig. 6, 7. (a-d). Anche di questa specie del Borson ho potuto raccogliere un esem- plare che corrisponde alla forma tipica disegnata dal D'Ancona; esso pure l’ ho estratto dalle sabbie marnose giallastre di Monte Biancano. CATALOGO DFI MOLLUSCHI ECC. 349 a pag. 554. Con tutta ragione il Dott. D'Ancona ha fatto notare nel suo pregievole lavoro come le figure specialmente e le descrizioni del M. Sedgwickii Michel. date dal Michelotti (1) e dall’ Hòrnes non corrispon- dono fra loro e perciò debbono ritenersi i due fossili descritti come diversi l’uno dall'altro; egli crede perciò onde togliere le confusioni dare alla forma che si riscontra nel bacino di Vienna e che corrisponde a quella degli esemplari che si raccolgono nel pliocene italiano un nome nuovo: anche il Prof. Bellardi (2) separa queste due forme e giustamente nota come il M. Sedgwickii da me citato e corrispondente alle figure dell’ Hornes debbasi riferire ad altra specie; egli è perciò che confer- mando quanto hanno detto i sopracitati autori, tolgo il nome di M. Sedgwickîi e sostituisco all’ esemplare già raccolto, e ad altri ultima- mente trovati nelle argille turchine di Pradalbino il nome di Murex Hòrnesi D Anc. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 220. tav. 23. fig. 2-5. (M. Sedgwicki) n. Mich. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 30. tav. 5. fig. 2 a-b. Egli è vero, come ho detto, che gli individui figurati dal Miche- lotti e dall’ Hòrnes diversificano fra loro, ma però sì gli uni che gli altri, se ben si considerano, sotto molti rapporti hanno dei punti di contatto colla forma tipica di questo gruppo e cioè col M. trunculus L. e tanto ciò è vero che non solo queste due forme, ma ancora tutte le altre spettanti al suddetto gruppo sono state spesse volte confuse come saggiamente osserva lo stesso D’ Ancona. Per completare quanto finora ho detto relativamente alle forme dei Murici spettanti al gruppo del M. trunculus e che si riscontrano nel pliocene italiano debbo ancora aggiungere il M. conglobatus Mi- chel. (3) che fino ad oggi non ho raccolto nel pliocene bolognese ed (1) Michelotti, Descript. des foss. des terr. mioc. de l' Italie sept. pag. 236. Cavani oe (2) Bellardi, I Moll. dei terr. terz. del Piemonte e della Liguria. parte I. pag. 88. (3) Michelotti, Monog. del genere Murex. pag. 16. tav. 4. fig. 7. — D’ An- cona, Malac. plioc. Ital. Voi. I. pag. 31. tav. 4-5. fig. 1. a-D. 350 LODOVICO FORESTI il mio MM. truncatulus, che ho riscontrato abbondantissimo nel pliocene delle vicinanze di Sarteano in Toscana. Tutte queste specie ora citate, quando ulteriori studi si saranno fatti relativamente alle modificazioni che subiscono le conchiglie a seconda delle molte e svariate cause che le possano influenzare, credo, torno a ripeterlo, non si dovranno con- siderare che come varietà ben distinte della forma tipica di Linneo. a pag. 555. Tenevo nella mia collezione dei fossili bolognesi alcuni esemplari di Murex funiculosus Bors. che presentando alcune differenze partico- lari li tenevo a parte, aveadoli notati come varietà della suddetta spe- cie; ora però li distinguo col loro vero nome di Murex multicostatus Peccr. Prccniori: Deser. d’ ale. nuov. fossili delle argill. subap. tosc. (Atti della Soc. ital. d. Sc. nat. Vol. VI. pag. 4, tav. 5. fig. 28, 29). D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 36. tav. 4. fig. 7 a-b. tav. 7. fig. 1 a-b. Moltissimi rapporti esistono fra queste due specie, e confrontando molti esemplari si notano certe modificazioni graduate che segnano come un passaggio dall’ una all’ altra. Rarissimo nel pliocene bolognese è il Murex del Borson, mentre un poco più di frequente incontrasi il Murex dei Pecchioli; ambidue però li ho sempre raccolti nelle argille turchine. a pag. 556. Quando pubblicai la prima parte di questo mio lavoro, la forma che prevaleva fra 1 molti esemplari del M. turritus Bors. era molto allungata e presentava altri caratteri, che or ora farò notare, mercè dei quali credetti si dovessero tutti gli esemplari riferire alla suddetta specie, e ciò anche dietro il parere del Prof. Bellardi cui ne feci ve- dere alcuni. Ora avendo raccolti molti altri individui di questo tipo ma però d'altra forma ed avendo avuto modo di poterli meglio stu- diare mercè interessantissimi lavori da poco tempo pubblicati, e per esemplari ricevuti di altre località, così ora mi piace di fare alcune osservazioni in proposito. Il Prof. Bellardi nella prima parte del suo bellissimo ed interes- CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 351 sante lavoro che sta ora pubblicando (1) e che servirà di complemento agli altri suoi di già conosciuti, come a quelli del Michelotti, crea moltissime specie del genere Pollia, le quali per moltissimi rapporti hanno molta somiglianza fra loro essendo ben piccole le differenze mercè le quali egli ha creduto di distinguerle; io però crederei che alcune di queste si dovessero semplicemente considerare come varietà della P. turrita e della P. fusulus; per il loro facies generale, come per la presenza più o meno marcata dell’ angolosità negli anfratti, per la forma della bocca più o meno allungata, per la forma ed il numero delle strie delle coste e dei cordoncini che di poco diversificano fra di loro, gradatamente dall’ una si passa all’ altra e forse col confronto di moltissimi esemplari si potrebbe stabilire una serie non interrotta. Dichiaro però di riferire la mia opinione solamente riguardo alle de- scrizioni ed alle figure, non avendo visti gli esemplari sui quali il Bellardi ha creato le sue specie, persuaso però che sì le une che le altre siano esatte. Giustissime poi sono le osservazioni che il Bellardi fa riguardo alla P. turrita Bors. e la LP. fusulus Bors., e ben studiata la descri- zione del Brocchi del suo Murex, e considerata la sua figura non troppo bella, credo anch’ io che il Dott. D’ Ancona sia incorso nel- l'errore di avere l’ una specie coll’ altra confusa; e così pure anche il Prof. Cocconi nel suo interessante lavoro sui fossili miocenici e pliocenici delle provincie di Parma e Piacenza; eppure è ben chiara e precisa la frase e la descrizione sì del Brocchi che del Borson. Egli è vero che i due autori sopra citati, cioè il D’ Ancona ed il Cocconi, indicano una di queste specie col nome del Bronn ossia M. flericauda, ma questa come è ben noto non è altro che sinonimo della specie del Borson. Gli esemplari raccolti nel Bolognese e che rappresentano i due tipi, in generale meglio corrispondono colle figure del conchiologo to- scano che con quelle del Bellardi. La forma però generale del M. fu- sulus che s’ incontra nel bolognese si presenta più svelta, più allun- gata di quella rappresentata dal Brocchi e dell’ altra ancora «disegnata dal Bellardi e ben pochi sono gli esemplari che assumono le dimen- sioni di quelli che s'incontrano in Toscana e benissimo disegnati dal D’ Ancona col nome di M. flericauda Bronn. (1) Belardi, Opera citata. 352 LODOVICO FORESTI Il M. turritus Bors. poi che in minor quantità ho raccolto nel nostro pliocene presenta parecchi esemplari che corrispondono bene colle figure del Bellardi. Il M. fusulus citato e disegnato dal D’ Ancona io lo ritengo come una varietà del M. turritus, stantechè io posseggo parecchi esemplari di questa specie i quali mostrano dei ben marcati passaggi dall’ uno all’ altro, sia nel numero dei cordoncini e delle strie che sono in relazione colle dimensioni generali della conchiglia. Il Michelotti nella sua monografia dei Murex, anch’ esso ben di- stingue queste due specie e dalle sue descrizioni e dalle frasi degli autori ch’ esso riporta ben si scorgono le differenze che si osservano specialmente nella forma della bocca essendo più tondeggiante e con solchi nell’ interno nel M. turritus, mentre si mostra ovale allungata e con denticolazioni nel M. fusulus. Egli è perciò che dietro alle poche parole ora esposte, oltre al M. turritus di già citato e che come ho già fatto notare presenta alcune variazioni, posso ancora notare nel pliocene bolognese anche il Murex fusulus Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Tom. II. pag. 200. tav. 8. fig. 9. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 26. tav. 4. fig. 2 a-b. (M. flericauda . BeuLarpi: I Moll. d. terr. tera. del Piemonte e Liguria. Part. I. pag. 169. tav. 12. fig. 4 (Pollia fusulus). Piuttosto frequente è questa specie nel nostro pliocene particolar- mente nelle argille turchine, se ne raccoglie ancora qualche esemplare nelle sabbie marnose giallastre inferiori, ma nessuno fino ad oggi ho riscontrato nelle sabbie gialle superiori. Tenendo come specie tipo quella forma che piuttosto allungata è composta di 8 o 9 giri ed ha tutta la superficie percorsa da sottili cordoncini quasi uguali fra loro e che bene è rappresentata nell’ opera del Dott. D’ Ancona sotto il nome di M. flericauda, notansi poi altre forme che mostrando lo stesso facies diversificano fra loro e con la forma tipica pel numero e le dimensioni dei cordoncini, per essere la conchiglia più o meno allun- gata, per la maggiore o minore elevatezza degli angoli per la mag- giore o minore convessità degli anfratti; variazioni, alcune delle quali verrebbero a combinare in certo qual modo con alcune delle specie di Pollie illustrate dal Prof. Bellardi. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 353 a pag. 560. Oltre le specie di Murex enumerate nella prima parte e quelle or ora accennate, debbo ancora aggiungerne alcune altre ultimamente raccolte e cioè Murex brevicanthos Sism. E. Sismonpa: Atti del Cong. degli Sciene. in Napoli (1847). pag. 115. D’ Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 34. tav. 3. fig. 1 a-b. Specie piuttosto rara raccolta solamente a Monte Biancano ed a Majola nel pliocene inferiore ; fra i pochi esemplari, tutti imperfetti e mal conservati, che tengo nella mia collezione, ve ne ha uno che supera di molto per dimensioni quelli che han dovuto servire al D’An- cona per le sue belle figure. Murex Veranyi Paul. Paurucor: Descrip. d'un Murex foss. des terr. tert. subap. (Journ. de Conchy. Ser. III. tom. IV. pag. 64. pl. II. fig. 1. pl. III, fig. 1. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 13. tav. 3. fig. 7 a-b. Rarissimo; un solo esemplare un poco logoro raccolto nelle sabbie marnose giallastre di Monte Maggiore, e che perfettamente corrisponde colle descrizioni e colle figure dei sopracitati autori. Murex bracteatus Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 199. tav. 9. fig. 3. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 44. tav. 7. fig. 11 a-b. Due piccolissimi esemplari non completi raccolti nelle argille tur- chine di Pradalbino. Son ben contento di potere annoverare anche questa specie nel pliocene bolognese e designarla con questo nome, come giustamente ha fatto anche il D'Ancona nel suo pregievole la- voro, e dopo il Bellardi ed il Cocconi, anche per attestare un atto di rispetto verso il compianto Pecchioli, come quegli che per primo aveva fatto questa distinzione e come meglio farò notare, in questa stessa appendice, parlando della Pleurotoma Bonelli. TOMO IV. 45 354 LODOVICO FORESTI Genere CORALLIOPHILA H. a. A. Adams. Coralliophila lamellosa Jan. sp. Tav. I. fig. 6-7. Jan: Cat. rerum nat. pag. 10 (Fusus). Puiuippi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 204. Vol. II. pag. 180. tav. Il. fig. 30"(Fusus): Riferisco a questa specie un bell’ esemplare di un individuo gio- vine, raccolto nelle sabbie gialle superiori di Monte Oliveto. Secondo alcuni autori questa specie del Jan sarebbe sinonimo del M. dracteatus Brocc. ma i confronti fatti fra queste due conchiglie, specialmente con esemplari di diverse età, e di più confrontati individui adulti della specie del Jan colle figure del M. dracteatus disegnate dal D’ Ancona ed ultimamente anche dal Cocconi, ben si scorge quanta sia la diffe- renza che passa fra loro, percui credo non si possano identificare. Nella C. lamellosa la forma della conchiglia è più regolare, la coda più corta, gli anfratti più tondeggianti, ben apparenti le coste in tutti i giri e la carena rappresentata da un cingolo squammoso che sulle coste forma dei tubercoli ben rilevati ed acuti; anche la posizione della carena nella specie del Jan è più vicina alla sutura e divide per modo gli anfratti che la porzione superiore si mostra appena appena incli- nata e per nulla convessa mentre la porzione inferiore presenta una convessità molto marcata; finalmente anche la forma della bocca è meno rotonda e più ovale; queste differenze che si osservano in indi- vidui adulti si mantengono e forse in grado maggiore ancora nei gio- vani esemplari delle due specie. L’ esemplare del bolognese avrebbe ancora qualche lontana ana- logia coi giovani individui del M. imbricatus Brocc. ma ne diversifica specialmente per la forma degli anfratti che sono un po’ più scalariformi, per la bocca che è molto meno allungata e per il labbro esterno che sì mostra liscio internamente ed appena pieghettato al suo orlo, mentre invece nel M. imbricatus anche negli esemplari i più giovani si tro- vano ben pronunziate le denticolazioni allungate. Per la perfetta somiglianza che il mio esemplare ha cogli esem- plari viventi, non però colla figura del Philippi, non esito punto a ritenerlo quale l’ ho denominato, e per meglio confermare la mia dia- gnosi ho creduto bene riprodurne uno scrupoloso disegno, che anche per la sua età può essere utile per lo studio. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 355 a pag. 965. Oltre la Fasciolaria fimbriata Brocc. che nel pliocene bolognese si trova di preferenza nelle argille turchine superiori, posso ora ag- giungere altre due specie e cioè la Fasciolaria Tarbelliana Grat. GratELovP : Atlas, conch. foss. du bass. de Adour. Tab. 23. fig. 14. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 298. tav. 33. fig. 1-4. Un bell’ esemplare non molto grande ho raccolto nella porzione più profonda delle argille turchine, nelle balze di Pradalbino, indubi- tatamente riferibile a questa specie. Certamente deve essere molto rara nel pliocene italiano giacchè non la trovo citata altro che dal Coppi (1) nel pliocene modenese, mentre invece si trova piuttosto abbondante nei depositi miocenici. Io stesso ho raccolto 1’ esemplare in posto e perciò non posso dubitare del piano geologico; per la forma corrispon- de alle figure 2, 3 della tavola sopracitata dell’ Hòrnes. Fasciolaria Tarentina Lk. Var. cingulata Foresti. Credo dover considerare come una varietà della specie vivente i pochissimi esemplari raccolti nelle sabbie gialle superiori di Pradalbino e Bel-Poggio. Per la forma generale e della conchiglia e degli anfratti per la forma ed il numero delle coste, gli esemplari fossili per nul- la diversificano da quelli che si pescano nei nostri mari; l’unica differenza si è quella di mostrare tutta quanta la superficie ornata di molti cingoli appena sporgenti, alcuni dei quali, due o tre, si mostrano un poco più grossi nell’ ultimo anfratto; una tendenza ad essere cinti da cordoncini ed a mostrare alcuni di questi più prominente nell’ ul- timo giro si nota ancora in alcuni esemplari viventi, come io stesso ho potuto osservare in alcuni esemplari che tengo nella mia collezione del Mediterraneo. Allontanandosi di molto dalle altre specie di Fasciolarie fossili (1) Coppi, Cat. dei foss. mioc. e plioc. del Modenese. pag. 28. M. 210. 356 LODOVICO FORESTI plioceniche illustrate e descritte da diversi autori ed invece mostrando moltissima somiglianza colla forma ordinaria della specie vivente, così ho creduto doverla identificare con questa annoverandola semplicemente come varietà. a pag. 569. da aggiungersi Cancellaria scabra Desn. BeLLarpi: Descrip. des Cancell. foss. des terr. tert. du Piemont. pag. 33. tav. 4. fig. 1-2. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. 1 Band. pag. .681. tav. 52. fig. 1. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 95. tav. 12. fig. 9 a-c. Un discreto esemplare abbastanza ben conservato ho raccolto nelle argille turchine di Zappolino; corrisponde benissimo per la forma generale e per le dimensioni colle bellissime figure disegnate dal D’An- cona, mostra solamente un poco di differenza nella forma della bocca, poichè il corto canale formato dalla base della bocca stessa, non piega all’ indietro, ma invece si volge sensibilmente all’ infuori, percui 1’ in- tera apertura si mostra decisamente cordiforme. a pag. DI. Oltre la specie tipica del Yusus rostratus Olivi, ed oltre la var. bononiensis da me citata ed illustrata (Var. A del Bellardi) (1) noto ancora l’ altra Var. B dello stesso autore: Carina obsoleta, costae longitudinales in ultimo anfractu nulle, vel rare et obsoleta; da molti autori tenuta come specie distinta col nome di Fusus cinctus Bell. et Micht. BeLLarpi e MicarLorTI: Sagg. Oritt. del Piemonte. pag. 12. tav. Lf do. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 126. tav. 14. fig. 1. (a-0). ‘tav. ‘15. fig. 6,7, 8. (1) Belardi, I Molluschi dei terreni terziari del Piemonte e della Liguria, Parte I. pag. 130. tav. 9. fig. 2. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 357 L’ esemplare che corrisponde a questa varietà, raccolto nelle argille turchine di Majola, presenta un cingolo più prominente degli altri, il quale sta ad indicare la carena, tanto ben sviluppata nella specie tipo, percui somiglia alle figure 7, 8 della tav. 15 del D’Ancona. a pag. 572. Quando pubblicai la prima parte di questo lavoro non avevo raccolto che un solo esemplare di un Fusus che credetti dover riferire al Fu- sus Schwartzi Hòrn., notando però in esso alcune differenze partico- lari. Ora avendone raccolti alcuni altri in miglior stato di conserva- zione non solo ma anche di maggiori dimensioni, così credo anch’ io che abbiano a considerarsi come una forma diversa che corrisponde al Fusus Meneghinianus D'’ Ane. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 139. tav. 15. fig. 5. Corrispondono questi esemplari colla descrizione che ne dà il suddetto autore, e solamente trovo incostante il numero dei cordoncini più grossi che cingono gli anfratti, trovandone ora due ed ora tre nella porzione inferiore degli anfratti in generale, e nell’ ultimo poi in alcuni esemplari, se ne contano perfino cinque ed anche sei. Uno degli esemplari ultimamente raccolto nelle argille turchine di Monte Oliveto misura in altezza 20 millimetri e 5 in larghezza; credo però che tanto questa forma del D’ Ancona, quanto quella dell’ Hòrnes non s' abbiano a considerare altro che come varietà di una stessa specie. a pag. 573. da aggiungersi Fusus Borsonianus D’ Anc. D'Ancona: Malac. plioc. ital. Vol. I. pag. 129. tav. 14. fig. 6 (a-d). Dietro il parere del Dott. D’ Ancona cito anch’ io questa bellis- sima specie che ho ultimamente raccolta nelle argille turchine di Zap- polino, specie rarissima di cui non posseggo che un solo esemplare che per la forma e per le dimensioni corrisponde benissimo colla de- scrizione e colle figure che il Dott. D’ Ancona dà nel suo pregievole lavoro. 358 LODOVICO FORESTI a pag. 580. Come una varietà della Nassa prysmatica Brocc. avevo notato un esemplare un poco sciupato raccolto nelle argille turchine di Ma- jola; ora questa stessa forma la veggo illustrata dal Prof. Cocconi col nome di i Nassa Strobeliana Cocc. Cocconi: Enum. sistem. dei Moll. mioc. e plioc. delle Provincie di Parma e Piacenza. pag. 85. tav.2. fig. 5, 6. Certamente confrontando un esemplare tipico della N. prysmatica con questa forma ultimamente accennata vi si notano delle gran- dissime differenze, particolarmente nella forma e nelle pieghe della bocca, ma io credo che confrontando molti esemplari di diverse loca- lità probabilmente si potesse giungere a formare una serie non inter- rotta di graduati passaggi, pei quali dalla forma tipica si giungesse al- l’altra dal Cocconi illustrata, e già ritenuta per specie nuova anche dallo Scarabelli, ma da questi però non figurata nè descritta. Anche il Dott. Tiberi cui comunicai il mio esemplare venne alle stesse mie conclusioni, e me lo rimandò annotandolo come var. gra- cilis della specie del Brocchi. a pag. 594. da aggiungersi Conus Mercati Brocc. Broccni: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 55. tav. 2. fig. 6. Hornes: Die foss. Moll. des ‘Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 1295 tav. 20ug) NI P2005, Tengo un giovane esemplare raccolto nel Rio Martignone ed un altro adulto trovato nelle sabbie gialle di Scopeto. Del genere Conus, questa specie insieme al C. ponderosus, Deshayesi, pelagicus è piuttosto rara nel pliocene bolognese, mentre trovansi più di frequente esemplari del C. ventricosus, striatulus e Brocchi; raccogliesi poi in grande abbondanza il C. antidiluvianus in ogni periodo del suo svi- luppo, in ogni balza ed in ogni luogo ove la denudazione abbia messo allo scoperto o le sabbie gialle o le argille turchine. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 359 a pag. 599. Sebbene molte sieno le specie dei generi Pleurotoma e Mangelia da me già enumerate nel pliocene bolognese, pure dietro le ripetute escursioni posso ora aggiungerne altre interessantissime. Molte e svariate sono le opinioni dei diversi conchiologi nell’at- tribuire una specie appartenente al genere Pleurotoma o ad uno o ad altro dei diversi sottogeneri da esso dipendenti. Troppo lungo sa- rebbe il voler discutere su questo argomento, ciò che non permette l'indole di questo mio lavoro: varie poi, dietro a queste riflessioni sarebbero le rettificazioni da praticarsi ad alcune specie da me attri- buite al sotto-genere Mangelia, ma siccome ciò non altera punto il valore specifico e le specie da me enumerate possono essere benissimo riconosciute, così su questo argomento non faccio altra parola, e solo in questa appendice distribuirò le specie ultimamente raccolte, special- mente quelle i cui rappresentanti s’ incontrano ancora nei nostri mari, secondo sono state considerate dal Weinkauff nel suo bellissimo lavoro sulle conchiglie del Mediterraneo. Pleurotoma Bonellii Bel. Var. elongata Foresti. Tav. I. fig. 11-12. BeLLARDI: (in litteris et speciminibus). MicazLotti: Descr. des foss. des terr. miocèn. de V It. sept. pag. 289. tav. 9. fig. 5-7 (Pleurotoma bracteata). BeLLarDi: Mon. delle Pleur. foss. del Piemonte. pag. 18. tav. 1. fig. 5 (Pleurotoma bracteata). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 332. tav. 36. fig. 3 (Pleurotoma bracteata). Poco dopo la pubblicazione della prima parte di questa mia Me- moria raccolsi due esemplari di Pleurotoma che per la forma loro ero indeciso a qual specie riferirli; confrontando questi esemplari colle figure della P. dracteata, disegnate dal Michelotti, dal Bellardi e dal- l’ Hòrnes vedevo avere con queste moltissima analogia, d'altra parte poi ben m’ ero accorto come per nulla assomigliassero al Murex bra- cteatus del Brocchi (1) col quale si erano identificate le figure dei so- (1) Brocchi, Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 199. tav. 9. fig. 3. 360 LODOVICO FORESTI pracitati autori; di più gli esemplari del bolognese presentavano una forma anche più allungata di quella disegnata dall’ Hòrnes. Comunicati i miei dubbi e gli esemplari al Sig. Pecchioli, egli gentilmente me li rimetteva, accompagnandoli con un esemplare di Murex bracteatus ed un altro di Pleurotoma Bonellii raccolti nel plioce- ne toscano e colle seguenti espressioni che io mi credo in dovere di testualmente trascrivere, per mostrare come fino dal 1868 avesse egli già intraveduta questa importantissima distinzione. Mentre convengo col Pecchioli, come saggiamente opinano anche il D' Ancona ed il Cocconi per questa separazione da farsi della P. Bo- nellii dal M. bracteatus, non posso poi seco lui esser d’ accordo sulla identificazione del Murex del Brocchi col M. lamellosus di Jan, se questo rappresenta la stessa specie indicata dal Philippi (1) e dal Weinkauff (2). Ecco le parole del Pecchioli , Pleurotoma Bonelli. » Restituisco a questa Pleurotoma il nome datole dal Bellardi nel 1832, » che poi lo cambiò nel 1845 in quello di dracteata Brocchi ( Murex » bracteatus) col quale invero non ravviso alcuna somiglianza come non ve la ravvisò lo stesso Bonelli che nella collezione del Museo s di Torino la chiamò leurotoma elegans, e come Ella stessa potrà , convincersene, esaminando, non foss’ altro la bocca non che il resto » dell’ ornamento in generale, come la forma generale della conchiglia n che punto rassomiglia nè alla figura nè alla descrizione che ne dà » il Brocchi per il suo M. bracfeatus. Ora a me pare che il M. la- » mellosus di Jan debba essere il vero dracteatus Brocc. e fors’ anche » quello che nelle collezioni passa generalmente pel rotifer di Bronn » del quale non conosco nè la descrizione nè la figura, ma che credo » differente dal lamellosus di Jan e quindi dal bracteatus del Brocchi. » Che che ne sia mi pare che nella collezione del Brocchi nel Museo » di Milano, il M. bracteatus si rapporti precisamente alla sua figura » e niente affatto alla conchiglia che Bellardi stesso non che Bonelli , avevano riconosciuta differente ,. Gli esemplari del Bolognese, come meglio sì può osservare nelle figure 11-12 che sono in grandezza naturale non corrispondono in tutto nè coi disegni del Bellardi nè con quelli dell’ Hérnes, giacchè (1) Prilippi, Enum. moll. Sicil. Vol. I. "pag. 204. tav. 11. fig. 30 ( Fusus). (2) Weimkauff, Die Conch. des Mittelm. Band. II. pag. 97 (Coralliophila ). CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 361 riguardo ai primi mostrando gli stessi ornamenti e la stessa forma degli anfratti, diversificano poi e per la forma generale della conchiglia che è molto più allungata e per le dimensioni molto maggiori; misu- rando questi 29 mill. in altezza e 13 in larghezza. Quanto poi alle figure dell’ Hòrnes, diversificano specialmente e per essere quasi per nulla carenati, e per avere l’ ultimo anfratto convesso nella sua por- zione inferiore. Stante dunque queste differenze e per la forma più allungata ho creduto importante il darne una esatta figura considerando questa forma come una semplice varietà della Pleurotoma Bonellii. Questi esemplari sono stati raccolti nelle argille turchine di Pra- dalbino e nelle sabbie marnose giallastre di Monte Biancano. Pleurotoma scalaria Jan. Jan: Catal. rer. nat. ecc. pag. 9. N.° 3. BeLrarpi: Monog. delle Pleur. foss. del Piemonte. pag. 106. tav. 4. fig. 26 (Raphitoma). Due soli esemplari non completi ho raccolto nelle argille turchine delle balze di Monte Oliveto; corrispondono a bastanza colla descrizione che ne dà il Bellardi, ma non troppo colla figura essendo questa mal fatta e mancante di quella carena così bene pronunziata sull’ ultimo anfratto. Gli esemplari del bolognese presentano alcune differenze però non molto rilevanti; la principale si è quella di mostrare la porzione posteriore degli anfratti non perfettamente liscia, ma invece coll’ ajuto della lente si osservano dei finissimi cordoncini che si fanno sempre più sottili presso la sutura e che cominciano ad una certa distanza dall’ orlo della carena con uno o due in proporzione degli altri più grossi e visibili. Pleurotoma Bellardi Des Moul. BeLLarDI: Monog. delle Pleur. foss. del Piemonte. pag. 79. tav. 4. fig. 8. Riferisco a questa specie alcuni giovani esemplari raccolti nelle argille turchine di Pradalbino e di Monte Oliveto, i quali per la forma generale della conchiglia, pel numero e dimensioni delle coste, non che per la rilevatezza e grossezza dei cingoli e finalmente per la forma della bocca, corrispondono colla descrizione che ne dà il sopra- citato autore. Hanno ancora molta analogia colla P. brevirostrum Sow. TOMO IV. 46 362 LODOVICO FORESTI ma oltre i caratteri differenziali che distinguono queste due specie, citati dal Bellardi, trovo ancora che in questa specie i cingoli trasver- sali, sebbene più sottili, si osservano anche nella porzione posteriore degli anfratti, mentre nella brevirostrum questa parte si mostra del tutto liscia. Pleurotoma sulcatula “2 Bon. BeLLarD:: Monog. delle Pleur. foss. del Piemonte. pag. 96. tav. 4. fig. 21 (Faphtoma). Dietro il parere del Dott. Tiberi riferisco a questa specie un pic- colo esemplare un po’ incompleto e raccolto nelle argille turchine di S. Lorenzo in collina. Genere RAPHITOMA Bellardi. Raphitoma brachystoma Phil. sp Punippi: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 169. tav. 26. fig. 10 ( Pleurotoma ). Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. I. pag. 60. tav. 7. fig. 8. ( Clavatula). Pochi esemplari raccolti nelle sabbie gialle ed argille turchine di Pradalbino e Monte Oliveto, che corrispondono oltre alla descrizione e figura del Philippi, anche agli individui viventi nel Mediterraneo. KRaphitoma nana Scacchi sp. Scaccni: Catal. conch. regn. Neap. pag. 13. tav. 1. fig. 20. ( Pleurotoma). Puuippi: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 169. tav. 26. fig. 11 ( Pleurotoma). Specie rarissima, non ne tengo che un solo esemplare raccolto nelle argille turchine di Pradalbino; corrisponde per bene colla descrizione e figura del Philippi e meglio ancora cogli esemplari che si pescano nei nostri mari. Genere DEFRANCIA Millet. Defrancia purpurea Montg. sp. Woop: Monog. of the Crag Moll. Vol. I. pag. 57. tav. 7. fig. 5 (Clavatula Philberti). CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 363 Hornes: Die oss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 327. tav. 40. fig. 17 ( Pleurotoma Philberti). Un solo esemplare raccolto nelle sabbie gialle superiori di Monte Oliveto; per la forma corrisponde colle descrizioni dei sopracitati au- tori e cogli individui viventi. Quanto alle figure degli esemplari del bacino di Vienna, non corrispondono nè cogli esemplari viventi, nè col mio fossile, presentando esse una specie di angolo sugli anfratti. Defrancia Leufroyi Michaud. sp. Micmaun: Bull. Soc. Linn. de Bordeaux. Vol. TI. pag. 121. tav. 1. fig. 5, 6 ( Pleurotoma). Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 373. tav. 40. fig. 16 (Pleurotoma). Specie rarissima; non ne tengo che un solo esemplare perfetto e ben conservato raccolto nelle argille turchine di Pradalbino ; corrispon- de benissimo per forma e dimensioni agli individui che si pescano nel Mediterraneo. HDbefrancia anceps Eichw. Var. intermedia Foresti Tav. I. fig. 8-10. EicuwaLp: Lethaea Rossica pag. 186. tav. 8. fig. 7. Hornss: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 368. tav. 40. fig. 11 (Pleurotoma). Riferisco a questa specie un esemplare raccolto esso pure nelle argille turchine delle balze di Pradalbino, che corrisponde in generale colla frase data dall’ Hòrnes, ma non colle figure: queste si mostrano cinte da quattro o cinque cingoli grossolani e rotondi negli ultimi anfratti, e ben distinte nella loro porzione superiore sono le strie cur- vate ed inflesse; il mio esemplare invece conta tre soli cingoli per anfratto e tutti sottili e taglienti ed il mediano più prominente degli altri due, mostrando così l’ aspetto di una carena; inoltre le strie curvate sono sottilissime ed apparenti solo con un forte ingrandimento. Avrebbe ancora molta analogia colla P. turritelloides Bell. (1) (1) Bellardi, Monog. delle Pleur. fossili del Piem. pag. 71. tav. 4. fig. 5. 304 LODOVICO FORESTI specialmente per la forma carenata degli anfratti e per altri caratteri; ma ne diversifica poi per il numero costante delle carene, per non esser liscia la porzione superiore degli anfratti e perchè nell’ ultimo i cingoli non si cangiano in strie, ma si mantengono tali, diminuendo solo di elevatezza. Questo esemplare segna un passaggio fra le due specie sumento- vato, ma presentando maggiore analogia colla prima, così lo tengo come una varietà di questa e perciò l'ho denominata var. intermedia. Ho creduto interessante il dare oltre un disegno ingrandito della con- chiglia, anche un altro in maggiore dimensione degli ornamenti fig. 10 per viemeglio apprezzare le differenze che presenta e colla specie tipo dell’ Fiehwald è coll’ altra del Bellardi che forse non è essa pure che una varietà. a pag. 607. Avendo molti altri esemplari di Mitra cupressina Broce. e di Mitra Michelotti Hòrm. ultimamente raccolto e nel bolognese ed in altro località italiane, credo interessante aggiungere alcune osservazioni relative a queste due specie. Il numero delle pieghe columellari in queste specie non è sempre costante, ed anzi nella M. Michelotti è variabilissimo, incontrandosi esemplari che presentano quattro pieghe ben distinte, altri in cuì se ne contano solamente tre; costante invece nella specie dell’ Hèrmes sì è la forma generale della conchiglia, non che le strie trasversali che sempre passano sopra alle coste longitudi- nali. Nella M. cupressina la forma generale della conchiglia è molto variabile, trovandosi esemplari che dalla forma tipica gradatamente passano ad altre più corte e più tozze; le strie trasversali però mai sorpassano le coste e solamente sono bene espresse negli interstizi. Nelle mie collezioni tengo alcuni individui raccolti nelle sabbie marnose giallastre di Monte Oliveto che per la loro forma e per gli altri caratteri corrispondono per bene colla .M. Borsoni? Bell. (1) che tengo anch'io come sinonimo della M. cupressima; ed un altro bel- lissimo individuo raccolto nelle marne di Castrocaro, che per la forma e per le dimensioni perfettamente corrisponde colla fig. 20. tav. 10 dell’opera dell’'Hùmes; ed anzi nel mio esemplare si vede benissimo, (1) Bellardì, Monog. delle Pleur. lossìli del Piem. pag. 21. tav. 2. tig. 17, 18. CATALOGO DEI MOLLUSCHI PCc, 365 come fa notare il Bellardi nella sua M. Borsonti, la piega columellare posteriore molto più grossa delle altre e posta quasi orizzontalmente. Mitra ebenus Lk. Pappi: Enum. moll. Sicil. Vol. I. pag. 229. tav. 12. fig. 8,9,10. BeLLarDI: Monog. delle Pleur. foss. del Piem. pag. 23. tav. 2. fig. 20-23. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag..«409. .tav...10. fig: 11,12; 13, Variabilissima è questa specie anche allo stato fossile, percui se ne possono annoverare moltissime varietà ben distinte; nei pochi esem- plari raccolti nelle sabbie gialle e nelle argille turchine di Pradalbino e di Monte Oliveto, già ne posso distinguere due, l’ una delle quali presenta delle traccie di coste su tutti gli anfratti tranne che nel- l’ultimo, ed un’ altra che si mostra del tutto liscia ed analoga alla varietà indicata dal Bellardi, testa ecostata, elongata-turrita (1); questa varietà benissimo si distingue dalla M. pyramidella Brocc. Stando ai miei esemplari fossili ed alle figure delle diverse Mitre date dal Brocchi, credo anch’ io che la M. plicatula di questo autore (2) altro non sia che una varietà della M. ebenus; ma in quanto alla M. pyramidella ne dubiterei, stantechè oltre la forma generale v° hanno delle notevoli differenze nella forma dell’ ultimo anfratto ed altre particolarità che benissimo si distinguono confrontando le figure del Brocchi e gli esem- plari fossili fra loro, distinzione che non si può apprezzare dalle figure del Bellardi (3). a pag. 613. da aggiungersi Mathilda Brocchii Semp. Semper: Du genre Mathilda. Journ. de Conchyl. Ser. 3. Tom. 5. pag. 338. tav. 13. fig. 3. Quando nella prima parte di questo mio lavoro citavo come fre- (1) Bellardi, Monog. delle Mit. foss. del Piem. pag. 23. tav. 2. fig. 22. (2) Brocchi, Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 92. tav. 4. fig. 7. (3) Bellardi, Monog. delle Mit. foss. del Piem. pag. 25. tav. 2. fig. 24, 25. 366 LODOVICO FORESTI quente la Mathilda quadricarinata Broce., maravigliavo come non avessi potuto rinvenire questa seconda specie che il Semper citava raccolta anche nel bolognese. Ora son ben contento di segnarla anch'io nel mio catalogo, avendone raccolti alcuni esemplari di diverse dimen- sioni nelle argille turchine di Pradalbino e di Monte Oliveto. a pag. 624. Sotto il nome di Solarium variegatum avevo citati alcuni esem- plari i quali presentavano alcune differenze fra loro; ora avendoli meglio studiati, dopo la pubblicazione del lavoro del Dott. Tiberi sul genere Solarium (1) ho trovato come s’abbia a sopprimere il nome impostogli prima ed invece citarli coi nomi seguenti; appartenendo essi a due specie differenti. Solarium fallaciosum TW. Tiseri: Gen. e Spec. della fam. Solaridae viv. nel Mediter. e foss. nel terr. plioc. ital. (Bullet. malac. ital. Vol. V. pag. 35. MicazLortI: De Solartis in Trans. of the R. Societ. of Edinb. Vol. 15. tav. 2. fig. 1-3 (Sol. stramineum). Nel pliocene bolognese sono scarsi gli individui appartenenti a questa specie; i pochi esemplari che ho raccolto nelle argille turchine di Pradalbino e di Monte Vecchio corrispondono perfettamente cogli individui che vivono nel mediterraneo, come ho potuto verificare mercè di un bell’ esemplare regalatomi dal Dott. Tiberi. Solarium Architae 0. Costa. O. Costa: Faun. del Regn. di Napoli. Gast. pettinibr. tav. 1. fig. 1. Triseri: Opera citata. pag. 36. Specie meno rara della precedente, raccolta tanto nelle sabbie gialle superiori che nelle argille turchine; benissimo si distingue dal S. fallaciosum per essere di forma un poco più schiacciata, per il doppio angolo sull’ ultimo anfratto e per l’ ombelico più aperto. Negli (1) Gen. e Spec. della fam. Solaridae viv. nel Mediterr. e foss. nel terr. plioc. ital. ( Bullet. malac. ital. Vol. V. pag. 31). CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 367 esemplari giovani meglio che negli adulti, come saggiamente osserva il Dott. Tiberi nel sopracitato lavoro, queste particolarità specifiche sono molto bene espresse. a pag. 625. da aggiungersi Solarium discus Phil. Pieri: Enum. moll. Sicil. Vol. II. pag. 225. tav. 28. fig. 12. Rarissimo; non ne ho raccolto che un solo esemplare nelle ar- gille turchine di Pradalbino, il quale perfettamente corrisponde colla descrizione e colla figura data dal Philippi. Non credo #8’ abbia ad identificare col S. pseudoperspectivum col quale avrebbe qualche ana- logia, ma che poi ne diversifica per molti caratteri. a pag. 627. Cangio il nome generico di Phorus in Xenofora comv oggi si vuole dalla maggior parte dei conchiologi ed aggiungo alle specie di già citate anche la Xenofora testigera Lronn. Brown: Ital. Tertitirgeb. pag. 61. N.° 323. Horvnes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 444. tav. 44. fig. 14. Mentre non sono rare nel pliocene bolognese nè la X. infundi- bulum Brocc., nè la X. crispa Kon. questa invece è rarissima; non ne tengo che un solo esemplare raccolto nelle argille turchine di Pra- dalbino, il quale è abbastanza ben conservato. Pochissime sono le specie di questo genere nel pliocene italiano; pare non siano che le tre ora citate; giacchè la X. cumulans da alcuni ritenuta anch’ essa come pliocenica, credo non sia propria che del miocene. a pag. 632. da aggiungersi Capulus sulcosus Broce. sp. Broccm: Conch. foss. subap. Vol. II. pag. 68. tav. 1. fig. 3. ( Nerita). 365 LODOVICO FORESTI Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 637. tav. 50. fig. 20. Specie rarissima, non ne conosco che un solo esemplare apparte- nente al Museo geologico di Bologna, raccolto nelle argille turchine di Fagnano ? Genere BROCCHIA Bronn. Brocchia laevis Bronn. Bronn: Ital. Terticirgeb. pag. VIII. pag. 82. N. 438. Broni: Monog. del Gen. Brocchia (Atti dell’ Acc. Gioen. Vol. NEK pag 212) tav. celo) Dietro i caratteri stabiliti dal Bronn e dal Biondi per differenziare il genere Capulus dal genere Brocchia, non ho alcun dubbio nel riferire a questo genere i pochissimi esemplari raccolti nel bolognese: trovan- doli poi lisci e senza pieghe li riporto alla B. /@vis, sebbene in tutto non corrispondino colla descrizione e colle figure date dal Biondi. I miei esemplari hanno una forma piuttosto orbicolare, non sono conici e come si esprime il Biondi hanno il dorso quasi paralello alla base; sono lisci e solo presentano qualche leggiera ammaccatura, l’ api- ce non sorpassa il limite posteriore ed è sensibilmente piegato a sini- stra; una insenatura al lato destro anteriore è molto bene espressa come pure è bene apparente il solco caratteristico di questo genere. L'impressione muscolare è molto sviluppata e si presenta clavata ad ambidue le estremità. Il maggiore de’ miei esemplari misura nel dia- metro antero-posteriore 29 mill., nel diametro trasversale 27, e 13 nella maggiore altezza. Allieno dal creare delle specie nuove là dove veggo moltissima analogia con qualche altra specie di già conosciuta e che col confronto di molti esemplari mercè di leggiere modificazioni si passa gradata- mente dall’ una all’ altra, così non ho creduto degli esemplari del bo- lognese farne una specie a parte, sebbene diversificano dalla B. l@vis illustrata dal Biondi; invece hanno moltissima somiglianza con quelli citati ed illustrati dal Prof. Cocconi (1) col nome di 5. depressa Jan; la quale forma minimamente differisce dalla specie descritta dal Bronn (1) Cocconi, Enum. sistem. dei moll. mioc. e plioc. delle provin. di Parma e Piacenza, pag. 210. tav. V. fig. 10-13. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 369 e dall’ altra descritta e figurata dal Biondi; perciò credo non s° ab- biano a tenere distinte. Per questo genere così polimorfo, io crederei si dovessero consi- derare come specie tutt' al più le due sole citate dal Bronn e cioè la B. sinuosa Broce. e la B. levis, e V altre considerarle come varietà di questi due tipi. a pag. 634. da aggiungersi Dentalium Badense Partsch. Hornes: Die foss. Moll. des Tert.-Beck. von Wien. I Band. pag. 652. tav. 50. fig. 30. Non molto frequente; incontrasi qualche esemplare nelle più pro- fonde argille turchine. Genere SIPHONODENTALIUM Sars. Ssiphonodentalium quinquangulare r/orb. sp. Forsrs: Rep. Aeg. Inv. pag. 135 { Dentalium). Sowerpyr: Thes. Conch. tav. 224. fig. 33. ( Dentalium). Cito questa specie dietro 1’ autorità del Dott. Tiberi, essendomi stato gentilmente da lui determinato un solo e bell’ esemplare quasi completo, raccolto nelle argille turchine di Pradalbino. Io non tengo esemplari viventi appartenenti a questa specie, per cui non ho potuto con essi fare dei confronti; ho però confrontato questo esemplare con alcuni frammenti, non possedendo esemplari perfetti, di Dentalium te- tragonum Brocc. e sarei propenso a ritenerli tutti appartenenti alla stessa specie: esprimo semplicemente questo mio dubbio, non potendo per ora esserne sicuro, sebbene trovi che anche il Monterosato (1) sia della stessa mia opinione, giacchè non ho potuto eseguire confronti ed osservazioni, come ho di già accennato, sopra esemplari perfetti delle due forme suddette, tanto viventi che fossili. (1) Allery di Monterosato, Notiz. intor. alle conch. del Mediterr. pag 28. TOMO IV. 47 370 LODOVICO FORESTI QUADRO SINOTTICO COMPARATIVO Bologuese Mari ove plioe. sup.|plioe, inf, vivono Pliocene Miocene GENERE E SPECIE Numero progressivo Argille turchine Sabbie marn. giall. Argille tvrchine Oceano Atlantico ro E Crag d’ Inghilterra Piacentino e Parmense Piacentino e Parmense Bacino di Vienna Mari Brittanici Monte Mario Toscana Modenese Piemonte Modenese Mediterraneo Altri mari Sabbie gialle GASTEROPODI Strombus coronatus. Defr. . . . - di Bonellii. BEORE: BMSPERO Murex EER Eolo se QIMACLUN CU USES truncatulus. Fores. 5 Pecchiolianus. D’ Anc. . . LUAISMBOLSIAMIN e eo SL HOLMES RD ZANC e spinicosta. Bronn. . . . .. AP SONUSINI LIT ce vaginatus. Jan... .... brevicanthos. Sism. è... squamulatus. Broce. ; craticulatus. Brocc. è... funiculosus. Bors. . . . . . multicostatus. Pecch. . . . Capellinii. Fores. . . +. . tUCLICUSSEBOLS MIA fusulus:MBLOCC siente bracteatus. Brocc.. RIU polymorphus Broce. . . + erinaceus, L. . Bo heptagonatus Bronn. DIO Veranyl QRaUl di Lassaignei Bast.. .. è... s», imbricatus. Brocc, SU scalaris APBLOCCAME Rs e IMNCHstatus.WBroCCood uo f0e plicatus. Brocc. . . 1.0. Coralliophila lamellosa. Jan sp. . Typhis fistulosus Brocc. sp. Pisania maculosa. Biv. . . . Î Ranella marginata. Brong.. . .. do reticularis. Lì. . 0... Triton nodiferum. Lk. ...... doliare. Brocc. sp. . . . . sì distortum. Brocc. sp.e . + Ta FR DEDE SIATE NOR » apenvinicum. Sass. . . +. tuberculiferum. Bronn. Fasciolaria fimbriata. Brocec. sp.. DE Tarbelliana. Grat. » Tarentina. L... e... var. cingulata.» Fores. Cancellaria lyrata. Brocc. sp. . . 55 varicosa. Brocc. sp . DI calcarata. Brocc. sp. DO uniangulata. Desh. . 1 mitraeformis. Broc. sp. si scabra. Desh. + e + è ) cancellata. L. Sp. Si ui (ei pui È (e Cesi elezioni Sio î (21 i (Pn (a) M. pseudo brandaris. D° Ance. — (0) M. torularius Lk. secondo il Bellardi. — () Una varietà molto distinta. — (d) M. conglobatus. Var. C. Bellardi. — (e) Una varietà della specie di Brocchi. — (f) Ci- tato dal D’ Ancona e dal Cocconi col nome di M. fusulus. Brocc. — (g) Gli esemplari del M. /lexicauda Bronn. citati dall’ Hòrnes sono ben differenti da quelli che s’ incontrano nel pliocene italiano. Forse trattasi d’ altra specie. — (A)Il Coppi, il Cocconi ed il D’ Ancona l’ hanno citato come M. flericauda Brocc. — (©) Citato dal Doderlein col nome di M. rotifer Bronn. — (1) Secondo Michelotti. — (#m) Una varietà che incontrasi anche nel pliocene del bolognese. — (n) Citato dal Doderlein col nome di Murea lamellosus Jan. — (0) T. olearium. secondo il Bellardi — (p) Tarbellianum Grat. — (4) Il dott. Manzoni cita la specie tipo di cui ha racolto un esemplare nelle sabbie gialle di Valle Biaja. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 71 QUADRO SINOTTICO COMPARA TIVO Numero progressivo Bolognese _ Mari ove Pliocene Miocene pitoc. SUP; pliec. inf, vivono | 2 | È i ci [si = h î 2 E 5; ri ° [> E [Si (Si olwltafle=(SÙ 15 3 ! E; E GENERE E SPECIE ARS \‘s |" | = [at Di © ©|#{8|58fs]|=3|<|8]J5|5|.|s|e]e|8|2{= o|2folef{es[A{2{5K°|o|5|=s{s{3[|s|S|© s|ela|af=s|a|e|afo|/g3|8/8|/S]15|8|S | Arles ISS slo =-ledo|s |643 NIN oO] |E[L{STa LS 51j Cancellaria nodulosa. @ Lk.. ..$ 1 52 53 contorta Bast. . . +. f_.. 53 n Bonellii. Bell. DUI (ca nh ci var. Dertonensis. Bell.f 54f Pyrula reticulata. Lk. + .e...$ 1 55 ni geometraz Bors:t. Ri. e i 56] Fusus longiroster. Brocc. è... f_. ri RNNNITOSTEALUS MOVE 1 "= » var. bononiensis. Fores.. . f 1 58 »» Cinctus. Bell. e Mich. . . . R.. 59 3 Borsonianus. D’ Anc. . . . f..... 60 sì Meneghinianus. D’ Ance... f.. 61 Emil arne NOSUSSEBOrS e n SR 62 SME LR USCUSATE E CHE e e E 63 DIA ALUS TELO CCA N eun 64 E onarius Def ià do 65 Ebiaitraeformis: IBrocc. te ie 6Cf Buccinum polygonum. Brocce . . |... TI c Guidicinii. Fores. . . . f..... 68 na baccatum.. Bast.'.. . è . B.....-- 69 DA VENEO Pea To ro i Sto do E 70] Friamus helicoides. Brocc. Sp... f... 7]f Zerebra fuscata. Brocc. sp... . - fl 1 72 5; costulata;. Borse. te fe 73 Ei Basterotii. Nyst. .. + + 1 74 x acuminata. Bors. . è. . |. 79 5 PERUTEEO ASI ea 800 | E 76% Nassa clathrata. L. sp. . ...-. 1 Uri DIMMISCErA Ta rEBECCCIS Pre 78 NICEA CU Ata O TESA AR 79 TRIS CAT SE BORSE ESA N LO 80 »» prysmatica. Brocc. sp. 9. {1 81 FABRIS LEO DEIANA MCOCCAR e IIS 82 PS RTLUSIVA E BLOCCHI SPIA 3 E ireticulata RI spa iL 84 », angulata. Brocc. sp... . L.... 85 ,, asperula. Brocc. sp. 2... 1 86 3, Serraticosta. Bronn. . ... J.... 87 ,, turbinella. Brocc. sp «Wifi: 88 »» Semistriata. Brocc. sp... . | 1 89 3; costulata. Brocc. sp.. + < . LL... 90 TAMAGULLI [AMBO SROE 91 dg Morelli Usalle cc Sevilla 92 vata SASA A 93 2, (obliquata’ Brocc. sp. e - Lo 94 »» conglobata. Brocc. sp. . . #.... 95 DE ZILDOSula A Spree AA 96 Fri lamiere e de eee 97] Cyclope neriteus. L. sp... ....{ 1 98] Ringicvla buccinea. Desh.. . .. | 1 99 7 SULIA CAS OE NIE e i e 100] Purpura Hornesiana. Pecch. . . |... 101 5 hemastoma. L. sp... . | 1 102] Monoceros monacanthos.Brocc.sp. | 1038) Cassis saburon. Lki . ... 4.3: 1 104 »»variabilis. Bell. Mich... . (a)= C.hirta Broc.= C. piscatoria Broc. — (0) Citata dal d’ Ancona col nome di C. serrata Bronn. — (c) Citata dal Bellardi come Var A. del F. rostratus. Olivi — (d) Il Bellardi lo indica come Var. B. del F.rostratus. Oliv. — (e) Trovasi nei mari tropicali. secondo Hérnes. — (f) T. teselata. Michl. — (9) Ci- tata da alcuni col nome di N. Zimata. Chemn. — (#) Da alcuni autori indicata col nome di N. Ascanias Brug. — (7) Indicata come N. pusilla Phil. DI2 LODOVICO FORESTI QUADRO SINOTTICO COMPARATIVO Bolognese Mari ove Fastin pioli SEEN Pliocene Miocene $ 5 dA È È 9 bi = 4 a 5 GENERE E SPECIE ci a al 3 È È G 3 © |Slsl\s|Jo[|sl |E{s © |o| | = = È = o ® S a > 3, e {5{s|515|S|3{z{®P]s ° IO) E 3 opera Sla 3 53 ce BR Bce È 2|»Js|®iS|5|5|5]j£ s|z/s/3lî/s|z|s Z 2|<|5|<|=|s|3|<[|5|=]|€|a]|=]|=]|2|=|6 105j Cassidaria echinophora. Lk. 106 5 fasciata. Bors. . .. . SRO [RR S| cl 107% Dolium denticulatum. Desh. . . . 108% Columbella nassoides. Bell... .. 109 Sa subulata, Bell. . . + - 110 Di thiara. Brocc. sp. è - lll 5 turgidula. Bell... . 112 5 semicaudata. Bon. . . 113 i corrugata. Bon. | 114f Conus ponderosus. Brocc. .. .. si 115 » ventricosus. Bronn. @ . ... 116 »» Deshayesii. Bell. e Mich. . 117 RUE Py CU las BLOCCHENSI SI 118 » Striatulus. Brocc. co 119 Mercalli IBLOCC-R N 120 »» pelagicus. Brocc. 6 121 a Favellan a sdIEle SURSIRIRIre 122 »» antidiluvianus. Brug.. ... 123 » Brocchii. Bronn.d..... 124/ Pleurotoma cataphracta. Brocc. sp. 125 55 turricula. Brocc. sp. . 126 DO interrupta. Brocc. sp. 127 a dimidiata. Brocc. sp. 128 » intermedia. Brocc. sp. I 129 > brevirostrum. Sow. . 1 13 » Brocchi MBONAW SR 1 131 RE pustulata. Brocc. sp. l SR » Bonelli. Bell. .. 1 j 133 > scalaria. Jan. 1 Do 2) rotata. Brocc. sp. . . 1| 135 st monilis. Brocc. sp. . 1 | 136 5) intorta. Brocc. sp... 1 137 5) obtusangula. Broc, sp. ì 13 si spinifera, Bell... . . 14 139 » Grispata Jan. 09 li 140 DÈ elegantissima. Fores. 1 141 si Bellardi. Des Mul. I 142 A sulcatula ? Bon. 1| 143f Mangelia harpula. Broce. sp. .. 1 144 » sigmoidea. Bronn. sp. . 1 145 » vulpecula. Bon. sp. | 146 5 plicatella. Jan. sp. . è . li 148 » hispidula. Jan. sp. - è - li 140 5 textilis. Brocc. sp. è - 1 n » histrix. Jan. sp. . +. - 1| 3 ) cancellina. Bon. sp. . . lj ica 5 semiplicata. Bon. sp. + 1 | 159 » angusta. Jan. sp. . - . . 18 154 ». submarginata. Bon. sp. 14 155 Raphitoma gracilis. Montg. sp. Lf 156 » Payraudeauti. Desh. sp. l| 157 » brachystoma. Phil. sp. 1} I ICI nana. Scac. sp. 1 iso efrancia reticulata. Bon. sp. è - 1 160 » purpurea. Martg. sp... È Leufroyi. Mich... ... . (@) L' Hérnes cita questa specie come sinonimo del €. Mediterraneus; ed il Weinkanff. oltre questa specie tiene ancora come sinonimo del Conus vivente nei nostri mari anche il €. ponderosus il C. pyrula ed il C. pelagicus. — (b) C. Dujardini. —— (c) Pi. obeliscus D. Monl. — (d) Citata questa specie dal Coppi dal Michelotti e dall’ Hsrnes col nome di P. bracteata Brocce. — (e) Il Bellardi cita nel miocene una varietà, notando la specie tipo solo nel pliocene. — (7) Citata dal Wood col nome di Clavatula Philberti. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECC. 93 QUADRO SINOTTICO COMPARATIVO ab IA n DI SIE Pliocene Miocene plioe. sup.Iplioc. inf. vivono 1699 ,, Bromnii. Michl...... dA 170 3» pyramidella. Brocc. sp. . . si 171 PMO DeHUS MK dd 1 zl" > recticosta. Bell... ..... 2 D 2 5 a È = DS) g £ (o) & > E) © 2 | 2 2 E E; E; 3 I GENERE E SPECIE ope. |: ‘815 £ Tai Ta E (3) = (3 Ss GS os ei = NS) © to) S = SiIaTJSIASSNOISl._ l'b#ol Da Peer] SZ RGS =2fsila © ° L= ° | {sl-fs]a|S/s[5/3/.|58|s8f[2|5/g8]|3 DI o°|2f{olof5|Af{o|{El3 6 CER EE 3 È 2Ialzlalz|=|5|=]s0/8|8|[8|g|8|2|8|8 5 3|£12|P2|13[5|3|=]Js|5|2|s|3]3|s|3|{8 4 D| A s|51S/5J5/S|z|zf®|s © olo o|=|J8|5{1£|2|<|sJS]|S e[{gleg|sl2î]|3 9 [SI . LA 5=i 2) 2 |.= 5 SBRABHHAHHAAAAARE E 5 ||| @|la|a|s|[=]®|3|8|8/8{18/8|3|- = sa5ds|=fole|Lg|/2FBC[{[o|ElsjasfolslKloisgs Z Q|) (0) © i È 5 È È | {E È Stige - GENERE E SPECIE Hi a È È È E o|s|als]Jo|3]|5 FILE ss ° =2|edlsas|[cefJo Si = ® © > SI s|sls|ag5fSlIsknT PS ° ° ° @©|#]8|=#{£|z|®|<{=|3|2|8|s{2e|£|s]3 n IONI IRON © A 9 E 9 Q NE s S 5 E s di = da > Bei ai ei + D v E 2 |®|3|®|3|8|3|3]||3|83/=|3J8/î|3|3 nI fa s{5{S|52{J5]|2 2i{z|s Ei ° OO #|8|8|5|5)# ESS °\sle|s|s|= 2 PE £ | èis|ola|z]|o 5 o|2{o|2{o|]9|9 ie) S“|S[|S]JO|S{2|9 È Ai ii Se i e 3 2|2]2|®[8|/» Sinistrorsa. Brocc. SIINO 343 »»3 dissimilis. Bronn.. è. è. 344% Arca diluvii. Lk. ........% 345 ONORE O OT RUI NOT 346 » barbata. L. a HH up 3474, lactea. L. .. Do o La e] Me Ei ESS SES LE 248 mytiloides. Broce. gi PA 349 Pectunculus glycimeris. L. sp. .|1|1]---. 350 RI insubricus. Brocc. ph; 951 i inflatus. Brocc. sp. 352] Limopsis aurita. Brocc. sp. 353 n anomala. Eichw. sp. 354] Nucula placentina. Lk. ...... 955 pi i nucleus. ML: Spot t . 356 i sulcata. Bronn. di RARE SI NO Ge UTO 357] Leda pusio. Phil. sp. SOT e MAT O, 358 ,, pella. VE SPAZIA CARIATI 359% ,, minuta. Brocc. Sb; SO. 360] ,, nitida. Brocc. sp. 361 pellucida. Phil, sp. Le 362 Mytilus Aquitanicus. Mayer... . sì | Modiola adriatica. Lk. . ...... 363 Ù barbata. L. sp. ..... 364 6 Brocchi. Mayer. . .... 365 pa Miodiolus. bi ie 366 var. intermedia. Fores.. 367 Avicula hirundo. L. sp. 368] Perna Soldanii. Desh. ...... 369] Pinna pectinata. L......... 370] Ostrea Boblayi. Desh.. ...... 371 sì lamellosa. Brocc.. .... 372 , foliosa. Brocc. |. .\.U.. 373 IR plicata. Chmn. . Le... 374 dI cucullata. Born... .... 375 cochlear. Poli. . .... ° 376] Anomia ephippium. L. . ..... 377 vr striata. Brocc. ....... 378] Pecten cristatus. Bronn.. . . ... 379 » pyzidatus. Broce. Spafinte 380 » flabelliformis. Broce. sp. 381 » Jacobeus. L. sp... .... 38% » Reussi. Horn. ....... 383 3» Septemradiatus. Mall. cosenn:}]\mcesee]iSanaeat (a) Cito questa specie vivente nel Mediterraneo anche dietro l’ autorità del M. Allery di Monterosato. — (0) Mari Aral e Caspio (varietà). — (e) Regioni artiche. — (d) Citata col nome di L. pygmaea Phil, — (e) Mari di Scandinavia (Wood). — (7) L. fragilis Chemn. — (9g) Secondo il Monterosato sarebbe sinoni- mo dalla Nucula nitida G. B. Sow. — (A) La specie tipo. — (i) Nel bolognese oltre la specie tipo incontra- si una varietà speciale citata col nome di Var. papi//losa. = (1) Nord America. — (#1) Secondo Wood tro- vasi nei mari brittanici. CATALOGO DEI MOLLUSCHI ECO. 3771 QUADRO SINOTTICO COMPARA TIVO __Bologuese__q Mari ove Pliocene Miocene plioc. sup.Iplioc. 4nf. vivono Ten ENTO PO Gi A S Sa E © - AI s| JE È EA ES A GENERE E SPECIE ii E 315 E di È E 5 2{S{Js[s]|s]|3|s |. © © 5 A 8|58]Ts{5{s|S]|=s{|{-a=]J®|& Ra [=] Co) (e) (e) de o|2Jal={s£|=|S!{s{J5|S 2|a2JS|s[|2|3 ° |A slz els|ola|s]|jo & 2|2folo]|o|A|{9 ue) aiaslalo|alsa|®o Cc] i 44 IS S|Ss|o]|o ®© | © | ge E 2|®[2/®I3|#|3|5|#|5|3|3|3J8|3|3|3 Z ò|<{z|<|=|=]|3|=]|5|=(£]|#|=]1#]|#]|=]4 [ | | 384] Pecten fiexuosus. Poli. . . . ... DU! PIZLCNI [EER TRE Lal | RS) SI RU Bale Eoe i ERO | ET ACE 385» pusio. L. sp. è... 0.1... RI: LES RI DE ET TI Pitasi FIAPRIIZORE oa 386 FOROS o Se 6 ee EGO ga URNE IERI OE SEHtilt Rea Reg 3879 ,, opercularis. L. sp... ... Ie Rel aRicaa TRE RELA Rae a20oni Loi gal e IERI ARER LO SEG Cs Ata 0% E vor STO Asa DTA PESCARE CAN [RCA] lat) (IENA 389) Hinnites crispus. Brocc. sp. . . . |... RISI E Rini, VIS TER) (OA COREat GI 390 iris ea Mae Cola: en 1 e ali e ii i Sea eda e Rit es: 391} Limaea strigilata. Broce. sp... . {..... i Gale i RE iui (Rea 806 TAR ivo 1 392] Spondilus gaederopus. L. . . . è | 1 | i e Test ORSI Dose Te | et 17054 IP a BRACHIOPODI | | 393) Terebratula ampulla. Broce.. . . {.... E ARE o ue e ceo ol Ea i 394 È Regnolii. Mgh. . .. |... n (ele | E e DI e] RE (00 | E CICIeR pia spo 78 [1 81 [113 | 140|356|320 20] 40 tun (a) Nord America. — (0) Mari del Nord. Nota. Il totale delle cifre che risulta per ciascuna delle diverse categorie appartenenti ai vari depositi fossiliferi segnati nel sopracitato qnadro sinottico, credo per alcuni sia riescito a bastanza preciso avendo avuto sufficiente materiale, oltre molte indicazioni pervenutemi direttamente da diversi autori, come per esempio dal D. D’ Ancona per la Toscana, dal Frof. Cocconi per Parraa e Piacenza; non così posso dire per la fauna fossile miocenica del Piemonte essendo stati pochi i materiali avuti a mia disposizione, e non aven- do avuto tempo il Prof. Bellardi di darmi tutte quelle indicazioni che io chiedevo essendo occupatissimo per la pubblicazione della 2% parte del suo interessantissimo lavoro sui Molluschi terziari del Piemonte e della Liguria; gentilmente però mi comunicava come dietro ulteriori studi da lui fatti debbonsi fare alcune modi- ficazioni a diversi piani geologici dovendosi ritenere per pliocene inferiore ciò che prima era stata indicato, per alcuni località, come miocene e perciò alcune specie che io avevo segnato nel miocene piemontese ora debbo cancellarle, e tali sarebbero secondo il Bellardi il Murex Hornesi; M. craticulatus; M. turritus; M. eri- naceus; Pisania maculosa; Triton distortum; T. tuberculiferum; Pyrula geometra; Fusus rostratus; F. cinctus; Pleurotoma brevirostrum; P. Brocchi ; P. monilis; Cypraea elongata. Faccio però notare che ave- vo segnato come mioceniche alcune delle suddette specie, perchè come tali trovansi indicate nell’ Opera del Michelotti. 378 LODOVICO FORESTI SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1-2 Modiola modiolus L. sp. — var. intermedia Foresti. 3-5 Anomia ephippium L. — var. papillosa Foresti. n 6-7 Coralliophila lamellosa Jan sp. 8-10 Defrancia anceps Eichv. — var. intermedia Foresti. n 11-12 Pleurotoma Bonellii Bell. — var. elongata Foresti. n 13-15 Hinmites pusio L. sp. n 16-17. Perna Soldanii Desh. FERA Db (ue vu 1 del Bolo " 7) Bologna Lit.G Wenk logo dei Molluschi fossili plioceni( La L.Foresti- Ca Mem. Ser. 3. Tom. V. SI & | si Inci E ihal [ai ES > 2 mm mao S & v i > DI UNA NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE MEMORIA DEL DOTT, CAV. FERDINANDO VERARDINI Letta nella Sessione 13 Novembre 1873 Signori | erre i miei studi siano stati e siano in massima parte diretti alle cose che spettano la Medicina Clinica, tuttavia non è per questo che varie volte non mi sia piaciuto sconfinare allargando li- beramente le mie investigazioni anche in argomenti di natura diversa. Voi vel sapete, Signori, mentre che mi resi sollecito quali si fossero, e per il maggior novero loro a sottoporveli, e mi è caro, anche per rinnovarvene le più sentite grazie, il poter dichiarare che furono bene accolti e protetti da Voi, e direi di speciale modo quelli i quali trat- tarono importantissimi soggetti di Ostetricia teorico-pratica. Laonde, se m’ ebbi sempre mai in amore questo ramo di Scienza salutare, me ne presi anche di maggiore appunto per le testimonianze di benigna considerazione di cui li faceste segno. Or bene alla cortesia Vostra pur oggi affido, e più securamente, quanto vado a comunicarvi di argomento congenere, e perchè fa se- guito ad uno stupendo lavoro che qui lesse dieci anni or sono (e poco stante si pubblicò fra le nostre Memorie) il collega Prof. Cav. Gioan Battista Fabbri, onore delle ostetriche discipline, intorno l’ uso ragio- nevole della Leva. Da quel lavoro prendo le mosse, il quale m’ apre a preferenza e convenevolmente la via a rendere vieppiù evidente l’ utile che ne può derivare e ne viene alla pratica mercè della Leva, 380 FERDINANDO VERARDINI e massime con una da me inventata, la quale spero di molto ne possa estendere e perfezionare l’ applicazione. Il movente principale di queste mie indagini oltre che e precipuamente adunque lo trassi dagli studj del Fabbri, non Vi nascondo tuttavia, Signori, che una spinta non lieve a farmi ricercare più addentro questo tema me l’ ebbi da un fatto pratico a cui assistetti, e dove un necessario gravissimo atto operativo, in cui poteva ritenersi indicata l'applicazione della Leva, mi lasciò scorgere e mi fece balenare alla mente che una Leva, ma più adatta, avrebbe forse potuto avere la facoltà di riescire a gran bene per la madre e pel suo figliuolo. Ne guari andò che riescii siccome a materializzare quel mio pen- siere, e feci costruire uno strumento che parmi raccolga in sè le qua- lità richieste ad essere raccomandato agli ostetrici, e ne spero buona accoglienza, tanto più nutrendo la cara fiducia che gli sia a loro of- ferto quasi che dalle Vostre istesse mani. A tenore adunque di questa breve premessa, fo primamente epi- logo ristrettissimo delle notizie storiche sulla Leva. È proprio giusto un secolo dacchè i Medici Wischer e Ugo Van de Pol, appalesarono quanto era tenuto secretamente dai loro colleghi olandesi, ossia l’uso della Leva o spatola del Roonhuysen. Da quel momento questo mezzo meccanico fu però più or meno osteggiato, e lo stesso Baudelocque, dopo il Levret che pur Esso ne fece conoscere l’importanza, ne limitò nullameno i vantaggi a poter ridurre alcuna volta le non buone inclinazioni della testa, ed allorquando l’ opera della nuda mano (notate di grazia, Signori, quest’ espressione, la quale troverete ripetuta dai fautori della Leva) non fosse sufficiente per ridurla ad una posizivne naturale. Esso però propose la foggiata a guisa d’ una cucchiaja del forcipe ed un po’ più concava. Il Velpeau, lo Jacquemier, il Desormeaux ed il Flamant, in particolar guisa il primo de’ citati, lo illustre Clinico della Carità, non si mostrarono del tutto avversi alla Leva; tuttavia però nelle Opere posteriori essa venne in Francia pressochè dimenticata. Herbiniaux di Bruxelles prese a difendere la Leva e con inge- gnosi argomenti ne mostrò l’ utilità in molte circostanze, e non solo per raddrizzare, ma per tirare la testa. Boddaert di Gand, meglio ne appalesò i vantaggi e ne fece confronto con quelli che se n’ hanno mediante il forcipe. L'uso però di essa rimaneva circoscritto all’ Olanda ed alla NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 381 Fiandra, e solo in una certa estensione eziandio si diffuse in Inghil- terra, principalmente in virtù dei lavori di SmelZie, di Tommaso Den- man, del Burns, del Meriman e da ultimo per quelli del Churchill. Da Roonhuysen a noi, per giovarmi ancora delle parole del Fabbrs, la Leva ha mutato molte volte forma, e da una semplice lista d’ acciajo e curvata per quel tratto della sua lunghezza che deve adattarsi alla testa del feto, è divenuta simile ad una branca di forcipe dritto, mu- nita perciò della sua branca fenestrata, sostenuta da un’ asta o collo che s’ infigge nel manico. Gli atlanti ostetrici moderni rappresentano grande varietà di Leve, ma in fondo si possono ridurre a due tipi; uno ha la cuc- chiaja insensibilmente curva e poco larga; l’ altro la possiede fornita di maggiore curva e (qualche volta) di larghezza maggiore. A queste notizie reputo convenevol cosa aggiungerne alcune al- tre, a maggiore storica importanza, per indi volgermi a particolari considerazioni. Nell’ estesa, pregevolissima, anzi classica Opera anatomica e ce- rusica del Prof. Ambrogio Bertrandi, pubblicata nell’anno 1740, che fu dottissimo Clinico Chirurgico in Torino, e che veramente illustrò quella Università, alla pag. 214 e successive del Tomo VIII. vi lessi alcuni dettagli sui primi tempi della Leva che reputo ben fatto di qui rias- sumere tali e quali. Rogero Roonhuysen, rinomatissimo medico ed ostetricante d’ Am- sterdam possedeva il secreto della Leva insieme al celebre Awischio ed al cerusico Cornelio Boekelman, nè mai avevano voluto propagarlo a chicchessia. Ma nel 1700 Giovanni De-Bruyn, pure d’ Amsterdam, essendosi messo a studiare l’ arte Ostetrica sotto il ARconhuysen insie- me con Pietro Plaatman suo condiscepolo, convennero di pagare una certa somma al comune maestro, perchè loro svelasse quel secreto; glielo svelò infatti, ma colla condizione che non lo scoprirebbe ad altri. Morto il Bruyn nel 1753, ed avendo prima di morire scoperto il secreto a Raineri Boom, cerusico ed ostetricante di professione, questi lo comunicò sotto la medesima condizione ai fratelli De- Wind, tutti e due Medici, uno de’ quali che è Paolo esercitava la medicina a Middelborgo nella Zelanda, e l’altro, cioè Gerardo in Amsterdam. Anche il Plaatman prima di morire, l’ aveva comunicato a Francesco Rooy espertissimo cerusico, ed il Boekelmann al medico Moor e questi ad Alberto Titsing. Era dunque la Leva del foonhuysen al principio 382 FERDINANDO VERARDINI del 1753 conosciuta da pochissime persone, le quali ne facevano un mistero, quando in detto anno i lodati Vischer e Van de Poll, aven- done comprato il secreto dagli eredi del Bruyn ne fecero generosa- mente parte al pubblico coll’ accennata dissertazione. Siccome però gli altri possessori del secreto pretendevano che la Leva pubblicata dai lodati Medici non era la vera del Roonhuysen, l’anno 1754 fecero un’altra edizione della loro dissertazione, a cui aggiunsero le figure della Leva del Boom e del 7tsing che sono ve- ramente alquanto differenti da quelle del Bruyn, ma essenzialmente le stesse quanto ai loro effetti. Il celebratissimo Pietro Camper in una sua Dissertazione inserita a pag. 729 del Tomo V. dell’ Accademia Reale di Chirurgia di Parigi, intitolata , Remarques sur les accouche- ments laborieux par l’ enclavement de la téte, et par l’ usage du levier de Zoonhuysen dans ce cas , ha messo le figure di tutti questi istru- menti, che noi abbiamo interamente copiate nella prima parte della nostra 2% Tav. ecc. Molte altre variazioni sono state fatte alla Leva del Roonhuysen; alcuni la piegarono ad S, ed altri invece altre forme le diedero. Quella di cui si servono i Francesi è poco differente dalla Leva del Titsing; cioè ell’ è una specie di cucchiajo, simile appresso appoco a una branca del Forcipe del Pa/fino se non che è alquanto più stretto e più allungato, e che la faccia interna della sua curva- tura ha un solco, come i cucchiaj del forcipe del Levret. Per renderlo più utile bisognerebbe incurvarlo d’ avvantaggio e dargli una metà di più della larghezza che ha, cioè invece di undici linee dargliene se- dici o diciasette, come ha già fatto il Gowubelly. Il Camper nella citata Dissertazione (pag. 745) fa osservare che, se si riflette alla figura e alla maniera di applicare e di servirsi della Leva del Roonhuysen, sembra essa aver molta somiglianza colla spatula curva descritta da Cornelio Celso sotto il nome di wncus per estrarre la pietra dalla vescica; fa anche osservare che 1’ uncino ottuso fatto a cucchiajo, descritto e delineato dal Mauriceau, potrebbe ser- vire allo stesso uso, come pure la metà del forcipe del Pa/fino che già abbiamo detto essere similissimo a quell’ uncino del Mauriceau. Nel giornale di medicina dell’ anno 1753, Tomo L pag. 197, leggesi una lettera del Rigaudeaux ove descrive una sua Leva particolare per disimpegnare il capo inchiodato, colla quale Leva, secondo la testimo- nianza dello stesso Camper, ebbe dei successi maravigliosi. Nello stesso giornale del medesimo anno havvi un’ altra lettera del Morand, me- dico, nella quale parla pure della Leva del Roonhuysen. MR e SIIT NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 383 Da quanto abbiamo detto intorno questo strumento, cotanto van- tato dagli Olandesi, vedesi che sì è sommamente ingannato Giovanni Daniele Schlichting, valente medico di Amsterdam, quando credette, e volle persuaderlo al pubblico, di avere scoperto il secreto del oon- huysen che immaginò essere una specie di forcipe, del quale ci ha data la figura nel suo libro scritto in olandese e stampato in Amster- dam in 8° l’anno 1747, col titolo , Embryulcia nova detecta , come interpreta l’ Estero. Anche questi sulla fede dello Schlichting lo ebbe per tale e lo fece rappresentare nell’ ultima tavola delle sue Istituzioni Cerusiche, 2* Edizione. Ho amato, Signori, riprodurvi parte del Capitolo intorno la Leva affinchè rimanesse confermato con quanta chiarezza, erudizione, e con quanta esattezza il celebratissimo Clinico di Torino, il Beltrandi, ab- bia svolto questo interessante punto dell’ argomento, e mi piaccio eziandio rendermi mallevadore che in tutta intera la sua Opera este- sissima, ogni cosa v'è così e largamente e sempre con grande erudi- zione disaminata. Laonde è uno de’ Trattati che onora l’Italia e che giova consultare ogni volta s’ abbiano a dilucidare punti rilevanti ed attinenti alla Chirurgia od alla Ostetricia. Ciò fermato m’ innoltro anche per un poco onde riferire alcuni altri pensamenti sulla Leva di celeberrimi ostetrici e vedere se aveano argomenti meccanici particolari, e a conoscerne l’ opinione loro. Il Maygrier nelle sue , nouvelles démonstrations d’ accouchements, Bruxelles 1828, pag. 145 , all’ articolo intitolato alla Leva così ne lasciò scritto: Cet instrument, inventé par Aoonhuysen, qui en a beau- coup trop exalté les avantages, reduit aujourd’ hui è sa juste valeur, n’est plus employé que dans quelques cas rares, où la tète se placant d’une maniere défavorable au detroit superieur n° a besoin que d’ un léger mouvement pour s’ engager. Il est surtout nécessaire de la mettre en usage, lorsque Za main seule ne peut parvenir è faire executer è la téte les mouvemens que reclame sa mauvaise position. Luigi Pastorello nel suo Trattato di Ostetricia al Vol. II. pag. 258 (Pavia 1854) così s’ esprime in riguardo della Leva: Uno stro- mento, del quale si menò tanto rumore nello scorso secolo, che fu sorgente di lucro e di immeritata gloria a tanti pseudo-ostetrici di que’ tempi, i quali seppero per lungo tratto impiegarlo nascosto scal- tramente fra quelle tenebre misteriose che tanto abbagliano gli igno- ranti, e che fu in seguito oggetto di accurati stud) e lunghi trattati 384 FERDINANDO VERARDINI si è la Leva ostetrica, la quale cadde oggidì quasi in dimenticanza e perchè assai furono ristretti 1 veri usi ai quali dessa può venire impiegata, e perchè a stretto rigore quasi sempre essa può venire rim- piazzata da una branca del Yorceps. Comparsa la Leva quasi contem- poraneamente all’ apparire del forcipe, la storia di questi due stromenti è talmente confusa da non potersi con sicurezza determinare se l’ idea della Leva abbia avuto origine da quella del Yorceps o viceversa. I più ritengono però che la scoperta della Leva sia anteriore a quella del forceps. Si conoscono due specie principali di Leve, vale a dire l’ Olandese e la Francese. Il ZeZler ha inventata una Leva, la quale è curva e fenestrata in tutte e due le estremità con qualche varietà nel grado delle due curvature, in modo che potrebbe quasi dirsi una doppia Leva francese, ma che ha conservato il nome del- l’autore, chiamandosi Leva Zelleriana. Si questionò molto sulla vera maniera di agire della Leva. Chi pretende che la sua azione debba limitarsi veramente a quella delle Leve in genere, vale a dire che debba impiegarsi semplicemente per correggere alcuni spostamenti del capo del feto; chi invece, fra i quali lo stesso Vel/peawu, è persuaso che un tale stromento possa anche venire impiegato con vantaggio in qualche caso quale sostituto del orceps per estrarre la testa. Senza assolutamente negare una qualche minima forca attraente alla Leva debitamente adoperata, e specialmente colla coadiuvazione delle dita o della mano al punto opposto della sua applicazione, credo però un vano lusso di scienza il voler sostenere che alla Leva debbasi attri- buire un’ azione che è del tutto secondaria alla sua forma, e credo che sarebbe dannoso l’ abbracciare all’ atto pratico una tale teoria. Il ch. Sani che fu anche diligentissimo e coscienzioso racco- glitore di tutto quanto si attiene agli studj teorico-pratici in Ostetricia, il Sillani dissi, troppo presto mancato alla vita, nel suo Trattato che cominciò a pubblicare nel 1865 e compiè tre anni appresso, nell’ esteso e bene contesto esame relativamente alla Leva ed al forcipe, non aggiunge cosa alcuna di più delle sapute e non si mostra conscio di altro mezzo strumentale all’ infuori degli accennati circa alla Leva, sicchè giova credere che proprio non n’ avesse alcuna idea ulteriore. Il medesimo può dichiararsi dell’ illustre Balocchi; il quale nella sua importantissima e recente Opera Ostetrica (1871), quantunque consacri un elaborato articolo alla Leva e si dichiari scosso alquanto dalle autorevoli parole del nostro Fabbri, che in gran parte riporta NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 385 e che lo indussero ad un apprezzamento più favorevole di questo Istrumento, non fa menzione che delle Leve già note e molto si estende a dimostrare le regole necessarie per usare con vantaggio di tale mezzo meccanico. A me conviene che pur di questo onorandissimo Clinico Ostetrico riferisca qui in proposito le poche parole che seguono e che tolgo dalla pag. 708 del suo citato e assai lodato lavoro. — Si è preteso il più delle volte d’ adoperare questo strumento come mezzo estrattivo della testa valendosene come Leva di primo genere ed in questo modo spesso non si è ottenuto 1’ intento. Perchè lo stru- mento sia utile, occorre adoperarlo in modo che quasi contempora- neamente agisca in tre guise, cioè come Leva di primo genere, di terzo genere e come strumento traente. — Il volere attribuire tutte e tre queste facoltà alla comune Leva retta o curva che sia, parmi valga una troppo grande pretesa, e sia un esagerarne i buoni servigi che presta, se bene però, ma in grado mite, ritenga io pure che possegga anche l’ultima proprietà ossia la traente. Come Leva ha sicuramente i due primi attributi; per ottenersi lo sviluppo del terzo, occorre venga a seguito della forza che si eser- cita collo strumento sia sul feto, sia di contro le pareti attorno le quali si trova addossato, o meglio vicendevolmente sopra l’ uno e le altre quantunque io sia penetrato delle ingegnose osservazioni del col- lega Fabbri; il quale mostra che questi sconci sono di molto alleviati, sapendosi adoperare la Leva, e ben combinando 1’ azione delle mani, e pur sapendosi assecondare le contrazioni ed i riposi dell’ utero stesso. In ogni modo parmi però che una notabile pressione debba sempre praticarsi anche sulle parti; ciò è inerente all’ azione generica della Leva, adoperata sia pure da mani maestre. Motivo per cui nell’ andare fra me e me pensando di sovente al modo di estendere quest’ ultima importantissima qualità, o quella di trazione, al fine di minorare o togliere possibilmente i danni che s’ imputano troppo avventatamente alla Leva; pur ricordando, e vi fissai oggi stesso 1’ attenzione Vostra, Signori, che gli Ostetrici nel ragionare della Leva, vi riscontrerebbero tutti senza eccezione veruna un’ incontestata utilità qualora agisce davvero, traendo, e come sa fare la mano od almeno sopperisse effi- cacemente a questa, trovava indispensabile di cercar modo a formarne una la quale s’ accostasse il più che fosse possibile ad emularne gli ufficii, e rannodasse così col fatto il pensier mio. Non voleva io quindi una congegnatura che mi rappresentasse una mano irta, stecchita, TOMO IV. 49 386 FERDINANDO VERARDINI tutta d’ un pezzo, immobile, ma la voleva invece foggiata com’ essa mano ad articoli, con snodature, movibile per adattarsi meglio sulle parti, impossessarsene, e così riuscire anche e in ispecie come valido strumento traente. Questo fine una volta raggiunto allora avrei allon- tanata una delle forti ragioni contrarie che adducono gli oppositori della Leva, i quali non v'accordano che scarsa, e taluni anche niuna virtù di trazione. Provando e riprovando riescii alla perfine a disegnare una Leva articolata, la quale fattala vedere, indicandone lo scopo, ad un egregio meccanico, certo Sig. Alfonso Faggioli, presente qui alla mia lettura, esso s’ incaricò di modellarmela in legno e di attuare la mia idea. E così accadde ed in modo pienamente soddisfacente; laonde al me- desimo artista porgo le mie più sentite grazie, e ne serberò animo sempre riconoscente, e dichiaro che la parte d’esecuzione, o 1’ artistica è tutta sua, ed è riuscita di mia totale soddisfazione. Feci poscia conoscere ad alcuni miei intrinseci questo modello, insieme ne provammo /l’ azione, e dovemmo convenire che ne crede- vamo importante per molti rapporti il meccanismo suo. Era d’ uopo impertanto tentarne la costruzione in acciajo o in altro metallo, e fortunatamente la cosa ebbe il suo pieno effetto; ed ecco che vi pre- sento la mia Leva articolata e decollatrice, eseguita pur questa dallo stesso valentissimo artefice poc'anzi da me lodato, che passo a descri- vervi unendovi il disegno che andrà a far parte della presente disser- tazione per estendere la conoscenza di questo nuovo meccanismo oste- trico; disegno eseguito dal chiarissimo Prof. El%bino Riccardi, e ad un terzo circa della naturale grandezza. Pongo l’ avvertenza però che in questa descrizione adesso vi comprendo talune modificazioni fatte alla Leva istessa dal distinto meccanico poco sopra menzionato e che comunicai all’ Accademia nella Seduta delli 22 Gennaio 1874; ciò a scanso di inutili ripetizioni (1). (1) Siccome aveva ragioni per dubitare che alcuno si ‘potesse profittare delle mie idee in proposito alla mia invenzione, così a prenderne data sicura della priorità consegnai un plicco suggellato a questo Istituto delle Scienze il giorno 10 Aprile 1873. Plicco che venne aperto prima della Lettura della presente Memoria e come risulta dal Rendiconto compilatone dall’ on. Sig. Segretario, e riprodotto anche nel Bullettino della nostra Medico-Chìrurgica Società a pag. 401, dell’anno 1878. Avverto poi che resi nota al Pubblico la NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 387 DESCRIZIONE DELLA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE È di pacfong, (1) lunga 46 centimetri compreso il manico a cu è assicurata, il quale ne conta dodici in lunghezza e tre scarsi in lar- ghezza. Il manico o l'impugnatura è d’ ebano; ha una forma qua- drangolare con lievi scanalature pel lungo al fine di poterlo maneg- giare con più di sicurezza. La Leva è foggiata a guisa di spattola (Fig. 1) larga tre centime- tri all’ apice e gradatamente decresce, siccome risulta dalla figura prima che la riproduce circa ad un terzo del vero; veduta dalla parte interna e superiore vi si notano sei piccoli solchi i quali rispondono a tanti pezzi, o nodi di pacfong che sono fra loro articolati a cerniera e fer- mati con adatte viti di acciajo. Questi pezzi, meno il primo che è di tre centimetri e mezzo e dolcemente concavo, gli altri offrono la lun- ghezza di due centimetri. La parte inferiore, o collo della Leva, conta circa diciotto centimetri, e n’ è largo appena due nel suo punto più sottile. i A tutta lunghezza, e nel mezzo, sempre esaminata di fronte la mia Leva, vi si scorge una scanalatura tutta eguale, entro cui vi sta nascosta una sottile molla d’acciajo che al suo estremo superiore porta un piccolo rialzino; all’ opposto è fenestrata, e ciò per dar luogo al mia idea di articolare la Leva colla seguente inserzione che feci porre il 3) Maggio 1873 anche nella Gazzetta dell’ Emilia « Se bene da pezza mi sia messo in piena regola per istabilire la data d’ una mia invenzione relativa ad un Istrumento articolato a cerniera, e che può servire a diversi ed importantissimi uffici relativamente all’ Ostetricia, e massime quale nuovo decollatore e da ac- comodarsi eziandio ad un Forcipe, la prego nulladimeno, Sig. Direttore, a por- gerne al Pubblico I accenno attuale nel divulgatissimo suo Giornale. Anche perchè il Meccanico non essendo giunto in tempo di comporre questo mio ulteriore congegno per unirlo agli altri già da me inviati all Esposizione inter- nazionale in Vienna, siccome n’ avea fatta regolaredo manda mercé l’ onorevole nostra Giunta Comunale al Giury a ciò preposto, non dovessi essere appuntato di qualche negligenza pel non effettuato invio. (1) Il primo esemplare era d’ acciajo, fu eseguito dal meccanico Luigi Rocca e poscia venne acquistato dal ch. Prof. Wasseige di Liegi. Un secondo è pure stato comperato dal ch. Prof. Pannunzi Clinico Ostetrico in Roma, un terzo dal ch. Prof. Mayer di Napoli, e sono bella fattura in pacfong del Sig. Faggioli Alfonso, ìl quale ne ha altri in costruzione per richieste già innoltrate. 388 FERDINANDO VERARDINI passaggio di una cordicella, o sverzino, e per le ragioni che dirò. Il collo della Leva è pur esso traforato, e di maniera che questo traforo si prolunga nello interno dell’ impugnatura, mercè un condotto di pacfong, nascosto nel manico. Il quale è al suo centro solcato, e vi può scorrere innanzi ed indietro un bottone di metallo che muove un cannellino terminato a lingua, come risulta dalla figura medesima, il quale costringe la molla descritta ad avvanzarsi entro la sua scana- latura per quanto è lungo il manico, ed uscirne dall’ estremo libero della Leva. Allora viene questa porzione fuori uscita presa dal Chi- rurgo colle mani, o meglio colle pinzettine a morsa (Fig. 3 a), ed estratta che sia del tutto, la segue lo sverzino che attraversa nella sua inferior parte 1’ occhiello che notai e così rimane libero attorno al collo od al corpo del feto lo sverzino medesimo. Questo rimane pur esso nascosto nell’ interno della impugnatura, e raccolto in una specie di rocchetto mobilissimo, che è fermato nel- l’ultima estremità del manico (Fig. 1, 2, 3, a'). Rocchetto che si gira anche esternamente colle mani e di tal guisa si riannaspa lo sver- zino, al fine di averne sempre di esso provveduta la Leva. Tanto l’ occhiello della molla, quanto la capacità del rocchetto sono tali da permettere che lo sverzino vi passi nel primo anche doppio, e doppio nell’ altra si raccolga, così rimansi garantiti, se mai, dalla rottura di un capo di esso nell’ atto che, mediante movimenti di va e vieni, si divide il collo al morto feto, o quando siasi costretti a segarne in due metà per anco il corpicino. Mi sono servito della molla, che è comune nella meccanica chi- rurgica, analogamente alla sonda del .Belloc; la di cui molla guida un corpo flessibile ove il bisogno ne detta. Fu imitato dal Tarnier col suo decollatore; ed il Pajot v' aggiunse una funicella, alla cui estremità legò una palla di piombo, affinchè applicato il suo uncino smusso, il peso faccia scorrere lo sverzino a cui è attaccata; poscia ritirando l’ uncino si forma un’ ansa che comprende il collo del feto. Medesimamente 1’ onorevole nostro collega il Dott. Cesare Belluezi fece costruire il suo decollatore a guisa della cannula del Be/loc, ed è bene pensato, lodevole assai ed encomiato. Ebbene io pure alla mia Leva ho adattato un mezzo conforme che rende l’istrumento anche quale opportuno decollatore, massime perchè ha il vantaggio di potere essere insinuato retto, indi essere curvato a piacimento sulle parti sottostanti e di tale maniera sono tolti di mezzo gli incon- NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 389 venienti che ne derivano dagli altri i quali non si possono applicare che curvati; laonde le molte volte non riescono, e riescire non pos- sono alla prova per difetto di loro costruzione. Dopo ciò seguitando a descrivere la mia Leva soggiungo che la sua maggiore grossezza nella parte superiore o nell’ articolata è eguale o di poco inferiore a quella delle leve comuni. Dal lato posteriore meglio si rimarca la lieve concavità della prima falange che serve a facilitare l’ introduzione dello strumento, nel centro della quale, ed in prossimità della seconda, poco sopra la prima solcatura, vi si osserva una testa di vite. Anche di questo lato posteriore vi si notano sei piccoli solchi arrotondati e levigatissimi, i quali sono determinati dai distacchi che di necessità adduce l’ articolazione a cerniera. Nel collo della Leva si notano pure quattro capi di vite che tengono riunito un pezzo di riporto di cui esso si costituisce, e con tanta precisione si connette da parere come di un pezzo solo composto. La ragione per cui si è dovuto far ciò è stata per convenientemente adattarvi nel- l'interno dello strumento il principale meccanismo di cui si compone, e come vado a descrivere; ed anche per meglio e con maggiore facilità smontarlo e pulirlo. Al] suo interno adunque la Leva è attraversata quasi centralmente nella sua articolata porzione, da tanti pezzi (meno uno) di finissimo acciajo, ed identici ai descritti in pacfong, il primo dei quali rimane fissato dallo esterno allo interno colla vite la di cui testa feci notare esistere posteriormente in prossimità della prima esterna solcatura, e l’ ultimo resta innestato saldamente ad un’asta d’acciajo, la quale poi essa stessa viene assicurata ad un perno che gli permette un moto ro- tatorio comunicatogli da una robusta vite, che appena di poche volute sporge dall’ estrema parte dello strumento ed attraversa in fine altro piccolo manico d’ ebano, per rimanervi stabilmente fissa. Tutti i pezzi interni che ho detto debbono essere costruiti colla massima esattezza, essere levigati e penetrare debbono nelle cavità o forami quadrangolari, a smeriglio per dirla con termine adoperato dagli artisti. Di questa maniera si costituisce una forza eccentrica, la quale riesce veramente prodigiosa, e forma della Leva anche per quanto può essere piegata, siccome fosse costituita di un solo e robustissimo pezzo di metallo. Girandosi da destra a sinistra il piccolo manico in cui è impian- tata la vite principale, si costringono li nodelli ad abbassarsi, e così 390 FERDINANDO VERARDINI la Leva assume diverse forme, e si rende più o meno curva a tenore delle circostanze, e la sua applicazione riesce sempre facilissima, diver- samente da quelle tutte di un pezzo e massime se molto curve. , Le leve molto curve, scrisse il nostro Fabbri, sono le migliori ed hanno maggior forza traente; la pratica però vi trova in quelle di siffatta ragione un difetto, ed è lo stento che talvolta prova 1’ operatore nel farle passare al luogo che si deve; e la difficolta può essere tanto grande che riesca impossibile ,. Difetto che ho piena fede scompaja mediante la costruzione spe- ciale della mia Leva che s° insinua retta e si adatta a ricevere quelle inflessioni le quali sono del caso e che incominciano regolarmente dalla prima articolazione, indi vi succedono le altre, proprio proprio come fa la mano dell’uomo per abbracciare, impadronirsi e tirare a sè un corpo qualunque. La maggior curva poi di questa mia Leva ho voluto limitarla a certa misura affinchè non noccia, a quella bastevole a con- tenere senza troppo comprimerla una testa comune di feto a termine. Ai lati del manico della Leva è collocato un indicatore ( Fig. 2 d, e 3 db, ) e ciò per la ragione che di tal modo il Chirurgo si rende consapevole tanto se l’ ha applicata ed insinuata da dritta a sinistra, o viceversa, del grado di curva ottenuto nella porzione introdotta nelle parti ge- nerative della donna; chè nol potrebbe così facilmente avendolo da un verso soltanto. La porzione poi articolata della Leva dev’ essere coperta da una guaina di cauchouk che ho fatto appositamente costruire e come vedete Signori attualmente; così riesce anche più secura la presa e si preserva meglio l’ istrumento. Questo il mio nuovo meccanismo, Signori, al quale mi è caro ritenere siate per aggiustare sin da ora non piccola fiducia di pratica utilità, atteso solo alla sua maniera di costruzione. Non è per questo però ch'io non intenda farvi ancora manifeste alcune prove eseguite in- sieme al ch. Riezoli ed al distintissimo collega ed amico il Dott. Federico Romei (non che col Prof. Luigi Amabile come dichiaro nel- l’ultima nota) le quali riescirono ottimamente. Mi giova però innanzi tratto il comunicarvi le disamine fatte a vederne se niun altro m’ abbia preceduto nell’ idea di articolare la Leva Ostetrica, e se 1’ Arte ne possedesse verun’ altra congenere, e tuttavia se si conoscano in ostetricia Strumenti di qualche guisa ana- loghi ed indi chiudere con que’ risultamenti che ho detto 1’ odierna lettura. NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 391 Dalle non poche Opere classiche da me studiate non ho trovato che si faccia mutto nè allusione tampoco a Leve con articoli; e così dicasi degli Atlanti estesissimi di Chirurgia e di Ostetricia, antichi e moderni. Nel rovistare però un giorno varii libri in questa Universi- taria Biblioteca, m’ avvenni nell’ Atlante dell’ illustre K2/ian, intitolato » Armamentarium Lucinae novum , reso pubblico l’ anno 1856 a Bonn, mediante Eduardo Weber, e nello scorrere la succinta spiegazione che precede le 46 Tavole di cui si compone, arrivato alla 33 m'’ accorsi che questa era destinata a mostrare tutte le Leve ostetriche conosciute, o di cui il Kilian ne avea potuto avere contezza. Osservatala premurosamente quella Tavola, vi vidi riprodotta la Leva del Roonhuysen, del Rechberg, del Camper, del Titsing, del De Bruas, dello Stark ed una dell’inglese Adtken. Questa aveva una spe- cie d’ articolazione che le permetteva un po’ di curva. Man mano che l’ andava esaminando mi sovvenne allora d’ averla altra volta veduta, e proprio alloraquando l’ illustre Rizzoli, attuale nostro Presidente, dava lezioni in quest’ Ateneo d’ Ostetricia, ed io vi assisteva come suo scolaro. Mi ricordai ancora che il Aizzolî non concedeva che scarso valore a questa piccola Leva, e soltanto 1’ indi- cava siccome appartenente alla storia degli strumenti Ostetrici. Posto in via, non ebbi più dubbio che quella piccola Leva non fosse sempre conservata nell’ armamentario ostetrico; laonde mi volsi per accertarmene all’ onorevole Prof. Fabbri, il quale gentilmente ap- pagò il mio desiderio. Era davvero una meschina cosa, più poi biso- gnevole di riparazione per rottura avvenutane nel suo meccanismo; ma era una piccola Leva articolata. In questa circostanza e trovando il mio congegno, oso dirlo francamente, molto differente e ben supe- riore per il suo modo d’ agire e da non ammettere serio confronto, ne palesai l’idea al chiarissimo collega e le speranze che ne nutriva di ottimo successo, e così da non incontrare la totale dimenticanza in cui era caduta la Levina d’ Aitken. Non pago abbastanza della scoperta fatta e colla mira d’ acqui- stare più certa conoscenza della cosa, o qualche dettaglio che mag- giormente m’ illuminasse, mi procurai l’ Opera dell’ accennato Ostetrico inglese, la quale doveva averla descritta. È questa che Vi presento della terza Edizione, resa pubblica nel 1786; opera affatto affatto originale; però di molto interesse, in quanto che ad un laconismo fors’ unico, si accoppia nulladimeno un emporio stragrande di cogni- 392 FERDINANDO VERARDINI zioni intorno tutto quanto di più valutabile conosceva allora la Scienza e l’ Arte, ma il tutto accennato in via quasi che sommaria, ed è cor- redata di molte Tavole colorate ed esattamente disegnate, le quali rappresentano anche nuovi ed ingegnosissimi meccanismi. Alla 51°, figura prima, trovai la piccola Leva articolata dell’ Autore tal quale esisteva, fanno pochissimi mesi, nell’ Armamentario nostro un esem- plare, e che a bel corredo della presente comunicazione uniseo in di- segno (Fig. 4). Della Levina inglese ecco quanto n’ è detto a pag. 75 dal suo Autore , Ne ho inventata una, la quale girando una vite d4- viene retta per facilitarne l’ introduzione; assume una curva propor- zionata esattamente alla convessità della parte dell’ infante, ov’ è ap- plicata; per conseguenza la sua pressione è più diffusa e meno dan- nevole di quella del Roonhuysen. Mi sono permesso di chiamarla 7 ving Lever, o Leva vivente, perchè il suo muoversi rassomiglia quello delle dita ,. Questa Levina, siccome la vedete, Signori, tranne del concetto, non poteva offrire quelle risorse di cui stata sarebbe in grado di pre- stare, se migliore e diverso ne fosse stata la congegnatura. Lascio di notare ch’ è molto corta, aperta, e quindi debole e tutto al più servi- bile per ismuovere la testa del feto che si presentasse in non buone posizioni e solo al distretto inferiore, e fo rilevare specialmente che a renderla curva ed in grazia dell’ azione della vite posta in fondo alla medesima, s’ innalzano e tendonsi delle sottili molle in acciajo, le quali rimangono nascoste in iscanalature adattate poste sul davanti della stessa Levina (Fig. 4 @' a'). Dovendosi agire con tal quale for- za non sono da tanto a resistere alla prova e cedono, formando alcuni rialzi come almeno pare se ne debba dedurre dalla figura me- desima (a, a, db, d). Vero è bene che l’ inventore la cuopriva la sua macchinetta con pelle di cane, o d’ altro, e la cingeva anche (come si scorge da una figura seconda disegnata nell’ op. cit.) con una cordella al fine di renderla sufficientemente robusta; ma eziandio con questi ripieghi non si doveva largamente ed abbastanza raggiungere lo scopo propostosi; svelano piuttosto e ne fanno emergere appunto i difetti che dissi i quali senza dubbio furono precipua cagione a che la piccola Leva cadesse in totale dimenticanza, e che così possono riassumersi: di non essere valevole a sviluppare la necessaria potenza per superare e vincere le resistenze, oppure da riescire solo in que’ facili casi in cui NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 393 sovente s’ incontra l’ Ostetrico, ed alloraquando occorre una semplice ver- sione del capo a ridurlo in conveniente posizione onde facilitarne l’uscita, siccome opera una Leva comune medesimamente, o compiono le dita stesse della mano. Di questa Levina impertanto ne credo provato che non ne resta, come me n'espressi, di buono e di utile se non il puro concetto. Posto in sodo ciò stesso e proseguendo alcun poco il mio cam- mino, ne discende adunque che rispetto all’ idea di articolare la Leva ostetrica, fui solamente preceduto dall’ Aitken; la congegnatura però, ripeto, la dichiaro non bene scelta; laonde da ciò la precipua e ve- ra cagione dell’ assoluto abbandono a cui fu condannata quella picco- la Leva; sicchè nessun Ostetrico, e nessun Trattato ne aveva da lun- go tempo mai più fatto discorso, nè posta avvertenza alcuna, tranne del Rizzoli e del Kilian, siccome, Signori, ne avete già udito. M’ auguro quindi e spero diversamente accada della mia Leva articolata e decollatrice, la quale agisce proprio come una robusta mano, e in maniera secura richiama ed attua il primo originario pen- siere dell’ illustre Ostetrico inglese; pensiere ch’ io rivifico però d’ una forza più energica e ben differente, più consona alla qualità delle funzioni che sono a compiersi e libera da quegli inconvenienti che l’inceppavano e la rendevano di azione debole e snervata. (1) In quanto poi al concetto di piegare un’ asta metallica debbo far conoscere che il Dott. Vaust e il Prof. Wasseige, ambidue del Belgio, lo attuarono limitatamente però a particolari uncini. Del primo non ho alcuna idea di fatto, ma solo ne ebbi contezza per lettera scrittami dallo stesso Wasseige; il quale ha del proprio il suo crochet mousse, descritto dal Prof. Hyernaux nel suo Trattato de’ parti e che rese pubblico nell’ anno 1866, a pag. 717 e seguenti. Quest’ uncino per una speciale combinazione, ebbi agio di poterlo avere fra mani, e così m’ accorsi che v° erano state eseguite di recente alcune modificazioni, deducendolo dal confronto che ne feci col disegno postore nell’ Opera or citata del chiarissimo ostetrico belga. Reputai perciò cosa opportuna di portare l’ istrumento stesso al- (1) Gli onorevoli e valentissimi Signori Lollinî convinti essi pure dell’ uti- lità che può offrire una Leva articolata ostetrica, si studiarono d’ imitarmi; ma la loro Leva, a mio giudicio, non riunisce in sè tutti que’vantaggi che dalla mia si possono ripromettere. TOMO 1V. 50 394 FERDINANDO VERARDINI l egregio Direttore della Società fotografica bolognese affinchè me lo riproducesse, e sono lietissimo, Signori, di offrirvene questo limpido esemplare (Fig. 5); il quale mi risparmia di porgervene una descri- zione, e procura a me la compiacenza di farne conoscere, forse pel primo, i cambiamenti apportativi dal suo egregio Autore. Non voglio però pretermettere di rendervi aperto l’ animo mio anche sopra tale ordigno, che l’ ho di utile pratico, ma non scevro da qualche pecca, almeno per quanto ne penso. Pongo impertanto l’ avvertenza che que’ meandri o rialzi, angolari, acuti che vi si scor- gono dal lato convesso e postivi per rendere più robusto l’ uncino stesso (e così a questo fine la sostituzione della catena al filo di ferro internamente) debbono riescire di qualche molestia alle parti che vi si addossano, od a quelle che l’istrumento è costretto d’ attraversare, se bene guernito di una copertura in caoutchouk; finalmente accenno che l’unitovi ripiego per guidare attorno al collo del feto una catenella metallica, che facilmente può rompersi, allo scopo di decollarlo, deve essere di assai difficile esecuzione, in quanto che a tastoni s’ è obbli- gati d’ infilzare colla piccola asticella uncinata che fa parte di questo meccanismo, un anellino, il quale appena appena sporge dalla parte estrema superiore dell’ uncino medesimo, e siccome chiaramente appare dalla relativa tavola fotografica che mi diedi cura di fare eseguire a comprova delle mie osservazioni ( Fig. 6 e 7). Chiarito tutto quanto era, a mio giudizio, necessario fosse stori- camente noto, e che ho potuto conoscere, vengo ora a sottoporvi le prove eseguite colla Leva articolata sopra un cadavere di feto noni- mestre adattato entro una macchina di ferro ed imbottita siccome si usa nelle Scuole a comodo degli studenti. Fu applicata dapprima la mia Leva nelle posizioni inclinate del capo in cui sì presentava allo stretto superiore l’ occipite, od una delle regioni laterali del capo stesso. Essa potè essere facilmente insinuata, ben’ inteso seguendo le dovute regole, ed essere applicata sulla testa del feto; girando la vite si vidde che agiva sul capo medesimamente, o in quel modo che si sarebbe fatto colla mano, e ben presto si riescì a far scendere il vertice ed impegnarlo allo stretto superiore. Poscia venne applicata nelle presentazioni franche e nelle incli- nate della faccia, e si ottenne del pari nel primo caso a far discen- dere il vertice, e nel secondo a cangiarle in posizioni franche della faccia stessa, ed altresì ad impegnare il vertice nello stretto superiore. NUOVA LEVA ARTICOLATA E DECOLLATRICE 395 L’ applicazione della mia Leva fu pure eseguita felicemente nelle presentazioni per la spalla, affine di far scendere le natiche, adoperandola siccome un uncino sull’ estremità pelvica e tuttavia a far scendere il collo del feto onde decollarlo più facilmente. Per tale modo si potè nel primo caso convertire la presentazione della spalla in una delle natiche; e nell’ altro a far abbassare il collo in guisa da potervi me- diante la molla esistente, condurre attorno il collo stesso lo sverzino, e così praticarne il distacco. Questi risultamenti mi sembrano di non piccolo rimarco e si otten- nero nel modo il più spedito e rassicurante, e resero evidente: che riesce facile l’ introduzione e 1’ applicazione della mia Leva; che le parti restano bene e sicuramente comprese; che l’ istrumento vi si adatta sopra proprio a guisa di una mano, e che la trazione riesce vera- mente efficace e senza recar danno alle parti su cui viene esercitata ; laonde parmi se ne possa concludere che questa Leva oltre al poter servire in tutti quei casi ove torna giovevole la comune, retta o cur- va che sia, raggiunge tuttavia de’ fini molto superiori atteso la sua speciale costruzione (1). Con ciò pongo termine, Signori, al presente comunicato; il quale se non altro, avrà il merito d’ avere pur’ esso contribuito a dar nuovo impulso affinchè si ricorra più di sovente all’ uso proficuo e ragione- vole della Leva, medesimamente a quanto propose dieci anni or so- no il preclaro e già da me più volte encomiato, nostro Accademico e Professore di Ostetricia, coi mezzi allora conosciuti e per le ragioni da Lui sapientemente discusse e disaminate. (1) Non voglio pretermettere di rendere aperto eziandio che per fortunata combinazione potei far vedere in casa mia ed esperimentare la mia Leva anche all’ illustre Clinico di Napoli, il Prof. Cav. Luigi Amabile. Il quale mi permise in quell'incontro di esternare pubblicamente questa sua convinzione e cioè: che essa avrebbe certo arrecati molti ed importanti beneficii alla pratica oste- tricia mercè il suo felice meccanismo, che doveva estenderne e facilitarne l’ ap- plicazione. Tom IV. Ri Mem. Ser DELLA STRUTTURA ANATOMICA DELLA CADUCA UTERINA NEI CASI DI GRAVIDANZA EXTRAUTERINA NELLA DONNA MEMORIA DEL PROF. COMM. G. B. ERCOLANI (Letta nella Sessione 5 Febbraio 1874 ) Benchè le osservazioni che ebbi l’ onore di presentarvi negli anni scorsi sulla struttura anatomica della placenta, si vadano facendo strada fra i cultori l’ anatomia e l’ ostetricia, pure ricercando il grave argo- mento e specialmente per ciò che riguarda la specie umana, alcuni punti della complessa questione rimangono sempre ad indagare, anche perchè non può aversi a piacimento il materiale scientifico opportuno sul quale soltanto si possono portare le necessarie indagini. Uno dei punti fondamentali sui quali poggiai le mie osser- vazioni sulla struttura anatomica della placenta umana, si era quello che riguardava la natura ed il valore fisiologico della caduca uterina, intorno alla quale tanto e da tanti dottissimi uomini si è in così di- sparato modo discorso, e se in mezzo a così discrepanti sentenze i dubbi stanno ancora fermi nell’ animo di non pochi uomini dotti, non vi ha ragione a meraviglia, come io spero non vorrete meravigliare Voi, se mi faccio sollecito ad esporvi una nuova osservazione che ho fatto, la quale parmi di non lieve importanza, non solo perchè ci mo- stra, quello che fino ad ora non sapevamo, quale cioè sia la struttura della caduca uterina nelle gravidanze extrauterine, ma perchè credo nessuna osservazione come questa sia così valevole a dimostrare che non andai errato nell’ assegnare la massima e capitale importanza alla caduca nella formazione della placenta umana per quanto spetta alla sua parte materna. 398 G. B. ERCOLANI Che le più gravi incertezze regnino tuttora per molti uomini il- lustri intorno alla natura e all’ importanza della caduca uterina io non farò grande fatica a convincervene, riportando quello che uno dei più rinomati ostetrici lo Stoltz ha ultimamente scritto (1873; nel nuovo Dizionario di Medicina e Chirurgia destinato a riassumere i progressi i più recenti della Scienza, che ora si pubblica a Parigi. All’ articolo Grossesse lo Stoltz adunque parlando delle modificazioni che subisce l'utero nella gravidanza si esprime così: Egli sarebbe un anticipare sopra quello che deve esser detto all’ articolo Uovo «mano il dare una descrizione particolareggiata sul modo per cui l’ uovo si fissa al- l’utero e sui rapporti anatomici e fisiologici dell’ uno coll’ altro. Egli è certo però che la mucosa uterina subisce «elle modificazioni profon- de; si tratta di sapere se esse si limitano soltanto ad una trasforma- zione del suo epitelio, o se esse comprendono tutto lo spessore della membrana. È dessa che diventa caduca uterina, o la caduca è invece una membrana anista di nuova formazione ? Codeste questioni che implicano i più disparati concetti, poste come sono e non risolute, necessariamente lasciano il lettore nel bujo il più completo sulla struttura e sulla origine della caduca. Algnanto più esplicito è lo Stoltz quando afferma avvenire nelle gravidanze extrauterine quello che normalmente avviene nelle gravidanze normali, la mucosa dell’ utero, dice egli, si tumefà, 1’ epitelio si trasforma e si sviluppa una caduca uterina che tapezza tutta la superficie interna dell’ utero, il di cui collo si chiude e con questo si spiega la cessazione della mestruazione anche nelle gravidanze extrauterine. L’ illustre oste- trico nota pur anche come tutto l’ organo utero, nei detti casi, parte- cipi ad una specie di erettismo, maggiore sia l’ afflusso del sangue che va all’ organo, come aumenti di volume ed il collo si arrotondi ed acquisti più o meno la forma di quello di una donna gravida nei primi mesi e come a seconda della specie di gravidanza extrauterina varii il grado della detta attività uterina, maggiore p. e. nelle gravi- danze tubarie, per la diretta comunicazione coll’ utero, di quello lo sia nelle gravidanze addominali. Sommando tutto, le cognizioni che si hanno sullo stato dell’ utero nella gravidanza extrauterina esse si riducono ai dati che sono forniti dalla semplice ispezione, aumento di mole e vascolarità maggiore, presenza sulla sua superficie interna della caduca, intorno all’ origine della quale si è incertissimi come lo si è sulla struttura se sia cioè anista o invece organizzata. DELLA CADUCA UTERINA 399 Nell’ ultimo mio lavoro , Sull’ importaaza delle glandule otrico- lari ecc. (1) io mi ingegnai di riassumere le mie osservazioni sulla placenta umana e vi presentai in forma schematica la parte che aveva la caduca nella formazione della placenta. Il concetto fondamentale era questo, che elementi cellulari di nuova formazione sì sviluppano su tutta la superficie interna dell’ utero che necessariamente per questo si spoglia del suo epitelio ; le nuove cellule seguitano a svilupparsi per qualche terapo dopo che l’ uovo è disceso nell’ utero e che nel punto ove l’ uovo si ferma la proliferazione è più rigogliosa e a modo da abbracciare 1’ uovo, che lo strato di cellule che trovasi ai lati del- l’uovo fu dagli anatomici e dagli ostetrici detto caduca reflessa, e chiamarono caduca serotina quello strato che restava interposto fra l’ utero e 1’ uovo. Tutte queste denominazioni non hanno, a parer mio, che un valore, quello cioè di indicare due parti distinte della neo-for- mazione cellulare o caduca avvenuta sulla superficie uterina all’ atto del concepimento e nei primi momenti della gravidanza, la prima parte cioè che si arresta nel suo sviluppo restando inerte per tutto il tempo della gravidanza, ed è la maggiore, ossia la caduca vera o uterina, e la seconda limitata e corrispondente al luogo dove si fermò 1’ uovo e le cellule della caduca proliferarono, caduca reflessa e serotina che serviranno a fornire ai villi fetali, uno speciale invoglio o parte ma- terna ed a costituire così la complessiva placenta. Per me adunque la porzione materna della placenta è fornita dalla caduca neoformata e nei primi momenti del concepimento, ogni parte della caduca uterina è virtualmente atta a diventare serotina e reflessa e più avanti porzione materna della placenta, come ogni parte della caduca è pure virtual- mente atta ad arrestarsi nello sviluppo e rimanere caduca uterina, l’ una e l’altra cosa dipendendo non da qualità diverse, nei diversi punti della caduca, ma dal fatto del contatto in un punto non deter- minabile in precedenza dell’ uovo coll’ utero. Dietro questi concetti ricavati da lunghe osservazioni di anatomia normale e patologica sulla placenta che ora è qui inutile di ricordare, era per me del maggiore interesse il poter conoscere quale era la struttura della caduca uterina nei casi di gravidanza extrauterina, giac- chè dietro le mie osservazioni, in questi casi la neoformazione della (1) Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna Vol. 3. p. 273. 1873. 400 G. B. ERCOLANI caduca, era una completa inutilità essendo evidente che in tali circo- stanze per la mancanza dell’ uovo nell’ utero essa non aveva alcun ufficio da compiere. Che cosa era adunque questa caduca ? Ho potuto istituire questa indagine sopra due casi di gravidanza extrauterina, che con rara cortesia mi volle donati il Chiarissimo no- stro Signor Presidente il Comm. Francesco Rizzoli al quale non rie- scirà discaro che pubblicamente io attesti la mia gratitudine per il preziosissimo dono. In amendue i casi che ebbi, |’ utero era stato aperto e nei preparati a prima vista si scorge dov’ era caduto il taglio, pel colore giallognolo della caduca, che essa formava uno strato non di uniforme grossezza e appariva pure tutta cospersa come di eserescenze polipose pedunculate lunghe fino a 12 mill. e grosse 4. Da questo solo ognuno può persuadersi che i suoi caratteri esterni sono disformi da quelli che essa presenta nello stato normale. La superficie interna oltremodo scabra e irregolare non lasciava vedere quei numerosi per- tugi che nella liscia caduca normale nei primi mesi di gravidanza tanto facilmente si scorgono che per questo ebbe anche nome di cri- brosa, per l’ apparenza che ha di un vaglio. Dissi già altra volta che i detti pertugi della decidua corrispondevano alle aperture di sbocco delle glandole otricolari e le sezioni microscopiche dell’ utero e della decidua nei casi di gravidanza extrauterina ci diranno che cosa resti a rappresentare non solo le aperture, ma le intere sopradette glandole. Nell’ utero umano si notano alcune differenze abbastanza notevoli se si prendono ad esame e si confrontano l'utero di una neonata con quello di una donna adulta non gravida. Nella neonata tutto lo stra- to esterno del tessuto uterino, più che da fasci musculari compatti, come è formato quello della donna adulta, vi si osserva un ricco intreccio di grossi vasi intersecato da sottili sepimenti di connettivo e fibro-cel- lule musculari, i vasi venosi più specialmente sono assai larghi e danno l'apparenza alla parte di un tessuto erettile cavernoso. Anche sulla superficie interna dell’ utero si riscontrano differenze. Le glandole otri- colari nella neonata sono rade ed incomplete ed esaminando l’ utero della donna a questo periodo di sviluppo poco avanzato, si sorprende il primo momento del loro processo formativo e questo nei luoghi ove solo si osservano lievi depressioni dello strato epiteliale ed in altre un poco più sviluppate si scorgono mano mano approfondarsi fra i fasci musculari del tessuto uterino sottoposto. A questo periodo sono tutte tubulari e semplici ed assai corte non avendone trovata alcuna che DELLA CADUCA UTERINA 401 oltrepassasse in lunghezza i 30 cent. di mill. il loro diametro trasverso preso dal bordo esterno della limitante è di 7 cent. di mill. e la ca- vità interna limitata dal bordo dell’ epitelio arriva a soli 2 cent. di mill. ho trovato le dette glandole allo stesso stato rudimentario anche in una fanciulla impubere di 14 anni. Nella donna adulta le dette glandole sono tubulari e racemose ma per la lunghezza e per la loro mole presentano alcune differenze, ne ho vedute di lunghe da uno ad un millimetro e mezzo, senza cal- colare le inflessioni ed i contorcimenti che non poco accrescono la loro lunghezza reale, con un diametro trasverso da otto a nove cent. di mill. mentre in altre donne nelle quali 1’ utero aveva tutte le ap- parenze di sanità, oltrepassavano in lunghezza i due millimetri, ed es- sendo in queste più spesse e più accentuate le inflessioni che nelle sopradette la loro lunghezza doveva necessariamente anche essere in proporzione maggiore. In una donna giovane affetta da Leucorrea, le dette glandole erano così voluminose e grosse che oltrepassavano nel loro diametro trasverso i 22 cent. di mill. In tutti i casi però e dal primo loro formarsi, le glandole otricolari dell’ utero nella donna si trovano in mezzo ai fasci muscolari più interni del tessuto uterino e costitui- scono uno strato alcun poco variabile nella sua altezza, la quale è determinata dalla lunghezza delle glandole da uno a due millimetri come ho detto nello stato normale: questo strato si può con precisione denominare strato muscolo-glandulare dell’ utero fig. 1, lett. 6. L’ epi- telio che copre tutta la superficie interna dell’ utero, tanto nella neo- nata come nella donna adulta, poggia mercè la sua membranella di sostegno immediatamente sul tessuto muscolare dell’ utero, la quale ripiegandosi coll’ epitelio all’ interno forma le glandole otricolari. Lo studio dell’ utero della neonata mostra ad evidenza come da un infos- samento dell’ epitelio uterino già formato derivino le dette glandole, per cui non può dubitarsi che 1’ epitelio delle glandole non sia in continuazione diretta con quello della cavità dell’ utero, nessuna me- raviglia quindi che anche l’ epitelio delle glandole sia vibrattile come alcuni fra i più recenti istologi hanno insegnato. Fino dal 1868 io affermai che nella donna adulta ed oggi posso aggiungere che anche nella neonata tutta la mucosa uterina è rappre- sentata dal solo strato epiteliale fig. 1, lett. c. Il Bischoff prima ed altri anatomici poi hanno affermato, che la mucosa uterina nella donna non era bene distinta dagli strati muscolari sottoposti e che non si TOMO IV. 51 402 G. B. ERCOLANI riesciva per questo a staccarne alcuni lembi isolati, e credo non sia inutile ripetere ancora codesta verità perchè in recentissimi lavori di anatomia, di fisiologia e di ostetricia che si pubblicano in Italia e fuori sl seguita ancora a discorrere di mucosa uterina, sia per dire che è il solo suo epitelio o che è tutta nel suo complesso che si tumefà e si trasforma ed anche che è la mucosa uterina che fatta ipertrofica e tumefatta per un processo di involuzione circonda i villi fetali per for- mare la placenta e tutto questo come fosse fuor di ogni dubbio dimo- strata l’ esistenza nello stretto senso della parola di una membrana mucosa uterina come se ne ha esempio in molti animali. L’ insistenza colla quale da alcuni si seguita a ripetere e ad insegnare un tanto errore non renderà inutile spero il proposito che ho fatto di fare rap- presentare nella fig. 1 una sezione trasversa della superficie interna dell’ utero di donna adulta assai felicemente riescita all’ Egregio Dott. Rossi, anche perchè servirà di confronto e gioverà ad intendere il pro- cesso mercè del quale si forma la decidua uterina nei casi di gravidanza extrauterina, che come più avanti dimostrerò, altro non essendo che la porzione materna della placenta che in questi casi abnormemente ed isolatamente si sviluppa sulla superficie interna dell’ utero, gioverà pur anche a dimostrare quale e quanta sia l importanza di tutto lo strato muscolo-glandulare dell’ utero, nella formazione della placenta, impor- tanza che non era stata per anche, non dico detta, ma pur solo so- spettata. Nei due casi che ho potuto studiare di decidua uterina in casi di gravidanza extrauterina, la morte colpì le donne nelle quali il con- cepimento era avvenuto fuori dell’ utero, in un periodo di gestazione molto diverso, in una la morte avvenne verso il secondo mese, nel- l’altra per lacerazione della tromba gestante verso il quinto mese, questa particolarità mi ha permesso di studiare la decidua uterina in due fasi diverse del suo sviluppo. I caratteri fisici che ad occhio si possono rilevare non indicano notevoli differenze fra queste due decidue; nell’ una e nell’ altra spor- gono nell’ interno della cavità dell’ utero, dei prolungamenti irregolar- mente sparsi e nascenti dallo strato della caduca adesa all’ utero che hanno forma come di tante piccole escrescenze polipose pedunculate. Praticando delle sezioni tanto nel senso verticale che trasversale dell’ utero, per esaminare al microscopio la decidua caduca in tutta la sua grossezza unita a parte della porzione musculare dell’ utero, per DELLA CADUCA UTERINA 405 vedere i rapporti di quella con questo, si hanno le apparenze come di tre strati fra di loro nettamente distinti, per diversa struttura e composizione di elementi, questi tre strati più chiaramente si distin- guono nella decidua più antica fig. 3, benchè non manchino anche nella decidua più giovane fig. 2. Lo strato maggiore o più grosso, del quale nella tavola non è delineata che una piccola porzione lett. a è nei preparati rappresentato dalla sostanza muscolare o tessuto uterino. Sovrasta a questo un tessuto come smagliato formato da numerose trabecole che lasciano fra di loro degli ampi spazi lett. 9. Questo strato è molto più alto e per questo più chiaramente visibile nella decidua più antica fig. 3, lett. 9" di quello lo sia nella giovane fig. 2, lett. è, però anche in questa non manca. Il terzo strato corrispondente alla superficie interna dell’ utero e costituente la decidua uterina propria- mente detta lett. c, presenta pure alcune differenze nei due uteri. Nel- l’ utero nel quale la decidua durò per quasi cinque mesi, gli elementi cellulari che formano questo strato sono più voluminosi fig. 3, lett. d, che nell’ altro fig. 2. lett. 4, e gli spazi ed i vasi che in mezzo vi scorrono maggiori e gli uni e gli altri nel primo, presentano anche questa differenza che molti dei vasi nel primo sono occlusi da sangue coagulato fig. 3, lett. e, mentre i vasi sono ancora pervi nella decidua giovane e non così notevolmente dilatati lett. e, f. Ricercando più at- tentamente la composizione intima ed il significato anatomico dei detti strati, limiterò le mie indagini pel primo o muscolare, solo alla di lui superficie interna che è in rapporto diretto col trabecolato che si con- tinua colla caduca uterina. Nello stato normale fig. 1, al disotto dello strato epiteliale che riveste l’ interna cavità dell’ utero, si scorgono subito i fasci musculari del tessuto uterino nello strato più interno dei quali trovansi le glan- dole otricolari: questo strato che ho chiamato muscolo-glandulare è quello che merita ora la maggiore attenzione. Confrontando lo strato muscolo-glandulare dell’ utero di donna non gravida, con quello del- l utero nel caso di gravidanza extrauterina, quello che a prima vista colpisce 1’ osservatore, si è lo smagliamento dirò così dei fasci muscu- lari dal quale risulta formato il secondo strato or ora detto, non più compatto come nell’ utero non gravido, ma formante come un trabe- colato in mezzo al quale si osservano grandi e numerose cavità. Questo strato è più manifesto nella decidua più antica fig. 3, lett. d'' e più nettamente alla base delle appendici pedunculate che sporgono dalla uperficie della decidua. 404 G. B. ERCOLANI A prima vista non si ha qui la più piccola traccia delle glandole otricolari, ma attentamente esaminando ai bordi di non poche trabe- cole si scorgono sicure traccie di un epitelio conico in via di disfaci- mento, una prova più sicura ed indubbia che quelle grandi cavità stanno a rappresentare le antiche glandole otricolari in così strano modo deformate, si acquista esaminando la decidua uterina nella gra- vidanza extrauterma di appena due mesi fig. 2, lett. &, quivi le cavità maggiori che si scorgono in vicinanza degli strati musculari, sono tutte tapezzate da un epitelio conico a più strati, ed in mezzo allo strato che gli è sovraposto si veggono ancora traccie dei tubi delle glandole otricolari, così compressi dagli elementi anatomici in mezzo ai quali si ritrovano, da apparire in alcuni luoghi come un semplice nucleo epiteliale. Si ha in breve una ripetizione dei fatti che altra volta indicai nell’ utero gravido della donna e di alcuni animali e cioè che le aperture che osservansi in mezzo agli elementi cellulari della decidua uterina normale e della reflessa nella donna corrispondo- no all’ apertura delle glandule otricolari, e che le grandi cavità lett. d, fig. 2, coperte da un abbondante epitelio, non sono altro che i ciechi fondi delle glandole otricolari dilatate e deformate precisamente come delineai e descrissi nel luogo sottoposto a quello ove si forma la pla- centa in alcuni carnivori. I nuovi elementi che si accumulano alla superficie dell’ utero per formare le cellule della decidua e della sero- tina e reflessa nel luogo ove si formerà la placenta, comprimono i tronchi delle glandole otricolari, e per ritenzione dell’ umore da esse elaborato, i rami terminali o ciechi fondi delle glandole si dilatano e si deformano nel modo che ho indicato, e sono così la causa dello smagliamento o allontanamento dei fasci musculari uterini che nell’utero non gravido sono strettamente addossati alle dette glandole. Esami nando le trabecole formate dai detti fasci musculari smagliati, pre- sentano esse due fatti molto notevoli: 1° di mostrare cioè disgregati e senza alcun artificio le fibro-cellule musculari che li compongono ; 2° di essere colpiti da una infiltrazione veramente enorme di globuli bianchi. I mutamenti nelle fibro-cellule musculari delle trabecole sono me- no sensibili nella decidua giovane di quello lo siano nella più antica, nella quale ho notate importanti differenze vuoi per la mole, vuoi per la forma, vuoi ancora per il volume e la forma del nucleo. In alcuni luoghi dove la decidua è meno grossa molti degli elementi musculari DELLA CADUCA UTERINA 405 non differiscono da quelli che con diversi mezzi sì ottengono artificial- mente dai fasci musculari dell’ utero non gravido, e altri sono note- tevolmente più grossi come sono appunto quelli che si ottengono dai fasci musculari dell’ utero gravido, fra queste cellule e quelle molto più grosse, con grande nucleo rotondo, e quelle che gradatamente ar- rivano dalla forma fusiforme allungata alla rotonda, non havvi un sicuro carattere per ritenere che le ultime non derivano dalle prime, per questo è di grande vantaggio l’ esame della decidua giovane nella quale facilmente si può scorgere che i grandi elementi cellulari fusati e rotondi derivano da successivi permutamenti che avvengono nei glo- buli bianchi che ho detto vedersi in tanta copia infiltrati fra gli ele- menti musculari delle trabecole. Il terzo strato che costituisce la deci- dua uterina propriamente detta oltre alle apparenze esterne che ho già indicate nei due casi esaminati presentano fra di loro notevoli dif- ferenze dipendenti dal fatto, che nella gravidanza extrauterina più an- tica fig. 3, lo sviluppo aveva già toccato un alto stadio di evoluzione, mentre nel secondo fig. 2 la decidua era anche in via di formazione, ed in questa per la detta ragione se la infiltrazione dei globuli bianchi è notevolissima le grandi cellule proprie della decidua sono in minor numero e meno caratteristiche, sono pure meno notevoli le cavità spettanti ai luoghi occupati dalle glandole otricolari lett. 9, e più ricco l’ epitelio che riveste le dette cavità, meno apparente e la vascolariz- zione lett. e perchè l’ ectasia dei vasi non è ancora tanto notevole lett. f. Nella decidua più antica è già completamente formata la por- zione materna della placenta e lo attestano le grandi cellule proprie della serotina fig. 3, lett. d, 1’ abbondanza dei vasi dilatati che in mezzo a quella si scorge e la notevole ectasia loro in alcuni punti, dimostrante la formazione iniziale delle lacune della placenta lett. f. Co- desti fatti emergono più chiaramente dove la proliferazione degli ele- menti anatomici fu più rigogliosa e questo fu nei luoghi ove la sem- plice ispezione mostra le escrescenze polipose sulla decidua fig. 3, lett. 9 senza però che gli stessi fatti manchino sullo strato più esterno di tutta la decidua ove fu meno rigogliosa la proliferazione. In breve su tutta la superficie interna dell’ utero nei casi di gravidanza extra- uterina si ha la ripetizione di quei fatti che io descrissi quando parlai del processo formativo della porzione materna della placenta nella donna, confermati pur anche dalle ricerche che io feci sulle diverse malattie tanto della porzione materna come della fetale della placenta 406 G. BR. ERCOLANI e chi ne volesse miglior prova non avrà che a confrontare le descri- zioni e le figure riportate nei miei precedenti lavori per dimostrare la porzione materna della placenta umana tanto nello stato fisiologico che morboso, e confrontarle colle figure che oggi porto della così detta decidua nei casi di gravidanza extrauterina per convincersi spero, che questa non è altro che un inane conato della natura per fornire al- l’uovo che non discese nell’ utero, quello che l’ utero dovrebbe fornirgli per il suo sviluppo e cioè la porzione materna della placenta, e come l’ uovo determina il punto, sul quale nei casi normali si ha solo lo sviluppo e la proliferazione delle cellule della serotina dalle quali resta formata la porzione materna della placenta, coll’ invoglio che essa fornisce ai villi: così diffusamente ed in modo abnorme tutta la decidua diviene serotina su tutta la superficie interna dell’ utero, quando per abnormità l’ uovo non giunge nel luogo che gli è dalla natura destinato. Mirabilissimo consenso di parti, e modo di funzionare dell’ utero dopo che è avvenuto il concepimento e che si direbbe fatale. La note- vole vascolarizzazione che notai in mezzo alle cellule neoformate della serotina nei casi di gravidanza normale, avviene pure nei casi di gra- vidanza extrauterina, per cui ci sono anche in questa circostanza ma- nifesti 1 vasi utero-placentali che giunti in mezzo alle cellule della serotina, si dilatano per formare come nello stato normale le lacune, ma la parte dell’ ufficio dell’ utero per formare la placenta, sì arresta quando appunto per mancanza della parte fetale in nessun modo può compiersi il suo sviluppo, e la porzione materna della. placenta che isolatamente si formò entra dopo un certo tempo in una fase regres- siva, e lo attestano le trombosi che osservansi in non pochi vasi lett. e. Notevoli quindi ed importantissime sono le differenze fra la caduca uterina nella gravidanza normale e quella che osservasi nelle gravi- danze extrauterine, e l’ attento esame di queste ci offre alcuni dati del maggiore interesse per chiarire alcuni punti relativi al processo formativo della placenta nella donna, che non erano fino ad ora con sicurezza conosciuti. I detti punti sui quali poteva nutrirsi ancora un qualche dubbio, erano: 1° l’ origine degli elementi cellulari di nuova formazione o cellule della decidua o meglio della serotina se 1’ inda- gine limitavasi al luogo dove la placenta si forma. 2° La conoscenza sicura di quello che avveniva nell’ utero della donna, delle glandole otricolari sottoposte al luogo dove la placenta si forma nelle gravidan- ze normali. DELLA CADUCA UTERINA 407 In quanto al primo punto io credetti e più volte affermai di cre- dere, che caduto l’ epitelio uterino dopo il concepimento, dagli elementi del connettivo che restavano così scoperti, avesse luogo la neo-forma- zione degli elementi cellulari della decidua uterina e della serotina nel luogo dove si formava la placenta. L’ illustre Prof. Valdeyer pur ri- conoscendo nella serotina la presenza di elementi cellulari di nuova formazione emise il sospetto che i detti elementi cellulari fossero for- niti dalle pareti dei vasi, opinione che anche il Dott. Romiti credette di potere assodare con alcune osservazioni sulla neoformazione del corpo luteo. Rispettoso quanto altri mai della grande dottrina dell’ il- lustre professore, non rifiutai nemmeno i concetti esposti dall’ Egregio amico il Dott. Romiti (1) aspettando dai fatti i dati per convincermi o per abbandonare le mie idee. Le osservazioni fatte sulla decidua uterina nei casi di gravidanza extrauterina, parmi che abbiano fornito una chiara e sicura prova che nessuno aveva colpito nel segno, e che l’ origine delle cellule della serotina è dovuta ai globuli bianchi che in tanta copia si veggono infiltrare i fasci musculari più interni del- l’ utero, questo momento del processo formativo della placenta nella donna difficile a potersi studiare in casi di gravidanza normale, non permise ancora agli anatomici ed agli ostetrici di conoscere con sicu- rezza il modo col quale avviene lo smagliamento dei detti fasci mu- sculari come io ho potuto osservare: e questa fu la ragione per cui l origine delle cellule della serotina rimase fino ad ora ignorata. Per altra parte il processo formativo della porzione materna della placenta nei casi di gravidanza extrauterina, avvenendo meno completamente e più lentamente, lascia per questo scorgere con molta facilità un fatto che nelle gravidanze normali è difficilissimo ad osservarsi. Codesta osservazione della infiltrazione dei globuli bianchi, che sovrabbondano nel sangue delle donne gravide, in mezzo ai fasci mu- sculari dello strato muscolo-glandulare dell’ utero, oltre all’ attestare in modo evidente l’ uscita loro dalle pareti dei vasi e la loro migrazione, come Cohnheim prima ed ora con molta evidenza ha mostrato lo Schmuziger come attesta Frey (2) forse non è destinata a restare solo (1) Sulla parte che hanno le glandole otricolari dell’ utero nella formazione della porzione materna della placenta e nella nutrizione dei feti nell’ alvo ma- terno. Bologna 1873. pag. 32. (2) Archivio di Schultze Vol. 9. fasc. 4.° 408 G. B. ERCOLANI nel campo di una neoplasia fisiologica quale si è la formazione della placenta, ma potrà estendersi nello studio di non pochi neoplasmi patologici. Già fino dal 1870 il Prof. Ciaccio (1) dimostrò come i globuli bianchi del sangue e quelli della linfa non avessero un nucleo nella condizione di vita, e questo si formasse quando morendo i due materiali che li compongono, uno colorabile e l’ altro nò si separono fra di loro. Ora non avendo nucleo possono in istato di vita dividersi con un’ estrema facilità ed in breve tempo fornire elementi per nuove formazioni. A me basta di aver colto un esempio di migrazione dei globuli bianchi e granulosi in una circostanza quale si è la formazione della porzione materna della placenta, nelle gravidanze estrauterine perchè in tutti i Musei se ne ha un qualche esempio e la facilità così di ripetere una non facile osservazione. In quanto al secondo punto relativo alle glandole otricolari sot- toposte alla placenta, avevo già notato {2) come le osservazioni di Henning e di Friedlinder fatte nella donna corrispondessero a quelle osservazioni che con sicurezza io avevo potuto istituire nei carnivori, cagna e gatta più specialmente, per cui era a credersi che anche nella donna come nelle dette specie di animali le glandole otricolari sotto- poste alla placenta si dilatassero e si deformassero. Confermavo codesto sospetto per le ricerche fatte in un utero di donna morta verso |’ ot- tavo mese di gravidanza nello indagare i rapporti dell’ utero colla placenta. Per le odierne osservazioni non mi è stato solo permesso di mutare il sospetto in certezza seguitando anche nella donna il processo di dilatazione e di deformazione enorme delle glandole otricolari, ma ho pure notato, l’ origine ed il significato di quello strato trabecolare interposto fra l’ utero e la placenta, l’ osservazione avendo dimostrato lo smagliamento dei fasci musculari interposti alle glandole otricolari. L'esistenza delle trabecole era nota, ma si ignorava come realmente si formassero, da quali elementi risultassero del tessuto uterino, e per quali successive mutazioni fornissero gli elementi costitutivi della porzione materna della placenta, fatti tutti che ho già in antecedenza annoverati. (1) Osservazioni intorno all’ intima costituzione dei corpuscoli bianchi del sangue ecc. Bologna 1870. (2) Idem. pag. 38 DELLA CADUCA UTERINA 409 Riepilogando e stringendo le cose dette per fare un confronto sulla struttura anatomica della decidua uterina nei casi di gravidanza nor- male ed extrauterina, parmi si possano fermare le seguenti conclusioni. 1. L’erettismo nel quale entra l’ utero della donna dopo il con- cepimento dà luogo nei suoi primordi ad una neoformazione su tutta la superficie interna dell’ utero. Codesta neoformazione è quella che ebbe nome di decidua o caduca uterina nei casi di gravidanza normale. Fino a che non fu noto che questa decidua fisiologica rappresentava nei suoi primordi di sviluppo il processo neoformativo della porzione materna della placenta che è esteso a tutta la superficie interna del- l'utero, gli anatomici e gli ostetrici restarono incerti nel determinare l'origine e l’uso di questa che credettero una membrana. 2. Tutta la superficie della caduca nei primi momenti della gra- vidanza normale, ha e deve necessariamente avere la potenza virtuale di dar luogo alla formazione della placenta, e questa si formerà solo per rigogliosa proliferazione degli elementi neoformati, nel luogo non determinabile ove si soffermerà l’ uovo; su tutta la rimanente caduca il processo neoformativo allora si arresta ed è questa la caduca che permane fino alla fine della gravidanza (1). 3. L’ inizio di questo processo neoformativo può aver luogo in alcune circostanze per erettismo anomalo dell’ utero durante la mestrua- zione e forse per la discesa di un uovo infecondo, dando così luogo alle così dette decidue catameniali. 4. Per erettismo anomalo dell’ utero lo stesso processo neoforma- tivo ha luogo nei casi di gravidanza extrauterina, ma in questi casi l’ erettismo consensuale più intenso e più duraturo dà luogo ad una (1) Alcuni Zoologi insegnante l Huxley segnano la presenza o la mancanza della decidua o caduca uterina come un carattere di grande importanza per la classificazione dei mammiferi. Io non voglio discuter ora l’ importanza del detto carattere, ma non posso non notare che la decidua non si osserva nei mammi- feri (non deciduata) come in molti Ungulati e Cetacei non perchè manchi in origine, ma perchè tutti gli elementi cellulari neoformati che costituiscono la decidua nei detti animali, si trasformano in porzione materna della placenta ( Placenta diffusa) mentre nei Deciduata, e nei più elevati fra i Primates come ho mostrato nell’ uomo, la decidua uterina non rappresenta che l’ arresto dello sviluppo della decidua nel luogo dove non si fermò l uovo e per conseguenza non si formò la placenta. In breve non vi ha placenta in alcun mammifero, senza la precedente neoformazione della decidua. TOMO IV. 52 410 G. B. ERCOLANI neoformazione costante e più rigogliosa. Decidua grossa e tomentosa da tutti osservata nei casi di gravidanza extrauterina. 5. Nei primi momenti dopo il concepimento e nei suoi primordi di sviluppo, la decidua uterina fisiologica, come la decidua nei casi di gravidanza extrauterina non differiscono per nulla fra di loro. Le dif- ferenze e notabilissime si stabiliscono in prosieguo. 6. Una prima e notevole differenza può già stabilirsi da quanto si è detto fra la decidua uterina nella gravidanza normale e quella che osservasi nella gravidanza extrauterina e cioè che nel primo caso abbiamo rappresentati i primi momenti dello sviluppo della decidua percui si mostra sotto le apparenze di una semplice membrana, mentre nel secondo caso, abbiamo un grado di ulteriore sviluppo degli ele- menti neoformati della decidua. L’ esame anatomico ha mostrato una ricca vascolarizzazione fra gli elementi cellulari di questa decidua che sono identici a quelli che si osservano nella serotina; ha mostrato l’ ectasia parziale di alcuni dei detti vasi che stanno ad indicare l’ini- zio formativo delle lacune nella placenta, ha mostrato in breve, non in modo uniforme ma estesamente su tutta la superficie interna del- l’ utero, quella disposizione di parti che osservai, delineai e descrissi studiando lo sviluppo della porzione materna della placenta nei casi di gravidanza normale, in breve non può disconoscersi che è lo svi- luppo anomalo ed irregolare della porzione materna della placenta, dovuto ad un progressivo sviluppo di quegli stessi elementi che si veggono colpiti da un arresto di sviluppo nella decidua uterina pro- priamente detta, nelle gravidanze normali. 7. Ma tutto questo non basta per segnare le profonde differenze di struttura fra la decidua uterina fisiologica e quella anomala nei casi di gravidanza extrauterina e dimostrare con maggiore evidenza, che in quest’ ultimo caso è la porzione materna della placenta che si forma su tutta la superficie interna dell’ utero. Nell’ uno e nell’ altro caso la neoformazione nei suoi primordi avviene solo alla superficie interna dell’ utero, e nella gravidanza normale il processo neoformativo come ho detto si arresta dovunque, meno il luogo dove la placenta si forma. Nell’ altro caso invece la neoformazione invade profondamente il tessuto uterino sottoposto, come appunto succede nel luogo dove la placenta nei casi fisiologici si forma. 8. Molti anatomici ed ostetrici anche oggigiorno affermano ed in- segnano, che è l’ epitelio della mucosa uterina, od anche tutta la detta DELLA CADUCA UTERINA 411 mucosa che si rigonfia e si trasforma profondamente per formare la placenta. Nulla di più errato, giova pure ripeterlo, di codesti insegna- menti, perchè una membrana mucosa nello stretto senso anatomico della parola non esiste nell’ utero della donna, il tessuto uterino es- sendo immediatamente coperto dalla esilissima membranella di sostegno (Basement Membrane di Bowmann) su cui poggiano le cellule dello strato epiteliale. 9. L’ ipertrofia e la trasformazione profonda, non può avvenire in una membrana mucosa che di fatto non esiste, non avviene nel solo epitelio perchè l’ osservazione dimostra che tanto nei casi di gravidan- za normale nel luogo ove si forma la placenta, come su tutta la su- perficie uterina nella così detta decidua delle gravidanze extrauterine, che è una vera formazione isolata della porzione materna della placenta, i mutamenti che avvengono limitati nel primo caso, ed estesi nel se- condo, non si fermano alla parte più superficiale dell’ interna superficie dell’ utero, ma invadono e si estendono a tutto quello strato più in- terno dell’ utero che per gli elementi anatomici che lo compongono ho chiamato muscolo-glandolare. Questo fatto a parer mio notevolissi- mo che non era stato fin qui per anche sospettato, può seguitarsi passo passo nel suo processo evolutivo, con maggiore facilità e sicurezza ri- cercando la così detta decidua nei casì di gravidanza extrauterina, o come ho detto la semplice ed isolata formazione della porzione materna della placenta su tutta la superficie interna dell’ utero. 10. Questa ricerca ha svelato alcuni fatti che erano per anche ignorati e ne ha confermati altri che ragionevolmente sospettati, man- cavano però di una chiara e precisa dimostrazione. Ha svelato che la decidua uterina nei casi di gravidanza extrauterina, è la porzione ma- terna della placenta che per necessità si sviluppa isolatamente. Che per formarsi questa, è necessaria la compartecipazione di tutti gli ele- menti anatomici che compongono lo strato muscolo-glandulare dell’ utero, come appunto avviene nel luogo dove si forma la placenta nelle gra- vidanze normali. Che nel detto strato avviene uno smagliamento dei fasci musculari dovuto alla dilatazione e deformazione delle glandole otricolari che a queste sono interposti, confermando così coll’ osserva- zione diretta che anche nella donna come avevo sospettato, avviene la deformazione delle glandole otricolari sottoposte al luogo dove si forma la placenta, appunto come osservai e descrissi nell’ utero gravido delle cagne e delle gatte. La dilatazione e deformazione delle dette 4192 G. B. ERCOLANI glandole e lo smagliamento dei fasci musculari, danno la ragione ana- tomica di quel trabecolato a larghe maglie che gli ostetrici avevano già osservato sottoposto alla placenta, ma che erano incerti a determi- narne l’ origine e la natura. 11. I mutamenti che si stabiliscono nei fasci musculari allonta- nati fra di loro e per così dire smagliati, e più di tutto l’ infiltrazione notabilissima di globuli bianchi, che avviene in mezzo alle fibro-cellule muscolari e alle grandi cellule costituenti la porzione materna della placenta svelano il punto di partenza o l’ origine dei numerosi ele- menti anatomici che nuovamente si formano nell’ utero gravido. 12. Nell’ atto del parto col distacco della placenta dall’ utero, ha luogo una grave lesione dell’ organo, consistente in una reale perdita di sostanza di tutto lo strato cioè muscolo-glandulare che è sottoposto alla placenta. Il processo mercè del quale dopo il parto si rinnovano le parti perdute dell’ utero, rimane ancora a studiarsi. Le quali cose tutte che io spero di avervi oggi dimostrate, mi persuadono di non errare affermando, che assai di rado occorre a noi poveri osservatori la fortuna, di radunare con poche ricerche una messe così ricca di fatti quale mi è parso di raccogliere, cominciando lo studio delle due gravidanze extrauterine che generosamente mi volle donate il nostro Illustre Signor Presidente. Fig, USO SS Fig. DELLA CADUCA UTERINA 413 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA 1. Sezione trasversa di utero non gravido di donna adulta veduto all’ ingrandimento di 200 diametri. . Porzione del tessuto muscolo-vascolare dell’ utero. Strato muscolo-glandulare interno dell’ utero. Strato epiteliale che copre la superficie interna dell’ utero. . Le glandole otricolari che sboccano alla superficie interna del- l’ utero. 2. Sezione trasversa di utero di donna con gravidanza extraute- rina tubaria datante da circa due mesi veduta al predetto in- grandimento. a. Porzione del tessuto muscolo-vascolare dell’ utero. 1° Strato. b. Ciechi fondi delle glandole otricolari dilatate e deformate con ricca produzione di epitelio, da queste e dalle parti che vi so- no subito sovraposte è formato il seguente 2° Strato o muscolo- glandulare dell’ utero, costituito ora dai fasci muscolari fra di loro allontanati perchè interposti alle dette glandole dilatate. In mezzo alle fibro-cellule muscolari si osserva una straordina- ria quantità di globuli bianchi infiltrati, non pochi dei quali si sono permutati nelle grandi cellule caratteristiche della seroti- na formanti il 3° Strato lett. c. In questo strato si osservano pure i vasi utero-placentari lett. e, alcuni già dilatati lett. f, segnano l’ ectasia iniziale per la formazione delle lacune. Colla lett. d, sono indicati i globuli bianchi che sono in grande co- pia infiltrati fra le fibro-cellule musculari dell’ utero e le cellule della serotina. I fatti anatomici indicati con questa figura si dimostrano con maggiore evidenza nella seguente. 414 G. B. ERCOLANI Fig. 3. Sezione trasversa di utero di donna con gravidanza extraute- rina tubaria datante da circa cinque mesi veduta al predetto ingrandimento. a. Porzione del tessuto muscolo-vascolare dell’ utero. 1° Strato. b. Ciechi fondi delle glandole otricolari dilatate e deformate in d'': formano esse come un trabecolato a larghe maglie; in alcuni bordi interni soltanto di questi sepimeuti si hanno ancora trac- cie dell’ epitelio delle glandole in via di disfacimento. Da questo trabecolato che ha diversa altezza 2° Strato, e dalle parti che gli sono subito sovraposte è rappresentato l’ antico strato mu- scolo-glandulare notevolmente deformato e che costituisce il substratum della così detta decidua uterina nei casi di gravi- danza extrauterina. g. Escrescenza come poliposa e pedunculata del 3° strato che è formata dagli elementi della serotina derivati dallo strato mu- scolo-glandulare come si è veduto così profondamente mutato ; colla lett. e, sono indicati alcuni vasi utero-placentari con trom- bosi; colla lett. f, altri dei predetti con ectasia indicanti il processo formativo delle lacune; in d sono rappresentate le antiche cellule fibro-musculari ipertrofiche e le cellule della se- rotina in mezzo ai quali elementi si scorgono pure numerosi globuli bianchi infiltrati, molti dei quali sono già trasformati in cellule della serotina, ed altri sono in via di trasformazione. G.B Ercolani. Pai aa; ROERO “agi: I ET E sin Sie a Pr agi aut FOLLIA Eaze di gt eda dat ___ Bologna Lit.G Wexk. OSSERVAZIONI ADDIZIONALI INTORNO ALLA BREVITÀ DEL FEMORE DI AEPYORNIS DEL PROF. GIAN GIUSEPPE BIANCONI (Lette nella Sessione 6 Marzo 1873) Duo motivi mi inducono a tornare oggi sull’argomento dell’ Ae- pyornis, del quale già da parecchi anni ho trattenuto questa illustre Accademia. Il primo si è di convalidare con qualche osservazione di più la congettura che esposi sul finire della Memoria dello scorso anno: congettura che riguarda la brevità e la grossezza del femore di quel grande uccello. Il secondo poi è di tenere informata questa stessa Ac- cademia dei progressi che va facendo la questione se il grande uccello di Madagascar, 1’ Aepyornis, fosse un corridore o Struzionide, ovvero se fosse un immenso Avvoltoio; adducendo al tempo stesso le tradi- zioni storiche riferentesi a questo uccello, e che sono testè venute alla luce in Inghilterra, ed in Francia. Allorchè nello scorso anno io parlai della notevolissima brevità e grossezza del femore di Aepyornis io mi espressi con molta peritan- za quando esposi che supponeva tali qualità derivare dalla mole del corpo di quel colosso che fu l’ Aepyornis, e non già essere punto un carattere di comune famiglia coi Dinornis e collo Struzzo: coi quali per altro ha per questo titolo sì grandi somiglianze. Cercai bensì di appoggiare quel supposto coll’ esame di quanto si incontra anche nei Mammiferi maggiori. Ma la novità del soggetto, e diciamo anco- ra, l’ arduità per me di avventurarmi in un campo di meccanica ani- male, mi lasciava dubbio se io posassi il piede abbastanza in sicu- ro. Àmai quindi tornarvi sopra; e mi fu sin dapprima gradita conferma 416 GIAN GIUSEPPE BIANCONI delle mie idee, quello che io, aliud agens, m° imbattei a leggere nei celebri Dialoghi del Galileo (p. 483. T. 2°); il quale così si esprime, » Chi non vede, come un cavallo cadendo da una altezza di tre braccia, o quattro si romperà l’ ossa, ma un cane da una tale, e un gatto da una di otto o dieci non si farà mal nessuno, come nè un grillo da una torre, nè una formica precipitandosi dall’ orbe lunare ?... Così la natura non potrebbe fare un cavallo grande per venti ca- valli, nè un gigante dieci volte più grande di un uomo, se non o miracolosamente, o coll’ alterare assai le proporzioni delle membra, ed in particolare delle ossa, ingrossandole molto, e molto sopra la sim- metria delle ossa comuni. Il credere parimenti che nelle macchine ar- tificiali ugualmente siano fattibili e conservabili le grandissime e le piccole è errore manifesto. , Al leggere queste, pel certo rispettabili ed autorevoli parole, io trovai avvalorata la mia congettura; e compresi che era dunque mec- canicamente vero che il femore sottile e lungo del Moschus pygm@us, non poteva essere ingrandito sino a venire proporzionato alla grandezza di quello del bue conservando le forme che sono proprie alla picco- lezza di quel minimo ruminante. Seguendo infatti questa semplice pro- gressione si avrebbe un femore assai lungo e sottile. Spiegherò meglio coll’ aiuto delle figure li computi fatti per met- tere in luce queste differenze. 1.° Il femore del Moschus pygm@us è compreso tre volte e mezzo nell’ asse di quest’ animale preso dall’ occipite alla origine del coccige. Un femore di bue che stesse compreso tre volte e mezzo nell’ asse vertebrale bovino, dall’ occipite al coccige, che è lungo almeno due metri, sarebbe un femore non minore di 60 cent., mentre il reale ne ha soli 40. Avrebbesi dunque un femore lungo una metà di più. 2.° La fig. 2 ‘ella Tav. I. mostra il femore bovino ridotto ad un quinto, mentre l’ altro fig. 1 è il femore di Moschus grandezza natu- rale. Viene dimostrato così come sotto la medesima statura sia mag- giore la corpulenza, e la robustezza del femore bovino. 3.° La fig. 3, è il femore di bue ridotto alla grandezza di quattro quinti del naturale, e la fig. 4, è quello del Moschus pygm@eus am- pliato in tutte le sue dimensioni a quattro volte. Sono allora entrambi eguali in lunghezza; ma ove siano sovrapposte le due figure esse mostrano quanto più debole sarebbe il femore bovino, se fosse sem- plicemente un ampliamento proporzionale del femore di Moschus. DEL FEMORE DI AEPYORNIS 417 Conviene dunque dire che con forme che fossero un solo am- pliamento di un femore di Moschus, il femore di bue non sarebbe bastante alla mole del bue, se natura glielo ha dato più corto di un terzo, e più grosso di un quinto. La legge esposta da Galileo trova pertanto piena conferma nel riscontro che esposi nello scorso anno, e che ora ho qui più partico- lareggiato, tra il femore di Moschus, e quello di bue; abbenchè siano due esseri di un solo tipo, e di uno dei tipi meglio definiti, e più naturali della classe. Per quella legge ne segue che la robustezza di un femore o meglio le sue dimensioni (poichè le dimensioni ponno qui essere sino a certo punto le rappresentanti della robustezza) devono essere differentemente applicate per un piccolo animale, ovvero per un grande. Salve però sempre quelle forme fondamentali che sono comuni e stabili in tutto il tipo o gruppo quali le forme delle troclee, delle creste, dell’ asse del condilo ecc.; talchè infine ecco ciò che si avrebbe come effettivamente si ha. Pel gruppo p. e. dei Ruminanti si avrebbe un femore di ruminante lungo e sottile nel Moschus pygmeus, ed un femore di ruminante ma corto e grosso, nel bue. Ma pur sempre in ambo i casi sarebbe un femore di ruminante. Io ho limitato il mio discorso al Femore, perchè esso è il punto di riscontro coll’ osso in questione dell’ Aepyorris. Ma lo è pure per un’ altra ragione; e cioè perchè il femore, e più anche l’omero offro- no il carattere di brevità e grossezza più spiccato che forse non si vegga in altre ossa dello scheletro. Ora quando si considerino queste due ossa nei quadrupedi; e si consideri il solo femore negli uccelli, emerge allora la ragione per la quale questi elementi primari dello scheletro di animali ambulatori, abbiano sentite in grado supremo la influenza delle cause modificatrici. Ognuno sa come il peso del corpo di un quadrupede ambulatore graviti durante l’azione della corsa e del salto alternativamente sopra due delle quattro estremità. Sarà p. e. sopra il femore di destra, e sull’ omero di sinistra. Il femore e l’ omero sono li due primi pezzi delle colonne di sostentazione; ed è affidato alla loro robustezza il so- stenere ciascuno la metà del peso dell’ animale. Ma quando si osservi come queste ossa siano collocate per l’ atto di reggere al peso sovra- incombente, si vede che non sono punto favorevolmente disposte per offrire la maggior resistenza. Un osso lungo, od un’ asta qualsiasi gode di una forza che direbbesi quasi illimitata se per l’ azione di resistere TOMO IV. 53 418 GIAN GIUSEPPE BIANCONI sia posta verticalmente, ossia se lo sforzo si eserciti secondo la sua lunghezza; ma di molto scema quella possanza se l’ osso o l’asta tro- vinsi obliqui relativamente alla direzione dello sforzo che devono sop- portare. Il femore ed omero del bue, del cavallo, del rinoceronte, del cane ecc. è collocato obbliquamente così che abbia una inclinazione di circa 40, a 45 gradi relativamente all’ asse longitudinale dell’ animale. Di più il peso insiste sulla testa superiore dell’ osso; ed il punto di appoggio è sul capo articolare della tibia; punti collocati assai remoti uno dall’ altro. Per questa disposizione il femore od omero sono espo- sti a dovere resistere ad uno sforzo assai violento. Tale collocamento dei pezzi componenti le estremità ambulatorie, in senso obbliquo, è una posizione abituale imposta dalla necessità del meccanismo dell’arto di questi animali. Egli è necessario che ossa lun- ghe formino reciprocamente angoli fra loro, affinchè coll’ ufficio delle corde musculari possa sempre essere pronto, e come dicesi montato un istrumento di slancio per servizio dell’ animale; istrumento che agisce col rapido aprirsi degli angoli semichiusi. Se vi era però necessità di porre femore ed omero obbliqui, è pure effetto di questa costruzione il concentrarsi su quelle ossa uno sforzo assai grande. Laonde emerge chiaro il bisogno di robustezza in essi, e cioè di brevità e di grossezza. La quale è appunto tanto maggiore, quanto maggiore è la mole del corpo che sovraincombe; sicchè nell’ Ippopotamo, e nel Rinoceronte, come già avvertii nello scorso anno, sì il femore che l’ omero sono di massima grossezza e di massima brevità. L’ omero di Megaterio ha persino proporzioni tan- to raccolte, che la lunghezza sua non è che due volte la sua larghezza. A conferma di queste osservazioni un’altra si presenta. È mani- festo che le estremità anteriori e posteriori del bue non sono tutte egualmente gravate dal peso. Imperocchè le anteriori oltre essere cari- cate di una porzione del corpo al pari delle posteriori, si aggiugne per esse di più il peso del collo e della testa. Le quali parti, specialmente nel chiudersi il salto, aggravano in modo speciale gli arti anteriori. Forse è per questa ragione che l’ omero nei grandi animali è sempre più robusto del femore, ed è più corto di esso. Se io non ho preso abbaglio, conchiuderebbesi dalle cose dette che la brevità e grossezza del femore, e dell’ omero stanno in ragione del peso che debbono sopportare. Quindi grosse e brevi queste ossa nei grandi colossi quali l’ ippopotamo, il rinoceronte, il cavallo, il DEL FEMORE DI AEPYORNIS 419 camelo, il bue, la giraffa ece. fra i mammiferi : e quindi parimenti nei Dinornis e nell’ Aepyornis fra gli uccelli. Intanto però queste forme sì raccolte e robuste sarebbero, dopo le cose or dette, tali per conseguenza della mole dell’ animale, non già come caratteristiche di un tipo o di una famiglia; nè varrebbero a Gimostrare una affinità fra gli animali che di esse fossero distinti. Infatti non v’ ha affinità, nemmeno di ordine, fra il bue e 1’ ippopo- tamo, come neanche fra la giraffa ed il rinoceronte. Fra gli esempi di animali colossali da me recati, io non ho mai nominato l’ Elefante, che pure entrava nel novero degli animali grandi e pesanti. La ragione per cui 1’ ho escluso è semplicissima. Si è per- chè questo colosso della fauna vivente ha il femore lunghissimo. Come mai questa defezione alla regola or ora esposta ? Basta dare uno sguardo allo scheletro dell’ elefante per accorgersi della differenza di costruzione che passa fra questo animale, e gli altri sopranominati. Qui il femore non è punto obbliquo. Esso stà abitual- mente diritto, piantato verticalmente sulla tibia. Lo sforzo che deve sostenere per la massa enorme del corpo di questo gigante, si esercita verticalmente, ossia nella direzione della lunghezza dell’ osso stesso. Questa disposizione del femore sulla tibia è abnorme da quella ordina- ria vigente negli altri quadrupedi, ed essa si manifesta ancora all’ ester- no coll’andatura sì impacciata, lenta, ed obesa che offre questo animale quando cammina. Le sue estremità posteriori sembrano due pilieri per sostenere il gran corpo, ma mancano presso che affatto degli angoli fra i pezzi crurali, e quindi son privi d’ogni slancio nel loro esercizio. Il qual fatto non elude punto la legge indicata da Galileo, nè distrugge 1’ applicazione fattane colle cose dette qui sopra. La verità verrebbe distrutta solo allorquando il femore di elefante fosse lungo qual è, e ad un tempo obbliquo. io del resto non conosco altra ecce- zione fuori di questa dell’ elefante, e dei suoi congeneri li Mastodonti. Tornando ora ad avvicinarmi col discorso all’ Aepyornis farò primamente notare che quanto si è detto in proposito del femore dei mammiferi giganteschi, conviene del pari pei grandissimi uccelli. Infatti il femore è assai obbliquo in tutti gli uccelli per le stesse cause sovraccennate, di avere cioè un meccanismo che ponendo li pezzi crurali in rapporti reciproci da costituire angoli, essendo pre- sente sempre l’ apparecchio musculare per aprirli, si abbia una molla sempre montata sicchè l’ uccello all’ istante che sia sorpreso si slanci 420 GIAN GIUSEPPE BIANCONI al salto, e spicchi il volo. Oltredichè è a considerare che se nei qua- drupedi il peso è ripartito, meno poche eccezioni, sulle quattro estre- mità, negli uccelli per contrario il peso, qualunque siasi, del loro corpo tutto si concentra, quando sono a terra, sopra le due sole estremità posteriori. Può aversi un’ idea della obbliquità del femore dalle Tav. 1, 11, 21, del Prof. A. Milne Edwards (1) e dalle Tavole 46 e 47 dei Prof. Owen (2) rappresentanti lo scheletro ricomposto del Dinorwnis clephantopus, dalle quali si vede che lo sforzo che è affidato al fe- more è massimo in tutti i casi ne’ quali l’ uccello fa punto di appog- gio sulla terra. To tengo quindi, se vere sono le cose esposte, che il femore corto e grossissimo dell’ Aepyornis sia tale per la sola ragione di dovere of- frire immensa forza e robustezza affine di sostenere il corpo, e spo- starlo da terra durante il salto, e non abbia punto que’ due carat- teri di brevità e di grossezza per appartenere esso alla famiglia dei Brevipenni. Essendo stato l’.Aepyornis un colosso come li Dinornis, lo Struzzo ecc. e come il Megatherium ed il Rinoceronte ecc., esso ha il femore sì corto e sì grosso per una ragione comune a tutti, quella cioè di dover possedere un femore di robustezza, e quindi di forza propor- zionata agli sforzi a’ quali è esposto. Un'altra ragione tutta speciale all’ Aepyornis si è che il suo fe- more era pervio all’ aria, ed il suo interno è penetrato da cavernosità aerifere; sicchè il volume di questo veniva necessariamente ampliato. Questa pneumaticità non è nel Dinornis, che ha il suo femore com- patto e assai più smilzo; ma tale qualità, l'essere penetrato dall’aria, sia detto di passaggio, è propria di un uccello volatore; benchè ne goda lo struzzo per ragioni che non è quì uopo di svolgere. Prima di abbandonare il discorso del femore mi sia permesso di far ritorno per un istante sopra un punto già toccato in addietro circa la quasi eguaglianza dei due condili inferiori del femore di Aepyornis. vvertii allora come nei Falchi, nei Vulturidi e nell’ Aepyormis li due condili siano subeguali per guisa che il femore posto su suoi condili rimane diritto e pressochè verticale, mentre per contrario li femori dello Struzzo del Dromaius, dei Dinornis hanno li condili di (1) Oiseaux fossiles de la France 1867 et s. (2) Transactions of the Zoolog. Soc. of London. Vol. IV. DEL FEMORE DI AEPYORNIS 42I seguali così che posando sovra essi il femore, questo è obbliquo e sommamente inclinato all’ indentro. Ora mi è opportuno aggiugnere che in generale il femore degli uccelli abbandonando la pelvi volge all’ innanzi, ed alquanto all’ infuori in modo da non incontrarsi colla convessità del torace. Nei Falchi, nei Vulturidi, ed in gran numero delle altre famiglie il femore così diretto all’ innanzi va a posare colla sua estremità inferiore sulla tibia che rimane anteriore, mercè de’ suoi condili subeguali. Ma negli Struzzi e nei Dinornis le cose sono diversamente poste. Il lor bacino è sì ristretto che le due teste articolari superiori delli femori son vicinis- sime fra loro, e per opposto la tibia che deve insistere verticale sui due piedi necessariamente distanti, rimane tutta esterna. Il femore deve percorrere lo spazio interpvsto fra il bacino e la testa della tibia, ed unire quei due punti remoti; per cui essendo assai corto s’ inclina bensì alquanto all’ innanzi ma molto ancora si getta all’ infuori ( Veg- gansi le Tavole del Prof. Owen citate). La testa sua inferiore posa quindi sulla tibia obbliquamente così che il condilo interno rimane assai corto e piccolo, mentre l’esterno per raggiugnere il piano della tibia deve acquistare molto in lunghezza e molto in grossezza. Nei Vulturidi il bacino essendo più largo, il femore è obbligato a minore divaricazione, e li condili inferiori funzionano essendo subeguali. Da questa considerazione segue la necessità di due condili inegua- lissimi negli Struzionidi, e la quasi eguaglianza nei volatori. Per chi ben rifletta basta questo argomento, anche da solo, per dimostrare che l’ Aepyornis non era uno struzionide. TRADIZIONI STORICHE Venendo ora al secondo punto recherò alcune tradizioni storiche raccolte in Inghilterra ed in Francia sopra un immenso uccello vo- latore. Nel corso di quest’ anno è venuta alla luce una nuova edizione dei Viaggi di Marco Polo, pubblicata in Londra per cura e studio del capitano Yule. Questo infaticabile ricercatore ha corredato li due bei volumi del suo lavoro con illustrazioni che sorprendono per la co- pia, per la diligenza e pel discernimento col quale 1’ Autore le ha 4992 GIAN GIUSEPPE BIANCONI scelte ed adunate. Fra tanti argomenti in esso discussi non poteva mancare il capitolo riguardante il Ruch. Egli pone in fronte al secondo volume una bella figura dell’ uovo di Aepyornis che si custodisce a Londra, e vi riferisce quindi le due opinioni sull’ Aepyorniîs, quella cioè che lo giudica uno Struzzo, e quella che è stata difesa entro quest’ Accademia, che cioè sia stato un vero Avvoltoio quale fu descrit- to da Marco Polo sotto nome di Ruch. Il Sig. Yule dice però di seguire l’ opinione del Geoffroy St. Hi- laire, del Milne Edwards, e dell’ Owen, cioè che l’Aepyornis fosse uno Struzionide. Bene stà. La questione così si mantiene più viva. La migliore memoria che egli adduce è quella che io già riferii due anni addietro del Bolivar conservataci dal Ludolf. Non mi è quindi necessario di ripeterla. Appresso egli trae dalla Enciclopedia giapponese la notizia che nella contrada di Tsengseu nel Sud-Owest dell’ Oceano v'è un uccello chiamato pheng, sì grande che eclissa il sole, e può divorarsi un Camelo. Li gusci del suo uovo sono usati per vasi da acqua. L'autore reputa che il nome Tsengseu corrisponda al Zanzibar, cioè ai luoghi stessi indicati e dal Bolivar ed anche da Marco Polo come i luoghi di abitazione del Ruch. Del pari la espressione che il sole veniva oscurato dall’ uccello quando volava, o che sembrava una nube quando era in alto, è quella medesima che fu narrata al Sig. d’ Abbadie nel Madagascar. Que’ Madecassi medesimi che così a lui narravano, usavano que’ gusci di Aepyornis come vasi da acqua. Trae poi dal Bochart (Hieroz. II. p. 854) che un mercante ar- rivato in Barberia dopo avere dimorato lungamente fra’ Chinesi, seco aveva la radice di una penna di un uccello chiamato Ruch che con- teneva nove misure (skins) di acqua. Se l’opera inglese ha portato qualche contributo alla questione dell’ Aepyornis e d:"! uccello Ruch, 1° Accademia delle Scienze di Fran- cia ci ha fatto conoscere altre relazioni di maggiore importanza. Un distinto orientalista francese il Sig. Marcel Device in un arti» colo comunicato all’ Accademia agli ultimi del caduto anno (1) riferi- sce vari passaggi di uno Scrittore arabo del X secolo relativo all’ uc- (1) Comptes rendus. 23 Dec. 1872. Sur quelques passages d'un écrivain arabe du X. siecle, relatifs aux ociseaua gigantesques de l’ Afrique sud- orientate. DEL FEMORE DI AEPYORNIS 423 cello gigantesco dell’Africa sud-orientale. Lo Scrittore arabo entra a parlare replicatamente dell’ argomento di quell’ uccello gigante: eccone alcuni tratti. s Nei paraggi di Sofala e di Caffreria, dice lo Scrittore arabo, uno dei più famosi capitani di mare che vanno al paese dell’ oro, ha ve- duto prendere un uccello gigantesco del quale egli ha obliato il nome. Questo mostro alato aveva preso e messo a pezzi un elefante, e ne aveva di già mangiato un quarto allorquando si giunse ad ucciderlo col mezzo di frecce avvelenate. , » H Re di quei Negri ordinò di levare le penne delle ali: delle grandi ne erano dodici, cioè sei a ciascun ala. Si presero ancora altre penne, il becco ed una parte delle grinfe. Una delle penne essendo stata tagliata si vide che il suo tubo, o canna poteva contenere due otri d’ acqua e più. , In qualche altro luogo, lo Scrittore arabo parla di piume gigan- tesche, ma senza alcuna menzione dell’ uccello che le aveva fornite. Eccone un passo. , Un marinaio del paese di Zindis (Zanguebar) così mi ha parlato: la più grande penna d'’ uccello ch’ io abbia visto è una il cui tubo era lungo due aune, e giudicai che potesse conte- nere un otre d’acqua. , Citiamo ancora, prosegue il Sig. M. Devic altri tubi di penne. Ecco le parole dello Scrittore arabo: , Un viaggiatore vedendo presso un uomo un oggetto che non potè conoscere, gli chiese che fosse: È un tubo di penna, rispose l’ uomo. Io non volli prestar fede sintantochè avendo io raschiato l’ interno, e l'esterno di quel tubo lo trovai translucido, e che portava ancora sui lati delle tracce delle barbe. , In appresso avendo io pregato per lettera il Sig. M. Devic di volermi comunicare qualche altro passo del medesimo Scrittore arabo, al quale egli si riferiva nel citato articolo, ebbe la compiacenza di trascrivermi li seguenti. » Una nave andando da Bassora al Zabedj fece naufragio in un isola che non è distinta con nome particolare. Gli abitanti erano an- tropofagi. Io vidi in quest’ isola, racconta uno dei naufraghi, uccelli grandi come Elefanti, o come Bufali poco più, poco meno. E questi uccelli divoravano le pecore. Perciò li pastori ed il loro gregge pas- savano la notte in una specie di luogo fortificato, formato di grossi tronchi d’ albero, in un bosco fitto, nel quale quegli uccelli non osa- vano innoltrarsi.... , ecc. 424 GIAN GIUSEPPE BIANCONI , Abou'l-Hacan Ali, di Siràf, mi ha fatto il racconto seguente. — Una persona di Chiraz mi ha narrato che un villaggio poco di- scosto da Chiraz era diventato deserto pel fatto di un uccello. Come avvenne ciò mai? io gli chiesi. Egli mi rispose: un uccello enorme cadde un giorno sopra il tetto di una casa del villaggio. Esso sfondò il tetto e cadde sul pian terreno. Coloro che vi erano fuggirono ur- lando. Radunaronsi allora le genti del villaggio, entrarono nella casa e trovarono che l’ uccello la riempiva stante la grossezza del suo corpo. Essi non riuscirono ad impadronirsene che ammazzandolo a forza di colpi. Ma esso era di già molto indebolito ed incapace di ri- prendere il volo. Essendosene impadroniti lo sgozzarono (come deve fare ogni musulmano per un animale del quale voglia cibarsi) e lo tagliarono a pezzi nella casa. Essi si spartirono la sua carne, e ve n’ ebbero settanta ro#/s (1) per ciascun abitante del villaggio, o a un dipresso. Di più ne furono riservati in circa cento rotfs pel capo del villaggio che era assente con alcuni uomini. Li Paesani fecero cuocere la carne in quella sera e la mangiarono colle loro famiglie. L°indo- mani mattina erano tutti ammalati. Essendo tornato il Quakil, o capo del villaggio, ed avendo appreso ciò che era accaduto, ricusò la carne riservata per lui e pe’ suoi uomini. Dopo quattro o cinque giorni tutti quelli che ne avevano mangiato erano morti niuno eccettuato. L’ Quakil se ne allontanò, ed il paese restò disabitato —. Mi sembrò, aggiugne il narratore, che quell’ uccello fosse dell’ India, e che avesse mangiato qual- che bestia avvelenata il cui sangue attossicato I’ avesse indebolito, e fatto cadere su quella casa ,. Ommetto di riferire altri passi. di minor momento aggiunti dal Letterato francese nel suo citato articolo; ma egli chiude la sua rela- zione colle seguenti parole , Tutti questi passi dello Scrittore arabo, ed altri ch'io potrei aggiungere non somministreranno senza dubbio alcun nuovo argomento al Bianconi per classificare 1’ Aepyornis fra gli uccelli di rapina, nè al Sig. A. Milne Edwards per farne un corridore; ma questi passi sembrano provare che quegli uccelli non erano asso- lutamente rari al IX e X secolo nelle regioni di Madagascar ,. Lungi però dal mancare quelle tradizioni di importanza per una delle due opinioni, è chiaro che anzi ne hanno moltissima per quanto (1) Il rotis è un peso di dodici once circa, come dicono li dizionari. DEI FEMORE DI AEPYORNIS 4925 di fede esse meritano. Infatti se è pur vero che penne sì gigantesche sono state vedute, l’ uccello cui esse appartennero non era, nè poteva essere un corridore, o Struzionide, ma bensì un gran volatore. Sup- poste adunque, ripeterò, veritiere quelle relazioni, esse appoggiano la opinione che le ossa dell’ Aepyornis fossero ossa del Ruch descritto da Marco Polo; e per contrario distruggono |’ altra, che dice 1° ossa sco- perte a Madagascar essere ossa di un Brevipenne. Quanto alle misure di capacità del tubo variamente indicata dagli scrittori, 10 ho veduto assai difficile il potere pervenire a qualche ragio- nevole supposizione. Anzi non ho neanche reputato approssimativamente attendibile un risultato di un calcolo sulla base delle misure sommini- strate dal Bolivar, che indicherebbe una capacità di oltre a tre litri d’acqua. Ed è pur verosimile che le misure gigantesche date per penne da volo, delle quali non sì ha esempio nella natura vivente senonchè nelle penne del Condor, le quali sono sì piccole a fronte di quelle del Ruch, dessero luogo ad una capacità del tubo superiore di quella che abbiamo or quì supposta. Come appendice che non manca di legame colle cose discorse ri- ferirò che recentemente il Dott. Haast ha scoperto alla N. Zelanda ossa di un rapace assai grande che egli ha chiamato Harpagornis. ]l Prot. A. Milne Edwards ha favorito di mandarmi di quelle ossa li di- segni. L’ osso maggiore rappresenta il femore; e quantunque esso sia il più grande dei femori di rapace conosciuti, pure apparisce minimo a fronte del femore di Aepyornis. Per questa inferiorità, come per la piccolezza delle falangi ungueali si comprende che le penne descritte dal Bolivar, e dall’ Anonimo arabo, non potevano mai appartenere al- Y Harpagornis. Il femore di questo nuovo uccello di rapina mi offre il destro di fare una osservazione che torna a conferma delle illazioni già trat- te nelle precedenti Memorie. Io aveva notato che l’ area di unione fra il condilo femorale superiore, ed il gran trocantere era profondamente incavata nei Brevipenni, e piana e continua nei Rapaci. Ora il femore deli’ Harpagornis offre 1’ area piana quanto altra mai; come quella dell’ Aepyornis parimenti era, per le cose già dette altrove, non inca- vata, ma piana. TOMO IV. 54 prio: 4 » si (ih taria SA INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS MEMORIA DEL PROF, GIAN GIUSEPPE BIANCONI (Letta nella Sessione 29 Gennaio 1874 ) Unici avanzi dello scheletro di Aepyornis, già illustrati dal Milne Edwards, ma che io non ho ancora studiati, sono due vertebre, una dorsale ed una cervicale ch’ egli ha figurato nelle Tavole 26, 27, 28 del suo maggior lavoro sull’ Aepyornis. Il motivo pel quale io ne aveva dilazionato l’ esame, si fu che ho sempre sperato di ottenerne li modelli. Li chiesi già al Naturalista francese, il quale sì gentilmente mi aveva forniti quelli del Femore, e della Tibia; ma significandomi egli ultimamente essere quasi impossibile trarne le copie stante la fra- gilità estrema dei due oggetti, non ho voluto trascurare di mettere a profitto il poco che era in mie mani, vale a dire le figure citate, che ho ragione di credere assai fedeli, e la breve descrizione data dallo stesso Prof. Milne Edwards (1). Benchè conosca la somma dif- ficoltà di istituire confronti di tal natura sopra le semplici figure, pure ho creduto che infine qualche cosa avrei dovuto raccogliere, attesochè le differenze fra le vertebre di uno Struzionide, e quelle di un Vulturide sono sì grandi, che debbono avere lasciato qualche vestigio, e qualche cosa di distinto anche sulle figure. Nè, io credo, m’ingannai. (1) Per gentilezza del medesimo Naturalista francese ho ricevuto, pendente la stampa della presente Memoria, ancora le fotografie delle due vertebre. 428 GIAN GIUSEPPE BIANCONI Il problema delle affinità ‘ornitologiche dell’ Aevyornis è ormai circoscritto. Non è più possibile studiare le sue ossa che in compara- zione di quelle di un Brevipenne, ovvero di un Vulturide. Gli altri tipi sono esclusi. To ho quindi compulsate fra loro le vertebre di quei due tipi della Fauna vivente, e poscia le ho comparate colle fossili. Ii risultato di queste ricerche è il soggetto della presente lettura. VERTEBRA CERVICALE La vertebra cervicale di Aepyornis esistente nel Museo di Parigi è, delle due, quella che è alquanto meglio conservata, ed è rappresen- tata dal Sig. Milne Edwards nella sua Tavola 26, e ripetuta nella Tav. II fig. 1. che accompagna questa Memoria. Affine di premettere la comparazione fra gli oggetti appartenenti alla Fauna vivente, ho collazionato assieme una vertebra di Dromadus ed una di Struzzo con una corrispondente di Condor. La vertebra di Dromaius è lunga, stretta, subquadrata (Tav. II. fig. 2), l’altra corta e larga assai anteriormente (Tav. II. fig. 3). Prendendo la lunghezza del.corpo della vertebra di Dromaius nel suo piano inferiore si ha una misura «di 0,047, mentre la massima sua larghezza alla parte ante- riore è di 0,035. Dunque è assai più lunga che larga. Così nello Struzzo alla quinta vertebra si ha la lunghezza del piano 0,060, e la larghezza massima 0, 040. Queste stesse misure prese sulla vertebra di Condor danno, pel piano inferiore 0, 028, e per la massima larghezza anteriore 0,048. Lo che equivale a dire che nel Dromaius la lunghezza supera la larghezza come 47 sopra 35; e nel Condor la lunghezza è inferiore alla larghezza come 28 a 48. È dunque sensibilissima la differenza fra li due ordini di vertebre; lunghe e strette nei Brevipenni, corte e larghissime nei Vulturidi. Non è possibile definire con rigore le misure, e le proporzioni sulla vertebra cervicale di Aepyornis, perchè ne è gravemente danneg- giata la parte anteriore. Tuttavia ho potuto istituire le seguenti mi- sure che stimo siano al coperto da errori. Niuno potrebbe per certo ardire di supplire arbitrariamente le parti che mancano, allo scopo di istituirvi sopra dei calcoli; ma si è bene in diritto di completare una qualche parte la cui figura sia de- INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 429 terminata e conosciuta. Esistono sulla testa anteriore della vertebra cervicale di Dromaius, come di Condor tre grandi fori (Tav. II. fig. 4, 5) uno mediano superiore, cioè il foro vertebrale, o midollare, e due laterali, un po’ più in basso, li fori cioè per passaggio di vasi, e di nervi. La figura di questi ultimi è a un dipresso circolare, e ciò lo è tanto nei Brevipenni, Dromaius, Struthio, Dinornis quanto nei Vul- turidi. — Ora nella vertebra di Aepyornis, Tav. II. fig. 1, vedesi una parte del perimetro interno di detti due fori. Col disegno io posso ragionevolmente completare que’ due circoli, e utilizzare questi due elementi per ottenere una misura della larghezza della testa an- teriore della vertebra, che sarà sempre una misura inferiore al vero, giacchè mancano li due processi accessori bd, fig. 3, 4, Tav. II — Misurando tuttavia la larghezza offerta dai due lembi esterni della parte anteriore della vertebra io ottengo una misura di 0,09 men- tre per la lunghezza del piano inferiore spatuliforme (V. Milne Edwards, PI. 26, fig. 4) si ha 0, 07. — Dunque la vertebra di Aepyornis era, per questi soli calcoli larga e corta, e quindi lontana dalle proporzioni delle vertebre di Brevipenni che sono lunghe e ri- strette. (1). Quantunque nelli due tipi viventi, che ho citato, le vertebre cer- vicali vario alquanto nelle due dimensioni a seconda del posto che occupano, si può dire però in termini generali che le vertebre dei Brevipenni hanno il diametro trasverso minore del longitudinale preso sul piano inferiore del corpo vertebrale, e che quelle del Condor e deli’ Aepyornis hanno il diametro trasverso maggiore del longitudinale. (1) Queste stesse misure, tolte cioè dal lembo esterno del perimetro dei due fori vascolo-nervosi, comparate colla lunghezza del piano inferiore nei Brevipenni e nei Vulturidi danno per risultato distanza dei fori lunghezza Dromalustar ei VERO 0, 046 Condor {6* vertebra cervicale)... . . OOO en 0, 027 INCONOLIISWRI Ne N ER IR MRO A E MAE 0, 07 Quindi la vertebra del Dromaius può dirsi stretta e lunga: quella del Condor sì lunga che larga; e quella dell’ Aepyornis larghissima. Se per abbandonare ogni valutazione ipotetica, ed attenersi al reale pia- cesse meglio istituire queste misure sulla semplice distanza dei due lembi in- 430 GIAN GIUSEPPE BIANCONI Ho già superiormente notato che qualora si osserva di fronte la testa anteriore di una vertebra cervicale, per esempio di Condor Tav. II. fig. 4, si veggono tre fori, il vertebrale mediano, e li due tubi late- rali. La stessa cosa si osserva nella vertebra dello Struzzo, del Dro- maius ecc. ma in quest’ ultima si vede ancora un altro foro sovrap- posto al tubo mediano, e più altre due imboccature di cavità ossee laterali che posano sui fianchi del mediano (Tav. II fig. 5). Il dorso pertanto della vertebra cervicale di un Dromaius è rigonfio e convesso per questa addizione di borse ossee, Tav. II. fig. 2 le quali procedono in addietro aprendosi il più di sovente in una cavità grande ed ovale anche posteriormente, e quivi assai espansa dalla quale partono le due apofisi articolari superiori. Ne segue che il dorso di tali vertebre non è formato dalle pareti del tubo midollare, ma bensì dalle convessità delle borse addizionali ossee qui descritte, cioè dalla mediana superiore e dalle due laterali. Quindi la vertebra di Dromaius veduta di fronte offre sei imboccature, mentre quella dei Vulturidi ne offre soltanto tre. Questa organizzazione dà una fisonomia marcatissima alle vertebre cervicali dei Dromadius. Il dorso di una vertebra cervicale di uno Struzzo (la sesta discen- dendo ) presenta caratteri altrettanto cospicui, ma differenti dalli de- scritti pel Dromaius. Osservata dal dissopra essa ha una conformazio- ne che offre l’ aspetto della lettera X., le cui quattro braccia subeguali per lunghezza e per divaricazione costituiscono le quattro apofisi arti- terni, allora comparando questa distanza colla lunghezza del piano inferiore delle vertebre dei vari tipi si perviene al risultato seguente. distanza dei fori lunghezza del piano MD OMISSIS 00 REA Re 01046, SILUZZOLE RI ARA0AO 0 RR RI 0, 062 DI ORIISII NE CNS AO 02 I VO 0, 062 DIROENISIGITANtOUSTA ORO 0, 079 CONTO EOLO LI MIRATO N00 0 0, 027 e PRA ATTI A 0040 Re I IROROZO. Lo che conferma essere le vertebre dei Brevipenni lunghe e strette, e quelle dei Vulturìdi, e dell’ Aepyornis corte e larghe; essendochè ne’ primi la lar- ghezza è sempre minore della metà della lunghezza; e ne’ secondi è uguale, o assai maggiore. INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 431 colari, due anteriori, e due posteriori (Tav. II. fig. 6). Una cresta longitudinale si stende sul mezzo del dorso per più o meno grande tratto della lunghezza; mentre in quelle altre vertebre prossime alla regione dorsale la cresta assume piuttosto il carattere di un tubercolo poste- riormente incavato. La cresta divide il piano su cui posa in due lati i margini dei quali sono concavi, ed essi stessi leggermente incavati. Anche la parte anteriore, quando non vi sia la carena, è piatta, ed i suoi lati non discendono che pochissimo declivi; perchè tutta la fac- cia superiore serbasi più come un piano, di quello che si disponga a dare al dorso della vertebra una forma rotonda o di cilindro. Ma è un’altra fisonomia affatto diversa quella che offrono le vertebre dei Vulturidi. In esse il dorso è formato unicamente dalle pareti del foro vertebrale, o tubo midollare. Manca l’ apparecchio tu- bulare addizionale del Dromaius, e la carena longitudinale retta dello Struzzo. Rimane il solo tubo midollare a costituire il giro della ver- tebra smilzo, e sottile. Il suo dorso è anteriormente liscio, e spoglio d’ ogni parte addizionale; è declive fortemente verso li due lati; poi sulla metà posteriore è sormontato da una cresta che tosto si biforca, e i cui rami hanno direzione angolosa e si gettano sui lati, e si pro- tendono spesso tubercolati sulla radice delle due apofisi articolari po- steriori (Tav. II. fig. 3). Ciò è nella sesta vertebra cervicale; in altre sorge il processo spinoso superiore, in quelle vertebre cioè che si ac- costano alla regione toracica. Questa superficie a doppia declività che costituisce il tubo della vertebra cervicale dei Vulturidi, e questa nudità e sveltezza che ad essa è propria, sono caratteri così spiccati che alla lor volta danno una fisonomia tutta propria che allontana nettamente queste vertebre di Vulturidi da quelle dei Brevipenni. Tanto è più importante il considerare con attenzione queste parti quantochè della vertebra di Aepyornis la porzione corrispondente a quella ultimamente esaminata nel Condor, è ben conservata. La fig. 5, Tav. 26, data dal Milne Edwards e riprodotta nelia nostra Tav. II. fig. 1, rappresenta la vertebra dell’Aepyornis veduta dal dor- so. La sua parte anteriore che forma l’ ambito della prima parte del tubo midollare è perfettamente caratterizzata, ed è una imitazione fe- dele di quella stessa parte nel Condor. Non vi apparisce ombra dei tubi addizionali propri del Droma?us, nè della cresta, o della superficie spianata propria dallo Struzzo. La superficie della vertebra di Aepy- 432 GIAN GIUSEPPE BIANCONI ornis discende ai due lati come quella del Condor con doppia in- clinazione, e si modella perfettamente nella curva che va a formare le basi delle due apofisi articolari anteriori. Una escoriazione occupa la parte posteriore del dorso della ver- tebra di Aepyornis. Ma il posto e la forma di quella rottura indica che vi esisteva quella stessa cresta divaricata, ed angolosa che esiste sulla vertebra del Condor. Tanto è ciò più manifesto quando si con- sideri il piccolo seno donde partono, e separansi li due processi articolari posteriori. Fra la parte culminante anteriore e questo seno incavato resta sì breve spazio che non saprei immaginare ove si po- tesse supporre neanche un vestigio dei tubi addizionali, o della lunga cresta dei Brevipenni, mentre rimane il solo posto per la cresta bifor- cata, e tubercolosa. VERTEBRA DORSALE Il Sig. Milne Edwards pone in vista bene a ragione la corpa- lenza, e per così dire il massiccio della vertebra dorsale ch'egli ha fatto rappresentare nelle Tavole 27 e 28, riprodotta quest’ ultima nella mia Tav. III fig. 1. A colpo d'occhio si vede quale enorme grossezza avesse quella vertebra benchè or tanto mutilata. Essa ha quasi una forma di paralellepipedo tanto è grossa per ogni senso, ed è munita di piccolo foro vertebrale nel mezzo. Vi sono poi anche gli avanzi, o le vestigia di altre parti, cioè delle apofisi articolari, delli processi spinosi, e trasversi ecc. La Tav. 28 (1) del Milne Edwards offre la gran vertebra veduta dalla faccia anteriore. La parte sua inferiore, che è munita di un re- siduo di processo spinoso inferiore, è larga, e procede parimente larga sul suo mezzo in corrispondenza al foro midollare; talchè alla regione appunto di questo foro è massiccia al pari del disotto, e del disopra. Ora se a riscontro di questa io voglia prendere una vertebra dorsale di Struzzo, o di Dromaius, non mi è primamente indifferente 1’ assumerne una qualsiasi, ma debbo prendere una che, come quella in discorso dell’ Aepyornis, sia fornita di processo spinoso inferiore. Sa- (1) La figura rappresenta la vertebra capovolta. INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 433 rebbe quindi una delle anteriori. In tale vertebra delio Struzzo (Tav. III. fix. 2) io trovo alla faccia anteriore, larga assai la porzione inferiore su cui si stende l’ ampia area articolare anteriore, di figura lunata, e posta trasversalmente. Ma il corpo al suo mezzo si restringe, per nuo- vamente allargarsi di sopra, là ove nascono li processi trasversi. Quel ristringimento dà alla parte mediana della vertebra una forma smi!za e sottile, in contrasto saliente colle forme massicce e grosse della ver- tebra di Aepyorris. Il restringimento delle vertebre dei due Brevipenni cade in corrispondenza al foro midollare, sicchè le pareti laterali di questo sono sottili per tutta la sua lunghezza dall’ innanzi all’ indietro; e chi guarda per contrario la figura data dal Prof. Milne Edwards PI. 28, e la nostra Tav. III. fig. 1, vede per contrario che le pareti che circondano il piccolo tubo midollare della vertebra di Aepyornis sono enormemente grosse. L’ Aepyornis appartiene dunque ad un tipo diverso da quello dei Brevipenni, nel quale le forme smilze e ristrette del mezzo delle ver- tebre dorsali sono comuni oltrechè allo Struzzo, ed al Dromaius, anche ai Dinornis come vedesi nelle figure date dall’ Owen (Zool. Transact. Wolky394B1-ul:806fiot#f2a 199): Le cose cambiano quando si esamina la vertebra di Condor. Ma sulle prime si incontra un punto di particolare osservazione. Per le cose dette sopra io devo assumere per 1’ esame comparativo una ver- tebra dorsale munita di spina inferiore. Ora nei Vulturidi tali vertebre sone le ultime posteriori prossime alla regione lombare, mentre nei Brevipenni sono le anteriori, prossime alla regione cervicale. Io ho dovuto dunque scegliere una posteriore del Condor, e più precisamente l’ ultima libera, ossia la quinta dorsale (Tav. III fig. 3). La parte infero-anteriore di questa vertebra è occupata dall’ area articolare, cui fa seguito la spina inferiore. L’ area è larga e qua- drata, e sopra di essa è il foro vertebrale angusto, e fiancheggiato da pareti rigonfie, e rese più voluminose dal callo sul quale è 1’ areola di articolazione del secondo ramo costale. Ancor più forti proporzioni si veggono nella fig. 4 rappresentante la seconda vertebra dorsale. In en- trambe la quadratura della parte inferiore della vertebra è rimarchevolis- sima, e specialmente nella suddetta vertebra si ha una forma cuboi- de, tanto essa è grossa in ogni senso. Donde apparisce che ove si amputassero li processi trasversi, i quali mancano nel rudero di Aepyornis si avrebbe già un punto di ravvicinamento ben rimarchevole fra l’una TOMO IV. 519) 434 GIAN GIUSEPPE BIANCONI e l’altra. Ne consegue ancora che il foro midollare angusto (1) è circondato da pareti grossissime, se si faccia comparazione con quelle dei Brevipenni; e sorgono quindi rassomiglianze, salvo le proporzioni di grandezza, fra la vertebra di Aepyornis e di Condor, in luogo delle discrepanze fra la prima e quella dei Brevipenni. Ma se la vertebra dorsale dell’ uccello di Madagascar tiene a quella di Condor, essa sarebbe come si è detto, una delle ultime della regione dorsale. Lo che m' induce a notare che il foro midollare sce- mando rapidamente per solito di volume dalle vertebre anteriori alle posteriori si riduce ad essere assai piccolo nelle ultime; talchè potrebbe confermarsi essere carattere delle ultime vertebre dorsali avere corpo grosso, e foro piccolo. Questo carattere che è proprio del Condor, lo è pure dell’ Aepyornis come dimostra la figura data dal Milne Edwards PI. 28, non che la descrizione che esso ne dà, dicendoci , Le trou vertébral destiné au passage de la moelle épiniére y est extrèmement étroit. (2) La vertebra dorsale di Condor veduta di fianco, è come compresa tre due piani paralleli, uno anteriore, l’ altro posteriore; sicchè ne se- gue che la metà superiore è sovrapposta alla inferiore, ed il processo spinoso superiore insiste quasi verticalmente sull’ inferiore. Queste cose, per quanto può rilevarsi, sembrano disposte allo stesso modo nell’ Ae- pyornis. Ma nei Brevipenni (Struthio, Dromaius, Dinornis) le due metà della vertebra (la inferiore, e la superiore) sembrano come spo- state, talchè la metà superiore è respinta assai in addietro, e li due processi spinosi non si corrispondono punto (3). Sul proposito della apofisi spinosa superiore « non è possibile non restare sorpresi della gran mole della base di essa che si vede troncata nella vertebra di Aepyornis Tav. III. fig. i. Quel moncone dice abbastanza, s' io non m’ inganno, per dimostrare quanto robusta, e _ quanto massiccia doveva essere la spina intera. Una mole e robustezza (1) Il foro midollare è angusto tanto nel rudero della vertebra di Aepyor- mis, quanto nella vertebra ultima di Condor fornita di processo inferiore, e fi- gurata nella Tav. III. fig. 3; per contrario in quella dello Struzzo, munita di apofisi inferiore, il foro è grande, ed aperto e imbutiforme anteriormente. (2) Annales des Sciences naturelles 1869. Vol. XII. pag. 100. (3) Veggasi Owen, Zool. Transact. Vol. III. Pl. 18. fig. 1. f INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 435 medesima è pure, salve le proporzioni, nei rapaci ed in particolar modo nel Condor (Tav. III. fig. 3, 4 a). Il Meckel fa una avvertenza che io non debbo qui ommettere. Egli dice , Les apophyses épineuses supé- rieures sont surtout developpées chez les oiseaux de proie, principale- ment les diurnes (1) ,. Sarebbe dunque una specialità degli uccelli rapaci diurni l’ avere quella robustissima apofisi, che serve a dare la necessaria fermezza alla loro colonna vertebrale; per essi che sono uccelli di alto volo. Non è così pei Brevipenni. Cuvier notò che la colonna vertebrale di questi gode di molta mobilità; ed infatti basta osservare la esilità, e piccolezza delli processi spinosi superiori dello Struzzo (Tav. III. fig. 2) per vedere come siano da meno di quelli dei rapaci. Se 1° Aepyornis godeva di una immensa apofisi spinosa su- periore, era dunque un gran volatore e non un Brevipenne. Ai lati e al di dietro di questo moncone veggonsi spuntare due ali ossee e c, rappresentate nella Tav. 28 del M. Edw. e riprodotte nella fig. 1, Tav. III. della presente Memoria. Le stesse ali veggonsi pari- menti all’ alto e al di dietro della vertebra di Condor c c (Tav. III fig. 3, 4) e rappresentano il dorso delle due areole articolari posteriori. Dalla fotografia della faccia posteriore della vertebra di Aepyornis che il Sig. Milne Edwards ha avuto la bontà di trasmettermi, apparisce che quelle ali anche nell’ Aepyornis sono appunto il dorso delle due areole posteriori come nel Condor; talchè la rassomiglianza anche in questo particolare non potrebbe esser maggiore fra i due termini del nostro confronto. Forme ancor più raccolte, e grosse sono nella seconda vertebra dorsale di Condor, figurata nella Tav. III. fig. 4, la quale mostra altresì come la inserzione dei processi trasversi d d risponda al foro midollare, a un di presso come nella vertebra di Aepyornis. È stato in forza di questi sì notevoli ravvicinamenti che ho ce- duto alla tentazione di fare inscrivere il rudero di Aepyornis entro la figura della vertebra di Condor ingrandita. La Tav. IV. fig. 1 rap- presenta il disegno della terza vertebra dorsale di Condor ingrandita quattro volte; e nella fig. 2 si ha lo stesso disegno, alquanto mag- LI giore, nel cui centro è collocato il nucleo della vertebra dorsale di (1) Anatom. comp. Vol. 3. pag. 38, e pag. 38. 436 GIAN GIUSEPPE BIANCONI Aepyornis. È notevole come tutte le parti rispondansi al loro posto, e specialmente la grossa base del processo spinoso superiore; ma sovra ogni altra cosa è mirabile come le due ali ossee c c della vertebra fos- sile entrino nel disegno ingrandito della vertebra di Condor. Per l'altre parti veggonsi combaciare le origini dei processi trasver- si dd, sovrapporsi il frammento della apofisi spinosa inferiore 6, cadere a suo luogo e corrispondersi l’ area articolare anteriore trasversale. Una differenza si ha che 1’ osso fossile si mostra alquanto più corto del- l’altro; ma tal disparità sembra essere una nuova conseguenza delle cose discorse altrove rapporto al femore, esso pure sì breve e sì grosso; sarebbe cioè una conseguenza dell’ avere appartenuto la vertebra fos- sile ad un uccello gigante. Debbo tuttavia avvertire che la vertebra di Condor che ha servito sinora di termine di comparazione cioè l’ u!- tima essendo notabilmente più lunga della terza, ho preferito di far disegnare con ingrandimento questa che è breve, corpulenta, e no- tevole specialmente per la grossa base offerta dall’ apofisi spinosa superiore. Credo però che quella e non questa sia la equivalente della vertebra di Aepyornis nella serie vertebrale, perchè l’ ultima, o quinta offre il processo spinoso inferiore come ha la fossile, mentre la terza disegnata nella Tav. IV. fig. 1, ne manca, avendo invece quella parte ossea che è segnata mercè di piccoli punti. Ripeto che tenuta ferma la corrispondenza fra l’ ultima dorsale del Condor, e la vertebra fossile, la maggiore brevità e corpulenza di questa è ripetibile dalla legge delle dimensioni proprie delle ossa di animali giganteschi (1). (1) Per chi si trovi avere alle mani la vertebra fossile un altro punto importantissimo di ricerca è aperto, che resta inaccessibile per chi non ha che figure da studiare. Se si considera la base del processo spinoso superiore negli Struzionidi, e nei Vulturidi, si trovano differenze notevolissime. Tale base negli Struzionidi è irta di creste che a modo di contrafforti circondano il detto pro- cesso, e fra una ed altra cresta stà una cavità, o valle profonda. Nel Condor invece li due lati della base sono uniti e rigonfi, offrendo una superficie con- tinua che corre dall’ innanzi all’ indietro. Nelle vertebre di Aepyornis tanto vi è di base della grande spina, da poter conoscere se v’abbiano i caratteri sì differenti offerti dagli Struzionidi e dai Vulturidi. Secondariamente: egli è noto che delli due rami della costa che si articolano sulla vertebra, uno si appoggia sempre alla estremità del processo trasverso: ma l altro ramo si articola in un modo assai differente presso li Struzionidi, e INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 437 Non occulto a me stesso due obbiezioni che ponno essere fatte alle cose dette sin quì: 1° che la divaricazione delle apofisi articolari posteriori nella vertebra cervicale dell’ Aepyornis, come avverte lo stes- so Prof. Milne Edwards pag. 100, è molto stretta, mentre assai larga si mostra in quella del Condor; 2° che la vertebra dorsale dell’ Ae- puornis è sommamente robusta, e grossa mentre nel Condor tutto è a pareti tenui e sottili. Se io non saprei addurre per ora veruna con- gettura intorno al primo disaccordo, quanto al secondo io credo che le considerazioni fatte negli anni precedenti intorno alla ragione della enorme corpulenza e robustezza del Femore di Aepyornis, ponno ben essere invocate quì per dare una spiegazione della massima robustezza manifestata nella vertebra di Aepyormn:s. TRADIZIONI STORICHE Dopo le prove raccolte sul campo della zootomia in riguardo al- l Aepyornis, le reminiscenze storiche che si riferiscono ad un grande volatore riprendono un nuovo valore; e quanto esse ci dicono in ac- cordo colle conseguenze dedotte dagli avanzi fossili, può assumere una importanza pella storia di quest’ uccello. Certamente non è anche tempo per isperare di avere raccolta una copiosa messe delle tradizioni che forse esistono, perchè ogni giorno se ne scuoprono di nuove, ed appena, può dirsi, si è cominciato a cercare (2). Ma pure interessa adunarne; e perciò a quelle che in addietro ho recate aggiungo alcune x altre che mi è stato concesso di procurarmi. presso li Vulturidi. Nei primi il ramo anteriore va a fissarsì sul margine la- terale dell’ area articolare anteriore; nei Vulturidi invece va a posare sopra un callo o turgescenza ossea posta sul fianco della vertebra in un punto inter- medio fra la radice del processo trasverso, ed il margine dell’ area articolare, ma assai lontano da questo. Se pertanto in uno dei lati della vertebra fossile esista quella faccetta articolare, basta da sola a decidere la questione se l’ Ae- pyornis fu o nò un Avvoltoio. (2) Sembra che parecchie notizie siano accennate, ma giammai esposte, nei Resoconti dell’Accademia di Francia, educibili da opere chinesi, ed arabe ( 1856. T. 43. pag. 488, 634, 928. 1862. Octob. pag. 501). 438 GIAN GIUSEPPE BIANCONI Inesivamente alla congettura da me accennata in una passata lettura che cioè luogo di dimora dell’ Aepyornis fosse stata 1’ Africa orientale, e che là esso vi si mostrasse sino ai tempi ne’ quali la specie si spense, cioè allorquando le spedizioni Portoghesi si fecero a frequen- tare quelle coste nei secoli XV e XVI, io mi sono rivolto ad un di- stintissimo personaggio Portoghese il Sig. G. Da Silva, Architetto reale, pregandolo di fare qualche esplorazione nella grande Biblioteca di Lisbo- na, affine di scuoprire se fra le storie e cronache di quell’epoca si celasse alcuna notizia sul grande uccello. Avendo egli affidata questa ricer- ca al Sig. Augusto de Sama, io ho ricevuto come primizia delle in- dagini di questo letterato il seguente passo levato da un’opera fra noi sconosciuta, intitolata — Aethiopia oriental pelo P. Francisco Dos Sanctos — Evora 1609. fol.° Eccone le testuali parole (1) , Neste tempo sairao em terra alguns marinheiros (rio de Luabo) a buscar lenha, e fricatas pallas matos, que estao as lango das prayas: donde tranxerao dous passaras novas cubertas inda de penunghem branca, que acharao no ninho, mui semelhantes a aguias nas unhas, olhas e bico; mas na grandeza do corpo muyto maiores, que grandes aguias. Tinhao nove palmos de comprimento da ponta de huma aza ati a autra, que lhe eu mandei medir por facanha. Os marinheiros as matarao, por se nao poderem inda criar sem may,e fizeran huma grande panellada de sua carne que comerao. Donde se pode claramente col- ligir, que estas passaras depois de chegarem a sua perfeita idade devem ser de expantosa grandeza. Outras passaras dizem que ha nestas terras muy grandes, de que tratarei na descripcao de Sofala , (2). (1) Parte 2.° cap. IX. p. 72. — Per urgenza di pubblicazione, sono man- cate le segnature sulle vocali. (2) Versione « In questo tempo calarono a terra alcuni marinai al Rio de Luabo per cercar legna e frutti frai cespugli che sono lungo le spiagge. Di là trassero due uccelli giovani, coperti tuttavia di peluria bianca, che trovarono nel nido, molto simili ad aquile nelle ugne, occhi e becco, ma nella grandezza del corpo molto maggiori che grandi aquile. Avevano nove palmi di lunghezza dalla punta di un’ ala all'altra, che io feci misurare per curiosità. I marinai li uccisero, perchè senza madre non si potevano allevare, e ne fecero una gran mar- mitta (piatto) di carne che mangiarono. Donde si può chiaramente raccogliere che questi uccelli giunti a perfetta età debbon essere di una grandezza spaven- tosa. Altri uccelli dicono essere in questa terra molto grandi, de’ quali tratterò nella descrizione di Sofala » Così Egli. INTORNO A DUE V&RTEBRE DI AEPYORNIS 439 A pag. 36 lo stesso Dos Sanctos riferisce il seguente racconto. » Hum portuguez me contau em Sofala, que andando elle fazendo resgate de marfim na terra firme da Mambone, defronte das ilhas Bacicas (de que falarei adiante) tinha hum bogio com huma cadéa preso a hum cepo, que pesaria dez au doze arrateis, o qual estando hum dia fora de casa no campo, desceu huma ave de rapina de im- mensa grandeza, e ferrando nelle o levan nas unhas pelas ares, junta- mente com o cepo a que estava preso, indo o bugio dando mil gritos, e finalmente o levan a humas matos que perto estavao, onde o comen, e depois foi achado o cepo com a cadéa no mesmo mato , (1). Da un Medico arabo celebratissimo il Razis, l’ Aldrovando nostro ha tratto il seguente dettato che trovo trascritto nel Vol. III. de’ suoi Manoscritti De Avibus pag. 1486 (2). , Anka (3) avis est maxima teste Aristotile, ex cujus alarum pennis pharetras fieri ajunt ad con- dendans sagittas, et ex unguibus ejus vasa potoria. Indigenae ut eos capiant duos boves alligant in curru alligato lapidibus; juxta currum vero tugurium est in quo latet venator, qui in promptu secum habet ignem et aquam. Et cum advenerit avis, et unguibus in bovis corpus infixis nec illum auferre, nec ungues extrahere potest, venator igne alas ejus accendit, iisque consumptis, ut volare non amplius queat (ignem aqua restinguit ) et capit..... ARCO) Per chi abbia a memoria quanto il Bolivar disse che cioè nella gran penna che egli potè esaminare, il tubo era dnstar brachii mode- rati, troverà accordo fra questa misura ‘ed il racconto del Razis. Es- (1) Versione « Un Portoghese mi contò in Sofala che andando per far compra di avorio nella terra ferma di Mambone, di fronte alle isole Bacicas (delle quali parlerò più avanti ) aveva uno scimmione legato con catena ad un tronco pe- sante 10 o 12 arrateis; il quale scimmione stando un giorno fuori di casa nel campo, discese un uccello di rapina d’ immensa grandezza, e datogli di piglio lo portò con le unghie per aria insieme col tronco al quale era legato dando mille grida, e finalmente lo depose tra alcuni cespugli che ivi erano per man- giarlo, e di poi fu rinvenuto il ceppo con la catena nello stesso luogo ». (2) E riferito per estratto nel Tomo I. De Avibus pag. 604. (3) « Monendum putamus Ankam occidentis apud Arabes ipsissimum Ruch- cham esse quam in Africa centrali apparere traditur ». Jobi Ludolphi Historia aethiopica. T. I. pag. 163. (4) Razis, Libro de Animalibus c. 39. - Ove tratta De Animalibus in re- gione ab Aequatore ad meridiem degentibus. 440 GIAN GIUSEPPE BIANCONI sendo quel tubo della penna grosso quanto un mediocre braccio, non apparisce improbabile che potesse servire per farne una faretra o tur- casso robusto ad un tempo e leggero. Che poi dell’ ugne si potesse farne piccoli vasi per bere è cosa ripetuta da molti: come sta entro le pro- babili dimensioni dell’ ugna che fosse propria del gran metacarpo altrove esaminato (1). Il Mandevilla più in particolare a questo proposito ci dice (2) , Ungues ejus tamquam cornua bovis esse, e quibus magni praetii pocula fiunt , ed il Bartholomaeus Anglicus aggiugne (3) s Tammagnos habent ungues, et tam amplos quod inde fiant scyphi qui mensis regum apponuntur ,. Fra gli scrittori di quel tempo l’ Aldrovando ricorda ancora il Marmol (4) ove dice , Le Grifon se trouve encore dans les monta- gnes de la haute Etiopie, et particuliérement dans celles de Beth. Les Arabes le nomment Yfrit. , (5) Io sarei stato pago di aver rimesso alla luce queste tradizioni per gli studi futuri; nè, per ora, cercherei di più. Ma una qualche curiosità nasce da quella cifra di nove palmi assegnata per misura della invergatura di due uccelli nidiaci uccisi dai Portoghesi al Rio de Luabo. Corre naturalmente al pensiere la dimanda quale sarebbe stata la grandezza delle ali dei due uccelli se avessero raggiunta l’ età adulta. Io conosco al pari d’ognuno che questa ricerca è affatto spe- ciosa e priva di fondamento scientifico, tuttavia mi permetto alcune poche indagini, intendendo di soddisfare alla mia, come all’ altrui cu- riosità. Nove palmi portoghesi equivalgono circa a metri 1, 96. La inver- gatura, ossia la distanza fra le due punte estreme delle ali dei due uc- celli africani, ancora coperti di pelo, sarebbe stata di 1 metro e 96 cent. Io avrei desiderato di trarre qualche termine di confronto dai (1) V. Studi sul Carpo-metacarpo degli uccelli, pag. 81, e Tav. XII, XII e XIV. (2) Mandevilla, riferito dall’ Aldrovando 1. c. (3) Barthol. Anglicus. De rerum proprietatibus. 1519. cap. de Gryphidus. (4) Marmol. L’ Afrique, traduction de N. Perrot "T. I. p. 65. (5) Si legge ancora in Nobrega Epistola asiatica. 1552. pag. 30 « Procul occidentem versus, in locis australibus magis quam Sancti Laurentii insula, sunt insulae Gryphium quos Ruch vocant, aves sunt, per omnia aquilis similes sed quae tam vasti corporis, tantique roboris esse feruntur..... etc. » INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 441 pulcini del Condor; ma non mi è stato dato di ottenere indicazioni utili. Ho dovuto invece rivolgermi, per quanto mi è stato possibile, ad un altro Vulturide, il Vultur ( Gyps) fulvus. Un neonato di V. ful/vus di pochi giorni (1) ha una invergatura approssimativamente di 25 a 30 centimetri. Ma quando è giunto ad avere già molte penne insieme colla peluria acquista una invergatura di un metro, e quaranta centim. all’ incirca. Lo che addimostra che l’ accrescimento delle ali è molto rapido; cosicchè, senza oltrepassare la età del pelo e del nido, il Vultur fulvus assume due estremi per la distanza fra Je punte dello scheletro delle ali di 0,25 sino a m. 1,42. Non potendo indovinare quale età avessero li due uccelli rinve- nuti dai marinai portoghesi, ma sapendosi che avevano ancora il pelo, si può congetturare che fossero ad uno stadio intermedio di età fra il pulcino di pochi giorni, ed il giovane delle prime penne. Prendendo quindi anche nel V. fulvus uno stato intermedio, fra gl’indicati estremi, la misura media che può assumersi è di ottanta centimetri circa. La invergatura dell’ avvoltojo fulvo adulto è circa un metro, ed ottanta centimetri. Con questi dati io ho gli elementi per una proporzione, che in via largamente approssimativa mi dà il valore del termine ignoto (2). Risulta che se li due uccelli africani fossero giunti alla età adulta, avrebbero avuto una invergatura di oltre a quattro metri pel solo scheletro. La invergatura del Condor adulto (per lo scheletro) è, come si è detto, di un metro e ottanta centim. circa. Comunque siano calcoli senza una base sicura, e in una appros- simazione assai incerta, tuttavia non è senza interesse il vedere che gli uccelli nidiaci uccisi dai Portoghesi, ove fossero addivenuti adulti avrebbero assunte ali, in proporzioni tali, da superare quelle di qua- lunque volatile conosciuto, e da avvicinarsi quindi, più che ad altri, a quelle dell’ Aepyorn:s. (1) Revue zool. 1866 pl. 16, e 1870 pag. 281. (2) Avendosi 0,80 invergatura del piccolo Avvoltojo, e 1,80 quella del- l’ adulto, sulla indicazione di metri 1,96 per li giovanì uccelli africani si ba 0,80: 1,80:: 1,96: X = a metri quattro. TOMO IV. 56 442 GIAN GIUSEPPE BIANCONI Le memorie sin qui recate sono più o meno moderne, e dipen- denti da relazioni de visu et audito. Ma altre ne sono di ben più antica data, le quali si riferiscono pur sempre ad un grandissimo vo- latore di rapina. Debbo però confessare che, ove si spingano le ricerche nelle tradizioni demandateci dalle remote età, si entra in un ginepraio dal quale è malagevole uscire. Ognun sà come in ogni tempo la poesia, la storia, la letteratura classica abbia parlato di quel volatore, ma con aggiunta di tali accessori, e con tante esagerazioni da con- durci sino ai Grifi, ed a quell’ Uccello Ruch delle novelle arabe, il cui uovo era grande come una montagna. Quì per verità vediamo che le favole guadagnan terreno, sebbene forse l’idea fondamentale fosse in origine vera e giusta, ma poi per la ignoranza, o per la distanza dei luoghi venne alterata e svisata per modo che perdette ogni sembianza di credibilità; ond’è che in opere più a noi vicine che ne hanno parlato il capitolo dei Grifi, spesso ha per titolo , De Avibus fabulosis (1) ,. Se però difficile resta lo sceverare il vero, non è per questo che il vero sempre manchi. Alcune tradizioni portano un ca- rattere incontestabile di verità, onde resta opportuno non perderle nell’ obblio, e giova conservarne que’ brani almeno che più direttamente si riferiscono al supposto animale. Lasciando però che ciascuno ne giudichi a proprio talento. Singolare cosa è che presso gli antichi la storia del gran vola- tore, o del Grifo, vada sempre connessa coll’ idea dei paesi auriferi, della ricerca dell’ oro, e della guardia e custodia che di esso fanno li Grifi. Erodoto replicatamente asserisce che , Dicuntur Arimaspi aurum a Griphibus auferre (2). Arimaspos, et item supra hos esse gryphos qui aurum ‘asservant (3). Gryphi auri custodes (4) ,. Plinio aggiugne » Arimaspi quibus assidue bellum esse circa metalla cum gryphis fe- rarum volucri genere , (5). , Aurum invenitur apud seythas a gryphis (1) Sensatamente però l’ Aldrovando riflette « Gryphem aquilae aut Vultu- ris maximum quoddam, et rarum genus esse judicarim, quae ob inusitatam magnitudinem ob inauditum robur vana multa et absurda de se fabulandi verae naturalis historiae ignaris occasionem dedit ». De Avibus T. I. pag. 603. (2) Lib. III. n.° 116. p. 207. (3) Lib: (IV. n.S 13-4por227: (4), Lib. IV. n:9 27. p.1231 (5) Lib. 7. c. 2. INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 443 erutum (1) ,. Troviamo in Ctesia , Aurum habet India.... quod multi et spatiosi montes suggerunt, quos incolunt Gryphes (2) ,. In Seythia terrae sunt locupletes, inhabitabiles tamen.... auro et gemmis affluunt, Gryphes tenent universa, alites ferocissimae (3) ,. Ed è con ogni fre- quenza ripetuta questa idea che li Grifi abitino, ed infestino i lmoghi dell’ oro. Per istrana che possa sembrare a prima giunta questa associazione di idee, pure come essa sia nata e qual fondamento abbia non è difficile conoscere per l’ esame di alcuni scrittori dell’ antichità, collazionandoli colle notizie odierne. Eliano si esprime chiaramente così (4) , Gryphem Indicum animal... robustissimis existere unguibus leonum similibus: tum dorsum ejus pennis indui nigris, anteriorem corporis partem rubris, alas vero candidis .. nidos in montibus facere, utque aetatis processu grandes non capi, ita eorum pullos comprehendi posse. Bactri eos illic auri custodes esse... ajunt... Contra Indi gryphos auri custodes esse negant, neque enim gryphes auri egere; sed cum ad colligendum aurum ho- mines accesserunt, hos de pullis suis majorem in modum timentes, pro eis pugnare; atque cum aliis etiam animalibus concertare, eaque facil- lime vincere; contra autem leones et elephantos non stare. Indigenae, quod ab hujusmodi animalium robore timeant, non interdiu, sed ad collectionem auri noctu proficiscuntur, quod se tum melius latere arbi- trentur. Locus ubi gryphes versantur, ac ubi aurum effoditur, deser- tissimus est. Quo circa aurum venari studentes mille aut bis mille armati eo perveniunt, simulque ligones et saccos adferunt, silentem lunam observantes. Quod si gryphes fallant duplicem commoditatem adsequunturj quod et eorum vita ab illorum atrocitate servatur, et simul aurum domum avehunt ,. Il racconto di Eliano messo a riscontro colle notizie recenti offre un aspetto di non poca veracità e si sottrae alla taccia di essere parto di sola fantasia e riscaldata immaginazione. L'idea che attribuiva ai Grifi la custodia dei luoghi dell’ oro, ed il vietarne l’accesso, nasceva natural- mente dalla difesa che facevano contro l’uomo quegli animali adulti (1)Mcib+ 330 21 (2) In Persicis. (3) Solinus c. 25. (4) De natura animal. Lib. III c. XXVII. 444 GIAN GIUSEPPE BIANCONI dei loro piccoli e dalla caccia che davano a qualunque animale loro si offrisse, per cibarsene. Gli uomini perciò che andavano alla ricerca del- l’oro erano spaventati ed incomodati dalla presenza del grande volatore di rapina. E che tale fosse la opinione generale si raccoglie da quanto ne dicono scrittori riferiti da Bartolomeo anglico (1) , Equis vehementer sunt infesti, et vivos homines discerpunt ut dicit Isodorus lib. XII. , Partes quaedam in Scythia auro et gemmis affluunt, sed gryphorum immanitate accessus hominum est rarus....,, ecc. Dal racconto stesso di Eliano appa- risce che li neonati dei Grifi erano insidiati dall’ uomo. E tutto questo non è punto diverso da quel che avviene nella Fauna vivente anche al dì d’ oggi: mentrechè le Aquile, i Lemmergayer, gli Avvoltoi fanno pagar caro a quei cacciatori che si avventurassero a penetrare nei loro domini, ed avvicinarsi per predare i loro figli. Inoltre l’ India è indicata da Eliano, e da molti altri come la regione di dimora dei Grifi (2). L’ India poi comprendeva sì vasto tratto da estendersi ancora all’ Africa orientale (3), donde gli antichi traevano gran copia di oro. E che colà potesse trovarsi l’ animale che essi chiamavano Grifo si rende verosimile dal ricordare che è in quei paraggi dell’ Africa orientale che sonosi oggi trovate uova ed ossa di Aepyornis, e che si riportano a quei luoghi le narrazioni dei secoli a noì più prossimi, descriventi colà la presenza dell’ uccello Ruch. A Plinio, sebbene credesse li Grifi uccelli favolosi, pure era giunta la fama che li Grifi fossero di Etiopia. , Pegasos et Gryphes fabulosos reor, illos in Scythia, hos in Aethyopia ,. (4) Del resto, come si è veduto pei passi recati, gli antichi scrittori ripetevano che li Grifi abitavano nella Scytia, e presso gli Arimaspi, regioni e popoli dell’ alto settentrione. Molte altre tradizioni però li facevano abitatori dei paesi meridionali. Senza pretendere di conciliare (1) De rerum proprietatibus, 1519, De Gryphe. (2) Pare che sia. stato creduto che nell’ India fosse frequente il Grifo se- condo le parole di Beniamino di Tudela (Itinerarium. Antuerpiae 1575) « ma- xrimae aquilae illis regionibus familiares gryphes diclae ». (3) Il Yule ( The book of Marco Polo T.II. p. 354) riferisce una relazione di Fr. Giordano che parlando dell'India Tertia, ossia Africa orientale, dice che la trovansi uccelli che sono chiamati Roc, così grandi che facilmente traspor- tano un elefante nell’ aria ecc. (4) Lib. X. c. 70. INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 445 o di spiegare questa divergenza, io non lascio di porre a riscontro della medesima quanto dice il Lafrensnaye a proposito del Condor, e cioè che , il vit dépuis les regions polaires jusqu’ à la ligne , (5). Serbo per l’ ultima la più singolare, o dirò meglio la più strana delle memorie tramandateci intorno a questo argomento. Essa si rife- rirebbe a nulla ineno che ad un cospicuo avanzo di un uccello gi- gantesco, che sarebbe stato custodito per qualche tempo in Europa, anzi in Parigi. Il primo che io abbia veduto farne menzione è il no- stro Ulisse Aldrovando, ma confesso non reputai meritevole di essere riportato quel suo racconto, tanto mi parve fuori di verosimiglianza, e leggero. Egli si esprime così (1) , Lutetiae Parisiorum in sacello Palatii Regii videre est pedem ingentem ex altissima fornice suspen- sum, tanta magnitudine ut si animal pro ratione ejus fingeretur facile posset credi, quod dici solet, vel maximum equum ab eo sublimem rapi Verum eum quidam falsum esse suspicantur, et ex ligno artifi- ciose confectum. Sacerdotes ejus sacelli e Rhodo allatum asserunt a quodam Rhodio equite ,. Ma nel Vol. III. dei Manuscritti di questo infaticabile naturalista si legge che quel piede ,.... ex Melita vel Rhodo allatum esse asserunt (Canonici) a quodam hujus ordinis equite ,. Secondo questa narrazione sarebbe dunque stato un Cavaliere di Malta o di Rodi, che avrebbe recato a Parigi il singolarissimo oggetto. Io non diedi peso, come ho detto, a questo racconto: ma cambiai modo di giudicare quando trovai confermata questa indicazione da un Anatomico parigino che lesse una Memoria all’ Accademia delle Scienze di Francia nel 1666, o circa. In essa l’autore espone alcune osser- vazioni anatomiche ch'egli fece sopra due Avvoltoi; ed avendo pre- messo sul principio del suo discorso, come vi abbiano grandissimi uccelli di rapina, esce in queste parole a pag. 209. , On garde dans le trésor de la Sainte Chapelle è Paris le pied d’ un oiseau qui a cinq (5) Diction univ. art.° Cathartinées. — Si vegga ancora Aldrovando, Ornit. I. pag. 604. 33. (1) Ornithol. Vol. I. pag. 604. 446 GIAN GIUSEPPE BIANCONI pieds dépuis l’ extremité de 1° ongle du grand doigt de devant jusqu’ à l’ongle du petit doigt qui est derriére , (1). È riflessibile il carattere di elevata istruzione propria del relatore di questa Memoria, che era il celebre Claudio Perrault, membro del- l'Accademia delle Scienze, e naturalista ed architetto famoso, il quale avrebbe ben conosciuto se quel piede fosse stato una simulazione fatta in legno. E quando un solo dubbio vi fosse stato sopra ciò, egli non avrebbe mai osato di citarlo come prova della esistenza di un colossale uccello di rapina, mentre si accingeva ad illustrare l’ anatomia di due Avvoltoi. Inoltre mentre dice , On garde , fa vedere che l’ oggetto che egli nominava esisteva allora nella indicata Capella. Puossi dopo ciò ormai ragionevolmente tenere che abbia esistito un piede colossale di uccello a Parigi. Ma ove sarà esso ito a finire? Io ho pregato di qualche notizia il Sig. Marcel Devic superiormente già ricordato. Egli gentilmente si è dato ogni premura di cercare schiarimenti in proposito, ma indarno; invece sembra raccogliersi che la Cappella sia stata soggetta, più d’ una volta, all’ incendio, e non aversi più rimembranza di quell’ oggetto dopo il secolo XVII. Spetterà ai Dotti di Parigi di proseguire le ricerche, se crederanno il soggetto meritevole della loro attenzione, investigando nelle descrizio- ni antiche rimaste della città di Parigi, e specialmente di quella Capella, se potesse escire in luce qualche ulteriore indizio su quel curiosissimo avanzo di uccello. Per me, confesso, che dopo le tante prove che io sono venuto adunando nei miei lavori da dodici anni, sarebbe soggetto degnissimo di studio, e di ricerca, come pure abbastanza importante per la storia di quel colosso della spenta ornitologia. A quale uccello quel piede avrebbe poi appartenuto? Pare che se dall’Accademico francese fu ravvicinato nel suo discorso ai due Av- voltoi, debba credersi che avesse li caratteri propri di un uccello di rapina. Le misure però date dall’ anatomico parigino sono tali che non convengono ad alcuno degli Avvoltoi od Aquile note; anzi su- perano di gran lunga quelle di qualunque uccello conosciuto. L’ unico grandissimo che ormai debba entrare in tale questione è 1’ Aepyornis. Ora la distanza fra le estreme punte delle sue unghie, quella cioè del (1) Description anatomique de deux grifons. Mémoires pour servir a l’ Hist. natur. des animaux, dressées par M. Perrault. T. III. pattie 3. pag. 209. INTORNO A DUE VERTEBRE DI AEPYORNIS 447 medio e quella del pollice, sarebbe stata di circa quattro piedi di Pa- rigi (1). Lo che stà anche al dissotto della misura data dall’ Autore francese. Ma nè la misura da me indotta sulle parti corrispondenti del Condor, nè quella riferita dal Perrault intorno al piede della Ca- pella di Parigi ponno supporsi tanto precise, da non presumere qual- che ulteriore ravvicinamento. L’ Aldrovando poco appresso avere registrata la memoria sul grande artiglio parigino fa seguire queste parole colle quali io chiuderò il presente discorso , Hune gryphem monstrosum statuere....., omnino non possumus; nisi hoc vocamine volucrem quampiam vel Aquilae vel Vulturi similem, licet inusitata magnitudine, nuncupemus , (2). (1) Il tarso-metatarso del Condor ha per minima larghezza un mezzo pol- lice, e la distanza fra l’ estremo delle sue due ugne è di pollici 8. La minima larghezza del tarso-metatarso di Aepyornis è di pollici 3. Dando il valore di uno alla prima misura, si ha l:16::6:X = 96, cioè piedi quattro. (2) 1. c. pag. 604. 448 Luo 2. Dt WIDE dI N GIAN GIUSEPPE BIANCONI SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE TAVOLA I. Femore di Moschus pygmaeus, grandezza naturale. Femore di Bue rimpiccolito sino ad eguagliare il Femore di Moschus. . Femore di Bue ridotto a quattro quinti. . Femore di Moschus ingrandito quattro volte. TAVOLA II. . Vertebra cervicale di Aepyornis. i u di Dromatus. È î di Condor. {sesta vertebra) ci ; la stessa vista di fronte. Li - di Dromaius vista di fronte. > >. di Struzzo. TAVOLA III. Vertebra dorsale di Aepyornis (faccia anteriore). a, processo superiore. — d, processo inferiore. — € c, areole articolari posteriori vedute da tergo. — d d, origine dei processi trasversi. . Vertebra dorsale di Struzzo. 1 È di Condor (ultima posteriore). di Condor (la seconda). ” » TAVOLA IV. . Vertebra dorsale (la terza) di Condor, ingrandita quattro volte. 3 1 di Aepyornis restaurate sul disegno della vertebra di Condor, Fig. 1. ‘Xu 9 Iqrudopg er: Bijad ul (Sp Tumeg:o | DDA JEP (STD TUO] pn SR peri ning tà & n) Sei sli $ e Ò i î S \ ì Ù x li ORI bi na 4 IS ‘ î x Ù DI Ù | ' “ ci è 3 }; ù ti x Ù Luce Ù 3 i ta G-Bianconi ApyornisTavI. Mem Ser. 3° Tom. IV. n pai iii _- mort di = LI di ES ; E Re: (lo) - du se = È, = È S_ S ed - = => =) (==l (©) E | QQ (edo) 55 Ù ps fai i 5 RE ra ‘fi pei [cle) FA (25) ri, [one SI A s i) s | (0-1 6 = i (i = E = E A; A . " î v x Ù Si LI È Di n si x Z n G = îi - . - N n ì \ TAB] StusoAdyy Moomerg o) Eajaxd ur sip tumag:o | UTO] "© 9 UD] _ on Aipyornis. Tav IV. Bino Ù Mem.Ser3' Tom.IV. SULLA DIVERSA TENSIONE DELLE CORRENTI ELETTRICHE INDOTTE FRA CIRCUITI TOTALMENTE DI RAME OD IN PARTE DI FERRO RICERCHE DEL PROF. EMILIO VILLARI ( Lette nella Sessione 18 Dicembre 1873) Da varie mie ricerche già pubblicate risulta che una corrente elettrica impiega più tempo per stabilirsi in un circuito di ferro che in uno di rame di eguale resistenza e di eguale forma: e le dif- ferenze di tempo da me osservate sono in alcuni casi assai rmlevanti. Per questa osservazione io ammettevo come molto probabile che i fenomeni di induzione non potevano essere del tutto indipendenti dalla natura dei circuiti, come è ripetuto in tutti i trattati di fisica. E questa mia supposizione io mi detti premura per diversi modi di confermare con l’esperienza; e qui verrò appunto descrivendo le ri- cerche eseguite da me in proposito, che mettono in evidenza come sieno diverse le proprietà delle correnti indotte quando variano i cir- cuiti. Prima però è mestieri premettere qualche breve considerazione sulle correnti elettriche. Nelle correnti elettriche noi distinguiamo la quantità di elettricità dalla tensione loro; quella è data dalla quantità di flusso elettrico che passa attraverso un filo, e questa dalla quantità che passa nell’ unità di tempo; e perciò a pari di quantità di flusso elettrico diremo una corrente tanto più intensa quanto minore è il tempo impiegato a percorrere la sezione del filo. Queste due qualità sono affatto distinte fra loro; per cui noi abbiamo delle correnti di grande tensione e di piccola quantità e viceversa delle correnti di grande quantità e di TOMO IV. DI 450 EMILIO VILLARI piccola tensione. Le proprietà delle correnti variano grandemente per queste due qualità e quindi è indispensabile studiarle sempre separatamente in ogni corrente elettrica. Ed invero questo studio fu fatto lungo ed accurato sulle due correnti indotte diretta ed inversa cioè; ed esse si mostrarono diversissime nelle loro proprietà, sebbene costituite dalla medesima quantità di elettrico ; essendosi trovata la corrente indotta d’ interruzione di intensità molto mag- giore di quella di chiusura. Però questo duplice studio non fu anco- ra fatto riguardo alle correnti indotte fra circuiti di diversa natura, e solo si sa per le esperienze di molti fisici, che la quantità di elettrico messa in moto nei fenomeni di induzione è indipendente dalla natura dei circuiti. Per istudiare queste due qualità delle correnti abbisognano metodi di misura diversi. Così lo studio sulla quantità delle correnti meglio che con ogni altro metodo si fa coi fenomeni elettrochimici. Le de- viazioni galvanometriche poi misurano anche la quantità delle cor- renti costanti o di quelle variabili ma di brevissima durata, p. e. delle correnti indotte, in modo che la loro azione sull’ ago galvano- metrico può considerarsi come una serie d’ impulsi che trovano sempre l’ ago nella stessa posizione. Questi metodi però non possono seguirsi nelle ricerche sulla tensione delle correnti indotte. Per questo studio possono essere utili le azioni termiche, le azio- ni elettrodinamiche »e le azioni elettrofisiologiche delle correnti; nonchè la loro forza magnetizzante. Questi diversi metodi sono tutti stati messi a profitto dai fisici nelle loro ricerche; ed io dopo averli varia- mente saggiati ho trovato più utile per le mie esperienze di studiare le correnti indotte per mezzo della loro azione magnetizzante; e con questa ho eseguito il massimo numero delle mie esperienze. La forza magnetizzante di una corrente costante dipende dalla sua intensità e non dalla sua durata; comunque breve possa essere la du- rata di una corrente il momento magnetico d’ un ago di acciaio sarà sempre proporzionale all’ intensità della corrente (1). Perciò la forza magnetizzante delle correnti indotte dovrà (poste tutte le altre cose (1) Wùlluer, Experimental Physik Bd. 4, p. 914 e seguente, 1872. SULLA DIVERSA TENSIONE ECC. 451 eguali) scemare quando la corrente è di maggiore durata, e di minor tensione. Io quindi per studiare la tensione delle correnti indotte ho misurato il magnetismo da esse svolte in aghi di acciaio appositamente apparecchiati: e dirò avanti tutto come ho trovato in questo metodo di misura una semplicità ed esattezza così grande che difficilmente si può trovar la maggiore. Ciò posto veniamo senza altro a dire delle mie esperienze. $2. Apparecchio. Esso consiste essenzialmente di una pila P (fig. 1) di due circuiti di rame e di ferro È È; di due spirali » ed o d’ induzioni; di un magnetometro N e di una spirale magnetizzante S. La pila P consta di 10 a 16 elementi Bunsen di grandezza me- dia: i cui capi vanno ad un inversore di Poggendorff mm m dal quale partono due fili che chiudono in un circuito con la pila le due spirali ER ed r. La spirale RE è formata da due fili isolati con gut- taperca, uno di rame e l’altro di ferro, addossati fra loro e stretta- mente legati insieme. La spirale ha circa 60 cent. di diametro ed è costituita a larghe spire, sostenute da tre o quattro corde che riunite poi insieme in una corda unica sorreggono la spirale. Il filo di ferro è grosso 5 mill. quello di rame 2; sono di eguale lunghezza, e di una resistenza elettrica che si rende perfettamente eguale con l’ ag- giunta di alcuni centimetri di filo di ottone. Queste due spirali di eguale forma si possono scambiare facilmente nel circuito per mezzo dei serrafili s s ed a, i quali le riuniscono dall’ un lato all’ inversore mm e dall’ altro alla spirale inducente 7. Questa risulta da un filo di rame di 1 mill. di diametro, avvolto in un solo strato sopra un tubo di cartone; ha una lunghezza di 46 cent. ed un diametro inter- no di 6 cent. e comunica coi suoi capi con a ed n. Internamente a questa vi è la spirale indotta o, lunga 66 cent., grossa 45 mill. for- mata da un filo di rame avvolto in due strati e comunicante con la spiralina magnetizzante S. Questa è lunga 45 mill. ha un diametro interno di 4 mill. ed è formata da un filo di rame di }4 mill. di diametro avvolto in un solo strato sopra un cannello di vetro. Questa spirale, posta a più metri di distanza dal resto dell’ apparato descritto, è fissata in prossimità di un piccolo magnetometro N a specchio os- servato a distanza col cannocchiale e scala C. Per magnetometro ho adoperato lo specchio magnetico del galvanometro del Wiedmann. Nell’ interno della spirale S' vi erano gli aghi, che venivano ma- gnetizzati dalle scariche d’ induzione ed il magnetismo loro era misu- 459 EMILIO VILLARI rato dalle deviazioni del magnetometro. Ho adoperato 14 a 16 aghi da cucire lunghi 40 mill. e grossi solo da 1 a % mill. giacchè ho visto che i sottili si prestavano meglio che i grossi alle mie esperienze. Ho poi trovato meglio di adoperare gli aghi ricotti perchè così il me- todo, mi è parso, crescesse in sensibilità; per cui essi erano ben arro- ventati e lasciati raffreddare all’ aria prima di essere adoperati: oltre ‘di che negli aghi ricotti il magnetismo si inverte facilmente con l’in- vertirsi della corrente elettrica e ciò riusciva per me di grande utilità. Ciò detto ecco come facevo le esperienze. Cominciavo dal rendere eguale perfettamente le resistenze elettri- che delle spirali di rame e di ferro & È; al quale scopo chiudevo il circuito contenente p. e. la spirale di rame e misuravo alla bussola dei seni B, posta in derivazione in d d', l’ intensità della corrente ; quindi ripetevo la stessa misura dopo aver sostituito alla spirale di rame quella di ferro, e poscia aggiungevo a questa od a quella un filo di ottone e tanto (non più di 1 metro) da rendere le due resistenze perfettamente eguali fra loro. Laonde la corrente della pila aveva così sempre la stessa intensità tanto con la spirale di ferro che con quella di rame. Disposto così ed ordinato l’ apparecchio volli fare una prima espe- rienza per determinare l'influenza delle inversioni, od interruzioni della corrente sulla sua intensità, sia a circuito di rame, sia a circuito parzialmente di ferro. Disposi quindi l’inversore sopra un roteggio e rapidamente interrompevo, od invertivo la corrente della pila; e vidi alla bussola che la intensità della corrente scemava assai più quando nel circuito ci era la spirale & E di ferro che quando ci era quella di rame: e la differenza cresceva specialmente quando sperimentavo a corrente invertita. Questo dimostra e conferma ciò che con altre espe- rienze avevo costatato: cioè che il ferro presenta un aumento di resi- stenza per le correnti interrotte od invertite. Dopo la quale osserva- zione mi indussi a studiare le correnti indotte che nascevano con una sola chiusura od interruzione del circuito primario; e ciò in vista che con una sola scarica indotta della corrente il magnetismo svolto negli aghi era sempre assai energico e costante. | Per isperimentare adunque sopra una sola induzione introducevo gli aghi di acciaio in S, chiudevo il circuito indotto e poscia (messo in attività la pila P) chiudevo rapidamente, e con un contatto a mer- curio il circuito primario in g. Nello stabilirsi della corrente in tutto SULLA DIVERSA TENSIONE ECC. 453 il circuito esterno s faq si svolgeva una controcorrente indotta nel- la spirale interna 0, la quale magnetizzava gli aghi in S, che a loro posta deviavano proporzionatamente il magnetometro N. Fatta questa prima osservazione del magnetometro, si interrom- peva per mezzo di un contatto a mercurio, il circuito indotto 0, on- de non farlo percorrere dalla corrente indotta di apertura, che avreb- be complicato il fenomeno; quindi si interrompeva il circuito primario e dopo aver mosso l’ inversore 2 » si richiudeva prima il circuito in- dotto o e dopo l’inducente. Con questa nuova chiusura di corrente inversa alla precedente, si produceva una nuova controcorrente indotta che magnetizzava gli aghi in S in senso opposto al precedente: e l’ effetto magnetico della corrente indotta era dato dalla differenza di deviazione magnetometriche osservate nei due casi. In questo modo vennero eseguite varie osservazioni, introducendo nel circuito primario ora la spirale di rame ed ora quella di ferro È E, ed i risultati di esse sono registrate nella tabella seguente. I II Corrente della pila Magnetismo svolto passa per la spirale R È di negli aghi Rame mill. 16,0 Ferro n 2 Rame oo Ferro SMILZO, Rame DM LONO Ferro O No Rame AI OTO Ferro Î 200 Rame EDO Ferro PIC al) In questa tavola sono trascritti nella I colonna la natura della spirale messa in circuito; e nella II il magnetismo degli aghi misurati in millimetri della scala magnetometrica. E si scorge dai dati su rife- riti, che quando la corrente inducente passa pel circuito totalmente di rame la indotta magnetizza gli aghi più energicamente di quando la corrente primaria passa per la spirale di ferro; ed il magnetismo x svolto in quest’ultimo caso è circa %4 da quello che si svolge a cir- 454 EMILIO VILLARI cuito tutto di rame. Dal che chiaramente emerge che la tensione della corrente fra circuiti totalmente di rame ha maggior tensione di quella indotta fra circuiti in parte di ferro. Rifeci l’ esperienza in un’ altra maniera; e cioè per mezzo di un reostata indebolii a segno la corrente che passava per la spirale di rame È R che la corrente indotta con questo circuito fosse di egual tensione (misurata per mezzo della magnetizzazione degli aghi) di quella indotta col circuito parzialmente di ferro. Quindi misurai lo intensità della corrente primaria, e trovai che se quella che passava pel rame era espressa da 0,24, quella che passava pel ferro lo era da 0,30, per produrre correnti di induzione di egual tensione. Il magnetismo indotto negli aghi in queste circostanze era misu- rato dalle seguenti deviazioni magnetometriche mill. 22, 22, 22 pel circuito inducente tutto di rame nil 2202405 Do È parzialmente di ferro. Queste esperienze concordano con le precedenti e mettono in chiaro, come già si disse, che la corrente indotta da un circuito to- talmente di rame ha maggior tensione di quella indotta da un circuito in parte di ferro, il che non può accadere se non ammettendo che la corrente si stabilisce più rapidamente nel circuito di rame che in quello di ferro; e ciò è pienamente di accordo con le mie esperienze citate nel principio di questo scritto. Il ferro però presenta un aumento di resistenza non solo alle correnti invertite, ma eziandio a quelle dirette; ossia l’ aumento di durata nello stato variabile si presenta col ferro non solo quando è attraversato da una corrente invertita ma ancora, sebbene in minori proporzioni, quando è attraversato da una corrente diretta. Laonde anche con questa debbono col ferro manifestarsi i medesimi fenomeni che abbiamo studiati più sopra; ed infatti io ho sperimentato con la corrente di chiusura non mai invertita ed ho ottenuto risultati ana- loghi ai precedenti. Per eseguire queste esperienze io chiudevo il circuito della pila sempre nel medesimo verso; ed invece invertivo, ad ogni nuova esperienza, il circuito indotto contenente la spirale magnetizzante: così gli aghi si magnetizzavano in due direzioni opposte e la differenza per le due de- viazioni magnetometriche indicavano le intensità magnetiche degli aghi. SULLA DIVERSA TENSIONE ECC. 455 Le esperienze vennero fatte adoperando nel circuito primario la spi- rale RE, ora di rame ed ora di ferro: ed avvertirò che avevo cura di interrompere sempre il circuito indotto, prima di interrompere la corrente della pila, per eliminare la scarica d’ induzione diretta. Ecco intanto alcuni dati dell’ esperienza. Corrente passa per la spirale £ R di rame; magnetismo svolto dall’ induzione mill. 69,5, 69, 69; media 69. Corrente 2nvertita passa per la spirale & # di ferro; magnetismo svolto dall’ induzione mill. 57, 56, 56; media 56. Corrente diretta passa per la spirale & & di ferro; magnetismo svolto dall’ induzione 61, 61, 61; media 61. Da ciò si scorge che la tensione della corrente indotta è massima quando il circuito inducente è tutto di rame; scema col circuito di ferro, e diventa minima se si ha cura di invertire la corrente della pila ad ogni chiusura. Dirò da ultimo che una piccolissima differenza si manifesta nella tensione delle correnti indotte di interruzione: e propriamente dette correnti sono di tensioni eguali tanto con un circuito inducente di ra- me che con uno parzialmente di ferro: solo però la tensione della corrente indotta di apertura apparisce un po maggiore se si ha cura di invertire sempre la corrente primaria ad ogni chiusura del circuito. Così si ebbero per la corrente indotta di apertura i valori medi seguenti: Circuito inducente Magnetismo indotto Rame 192 Ferro 192 corrente primaria mon stata invertita Ferro 198 ; i invertita Dunque col ferro ed a corrente primaria invertita si ha una corrente indotta di apertura di intensità un po maggiore di quella che si ottiene col circuito inducente di rame; il che si verificò natural mente adoperando sempre costante la corrente della pila. Ed a questo proposito mi piace di aggiungere che per esser sicuro della perfetta eguaglianza d’ intensità della corrente della pila non mi sono conten- tato delle sole indicazioni della bussola; ed ho perciò voluto misurare al galvanometro il valore delle correnti indotte nelle varie circostanze. 456 EMILIO VILLARI Ho quindi tolto la spirale magnetizzante ed in sua vece ho sostituito un galvanometro a specchio delicatissimo, ed ho osservato che le cor- renti indotte ottenute erano sempre di eguali quantità, sia adoperando il circuito inducente di rame, sia quello di ferro. Laonde le differenze notate con la magnetizzazione degli aghi di acciaio erano esclusiva- mente dovute a differenze di tensione delle correnti indotte. Fin qui però io ho discorso solo dell’ influenza che indirettamente esercita sui fenomeni di induzione la presenza del ferro nel circuito inducente. Mi è parso quindi necessario di studiare più direttamente i fenomeni di induzione che si manifestano propriamente fra circuiti d’induzione di ferro e di rame. Al quale scopo apparecchiai una spi- rale di forma perfettamente eguale e simile a quella di rame 7 già adoperata: quindi tolsi dal circuito della pila la grossa spirale & È ed invece inducevo ora con la spirale di rame ed ora con quella di ferro » sempre sulla medesima spirale di induzione o. I due circuiti inducenti furono fatti di eguali resistenze aggiungendo alla spi- rale di rame 1,5 M. di filo di ottone sottilissimo, onde sperimen- tare sempre con la stessa intensità della corrente inducente. Oltre di che volli anche rimisurare al galvanometro le correnti indotte dalle spirali di rame e di ferro e le trovai perfettamente eguali fra loro: e noterò che uno spostamento di una spirale di soli 4 o 5 mill. si rivelava subito con una differenza di quantità della corrente indotta misurata al galvanometro ed al magnetometro. Reso così affatto certo della eguaglianza nella quantità delle due correnti indotte dalla spirale di rame e di quella di ferro, passai a studiarne la tensione col solito metodo delle magnetizzazioni; ed i risultati furono i seguenti per le correnti indotte di chiusura: la corrente della pila era invertita ad ogni chiusura. Induzione Magnetismo indotto Medie del Rame sul rame 63, 62, 62 62 del Ferro sul rame 99009 00 35 idem non invertendo la corrente primaria del Ferro sul rame 45, 45, 45 45 SULLA DIVERSA TENSIONE ECC. 457 Dal che si conchiude che la tensione della corrente indotta inver- sa per l’induzione del rame sul rame è circa il doppio nel suo effetto magnetico di quella indotta dal ferro sul rame e ‘propriamente nel rapporto di 1:1,8 quando però la corrente primaria si inverte nel ferro ad ogni nuovo passaggio. Nel caso della corrente primaria non invertita 1’ efficacia del ferro ed il rallentamento della corrente è sce- mato così da essere il rapporto precedente di 1: 1,4. Studiai ancora la corrente indotta di chiusura della spirale di rame su quella di ferro ed ottenni i valori perfettamente eguali a quelli precedenti ricavati dall’ induzione del ferro sul rame. E finalmente misurai la tensione delle correnti indotte di aper- tura fra il rame ed il ferro. Qui però ebbi ad accorgermi che la tensione delle correnti di apertura era diversa a seconda della rapidità con cui s’ interrompeva la corrente e le differenze erano assai nette, se si aveva cura di interrompere rapidamente o lentamente il circuito primario. Percui dovetti far due misure; una ad interruzione rapida e l’altra lenta del circuito primario: avvertirò inoltre che ebbi cura di interrompere sempre il circuito indotto quando chiudevo l’ inducente e di invertir sempre la corrente inducente. I risultati sono qui appresso registrati, Magnetismo svolto dalla induzione della spirale di rame su quella di ferro. Deviazioni magnetometriche Medie Interrompendo lentamente 220, 191, 209 192 7 rapidamente 252, 261, 276 266 5 lentamente 180, 184, 164 265 E rapidamente 264, 276, 265 eo De Magnetismo svolto dalla induzione della spirale di rame su quella di rame 7 Medie Interruzione rapida mill. 585, 588, 555 576 È Jenta BRE: 36960 358 576 _ i Ta pidaliia (613 n O Da questi specchietti noi rileviamo che a secondo che s'’ inter- rompe lentamente o rapidamente la tensione della corrente indotta è minore o maggiore, e ciò si osserva assai nettamente sia adoperando il ferro che il rame, quale circuito inducente sul rame; sia inducendo TOMO 1V. 58 458 EMILIO VILLARI invece con questo su quelli, ed inoltre si osserva che la forza magne- tizzante della corrente indotta è sempre minore quando il circuito in- ducente od indotto sia in parte di ferro. Così che noi possiamo senza eccezione di sorta asserire il principio generale : Che quando in un circuito inducente od indotto vi è del filo di ferro la corrente indotta risultante ha sempre una tensione minore di quando i circuiti sono totalmente di rame. Credo intanto che lo studio sulla influenza della rapidità di in- terruzione sulle correnti indotte vada ripreso, e perciò me ne occu- però e studierò anche la influenza che esercitano i veri liquidi so- prapposti al mercurio, come ancora i vari metalli che vi si possono immergere. Dalla conclusione ultima ricordata rilevasi eziandio che sarà sem- pre impossibile perchè dannoso sostituire il ferro al rame nei circuiti di induzione, quando con questi si volessero ottenere delle correnti indotte di molta tensione: e ciò per due ragioni; la prima perchè il ferro è più resistente del rame e perciò l’ intensità della corrente deve scemare in proporzione, ed in secondo luogo perchè il ferro nei circuiti scema la tensione delle correnti indotte. Messo così in tutta evidenza l’ azione speciale del ferro sui fenomeni d’induzione mi parve necessario di studiare l'influenza che potevano aver su codesti fenomeni l’ intensità della corrente indu- cente, nou che la lunghezza e grossezza del filo di ferro; al quale scopo eseguii delle esperienze speciali. E siccome l’ azione del ferro è la stessa sia che la corrente inducente passi semplicemente per esso, sia che propriamente l’ induzione si eserciti dal filo di ferro, così pre- ferii, per comodità, di studiare il fenomeno con le solite spirali È È producendo l’ induzione fra le spirali di rame 7 ed o. Le prime misure riguardano l’ influenza dell’ intensità della cor- rente sul rallentamento della corrente prodotta dal ferro. Adoperai per- ciò il solito apparato, Tav. I. già descritto; confrontai la spirale di ferro a quella di rame £ e sperimentai con correnti di varie intensità ed i risultati ottenuti con la corrente indotta di chiusura ed invertita sono trascritti nelle tre tavole seguenti; la prima delle quali si riferisce a misure fatte col ferro di 5 mill., la seconda col ferro di 3 mill. e la terza col ferro di mill. 1 di diametro. SULLA DIVERSA TENSIONE ECC. 459 Ferro grosso mill. 5 e lungo 35 metri Corrente Magnetismo svolto Rapporti Intensità | Passa pel| dalla induzione 0, 122 | piani DE 1,33 iso ne |) 0, 367 (| aa st 1,70 0, 431 aa Ra 1,69 piso (Rae | SE Tim pren t Fame | (ST da sso (Re | SE da Ferro grosso mill. 3 e lungo 35 metri Corrente Magnetismo svolto Rapporti Intensità | Passa e e dalla induzione Et Paine |a 0 sr 1a a ieri cn "E CO i du Mii Lina pr za 460 EMILIO VILLARI Filo di ferro grosso mill. 1, e lungo 36 metri Corrente | Magnetismo | svolto Rapporti Intensità | Passa pel, dalla induzione 0, Romgri Rame | 6 ) 1.02 Ferro | 5 BARRE ONk95 Rame 22 ) Ferro | 15 ) Loti 0, 225 Rame 33 ) Ferro 23 ) Lat 0, 309 Rame 69 ) I Ferro | 42 ) La 0, 358 Rame 96 ) | Ferro ! 53 ) Lai Nelle ultime colonne delle tavole precedenti sono trascritti i rap- porti fra l’ intensità magnetica svolta dalla corrente indotta dal circuito totalmente di rame e da quello in parte di ferro: e le altre conten- gono i valori già indicati in precedenza. Ora nell’ ultima colonna si vede che il valore dei suindicati rapporti va continuamente crescendo fino ad un certo limite, oltre il quale diventa costante. Il che vuol dire che l’azione specifica del ferro nel rallentare lo stabilirsi della cor- rente in esso cresce con l’ intensità della corrente fino a divenir poi costante: il quale limite potrebbe forse coincidere e dipendere dal massimo di magnetismo del ferro. A questo limite si trova che la corrente indotta col circuito di ferro ha una tensione ( misurata colla magnetizzazione ) ciica metà di quella indotta dal rame; e dico c?rca, giacchè non feci esatte ricerche in proposito. I risultati poi quasi eguali delle 3 tavole precedenti, mostrano come la grossezza del filo di ferro, nei limiti da me sperimentati, non ha influenza apparente. Anche la lunghezza del ferro esercita una certa influenza e pro- priamente si scorge che l’ azione rallentatrice propria del ferro cresce un po col crescere della lunghezza del circuito di ferro. Infatti costruil due spirali, una di 38 e l’altra di 40 metri e sperimentai introdu- cendone nel circuito ora una sola ed ora tutte e due ed ottenni i ri- sultati qui appresso riferiti. SULLA DIVERSA TENSIONE ECC. 461 Ferro grosso 5 mill. e lungo 78 metri. Corrente Magnetismo svolto Rapporti Intensità | Passa pel | dalla induzione Rame 214 ) | Ferro 125 ) sol Stesso ferro lungo 40 metri Rame 225 ) | Ferro 175 ) Lat Ferro grosso 3 mill e lungo 35 metri 0, 548 | Rame | TRI ) 9 1 Ferro 53 be: dat Stesso ferro lungo 17 metri 0, 548 Rame | 110 ) | Ferro T4 ) h, 48 Ferro grosso mill. 1, lungo 36 metri 0. 360 se Ramerti 96 ) i | Ferro | 53 ) ta Stesso ferro lungo 18 metri Rame 94 ) | Ferro 61 ) ly 20 Dai dati precedenti si vede che la differenza fra il rame ed il ferro cresce un po con la lunghezza; ed intatti si vede che il magnetismo svolto dalla corrente inducente che attraversa il ferro cresce un po quando questo scema in lunghezza. Noterò che i numeri precedenti sono i valori medi di 3 o 4 osservazioni quasi identiche fra loro. È qui è quasi inutile ricordare che in tutte le esperienze di confronto ebbi cura di sperimentare con correnti inducenti sempre perfettamente eguali fra loro. Conclusione. — Riassumendo adunque in brevi parole le cose esposte fin qui potremo dire che 462 EMILIO VILLARI 1.° Il ferro presenta alla corrente elettrica interrotta e meglio ancora alla invertita una resistenza maggiore che alla corrente continua. 2.° La durata dello stato variabile della corrente nel ferro è maggiore che nel rame e specialmente se esso fu percorso da corrente in opposta direzione. (1) 3.° Che per quest’ aumento della durata dello stato variabile la corrente indotta da una corrente che passa pel ferro è, a parità di condizione, di minor tensione di quella indotta da una corrente che passa solamente pel rame. 4.° La tensione della corrente indotta dal rame sul ferro è pari- menti di minor tensione di quella indotta dal rame sul rame. Questi fenomeni si riferiscono alla corrente indotta di chiusura e sono più manifesti se la corrente primaria si inverte ciascuna volta. 5.° L'azione del ferro aumenta con la lunghezza dei fili; au- menta con l’ intensità della corrente fino ad un certo limite, coincidente forse col massimo di magnetismo del ferro ed è quasi indipendente dalla grossezza dei fili medesimi. 6.° La tensione della corrente di interruzione è maggiore fra cir- cuiti totalmente di rame che fra circuiti parzialmente di ferro. 7.° Tutti questi fatti tengono alla generazione del magnetismo tra- sversale del ferro prodotto dalla corrente che lo percorre, per lo che lo stabilirsi del flusso elettrico che lo invade ne viene ritardato. (1) Intorno a queste prime conclusioni e sullo stato variabile del ferro, vedi Villari, Sulle correnti interrotte ed invertite, Accademia di Bologna 1873. DESCRIZIONE DI UN INVERSORE AUTOMATICO A MERCURIO DEL PROF. EMILIO VILLARI (Letta nella Sessione 18 Dicembre 1873) IR fisica esistono oggi moltissimi apparati per interrompere ed anche invertire le correnti elettriche; i quali a seconda degli scopi a cui sono destinati si costruiscono di forme più o meno svariate e diverse. Essi tutti possono forse distinguersi in due categorie; quelli cioè nei quali la chiusura e la interruzione del circuito si esegue mediante il mercurio e quelli nei quali si esegue per mezzo di due pezzi metallici solidi, che vengono messi a contatto fra loro o separati. I primi presen- tano sui secondi moltissimi vantaggi e maggiore esattezza, così che quando si può sono sempre da preferirsi ai secondi. Fra gli interruttori a mercurio va citato quello del Foucault il quale fu costruito per vincere molti inconvenienti degli altri interrut- tori e fu applicato all’ apparato del Ruhmkorff, che potette così pro- durre quei brillanti fenomeni che tutti conoscono. Fra gli inversori a mercurio ne va citato qualcuno a mano che può produrre una o poche inversioni a secondo. Fra gli inversori a metalli solidi ve ne sono moltissimi e tra questi è bene citare quello di Stempelmann che si avvicina alquanto per la forma a quello co- struito da me. L’inversore di Stempelmann è automatico ed è desti- nato agli usi medici, adoperandosi tutte le volte che si voglia operare a corrente primaria alterna. Però questo inversore non è a mercurio; ed è messo in moto da due elettro-calamite a ferro di cavallo le quali sono messe in attività dalla stessa corrente della pila che deve essere invertita, e che deve passar poi nell’ apparato elettromedico. La quale 464 EMILIO VILLARI ultima circostanza rende 1’ uffizio di questo inversore assai limitato; in primo luogo perchè dovendo la corrente che si vuole adoperare passare per le calamite dell’ inversore essa non può variare nella sua intensità che in limiti molto ristretti; ed inoltre variando l’ intensità della corrente varierà naturalmente la rapidità delle inversioni, il che riesce incomodo e nocivo in molte circostanze. In secondo luogo molte esperienze in fisica non possono esser fatte con questo inversore perchè la corrente invertita deve sempre passare per due elettro-calamite. To ho costruito, per alcune esperienze che pubblicherò più tardi un inversore automatico a bilanciere oscillante nel quale le inver- sioni si fanno sul mercurio. Esso è messo in moto da una corrente diversa da quella che deve essere invertita, per cui non presenta gli inconvenienti sopra citati; e può riuscir utile a molte esperienze nelle quali s’ abbia bisogno di inversioni più o meno rapide e regolari del- la corrente. Il mio inversore è rappresentato in prospettiva nella Tav. II. ed è fatto come segue. Sopra una tavoletta di magogano AB trovasi nel mezzo impiantato solidamente un piede di ottone d' d' al quale per mezzo di una cremagliera è raccomandata una molla a larga 26 mill. e grossa circa 0,5 mill. che porta in alto una traversa o bilanciere bb',e si termina in un'asta di ottone nella quale scorre una palla del medesimo metallo c, che a mezzo di viti può fissarsi sull’ asta ‘a diffe- renti altezze. Questo sistema per mezzo della cremagliera e del botto- ne e può sollevarsi od abbassarsi. Il bilanciere è fatto da un prisma quadrato di ebanite lungo 11 cent. e di 1 cent. di lato. Alle sue estremità sono fissate 4 aste di ottone isolate FFF'F":le due inferiori f ed f''' comunicano fra loro pel filo metallico Vd e le due superiori f' ed /"' comunicano del pari fra loro per un filo simile al precedente d d'. Le aste poi sono forate in cima e per mezzo di viti a pressione sostengono dei fili di alluminio (perchè sieno leggieri ) terminati in basso con fili di platino: i fili superiori /' ed f' passano attraverso le aste inferiori, dalle quali sono isolate per mezzo di pezzi di ebanite. Tutti e quattro poi questi fili vanno a pescare in 4 bicchierini corrispondenti g g'g'' g''' contenenti mercurio; i quali si possono abbassare od innalzare per mezzo di viti appropriate conte- nute nei piedi rispettivi e mobili per mezzo delle teste %%' 4'4"'. AI disotto del bilanciere vi è una calamita a ferro di cavallo I, la quale quando entra in attività attrae un’ ancora di ferro » fissata al bilan- DI UN INVERSORE AUTOMATICO A MERCURIO 465 ciere e può metterlo in oscillazione come dirò. I capi dell’ elettro-ca- lamite terminano uno al serrofilo % e 1’ altro al piede / di un quinto bicchierino a mercurio nel quale pesca una punta di platino 0 che è fissata in m ad una striscia di ottone per la quale comunica elettrica- mente con la molla « . Oltre di queste parti nella figura si scorgono due serrofili s e # che si fanno comunicare con 1’ apparato nel quale la corrente si vuole invertire. Il serrofilo # è unito con una striscia di rame, che comunica in y col bicchierino g'' quindi seguita in x ed è unito al bicchierino g (1). Il morsetto s è unito ad una striscia di rame fissata posteriormente sulla tavoletta, e per detta striscia comunica col bicchierino g''' e g'. A sinistra della figura vi sono due altri morsetti p ed « che si uni- scono ai poli della pila la cui corrente si vuole invertire. Di questi morsetti poi quello p con un filo di rame è unito a q e quindi alla spirale di rame gr, alle aste f' ed f"' pel filo più sopra indicato d d'. Il morsetto 2 comunica anche esso per un filo col morsetto 2, con la spirale 2 v e pel filo vd alle aste 7 ed f"". Tale è l’inversore da me costruito, vediamo ora come può met- tersi in azione. Per metterlo in moto si adopera un debole elemento Bunsen i cui poli si mettono in comunicazione il positivo p. e. col serrofilo # ed il negativo col piede d'd' per mezzo di un altro serrofilo situato simmetricamente a %, ma che non si vede nella figura. In tale sup- posizione la corrente entrerà per £ nella elettro / e ne uscirà pel filo £ quindi monterà pel bicchierino al filo 0 immerso ed andrà alla molla a, al piede d'd' ed all’altro polo della pila: e ciò accadrà quando la punta o è immersa nel mercurio del bicchiere g'''". Quando però la cor- rente passa per la calamita /, questa entra in attività, attrae l’ancora n, piega a destra il bilanciere, solleva la punta 0 dal mercurio ed interrom- pe così il circuito e la corrente. Per detta interruzione la calamita cessa di agire, l'ancora è abbandonata e la molla a per la sua elasticità piega il bilanciere a sinistra, immerge la punta o nel mercurio e ri- (1) I bicchieri adoperati in questo apparato come quelli dell’ interruttore Foucault, sono di vetro a fondo metallico e perciò in comunicazione elettrica con le colonne o piedi ai quali sono appoggiati: nei quali piedi vi sono le viti di richiamo RE'K"E!". TOMO IV. 99 466 EMILIO VILLARI stabilisce nuovamente il contatto. Così ripassa nuovamente la corrente e subito dopo è da capo interrotta, compiendo così il bilanciere una serie di oscillazioni più o meno rapide. La rapidità delle oscillazioni può aumentare o diminuire sia fa- cendo la molla @ più o meno grossa, sia abbassando od innalzando, per mezzo della cremagliera, il bilanciere ed avvicinando così più o meno l’ ancora alla calamita, e finalmente la durata delle oscillazioni varierà ancora spostando il peso e sull’ asta che lo sostiene (1). Questa parte dell’ apparecchio è, come si scorge, simile a quella che si trova nell’ interruttore Foucault. Veniamo ora a dire della corrente primaria, cioè di quella che deve essere invertita. Supponiamo che la pila che la fornisce comunichi col suo polo positivo col morsetto p, la corrente seguirà le frecce tenendo la via p, q, », 0, f', g° e quindi dal piede h' per un conduttore o striscia di rame segnata dietro della figura arriverà al morsetto s: dal quale passerà nel filo A4' e secondo le frecce esterne arriverà in #, quindi per la striscia y& « arriverà al bicchiere 9g di dove seguiterà per fv2x ed arriverà all’ altro polo della pila. In questa via tenuta dalla corrente abbiamo supposto che il bi- lanciere fosse piegato a sinistra della figura, così che le punte 9 e g' fossero immerse nel mercurio dei bicchierini corrispondenti e le punte g' e g'"' fossero emerse. Anzi dirò che bisogna sempre regolare le cose in modo, che nel momento nel quale le punte di destra sieno immer- se, quelle di sinistra sieno emerse, così che non ci sia nessuno istante durante 1’ oscillazione nel quale immergono tutte e quattro le punte, altrimenti passerebbe per A' una sola derivata. Per regolar poi il li- vello del mercurio, i bicchierini e le punte possono variamente spo- starsi. Nel caso invece, che il bilanciere sia piegato a destra della figura e che perciò le punte g'' g'"" sieno immerse e le gg" emerse, la cor- rente seguirà la via indicata dalle lettere p, 9g, 7,0 e pel filo di comu- nicazione arriverà in d'f''g'' h'yt, e percorrerà il filo A' secondo le frecce interne, opposte alle esterne, quindi verrà in sh!" gf" dv, e per la spirale ve ad x ed all’ altro polo della pila. Questo inversore può servire come si comprende facilmente ad in- (1) La mobilità della punta o e del bicchierino corrispondente servono a regolare esattamente l’ istante della interruzione della corrente. DI UN INVERSORE AUTOMATICO A MERCURIO 467 vertire od interrompere semplicemente la corrente. Nel primo caso l’apparato dove si vuole invertire la corrente si mette invece del cir- cuito A' e nel secondo si interpone nel circuito della pila: in questa ultima posizione però è necessario di riunire i morsetti s e # con un filo conduttore. In questo apparato le inversioni od interruzioni si ve- rificano ad ogni semi-oscillazione. Nell’ interruttore semplice di Foucault l’ interruzioni accadono ad ogni intiera oscillazione: e perciò in molti casi il mio apparato può essere preferibile a quello di Foucault. Oltre di che si può variare la durata della chiusura della corrente rispetto alla apertura senza variar perciò il numero delle interruzioni a secondo. Il che si pratica facilmente muovendo i bicchierini 9 9'g''g''' e facen- do sì che la immersione delle punte corrispondenti nel mercurio duri più o meno tempo durante 1’ oscillazione del bilanciere. I vantaggi che presenta questo apparato sono i seguenti. 1.° Le oscillazioni del bilanciere e però le inversioni sono di eguale durata. 2.° Il numero delle inversioni può variare entro limiti abbastan- za ampi. 3.° Esso si può adoperare come interruttore semplice e come in- versore. 4.° Le chiusure si fanno col mercurio e platino e perciò sono perfette. 5.° Le interruzioni si fanno sul mercurio che può coprirsi con vari liquidi onde sminuire la scintilla di apertura. 6.° La durata della chiusura può variare relativamente alla aper- tura rimanendo costante il numero delle interruzioni a secondo. 7.° Finalmente l’ inversore è messo in moto da una elettro-cala- mita la quale viene animata da una corrente indipendente da quella che deve essere invertita od interrotta. E Villari Sulle correnti elettriche indotte. T"I. rr eniorai U. Bettini inc. Bologna Lit. G.Werk NATE er? qrIM 9 I] ‘eubolog al SRI SP MO YI pdl » è ve È x er Ù A (0 .] OWNOIGUI B 091]2WO]NE 910819AU] — LIB|[I| {{ ‘\| 100], € 109 "To]j OSSERVAZIONI INTORNO ALLA STRUTTURA DELLA CONGIUNTIVA UMANA DEL PROF. G. V. CIACCIO ( Lette nella Sessione 20 Marzo 1873) ........ Ho considerato la poca credenza che si può dare agli Scrittori delle cose naturali; onde sempre più mi confermo nella mia antica opinione, che chi vuol ritrovar la verità, non bisogna cercarla a tavolino su’ libri, ma fa di mestiere lavorar di propria mano, e veder le cose con gli occhi propri]. Repi, Opere, T. V. p. 89. Napoli 1778 (9° congiuntiva dell’ occhio umano è stata a tempo nostro inve- stigata da anatomici assai esercitati nel maneggio del microscopio; e pure se ti fai a leggere ciò che hanno scritto della sua struttura, tu li trovi discordi e contraddittorii. E questo, secondo me, proviene da più cagioni. La prima, che molti si danno a credere che una cosa non esista, perchè loro non è venuto fatto di osservarla. La seconda, che ogni osservatore crede che sia vero ciò che ha veduto egli, senza tener conto che possa esser vero ciò che hanno veduto gli altri. L’ ul- tima è, che alcuni non sanno interpretare le cose che osservano, o le interpretano non secondo natura, ma secondo una certa idea che hanno nella mente, alla quale idea si studiano di subordinare le apparenze delle cose che hanno osservate. E questi tali non considerano, che una medesima cosa può pigliare diverse apparenze in virtù delle ma- terie chimiche che adoperano, e si fermano ad un’ apparenza sola, e credono che sola questa corrisponda alla verità, e tutte le altre tra- scurano. Laonde per discernere il vero in questo soggetto tanto investi- 470 G. V. CIACCIO gato, e intorno a cui tanti hanno scritto, ho dovuto osservare di nuovo e a parte a parte tutta quanta la congiuntiva, ora tagliata sottilmen- te secondo l’ altezza, ora distesa e di faccia, avendola prima sottoposta all’azione di tutte quelle sostanze o coloranti o chimiche abili a dichia- rarne le varie parti costitutive; e inoltre ho dovuto paragonare tra loro le apparenze prodotte per l’opera delle dette sostanze, e giudicare quale fra esse apparenze corrispondesse veramente alla natura della cosa. Ora quel ch’ io per molte osservazioni non precipitosamente fatte ho potuto comprendere intorno alla struttura della congiuntiva umana, lo verrò quì appresso divisando in più capitoli, secondo che porta la materia da trattare. IL Della congiuntiva, come va divisa, e di quali parti è composta. Col nome di congiuntiva si chiama comunemente dagli anatomici la tunica mocciosa che veste la faccia interna delle palpebre e la parte ante- riore del bulbo dell’occhio. La congiuntiva conviene dividerla in tre parti, cioè in quella delle palpebre, in quella de’ fornici, o reflessa che altri la chiamino, e in quella del bulbo. La congiuntiva delle palpebre poi è da suddividere in due parti, l’ una che si dice tarsea, l’ altra orbitale; e similmente è da suddividere in due parti la congiuntiva del bulbo, delle quali l’ una si chiama congiuntiva della selerotica, l’ altra congiun- tiva del margine della cornea, ovvero lembo o anello della congiuntiva; il quale anello, per averlo io misurato, non mi pare più largo di un millimetro e mezzo a due. La congiuntiva, dov'è meno aderente, forma delle pieghe più o meno rilevate, le quali ordinariamente si trovano presso a’ fornici e tutte son nascose dalle palpebre, da quella in fuori ch'è situata verso 1’ angolo interno dell’ occhio, la quale per alquanto della sua lunghezza resta visibile, e, per essere di figura falcata, vien chiamata piega semilunare. Tra questa piega semilunare e 1’ angolo interno dell’ occhio c’ è uno spazio terminato di sopra e di sotto dalla DELLA CONGIUNTIVA UMANA 471 parte lagrimale del margine libero delle palpebre, il quale spazio è detto Zago delle lagrime, nel cui fondo rilevasi la caruncola, piccolo rialto formato principalmente da circa tredici follicoli piliferi e dalle glandule sebacee annesse a quelli. Queste divisioni e particolarità della congiuntiva, prima che io venga a favellare della sua struttura, mi è parso necessario di ricordarle al lettore, perchè comunque la congiun- tiva sia un tutto continuo, pure le parti in cui fu di sopra distinta non sono fabbricate a un medesimo modo. La congiuntiva, sì come la pelle delle palpebre, alla quale si continua, è composta di due parti, l’ una è il corio mucoso che cor- risponde al derma della pelle, l’ altra è 1’ epitelio che corrisponde allo strato interno dell’ epidermide o corpo mucoso del Malpighi. Il luogo ove si può scorgere con chiarezza come la pelle delle palpebre passi nella congiuntiva, e quali cangiamenti ella patisca nell’ interna sua fabbrica in così fatto passaggio, è per appunto il margine libero delle palpebre, il quale è coperto di una sottile membrana, che da un lato è continuata alla pelle, e dall’ altro alla congiuntiva; e questa sottile membrana non si può dire che sia una membrana neutra, perciocchè essa nell’ interna testura somiglia più la pelle che la congiuntiva, sic- come ognun che voglia potrà certificarsene, osservando con diligenza un sottilissimo taglio longitudinale sia della palpebra superiore, sia dell’ inferiore. A. Corio mucoso. Il corio mucoso della congiuntiva, eccetto dove veste il bulbo dell’ occhio, è fatto simigliantemente che la mucosa del sacco lagrimale e del canale nasale, cioè di sostanza connettiva reticolata o adenoide (Fig. 1 e 4), la quale si compone di una spessa rete di sottili fibre (Fig. 5), che alle volte, dove s'incontrano o intersecano, danno a vedere alcuni nuclei con poca materia granosa intorno, i quali verosimil- mente non sono altro, che le vestigia di quelle cellule, donde esse fibre ebbero nascimento. Le maglie di questa rete contengono dei corpuscoli linfoidi, granosi e di varie grandezze, che nell’ apparenza e nella maniera come sono operati dalle materie coloranti e dalle diverse sostanze chimi- che non sono dissimiglianti da’corpuscoli della linfa. Alla superficie del corio mucoso le sottili fibre che compongono la mentovata rete si adu- nano per tal guisa, che pigliano aspetto di tenuissima membranetta omo- AT2 G. V. (CIACCIO genea ed uniforme, la quale, per l’opera dell’ acido acetico e della potassa soluta rigonfiandosi, diviene patentissima all' occhio; e inoltre, quando è trattata col permanganato di potassa, si risolve, così come ta l’ elastica anteriore della cornea, nelle sottili fibre di cui è composta. In questa tenuissima membranetta omogenea, che fu chiamata dal Bowman Base- ment Membrane, forse perchè sostiene 1’ epitelio, io ho osservato, allora quando la congiuntiva è colorata in fulvo oscuro per mezzo del nitrato di argento, de’ vani o canaletti umoriferi, e, oltre a questi, ho anche os- servato alla superficie di essa membranetta un reticolamento di linee oscuricce, granose, e più o meno ondate, il quale è simile a quello che alcune volte sì vede ‘sopra I’ elastica ‘anteriore della cornea, quando dopo averla trattata col suddetto nitrato di argento, se n’ è gentilmente rastiato l’ epitelio. E da così fatto reticolamento mi pare che potesse avere ‘origine l’ equivoco di Debove (1), il quale credette essere la membranetta omogenea, che si scorge d’ordinario alla superficie delle tuniche mocciose, un composto di cellule endoteliche. To però, contro l’ opinione del Debove, penso iche le suddette linee ondate, anzi ch’ es- sere i contorni di cellule endoteliche, sono quella poca di ‘sostanza granellosa che serve per unire le cellule epiteliali tra loro; la quale sostanza, quando 1’ epitelio si raschia da una tunica mocciosa, resta alvolta attaccata alla superficie della membrana di sostegno, e rende esattamente la figura di quella parte con cui le cellule epiteliali vi si posavano sopra. E che la cosa stia veramente così, io mel persuado volentieri non solo perchè in queste credute cellule endoteliche non m'è riuscito mai di far risaltare il nucleo nè col carminio, nè con l’ ematossilina, nè con |’ anilina, ma anche perchè le linee ondate del summentovato reticolamento rastiando si possono in tutto o in parte levar via, senza rimanerne intaccata o lacera la membrana di sostegno. 11) Nella congiuntiva, che copre il davanti del bulbo dell’ occhio, il corio mucoso è composto di fascetti di tessuto connettivo ordinario più e meno grossi e stretti insieme (Fig. 6), i quali per l'andamento di- verso s’inerociano, facendo diversi angoli. Fra questi fascetti si tro- vano varie forme di cellule, alcune piatte e di figura rettangolare o quadrata, alcune oblunghe, alcune fusate, altre di figura irregolare, (1) Debove, Sur la couche endothéliale sous-épithéliale des membranes muqueuses. Compt. rend. LXXV. N.° 26. p. 1776-1777. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 473 altre stellate con processi più o meno numerosi e varii per andamento e grossezza; e queste ultime cellule io le ho vedute particolarmente vicino alla superficie del corio mucoso, quando esso era colorato dal cloruro di oro. Inoltre insieme con queste diverse maniere di cellule si veggono pochi corpuscoli linfoidi, che possono per 1’ infiammazione della congiuntiva crescere notabilmente di numero. Il corio mucoso della congiuntiva del bulbo è unito debolmente alla sclerotica per mezzo di un tessuto connettivo areolare ricco di sottili fibre elastiche; per contrario quello della congiuntiva tarsea è così strettamente con- giunto con la faccia posteriore de’ tarsi, ch’ è assai malagevole, per non dire impossibile, a staccarnelo. In veruno altro luogo, per quanto ho io osservato, il corio mu- coso della congiuntiva si addentra nell'epitelio formando di varie ma- niere rialti, tranne presso al margine libero delle palpebre, e presso alla parte superiore ed inferiore del circuito della cornea. E dico da prima che i rialti che son presso al margine libero delle palpebre si continuano a quelli che si trovano in esso margine, e costantemente svaniscono a un millimetro circa dal labbro interno di quello. Essi osservati di fronte appariscono alcuni tondeggianti ed isolati, altri slun- gati e larghi, e non di rado congiunti insieme a modo di rete. Per contrario i rialti che son presso alla parte superiore ed inferiore del circuito della cornea si danno a vedere di diversa grossezza e quasi che sempre intrecciati in rete, la quale manda altri rialti che talvolta si biforcano, talvolta no, e terminano rasente il circuito della cornea, talvolta in punta, talvolta capocchiuti (Fg. 7 i). Questa rete è larga da 1 a 1,25 Mm., e lunga non più che 5 Mm., tanto di sopra, quanto di sotto al circuito della cornea. I rialti poi ch’ essa manda verso il circuito della cornea sono lunghi da 0,45 a 0,7 Mm. E questi ultimi rialti, che hanno forma di liste o linguette, furono la prima volta osservati dal Manz (1), ed ora vanno generalmente sotto il nome di lui. Il Manz però si dette a credere che queste liste o linguette pro- venissero da ciò, che nella parte superiore e nella inferiore del circuito della cornea il corio mucoso della congiuntiva non termina, assotti- (1) Manz, Ueber neue eigenth. Drùsen am Cornealrande und ueber den Bau des Limbus conjunctivae. Ztschr. fir rat. Med. Bd. V. Heft. 2 u. 3. s. 122. TOMO IV, 60 474 G. V. CIACCIO gliandosi nell’ estremo suo quasi in forma di bietta (1), tra l’epitelio e la sostanza propria della cornea, ma si distende sopra di essa spartito in tante liste intervallate con regola. E in questa sua credenza fu secon- dato da W. Krause (2) e da altri ancora; ma non lo seconderò io, perchè se la cosa stesse così come afferma il Manz, in tal caso, quando le dette liste si osservano tagliate per trasverso, si dovrebbe tra l’una lista e l’ altra veder l’ epitelio coprire non già il corio mucoso della congiuntiva, sì bene la sostanza propria della cornea. Il che non è, e lo mostra chiaramente la Fig. 6, in cui la congiuntiva che confina con la parte superiore del circuito della cornea è rappresentata come tagliata a perpendicolo e secondo la direzione del circuito di essa cor- nea. Laonde le liste o linguette del Manz non sono che parte inte- grante di quella stessa rete di rialti, di cui si è parlato di sopra. Quando quella parte di congiuntiva, dove sono i nominati rialti, è colorata dal carminio, e, dopo averla ben distesa, si guarda dalla sua superficie esteriore, essi rialti si mostrano di color rosso dilava- tissimo pendente al bianco, e gl’ intervalli, che li separano, di color rosso acceso. Questa differenza di colore, com’ io avviso, proviene dalla diversa grossezza dell’ epitelio che copre i rialti e colma gl’ intervalli. E poichè l’ epitelio che copre la sommità de’ rialti è tre o quattro tanti meno grosso di quello che colma gl’ intervalli; ne viene ch’ esso epitelio, allorquando è colorato dal carminio ed è osservato a luce (1) Questo modo di terminare in guisa di bietta del corio mucoso della congiuntiva che veste il bulbo dell’ occhio, si vede benissimo ne’ sottili tagli meridiani del margine della cornea; anzi osservando con diligenza così fatti tagli sì vede che il suddetto corio mucoso realmente non finisce là, ove co- mincia ad apparire l’ elastica anteriore del Bowman, ma s’' insinua un piccol tratto tra essa elastica e l’ epitelio della cornea. Del che n’ ho avuto la ripro- va, esaminando a questi dì passati al microscopio un singolarissimo esemplare di pterigio membranoso, la cui sommità quasi arrivava fino al centro della cornea. Era questo pterigio per di sopra coperto di quel medesimo epitelio, che copre la cornea, ed era tutto quanto intessuto di sottilissime fibre conettive ed elastiche, qua e la tramezzate da fili di minuti granelli adiposi e da pochi va- sellini sanguigni; le quali fibre obbliquamente si attaccavano all’esterna super- ficie dell’ elastica anteriore, così come le barbe di una penna si attaccano alla rachide. (2) Krause, Anatom. Untersuch. s. 43. Hannover 1861. e Anatomie et Phy- siologie de la Conjonctive par W. Krause dans le Traité des maladies des yeux par L. Wecker. Paris 1863. Tome I. p. 7. PI. I. Fig. 7. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 475 x refratta, apparisce tanto più fortemente colorato, quanto è maggiore la sua grossezza, e per conseguente gl’ intervalli appariscono rossi, e 1 rialti pressochè albicci. I rialti, di cui ho favellato, costantemente pigliano forma di pa- pille coniche di varie altezze (Fig. 6 p), talvolta biforcate e solo congiunte per la base, talvolta con l’ apice allargato a modo di un cappel d’ aguto, o vero di fungo tanto ne’ tagli meridiani della con- giuntiva, quanto in quelli paralleli al margine della cornea. La qual cosa, se io ben veggo, prova che questi rialti parte in figura di liste o linguette vanno al margine della cornea, e parte si congiungono in forma di rete; e per appunto questi ultimi appariscono in forma di papille coniche ne’ tagli meridiani della congiuntiva, e non già i primi, i quali prendono quella apparenza quando sono tagliati per trasverso, e non per lo lungo. E questa apparenza di papille coniche, originata dall’ addentrarsi del corio mucoso nell’ epitelio, prova la fal- sità dell’ opinione dell’ Arnold (1) e dell’ Henle (2), i quali vogliono che le liste o linguette del Manz non siano altro che pieghe artificiali della congiuntiva prodotte per ciò che egli la facea disseccare, prima di tagliarla. Ma se così fosse, allorchè la congiuntiva è tagliata a per- pendicolo, tanto il corio mucoso, come l’ epitelio dovrebbero apparire nel medesimo tempo inflessi e piegati: la qual cosa non è. Ma perchè sia affatto tolto il sospetto che questi rialti che forma la congiuntiva in vicinanza del circuito della cornea siano delle grinze causate dal suo disseccarsi, dico che così fatti rialti io li ho visti non solo in quelle congiuntive che senza staccarle dall’ occhio avea fatto indurare in una soluzione di acido cromico (0,5%), ma anche in quelle altre che fresche avea colorato immergendole in una so- luzione ammoniacata di carminio. E di più soggiungo che i detti rialti li ho trovati e nella congiuntiva dei giovani e in quella degli adulti e dei vecchi, ne’ quali ultimi i rialti son sempre più manifesti. E al proposito mi sovviene, che in un vecchio di 76 anni morto di scorbuto il dì 17 del passato febbraio nel Ricovero di Mendicità di Bologna, i rialti in discorso, per ragione dei molti granelli oscu- (1) J. Arnold, Ueber die Endigung der Nerven in der Bindehaut des Aug- apfels und die Krause'schen Endkolben. Virchow's Archiv. Bd. XXIV. 1862. (2) Henle, Eingeweidelehre s. 704 476 G. YV. CIACCIO ricci che riempivano le cellule profonde di quello epitelio che copre l’ anello della congiuntiva, erano spiccati a tal segno, che 1’ occhio senza ajuto di lente li potea agevolmente discernere. A che fine poi la natura abbia fatto questi rialti in questa parte della congiuntiva che circuisce la cornea, io nol so; quel che so, e posso affermarlo con certezza piena, è, che in alcuni uccelli (3) essi sono in grandissimo numero intorno a tutto il margine della cornea. E io fondandomi in quello insegnatoci finora dall’ esperienza aderisco a credere che questa parte della congiuntiva del bulbo, dove si trovano i menzionati rialti, sia più sensitiva di quelle altre parti, dove di rialti non ce n’ ha. Comechè io abbia detto e dimostrato che il corio mucoso della congiuntiva dell’uomo non si addentri nell’ epitelio formando rialti di diverse figure e grandezze, eccetto ne’ due luoghi detti di sopra; non- dimeno s’ ingannerebbe assai chi credesse che nel restante della con- giuntiva il corio mucoso si mantenga in tutto piano ed eguale. Impe- rocchè esso nella congiuntiva palpebrale e in quella de' fornici si av- valla dove più, dove meno, e gli avvallamenti ora sono in guisa di pozzette, ora di solchi. Le pozzette variano molto e nella forma e nella grandezza. Per lo più sono semplici, ma talvolta son divise in due o più scompartimenti. Talvolta sono assai vicine, e talvolta in distanza l una dall’ altra. Esse si trovano sparse senza alcun ordine per tutta quanta la congiuntiva delle palpebre e quella de’ fornici, e sono internamente vestite di epitelio cilindrico. I solchi poi si trovano solamente nella congiuntiva tarsea, e tramescolati con le pozzette. E alcuni vanno diritto, altri s° incurvano, altri serpeggiano, altri s° incro- (3) Nella colomba, nell’ anitra, e nell’ oca io ho osservato, che la congiun- tiva, poco prima di arrivare al margine della cornea, costantemente s' innalza in una infinità di minutissime papillette, le quali tutte insieme formano come una zona non interrotta e larga circa a tre millimetri. Queste papillette, al- lorchè si guardano per di sopra col microscopio, dopo averle colorate mediante il carminio, appariscono come prominenze o rialti rossigni, varii di grandezza e forma, e separati l’ un dall'altro da intervalli albicci; mentre nell’ uomo, co- me si è detto, appariscono rossigni gl’ intervalli, ed albicci i rialti. Cotesto ri- mutamento di colore, secondo io credo, proviene da ciò, che ne’ soprannomi- nati uccelli le papillette in discorso son fatte, non già come nell’ uomo, dal- l’internarsi del corio mucoso nell’epitelio, ch’ è sempre tutto eguale nella sua superficie, ma da naturali e permanenti increspature di quella parte di con- giuntiva che circuisce la cornea. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 477 ciano e comunicano insieme; talmente che essi circoscrivono ajuole, varie per la figura ed ampiezza, ora isolate, ora continue l’ una al- l’altra. E questi solchi sono, similmente che le pozzette, vestiti al- l'interno di epitelio cilindrico e coperti per di sopra dall’ epitelio pavi- mentoso stratificato della congiuntiva, il quale converteli in canali che si aprono alla superficie di essa congiuntiva con forametti talora ro- tondi, talora bislunghi. Come ognun vede, queste pozzette e questi solchi sono le glandole di Henle, di cui ho a discorrere appresso. Al mio credere, le diverse forme di papille ammesse generalmente dagli Anatomici nella congiuntiva palpebrale dell’ uomo, altra cosa non sono che le ajuole o i tramezzi che circoscrivono e separano l’ una dall’ al- tra le dette glandule di Henle (Fig. 1 cm). Nè queste ajuole o tra- mezzi nella congiuntiva sana risaltano sopra di essa, perchè l’epitelio le copre ed uguaglia nella superficie; ma sì bene risaltano in quelle condizioni morbose, in cui si disfà in tutto o in parte l’epitelio della congiuntiva e quello delle glandule mucose di Henle. Ond’ è che di queste credute papille nella congiuntiva sana non se ne scorgono in tutte quelle parti, dove le glandule di Henle fanno difetto. B. Epitelio. L’ epitelio della congiuntiva è di due forme, pavimentoso strati- ficato (1), e cilindrico stratificato. La prima di queste forme si trova (1) Nelle mie Osservazioni intorno alla minuta fabbrica della pelle della Rana esculenta stampate in Palermo nel 1867 io scrissi in proposito degli epitelj stratificati in questi sensi a carte 25: « Il Recklinghausen ha veduto i « globetti semoventi del tessuto connettivo passare negli epitelj stratificati. Que- « sto fatto venne da lui osservato nella cornea; ma egli lo generalizza al tes- « suto uniente comune. E pare ch’ ei ritenga che le forme ramificate di pig- « mento, che si trovano nell’ epidermide della rana, derivino da’ globetti semo- « venti del tessuto connettivo del derma, i quali passano per mezzo a' diversi « strati delle cellule epiteliali. Ed abbenchè non gli fosse riuscito di vedere in « atto sì fatto passaggio, nondimeno l’ ammette, considerando che i globetti, « che si trovano tra gli strati epiteliali, hanno la medesima forma e presentano « ì medesimi fenomeni di movimento, che i corpuscoli semoventi del tessuto « connettivo. Ora se questi globetti che si osservano tra gli strati epiteliali « muovonsi e passano da un punto all’ altro, e ora gittano de’ prolungamenti che si cacciano per lo mezzo delle cellule epiteliali, e ora i gittati prolun- « gamenti a sè di nuovo traggono; mi pare che, per effettuarsi ciò, è necessa- A 478 G. V. CIACCIO nella congiuntiva che copre la faccia posteriore de’ tarsi, la caruncola, il lago delle lagrime e la parte davanti del bulbo; la seconda nella congiuntiva orbitale e in quella de’ fornici. L’ epitelio pavimentoso stratificato della congiuntiva, a cominciare da un millimetro di quà dal labbro posteriore del margine libero delle palpebre, è fatto di cinque ordini di cellule, sovrapposti gli uni agli altri, de’ quali 1’ infe. riore è situato a perpendicolo sopra il corio mucoso, ed è composto di minute cellule cilindriche; i medii sono di cellule poligone e sottil- mente striate agli spigoli; il superiore è di cellule larghe e piatte. E si noti che le strie delle cellule medie poligone divengono molto manifeste nell’ epitelioma della congiuntiva, in cui pare che le strie si prolunghino fino a’ nuclei delle cellule. Similmente di cinque o sei ordini di cellule è fatto 1’ epitelio della congiuntiva che veste la ca- vuncola e il lago delle lagrime. Nella congiuntiva del bulbo poi 1’ epi- telio si compone di sei ordini di cellule, i quali aumentano insino a dodici in quella parte della congiuntiva ch'è in vicinanza della cornea (Fig. 6 a). E io son di credere che quel poco di risalto che in guisa À rio che vi sia tra l’ una cellula epiteliale e l’ altra un qualche spazio, e che « la sostanza che lo riempie non sia solida, ma poco tegnente e cedevole. Onde, « se supponiamo tolta via questa materia che si trova tra le cellule compo- « nenti gli epitelj stratificati, è chiaro che debba rimanere un vasto sistema « di vani comunicanti tra sè e formanti una rete ordinatissima. Ne’ quali vani « ha luogo quella materia da me chiamata interposta, il cui ufficio forse po- « trebbe essere in parte non diverso da quello della materia granellosa che si « trova entro a’ canaletti del tessuto connettivo. E così i tessuti composti di < cellule, che son privi di vasi, avrebbero ancor essi un sistema di vani per « l’equabile distribuimento degli umori nutritivi. Il quale sistema di vani sa- « rebbe in diretta comunicazione con i pori canali, che si osservano nelle cel- « lule epiteliali già pervenute al grado di piena perfezione organica e la cui « attività è grande; di modo che la materia contenuta ne’ vani avrebbe per « la lor via un libero passaggio nell’ interno delle cellule ». Il Prof. Bizzozero (Osservazioni sulla struttura degli epitelî pavimentosi stratificati lette al- V Istituto Lombardo nell’ adunanza del 10 novembre 1870), tre anni dopo, è venuto in questa stessa mia opinione, salvo che egli, diversamente da me, crede che gli spazii intercellulari, oltre l'essere occupati da quella sostanza che sotto il nome di sostanza interposta io descrissi per minuto nelle soprammen- tovate mie Osservazioni a carte 14, sono altresì attraversati dalle ciglia che sportano infuori dalla superficie delle cellule epiteliali che terminano i suddetti spazii, le quali ciglia (son quest’ esse le sue parole) sî saldano alla loro estremità libera con l’ estremità libera delle ciglia opposte. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 479 di anello forma la congiuntiva intorno al margine della cornea proceda in parte da questa notevole grossezza dell’ epitelio. L’ epitelio della congiuntiva, quando passa su la cornea, diminuisce sì di grossezza, che contiene soli cinque ordini di cellule, e sei nel punto, dove fini- sce l’ una e comincia l’ altra. Osservando la congiuntiva di alcuni vec- chi m’è succeduto alle volte di vedere tra le cellule degli ordini medii dell’ epitelio della congiuntiva palpebrale e del bulbo alcune altre cellule al tutto somiglianti a quelle che si trovano nell’ epi- dermide di molti pesci, ed anche nell’ epitelio che riveste la mu- cosa della bocca de’ selaci, giusta le recenti osservazioni del Prof. To- daro (1). Queste cellule talora son poche, talora in assai numero. Molte hanno forma rotonda, o pure ovata, altre di pera o, per dir meglio, di quei bottoni di vetro, ove si tengono le essenze odorose. E le cel- lule in foggia di pera o di bottone, rispetto alle ritonde o vero ovate, si trovano sempre in un piano superiore, e con la parte ristretta, o vuoi collo, volta verso la superficie dell’ epitelio. Il contenuto loro è chiaro e limpido, e il nucleo assai piatto, e di figura falcata, se vi- sto in profilo, è rincacciato immediatamente sotto alle pareti, le quali sono sottilissime. Nella congiuntiva trattata con l’ acido osmico e il carminio le dette cellule spiccano tra le altre cellule epiteliali per il colore loro albiccio, stantechè il contenuto di esse non è affatto colo- rato dalle due mentovate sostanze. Trattate poi col cloruro di oro si colorano nel contenuto loro in violetto pendente allo scuro e diventano granose. Io per me credo queste cellule non naturali nella congiuntiva dell’ uomo, e le tengo come cellule epiteliali che per effetto di morbo han patito la trasformazione mucosa, la quale ho osservato che so- vente si accompagna con una trasformazione consimile delle cellule epiteliali cilindriche, che soppannano le glandule di Henle e i canali escretori delle glandule sottocongiuntivali e della glandula lagrimale. La seconda forma di epitelio, cioè il cilindrico stratificato, è fatta di tre o quattro ordini di cellule, due o tre profondi e uno superfi- ciale (Fig. 7 e). Le cellule profonde sono piccole, di figura tondeg- giante o bislunga, e stanno per lo più situate obbliquamente sopra il corio mucoso: le superficiali sono lunghe, coniche, con la base rivolta (1) Todaro, Ricerche su gli organi del gusto e la mucosa bocco-branchia- le dei selaci. Roma 1873. 480 G. V. CIACCIO in su e l'apice in basso, il quale a poco a poco si assottiglia in un sottilissimo filamento, che s’ insinua tra le cellule profonde, e pare che s’ immedesimi con la sostanza del corio mucoso. Il nucleo delle cellule è ovale ed è collocato nel mezzo del loro corpo. Queste cellule coniche facilmente si staccano, e però è cosa frequentissima il vedere la congiuntiva orbitale e quella de’ fornici solamente coperta delle cel- lule profonde; ma talvolta anche queste si staccano, e allora la su- perficie del corio mucoso rimane totalmente nuda. Le due dette maniere di epitelio, che sono nella congiuntiva del- l’uomo, non passano di subito, ma insensibilmente l’ una nell’ altra; e da quanto ho potuto scorgere osservando col microscopio parecchi tagli perpendicolari che comprendevano insieme parte della congiuntiva tarsea e parte di quella detta orbitaria, egli è certo che nel passaggio dell’ epitelio pavimentoso stratificato in cilindrico stratificato i primi mutamenti di forma avvengono nelle cellule mediane poligone, le quali a poco a poco si allungano, e come l’ allungamento loro va crescendo, così svaniscono le cellule piatte che sono alla superficie, e le profonde mutano la lor forma da cilindrica in quella rotonda o vero ovata. In principio queste cellule cilindriche sono disposte in due o tre suoli, ma poi quando la tramutazione dell’ epitelio si è compiuta, esse si ri- ducono ad un semplice suolo con due o tre altri suoli di cellule ro- tonde ed ovate, le quali si posano sopra il corio mucoso. II. Delle glandule. Le glandule della congiuntiva umana, volendo considerare il modo come son fatte, sono di due maniere, le une a tubo, le altre a grap- polo, o acinose. Della prima maniera sono le glandule mucose di Henle, della seconda quelle minutissime glandulette lagrimali che o sono im- piantate nella sostanza del tarso, o sono sparse per il tessuto connet- tivo sottostante a’ due fornici della congiuntiva. Oltre a queste due specie di glandule nella congiuntiva e’ è ancora de?’ follicoli linfatici, i quali somigliano a’ follicoli solitari dell’ intestino. Premesse queste DELLA CONGIUNTIVA UMANA 481 considerazioni, io mi farò a parlare partitamente di tutte le dette specie di glandule. A. Delle glandule a tubo. (Blind-darmf6rmige Dritsen, Henle ) L’ Henle (1) fu il primo a descrivere e ritrarre queste glandule, ma dalla descrizione sua si scorge manifestamente, ch’ egli ne vide sole quelle, che son fatte a modo di tubo e stanno situate sia perpendico- larmente, sia obliquamente nel corio mucoso. Ma per fare certo chiunque, che, oltre la predetta forma di glandule, ce n’ è varie altre, basta l’ osservare per la superficie quella parte della congiuntiva che copre internamente le palpebre, dopo averla colorata col carminio e resa trasparente mediante la glicerina acidula. E io non credo d’ in- gannarmi nell’ affermare, che 1’ Henle non avrebbe scritto che le glan- dule da lui scoperte si assomigliano tutte quante a quelle di Lieber- kiihn, nè il Luschka (2) e il Kòlliker (3) le avrebbero negate, se eglino avessero osservato con diligenza la congiuntiva palpebrale, nel modo ch’ è detto di sopra, e non soltanto tagliata secondo l’ altezza. Le glandule mucose di Henle, a guardarle intere e nella loro situazione naturale, appariscono figurate diversamente. Alcune sono come una vescichetta, altre come un sacchettino, altre sono di figura irre- golare, un poco schiacciate e bozzolose. Certe hanno forma di canale o tubo, più o meno lungo, ora dritto, ora incurvato, ora leggermente flessuoso, e questo tubo 1’ ho osservato, ancorchè di rado, dividersi non che una, ma replicate volte; e di glandule così fatte, alle quali piacemi di dar nome di glandole tubulose composte, per distinguerle da quelle, in cui il tubo non si divide, ne ho trovato tanto nella congiuntiva palpebrale, che in quella de’ fornici. Certe altre glandule poi, e questo è degno di considerazione, non sono altro che mere scanalature nel corio mucoso, profonde dove più e dove meno, con andamento diverso, e per lo più comunicanti tra loro; e queste sca- nalature sono ridotte in forma di canali dall’ epitelio della congiuntiva, (1) Henle, Eingeweidelehre, s. 702, fig. 545. (2) Luschka, Anat. VI, 269, fig. LXX. (3) Kòlliker, Handbuch der Gewebelehre s. 699. 5 Auflage. 1867. TOMO IV. 61 482 G. V. CIACCIO che vi passa sopra e le chiude, lasciando quà e là sole alcune bocchette, donde possa venir fuori il moccio che di continuo nel loro interno si se- grega. E di quì è, che nell’ osservare la congiuntiva tarsea, dove questa ultima maniera di glandule mucose solamente si trova, tagliata per lo lungo o per traverso, accade alle volte che vi si scorgano delle glan- dule senza veruna sboccatura e coperte per di sopra dall’ epitelio pa- vimentoso stratificato della congiuntiva (Fig. 1). La grandezza delle glandule mucose di Henle varia molto. Le glandule più grandi io le ho trovate nella congiuntiva orbitaria, dove talvolta alcune di esse per cagion morbifera ingrandiscono tanto, che arrivano alla grossezza di un granello di panico; e tali glandule così ingrandite contengono nel loro interno una sostanza aggrumata, gra- nosa, giallognola, e fanno quei minutissimi tumoretti cistici, che io ho osservato qualche volta presso al fornice superiore della congiuntiva. Le glandule mucose di Henle si trovano in grandissimo numero dissemi- nate per la congiuntiva delle palpebre e de’ fornici, ma mancano in vicinanza del margine libero delle palpebre, nel lago delle lagrime, e nella caruncola, ai lati della quale radissimamente mi è succeduto di rinvenirne qualcuna. Nella congiuntiva tarsea superiore sono più nu- merose che nella inferiore; e d’ ordinario sono numerosissime nel con- fine tra la congiuntiva tarsea e l’ orbitaria, il quale confine risponde al margine aderente del tarso. Ve n° ha di più verso 1’ angolo interno ed esterno dell’ occhio, che nella parte media della congiuntiva palpe- brale e de’ fornici. Nella congiuntiva tarsea le glandule sono collocate senza veruno ordine e a variabile distanza tra loro; per contrario nella congiuntiva orbitaria e in quella de’ fornici esse ora sono sepa- rate l’ una dall’ altra, ora riunite in piccoli gruppi, ed ora distribuite in righe più o meno lunghe. Nella congiuntiva del bulbo quasi co- stantemente non v° ha glandule, e dico quasi costantemente, imperocchè due volte m’ è avvenuto di trovarne alcune in tutto simili a quelle della congiuntiva palpebrale, e un’altra volta ho visto nella parte in- feriore ed esterna di essa congiuntiva del bulbo, lungi un millimetro e mezzo dal margine della cornea, nove minutissime glandulette della figura di una sacchettina, per lo più bipartite nel loro fondo cieco, con bocca piuttosto larga e quasi circolare, e guernite internamente di un ordine solo di cellule epiteliali poligone. Queste glandulette erano sparse sopra un millimetro quadrato di spazio, e io le trovo somiglian- tissime a quelle osservate prima dal Manz nella congiuntiva del porco DELLA CONGIUNTIVA UMANA 483 e poi dallo Stromeyer, e anche una sola volta dall’ Henle, nella congiun- tiva dell’ uomo. Le glandule mucose di Henle si aprono alla superficie della con- giuntiva con bocca più o meno larga, di figura rotonda o vero ellit- tica (fig. 3), la quale bocca più di frequente guarda verso il margine libero delle palpebre o verso l’ uno o l’altro de’ due angoli dell’ oc- chio. Queste glandule sono di fabbrica semplicissima, imperocchè son composte di una sottilissima membrana propria e di soli due strati di cellule epiteliali. La membrana propria si continua a quel tenuissimo suolo di sostanza connettiva omogenea, che limita la superficie del corio mucoso. Delle cellule epiteliali poi le profonde sono piccole, gra- nose, con nucleo rotondo, e poligone per pressura scambievole; le su- perficiali sono lunghe, di figura conica, e con la base rivolta verso il vano della glandula. Queste cellule epiteliali coniche o cilindriche, come comunemente le chiamano, sovente si veggono prese da quella speciale alterazione mucosa (Fig. 8), che, come si è detto avanti, altresì avviene nelle cellule medie dell’ epitelio pavimentoso stratificato della congiuntiva tarsea e del bulbo. Nel tracoma le cellute cilindriche delle glandule di Henle si disfanno, e restano per ordinario le poli- gone, come parimente restano sole queste cellule poligone, nel caso che le glandule ingrossino molto e piglino forma di tumoretti cistici (Fig. 9 e 10). E dico ancora, che nelle infiammazioni croniche della congiuntiva molte volte m’è occorso di osservare corpuscoli linfoidi in grandissima quantità intorno ad alcune di quelle glandule di Henle che si trovano nella congiuntiva orbitaria, di maniera che a prima vista queste glandule sembravano follicoli linfatici, a’ quali io credo che le scambiassero coloro, che negano l’ esistenza delle prenominate glandule di Henle. B. Delle glandule acinose tarso-congiuntivali (cIAccIO). Io credo queste glandule non dissimili da quelle che compongono la glandula lagrimale inferiore o accessoria, anzi, per dir meglio, le tengo per una naturale spostatura delle medesime. E. Klein (1) le osser- vò il primo, ma le descrisse poco accuratamente, e ne lasciò indeterminato (1) Stricker’ s Handbuch, s. 1148. 484 G. V. CIACCIO sì il numero, come la sede. Dopo di lui ne fece menzione il Wolfring (1) il quale, a mio giudizio, erra grandemente, quando afferma che queste glandule risiedono in quella parte del tarso che risponde sopra l’ an- golo interno dell’ occhio, perciocchè, contro a questa sua affermazione, esse costantemente si trovano verso l'angolo esterno dell’ occhio. Le glandule in discorso sono impiantate nella sostanza del tarso, quasi immediatamente sopra alle estremità cieche delle glandule di Meibomio, tra le quali estremità cieche alle volte si veggono insinuarsi alcuni de’ lobi glandulari. D’ordinario non ve n° ha che una sola, la quale è situata nel tarso superiore, e dista dall’ estremità esterna di esso tarso da cinque a dodici millimetri; e quando non c’è questa, ce n'è una o due nel tarso inferiore. E dico di più che una volta ne trovai a un tempo stesso cinque nel tarso superiore e due nell’ inferiore. Le glan- dule sono di figura quasi rotonda ovvero oblunga, e variano molto nella grossezza; e sovente quella che si trova nel tarso superiore è così grossa (Fig. 19, g), che l’ occhio ignudo la può ben discernere, qualora il tarso sia separato con diligenza dalle parti che lo coprono, e la glandula colorata col carminio. Ognuna di queste glandule si compone di lobi, che differiscono per forma, numero e grandezza, e ciascun lobo di per sè somiglia a una di quelle minutissime glandulette che stanno sotto a’ fornici della con- giuntiva. I canaletti escretori che vengono fuori de’ mentovati lobi si riuniscono tutti in un canale escretore maestro o principale, il quale per lo più è breve e si conduce in linea quasi diritta alla superficie della congiuntiva tarsea, e ivi sbocca con forametto circolare ( Fig. 20, s). Una volta però mi accadde di osservare in una di queste glandule, la quale era situata nel tarso inferiore, il suo canale escretore maestro lungo non meno di un millimetro e mezzo andare ad aprirsi verso l’ estremità esterna del fornice inferiore. I lobi son fatti di acini, e questi acini non sono altro che le diramazioni ultime de’ canaletti escre- tori che finiscono allargandosi in figura di pera o di bottiglia. Onde nell’ osservare alcuna di queste glandule tagliata sottilissimamente, av- viene che le ultime diramazioni de’ canaletti escretori, o acini come generalmente li chiamano, appariscono, secondo che essi sono stati (2) Wolfring, Untersuchungen iber die Driissen der Bindehaut des Auges. Centralblatt fiir die Medicinischen Wissenschaften. Nr. 54, s. 852. 1872. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 485 tagliati per trasverso o per lungo, ora come vescichetta rotonda, orà come tubo più o meno allargato. Dalla quale ultima apparenza forse ingannato il Klein, credette di dover annoverare queste glandule trà quelle a tubo. Ma in verità esse non sono che glandule acinose, per- ciocchè quando si arriva a staccare qualche ultimo rametto de’ loro canali escretori, si scorge chiaro che questo rametto finisce spartendosi in un certo numero di rametti minori che sovente hanno forma di pera (Fig. 21). Nel quale particolare consiste principalmente la differenza tra le glandule acinose e quelle a tubo. Gli acini e le diramazioni del canale escretore di queste glandule tarso-congiuntivali sono circondati di sostanza connettiva reticolata, ch’ è fatta di minute cellule ramose unite tra loro in forma di rete, dentro alle cui maglie si contengono de’ corpuscoli linfoidi ( Fig. 22, 7). Questa so- stanza connettiva reticolata si continua lunghesso le pareti del canale escretore a quella del corio mucoso, e a quella si assomiglia tanto nella composizione che nella maniera come si conduce con le materie coloranti, e particolarmente col cloruro di oro. E però parmi che il Klein sbagliasse di molto, quando la prese per quella fitta sostanza fibrosa, onde il tarso è naturalmente intessuto. Questa particolarità di struttura che finora l’ ho trovata solo in queste glandule acinose del tarso, io credo che vaglia a differenziarle da quelle altre glandule acinose si- tuate sotto ai fornici della congiuntiva, le quali comunemente si de- nominano glandule mucose di Krause. Il canale escretore maestro insieme con tutte quante le sue dirama- zioni ed anche gli acini glandulari hanno esternamente un’ invoglia di tessuto connettivo, delle cui fibre le interne sono circolari, e le esterne longitudinali. Questa invoglia si assottiglia digradando con ragione infino agli acini, ed è strettissimamente unita con quella sostanza connettiva reticolata, di cui avanti ho favellato. Oltre alla detta invoglia, gli acini e probabilmente anche il canale escretore maestro con tutti i suoi rami, sono provveduti di una sottilissima membrana omogenea, chiamata dagli anatomici membrana propria. La quale alcuni moderni investigatori vogliono che sia composta di speciali cellule stellate che per mezzo de’ loro prolungamenti si congiungono a vicenda e formano così una tela reticolata, nelle cui maglie sono allogate le cellule che vestono l’interno degli acini. Ma in questa opinione, contuttochè seguitata og- gigiorno da molti, io non concorro, almeno in quanto concerne la membrana propria della glandule, di cui stiamo discorrendo. E non vi 486 G. V. CIACCIO concorro, perchè avendo io dilacerato con l’aiuto di sottili aghi assai pez- zetti di qualcuna di queste glandule, i quali erano stati in macero per parecchi giorni nel liquido di Mueller proporzionatamente allungato con acqua distillata, o nella glicerina acidula, o nel siero jodato; sovente mi è succeduto di trarne de’ brandelli più o meno larghi di membrana pro- pria, e talvolta anche quella di un acino intero priva delle cellule che internamente la foderano, ed io l’ ho sempre trovata apparente- mente omogenea ed uniforme, nè in connessione con essa, per quanto con diligenza vi guardassi, ho potuto ravvisare quello speciale retico- lamento di cellule che il Boll (1), il Langer (2) ed altri han figurato. Vero è che una volta, esaminando alcune glandule di Krause, ho visto insieme con le cellule distaccate dall’ interno degli acini altre due cel- lule, l’ una piatta e a più prolungamenti, e l’ altra falcata (Fig. 18, c); ma confesso di non sapere in che relazione queste due così fatte cel- lule stessero con la membrana propria, nè se fossero situate all’ ester- no o all’interno di essa membrana. Tra la membrana propria degli acini e la loro esterna invoglia di tessuto connettivo moltissime volte ho osservato un piccolo spazio (Fig. 22 s), il quale è ravvisabilissimo particolarmente nei tagli sottili della glandula colorata col cloruro di oro. Se questo spazio sia effettivamente uno spazio linfatico, o pure dipenda dal ritirarsi che fa la membrana propria dalla faccia interna della mentovata invoglia, io non l’ affermo, nè lo nego (3). Gli acini glandulari sono internamente vestiti di cellule a un semplice suolo, ciascuna delle quali è di figura conica, granellosa, e fornita di un nucleo per lo più rotondo, situato non nel mezzo della cellula, ma vicino alla base. E queste cellule si posano tutte con la (1) Boll, Ueber den Bau der Thrinendriùse. M. Schultze' s Archiv. IV. s. 146. e Beitrige zur mikroscopichen Anatomie der acinòsen Drilsen. Inaugural dissertation. Berlin 1868. (2) Stricker' s Handbuch. s. 629. fig. 206. (3) Christian Lovén (Om lymfwàgarna i magsackens slemhinna. Nordiskt medicinskt arkiv. Band V. N:r 26. 1873) ha mercè d’injezioni diligentissime ultimamente dimostrato, che le glandule dello stomaco tanto dell’ uomo che di altri mammiferi sono intorniate da spazj linfatici che chiama periglandulari, i quali, conforme ha egli osservato, comunicano direttamente co’ vasi linfatici che si ramificano nella tunica mocciosa dello stomaco. Per lo che non parrebbe improbabile che gli spazj da me sopra descritti fossero de’ veri spazi tinfatici periglandulari. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 487 lor base sopra la faccia interna dell’ acino, la cui cavità non riempono totalmente, ma vi lasciano sempre un vano, il quale secondo che l’acino fu tagliato per trasverso o pure obliquamente apparisce talvolta circolare e talvolta più o meno lungo (Fig. 22 vv v). Egli è vero che se tu osservi un pezzetto sottile di una di queste glandule già colorato per mezzo del cloruro di oro, alcuni acini paiono guerniti all’interno di un solo ordine di cellule coniche, altri di due ordini di cellule poligone, e altri totalmente pieni di cellule quali rotonde, quali ovate e quali coniche; ma io non dubito punto che queste di- verse apparenze provengono ora dal modo come son tagliati gli acini, ora dall’ essere le cellule, che di dentro gli soppannano, vedute per la base o per uno de’ lati, e ora dall’ essere le cellule uscite dalla loro situazione naturale nell’ atto che gli acini furono tagliati. Imperoechè non mi pare credibile che le cellule che internamente coprono gli acini di una medesima glandula debbano essere di differente figura e di- sposte in uno o più suoli, secondo che si trovano in questo o quel- l’ altro acino. Il canale escretore poi, così nel tronco, come ne’ rami, è soppannato di cellule cilindriche a un suolo, le quali in quello sono situate a perpendicolo, e in questi obbliquamente e con la loro estremità libera rivolta verso gli acini, e quasi pare che siano addossate l’ una all’ altra a modo di tegoli. In queste cellule cilindriche io ho osser- vato talvolta quella medesima trasformazione mucosa che ho mentovato nelle cellule che coprono l’ interno delle glandule di Henle, trasfor- mazione però che non ho potuto osservar mai nelle cellule che ve- stono la parete interna degli acini. I vasi sanguigni delle glandule tarso-congiuntivali vengono da quelli che si ramificano nel tarso e penetrano in esse da diverse parti della loro superficie, e penetrati che sono, camminano tra quella so- stanza connettiva reticolata che circonda e unisce insieme i varii acini, e con quella le loro pareti sono strettissimamente congiunte. Questi vasi sanguigni si assomigliano nella loro ultima distribuzione a quelli della glandula lagrimale e di altre consimili glandule. De’ loro nervi, se ne parlerà al proprio luogo. 488 G. V, CIACCIO C. Delle glandule acinose sotto-congiuntivali (Glandulae mucosae, C. Krause. Glandes sous-conjonctivales, Sappey). La sede ordinaria di queste glandule, che furono osservate la prima volta da C. Krause (1) nel 1842, e del suo nome s' intitolano, è sotto a’ fornici della congiuntiva; ma talvolta anche se ne trova una o due nel tessuto connettivo della caruncola lagrimale. Il Wolfring (2) crede che, quanto al sito, le glandule sotto-congiuntivali o di Krause sono da distinguere in quelle che sono situate sotto al tendine del muscolo elevatore della palpebra superiore, e in quelle situate sopra esso tendine. Le prime, secondo lui, sono disseminate per tutta la lunghezza del fornice superiore della congiuntiva, le seconde risiedono sopra all’ angolo esterno dell’ occhio. Questa distinzione io non la credo ben fondata, perciocchè avendo fatto ricerche in proposito mi sono accertato, che anche quelle glandule di Krause che si trovano sopra all’ angolo esterno dell’ oc- chio son situate sotto al prenominato tendine, e, per parlare con più esattezza, tra esso e quella lamina fibrosa che l’ aponeurosi orbitaria invia alla palpebra superiore. Il numero delle glandule sotto-congiunti- vali varia molto secondo le persone. W. Krause afferma di averne una volta vedute 42 nel fornice superiore della congiuntiva; ma se- condo la comune opinione degli anatomici ve n’ ha da 8 a 20 nel fornice superiore e da 2 a 4 nell’inferiore. Io poi la più parte di queste glandule le ho trovate disposte in riga arcuata nella parte media del fornice superiore (Fig. 16 8), dove una volta ne ho numerate 11 distribuite sopra uno spazio lungo 12 millimetri; un’altra volta 13 sopra uno spazio di 20 millimetri; un’ altra 16 sopra uno spazio di 10 millimetri; e un’ altra 18 sopra uno spazio di 13 millimetri. Donde è chiaro, che la maggi:rve o minore lunghezza dello spazio che occu- pano le glandule dipenie non tanto dal numero quanto dalla distanza ch’ è da una glandula all’ altra. Nel fornice inferiore poi ne ho trovato da 2 a 4 situate talvolta nel mezzo di esso fornice, e talvolta verso l’angolo interno dell’ occhio. Inoltre ho costantemente osservato sopra all’ angolo esterno dell’ occhio, e alla distanza di 5 millimetri da esso (1) C. Krause, Handubch der Anatomie der Menschen. Bd. II, s. 515. (2) Wolfring, loc. cit. s. 852. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 489 angolo, un gruppetto di 3 a 7 glandule simigliantissime a quelle che si trovano impiantate nella sostanza del tarso, il quale gruppetto di glandule io credo che sia non una parte per sè, ma una parte inte- grante della glandula lagrimale inferiore. Le glandule sotto-congiuntivali sono di figura rotonda, o vero oblunga, e di diverse grandezze. In alcune delle congiuntive da me esaminate, queste glandule erano così minute, che apparivano come puntini appena distinguibili dall’ occhio ignudo; in altre erano di tal grossezza, che sì poteano senza veruna difficoltà ravvisare; in altre le grandi eran tramescolate con le piccole. Ma grandi o piccole che si fossero queste glandule, io non ho trovato la lor mole variare, che da 0,1 a 1 millimetro. E soggiungo che le glandule che arrivano alla misura di un millimetro, ordinariamente le ho rinvenute sopra all’ angolo esterno dell’ occhio. Tranne quel gruppetto di glandule acinose che, come ho detto, si trova sopra l’angolo esterno dell'occhio, tutte le altre che stanno sotto a’ fornici della congiuntiva son fatte di un solo lobo, che è composto di parecchi lobetti, ma questi lobetti sono talmente vicini tra loro, che anche osservandoli ingranditi dal microscopio, riesce malagevole a distin- guerli. Da ognuna di queste glandule, che si possono assai propriamente chiamare unilobate, nasce un solo canale escretore, il quale si porta in linea obliqua alla superficie de’ fornici, o della congiuntiva orbitaria, e con apertura circolare, ovvero ellittica vi sbocca per lo più separa- tamente, ma talvolta 1 canali escretori di due glandule vicine, avanti di sboccare, si uniscono e ne formano un solo (Fig. 12). Il canale escretore è assai variabile non che per lunghezza ed ampiezza, ma per forma e direzione. Esso ora è lungo e stretto, ora corto e largo (Fig. 11, c). Talvolta si mantiene egualmente largo in tutta la sua lunghezza, salvo che nel punto dello sbocco ove si dilata ed amplia di circa il doppio (Fig. 11 s). Talvolta si allarga tutto intero così fuor di misura, che non pare più un canale, ma una borsetta ampia- mente aperta (Fig. 15). Talvolta dopo uscito della glandula cammina dritto per breve spazio, e poi diramasi in due rami, che tengono opposta via, de’ quali l’ uno più corto termina in molte dilatazioncelle, che tutte insieme appariscono come una glandula in piccolo; l’ altro lunghissimo va obbliquamente ad aprirsi alla superficie della congiun- tiva orbitaria. Talvolta nel suo cammino si allarga e restringe alter- nativamente. Talvolta non sì tosto è venuto fuori della glandula, che TOMO 1V. 62 490 G. V. CIACCIO s’ inflette dall’ una banda e dall’ altra, manda qualche corto diverticolo laterale, e poi a metà lunghezza, di un tratto si allarga fuor di modo e assai bizzarramente (Fig. 13). Talvolta manda da ambo i lati molti diverticoli a fondo serrato, che gli danno una forma singolarissima (Fig. 14; c). Talvolta infine i canali escretori di parecchie glandule camminano senza inflettersi e dilatarsi, finchè non sono vicini a sboc- care, ma poi subitamente si allargano e ripiegano, e tutti insieme for- mano una linea rilevata o striscetta, sopra la quale si scorgono, se- parate da regolari intervalli, le aperture de’ canali escretori: questa striscetta è ordinariamente situata nella porzione orbitaria della con- giuntiva, un poco più in basso del corpo delle glandule, e si vede manifestissima in alcuni de’ miei esemplari microscopici della congiun- tiva colorata col carminio. Le sopradescritte varietà, le quali spesso si accompagnano con altre simili de’ canali escretori della glandula lagrimale, ancorchè io le avessi più volte osservate, tuttavia non mi do facilmente a crederle naturali, perchè in quelle congiuntive, in cui le ho trovate, vi si scorgevano le alterazioni proprie della infiamma- zione cronica della congiuntiva. Le glandule sottocongiuntivali son simili nella costruttura interiore a quelle che ho descritto avanti sotto il nome di glandule acinose tarso-congiuntivali; e però qui non occorre dir altro, tranne due par- ticolarità che ho osservato. L'una è, che ciascuna di queste glandule è per di fuori coperta d’ alquanto tessuto connettivo fibroso, il quale da una parte è continuato a quello che circonda il canale escretore, dall’ altra a quello ch’ è tra gli acini e serve per collegarli insieme. In questo tessuto connettivo fibroso, oltre alle proprie cellule, v’ ha de’ corpuscoli linfoidi, che nella congiuntiva sana sono pochissimi, ma nell’ infiammata possono crescere considerabilmente di numero. L'altra particolarità è, che le cellule che vestono internamente gli acini, allor- chè son vedute nella loro naturale situazione, appariscono di figura conica e ordinate in un solo piano (fig. 17}; ma quando son cavate fuori di quelli e si osservano disgregate, allora alcune cellule sembrano cilindriche, alcune coniche, altre di figura quadrata e con i contorni qua e là puntuti, altre rozzamente triangolari (Fig. 18 a); le quali ultime cellule non saprei dire, se veramente appartengono alle cellule secretorie, ovvero alla membrana propria degli acini. Aggiungo infine che vicino allo sbocco del canale escretore delle predette glandule ta- lora m'è avvenuto di scorgere immediatamente sotto alle cellule ci- DELLA CONGIUNTIVA UMANA 491 lindriche che internamente lo vestono un altro suolo di minutissime cellule poligone, le quali si rendono distinguibili all’ occhio, appena che le cellule cilindriche se ne sono spiccate. D. Dei follicoli linfatici. ( Bruch’sch» Follikel, Kélliker. — Trachomdriisen, Henle }. Molti anatomici hanno scritto intorno a’ follicoli linfatici della congiuntiva dell’ uomo e di altri animali, e alcuni, come Krause (1), Kleinschmidt (2), Huguenin (3), Schmid (4), vogliono che questi fol- licoli nascano e vi si trovino naturalmente, altri, come Stromeyer (5), Henle (6), Blumberg (7), Wolfring (8) che siano prodotti per virtù di morbo che viene nella congiuntiva. Io non istarò a riferire quì le ragioni che gli uni e gli altri allegano in sostegno delle loro opinioni, ma credo solo conveniente di esporre ciò che io ho osservato intorno a’ follicoli linfatici della congiuntiva dell’ uomo. Dico adunque che nella congiuntiva umana, in paragone di quella di altri animali mammiferi, i follicoli linfatici son pochi; anzi talvolta, per quanta dili- genza si metta nel ricercarli, non si giunge a trovarne neppure uno solo. Il numero maggiore che io ne ho trovato, non ha passato i dieci, e per lo più li ho trovati nella metà interna del fornice su- periore della congiuntiva, l'uno a poca distanza dall’ altro, e quasi ordinati in riga; ho detto per lo più, perchè una volta mi accadde di vederne uno situato verso l’ estremità esterna del suddetto fornice, e (1) W. Krause, Anatomische Untersuchungen, s. 145. Hannover 1861. (2) Aleînschmidt, Ueber die Dritsen der Conjunctiva. Archiv fiir Ophtal- mologie. Bd. IX. 1863. (3) Huguenin, Ueber die Trachomdrisen oder Lymphfollikel der Conjun- ctiva. Inaugural-Dissertation. Zùrich 1865. (4) Schmid, Lymphfollikel der Bindehaut des Auges. Wien 1871. (5) Stromeyer, Beitràge zur Lehre der granulàren Augenkrankheit. Deutsche Klinik. N.r 25. 1859. (6) ZHenle, Zur Anatomie der geschlossenen, lenticulàren Drisen, oder Fol- likel und Lymphdrisen. Zeitschrift filr rationelle Medecin. Bd. VIII. Heft 3. 1860. (7) Blumberg, Ueber die Augenlider einiger Hausthiere mit besonderer Be- rùcksichtigung des Trachoms. Inaugural-Dissertation. Dorpat 1867. (8) Wolfriny, Zur Histologie des Trachoms. Archiv. fur Ophtalmologie. Bd. XIV. 1869. 4992 G. V. CIACCIO un’ altra volta tre dietro alla piega semilunare. La forma de’ follicoli era tondeggiante, o vero oblunga; la mole variava da 0,2 a 1 milli- metro, ed il loro contorno non era netto; così che ciascun follicolo non si distingueva dalla sostanza connettiva reticolata del corio mu- coso, che per un maggiore addensamento di corpuscoli linfoidi (Fig. 23). Alcuni dei follicoli occupavano tutta la grossezza del corio mucoso, altri ne occupavano solamente parte; alcuni erano più o meno rosi nel mezzo, altri no. Ora se i sopradescritti follicoli sieno originati natural- mente, ovvero per l’opera di speciali cagioni morbifere sopra la congiun- tiva, io non saprei dirlo; quello che posso però dire con certezza si è, che nel più de’ casi, in cui ho trovato de’ follicoli linfatici nella congiun- tiva umana, il corio mucoso era assai più ricco di corpuscoli linfoidi di quel che non è nella condizione sana, ed altresì esso si rilevava in papille di diverse figure e grandezze, e le glandule mucose di Henle erano in gran parte disfatte. II. Dei vasi sanguigni. I vasi che dispensano il sangue alla congiuntiva vengono dalle arterie palpebrali e dalle ciliari anteriori, le quali tutte e due sono diramazioni dell’ arteria ottalmica. Le arterie palpebrali forniscono gran numero di rami a tutta la congiuntiva, eccettuata una piccola parte di quella della sclerotica, la quale insieme con la congiuntiva del mar- gine della cornea riceve rami dalle arterie ciliari anteriori. Questa piccola parte della congiuntiva della sclerotica forma intorno al mar- gine della cornea come una zona larga da tre a quattro millimetri, e 1 suoi vasi sanguigni sono, per la loro postura, denominati dal Leber (1) vasi anteriori della congiuntiva per distinguerli da quelli dell’ altra (1) Leber Anat. Unters. ib. d. Blutgef. d. m. Auges. Denkschriften der Kaiserlichen Akad. der Wissenschaften zu Wien. Math. Naturwissensch. Classe Bd. XXIV, s. 326. e Stricker' s Handbuch s. 1061. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 493 parte più grande della stessa congiuntiva della sclerotica chiamati vasi posteriori della congiuntiva. Ora perchè questi due ordini di vasi imboccano gli uni negli altri, segue che il sistema vascolare della congiuntiva comunica con quello coroidale o ciliare. Le piccole arterie che si trovano nella parte profonda della congiuntiva della sclerotica e di quella de’ fornici sono costantemente accompagnate ciascuna da una o due vene (1), e quando le vene son due, l’ arteria è nel mezzo; inoltre con queste arterie e vene vanno sovente insieme fibre nervose ora slegate, ora riunite in fascetti. E ar- terie e vene e fascetti nervosi sono circondati da tessuto connettivo leg- germente fibroso, il quale mostra quà e là delle piccole cellule piatte, che, vedute in profilo, appariscono come nuclei allungati. Nella con- giuntiva tarsea per contrario si veggono di rado le arterie accompa- gnate da vene, nè a me è incontrato fino a quì di osservare accanto ad esse fascetti nervosi, ma solo poche fibre nervose midollari slegate, quantunque le congiuntive, che avea trattato col cloruro di oro poche ore dopo la morte, mi avessero preso un bellissimo colore tra violaceo ed azzurro. La qual cosa veramente mi fa dubitare, se la congiunti- va tarsea in paragone di quella del bulbo abbia quella squisita sensi bilità, ch’ è creduta da tutti. Le piccole arterie soprammentovate si conducono dal profondo della congiuntiva diramandosi e assottigliandosi a mano a mano verso la parte superficiale di essa, dove pervenute, si mutano in capillari, che s’ intrecciano in rete. Ma questa trasformazione delle piccole arterie in capillari avviene anche nel profondo e nel mezzo della congiuntiva, e questi capillari o si spargono per il tessuto connettivo in figura di anse semplici o composte, o vero formano reti circoscritte sopra i fa- (1) Osservando col microscopio la congiuntiva di alcuni vecchi colorata col carminio, ho trovate le menomissime vene di quella parte della congiuntiva, che dalle palpebre si distende sopra il globo visivo, oltremodo dilatate in alcuni punti, e le dilatazioni erano fusate o della figura di una pera, secondo che avean luogo o nella lunghezza della vena, o dove la vena si biforcava. Il no- tabile però era che esternamente ed internamente a questi punti dilatati delle vene e proprio rasente, anzi sarei per dire attaccati alle loro pareti, v’ erano de’ corpuscoli bianchi del sangue in gran quantità. Questa osservazione, se non m’ inganno, parmi che in qualche modo ancor essa puntelli l opinione di Waller e Cohnheim intorno all’ uscita dei corpuscoli bianchi del sangue dall’ interno dei vasi sanguigni. 494 G. V. CIACCIO scetti nervosi di maggior mole. E di questa verità potrà ognuno cer- tificarsi, che voglia esaminare particolarmente la congiuntiva del bulbo colorata con il carminio o il cloruro di oro, le quali sostanze, mentre- chè rendono visibili 1 vasi sanguigni, non ne nascondono la minuta struttura. Nella congiuntiva palpebrale la rete che i capillari sanguigni formano superficialmente, è piuttosto fitta e distesa in piano, salvo che molto presso al margine libero delle palpebre, e in quelle parti dove le glandule mucose di Henle sono in gran numero e molto vicine tra loro. Perchè, come fu detto in altro luogo, il corio mucoso della con- giuntiva assai presso al margine libero delle palpebre si solleva in pa- pille, in ciascuna delle quali si conduce un’ ansa capillare, la quale, secondo la grandezza di esse papille, è ora semplice, ora composta; e inoltre nelle parti dove sono numerose e tra sè molto vicine la glandule di Henle, essendo queste collocate dentro il corio mucoso, ne viene che tra l’ una glandula e l’ altra havvi un tramezzo, il quale è di varie grossezze e forme, secondo la distanza ch’ è da una glandula all’ altra, e secondo la figura e il collocamento loro dentro al corio mucoso. Ora i capillari sanguigni formano alla superficie di questi tramezzi reticelle, le quali principalmente sono in connessione tra loro per mezzo de’ vasi sanguigni che corrono per la base di ciascun tramezzo (Fig. 24 ); nè queste reticelle appariscono distinte l una dall’ altra, e rendono si- militudine a quelle de’ villi intestinali, salvo che ne’ casi di ottalmia granulosa, in cui per effetto di lavorio morboso le glandule mucose di Henle si disfanno, e i tramezzi che le dividevano, crescendo notabil- mente di mole, si sollevano sopra il piano della mucosa come papille di diverse figure e grandezze. Nella congiuntiva orbitale e in quella de’ fornici le maglie della rete capillare sono in generale oblunghe, e molto più grandi che quelle della rete capillare della congiuntiva tar- sea (Fig. 25); meno grandi però sono che le maglie della rete capil- lare della congiuntiva che copre il bulbo, le quali per 1’ ordinario sono di figura poligona. Nella congiuntiva della parte superiore ed inferiore del margine della cornea alcune anse capillari si addentrano in quei rialti del corio mucoso, la forma e disposizione de’ quali fu descritta avanti. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 495 IV. Dei vasi linfatici. Il numero dei vasi linfatici della congiuntiva è molto grande, ed è proporzionato a quello de’ vasi sanguigni. L’Arnold (1) fu il primo a scoprirli nella congiuntiva del bulbo, dove secondo il Teichmann (2) che li descrisse molto accuratamente, sono per la forma e per l'andamento loro, da scompartire in due ordini, l uno che comprende i capillari linfatici della congiuntiva della cornea, l’ altro quelli della congiuntiva della sclerotica. I capillari linfatici della congiuntiva della cornea for- mano intorno al margine corneale una rete serrata e non interrotta, la quale dal Teichmann è chiamata cerchio linfatico. La rete è larga un millimetro circa, e sta sotto a quella dei capillari sanguigni, e i vasi linfatici che la compongono sono di disuguale grandezza, e là dove s’ incontrano e congiungono, d’ ordinario si allargano in foggia di imbuto. Dalla parte della cornea i vasi linfatici di questa rete fi- niscono inarcandosi, e dagli archi ch'’essi formano non di rado si veggono nascere alcuni altri vasellini linfatici, lunghi 0,1 mill. e di- stanti l’ uno dall’ altro uno o due millimetri, i quali s’ incamminano verso il centro della cornea; ma fin dove giungono e come finiscono, è incerto (3). Tuttavia al Teichmann, ch'è di opinione i vasi linfatici non cominciar mai appuntati, pare verosimile che i sopraddetti vasellini linfatici tornino indietro, e ricongiungendosi a quelli donde partirono prima, formino altri archi un poco più grandi. Io, all’ incontro, credo, e questa mia credenza viene avvalorata dalle recenti ricerche intorno (1) F. Arnold, Handbuch der Anatomie, Bd. II, s. 986. (2) Teichmann, Das Saugadersystem, s. 65. Leipzig 1861. (3) Il Leber (Klinische Monatsblàtter filr Augenheilkunde, s. 17. 1666 spingendo col mezzo di uno schizzetto munito di un piccolo cannellino un li- quido colorato per entro la sostanza della cornea, lo vide farsi strada ne’ vasi linfatici della congiuntiva. Il che parrebbe, se io non m'inganno, dimostrare che tra il reticolato degli spazj della cornea e i vasi linfatici che sono al pe- rimetro di essa ci sia una qualche comunicazione, la quale in che modo si faccia, non si sa fino ad oggi. 496 G. V. CIACCIO all’ origine de’ vasi linfatici, che essi possano corrispondere a quei pro- cessi configurati a punta, che si veggono sporgere in fuori dagli archi di quei linfatici delineati dal Kélliker (1), che li osservò nell’ orlo della cornea di un gattino nato di poco. La sopradescritta rete di vasi linfatici, ch’ è intorno intorno al margine della cornea, è continuata a quella della congiuntiva della scle- rotica, e il più delle volte in cosiffatto modo, che non si può con precisione determinare dove l’ una rete finisce, e dove 1’ altra comincia. Talvolta però havvi un vaso linfatico che la circuisce, largo 0, 022 mill. costantemente quà e là interrotto, sinuoso, e concentrico all’ orlo della cornea. Questo vaso linfatico, che è conterminante con le due reti, raccoglie la linfa che scorre per entro a’ vasi linfatici del margine della cornea, e la manda a quelli della congiuntiva della sclerotica. Nella congiuntiva della sclerotica i vasi linfatici formano parimente una rete, la quale si compone di linfatici grandi e piccoli, quelli radiati, questi corti, trasversali, o vero obbliqui congiungono i linfatici grandi tra loro. Alla distanza di 4 a 5 mill. dall’ orlo della cornea i detti lin- fatici grandi da radiati divengono trasversali e quasi concentrici al margine della cornea; poi sempre più ingrandendo trapassano nei tron- concelli linfatici provvisti di valvole, i quali tronconcelli si avviano verso gli angoli interno ed esterno dell’ occhio, e vanno infine a metter capo nelle glandule linfatiche circonvicine. Come nella congiuntiva del bulbo, così in quella delle palpebre i vasi linfatici formano una rete, però più fitta, e 1’ una rete e l’altra comunicano tra loro. Ma è da notare che la forma e il cammino dei vasi linfatici che compongono la rete nella congiuntiva delle palpebre, per quanto io sappia, non sono stati descritti. Vero è, che in alcuni esemplari di congiuntiva delle palpebre colorata col nitrato di argen- to m'è incontrato di vedere de’ vasi linfatici di diversa grandezza scorrere sì per di sotto, e sì per mezzo al corio mucoso, e con- giungersi tra loro a modo di rete; ma io non posso dire con certez- za, se da questa rete si partano altri linfatici minori, i quali, ascen- dendo il corio mucoso, vadano a formare nella parte superficiale di esso un’ altra rete più fina immediatamente sotto a quella de’ capillari sanguigni. (1) Kdlliker, Handbuch der Gewebelehre, s. 649. Fig. 456. 5 Auflage 1867. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 497 I vasi capillari linfatici della congiuntiva hanno pareti proprie com- poste di cellule endoteliche piatte, ondate negli orli e unite tra sè in forma di membrana sottilissima, la quale ne’ capillari linfatici della congiuntiva del bulbo pienamente si discerne da’ fascetti connettivi che la circondano, dovechè in quelli della congiuntiva delle palpebre essa è strettissimamente legata con la sostanza connettiva reticolata, di cui è formato il corio mucoso di questa parte della congiuntiva. Afferma il Lighibody (1), che i capillari sanguigni del margine della cornea sono provveduti di guaine linfatiche, ma questa sua affermazione è stata oppugnata da C. F. Mueller (2) e dallo Schwalbe (3). Io non ho potuto avere per le mani il lavoro originale di questo osservatore, e ignoro se egli abbia figurato, e come, le mentovate guaine; nè posso dire se esse sieno simili a quelle vedute da me tanto ne’ capillari san- guigni del margine della cornea, quanto in quelli della congiuntiva della sclerotica. Le guaine, che ho veduto io, erano omogenee, fornite di nuclei con estremi appuntati, e separate dalle pareti dei capillari sanguigni da uno spazio che nella congiuntiva trattata col cloruro di oro appariva biancastro, a differenza delle parti intorno che erano più o meno colorate in violetto, o in azzurro. In detto spazio sola una volta mi è avvenuto di vedervi qualche globetto linfatico, nè io saprei affermare con certezza se esso sia da tenere per uno spazio linfatico pericapillare, e se comunichi o no, ed in che modo, co’ capillari linfa- tici della congiuntiva. Quanto alla origine delle nominate guaine, a me pare molto credibile ch’esse non siano altro che la tunica esterna delle minute arterie, la quale, mutata della sua primiera tessitura, si distende sotto forma di sottilissima membranella nucleata anche sopra i capil- lari menomissimi (4). (1) Lightbody, On the Anatomy of the cornea of vertebrates. - Journal] of Anat. and Physiol. i. 1867. (2) Virchow’s Archiv. Bd. XLI. s. 110. (3) Stricker’s Handbuch s. 1069. (4) Fra i molti esemplari di cornea che ho nella mia Collezione microsco- pica havvene uno di ratto albino, in cui sono manifestissime le guaine linfa- tiche che involgono i vasi capillari sanguigni del perimetro della cornea. 0ì- tracciò noto quì incidentemente una osservazione che mi è venuta fatta, riguar- dando bene l’ esemplare sovraccennato, cioè a dire, che alcuri dei vasi capillari mentovati di sopra, in luogo di finire come per l’ ordinario ad arco, si univano insieme ad angolo acutissimo, formando un capillare solo, il quale a poco a TOMO IV. 63 498 G. V. CIACCIO V. Dei Nervi. Nella congiuntiva v’ ha un gran numero di fibre nervose, le quali sono di due specie, le une sensitive, le altre vaso-motorie. Le prime son date dal nervo trigemino, le seconde vengono parte dal plesso cavernoso e parte dal ganglio di Gasser. Di queste due specie di fibre è quì necessario vederne sì l’ andamento, come la terminazione. A. Delle fibre nervose sensitive. Le fibre nervose sensitive sono in molto numero, e, come io credo, il cammino che tengono, e il modo come finiscono, può per ora venir dimostrato con certezza solamente in quella parte della con- giuntiva che copre anteriormente il bulbo dell’ occhio, la quale, rispetto alla congiuntiva delle palpebre, è di fabbrica molto più semplice, e può con facilità staccarsi dalla sottostante sclerotica ed essere minu- tamente investigata. Ora ne’ pezzi più o meno larghi della sopramen- tovata parte della congiuntiva trattati col cloruro d’oro o con l’ acido osmico, ed a’ quali l’ epitelio in tutto o in gran parte sia stato gen- tilmente levato via, quando essi si osservano ben distesi, sia per la superficie di sopra, sia di sotto, si vede con sufficiente chiarezza non solo in qual modo i fascetti dei nervi si diramano pel tessuto connet- tivo del corio mucoso, ma fino ad un certo punto anche la termi- nazione delle singole fibre che compongono i mentovati fascetti. E dico da prima che i fascetti nervosi che si trovano nel profondo della congiuntiva sono, secondo la grandezza loro, composti di tre a dieci fibre midollari, le quali sono tenute insieme per mezzo di una poco assottigliandosi in sottilissimo filamento, secondo ogni apparenza, solido, andava infine a perdersi quasi che presso al centro della cornea. Questo fila- mento, se io forse non m’ inganno, era una volta ancor esso un vasellino ca- pillare sanguigno, e avea parte nella composizione di quella rete vascolare che a un certo tempo del vivere de’ mammiferi dentro l’ utero sì distende in tutta la parte superficiale della cornea. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 499 sostanza connettiva fatta di sottilissime fibre, tra le quali stanno quà e là situate minutissime cellule piatte, che, vedute in profilo, appari- scono figurate come nuclei bislunghi. Questi fascetti nervosi per ordi- nario camminano allato, ovvero incrociano più o meno obbliquamente le piccole arterie e vene, e si ravvisano talvolta sotto, e talvolta so- pra di esse, ma non si può dire che abbiano appunto lo stesso anda- mento, imperocchè il piano della distribuzione degli uni e delle altre è ben diverso (Fig. 26). I fascetti nel loro cammino si partiscono sotto diversi angoli, e poi si congiungono tra loro, scambiandosi l’ un l’altro le fibre componenti; talmente che tutti questi diversi fascetti, considerati nel loro insieme, formano una maniera di rete con maglie piuttosto larghe, ma differenti nella figura. Da questa rete, che dal luogo che occupa, a me pare potersi con ragione chiamare rete ner- vosa profonda della congiuntiva, si separano non pochi fascetti di mi- nore grandezza, i quali, via facendo, seguitano ancor essi a dividersi, ma non mi è avvenuto di vederli, se non radissimamente, congiungersi per mezzo di fibre nervose che passano fra loro. Di questi fascetti di minore grandezza alcuni si avviano verso la cornea, al margine della quale quando sono pervenuti, le fibre che li compongono da midollate si convertono in pallide, o vero divengono tali dopo un certo spazio che in essa cornea si sono addentrate; altri, e sono il maggior numero, si portano in linea più o meno obbliqua verso la superficie della con- giuntiva, e durante il lor cammino si sciolgono gradualmente nelle singole fibre componenti (Fig. 33), le quali si veggono dividersi e suddividersi, e andar serpeggiando tanto sotto che sopra alla rete ca- pillare sanguigna e pressochè parallele alla superficie della congiuntiva (Fig. 29). Di queste singole fibre midollari alcune lasciano di subito la midolla e divengon pallide; altre poi finiscono nei così detti bul- betti o corpuscoli di Krause. Nella congiuntiva dell’ uomo i bulbetti di Krause sono di diverse grandezze ed hanno forma rotenda o pure ovata (Fig. 34 a 39). Il loro numero è variabile, nè è possibile ad esser determinato con esat- tezza, imperocchè sovente in certi punti della congiuntiva del bulbo mi è succeduto di non trovarne neppure uno, laddove in altri punti ho visto quasi tutte le fibre midollari non terminare altrimenti che nei bulbetti di Krause (Fig. 33). E stando a quello che ho osservato, io affermo per cosa certa, che il maggior numero dei bulbetti di Krause si trova nella congiuntiva che copre la parte superiore ed esterna del 500 G. V. CIACCIO bulbo dell’ occhio dove si diramano i fascetti che vengono dal nervo lagrimale. Ogni bulbetto di Krause è composto di un sottile invoglio di tessuto connettivo corredato di numerosi nuclei per lo più oblunghi, il quale è continuato al neurilemma della fibra nervosa midollare che va al bulbetto; di una sostanza con molti minutissimi granellini, che per lo colore che prende dietro 1° opera del cloruro di oro e dell’acido osmico, e pel modo come si conduce con altri riscontri chimici si diffe- renzia dalla midolla nervosa o sostanza bianca dello Schwann; e in- fine di una o più fibre pallide, che derivano da quelle fibre nervose midollari che vanno a metter capo nel bulbetto. Il numero di queste fibre nervose midollari può variare da una insino a quattro; e da quanto ho potuto osservare, mi pare che i bulbetti con due fibre nervose sono i più frequenti, meno frequenti quelli con una sola, e rarissimi quelli con quattro. Nei bulbetti, ove vanno due o più fibre nervose midollari, queste possono provenire talvolta da un medesimo fascetto, talvolta da due fascetti differenti, o pure dalla divisione e suddivisione di una o due fibre nervose, la quale divisione più di sovente avviene a poca, ma talvolta anche a una certa distanza dal bulbetto. Ma che nel bulbetto vada una o più fibre, il notabile si è che la fibra ner- vosa midollare, avanti di penetrarvi, quasi sempre l avvolge con più o meno giri, o vero si aggroppa all’ esterno di esso, e talvolta questo aggroppamento è sì grande che copre ed occulta quasi tutto quanto il bulbetto, e lo fa eredere come interamente composto della fibra nervosa midollare aggroppata. Ed io inclino a credere che forse da così fatto particolare dipenda la difficoltà che si ha di vedere con chiarez- za in qual modo la fibra nervosa termini entro ai bulbetti di Krause della congiuntiva umana; la quale difficoltà non s’ incontra punto in quelli della congiuntiva del bove, ne' quali io non ho veduto finora andarvi più che una sola fibra nervosa midollare, e questa non mai ravvolgersi o aggropparsi, prima di entrarvi. Onde nei bulbetti di Krause della congiuntiva del bove con l’ ajuto del cloruro di oro o dell’ acido osmico è facile vedere che la fibra pallida non in altro modo vi termina che un pochetto rigonfiata nell’ estremità sua; dovechè in quelli della congiuntiva dell’ uomo per mezzo delle sostanze chimiche mentovate di sopra, non sono pervenuto mai a veder chiaro, come la detta fibra pallida finisca. E soggiungo di più, che se si considera il modo come si portano con l’acido osmico e col cloruro di oro i bulbetti di Krause tanto della congiuntiva dell’ uomo, quanto del bove, si vede DELLA CONGIUNTIVA UMANA 501 manifestamente, ch'è falsa falsissima 1’ opinione dell’ Arnold (1), il quale vuole che questi bulbetti non siano cosa naturale, ma fattura del modo di preparazione adoperato per dimostrarli. I bulbetti sopradescritti sono situati ora immediatamente sopra ed ora sotto alla rete de’ capillari sanguigni che si trova nella parte superficiale della congiuntiva. W. Krause (2), che ne fu il primo os- servatore, li credette come il solo modo, in cui si terminano le fibre nervose midollari della congiuntiva del bulbo; ma in questo venne sodamente contraddetto dall’ Arnold, il quale, a mio credere, parimente s’ingannò affermando che le mentovate fibre nervose non finiscono che in forma di rete composta di sottili fibre pallide, la quale rete ei tennela siccome finale, perchè da essa non vide spiccarsi veruna fibra, che internandosi nell’ epitello o nel tessuto connettivo del corio mucoso vada a terminarvi con estremità libera o in un altro qualunque modo. Ma queste due opinioni, per essere assolute, mi pare che si scostino assai dal vero, dappoichè per diligenti e reiterate osservazioni è ormai dimostrato con certezza che delle fibre nervose distribuite in quella parte della congiuntiva che veste il globo visivo alcune terminano nei «bulbetti di Krause, ed altre si trasmutano in fibre pallide. Oltre i bulbetti o corpuscoli di Krause, io mi sono imbattuto a trovare nella congiuntiva un’ altra sorta di corpuscoli, che dalla forma e composizione loro inclino a chiamarli col nome di fiocchetti nervosi terminali. Ne ho contato fino a sette, e li ho trovati in un pezzetto di congiuntiva lungo un centimetro e mezzo, il quale pezzetto per l’opera del cloruro di oro avea preso una bellissima tinta azzurra; ma di qual parte della congiuntiva del bulbo era stato reciso il men- tovato pezzetto, io non saprei dirlo. I fiocchetti nervosi non hanno la medesima grandezza e figura, essendo alcuni pressochè rotondi, altri ovati, altri lunghi (Fig. 40, 41, 42); e inoltre sono di fabbrica semplicissima. Imperocchè ciascun fioc- chetto è composto di una sottilissima e trasparentissima guaina, la quale contiene molte minutissime fibre, ora aggrovigliate (Fig. 40), ora ser- (1) J. Arnold, Ueber die Endigung der Nerven in der Bindehaut des Aug- apfels und die Krause’ schen Endkolben. Virchow's Archiv. Bd. XXIV. 1862. (2) W. Krause, Ueber die terminale Kòrperchen der einfach sensiblen Ner- ven, Hannover 1860. 502 G. V. CIACCIO peggianti (Fig. 42), e queste minutissime fibre derivano dal reiterato spartimento di una o due fibre nervose midollari che vanno nel fioc- chetto. La suddetta guaina è continuata alla guaina che circonda la fibra midollare, anzi, per meglio dire, è la medesima guaina della fibra midollare che si distende ed allarga per adattarsi alla grandezza e forma del fiocchetto. Di più nella medesima guaina che racchiude la fibra midollare sovente si veggono alcune sottilissime fibre pallide (Fig. 41 e 42), le quali, alquanto prima che la fibra midollare vada a metter capo nel fiocchetto, escon fuori della guaina, e dopo un cammino piuttosto lungo, si perdono in mezzo alle altre fibre pallide che si trovano nella parte superficiale della congiuntiva. Come dissi poco anzi, non tutte le fibre nervose midollari fini- scono nei corpuscoli di Krause o in quelli altri speciali fiocchetti ner- vosi da me rinvenuti e descritti, ma una parte, e forse la maggiore, dopo un cammino più o meno lungo e alle volte tortuoso, e dopo essersi per ordinario divise e suddivise, si spogliano in un tratto della guaina midollare e divengon pallide. Di queste fibre pallide le più grosse, quando son trattate prima con l’acido osmico e poi colorate col carminio, appariscono fornite di nuclei molto intervallati e situati talora nella lunghezza della fibra, e tal altra nel punto ove la fibra si divide. I quali nuclei, secondo me, sono segno manifesto che nelle mentovate fibre, ancorchè prive della midolla, pure vi si continua la guaina dello Schwann, la quale, come pare, non isvanisce che nelle fibre pallide più sottili. Osservando con ogni accuratezza la parte superficiale della congiuntiva colorata col cloruro di oro, scorgonsi moltissime fibre pal- lide, di varie grandezze, e raramente varicose, le quali vanno ora so- litarie, ora a due o tre, e ora in compagnia di qualche fibra nervosa, che non ancora si è svestita della sua guaina midollare (Fig. 43, 44, 45 e 46). E di queste fibre alcune camminano di costa a’ capillari sanguigni, altre sotto, e altre sopra di essi, e s’intraversono più o meno obbliquamente, e si dividono replicate volte nel loro corso (Fig. 47), ma, conforme ho osservato, è raro il vederle congiungersi tra loro. Perlochè io credo che tutte queste fibre pallide, che si diramano nella parte superficiale della congiuntiva non formino veramente una rete, ma bensì un intreccio o plesso, se però così si voglia chiamare quel loro frequente dividersi e intraversarsi a vicenda. Ma questo plesso non è punto terminale, per la ragione che le fibre, che lo compongo- no, passano oltre, e se non tutte, almeno la più parte, si veggono, DELLA CONGIUNTIVA UMANA 503 posciachè per lo replicato dividersi si sono ridotte ad una estrema sottigliezza, andare immediatamente sotto all’ epitelio, nè ivi terminano con estremità appuntata o un pochetto rigonfia, come vuole l’ Hel- freich (1), ma vi si addentrano (2). E questo addentrarsi delle sotti- lissime fibre pallide (3) o fibrille nell’ epitelio, e il lor cammino per entro esso, e il modo come si spartono e come terminano e dove, e con quali corpuscoli si connettono, non possono, com’ io avviso, venir dimostrati con indubitata certezza che nella congiuntiva colorata col cloruro di oro e tagliata sottilissimamente o a perpendicolo o alquanto obbliquamente alla sua superficie. E appunto dall’osservare diligentemente parecchi di così fatti tagli della congiuntiva, io son venuto in cognizione di tutte quelle particolarità che quì appresso dirò intorno alle di sopra mentovate fi- brille. E dico in prima che le fibrille sono sottilissime, granose, poco tegnenti, e camminano per entro l’ epitelio ora in linea perpendicolare ora più o meno obbliqua, e ora flessuosa (Fig. 50). Alcune non si dividono, altre poi si dividono, e questa divisione si fa sempre per due, e succede talvolta subito sopra le cellule più profonde dell’ epite- lio, e talvolta in quelle di mezzo. Alcune delle fibrille si uniscono tra loro, ma altre senza punto unirsi terminano presso alle cellule più esterne dell’ epitelio appuntate nella loro estremità, altre con un mi- nutissimo bottoncello, e altre in un corpicciuolo granoso e chiaro nel centro, dal quale corpicciuolo alle volte si veggon partire tre cortissimi e sottili filamenti, due dei quali per ordinario si dirigono verso l’ ester- na superficie dell’ epitelio, e l’ altro al contrario si piega verso l’ in- terna. In congiunzione con le dette fibrille si trovano talvolta alcuni corpuscoli (Fg. 49) triangolari, quadrangolari o di forma irregolare, granosi, e senza ombra di nucleo, i quali per due de’ loro angoli son congiunti con le fibrille che procedono dall’ intreccio nervoso ch’ è im- (1) Helfreich, Ueber die Nerven der Conjunctiva und Sclera. Wiirzburg 1869. (2) Morano, Studio sui nervi della congiuntiva oculare. Vienna 1871. (3) Mx. Schultze (Stricker’s Handbuch s. 108-136) dice che le sottilissime fibre pallide che si addentrano negli epitelj non sono altro che fibrille primi- tive, alle quali egli attribuisce la qualità del non dividersi. Ora è cosa certa che le finissime fibre che vanno tra le cellule epiteliali si dividono durante il lor cammino; e conseguentemente esse o non sono fibrille primitive, o pure è falso che le fibrille primitive non si possano dividere. 504 G. V. CIACCIO mediatamente sotto all’ epitelio, dovechè dai rimanenti angoli si spic- cano altre fibrille che vanno verso la parte superiore dell’ epitelio. Così fatti corpuscoli io credo che sì per la piccolezza loro e sì pel numero e per la forma non ramosa dei loro filamenti, e perchè non hanno nucleo, si differiscano da quelli corpuscoli trovati da Langer- hans (1) nell’ epidermide della pelle umana, da Eberth (2) in quella del coniglio, e da Eimer (3) in quella del capezzolo della vacca, e credo che piuttosto si assomiglino a quegli altri che ultimamente fu- rono scoperti da Elin (4) nell’ epitelio della mucosa del palato del coniglio. Quanto poi alla natura loro, io non penso che questi corpu- scoli siano cellule nervose, ma li tengo per una semplice espansione della medesima sostanza delle fibrille nervose, perciocchè col cloruro di oro si colorano appunto come questa, anzi mi pare che siano del tutto simili a quelli speciali corpuscoli che io, aleuni anni addietro, rinvenni in connessione con le sottili fibre nervose pallide, che corrono per il tessuto connettivo soccutaneo della pelle del tritone, e che io il primo descrissi in una delle note al mio lavoro: Intorno alla minuta fab- brica della pelle della rana esculenta, pag. 36. Palermo 1867. Né quì, giacchè ben viene in taglio, voglio io passar con silenzio l’ opi- nione dell’ esperto e dotto mio amico Prof. Inzani di Parma (5), il quale crede e tiene per fermo che i nervi della congiuntiva umana terminano nello stesso modo che nelle altre membrane mocciose e nella cornea, cioè a dire in ispeciali cassule, in ciascuna delle quali va una fibrilla pallida, la quale penetrata che v'è, da prima ingrossa in foggia di bottone, e poi per ordinario si discioglie in parecchi fili, che vengon fuori della parte più larga della cassula e si partiscono in filuzzi, ognuno dei quali porta in cima un bottoncello oltremodo lucente. Egli è vero che il suddetto Prof. Inzani mi fece una volta osservare un esemplare della mucosa dei seni frontali stupendamente colorata col mezzo del cloruro di oro, nel quale esemplare le fine fibre (1) Virchow’s Archiv. Bd XLIV. (2) Schultze’s Archiv. Bd VI, 2 Heft. (3) Schultze’s Archiv. Bd VIII, 4 Heft. (4) Schultze’s Archiv. Bd VII, 4 Heft. (5) Inzani, Ricerche anatomiche sulle terminazioni nervose. Parma 1869, e Sulla terminazione dei nervi nella mucosa dei seni frontali e dei seni mascel- lari. Parma. 1872. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 505 pallide si vedeano per appunto terminare non altrimenti che egli le ha delineate nella Fig. 1 del suo lavoro pubblicato nel 1872; ma io con- fesso ingenuamente che comunque abbia con istudio cercato tali cassule, non mi è venuto fatto fino a quì di trovarle nella congiuntiva del- l’occhio umano trattata sì col clururo di oro, come con l’acido osmico. B. Della terminazione delle fibre nervose sensitive nella caruncola lagrimale e in quei rialti papillari che forma la congiun- tiva tanto presso al lembo delle palpebre, quanto sopra e sotto alla circonferenza della cornea. Osservando parecchie caruncole lagrimali di uomo, colorate dal cloruro di oro in violetto pendente all’ azzurro e tagliate variamente a perpendicolo, mi è succeduto di vedervi sovente delle fibre nervose midollari, alcune sciolte, altre unite a due o tre insieme, le quali quasi tutte andavano in que’ peluzzi che naturalmente impiantati si trovano nella caruncola, eccetto pochissime che s’ incamminavano alla superficie di essa per ivi terminare in sottili fibre pallide. Di queste fibre, che andavano a’ peluzzi, alcune ne ricingevano il follicolo, ma come vi terminassero, non ho potuto rimanerne chiaro; altre poi, la- sciando a piccola distanza dal bulbo di essi peluzzi la guaina midol- lare, entravano insieme co’ vasi sanguigni nella loro papilla, e nell’in- terno di essa dividendosi replicate volte, e altresì congiungendosi in- sieme, formavano un plesso retiforme, dal quale si spiccavano alquante fibrille varicose che s’insinuavano tra quelle cellule che vestono este- riormente la papilla, ed ivi connettevansi con certi particolari corpuscoli, che veduti in taglio apparivano quali oblunghi, e quali triangolari. Ond’ è che io volentierissimo vengo nella credenza, che i suddetti peluzzi siano strumento di una qualche particolare sensazione tattiva (1). Circa —— n ———————t_ (1) I cacciatori credono, non so se per veduta o per che altro, che la le- pre, quando dorme, non chiude mai perfettamente gli occhi; e di qui, come io avviso, è venuto il nome greco /agoftalmo, cioè occhio di lepre, dato general- mente dagli oftalmologi a quella malattia delle palpebre, in cui c' è impossi- bilità a chiuderle si, che i loro estremi lembi si tocchino. Ancorchè a me non sia mai accaduto di veder lepri dormienti, tuttavia per certe particolarità ana- tomiche che mi son venute trovate nel loro occhio, non mi pare la riferita credenza de’ cacciatori destituta di ragionevole fondamento. E di queste parti- TOMO IV. 64 506 G. V. CIACCIO poi il modo di terminarsi delle fibre nervose sensitive in que’ rialti papillari che forma la congiuntiva così presso il lembo delle palpebre, come sopra e sotto la circonferenza della cornea, non ho altro quì a dire, se non che ne’ rialti soprammentovati io non ci ho veduto mai colarità la prima è, che nell’ occhio della lepre la palpebra inferiore, nella sua metà interna, si arrovescia alquanto, creando così un leggero ectropic naturale. Questa parte arrovesciata della palpebra è di figura falcata, lunga undici mil- limetri, larga nel suo mezzo tre, e la mucosa che la veste si differenzia da quella del rimanente della palpebra per una infinità di minutissime ghiando- line a tubo, ora semplice, ora bipartito, ora tripartito verso l'estremo suo cieco. La seconca particolarità è, che nella lepre v ha un solo canaletto lagrimale, cioè l’ inferiore, il quale è differente da quello dell’uomo e di altri mammiferi, in quanto che, in luogo di cominciare con un forametto quasi rotondo comin- cia con una scanalatura o doccietta leggermente arcuata, e lunga circa due mil'imetri. Questa scanalatura non è situata nel margine libero della palpebra ma nella congiuntiva, e dista dal suddetto margine un millimetro, e tre dal- l’ angolo interno dell’ occhio. In fine la terza particolarità è, che la caruncola iagrimale è più grande di quello, che parrebbe convenirsi alla taglia dell’ ani- male, essendo essa lunga da’ quattro a’ cinque millimetri, e di figura pressochè triangolata, con la base in sotto e l’ apice in sopra, il quale insensibilmente si va a perdere nella pelle circostante all’ angolo interno dell’ occhio. Esterna- mente poi la caruncola è tutta ricoperta di minuti peli assottigliatissimi nella punta, i quali però sono distinguibili senza l’ aiuto di lente. Di questi peli al- cuni son pallidi, altri bruni, e nella parte superiore del follicolo di ciascuno di essi vanno ad aprirsi due piccole glandulette sebacee. I nervi vi terminano nella stessa guisa, che ne’ sottilissimi peluzzi della caruncola lagrimale dell’ uo- mo. Oltre dei peli sopraddetti la caruncola lagrimale della lepre si compone di tessuto connettivo ordinario ricco di fibre elastiche, per mezzo il quale hannovi qua e là de’ piccoli aggregamenti di cellule adipose, e anche delle fibre muscu- lari striate, le quali probabilmente vengono da quelle del muscolo orbicolare delle palpebre: queste fibre musculari striate si dividono presso alla superficie della caruncula ciascuna in due o tre altre fibre minori, le quali tutte finisco- no con un sottile tendinetto che si sfibra e perde alcune volte nella parte su- perficiale del corio mucoso, e alcune altre nella guaina esterna de’ follicoli pi- liferi. Ora dunque per tutto quello che di sopra è detto, io non credo di sco- starmi dalla verità affermando che la natura ha provvidamente collocato un maggior numero di peli nella caruncola lagrimale della lepre, e gli ha fatti ancora più grandetti, che non sono quelli della caruncola dell’ uomo, perchè nella lepre quella parte del bulbo che risponde al grande angolo dell’ occhio, a cagione di quel poco di arrovesciamento che c’ è nella metà interna della pal- pebra inferiore, è necessitata a rimanere, e nel sonno e nella vegghia, sempre scoperta ed esposta all’ opera alterativa delle cose esteriori: e soggiungo che I ufficio de’ nominati peli non mi pare che possa esser gran fatto dissimile da quello degli altri peli tattili. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 507 verun bulbetto di Krause, ma bensì alquante sottilissime fibre nervose pallide, le quali di quindi riuscivano nell’ epitelio, tra le cui cellule alcune fibre pareano terminarsi appuntate nell’ estremo, altre un poco ingrossate a modo di piccola pallottoletta. C. Delle fibre nervose che son distribuite alle glandule. Tutto quello, ch’ io per le mie osservazioni posso dire intorno le fibre nervose che son distribuite alle glandule della congiuntiva umana, si è; che in alcune di quelle glandule acinose, che stanno sotto al fornice superiore della congiuntiva, io ho veduto, oltre alle fibre ner- vose vasomotorie che ci vanno insieme co’ vasi sanguigni, andarci an- che delle fibre nervose midollari, provenienti da que’ fascetti di nervi sensitivi che si diramano per il tessuto connettivo sottostante al for- nice soprammentovato. Coteste fibre io alle volte ho potuto seguirle con l’ occhio quasi fino alla membrana propria degli acini glandulari, ma più in là no: onde non mi fo lecito affermar niente di certo intorno al modo di lor terminazione. Tuttavia, poichè le suddette glandule si assomigliano nella interiore costruttura alla glandula lagrimale, a me non parrebbe improbabile, che, come in questa ultima, le fibre ner- vose midollari, dopo aver penetrate le pareti degli acini, si terminas- sero tra le cellule, che internamente gli vestono, in forma di fibre pallide sottilissime, granose, e ingrossate un poco all’ estremo. Que- sto modo di terminarsi delle fibre nervose fornite di midolla nell’ in- terno degli acini glandulari, a me è avvenuto una sola volta di osser- varlo con chiarezza nella glandula lagrimale dell’ uomo trattata con l’ acido osmico. D. Delle fibre nervose vasomotorie. Le fibre nervose vasomotorie sono dimostrabili col mezzo del clo- ruro di oro massimamente nelle piccole arterie e vene che si ramificano nella congiuntiva del bulbo. Esse, generalmente favellando, son pallide, cioè sfornite di midolla, di variate sottigliezze, e mostrano di distanza in distanza nella lunghezza loro certi piccoli ingrossamenti fusati, i quali sono dal carminio tinti in rosso carico, e dal cloruro di oro in violetto oscuro (Fig. 31 e 32). Il loro andamento è per lo più flessuoso ed anche assai mutevole, imperocchè parecchie di queste fibre, dopo 508 G. V. CIACCIO aver camminato, per un tratto più o meno lungo, accanto un’ arteria ‘© Vena, passano or sopra, or sotto di essa successivamente; e dico anche, che in questo lor cammino non è raro il vederle dividersi, e altresì ‘congiungersi fra di loro. Alle volte certune fibre vasomotorie escono dal luogo per dove camminano, e poi camminato per un qualche spa- zio nel tessuto connettivo circostante, vi rientrano; ma talvolta non vi rientrano punto, perchè si recano a qualche altra arteria o vena più o meno distante da quella, donde prima uscirono. Oltre ‘alle sud- dette fibre senza midolla, io, comechè assai di rado, ne ho veduto delle altre midollari, inchiuse nell’ invoglio connettivo di alcune piccole arterie e vene che si ramificavano nella parte profonda della congiun- tiva del bulbo (Fig. 30 m,m). Queste fibre erano, anzi che no, sot- tili, e si biforcavano e univano insieme a modo di fibre nervose pal- lide; ed in queste veramente si convertivano, dopo aver fatto alquanto ‘corso con le arterie e vene menzionate di sopra. Al pari delle arterie e delle vene, i vasi capillari sanguigni della congiuntiva dell’ uomo son provveduti di fibre nervose pallide, le quali in numero di due a cinque si veggono rasentare da ambo i lati il vasellino capillare; e queste fibre sono di quando in quando unite fra di loro per mezzo di altre fibre che più o meno obbliqua- mente passano or sopra, or sotto di quello. E soggiungo, che di queste fibre, che rasentano le pareti de’ vasi capillari sanguigni, alcune le ho vedute manifestissimamente provenire dalla divisione e susseguente trasformazione di qualcuna di quelle fibre nervose midol- lari, che ordinariamente vanno a terminarsi ne’ bulbetti del Krause. Perciò io mi do a credere che le fibre nervose che vanno a’ vasi ca- pillari sanguigni non siano motrici, ma semplicemente sensitive; ed io tanto più mi confermo in questa mia credenza, quanto che non mi pare che fino ad oggi sia stato da alcuno dimostrato ad evidenza, che i vasi capillari sanguigni abbiano virtù contrattile. Recentemente il Klein (1) ha asserito per cosa certa e da lui osservata nella membrana nittitante della rana, che le fibre nervose pallide distribuite a’ vasi ca- pillari sanguigni si terminano in una finissima rete situata nell’ interno (1) .E. Klein, On the peripheral distribution of non-medullated Nerve-fibres. Part. II. Quarterly Journal of Micr. Science. Vol. XII. p. 21-35. Part. III. Ibidem p. 123-129. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 509 delle loro pareti. Io per me non so che credermene, imperocchè in tutte le osservazioni che infino a quì ho potuto fare intorno alla finale distribuzione de' nervi ne’ vasi capillari sanguigni e dell’ uomo e di molti altri animali, non mi è mai accaduto di vedere cosa, che in qualche maniera puntellasse cotesta asserzione del Klein. E. Delle fibre nervose pallide che fanno cammino insieme con quelle midollari. Io credo che chiunque voglia riguardare con attento occhio la eongiuntiva del bulbo colorata dal cloruro di oro e ingrandita di tre- cento volte e più, non tarderà a persuadersi, che insieme con le fibre nervose midollari distribuite a questa parte della congiuntiva, ce ne sono anche delle pallide racchiuse nella stessa comune invoglia di tessuto connettivo, le quali camminano più o meno flessuose, ora tra le fibre mi- dollari, ora tra esse e la nominata invoglia (fig. 27). Così fatte fibre io le vidi la prima volta, anni or sono, ne’ sottilissimi ramuscoli dei nervi sensitivi che si ramificano nella pelle della rana (1); ed esse, secondo mi hanno mostrato le mie ‘osservazioni, si trovano non solo in que’ fascetti di fibre midollari che compongono la rete nervosa si- tuata nel profondo della congiuntiva del bulbo, ma ancora si trovano in compagnia di quelle fibre nervose midollari che son prossime a ter- minarsi o ne’ corpuscoli del Krause o in quegli altri fiocchetti nervosi da me descritti avanti (fig. 40, 41, 42 e 46). Del resto queste fibre nervose pallide si assomigliano nell’ aspetto, nell’ andamento e nel modo di condursi col cloruro di oro a quelle che camminano accosto alle piccole arterie e vene e a’ vasellini capillari; e siccome io le ho vedute effettivamente distribuirsi talora in questi, e talora in quelli, così dommi a credere ch’ esse siano in parte sensitive, e in parte mo- trici. Intorno poi alla loro origine, io m’ immagino che alcune di esse vengano direttamente dalle cellule che costituiscono il ganglio del Gasser, e altre da’ filetti che il plesso cavernoso manda non che al suddetto ganglio, ma anche al nervo ottalmico o prima branca del quinto. (1) Ciaccio, On the Distribution of Nerves to the Skin of the Frog with physiological:Remarks on the Ganglia connected with the cerebro-spinal Nerves. Transactions of the Microscopical Society of London. N. XIII. p.15-31. January 1864. 510 G. V. CIACCIO VI Della formazione della congiuntiva. La congiuntiva dell’ uomo in principio si compone di cellule vi- cinissime tra loro, alcune rotonde, altre oblunghe, le quali, medesima- mente che quelle degl’ integumenti esterni dell’ embrione, provengono parte dal foglietto esterno o corneo del blastoderma, e parte dal medio o motore-germinativo. Dalle cellule che vengono dal foglietto corneo del blastoderma traggono origine ! epitelio e tutte quelle glandule che vanno a sboccare alla superficie della congiuntiva; dalle cellule poi che procedono dal foglietto motore-germinativo si formano la sostanza con- nettiva del corio mucoso, i vasi sanguigni e linfatici, e i nervi che in esso corio mucoso si diramano. Negli embrioni umani di sette set- timane e mezzo ad otto, in cui le palpebre già cominciano a compa- rire in forma di piccoli rialti o basse piegoline degl’ integumenti ester- ni; e in quelli altresì di nove settimane, ne’ quali le palpebre sopram- mentovate coprono già parte del globo visivo, e sono lunghe un mil- limetro circa, io ho osservato che la congiuntiva non solo non è per ancora distinguibile da quelle parti ch’ essa è destinata a ricoprire, ma neanche in essa si può con chiarezza discernere lo strato epiteliale dal corio mucoso. Imperocchè essa è tuttora fatta di cellule poco di- verse l’ una dall'altra, e separate tra loro da poca sostanza sottilmente fibrosa; le quali cellule talmente si continuano a quelle delle parti sottostanti, che formano insieme con quelle tutta una cosa. All’ incon- tro nei feti di quattro a quattro mesi e mezzo ho osservato che i due principali costituenti della congiuntiva, cioè l’ epitelio e il corio mucoso, si possono agevolmente distinguere 1’ uno dall’ altro, e che il corio mucoso di quella parte di congiuntiva che veste il davanti del bulbo si è totalmente differenziato dalla sclerotica; laddove il corio mucoso della congiuntiva tarsea seguita ancora ad essere indistinto dal tessuto proprio del tarso. Oltre di che fin da questo tempo della vita del feto cominciano ad apparire quelle differenze, che si ravvisano nelle diverse parti della congiuntiva dell’ adulto, tanto nella forma dell’ epitelio, quanto nella qualità della sostanza connettiva, onde s’ intesse il corio mucoso; le quali differenze poscia assai manifeste divengono nella DELLA CONGIUNTIVA UMANA 5II nella congiuntiva dei bambini nati di poco. In riguardo all’ origine e formazione delle glandule che fan capo nella congiuntiva, io posso affermare positivamente, ch’ esse tutte, fuorchè le glandule mucose del- l’ Henle, hanno il loro nascimento dallo strato epiteliale della congiun- tiva, il quale in forma di cilindro solido s’ insinua e prolunga e ra- mifica per entro a quella infinità di cellule, che derivano dal foglietto motore-germinativo del blastoderma, e stanno sotto allo strato epiteliale; e ogni ramo del detto cilindro solido poi si partisce in altri rametti minori, ciascuno dei quali finisce allargandosi in foggia di pera o di piccola fiala. E però avviene, che quando questi minori rametti termi- nanti in guisa di fiala son molti e vicini tra loro, essi nell’ insieme fanno similitudine a un grappoletto di acini. Ma se una e medesima è l’origine di tutte quelle glandule acinose che sboccano nella con- giuntiva, esse però non si formano tutte nello stesso tempo; imperoc- chè alcune si formano prima, ed altre poi. Secondo le mie osserva- zioni, di queste glandule la prima a formarsi è la porzione superiore o vero orbitaria della glandula lagrimale, che in un embrione umano di circa nove settimane ho trovato in forma di un lungo cilindro composto interamente di cellule, il quale si cominciava dall’ estremità esterna del fornice superiore della congiuntiva, e poi, quando era pros- simo a terminare, sì partiva in quattro rami, ciascuno de’ quali man- dava lateralmente parecchi processi in guisa di pera o di fialetta. Ap- presso alla porzione superiore della glandula lagrimale si forma la in- feriore o palpebrale, che io mi accordo col Kolliker (1) a porne l’ori- gine al principio o entro il quarto mese. Poi si formano le glandule di Krause, delle quali in un feto di circa quattro mesi e mezzo ne ho veduto tre, che aveano la figura di un fiaschetto con largo ventre e breve collo, ed erano, a qualche distanza l’ una dall’ altra, situate quasi nella metà lunghezza del fornice superiore della congiuntiva. Da ultimo formansi quelle glandule acinose che han sede nella propria sostanza del tarso, delle quali a me non è incontrato di vederne nè pure una sola in via di formazione nel feto testè mentovato. In quanto alle glandule mucose dell’ Henle, esse si originano per un semplice ri- piegarsi in dentro della mucosa congiuntivale nel tempo ch’ ella è (1) Kòlliker, Entwicklungsgeschichte des Menschen und der hòheren Thiere. s. 298. Leipzig 1861. 512 G. V. CIACCIO quasi già compiuta di fare; e la formazione loro dee esser molto tar: diva, non avendone trovate che pochissime nella congiuntiva orbitale de' bambini di uno a due mesi di età. In conclusione dico che la con- giuntiva comincia a compiersi nella sua tessitura da quella parte di essa che veste anteriormente il bulbo a quella che soppanna il tarso; la qual cosa parimente si osserva nella pelle delle palpebre, la cui formazione si viene successivamente compiendo dal margine aderente di esse palpebre all’ altro libero. VII CONCHIUSIONE Le cose che fin quì ho detto, se vero è, come io non ne dubito, che la cognizione dell’ interna fabbrica di una parte qualunque del nostro corpo sia necessaria per meglio intendere il modo del suo alterarsi in caso di morbo, dovranno gittar luce sopra la natura di que’ mali che sogliono venire nella congiuntiva dell’ uomo, e specialmente sopra la natura di quello che chiamasi d’ ordinario col nome di Tracoma. (ome si sa, gli Oftalmologi non sono per ancora d’ accordo intorno a ciò che sia il tracoma, e donde ei si origini e come: e io certo mi scosterei molto dal mio proposito, se quì volessi riferire a una per una le loro opinioni, e dire quale tra esse sia la vera, e quale per lo meno più delle altre alla verità si avvicini. Pertanto mi sono avvisato di mani- festare semplicemente l’ opinione mia, la quale parmi esser fiancheg- giata non solo da tutto ciò che avanti ho detto intorno alla diversa tessitura che la congiuntiva dell’ occhio umano mostra nelle sue di- verse parti, ma anche dalle osservazioni che ho fatto sopra parecchie congiuntive tracomatose. Adunque io per me credo che il tracoma mon in altro consista, che in una ?perplasia di quella sostanza connettiva reticolata o adenoide, di cui è composto il corio mucoso della congium- tiva delle palpebre e de’ fornici; e credo altresì che i così detti no- duli tracomatosi non siano in realtà che i tramezzi che dividono l'una dall’ altra le glandule mucose dell’ Henle, le quali glandule, per quello che io ho potuto osservare, ordinariamente nel tracoma sì tro- DELLA CONGIUNTIVA UMANA 513 vano disfatte. E sono per appunto i tramezzi di sopra menzionati che, per effetto del lavorio morboso che in essi ha sede, crescendo di gran- dezza nel tracoma, rendono aspra la superficie della congiuntiva pal- pebrale e de’ fornici, e osservati col microscopio sia di faccia, sia in taglio perpendicolare fan vista di papille o di follicoli linfatici. Ond° è che manifestamente s’ ingannano tanto quelli che vogliono che il tra- eoma sia una formazione novella di elementi anatomici al tutto indipen- dente dagli elementi che compongono la congiuntiva nello stato sano, quanto quelli che vogliono che sia una speciale ipertrofia de’ follicoli linfatici e delle papille, che in essa congiuntiva si trovano. Imperocchè nella congiuntiva dell’ uomo, come si disse altrove, non vi sono altre papille, eccetto quelle risedenti presso al margine libero delle palpebre e presso alla parte mediana superiore ed inferiore del circuito della cornea; e i follicoli linfatici o vi mancano del tutto, o vero si trovano in piccolissimo numero, e solamente nella congiuntiva orbitaria e in quella de’ fornici. Ma di queste cose che io ho quì toccato di passaggio intorno al tracoma, ne tratterà alla distesa in un particolare scritto, ch’ è per compiere, il mio amico Prof. Magni, versatissimo nella co- gnizione delle infermità dell’ occhio, ed esperimentatissimo, il quale son certo che ne favellerà con quella copia di dottrina che si conviene a tale argomento. Io poi sono in obbligo di rendere pubblicamente quelle grazie, che maggiori posso, a due miei amici, al Prof. Inzani dell’ Università di Parma, e al Prof. Richiardi di quella di Pisa; a questo per avermi fornito al bisogno due belli esemplari di congiuntiva d’ uomo, i vasi sanguigni della quale erano stati riempiuti artificialmente di gelatina mischiata con azzurro di Prussia; a quello per avermi messo tra le mani liberalissimamente tutti i suoi esemplari di congiuntiva umana colorata dal cloruro di oro stupendamente. Da’ quali esemplari, che da me e da altri ancora sono stati trovati di tanta eccellenza che non così agevolmente si potranno agguagliare, io ho ritratto la maggior parte delle figure che sono disegnate nelle Tavole IV, V, VI e VII. E io confesso con ogni maggiore sincerità e schiettezza, che senza l’ ajuto degli esemplari sovraccennati non avrei potuto scrivere con quella particolarità che ho fatto nè de’ corpuscoli del Krause, nè de’ fiocchetti nervosi terminali, nè delle fine fibre pallide o simpatiche che si ac- compagnano co’ vasi sanguigni che si diramano alla congiuntiva del bulbo. TOMO IV. 65 514 G. V. CIACCIO Ora non mi resta altro, che cavare da tutte le osservazioni fatte innanzi alcuni corollarii che sono i seguenti. 1. La congiuntiva umana, sì come la pelle delle palpebre, alla quale si continua, consta di due parti, l’ una è il corio mucoso che corrisponde al derma della pelle, 1’ altra è l’ epitelio che corrisponde al corpo reticolato o mucoso dell’ epidermide. 2. Il corio mucoso non è fatto della medesima maniera di so- stanza connettiva in tutte le parti in cui gli anatomici comunemente distinguono la congiuntiva; imperocchè esso in quella parte che veste il bulbo dell’ occhio si compone di fascetti di tessuto connettivo ordi- nario variamente intrecciati insieme, laddove in tutto il restante della congiuntiva s’ intesse di sostanza connettiva reticolata o adenoide. 3. L' epitelio poi è di due forme, cioè pavimentoso stratificato e cilindrico stratificato. Di queste forme la prima si trova nella con- giuntiva che veste la faccia posteriore de’ tarsi, la caruncola, il lago delle lagrime, e la parte anteriore del globo dell’ occhio; la seconda trovasi nella congiuntiva orbitaria e in quella de’ fornici, o reflessa che la chiamino. 4. Il corio mucoso in nessuna altra parte della congiuntiva forma rialti addentrantisi nell’ epitelio, salvo che presso alla parte media su- periore e inferiore del circuito della cornea e presso al margine libero delle palpebre ; e i rialti di questa ultima parte quasi che sempre sva- niscono a un millimetro o un millimetro e mezzo dal labbro interno o meibomiano del suddetto margine, cioè svaniscono allora quando la sostanza connettiva, di cui è composto il corio mucoso della congiun- tiva palpebrale, comincia a pigliar forma di sostanza connettiva reticolata. 5. Le liste o linguette del Manz non risultano, com’ei si dette a credere, dal corio mucoso della congiuntiva che in vicinanza della parte superiore e inferiore della circonferenza corneale si sparte in varie striscette, e così spartito prolungasi per un certo spazio sopra la cornea; ma sono de’ veri rialti papillari, che finiscono là dove finisce la congiuntiva, e comincia la cornea. 6. Le papille di diverse figure e grandezze ammesse dalla gene- ralità degli anatomici in quella parte della congiuntiva che ricopre in- ternamente le palpebre non sono altro, che i tramezzi di sostanza connettiva reticolata che dividono l’ una. dall’ altra le glandule mucose di Henle; i quali tramezzi, poichè nella condizione sana della congiun- tiva sono agguagliatamente ricoperti dall’ epitelio, non fanno veruna sporgenza alla superficie di essa, tranne nel caso di morbo. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 515 7. La congiuntiva umana è provveduta di due specie di glandule, le une a tubo, le altre a grappolo o acinose. Sono della prima specie le glandule mucose dell’ Henle; della seconda le glandule da me chia- mate tarso-congiuntivali, e quelle altre che dal nome del primo sco- pritore comunemente si appellano glandule di C. Krause. 8. Nella congiuntiva dell’ uomo i follicoli linfatici sono in po- chissimo numero, anzi talvolta non se ne scorge nè pure un solo. E quando essi ci sono, la lor sede ordinaria è o nella congiuntiva orbi- taria o in quella de’ fornici. 9. I vasi sanguigni della congiuntiva sono oltremodo numerosi, e nella loro finale distribuzione formano reti che si differiscono nelle diverse parti di essa congiuntiva per la figura e grandezza delle ma- glie; le quali reti sono in generale disposte in piano, eccetto che in vicinanza del margine libero delle palpebre e della parte media su- periore ed inferiore della circonferenza della cornea, e là dove sono .i tramezzi che separano le glandule mucose dell’ Henle. 10. Non solo i vasi capillari sanguigni che sono intorno al peri- metro della cornea, ma ancora tutti quelli della congiuntiva. che veste il bulbo sono involti in una sottilissima guaina nucleata, o guaina linfatica, come oggidì la chiamano, la quale guaina, a mio credere, non è che una dipendenza della tunica esterna delle piccolissime arte rie, mutatasi della sua prima tessitura. 11. I vasi linfatici della congiuntiva sono proporzionati per nu- mero a’ vasi sanguigni, e non è improbabile ch’ essi alla circonferenza della cornea comunichino, per delle vie non ancora cognite, con la spessa rete di quei vani, in cui son contenuti i corpuscoli corneali. 12. Nella congiuntiva si distribuiscono due qualità di fibre ner- vose, le une sensitive, le altre vasomotorie. Le prime sono fornite di midolla, e terminano parte ne’ corpuscoli del Krause o in speciali fioc- chetti nervosi, e parte si convertono in fibre pallide, le quali dividen- dosi reiterate volte e intraversandosi a vicenda creano un certo qual plesso nella parte superficiale della congiuntiva, dal quale plesso a tanto a tanto si prolungano sottilissime fibrille che s’internano nel- l’ epitelio e ivi finiscono. Le seconde sono in generale senza midolla, e alcune di esse si accompagnano con le piccole arterie e vene, altre, e sono le meno in numero, camminano insieme con le fibre nervose sensitive racchiuse in una sola e medesima invoglia di tessuto connet- tivo a sottilissime fibre longitudinali. 516 G. V. CIACCIO 13. La più parte delle fibre nervose sensitive distribuite alla ca- runcola lagrimale terminano in que’ peluzzi che si scorgono in essa impiantati; i quali peluzzi sottilissimi, e per ordinario non distingui- bili dall’ occhio nudo, verosimilmente non sono altro, che speciali stru- menti tattivi. 14. Nelle glandule acinose della congiuntiva umana ci vanno e fibre nervose sensitive e fibre nervose vasomotorie. E quanto alle prime sembra probabile, ch’esse spogliatesi della lor guaina midollare vadano, nell’ istesso modo che alle volte si vede nella glandula lagrimale, a terminarsi tra le cellule che vestono l’ interno degli acini glandulari con un piecolo ingrossamento fatto in foggia di pera o di bottoncello. 15. La congiuntiva nel suo principio è fatta di cellule pressochè simili nella forma, le quali in parte derivano dalle cellule del foglietto esterno o corneo del blastoderma, e in parte da quelle del medio 0 motore germinativo. Dalle prime hanno nascimento l’ epitelio e tutte le glandule che nella congiuntiva sboccano; dalle seconde la sostanza connettiva del corio mucoso, i vasi sanguigni e linfatici, e i nervi ‘che im esso corio si diramano. Tra le glandule della congiuntiva la prima a formarsi è la porzione superiore, ovvero orbitaria della glandula la- grimale; le ultime le glandule mucose dell’ Henle. arturo ca rire tari ratec DELLA CONGIUNTIVA UMANA 5IT SPIEGAZIONE DELLE FIGURE TAVOLA I. La figura 1 e la 2 di questa tavola sono state ritratte dalla congiuntiva operata dal cloruro di oro, le altre dalla congiuntiva colorata con il carminio. Fig. 1. Taglio perpendicolare trasverso della congiuntiva tarsea superiore. e Epitelio. cm Corio mucoso che in forma di rialti papillari separa l’ una dall’ altra le glandule mucose di Henle. 9g Glandule mucose di Henle. cs Tessuto connettivo sottomucoso. t Tessuto proprio del tarso. v Vasi sanguigni. vs Vasi sanguigni tagliati per trasverso. X_ 180. Fig. 2. Taglio perpendicolare trasverso della congiuntiva tarsea.inferiore in vi- cinanza del margine libero delle palpebre. e Epitelio. cm Corio mucoso, il quale, perchè mancano le glandule mucose di Henle, non s’ innalza in forma di papille. C s Tessuto connettivo sottomucoso. 9g Glandule dei Meibomio. t Tarso. v Vasi sanguigni. X 180. Fig. 3. Una piccola porzione della congiuntiva tarsea presso all’ angolo interno dell’ occhio, veduta per la superficie. e Epitelio. 9g Glandule mucose di Henle. s Sbocco delle medesime. % 100. Fig. 4. Taglio perpendicolare della congiuntiva del fornice superiore. e Epitelio. ml Membrana omogenea posta tra l'epitelio e il corio mucoso. ‘0,11 Corio imucoso. c s Tessuto connettivo sottomucoso. % 275. 518 G. V. CIACCIO Fig. 5. Un pezzetto del corio mucoso della congiuntiva tarsea superiore tagliato parallelo alla superficie. f Reticella di piccole fibre connettive. g Globetti linfoidi. X 275. Fig. 6. Congiuntiva clie contermina con la parte superiore dell’ orlo della cor- ‘ nea tagliata perpendicolarmente secondo la direzione del medesimo orlo. a Epitelio. p Rialzamenti papillari del corio mucoso. cg Corio mucoso della congiuntiva. tc Tessuto proprio della cornea. v Vasi sanguigni. X 275. TAVOLA II. Tutte le figure di questa tavola sono state ritratte dalla congiuntiva colo- rata con îl carminio. Fig. 7. Parte della congiuntiva presso all’ orlo superiore della cornea, veduta per la superficie. te Lembo della congiuntiva. m c Margine della cornea. aaa Rialzamenti del corio mucoso uniti tra loro in forma di rete. 21 Linguette o liste di Manz che finiscono di qua dal margine della cornea, le quali tagliate per trasverso prendono l' apparenza di papille. X 20. Fig. 8. Glandula mucosa composta, i! cui epitelio è preso dalla così detta tra- sformazione mucosa. tt' Tubi glandulari primarii, l'uno de’ quali si quadripartisce ne’ tubi secon- darii ssss. sb Shocco della glandula. c Tessuto connettivo che circonda la medesima. Y% 225. Fig. 9. Glandula mucosa di Henle appartenente alla porzione orbitaria della congiuntiva, di figura rotonda, e così rigonfiata, che pare un piccolo tumoretto cistico. e Epitelio della glandula. s Bocca della medesima. % 100. Fig. 10. Altra glandula mucosa di Henle appartenente anche alla porzione or- bitaria della congiuntiva, dismisuratamente allargata in forma di sacchetto. m Contorno della membrana propria della glandula. e Epitelio. s Bocca della glandula. %_ 100. Fig. 11. Glandula acinosa del fornice superiore della congiuntiva. c Condotto escretore della glandula. s Sbocco del medesimo. % 100. Fig. 12. Due altre simili glandule, i cui canali escretori cc, via facendo, si uniscono in un solo d. X 25. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 519 Fig. 13 Altra simile glandula, il cui canale escretore c, nella sua parte supe- riore, molto bizzarramente sì allarga, ed apre con bocca s ampia, e di figura ellittica. X 25. Fig. 14. Altra simile glandula, il cui canale escretore c si rigonfia e manda da tutti e due i lati molti diverticoli. X 100. Fig. 15. Altra simile glandula, il cui canale escretore c si allarga così fuor di modo, che avanza di due tanti e più la glandula, donde nasce. X 100. TAVOLA III Le figure 16, 17, 18, 19, 21e 23 di questa tavola sono state ritratte dalla congiuntiva colorata col carminio, la 20 e 22 dalla congiuntiva trat- fata col cloruro di oro, ed infine la 24 e 25 dalla congiuntiva, ne’ cui vasi sanguigni era stata injettata della gelatina disciolta e mescolata con azzurro di Prussia. Fig. 16. Congiuntiva orbitaria insieme con quella del fornice superiore e una gran parte di quella che cuopre in avanti e superiormente il bulbo del- l’ occhio, distesa e veduta per la superficie. a Congiuntiva orbitaria. b Congiuntiva del fornice superiore con le glandule acinose di Krause ordi- nate in riga. c Porzioni de’ canali escretori della glandula lagrimale. d Due ghiandoline facenti parte della glandula lagrimale inferìore, o accessoria. e Congiuntiva del bulbo. X 24. Fig. 17. Pezzetto di una glandula acinosa di Krause tagliata sottilissimamente. a Acini glandulari. b Acino, dal quale son venute via le cellule secretorie, ed è rimasta sola la membrana propria di esso. c Cellule che sopannano l’interno dell’acino, le quali realmente son coniche, ma vedute per la base appariscono poligone. d Tessuto connettivo fibrillare che insiem collega e distingue gli acini l’ un dall’ altro. e Cellula del tessuto connettivo ch’ è tra gli acini glandulari, veduta in profilo. f Corpuscoli linfoidi. X 420. Fig. 18. a Cellule tratte dall'interno degli acini di una glandula di Krause e disgregate. b Altre consimili cellule, ma unite. c Due cellule, l'una falcata, perchè è veduta in profilo, l’ altra ramosa, le quali appartengono probabilmente alla parete dell’ acino. I due prolunga- menti della cellula falcata pare che si attacchino alle cellule cavate fuori dell’ interno dell’ acino. X 300. Fig. 19. Tarso della palpebra superiore destra, disgiunto dalle parti d’ intorno, e veduto dalla faccia della congiuntiva. e Estremità esterna del tarso. 520: G. V. CIACCIO î Estremità interna. del medesimo. m; Giandule di Meibomio. g Glandula acinosa impiantata nella sostanza del tarse. Grandezza naturale. Fig. 20. Tarso superiore sottilmente tagliato: per lo lungo in quella parte, dove: appunto è situata la glandula acinosa tarso-congiuntivale. c Congiuntiva. t Tarso. gg Glandula acinosa. s Sbocco del canale escretore maestro della medesima. m Parte finale di una glandula di Meibomio. v Vasi sangnigni. X 25. Fig. 21. Rametto terminale di uno de’ canaletti escretori secondarii della glan- dula acinosa rappresentata nella figura 20. X 100. Fig. 22. Pezzetto della glandula acinosa delineata nella fig. 20, ingrandito molto. a Acini glandulari. î Invoglio di sostanza connettiva fibrosa dell’ acino. m Membrana. propria del medesimo. s Spazio tra l’invoglio di sostanza connettiva fibrosa e la membrana propria dell’ acino. c Cellule che vestono l’ interno dell’ acino. ® Vano del medesimo. r Sostanza connettiva reticolata, o adenoide interposta tra gli acini glandulari. vs Vaso sanguigno che corre e si partisce tra acino ed acino. t tessuto proprio del tarso. X 400. Fig. 23. Tre mucchietti o aggregamenti di corpuscoli linfoidi, figurati a modo di follicoli linfatici, di grandezza disuguale, e situati dietro alla piega semilunare. X 20. Fig. 24. Taglio longitudinale della congiuntiva tarsea superiore. a Vasi sanguigni del corio mucoso. bv Vaso sanguigno longitudinale, che limita la parte inferiore del corio mucoso. c Vasi sanguigni del tarso. X 100. Fig. 25. Taglio longitudinale della congiuntiva orbitaria. a Vasi sanguigni del corio mucoso. b Grossi vasi sanguigni che si diramano nel tessuto. connettivo sottomucoso X 80. TAVOLA IV. Tutte le figure di questa tavola sono state ritratte dalla congiuntiva del bulbo colorata dal cloruro di oro. Fig. 26. Intreccio di fasci nervosi e vasi sanguigni della parte profonda della congiuntiva. fff Fasci di fibre nervose midollari. aaa Arterie. vvv Vene. X 100. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 521 Fig. 27. Fascetto nervoso della parte profonda della congiuntiva. m m Fibre nervose midollari. pp Fibre nervose pallide. g Guaina del fascetto. X 300. Fig. 28. Due fibre nervose midollari della parte superficiale della congiuntiva. m Fibra nervosa midollare, che nel punto a si biforca una prima volta, nel punto d una seconda, e nel punto c una terza; e le fibre che risultano da queste successive biforcazioni, dopo breve cammino, si convertono tutte in fibre nervose pallide dd d. m' Altra fibra nervosa midollare, la quale senza dividersi si muta nella fibra pallida d, che poi si biforca. X 400. Fig. 29. a Fibra nervosa midollare che cammina sotto all’ epitelio e della con- giuntiva, e poi nel punto d sì tripartisce. X_ 500 Fig. 30. Vasi sanguigni della parte profonda della congiuntiva accompagnati da fibre nervose. a Arteria. v» Vene. mmm Mimute fibre nervose midollari, le quali nel cammino loro si mutano successivamente in fibre pallide. & Tessuto connettivo fibrillare che circonda i vasi sanguigni e le fibre ner- vose. X 300. Fig. 81. Intreccio di vasi sanguigni e fibre nervose pallide della parte profon- da della congiuntiva. vvv Vasi sanguigni intrecciati tra loro. fff Fibre nervose pallide o vaso-motorie, che si accompagnano co’ vasi san- guigni. rr Piccoli rigonfiamenti nucleari delle medesime. % 300. Fig. 32. Una piccola vena della parte media della congiuntiva, accompagnata da due fibre nervose midollari e da tre pallide. v Vena. m Fibre nervose midollari. pp Fibre nervose pallide. î Tessuto connettivo che involge la vena e le fibre nervose. X 300. TAVOLA V. Tutte le figure di questa tavola sono state ritratte dalla congiuntiva del bulbo colorata col cloruro di oro. Fig. 33. Fascio nervoso della parte profonda della congiuntiva, sue diramazioni successive, e terminazione della più parte delle fibre che lo compongono. f Fascio composto di parecchie fibre nervose midollari. ss' Fascetti nervosi secondarii che nascono dallo spartimento del fascio pri- mario f. tt' Fascetti nervosi minori, in cui si spartisce il fascetto secondario s. E qui TOMO IV. 66 522 G. V. CIACCIO si vede come le fibre del fascetto #', via facendo, si dislegano le une dalle altre, e, quale prima e quale poi, finiscono tutte ne’ bulbetti nervosi di Krause cecccecc. sainmm Fibre nervose midollari, che provengono da altri fascetti non rappre- sentati nella figura, e finiscono similmente ne’ bulbetti di Krause c c'. X 100. Fig. 34. Bulbetto di Krause con una sola fibra nervosa. t Invoglio del bulbetto nervoso. n Nucleo dell’ invoglio. s Sostanza, di cui si compone il bulbetto nervoso. f Fibra nervosa midollare. 9 Aggroppamento della fibra nervosa midollare all’esterno del bulbetto, avanti d' addentrarvisi. X 400. Fig. 35. Altro bulbetto di Krause con una sola fibra nervosa midollare, la quale, quando è vicinissima al bulbetto, si biforca, e le due fibre che ne derivano, avvolgono con molti giri gran parte di esso bulbetto. X 400. Fig. 36. Altro bulbetto di Krause con una sola fibra nervosa midollare, la quale alquanto lungi dal bulbetto si divide in due fibre, e queste fibre come arrivano al bulbetto, lo circondano co’ loro avvolgimenti. X 400. Fig. 37. Altro bulbetto di Krause con due fibre nervose midollari, le quali alla superficie del medesimo si aggroppano in modo, che il bulbetto pare co- me se fosse fatto dallo avvolgersi di esse fibre. X 400. Fig. 38. Altro bulbetto di Krause con una sola fibra nervosa midollare, la quale, prima di arrivarvi, si partisce due volte, e le tre fibre, che nascono da questa doppia partizione, formano alcuni avvolgimenti all’ esterno del bulbetto, avanti che vi penetrino. X 400. Fig. 39. Altro bulbetto di Krause con due fibre nervose midollari, ciascuna delle quali molto discosto dal bulbetto si biforca, e poi le quattro fibre nate da queste due biforcazioni, avvoltate e collegate insieme si condu- cono al bulbetto, alla cui superficie arrivate, si slegano un poco e formano varii avvolgimenti. % 400. TAVOLA VI. Tutte te figure di questa tavola sono state ritratte dalla congiuntiva del bulbo colorata col cloruro di oro. Fig. 40. Parte superficiale della congiuntiva della sclerotica, veduta per di sotto. mm Fibre nervose midollari che finiscono nel fiocchetto nervoso c. p Fibra nervosa pallida, che da prima cammina allato alle fibre nervose mi- dollari, e poi se ne allontana, dividendosi e suddividendosi nel suo cam- mino. a Capillari sanguigni. X 300. . Fig. 41. Parte superficiale della congiuntiva della sclerotica, veduta per disotto. mm Fibre nervose midollari. DELLA CONGIUNTIVA UMANA 523 î Invoglio delle medesime. pp Fibre nervose pallide, che camminano per qualche spazio dentro al me- desimo invoglio delle fibre nervose midollari, e poi uscitene fanno tut- t' altra via. cc Fiocchetti composti di sottili fibre nervose, ne’ quali terminano le fibre nervose midollari. aa Capillari sanguigni. X 300. Fig. 42. Parte superficiale della congiuntiva della sclerotica, veduta per disotto. mm Fibre nervose midollari, le quali vanno a terminare ne’ fiocchetti cc c. îi Invoglio delle medesime fibre. pp Fibre nervose pallide. aa Vasi capillari sanguigni. g Guaina nucleata de’ medesimi. s Spazio pericapillare. X 300. Fig. 43. Parte superficiale della congiuntiva della sclerotica veduta per di sopra. p Fibre nervose pallide. € s Vasi capillari sanguigni. cl Vasi capillari linfatici. X 225, Fig. 44. Parte superficiale della congiuntiva della sclerotica, veduta per di sotto. m Fibra nervosa midollare, la quale si biforca, e una delle fibre nate da que- sta biforcazione si converte poi in fibra pallida. pp Fibre nervose pallide che corrono per di sotto alla rete de’ capillari san- guigni. r Rete de’ capillari sanguigni. e Epitelio. X 300. TAVOLA VII. Tutte le figure di questa tavola sono state ritratte dalla congiuntiva del bulbo colorata col cloruro di oro. Fig. 45. Fibra nervosa midollare e fibre pallide che camminano insieme nella parte superficiale della congiuntiva della sclerotica. m Fibra nervosa midollare, che lascia di un tratto la midolla, e si muta in fibra pallida. pp Fibre nervose pallide che traggono la loro origine da altre fibre midol- lari, le quali non sono state quì disegnate. X 300. Fig. 46. Parte superficiale della congiuntiva della sclerotica, veduta per di sotto. m Fibra nervosa midollare che serpeggia immediatamente sotto a’ vasi ca- pillari sanguigni. p Fibra nervosa pallida che si avviticchia alla fibra nervosa midollare, e, nel suo corso, si divide in fibre minori. c Vasì capillari sanguigni. g Guaina nucleata de’ medesimi. s Spazio pericapillare. X 300. 524 G. V. CIACCIO Fig. 47. Fibre nervose pallide e capillari sanguigni della parte superficiale della congiuntiva della sclerotica. p p Fibre nervose pallide, alcune delle quali costeggiano i capillari sanguigni, altre passano sopra di essi, e nel loro corso si dividono e suddividono. c Capillari sanguigni. X 400. Fig. 48. Fascetti di fibre nervose pallide e capillari sanguigni del margine della cornea. ff Fascetti di fibre nervose pallide che vengono dalla trasformazione delle fibre nervose midollari della congiuntiva. c Capillari sanguigni che formano delle anse arcuate. g Guaina nucleata de’ medesimi. s Spazio pericapillare. X 300. Fig. 49. Epitelio della congiuntiva veduto per di sotto. mm Minute fibré nervose che stanno sotto all’ epitelio. ff Fibrille che corrono, e si spartiscono tra le cellule epiteliali. ce Corpuscoli di forma irregolare situati tra le cellule dell’ epitelio, alcuni de’ quali sono connessi con le fibrille nervose. X 300. Fig. 50. Taglio perpendicolare della congiuntiva della sclerotica. e Epitelio. cm Corio mucoso. s ss Fibre nervose pallide che camminano sotto l’epitelio, e compongono l’ in- treccio nervoso sottoepiteliale. fff Fibrille che nascono dall’intreccio nervoso sottoepiteliale, e addentratesi nell’ epitelio, si avviano alla superficie di esso. rr x Terminazione apparente delle fibrille nervose tra le cellule epiteliali, X 500. Do Art ITNIALG ST NTI CTETE ERE Ro pi - I n FISSATI de erat È DLL i R.Contoli dis dal wero (. Bettini no; Titt,. Erano (. Betbimi ime Tit. Frano® Casanova Li RE | — Mem Ser.5. Tam.V F.Contoli dis dal vero C. Bettini inc, Tnt. Franc" Casanova i AES Î ‘ i a È i a) , la el È a Ser. 3? DI T e ci Al ci; om_IIIL. (. Bettini imc. > e Tit. Fran! Casanora * ug 0a! LU «gr La” A ’ Mem Sèr.5* Tom.IlI. MIRO / x 400 (. Bettini inc. « Iit. Frano® Casanova Mem. Ser. 3° Tom. II Tav.VI Matta LILLOASO — FIUIMIAKG RIS LCAALALGAIKLIAL LA ARRE perte Peet a PrO 1) O at RLEBAIGULA, ug, a MS, iti DI ITTUIIUNTETTAATIFIAALO ar \ A \ .\ È) a ut, UL pa uiatttet!4 a Tx «TAI \ DI "i iti, Nb VAIL G.Betbini dis! m pietra Int. Franc? Casanova Tav. VII Mem. Ser. 3° Tom. Ill Fig.50 X 500 Trit.Frano® Casanova (. Bettini dis°in pietra Vi FORMAZIONE GESSOSA CASTELLINA MARITTIMA E I SUOI FOSSILI MEMORIA DEL PROF. COMM. G. CAPELLINI (Letta nelle Sessioni 5 e 12 Marzo 1874) PREFAZIONE Era stato scritto e ripetuto che nel deposito gessoso con sferoidi alabastrine dei dintorni di Castellina marittima non vi erano fossili; ma fino dal 1856 avendo avuto occasione di visitare la Valle del Marmolajo e le cave degli alabastri candidi castellinesi, cominciai a sospettare che le marne intercalate coi gessi non dovessero essere af- fatto prive di avanzi organici. Di buon ora avendo potuto persuadermi che per giungere a fare qualche cosa di buono nelle scienze naturali, non bisogna credere alla infallibilità; ogni qual volta ebbi a sospettare della inesattezza delle altrui osservazioni, non esitai a intraprendere nuove ricerche per vedere e rivedere coi miei propri occhi. Anche in questo caso, essendo con- vinto, teoricamente, che le marne gessose della Valle del Marmolajo dovevano essere fossilifere come quelle di Sinigallia e di Ancona, tanto cercai e tanto frugai che finalmente scoprii fossili vegetali e animali, in tale abbondanza che, oggi non temo di asserire: essere quel depo- sito gessoso uno dei più importanti in Italia, dal punto di vista pa- leontologico, come da antica data lo è altresì dal lato industriale. Le prime scoperte furono annunziate in una breve nota inserita nel Nuovo Cimento nell’anno 1860, e qual conto ne sia stato fatto anche dai geologi toscani, si rileva principalmente dalle benevole cita- 526 G. CAPELLINI zioni del Prof. PaoLo Savi, nel Saggio sulla costituzione geologica della provincia di Pisa. Dal 1860 fino allo scorso autunno 1873, a intervalli diversi ho osservato, scavato, raccolto; ed ora con questo mio scritto sono lieto di offrire non una compilazione o un lavoro critico intorno a cose osservate da altri; bensì il frutto delle mie ricerche, i risultamenti delle ripetute osservazioni, per le quali, lo dirò francamente, ho po- tuto altresì persuadermi che nel vasto campo in cui ho mietuto per tanti anni, potrò ancora tornare a spigolare con non poco profitto. PARTE PRIMA Cenni topografici e geologici sulla re- gione che comprende i gessi con sferoidi alabastrine. I fiumi Cecina ed Era, il torrente Calambrone e quel tratto del Mar Tirreno che si stende da Livorno alla foce di Cecina, limitano una regione di figura romboidale, interessantissima per lo studio dei terreni terziari, non solo della Toscana ma eziandio del rimanente d’ Italia. Due lati del romboide, il settentrionale ed il meridionale sono al- lineati approssimativamente da Est ad Ovest; gli altri due cioè 1’ orien- tale e 1’ occidentale sono diretti da Nord-Ovest a Sud-Est. Verso gli angoli si trovano Livorno a Nord-Ovest, Ponsacco a Nord-Est, Vol- terra a Sud-Est, e la Stazione di Cecina a Sud-Ovest; Orciano, Santa Luce, Monte Vaso, Castellina marittima occupano il centro e nella zona periferica stanno Fauglia, Lari, Parlascio, Terricciola, Laiatico, Monte Catini, Riparbella, Rosignano, luoghi ben noti a coloro che si inte- ressano della geologia toscana. Il rilievo principale della regione così delimitata, è costituito da due catene di monti parallelle allineate da Nord a Sud e da un terzo gruppo che si stacca ad oriente di esse con direzione da Nord-Ovest a Sud-Est. Innumerevoli botri e torrenti corrono in ogni direzione, ma si può dire che il fiume Fine forma l'arteria principale di questo LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 527 sistema idrografico, percorrendo la valle interposta fra le due catene sopra citate e, appena ricevuto il tributo delle acque del Marmolaio, rasenta l’ estremità meridionale della catena occidentale, piega, a Sud- Ovest e quindi all’ Ovest e finalmente si scarica nel mare. Oltre il fiume Fine ed il torrente Marmolaio della cui vallata avrò ad occuparmi, giova altresì di ricordare altri corsi di acqua di questa regione, quali, il torrente Sterzuola che partendo dai poggi di Noccola e S. Cerbone fra Castellina marittima e Miemo, prende il nome di Sterza di Laiatico di faccia al paese di questo nome, e va all’ Era con direzione generale approssimativa da Sud-Ovest a Nord-Est; il fiume Tora, il torrente Isola e i due botri del Salvolano e della Lespa che si scaricano nel fiume Fine. Premessi questi brevissimi cenni destinati a dare una idea som- maria della orografia e idrografia della regione nella quale si trovano i famosi gessi di Castellina marittima con sferoidi alabastrine, prima di dire della loro origine e di tutto quanto ad essi si riferisce, aggiungerò brevi parole sulla natura delle roccie dalle quali principal- mente resultano le due catene di monti che limitano la valle della Fine, trascurando per ora il terzo gruppo montuoso che comprende Miemo, Monte Catini, Orciatico, luoghi non meno interessanti di quelli dei quali intendo di occuparmi. KRoccie serpentinose. Per chi non ha visitato la regione che ho poc’ anzi delimitata, basterà un rapido sguardo alla carta geologica della Provincia di Pisa del Prof. Savi, oppure a quella in più grande scala che sottopongo all’ esame dei colleghi come resultamento degli studii geologici e pa- leontologici svolti in parte in questa memoria, e sarà agevole di rico- noscere che le due catene montuose le quali fiancheggiano la valle della Fine sono formate da roccie serpentinose (1) in rapporto con roccie metamorfiche e sedimentarie, nessuna delle quali è più antica del (1) In alcune recenti pubblicazioni le roccie serpentinose sono indicate col nome di pietre verdi in accordo con la nomenclatura tedesca e inglese; ma con diverso concetto la geologia italiana. Speriamo che la nuova denomina- zione non generi nuova confusione. 528 G. CAPELLINI cretaceo superiore, mentre per la maggior parte si possono riferire al- l’ epoca terziaria. Nell’ isola occidentale, ossia nella catena dei monti livornesi, la roccia serpentinosa anche oggi battuta in parte dal mare, si presenta estesamente denudata e costituisce quasi una sola massa; nell’ isola orientale, invece, si trova ripartita in diverse masse collegate fra loro da roccie del cretaceo superiore e dell’ eocene, le quali contribuiscono a far conoscere l’ origine delle masse stesse serpentinose. Neppure in questa circostanza intendo trattare con conveniente sviluppo dell’ origine delle roccie ofiolitiche o serpentinose italiane e dei loro rapporti con quelle di altre regioni d’ Europa e d’America che ebbi l’ opportunità di studiare; ma per far tesoro di quanto un giorno potrà servire per tracciarne una completa monografia, accennerò alcune considerazioni relative alle masse sopra ricordate (1). In questa parte della Toscana, come altra volta ebbi già a no- tare per la Liguria e pel Bolognese, qualunque sia la estensione e la importanza della massa di roccie serpentinose che si prende ad esa- minare, costantemente si trova che la serpentina antica diallaggica o ofiolite, il granitone o eufotide, la diorite, la serpentina recente o senza diallaggio, sono sempre associate e spesso si compenetrano e si amalgamano per costituire tutte insieme la massa principale cristal- lina con apparenza più o meno eruttiva (2). Attorno alle roccie ofio- litiche propriamente dette, si trovano gabbri rossi e talvolta oficalci e ofisilici; d’ ordinario chiaro apparisce il nesso fra la diorite e il gabbro rosso il quale, alla sua volta, per graduati passaggi si vede degenerare in ftaniti e diaspri, in stretti rapporti con calcari metamor- fici e argille scagliose alle quali fanno seguito schisti galestrini, argille schistose e calcare alberese; talvolta dalle oficalci si passa così gra- (1) CAPELLINI: Ricordî di un viaggio scientifico nell’ America settentrio- nale; Bologna 1869. — Compendio di geologia per uso degli allievi della R. Università di Bologna pag. 50 e seg. Bologna 1870. (2) Una Società mineralogica anonima residente in Pisa, costituitasi nel 1847, intraprese la esplorazione dei Monti di Castellina, e dai vari Rapporti di Pilla, Burat, Coquand, Savi, si ricava quanto fossero lusinghieri i resultamenti ottenuti per ricerche di rame presso il paese stesso di Castellina. I lavori fu- rono abbandonati dopo pochi anni per mancanza di capitali; ma forse in To- scana pochi giacimenti di minerale di rame offrono maggiori speranze di quello di Castellina marìttima che ha altresì stretti rapporti col celebre giacimento di Monte Catini in Val di Cecina. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 529 datamente alle vere serpentine che ben difficilmente si potrebbe segnare il limite fra le due roccie. Ora, se anche per poco si terrà conto della associazione di queste diverse roccie e si considereranno attentamente i loro rapporti strati- grafici, si avrà ragione di sospettare che, qui pure come in Canadà, nell’ Imeto in Grecia, nei Pirenei e nelle Alpi, l’ origine delle roccie serpentinose debba essere varia e da dovercene render conto in modo ben diverso da quello che fino a poco tempo addietro era stato ad- dottato dalla maggior parte dei geologi (1). Per le roccie serpentinose della regione toscana presa in esame, è indubitabile che esiste uno stretto legame fra esse e le altre roccie che le accompagnano, comprese le argille schistose, gli schisti gale- strini e il calcare alberese. Le varie roccie metamorfiche le quali le- gano le roccie sedimentarie ordinarie con le roccie ofiolitiche, costitui- scono una serie analoga a quella che già era stata accertata per gli ortofiri dei Vosgi e per certi graniti di Scozia riconosciuti di origine metamorfica. Nè sono da trascurare, a mio avviso, i caratteri mine- ralogici delle argille e schisti che si trasformarono, mentre invece essi possono benissimo render conto della natura diversa dei prodotti metamorfici che ne derivarono; graniti ordinarii e porfidi feldispatici nel caso di argille schistose ordinarie, sieniti, dioriti, roccie serpenti- nose diverse quando invece le argille, e conseguentemente gli schisti, derivavano dalla decomposizione di roccie anfiboliche e magnesiane, ovvero poterono arricchirsi di questi elementi per opera delle sorgenti minerali-termali. In entrambi i casi le roccie che si metamorfizzarono diedero luogo alla ricostituzione di roccie analoghe a quelle dalle quali ebbero origine. Che se si volessero trovare i rapporti fra il granito propriamente detto, i porfidi feldispatici e le roccie ofiolitiche, basterebbe riflettere come da queste roccie essenzialmente feldispatiche, per mezzo dei protogini, delle sieniti, dei labradofiri e della lunga serie di schisti (1) GARRIGOU F. Ophites des Pyrenees; leur origine sedimentaire et meta- morphique. Bull. de la Soc. géol. de France, 2 Série, T. XXV. p. 724. Paris 1868. — CAPELLINI. Sulle roccie serpentinose del Bolognese e in particolare su quelle dei dintorni di Bisano. Rendiconto dell’ Accademia delle Scienze del- l’ Istituto di Bologna, Sessione 12 Dicembre 1872. TOMO IV. 67 550 G. CAPELLINI anfibolici e talcosi che vi si assocciano, si possa passare alle anfiboliti, alle ofiti, ed alle serpentine. Questa maniera di render conto della origine metamorfica delle roccie ofiolitiche italiane dell’epoca terziaria, spiega altresì come quelle masse dopo aver raggiunto il più alto grado di metamorfismo, con- vertite in un magma particolare, eminentemente plastico per il copioso concorso dell’ acqua a temperatura più o meno elevata, abbiano potuto spingersi e farsi strada attraverso le sovraincombenti formazioni e pe- netrare in mezzo ad esse, talvolta in forma di filoni e dighe, eserci- tando pochissima o nessuna influenza modificatrice sulle roccie attra- versate; senza escludere la formazione diretta di filoni, strati e masse per opera delle stesse sorgenti minerali, ossia delle medesime cause modificatrici. Con tali vedute non trovo difficoltà ad ammettere tutta- via la qualifica di roccie eruttive per alcune masse serpentinose che si costituirono e si spinsero in mezzo a roccie preesistenti; ma invece di considerarle come cause metamorfizzanti delle roccie che vi sono associate, ravviso in queste gli elementi primi coi quali per graduati passaggi si arriva a quell’ elevatissimo metamorfismo che originò la roccia a struttura cristallina, talvolta con caratteri eruttivi. Interpretando di tal guisa l’ origine della maggior parte delle roccie serpentinose della Liguria, della Toscana e del Bolognese, e azzardando di esporre queste idee ai miei alunni fino dal 1864, intesi di approfittare di quanto avevo avuto l’ opportunità di ammirare e studiare un anno prima in America e incoraggiare i giovani a nuove ricerche, rendendo omaggio in pari tempo ad uno dei più benemeriti nella storia del metamorfismo, al non abbastanza compianto mio mae- stro ed amico il Prof. Paolo Savi. Infatti, ho appena bisogno di qui ricordare che fino dal 1864 avendo sostenuto nelle mie lezioni l’ esistenza di serpentine sedimenta- rie e metamorfiche, uno dei miei allievi il Dott. Baretti seppe trarne profitto e pel primo applicò le nuove idee allo studio delle serpentine delle Alpi, ciò che più tardi fruttò anche uno stupendo lavoro del Prof. Gastaldi (1). Fin d'allora con le osservazioni fatte in Canadà e negli Stati (1) BARETTI Dott. M. Alcune osservazioni sulla geologia delle Alpî Graie. Memorie dell’ Accademia delle Scienze di Bologna, Serie II. T. VI. Bologna 1867. — GASTALDI Prof. B. Studi geologici sulle Alpi occidentali. Firenze 1871. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 531 Uniti, mentre per una parte confermavo in gran parte ciò che il Savi aveva intraveduto intorno all’ origine metamorfica delle roccie serpen- tinose; accennando altresì la necessità di riconoscere come sedimentarie le roccie serpentinose delle quali il Prof. Logan mi aveva fatto os- servare una ricca collezione al museo di Montreal, insistevo sulla ne- cessità di distinguere diversi modi di origine anche per queste roccie come già avevo ammesso per i graniti (1). Iu.igniti, conglomerati ofiolitici e roccie diverse del miocene medio, Premesse queste considerazioni sulle roccie ofiolitiche della To- scana principalmente per escludere che esse abbiano potuto esercitare alcuna influenza modificatrice sulle roccie mioceniche della Valle del Marmolaio come taluni avevano sospettato, aggiungerò che, verso la metà dell’ epoca terziaria, nella regione presa in esame, quelle roccie trovavansi in gran parte scoperte, sicchè andarono soggette a potente denudazione. Tanto nel caso che si ammetta, le roccie serpentinose essere in parte venute a giorno direttamente in seguito ai movimenti del suolo che ebbero luogo nei primordi dell’ epoca terziaria, quanto se si pre- ferisca che principalmente per opera della denudazione le roccie ofio- litiche sieno state spogliate non solo delle roccie sedimentarie che le ricoprivano, ma eziandio di una gran parte di quelle che già erano parzialmente trasformate e con esse più intimamente connesse, resta sempre facile il dimostrare che le masse ofiolitiche non potevano essere esse stesse attaccate dalla denudazione prima della fine del periodo eocenico e che subirono la massima degradazione verso la metà del periodo miocenico. {l mare miocenico, sempre agitato, in conseguenza forse delle fre- quenti oscillazioni del suolo che si verificarono durante quel periodo (1) Nel 1858, essendo ancora studente all’ Università di Pisa, visitai l’ isola d’ Elba ed in quella occasione notai nel mio taccuino d’ aver veduto serpentine schistose e con apparenza di stratificazione; ma educato alla scuola del pluto- nismo non sapevo credere a quel che vedevo e scorsero alcuni anni prima che azzardassi professare dottrine affatto opposte. 532 G. CAPELLINI dell’ epoca terziaria, infuriando contro le isole a nucleo ofiolitico già in gran parte spogliato delle roccie che gli servivano d’ imballaggio; coi prodotti della copiosa e facile denudazione locale preparava lungo le spiaggie gli elementi dei conglomerati e delle arenarie ofiolitiche le quali si costituivano a non molta distanza dalle spiagge stesse e do- vevano in seguito contribuire grandemente a collegare fra loro parec- chie di dette isole. Questo fatto merita speciale attenzione, poichè se per altre regio- ni d’Italia è stato dottamente provato che i materiali dei conglome- rati miocenici provennero in parte da distanze talvolta enormi, e per la loro preparazione si invocò perfino l’ opera dei ghiacciai, ciò non è ammissibile per la regione toscana presa più particolarmente in esame. La valle della Sterza di Laiatico, verso la metà del periodo mio- cenico costituiva un bacino di acqua dolce nel quale si depositarono argille più o meno schistose e arenacee, con ligniti e fossili diversi, marne ferruginose, arenarie e conglomerati calcareo-ofiolitici. Quel ba- cino oggi è circoscritto, verso occidente dalla fattoria di Monte Vaso e dal poggio di Lavaiano, a settentrione termina alquanto al di là del fondo dei Gulfi sulla sinistra della Sterza passando probabilmente sotto più recenti formazioni marine, a levante segue le falde dei poggi di Faecchio e di Maiano e a mezzogiorno rasenta il poggio di S. Cer- bone e quello delle Fornacelle dipendenza del poggio detto delle Vitalbe. Il fondo di questo bacino Tav. I. fig. 1-2 è formato quasi esclu- sivamente dal calcare alberese, e, per quanto si rileva dalle sezioni naturali e dagli affioramenti, gli strati più profondi di quella forma- zione di acqua dolce, sono costituiti da argille schistose intercalate con strati di ligniti. Gli strati superiori delle argille sono alquanto arena- cei e contengono tronchi di dicotiledoni silicizzati, carbonizzati o in altra guisa fossilizzati; ma i tronchi fossili più rimarchevoli si trovano al Poggio della Casaccia, Tav. I. fig. 2, presso la fonte, nelle sabbie interposte ai conglomerati. Scendendo dalla fattoria di Monte Vaso e andando verso il Poggio della Casaccia, poco prima di arrivare alla fornace si trovano gli affioramenti delle argille schistose inferiori con impronte vegetali e una straordinaria quantità di molluschi fossili di acqua dolce benissimo conservati, fra i quali ho riconosciuto le se- guenti specie: Melanopsis Bartolinii, Cap.; M. buccinoidea, Fer. var.; M. acicularis, Fer.; M. Esperi ? Fer.; Littorinella obtusa, Sand.; Ne- ritina Grateloupiana, Fer.; Congeria Deshayesi, Cap. sin. C. Baste- roti Desh. var.; Pisidium priscum, Eichw. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 533 Questo strato argilloso che d’ora in poi chiamerò strato a Me/a- nopsis in considerazione del fossile che più vi abbonda, degenera su- periormente in marna indurata ferruginosa che diventa gradatamente grossolana e fa passaggio a strati sabbiosi che finalmente alternano coi conglomerati calcareo-ofiolitici. Per renderci conto della formazione di tutte queste roccie, ma specialmente delle mollasse e conglomerati, basta ricorrere alla denu- dazione operatasi sulle roccie dalle quali si trova circondato il bacino lacustre; in questo caso particolare sarebbe assurdo di pensare altri- menti e far derivare da lungi ciò che deve essere stato elaborato a breve distanza. Dopo il sollevamento avvenuto alla fine del periodo eocenico, per cui lungo le rive del mare terziario si costituirono parecchie lagune che accolsero i depositi di acqua dolce e salmastra con ligniti del miocene inferiore; verso la metà del periodo miocenico un generale movimento inverso, cioè di abbassamento, ricondusse le acque marine sulla maggior parte dei depositi di acqua dolce e salmastra formatisi precedentemente. Da quel momento all’azione devastatrice dei torrenti s’ aggiunse quella delle onde di un mare tempestoso, per cui durante il miocene medio troviamo predominare i conglomerati, in alcune re- gioni costituiti in parte con elementi preparati dai ghiacciai e torrenti alpini e trasportati assai lungi dal luogo d’ origine (1), altrove al- l’ opposto formati con materiali elaborati lungo le rive presso le quali si depositarono o a non molta distanza da esse. Chi ha avuto campo di osservare quanto accade, anche nell’ at- tualità, al piede delle scogliere di roccie serpentinose lungo certi tratti del littorale della Liguria e della Toscana, facilmente si rende conto della formazione dei conglomerati ofiolitici miocenici in una regione ove le roccie serpentinose sono tanto sviluppate; e poichè fra gli ele- menti che li compongono mancano roccie erratiche, nessuno vorrà so- stenere che sulla origine dei conglomerati della valle della Sterza, del Marmolaio, ecc., s’ abbia a ripetere quanto fu detto dei depositi ana- loghi e contemporanei della valle dei Salici e di altre classiche loca- lità nelle colline di Torino. (1) TARDY, Apercu sur les collines de Turin. Bulletin de la Société géol. de France. 2 Série. T. XXIX. p. 531. 534 G. CAPELLINI In qualunque direzione si faccia una sezione nei depositi mioce- nici della valle della Sterza, essi ci si presentano profondamente de- nudati e poichè gli strati superiori dei conglomerati che vi si osser- vano sono da ritenersi indubbiamente corrispondenti ai conglomerati ofiolitici inferiori marini del miocene medio, sarebbe interessantissimo di poter precisare se sono essi pure marini ovvero se fanno parte del deposito lacustre col quale si mostrano concordanti e intimamente con- nessi. Ho già avuto occasione di notare la presenza di tronchi di di- cotiledoni fossili nelle sabbie intercalate con gli strati superiori dei conglomerati calcareo-ofiolitici di Strido e del Poggio della Casaccia nella valle della Sterza; e poichè strati analoghi si trovano a Santo al Poggio v. Tav. I. fig. 3 nella valle del Marmolaio coordinati coi conglomerati e le altre roccie del miocene marino medio, parmi non si debba dubitare della corrispondenza cronologica e del nesso fra il deposito lacustre della valle della Sterza con la formazione marina un poco più recente così bene sviluppata fra la Pescera e il Marmolaio. Questi strati a elementi calcareo ofiolitici e con tronchi di vegetali fossili nella valle della Sterza, quasi esclusivamente ofiolitici in quella del Marmolaio, parmi si possano far corrispondere al piano più antico indicato da Gastaldi e Tardy per le colline di Torino (1). Nel botro della Lespa i conglomerati ofiolitici contengono rari e mal conservati molluschi fossili i quali ricordano quelli della valle dei Salici, forse con accurate ricerche si riescirebbe a trovare elementi sufficienti per uno studio comparativo fra la fauna dei conglomerati ofiolitici del Piemonte e questi della Toscana e con ciò i dintorni di Castellina marittima acquisterebbero nuova importanza per la geologia. I conglomerati ofiolitici di Santo al Poggio riposano sulla roccia serpentinosa in posto, ma in altri luoghi dei dintorni di Castellina ricoprono il gabbro rosso e le altre roccie che accompagnano le masse ofiolitiche. Nei dintorni di Pomaia i conglomerati sono sviluppatissimi e quasi dovunque si interpongono fra la roccia ofiolitica in posto e i gessi come si può vedere presso Pomaia. Presso S. Michele lungo la (1) TARDY, Memoria citata pag. 533, 34.— GASTALDI Prof. B., Frammenti di geologia del Piemonte. Memorie della R. Accad. delle Scienze di Torino. 2 Serie. T. XX. 1861. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 535 strada che va da Pomaia a Pastina, in una cava aperta nei conglo- merati si hanno bellissimi esempi di faglie verticali e oblique (1). Alle Banditelle i conglomerati ofiolitici sono sviluppatissimi e ricoprono il calcare alberese e le argille scagliose che accompagnano il gabbro rosso; il Marmolaio scorre in una faglia per la quale mentre gli strati dei conglomerati immergono sulla riva sinistra del torrente, presentano un taglio verticale di parecchi metri di altezza lungo la riva opposta. Alle Venelle i conglomerati sono tinti in rossastro da argilla ocracea che si interpone fra i ciottoli; e al Conventaccio delle Badie si mo- strano in stratificazione concordante con una panchina ricchissima di fossili, ridotti quasi esclusivamente a modelli e impronte e perciò dif- ficilmente determinabili. Questa panchina termina superiormente la serie dei conglomerati ofiolitici, ed uno studio completo della fauna di que- sto piano, che è poi tanto bene sviluppato a S. Dalmazio, S. Quirico e in altre parti della Toscana, servirebbe a farci apprezzare convenien- temente i suoi veri rapporti con l’ orizzonte della pietra lenticolare di Casciana e Parlascio, coi calcari grossolani e marnosi di Rosignano e delle Parrane e coi banchi di Ostriche (0. cochlear Poli, sin. 0. Pillae Mgh.). Questo gruppo di forme litologiche diverse completa la serie dei depositi marini miocenici toscani i quali trovano il loro esatto riscontro nel piano mediterraneo del Bacino di Vienna, nel faluniano superiore di Turenna e nella molassa marina svizzera, Magonziano ‘e Elveziano. Intendendo, per ora, di occuparmi principalmente di quanto ha rapporto con la formazione gessosa dei dintorni di Castellina maritti- ma, lascerò in disparte altre considerazioni sui depositi marini e ag- giungerò soltanto brevi cenni su ciò che figura nel taglio geologico (1) Presso il rio Risseccoli, nel luogo detto Pari delle Lenze, i conglo- merati riposano sulla serpentina e costituiscono quasi per intero il poggio che trovasi a destra della strada andando da Pomaia a Pastina. Nella serpentina, ma specialmente nei conglomerati, recentemente furono scoperte tombe etrusche in un podere del Sig. Avvocato Leopoldo Bacci, e nello scorso autunno 1873 potei esaminarne parecchie state esplorate da poco tempo. Una di quelle tombe attirò specialmente la mia attenzione essendo di forma circolare con colonna nel mezzo per dare solidità alla praticata escavazione. Tombe etrusche furono pure trovate a Santo al Poggio e antichità romane si rinvenuero più volte alla Farsica e presso il Terriccio. 536 G. CAPELLINI condotto fra la Pescera e il Marmolaio dai monti di Castellina al fiume Fine, passando per le cave degli alabastri, Cerretello, la Farsica e il poggio del Pipistrello. A San Giovanni e Santo al Poggio Tav. I. fig. 3 i conglomerati ofiolitici a grossi elementi, intercalati con strati ad elementi più fini offrono una potenza di dodici a quindici metri; questi conglomerati terminano superiormente con uno strato della grossezza di un metro a elementi finissimi che considero come corrispondente del N.° 5 nella serie data dal Tardy per la collina di Torino (1). Come ho già ‘ac cennato la serie stratigrafica si continua dal basso in alto con una panchina di due metri circa di grossezza, analoga ma alquanto più marnosa di quella del Conventaccio delle Badie con la quale si accorda anche pei rapporti stratigrafici; questa panchina corrispondente a quelle di Perolla, S. Dalmazio, S. Quirico degenera superiormente in un vero strato ad ostriche (Ostrea cochlear, Poli) di m. 0, 80 di potenza, con altri importanti resti di molluschi, fra i quali il Pecten latissimus (2) di cui vi ho raccolto io stesso un superbo esemplare. Nel quadro cronologico sono indicate parecchie forme litologiche riferibili per la maggior parte al miocene medio; però da quanto si rileva anche dai rapporti stratigrafici di alcune di queste roccie con le argille turchine plioceniche, è probabile che invece di coordinarsi tutte quante fra loro come si vede nel quadro, alcune di esse ci rap- presentino il resultamento di condizioni locali diverse e siano fra loro contemporanee nello stretto senso della parola. Se ciò potesse verificarsi per mezzo di accurate ricerche stratigrafiche, forse si giun- gerebbe alla conclusione che mentre in determinate aree si costituivano strati di calcare nummulitico con la Nummulites Targionii Mgh. ( pietra lenticolare di Parlascio ); altrove si depositavano i calcari gros- solani e marnosi di Rosignano e delle Parrane, ovvero si continuava la formazione di banchi di Ostriche come quelli di Santo al Poggio. (1) TARDY, Apercu sur les collines de Turin. Bull. Soc. géol. de France 2 Sér. T. XXIX. pag. 533. Paris 1872. (2) L’ Ostrea cochlear ed il Pecten latissimus nel bacino di Vienna si trovano nel piano detto Mediterraneo che complessivamente corrisponde alla serie dei conglomerati ofiolitici; quindi ritengo questo banco ad ostriche come termine superiore del miocene medio. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 537 À questa serie stratigrafica marina fa seguito in ordine crono- logico ascendente la formazione lacustre dei gessi, la quale con l' in- termezzo di depositi di acqua salmastra passa senza hiatus al pliocene marino inferiore, come si vede chiaramente nella valle del Marmolaio e come sarà facile di rendersi conto in seguito a quanto passo ora ad esporre intorno ad essa. H'ormazione dei gessi con sferoidi alabastrine. Sulla falda occidentale di Santo al Poggio ove la serpentina sot- tostante ai conglomerati ofiolitici in seguito a ripetute frane si mostra denudata lungo la strada rosignanina, si vede un piccolo lembo di quella roccia detritica interposto fra la serpentina e gli affioramenti di alcuni strati di gesso cristallizzato a ferro di lancia. Questi strati co- stituiti da lenti o amigdale più o meno grandi e fra loro contigue si sviluppano verso occidente e a mezzogiorno, formano i poggi della Maestà e di Gessetta ove sono le principali cave degli alabastri e si immergono sotto più recenti depositi per ricomparire nel Poggio del Pipistrello. Gli affioramenti della formazione gessosa si continuano in- torno al limite occidentale della massa serpentinosa che comprende i monti del Terriccio, ed ivi pure il gesso raramente si mostra in con- tatto immediato con la roccia ofiolitica in posto, mentre quasi ovunque vi sì interpone un piccolo strato di conglomerato. Finalmente lungo il Marmolaio si trovano i gessi sotto Poggio Meone, Casa nuova, Casa del Fornello, e di là avanzandosi verso Pomaia si presentano in masse slegate che riposano direttamente sulla serpentina ovvero sul conglo- merato ofiolitico, come si vede anche al Buchicchio e all’ Ajone sulla riva destra della Pescera. Premessi questi brevi cenni sulla estensione della formazione ges- sosa di Castellina marittima e sui suoi rapporti stratigrafici con le roccie del miocene medio; passando ora ad esaminarla litologicamente e paleontologicamente per farne apprezzare tutta la importanza scientifica e industriale, credo opportuno di ripartirne in tre gruppi i diversi elementi che la compongono. Il primo gruppo, ossia il più antico, lo considero costituito da grandi strati di gesso cristallizzato con sferoidi alabastrine, intercalati con strati di argilla più o meno fina, d’ordina- TOMO 1V. 68 538 G. CAPELLINI rio bigia o cenerognola talvolta associata con sottili straterelli di gesso fibroso ; il secondo gruppo ossia quello di mezzo resulta di calcari ar- gillosi e marne color ceciato talvolta gessose, caratterizzate da una straordinaria quantità di spoglie di piccoli crostacei del genere cypris e da abbondanti e ben conservate impronte di piante palustri e ter- restri; il terzo gruppo, superiore e più recente, è formato di sottili e ineguali straterelli di gesso carnicino che alterna con strati più potenti di marne indurate color ceciato, con grani limonitici e fossili di estuario, congerie e cardii principalmente. Cominciando dal primo gruppo, anzi tutto ricorderò che dalle precedenti considerazioni stratigrafiche resulta trovarsi alla base uno strato gessoso cristallino che riposa immediatamente sulle roccie ser- pentinose in posto e più spesso sui conglomerati ofiolitici. Questo strato gessoso, come gli altri compresi nello stesso gruppo, è costituito da piccoli cristalli a ferro di lancia e contiene sferoidi alabastrine distribuite, come d’ ordinario, in piani diversi. Avuto riguardo alla composizione degli strati che resultano da un insieme di masse più o meno lenti- colari, solo approssimativamente se ne può indicare la potenza spesso ineguale e variabilissima; con tuttociò si può ritenere che, la grossezza media dello strato più profondo di gesso, si mantenga fra otto e nove metri. La serie non si manifesta completa in alcuna delle sezioni natu- rali; ma la lavorazione fino da antica data fu spinta a tale profon- dità che si ha ragione di credere essere stato raggiunto anche lo strato più antico, con cristallizzazione più grossolana degli altri che si succedono in ordine ascendente, eccettuato quello che termina questo gruppo superiormente. A Cerretello i gessi sono coordinati meglio che altrove e si può studiare lo sviluppo e i rapporti stratigrafici della porzione superiore di questo primo gruppo; ivi recentemente il Sig. Augusto Bartolini ha aperto nuove cave le quali sono rappresentate nella fig. 4. Tav. I. Fra le cave antichissime, quella detta della Maestà merita spe- ciale considerazione per la sua importanza industriale e perchè in essa, prima che in altre, potei scoprire avanzi di pesci e insetti; quindi per lo studio del primo gruppo gioverà tener conto specialmente della successione stratigrafica e dei caratteri litologici e paleontologici ivi riscontrati. Nella cava della Maestà, allo strato più profondo, che è il nono LA FORMAZIONE GESSOSA Dl CASTELLINA MARITTIMA 539 e non fu per anco esplorato in tutta la sua grossezza, fa seguito in ordine ascendente uno strato di marna cenerognola della grossezza di m. 0, 92 nel quale finora non riescii a trovar fossili; i cavatori chia- mano mattaione questo e gli altri strati marnosi intercalati coi gessi. Lo strato di gesso con sferoidi alabastrine sovrapposto al più antico strato marnoso conosciuto ha una potenza di m. 7,57 ed è uno dei più fertili dal punto di vista industriale. Sopra quel gesso si ha un altro strato marnoso della grossezza di m. 0,91 e con ca- ratteri poco diversi da quelli dell’ altro ora descritto; infatti la tinta predominazte è sempre il turchiniccio e vi si riscontrano scarsi avanzi organici. Dopo altro strato di gesso di m. 6 di grossezza, sì ripete uno strato marnoso di m. 1,48 e quindi molto più po- tente dei due già notati; il colore della roccia si fa sempre più sbiadito e tendente al, grigio chiaro e i resti organici diventano meno rari. Lo strato di gesso che trovasi superiormente ha sette metri di potenza ed è ricco di concentrazioni alabastrine; su questo riposa un potente strato di marna fogliettata, grossolana, contenente 25 % di argilla, di color grigio cenere che passa al giallo cece e sottili stra- terelli di gesso fibroso. Questo strato, come ho annunziato fino dal 1860 (1), racchiude impronte di foglie, larve di insetti ( Libellula Doris) e pesci ( Lebias crassicauda ), e corrisponde alle marne supe- riori dei gessi di Monte Donato nel Bolognese nelle quali si trovano pure resti organici fossili (2). Probabilmente fra noi questo piano ci rappresenta lo strato pro- fondo della cava inferiore di Oeningen nel quale tanto abbondano gli insetti; anche a Monte Donato le larve di insetti e i pesci si trovano in amigdale marnose, analoghe quindi allo strato Oeninghiano esso pure costituito da amigdale. Nella porzione superiore dello strato le marne sono indurate, si mantengono sottilmente stratificate e accennano ad alcuni strati di calcare argilloso che si incontrano superiormente. Uno strato di gesso con grossi cristalli a ferro di lancia e della grossezza appena di m. 1,50, completa questo primo gruppo della serie, come fu da me ripartita; sì è riconosciuto che in questa pan- (1) CAPELLINI, Notizie geologiche e paleontologiche sui gessi di Castel- lina marittima. Nuovo Cimento. Vol. XII. Pisa 1860. (2) CAFELLINI, Pescî ed insetti fossili nella formazione gessosa del Bo- lognese. Gazzetta dell’ Emilia 22 maggio 1869. N.° 141. 540 G. CAPELLINI china (1), come la dicono i minatori, le sferoidi alabastrine non man- cano ma sono rare e di qualità inferiore a quelle degli strati più profondi. Il gesso saccaroide dei dintorni di Castellina marittima, in com- mercio, specialmente fuor d’Italia, va confuso con altri gessi dei din- torni di Volterra e, poichè in quella città se ne fa gran smercio e la principale lavorazione, viene indicato col nome di Alabastro di Vol- terra; perciò è bene di precisare che il giacimento degli alabastri più o meno colorati del Volterrano è assai diverso da quello degli alaba- stri candidi saccaroidi della valle del Marmolaio, i soli che servono alla piccola statuaria. Le candide sferoidi alabastrine castellinesi sono impegnate negli strati di gesso cristallizzato a ferro di lancia come i gessi del Bolo- gnese, e invece di essere circondate da argilla, come taluni scrissero senza aver veduto, passano gradatamente alla roccia gessosa grigia che ne costituisce la matrice; si richiede l’ occhio esperto del cavatore per discernerle in posto e non intaccarle con gli aguzzi picconcini che servono per disimpegnare i blocchi. A seconda della grossezza dello strato gessoso e della cava più o meno fortunata per la ubicazione, si hanno due, tre e talvolta quattro filari di queste masse sferoidali alabastrine (gesso candido con strut- tura finamente saccaroide ). Un sottilissimo straterello di gesso fibroso associato con foglietti di argilla, segue l’ andamento della distribuzione delle sferoidi e serve quasi di guida al minatore che ne va in traccia; questo straterello porta il nome di fraversone e passa ora sopra ora sotto le sferoidi a non molta distanza da esse, comportandosi in guisa da non poter contribuire in verun modo per facilitarne l’ isola- mento. Le sferoidi o blocchi variano moltissimo per forma e grandezza, talune fra le più piccole hanno forma elissoidale appiattita, in quelle di dimensione media predomina la forma di uovo, le maggiori sono le più tondeggianti e subsferiche, ma d’ ordinario sono pure bernoc- (1) Questo gesso panchina dei cavatori di alabastro, non va confuso con la panchina dei geologi toscani che serve ad indicare un calcare grossolano terziario od anche post-terziario; p. e. Panchina di S. Dalmazio, Santo al Poggio, nel Miocene; Panchina di Livorno nel post-terziario. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 54] colute (1). Anche le qualità dell’ alabastro in rapporto con gli usi ai quali è destinato, variano sensibilmente e non è da credere che sia egualmente puro ed apprezzato tutto l’ alabastro della valle del Mar- molaio e neppure tutto quello che si estrae dalle cave castellinesi, ossia del Poggio della Maestà, che sono le più accreditate; vi hanno diffe- renze notevoli tra i blocchi provenienti dalle diverse cave e dai di- versi piani o strati e ciò si è pure riscontrato nelle nuove cave aperte nel poggio di Cerretello. CAVE DI ALABASTRO DELLA VALLE DEL MARMOLAJO POZZI PER LA COLTIVAZIONE | MAGGIORI GRUPPI | NOME DELLA CAVA | PROPRIETÀ neces e TR / Cava della Maestà | Ciampolini | N.° 3, Tutti in azione M. 31 [50 » dei Ciriegi Rossi » 3, Nessuno in azione | » 31 j25 » dei Ciriegi Ciampolini Idem » 32 100 » dei Ciriegi Angelucci Idem » 30/75 » della Maestà | Solaini » 2, Tutti in azione » 22/00 n » della Maestà; Carrani » 1, In azione » 29 [00 S aaa » dei Locchi Tassi » 2, Uno in azione » 38 |00 Z » dello Sfondo| Tassi » 3, Due in azione » 27 (50 = » di Casina Bartolini » 5, Uno in azione » 27 [00] da » del Falcone | Bartolini » 1, In azione » 19/00 » di Gesseta Ciampolini » 3, Uno in azione » 9/00 » di Cerretello | Bartolini » 3, Uno in azione » 6/00 II. PIPISTRELLO { » di Pipistrello| C.te Mastianil » 3, Nessuno in azione | » 16100 \ III. LE FoRNIA { » . delle Fornia | Morghen » 5, Due in azione » 19/00 È » delle Venelle| Ciampolini » 7, Due in azione » 30 ‘00 S IV. Le VENELLE » dei Gelsinelli] Ciampolini » 1, Non è in azione » 700 = » dei Gelsinelli{ Pievania di Cai Pomaja | » 1,In azione » 16|00 (1) Il peso dei blocchi alabastrini che entrano in commercio varia da Kil. 3 a K. 1060 per quelli da lavorarsi in Italia; all’ estero non si spediscono blocchi di peso inferiore a Kil. 33. Da una nota favoritami dal Sig. A. Bartolini ricavo che nel 1847 nella cava detta dei Locchi, allora dei fratelli Mazzoni ora del Sig. Tassi di Livorno fu trovato un ammasso di blocchi divisi fra loro soltanto da sottilissimi stra- terelli di argilla indurata; tale ammasso raggiungeva in totale il peso appros- simativo di quattordici tonnellate. Anche in altre cave si rinvennero, eccezio- nalmente, ammassi di peso considerevole; a questi i lavoranti danno il nome di Belve. 542 G. CAPELLINI I cristalli a ferro di lancia degli strati che contengono i blocchi di alabastro sono tanto maggiormente sviluppati quanto più sono rari i blocchi o si esamina la roccia a distanza da essi; si direbbe che si passa dalla panchina ai blocchi per gradazioni non soltanto nella tinta ma eziandio nella struttura della roccia. E poichè considero gli alabastri come una concentrazione di ma- teriale puro, operatasi lentamente negli strati o masse gessose per fe- nomeni molecolari analoghi a quelli che diedero luogo alla formazione dei rognoni di piromaca nelle masse stratificate di creta; così sono disposto a riconoscere nel traversone nient’ altro che l’ argilla eliminata durante questo processo di concentrazione, e parmi che nella porzione di roccia più finamente cristallizzata in prossimità dei blocchi, si possa scorgere la transizione dell’ alabastro puro alla vera panchina. Grandi, anzi talvolta giganteschi cristalli di selenite (specchi dei cavatori) celebri per limpidità veramente eccezionale, tappezzano le spaccature che si trovano negli strati di gesso e in quelli di marna; sono però assai più perfetti e pregevoli quelli dei gessi, mentre quelli della marna spesso hanno una leggera tinta giallognola. I lavori industriali hanno fatto conoscere che ciascun strato d’ ordinario non è formato da una sola massa lenticolare bensì da pa- recchie masse fra loro contigue, le quali rivelano anche per questo giacimento ciò che si vede più chiaramente altrove, p. e. nel Bolognese. Tenendo conto della relativa potenza degli strati gessosi e argil- losi cioè del decrescere della grossezza dei gessi in rapporto coll’ aumen- to della potenza delle marne e riflettendo alle disgiunzioni che pre- sentano gli strati gessosi, si potrebbe ragionevolmente concludere che anche nella valle del Marmolaio come nel Bolognese e altrove, le masse o amigdale gessose più o meno fra loro contigue e distribuite in piani diversi sono collegate mediante una massa marnosa che talvolta rap- presenta l’ elemento principale della formazione. Dopo avere analizzato il primo gruppo in cui i gessi offrono speciale interesse scientifico e industriale, esamineremo il gruppo di mezzo costituito prevalentemente di marne. Nel podere dei Casini e a Cerretello si può vedere l’intera serie litologica che vi si comprende e particolarmente per mezzo degli avanzi ivi raccolti ho potuto pre- cisare la vera cronologia della intera formazione gessosa con sferoidi alabastrine. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 543 Le marne diverse di questo gruppo sono caratterizzate dalla pre- senza di gusci di cypriîs; questi scarseggiano negli strati più profon- di, compatti e ricchi di carbonato di calce, aumentano sensibilmente negli strati di mezzo più argillosi e tornano a decrescere verso il li- mite superiore del gruppo stesso. Nel podere dei Casini si possono studiare i rapporti stratigrafici e quanto altro si riferisce alla porzione inferiore, la quale analizzata dal basso in alto si trova composta come segue: 1.° Marna compatta bigia con cristalli di gesso disseminati por- firicamente e costituisce un termine di passaggio dai calcari e dalle marne gessose al gessi propriamente detti; questa roccia talvolta si trasforma in gesso granulare con vene selenitose e ricorda perfino i gessi del bacino di Parigi; non vi ho trovato fossili. 2.° Calcare argilloso, bigiastro, compatto apparentemente schistoso o fogliettato alla base; contiene 74, di argilla e degenera superior- mente in un calcare compatto simile a quello in cui si trovano i pe- sci e le filliti a Kumi in Eubea. In questo calcare marnoso superiore che contiene fino a #%, di argilla ho trovato frammenti indetermina- bili di ossa di pesci, spoglie di cypris (C. faba), parecchi esemplari di Neritina Grateloupiana Fer. ed alcuni pochi esemplari di Melano- psis inconstans ? Neum. 3.° Marna giallastra, grossolana, apparentemente sabbiosa, che contiene abbondanti avanzi della N. Grateloupiana ; in questa roccia fino dal 1860 scoprii alcuni resti di un crostaceo brachiuro che mediante esemplari meglio conservati trovati in uno strato superiore a Cerretello ho potuto confrontare con altro crostaceo trovato a Oeningen riferen- do entrambi ad un nuovo genere Pseudothelphusa Tav. VII. fig. 1-2. I calcari marnosi sopra ricordati sono utilizzati come pietre da taglio e le cave sono appunto nel podere dei Casini, ove si riscontra altresì la sovraposizione della marna prima citata al gesso o panchina N.° 1 del gruppo precedente. Questa prima serie di strati parmi si possa far corrispondere ad alcuni degli strati più profondi della cava superiore di Oeningen, specialmente al Kesselstein (1) e al Dillstecken (2). x (1) A Oeningen vi sono due cave delle quali non si è ancora ben certi sulla corrispondenza stratigrafica. Nella cava inferiore sono distinti 11 strati calcarei, argillosi, sabbiosi; nella cava superiore si contano 21 strati di natura diversa e distinti con nomi partieolari. Il Kessel/steîn che è lo strato 19, è un calcare fetido talvolta biancastro; contiene gran quantità di piante, insetti e pesci. (2) HEER O. Flora tertiaria Helvetica, Vol. I. pag. 2. Winterthur. 544 G. CAPELLINI Ai Casini vi hanno pure in gran parte gli altri elementi stratigrafici del secondo gruppo; però offrono maggiore interesse a Cerretello, es- sendo ivi più sviluppati e ricchi di fossili, e trovandosi in rapporto col terzo gruppo che completa il miocene superiore di acqua dolce. Coma ho già accennato più volte, nelle marne superiori di Cer- retello ebbi la fortuna di trovare le prime spoglie di Cypris, ciò che valse a farmi scoprire la ricca fauna e flora della formazione dei gessi alabastrini della valle del Marmolaio. Queste marne a cypris conten- gono °, di argilla, sono meno fine di quelle intercalate coi grandi strati di gesso e più tenere di quelle trovate ai Casini alla base del gruppo; la tinta ordinaria caratteristica di questa roccia è il giallo cece sul quale talvolta i fossili animali e vegetali spiccano per una tinta bruna limonitica. I cypris appaiono d’ordinario come grani ovali luciccanti, oppure sono anch’ essi colorati dalla limonite; negli strati ove più abbondano le piante palustri, sonvi numerose impronte e mo- delli di littorinelle (Littorinella acuta, Drap.; L. obtusa, Sand.); fra le filliti terrestri predominano quelle dei generi: Quercus, Acer, Rhamnus. Le marne a cypris di Cerretello corrispondono complessivamente agli strati superiori della cava superiore di Oeningen e si possono identificare con le marne a filliti del Senigalliese. Se si facesse astra- zione dai resti di cypris più scarsi nelle roccie con filliti di Oeningen e mancanti nelle marne del Senigalliese, non riescirebbe facile di di- stinguere gli esemplari di filliti dei diversi giacimenti, quando fossero stati insieme confusi. I resultamenti ottenuti con le ricerche fatte fin qui a Cerretello e ai Casini mi confortano a credere che mediante scavi regolari in vasta scala, non solo si scoprirebbero nuove specie di filliti, ma non sarebbe difficile di trovare uno di quei strati con insetti, fiori e frutti che resero tanto celebri le cave di Oeningen. Per ora fra i vertebrati fossili dei gessi di Castellima si annove- rano soltanto i pesci; ma non è affatto improbabile che presto o tardi non si giunga a scoprire avanzi di testuggini e di batrachidi; fors’an- co qualche esemplare della celebre Sieboldia gigantea ( Homo diluvii testis di Scheuchzero). Se per una parte ho creduto opportuno di non ritardare maggior- giormente la pubblicazione di questi miei studi, per l’ altra non sogno neppure d’ avere esaurite le ricerche; anzi dopo questo lavoro d’ in- LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 545 sieme intendo di proseguire con più diligenti esplorazioni, persuaso che le mie fatiche saranno largamente ricompensate dalla copiosa messe scientifica che non potrò mancare di ricavarne. Presso la Farsica le marne a cypris di Cerretello fanno passaggio ad altre marne color ceciato, alquanto più indurate, caratterizzate da grani limonitici e da fossili di estuario pure limonitizzati; vi si tro- vano anche minuti frammenti di legno e qualche raro strobilo di pino ( Pinus holothana, Ung.). Queste marne costituiscono il terzo gruppo già ricordato, e gli strati superiori nei quali scarseggiano i fossili al- ternano con gessi affatto diversi da quelli dei gruppi precedenti; questi gessi li ho distinti col nome di gessi carnicini perchè macchiati e tinti in rossastro mediante l’ ossido di ferro che colora pure intensa- mente le marne che vi sono associate. Fino dal 1860 (1) feci notare l’importanza di questo gruppo gessoso-marnoso con fossili di estuario limonitizzati, e nel 1868 pub- blicando i resultamenti degli studi fatti sui terreni terziari petroleiferi di Valacchia, coordinando le osservazioni fatte nei Carpazi con quanto aveva trovato nell’ Italia centrale, così scriveva. , Le sabbie e molasse di Bustinari e Podeni si identificano col terreno terziario recente delle steppe di Crimea del barone De Verneuil; piano faluniano superiore di Abich, il cui tipo si trova a Kamioush-Bouroun. Questo terreno a mio avviso corrisponde a certi strati con piccoli Cardii e Dreissene che nella valle del Marmolaio, a Cerretello, terminano superiormente la serie dei gessi di Castellina; e poichè questi e le marne gessose di Limone presso Livorno corrispondono a quelle del Senigalliese che altra volta ho considerato come riferibili al miocene superiore, altret- tanto devo dire delle sabbie e molasse di Bustinari. Fra i piccoli Cardii raccolti a Cerretello vi si riscontrano certi tipi che ricordano le specie di Valacchia, Kertsch e Taman, e mi riservo a rilevarne i rapporti in altro lavoro; qui mi basta ricordare che questi strati a Cerretello sono ricoperti dalle argille plioceniche , (2). (1) CAPELLINI, Notizie geologiche e paleontologiche sui gessi di Castel- lina marittima. Nuovo Cimento, Vol. XII. Pisa 1860. (2) CAPELLINI, Giacimenti petroleiferi di Valacchia e loro rapporti coi terreni terziari dell’ Italia centrale. Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna; Serie II. Tomo VII. Bologna 1868. TOMO IV. 69 546 i G. CAPELLINI Fin d’ allora, facendo conoscere pel primo l’ esistenza in Valac- chia di una fauna caspica, o d’ acqua salmastra identica a quella sco- perta da De Verneuil in Crimea, insisteva sui rapporti fra i fossili di Kamioush-Bouroun, Bustinari, Matitza, Doftanitza con quelli scoperti a Cerretello superiormente alle marne a cypris. I lavori diversi intorno al piano Sarmatiano e a quello a Con: gerie pubblicati dai geologi austriaci dal 1869 al 1873, hanno con- fermato i rapporti cronologici che aveva intraveduto fra i diversi pia- ni delle formazioni terziarie della Crimea, della Valacchia, del baci- no di Vienna e della Toscana; specialmente per quel che si riferisce alla fauna d’acqua salmastra di carattere caspico, come aveva messo in evidenza nella Memoria citata e che ho ragione di credere non sia stata conosciuta dal Prof. Fuchs e dagli altri che scrissero intorno a quei piani. Il Prof. Fuchs avendo avuto frammenti di un Cardium raccolto a Matitza, dopo avere osservato che per gli ornamenti differiva un poco dal C. macrodon e dal C. squamulosum, Desh. trovati in Cri- mea, ne fece una specie nuova che pubblicò nel 1873 col nome di Cardium Neumayri, F. (1). Se l’ egregio professore avesse conosciuta la mia Memoria sui terreni petroleiferi di Valacchia non dubito avrebbe rilevato che fino dal 1864 in parecchi luoghi in Valacchia aveva sco- perto la fauna caspica del terreno terziario della Crimea e che non aveva esitato nell’ assegnarle il posto conveniente nella serie cronolo- gica dei terreni terziari italiani e del Bacino di Vienna. L'importanza di questa fauna che in Italia ho trovato per la prima volta alla Farsica presso Cerretello, è tale che credo conveniente di farla conoscere in tutte le sue particolarità, rappresentando con fi- gure la maggior parte delle specie che la compongono, anche per fa- cilitare le ricerche le quali non potranno a meno di riescire feconde in altre regioni della nostra penisola. Come si ricaverà dal catalogo dei fossili raccolti nei dintorni di Castellina marittima, la fauna caspica di Cerretello si compone di nu- merosi esemplari di Congeria simplex, Barbot; qualche Dreissenomya (1) FucHs TH. Beitrage zur Kenniniss etc. VI Neue Conchylienarten aus den Congerienschichten und aus Ablagerungen der Sarmatischen Stufe. Jahrbuch des kk. etc. Band 23. Wien 1873. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 547 intermedia, Fuchs; pochi avanzi di Melanopsis e gran quantità di cardii che ho riferiti a specie le quali per la maggior parte si incon- trano in analoga formazione nel Caucaso, in Crimea, in Valacchia, in Ungheria, nel Bacino di Vienna. Le marne con grani limonitici e fossili di estuario, alla Farsica sono ricoperte, con stratificazione concordante, dalle argille turchine marine plioceniche. Queste argille rappresentando evidentemente il piano più antico del pliocene, ne ho ricercato con ogni cura li scarsi fossili per conoscere da quali specie sono caratterizzate e, tra- scurando gli otoliti, le serpule ed altri fossili di poca importanza, te- nendo a calcolo soltanto i molluschi vi ho riscontrato le seguenti specie. Triton Apenninicum, Sassi. Pleurotoma monilis, Br. sp. Cancellaria lyrata, Br. sp. P. brevirostrum, Sow. Nassa costulata, Br. Turritella subangulata, Br. sp. Cassidaria echinophora, Lk. Dentalium elephantinum L. Columbella thiara, Br. sp. Arca diluvii Lk. Pleurotoma turricula, Br. sp. Ostrea lamellosa, Br. P. dimidiata, Br. sp. Pecten flabelliformis, Br. sp. Nella valle della Fine ove queste stesse argille sono sviluppatis- sime abbondano di fossili, specialmente nella porzione superiore che passa alle sabbie gialle per le quali presso i paleontologi sono celebri i dintorni di Lari, Fauglia, Montalto. Anche per notizie comunica- temi dal Dott. Manzoni, i molluschi fossili che si trovano nelle sabbie gialle plioceniche delle ricordate località, confrontati con la fauna at- tuale mostrano che per ogni cento specie estinte se ne hanno ben centonovanta che vivono ancora nel mediterraneo, nell’ oceano indiano e in altri mari, ossia le specie appartenenti anche alla fauna attuale rappresentano approssimativamente °,, della fauna delle sabbie gialle plioceniche. Le sabbie gialle talvolta fanno passaggio ad una vera panchina che le ricopre in stratificazione concordante come si può ve- dere anche a Grotta Rondinaia lungo l’ Acquerta, non molto distante dal Terriccio. Il lembo occidentale delle argille plioceniche e della formazione gessosa della valle del Marmolaio si rialza in guisa da costituire il Poggio del Pipistrello, portando allo scoperto anche le testate del la ÙI , | î 548 G. CAPELLINI calcare alberese sul quale ivi riposano le roccie mioceniche, come si rileva anche dal taglio fig. 3, Tav. I. Per questo modo di solleva- mento, lungo i margini della gran vallata della Fine emergono le testate degli strati miocenici ricoperti dalle argille plioceniche e ci rivelano la estensione e la importanza della formazione gessosa di acqua dolce, della quale si trova un lembo fossilifero in vicinanza di Castelnuovo, ed altro più importante ancora a Limone presso Livorno. __—!_"y— _ zz Marne compatte color ceciato, con grani limonitici a «7° . O . o O o 5 = DO e fossili di estuario, intercalate coi gessi; Farsica. =. fas s = Gessisubsaccaroidi biancastri con macchie carnicine, = {co ANO "Li in glebe analoghe a quelle che si trovano nella 5 formazione gessoso-solfifera del Cesenate. MIOCENE ———————_—m ee Miocene superiore o Oeninghiano Miocene medio = LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 5409 2.° gruppo Fauna lacustre. Piano Sarmatiano (pro parte?) Piano superiore o Elveziano MoJassa marina subalpina, Piano mediterraneo Gessi con alabastro Sarmatiano ( pro parte? ) Fauna lacustre. Marne fine color ceciato con cypris e filliti; Cerretello. Marne grossolane color ceciato con avanzi di Litto- rinella, Pseudothelphusa, Neritina, Melanopsis; Cerretello, Cerreta, Poggio della Maestà. Calcare marnoso bigio con pochissimi cypriîs e neri- tine; Cerretello, Cave dei Casini. Calcare marnoso-gessoso, compatto, di color bigio ; Cava dei Casini. Calcare marnoso giallastro a struttura sottilmente fogliettata; presso le cave della Maestà e dei Casini. Gesso granulare bigio con vene selenitose; cave dei Casini. Marne compatte bigie con gesso disseminato porfi- ricamente; cave dei Casini. / Prima panchina, ossia gesso a ferro di lancia; Poggio li i della Maestà. Marne indurate fogliettate che nella posizione infe- riore più grossolana contengono filliti, larve di Libellula e Lebdias crassicaudus; Cave della Maestà, e Limone. Strato di gesso con sferoidi alabastrine; Cave della Maestà, di Cerretello e di altri luoghi nella valle del Marmolaio. Marne più fine delle precedenti che ripetutamente sono intercalate con altri strati di gesso con sferoidi alabastrine; Poggio della Maestà e altri luoghi nelle valli del Marmolaio e della Pescera. Strati di ostriche ( Ostrea cochlear) associati al cal- care marnoso marino di Santo al Poggio ed altri luoghi fra la Pescera e il Marmolaio. Calcare grossolano delle Badie, di Rosignano e delle Parrane. Panchina del Conventaccio delle Badie. Arenarie ofiolitiche grossolane e conglomerati a minuti elementi con fossili marini; Botro del- la Lespa, Forgnie, Prospignoli, Santo al Poggio, Badie. Conglomerati ofiolitici più grossolani associati a con- glomerati fini, con tronchi di vegetali silicizzati e carbonizzati; Santo al Poggio, Strido e altri luoghi della valle della Sterza. 550 G. CAPELLINI Conglomerati calcareo-ofiolitici e molasse ofiolitiche CIMASZIE: 9 (88 con filliti e tronchi di legni fossilizzati; Valle a È II della Sterza. a = =) Marne ferruginose indurate; Valle della Sterza sotto S Si Ca Monte Vaso. = $ [= =£) Marne schistose con molluschi dei generi Littorinella, Casio Melanopsis, Congeria ; ivi. Zi Lignite intercalata fra le marne schistose ; ivi. I: Breccia di calcare alberese dei poggi di Castellina == marittima. S Calcare alberese superiore. Schisti galestrini e argille schistose superiori. Argille scagliose varicolori con calcedonii. Calcari gabbrificati, ftaniti e diaspri. Gabbro rosso ordinario e variolitico. Oficalci e ofisilici. Diorite associata al gabbro. Serpentina recente, eufotide e serpentina antica o diallagica. Roccie metamorfiche e pseudo-eruttive. PARTE SECONDA FOSSILI DI ACQUA DOLCE DEL TERRENO A LIGNITI DELLA STERZA DI LAIATICO Melanopsis Bartolinii, Capellini. Tav. VII. fig. 1-4. Testa ovato-conica, acuta; anfractibus fere planis, superne spinis brevibus triangularibus depressis coronatis; striis transversis minimis et plicis longitudinalibus decussata; anfractu ultimo converiusculo subangulato, alteris omnibus vix longiore; sutura subcanaliculata ; apertura ovato-acuta; columella callosa, arcuata. Lunghezza dei mag- giori esemplari mill. 21-24; grossezza dell’ ultimo anfratto mill. 9-10. Questa graziosa conchiglia, riferibile al tipo della Melanopsis buc- cinoidea, ricorda un poco la forma della M. acicularis, Fer. e di alcune LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 551 varietà delle .M. 2nconstans, Neum., dalle quali, come da tutte le altre specie conosciute, merita di essere distinta specialmente per la stra- nezza dei suoi ornamenti. La conchiglia ha otto a nove anfratti, l’ ul- timo dei quali in lunghezza è eguale a °, della lunghezza totale della spira. Gli anfratti superiori sono piani, ma l’ ultimo è ventricoso; dilicate pieghe longitudinali ondulate sono decussate da strie transverse, così fine che, d’ ordinario, nei primi anfratti non si scorgono senza l’ aiuto della lente. Queste strie sono molto apparenti nella metà su- periore dell’ ultimo anfratto e lo rendono subangolato mediante una specie di carena assai ottusa. Alle pieghe longitudinali principali che segnano lo sviluppo della conchiglia, nel margine superiore degli an- fratti corrispondono spine brevi, piatte, triangolari, ottuse, talvolta fi- stolose, analoghe alle spine che terminano le varici di certe specie di murici p. e. del M. cristatus, Desh. Queste appendici che coronano gli anfratti, spesso si ripiegano all’ infuori, come si può vedere benissimo guardando la conchiglia dall’ alto della spira, e la laminetta dalla cui piegatura resultano si mostra divaricata e per conseguenza sub-fistolosa verso 1’ apertura della conchiglia, appunto come si nota per le varici dei murici. La sutura profonda, canaliculata, d’ ordinario è mascherata dal margine superiore dentato degli anfratti; nei giovani individui la spira appare scalariforme. La bocca è ovato-acuta superiormente sinuosa in corrispondenza del- l’ ultima spina più aperta delle altre; la columella è callosa e arcuata. Questa specie è abbondantissima nella Valle della Sterza e nello strato a Melanopsis prodomina sulle altre specie del tipo buccinoideo che vi sì trovano associate. Dedicata al mio amico Augusto Bartolini che mi fu compagno di escursione nel 1860, quando raccolsi questa bella specie nuova presso la fornace che si trova sotto la fattoria di Monte Vaso. Melanopsis buccinoidea, Fer. var. Fra le Melanopsis della Valle della Sterza ve ne ha una che mentre per la forma corrisponde benissimo ad una delle var. italiane figurate da Ferussac, differisce per la grandezza degli esemplari essen- dovene perfino di 25 e 28 mill. di lunghezza. Si distinguono due tipi uno più slanciato dell’ altro; ma il cattivo stato di conservazione degli esemplari non mi permette di dire mag- 552 G. CAPELLINI giormente dei rapporti che offrono con le speeie del tipo buccinoideo di Rossmassler già descritte dagli autori. Nella forma meno slanciata l’ultimo anfratto rappresenta in lunghezza quasi due terzi del totale della spira. ML. acicularis, Fer. ? Tav. VIII. fig. 5-6. Ferussac: Monographie du genre Melanopsis. Tav. II fig. 5. Riferisco dubitativamente a questa specie una Melanopsis ben di- stinta da tutte le precedenti e che si accorda abbastanza bene con gli esemplari di Repusnica in Vestfalia pubblicati da Neumayr. Neumayr: Die Congerien-schichten in Kroatien und Westlavonien. T. XIII. fig. 6. Jahrbuch der k. k. geologischen Reichsanstalt Vol. XIX. Wien 1869. Melanopsis Esperi ‘2 ‘2? Fer. Nrumaver: Op. cit. T. XII. fig. 4. Riferisco dubitativamente a questa specie due piccoli esemplari che potrebbero essere anche soltanto giovani individui della varietà acutispirata della duccinoidea sopra ricordata. Neritina Grateloupiana, Fer. Tav. VIII fig. 7-8. Sin. Nerita Grateloupana, Aòrnes. Hornes: Fossilen Mollusken etc. T. I. pag. 534. Tav. XLVII. fio 19; Nrumayr : II. Beitrige zur Kenntniss fossiler Binnenfaunen. Jahr- buch der k. k. geologischen Reichsanstalt. Vol. XIX. pag. 365. Tav. XII. (fig 141 6lae La descrizione e le figure date dai diversi autori per questa specie convengono benissimo per gli esemplari di Cerretello e della cava dei Casini; gli esemplari invece raccolti nella Valle della Sterza nell’ ar- gilla a Melanopsis sono alquanto più grandi e forse potrebbero consi- derarsi come una varietà del tipo. Vi hanno esemplari con semplici zone come quelli figurati da Ferussac; altri invece sono elegantemente ornati di macchiette bianche disposte con ordine sopra un fondo bruno, LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 553 in guisa da simulare una reticella bruna che ricopra un fondo bianco. Questa stessa ornamentazione ritrovasi in una varietà della N. e tilis, del bacino di Magonza, figurata da Sandberger. i SANDBERGER : Conchylien Mainzer terticirbeckens. Tav. VII. fig. 12 P Anche la Neritina concava Sow. dell’ Isola Wight (Ferussac: Nerites fossiles Tav. 2, fig. 8) e la N. Mazziana D' Ane, (D’ Ancona: Sulle Neritine fossili dei terreni terziari superiori dell’ Italia centrale; Bull. malac. italiano, anno II. Pisa 1869) ricordano gli ornamenti e la colorazione della N. Grateloupiana della Sterza. Questa specie si trova negli strati a Congerie del bacino di Vienna, nei calcari di acqua dolce del Wiirtemberg e della Francia meridio- nale, a Miocic e Ribaric in Dalmazia. L.ittorinella obtusa, Sand. SANDBERGER: Op. cit. pag. 81. Tav. XI. fig. 8. Negli strati a Melanopsis sono abbondantissime le piccole litto- rinelle che si potrebbero scambiare con quelle del bacino di Magonza. La Littorinella acuta, Drap., tanto frequente in altri giacimenti quì manca completamente, se si vuol tener conto delle piccole differenze che presentano queste specie quando si confrontano fra loro. Probabil- mente invece di una specie distinta si tratta soltanto di una varietà locale della comune Littorinella acuta dalla quale va distinta per un anfratto di meno e per la spira meno slanciata. Congeria Deshayesi, Cap. C. Basteroti ‘2 Desh. CapeLLINI: Cenni geologici sul giacimento delle ligniti della Bassa Val di Magra. Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino. Serie II. T. XIX. Tav. I. fig. 4. Torino 1860. Desnaves: Traité élem. de conchyliologie. Vol. I. pag. 650. Tav. SU Ho Loslio: Il cattivo stato di conservazione degli esemplari di Congeria rae- colti a Monte Vaso e a Strido non mi permettono di decidere con certezza se meglio con una ovvero con l’altra delle due specie si possa identificare. Sia comunque, questa specie non si può confondere con la vera C. Brardi e tutto al più si deve considerare come una va- rietà che avrebbe per sinonimo o l’ uno o l’altro e forse anche am- TOMO IV, 70 554 G. CAPELLINI bedue i nomi specifici sopra indicati. Questa Congeria non differisce da quella che si trova a Monte Bamboli e in altri giacimenti di li- gniti toscane. Trovasi nelle argille a Melanopsis. Pisidium priscum, £ichw. D’Ercawarp E.: Lethaea rossica pag. 87. Tav. V. fig. 8, a, b, c. Hornss: Op. cit. Vol. II. pag. 161. Tav. XX. fig. 1. Di questa graziosa piccola bivalve ho trovato finora un solo esemplare che corrisponde perfettamente alla descrizione e figura data dall’ Eichwald per gli esemplari di Kuncza in Podolia. Hòrnes cita questa specie nel Bacino di Vienna nel Piano di Belvedere che è al- quanto più recente di questo della Valle della Sterza. FOSSILI MARINI DI SAN GIOVANNI E SANTO AL POGGIO Pecten latissimus, Br. Brocca: Conchiologia fossile subapennina pag. 401. Hornes e Reuss: Hossilen Mollusken des Tertiaer-beckens von Wien. Vol. II. pag. 395. Tav. LVI e LVII. Wien 1870. Questa conchiglia trovata anche in Piemonte, nel Modenese, nelle Puglie, in Sicilia, in Sardegna, a Roma, si incontra spessissimo in Toscana nei giacimenti che corrispondono a S. al Poggio, S. Dalmazio. Il museo di Bologna possiede bellissimi esemplari provenienti da San Quirico dei quali esso va debitore alla gentilezza del Sig. M.° Chigi Zondadari di Siena che me li favorì insieme ad altri fossili. Un esemplare che potei acquistare per mezzo del Sig. Luatti ve- terinario ad Acquaviva, nulla lascia a desiderare per la perfetta con- servazione e proviene da Bolsena a due chilometri circa da Monte- pulciano. L’ esemplare di Santo al Poggio è lungo mill. 205 e largo mill. 220; fra quelli di S. Quirico ve ne hanno lunghi mill. 215 e larghi mill. 245. Nel Bacino di Vienna questa specie si trova nel calcare di Leitha ossia negli strati superiori del piano mediterraneo. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 555 Non dubito che accurate ricerche fornirebbero molti altri fossili, mediante i quali la corrispondenza di questo piano col calcare di Leitha del Bacino di Vienna sarebbe resa evidente. VA Ostrea Cochlear, Poli. var. 0. navicularis, Br. Sin Ostrea Pillae, Myh. Pira L.: Distinzione del terreno etrurio fra i piani secondari del mezzogiorno d’ Europa, pag. 68. Tav. I. fig; 21-25. Pisa 1846. Mrxecnmi e Savi: Considerazioni sulla geologia stratigrafica della Toscana, pag. 177. Firenze 1851. Il Prof. Meneghini distinse col nome di O. Pillae I ostrica che forma decisi banchi nel terreno miocenico di Perolla, S. Prugnano, S. Dalmazio, e che il Prof. Pilla fino dal 1846 aveva dubitativamente riferita alla Gryphaea columba. Il Prof. Meneghini notando i rapporti di forma di questa specie con 1’ O. vescicularis e tenendo conto delle Osservazioni del Conte A. Spada a proposito del taglio delle colline di Perolla, riconobbe giustamente che l’ ostrica di Perolla e S. Dalmazio non si poteva confondere con l’ O. vescicularis della creta superiore e tanto meno con la Gryphaea columba; per cui assegnandole il vero posto nella serie cronologica, pensò di distinguerla come specie nuova. L’ Ostrea Pillae, Mgh. restò ignorata o negletta dai geologi e paleontologi che non si occuparono in modo particolare della Toscana, ed è forse questa la ragione per la quale non è citata nella sinonimia dell’ Ostrea cochlear Poli, data dal Reuss nella continuazione del la- voro di Hòrnes sui molluschi fossili del Bacino di Vienna (Hòrnes e Reuss, Op. cit. pag. 435-36); mentre del resto mi pare che non si possa dubitare se corrisponda perfettamente. Il confronto delle figure e delle descrizioni del Pilla, del Reuss e del Prof. Meneghini; le diffe- renze da essi notate con le altre specie e lo studio che ho potuto fare dei numerosi esemplari raccolti a Santo al Poggio presso Castel- lina marittima, non mi lasciano alcun dubbio sulla identificazione spe- cifica che credo di poterne fare nei limiti assegnati dal Reuss. Doderlein cita questa specie nel miocene superiore di Sant’ Agata nel Tortonese, ivi pure col Pecten latissimus. (DopeRLEIN; Cenni geolo- gici intorno alla giacitura dei terreni miocenici superiori dell’ Italia centrale. Estratto dagli Atti del Congresso degli Scienziati italiani in ‘556 G. CAPELLINI Siena p. 15. Siena 1862). Anche nel Belgio 1’ O. cochlear (0. Hennei Nyst) forma veri strati nel sistema Diestiano (Diestien), corrispon- dente al miocene superiore ossia alla base dello Sca/disiano che è decisamente riferibile al pliocene. Si trova nelle sabbie nere o Crag nero di Anversa e nell’ Edeghen. (1) MourLon, in risposta alla comunicazione di Cogels. Cocers, Se- conde note sur le gisement de la Terebratula grandis avec quelques observations à ce suget. (Société malacologique de Belgique. Procès- verbal de la séance, 1 fév. 1874. S__ FOSSILI DELLA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA VERTEBRATI PESCI Fam. CIPRINODONTI JLebias crassicaudus, Agass. Agassiz: Poissons fossiles. Vol. 2. p. 47. Tav. 41. fig. 11, 12. Siswonpa: Descrizione dei Pesci e dei Crostacei fossili del Pie- monte. Mem. dell’ Accad. delle Scienze di Torino. 2* Serie. Tomo X. 1852 DavB11kno1959% _ ScarageLi: Geologia stratigrafica del Senigalliese, pag. 23. (V. MassaLonco e ScarazeLLi, Flora fossile ) Imola 1858. Di questo pesce caratteristico dei depositi gessosi miocenici ho raccolto parecchi esemplari nelle marne della cava della Maestà, e nel 1860 ne ho trovato a Limone, pure nelle marne associate ai gessi, ove era stato scoperto poco prima dal M.° Carlo Strozzi. Finalmente nel 1869 se ne trovarono anche nei gessi di Monte Donato presso (1) V. NysT: Fossiles du systéme Diestien et du système Scaldisien : (Prodrome d’ une Description geologique de la Belgique, par G. DEWALQUE ) Bruxelles 1868. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 55T Bologna. V. CapeLLInI: Pesci e insetti fossili nella formazione gessosa del Bolognese. Gazzetta dell’ Emilia N.° 141, 22 maggio 1869 (1). Altri avanzi di pesci si trovano nelle marne compatte dei Casini, ma per ora non azzardo di indicare alcun genere. ARTICOLATI INSETTI Fam. LIBELLULINE Libellula Doris, Heer ? Hrer: Nouv. Mém. Soc. helv. Tom. XI. pag. 79. Tav. 5. fig. 4, 9 Lav 6022107 Le larve di Libellula sono comunissime nelle marne che accom- pagnano i gessi del piano oeninghiano. Quelle di Oeningen furono il= . lustrate da Knorr, Scheuzero, Karg e da altri prima che il Prof. Heer ne facesse uno studio più accurato e ne distinguesse le varie specie. La Libellula Doris è la specie più frequente e ad essa riferisco le numerose impronte raccolte nelle cave della Maestà le quali a dir vero non sono troppo bene conservate. Ho raccolto questo stesso fos- sile a Limone presso Livorno, nelle marne intercalate coi gessi a Monte Donato nel Bolognese, a Sogliano, a Perticara; è altresì comu- nissimo a Ancona, a Sinigallia e a Guarene. CROSTACEI DECAPODI BRACHIURI MACROCEFALI TRIBÙ CATOMETOPI Fam. THELPHUSIDAE Fino dal 1860 avevo annunziato la scoperta di avanzi di Deca- podi brachiuri nelle marne compatte dei Casini presso le cave della Maestà; ma per molto tempo gli esemplari raccolti non furono tali da poter decidere a qual famiglia fosse da riferire il granchio della for- mazione gessosa della Valle del Marmolaio. (1) Il Lebias crassicaudus si trova nelle marne associate ai gessi a Gua- rene in Piemonte, a Sinigallia, a Ancona e nella formazione gessosa con zol- fo di Sicilia. 558 G. CAPELLINI Perseverando nelle ricerche, potei in seguito raccogliere tali avanzi del guscio da poter già sospettare che questo crostaceo avesse stretti rapporti con quello trovato a Oeningen, appunto nello stesso piano geologico ; e finalmente nel Settembre 1873 ebbi la fortuna di scavare nelle marne di Cerretello il bellissimo esemplare rappresentato nella Tav. Vili Cercando allora di meglio conoscere i rapporti fra il granchio di Oeningen, Grapsus speciosus v. Meyer, e questo dei dintorni di Castellina marittima, consultai le citazioni dei diversi autori e quanto ne aveva scritto lo stesso Meyer in una lettera del gennaio 1844 che si trova nel Neues Jahrbuch fiir Mineralogie, Geognosie, Geologie und Petrefaktenkunde dei Prof. Leonhard e Bronn. Mancando però delle opere nelle quali è descritto e figurato (1) il Grapsus speciosus di Oeningen, scrissi al mio buon amico Prof. Alfonso Milne Edwards; inviandogli, da confrontare con le figure di Karg e di V. Meyer, uno schizzo del granchio toscano che ritenevo identico a quello rarissimo trovato a Oeningen, ma non per questo ri- feribile al genere Grapsus dal quale recentemente lo aveva tolto anche il Prof. Heer, portandolo nel genere Thelphusa Latr. (Hrer: Die Urwelt der Schweiz, Zurich 1865). Il dotto carcinologo francese con sua lettera del 14 febbraio scorso, confermando i miei sospetti e ammirando la bella conservazione dell’ esemplare da me ultimamente raccolto, mi consigliava a creare un nuovo genere, poichè a suo avviso questo decapode dell’ Oenin- ghiano non può ritenersi neppure come una vera Thelphusa (2). (1) Kara: Denkschriften der Naturforscher Schwabens. 1805. T.I. fig. 2. — MEyER H. v. Terltiore Decapoden aus d. Alpen v. Oeningen u. den Taunus (Palaeontographica Vol. X. 3. 1362, pag. 168. Tav. XIX. fig. 1-2). (2) Mon cher Monsieur Paris 14 fév. 1874. « Le Crustacé dont vous m’avez envoyé un dessin me parait bien identique au Grapsus speciosus d’° Herman de Meyer et son état de conservation est « bien superieur à tout ce que l’ on a encore trouvé à Oeningen. On peut se « convaincre, en l’ examinant, que ce n’ est pas un Grapse, il se rapproche « beaucoup plus des Thelphusidae ou Crabes d’ Eau douce, mais cependant il « ne peut prendre place dans le genre Thelphusa, ainsi que 1’ avait supposé « le Docteur Oswald Heer dans son travail intitulé: Die Urwelt der Schweiz « Zurich 1865. Vous feriez bien je crois d’ établir pour cette espèce une nou- « velle division générique intermediaire aux Thelphuses et aux Discoplax « (Crustacés de la Nouvelle Calédonie decrits par moi dans les Ann. de la Soc. entomologique de France. T. 7. 1867) ». A ES LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 559 In seguito a giudizio così autorevole, benchè riconosca che il fossile in questione ha stretti rapporti con la Tel/phusa, fluviatilis Latr. (1) e col Cancer iberus Gueldst (2) che ritengo esso pure rife- ribile al genere The/phusa, propongo per questo fossile il. genere Pseudothelphusa; conservando la determinazione specifica data da Meyer per il granchio di Oeningen e augurandomi di poterne trovare avanzi tali da riescire in seguito a dare una diagnosi completa del genere e della specie (3). PSEUDOTHELPHUSA gen. n. Pseudothelphusa speciosa, v. Meyer. sp. Rava AVeniofti og] 42) Sin. Grapsus speciosus, v. Meyer. La forma generale del corpo ricorda quella delle Telfuse, ma al- lorchè si esamina attentamente si trovano sensibili differenze nella forma delle diverse regioni, nel lobo mediano della regione gastrica, nella larghezza della fronte, nella forma delle orbite e del margine sopraciliare Tav. VII. fig. 2. Inoltre, mentre nel genere Thelphusa, segnatamente nella Th. fluviatilis, le ultime articolazioni delle zampe non munite di chele sono piuttosto brevi e a margine dentato, quelle della Pseudothelphusa sono lunghe e ricordano le estremità dei Grapsoidi e meglio ancora quelle degli Ocipodi, Tav, VII. fig. 1 a. Col genere Ocypode la Pseudothelphusa ha pure comune un altro carattere, e cioè (1) CuviER, Le regne animal. — MILNE EpwaRDS, Les Crustaces pag. 59, PI io (2) GULDENSTADT, Reise în den Kaukasus I pag. 223 (Cancer cursor). — EicHWALD, Fauna Caspio-caucasia, pag. 182, Tab. XXXVII. fig. 3. Petropoli MDCCCXLI. (3) Dopo aver compiuto il mio lavoro essendo riescito a procurarmi la so- pra citata Memoria di V. Meyer pubblicata nel Vol. X. della Palaeontografica del 1862 ho potuto vedere le figure degli avanzi dei granchi di Oeningen con- servati nei musei di Carlsruhe e Zurigo dei quali ho fatto cenno. Tali avanzi a dir vero sono così poca cosa, di fronte al bellissimo esemplare di Cerretello e agli altri scoperti alla Maestà, che ho trovato giustissimo quanto me ne scri- veva il Milne Edwards e non mi sono meravigliato se erano sfuggiti alla mia attenzione allorchè nel 1859 visitai quei Musei non avendo ancora fatta la scoperta dei fossili nei gessi della valle del Marmolaio. 560 G. CAPELLINI il solco longitudinale della penultima articolazione corrispondente alla mano, Tav. VII. fig. 1 6. La chela destra è molto più robusta della sinistra come anche nella T%. Aluviatilis, e dell’ addome che deve es- sere composto di sette segmenti, nell’ esemplare di Cerretello che evi- dentemente è una femmina se ne scorgono soltanto quattro, gli altri essendo ripiegati in modo da non apparire. Probabilmente dalla Pseudothelphusa del periodo miocenico deri- varono le Thelphuse che al tempo della muta si vendono in Firenze sotto il nome di granchi teneri. CYPROIDI Gen. CYPRIS Muller. Cypris faba Desm. Desmarest: Nouveau bulletin des Sciences de la Société piiloma- tique, p. 259. pl. IV. N.° 8. — Histoire naturelle des Crustacès fossiles pi LAT pleX fia. 08. Bosquer: Description des Entomostracés fossiles des terrains ter- tiaires de la France et de la Belgique. Mem. de l’ Accad. des Scien- ces de Liége. T. XXIV. Il guscio di questo piccolo crostaceo è costituito di due valve reniformi, liscie che non oltrepassano la lunghezza di mill. 1,30 e l’ altezza mill. 0,50 — 0,75. Le marne della valle del Marmolaio co- nosciute un tempo dai geologi toscani sotto il nome di pietra porco sono piene zeppe di gusci di cypriîs e l’ esser fetide è certamente do- vuto alla presenza degli avanzi organici. Questo piccolo crostaceo fu trovato in parecchi depositi di acqua dolce più o meno contemporanei dei gessi di Castellina marittima e per risparmiare una lunga lista di citazioni ricorderò soltanto le formazioni lacustri di Oeningen e del Locle che, anche per la flora, si devono considerare come contempora- nee di Sinigallia e Cerretello. MOLLUSCHI Pleurocera laevis, Fuchs.- Littorinella acuta, Drap. sp. - L. obtusa, Sand. - Melanopsis inconstans, Neum. - Neritina Grateloupiana, Fer. sp. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 56I CATALOGO DELLE FILLITI DELLA FORMAZIONE LACUSTRE DEL POGGIO DELLA MAESTÀ E DI CERRETELLO (1) 1.8 Classe - CRITTOGAME I. Ord. FUNGHI II. Fam. PYRENOMICETES Gen. SPHAERIA, HaMer. Sphaeria interpungens, ZHeer. Herr: Flora tertiaria Helvetiae. Vol. I. pag. 14. Tav. I. fig. 3. Winterthur 1855. Sopra una foglia di Ehamnus ho trovato una Sphaeria, la quale, con quella circospeziene che è necessaria trattandosi di piante fossili, ho riferito alla specie che Heer ha riconosciuto sopra foglie di quercia nel Kesselstein (2) di Oeningen. Questa crittogama forma piccoli punti neri e perciò Braun l’ aveva detta Sphaeria punctiformis fossilis. Trovasi nelle marne a cypris di Cerretello, e poichè queste co- stituiscono il principale giacimento delle filliti, tranne casi speciali ommetterò di citarle quando trattisi di filliti della Valle del Marmolaio fino ad oggi riscontrate in esse soltanto. Sphaeria Braunii, Heer. Hrer: Op. cit. Vol. I. pag. 14. Tav. I. fig. 2. La Sphaeria di Cerretello riferita a questa specie trovasi sopra una foglia di Sideroxylon hepios; forse è identica con la .Sphaerites (1) Gli esemplari di filliti che servirono per questo catalogo sommano a più di quattrocento; i disegni furono eseguiti dal Dott. L. Foresti sotto la mia direzione. (2) Il Kesselstein, come ho già accennato, è un calcare marnoso biancastro; a Oeningen è ricchissimo di filliti. TOMO IV. 1 562 G. CAPELLINI regularis, Gòpp. accennata da MassaLonco nella Flora fossile senigal- liese pag. 84. Tav. I. fig. 11. Imola 1859. Sphaeria ceuthocarpoides 2 Meer. Hrrr: Op. cit. Vol. I. pag. 15. Tav. L. fig. 1. L’ autore della Flora terziaria svizzera, così definisce questa specie: « Sph. perithectis nigris, applanatis, in macula expallente folvis Po- puli sparsis ». La crittogama che riferisco a questa specie, si trova sopra un frammento di foglia di pioppo, insieme ad altra che ho creduto poter distinguere come spettante al Selerotium pustuliferum, Heer. Gen. XYLOMITES, Unger Xylomites varius, Meer. « Xyl. perithecio rotundato, disco polymorpho pallido ». Hrer: Op. cit. Vol. I. pag. 19. Tav.I. fig. 9. Questa specie si trova sopra foglie di piante diverse. Nel Kesselsteiîn di Oeningen si trovò sulle foglie di pioppo, salice, podocarpo; a Cer- retello l’ ho trovata su foglie di quercia. III. Fam. GASTEROMICETES Gen. SCLEROTIUM, Tode. fSssclerotium pustuliferum, ZHeer. « Scl. perithecio duro, convexo, rotundato ». Herr: Op. cit. VoLeI paz RIP i) Ho riferito a questa specie alcune crittogame del genere .Sclero- tium che ho trovato su frammenti di foglie di pioppo e di quercia; mi sento però in dovere di ripetere che queste determinazioni speci- fiche di crittogame fossili devono accettarsi come cosa convenzionale, per comodo di studio e per facilitare ai geologi i confronti fra i di- versi giacimenti. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 563 II. Classe - FANEROGAME I. Sorto crasse GIMNOSPERME LI. Ord. CONIFERE I. Fam. CUPRESSINEAE Gen. TAXODIUM, Rich. axodium dubium, St. sp. Hrer: Op. cit. Vol. I. pag. 49. Tav. XVII. fig. 5-15. Massaronao: Flora fossile Senigalliese. pag. 149. Tav. V. fig. 11. Dave io RE RL 0 avg I Questa fillite che talvolta si confonde con la .Sequoia Langsdorfi, nella valle del Marmolaio per ora si trova rappresentata soltanto da poche foglioline raccolte nelle marne a ittioliti e libellule della cava della Maestà e nelle Marne a cypris di Cerretello. Trovasi questa specie frequentissima nelle marne con filliti del Senigalliese e se ne hanno parecchie varietà a Oeningen. Ill. Fam. ABIETINEAE Gen. PINUS, L. Pinus Saturni, Ung. sp. Tav. II. fig. 4, 5, 6,7. Massaronco: Op. cit. pag. 158. Tav. V. fig. 14, 34. Tav. XL. fio Pole Questa specie che probabilmente corrisponde al P. tedaeformis, Ung. appartiene alla divisione a foglie ternate come il P. holothana dell’ isola Eubea dal quale non differisce gran fatto. Le foglie fig. 4-5 Tav. II. ed alcune squamme furono trovate a Cerretello nelle marne a cypris; la squamma fig. 6 proviene dalle marne a libellula della cava della Maestà ed il frammento di piccolo strobilo fig. 7 l’ ho raccolto alla Farsica nelle marne con fauna caspica ed è esso pure convertito in limonite. 564 G. CAPELLINI II. Sorto crasse MONOCOTILEDONI II. Ord. GLUMACKAHK I. Fam. GRAMINEAE Gus. PHRAGMITES, Trin. Phragmites oeningensis, A. Br. Tav. II. fig. 8. Herr: Op. cit. Vol. I. pag. 64. Tav. XX. fig. 5. Tav. XXIV. Tav. XXVII. fig. 2 b. Tav. XXIX. fig. 3 e. Tav. CXLVI fig. 18. Questa specie assai frequente a Cerretello negli strati a Potamo- geton si trova a Oeningen e fu raccolta in Italia a Guarene in Pie- monte, a Castro in Toscana e a Senigallia; come si ricava dall’ opera citata del Massolongo, dalla seconda memoria di Gaupin Contributions à la flore fossile italienne pag. 36, Tav. II. fig. 6. Zurich 1859, e dal Siswonpa Materiaux pour servir à la paltontologie du terrain tertiaire du Piemont pag. 22. Turin 1865. Gen. POACITES, Brongn. Poacites repens, Heer. Herr: Op. cit. Vol. I. pag. 70. Tav. XXV. fig. 12. L'autore della Flora tert. Helv. così descrive questa specie che ho creduto di distinguere fra le filliti di Cerretello. « P. rhicomate repente, stolonifero, culmis erectis, nodis tumidis ». Trovasi anche a Oeningen nel Kesselstern. Poacites laevis, M. Br. Herr: Op. cit. Vol. I. pag. 69. Tav. XXV. fig. 10. Tav. XXVI. fig. 7 a. Massaconao: Op. cit. pag. 111. Tav. II. fig. 7. Questa specie si trova anche a Oeningen e a Sinigallia e credo opportuno di riferire la frase latina con la quale il Prof. Heer l’ ha caratterizzata « P. culmo 3-3 lin. lato, internodîis longis, striatis, foliis 2-3 lin. latis, 10-12 striatis, laevibus ». LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 565 II. Fam. CYPERACEAE Gen. CYPERITES Cyperites Deucalionis, Heer. Hrer: Op. cit. Vol. I. pag. 78. Tav. XXIX. fig. 1. Tav. XXX. fig. 3. Tav. XXVI. fig. 13 d. Riferisco a questa specie un esemplare che corrisponde assai bene con la fig. 13 d. Tav. XXVI. dell’ Hrer; ma confesso che mi è im- possibile di sostenere se la fillite di Cerretello appartenga veramente a questa o ad altra delle parecchie specie trovate a Oeningen. IV. Ord. SPADICIFLORAE II. Fam. TYPHACEAE Gen. THYPHA, L. Thypha latissima, A. Braun. Herr: Op. cit. Vol. I. pag. 98. Tav. XLIII. e XLIV, Questa fillite palustre comune a Oeningen, è pure assai frequente a Cerretello negli strati a Potamogeton ricchissimi di cypris. Gen. SPARGANIUM, L. Sparganium Braunii, Heer. Hrer: Op. cit. Vol. I. pag. 100. Tav. XLV. fig. 5, 6. Le filliti di Cerretello riferite al genere Sparganium forse ap= partengono a specie diverse, ma ho preferito di riunirle alla specie frequente a Oeningen con la quale del resto hanno strettissimi rapporti. V. Ord. FLUVIALEKES I. Fam. NAJADEAE Gen. POTAMOGETON, L. Potamogeton geniculatus A. Braun. Fav MISA g0 298 Tav ig Iiprotpartee Herr: Op. cit. Vol. 1. pag. 102. Tav. XLVII. fig. 1-6. Massaronao: Op. cit. pag. 128. Tav. III. IV. fig. 1. 566 G. CAPELLINI Questa pianta che si trova a Oeningen in strati diversi è scarsa- mente rappresentata nel Senigalliese. A Cerretello è comunissima tanto che alcuni strati delle marne a cyprîs si potrebbero dire strati a Po- tamogeton. Il carattere principale è il caule geniculato come si ricava dai bellissimi esemplari rappresentati nella Tav. II. fig. 2-3, dei quali neppure a Oeningen se ne trovarono di più belli. Riferisco alla stessa specie anche l’ esemplare rappresentato nella fig. 1. della stessa tavola il quale forse rappresenta una specie distinta o per lo meno una va- rietà del P. geniculatus. Il portamento infatti di questo esemplare è alquanto diverso da quello degli altri riferiti alla specie tipica di Braun ed è quello che più spesso si trova a Cerretello. Ne posseggo esemplari di quindici e venti centimetri di lunghezza coi rami adden- sati e leggermente curvati da due lati. Potamogeton Eseri ? H. Herr: Op. cit. Vol. I. pag. 102. Tav. XLVII. fig. 8. Alcune impronte di frutti di Potamogeton trovate a Cerretello corrispondono con questa specie meglio che con altre, specialmente se si confrontano con la figura data da Heer; potrebbero però non essere altro che frutti della var. di Potamogeton geniculatus della quale ho fatto cenno. Grn. NAJADOPSIS, Heer. Najadopsis dichotoma, Heer. Tav. III. fig. I. Herr: Op. cit. Vol. I. pag. 104. Tav. XLVIII. fig. 1-6. Questa fillite è descritta da Heer con la seguente frase: « N. caule filiformi, dichotomo, valde elongato, foliis linearibus ». Questa specie è assai frequente fra le filliti di Cerretello negli strati a Potamogeton; 1 esemplare figurato nella Tav. III. ha un frut- to ed è più bello di quelli raccolti a Oeningen ove questa pianta si trova nello strato di libellule sulla stessa lastra vi sono frammenti che probabilmente spettano al genere Potamogeton. Anche a Sinigallia si raccolsero esemplari di Najadopsis, ma non meritano di essere con- frontati con questi bellissimi della Valle del Marmolaio. V. MassaLon- Go Op. ‘cit. pag. 129Lav Miano. 20 Tav LITE. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA BOT III. Sorro-crasse DICOTILEDONI APETALE I. Ord. I TEOIDKAHK II. Fam. SALICINEAE Gen. POPULUS, L. Populus mutabilis, Heer. Tav. III. fig. 2. Herr: Op. cit. Vol. II. pag. 19. Tav. LX., LXI., LXII., LXIII,, figg02,.3, 4. Gli esemplari di questa specie, uno dei quali è rappresentato nella fig. 2. Tav. III., in generale corrispondono ottimamente con quelli che Heer ha riferiti alla var. oblonga, figurati nella Tav. LX. fig. 6, 7, 9, 10, 13, 16. Qualche frammento mi ha fatto sospettare che a Cer- retello si trovi anche la var. crenata, la quale fa parte della Flora di Oeningen e di quella del Sinigalliese. V. MassaLongo Op. cit. pag. 245, Tav. IX. fig. 12. Questa specie fu trovata anche al Locle pure in marne ricche di cypris. Gen. SALIX, L. Salix angusta, A. Braun. Tav. III. fig. 3, 4. Herr: Op. cit. Vol. II. pag. 30. Tav. LXIX. fig. 1-11. MassaLongo: Op. cit. pag. 251. Tav. XXXIV. fig. 8. Heer assegna come caratteristica di questa specie la lunghezza delle foglie che è 12-14 volte la loro larghezza. Ambedue gli esem- plari figurati sono incompleti, ma con tutto ciò confrontandoli con le filliti di Oeningen e di Locle ove si trova questa stessa specie parmi non si possa dubitare della loro identità, o che per lo meno debbano appartenere a specie molto affine. 568 G. CAPELLINI II. Ord. AMENTACEAK II. Fam. BETULACEAE Gen. ALNUS, Hal. Alnus nostratum, Unger. Tav. III fig. 5, 6. Herr: Op. cit. Vol. II. pag. 37. Tav. LXXI. fig. 13, 14, 15, 19 a 20, 21. Sismonpa: Op. cit. pag. 37. Sono stato molto incerto, e lo sono tuttavia, se gli esemplari della valle del Marmolaio debbano riferirsi a questa specie trovata anche nei gessi di Guarene, oppure all’ A. Cycladum trovato a Kumi; anche per questo motivo ho creduto bene di dare le figure che gio- veranno più d’ ogni descrizione. III. Fam. CUPULIFERAE Gen. CARPINUS, L. Carpinus betuloides, Ung. Unger: Op. cit. pag. 48. Tav. III. fig. 23-37. Tav. IV. fig. 1-9. L’ esemplare di Cerretello parmi che si possa ravvicinare meglio alla specie di Kumi di quello che al C. grandis H. od al C. oblonga Ung.; devo però far notare che le filliti di queste specie hanno fra loro strettissima somiglianza e che non azzarderei sostenere se il mio esemplare differisca realmente da una delle due ultime specie le quali d’ altronde si trovano nel Senigalliese. Gen. QUERCUS, L. Quercus Cardanii v. latifolia, Mass. MAVSRIVERi parli MassaLongo: Op. cit. pag. 183. Tav. XXII-XXIII. fig. 13. I numerosi esemplari e le diverse specie di quercia ed acero che si trovano a Cerretello mostrano quanto siano grandi i rapporti di questa Flora con quella del Sinigalliese; quindi specialmente per le quercie ho creduto opportuno di attenermi per quanto era possibile LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLIÌNA MARITTIMA 569 alle distinzioni fatte dal Massalongo, colle quali certamente meglio che con altre mi riescì di determinare le impronte di quercie della Valle del Marmolaio. La quercia fig. 1, Tav. IV. corrisponde alla descrizione che ne ha dato il Massalongo meglio ancora che alla incompleta figura; ed anche i confronti con la quercia americana @Q. prinos var. monticula Mx.; con la quale si potrebbe forse identificare mi hanno persuaso dei giusti riferimenti dell’ autore della Flora senigalliese. Nei gessi di Guarene si trova la sp. Q. pseudo-castanea, Goepp. che ha qualche rapporto: con la specie indicata (Sismonpa, Op. cit. pag. 45). Quercus Cardanii, Mass. Massarongo: Op. cit. pag. 182. Tav. XXII. e XXIII. fig. 2, 4. Questa specie che si potrebbe identificare con certe varietà della vivente Q. prinos si trova frequentemente a Cerretello ; alcuni esemplari corrispondono benissimo alle figure date dal Massalongo e taluni ricor-. dano il Q. Meriani, Heer. — Heer Op. cit. Vol .II. Tav. LKXVI. fig. 12. Quercus Scillana, Gaud. GaupINn e Strozzi: Contributions è la Flore fossile italienne. IL Mémoire Val d' Arno pag. 42, Tav. III fig. 11, 13. Tav. IV. fig. 13, osa vi Viofig 304" Questa specie come osserva anche il Gaudin ha una certa analo- gia con la Castanea atavia, Ung. e solo dubitativamente vi riferisco parecchi esemplari di Cerretello che vorrei poter sottoporre al giudizio di Heer per essere tranquillo sulla loro determinazione. Quercus Cornaliae, Mass. Massaronao: Op. cit. Tav. XXIV. fig. 4. Tav. XXV. fig. 4. Gli esemplari di Cerretello corrispondono alle figure e descrizioni date dal Massalongo e per conseguenza ho conservato questo nome’ benchè si possa dubitare che realmente il Q. Cornaliae sia soltanto una varietà del Q. Nimrodis, Ung. ovvero una forma del Q. robur. TOMO IV. 02, 570 G. CAPELLINI Quercus Costae, Mass. l'av. IV. fig. 3. MassaLonao: Op. cit. pag. 186. Tav. XX. fig. T. Benchè la fillite di Cerretello riferita a questa specie non corri- sponda totalmente alla figura data dal Massalongo, pure mi pare le convenga bene la descrizione che è la seguente. n 4. foliis coriaceis crasse petiolatis, lanceolato-cordatis, apice atte- nuatis obtusis, margine irregulari obsolete repando-ondulatis, costa valida, nervis secundariis arcuatis, alternis, rete venoso inconspicuo. MassaLongo: Sulla Flora fossile di Sinigallia; lettera a Scara- belli. pag. 16. N.° 75. Verona 1857. Quercus Zoroastri, Ung. Tav. IV. fig. 8. Unser: Die fossile Flora von Kumi auf der Insel Euboea. Denkschriften der k. Akademie der Wissenschaften. Vol. XXVII. pag. 52. Tav. VI. fig. 23-28. Wien 1867. Devonsi indubbiamente riferire a questa specie alcune filliti di Cerretello e segnatamente quella rappresentata dalla fig. 8. Tav. IV. Questa stessa specie si trova a Kumi e a Parschlung nel miocene su- periore ed ha rapporto colla specie vivente nell’ Asia centrale Q. per- sica, Janb. Quercus Pironae, Mass. MassaLongo: Op. cit. pag. 193. Tav. XXVI. e XXVII. fig. 15. Gli esemplari di Cerretello corrispondono egregiamente alla figura data da Massalongo per la fillite sinigalliese; ma non azzarderei so- stenere che sia una vera quercia e si possa identificare col Q. fagifolia di Goepp. Quercus lonchitis, Ung.? Unser: Op. cit. pag. 50. Tav. V. 1-17, 21, 22. — Flora von Sotzka pag. 33. Tav. 9. fig. 3-8. I Herr: Op. cit. Vol. II. pag. 50. Tav.LXXVIII. fig. 8-9. Per ora ho trovato soltanto pochi esemplari riferibili a questa specie che ricorda la vivente @. lancifolia, Schl. del Messico; non azzarderei sostenere che non si tratti di semplice varietà del Q. dry- meja, Ung. che si trova fossile anche a Guarene. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 571 Quercus etymodrys, Ung. Massaroneo: Op. cit. pag. 178. Tav. XXII. e XXIII. fig. 3, 5, fi 10, Li at? dd av XXI fin Questa specie ricchissima di forme e varietà ha rapporti con quelle distinte da Goeppert coi nomi di Q. pseudo-castanea, Q. sub- robur. Probabilmente alcuni degli esemplari sono da identificare con la prima di queste specie la quale fu trovata anche a Guarene. (Sis monpa Op. cit. pag. 45. Tav. XV. fig. 1, 2). Quercus etymodrys var. entelea, Mass. FavIVoplo 6.97 Massaronao: Op. cit. pag. 179. Tav. XXII. e XXIII. fig. 10, Wi12% Tav. XLIISfg 412: Di questa bella varietà frequente a Cerretello, nella Tav. IV. fig. 6, 7 sono rappresentati due dei migliori esemplari che servono a fare apprezzare quanto si possa ritenere affine alla specie vivente anche in Europa, Q. cerris, L. Quercus etymodrys var. amphypsia, Mass. Tav. IV. fig. 5. Massaroneo : Op. cit. Tav. XXII. e XXIII. fig. 7. Tav. XXXI. fig. 5. L’ esemplare figurato e gli altri che ho riferiti a questa varietà mi pare che corrispondano abbastanza con la fig. 5. della Tav. XXXI. dell’ opera di Massalongo. Quercus etymodrys var. microdonta, Mass. MassaLongo : Op. cit. pag. 180. Tav. XXII. e XXIII. fig. 5. Fra le filliti di Cerretello ne ho distinto una che corrisponde alla figura citata del Massalongo; parmi però che questa, come forse altre specie, non si possa facilmente distinguere dalla Castanea atavia dello stesso autore e forse da certe var. del Q. mediterranea di Ung. e — mi 572 G. CAPELLINI Quercus etymodrys var. Castellinensis, Cap. Tav. V. fig. 1. Questa varietà che ho distinta con nome speciale, forse non è altro che una forma della var. canonica di Massalongo. Op. cit. pag. 180; peraltro se le si adatta la descrizione non si può dire che cot- risponda alle fig. 3, 14 date dall’ Autore nelle Tav. XXII. e XXIII. Quercus Meneghinii, Cap. Tavo dVenfig2) Questa bellissima fillite ricorda la specie sinigalliese @. lirioden- droides, Mass. (MassaLongo, Op. cit. pag. 185. Tav. XII. fig. 6), ma parmi si possa nettamente distinguere anche per la forma della base. Offre indubitatamente qualche analogia con alcune foglie dell’ ordinaria rovere. Propongo di distinguere questa nuova specie o varietà col nome del Prof. Meneghini, riservandomi a darne la descrizione quando avrò potuto procurarmi un discreto numero di esemplari. Quercus Gaudini, Lesg.? Tav. IV. fig. 4. Gaupin e Strozzi: Mem. cit. pag. 43. Tav. VI. fig. 2. Riferisco dubitativamente a questa specie una fillite che forse altro non è che una varietà di Q. Scillana. Il Q. Gaudini fu trovato a Vancouver e nel Val d’ Arno, insieme ad altre specie comuni con quelle del giacimento di Sinigallia. Quercus senogalliensis, Mass. Tav. IV. fig. 9. MassaLonao: Op. cit. pag. 184. Tav. XXII. e XXIII. fig. 9. Benchè si tratti di un esemplare incompleto, parmi non si possa dubitare della identità della fillite di Cerretello con quella figurata da Massalongo. Ricorda, se non è la stessa, la specie distinta da Weber col nome di Q. Buchii (Herr, Op. cit. Vol. II. pag. 54. Tav. LXKXVII. fig. 13, 14, 15. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 573 Massalongo dice che le maggiori analogie di questa specie con le viventi si riscontrano confrontandola con la specie americana Q. ma- erocarpa; ma i confronti che ho potuto istituire con foglie che raccolsi io stesso nel Massachusset non mi fanno condividere l’ opinione del valente fitologo. Del resto anche il frutto è diversissimo, se i frutti disegnati da Massalongo devono veramente riferirsi a questa specie. Il Q. senogalliensis merita di essere confrontato anche col 0Q. roburoides, Gaudin trovato a Poggio Montone presso Massa marittima. GaupINn e Strozzi: Contributions etc. II. Mem. pag. 30. tav. III. fig. 14. Grn. FAGUS, Tourn. Fagus castaneaefolia, Ung. Tav. V. fig. 3. Sismonpa: Op. cit. pag. 47. Tav. X. fig. 4. Tav. XIII. fig. 2,3. Rav: XIV. fio. L’ esemplare disegnato nella Tav. V. fig. 3 proviene dallo strato a pesci e libellule della cava di alabastro della Maestà e si trova in una argilla micacea un poco sabbiosa identica a quella nella quale a Monte Donato nel Bolognese si trovano pure le filliti superiormente al banco principale di gesso. Gen. CASTANEA, Tourn. Castanea Tornabenii, Mass. Massanongo: Op. cit. p. 198. Tav. XXXII. fig. 4. Le foglie incomplete che riferisco a questa specie convengono con la figura data dal Massalongo, meglio ancora che con la descrizione; in ogni modo si può ragionevolmente sospettare che si tratti di va- rietà del Fagus castaneaefolia. Castanea Ombonii, Mass. MaviVaoigi2: Massatondo : Op. cit. p. 200. Tav. XXXIII. fig. 4. Tav. XLII. fig. 8. f \ Po si pi 7 Li Si ni î ca SEL 574 G. CAPELLINI Credo che si possa riferire alla Castanea Ombonii l' esemplare rappresentato nella fig. 2. Tav. V. ma d’ altra parte non posso tacere che mi sembra difficile di dire se sia realmente una nuova specie di castagna ovvero una var. della Castanea Kubinyi, Kow. od anche sem- plicemente una delle tante varietà del Quercus drymeya. IV. Fam. ULMACEAE Gen. PLANERA, Wild. Planera Ungeri, Etting. Tav. V. fig. 4,5, 6, 7. Erringavsen: Flora v. Haering, pag. 40. Tav. X. fig. 4, 5. Herr: Op. cit. pag. 60. Tav. LXXX. Massanoneo: Op. cit. pag. 217. Tav. XXI. fig. 1-5, 7, 11-17, 22-24. Sismonpa : Op. cit. pag. 48. Tav. XVIII. fig. 2-4. CapeLLIni: Sul giacimento delle ligniti della Bassa Val di Magra pag. 20. Tav. III. fig. 4. Torino 1860: Questa specie della quale ho figurato alcune graziose foglioline. è assai frequente a Cerretello e trovasi anche nelle marne a libellule della cava della Maestà d’ onde proviene l’ esemplare fig. 6. Tav. V. Si trova a Guarene, e in un piano miocenico assai più antico a Sarzanello in Val di Magra. VII. Fam. PLATANEAE Gen. PLATANUS, Linn. Platanus aceroides, Goepp. Tav. V. fig. 8. Hrer: Op. cit. Vol. II pag. 71. Tav. LXXXVII. e Tav. LXXXVIII. fig. 5-15. Gavin: Mem. feuill. foss. Tosc. pag. 35. Tav. V. fig. 4-6. Tav. VI. fig. 1-3. CapeLuini: Mem. cit. pag. 17. Tav. III fig. 1-2. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 575 | I | Siswonpa: Op. cit. pag. 49. Tav. XX. fig. 3-4. Tav. XXI. fig. 2-3. | Questa fillite, della quale per ora ho trovato soltanto esemplari I incompleti, trovasi nello strato a libellule della cava della Maestà e a Cerretello d’ onde proviene 1’ esemplare figurato. Anche questa specie | si trova a Sarzanello e nel tempo stesso a Guarene e Stradella. IV. Ord. PROTKINEAK I. Fam. LAURINEAE Gen. LAURUS, Linn. Laurus princeps, Heer. Herr: Op. cit. Vol. II. pag. 77. Tav. LXXXIX. fig. 16, 17. Tav. XC. fig. 17, 20. Tav. XCVII. fig. 1. I Gaupin: Op. cit. pag. 48. Tav. VII. fig. 2, 3. Tav. VIII. fig. 4. "1 I. Mem. Tav. X. fig. 2. id CapeLLni: Mem. cit. pag. 18. Siswonpa: Op. cit. pag. 50. Tav. XVII. fig. 10-11. Uncar: Op. cit. pag. 56. Tav. VIII. fig. 8-10. Di questa fillite che trovasi anche al Gabbro insieme alla Planera Ungeri ed al Platanus aceroides, come resulta da una nota gentilmente comunicatami dal Prof. Heer, per ora ho trovato scarsi ed incom- pleti avanzi a Cerretello. (1) TE È PS prete = 2a citrico A IV. Fam. PROTEACEAE Gen. DRYANDROIDES, Unger. |a } i tig | il III | ji | | il | 4 | È î Dryandroides hakeaefolia, Ung. Herr: Op. cit. Vol. II. pag. 100. Tav. XCVIII. fig. 1-13. Tav. XCIX. fig. 4-8. Unger: Op. cit. pag. 60. Tav. IX. fig. 4-15. Benchè questa specie non sia ancora stata segnalata nel miocene superiore, pure azzardo di riferirvi alcune incomplete filliti raccolte a Cerretello. (1) Ho ragione di credere che la flora fossile del Gabbro debba essere assai più ricca di quel che apparisce dalla nota di Heer, e identica con quella della valle del Marmolaio. = Sa : 56 G. CAPELLINI GAMOPETALE II. Ord. BICORNEKES I. Fam. ERICACEAE Gen. ANDROMEDA, Linn. Andromeda protogaea, Unger. Heer: Op. cit. Vol. III. pag. 8. Tav. CI. fig. 26. MassaLongo : Op. cit. pag. 297. Tav. XXXIV. fig. 3, 6. Tav. XLIII. fig. 4. Gaupin: I. Mem. cit. pag. 39. Tav. X. fig. 10. CapeLuini: Mem. cit. pag. 19. Questa specie che d’ ordinario si trova nel miocene inferiore, fu riscontrata fra le filliti sinigalliesi e fra quelle del Locle. Posseggo diversi esemplari incompleti nelle marne a cypriîs di Cerretello. III. Ord. STYRACINAK I. Fam. EBENACEAE Gen. DIOSPYROS, Linn. Diospyros brachysepala, Alex. Braun. Hrer: Op. cit. pag. 11. Tav. CII. fig. 1-14. Siswonpa : Op. cit. pag. 55. Tav. XI. fig. 6. Tav. XVI. fig. 5. Tav XIX fio3! Questa specie fu trovata anche a Oeningen al Locle e in una arenaria fina del miocene superiore fra Guarene e Castagnito. Forse vi corrispondono alcuni esemplari della D. incerta di Massalongo; ma bisogna convenire che sono grandissime le analogie fra questa fillite e molte altre fra le quali il Laurus princeps H. ed il Rhamnus De- chenii Web. Un solo esemplare a Cerretello. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA DUI III. Fam. SAPOTACEAE Gen. SIDEROXYLON, Unger. Sideroxylon hepios, Ung. ? Tav. V. fig. 9. Unser: Op. cit. pag. 65. Tav. XI. fig. 7-10. Riferisco a questa specie alcune graziose filliti di Cerretello; qualche frammento se ne trova pure nello strato a libellule della cava della Maestà. Gen. CHRYSOPHYLLUM, Ung. Chrysophyllum olympicum, Ung. TRAVARVERtI os Uncer: Op. cit. pag. 66. Tav. XI. fig. 16, 28. Questa fillite si trova a Cerretello e nelle marne con libellule della cava della Maestà. Insieme col Sideroxylon hepios si trova nella formazione miocenica di Kumi in Eubea, per cui ho potuto istituire confronti fra gli esemplari delle due località. Gen. BUMELIA, Sware. Bumelia Oreadum, Ung. Tav. V. fig. 12. Unerr: Op. cit. pag. 67. Tav. XI. fig. 30. Massarongo: Op. cit. pag. 295. Tav. XXIX. fig. 7. Questa specie ha stretta analogia con la seguente B. minor che trovasi a Oeningen, a Sarzanello e a Stradella: (CareLLini Mem. cit. pag. 20). Bumelia minor, Ung. Ma vanvengiogIo: Unser: Op. cit. pag. 67. Tav. XI. fig. 31-34. La fillite trovata a Cerretello e riferita a questa specie parmi che convenga assai bene con quelle di Kumi figurate dall’ Unger. TOMO 1Y. 73 578 G. CAPELLINI POLIPETALE I. Ord. UMBELLIEFLORAHRN II. Fam. ARALIACEAE Gen. HEDERA, Linn. Hedera sp. ? Riferisco dubitativamente al genere Hedera la fillite rappresentata nella Tav. V. fig. 14, della quale finora posseggo un solo esemplare trovato a Cerretello. IV. Ord. HHYDROPKILITIDEAK I. Fam. NYMPHAEKEACEAK Gen. NYMPHAEA, Linn. Nymphaea sp. Nelle marne con libellule della cava della Maestà ho trovato un solo frammento di foglia che parmi si possa benissimo riferire a questo genere; ma trattandosi di esemplare troppo incompleto non ho nep- pure cercato se fosse possibile riferirlo alla N. Charpentieri, H. o alla N. alba. IX. Ord. COLUMNIEERAEK I. Fam. STERCULIACEAE Gen. STERCULIA, Linn. Sterculia tenuinervis, H. Hrer: (Op. cit. Vol. II. pag. (35. Tav. CD fig. 01. Un solo esemplare incompleto a Cerretello. X. Ord. ACERRA I. Fam. ACERINEAEK Gen. ACER, Linn. Acer trilobatum, A. Braun. var. tricuspidatum, 4A. Tav. VI. fig. 1-2, 6, 7, 8, 11. Hrer: Op. cit. Vol. III. pag. 49. Tav. CXIII. fig. 1, 3-10. MassaLongo: Op. cit. Acer pseudocreticum, Ert. pag. 339. Tav. ROVSTASIVIT! fio 9A av XXI 900 a ve XX LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 579 Fra le filliti di Cerretello sono abbondantissimi gli aceri e questi ritengo che per la maggior parte si debbano riferire a varietà del- I Acer tribolatum, A. Braun. Massalongo ha descritto e figurato un bel numero di filliti di aceri del Senigalliese e quantunque non creda si debbano ammettere tutte le specie fra le quali le ha ripartite, pure per la stretta relazione fra il giacimento sinigalliese e quello della Valle del Marmolaio ho pensato di riferirmi alle determinazioni del botanico veronese. Secondo Massalongo le fig. 1, 2 della Tav. VI. rappresenterebbero 1° Acer pseudocreticum, Etting. Riferisco pure a questa specie i diversi frutti fig. 6,7, 8,11; benchè forse taluni possano appartenere alle varietà che sono per indicare. Acer trilobatum, 4. Braun. var. Sin. Acer Heerii, var., Mass. Tav AVIRA MN) Questa fillite parmi che corrisponda ad una delle tante varietà dell’ acero trilobato e più specialmente alla fig. 3, Tav. CXV. dell’ Op. di Heer più volte citata. Dubito se sia semplicemente una forma del- VP A. Heerii var. Weberianum di Massalongo (Massalongo Op. cit. pag. tool. Tav. XIE fig 27 lav XX svfig. 4. Acer trilobatum , A. Braun. var. productum Tav. VI. fig. 10. Erra fOpXfcit. \\VolSMiepag 0a v XXV. fig. (6-12. Se si studia questa fillite col sussidio delle opere di Heer, Sis- monda, Braun parmi che non si possa a meno di riconoscervi la varietà indicata dell’ 4. trilobatumy; se invece si consulta l’ opera del Massalongo si trova che questa varietà corrisponderebbe essa pure ad una delle forme dell’ A. Heerii. Non bisogna dimenticare neppure una qualche somiglianza con l’ Acer Sismondae, Gaud. (Gaupin e Strozzi: I Mem. pag. 38. Tav. XIII. fig. 4). Ho creduto opportuno di dare le. figure dei tipi principali poichè esse parlano meglio di qualunque de- serizione. LE li di sro 8 #7: 580 G. CAPELLINI Acer brachyphyllum, Meer. Tav. VI. fig. 9, 12. Hrer: Op. cit. Vol. III. pag. 56. Tav. CXVII. fig. 10-13. Tav. CRE odio: Anche questa specie secondo Massalongo sì potrebbe ritenere co- me una varietà dell’ A. Heerii. Per la forma ricorda anche un poco l'A. Ponzianum, Gaud. {Gaupin e Strozzi I Mem. cit. pag. 38. Tav. XIII. fig. 1, 2) ne differisce per parecchie particolarità e principal- mente per la forma dei denti. Acer decipiens, A. Braun. Tav. VI. fig. 4. Herr: Op. cit. Vol. III. pag. 58. Tav. CXVII. fig. 15-22. MassaLonao: Op. cit. pag. 336. Tav. XVIII. fig. 4, 6, T. Massalongo cita diverse varietà di A. trimerum le quali altro non sono che forme dell’ A. decipiens, A. Braun, fra esse però quella che più conviene con le filliti di Cerretello è la var. decipiens, senza che per questo si possa dire che sia esattamente la stessa. Invece di riferire tutte queste filliti a specie note, assai facilmente altri ne avrebbe fatto parecchie nuove specie e varietà. II. Fam. SAPINDACEAK Gen. SAPINDUS, Linn. Sapindus falcifolius, A. Braun. Tav. VI. fig. 13, 14, 15. Herr: Op. cit. Vol. III. pag. 61. Tav. CXIX. Tav. OXX. fig. 2-8. Tav. CXXI. fig. 1, 2. MassaLongo : Op. cit. pag. 359. Tav. XXXIII. fig. 8. Tav. XXXIV. fig. 2. Questa fillite si trova assai frequentemente a Cerretello, nelle marne a libellula delle cave della Maestà, e in tutti i giacimenti con- temporanei; fu anche riconosciuta fra le filliti del Gabbro che si tro- vano nel museo della R. Università di Pisa e che in parte furono esaminate dal Prof. Heer. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 581 Gen. NEPHELIUM, Unger. Nephelium Jovis, Ung. MavavanMio820) Unerr: Op. cit. pag. 74. Tav. XII. fig. 24-27. Ho riferito a questa specie la fillite rappresentata nella Tav. V. fig. 20, ed alcuni frammenti che meglio si accordano con le figure date dall’ Unger, ma non posso tacere il dubbio che provo se si trat- ti veramente di un Nephelium, ovvero di un Celastrus ? XII. Ord. FRANGULACEAHIEH II. Fam. CELASTRINEAE Gen. MICROTROPIS, E. Meyer. Microtropis Redii, Mass. MassaLongo: Op. cit. pag. 377. Tav. VIII. fig. 1. Tav. XXIX. ia Tag DOSI IR SOIN Riferisco a questa specie alcune filliti non troppo ben conservate raccolte nelle marne a libellula delle cave della Maestà e che conven- gono abbastanza bene con le figure della Flora Sinigalliese. IV. Fam. RHAMNEAEK Gen. BERCHEMIA, Neck. Berchemia multinervis, A. Braun. Tav. V. fig. 13, 15-18. Herr: Op. cit. Vol. III. pag. 77. Tav. CXXIII. 9-18. SiswonpA: Op. cit. pag. 64. Tav.XXIX. fig. 8. CapeLuini: Mem. cit. pag. 21. Questa fillite è assai frequente nelle marne a cypris di Cerretello e presenta grandi varietà di forme come si può rilevare anche dagli esemplari figurati. esist tar: acces — iv esce gegen e —— MOSSE e — o c.;-sss ce. Lù n —cili 582 G. CAPELLINI Gen. RHAMNUS, Linn. Rhamnus Eridani, Ung. Tav. V. fig. 19. Hrer:/Op.\cit Voli III pae 8 Ray XXV fig. 6 -Dav: CXXVI. fig. 1. Siswonpa: Op. cit. pag. 63. Tav. XIII. fig. 5. Tav. XIV. fig. 4. Tav! XXUIT io 4,05. Questa fillite della quale ho raccolto parecchi esemplari, si trova anche nelle marne superiori ai gessi di Guarene. Fra le filliti di Cer- retello vi hanno alcuni esemplari pei quali fui incerto se dovevo rife- rirli al f. Gaudini, Heer che trovasi anche al Gabbro. HKhamnus Gaudini, Heer. Hrrr: Op. cit. Vol. III. pag. 79. Tav. CXXIV. fig. 4-15. Tav. CXX Vette te VISA SiswonpA: Op. cit. pag. 64. Tav. XXX. fig. 1. Alcuni esemplari devono indubitatamente riferirsi a questa specie e s'accordano con le figure e la descrizione che ne ha date il Prof. Heer. EKRhamnus Oeningensis, A. Braun. Hrer: Op. cit. Vol. IIl. pag. 78. Tav. CXXDII. fig. (31. Questa bellissima fillite può essere facilmente confusa col Populus mutabilis. Posseggo un solo esemplare di Cerretello. XIII. Ord. TEREBINTHINAE III. Fam. JUGLANDEAE Gen. JUGLANS, Linn. Juglans bilinica, Ung. Herr: Op. cit. Vol. III. pag. 90-91. Tav. CXXX. fig. 5-19. Sismonpa: Op. cit. pag. 65. Tav. XXIX. fig. 9. CapeLuini: Mem. cit. pag. 16. Tav. II fig. 1, 2. Massaconao: Op. cit. pag. 339. Tav. XXI. fig. 1. Di questa fillite per ora non ho trovato a Cerretello esem- plari interi e tali da poterli confrontare, per bellezza, con quelle degli LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 583 aceri e delle quercie. Probabilmente si troveranno anche altre noci, quali p. e. la J. acuminata e le J. nur taurinensis che popolavano le selve mioceniche delle isole toscane fino dal principio di quel pe- riodo geologico. XV. Ord. LEGUMINOSAEK I. Fam. PAPILIONACEAE Gen. PODOGONIUM, Heer. Podogonium Knorii, H. Tav. V. fig. 22. Herr: Op. cit. Vol. III. pag. 114. Tav. CKXXIV. fig. 22-26. Tav. CXXXV. Tav. CKXXVI. fig. 1-9. Di questa elegantissima fillite tanto comune a Oeningen per ora ho trovato soltanto poche foglie isolate e qualche frutto. Graziosi esem- plari di foglioline come quelle della fig. 22, Tav. V. si trovano a Cerretello e nelle marne a libellula della Maestà. Gen. CASSIA, Linn. Cassia Phaseolites 2 Ung. Herr: Op. cit. Vol. III. pag. 119. Tav. CKXXVII. fig. 66-74. Tav. CKXXVIII. fig. 1-12. Siswonpa: Op. cit. pag. 67. Tav. XXX. fig. 4. Posseggo un solo esemplare della marna a libellula della Maestà ed il suo stato di conservazione è tale che solo dubitativamente rife- risco questa specie fra le filliti della Valle del Marmolaio. Trovasi anche a Sinigallia e Guarene. Gen. SOPHORA, Linn. Sophora europaea, Ung.? Tav. V. fig. 21. Herr: Op. cit. Vol. III. pag. 107. Tav. CXXXIII. fig. 36-39. Riferisco dubitativamente a questo genere la fillite Tav. V. fig. 21, augurandomi di trovare altri esemplari per istituire confronti più ac- curati. r—————66@66@e————m—m—m——r—mm___& sè = ie@rite _es_iehi-_ttt_+ede- Ba ite e/ E. ii ic’ aes. elle no 584 G. CAPELLINI QUADRO COMPARATIVO DELLE FILLITI DELLA VALLE DEL MARMOLAIO CON QUELLE DI ALTRI GIACIMENTI RIFERITI AL MIOCENE SUPERIORE slo Dea do RN Au da al spl SPECIE ANALOGHE ATTUALI s [2° © .j| £ SR SRS n DI sé E LORO PATRIA 2 S&S S| 3 [28 Sita] a O) o |& n mn |D O |__| Sphaeria interpungens, H | NUO AGHI INNO + |+ S. punctiformis. SPEBLAUDI ATO N a A E 6. albagi a S.ceuthocarpoides ?, H . .|. . .|. - BIEN AMS Al S. ceuthocarpa , Fries. Xylomites varius, H. . . .|. . .|- eo Sclerotium pustuliferum,H.|. |... | Bf] S. pustula, Dec. Taxodium dubium, Std. sp.| + Qi ee P. | T. distichum, Rich. | America Pinus Saturni, Ung. sp. . .| + LT NE . . .| P. insignis, Dougl. California. Phragmites Oeningen- SISARA BI LINO + | G. |-. .| + | + |P.T.| Ph. communis, Tr. Europa, Asia, Poacites repens, H. . . .|.- . |. ..|e Ri FASI ee Amer., Austr. Pi laevis PA SIBIT RNE r ae AICIORIOROVO da PhalarisarundinaceaL.| Asia, America, Cyperites Deucalionis, Ho. L.A |. Typha latissima, A. Br. .|- . .|... -- | T. latifolia, L. Europa, Asia, Sparganium Braunii, H. .|- 01... effe. America Potamogeton genicula- TUSP ZA RL ISO LI II IRIS DION] NG Pili P. pusillus, L. Europa, Ameri- PESCE O Ie A SE RSA ENCAT. ge ca sett. Najadopsisdichotoma, Z. |. < I... Populus mutabilis, H, . .| + |. .{ L. | + | + |P.T.| P. euphratica, 0/. Asia. Salix angusta, A. Br. ..| + |. ..|-- {+-+ | P. | S. viminalis, L. Europa, Asia. Alnus nostratum, Ung. . .|- - .| G. |- - | LI RRERICa \ A. viridis, L. Carpipus betuloides, Ung.|- - -|. .. «|. GU o Quercus Cardani, var. lati- | Q. prinos var. mon- folla MASS. TION + À ticula, Ma. America sett. Q. Cardani, Mass... .. + É Q.prinos var. pumi- Q. Scillana, Gaud. .... + la, Ma. Idem. Q. Cornaliae, Muss, . + d Q. robur? Q. Costae, Mass... ... + STRONA Qu /Zoroastri Ung. E a SÒ Q. persica, Spach. Asia cent. Q. Pironae, Mass... .. OLA e 96 Qi ONERI St IZ GI ee NOT GE SONO ORO ZI ONDE Q. lancifolia, Sch, Messico. Q. etymodrys, Ung... .l + Q. etymodrys var. ente- les UM ass RIA et Q. cerris, L. Europa. Q. etymodrys var. amphy- psia Massi RI ar Q. etymodrys var, micro- donta; 3 'Mass.t ie ua Ù Q. etymodrys var. Castel- linensis, Cap. ..... BOI a elaNOR S| ISUGnlaoe olfatto Q. Meneghini Cap. 0 O SRO FI Orrore Europa. Q. Gaudini, Lesg. . ... Hi de STO CRA siate Q. senogalliensis, Mass. .| + |... ROTA n RO NERO DUL e Europa. Fagus castaneaefolia Ung.|. . .| G. |... .|. .fe Castanea Tornabeni, Mass.| + |... Lf... fi Ca Ombonii, Mass AO CRI Re Cepumilait America sett. Planera Ungeri, Ett.. . .| + { G. [G.L.| + | + |T.P.| P. Richardi, Mich. Asia cent. Platanus aceroides, Goepp.| + jS.G.| G. | + | P. occidentalis, L. America sett. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 585 U Ss |o 6 [E i ss i [ah a ice sol SPECIE ANALOGHE ATTUALI S |a |D a s2 = Selo & ci E LORO PATRIA so |3L|22|.5 © | = | SA a 2a Ga ® o |s n N DS (©) QU |M Laurus princeps, H. . . .|.. .|. +. G.|+ | + |. . .| L. canariensis, Sw. Is. Canarie. Dryandroides hakeaefo- |. +. |. - f.le. SU ri GA OO. e | -Dryandra sp: N. Olanda. Andromeda protogaea, Ung. Tao) GIRONA, WMO O ICE + | T. | A.eucalypoitrdes,Dec?| America trop. Diospyros brachysepa- aio elio o oleacrapr a eeronop lore IRERARCE n + G.|G.|+| +]. -..| D. lotus, L. Europa, Afr.sett. Sideroxylon hepios, Ung. oso alla o dla ovols + .| è «|- + «| S. inerme, L. Capo di B. Spe- Chrysophyllum olympi- |e + «f.le e ranza. CUR URAS DI «|. . .[- + «|._- >| C. martianum, Dec. | Brasile. Bumelia Oreadum , Ung.| + |S. Tio + | + |T.P.| B. retusa America sett. - B.minori Ung: >... - Bloor Baggio kol jpsonò Hedera sp: sito; ndatlicrou reale Siglato 0 olo o 0 Non platea spo. fi MS a Sterculia tevuinervis, H. fi > |. |. .] + |] S. platanifolia, L. America trop. Acer trilobatum var. tri- |: > «|. - -[e |... DINO) INCHO cuspidatum, 4. ....| + [S.G.|. . .| «+ |. . .|T.P.| A. rubrum, L. America sett. A. trilobatum, A. Hee- fe: n 10; ” n 18 Propongo di distinguere questa specie con nome che ricordi il paese di Castellina marittima vicino al celebre giacimento dei gessi con alabastro candido. Cardium Nova- Rossicum, Bard. Tav. VII fig. 12. Barsor pe Marnv: Op. cit. pag. 156. Tav. I. fig. 3-5. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 589 Conchiglia con 22-24 coste rotondate, squammose, maggiori degli interstizi nei quali pure passano le squamme, come si osserva nel C. obsoletum, Eichw. ( EtonwaLp, Lethaea rossica, pag. 97. Tav. IV. fig. 19). Gli esemplari della valle del Marmolaio sono un poco più piccoli di quelli del C. obsoletum descritto e figurato dagli autori ora citati; però, ad eccezione del numero delle coste, corrispondono meglio agli esemplari di Russia che. a quelli del Bacino di Vienna e si possono decisamente identificare col C. Nova-Fossicum, benchè di esso non si conoscano gli ornamenti. Cardium Nova ?=>Rossicum var. C. edentulum °? Desnh. Tav. VIII. fig. 13. Barsor pe Marny: Op. cit. pag. 156. fig. 3-5. DesHaves: Description des coquilles fossiles recueillies en Crimée par M. de Verneuit. Mémoires de la Société géologique de France. Jee Series Rom. (Si paso Lav WI th 3-0. Devesi riferire a questo tipo una delle specie di piccoli cardii della Farsica, i cui esemplari adulti invece di essere lunghi mill. 48 e larghi mill. 68 come quelli di Crimea, sono invece lunghi soltanto mill. 10 e larghi mill. 15. Queste cifre sono però proporzionali fra loro e corrispondono anche passabilmente ai numeri 17, 28 che ho ottenuti dagli esemplari che raccolsi a Doftanitza e Bustinari in Va- lacchia e coi quali ho potuto rendermi conto preciso della forma e numero delle coste. Il Prof. Fuchs ha descritto e figurato col nome di C. Aw:ngeri un piccolo cardio di Radmanest che, a suo avviso, differirebbe dal C. edentulwin, Desh. soltanto per la grandezza degli esemplari (Fucgs III. Beitriige. Die Fauna der Congerienschichten von Radmanest in Banate. Tav. XV. fig. 1-3. Jahrbuch der k. k. geologischen Reich- sanstalt. Wien 1870). Ammettendo che sia esatta la figura data dal Fuchs, la specie di Radmanest rappresenta bensì il tipo del C. eden- tulum, Desh. e meglio ancora quello dei piccoli cardii della Farsica, ma differisce per la forma più larga e per una specie di insenatura del margine inferiore la quale manca negli esemplari di Crimea, Valacchia e Italia; caratteri confermati dalle misure date dal Fuchs mill. 12, mill. 23 che non corrispondono proporzionalmente a mill. 48, mill. 68, =ètTams.: wEE ni) pw: ESSI OM TESE Ges <— G-G aste un ao deu Po par: Sid — co + è ce sti i Pal 590 G. CAPELLINI come invece si può ripetere per i numeri 10 e 15 (1). Come si può vedere dalle figure, questa specie è piatta, molto trasversa e inequila- terale, troncata posteriormente e divisa da un angolo che si fa molto ottuso verso il margine e limita una regione posteriore con coste fine e piatte. Le coste del rimanente della conchiglia sono sottili anterior- mente e si fanno più grosse e rade verso la regione mediana e posteriore. Negli esemplari di Valacchia si contano 22 coste tondeggianti nella regione anteriore e mediana e cinque piatte nella regione poste- riore; negli esemplari della Farsica se ne ha un egual numero in questa ultima parte e solo 18 anteriormente. È indubitabile che questi piccoli cardii hanno stretti rapporti col C. Nova-Rossicum, Barb.; ma essendo impossibile di identificare gli esemplari della Farsica con quelli di Odessa, propongo di distingerli come una varietà. Cardium littorale, Eichw. Tav. VIII. fig. 14. EicawaLp : Lethaea rossica, pag. 99. Tav. VI. fig. 1. Stuttgart 1853. Barsor pe Magny: Op. cit. pag. 154. Tav. I. fig. 6-7. » Testa subplana, ovata, utrinque rotundata, costata, costis subito latioribus, in utraque parte extrema evamidis, interstitiis inter eas angustioribus, vertice paullo prominulo, submedio, dente cardinali nullo. , Questa specie è una delle più comuni nel calcare a Congeria di Odessa ove era stata segnalata dall’ Eichwald fino dal 1853; offre grande affinità col Cardium (Adacna) ponticum, Eichw. e azzarderei dire che corrisponde al tipo del Cardium subdentatum, Desh. rac- colto pure in Crimea. Gli esemplari della Farsica in media hanno otto millimetri di lunghezza, vi ho contato fino a 24 coste ed in alcuni mi è sembrato di scorgervi traccie degli ornamenti. Cardium Fuchsi, Cap. Tav. VII. fig. 15, 16. C. testa ovata, antice rotundata, postice subtruncata, angulo obtuso posteriori bipartita, costata, costis latis subconvexiusculis. (1) Per trovare nella specie di Radmanest misure proporzionali corrispon- denti agli esemplari di Crimea, si dovrebbero avere mill. 12 e mill. 17. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 59I Fra i piccoli cardii della Farsica non manca il tipo corrispon- dente al C. crassatellatum, Desh.j ma poichè oltre alle dimensioni in- finitamente più piccole, si possono riscontrare differenze nel numero delle coste e nella loro forma, così ho creduto poterne fare una specie nuova, della quale però sono costretto a dare una incompleta descri- zione trattandosi di modelli spesso deformati. Il piccolo C. Fuchsi ricorda il C. Nova-Rossicum ed il C. Ca- stellinense dai quali però ritengo che debba essere distinto. Vi si con- tano 10-12 grosse coste convesse lamellose nella regione anteriore e mediana, è lungo mill. 11 e largo mill. 16. Dedicato al Prof. T. Fuchs di Vienna che tanto si è occupato dello studio degli Strati a Congeria in Ungheria e in Austria. Cardium Odessae, Barbot. Tav. VIII. fig. 17, 18. Barpor pe Marny: Op. cit. pag. 155. Tav. I. fig. 8. Questa specie ha stretti rapporti con la Monodacna intermedia, Eichw. (ErcawaLp, Fauna Caspio Caucasia pag. 220, Tav. XL. fig. 5, 7) ossia C. intermedium, Eichw. (ErcawALp, Lethaea rossica, Vol. III pag. 102) che si trova fossile a Bacou. Prima che io avessi notizia del lavoro di Barbot de Marny avevo riferito gli esemplari della Farsica al C. intermedium per una parte e per l’ altra avvicinandoli al C. plicatum, Eichw. avevo fissato la nuova specie C. pseudoplicatum per certi esemplari che mi parevano passare insensibilmente alla specie C. plicatum, Eichw. Parmi che nella specie C. Odessae si possano confondere gli esemplari che avevo altravolta distinti e i cui estremi sono figurati nella tavola. Giova notare che di questa specie comune nel calcare di Odessa, alla Farsica si trovano frammenti che accennano ad esemplari di dimensioni molto maggiori di quelli che hanno servito per le figure sopra indicate. Vi si contano dieci a dodici coste e taluni esemplari offrono una lontana somiglianza col C. decorum, Fuchs. Cardium plicatum, Eichu. Tav. VIII. fig. 19. Eicawarp: Lethaea rossica. Vol. III. pag. 96. Tav. IV. fig. 20. Homwmarre DE Herr: Les Steppes de la Russie. Tav. VI. fig. 6-8. Fra i piccoli cardii della Farsica, questa specie è una delle più ricche di esemplari ed anche per le dimensioni corrisponde alla specie [gi srt el — ceci i 25:35. Pale - — men 592 G. CAPELLINI raccolta in Bessarabia e Dsegwy nell’ Imerezia, come si ricava segna- tamente dai frammenti dei maggiori esemplari. Del resto fatta eccezione della grandezza, gli esemplari si accor- dano con l’ Adacna plicata, Eichw, vivente nel Caspio. (Ercawatp: Fauna Caspio-Caucasia, pag. 224. Tav. XXXIX. fig. 4. Petropoli 1841). Dagli esemplari lunghi mill. 8,5 e larghi mill. 13,5 si scende fino a piccoli individui della lunghezza di mill. 5,5; larghezza mill. 8,5. Cardium carnuntinum, Partsch. var. etrruscum, Cap. Tav. VNI. fig. 20. Hornes e Reuss: Op. cit. pag. 204. Tav. XXX. fig. 2. Ritengo come semplice varietà del C. carnuntinum un cardio frequente alla Farsica e che mentre si accorda con la specie di Partsch ricorda altresì il tipo del C. Gour:effi, Desh. raccolto da De-Verneuil in Crimea. Questa conchiglia di forma subrotonda ha 21-24 coste ap- pena squammose separate da interstizii quasi eguali; ricorda anche la vivente specie del Caspio Didacna crassa, Eichw. (ErcawaLp, Fauna Caspio-Caucasia pag. 218. Tav. XXXIX. fig. 6). Lunghezza mill. 13 — Larghezza mill. 14 Cardium papillosum , Poli. Tav. VIII. fig. 21 Por: Testacea utriusque Siciliae. Vol. I. Tav. 16. fig. 2-4. Hornes e Reuss: Op. cit. Vol. II. Bivalven pag. 191. Tav. XXX. fig. 8. Sin. C. hispidum Eichw. (EicawaLp: Lethaea rossica. Vol. III. pag. 94. Tav. IV. fig. 21). Riferisco a questa specie numerosi esemplari di un piccolo cardio che per la forma ricorda il C. papillosum, Poli, il C. carnuntinum, Partsch e direi anche un poco il C. obsoletum, Eichw. Per il numero delle coste 22-24 corrisponde benissimo alla specie di Poli che Reuss ha identificato col C. Rispidum, Eichw.; benchè la figura data nella Lethaea rossica sia ben diversa da quella dell’ Opera sui molluschi fossili del Bacino di Vienna. Tenendo conto di tutte le piccole variazioni, comprese le dimen- sioni degli esemplari adulti e le traccie degli ornamenti (piccole pa- pille tubercolose) che si scorgono in taluni esemplari, credo conve- niente non solo di non farne una specie nuova, ma neppure una varietà. Lunghezza mill. 7. Larghezza mill. 8. n n» di » » 9. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 593 PARTE TERZA CONCLUSEONE Dagli studi stratigrafici e palentologici sul terreno miocenico dei dintorni di Castellina marittima ed in particolare sulla formazione gessosa delle Valli del Marmolaio e della Pescera, ne derivano logi- camente le seguenti considerazioni sulla topografia, fauna, flora, clima- tologia, e sulle oscillazioni del suolo ed altri fenomeni geologici che durante il periodo miocenico si verificarono nella regione delimitata fin da principio. Verso la metà del periodo miocenico, allorchè una gran parte dell’ Europa meridionale era ancora sommersa e le acque del Medi- terraneo passando per la valle attuale del Rodano penetravano nella vallata Svizzera che si stende fra le Alpi e il Giura e di là stenden- dosi per la Baviera e l’ Austria si univano a quelle del Mar Nero e del Caspio; le Alpi, l Apennino, i Carpazi, i Balcani, il Caucaso, costi- tuivano grandi isole di forma stranissima, prevalentemente allungate, e dirette da nord-ovest a sud-est. Fra queste isole maggiori, altre moltissime ve ne avevano variamente importanti per grandezza, po- sizione e geologica costituzione; e mentre in quest’ arcipelago si de- positavano le molasse e i conglomerati con fossili marini, nelle lagu- ne littorali si formavano depositi di acqua dolce e salmastra e si ammassava una quantità di avanzi organici vegetali dai quali ne de- rivarono potenti strati di lignite. L’ Adriatico avanzandosi fino al piede delle Alpi e occupando tutta la gran vallata del Po ossia la maggior parte delle attuali pro- vincie dell’ Emilia, del Veneto, della Lombardia e del Piemonte, co- municava col Mediterraneo verso nord-ovest mediante uno stretto che doveva trovarsi fra Savona e Genova e più precisamente ove sono oggi i depositi miocenici di Stella e Santa Giustina. TOMO IV. 15 594 G. CAPELLINI L’ isola principale apenninica era circondata da isolette minori poste specialmente ad occidente di essa; talune, costituite da roccie abbastanza antiche, avanzi di un Continente o di isole di maggiore importanza state potentemente denudate durante il periodo eocenico e subissate in occasione della emersione principale dell’ isola apenninica alla fine di quello stesso periodo, altre invece formate in gran parte da roccie del cretaceo superiore e dell’ eocene e per conseguenza con- temporanee dell’isola apenninica o poco più recenti di essa. La Toscana, costituita per piccola porzione della riva occidentale dell’ isola apenninica era allora rappresentata da parecchie delle isole minori che ho or ora accennate, e per tacere di alcune di importanza affatto secondaria, basterà ricordare le seguenti: Monte Pisano, Monti Livornesi, Monti di Castellina, Monte Catini, Montajone, Campigliese, Massetano, Senese, Gavorrano, Montalcino, Amiatese, le isole Cetonesi, l' Elba, l’ Uccellina, 1° Argentaro, l’ isola Orbetellese. (Vedi Tav. IX.). Tre di queste isole e precisamente quella dei Monti Livornesi, l’altra dei Monti di Castellina e la terza che comprende Miemo e Monte Catini, si trovano nella regione presa in esame e, dalla loro geologica costituzione, si ricava che erano tutte sorte contemporanea- mente all’ isola principale apenninica. Queste isole che dal momento della prima loro emersione, avve- nuta verso la fine del periodo eocenico, avevano continuato a solle- varsi lentamente e progressivamente nei primi tempi del periodo mio- cenico (corrispondenti al miocene inferiore, Tongriano e Aquitaniano di Mayer); verso la metà di quel periodo, ossia allorchè cominciavano a costituirsi i depositi che sono riferiti alla base del Magonziano, tor- navano ad abbassarsi gradatamente, partecipando al movimento che interessava tutta l’ Europa meridionale e centrale. I laghi nei quali durante il miocene inferiore si erano formati i primi depositi di acqua dolce, e le lagune nelle quali si era accumu- lata quella sterminata copia di avanzi vegetali che oggi troviamo tra- sformati in ligniti, presto furono di bel nuovo invasi dalle acque salse. Alle formazioni lacustri e di estuario, nelle quali erano rimasti sepolti gli ossami degli antracoterii, dei majali, degli anficioni, delle lontre, delle grandi trionici e di tanti altri animali che vivevano negli stagni di acqua dolce od erano frequenti in quei dintorni, venivano a sovrapporsi i conglomerati ofiolitici, calcareo-ofiolitici o poligenici a se- conda della natura e provenienza dei materiali che concorrevano alla loro formazione. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 595 I depositi miocenici più antichi riscontrati nella regione più volte citata, ossia i depositi con ligniti della valle della Sterza di Lajatico, ci attestano il passaggio dalla fase di sollevamento a quella di abbas- samento, vale a dire i primordi della formazione magonziana. Si trat- tava di una laguna costituitasi fra le due isole che oggi formano i Monti di Miemo e quelli di Castellina marittima e Monte Vaso, in essa sì era sviluppata la fauna di acqua dolce rappresentata special- mente da molluschi dei generi Littorinella, Melanopsis, Neritina, Con- geria, Pisidium ; e le zattere di vegetali provenienti dalle foreste che ricoprivano le vicine terre si univano alla ricca vegetazione palustre, e formavano le masse torbose che si trasformarono nelle ligniti che troviamo intercalate fra le sabbie e le argille nelle quali restavano sepolte le foglie e le conchiglie dei molluschi ora ricordati. Ma poichè il movimento di abbassamento stava per cominciare (se non era già cominciato ) quando si formavano quei primi depositi di acqua dolce, così li troviamo di piccola potenza relativamente a quelli che altrove si erano costituiti in precedenza, cioè allorchè continuava il movimen- to di sollevamento. Il movimento di abbassamento dell’ Europa meridionale e centrale dovette essere accompagnato da grandi burrasche di terra e di mare, come ho altra volta accennato, e a queste attribuisco in gran parte la prevalenza dei conglomerati nei depositi marini e lacustri di quel- l’ epoca. Dire precisamente se i più profondi conglomerati della valle della Sterza, siensi depositati in acque dolci, salmastre, o marine, riesce impos- sibili mancando in essi avanzi organici caratteristici; ma è assai vero- simile che gli strati superiori, i quali hanno rapporto con quelli di Santo al Poggio, sieno stati essi pure depositati nel mare, essendo allora quella valle già sufficientemente abbassata perchè il mare vi potesse penetrare per quella stessa via per la quale vi fece in parte ritorno alla fine del periodo miocenico. Neppure ci è dato sapere se, mentre l’attuale valle della Sterza era una laguna in fondo a un golfo o ad una specie di stagno in cui mettevano foce i fiumiciattoli delle vicine isole, altrettanto sia stata la porzione centrale delle valli della Fine e del Salvolano. Le roccie mioceniche più antiche che affiorano lungo le sponde delle antiche isole che la rinserrano, ci si rivelano come de- positi marini riferibili in gran parte all’ E/veziano e corrispondenti al piano mediterraneo del Bacino di Vienna. 596 G. CAPELLINI Di questi depositi marini del miocene medio, fra le due isole principali, Monti Livornesi e Monti di Castellina, si costituì una serie completa e ordinata, come non è facile di trovare altrove; e questa serie che comincia alla base con conglomerati e termina superiormente con calcari grossolani, sabbiosi e marnosi, ci rivela che il movimento di abbassamento andò progredendo in questa parte della Toscana come nel rimanente dell’ Europa centrale e meridionale. Ma se si riflette che nella Valle della Sterza manca tutta la serie delle panchine, banchi di ostriche e calcari grossolani, si ha ragione di ritenere che, mentre la porzione meridionale e occidentale dell’ isola Castellinese continuava ad abbassarsi, la porzione più settentrionale e orientale subiva invece un movimento inverso. E parimenti se confrontiamo la natura dei depositi miocenici marini che oggi fanno parte dei Monti di Livorno e di Castellina, e ne consideriamo la relativa posizione, dobbiamo ri- tenere che quantunque le due isole fossero assai vicine l'una all’ altra, ciononostante andarono soggette a movimenti ineguali che si verifica- rono anche in tempi diversi. Il movimento di sollevamento che per la valle della Sterza era cominciato allorchè nelle vallate del Salvolano, della Fine e del Mar- molaio stava per cessare la formazione dei conglomerati, si manifestò in queste ultime località dopo che si erano costituite le panchine, i banchi di Ostrea cochlear e i calcari grossolani e marnosi. A questo movimento parteciparono e forse principalmente contribuirono (almeno per gli ultimi resultamenti) le masse serpentinose; e questa volta le ineguaglianze di intensità su punti diversi, diedero luogo a grandi spostamenti pei quali i depositi marini miocenici si trovarono alfine emersi e portati ad altezze diverse, e in qualche caso costituirono vere balze lungo i mutati confini del mare miocenico o sui fianchi delle nuove lagune. Questo sollevamento, accompagnato da grandi fratture con spo- stamento sovratutto verso i limiti delle masse serpentinose con le altre roccie metamorfiche e sedimentarie più antiche, ebbe per conseguenza la apparizione di innumerevoli sorgenti calcarifere e solforose le quali, fattasi strada attraverso quelle rotture, si sprigionarono nelle lagune littorali che presto si trasformarono in veri laghi selenitosi nei quali sì depositarono i famosi gessi con le concentrazioni sferoidali alaba- strine. Come è facile di immaginare, i primi strati di gesso costituitisi LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 597 in quei laghi devono avere per base roccie diverse a seconda della natura diversa del fondo dei laghi medesimi; in generale riposano sopra i conglomerati, ma talvolta il gesso si avanzò fino sulla roccia serpenti- nosa e in qualche raro caso mi è sembrato che alcuni lembi di gesso si sovrappongano allo strato di ostriche e con esse si impastino (1). Mentre questi fenomeni si verificavano nei laghi e intorno alle isole apenniniche mediterranee, altrettanto accadeva lungo le rive adriati- che sotto latitudini presso a poco corrispondenti a quelle della regione toscana della quale si tratta; cioè nel Bolognese, Cesenate, Forlivese (2), Anconitano, ed anche più al mezzogiorno, come lo attestano le marne gessose della formazione solfurea di Sicilia. Nè ciò avveniva soltanto in Italia, che anzi troppo lungo sarebbe accennare appena le principali regioni di Europa ove si trovano gessi contemporanei di quelli di Ca- stellina marittima, e più difficile ancora il render conto dei depositi di petrolio, zolfo, salgemma, ossidi di ferro che accompagnano quei gessi, sicchè per diversi titoli questa formazione riesce importantissima anche dal punto di vista industriale. Per quanto ammiri i lodevoli tentativi che sono stati fatti per spiegare la vera origine di quei prodotti diversi, pure confesso che avendo studiato buon numero di quei depositi non sono convinto che finora si abbia colto nel segno. Si tratta di quistioni ardue e dilicatissime che a mio avviso si po- tranno risolvere soltanto associando 1’ opera dei geologi con quella dei chimici e dei mineralogisti; bisogna convincersi che l’ era degli enciclopedisti è finita e che qui si tratta di una questione complessa. Pei gessi della valle del Marmolaio, e per tutti quelli che con essi hanno rapporti, non solo per la cronologia ma eziandio pel modo di formazione, credo si debba ammettere la concomitanza di sorgenti calcarifere, solforose e ferruginose. Queste sorgenti ebbero un primo periodo di massima attività, scomparvero e si rianimarono a intervalli diversi, presentando, così, ben pronunziato il carattere di intermittenza proprio dei fenomeni vulcanici, delle salse e delle ordinarie sorgenti (1) Da una nota che ho trovato nel mio taccuino del 1856 e che si rife- ferisce alla prima escursione fatta nei dintorni di Castellina, Monte Catini, Monte Cerboli e Volterra, resulta che nella valle della Pescera trovai il gesso sovrapposto e impastato con lo strato di ostriche corrispondente a quello di Santo al Poggio. (2) A Sogliano, nel Forlivese, la formazione gessosa coi suoi fossili carat- teristici è poco sviluppata; ivi però si trova inferiormente il Piano Sarmatiano con ligniti e molluschi fossili ben conservati. 598 G. CAPELLINI termali che si possono benissimo considerare come manifestazioni diverse dalla vulcanicità. Gli strati di gesso più profondi, e per conseguenza i primi che si formarono, sono i più potenti; mentre la grossezza degli strati argillosi che vi sono interposti si può dire che è relativamente piccola. Ma col progredire dal basso in alto si trova che a poco a poco gli strati argillosi e marnosi la vincono sui gessi i quali verso la fine del periodo miocenico, scarsamente rappresentati in mezzo ai potenti depositi marnosi, cessano completamente sul cominciare del pe- riodo pliocenico. Tutto questo ci spiega chiaramente che l’ intermittenza delle sor- genti le quali davano luogo alla formazione degli strati di gesso, dapprima era di non lunga durata, e il loro riattivarsi con bastante sollecitudine può anche renderci conto della mancanza, dapprima, e della scarsezza, in seguito, del resti organici nelle marne interposte agli strati più profondi di gesso. Ma allorchè l’ intermittenza fu suffi- centemente lunga, ciò che si ricava dalla potenza degli strati marnosi, le piante egli animali che non sdegnano le acque selenitose poterono svilupparsi. E poichè anche senza un vero periodo di attività le sor- genti calcarifere e solforose riapparvero talvolta per breve tempo, così troviamo in mezzo alle marne alcuni sottili straterelli di gesso e di calcare e possiamo altresì renderci ragione degli strati zeppi di larve di Libellula e ricchi di ittioliti che attestano spenti d’ un tratto gli animali, pel riapparire improvviso e fugace delle sorgenti solforose. Non è difficile che la marna onde resultano gli strati interposti ai gessi, invece di essere stata tutta quanta trasportata dai corsi di acqua che mettevan foce in quelle lagune, in parte sia stata portata diret- tamente dalle sorgenti stesse, le quali talvolta avrebbero funzionato co- me le ordinarie Salse. Tanto nell’ uno, come nell’altro caso, è certo che il fondo melmoso deve essere stato agitato al riapparire delle sorgenti che esterminavano gli abitatori delle lagune, sicchè è probabile che essi restassero sepolti vivi nel fango quasi altrettanti pompeiani. Nella seconda fase del periodo oeninghiano, al quale si riferisce questa formazione, la lunga intermittenza delle sorgenti solforose, la prevalenza del deposito argilloso, e nel tempo stesso la presenza di una notevole quantità di calcare, permise lo sviluppo di crostacei e molluschi nelle lagune ove per lo, innanzi vivevano i Lebias e le larve di Libellula. Fra i crostacei abbiamo notato i piccoli cyprîs, i quali a poco LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 599 a poco si moltiplicarono così che le loro spoglie contribuirono non poco alla formazione degli strati marnosi di Cerretello, e in mezzo a tante miriadi di pigmei la Pseudothelphusa veramente gigante rispet- to ai primi. Questo superbo abitatore delle lagune mioceniche castel- linesi aveva in quel tempo strettissimi parenti nei laghi svizzeri, av- vegnacchè la Pseudothelphusa, non Grapsus, di Oeningen, anche se- condo il parere del valente carcinologo Alfonso Milne Edwards è da riternersi identica agli esemplari da me disotterrati nella valle del Marmolaio. Pochi avanzi scheletrici, quasi indecifrabili, mi hanno già assicu- rato che se in quelle lagune i crostacei e i molluschi formavano la massa principale della popolazione che si agitava fra i potamogeti, le naiadopsi, le ninfee e si arrampicava sulle tife e le fragmiti, v’ era- no anche dei grossi pesci; dippiù sono propenso a sospettare che non mancassero i ranocchi e fors’ anco le gigantesche Sieboldie trovate a Oeningen. Mentre per le scoperte paleontologiche fatte ai Casini, alla Maestà e a Cerretello è stato possibile di rifare tutta questa storia delle lagune e dei laghi nei quali si depositavano i gessi, riesce facile altresì di rendersi conto dell’ aspetto delle terre emerse e del clima allora dominante. Foreste di quercie e di aceri simili a quelli che oggi vivono nell’ America settentrionale, insieme ai pini, ai tassodii, ai noci, alle planere, ai pioppi, rivestivano di densa boscaglia le isole mioceniche toscane che non dovevano mancare di vertebrati e certa- mente saranno state popolate da insetti, almeno da quelli che hanno stretti rapporti di esistenza con le piante che già sono state trovate. Salici e ontani ombreggiavano le rive dei laghetti delle valli del Mar- molaio, della Fine e del Salvolano; e, particolarmente in autunno, le foglie di tutte le piante ricordate travolte dai fiumiciattoli che in essi si scaricavano restavano distribuite e pressate fra i sottili strati di marna, come fra le carte di un erbario. Se fossi in grado di rappresentare con parole lo spettacolo delle foreste dell’ America settentrionale come ebbi ad ammirarle nell’ au- tunno del 1863 e come ne sento tuttavia profonda nell’ animo l’ im- pressione della indescrivibile bellezza, potrei azzardare di chiudere la mia narrazione trasportandomi col pensiero in una delle isole che ho descritto, per contemplare la foresta del periodo miocenico in autunno avanzato, quando le foglie delle quercie e degli aceri (come attual- mente in America) macchiate di mille tinte dal rosso cupo al giallo 600 G. CAPELLINI canerino, dovevano offrire tante gradazioni di colori vivaci e tanti contrasti coi verdi monotoni delle conifere. La temperatura media annuale doveva essere fra i 20° e i 21° cent. poichè Heer già ha calcolato che, in quell’ epoca, Guarene in Piemonte godeva di una temperatura media di 20° cent. e Sinigallia, che nel versante adriatico corrisponde approssimativamente alla regione da me presa in esame, doveva avere una media annuale di 21° cent. Questa temperatura media nell’ attualità si riscontra alla Nuova Orleans (Luigiana), a Teneriffa (Is. Canarie), al Cairo (Africa settentrio- nale), a Canton (China meridionale) e poichè la regione più volte citata era allora costituita da isole a contorno assai frastagliato (Vedi Tav. IX) si può ritenere che gli inverni fossero miti e le estati non troppo calde. Analoghe condizioni climatologiche si verificarono in Svizzera durante il miocene inferiore, ivi però nell’ Era oeninghiana la temperatura media annuale non dovette eccedere i 18° cent. ossia la temperatura della quale godeva 1° Italia nel periodo pliocenico e che oggidì troviamo ancora a Messina. Mentre tutto procedeva tranquillamente, e le sorgenti solforose ben di rado tornavano ad avvelenare le acque dei laghetti miocenici, un lento movimento di abbassamento riconduceva il margine delle lagune littorali ad un livello così basso che le acque marine vi pene- travano e le acque dolci si trastormavano in acque salmastre. Prima conseguenza di questo nuovo avvenimento geologico fu la estinzione degli animali e delle piante di acqua dolce, e gli strati superiori delle marne che ho intitolate marne a cypris attestano che quei piccoli crostacei furono rapidamente esterminati. Una nuova fauna caratteristica delle acque salmastre presto tornò a popolare le lagune nelle quali a quando a quando le sorgenti cal- carifere, solforose, e ierruginose, davano origine ai sottili straterelli scontinui dei gessi che ho chiamato carnicini. Il lento movimento di abbassamento proseguendo in rapporto col depositarsi delle marne fer- ruginose nel fondo delle lagune per assai tempo queste roccie conti- nuarono ad essere caratterizzate dalle conchiglie dei Cardii e delle Congerie. I Fino dal 1860 avevo accennato l’importanza di questa /auna caspia o di acqua salmastra con la quale termina superiormente la formazione dei gessi e il piano oeninghiano; ma allorchè nel 1864 ebbi la fortuna di scoprire in Valacchia formazioni corrispondenti ‘a LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 601 quelle della Farsica in Toscana, e mi persuasi che potevano identifi- carsi con i depositi di Kertsch e Taman, non esitai a dichiarare che nei cardi di Crimea illustrati da Deshayes e in quelli da me raccolti in Valacchia si riscontravano tutte le forme tipiche dei cardii della Farsica, i quali complessivamente ricordavano la fauna attuale del Caspio (1). Queste considerazioni furono recentemente confermate dalle scoperte fatte in Austria, in Ungheria, nel Banato e nella valle del Rodano ove già sono riconosciuti parecchi depositi che servono vie- meglio a collegare la fauna caspia miocenica scoperta in Toscana con quella di Crimea, della quale prima di ogni altra si ebbe notizia. Quì però è interessante di notare che mentre il movimento di ab- bassamento continuava per l’ Europa meridionale, 1’ Europa centrale andava invece soggetta a un movimento inverso; il Giura e le Alpi si sollevavano, il mare aveva abbandonato definitivamente il Bacino di Vienna, sicchè sopra gli strati a Congeria, ossia piano con fauna ca- spia corrispondente a quella della Farsica, più non si formavano de- positi marini, contrariamente a quel che avveniva in Italia. Il periodo miocenico nella nostra regione, e si potrebbe dire quasi ovunque in Toscana e nel resto d’ Italia, terminava con la for- mazione gessosa e gli ultimi gessi carnicini si depositavano prima che il mare tornasse a dilatare notevolmente i suoi confini. Nella valle del Marmolaio sulle marne con fauna caspia vennero immediatamente a depositarsi le argille turchine plioceniche marine, le quali benchè ivi sieno abbastanza povere di resti organici, pure ne racchiudono abbastanza per poterle facilmente caratterizzare. In alcuni luoghi p. e. a Siena si hanno depositi che rivelano fre- quenti e ripetute oscillazioni del suolo alla fine del periodo miocenico e sul principiare del periodo pliocenico, prima che prevalesse il movi- ‘mento di abbassamento; in seguito alla scoperta di avanzi di mammi- feri dei generi Hipparion, Tapirus, Sus, Ippopotamus, Antilope, Cer- vus, nelle ligniti della cava del Casino a pochi chilometri da quella città, non esito ad affermare che dette alternanze, come le analoghe (1) CAPELLINI, Giacimenti petroleiferi di Valacchia e loro rapporti coi terreni terziarii dell’ Italia centrale. Mem. dell’Accad. delle Scienze dell’Isti- tuto di Bologna. Serie II. Tomo. VII. Bologna 1868. TOMO IV. 76 602 G. CAPELLINI del Tortonese, corrispondano complessivamente al Piano di Belvedere dei geologi austriaci (1). Durante il periodo pliocenico la temperatura media essendosi ab- bassata di circa 3° cent. ne conseguì una sensibile modificazione spe- cialmente nella flora; il movimento di abbassamento continuando per tutto quel periodo, il mare ricoprì quasi per intero i depositi miocenici lacustri e riguadagnò se non oltrepassò i confini che ebbe allorchè emersero per la prima volta le isole apenniniche. I cambiamenti più notevoli, però, tanto nella flora che nella fauna sì verificarono alla fine dell’ epoca terziaria, quando i depositi marini pliocenici formatisi fra le diverse isole emergevano ed erano portati perfino a 540 metri sul livello del mare (2); 1’ Italia apparve allora, per la prima volta, con la sua forma caratteristica essendo la maggior parte delle sparse isole collegate insieme in una sola penisola, il cui contorno era però tuttavia alquanto diverso da quel che ci si presenta nell’ attualità. Questo movimento che dava luogo alla emersione di vaste porzioni del fondo del mare pliocenico non si verificava ovunque eguale per intensità ed era anche accompagnato da movimento inverso, di abbas- samento, per alcune terre già emerse da antica data e vicinissime a quelle che si sollevavano. Il Prof. Savi in uno dei suoi preziosi lavori ha fatto conoscere qual larga parte abbiano avuto questi movimenti nella configurazione attuale della Toscana, ed ha spiegato la mancanza di depositi plioce- nici intorno al Monte pisano, mediante il notevole sprofondamento che quell’ isola dovette subire influenzata dal movimento di abbassamento alla fine dell’ epoca terziaria (3). (1) L’Attica la quale durante il periodo miocenico doveva essere un vasto continente unito all’ Asia, pobabilmente in quell’ epoca subì essa pure quel notevole abbassamento pel quale le sole catene montuose rimasero emerse in forma di isole e fu esterminata la ricca fauna di mammiferi che popolavano quel continente e dei quali si trovarono ricchi depositi di ossami a Pikermi e e in diversi altri luoghi alle falde del Pentelico. (2) A Rocca a Sillano il Prof. Meneghini trovò l argilla turchina plioce- nica sopra la panchina miocenica a 540 m. sul livello del mare. — V. SAVI PaAoLO, Deî movimenti avvenuti dopo la deposizione del terreno pliocenico nel suolo della Toscana, ai quali sembra debbasi attribuire l attuale con- figurazione della sua superficie. Nuovo Cimento Tom. XVII. Pisa 1863. (3) SAVI PaoLo, Deî movimenti avvenuti dopo la deposizione del terreno pliocenico ecc. Pisa 1863. LA FORMAZIONE GESSOSA DI CASTELLINA MARITTIMA 603 Benchè in seguito a nuove osservazioni le vedute dell’ illustre geologo non si possano integralmente sostenere (1), parmi però che si debba tuttavia ammettere che il Monte Pisano non partecipò allo stesso movimento che sollevava le isole apenniniche e poichè non du- bito che altrettanto debba essere avvenuto per le Alpi Apuane e i Monti della Spezia, giudico che sarebbe importantissimo di indagare come vi fossero interessate le Alpi e tante altre catene montuose, e qual nesso vi possa essere stato fra questi movimenti e lo sprofonda- mento dell’ Atlantide, la quale sembra cominciasse a sommergersi a sud-ovest precisamente alla fine dell’epoca terziaria (2). Attratto dalla importanza dell’ argomento, quasi senza accorger- mene ho spinto le mie ricerche oltre i confini della regione e del periodo geologico di cui mi ero prefisso di farvi la storia; ma qui faccio punto, e dopo avere risuscitato i pesci, i crostacei, gl’ insetti, i molluschi sepolti nelle marne della Maestà, di Cerretello e della Farsica, e dopo avervi presentato un primo saggio della flora delle antiche foreste mioceniehe mi auguro un’ altra occasione per rifare più convenientemente e completamente la Storia dell’ Epoca terziaria in Italia. (1) DE STEFANI, Sul!’ asse orografico della Catena metallifera. Nuovo Cimento. Serie 2. Vol. X. Pisa 1873. (2) HrER, Veber das Klima und die Vegetationsverhalinisse des Tertiàr- landes. Flora tertiaria Helvetiae. B. III. Winterthur 1859. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA VII. Fig. 1. a a' dito — d d' piede o mano — c avambraccio o gamba — d coscia o braccio — e trocantere — f spalla o anca = 9g sterno — g' addome — h antenne. Fig. 2. a regione stomacale — d regione genitale — c regione cardiaca — d regione intestinale — e regione epatica — f, /' regione branchiale — g fronte — ” margine sopraciliare — è, ?' orbite. EI _— N N LA NueK 9 I eubo]og Me TI ato, ® s Ò 4 9 & È OSS 8 3 8 3 SI 2 ES d 2 SÌ (SÌ 8 8 È s_° SS prova LIL > d.( G cere METE (o) e Ù) ell Serra d eccione trarne G (e 7 vo VOI 6 / 007 (d' ofozo mamo Miuco (>) Poggio di Sugpe i SI cai [a v NN Ù) te) pqomnox bo D e 4 OMVYTWO ranca, Yoo HOVIYV x de fi 076. CRNAMO ti (e) {VPOLIM 29 MOI 9 GONO FESTE LE MEDIO AA ] AB] VW LIeur but]oIst) N esossob auorzeuzo,]- Iupode 99) oStp_ TUTE "i IE 500 TI?PI 0 0MOW è E e 0 deo \ IRR PODO MO) 1900 Ù 9 d 2 “O I 4h teo) ra là = PA 19) x VV UTO =: / ’ UA RAALSA CE) 100 Mod fi =) 6 È EA Fer 2p 111090 Hfagpb A) | : N ‘0 Ù ° CIS ‘WON i *. ni v Mem. Ser 3. Tom IV. G Capellini - Formazione gessosa di Castellina marittima, Tav. IL ye. ———<—=©—ÈÉ 1 i E | | | | i | e. O. Nammm Lit° DEL Foresti dis Bologna Lit. G-Wenk | : r Ro va ‘ O mi oa 5 5 i Ca 7 | 1-3. Potamogeton geniculatus. 4-7. Pinus Saturni. 6, t'hragmites oerangensis. Mem Ser.3 Tom IV. 6. Capellini- Formazione gessosa di Castellina marittima. Tav IL 4 rr! f (AG x | Tr ii | n O Nannini lit. D' L-Foresti dis* Bologna Lit. G Wenk hi 1 Najadopsis dichotoma. 2. Populus mutablis 3-4 Salix angusta. 5-6 Almus nostratum. VA G.Capellini- Formazione gessosa di Castellina. marittima. Tav IN Mem Ser. 3, Tom IV. TI kr ZA er A ‘ n TG - TR su psi I SER x am Zio i À È 1 mere Li Le Er Ul LIU DD tas > N nf) ua | .cno | ES N Sa N Qi 0 Ss > etpi ‘Ripa sui > [ae] = = [— p Mar) bi e Ro I =] RI |) Nea eni n 2 a ras o PS a - fa x dI Se =: > falla [al la ta va ta ® = 3 ES 5 = BARS SE SI At A Hi 5 n u. sE J astellina marittima. Tav. V ti) } 3 Tom.IV. LS Mem Ser. 6. Capellini- Formazione gessosa di ( ' & = Ziealie = 3 Eee > Re ga E: TEteci pp ee “a z È % n 3 èa (a) s & cd SI ra IS == DS RR > a I Gai le iN. l'a dda |a tai i i detti 2: | eco sE | sua® s \ 9 tb La t a 7, > O = SE mod j i DI a ues li ni ca ì EER , Bee VIN «a da 9 MALO fata = Ra (e) ES » re " ” = v b mn cora gle À ea (e NT x pel E a © rta res (AN) 12 I s == | S etti Pi Mega —* si 4 ' 03 i ta hi (cd — i i | fanzi > LI a dd o a DI re uo bd° 3 "ta o = [si SS) So CI Faido fd È a Ss Da [a] mes mi i i a_i I Ha iS da » F Ned ua CN nn N ua SS ENI DD E NT n Not € 4 NIGR=S = > n [—-. cd a a darà ua ©, = (| [= | = QI = da Sa Gea: n s_ b + 5 > fa pel [> — i Sea i = (ORA SI SI è PE = i ip E Ri) SE i = DI a] BEE CERA | IR | [at] E È a ca iu S fan [e A Sire Faina | fi eo Ea i E pl ta [aa Fi melo * LD \ al fia hi eee RR [sb] 6. Gapellini- Formazione gessosa di Castellina marituma Tav. VI " la Di lens. P sodicottere N A4 45. Sapindus faloifolius. rilobabum' vati Bologna. TirGWen 3.5 Acer Heern 4 Acer deci dis dal. LF Ò N È N Lù i S N Nu NE [a l»] SÈ a la x 52 = cs LE Si SE SS jd == E a 8 ESSE vl tr 5 ‘E DER Gi era taxi NI = i) . O; Capellim- Formazione gossosa di Castellina marittima Tav. VI È | | | EL 0.Nansuni hit PI RI Re LIE AE RIA O siii pe SAI T la ( ja? Dilagrina ft rank Li. FOLERIL DOLOGIA, LIL i. Wen Pseudothelphusa speciosa. «\ i di De, | w | Mem. Ser.3. Tom. IV. G. Capellini Formazione gessosa di Castellma mamthma. Tav. VIII Î Î 0.Mannini Hit° T.Foresti dis! Bologna. Lit.G-Wenk. 1-4 Melanopsis Bartolini. 5-6. M.acicularis 1-8 Neritina Crateloupiana. 9. Cardium catillus.10..0. pseudocatillus. 11.0. castellinense 12.0. Nova-Rossicum. 13.0. Nova-Rossicum 2422-44 C. littorale 19-16. 0. Fuchsi 17-18. C. 0dessae, 19.0. plicatum. 20.0. carmuninum. eee ediczezze DI. (i papillosum. <£3 TGEs5kÒ w —___—— _l erre == E re oe — TIE: — “rs TTI = —_—= "= quoMm:9 ar] eubopog i Ul DIIuUENT 0 nz Ù; si TI DI | da, TIMUUET) utt I & TR 0Tequa$ î DI Se ® «St À { gere 5) eIgide) # GL (RR i da ‘GKOMTOgo er000%. E ola TALI ootozogjed a serm'asemid I, gg | (090€I8I9 8 001URI08 URLO], fi È 9° Lisi = 55 ge SO Cupegrs 926 A magptog 5 PE Pe x 3 ——=xÉ o9IussoT .0poned ou TIVALNAO-VITVII 1 ci \Î WO], ‘9 J0S TIA 2 INTORNO AL DANNO ARRECATO ALLA CANEPA, ALLA ZEA, Al FAGGIOLI BCC, DALLA LARVA DELL'AGROTIS SUFFUSA ocusy. VAR. PEPOLI BERTOL. NEP. NELLE TERRE INONDATE DEL COMUNE DI BONDENO, NELLA PRIMAVERA 1878 MEMORIA DEL PROF. ANTONIO BERTOLONI (Letta nella Sessione 22 Gennaio 1874 } eci giorno l’ agricoltura fa continui progressi, e per l’ introdu- zione di nuovi e perfezionati attrezzi, e per migliori sistemi di la- vorazione delle terre, e per la preparazione e composizione di nuovi concimi, e per l’ accuratezza che si adopera dai proprietari più at- tenti non solo nei lavori dei terreni e nelle sistemazioni di essi, ma ben anche nelle semine, nelle sarchiature e nel complesso delle coltivazioni; ma nel bel mentre che tutto ciò si fa per migliorare le condizioni del nostro bel paese, vediamo molte volte che la natura è contraria agli sforzi degli operosi cultori di questa scienza-arte nutrice del genere animato, perchè non solo le condizioni climateriche sono cangiate od almeno rese siravaganti e per le prolungate siccità e per l'eccessiva acqua pluviale, ma sempre e può dirsi ogni giorno si scuo- prono nuovi malanni nemici della vegetazione e dello sviluppo delle pianti utili. Io certamente non istarò a far qui la storia nè del paras- sitismo vegetale nè degli insetti altravolta dannosi ai coltivati perchè già sono conosciuti e studiati, ma bensì intendo tenervi parola, o Acca- demici prestantissimi, di un nuovo flagello surto nel Comune di Bon- deno la primavera ultima scorsa nei terreni che soffersero l’ inonda- zione, come se questa non fosse stata sufficiente per depauperare quei proprietari, i quali appena vedevano scomparire l’ acqua dalle 606 ANTONIO BERTOLONI loro terre si davano premura di farle lavorare onde coltivarle la mag- gior parte a canepa ed a formentone disperando di ottenere troppo scarso prodotto dal grano marzuolo seminato in Aprile; e quando le due piante sopradette cominciavano a mostrare rigoglioso sviluppo, cioè fra la fine di Aprile ed i primi di Maggio fu notato da esperto osservatore, qual’ è il Marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, Senatore del Regno, che le canape si facevano rade e che le piante di formen- tone scomparivano dalle file. Egli ne volle subito conoscere la cagione, per cui fece guardare all’ intorno dove mancavano le piante cosa fosse accaduto e si rinvennero dei bruchi che ordinò venissero con sollecitu- dine raccolti mandandomene parecchi a nome della Giunta Comunale di Bondeno affinchè li studiassi e proponessi un rimedio, e nello stesso tempo avvisava di questo nuovo disastro, tanto era grave, il Ministro d’ Agricoltura, Industria e Commercio, il quale come molto probabil- mente avrete letto nei giornali, inviò il Comm. Adolfo Targioni Tozzetti per constatarne i danni; fu allora che assieme al Targioni andai io pure e per vedere coi miei propri occhi il malanno e per raccogliere un numero maggiore d’ individui sembrandomi d’ aver traveduto si trat- tasse di una novità scientifica. Il Targioni propose un emendamento che fu pure pubblicato nei giornali ed inserito nella relazione da me fatta alla Giunta di Bondeno e nella quale mi riserbavo la descri- zione della larva, della crisalide e della farfalla per presentarla a Voi o Accademici ed avere il piacere e nello stesso tempo l’ onore d’ intrattenervi con un soggetto interessante e che fin ora ch'io mi sappia sotto il rapporto agricolo e per molta parte ancora scientifico non studiato e descritto. Appena fatti 1 primi studi annunziavo nella Gazzetta dell’ Emilia del 18 Giugno 1873 N.° 169, che la specie di detto animale era molto vicina all’ Agrotis signifera Ochsm; ma presentava delle varia- riazioni nelle disposizioni dei segni oscuri del disopra delle ali ante- riori ed allora l'avrei giudicata una varietà della stessa specie, che stava di mezzo sì sarebbe detto all’ Agrotis signifera ed all’ Agrotis sagittifera e proposi da chi primo si occupò del danno che arrecava il bruco, chiamarla Agrotis Pepoli. Oggi dopo ulteriori e scrupolosi esami e diligenti confronti colla descrizione e figura che ne dà il Duponchel, mi sono persuaso che sia assolutamente una varietà del- la località di nascita dell’ Agrotis suffusa Ochsm. L’ appartenere poi la mia varietà all’ A. suffusa accresce l’ im- DELL’ AGROTIS SUFFUSA 607 portanza di questo lavoro essendochè mi risulta dalle indagini fatte e sull’ Engramel e sul Duponchel che il bruco descritto e figurato nel primo autore non ha nulla a che fare con quello da me raccolto a centinaia e fatto metamorfosare entro le mie camere, e mentre sono sicuro che il bruco da me studiato è quello dell’ A. suffusa sono an- che costretto ad ammettere che il Duponchel riferendo questa specie all’ Epineuse dell’ Engramel è caduto in grande errore credendo il bruco descritto e figurato nella Planche CCXLV. fig. n. 362 @,0,c,d,e, f appartenere alla detta specie mentre ha caratteri tutto affatto dif- ferenti. La mia lunga dubitazione nello stabilire la specie di quest’ ani- male dipese dagli errori degli autori e principalmente del Duponchel di non aver coltivato li bruchi allo stato di schiavitù per ottenere con certezza l’insetto perfetto, per cui stando troppo ai colori e non trovando i rapporti del mio bruco con quello della specie signifera del Dupon- chel, avevo troppo corso mentre dovevo aver più presente il precetto Virgiliano nimium ne crede colori e ciò relativamente all’ insetto perfetto. L’aver poi riconosciuto la mia Agrotis appartenere alla specie suffusa del Duponchel non toglie che si possa considerare e ritenere per una varietà della località di nascita perchè i colori della mia non corrispondono nella loro estensione e limiti a quelli delle figure del Du- ponchel, quindi persisto nel distinguere la mia col nome var. Pepoli. Dopo ciò passo alla descrizione della larva perchè fin ad ora non è stata descritta da alcuno, e per maggior comodo degli agricoltori dò anche la descrizione della crisalide e dell’ insetto perfetto. DESCRIZIONE DELLA LARVA La larva (fig. 1 e 2) è lunga nel massimo suo sviluppo e quan- do progredisce almeno 5 cent., larga 7 a 9 mill. e grossa 4 mill., schiacciata dal disopra al disotto, assottigliata più verso la testa che verso la parte posteriore del corpo, di colore fosco nerastro nel disopra ed un poco più squallido nel disotto; colla testa nera, scagliosa, lucida nel disopra, squallida ed appena fosco-giallognola nel disotto, tutto il bruco è composto di dodici anelli. La testa superiormente è rugosa, divisa come in due lobi gialla- stri interottamente macchiati di nero e fra 1 due lobi anteriormente evvi un disco giallo triangolare, la di cui base è verso il labbro su- 608 ANTONIO BERTOLONI periore ed è limitato lateralmente dai detti lobi macchiati di nero, il labbro è giallastro coi palpi labbiali fatti di due articoli 1’ uno bianco con una macchia nera nell’ apice, l’ altro molto più sottile, trasparente giallognolo, coll’ apice fosco; i laterali del labbro superiore come pure le mandibole sono nero-lucide; il disotto della testa è bianco-giallo- gnolo semi-trasparente con qualche macchia laterale nera; le mandibole nere sono nell’ apice bifide, assai robuste ed atte a vincere gli ostacoli che l’animale incontra per insinuarsi sotterra durante il giorno e per venire al difuori nella notte per rodere gli steli, le foglie e le radici della canepa, del formentone, dei faggioli, dei pomidori ecc. ecc. Sulle diverse parti della testa sonovi poche setole nere, corte ed assai rade. Tutti gli anelli del corpo osservati colla lente si scorgono finamente sagrinati di scuro e nel disopra ognuno presenta dei maggiori e larghi tubercoli neri, lucidi e poco sporgenti, seriati quelli di un anello con quegli degli altri e sulla parte superiore del corpo si contano quattro serie di questi punti, due sul dorso ed uno per ognuno dei lati, inoltre ha parimente seriati sulla parte superiore del dorso due fila di tuber- coli neri sporgenti e più piccoli dei primi collocati framezzo ai più grandi, ma i tre ultimi anelli mancano dei tubercoli minori. Le stome sono fosche e somiglianti ai tubercoli minori. I primi tre anelli (fig. 1) nel disotto sono guerniti di zampe appuntate e rigide e gli altri di zampe tentacolari, ma sul quarto e quinto i detti tentacoli sono appena indicati, sul sesto, settimo, ottavo, nono molto sviluppati, nel decimo e l’ undecimo mancano affatto, e quello dell’ estremità del corpo che è più piccolo di tutti ne è guer- nito di due ben sviluppati come quelli degli anelli ventrali, e molto serventi alla progressione dell’ animale. Le zampe scagliose sono pal- lide, trasparenti, assai forti, fatte di due articoli, terminati all’ apice in una punta rigida un po’ ricurva, nera ed appena uncinata; queste zampe sono assai adoperate per insinuarsi e penetrare nei pertugi e nelle cavità che incontra e se lo tieni chiuso nella mano colle dita non fortemente serrate ma abbastanza da presentargli una resistenza al suo progredire, esso per nascondersi cerca di vincerla e la vince se tu non stringi le dita per impedirglielo. i I tentacoli ventrali che chiamerò ventose ventrali, per meglio esprimermi, sono pure trasparenti con l’ estremità loro superiore guer- nita di un contorno di righe nere sporgenti e rigide, delle quali sono pure guerniti i due tentacoli dell’ estremità del corpo. DELL’ AGROTIS SUFFUSA 609 Questa larva abita sotterra durante il giorno, e nella notte viene al difuori per portare danni immensi alla canepa ecc. come dissi più sopra e nel corso di più di un mese si trasforma in crisalide scavan- dosi una nicchia (fig. 4) entro la terra alla profondità di 3 o 4 cent. DESCRIZIONE DELLA CRISALIDE La crisalide è lunga un poco più di due cent., larga nella sua maggior grossezza della parte anteriore del corsaletto sette mill., è di forma arrotondata nella estremità anteriore del corpo cioè nella testa e finisce conicamente assottigliandosi nella parte posteriore dell’ addome che anzi l’ ultimo anello osservato colla lente vedesi biforcato in due punte acute (fig. 3). È di colore rosso-giallastro più carico superior- mente che inferiormente e lateralmente dove corrispondono le ali e le zampe ed in questo punto è un poco più pallida, liscia splendente assai, colle stome rotonde e nere e dove corrispondono gli occhi grandi e rotondi sono ricoperti da guscio nero e lucidissimo. Gli anelli del l'addome nell’ articolazione sono di colore più carico del rimanente del corpo e l’ ultimo anello nell’ apice biforcato e quasi nero. Questa crisalide come dissi soggiorna sotterra entro una cavità preparata dal bruco prima della metamorfosi, le pareti di questa cavità sono fatte di sola terra e non vedesi alcun tessuto di sostanza serica, levate dal terreno facilmente si rompono, mentre come ben si capisce sono inoffen- sibili quando il materiale terroso le circonda e non vengono danneg- giate nè dall’ acqua di pioggia nè dal troppo asciuttore. DESCRIZIONE DELLA FARFALLA Allo stato perfetto il maschio (fig. 5) di questa specie dall’ apice della testa all’ estremità posteriore delle ali superiori, che nello stato di quiete tien chiuse l’ una embricata sull’ altra ed orizzontali, è lungo 2 cent. e 3 mill. mentre il corpo dall’ estremità della testa all’ apice dell’ addome è lungo 2 cent. La larghezza delle ali chiuse, nella base è di 7 mill. e le medesime nell’apice, sempre chiuse, addossate l’una all’ altra per circa la metà, misurano un centimetro. Le an- tenne di color fosco sono pettinate per due terzi della lunghezza, co- minciando dalla base. Gli occhi sono neri, arrabescati da striscie più scure rilevate, irregolarmente interrotte; una peluria fosco-pallida un TOMO IV. TL 610 ANTONIO BERTOLONI poco giallognola costituente un triangolo colla base aderente al corsa- letto cuopre la porzione superiore della testa che rimane fra gli occhi e le antenne; altra peluria fitta cuopre il davanti della testa e la bocca compresa fra gli occhi, sporgente all’avanti, divisa in due parti fra le quali inferiormente è nascosta la proboscide; guardata nel di- sopra, coll’ aiuto della lente rappresenta come due pennelli paralleli fra loro, nel disopra e lateralmente di color fosco come le antenne e nella parte interna inferiore più squallida e biancastra come pure si mostra la proboscide. Il corsaletto nel disopra è ricoperto da due zone trasver- sali di squame lepidote, l’ anteriore costituita da due masse semicirco- lari di queste squame che ad un piccolo urto si staccano dalla loro inserzione, l’ altra più grande che termina a modo di peli sfrangiati è più squallida della prima, ma essa pure è divisa in due corpi che uniti a modo di tettoia hanno il loro culmignolo nel centro longi- tudinale della parte anteriore del corsaletto, tutto il resto della faccia superiore del medesimo resta ricoperto da peli fitti diretti dall’ avanti all’ indietro ed un poco più foschi di quelli che cuoprono il disopra dell'addome. Il disotto del corsaletto è tutto ricoperto da peluria LI biancastra come è il disotto dell’ addome. La peluria del corsaletto della femmina è più fosca di quella del maschio. Questa peluria ri- cuopre l’ inserzione delle ali. Le ali superiori sono fosco-fuliginose un poco più pallide nel ma- schio che nella femmina e colla superficie inferiore più pallida, in ambo i sessi, della superiore. Desse sono nel margine anteriore de- cisamente fosche segnate da sei ad otto punti bianchi, due o tre dei quali più grandi hanno i margini laterali neri; la superficie nel disopra è segnata da due zone trasversali, più fosche, più sfumate e più larghe nella femmina, che anzi la più vicina alla base nel maschio è qualche volta rappresentata da una riga doppia di un sentito zig-zag a con- torni concisi che vedesi distintamente in alcuni individui mentre che nella maggior parte è sfumato e come cancellato; inoltre dal centro della base o inserzione dell’ ala si prolunga una linea sottile nera che nell’ apice è fatta a cruna d’ago, ma la cruna è spesso obliterata dalla espansione dei neri bordi della medesima, e la linea nera nel caso la vedi nell’ apice terminata come in una mazza oblonga che non arriva alla metà della lunghezza dell’ ala ed oltrepassa di poco la zona a zig-zag. Inoltre nella parte anteriore dello spazio squallido che rimane fra le due zone fosche è una macchia ocellata, trasversalmente un poco oblonga, generalmente poco discernibile per causa della larga sfumatura a E, E. I TI © Pe eg Ct, PORTA A, E ELIO PETTO, NE, CI a Air ic DELL’ AGROTIS SUFFUSA 611 fosco-scura del margine dell’ ala dal quale non è molto distante; nella parte anteriore della seconda zona fosca di linee trasversali a zig-zag ma meno discernibile della prima è un’altra macchia ocellata convessa verso la base dell’ ala e profondamente concava verso 1’ apice dell’ ala stessa, dessa ancora dal lato del margine dell’ ala resta come ricoperta dalla larga sfumatura fosca di esso margine ed una macchia o segno triangolare allungato si parte colla sua base dal margine concavo di detta macchia e col suo apice sporge fino al limite della zona fosca, e quasi si congiunge all’ apice di uno dei due segni nero-foschi a forma di picca, che si partano dal margine posteriore dell’ ala e che fanno seguito al zig-zag di segni meno foschi che s’ inoltrano nella parte squallida posta fra la seconda zona ed il margine posteriore nero-fosco dell’ ala stessa, il quale margine termina in una frangia più o meno squallida ed un poco splendente. Le ali inferiori sono bianche, trasparenti nella faccia superiore segnate da nervature fosche ed al margine da un orlo fosco-nerastro più sottile vicino all’ angolo posteriore e che gradatamente si allarga con sfumatura verso l'angolo esterno; una frangia bianco-argentina mette limite al lato esterno delle ale spiegate ed il lato interno è tut- to ricoperto nel disopra da peluria piuttosto lunga, appena fosca, ana- loga molto pel colore e per la lunghezza a quella che cuopre 1’ addome, alla quale restando le ale chiuse rimane a contatto. Il disotto delle ali inferiori è bianco splendente, come raso di seta cioè un poco cangiante; ma vicino al margine anteriore l’ ala spiegata mostra una punteggiatura fosca che è limitata entro le prime tre nervature però più fitta al margine e più scura e sfumata di punti più piccoli nel ‘ lato opposto. Il margine esterno è segnato da una linea sottile nera, oltre la quale la frangia fitta di peli argentini mette termine all’ ala. L’ addome è tutto quanto peloso, nel disopra grigio ma un poco più fosco nell’ estremità inferiore, ed in tutta la superficie inferiore del medesimo; le zampe hanno i femori nel margine superiore nerastri internamente biancastri, le tibie ed i tarsi variegati di bianco e di nero. La femmina (fig. 6) è un poco più grande del maschio, un poco più fosca del medesimo e nella disposizione delle macchie a picca evvi qualche cosa di particolare, come pure la linea nera sottile del mar- gine esterno dell’ ala inferiore nella femmina si presenta molto più larga e sfumata dilatandosi nell’ angolo esterno e così dilatata mostrasi sul margine anteriore. Con un solo individuo non è possibile fare questa descrizione così 612 ANTONIO BERTOLONI completa, perchè spesso le macchie descritte sono assai imperfette, e la tinta nero-fosca che principalmente nella femmina le occulta, mo- stra sempre qualche differenza da un individuo all’ altro. Questa varietà diversifica da quella del Duponchel che è descritta alla pag. 255 del Tom. 5 Nocturnes e rappresentata nella Pl. LXIX. ma di più è diversa dalla variazione dell’ Engramel come dalle supe- riori citazioni. Il danno prodotto da un bruco tanto vorace fu sì grande nei ter- reni del Bondeno e della Stellata Pepoli dopo la sofferta inondazione colla rotta del Po ai Ronchi di Revere, che destò lo spavento in quelle popolazioni e tali furono i reclami che il Ministero d’ Agricoltura, In- dustria e Commercio credette cosa del massimo interesse spedire lo scienziato entomologo che giustamente oggi presiede la Società Ento- mologica Italiana onde poter suggerire i necessari provedimenti. Quando il Chiarissimo Prof. Comm. Adolfo Targioni Tozzetti passò per Bologna per recarsi alla Steliata Pepoli, io avevo già fatto studii intorno al detto animale e ne avevo già riconosciuto il genere, mentre allora non poteva con sicurezza pronunziarmi intorno alla specie lo che feci dopo la nascita di moltissimi individui delle farfalle che mi si meta- morfizzarono in Bologna nel mese di Giugno 1873 nelle scattole piene di terra entro le quali stavano immerse le centinaia di larve ch'io avevo raccolto in detta località. Il Prof. sunnominato suggeriva il provedimento di distruzione dell’ animale consistere nelle zappature ripetute anche più volte nelle terre che n’ erano affette per anichilare i nidi delle larve e crisalidi ed io rimasi persuaso che avrebbero portato non poco vantaggio. Dopo la sua partenza seguitai a studiare i costumi dell’ animale ed ho tra- veduto che ad ottenere una distruzione più estesa e generale del me- desimo prima che passi allo stato perfetto per recarsi altrove a deporre le uova, sarebbe di moltissimo vantaggio, anche più delle dette zap- pature un’ aratura abbastanza profonda che sconvolgesse le zolle di quella terra facilmente disgregabile e con ciò rompere tutte le nicchie delle crisalidi le quali ricevendo anche minime compressioni presto muoiono. Qualcheduno potrebbe credere che fosse utile maggiore rise- minare quei campi devastati per ottenere più presto il prodotto, ma per quegli che tiene allo scopo se non dell’ intera distruzione di una grande diminuzione del flagello, un’ aratura sollecita succeduta da una seminagione parimenti sollecita è ciò che al mio occhio sembra di maggior utilità. Questo non si fece e quei campi rimasti nudi di piante DELL’ AGROTIS SUFFUSA 613 furono riseminati a formentone fino a quattro volte, che se invece si fosse subito rotta la terra coll’ aratro, lo sviluppo delle piante risemi- nate sarebbe stato più sollecito ed i bruchi quasi totalmente distrutti; mentre colle quattro seminagioni successive dovendo aspettare la na- scita, l'accrescimento della pianta fino ad un certo calibro ed il nuovo ripetuto danno prodottovi dalla voracità, quasi un mese di tempo andò perduto, mentre l’ aratro in uno o due giorni colla solerzia dei coloni avrebbe accelerato la seminagione e la nascita della pianta. La quarta semina andò esente quasi del tutto dal danno perchè i bruchi erano passati in crisalide e sebbene la stagione fosse inoltrata per la sud- detta operazione nel 15 Maggio, pure il prodotto riescì favoloso per l’ ab- bondanza e si può accertare che tutte quelle terre che andarono coper- te dall’innondazione diedero una rendita maggiore degli altri anni, per cui mentre l’inondazione fece morire i filari di noce, tutti li frutti e molti altri alberi, produsse il vantaggio della prospera vegetazione delle coltivazioni annuali, quasi direbbesi a modo dell’ innondazione ciel Nilo nel basso Egitto, eccettuate quelle località dove il deposito dell’ acqua era maggiore di un metro, di natura argilloso e che presto si era fortemente indurito. E per accertare meglio tale produzione dirò che il grano marzuolo seminato in Aprile, non essendo stato molestato dai bruchi produsse all’ epoca consueta Corbe 6 bolognesi per tornatura ed il nostrano seminato alla stessa epoca diede presso a poco il me- desimo prodotto, mentre nel Bolognese dove tutto il grano fu semi- nato in autunno il prodotto è stato nell’ anno or finito di Corbe 4, in media per tornatura; la canepa del Bondesano anche maltrattata dai bruchi produsse fra le Libbre 400 o 500 per tornatura mentre quella illesa dal malanno passò le 600 Libbre per tornatura, notando che la semina di quest’ utilissima pianta non fu eseguita che fra i primi ed il quindici di Maggio in terreni per la massima parte appena zappati, e pochissimi erano stati arati o vangati perchè mancava il tempo e con tutto ciò il prodotto uguagliò per lo meno quello delle migliori terre del bolognese che in media spende L. 100 per tornatura per la semplice preparazione e concimazione del terreno; per cui ai due danni x grandissimi suddetti è susseguito il fenomeno meraviglioso di una grande produzione come in simili casi altra volta è avvenuto. Il Targioni primamente e poi io abbiamo traveduto il modo che più convenga alla distruzione o diminuzione dell’ animale, ma la pro- vida natura forse anche meglio di noi ha voluto che un Icneumone sia il nemico distruttore di quest’ animale col deporre le uova sulla 614 ANTONIO BERTOLONI larva danneggiatrice all’ epoca della sua vicina metamorfosi dalle quali nati li bruchi pascendosi della medesima ne hanno procurato la morte quando dessa è pervenuta all’ ultimo sviluppo di sua grandezza e ri- tiratasi entro la nicchia da lei costruita quivi è rimasta la sua spoglia restando entro la nicchia stessa gl’ innumerevoli bozzoletti degli Icneu- moni che hanno l'apparenza di piccoli grani di frumento, per cui i coloni del luogo mi dicevano che l’animale emetteva per escremento dei semi di grano; dai bozzoli suddetti da me raccolti e posti sotto campana di cristallo mi nascevano entro la mia abitazione gl’ Icneu- moni perfetti il 12 Maggio 1873 come potete accertarvi delle prepara- zioni che avete sott’ occhio. Questa, o Accademici distintissimi, è la storia dell’Agrotis suffusa var. Pepoli che non era noto agli entomologi ed agli agricoltori fosse tanto onnivora come abbiamo dimostrato, anzi gli entomologi che hanno descritto la specie la dissero animale non nocivo ed il Dupon- chel riferisce che comparisce in autunno e si trova nei boschi e nei giar- dini, ed il Fabricius dice che vive sul Sonchus arvensis, mentre questa nuova varietà è comunissima e al massimo grado devastante. Anche questa straordinaria riproduzione del nuovo bruco non sembra mai esser stata osservata nelle nostre terre, perchè lamento di agricoltori non si fece sentire, nessun autore ne ha scritto e mai vi fu rinve- nuta perchè non è citata nei Lepidoptera Agri Bononiensis, non si conserva nella collezione della R. Università, inoltre ho consultato l’aureo £ssai sur 0 Entimologie Horticole di Boisduval per conoscere se in Francia sia mai riescita nociva alle coltivazioni, e mentre parla di cinque Agrotis tutte nocive ai coltivati tace assolutamente di questa, di più i succitati autori non indicano la nostra specie per comune e nociva, per cui era da ritenersi fin ad oggi animale rarissimo. Prima però di por termine voglio aggiungere un’ altra considera- zione onde fare conoscere come da un anno all’altro per non dire da una stagione all’ altra la specie anche più comune può farsi raris- sima per cagione del parassitismo, e sotto questo rapporto esistono lavori moderni che lo provano con documenti del fatto, quali sono ad esempio quelli del Cav. Ghigliani di Torino dove fa vedere che una specie noce- volissima in una stagione l’ anno dopo per quanto ne facesse ricerca onde averne un individuo non fu possibile rinvenirlo; la qual cosa è da sperare si ripeta per la mia specie la quale come superiormente dissi ha il suo parassita che in abbondanza raccolsi e che forse impedirà una nuova riproduzione nell’ anno corrente. ‘Mem. Ser.3' Tom.IV. » si A Bertoloni. A Tonosenti dis SEO INDICE Giuseppe Bertoloni. Di una nuova Galla dell’ Eschia, e delle specie da aggiungersi alla Florula dell’ Isola del Tino, nel Golfo della Spezia. Miscellanea Entomo- logica-Fitologica seconda; con 1 tav. . dI. Gian-Antonio Bianconi. Di una antica comunicazione fra il Mediterraneo e l'Atlantico pel Golfo di Guascogna , Francesco Selmi. Ricerca della Solanina nei casi di avvelenamento Idem. Sopra un nuovo processo per Reslreciono HI, co loidi dai visceri, e ricerca della Nicotina, della Brucina, e della Stricnina nei casi di avvelenamento Idem. Osservazioni pratiche pel riconoscimento dell’ Acido Cianidrico nei casì di avvelenamento; con 2 tav. Luigi Bombicci. Descrizione della da generale della Provincia di Bologna . Carlo Soverini. La Vaccinazione publica e v Bidgna del Vajuolo nel Comune di Bologna, dal primo nta 1870, al 30 Giugno 1872; con 10 tav. . Emilio Villari. Ricerche sulle correnti interrotte dl in- vertite studiate nei loro ds. termici ed elettro-dina- mici; con 2 tav. 3 . ian Trinchese. Descrizione lg aloni nuovi Ioli- didei del Porto di Genova Idem. Nuove ricerche sulla struttura del Fusto del ‘4006: tryon Pellucidus ( Ehrenberg ) 615 Rap 3 13 141 157 197 205 616 Francesco Rizzoli. Di un aneurisma arterioso-venoso attraversante la parete del Cranio, costituito da un grosso ramo dell’ arteria occipitale sinistra, e del seno trasverso destro della dura madre, non che di un altro aneurisma, e di 0° pure dell’ arteria occipitale; con I tav. O Gio. Battista Hircoli, cula Dai o diverso modo di vivere, e riprodursi sotto duplice forma d'una stessa specie di animali. Osservazioni fatte sopra al- cuni Nematoelminti; con 2 tav. : Luigi Calori. Di tre Amala del Concili Deir Anatomica. con 2 tav. Giovanni Brugnoli. Sulla cura dell’ Hina. Suoi € Considerazioni Lodovico Foresti. Catalogo du Molluschi sla ico nici delle colline bolognesi; con 1 tav. Ferdinando Verardini. Di una nuova Leva dnticolito e decollatrice; con 1 tav. G. B. Ercolani. Della struttura ati 0 Caduta uterina nei cast di gravidanza extrauterina nella don- na; con 1 tav. Gian Giuseppe Bianconi. dizioni dl in- torno alla brevità del Femore di Aepyornis . 3 Idem. Intorno a due Vertebre di Aepyornis; con 4 tav. . Emilio Villari. Eicerche sulla diversa tensione delle cor- renti elettriche indotte fra circuiti totalmente di rame, od in parte di ferro . Ae Idem. Descrizione di un inversore automatico a mercurio; con 2 tav. G. V. Ciaccio. O diazioni intorno alla siti della congiuntiva umana; con 7 tav. Giovanni Capellini. da formazione gessosa di Castelli na marittima, e è suoi fossili; con 9 tav. Antonio Fao Intorno al danno arrecato alla ca- nepa, alla zea, ai faggioli ecc. dalla larva dell’Agrotis suffusa, Ochsm. var. Pepoli Bertol. Nep. nelle terre inon- date del comune di Bondeno, nella primavera 1873; con 1 tav. . Pag. 209 605 Ù r] À 4 LI La n I ti ID SEDI LI LR DR? 229 PPP PID PED PI P_i PLET DID io E» ded , DE >. s 2 = PZA , DD e DI > ED y ; »D Di È Le > » »; D. DZ cati DI DID III PIPPO» DIP D>_DII PID LIMD_ILIDI? D_D I LRD ID» III PI DITO II? db BIT I DID DIP III dd PIP dd DI di > vd III DD_PIILD DDD DI PIP so 33» ID _DII_DIID > I 335 DIZIPID? DI DID _PIZD > PIII_ID PID ID pd DID DD _ DIP DIP? DI DIO >: II» DD _P>D>_IDI PIIIPPID DI dd DIP ID DI IPA ! ID» _DD_DPD. IZ ZI _»»> +» >> ID Di» >rI> dd di Sa DD DI DID Db Y | I ; \_J Vv VI y v \ \y \ 7 | V y vi w È Jj | Y \/ VI V \ I, HMI \WASAY >>. 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