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ACCADEMIA DELLE SCENZA bELE STEETO DIF BOLOGNA CLASSE DI SCIENZE FISICHE Si RA e RO OAV Fascicoli Primo e Secondo. VESOI >) SA S ES S i DI qu i Ni&iCADENIN #49 623, BOLOGNA TIPOGRAFIA GAMBERINI E PARMEGGIANI 1911 SEITAT an fi pi MEMORIE DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE REReAS toro Mb N BOEOGNA CLASSE DI SCIENZE FISICHE See ROMOLI 1 Up s Ur (ES 0 (@ TS \ SÌ 7 E BOLOGNA TIPOGRAFIA GAMBERINI E PARMEGGIANI Mai SULLA POSSIBILITÀ DI TRASMETTERE LA PELLAGRA ALLA SCIMMIA INICEIRCRIE SPERMA DEL PIvTOITT. GAUNDDO. IEziz©DINAE letta nella Seduta dell’ 11 Dicembre 1910 (CON UNA TAVOLA) Oggetto di queste ricerche furono quattro scimmie che avevano precedentemente servito al Dott. Guyot (1) per alcuni suoi studi sulla emoagglutinazione batterica, e che egli cedè all Istituto nel lasciare il posto di aiuto che prima vi ricopriva. Queste scimmie, in rapporto al grado della loro sensibilità per il virus sperimen- tato, possono dividersi in due gruppi: in un primo gruppo di animali assai recettivi, nei quali l’ esperimento terminò con la morte, ed in un secondo gruppo di animali più resistenti in cui la coltura provata determinò solo la comparsa di fenomeni morbosi transitori. Al primo gruppo appartengono due soggetti che non furono determinati in vita, e nemmeno lo poterono con precisione dopo morte, perchè, chi in mia assenza ne praticò la sezione, dimenticò di conservare la testa. Il secondo, gruppo comprende pure due soggetti che furono determinati gentilmente dal Prof. Ghigi e che appartengono, uno al genere Macacus, ed uno al genere Cercopithecus. Queste scimmie, come è stato detto, avevano servito in precedenza ad alcuni espe- rimenti del Doti. Guyot, ma le prove fatte sopra di esse non erano di tal natura da modificarne profondamente la costituzione e da poter influire in qualche modo su quelle che sugli stessi soggetti furono fatte successivamente e che sono argomento delle presenti ricerche. Infatti i ricordati animali ebbero introdotte per via gastrica o sottocutanea colture di uno speciale b. appartenente al gruppo del coli, ricavato dal sangue, dalle orine e dalle feci di una donna affetta da anemia febbrile, consecutiva ad enterite e cistite ricorrenti; e ciò al fine di vedere se si riescivano a riprodurre nel loro sangue le stesse (1) Guyot — Ueber die bakterielle Himagglutination (Bakterio-Haemoagglutination). CIb. f. Bakt. et, I Abt. Originale. Bd. XLVII. H. 5, 1908. — Policlinico. Vol. XV, M. 1908. A alterazioni discrasiche del soggetto dal quale derivavano, essendosi i globuli rossi della scimmia dimostrati in vitro molto sensibili verso il germe in questione, dal. quale erano rapidamente e fortemente agglutimnati; ma, per quanto si ripetesse più volte la prova, pure si ottennero costantemente risultati negativi e gli animali sopportarono le iniezioni del b. agglutinante senza alterazioni apprezzabili. Nonostante questo, e quasi per eccesso di precauzione, sì lasciò trascorrere qualche mese prima che tali soggetti fossero adibiti a nuovi esperimenti. Le quattro scimmie di cui è parola, erano destinate a ricevere il germe della pellagra per via gastrica mescolato agli alimenti, nei quali il granturco doveva avere il predominio. Era questa la sola maniera di avvicinarsi il più possibile collo esperimento a quello che si ritiene debba avvenire in condizioni naturali. Ma disgraziatamente ciò non potemmo in alcun modo conseguire; perchè gli animali che si trovavano a nestra disposizione, forse per essere da lungo tempo abituati ad una determinata alimentazione, ristretta esclusivamente a pane di grano, latte e frutta fresche, non vollero sapere per nulla del granturco, in qualunque modo fosse condi- zionato, cioè in forma di pane, di focaccia o di polenta. Nè ci aspettavamo davvero questa assoluta resistenza, che la più fine astuzia e la maggiore insistenza non riuscirono mai a vincere, perchè un’altra scimmia (Cynocephalus porcinus), che disgraziatamente non ci era dato in alcun modo di adibire a queste ricerche, sì era mostrata in precedenza molto ghiotta del granturco, e tanto in chicco, quanto utilizzato nelle varie maniere di cui si servono i nostri contadini per la loro alimentazione maidica. Così, per la introduzione nello stomaco del virus che volevamo sperimentare, do- vevamo ricorrere alla sondatura esofagea, con la quale, peraltro, solo di tanto in tanto si poteva far pervenire nel ventricolo una buona quantità di germi specifici, otte- nuta con la sospensione in acqua salata di colture in agar vecchie di 18-24 ore; oppure sì doveva rinunciare a tali prove e sostituire alla via gastrica quella sottocutanea. In ogni caso si aveva l'inconveniente grave di escludere dallo esperimento il granturco, il quale, specialmente nelle infezioni per via gastrica, poteva dispiegare un’ azione molto importante, sia favorendo lo sviluppo del germe come mezzo di nu- trizione più confacente, sia facilitando il suo attecchinamento sullo intestino mercè i disturbi digestivi e le conseguenti alterazioni della mucosa intestinale che esso avrebbe potuto eventualmente provocare. Nella infezione determinata per via sottocutanea, poi, i difetti erano anche maggiori, tanto per la possibilità di un mancato richiamo verso l’ intestino del germe specifico, quanto per la probabilità che tale germe fosse facilmente distrutto nelle vie intermedie. Perciò poteva darsi benissimo che, per esserci allontanati nei nostri esperimenti dalle condizioni naturali nelle quali suole avvenire l’infezione, la dimostrazione della azione patogena sulla scimmia dal germe provato, fosse meno completa, e nei casì di resistenza individuale abbastanza elevata fallisse completamente. Ma, nonostante questi difetti, e per quanto dobbiamo riconoscere che 1 risultati — D — da noi ottenuti non sono completi, pure, in ragione della loro novità ed importanza, ci è sembrato opportuno renderli subito di pubblica ragione; anche perchè possano servire di norma a coloro i quali, disponendo di mezzi assai maggiori dei nostri, sono in grado di dare a tali studi la necessaria estensione. Peraltro, anche così incomplete come sono, nessuno potrà negare | importanza delle presenti ricerche, sia perchè esse rappresentano una conferma di quelle prece- denti sulla cavia, ed una conferma di molto rilievo riguardando un mammifero supe- riore assai più vicino all’ uomo dei roditori, sia perchè nella scimmia .possono con maggior facilità essere rilevati e seguiti i fenomeni della malattia, sia perchè in questo animale più difficili sono gli errori con malattie spontanee che così spesso colpiscono invece i piccoli roditori, specialmente la cavia. A. — PARTE SPERIMENTALE I. GRUPPO DI ESPERIMENTI Comprende gli animali più recettivi che terminarono con la morte. Scimmia I, femmina, del peso di Kg. 2,120; pelame marrone non molto abbondante ; muso prominente, tipo cinocefalo, con pelle rosea priva di peli; callosità alle natiche molte pronunziate ; coda appena più lunga delle coscie ; movimenti non molto agili. 3-V-1908. Iniezione sottocutanea di una intera coltura in agar di 24" ripresa con 1,5 cc. di acqua salata, ottenuta a mezzo della Esp.° 1° dalle deiezioni dello stipite Dall’Olio di cui alla Oss.° I della 2* mia Memoria (1). la coltura in agar era stata innestata da coltura in sangue di 7 giorni ed a quell’ epoca tali innesti erano capaci di uccidere la cavia coì fenomeni noti entro il termine di 40 giorni. 6-V-1908. L'animale presenta gli arti ant. un po’ contratti, dolenti, e non riesce a servirsene per la presa del cibo che deve fare direttamente con la bocca; anche gli arti post. sono ratirappiti, tanto da non poterli convenientemente sollevare dal suolo nel camminare; l appetito si conserva abbastanza buono. Dato peraltro il breve tempo trascorso dalla procurata infezione, si rimane in dubbio sulla natura di questi fenomeni, che si è inclinati a ritenere d’ indole reumatica. Ciò tanto più in quanto i ricordati sintomi furono molto transitori, essendo intiera- mente scomparsi il giorno 12-V-1908 senza lasciare conseguenza alcuna. 12-V-1908. La scimmia è assai fiacca nel treno post., che trascina come fosse paretico e sul quale non sì regge troppo bene; inoltre ha la faccia crespata. vecchieg- giante, la pelle e le mucose molto pallide. (1) Tizzoni — Intorno alla patogenesi ed etiologia della pellagra. — 25002. del Ministero di Agricoltura ece., 1909. ERA 2-VII-1908. Ogni tanto, specie quando comincia a camminare, la scimmia pre- senta contratture dell’ arto post. sinistro, che facilmente riesce a vincere dopo iniziata la deambulazione. Pallore della pelle e delle mucose; fiacchezza generale; peso Kg. 2,070. 1-X-1908. Durante tutta l estate sono rimaste invariate le condizioni dell’animale, che mostrasi sempre fiacco, con forte pallore delle mucose, con faccia vecchieggiante, raggrinzata, e che di tanto in tanto presenta contratture di uno degli arti e zoppica. 9-X-1908. Senza che l’animale avesse presentato in precedenza fenomeni speciali che facessero presupporre un prossimo esito letale, alla mattina di questo giorno si trova morto. La morte avvenne dopo 5 mesi circa, e più precisamente dopo 115 giorni dalla praticata iniezione. Auropsia — Ipostasi polmonare; ispessimento del pericardio che contiene discreta quantità di liquido sieroso. Fegato duro, di colorito giallognolo, qua e là chiazzato a carta geografica, con punticini emorragici disseminati nell’ organo. Milza dura, polposa, friabile al taglio. Pancreas, reni di aspetto normale, Intestino senza lesioni abprezza- bili, ripieno di feci normali, poltacee nel tenue e consistenti nel crasso. Glandole me- seraiche grosse, di colorito bianco-grigiastro, di consistenza media. Organi genito-orinari normali; assenza di emorragie e di altre lesioni nella pelle, nel connettivo sottocutaneo e nei muscoli. Nulla di speciale alle articolazioni; nulla di rilevabile al cervello ed al midollo spinale. Si fanno colture in brodo dal sangue aspirato dal cuore, dal fegato e dalla milza. Dalla milza si sviluppa sollecitamente una ricca coltura formata da elementi al- lungati, a fiamma di candela e lanceolati, disposti a coppie ed a corte catene. Dal fegato si ottiene egualmente una coltura molto ricca, ma gli elementi che la costituiscono hanno in prevalenza la forma rotonda e sono riuniti a coppie; accanto a questi si vede qualche forma gonococcica, che sembra data da elementi molto giovani in via di scissione. Dal sangue si producono solo scarsi elementi allungati, identici per forma e dispo- sizione a quelli della milza. Inoltre, al pari di quanto abbiamo visto avvenire molte volte nella cavia, la sorte delle colture ottenute dal sangue e dagli organi della scimmia in esame fu assai di- versa secondo la loro derivazione. Ed invero, mentre la coltura originale del sangue non era trasportabile in alcun mezzo di nutrizione, quella della milza lo divenne solamente dopo esser passata at- traverso il sangue defibrinato di coniglio, quella del fegato fu subito e direttamente trasportabile in qualunque substrato, tanto in sangue di coniglio quanto in agar ed in brodo. Ed a questo differente comportamento colturale corrispose poi un diverso aspetto della coltura ed un differente modo di aggruppamento del germe. Così la coltura originale della milza, che era più difficilmente trasportabile e che, come abbiamo veduto, dava trapianti positivi sui mezzi ordinari di nutrizione sola- === mente se passata attraverso sangue defibrinato di coniglio, produceva sull’ agar una forma di coltura minutissima, costituita da piccole colonie trasparenti, isolate, mai confluenti, rilevate sulla superficie dell’agar, dello aspetto di gocciolette di rugiada, del tutto simili a quelle che si hanno nelle colture ricavate direttamente dal sangue e dagli organi degli ammalati morti in breve tempo col quadro della pellagra acutis- sima (tifo pellagroso - follia pellagrosa) o dalle deiezioni di forme di pellagra co- mune ma abbastanza gravi. Di più questa coltura, dopo 5-6 passaggi positivi in sangue defibrinato di coniglio, si perse e non fu più trasportabile, come avevamo veduto avve- nire altre volte per colture virulentissime. Invece l’innesto originale dal fegato, che dava direttamente trapianti positivi sull’agar, produceva su questo mezzo di nutrizione colture costituite da colonie con- fluenti, bianchiccie, che formano una patina abbastanza densa, umida, di aspetto mu- coso, a superficie lucente, identiche a quelle che si ottengono da forme lente di pellagra o che subirono forte attenuazione nel loro passaggio attraverso l animale (cavia), e come si osserva anche nelle colture avute direttamente dal granturco. Tali colture poi, a differenza delle precedenti, erano indefinitamente trasportabili. Egualmente cambiavano i caratteri microscopici della coltura secondo la loro provenienza ed il loro aspetto. Così, mentre nelle colture delicate, a goccie di rugiada, come in quelle provenienti dalla milza, si osservano al microscopio coppie di elementi a fiamma di candela e lunghe catene formanti anche dei grossi fiocchi, costituite da germi allungati riuniti due a due, come si riscontra nelle forme acutissime di pellagra che terminano ra- pidamente con la morte, invece nelle colture più appariscenti, patinose, quali quelle ricavate dal fegato, gli elementi hanno prevalentemente la forma rotonda e sono di- sposti a coppie o riuniti in corte catene ed in cumuli, come si verifica nelle colture attenuate od in quelle ottenute da forme lente di pellagra (conf. fig. 1, con fig. 7, 12, 13, 16, 18, 20. Tav. VI e VII della Memoria sulla pellagra precedentemente citata). Dunque in questo caso il germe ricavato dalle deiezioni di un pellagroso (Osser- vazione I, ammalaco Dall’ Olio Mario della Memoria più volte ricordata - Intorno alla patogenesi ed etiologia della pellagra) riescì patogeno per la scimmia, che uccise in 5 mesi circa, e dai cui organi si ricavarono colture perfettamente identiche per caratteri morfologici e batteriologici a quelle ottenute direttamente dall’ uomo. Di più potemmo dimostrare per la scimmia, al pari di quanto era stato osservato per laTcavia, | esi- stenza di tipi batterici diversi in ragione della parte dalla quale la coltura era Stata ricavata. Ma per meglio stabilire il diagnostico della coltura isolata dalla scimmia, stimammo opportuno studiarne anche la sua azione patogena nella cavia; ciò che facemmo coi seguenti esperimenti. Esp. 1° — Cavia di gr. 370. 18-X-1908. Iniezione sottocutanea al dorso di 3[4 di coltura in agar di 24" ripresa ) cor DI =. con acqua salata, proveniente dalla scimmia I ed ottenuta direttamente da un pas- saggio in sangue difibrinato di coniglio della coltura originale in brodo avuta dalla milza; la quale, come è stato detto, era sull’ agar di aspetto delicatissimo e risultava costituita da piccolissime colonie isolate, dell'aspetto di goccioline di rugiada, che al microscopio lasciavano vedere esclusivamente delle coppie lanceolate e delle corte catene. L'animale fu alimentato sempre con semola, fieno ed erba. 18-XI-1908. Meno mobile l arto post. destro; peso 320 er. 20-XI-1908. Forte contrazione dolorosa di tutto il treno post., specie dal lato si- nistro; andatura dell’ animale caratteristica, a salti; peso 300 gr. 23-XI-1908. Morte dell’ animale, avrenuta dopo 36 giorni dalla praticata iniezione. AuropsiaA — Fegato bruno, congesto. Milza un po’ ingrossata e dura al taglio. Reni congesti con segni di nefrite acuta. Capsule surrenali piene di sangue. Glandole meseraiche emorragiche. Intestino tenue con parete assotigliata e con dilatazioni am- pollari ripiene di liquido catarrale misto a gas; piccole chiazze emorragiche nel crasso; cospicue emorragie sottocutanee ed intermuscolari. Riesce positiva la coltura del fegato, ma è inquinata da un b. banale; riesce invece negativa quella del sangue. Dalla milza si sviluppa qualche coppia rotonda, rigonfiata, ma i trapianti di questa coltura, anche se fatti in sangue defibrinato di coniglio, rimangono costantemente sterili. Esp. 2° — Cavia del peso di. gr. 350. 30-X-1908. Iniezione sottocutanea al dorso di 1]2 coltura in agar ripresa con acqua salata, proveniente direttamente dalla coltura originale in brodo avuta dal fegato della scimmia I.; coltura appariscente, patinosa, avente tutti i caratteri delle colture attenuate. Risultato identico a quello dell'esperimento precedente; morte dell’ animale dopo 24 giorni della procurata infezione ; quadro anatomico eguale a quello poco prima riferito. La coltura del sangue rimase sterile; dal fegato nacquero solo poche coppie ro- tonde che presto furono sopraffatte. da una impurità; dalla milza sì ottenne invece con grande ritardo lo sviluppo di una coltura che nell’ innesto originale in brodo s1 pre- sentava sotto forma di fiocchetti pesanti, che nei trapianti in agar appariva delicatissima, sotto forma di goccioline di rugiada, e che aveva tutte le caratteristiche delle colture molto virulente. Ed invero essa, come quella iniettata alla scimmia, era costituita da coppie lanceolate e da catene lunghe, circonvolute. Finalmente mi è parso fosse non del tutto privo d° interesse di esaminare se queste colture passate attraverso il corpo della scimmia, come quelle avute direttamente dall’uomo, resistessero alle alte temperature. In altro lavoro, che presto sarà reso di pubblica ragione, studio la questione in modo più esteso, ed esamino l'influenza che esercita l'alta temperatura sui varii stipiti da me isolati, e tanto su quelli’ ottenuti dalle diverse forme di pellagra, quanto su quelli ricavati dal granturco avariato, e ne confronto i risultati; ma, nell’ attesa di tale pubblicazione, credo opportuno anticipare PRERONI SE: ciò che riguarda il caso in esame, anche per l importanza che ha il reperto batte- riologico ottenuto dai varii organi dell’animale che aveva servito per questa ricerca. l'sp. 3° — Cavia del peso di 240 gr. 22-VII-1909. Iniezione sottocutanea di 1|2 coltura in agar di 18° ripresa con acqua salata, proveniente dal fegato della scimmia I. Questa coltura, prima di essere usata, era stata mantenuta 1|2 ora a 100° a bagno-maria. Inizio der fenomeni morbosi il 16-IX-1910; il 19 successivo il quadro della pel- lagra sperimentale era completo e molto grave; il 20-IX-1910 l’animale muore, dopo trascorsi 60 giorni dalla praticata inoculazione. Alla autopsia si rinvengono le solite alterazioni più volte descritte. Dal sangue preso dal cuore, solo dopo molto tempo (15 giorni) si sviluppano germi specifici, che nei trapianti in agar dànno luogo ad una coltura appariscente, polposa, simile a quella inoculata e costituita in prevalenza da elementi rotondi, riuniti in coppie od in grossi cumuli (fig. 2). Dal fegato si sviluppano coppie lanceolate e corte catene, che presto sono sopra- fatte da una forma di Db. coli. Dalla milza si ottiene una coltura che sull’ agar apparisce molto delicata, a forma di goccie trasparenti, rilevate, simili a goccie di rugiade, data da coppie lanceolate e da catene caratteristiche, circonvolute, ora moniliformi, ora costituite da elementi allungati. Le fig. 3, 4 e 5 ottenute da questa coltura dimostrano la sua identità con quella avuta direttamente dall’ uomo (confronta le figure indicate con le figure 1, 3, 8, }4, 21, Tav. VI e VII della Memoria più volte citata) e provano la sua resistenza alle alte temperature (1[2 ora a 100°). Tali colture poi essendo perfettamente identiche a “quelle ricavate direttamente dalla milza della scimmia di cui è quistione, possono le rispettive figure ottenute dalle prime servire anche per le seconde, che non fu possibile rappresentare colla fo- tografia perchè presto si esaurirono e non furono più trasportabili. Finalmente in questo caso, oltre al diverso aspetto della coltura a seconda della sua provenienza (confr. in proposito la fig. 2, avuta dal sangue, con la fig. 3, 4 e 5 ricavate dalla milza), si ebbe ad osservare il fatto interessantissimo, già notato in altra occa- sione, della graduale trasformazione di un tipo di coltura in un altro. Così le matrici in sangue avute dalla milza, che dapprima davano solo trapianti in agar molto delicati, a forma di goccie di rugiada, più tardi determinarono lo sviluppo di forme miste, cioè costituite per buona parte da colonie minutissime, tra- sparenti, rilevate e da qualche colonia più grossa, simile nell’ aspetto a quelle di al- cuni fermenti, od a quelle della coltura di pellagra attenuata. Scimmia II, maschio di Kg. 2,300; pelame scuro quasi nero, muso prominente, appuntato, coperto di rada peluria molto scura ; callosità meno pronunziate della pre- cedente ; coda della lunghezza delle coscie a un dipresso, movimenti non molto agili. 26-XII-1907. Iniezione sottocutanea al dorso di un’intiera coltura in agar di 19" Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. D SOA ripresa con acqua salata, proveniente dal sangue raccolto in vivo da un caso di follia pellagrosa e conservato sempre in sangue di coniglio senza passarlo mai attraverso la cavia (ammalato Mazzini, Osser. III della 1* Memoria (1)). La coltura iniettata aveva aspetto molto delicato ed era costituita da piccole co- lonie trasparenti, rilevate, simili a goccie di rugiada; al microscopio lasciava vedere qualche coppia lanceolata e molte catene di media lunghezza con disposizione degli elementi a forma di movile o di tenia. Una cavia iniettata sotto la pelle con un 1[3 di coltura in agar identica alla precedente morì in 16 giorni. 12-I1-1908. Si nota che la scimmia presenta incertezza nella deambulazione e che sì siede volontieri; inoltre quando sale è presa da tremore agli arti posteriori; ha anche un po’ di diarrea. Nonostante questi fenomeni lo stato generale si mantiene buono. 20-I-1908. Perdurano i fenomeni ricordati, sempre allo stesso grado a un dipresso; di più quando l’animale prende cibo ha tremore alle mani. La diarrea non è più con- tinua, ma si è faita intermittente, verificandosi ad intervalli di giorni. Peso Kg. 2,520. 27-1-1908. 2* Iniezione sottocutanea al dorso di un’intiera coltura in agar iden- tica alla precedente. Al momento della iniezione l’animale era tornato perfettamente normale. 1-II-1908. Al punto della iniezione si riscontra una infiltrazione discretamente dura, con diffusione lungo i vasi linfatici anteriormente a destra, in direzione della ascella. 6-II-1908. Riassorbita 1’ infiltrazione alla parte. 9-III-1908. L'animale è stato sempre bene. Peso Kg. 2,700. 10-III-1908. 53% Iniezione eguale alla precedente. 12-III-1908. Al punto della iniezione notasi un nodulo d’ infiltrazione della gran- dezza di una nocciola, un po’ dolente. Tale infiltrazione andò gradatamente riducendosi ed il giorno 20 poteva dirsi completamente scomparsa. 24-III-1908. Comincia diarrea mucosa che continua fino al 28 successivo. 29-IV-1908. Notasi che la scimmia ha il treno post. contratto, rigido; le gambe sono flesse con torsione interna dei piedi; l’animale si regge male sugli arti post.., sta volontieri seduto e camminando deve procedere a salti, trasportando in blocco il treno post. contratto, semiflesso; ha il pelo un po’ irsuto, le mucose pallide; 1’ aspetto è triste, corrucciato. Le feci sono poltacee, verdastre. Peso Kg. 2,770. 2-V-1908. La scimmia è triste e si trascina sul treno post.; anche gli arti ant. sono flosci, cascanti, hanno poca forza nella presa. e tremano al minimo lavoro. Il pelo della coda si è diradato e qua e là si osservano vere chiazze alopeciche. Peso Kg. ZA ONIO? (1) Tizzoni e Fasoli — Saggio di ricerche batteriologiche sulla pellagra. —- Memorie della R. Accademia dei Lincei. Anno CCCITI, CI. Scienze fisiche-matematiche. Vol. VI., Sed. del 1° Aprile 1906. 1 CS L'esame del sangue dà il seguente risultato. cl, = 89% = Go = SSDO000 CV IZ I globuii rossi sono pallidi con discreta poichilocitosi. Fra i globuli bianchi si ha la prevalenza dei mononucleati grandi. 6-V-1908. L'animale si è alquanto ristabilito; permane, peraltro, una marcata debolezza del treno post. e difficoltà nella deambulazione; nonostante questo appare assai più gaio e mangia di migliore appetito. 10-V-1908. 4* Iniezione simile alle precedenti 12-V-1908. Nel punto della iniezione si sente una piccola bozza d’ infiltrazione della grandezza di una nocciola e un po’ dolente; infiltrazione che in pochi giornì si riassorbe. Le condizioni generali rimangono invariate. 18-V-1908. Da un paio di giorni la scimmia è divenuta nuovamente triste, lenta nei movimenti e nel camminare quasi trascina il posteriore; aumentato il pallore delle mucose orale e congiuntivali; l’animale ha il pelo brutto, arruffato ed apparisce dimagrato. Peso Kg. 2,500. Queste condizioni durarono più o meno invariate fino alla fine di ottobre. 12-XI-1908. L'animale mangia meno del solito, appare triste, cammina stentata- mente trascinando il treno post. in massa ed a salti; raramente procede muovendo distintamente gli arti post. Coda ad arco; pallidezza delle mucose; aspetto sofferente. PesomiKont2,750. 11-XII-1908. 5% Iniezione sotto la pelle del dorso con 2 colture in agar identiche alle precedenti. Nel punto della iniezione si forma una bozza dura, elastica, dolente, che impiega circa 15 giorni a riassorbirsì completamente. 17-1-1909. La scimmia appare di nuovo sofferente; mangia poco; presenta le mani rattrappite e stenta a prendere il cibo (paresi paretico-spastica); anche il treno post. è flaccido; l’animale cammina a stento, trascinando il corpo a brevi passi ed a piccoli salti. Peso 3,100. 2-II-1909. L'animale si è nuovamente ristabilito. Peraltro presenta sempre una marcata flacidezza degli arti post. 9-VIII-1909. Pelo in alcune parti del corpo diradato, come alla coda; neila regioni dove il pelo è più rado si ha una ricca disquamazione epiteliale in forma di forfora; continua la paralisi spastica del treno ant., per cui l’animale difficilmente riesce a prendere gli alimenti posti alla altezza del muso o poco sopra. i 10-XI-1909. Da qualche tempo la scimmia è diventata di carattere strano; grida senza ragione apprezzabile e gioca macchinalmente abbracciandosi cogli arti ant. il treno post., come prima non faceva mai; è assai meno festosa che per l' addietro; di più ha il posteriore validamente contratto; pure gli arti ant. sono contratti e paretici, per cui l’animale trova difficoltà, tanto a portarsi il cibo alla bocca, quanto a salire. 12-XI-1909. La scimmia, che in due giorni precedenti si era alquanto rimessa dai disturbi paretico-spastici del treno posteriore, è di nuovo peggiorata; presenta gli arti post. ratratti, flessi, e li trascina malamente, in blocco, l’ uno attaccato al- Sne pi l’altro e senza articolarli; si muove malvolontieri e grida senza ragione; non appetisce il cibo e mangia poco rifiutando anche la frutta di cui in passato era stata sempre ghiotta. 14-XI-1909. L’ animale va sempre più peggiorando, tanto da essere per la forte contrattura come raggomitolato su se stesso; più che un grido ha come un lamento continuo; tirato fuori dalla gabbia grida debolmente e rimane abbandonato sul pavi- mento senza nemmeno tentare di rialzarsi; la facies dimostrasi stupidita e sofferente; rifiuta il cibo; la contrazione del treno post. ha raggiunto tal grado da costringere l’animale a trascinarlo in massa e con molto stento; anche gli arti ant. sono rigidi e servono male; finalmente si ha un visibile dimagrimento. La temperatura rettale raggiunge alla sera i 39°2 - 39°4; al mattino è appena 38°. 16-XI-1909. Al mattino la scimmia sì trova morta, dopo quasi due anni dall'inizio dello esperimento; si giudica che la morte sia avvenuta nelle prime ore del mattino, essendo al momento della visita ancora calda e senza rigidità. AuTroPSsIAa — Cute assottigliata, pelo diradato; qua e là si notano alla superficie del corpo vere chiazze alopeciche; nessuna alterazione apprezzabile nel connetttvo sot- tocutaneo e nei muscoli; stato generale di nutrizione deperito; cuore grosso, ventri- colo sinistro contratto, atrii dilatati; poco liquido citrino nel pericardio; normali le valvole e gli osti cardiaci; normali l’aorta ed i grossi vasi; sistema venoso turgido di sangue, Polmoni sani. Fegato cianotico con chiazze giallastre disseminate qua e la alla superficie deli’ organo; al taglio presenta resistenza notevole e stride al coltello; la superficie del taglio lascia fluire molto sangue; raschiato il quale sì scorge la stessa chiazzatura notata alla superficie esterna; le zone giallastre però non sono de- limitate nettamente, ma vanno sfumando alla periferia. Vescica biliare contenente poca bile col caratteri normali. Milza piuttosto grossa, bruna e dura; al taglio presenta le trabecole evidenti; polpa poco ricca e corpuscoli di Malpighi poco appariscenti. Glandole meseraiche di grandezza e aspetto presso a poco normale. Intestino: l’ultima porzione del tenue si presenta notevolmente assottigliata con qualche dilatazione ampolliforme a contenuto liquido, mucoso. I follicoli linfatici e le placche del Peyer soio ben pronunciati, grigiastri e apparenti anche alla superficie peritoneale dell’ intestino; il contenuto di tutto l'intestino tenue è fiuido, giallastro e ricco di muco; qua e là sulia mucosa intestinale si notano delle chiazze emorragiche di colore tendente: allo ardesiaco. L’intestino crasso non presenta alterazioni apprez- zabili. Nulla di anormale nella vescica la quale contiene poca orina; nulla nell’ ap- parecchio genitale; normale lo scheletro. Si fanno colture con pezzetti di fegato, di milza e col sangue estratto dal ven- tricolo destro. Dal fegato si ottiene coltura pura del germe specifico; lo stesso dalla milza. ma ia coltura è resa impura da un b. banale. Nella coltura del sangue si vedono pure germi specifici, ma, per quanti tentativi si facciano e si prolunghi l’ osservazione fino al 12-XII, non si riesce a trasportarli in nessun mezzo di nutrizione e nemmeno nel sangue di coniglio. Do SIE La coltura del fegato dapprima nacque sull’ agar in forma appariscente, patinosa, come nelle colture attenuate, ed allo esame microscopico lasciò vedere cocchi agglu- tinati in grandi cumuli, (fig. 6); ma in un trapianto fatto in agar il 6-V-1910 con matrice in sangue del 18-IV-1910 la coltura prese un aspetto delicato, a forma di goccie di rugiada ed al microscopio dimostrò la presenza di coppie lanceolate, carat- teristiche e di corte catene, come quelle della fig. 7, che si riferiscono alla stessa coitura del fegato passata il 5-XII-1909 per il corpo della cavia e ripresa dalla milza, e che riproducendo le stesse precise immagini dei germi contenuti nella coltura in questione ne rendono inutile la riproduzione fotografica, la quale non sarebbe che una ripetizione di quella della figura ricordata. Anche in questo caso gli esperimenti praticati sulle cavie dimostrarono l’azione patogena di tali colture ricavate dalla scimmia II., per quanto a grado assai minore di quelle della scimmia I morta con un quadro morboso molto più acuto, come ri- sulta dalle prove di cui riportiamo qui i protocolli. Esp. 4% — Cavia di gr. 400. 5-XII-1909. Iniezione sottocutanea al dorso di 1|2 coltura in agar di 20" ripresa con acqua salata, innestata da matrice in sangue del 4-XII-1909 proveniente dal fegato della scimmia II; al microscopio lasciava vedere numerose coppie di elementi rotondi di media grandezza, più cumuli degli stessi elementi e corte catene. Il 24-XII-1909 comincia la contrazione dell’arto post. destro, che il 26 si estende al sinistro; il 28 ha principio la diarrea. 29-XII-1909. Gli arti post. sono tutti contratti, ma nello stesso tempo paretici, per cui al più piccolo ostacolo rimangono indietro e sono a stento trascinati dall’ ani- male. Peso gr. 300. 5-I-1910. La cavia è in uno stato compassionavole; il treno post. sembra teta- nizzato, tanto è valida la sua contrazione; la diarrea è aumentata. Peso gr. 280. 14-I-1910. L’ animale sta meglio dei fenomeni precedentemente ricordati, ma il peso ‘del corpo non accenna ad aumentare. 20-I-:910. Si ripete l'iniezione con un’intiera coltura in agar di 20", identica alla precedente. | 22-I-1910. In questo giorno ci si accorge che la pelle del ventre e della parte interna delle coscie è tutta arrossata, con abbondante desquamazione epidermoidale in forma di forfora, e che il pelo in corrispondenza delle regioni dove fu notata la lesione accennata cade a larghe falde. 26-I-1910. L° alopecia ha progredito verso il torace; l’arto post. destro è dive- nuto nuovamente paretico. 29-I-1910. Sul ventre, sul torace ed al lato interno delle coscie non esiste più nemmeno un pelo; anche sotto le ascelle comincia ad avvertirsi una desquamazione in forma di forfora e la caduta del pelo. E° questa una lesione trofica della pelle che abbiamo ritrovato anche in altri casi, in cui erano state iniettate colture in parte scomposte dal calore, e nei quali la morte dell’ animale avvenne in modo molto IR SOS lento. Tali lesioni saranno particolarmente studiate in altro lavoro che presto vedrà la luce, al quale rimandiamo anche per le figure che rappresentano il modo di svilup- parsi di questa dermite esfoliativa e l’ aspetto che prende la parte quando 1’ alterazione in parola è arrivata al suo massimo. 6-I!-1910. L'animale si trova morto, dopo 72 giorni dallo inizio dell’ esperimento Peso gr. 230. AUTOPSIA — Dimostra il solito quadro anatomico più volte riferito. Si fanno colture dal sangue, dalla milza e dal fegato. Il sangue emolizza rapida- mente e completamente, ma rimane sterile; dal fegato non nasce che una impurità (b. subtilis); dalla milza invece si sviluppa una coltura pura del germe specifico che in brodo originale forma grossi fiocchi. dati da lunghe catene caratteristiche, i quali sedimentano sollecitamente insieme a brandelli dell’ organo, lasciando il liquido so- prastante completamente limpido; nei trapianti di questa coltura in sangue defibrinato di coniglio si producono corte catene ad elementi molto piccoli, disposti a forma di monile o di tenia, del tutto simili a quelle della coltura che aveva servito per l’ inie- zione alla scimmia II (Oss. III della 1% Memoria, ammalato Mazzini); finalmente nei passaggi sull’ agar si sviluppano colture delicatissime, a colonie piccole, staccate, ri- levate, trasparenti, simili a goccie di rugiada, costituite da coppie lanceolate e da catene come quelle dell’ammalato sopra ricordato e degli altri casi acuti di pellagra. La fig. 7 è ritratta dalla coltura originale della milza in brodo comune; le fig. 8-9 provengono dalla 1% generazione in agar innestato dalla 1* in sangue di coniglio e riproducono intrecci di catene circonvolute, formate da elementi leggermente allungati quali si trovavano frequentemente, come in questo caso, nel liquido di condensazione dell’ agar. Queste figure non sono che la fedele ripetizione di quelle ottenute da materiale preso direttamente dall’uomo o passato attraverso la cavia, e che furono largamente figurate nella prima come nella seconda Memoria sopra citata. Più tardi la stessa coltura isolata dal fegato di questa scimmia si dimostrò anche meno attiva, provando così di aver perduto molto del suo potere patogeno nella sua lunga conservazione in sangue defibrinato di coniglio, come si rileva dal seguente esperimento. Esp. 5° -- Cavia del peso di gr. 380. 8-V-10. Iniezione di una intera coltura in agar di 18" ripresa con acqua salata, innestata da matrice in sangue del 18-IV-10, proveniente direttamente dal fegato della scimmia Il; forma della coltura a piccole colonie come goccie di rigiada; al microscopio coppie lanceo- late e corte catene. In seguito a questa iniezione si ebbero solo fenomeni transitori, rappresentati da spasmo del treno post., diarrea e diminuzione di peso. 9-VII-10. Essendo l’animale del tutto ristabilito ed il peso essendo cresciuto fino a gr. 530, sì pratica una seconda iniezione con una intiera coltura in agar simile alla precedente. 18-IX-10. L’animale non avendo risentito nulla dalla seconda iniezione se ne pratica una terza come le precedenti, che pure è sopportata benissimo senza recare alcun disturbo apprezzabile. Al momento in cui scrivo (1 dicembre 10) l’animale si conserva sempre in ottime condizioni di salute ed il suo peso è di gr. 550. Qui però è da osservare che la coltura ricavata direttamente dalla milza di questa scimmia, dopo lunga conservazione in sangue defibrinato di coniglio debitamente rinnovato, perse l caratteri primitivi e si presentava sull’agar sotto forma di una patina biancastra, a superficie umida, ed microscopio si dimostrava formata da elementi rotondi, riuniti a coppie, in cumuli, in catene. Anche in questo caso adunque fu confermata l’azione patogena sulla scimmia della coltura ricavata da noi da forme acute di pellagra. Solo la sua azione fu in questa prova assai più lenta, meno intensa di quella dello esperimento precedente; ciò che può attri- buirsi ad una minore virulenza del materiale usato, più verosimilmente ad una maggiore resistenza del soggetto nel quale |’ iniezione fu praticata, tanto da occorrere 5 successive iniezioni e quasi due anni di tempo per condurre alla morte. E ben vero che ad ogni inie- zione seguivano fenomeni morbosi che richiamavano alla mente quelli che avvengono spon- taneamente nell’ uomo (contratture degli arti, fiacchezza generale, umore triste, aspetto sofferente, fenomeni trofici della pelle, pallore delle mucose, diarrea intermittente), ma questi fenomeni, che in una forma lenta si aveva meglio agio di seguire, dopo un certo tempo scomparivano e l’animale riprendeva il suo aspetto normale. Solo dopo la quinta iniezione i fenomeni accennati si aggravarono in modo progres- sivo e condussero alla morte dell’ animale. Di contro alla lentezza dei sintomi osservati nella scimmia, anche le colture ricavate dagli organi (fegato) dimostrarono in questo caso un’ azione assai più debole di quelle della osservazione precedente, tanto da occorrere due iniezioni per determinare in primo tempo la morte della cavia e da non riescire più tardi a produrre sullo stesso animale altro che fenomeni transitori, i quali nemmeno si ripeterono nelle successive iniezioni. INEGRURRO Comprende gli animali più resistenti nei quali si ebbero solo fenomeni morbosi transitori. Scimmia III, (Cercopithecus ruber) maschio, del peso di Kg. 1,040. 8-1-08. Introduzione nello stomaco mediante sonda flessibile di gomma di 2 colture in agar di 24" riprese con acqua salata, provenienti dallo stesso stipite Mazzini che aveva servito per la scimmia II. Aspetto della coltura delicato, a goccie di rugiada; al micro- scopio coppie lanceolate e catene moniliformi o coll’aspetto del tenia. 27-1-08. L'animale non avendo risentito nulla della precedente operazione si pratica una seconda introduzione nello stomaco dello stesso virus alla medesima dose. 8-II-08. L'animale presenta delle contratture accessionali e transitorie agli arti ante- riori; si nota ancora qualche tremore all’ arto post. destro; non può servirsi delie mani perchè contratte. In pari tempo si può facilmente riconoscere che l’agilità nel salto è assai diminuita, e che l’animale si lascia meglio avvicinare, mentre prima era molto sel- vatico; peso Kg. 1,500. 16-11-03. Nella settimana decorsa i fenomeni nervosi spastici andarono grado a grado attenuandosi fino a scomparire quasi del tutto. Rimase solo una diminuzione evidente della agilità dell’animale che forse spiega perchè esso è più mansueto del solito, nonchè una sua facile stanchezza per poco si faccia correre; apparisce anche dimagrito, avendo la faccia crespata e gli occhi infossati. Peso Kg. 1,450 26-11-08. L'animale si è fatto più svelto dei giorni precedenti, ma non tanto come lo era prima. 10-III-08 Terza introduzione nello stomaco di una coltura in agar come sopra, per la quale l’animale non risente nulla, aumentando anzi di peso fino ad arrivare a Kg. 1,700. 2-V-08. Visto che per lo stomaco non si riesce ad ottenere altro che poco o nulla, si cambia la via d’introduzione del virus, che viene iniettato questa volta sotto la pelle del dorso nella quantità di una coltura in agar di 24", eguale per la provenienza ed i caratteri a tutte le precedenti. Alla parte si formò una piccola bozza d° infiltrazione, dura e piuttosto dolente, che in pochi giorni si riassorbì. L'animale non risentì nulla da questa iniezione, il suo peso crebbe considerevolmente fino a raggiungere Kg. 2,090. 11-XII-08. Seconda iniezione sottocutanea di due colture in agar eguali alle pre- cedenti. Anche in seguito a questa iniezione l’animale non risentì alcun disturbo, e nulla si ebbe a notare durante tutto l’anno successivo 1909; anche il suo peso crebbe considere- volmente, raggiungendo ai primi del 1910 Kg. 2,430. 26-I1-10. In questo mese si avverte la perdita del pelo che comincia attorno alla inserzione della coda e si estende lungo il dorso, specie a destra, spingendosi fino alla regione lombare; anche la coda ha il pelo diradato, considerevolmenie più corto e come arruff'ato. In alcune parti del corpo la caduta del pelo ha formato vere chiazze alopeciche, dalle quali si eliminano abbondanti squame epidermiche in forma di forfora. oltre si os- serva che nel salto l’animale ricade facilmente indietro, specie a destra, per cui sembra che gli arti post. siano assai più deboli del consueto. 26-II-10. L’alopecia è ulteriormente salita verso il dorso, invadendo buona parte della regione dei lombi. 14-IV-10. Visto il debole effetto ottenuto con |’ iniezione della coltura proveniente dallo stipite Mazzini (follia pellagrosa) che aveva esclusivamente servito per la scim- mia II, si pensò di cambiare materiale d’ infezione, sostituendolo con quello isolato dalle deiezioni del malato Dall’Olio che aveva servito per la scimmia I, ed iniettandone sotto la pelle del dorso due colture in agar riprese con acqua salata (lerza iniezione); erano col- ture delicate, .a goccie di rugiada, contenenti numerose coppie a fiamma di candela e catene caratteristiche Peso Kg. 2,400. 19-V-10. L'animale è assai meno vivace del consueto e sì lascia prendere facilmente, e e ge perfino nella gabbia; nel salto apparisce molto fiacco ricadendo spesso sul posteriore; l’alopecia si è diffusa oltre la metà del dorso ed interessa anche le spalle, accompagnan- dosi a ricca produzione di forfora. Peso Kg. 2,000. i Si pratica una quarta iniezione sottocutanea eguale alla precedente; con identica col- tura s'inietta una cavia che presenta fenomeni gravi ma non muore. 30-X-10. Riconosciuto col precedente esperimento che la coltura usata nell’ ultima inie- zione era attenuata, si dubita che il mancato effetto nella scimmia dipenda dalla sua debole azione patogena, e si torna allo stipite Mazzini adoperato in primo tempo, iniettandone sotto la pelle due colture in agar di 18" riprese con acqua salata (quinta iniezione sottocutanea). Dopo questa iniezione aumentò la caduta del pelo, ricomparve la debolezza del treno posteriore, che male serviva nel salto, e l’animale dopo breve corsa appariva molto stanco e facilmente si faceva avvicinare. Al momento in cui scrivo (1-XII-10) i fenomeni ricordati sono già in regresso; il peso del corpo è salito a Kg. 2,170. Così in questo animale furono praticate tre infezioni per via gastrica, tutte con lo stipite Mazzini, e 5 per via sottocutanea, di cui 3 con lo stesso stipite Mazzini, ,e 2 con lo stipite Dall’Olio, i quali avevano rispettivamente servito per la scimmia II e I, ossia complessivamente 5 infezioni con virus raccolto dall'uomo affetto da forme gravi di pel- lagra; ma, per quanto sì prolungasse l’ esperimento per circa 2 anni, non si ebbero a riscon- trare che leggieri e transitori fenomeni morbosi, costituiti principalmente da tremori, con- tratture degli arti, e da manifesta fiacchezza del corpo, nonchè da fatti trofici della pelle, rilevabili specialmente per la caduta del pelo e per la ricca desquamazione epiteliale (1). Scimmia IV. (Macacus sinicus), maschio. Peso Kg. 2,390. 3-V-08. Prima iniezione sottocutanea di una intiera coltura in agar ripresa con acqua salata, proveniente dallo stipite Granturco IV (2). L'animale non avende risentito nulla da questa iniezione, si teme che ciò derivi dalla provenienza e dalla qualità della coltura usata, quindi si cambia stipite nelle iniezioni successive e sì ricorre al materiale avuto direttamente dall'uomo. Si fanno così tre inie- sioni sottocutanee con lo stipite Dall’ Olio che aveva servito nella scimmia I, rispetti- vamente 1° 11-XII-08, il 2-V-10, ed il 30-V-10, ma sempre senza nessun risuliato: lo stesso per una quinta iniezione praticata con lo stipite Mazzini il 80-VII-10. In tutti questi casì, all’infuori della leggiera e facilmente risolvibile reazione locale, l’animale non presentò mai nulla di anormale, ed il suo peso, da quello originale di (1) Questo animale morì il 5-II-11 dopo aver presentato i seguenti sintomi: aspetto malinconico, soffe- rente; forte debolezza, specie dal treno post., sul quale ricade facilmente e che gli rende più difficile il salto : diarrea intermittente; pallore della pelle e delle mucose; profondo dimagrimento, essendo sceso il peso del corpo a Kg. 1,700; indifferenza per tutto quanto lo circonda, così da rimanere intiere giornate im- mobile nella parte più oscura della gabbia con il muso volto verso il muro o rimpiattato sotto la paglia. Alla sezione le solite lesioni, fra le quali spiecavano specialmente quelle della milza, del fegato e dei reni e |’ ispessimento del pericardio ; polmoni normali. (2) Vedi Memoria citata: Intorno alla patogenesi ed etiologia della pellagra pag. 57. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 3 SERE RE Kg. 2,390, crebbe gradatamente fino ad un massimo di Kg. 3,850. Oggi dopo l’ultima iniezione è sceso a Ke. 3,700. Quindi si può dire che in questo caso, nonostante fossero fatte cinque iniezioni, comprendenti complessivamente 10 colture in agar di varia provenienza (stipite Granturco IV - Dall’ Olio - Mazzini), l’animale risentì poco o nulla dai praticati esperimenti (1). B. PARTE ANATOMICA Reperto microscopico degli animali terminati colla morte. Dopo aver dato la descrizione della parte sperimentale e batteriologica, ci sembra importante richiamare l’attenzione anche sulle alterazioni istologiche riscontrate negli organi dei due animali morti in seguito alle praticate iniezioni, e di stabilire nelle linee generali un confronto fra tali alterazioni e quelle che naturalmente avvengono nel- l’uomo. Questa del resto non sarà che una piccola anticipazione di quanto in modo più com- pleto, e col corredo delle relative tavole illustrative, spero presto veder pubblicato sopra ricerche eseguite in questo stesso Istituto intorno alle alterazioni istologiche che si riscon- trano nella pellagra sperimentale ed in quella dell’uomo e sul loro reciproco rapporto. Gli organi nei quali poterono essere rilevate speciali alterazioni microscopiche e sui quali perciò abbiamo in modo particolare rivolta la nostra attenzione, sono quelli stessi che alla sezione sì mostrarono alterati, e cioè: intestino, glandole meseraiche, milza, fegato, reni, pelle. Data poi l’assoluta costanza del reperto anatomico che si riscontrò in ambedue gli esperimenti e che è identico a quello che si ritrova nell’ uomo, non è fuori di luogo pen- sare alla esistenza di uno stretto rapporto fra la sede e natura delle lesioni ricordate ed il modo col quale il virus ed i rispettivi prodotti tossici aggrediscono | organismo animale e vi si diffondano, eliminandosi in ultimo per mezzo di alcuni grandi emuntori. Così le lesioni dello intestino e delle vicine glandole meseraiche possono ritenersi essere l’effetto della azione locale del virus in parola in corrispondenza della porta d° in- gresso della infezione, o l’effetto di un’azione elettiva dello stesso virus quando questo, come nel caso nostro, viene introdotto sotto la pelle; mentre quelle della milza, del fegato e dei reni meglio possono intendersi come il portato di una intossicazione per un veleno assorbito il quale tenda ad eliminarsi dal corpo a mezzo dei suoi grandi orgam depura- tori (fegato-reni). Quindi l’alterazione dell’intestino dovrebbe esser considerata come la lesione fonda- mentale, primitiva od elettiva, di natura tossico-infettiva; ciò che troverebbe anche una (1) Più tardi anche in questa scimmia incominciarono gli stessi fenomeni riscontrati nelle altre, ed al momento della correzione delle bozze il peso dell'animale era sceso da Kg. 3,900 a Kg. 3,500 : di più la faccia appariva pallida e crespata; l’arto post. destro era meno mobile: l’animale era assai meno agile e si faceva più fortemente accostare; chiazze alopeciche si erano manifestate alla parte post. dal dorso, ai fianchi, alla radice della coda. pr NONE conferma nella sua maggiore intensità di fronte alle altre: invece le alterazioni della milza, del fegato, dei reni sarebbero lesioni secondarie di ordine prevalentemente tossico. Vedremo come questo concetto trovi un valido appoggio nella stessa natura delle lesioni microscopiche e sopratutto nella loro istogenesi. Intestino. — Come abbiamo accennato le lesioni dell’ intestino sono quelle,"di contro a tutte le altre, che raggiungono un grado più elevato. Dell’intestino la parte più alte- rata è il tenue e di questo la sua ultima porzione, mentre il crasso conserva presso a poco il suo aspetto e la sua struttura normale. L’alterazione interessa prevalentemente la mucosa e la sottomucosa, senza escludere che lesioni secondarie possano verificarsi anche negli strati sottostanti. A piccolo ingrandimento (scimmia II) si vede che la parete intestinale è assai più sottile della normale. apparendo in alcune sezioni come un anello sottilissimo, e che la sua colorazione non è regolare, essendo in alcuni punti più uniforme, più livida, più sbiadita. È possibile poi di stabilire questi fatti in modo preciso e senza equivoco alcuno, perchè di solito tale alterazione non è uniforme in tutta la circonferenza del tubo intestinale, ma in una stessa sezione può seguirsi nelle varie sue fasi di sviluppo. A più forte ingrandimento sì apprezzano meglio i particolari della lesione istologica della mucosa intestinale; lesione che procede dallo estremo del villo verso la sua base, interessandolo, nei gradi meno avanzati della malattia, per *, fino a ‘/, della sua altezza, ed arrivando a distruggerlo per intiero dove il processo è giunto al massimo della sua evoluzione. Il carattere di tale lesione è quello della necrosi, per la quale | epitelio di rivesti- mento è stato distrutto e sostituito da un denso strato di muco, il tessuto fondamentale del villoapparisce colorato in modo uniforme e diffuso, 1 suoi nuclei prendono poco o nulla il colore, e goccie di cromatina si trovano diffuse qua e là nella mucosa così alterata. Inoltre, nelle primissime fasi del processo, verso l'estremo del villo, si trovano specie di spazi vuoti o di spazi edematosi, in cui alloggiano numerose cellule simili ai macrofagi, con nucleo rotondo od ovalare fortemente colorabile coll’ ematossilina e con abbondante proto- plasma finamente granuloso. Solo rare volte si vede nello estremo del villo o lungo il suo decorso, spesso limitata ad uno dei suoi lati, una ricca infiltrazione di leucociti. La parte del villo che più resiste a questo processo distruttivo è data sempre dal sistema vascolare; per cui, in mezzo alla distruzione generale, si arrivano ancora a distin- quere i vasi sanguigni, specie i più grossi che lo percorrono longitudinalmente; anzi sì direbbe che questi vasi nella prima fase della malattia fossero meglio disegnati, per un maggior numero ed una più intensa colorazione dei loro nuclei. In un periodo più avanzato il tessuto necrosato cade e nulla rimane più del villo, restando indicata la mucosa dalla rara esistenza di qualche fondo glandulare. Questa forma di necrosi della mucosa intestinale si avvicina a quella che si osserva nel colera; dalla quale peraltro sì può sempre distinguere perchè nel colera, data la rapi- aio Qi dità della malattia e la natura del veleno che si produce, la lesione è più superficiale, interessando quasi esclusivamente 1° epitelio, che cade lasciando il villo allo scoperto mentre questo sì mostra edematoso, infiltrato di globuli bianchi; invece qui la necrosi interessa tutti i costituenti del villo che viene ad esser distrutto in una estensione più © meno grande. Di contro a questi fatti distruttivi, dove il processo è meno avanzato, avvengono ten- tativi di rigenerazione, ì quali si manifestano con aumento dei nuclei negli epiteli dei fondi glandolari e con la presenza in questa parte di figure cariocinetiche, eguali per numero, se non superiori, a quelle che vi si osservano nel colera; certo assai più numerose di quelle che sogliono trovarsi nello intestino in condizioni normali. Finalmente, fra lepitelio delle glandule tubulari, specie nelle loro parti più basse, si rinviene alcune volte buon numero di leucociti, i quali infiltrano anche la mucosa vicina, prolungandosi tale infiltrazione lungo i vasi sanguigni fino al disotto della muscolaris MUCOSdE. I follicoli linfatici si presentano tumefatti, infiltrati, spesso con necrosi della loro parte superficiale e con piccoli focolai emorragici nel loro interno. Per ultimo dobbiamo accennare che nelle parti dell’intestino nelle quali si hanno dilatazioni ampollari, dove l'alterazione è a grado maggiore, la mucosa apparisce intiera- mente distrutta e di essa non si vede più che una sottile impalcatura, senza nessuna strut- tura cellulare, la quale poggia direttamente sullo strato muscolare, divenuto assai più sot- tile e con nuclei che non prendono più il colore. In queste parti l'intestino viene ad esser ridotto ad una foglia sottile e tanto da doversi rompere facilmente perla più lieve pressione. Nell'uomo ho osservato nel tenue | esatta fedele ripetizione delle lesioni riscontrate nella scimmia; nell’uno come nell'altra l alterazione riveste i caratteri della necrosi, che dapprima interessa i villi in una maggiore o minore estensione, ma che in ultimo invade l’intera mucosa, senza che tale profonda distruzione sia mai accompagnata o seguita da corrispondente reazione infiammatoria. Glandole meseraiche. — In ambedue le scimmie si osservano, come nell’ uomo, una forte congestione vascolare, una tumefazione dei follicoli e delle colonne midollari; inoltre si trova nei seni una maggiore quantità di cellule contenenti nel loro protoplasma granuli o zolle di pigmento giallo ottonato o giallo bruno, simili a quelli che si producono nella distruzione fisiologia dei globuli rossi. Milza. — La milza dimostra un ispessimento dei setti e delle trabecole, con diminu- zione corrispondente della polpa splenica. I vasi sanguigni, anche quelli corpuscolari, hanno la parete fortemente ispessita ed il lume considerevolmente ristretto. Anzi sembra che l’ ispessimento dei setti e delle trabecole, più che dalla capsula splenica, la quale per contro non è molto ingrossata, abbia il suo punto di partenza dal contorno della parete arteriosa, od in altre parole sia l’ effetto di una arterite e di una pariarterite. Perciò in questo caso non si tratterebbe di un indurimento della milza secondario ad un processo di perisple- nite, come suole avvenire nella forma comune, bensì di un induramento di origine vasco- lare determinato da alterazione primitiva della parete dei vasi sanguigni di ordine tossico. Tali alterazioni erano a grado più avanzato nella scimmia II nella quale la malattia, ebbe andamento più lento, che nella scimmia I, che morì in seguito a forma acuta. Reperto identico, anche per riguardo alla istogenesi dello indurimento, io ho potuto riscontrare nella milza dell’uomo, nei vari casi che mi fu dato esaminare. Fegato. — Le alterazioni del fegato, dopo quelle dell’intestino, sono certo le più im- portanti fra le lesioni anatomiche che si rinvengono nella pellagra naturale e sperimen- tale; anche perchè la loro stessa genesi ci sta a dimostrare che esse sono per la mag- gior parte una diretta conseguenza dell’azione di prodotti che arrivano a quest’ organo per mezzo della circolazione sanQuigna. Queste alterazioni interessano tutti 1 costituenti dell’organo, vale a dire il sistema vascolare, il parenchima ed il tessuto interstiziale. Per riguardo al sistema vascolare, anche ad una osservazione superficiale, colpisce nel fecato dei due animali in questione Ja grandissima congestione dei vasi, che sono turgidi di sangue fino alle loro più piccole diramazioni, disegnando così in modo mirabile tutta la rete vascolare intra-acinosa. Tale congestione poi in alcune parti conduce alla rottura della parete dei vasi ed alla formazione di focolai emorragici multipli disseminati nel parechima dell’ organo (scimmia I e II). In seguito a questa congestione, e talora coll in- tervento della conseguente infiltrazione sierosa che si forma al dintorno dei vasi intra- acinosi, le trabecole del fegato sono assottigliate, a grado maggiore o minore a seconda della acutezza e della durata del processo. Quello che più interessa, peraltro, sono le alterazioni che colpiscono il parenchima dell’ organo. Indipendentemente dalla morte delle cellule epatiche che avviene in modo secondario in corrispondenza dei ricordati focolai emorragici, in mezzo ai quali esse formano dei grandi ammassi protopiasmatici senza nuclei che si colorano intensamente ed uniforme- mente (necrosi da coagulazione), st verificano nei costituenti di queste cellule delle modi- ficazioni primitive molto importanti. Quand» la morte dell'animale è rapida (scimmia 1), allora è il processo di degenera- zione grassa che predomina e la cellula epatica dimostra nel protoplasma la presenza di una 0 più goccie di grasso; nell’ ultimo caso il protopiasma che divide le singole goccie sì colora più uniformemente, più intensamente di quello delie cellule normali, mentre nel primo la cellula epatica apparisce come un grosso anello che comprende |’ intiera goccia di grasso, essendo il nucleo ed un sottile strato di protoplasma residuo spostati alla periferia. Questa degenerazione grassa non è uniforme, ma è irregolarmente repartita nell’ organo in modo da formare delle zone che a piccolo ingrandimento risaltono per il diverso tono della colorazione del fondo e per la quantità più o meno grande di grasso che contengono, Nelle forme più lente, invece (scimmia II), le modificazioni di costituzione della cellula epatica avvengono in modo assai differente e senza l'intervento della degenerazione grassa, o almeno la formazione del grasso si verifica in questo caso in quantità assai minore del precedente ed acquista perciò una importanza del tutto secondaria. TATOO) Per contro quello che predomina in questo caso è l'aspetto più uniforme del proto- plasma, che apparisce omogeneo, meno granuloso, quasi liscio e che si colora uniforme- mente ed in tono molto diverso da quello delle cellule normali. Questa forma di alterazione si presenta a larghe zone, le quali appunto sono quelle che conferiscono alla sezione del fegato l'aspetto chiazzato. Peraltro, mentre avvengono queste alterazioni distruttive del protoplasma, i nuclei delle cellule epatiche in molte parti, anche dove l’alterazione dell’organo è maggiore, pre- sentano segni manifesti di una eccitazione produttiva, da non confondersi con quanto di frequente si riscontra anche in condizioni normali relativamente alla presenza di due nuclei nelle cellule epatiche. Infatti in ambidue gli animali si vedono frequentemente cellule epatiche con nuclei più grossi, quasi il doppio della media normale, e assai più intensamente colorati; oppure si osservano cellule epatiche che hanno nel loro interno fino a quatiro nuclei raccolti in un gruppo centrale od anche disposti attorno alla goccia di grasso nel poco protoplasma residuo; né è raro vederne alcuni strozzati nel mezzo o con nucleolo ipertrofico circon- dato da un grosso spazio chiaro nel quale la sostanza cromatica del nucleo forma un elegante reticolo che va dalla membrana nucleare al nucleolo. Mai ho potuto osservare figure che accennino anche lontanamente ad una scissione indiretta, per quanto debba far rilevare che la fissazione usata poco si prestava a questo scopo, essendo stata fatta in ogni caso con liquido di Miller e formolo. Ripeto che questi fatti si osservano ancora dove la disiruzione era maggiore, per cui il protoplasma a tipo omogeneo era ridotto oramai a ben poca cosa; e perfino in cellule nelle quali il protoplasma stesso era per la massima parte sostituito dal grasso. Ova 1 fatti accennati rappresentano indubbiamente movimenti nucleari di ordine pro- gressivo, e sono con tutta probabilità 1° espressione di una divisione del nucleo. E poichè nulla in tal caso accenna a fatti rigenerativi della cellula epatica, così bisogna ammettere che lo stimolo patologico, rappresentato probabilmente da tossine, mentre determina nel nucleo fenomeni irritativi che conducono al suo ingrandimento ed alla sua scissione, produce contemporaneamente o successivamente fatti distruttivi del protoplasma, che nelle forme acute si accompagno da rapida ed estesa degenerazione grassa, nella forme più lente sì presentano come semplice omogeinizzazione, specie di necrobiosi del protoplasma. Questo modo di rispondere delle cellule epatiche ci sembra abbastanza caratteristico, e, per quanto so, non ha riscontro in alcuna delle forme di alterazioni note, nonostante molte siano le lesioni del fegato nelle quali si può vedere aumentato il numero dei nuclei della cellula epatica, ma sempre con protoplasma ben conservato. In ultimo, per rapporto al connettivo interstiziale, si trova che questo è considerevol. mente aumentato; aumento che è molto maggiore nelle forme lente che in quelle rapide. Ma quello che sopratutto è importante a rilevare a questo proposito, è l’ istogenesi della neoformazione connettiva, la quale anche qui procede manifestamente dalla parete dei vasi sanguigni grossi e medì; e tanto dalle arterie quanto dai vasi della V. porta. 99 ISTINTI Ciò sta a dimostrare che )a neoformazione in parola ha origine principalmente da prodotti che arrivano al fegato a mezzo della circolazione sanguigna, e più specialmente da prodotti che vi arrivano dallo intestino a mezzo del sistema della V. porta; prodotti che nel parenchima epatico darebbero il duplice effetto indicato, mentre nei vasi san- guigni, in particolare in quelli della V. porta, produrrebbero ispessimento della loro parete ad un conseguente aumento del connettivo interstiziale. Questo, limitato dapprima al connettivo interacinoso, finisce per invadere più tardi Vin- terno dell’acino epatico; e la maggiore evidenza delle cellule di Kupfer, come l’esistenza fra le trabecole, a fianco dei vasi sanguigni, di un buon numero di nuclei allungati in mezzo ad una sostanza omogenea o molto delicatamente fibrillare, oltre quelli frammen- tati appartenenti ai leucociti, sarebbero una prova di questo fatto. Nelle fasi più avanzate, finalmente, si formerebbero più qua e più là dei veri bottoni di tessuto connettivo ricchi di nuclei, che penetrerebbero nello interno dell’acino allontanando e schiacciando le trabecole epatiche. Dunque l’iperplasia del tessuto connettivo, che avrebbe il suo punto di partenza dai vasi sanguigni, specialmente da quelli della V. porta, dapprima sarebbe interacinosa per farsi più tardi intraacinosa, assumendo allora le apparenze che hanno alcune forme di sifi- lide ereditaria del fegato. Queste lesioni caratteristiche riscontrate nel fegato della scimmia non sono che la fedele ripetizione di ciò che si osserva nell’uomo, tanto per riguardo alla congestione vasale ed alla iperplasia del tessuto connettivo, quanto per rapporto alle alterazioni del parenchima epatico. Rene. — Importanti sono pure le alterazioni istologiche del rene della scimmia II, il solo che fu conservato per tale ricerca. Queste alterazioni interessano tutte le parti costituenti il rene, cioè i glomeruli, i tubuli contorti ed il connettivo interstiziale. Riguardo ai glomeruli si osserva la presenza di una neoformazione, la quale risalendo dal corrispondente tubulo si estende a tutto il foglietto parietale della capsula del Bowmann, presentandosi, ora come un semplice strato granuloso più o meno grosso, che sì colora in modo identico al protoplasma degli epiteli dei tubuli contorti, ora contenente anche dei nuclei, simili per forma, grandezza e colorazione a quelli degli epiteli anzidetti, più qualche nucleo allungato nella parte sua profonda, appartenente manifestamente agli endoteli della capsula. La neoformazione in questione nel suo graduale accrescimento si spinge fra le anse glomerulari che disgrega e poco a poco distrugge, sostituendosi ad esse, e trasformando in ultimo il elomerulo in una massa amorfa, finamente granulosa, di un colore rosso sporco, simile nell’aspetto ad una massa caseosa, alla periferia della quale per qualche tempo rimangono dei vestigi dell’antico glomerulo ricchi di nuclei, Anche nelle anse elomerulari in primo tempo si vede considerevolmente aumentato il numero dei nuclei; segno questo che esse reagiscono allo stimolo patologico prima di esser colpite dalle fasi distruttive del processo sopra descritto. OI E La reazione dei glomeruli poi si continua pure lungo il fascio dei vasi glomerulari afferenti ed efferenti, che in ogni caso, anche quando il relativo glomerulo è andato distrutto, mostrano un considerevole aumento dei loro nuciei e di quelli del connettivo circostante. Nei tubuli, specialmente nei tubuli contorti, si vedono gli epiteli rigonfiati in modo da formare una massa uniforme, fortemente granulosa, che riempie tutto il tubulo, mo- strando talora la parte sua più centrale distinta da tutto il resto, come si trattasse di un essudato, e presentando generalmente nella parte periferica nuclei ben colorati, di aspetto normale. Anche qui, adunque, trovasi lo strano contrasto della esistenza, cioè, di una grave alterazione dell’ epitelio renale che colpisce principalmente il protoplasma, ed in quella forma microscopica che riscontrasi precisamente nella nefrite parenchimatosa, e che invece risparmia il nucleo. Anzi nel rene, come nel fegato, si trovano di frequente nuclei degli epiteli renali che manifestano segni di ordine produttivo; cioè si vedono nuclei grossi più del doppio dei normali, più fortemente colorati, ora strozzati nel mezzo a forma di biscotto, ora riuniti in gruppetti di 3-5 accosti gli uni agli altri, come fossero il portato di una recente divisione. Nelle anse di Henle il tubulo è ripieno di cellule ben conservate, con scarso proto- plasma finamente granuloso, in modo che i nuclei quasi si toccano fra loro. Il connettivo interstiziale è considerevolmente aumentato, specie lungo il corso dei vasi, dove talora forma dei bottoni cellulari, ricchi di nuclei allungati, che sì spingono fra i tubuli; bottoni di tessuto connettivo che sono assai più grossi e più frequenti a riscontrarsi nel limite fra la sostanza corticale e la midollare. In conclusione si osserva nel rene un lento processo infiammatorio generalizzato di origine vascolare, che nel parenchima si manifesta con fatti irritativi degli epiteli renali, i cui prodotti invadono la capsula del Bowmann e poco a poco si sostituiscono ai glo- meruli. mentre nei tubuli si verifica lo strano contrasto fra la rapida degenerazione, disgregazione dei protoplasma degli epiteli e l’integrità dei loro nuclei, i quali anzi pre- sentano spesso segni manifesti di un movimento attivo. Così nella pellagra si avrebbe un veleno che nel rene, come nel fegato, non determi- nerebbe, al par di altre tossine note, la morte rapida delle cellule epiteliali funzionanti, bensì la loro irritazione, che nei nuclei avrebbe una persistenza maggiore, manifestandosi tuttora con segni non dubbi della loro attività moltiplicativa, anche quando nel loro pro- toplasma sono già susseguiti fatti distruttivi. Nel tessuto interstiziale la stessa irritazione produrebbe un lento processo indurante, il quale, come si è visto, trarrebbe la sua origine da forme di angiolite e di periangiolite specifica. Nell'uomo si verificano fatti analoghi; ma forse per la più lunga durata della ma- lattia e per le successive e quasi periodiche sue riacutizzazioni, la sclerosi del rene è mag- giore che,nella sciminia; egualmente nei tubuli contorti, accanto al rigonfiamento ed alla LIE disgregazione degli epiteli renali, solo eccezionalmente i nuclei presentano segni di attività formativa. Pelle. — Fu esaminata solo nella scimmia II, perchè nella prima disavvedutamente non fu conservata. Essa presentasi atrofica; i vasi del derma sono disegnati per un’ abbondanza di nuclei nella loro parete e nel loro contorno; i follicoli piliferi per buona parte sono vuoti e in regresso; sopra lo strato di Malpighi, che pure sembra molto ricco di nuclei, sì trova un grosso strato corneo formato da squame epidermoidali lassamente aderenti fra loro. Peraltro, non potendo fare un confronto con la pelle normale di scimmia, non è possibile dare a questo ultimo fatto il suo giusto valore Da tutto quanto è stato fin qui detto risulta chiaramente che le alterazioni istologiche della pellagra non sono di quelle che possono confondersi con altre; esse hanno una fiso- nomia tutta particolare, costituiscono un ipo, una forma patologica che hanno caratteri tutti speciali; tipo che si ripete con fedele esattezza tanto negli animali quanto nell’ uomo, come meglio sarà dimostrato ed illustrato col necessario corredo di figure nel lavoro gene- rale sopra annunciato. Nel quadro anatomico della pellagra spicca principalmente la necrosi della mucosa intestinale del tenue non accompagnata da corrispondente reazione, la sclerosi degli organi (milza, fegato, rene) di genesi vascolare, con pariicolare risentimento del loro paren- chima (fegato, rene), nel quale la lesione evolve in modo differente nei nuclei e nel pro- toplasma Prima di terminare questa parte debbo una parola di ringraziamento al D." G. Vernoni, aiuto a questo Istituto di Patologia generale, per la collaborazione che volle accordare alle presenti ricerche, col provvedere, in modo davvero encomiabile, alle preparazioni microscopiche che valsero per la descrizione sopra riportata. CONCLUSIONI Dalle ricerche sopra riferite si possono irarre senza sforzo alcuno le seguenti con- clusioni: Le colture pure dello streptobacillus pellagrae (Vizzoni) ricavate da ammalati di pellagra, e tanto da forme acutissime e rapidamente mortali (stipite Mazzini, follia pel- lagrosa) quanto da forme comuni ma abbastanza gravi (stipite Dell’ Olio), riescono pato- gene per la scimmia per iniezione sottocutanea. Invece nulla si può stabilire ancora riguardo a colture simili alle precedenti avute da granturco avariato, ed alla introduzione del virus per via gastrica mediante sondatura esofagea, non essendo state fatte in proposito prove suflicienti Operando nel modo dapprima indicato, si riesce a riprodurre nella scimmia una malattia perfettamente identica per la forma morbosa e per il quadro anatomico alla pellagra de]- l’uomo. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. SS AO Gee In conformità di quanto sappiamo verificarsi per la sifilide, la recettività della scimmia per il germe della pellagra varia considerevolmente col variare della specie, tanto da potersi avere a questo riguardo tutta la scala della sensibilità; da soggetti, cioè. che non risentono nulla, nonostante sì ripetono le iniezioni e si usino colture che riuscirono pato- gene in altri casì (scimmia IV); a soggetti che ad ogni iniezione presentano fenomeni morbosi più 0 meno intensi, ma sempre transitori e risolvibili in breve tempo (scimmia II); a soggetti finalmente che soccombono allo esperimento, e nei quali la morte, ora avviene in forma acuta e dopo breve malattia (scimmia I), ora in forma molto più lenta che impiega anni per uccidere. Le scimmie che nei nostri esperimenti si mostrarono più resistenti sono quelle delle specie Macacus sinicus, e Cercopithecus ruber; le due che soccombettero allo esperimento, disgraziatamente non furono determinate in vita e non lo poterono dopo morte, per quante ricerche si facessero sulla loro provenienza; peraltro dai caratteri esteriori era possibile di- stinguerle nettamente delle precedenti. A seconda del grado di sensibilità dell’animale varia pure il numero delle iniezioni necessarie per determinare la morte (da 1 a 5). I fenomeni morbosi principali rilevabili nella scimmia, specie nella forma più lenta di malattia, sono: variazioni dell’umore dell’animale, che perde la sua gaiezza e diviene triste; aspetto sofferente, corrucciato; faccia crespata, vecchieggiante: contrattura degli arti, principalmente dei posteriori; fiacchezza generale, più accentuata nel treno poste- riore; diarrea intermittente; pallore delle mucose; alopecia ed altri fatti trofici della pelle. Negli animali meno recettivi le ripetute iniezioni, anzi che vaccinare, servono ad accumulare successivamente nel corpo la quantità di materiali tossici che è necessaria per determinare la morte; quella che in condizionI normali entra in modo lento ma con- tinuo dallo intestino; ed in questi casi st osservano nella scimmia alternative di miglio ramento e di peggioramento le quali richiamano alla mente quelle che in modo quasi periodico si riscontrano nell’uomo nelle forme di pellagra comune. Le alterazioni istologiche rinvenute negli animali in cui l’esperimento ebbe esito le- tale, riguardano l’intestino, la milza, il fegato, i reni e la pelle, costituendo nella scimmia un tipo istologico speciale che ripete in modo perfettamente identico quello che sì riscontra nell’ uomo e che non può confondersi in alcun modo con lesioni di altra natura. Lo stesso quadro anatomico, che da solo cì permette una sicura diagnosi, ci parla in favore della esistenza di un particolare veleno circolante nel sangue, da cui la sclerosi degli organi di genesi vascolare e la speciale alterazione di ordine neoplastico — distrut- tivo che si verifica nel loro parenchima. Anche nella scimmia, per quanto sia trascorso lungo tempo della ultima iniezione (5 - 11 mesi), si possono ricavare dal sangue e dagli organi (fegato e milza) colture iden- tiche per caratteri morfologici e batteriologici a quelle iniettate, e come queste dotate di azione patogenea per la cavia e resistenti alle alte temperature ('4 ora 100°). Nel passaggio attraverso la scimmia le colture, che nei casì più lenti sembrano aver subita una sensibile attenuazione, presentano quelle variazioni nel tipo batterico e nella li \ un si = —_ % Nine dr Li Memorie. Serie VI. Tomo VIl. 1909-1910. G. Tizzoni - Sulla possibilità di trasmettere la pellagra alla scimmia. Dott. L. Bombicci-Porta fot. MOTTA loro trasportabilità che si verificano per il passaggio nella cavia e che talora avvengono anche spontaneamente nella stessa matrice in sangue di coniglio. Per ultimo fu osservato che le colture più difficilmente trasportabili sono sempre quelle ricavate dal sangue, e che le colture del fegato presentano più facilmente le varia- zioni di tipo di quelle della milza. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1. — Scimmia I. Coltura del fegato, in agar, di 20". Colorazione cor fuesina idro- alcoolica. Ingr. 1:1000. Fio. 2. — Scimmia I. Coltura come la precedente, tenuta ! ora a 100°, iniettata In una cavia (Esp. 3°) e ripresa dal sangue. Fucsina idro-alcoolica Ingr. 1:1000. Fig. 5. — Scimmia I. Coltura eguale a quella della fig. 2, tenuta ‘4 ora a 100°; ripresa dalla milza di una cavia alla quale era stata iniettata. Da innesto originale in brodo comune. Metodo Weigert con fucsina idro-alcoolica. Ingr. 1:1000. Fio. 4. — Scimmia I. Come nella fig. 3. Accanto alla forma elementare data da cocchi lanceolati, si vedono catene caratteristiche, aleune abbastanza lunghe. Colorazione e ingran- dimento come nella fig. 3. Fig. 5. — Scimmia I. — Sempre come nella fig. 3; anche la colorazione e l’ ingrandi- mento. Fiocco di catene con elementi in buona parte degenerati. Fio. 6. — Scimmia II. Coltura del fegato, in agar, di 20". Colorazione con fucsina idro- alcoolica Ingr. 11000, Fie. 7. — Scimmia I. La stessa coltura precedente passata nel corpo della cavia e ripresa dalla milza. Da innesto originale in brodo comune. Lunghe catene caratteristiche, Colorazione col metodo Weigert con fucsina idro-alcoolica. Ingr. 1:1000. Fig. 8. — Scimmia II. Eguale alla fig. 7 anche per la colorazione e l'ingrandimento; ma la preparazione fu fatta dal liquido di condensazione di una prima generazione in agar innestata da una prima generazione in sangue di coniglio. Catene circonvolute, caratte. ristiche, formanti una rete elegante. Fig. 9. — Scimmia II. Eguale in tutto alle due figure precedenti. Fiocco di catene: framezzo forme elementari separate costituite da diplococchi lanceolati. Tutte le microfotografie che stanno a corredo di questo lavoro furono eseguite dal D. Luigi Bombicci-Porta, che mi piace ancora una volta ringraziare e designare al pubblico per la sua bravura nella esecuzione di quanto può aversi di meglio dalla foto» grafia in servizio della scienza. 3 % TASPANTO TERRITO SULLE CURVE A DOPPIA CURVATURA IN GEOMETRIA IPERBOLICA MEMORIA DEL PROF. AMILCARE RAZZABONI (letta nella Seduta del 27 Novembre 1910) In alcune mie precedenti pubblicazioni (*) dimostrai come debbano opportunamente modificarsi le formole dell’ ordinaria Geometria differenziale quando abbiano per oggetto lo studio delle proprietà, delle curve considerate negli spazi a curvatura costante (bposi- tiva o negativa), ponendo a fondamento delie medesime un gruppo di formole che, presentando la più grande analogia con quelle notissime del Frenet, furono denominate dal prof. Bianchi, che pel primo le determinò nel caso ellittico, con lo stesso nome. Sebbene le applicazioni che ne diedi mostrino abbastanza chiaramente la via da seguirsi in simili ricerche, credo tuttavia opportuno aggiungerne qui qualcun’ altra, anche perchè mi si offrirà così |’ occasione di fare alcune considerazioni che non mi sembrano del tutto prive d’ interesse, specialmente quando, come qui si suppone, la curvatura dello spazio sia negativa. Riporterò dalla corrispondente mia Memoria, che è la prima delle surricordate, le formole di cui dovrò far uso nel corso di questa, omettendone però le dimostrazioni, poichè sì trovano in essa convenientemente sviluppate. 1. Formole generali. — Supponendo per semplicità eguale a — 1 la curvatura del nostro spazio, ed essendo ,, %,; %,, 4, quattro variabili legate fra loro dalla relazione 2 2 2 DZ, XXX + X%3 —x,= — 1, si ha, come è noto, per l’ espressione dell’ elemento lineare dello spazio stesso ds = da + da$ + daì — daî, (") Ze formole del Frenet in geometria iperbolica con applicazioni (Bologna, Tipografia Gambe- rini e Parmeggiani, 1899). Sulle curve a doppia curvatura in geometria ellittica (R Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Serie VI, Tomo V). La trasformazione di Bdicklund per le curve a torsione costante nello spazio ellittico a tre dimensioni (Rendiconto della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, 1909). Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. o) — 30 — mentre la distanza d di due suoi punti, di coordinate #;, «;, è data dalla formola 3 ' coshd =Y aa, — 4g. LI Per ottenere | equazioni differenziali delle geodetiche (rette), basterebbe eguagliare GIA a zero la variazione prima dell’ integrale [os e sl troverebbero facilmente l’equazioni : s 24550) d°x; ds” san Vai 0, (è = 0, I, 2, 3) ‘he, integrate, danno luogo alle altre in termini finiti : (0) X,=%;coshs + É,senhs ove le x; sono le coordinate di un punto fisso e le È; i coseni di una direzione per esso, verificanti perciò 1° identità quadratica L'equazione di un piano si scrive facilmente osservando che, se con É; denotiamo le coordinate del suo polo rispetto all’ assoluto È + Q0È, + IR — 206 = (00, sì ha identicamente 3 (2) DEI 1 ove le X; esprimono coordinate correnti: indicando poi con d la distanza da esso di sussiste la formola 3 senhò = » AGI <= NETTE 1 ò ' un punto x, LV) mentre per l’ angolo @ di due piani ha luogo la correlativa cosp = YI Gb — Eko. Se ora si considera una curva le coordinate dei cui punti siano funzioni del suo arco s e si indicano con è; i coseni di direzione positiva della tangente, con 77; quelli della normale principale e con È; quelli della binormale, le formole surricordate del Frenet, supponendo sempre lo spazio iperbolico, sono le seguenti : DET dm; end Vi == 639 = — + x; = — do 9 ds RAT) Aida (8) O denotando fg e 7 i raggi di fiessione e di torsione della curva i cui valori sono espressi dalle formole P 3 EX? EN? nes VE() (a): gp ds ds 2. Superficie sviluppabili. — Se per ogni punto della nostra curva consideriamo le tre anzidette direzioni, le faccie del triedro da esse formato daranno origine ad al- trettante sviluppabili, cioè a superficie distendibili sul piano iperbolico, la cui curva- tura assoluta è eguale « — 1, proposizione, che, come è facile a verificarsi, sussiste insieme con la sua reciproca. Ciò premesso, prendiamo in primo luogo a censiderare la superficie inviluppo del piano osculatore della curva e mostriamo che essa coincide con la superficie luogo delle sue tangenti. Osserviamo perciò che, essendo in questo caso 3 D xd Xx, 60 = 1 l'equazione del nostro piano, derivandola rispetto ad s ed utilizzando le (3), avremo 3 DX XM=0 1 che è l’ equazione del piano della tangente e della binormale alla curva. Esso interseca il precedente secondo la tangente, la quale sarà perciò la caratteristica del piano oscu- latore considerato, come risulta anche da ciò che l’ equazioni trovate sono identica- mente soddisfatte dalle coordinate dei punti della retta X,= «;cosht + È;,senht che sono precisamente | equazioni della tangente alla curva nel punto ;. 3. Sviluppabile rettificante. — Passando ora a trattare il caso dell’ inviluppo ge- verato dal piano della tangente e delle binormale, ne determineremo anzitutto lo spigolo di regresso, il quale, a differenza di quanto avviene nello spazio ordinario, può essere reale o immaginario. Cominciamo perciò con lo scrivere l equazione del piano mobile che per la (2) sarà 2 Di (4) Se ie _0 l De sugo e deriviamola rispetto ad s; avremo per le (3) Te di 4 ro G (5) o (© Dr 5) UE T (x ie xt) —0 e questa, derivata una seconda volta, avuto sempre riguardo alle (3), darà luogo al- ]alteale 1 J lane IZ ARI (00 c (6) p ( Xii — i) a ds n XiÈ; sr X,b,) suini ds di NG versi xh) =0, 1 7 È 1 > 1 da cui e dalle due precedenti dovremo determinare i valori X; che le soddisfano. La (4) mostra subito che le X; potranno scriversi sotto la forma DG — t,%i © (RE: rsa (E e sostituendo nelle (5) e (6) dovranno sussistere 1° equazioni l DIE, DTA (7) 1 1 I p ? ds (0/8 (8) —R+I-B+B&=-1, la quale esprime che le X; verificano | eguaglianza | ld ©) (©) 3 72 72]00RO Val l Si soddisfa alla prima delle (7) ponendo À À —, L= e sostituendo nella seconda delle stesse (7), troveremo 1 1 1,=p ( lil, aio IO CS CRT Ta essendo 4 un fattore di proporzionalità che potremo subito determinare facendo le re- lative sostituzioni nella (8) dopo di che si avrà: (dp _ 31 1 cia lniat+ 7 (Gt ZIO e quindi ns e ci / d p 2 p° ASA TR Vediamo intanto che, affinchè 4 sia reale e corrispondentemente sia reale lo spi- golo di regresso della sviluppabile, bisognerà che sia soddisfatta la disuguaglianza \d(p\} cpr: (E)5+ in tal caso avremo per le coordinate 4 dello spigolo di regresso n (0) 1 den (Oasi ds T ovvero, ponendo Sad n (a) COSigaz== —====5; Sea o e del q° Tre? dovranno aver luogo le formule : - 5, Ae — DI, CA Ra a i CL) ei VA D) 1065 V( 1 risulteranno Ì equazioni : (9) c0 = x; cosht + (E, cost + È, sent) sen ht Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. CSO nelle quali, per le (a), 7 ha il valore Le (9) mostrano che 7 non è altro che l’ angolo che la normale principale alla curva fa con la tangente; mentre, avendosi per le (0), resterà così determinato il valore # della porzione di generatrice compresa fra la curva e lo spigolo di regresso della superficie considerata. 4. Sviluppabile polare e sfera osculatrice. —- Rimane finalmente da considerare l’ inviluppo del piano normale alla curva, caso questo che, essendo ampiamente svilup- pato nella mia predetta Memoria, riassumerò brevemente. Scrivendo | equazione del piano generatore 3 DX I 0 1 e quella che si ottiene derivandola rispetto ad s d Ù Xi (È - x) = di (2 + %) 10% ATO p esse ci rappresenteranno la caratteristica del piano stesso che si dimostra essere la perpendicolare al piano osculatore nel centro di curvatura, intendendo con questo il punto che è determinato dall’estremità del segmento + misurato sulla normale prin- cipale alla curva nel suo verso positivo a.partire dalla curva stessa, il cui valore è dato dall’ equazione = 000, Indicando poi con x le coordinate del centro della sfera osculatrice, per ia quale vengono conservate le ordinarie definizioni, sì trovano facilmente le formole : È d (10) 0 ieoshik (2 + poni T ALA. 3 ds essendo A il raggio della sfera stessa, il cui valore è espresso dalla equazione AD Fa, 2 dp s * (DÌ) ugo =D +(1°0). (5) (*) Questa formola ci mostra che affinchè la sfera osculatrice abbia centro reale, bisogna che sia Jo\? PSI Volendo ora esaminare in quali casì il raggio di questa sfera è costante, dovremo derivare la (11) ed otterremo così l’ equazione n°) 224 (r90)|=o ds ds ds dalla quale, non potendo 7° essere zero, seguiranno le due dp p d dp 12 == _ — (| 2 ==) de, ds Do m Fa ds ( sa) o Supponendo verificato il primo caso, che cioè la curva sia a flessione costante, l’equazioni (10) della linea dei centri delle sfere osculatrici si ridurranno alle (13) ci) = x;coshR + 7; senhR, giacchè si ha per la (11) OZZIONOAR. e le (13) essendo anche l’ equazioni della linea dei centri di curvatura della curva, ne concludiamo che le due linee coincideranno. Per vedere in quale relazione stanno fra loro la curva data l e la curva luogo ©, dei suoi centri di curvatura, derivando le (18) avremo senAhR di) 2 ò; Cds, da cui sen Ah R (14) ds =E = ds IR: avendo indicato con ds, l'arco elementare della C,. Distinguendo in modo consimile gli altri elementi della curva, avremo intanto (15) Siena 8 se al contrario sarà la sfera osculatrice esisterà sempre, ma sarà a centro ideale; nel caso intermedio in cui n) 2 p+(7° = | ds o sarà o=l ovvero la sfera osculatrice sarà costantemente un’ orisfera, -- 36 — ma poichè segue subito di qui (16) Li ) === ds, de e si ha per le formole del Frenet dr. ,(0) — t xi ds Pa e per le stesse formole e per la (14) eo dei -_W ds, senAR sostituendo, avrà luogo | eguaglianza (0) < + go) = — a 5 x sen Rf da fcueperlala (i) (0) OZ gb (c; + 2. P, p Da queste equazioni segue facilmente 1 l ni Pò p cioè Po sar p ; e ne concludiamo che le due curve € e C, sono di egual flessione avendo nel tempo . stesso luogo le altre equazioni (17) Ni) = — x;senhR — p;coshR . v Derivando le (17) e avendo riguardo alla (14) e alle (3), troveremo poi 300000) i. onialela = r&9(0+2), DO p\p ossia per la (15) (0) I (18) ci =*r(1-.,) É, IE, p da cui Il A Tx 0-3) Ti P od anche Il I (19) SAT TE. COTE. la quale formola mostra che il prodotto delle torsioni delle due curve nei punti cor- rispondenti è costante ed eguale al quadrato della flessione diminuita dell’ unità, 0, se vogliamo, aumentata del valore della curvatura nello spazio, analogamente a ciò che abbiamo trovato in geometria ellittica; mentre in geometria ordinaria si ha, come è noto, non comparendo l’espressione della curvatura che è zero. Possiamo ancora notare la formola du. che segue dalle (18) e (19), rimanendo così completato il quadro delle relazioni che passano fra-gli elementi delle due curve C e C,. Osserveremo inoltre che come la €, è la linea dei centri di curvatura della C, così questa è la linea dei centri di curvatura di quella; giacchè se le (13) e la (17) eli- miniamo le 7;, otterremo subito ci = 2 coshR + N° senhR. Passando al secondo caso, che sia cioè soddisfatta la seconda delle (12), siccome si ha, differenziando le (13), | a/ d dai — — coshk O A +. (7 L ) {;ds, (0) i dovrà essere dx, = 0, vale a dire «!" = cost.° e allora le (10) mostrano subito che si avrà identicamente 3 ES, Ù 00 + GIO) = (GONO 1 per tutti i punti x; della curva e quest’ equazione esprimendo che i detti punti sono ad egual distanza dal punto fisso #5, ne segue che la curva stessa sarà sferica e la seconda delle (12) ne sarà quindi | equazione caratteristica (*). 5. Evolute ed evolventi. — Mantenendo immutate le ordinarie definizioni, suppo- niamo di avere una curva € di cui indicheremo con «x; le coordinate di un puuto .M mobile in essa: indicando con #; quelle del punto corrispondente M' di una sua evol- vente l', avremo evidentemente le equazioni : (20) x; = 2%; coshs — È; senhs esprimendo s | arco della C contato nel senso degli archi crescenti. Derivando le (20) (*) Questo ragionamento vale quando è reale il centro della sfera osculatrice, ma non sarebbe dif- ficile provare che esso regge egualmente se questo è ideate ovvero all’ infinito. IMRE ed osservando le (3) troveremo ' doi : o LL gog 08) ds da cui per l’ elemento d’ arco ds' della €' seguirà subito 3 sens ds = ds e quindi Ù IVES dex, (21) È; = Ni - aids: Queste equazioni ci mostrano subito che tutte le evalventi, di cui le (20) sono le equa- zioni, della curva © e che costituiscono una semplice infinità sono tutte trajettorie ortogonali delle generatrici della sviluppabile che ha la © per spigolo di regresso. Calcoliamo infatti i coseni di direzione della MM' in M': basterà per ciò consi- derare le (20) come le equazioni della MM' supponendo x; e É; quantità fisse e de- rivare rispetto ad s: otterremo pei coseni richiesti dx! î ds x;senhs — E; coshs e quindi per le (21) ve&- La - ds ds la quale equazione esprime che effettivamente le evolventi stesse sono tutte trajettorie ortogonali delle generatrici della sviluppabile considerata. Risolviamo ora la questione inversa, cercando cioè di determinare tutte le evolute C' di una curva data €. Essendo M, M' due punti corrispondenti delle due curve, dovremo perciò esprimere che la MM' è al tempo stesso normale alla € in M e tangente alla C' in 2'. Chiamando 7 la lunghezza del segmento MM' e a i’ angolo che il segmento stesso forma con la direzione positiva della normale principale alla C, avremo evidentemente le equazioni (AS) (£ 2) vi = 2; C0ShT + (76084 + È; sena) senht nelle quali dovremo determinare le due incognite « e T. A tale oggetto, derivando le (22) rispetto ad s ed ordinandole, avremo le equazioni : dx; dt cosa sen ht (23) = (F sent) Xi + (cost — SEINLe) E + ds ds p dT COSA COSAT Mit l da + (7 a sena senhT + S 1 da dr \ ui — (F — — | cosasenhT +=- sena coshe | G; 1a. ds ds e derivando le (22) rispetto a T avremo (24) —! _.a;senht + (7;cosa + ;sena) cosht che esprimeranno i valori dei coseni di direzione della MM' in M'. Ora, poichè, indicando con 4 un fattore di proporzionalità, deve sussistere | egna- glianza Li Ù dx; dx; SR ETA E ds dr È LU ' ì È CHE 0%, ; 0 sostituendo in questa a —- i loro valori (23), (24), dovranno essere soddisfatte ds’ dr le equazioni lineari ed omogenee dt COS SeNAT\ sent (7 cs à) Li + (costr — e Gi + 8 | Î da dT +. (G — — | sena senhT + (F — |) cosa coshT 335 IP ds ds Co=0 | | \ I da dt n + | F —_ =) cosa sen ht + (5 33 à) sena cos ht | TTI ds nelle quali osserveremo che il determinante dei coefficienti è |’ unità positiva. Segui- ranno quindi l’ equazioni : dT cosa sen kT sen n _ 2) = 0, coohT — —_——_ =" 0, ds p 1 da dt ( — 2) sena SenRT + (— = à) COSIRICOS /uTi—10] ID ds ds l da dt — 7 — dl cosa Sen ht + (a à) sena coshT = 0 TP ds \ ds da cui p ds 25 ov = de || = di 5 cosa’ SICA e poichè allora COSA COSÙT = Nisen/ezi= È sostituendo nelle (22) avremo finalmente al —_—_ l do, == 5 = Vcosa - pP° (2; + PR) cosa + pÈ;sena per le equazioni delle evolute richieste; sicchè il problema sì risolve con una qua- dratura (la determinazione dell’ angolo a). Possiamo anche mostrare facilmente che tutte le ce' evolute di una curva giac- ciono sulla sviluppabile polare della curva stessa; giacchè se nelle (26) sostituiscono a f il suo valore tg/hw, avremo i 1 = = 3 = (2; c08%A10 + 77; Senhio) cosa + È; sen a sen uo i Vv cosa cos kw — sen kw | ossia, posto COSA sena sen wo (c) COS/a== MS IA OE DJ 2) V costa cosh"“0 — sen kw Vcosa cos'hiv —- sent risulteranno subito le equazioni : (250) xv = (2;c0sh10 + g;sentuo) cosht + É;senht, Ù e le (c) mostrano inoltre che le singole evolute incontrano una stessa generatrice a una distanza 7 dal centro di curvatura dell’ evolvente data dalla formola (28) toht = tgasenhw. Nel caso che 1° evolvente sia piana, dovendo allora essere = 0, ne segue per le (25) che a dovrà avere un valore costante e le corrispondenti evolute saranno rap- presentate tutte dalle (27). Fra queste vi sarà l’ evoluta piana che corrisponderà al valore zero di a, e poichè in tal caso la sviluppabile polare è il luogo delle normali al piano dell’ evolvente lungo la sua evoluta piana, per quanto abbiamo veduto, pos- . siamo concludere che tutte le altre evolute saranno trajettorie delle generatrici di questa sviluppabile. Per determinare l’ angolo sotto il quale le diverse evolute incontrano queste gene- ratrici, deriviamo le (27) rispetto a « ed otterremo : 2 dg dt (29) dor ti sen/w cosht + cosi sen ht =) t dl sen/tw sent) + È; DI coshét, dw + i (coste cosht + dw da cui, indicando con ds' l'arco elementare delle evolute, ponendo cioè 2 12 IR 12 12 ds' = da, +dx,+dx,— da, seguirà subito DI . ds'‘ dt —@OS/MA= Ta : du du ge ma si ha dalla (28) dt toa cos fw 1 £ = 5 5 COSA = 0) _ dw 1— te°asenl'w VI — to°n senh'w sostituendo quindi nella precedente avremo ds! cosa dw —— (cosa — sen’asen hw) e finalmente È cosadw (39) ds =-— = = è costa — sen“a senlt"w Se indichiamo ora con A, B, C i coefficienti delle «;, 7;, &; nelle (29) ed elimi- niamo la # per mezzo delle (c) e (30), troveremo facilmente cosa sen /ruw A = 9 D) D) È b) (cosa — sen°a sent") ° cosa cos hi B =_= 3 Papa 2 2 2 22 (costa — sen'a senk'w) È sena cosa coshw , z 2 2 (cos — sen'a senkw) e dividendo per la (31), avremo pei coseni di direzione della tangente alle singole evolute l 2 dx, sen/uo cosa cos w DA == 3 3 = Li + = 3 = 5) i + s Vcosa — sen°a senk"0 Vcos'a — sen a senk°w0 sena cosa cos/uw È Gi. DI 9 D V cosa — sen°a senA“wo Invece, per determinare i coseni di direzione delle generatrici della sviluppabile, basterà derivare le (27) rispetto alla #; eliminando poi questa variabile per mezzo delle (c), avremo i valori dei coseni richiesti nei punti ove esse generatrici incontrano le evolute considerate espressi dalle formole dx; sena cos /uw sen/ue sena sen/"w - == Li == Ma dt Vcosa coshf0 — senh%w ma >? 9 D) Vcosa cos hw — sen kw cosa li A D) D) > Voosa cosh"v — sen hw e quindi, detto @ l’angolo secondo cui le evolute tagliano le generatrici della svilup- pabile, posto cioè 3 ! SL J I pe y da; dx; e dae, dg mi CSI dsl dii SMAIAZIA avremo, sostituendo e riducendo cosp = sena cosWw . 6. Le curve del Bertrand. — Denoteremo con questo nome le curve che hanno le normali principali comuni e mostrarono, come applicazione delle formole precedenti, che esse soddisfano a condizioni consimili a quelle cui verificano le curve dello spazio ordinario. Siano perciò C e C' due tali curve ed M, M' due loro punti corrispondenti : in- dicando con # la porzione di normale principale comnne compresa fra le curve anzi- dette, avremo le equazioni (32) x; = 2;00Sht + 1; sen ht, (7 da cui, derivando rispetto all’ arco s della €, A, aa = KSennt è — ji COSI? dA di E. 0 + gp; cosht:- — ( - ) senti, ds p sl ovvero dx; dt sen ht (33) = x;senht.— + È, (cosn _ ) + ds ds p dt sen lt + 7;c0sht ra Gi wa ma se con À; indichiamo i coseni di direzione della MM' nel punto M' troviamo subito À; = w;senht + p7;cosht, ed esprimendo che la MM' è normale alla 0', dovrà essere soddisfatta la condizione d’ ortogonalità 3 ' ' x» rd, oli 0 as ° dS ds ; 1 ossia # = cost.° (*). Le (33) intanto si semplificano nelle dex; i senht sen ht 34 SAASTERENCOSNA E Reel (ta. (34) n= di (così ee e poichè da queste segue subito SA SenRA\FNisentA | (35) disi= (cost _ ) POR 3 [as | p A0E; (*) Osservando che le C, C' sono due trajettorie ortogonali della rigata di cui MM' sono le gene- ratrici, il risultato è una conseguenza immediata di noti teoremi. SIMONA posto sent sen ht cosht — - ds; (36) Cosgie= 1 = =; fo == - senht\® sen senht\® sen V (cost eni ) e \ cosht — ) uu p ee p T? avremo le formole RENE 1207 (37) E = gg E;coso + G;seno S pei valori dei coseni di direzione della tangente alla €'. Se ora poniamo la condizione che la normale principale di questa carva in M' abbia la stessa direzione della M'M, dovranno aver luogo ie equazioni (38) n, =fÀ; = f(c;senht + 7; cosht) ove f indica un fattore di proporzionalità, e poichè si ha evidentemente essendo f, un secondo fattore di proporzionalità, sostituendo ad 4, 2; i loro valori (32) e (38), avremo e, , = =f,j —(x,senht + 7; cosht) + 2, c0sht + 7; senht p od anche n= fi (2;coshé 4 n; sent) + f, (2; senht + n; cos ht) avendo posto ma se deriviamo le (37) troviamo dé; SA do th coso _ seno) e do è = — Esseno = Si ; COST — ds i i mr p Ti ) x ds’ confrontando quindi con la precedente dovrà essere do — =00 ds vale a dire o = cost.° Introducendo questa ipotesi nelle (36), ne deduclamo l’equazione coso seno i + seno co/ght = 0 1 p che è della forma (89) i n ( $ 3 dis essendo A, 5, C tre costanti. Supponiamo inversamente di avere una curva € i cui raggi di 1.° e 2.% curva- tura soddisfino la (39); potremo determinare la 7 dall’ equazione D) C cotght == — — B ove dovrà supporsì pi > l se vogliamo avere valori reali per #, e ‘allora le (32) o) rappresenteranno una curva C€' che avrà a comnne con la © la normale principale. Ma se 0 e T sono costanti, cioè se la curva C' gode nello spazio iperbolico della pro- prietà stessa che caratterizza nello spazio ordinario le eliche circolari, facilmente ve- diamo che potrà prendersi per # qualsiasi valore, per ognuno dei quali le curve cor- rispondenti C€' avranno come la © costanti la flessione e la torsione. Posto infatti Ro; senki\? sen le — V (cost — ) + 5 p Tai sarà H costante e 1° espressione (35) dell’ elemento lineare della corrispondente C' sarà ds' = Hds e seguirà subito dalle (37) per le formole di Frenet der: TOMNTA COSO 7; Seno È +2) GOD n° da cui, avuto riguardo alle (32), ni 76 (E coshi) = DI (Cee = e) si on IR ——> f . 5 eb Ì 7 p Ù Di Vi | H p qT | ’ ovvero, posto COSO 1 /coso seno = a = (COS ii p Sa T ) senz, v pai == ea N, Questa formola ci dà il valore della flessione (40) go VaR e quindi pei coseni di direzione della normale principale alla C' k M N 9 iene Wi; ma, se indichiamo con 4; i coseni di direzione della normale principale alla © nei punto ove essa incontra la C', si ha per le (32) (42) Ai = x;senht + 17; cosht ove, come si verifica facilmente, senht = di guisa che le (41) e (42) coincideranno, vale a dire le €, C' avranno a comune la normale principale. Calcoliamo immediatamente la torsione della nostra curva derivando le (41) e troveremo subito per essa i’ espressione l I VI Da) cosht ue cosh'7 — = senht — 3 IE H p ) Tea . I un valore costante, mentre la flessione —- è pure costante come lo Ì che dà per m mostra la (40). Nella relazione (39) supponendo zero |’ una o. l’altra delle costanti A e 5 abbiamo come caso particolare delle curve del Bertrand quelle a flessione o a torsione co- stante; ma la costruzione geometrica relativa non sarà evidentemente più applicabile. ei = tl! Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. pas SUL CONTEGNO DI ALGUNH SOSTANZE ORGANICHE NEI VEGETALI IV. MEMORIA DI GIACOMO CIAMICIAN E CIRO RAVENNA (letta nell'adunanza ordinaria del 26 Marzo 1911). Nella nostra III Memoria (1) abbiamo descritto alcune esperienze dalle quali risulta che inoculando nelle piante di tabacco e di datura certe sostanze azotate, si ottiene, segna- tamente colla piridina, un notevole aumento nella quantità totale dei rispettivi alcaloidi. Simile fatto si prestava alla interpretazione che la piridina potesse prender parte diretta alla sintesi della nicotina e degli alcaloidi della datura; ma una simile conclusione doveva apparire tutt’ altro che probabile, massime tenendo conto delle vedute che attualmente prevalgono intorno alla formazione degli alcaloidi nelle piante. Era però necessario speri- mentare il contegno di altre sostanze azotate ed a tal fine vennero impiegate l’ asparagina, il tartarato ammonico e fu ripetuta l’esperienza col tartarato di piridina. Inoltre, come avevamo del pari rilevato ultimamente, è noto che in certe piante lesioni traumatiche possono avere influenza sul metabolismo (2) e però abbiamo ricercato se nel nostro caso, la ferita fatta nel fusto per introdurvi la sostanza in esame, determinasse per se stessa variazioni notevoli sui contenuto in alcaloidi. Siccome poi é stato notato che la presenza di un eccesso di materia zuccherina fa aumentare l’acido cianidrico nelle piante cianogenetiche (3), abbiamo per ultimo sperimentato il comportamento di sostanze non azotate inoculando il glucosio e, per confronto, una sostanza aromatica dal pari molto ossigenata: l’ acido ftalico. Tutte queste esperienze furono eseguite sul tabacco. Le prime operazioni per l’estrazione degli alcaloidi, data la troppo grande quantità di materiale, furono eseguite gentilmente presso la Ditta Carlo Erba di Milano. Alla Ditta Erba, al Procuratore della Casa Dott. Giovanni Morselli ed al Dott. Raffaele Pajetta, che (1) Queste Memorie, serie 6, tomo 7, pag. 143 (1909-910). (2) C. Ravenna e M. Zamorani: Le stazioni sperimentali agrarie italiane, 42, 389 (1909). (3) M. Treub: Annales du Jardin botanique de Buitenzorg, 13, 1 (1896); bid. 4, serie 2.*, 86 (1904); C. Ravenna e A. Peli: Gazzetta chimica italiana 37, 2, 586 (1907). ARIE con grande cura e perizia diresse le operazioni che gli avevamo affidate, esprimiamo qui la nostra più viva riconoscenza ed i nostri sentiti ringraziamenti. Dalle piante che subirono i diversi trattamenti venne preparato a Milano anzitutto l'estratto cloridrico, il quale, per evitare che durante la concentrazione 1’ acido danneg- giasse il lambicco di rame, fu poi neutralizzato con soda ed il liquido ottenuto, acidificato con acido tartarico Questi diversi estratti, concentrati nel vuoto a piccolo volume, furono presi in lavorazione da noi. Inoltre venne fatto da un certo numero di piante che non subirono alcun trattamento, un’estratto acquoso che fu esaminato per ultimo. Esame degli estratti cloridrici. SOSTANZE AZOTATE. — a) Asparagina. — Furono prescelte cinque piante di tabacco alle quali venne inoculata l asparagina col metodo altre volte descritto nei giorni 10, 20, 30 agosto e 9 settembre nella quantità totale di gr. 29. Le piante si raccolsero il 17 set- tembre e pesavano complessivamente Kg. 15,0. Per conoscere il peso totale delle basi contenute nell’estratto giuntoci da Milano, lo abbiamo reso fortemente alcalino con potassa e distillato in corrente di vapore su acido cloridrico; il liquido raccolto venne evaporato nel vuoto e dal residuo secco fu eliminato il cloruro ammonico mediante estrazione con alcool assoluto. L'estratto alcoolico seccato a 100° pesava gr. 88,2, corrispondenti a 2,50 per mille di piante. Dai cloridrati così ottenuti si misero in libertà le basi rendendone la solu- zione fortemente alcalina con potassa ed estraendo con etere. Evaporato lentamente |’ etere, sì frazionarono gli alcaloidi e sì ottennero due frazioni: la prima, bollente fra 80° e 110°, era assai esigua (circa gr. 0,3); la seconda bollente a 240° pesava gr. 20,5. La parte più volatile era costituita da isoamilamina: infaiti ne preparammo il cloroaurato che cristal lizzava nelle caratteristiche tavole le quali, deacquificate, fondevano a 151°; la seconda frazione era costituita naturalmente da nicotina. b) Piridina. — Si adoperò questa base allo stato di tartarato e le inoculazioni fu- rono fatte contemporaneamente alle altre. La quantità totale introdotta nelle cinque piante sperimentate fu di gr. 60. Queste, al momento della raccolta, pesavano Kg. 17,1 Da esse si ottennero gr. 31,0 di cloridrati corrispondenti a 1,81 per mille di piante. c) Ammoniaca. — Anche questa sostanza fu somministrata allo stato di tartarato a cinque piante negli stessi giorni delle esperienze precedenti, nella quantità totale di gr. 36. Le piante, raccolte il 17 settembre, pesavano Kg. 15,2. Procedendo col metodo già descritto, si ottennero gr. 29,4 di cloridrati, corrispondenti a 1,93 per mille di piante. PIANTE LESIONATE. — Nella corteccia di cinque piante di tabacco, venne praticata un’ apertura rettangolare lunga da otto a dieci centimetri e larga tre, in modo da lasciare la parte tagliata attaccata al rimanente per uno dei lati minori del rettangolo. Mentre nelle esperienze di inoculazione in una simile apertura si introduceva la sostanza da spe- rimentare, in questo caso si rimise semplicemente in posto la parte staccata e si chiusero le commessure con paraffina: tutto ciò allo scopo di studiare le eventuali variazioni pro- AGE dotte dalla lesione. Le piante, raccolte il 17 settembre, pesavano Kg 17,9 e si ottennero da esse, col solito metodo di estrazione, gr. 34,0 di cloridrati corrispondenti a 1,90 per mille di piante. SOSTANZE NON AZOTATE. — «) Glucosio. —— Anche per queste esperienze si prescelsero cinque piante alle quali vennero introdotti complessivamente 40 gr. di glucosio negli stessi giorni in cui furono fatte le inoculazioni delle sostanze azotate. Le piante, al momento della raccolta, pesavano Kg. 16,0 e fornirono gr. 34,5 di cloridrati corrispondenti a 2,15 per mille di piante verdi. 6) Acido ftalico. -- Fu somministrato allo stato di ftalato potassico inoculato negli stessi giorni, in totale, gr. 40 del sale a cinque piante del peso, al momento della raccolta, di Kg. 18,1. Da esse si ottennero gr. 20 di cloridrati, corrispondenti a 1,52 per mille. PIANTE TESTIMONI. — Per avere un termine di confronto, abbiamo dosato gli alcaloidi di altre cinque piante che non subirono alcun trattamento. Anch’esse furono raccolte il 17 settembre e pesavano Kg. 15,4. Esse dettero complessivamente er. 23 di cloridrati corrispondenti a 1,49 per mille. Le basi vennero messe in libertà con potassa concentrata e si estrassero con etere. Per distillazione frazionata si ottenne, oltre alla nicotina, una piccola quantità di isoamilamina identificata per mezzo del cloroaurato RIASSUNTO. I risultati delle esperienze ora eseguite sono riuniti nel seguente quadro in cui si tro- vano riportati i numeri che abbiamo precedentemente indicato. Questi numeri, per quanto riguarda l’effetto dell’asparagina, della piridina e deil’ammoniaca sono comparabili fra loro, perchè le quantità di sostanze azotate si equivalgono rispetto all’ azoto. Peso delle piante Peso dei cloridvati | Cloridrati per mille Asparagina Kg. 15,3 SEMI 2,50 Piridina | » II o » 31,0 1,81 Ammoniaca » 5,2 » 29,4 1,93 Lesionate » 17,9 » 834,0 1,90 Glucosio » 16,0 » 34,5 Zali Acido ftalico di Sl > 2070 | 1,52 ‘l’estimoni >» bd >» 23,0 1, 49 Dal precedente quadro risulta, in conformità a quanto venne accennato nella introdu- zione, che la piridina non ha un’influenza specifica sull’aumento degli alcaloidi del tabacco; l’ammoniaca produce lo stesso effetto e ciò sta in buona relazione col fatto noto che una concimazione azotata abbondante produce un aumento di nicotina. Più rimarchevole è 1° in- finenza cdell’asparagina la quale nelle nostre esperienze ha determinato la maggior produ- Se) e zione di alcaloidi. Come pure era stato indicato nell’ introduzione, la lesione stessa produsse l'effetto da noi previsto e però non è improbabile che in genere un trauma accresca il contenuto in alcaloidi nelle piante alcaloidiche, come fa aumentare l acido cianidrico nelle piante cianogenetiche. Anche il glucosio determinò un forte aumento di nicotina quindi pure da questo lato, le esperienze relative alla formazione dell'acido prussico diventano comparabili colle attuali. Infine è rimarchevole che la inoculazione dell’acido ftalico abbia condotto al minor per mille di alcaloidi tanto da differire di poco da quello delle piante testimoni. Tenendo conto dell’ influenza della lesione, se si può il suo effetto rite- nere costante in tutti i casi da noi studiati, sì potrebbe addirittura dedurre che | acido ftalico ha fatto diminuire la quantità di nicotina. Sarà perciò utile continuare lo studio dell'influenza che esercitano le sostanze aromatiche nelle piante alcaloidiche. L’isoamilamina. Rimaneva ancora da risolvere la questione, che già ci eravamo proposta nella Me- moria precedente, cioè se l’isoamilamina, che abbiamo sempre trovato fra gli alcaloidi del tabacco, preesistesse nelle piante o se prendesse origine da qualche altro composto durante la lavorazione in laboratorio. L’isoamilamina sta senza dubbio in relazione colla leucina da cui può prendere. ori- gine per eliminazione di anidride carbonica, ciò che realmente avviene per distillazione secca: mo Qi Oi ci CO dh Va CEL CLINT, L’isoamilamina poi si forma anche per distillazione a secco con potassa di alcune sostanze proteiche, come ad esempio della materia cornea (1). Però appariva possibile che nelie nostre ricerche questa base prendesse origine o da leucina presente nelle piante o eventualmente da qualche materia proteica. Abbiamo voluto quindi sottoporre al trattamento da noi seguito per l’ estrazione degli alcaloidi del tabacco, una pianta contenente notoria- mente molta leucina, poi !a materia cornea e finalmente la leucina stessa. Quale vegetale contenente leucina abbiamo prescelto le piantine germinanti di veccia così verdi, come eziolate. Si partì in entrambi i casi da due chilogrammi di semi e si operò, sulle piantine verdi, dopo un periodo germinativo di tre settimane; su quelle ezio- late, dopo un periodo di sei. Le prime avevano il peso di sette chilogrammi e le seconde di dieci. Il materiale triturato venne rispettivamente estratto con acido cloridrico diluito: l’estratto svaporato a secco nel vuoto e la soluzione acquosa del residuo, trattata con potassa concentrata e distillata col vapore su acido cloridrico. Svaporando a secco la solu- zione cloridrica si ebbe un cloridrato da cui, mediante estrazione con alcool assoluto si separò il cloruro ammonico: ma il prodotto ottenuto dimostrò non contenere l’isoami- lamina. (1) H. Limpricht: Amnalen der Chemie und Pharmacie 101, 296 (1857). Sciolto in acqua diede in entrambi i casì, per trattamento con cloruro d’oro, dei cri- stalli fondenti intorno a 230° in forma di aghi ricurvi simili a quelli da noì ottenuti l’ anno scorso dalle dature e che ritenemmo probabilmente identici al cloroaurato di putrescina. Inoltre il cloroaurato proveniente dalle vecce, trasformato in picrato, si presentò in forma di laminette, molto simili al picrato di putrescina, che erano del pari poco solubili e che col riscaldamento annerivano senza fondere. Ma l’analisi tanto del cloroaurato, che del picrato, non diede risultati soddisfacenti. Per esaminare il contegno della materie cornea, ci siamo serviti di 500 gr. di raschia- tura di corno. Questi furono trattati con soluzione di potassa caustica (2:1) e dopo che la massa s'era convertita in una densa poltiglia, venne distillata col vapore acqueo su acido cloridrico. Eliminato il cloruro ammonico, rimase il sale di una base, che trattato con cloruro d’oro diede un cloroaurato fusibile a 210°. Neppure in questo caso sì tratta dunque di isoamilamina il cui cloroaurato, come già si disse fonde a 151°. La prova colla leucina sì fece svaporando a secco nel vuoto la soluzione cloridrica di 5 gr. di sostanza e distillando poi col vapore su acido cloridrico il residuo trattato con eccesso di soluzione concentrata di potassa caustica. Per evaporazione del liquido raccolto e successivo trattamento con cloruro d’oro, non si ebbe nessun precipitato neppure a forte concentrazione. Queste esperienze rendevano assai probabile la supposizione che l’isoamilamina da noi costantemente ritrovata nel tabacco, non potesse provenire nè dalla leucina, nè dalle so- stanze proteiche. Per risolvere in modo definitivo la questione, ci sembrò tuttavia neces- sario eseguire sopra il tabacco stesso alcune esperienze modificando il metodo di estrazione degli degli alcaloidi in maniera da evitare l’azione degli acidi e delle basi forti. Abbiamo operato sopra 64 piante del peso complessivo di Kg. 147. Di esse facemmo preparare allo Stabilimento Erba l’ estratto acquoso, il quale, dopo concentrazione nel vuoto, fu da noi preso in esame per ricercarvi l’ isoamilamina. Una parte aliquota dell’ estratto (i venne svaporato a secco ed il residuo fu fatto bollire a ricadere con alcool assoluto per seperare la maggior parte delle sostanze pro- teiche dagli alcaloidi. Evaporato l’ alcool, sì sciolse ii residuo in acqua e si distillò col vapore, in presenza di potassa, su acido cloridrico. I cloridrati ottenuti. separati dal clo- ruro ammonico, pesavano gr. 16,5. Questi furono sciolti in poca acqua, si rese fortemente alcalino il liquido con potassa concentrata e le basi liberate si estrassero con etere. L'estratto etereo venne distillato frazionatamente raccogliendo una prima porzione fino a 110° ed una seconda bollente a 240° (nicotina), nella quantità di er. 9 La prima frazione contenente l'etere, venne agitata con acido cloridrico diluito e il liquido acido si trattò con cloruro d’oro. Si ottenne un precipitato che, purificato dall’acido cloridrico diluito, diede le ca- ratteristiche tavole del cloroaurato di isoamilamina che fondevano, dopo deacquificazione nel vuoto, a 151°. Sopra un’altra parte aliquota ( 5 ) dell'estratto acquoso si ripetè la stessa. opera- Lo zione ora descritta, ma sostituendo, nella distillazione col vapore, alla potassa, l’idrato di AE DANA magnesio. Anche con questo metodo si ottennero i cristalli tabulari di cloroaurato di isoa- milamina, fondenti a 151°. Rimane così dimostrato che l’isoamilamina che abbiamo ritrovato in piccola quantità fra gli alcaloidi del tabacco non proviene nè dalle sostanze proteiche, nè dalla leucina. Non possiamo però accertare se questa base si trovi nelle piante allo stato di sale o in forma di qualche suo derivato facilmente scindibile dagli alcali caustici ed anche dalla magnesia. Conclusioni. Dalle esperienze descritte in questa e nella precedente nostra Memoria, risulta che l’inoculazione di sostanze azotate di svariata natura chimica nel tabacco, produce un au- mento nella quantità totale di alcaloidi e che questo aumento si accentua impiegando l’asparagina, anche introducendo nelle piante quantità di materie proporzionali al loro contenuto in azoto. Ma anche dopo le esperienze di quest’ anno, le osservazioni raccolte non permettono di trarre conclusioni sufficientemente sicure relative alla genesi ed al significato degli alcaloidi nelle piante. Ci sembra però si possa affermare, che le nostre esperienze parlino piuttosto in favore di quelle vedute secondo le quali gli alcaloidi vege- tali provengono dagli acidi amidati. In favore di questa tesi ci sembra anche che possa essere interpretato il fatto della presenza da noi riscontrata dell’ isoamilamina e si potrebbe supporre, come fa recentemente il Winterstein nella sua interessante monografia sugli alcaloidi (1), che basi provenienti da acidi amidati, quali la lisina e l’ornitina, vengano dalle piante utilizzate nella formazione degli alcaloidi. Ci è grato infine esprimere i nostri sentiti ringraziamenti al Dott. Vincenzo Babini per l’efficacissimo aiuto che ci prestò in queste esperienze. (1) E. Winterstein e G. Trier: Die Alkaloide, Berlin, 1910, pag. 263, e segg. La Flora delle isole Pelagose MEMORIA DEL PROF. ANTONIO BALDACCI Letta nella Sessione del 12 Febbraio 1911 Il copioso materiale fioristico raccolto dal dott. Augusto Ginzberger del- l’Istituto botanico dell’ Università di Vienna nelle sue due escursioni del 1895 e del 1901 nel gruppo delle Pelagose (1), mi offre l’ occasione della seguente enumera- zione sistematica di piante di quel minuscolo, ma interessante arcipelago (2). Invero, quando due anni or sono l’ egregio botanico mi trasmise per lo studio, con tanta liberalità, il frutto delle sue diligenti ricerche, io aveva stabilito di fare un lavoro fitogeografico che riguardasse, oltre le Pelagose, anche le isole perigarganiche nei loro rapporti con |’ Italia e con la Dalmazia. Senonchè, mentre mi ero accinto all’ opera, essendo stato preceduto nel mio intento dal prof. Augusto Béguinot (3), viene ora a mancare ogni ragione di ripetere quanto è già stato scritto dal collega ed amico con grande interesse per la scienza. C. Petter è, a mia cognizione, il primo botanico che abbia raccolto piante nelle Pelagose (4). M. Botteri esplorò più tardi quel gruppo di isolette e le sue scoperte trovansi menzionate nella « Fiora dalmatica » di R. de Visiani (5), in parte come (1) Il dott. A. Ginzberger visitò, durante i suoi viaggi in Dalmazia, Pelagosa grande e Pelagosa piccola dal 30 maggio al 3 giugno 1895 e dal 5 al 9 giugno 1901. Egli ha pubblicato: Botanische Skizzen aus Dalmatien, in n. 3 d. Mitth. d. Section fir Naturkunde d. ò. T.-C., 1896, e: Aus « halb- vergessenem Lande » in n. 8 u. 9 d. ò. Tour. Zeit. 1896, nei quali si parla anche delle Pelagose. Io esprimo qui all’ egregio collega i più vivi e cordiali ringraziamenti per l’ incarico gentile che egli mi ha dato di studiare le due importanti collezioni da lui formate nelle Pelagose. (2) Cfr. A. Baldacci: Intorno alle Pelagose, in L’ Italia all’ Estero, pag. 1175, 1909. (3) A. Béguinot: La vegetazione delle Tremiti e dell’ isola di Pelagosa : studio fitogeografico, in Memorie della Società italiana delle Scienze (detta dei XL), serie 3, Tomo XVI, pag. 155, con una carta fitogeografica. i (4) C. Petter: Inselflora von Dalmatien, in Oesterr. bot. Zeitschr., pag. 18, 1852. — Carlo Petter, impiegato a Vienna, fu autore di due contributi alla flora delle isole del Quarnero, l’ uno pubblicato nel 1852 e il secondo, riproduzione del primo con qualche omissione, nelle « Verh. zool. bot. Ges. XII, 1862. » (5) R. de Visiani: Flora dalmatica, 1842-1852, cum supplementis. — Matteo Botteri, nato a Lesina e fiorito attorno al 1845 (cfr. Saccardo: Bot. in It., 1895, pag. 36), si ignora quando morì. Fu attivo corrispondente del De Visiani cui inviò da Lesina e dalle vicine isole un gran numero di Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. S raccolte da lui e in parte da L. Stalio (1). La bibliografia vera e propria sulle Pelagose comincia molto più tardi con M. Stossich, il quale, insieme al Tom - masini, erborizzò e si occupò di zoologia e geologia in quelle isole nel 1874 (2). Due anni più tardi il Marchesetti compiva il suo primo viaggio nelle Pelagose (3), le quali, sotto l’ aspetto geologico, erano già state esplorate da Stur e da G. Stache (4), compagno, quest’ultimo, dello Stossich. Il Marchesetti fece un altro viaggio l’anno seguente nel piccolo arcipelago (5) e così, in seguito, vi intraprese nuove escursioni, senza, tuttavia, presentare altre pubblicazioni speciali. Sulla fine del giugno 1904 il generale Robert v. Sterneck raccoglieva una piccola serie di piante a Pelagosa grande e Pelagosa piccola che io ho ricevuto in esame, col mezzo del dott. Ginzberger, dal nipote del generale suddetto dott. Jakob v. Sterneck e che pubblico in questo mio elenco. Le Pelagose vennero anche studiate da altri viaggiatori e naturalisti, tra cui i principali sono il console inglese R. F. Burton (6), M. Groller von Mildensee (7), C. A. Ulrichs (8) e da altri che hanno pubblicato in periodici e riviste le notizie loro pervenute (9). piante che si conservano in parecchi Erbari con etichette di pugno dell’ Autore, laddove quelle inviate all’ Erbario Dalmatico hanno di solito etichette di pugno del De Visiani. Questo botanico cita nella Flora Dalmatica il Botteri fra i suoi collaboratori e di lui si ricordò colla dedica di una specie (Brassica Botteri) e come vaccoglitore delle più rare, ma il suo contributo alla Flora Dalmatica è, senza confronto, più poderoso di quello che il Visiani si studiò apparisse ai posteri attraverso il suo Erbario e la sua opera. (1) Cfr. A. Béguinot, op. cit. pag. 10. — Luigi Stalio, nacque a Cittavecchia (Dalmazia) il 22 Giugno 1799 e morì a Venezia il 1° Settembre 1882. Fu professore di nautica nella Scuola mercan- tile in Venezia e raccolse piante ed animali dalmati. Scrisse parecchi lavori zoologici. (2) M. Stossich: Escursione sull’ isola di Pelagosa, in Boll d Soc. Adr. di Sc. Nat., pag. 217, 1875. — Idem: Sulla geologia e zoologia dell’ isola di Pelagosa, ibid., pag. 184, 1877. (3) C. Marchesetti: Descrizione dell’ isola di Pelagosa, in Boll. d. Soc. Adr. di Sc. Nat., pag. 283, 1876. (4) Stur: Tertiàrpetrefacten von der Insel Pelagosa in Dalmatien ete.. in Verhandl. d k. k. geolog. Reichsanstalt, pag. 391, 1874. — G. Stache: Geologische Notizien tber die Insel Pelagosa, in Verbandl. d. k. k. Reichsanstalt, pag. 123, 1876. (5) C. Marchesetti: Reisebericht, in Oest. bot. Zeitschr., pag. 36, 1877. (6) R. F. Barton: A visit to Lissa and Pelagosa, in Journ. of the roy. Geograph. Soc XLTX, pag. 151, 1379. (7) M. Groller von Mildensee: Topographisch-geologisch Skizze der Inselgruppe Pelagosa im Adriatique Meere, in Mitth. Jahvb. d. k. ungar. geolog. Anstalt, VII, pag. 7, 1885. — Idem: Die In- selgruppe Pelagosa im Adriatischen Meere, in Deutsche Rundschau fiir Geographie und Statistik, XVIII, pag. 159, 1896. (8) C. A. Ulrichs: Die Inselgruppe Pelagosa, in Deutsche Rundschau fir Geographie und Statistik, XV, pag. 211, 1893. (9) R. Haenisch: Wirkungen eines Blitzschlages auf der Insel Pelagosa, in Boll. d. Soc. Adr. d. Sc. Nat., pag. 229, 1876. — A. Gadéz: Beobachtungen, uber d. Vogelzug auf der Insel Pelagosa etc., in Die Schwalbe, Neue Folge, pag. 115, 1898-99; ibidem, pag. 63, 1900-01. — C. Marchesetti: Due nuove specie di Muscari, in Boll. d. Soc. Adr. d. Sc. Nat., 1882. -— E. Galvagni: Beitràge zur Kenntniss d. Fauna einig. dalmat. Inseln, in Verhandl. d. k. k zool. bot. Gesellsch. Wien, pag. 362, Riguardo alla parte geografica e geologica delle Pelagose rimando all’ ottimo lavoro del Marchesetti, sembrandomi inutile qui ripetere cose vecchie e già note. Io scrivo Pelagose invece di Pelagosa perchè si tratta di un gruppo di isole, e non di un’ isola sola. Infatti, le Pelagose sono rappresentate da circa 16 scogli, grandi e piccoli, distribuiti in due gruppi principali: Pelagosa grande è l° isolotto più grande con una superficie di 29 Ettari, 14 are, 64 metri®; Pelagosa piccola viene imme- diatamente dopo con una superficie di 3 Ettari, 73 are, e 90 m.°. La Pelagosa grande misura in lunghezza da S. E. a N. O. 1390 metri, e in larghezza 270, restringen- dosi in alcuni luoghi a 60 e 70 metri; arriva ad un’altezza massima di m. 91: si può quindi paragonare ad una rupe colossale. A queste due isolette principali tiene dietro per grandezza lo scoglio di Cajola. Le Pelagose hanno una vegetazione assai povera. « La loro flora è povera, se la confrontiamo a quella di altre isole della Dalmazia; però questa povertà è inegual- mente divisa nelle diverse famiglie che la compongono. Povera sopratutto è dessa in piante annue, mentre relativamente in copia ci appaiono le piante bulbose. Nè sola- mente in numero di specie predominano queste, che del pari per frequenza d° individui a lor si deve il primato, Ovunque il terriccio è soffice e fecondo, stanno i loro bulbi l’ uno appressato all’altro, per guisa che difflciimente un’ altra pianta vi si potrebbe frammettere » (1). La formazione fitogeografica principale di queste isole a scogliere è naturalmente la rupestre. Anche le specie che in altri territori appartengono a formazioni diverse, in quel solitario arcipelago dell’ Adriatico si adattano con facilità alle roccie appena riescano a trovare un po’ di terreno. Così la Mat{hiola incana, il Lotus cytisoides, il Daucus mauritanicus etc. sembraùo colà piante di rupe piuttosto che delle sabbie. Il paesaggio botanico della Pelagosa grande e della Pelagosa piccola manca di alberi e di arbusti gregari, se si eccettua qualche raro cespuglio di olivo selvatico e di lauro e qualche albero di olivo coltivato e di pero : il resto è dato da taluni gruppi di Pistacia Lentiscus che, tra i frutici, è l’unica specie diffusa tanto nella Pelagosa grande quanto nella piccola. La stazione rupestre con le sue associazioni rnpestri-alofile e rupestri-xerofile è la dominante : tuttavia nella parte a Nord della Pelagosa grande si ha, in alcuni piccoli spazi, una vegetazione rigogliosa di prato secco con Aula bdracteosa, Smyrniun Olu- satrum, Asphodelus ramosus, Asphodeline lutea, Allium Ampeloprasum, Bromus matri- tensis; questa stazione non risente minimamente dell’ influenza dell’ uomo. Il Ginzberger scrive in litt. di Pelagosa piccola: « Auf Pelagosa piccola fand ich drei sehr auffallende Pflanzenarten, die auf Pelagosa grande fehlen: Centaurea 1902. —- A. Zahlbruckner: Vorarbeiten zu einer Flechtenflora Dalmatien, in Oesterr. bot. Zeitschr. 1903. — V. v. Haardt: Eine Adriafahrt, in Neue Freie Presso, N. 14389, pag. 19, 15 sept 1904 — J. Hann: Ergebnisse meteorologischer-Beobachtungen auf der Insel Pelagosa, in Met. Zeit., 1908. — Idem: Zur Meteorologie der Adria, in Sitz. Ber. d. k. k. Akad. d. Wissensch. Math. Nat Klasse, Wien, 1908 (1) C. Marchesetti: Descrizione dell’ isola di Pelagosa, pag. 17. — 56 — Friderici, Anthyllis Barba Jovis und Convoleulus Cneorum. Auch hier gibt es stellen mit sehr iippiger Vegetation. » « Ferner auf Pelagosa piccola : Artemisia arborescens, Alyssum leucadevim, Daucus mauritanicus, Crithmun maritimum, Statice cancellata, Koeleria phleoides, Centaurea ragusina, Matthiola incana, Lotus creticus, Seduwm rubens, Euphorbia dendroides, Co- ronilla valentina, Asparagus acutifolius, Parietaria ramiflora, Ruta bracteosa, Coty- ledon Umbilicus. » Riguardo alle crittogame il Ginzberger dà queste indicazioni; 1) per la Pela- gosa grande: « Flechten sind sehr haufig (vergl. ZahIbruckner 1. c.); Moose fand ich nur in zwei feuchten Felslochten von denen das eine unweit des òstlichen ruder der Insel, dans andere am Weg zum Leuchtturm liegt. » 2) per la Peiagosa piccola: « Die Fle- chten sind physiognomisch noch wichtiger als auf Pelagosa grande. » Con l’ elenco del Béguinot per le Pelagose e con ) esplorazione del Ginzber- ger e del v. Sterneck conosciamo oggi 160 specie di questo interessante gruppo di pinnacoli dell’ antica Adria. ENUMERAZIONE DELLE PIANTE DELLE ISOLE PELAGOSE (!) 1. (*) Papaver dubium L. Sp. pl. II, pag. 1196 (1758). Pelagosa grande. 2. * .P. setigerum D. C. FI. fr. VI Suppl., pag. 585 (1815). Pelagosa grande. DÌ Fumarta capreolata L. Sp. pl. II, pag. 701 (1753). Pelagosa. 4. * F. flabellata Gasp. in Rend. Accad. nap. I, pag. 51 (1842). Pelagosa grande. 5. * Matthiola incana (L. Sp. pl. II, pag. 662 sub Che:ranto | 1753]) R. Br. in Aiton Hort. Kew. IV, pag. 119 (1812). Pelagosa srande e Pelagosa piccola. 6. * Brassica Botteri Vis. FI. dalm. III, pag. 135, tab. 52 (1852). Pelagosa srande e Pe- lagosa piccola. 7. (*) Simapis alba L. Sp. pl. II, pag. 668 (1753). Pelagosa grande. 8. Raphanus sativus L. sp. pl. II, pag. 669 (1753). Pelagose. 9. Cakile marittima (L. Sp. pl. II, pag. 670 sub Bunias [1753]) Scop. FI. carn. pag. 35 (1760). Pelagose. 10. = Al/yssum marttimwn (L. Sp. pl. II, pag. 652 sub Clypeola [1753]) Lamk. Encycl. I, pag. 98 (1788). Pelagosa grande e Pelagosa piccola. 11. * A. leucadeum Guss. PI. rar. pag. 268 (1826). Pelagosa grande. 12. (* Calepina Corvini (All. Fl. ped. I, pag. 255 sub Crambde [1785]) Desv. in Journ. bot. III, pag. 158 (1814). Pelagosa grande. 13. **, * Capparis rupestris Sibth. et Sm. Prodr. FI. gr. I, pag. 355 (1806). Pelagosa grande. t. Arcangeli, Flora italiana, ‘l'ovino 1882. Le specie non contrassegnate da alcun asterisco rappresentano quelle riportate dagli Autori che si sono occupati delle isole Pelagose, ma che io non ho veduto. Le specie contrassegnate da un * o da un (*) sono quelle delle collezioni del dott Ginzberger. Le seconde non furono mai indicate per le Pelagose. Le specie raccolte dal generale Robert v. Sterneck sono rappresentate da due * *. (1) Ho seguito in questa enumerazione : ( 28. 20. 29. SS. 45. 46. 48. 49. (0) * DOSI E Sylene inflata Sm. FI. brit. II, pag. 467 (1800) var. vesicaria Schrad. ex Reich. FI. germ. excurs. pag. 822 (1830). Pelagose. S. infilata Sm. var. angustifolia Vis. FI. dalm. II pag. 168 (1852). Pelagosa grande. Ss. maritima With. Bot. arrang. pag. 414, non Host nec Kit. sec. Rohrbach Mon. d. Cerastium semidecandrum L. Sp. pl. I, pag. 488 (1753). Pelagosa grande. Stellaria media (L. Sp. pl. I, pag. 272 sub A/s/ne [1753]) Cyr. Char. Comm. pag. 36 (1784) var. apetala Ucria apud Roem. Archiv. I, pag. 68 pro specie (1796). dalm. Pelagosa grande. i Arenaria serpyllifolia L. Sp. pl. I, pag. 423 (1753) var. viseida Vis. Stirp. sp. pag. 26 (1826). Pelagosa grande. Alsine verna Bartl. Beitr. II, pag. 65 (1825) var. caespitosa Guss. FI. sic. I, pag. 512 (1842). Pelagosa grande. Sagina maritima Don. Engl. Bot. XXXI (1810). Pelagosa grande. Spergularia rubra Pers. Syn. I, pag. 504 (1805. Pelagosa grande. Polycarpon tetraphyllum L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 131 (1762). Pelagosa grande. Malva parviflora L. Dem. pl. nov. in Am. Acad. II, pag. 416 (1756) var. miî- crocarpa Desf. Cat. pag. 144 (1804). Pelagosa grande. Lavatera arborea L. Sp. pl. IL pag. 690 (1753). Pelagosa grande. Geranium molle L. Sp. pl. II, pag. 682 (1753). Pelagosa grande. G. Robertianun L Sp. pl. II pag. 681 (1753). Pelagosa grande. Erodium cicutariwm L' Hérit. Geran. 5, n. 12 (1787). Pelagosa srande. E. malacoides L’ Hérit. Geran. 9, n. 22 (1787). Pelagosa grande. Ruta bracteosa D. C. Prodr. I, pag. 710 (1824). Pelagosa grande. Pistacia Lentiscus L. Sp. pl. Il, pag. 1026 (1753). Pelagosa srande e Pelagosa piccola. Rhamnus Alaternus L. Sp. pl. I, pag. 193 (1753). Pelagosa grande. Vitis vinifera L. Sp. pl. I, pas. 202 (1753). Pelagosa erande. Medicago tribuloides Desr. ap. Lamk. Eneyel. II, pag. 635 (1789). Pelagosa grande. M. hispida Gaertn. Fruct. II, pag. 849 (1792) var. denticulata Willd. Sp. pl. III, pag. 1424 (1800). Pelagosa grande. Melilotus indica AU. Fl. ped. I, pag. 308 (1785). Pelagosa erande e Pelagosa piccola. M. elegans Salz. in D C. Prodr. II, pag. 188 (1825). Pelagosa erande. M. officinalis Desr. in Lamk. Dict IV, pag. 63 (1797). Pelagosa grande. Anthyllis Barba Jovis L. Sp. pl. II, pag. 720 (1753). Pelagosa piccola, della quale sembra esclusiva in tutto il gruppo. Lotus cytisoides L. Sp. pl. II, pag. 775 (1753). Pelagosa grande. L. edulis L. Sp. pl. II, pag. 775 (1753). Pelagosa grande. Coronilla valentina L. Sp. pl. II, pag. 742 (1753). Pelagosa grande. C. Emerus L. Sp. pl. II, pag. 742 (1758). Pelagosa grande. Vicia angustifolia AI. FI. ped. I, pag. 825 (1785). Pelagosa grande. V. sativa L. Sp. pl. II, pag. 736 (1758). Pelagosa grande. V. bithyrica L. Sp. pl. ed. 2°, II, pag. 1088 (1763). Pelagosa girande. V. leucantha Biv. Stirp. rar. I, pag. 9 (1818). Pelagosa grande. Rubus ulmifolius Schott in Iris, pag. 821 (1818). Pelagosa grande. R. ulmifolius Schott var. dalmatinus Tratt. Mon. ros. III, pag. 38 ut var. £. fru- ticosi (1823). Pelagosa grande. 50. Ut dt I Ut © 0 d S CI n DO = Pyrus communis L. Sp. pl. I, pag. 479 (1753). Pelagosa grande. Il Witasek ri- tiene questa pianta un ibrido fra il P. communis e il P. amygdaliformis. L'e- semplare del Ginzbherger è soltanto foglifero. Cotyledon horizontalis Guss. Ind. sem. hort. Boccad. pag. 4 (1826). Pelagosa grande. C. Umbilicus L. Sp. pl. I, pag. 429 (1753). Pelagosa grande. Sedum hispanicum L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 618 (1762:. Pelagosa grande. S. glauewm Wald. et Kit. PI. rar. Hung. II, pag. 198 (1805) var. eriocarpum S. et S. FI. gr. prodr. I, pag. 310 (1806). Pelagosa grande. S. album L. Sp. pl. I, pag. 432 (1753). Pelagosa grande. S. rubens L. Sp. pl. I, pag. 482 (1753). Pelagosa grande. Mesembryunthemum nodifior um L. Sp. pl. I, pag. 480 (1753). Pelagosa grande. Smyrnium Olusatrum L. Sp. pl. I, pag. 262 (1753). Pelagosa grande. Foeniculum officinale AM. FI. ped. II, pag. 25 (1785). Pelagosa grande e Pelagosa piccola. Crithmum maritimum L. Sp. pl. IL pag. 246 (1753). Pelagosa srande, Ferula glauca L. Sp. pl. I, pag. 247 (1753). Pelagosa grande. Daucus Gingidium L. Sp. pl. I, pag. 242 (1753). Pelagosa grande. - (**)(*) D. mauritanicus L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 348 (1762). Pelagosa grande. (*) Caucalis nodosa (L. Sp. pl. I, pag. 240 sub Tordylio [1753]) Scop. FI. carn. ed. 2°, pag. 192 (1772). Pelagosa grande. Rubia peregrina L. Sp. pl. I, pag. 108 (1753). Pelagosa grande. Galium Aparine L. Sp. pl. I, pag. 108 (1753). Pelagosa grande. Vaillantia muralis L. Sp. pl. II, pag. 1052 (1753). Pelagosa grande. Valerianella microcarpa Loisl. Not. pl. fr. pag. 150 (1810). Pelagosa grande. V. eriocarpa Desv. Journ. Bot., II, pag. 314 (1809). Pelagosa grande. Senecio leucanthemifolius Poir. Voy. Bab. II, pag. 288 (1789) var. Reichenbachii Fiori in Fi. e Bég. FI. An. d’It. III, pag. 211 (1903-04). Pelagosa grande e Pe- lagosa piccola. Chrysanthemum coronarium L. Sp. pl. II, pag. 890 (1753). Pelagosa grande. Artemisia arborescens L. Sp. pl. ed. 2°, II, pag. 1188 (1763). Pelagosa grande. Uentaurea Friderici Vis. FI. dalm. IL pag. 40, tab. 48 (1848). Pelagosa piccola, della quale sembra esclusiva in tutto il gruppo. C. ragusina L. Sp. pl. II, pag. 1290 (1763). Pelagosa grande e Pelagosa piccola. Urospermum picroides (L. Sp. pl. II, pag. 790 sub 7ragopogon [1753)) F. W. Schmidt Samml. phys. 6kon. Aufs. I, pag. 275 (1795). Pelagosa grande. Nella stessa località si trovano insieme la var. laciniatum Vis. con la var. indivisum Vis. Sonchus tenerrimus LI. Sp. pl. II, pag. 794 (1753). Pelagosa grande. S. oleraceus L. Sp. pl. II, pag. 794 (1753). Pelagosa grande. Reichardia picroides (L. Sp. pl. II, pag. 799 sub Scorzonera [1753]) Roth Bot. Abth. pag. 35 (1785). Pelagosa grande. Crepis bulbosa Vausch in Flora XI, I, Ergh. 78 (1818). Pelagosa grande. Olea europaca L. Sp. pl. I, pag. 8 (1753). Pelagosa grande. O. europaea L. var. sativa Hoffm. et Lk. Fl. port. L pag. 387 (1809-1840) pro specie. Pelagosa grande. Coltivata ed inselvatichita. SSIS O e 82. **, * Convolvulus Cneorum L. Sp. pl. I pag. 157 (1753). Pelagosa piccola della quale sembra 83. Sd. esclusiva in tutto 1l gruppo. C. arvensis L. Sp. pl. I, pag. 157 (1753). Pelagosa grande. Erythraea Centaurium (L. Sp. pl. I, pag. 229 sub Gentiana [1753]) Pers. Syn. I, pag. 283 (1805). Pelagosa grande. Cerinthe aspera Roth. Cat. I, pag. 85 (1797). Pelagosa grande. Echium parviflorum Moench. Meth. pag. 423 (1794), Pelagosa grande. Myosotis hispida Schl. in Ges. Naturf. Fr. Ber. Mag. VIII, pag. 230 (1814). Pe- lagosa grande. Heliotropium europaeum L. Sp. pl. I, pag. 130 (1753). Pelagosa srande e Pelagosa piccola. Hyosciamus albus L. Sp. pl. I, pag. 180 (1753). Pelagosa grande. Lycium europaevin L. Sp. pl. I, pag. 192 (1753). Pelagosa grande. Plantago Psyilium L. Sp. pi. IL pag. 115 (1758). Pelagosa piccola. | RP. Coronopus L. Sp. pl. I, pag. 115 (1753) var. commutata Guss. Suppl. fl. sic. prodr., pag. 46 (1832-34). Pelagosa grande. Linaria commutata Bernh. ex Reich. FI. germ. exc. pag. 373 (1830). Pelagosa grande. 2 Orobanche loricata Rehb. PI. er. VII, pag. 41 (1829). Pelagosa grande. ‘2 O. Picridis F. Schultz in Ann. Gew. Regensb. pag. 504 (1830). Pelagosa grande. O. minor Sutt. in Trans. Linn. Soc. IV, pag. 179 (1798). Pelagosa grande e Pelagosa piccola. Marrubium vulgare L. Sp. pl. II, pag. 583 (1758) var. apulum Ten. Prodr. FI. nap. pag. 34 (1811). Pelagosa grande. Prasium majus L. Sp. pl. II, pag. 601 (1758). Pelagosa grande. Teucrium flavum L. Sp. pl. IL, pag, 565 (1753). Pelagosa grande. T. Poliwum L. Sp. pl. II, pag. 566 (1753). Pelagosa grande. Anagallis arvensis L. Sp. pl. I, pag. 148 (1753) var. caerulea Boiss. FI. or. IV, pag. 6 (1879). Pelagosa grande. Statice cancellata Bernh. in exsicc. Bert. FI. it. III, pag. 525 (1837). Pelagosa grande e Pelagosa piccola. Obione portulacoides (L. Sp. pl, II, pag. 1033 sub Atrplex [1753]) Moq. Chen. enum. pag. 75 (1840). Pelagosa piccola dove forma intere macchie. Atriplex hastata L. Sp. pl. II, pag. 1053 (1753). Pelagosa grande. Chenopodium rubrum L. Sp. pl. I, pag. 218 (1758). Pelagosa grande. C. murale L. Sp. pl. I, pag. 219 (1753). Pelagosa grande. C. urbicum L. Sp. pl. I, pag. 218 (1753). Pelagosa grande. Suaeda fruticosa (L. Sp. pl. ed 2°, II, pag. 324 sub Sal/sola [ 1763]) Forsk. Fl. aesypt. arab. pae. 70 (1775). Pelagosa grande e Pelagosa piccola. Rumex sp. Pelagosa grande. Indeterminabile non trovandosi ancora fiorita. Parietaria officinalis L. Sp. pl. II, pag. 1052 (1753). Forma mediterranea. Pe- lagosa grande. P. officinalis L. var. ramiflora Moench. Meth. pag. 327 (1794). Pelagosa grande. Ficus carica L. Sp. pl. II, pag. 1059 (1753). Pelagosa srande. Laurus nobilis L. Sp pl. I, pag. 869 (1753). Pelagosa grande. Osyris alba L. Sp. pl. II, pag. 1022 (1753). Pelagosa grande. 115. 116. JA7E 113. 119. 120. 121 la 125. 124. 125. 126. lex 128. 129. 150. TSE 132: 55! 134. 155. 156. 197. 158. 139: 140. 14l. 142. 143. 144. 145. 146. 147. 148. 149. 150. — 60 — Euphorbia Chamaesyce L. Sp. pl. L. Sp. pl. L pag. 455 (1753. Pelagosa grande. E. spinosa L. Sp. pl. I, pag. 457 (1758). Pelagosa grande. E. peplotdes Gouan FI. monsp. pag. 174 (1765). Pelagosa grande. E. helioscopia L. Sp. pl. I, pag. 459 (1753). Pelagosa grande. E. falcata L. Sp. pl. I. pag. 456 (1753). Pelagosa grande. . Pinea L. Syst. ed. 12°, pag. 333 (1767). Pelagosa grande. E. biglandulosa Desf. in Ann. Mus. par. XII, pag. 114 (1808). Pelagosa grande. E. dendroides L. Sp. pl. I, pag. 462 (1753). Pelagosa grande. Tamus communis L. Sp. pl. II, pag. 1028 (1753). Pelagosa grande. Ruscus aculeatus L. Sp. pl. II, pag. 1041 (1753). Pelagosa grande. Asparagus acutifoltus L. Sp. pl. I, pag. 314 (1753). Pelagosa grande. A. officinalis L. Sp. pl. I, pag. 313 (1753) var. maritimus L. |. c. Pelagosa grande e Pelagosa piccola. Smilax aspera L. Sp. pl. II, pag. 1028 (1758). Pelagosa grande. Ornithogalum Visianianum Tomm. ex Vis. in Mem. Ist. Ven. XX, pag. 76 (1876). Pelagosa grande. Urginea maritima (L. Sp. pl. I, pag. 308 sub .Sezlla [1753]) Baker in Journ. Linn. Soc. XIII, pag. 221 (1873:. Pelagosa grande. Muscari neglectum Guss. ex Ten. FL. neap. Syll. App. V, pag. 13 (1842). Pelagosa srande. SD T Allium Porrum L. Sp. pl. I, pag. 295 (1753. Pelagosa grande. A. Ampeloprasum L. Sp. pl. I, pag. 294 (1753). Pelagosa grande. A. Ampeloprasum L. var. atroviolaceum (Boiss.) Regel. All. Monogr. pag. 54 (1875). Pelagosa grande. A. subhirsutum L. Sp. pl. I, pag. 295 (1753). Pelagosa grande. Asphodeline lutea (L. Sp. pl. I, pag. 309 sub Asphodelo | 1753]) Reich. FI. germ. exc. pag. 116 (1830). Pelagosa grande. Asphodelus fistulosus L. Sp. pl. I, pag. 309 (1753). Pelagosa grande. A. ramosus L. Sp. pl. I, pag. 310 (1753). Pelagosa grande. Arum ttalicum Mill. Gard. Dict. ed. 8°, I, n. 2 (1768). Pelagosa grande. Arisarum vulgare Varg. Tozz. in Ann. Mus. fl. II, pag. 617 (1810). Pelagosa grande. Setaria viridis (L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 83 sub Panico [1762]) P. B. Agrost. pag. 51 (1812). Pelagosa grande. Oryzopsis miliacea Benth. et Hook. ex Asch. u. Schweinf. in Mém. Inst. éeypt. pag. 169 (1887). Pelagosa grande. Lagurus ovatus L. Sp. pl. I, pag. 81 (1753). Pelagosa grande. Melica Magnolii Gren. et Godr. FI. fr. HI, pag. 550 (1856). Pelagosa grande. Schlerocloa rigida P. B. Asrost. 97 (1812). Pelagosa grande. Briza maxima L. Sp. pl. I, pag. 70 (1753) Pelagosa grande. Koeleria phleoides (L. Sp. pl. I, pag. 76 sub Nestuca [1753]) Pers. Syn. I, pag. 97 (1803). Pelagosa grande. Dactylis glomerata L. Sp. pl. I, pag. 71 (1753). Pelagosa grande. D. hispanica Roth Catal. bot. I, pag. 8 (1797). Pelagosa grande. Vulpia ciliata Link Hort. Ber. I, pag. 147 (1822). Pelagosa grande. Bromus matritensis L. Amoen. Acad. IV, pag. 265 (1759). Pelagosa grande. 151. 152. 153. 154. 155. 156. 157. 158. 159. 160. (0) SASA] pg Ca B. villosus Forsk. FI. Aesypt. Arab. pag. 283 (1775). Pelagosa grande. B. maximus Desf FI. Atl. I. pag. 95 (1800). Pelagosa erande. Lolium rigidum Gaud. Agrost. Helv. I, pag. 354 (1811). Pelagosa grande. L. siculum Par]. FI. Palerm. I, pag. 252 (1845). Pelagosa erande. Catapodium loliaceum Link. Hort. Ber. I, pag. 45 (1822). Pelagosa grande. Brachypodium ramosum R. et S. Syst. II pag. 788 (1817). Pelagosa grande. B. distachywn R. et S. Syst. veg. II, pae. 741 (1817). Pelagosa grande. Agropyrum pungens (Pers. Syn. pl. I, pag. 109 sub 7r/tco [1808]) R. et S. Syst. veg. II, pag. 753 (1817). Pelagosa piccola. Hordeum muripum L. Sp. pl. I, pag. 85 (1753). Pelagosa grande. H, murinum L. var. leporinum Link. in Linnaea IX, pag. 133 (1835). Pela- gosa grande. en, —— >» eS SON \aee-< — - ISREÌ Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 9 PAGO det cui MAI Ci pi TH Daze n NUOVE RICERCHE SUL POTENZIALE DI SCARICA NEL CAMPO MAGNETICO MEMORIA DEL PROF. SEN. AUGUSTO RIGHI letta nella seduta del 26 Marzo 1911 (con 14 FIGURE). 1. Complementi alle esperienze relative alle rarefazioni medie. In una precedente pubblicazione (1) ho studiato l’influenza del campo magnetico sulla differenza di potenziale necessaria perchè abbia luogo la scarica nell’aria a rarefazione media (pressione di qualche decimo di millimetro), e con elettrodi in forma di dischi pa- ralleli fra loro. I risultati delle mie numerosissime misure furono rappresentati mediante certe curve, aventi per ascisse le intensità del campo magnetico e per ordinate i valori del potenziale di scarica. Queste curve danno una chiara idea degli effetti dovuti al campo, ed in particolare mostrano in quali circostanze la creazione del campo magnetico faccia comparire la sca- rica, se prima non esisteva, o la faccia cessare se prima aveva luogo. Le curve stesse mostrano pure l’esistenza di un campo optimum. cioè di un valore particolare di esso a cui corrisponde il minimo potenziale di scarica; fatto questo non privo d’importanza, e che il Sig. Bloch (2) ha pienamente confermato. Nel citato lavoro mì limitai, oltre che ad un certo ordine di grandezza della rarefa- zione, anche a valori piccoli della distanza fra un elettrodo e l’ altro. Alcune delle nuove esperienze, e precisamente quelle di cui rendo conto in questo primo paragrafo, si riferi- scono particolarmente al caso in cui la distanza fra gli elettrodi supera la distanza cri- tica. La disposizione sperimentale addottata è quella stessa delle prime esperienze, salvo qualche modificazione di dettaglio. Poichè le esperienze precedenti avevano mostrato, che in certi casi il campo deter- mina un aumento del potenziale di scarica anzichè una diminuzione, ho pensato che, se (1) Rend. della R. Ace. di Bologna, 29 maggio 1910. (2) Le Radium, Février 1911, pag. 52, Sg n con elettrodi a distanza reciproca maggiore della distanza critica non avevo constatato nessun fenomeno degno di nota, ciò poteva provenire dal fatto, che per le distanzi grandi mi ero limitato a ricercare, se il campo magnetico determinasse una diminuzione del poten- ziale di scarica. Rimaneva quindi da investigare, se per le grandi distanze fra gii elettrodi si verifi- casse invece un aumento di potenziale di scarica per opera del magnetismo. Le esperienze eseguite in proposito hanno dimostrato, che in realtà così realmente accade. Ho impiegato all’ uopo quello stesso tubo, con elettrodi aventi la forma di dischi pa- ralleli, uno dei quali mobile a piacere, con cui furono fatte le più antiche mie esperienze, ed ho misurato il potenziale di scarica per vari valori della distanza fra gli elettrodi e, per ciascuna distanza, sotto l’ azione di campi più o meno intensi; e tutto ciò nei due casì in cui i due dischi sono o perpendicolari o paralleli alla forza magnetica. La pressione dell’ aria nel tubo, che conservo chiuso da tempo, è di 0,68 mm. A 5 3 ——S mi 500 1000 1909 2009 2500 300 1000 i500 2000 Fig. 2. I seguenti risultati numerici, raccolti con varie serie abbastanza complete di misure, mostrano l’andamento dei fenomeni, che meglio ancora si rileva osservando le fig. 1 e 2. In queste tabelle le colonne C contengono i valori del campo magnetico in gauss; quelle segnate P danno in volta i valori del potenziale di scarica. Alcuni schiarimenti sono necessari relativamente al tracciato delle curve. Queste sono distinte in ciascuna delle fig. 1 e 2 colle lettere da A ad £, corrispondentemente ai cinque DISCHI PERPENDICOLARI TRA e AL CAMPO MAGNETICO. Dist. in mm. fra gli elet. = =8 = Hb =108 E PROC IEP CINVPAESO?T p Cl SE 0 | 450 0 | 400 0 | 350 0|370 0 | 430 384|400| 38|396| 346|346| 307|366| 346 |428| 500/392] 192|390| 576|345|1640|370|1200|432 1023|400| 346 386|1200|352|2535|380]|2010|436 1680|428| 884|385|2400|370 2585 | 440 2460 | 480 | 2386 | 390 a ui | DISCHI PARALLELI AL CAMPO MAGNETICO. Dist. in mm. fra gli elet. =|l = 10= = 05 GERE CP CIA IZ RO 2 GP 0 | 450 0 | 400 0 | 350 0|370 0 | 430 26440) 102|360| 225|352| 225374] 153|454 50|420| 883 |276| 714|440| 476|470| 422|640 102 |585|1023|270]|1330|540| 861|580| 570|740 450 | 270|1545|250]|1730|660|1253|680 524 |392|2440|236|1972!740]|1545|780 714420 | 861 | 440 | 1600 | 490 | e TORE ralori da 0,3 mm. a 15 mm. dati alla distanza fra gli elettrodi. Le curve A e B si rife- riscono dunque a casi di distanze minori della distanza critica, giacchè questa era di circa 6 mm. Sono dunque soltanto le curve C, D, £ che corrispondono ailo scopo delle espe- rienze, cui il presente paragrafo è dedicato. Molte altre serie di misure sono state fatte nelle medesime condizioni con risultati molto concordanti, ed ho tenuto sott'occhio le relative curve quando ho tracciato quelle delle fig. 1 e 2. Ciò mi è stato assai utile, ogni volta che i punti determinati sperimen- talmente riescivano in una data curva troppo lontani l’ uno dall’ altro. Dall'esame delle curve C, D, E si vede subito, come l’effetto dominante del campo è un aumento del potenziale di scarica. Tale effetto è particolarmente marcato nel caso della fig. 2, cioè nel caso in cui il tubo è collocato in modo, che gli elettrodi siano pa- ralleli alle linee di forze magnetiche. È evidente la difficoltà che s’incontrerebbe, qualora sì volesse render conto in dettaglio di questi fenomeni colla teoria generalmente ammessa. 2. La spiegazione finora ammessa, e la nuova spiegazione proposta. Si è finora cercato di dar ragione dell’influenza del campo magnetico sul potenziale di scarica ricorrendo al cambiamento di forma delle traiettorie percorse dagli elettroni. Tale spiegazione a me sembra insufflciente per varie ragioni. In primo luogo, nei casi di debole rarefazione essendo assai piccolo il libero cammino medio degli elettroni, l’azione del campo tendente a modificare il loro movimento fra un urto e l’altro deve verosimilmente produrre effetti poco marcati; ed in ogni modo non si vede come si possa arrivare a rendere conto degli effetti constatati, e particolarmente delle diminuzioni e degli aumenti del potenziale di scarica, che si manifestano spesso qua- lungque sia l'inclinazione reciproca fra le linee di forza elettrica e quelle del campo ma- gnetico. Infine è da osservare, che per render conto dei casi nei quali con una differenza di potenziale inferiore a quella necessaria per la scarica, questa si manifesta non appena si crea il campo magnetico, l’ordinaria teoria presuppone che anche prima della creazione del campo esista un passaggio inosservato di elettricità nel tubo di scarica. Ora, non solo ciò non è molto verosimile, ma tutti quelli che hanno voluto mettere in chiaro l’esisienza di tale corrente preesistente all’azione del campo, hanno ottenuto risultati negativi, come rilevai già nel precedente lavoro. Essendo questo fatto di capitale importanza ho voluto esaminarlo io pure sino dal- l’inizio deile nuove ricerche, ed ho effettuato per ciò |’ esperienza seguente. Messo uno degli elettrodi del tubo in comunicazione con un sensibilissimo elettrometro a quadranti (e momentaneamente col suolo), ho fatto comunicare l’altro elettrodo attra- verso la solita resistenza liquida (destinata ad evitare i danni di correnti troppo intense) con uno dei poli della batteria di piccoli accumulatori, della quale l’altro polo era in co- municazione col suolo. Togliendo la comunicazione dell’elettrometro colla terra non ho mai osservata la più piccola deviazione, ben inteso essendo il potenziale della batteria minore gia del potenziale di scarica. Volendo rimanere nel campo dei fatti bisogna quindi convenire, che non v'è nel tubo nessun sensibile passaggio di elettricità. Questa constatazione, da me fatta più e più volte in condizioni svariatissime, e che si accorda con analoghe precedenti osservazioni d'altri fisici, mette nell’ alternativa, o di completare, se non abbandonare, l’ ordinaria teoria, oppure di ostinarsi ad ammettere un passaggio di elettricità anche prima dell’azione del magnetismo, benchè di tale passaggio non si riesca a dare la dimostrazione sperimentale. Non bisogna però dimenticare ciò che ho asserito nel precedente lavoro, e cioè che nel- l’atto in cui il tubo viene incluso nel circuito si ha una corrente di breve durata, che è rivelata dal galvanometro, se questo istrumento è inserito in una delle comunicazioni fra il tubo e la batteria, e che ha per effetto, a quanto penso, di produrre un accumulo di ioni positivi presso il catodo e di ioni negativi presso l’anodo. Mentre dunque non esiste ancora una corrente durevole nel tubo, ai cui elettrodi è applicata una differenza di po- tenziale inferiore a quella necessaria per la scarica, il tubo stesso si trova nondimeno in condizioni diverse da quelle in cui si trovava prima d’essere messo in circuito. Tornerò più avanti su questo fatto, che mi sembra intimamente connesso cogli effetti prodotti dal magnetismo. Non avendo fede nell’ ordinaria teoria ho voluto esaminare se l’ipotesi, già messa avanti nella precedente Nota, secondo la quale il campo magnetico sarebbe in certe cir- costanze causa di ionizzazione, si prestasse abbastanza bene alla spiegazione dei fenomeni. Una tale ipotesi non mi sembra priva di fondamento. Infatti, nello stesso modo che il campo magnetico sotto certe condizioni aumenta o diminuisce la stabilità delle coppie neutre elettrone-ione positivo, da me ideate per rendere conto dei fenomeni presentati dai raggi magnetici (o magneto-catodici), esso modificherà in modo analogo le traiettorie per- corse dagli elettroni che fanno parte della struttura degli atomi, allargandole se il campo agisce in direzione opportuna. Un esempio gioverà alla chiarezza. Si consideri in un atomo un elettrone che si muova circolarmente, e si crei un campo magnetico perpendicolare al piano della traiettoria e diretto in modo, che la forza elet- tromagnetica agente sull’elettrone in moto risulti diretta dal centro della traiettoria stessa verso l’esterno. Tale torza tenderà evidentemente ad allontanare l’ elettrone, e se avrà intensità sufficiente potrà, se non liberarlo, almeno permettergli di separarsi alla più lieve perturbazione esterna. Un campo elettrico, che esista simultaneamente al campo magnetico, potrà agevolare questo risultato, a meno che non si verifichi il caso particolare che la forza elettrica tenda a spingere l’ elettrone verso l’ atomo. Non ho affatto la pretesa di ritenere, che i fatti già noti, e quelli che qui andrò de- scrivendo, forniscano la dimostrazione della verità contenuta in quell’ipotesi; ma credo che essì presentino un soddisfacente accordo colle conseguenze da essa tratte. In ogni modo l’ipotesi stessa è stata per me l’ispiratrice delle nuove ricerche. Poichè l’accumularsi di ioni presso gli elettrodi, di cui ho fatto cenno più sopra, crea in vicinanza della loro superficie un campo elettrico, mentre nelle altre regioni del tubo il campo stesso è piccolissimo o nullo, mi sembra verosimile che là appunto il campo ma- EER VALI gnetico debba principalmente manifestare la sua azione ionizzatrice. Ma è sopratutto presso il catodo che la supposta magnetoionizzazione tende a provocare la scarica durevole nel tubo Infatti gli elettroni creati in tal modo, o almeno quelli di essi che sfuggono ad una immediata neutralizzazione per l’incontro d’un ione positivo, acquisteranno presto una ve- locità considerevole; quelli invece che si creano per magnetoionizzazione presso l’ anodo sa- ranno tosto da questo assorbiti, senza cooperare ad iniziare la scarica. Avendo adottato in via di tentativo questo punto di vista, diveniva necessario assicu- rarsi anche meglio dell’esistenza di quegli strati di ioni, e rendersi conto per quanto è possibile del modo con cui si producono e degli effetti ai quali possono dar luogo 3. Corrente 0 scarica di polarizzazione. La produzione di ioni, che permangono nel tubo finchè esista fra gli elettrodi una differenza di potenziale minore del potenziale di scarica, fu da me desunta dalla constata- zione della corrente di breve durata, che si manifesta nell’atto di stabilire le comunica- zioni fra tubo e accumulatori, non che dai caratteri che tale corrente presenta. Tali caratteri sono i seguenti. Interrotto il circuito per un istante brevissimo e chiu- dendolo di nuovo quella corrente non si riproduce; ma essa si ottiene di nuovo se la du rata dell’interruzione non fu molto breve, e tanto più intensa quanto più durò 1’ interru- zione stessa. Infine, invertendo le comunicazioni fra tubo e sorgente elettrica si ha una corrente assai più intensa che colla semplice chiusura del circuito. Mi pare, che per spiegare questi fenomeni si debba ragionare nel modo seguente. I pochissimi elettroni liberi eventualmente contenuti nel gas e quelli che possono essere emessi spontaneamente dal catodo iniziano, allorchè il circuito vien chiuso, il noto pro- cesso della scarica ionizzando per urto le molecole. Quelli fra i ioni positivi in tal modo creati, che non si neutralizzano con elettroni, sì portano verso il catodo, mentre gli elet- troni, ed i ioni negativi (prodotti dall’upirsi di elettroni ad atomi neutri) si portano al- l’anodo. Con ciò il campo elettrico, mentre cresce presso gli elettrodi, diminuisce nel gas e finisce coll’ annullarsi, con sospensione d’ ogni ulteriore fenomeno, se la differenza di potenziale fra gli elettrodi è abbastanza piccola. Il passaggio della corrente rimane dunque prontamente sospeso. Le condizioni degli elettrodi del tubo sono allora, sotto un certo aspetto, analoghe a quelle di elettrodi immersi in un elettrolita e polarizzati da una corrente. Bisogna aspet- tarsi dunque, che il tubo dia una corrente di polarizzazione quando, avendo tolto le co- municazioni fra la batteria d’ accumulatori e gli elettrodi, si fanno questi ultimi comuni- care con un sensibile galvanometro. Ciò infatti si osserva. Questa corrente o, forse meglio, scarica di popolarizzazione ha una brevissima durata, e la sua intensità integrale, cioè la quantità d’elettricità che la costituisce, dipende natu- ralmente: 1° dal tempo 4, durante il quale il tubo rimase in comunicazione colla batteria, 2° dal tempo £ durante il quale il tubo rimase isolato prima di essere messo in comuni- cazione col galvanometro. Conservando a Z un valore costante la deviazione galvanometrica è risultata quasi indipendentemente da #. DIAGOE Per esempio in un caso, per £, eguale a 1-15 — 60 secondi, la deviazione fu rispettivamente: 24 — 25 — 25,8 millimetri della scala galvanometrica (1). Si vede così quanto sia rapida la formazione degli strati di ioni sugli elettrodi, e si può praticamente ammettere che con &= 30 secondi la polarizzazione degli elettroni sia completa. D'altra parte lo sparire della polarizzazione dopo aver isolati gli elettrodi è invece lenta e graduale, mentre è praticamente istantanea, se si stabilisce una comunicazione metallica fra gli elettrodi. Per avere una idea della velocità con cui spontaneamente si attenua ad elettrodi iso- lati la quantità di ioni accumulati basta misurare ripetutamente la corrente di polarizza- zione, dopo che il tubo è rimasto isolato per un tempo più o meno lungo. Ecco i risultati 20 to” 307 60° 120” ale x RT ottenuti in una fra le molte serie di misure da me eseguite. Adoperai un tubo (che sarà descritto più avanti) avente un catodo costituito da una lamina di alluminio cilindrica ap- plicata contro la parete interna del tubo, ed un anodo cilindrico esso pure e concentrico. Al tempo # si diedero successivamente i valori numerici (in secondi) notati nella prima linea della seguente tabella; la seconda linea contiene le corrispondenti deviazioni d otte- nute al galvanometro. Il tempo #, fu costantemente 30”. La pressione dell’aria nel tubo era un centesimo di millimetro; la batteria dava 2450 volta. La curva della fig. 3, che fu disegnata prendendo £ come ascissa e d come ordinata, — 10 (1) Ogni millimetro corrisponde ad una corrente costante di 4,75. 10 ampère. Serie VI. Tomo .VIII. 1910-11. 10 SIA ATI) PT mostra a colpo d'occhio come la provvista di ioni nel tubo diminuisca dapprima rapida- mente, poi in modo di più in più lento. Curve di andamento simile ottenni sempre con tubi di forme e in condizioni svariate. Il graduale distruggersi degli strati di ioni avvolgenti gli elettrodi ha luogo verosi- milmente per via di neutralizzazioni reciproche fra essi, e sopratutto fra essi e gli elet- irodi. Era dunque da prevedere che un campo magnetico influisse su questo fenomeno, per esempio, secondo ia teoria ammessa, in causa del mutar di forma delle traiettorie degli elettroni. Apposite esperienze all’ uopo istituite confermano la previsione. Per esse adoperai un inversore a pozzetti di mercurio ben isolati (1), col quale era possibile far comunicare i due elettrodi del tubo, ora coi poli degli accumulatori, ora coi serrafili del galvanometro. Generalmente tenevo per mezzo minuto primo il tubo in connessione colla batteria, poi lo isolavo per 10 secondi prima di farlo comunicare collo strumento di misura, il quale colla sua deviazione misurava la quantità di ioni ancora esistenti. Durante quell’ intervallo di 10, ora il campo non esisteva, ora invece era in azione. In questo secondo caso ottenni sempre una deviazione minore. Reco come esempio alcune misure fatte con un tubo cilindrico avente come elettrodi due dischi perpendicolari all’ asse del tubo, ed il cui diametro è poco minore di quello del tubo stesso. La loro distanza è circa 2 centimetri, e l’aria ha la pressione di circa un cinquantesimo di millimetro. Un campo di 3540 gauss poteva crearsi al momento op- portuno. Orbene, senza campo magnetico la deviazione era 23,9; facendo agire il campo, la deviazione era invece 6,9. Esperienze simili furono fatte successivamente con cinque tubi di forme assai differenti e con svariate pressioni dell’aria interna, ed il risultato, non sempre così accentuato come nel caso riferito, fu sostanzialmente il medesimo, e cioè constatai sempre che il campo accelerava la neutralizzazione dei ioni entro il tubo. Anche dopo aver fatto ruotare di 90° la direzione del campo magnetico constatai la diminuzione della deviazione galvano- metrica. Ammesso che un tal risultato sia generale, esso è spesso in disaccordo colla previ- sione basata sulle deviazioni prodotte dal campo sugli elettroni in moto, giacchè in certi casi quelle deviazioni dovrebbero ostacolare la neutralizzazione delle cariche. Invece si spiega bene l’accelerarsi della scomparsa dei ioni per opera del campo magnetico, se si ammette la nuova ipotesi proposta, e cioè una ionizzazione prodotta dal campo, particolar- mente efficace in prossimità del catodo. (1) In tutte le esperienze, in cui s' impiegano molti accumulatori e un sensibile galvanometro o elettrometro, è indispensabile il più accurato isolamento di quei conduttori, che non devono comunicare colla terra In particolare è necessario rivestire a caldo con cera lacca la superficie esterna del tubo all’intorno dei punti da cui escono i conduttori comunicanti coi due: elettrodi. ADE RS 4. Circostanze che influiscono sul potenziale di scarica. Volendo istituire le ricerche su tubi a rarefazione piuttosto grande ne ho dapprima adoperato uno della forma ordinaria, cioè munito di elettrodi paralleli di forma circolare e più o meno lontani l’ uno dall’ altro, collocato fra i poli dell’ elettro calamita di Ruhmkorff, ora in modo che i dischi fossero normali alla direzione del campo, ora disponendoli pa- rallelamente a questa direzione. Constatai subito che, anche a rarefazioni assai grandi, il campo magnetico in certi casì fa diminuire il potenziale di scarica e in altri lo fa aumentare; ma pur vincendo le difficoltà altravolte segnalate, ebbi grande irregolarità nei risultati numerici. Accadeva poi non di rado ed in modo più pronunciato che colle minori rarefazioni il noto fenomeno, che una volta iniziata la scarica in determinate condizioni, essa perdurava anche se le condi- zioni stesse venivano poscia modificate in guisa da richiedersi per l’iniziarsi di essa una differenza di potenziale di gran lunga maggiore di quella effettivamente applicata. Poi mi accorsi, che tale fenomeno si modificava spesso toccando per un momento col dito l’esterno del tubo, o avvicinandovi dei conduttori, o rendendo più o meno buona la pro- prietà isolatrice della superficie esterna del tubo di vetro. Inoltre constatai, che i fenomeni mutavano alquanto allorchè, pur non facendo variare la differenza di potenziale, si modi- HJ 5 Fig. 4. ficava il valore assoluto del potenziale di ciascun elettrodo, per esempio mettendo in comu- nicazione col suolo ora l’uno ora l’altro dei poli della batteria di accumulatori. — Tutto ciò indicava la formazione di cariche elettriche sulla parete del tubo, le quali cariche subivano naturalmente delle modificazioni per la presenza dei conduttori circostanti. Avendo infatti resa conduttrice la superficie esterna del tubo coll’incollarvi una foglia di stagno, che poi tenni in comunicazione col suolo, le irregolarità e le incertezze sparirono, pur restando l’influenza dei valori assoluti del potenziale. Per studiare questo fenomeno diedi al tubo di scarica la forma indicata dalla fig. 4. Il tubo è cilindrico, e porta come elettrodi A, B due dischetti d’ alluminio perpendico- lari al suo asse e lontani circa 15 centimetri l’ uno dall’ altro. Essendo il diametro esterno del tubo poco minore di quello del foro praticato nei nuclei di ferro dei due rocchetti, esso può esservi facilmente introdotto. E siccome l’elettrocalamita è mobile su due guide parallele all’asse dei rocchetti, sì può far in modo, che uno degli elettrodi si trovi in mezzo al campo magnetico, mentre l’altro sta allora entro uno dei rocchetti a metà della sua lunghezza. Con tale disposizione il secondo elettrodo è praticamente sottratto all’azione dei campo, almeno finchè la corrente magnetizzante non è molto intensa. Per rendermi esatto conto di questa circostanza ho creduto necessario di misurare l’intensità del campo magnetico per varie intensità della corrente magnetizzante, sia nel Ao punto di mezzo della distanza (circa 5 centimetri) fra le faccie polari dei rocchetti, sia a metà lunghezza nell'interno d’ ognuno di questi, per mezzo d’ un piccolo rocchetto collegato ad un galvanometro balistico. Ecco il risultato di queste misure. Ticdsa Campo magnetico in gauss pe SE i entro | sai entro DO A Gel e 1 0 563 0 2 0 1126 — | 4 — 1931 0 to) cs 3018 — 12 — 4064 Ti 14 48 4450 0 16 IRIS 4829 88 20 394 5478 338 2955) 650 5955 650 La non eguaglianza e l'andamento irregolare dei numeri della 2° e 4° colonna sono verosimilmente dovuti ad eterogeneità nel ferro dei due nuclei. Per le esperienze seguenti l’ elettrodo A del tubo si trovava nel mezzo del campo fra i poli, mentre l'elettrodo 2 si trovava entro il rocchetto di destra. Inoltre per le ragioni dette, il tubo era esternamente rivestito con foglia metallica comunicante col suolo. Colla disposizione descritta è facile mettere in evidenza l’ influenza esercitata dal valore assoluto del potenziale dei due elettrodi, come pure l'influenza del segno della loro ca- rica, ed ecco una serie di misure, durante le quali la pressione dell’aria nel tubo era di 0,02 mm. La differenza di potenziale V applicata agli elettrodi, circa 3000 volta, era assai infe- riore al potenziale di scarica. Cambiando le comunicazioni e mettendo a terra uno dei poli della batteria, si pote- vano realizzare i quattro casi seguenti: l. Potenziale di A= + V; potenziale di B=0. 23 » Di : » » = o. 5) 0Ì » DRIVE: » »_=0. 4. » » AO 3 » È » 2 — V. Re Orbene, mentre perchè si stabilisse. nel tubo la corrente (rivelata dalla brusca e per- manente deviazione del galvanometro incluso nel circuito) nei casi 2, 3 e 4 occorreva un campo magnetico di oltre 5000 gauss, bastava un campo di 1250 nel caso 1 (1). Lasciando in disparte i casi 2 e 4, nei quali, per essere a potenziale zero tanto l’ elet- trodo A che il rivestimento esterno del tubo, il campo elettrico intorno all’ elettrodo A non può avere che una intensità debolissima, resta rimarchevole la differenza fra 1 casi 1 e 3. Essa può essere attribuita principalmente a queste due circostanze, e cioè 1° al fatto che nel caso 1 funziona come catodo la parete intorno ad A, e cioè si ha in certo modo b) un catodo che avvolge e circonda | anodo A, mentre nel caso 2 avviene l’ opposto; 2° ad una diversità di comportamento fra catodi di diverse sostanze. Contro questa influenza della natura del corpo, su cui vanno a terminare le linee di forza elettrica, parla l’ esperienza seguente. Un tubo simile a quello della fig. 4, il quale però in luogo del rivestimento metallico esterno ne ha uno interno, costituito da una la- minetta d’alluminio piegata a cilindro, applicata contro la parete del tubo e coinunicante col suolo, dà sostanzialmente gli stessi risultati or ora descritti. Tuttavia, non parendomi da escludere a priori una qualche influenza della natura del catodo, o generalmente dei corpi che, ricevendo linee di forza, possono come tali compor- tarsi entro un tubo di scarica, ho creduto bene istituire ricerche speciali col tubo, di cui la fig. 5 mostra la sezione trasversale. In questo tubo (diametro circa 4 cent.) il catodo è costituito da una lamina cilindrica di alluminio © applicata contro la sua parete interna, mentre l’anodo è una lastra rettangolare A (3 c. per 1,7 c.). Questa lastra è eccentrica, onde lasciar posto ad un’altra Z ad essa parallela lunga 5 c. e larga 1,2 c. costituita da due lamine sovrapposte, una d’ alluminio e l’altra di diversa sostanza p. es. di piombo. Questa doppia lamina Z può girare intorno ad un asse parallelo all’asse del tubo, ed es- sere disposta in modo da presentare all’anodo A ora la faccia di allumimo ora quella di piombo, essendo a tal uopo fissata ad un giunto smerigliato. Nell’ esperienza eseguita 1’ aria nel tubo aveva la pressione di 0,012 mm., la batteria forniva agli elettrodi una differenza di potenziale di 1780 volta, e al momento opportuno (1) Questa ed alcune delle esperienze che deseriverò più oltre furono già concisamente descritte altrove (Comp. Rend. 30 Janvier 1911). RES Gs sì creava un campo di circa 2500 gauss diretto come la freccia della fig. 5. Ecco ciò che ho osservato Mentre senza campo la corrente non si stabiliva nel tubo, la corrente stessa non si iniziava neppure col campo, se verso l’ anodo era rivolta la faccia d’ alluminio della doppia lamina Z. Ma se verso l’anodo era rivolto il piombo la corrente si produceva. Lasciando poi sussistere il campo e facendo girare la doppia lamina in modo continuo, la corrente cessava ogni volta che all’anodo si volgeva la faccia d’ alluminio, per ristabilirsi quando invece era il piombo che riceveva dall’anodo delle linee di forza elettrica. Col platino al posto del piombo ho avuto un risultato analogo, ma assai meno pro- nunciato, mentre che con vetro, argento, rame, ottone, zinco e bismuto non ho ottenuto risultati sicuri. Mentre dunque la differenza fra i casi 1 e 3 precedenti è principalmente dovuta alla forma dei due elettrodi, sussiste certamente almeno pel piombo una certa attitudine a fa- vorire la scarica, quando su di esso vanno a terminare delle linee di forza elettrica. Il fatto potrebbe ascriversi a traccie di radioattività, o a maggior tendenza ad emettere elettroni sotto l’azione della forza elettrica. In ogni modo si tratta d'un fenomeno proba- bilmente estraneo a quelli studiati nel presente lavoro. Si potrebbe ancora pensare, che il modo leggermente diverso di comportarsi fra catodi di diversa natura fosse legato ad una diversa facilità di lasciare uscire i gas occlusi. Questa idea, che forse meriterebbe qualche considerazione, è suggerita dal fatto seguente da me molte volte constatato. Se si determina il valore del potenziale di scarica per un dato tubo, e poi coi noti metodi (ulteriore rarefazione accompagnata dal passaggio d’ una corrente nel tubo) si cerca di sottrarre agli elettrodi i gas aderenti o occlusi, e, ridotta la pressione al valor primitivo sì rinnova la misura, si trova sempre un notevole aumento del potenziale di scarica. Dalle descritte esperienze si trae l’ impressione che, se davvero il campo magnetico può ionizzare il gas, ciò principalmente avviene presso il catodo, ciò che si accorda con quanto fu detto nel $ 2. Con ciò non resta escluso, che la magnetoionizzazione si produca anche altrove, ed è anzi per chiarire questo punto che furono istituite esperienze, che sa- ranno descritte più avanti. 5. Misure del potenziale di scarica nel campo magnetico in casì di grande rare- fazione. Visti gl’ inconvenienti prodotti dal vetro delle pareti del tubo, ho dovuto adottare, per eseguire una serie sistematica di misure, dei tubi, nei quali uno degli elettrodi è costi- tuito da una lamina metallica applicata alla parete. La fig. 6 mostra un simile tubo, col quale ho potuto fare molte e concordanti determinazioni. Mentre uno degli elettrodi è costituito dalla lamina cilindrica BCDE (altezza del ci- lindro 10 cent. diametro 3,5), l’altro è una lamina piana A (3 cent. per 1,7). Il tubo può essere girato intorno al proprio asse, e quindi essere colloccato in guisa, che l’elettrodo A sia o parallelo o perpendicolare alla direzione, indicata dalle freccie nella figura, del campo magnetico. — mae In causa della differenza di forma fra i due elettrodi, e della circostanza che |’ elet- trodo A non ha forma di rivoluzione coassiale al tubo, si dovranno esaminare quattro casi diversi. Infatti, per ciascuna delle due orientazioni principali della lastra A, questa può essere anodo o catodo. i L'effetto prodotto dal campo magnetico è differente nei quattro casi. Si hanno cioè quattro diverse curve rappresentatrici del fenomeno, costruite nel solido modo, cioè pren- dendo per ascissa il campo e per ordinata il corrispondente potenziale di scarica. In un Fig. 6. gruppo di misure coll’aria a 0,056 mm. di pressione ho raccolto i dati della tabella pag. 76. La disposizione dei numeri in questa tabella è differente da quella delle tabelle ripor- tate n°l $ 1, e cioè proviene dall'avere alcun poco modificato il metodo delle misure. An- zichè, come in passato, dare al campo magnetico un determinato valore e poi aumentare d'una unità per volta il numero degli accumulaiori sino ad avere la scarica, mi sono per- } suaso che vi è vantaggio a fare l'inverso, e cioè dare un determinato valore al potenziale ‘ fornito dalla batteria, e poi far variare lentamente l'intensità del campo magnetico (per, mezzo di reostati a corsoio inseriti nel circuito della corrente magnetizzante) sinchè la scarica sì produca (1). Così nel caso della prima delle misure registrate in detta tabella, precedente, dopo aver dato alla differenza di potenziale il valore di 330 volta, feci crescere il campo gradata- (1) Ho trascurato sempre le scariche momentanee, che qualche volta precedono lo stabilirsi della scarica permanente. i È E AU mente a partire da zero sinchè, arrivato a 153 gauss, la corrente bruscamente si produsse. Siccome però in molti casi ad uno stesso valore del potenziale di scarica possono cor- rispondere valori diversi (due e qualche volta tre) del campo magnetico così, dopo quella prima determinazione, occorreva cercare se esistevano altri valori del campo. Perciò diedi a questo un alto valore, per esempio 2000 gauss, e visto che la corrente non passava, lo feci gradatamente diminuire. Arrivando a 430 gauss la corrente di nuovo si produsse. E siccome da 2000 gauss in più non si ebbe corrente, così conclusi, che a 330 volta corrispon- dono i valori 153 e 480 gauss del campo, come pure che v'è corrente nel tubo solo se il campo magnetico ha un valore compreso fra questi due limiti. Se per un certo valore del campo maggiore di 480 gauss si fosse nuovamente stabi- lito il passaggio della corrente nel tubo, avrei dovuto registrare nel quadro questo terzo valore. È assai probabile che in qualche caso il non aver trovato un terzo valore si debba Lastra A + Lastra A_— perpendic. al campo parallela al campo perpendic. al campo parallela al campo TO) C JO C JO C de C 153 440 422 \ 76 580 —_ 300 380 (430 5388 Î 254 630 0 450 \ IZ 450 38 640 ST 400 500 603 229 © LU 690 1593 350 76 1370 13 695 2474 610 550 1447 216 [ 383 700 5478 590 61 Î 1880 620 396 D 650 1750 152 850 643 660 | 61 2585 1050 947 | 700 | ea Se 750 IAT 1410 1690 i 840 13 845 Ji0/2: 1720 3307 | 3175 930 (N 1830 5196 A B C | Di Sar e a ciò, che per trovarlo sarebbe stato necessario realizzare campi di molto grande in- tensità. Alle quattro serie di misure della precedente tabella, distinte colle lettere A, £, C, D, corrispondono ordinatamente le curve segnate colle stesse lettere nella fig. 7. I’ andamento delle tre prime somiglia assai a quello di molte delle curve del caso di media rarefazione, mentre l’ andamento della D (catodo piano perpendicolare al campo) è assai differente, in quanto che con potenziali minori del potenziale di scarica ordinario (cioè senza campo) il campo magnetico non produsse effetto sensibile, e fu necessario ricorrere \o00 ur 1000 2000 zocu Fig. 7. a potenziali più elevati per constatare un effetto, e precisamente riconoscere che il campo fa aumentare il potenziale necessario alla produzione della corrente. 6. Esperienze con tubi aventi elettrodi di forme varie. Sia secondo l’ ordinaria spiegazione, sia secondo la nuova, che serve a completare la prima, la forma degli elettrodi deve esercitare una considerevole influenza sull'andamento cdlei fenomeni. Infatti, è in tubi diversi necessariamente differente la distribuzione e forma delle linee di forza come pure l’ intensità del campo elettrico presso i vari punti della superficie del catodo. Nou era dunque senza interesse l’ istituire misure analoghe a quelle del paragrafo precedente, con tubi aventi elettrodi di svariate forme e variamente disposti. Mi limiterò quì a recare tre esempi. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11, Il POR ce a) Il tubo di scarica è rappresentato dalla fig. 8, e contiene aria a 0,03 mm. di pressione. Uno degli elettrodi B consiste in un tubo d'alluminio applicato contro la parete, mentre l’altro A è un cilindro dello stesso metallo lungo 5 centimetri circa e grosso mezzo centimetro. Nelle due prime serie di misure il tubo fu introdotto nei nuclei dell’ elettroca- mita, in modo che il campo magnetico, per tal modo diretto nel senso del suo asse, agisce quasi esclusivamente sulla porzione del tubo corrispondente all’ elettrodo A Le faccie polari dell’ elettrocalamita arrivavano infatti in M ed N. Nelle altre due serie di misure il tubo era collocato trasversalmente al campo, e cioè questo aveva la direzione della freccia F. La tabella seguente porge i risultati numerici ottenuti, coì quali ho poi disegnate le curve della fig. 9 (1). Campo parallelo al cilindro A Campo perpendicolare al ciliudro A A positivo A negativo A positivo A negativo TE O P G PEC P 0; \ 362 744 200 482 390 Î 660 1030 0 483 2240 450 181 1400 45 560 483 865 180 470 840 1750 80 543 4490 1300 151 2600 180 (362 1760 151 950 2160 39 3300 271 | 1527 Li 2650 150 2880 S92 360 3400 153 1310 | È 2493 4300 51 DOT ò 1770 3881 DION 1850 4143 B (1) Per economia di spazio non compaiono nella figura quelle porzioni di curva che corrispondono ai più grandi valori del campo e del potenziale. O DE Per distinguere le curve della fig. 9 ho segnato presso di esse le stesse lettere, che nella precedente tabella designano le varie serie di misure. Avrò occasione più avanti di mostrare la curva 8 ottenuta collo stesso tubo con pressione interna più elevata, e allora si vedrà che la curva stessa, dopo la grande salita ' ' ' —- + Ù 2 we.) di destra, raggiunge una massima altezza per poi ridiscendere. Colla rarefazione più spinta per giungere fin là sarebbe stato necessario creare campi magnetici assai più intensi di quelli disponibili. b) Un secondo esempio l’offre il tubo da scariche rappresentato in sezione dalla wi pa 1000 2000 fie. 10. Entro il tubo di vetro sono applicate contro le pareti quattro eguali lastre d’allu- minio, le quali, salvo il piccolo intervallo che le separa nel senso delle generatrici, costi tuiscono col loro insieme un cilindro. Due di esse A, A, fra loro comunicanti, costituiscono — 80 = uno degli elettrodi, le altre due 5, 5, costituiscono |’ altro. Si hanno dunque due elettrodi di forma identica, senza, tuttavia, che resti scoperta la parete di vetro (salvo le strette striscie fra una lastra e l’altra). Il campo magnetico agisce nella direzione della freccia 4 cioè secondo la retta che congiunge i centri delle due lastrine costituenti uno degli elet trodi AA. Questro elettrodo era anodo nella prima serie delle misure seguenti, e catodo nella seconda. La pressione nel tubo era 0,04 mm. Elettrodo AA + Elettrodo AA — P G P G 229 1570 0 350 O 330 1620 25 160 1830 102 415 Î 632 1980 153 | 127 2190 343 530 Î 1992 2370 512 120 2450 595 590 5674 2830 6240 740 114 930 MOD 1040 102 Le curve della fig. 11 sono disegnate coi precedenti numeri, ed i segni +, —-, servono a distinguerle. Per non dare alla figura dimensioni soverchie, non solo si sono soppresse le porzioni relative ai più elevati valori del campo, ma si sono disegnate le due curve una dentro l’altra in grazia d'un opportuno spostamento degli assi di riferimento. È degna di nota la grande diversità fra le due curve, diversità che in questo caso speciale è quella che, in parte almeno, si accorda coll’ ordinaria spiegazione dei fenomeni. I due esempi precedenti a), 0) mettono in evidenza la varietà dei fenomeni, ma anche E Re qualche carattere costante, comune cioè ai vari tubi. Non sarebbe facile servirsi dei dati precedenti a scopo di verifica qualificativa d’ una qualunque delle spiegazioni, in causa delle forme speciali degli elettrodi. Ad uno scopo di questo genere sì presterebbe meglio il terzo esempio che segue. c) Il tubo adoperato differisce da quello della fig. 8 soltanto in ciò, che l’ elettrodo 2500 A è lungo quanto il tubo. Introdotto quest’ultimo nei rocchetti, le condizioni dell’ espe- rienza sono sensibilmente quelle di un campo elettrico cilindrico e d'un campo magnetico uniforme, le cui linee di forza sono perpendicolari alle linee di forza elettrica; ed in questo caso speciale è possibile determinare la forma delle traiettorie percorse dagli elettroni emessi dal catodo. Mi limiterò al caso in cui il cilindro centrale è catodo; ma darò i risultati ottenuti con due differenti gradi di rarefazione dell’ aria entro il tubo. da — Pressione = 0,012 Pressione = 0,1 P C P a 750 5141 259 2100 5231 190 405 563 5200 2860 1126 392 309 (dI Sd WI DO o) (i » (ee i (28) (00) TT —_—t_s>— —T i —__ _ w (AS) I | 5310 940 {{ 2800 475 4919 3800 |{ 2800 (220 5419 1480 | 4505 | 4849 La fig. 12 mostra la curva costruita coi numeri relativi alla pressione 0,1. Per la pressione 0,012 si avrebbe una curva simile a quella della fig. 12, ma limitata ai più bassi potenziali. La curva sarebbe quindi costituita da due tratti separati fra loro. La curva fig. 12 sembra essere il tipo più generale rappresentante la relazione fra intensità di campo magnetico e potenziale di scarica, almeno per i tubi il cui anodo è ci- lindrico e circonda il catodo (1). Si notano in essa due tratti poco differenti da rette ver- ticali. Quello relativo a campi di 200 a 300 gauss ha però spesso una tale forma (per es. nella fig. 14) da dimostrare, che ad un medesimo campo corrispondono due diversi valori del potenziale di scarica; ma probabilmente ciò si deve a qualche inavvertito errore siste- (1) Probabilmente se si disponesse di campi assai più intensi di 5000 gauss, e si potesse così ulte- riormente prolungare la curva, questa, dopo aver raggiunto una nuova ordinata minima, diverrebbe ancora ascendente. La curva avrebbe allora all'incirca la forma della lettera M capovolta. — 83 — matico di poca entità. In rari casi ciò si è verificato anche per il secondo tratto di discesa della curva, che corrisponde a campi assai intensi. Quei tratti di curva quasi verticali rappresentano brusche diminuzioni del potenziale di scarica dovute verosimilmente a due cause distinte, che l'ipotesi della magnetoionizza- zione spiega agevolmente. E cioè, la prima ripida discesa della curva deve attribuirsi al- l’azione del campo sul catodo; la seconda invece alla azione sul gas lontano da questo elettrodo. 7. Esperienze suggerite dall’ ipotesi della nagnetoionizzazione. Facilmente s’' intuisce la maniera con cui si può sottoporre la precedente interpreta- 00: 1000 300. 1000 2000 3000 4000 3000 Vis, 12. zione alla prova dell’esperienza. Basterà costruire la curva caratteristica per un tubo del tipo fig. 8 due volte, e cioè quando l'elettrodo A, adoperato come catodo, si trova fra i poli della elettrocalamita e poi, dopo avere convenientemente spostata questa, quando il catodo si trova entro uno dei rocchetti, ove è sensibilmente sottratto all’ azione del campo magnetico. La prima delle due curve fu già ottenuta, ed è la. curva 2 della fig. 9. Ma essa non è completa, mancando della seconda ripida discesa, pel motivo che nelle misure non si raggiunsero valori abbastanza grandi del campo magnetico. Ho dovuto quindi rifarla anch’ essa. Prima però d’esporre i risultati delle nuove misure è bene eliminare un dubbio, che dir NIE sorge spontaneo nella mente, e cioè è utile anzitutto verificare, che il campo non dia il suo effetto sul catodo, anche quando questo sì trova entro uno dei rocchetti. A questo scopo ho costruito il tubo rappresentato dalla fig. 13, che differisce da quello della fig. 8 in ciò, che il suo catodo A ha la forma d'un disco perpendicolare al- l’asse del tubo. Inoltre all’ esterno e in corrispondenza del catodo formai un piccolo roe- chetto R, A, avvolgendo sul vetro per dieci giri un sottile filo di rame ben isolato, i cui capi, torti strettamente assieme, furono poi messi in comunicazione con un sensibile gal- vanometro balistico. Leggendo la deviazione prodotta, quando s' interrompe o si chiude una corrente di nota intensità nei rocchetti, si può così calcolare facilmente 1° intensità del campo nel "uogo occupato dal catodo. Ecco ì risultati d’una esperienza, fra le molte concordanti da me eseguite, mentre l’aria entro il tubo aveva 0,028 mm. di pressione. Disposto il tubo entro i rocchetti e collocata l’ eletirocalamita in modo che il catodo A fosse fra i poli a metà distanza, trovai, che con una differenza di potenziale di 2210 volta applicata agli elettrodi occorreva un campo di almeno 3713 gauss, perchè si deter- minasse il passaggio della corrente. Spostata allora l’elettrocalamita sinchè il catodo venisse a trovarsi entro uno dei rocchetti a metà della Iunghezza di questo, fu necessario portare il campo a 4829 gauss per avere ancora la scarica. Per decidere se in questo caso si trattava d'un’ azione sul- l’aria collocata fra i poli, o di una azione sul catodo, era necessario conoscere a quale intensità di campo si trovava esposto quest’ ultimo. Col piccolo rocchetto trovai, che mentre il campo aveva fra i due poli l’ intensità di 4829 gauss, l’intensità intorno al catodo era soltanto 276 gauss, cioè circa la quindice- sima parte del valore (3713) necessario a determinare la scarica. Questa non poteva ascri- versi dunque all’azione del campo magnetico sul catodo collocato entro il rocchetto. Con altri gradi di rarefazione, o con altri valori del potenziale applicato al tubo, ot- tenni sempre un analogo risultato, in modo. più o meno marcato a seconda dei casi. L'esempio precedente corrisponde a quella fra le varie esperienze in cui il fatto sì mani- festava nel modo più accentuato. Fatta questa constatazione, che da sola rende già oltremodo probabile la magnetoio- nizzazione dell’aria lontana. dal catodo, ho eseguite le misure necessarie per costruire le due curve, di cui ho parlato più sopra. Ho adoperato il tubo della fig. 8, con. aria. alla pressione di 0,088 mm. Ecco i risultati ottenuti. ada II Catodo fra i poli Gatodo entro il rocchetto P c P C- 550 SE 500 | 20 563 900 su 20 osi 1593 | 200 1530 | 5190 1050 | 2028 2300 1800 5132 287 1260 RATA 1876 | 4063 5270 \ 338 1900 0 1430 |} 2836 Î 5260 340 1550 | 3583 | 5173 B \ 338 1630 | 4063 | 5087 ooo TO n Le curve A, £ della fig. 14, costruite coi numeri precedenti, mostrano l’ andamento dei fenomeni, e dal loro confronto si rileva subito, che col sottrarre il catodo all’azione del campo si sopprime la parte in ripida discesa corrispondente ai valori del campo intorno a 300 gauss, mentre resta la seconda parte discendente relativa a campi di circa 5000 gauss. Da ciò mi sembra risultare una buona conferma delle previsioni basate sulla ipotesi della magnetolonizzazione. Non sarà superfluo descrivere un’altra esperienza, che in fondo non è che una variante delle precedenti. Mì sono servito di un tubo simile a quello della fig. 4, ma senza il rivestimento esterno Serie VI. Tomo VIII. 1910-41. 12 . Re di stagnuola (che, come ho potuto. verificare, non -modificherebbe sostanzialmente il ri- sultato), il quale tubo ha i suoi elettrodi così lontani l’ uno dall'altro, che, quando uno si trova entro il nucleo d’un rocchetto a metà della lunghezza di questo, l’ altro va ad oc- cupare la posizione simmetrica entro l’altro rocchetto Durante le misure iì punto di mezzo 2000 1509 della batteria veniva messo in comunicazione colla terra, in modo che i potenziali dei due elet _ trodi avessero valori eguali e di segno contrario. Ciò tendeva a rendere perfettamente longitu- dinale il campo elettrico nella parte di tubo, la più lontana dai due elettrodi, che rimaneva nell’ intervallo fra i poli magnetici. Con pressione di 0,04 mm. nel tubo ebbi questi risultati © JO C 450 5090 760 4910 920 4678 SEMO Non riprodurrò la curva che ne risulta, perchè essa è assai simile alla 2 della fig. 14, salvo che la parte discendente di essa è meno ripida. A parte ciò mi sembra che, come la 5, riveli un'azione del campo sull’ aria che si trova fra i poli. Come spesso accade d'ogni ipotesi suggerita da certi fatti noti, anche l'ipotesi d’ una azione del magnetismo tendente a favorire la ionizzazione dei gas, ha condotto a trovare qualche fatto nuovo. Quelli che ho descritto tendono evidentemente a confermare l'ipotesi assunta. Essa mi parve necessaria per spiegare come un campo possa produrre la scarica quando la differenza di potenziale impiegata non produce nessun passaggio dimostrabile di elettricità prima che il campo esista. E poichè le nuove esperienze non contraddicono tale ipotesi, sarà utile mantenerla. Essa da sola non vale, almeno per ora, a rendere conto di tutte le particolarità. È siccome non si può negare la deformazione delle traiettorie degli elettroni per opera del campo, che è la base della spiegazione ordinaria, così ipotesi della magnetoionizzazione non devesi sostituire, ma aggiungersi all’ ordinario modo di spiegare lazione del campo sulle scariche. Colla magnetoionizzazione si arriva a comprendere come e quando prenda origine un moto apprezzabile di elettroni in un tubo da scarica per opera del campo; ma bisognerà tener conto del movimento ch'essi assumono sotto l’ influenza del campo stesso per prevedere ciò che in seguito avviene, e cioè per sapere, se quella messa in moto di elettroni è destinata ad abortire, oppure ad intensificarsi sino al punto da produrre la scarica durevole. La questione d'una probabile magnetoionizzazione, oltre che avere una certa impor- tanza per la spiegazione dei fenomeni di scarica nel campo magnetico, ne ha una di gran lunga maggiore dal punto di vista filosofico. Infatti, la constatazione di effetti spiegabili soltanto in base ad una influenza del magnetismo sopra elettroni muoventisi in orbite chiuse entro gli atomi, costituirebbe una validissima conferma sperimentale in favore delle idee, che oggi ì fisici vanno formandosi relativamente alle strutture atomiche. e ere MEMORIA DEL Prof. SILVIO CANEVAZZI letta nella Sessione ordinaria del 13 Novembee 1910. Gli atti dei congressi internazionali degli infortunî del lavoro e delle assi- curazioni sociali mettono in evidenza che il 63,10%, di infortunî, che hanno pro- dotto incapacità di lavoro per un periodo superiore a 13 settimane, ha avuto per causa lesioni oftalmiche provocate da scaglie e frammenti proiettati durante il lavoro di scalpellatura. Gli atti stessi mostrano come il fatto sia stato oggetto di studio nell’ intento di arrivare a diminuire la caratteristica proporzionale d’ infortunio e come siano state consigliate speciali cautele preventive. Queste si riducono, rispetto ai terzi, a ripari o schermi atti ad arrestare i frammenti lanciati in aria durante il lavoro di scalpellatura, e, rispetto agli operai scalpellini, all'uso di occhiali speciali, per i quali per altro gli operai addimostrano ben poca simpatia. La scalpellatura è opera necessaria nella lavorazione delle pietre ed in quella dei metalli per ricavare nelle prime la forma che loro spetta, e nei secondi per togliere le sbavature nei pezzi colati, per asportare eccedenze, per abbattere teste di chiodi ete. L'operazione di scalpellatura si eseguisce coll’ uso dello scalpello e del martello: si appoggia la punta od il tagliente dello scalpello contro il frammento che si vuol togliere e si batte sulla testa dell’ utensile, a seconda dei casi, con una grossa mazza o con una mazzetta. Se si usa la mazza, di un peso variabile fra cinque od otto chilogrammi, allora un’operaio tiene in posto uno grosso scalpello (#rancia) ed un altro vi batte sopra a tutto sbraccio od anche a giro di braccio, facendo quindi cadere la mazza da un’altezza variabile da uno a due metri. Quando invece si usa la mazzetta, di un peso variabile e poco diverso da un mezzo chilogramma, l° operaio tiene lo scalpello nella sinistra e maneggia il martello colla destra, facendo cadere la mazzetta da un’altezza variabile fra 0." 30 e 0." 60. Le particelle e frammenti che per effetto di questa lavorazione vengono distaccate dal corpo principale, sono bene spesso animate da energia cinetica, per cui vengono lanciate a distanze varìa- bili e qualche volta notevoli, ed incontrando nel loro moto una persona, possono essere Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 13 — 90 — causa di noja, di dolore ed anche di lesione importante a seconda del punto in cui la per- sona viéne colpita. I casi che più impressionano sono le lesioni all’ occhio, spesso seguite dalla perdita del medesimo, per cui riesce interessante, tanto ad intento precauzionale, quanto per risolvere questioni legali relative ad eventuali responsabilità, istituire una ricerca sulla distanza, alla quale possono giungere le projezioni di scalpellatura. Dal punto di vista meccanico una risoluzione precisa della questione riesce impossibile, non perchè difettino le formule teoriche cui ricorrere, ma per la difficoltà pratica di assegnare ai varî elementi, che entrano nelle medesime, valori numerici convenienti. Nei casi particolari, se si può facilmente determinare il peso del martello e dello scalpello, non si può prevedere quale sarà ii peso del frammento staccato, | energia assorbita dal lavoro di distacco, Vl altezza di caduta del martello ed il quantitativo di energia che gli può essere comunicate dalla forza muscolare del braccio, le condizioni o meno di obbliquità dell’ urto, etc... Fra le innumerevoli combinazioni però è sempre possibile che si verifichino anche i casì più disgraziati, quindi appare come non del tutto inopportuno uno studio a criterì lati fatto in via di prima e larga approssima- zione, diretto a determinare le massitme distanze, alle quali le anzidette proiezioni possono arrivare. La questione che ci occupa si connette al problema dell’ urto fra tre corpi A, B, e €, dei quali due, B e © siano in riposo ed a contatto ed il terzo A venga ad urtare B con una determinata velocità ©,. Il corpo A corrisponde al martello, il corpo B allo scalpello e finalmente il corpo C al frammento o scaglia che si vuole staccare. La differenza essenziale fra ì due casi considerati sta in ciò che mentre nel problema astratto dell'urto C è completamente libero, nel caso della scalpellatura il frammento C è attaccato alla massa principale D e prima di staccarsi deve essere stato supe- rato il lavoro di adesione. La conclusione finale sarà che | energia del frammento risulterà ridotta in una data proporzione in dipendenza all’effetto di una eventuale obliquità od eccentricità nell'urto ed all’ assorbimento d’ energia corrispondente al la- voro di distacco del frammento. Detta v, la velocità che nell’ urto libero avrebbe assunto il corpo €, la velocità effettiva w che esso potrà assumere, qualora sotto l’azione dello scalpello il frammento C si distacchi dal corpo principale, sarà necessariamente una frazione di v,, rappresen- tabile dalla formula 0 = 680, nella quaie 8 è un coefficiente di correzione. E impos- sibile determinare il valore di 6 in base a criterî induttivi e con carattere di gene- ralità; è noto come si valuti 1’ effetto dell’ obbliquità nell’ urto, ma il lavoro assorbito nel distacco non potrebbe essere apprezzato altrechè quando il frammento saltasse al primo urto del martello. Sembra quindi più conveniente conglobare le due cause di perdita di energia in un unico coefficiente cercando di desumerne il valore del con- fronto con casi effettivamente osservati. Per le stesse ragioni appare difficile valutare la direzione della velocità w e sarebbe anche superfluo rispetto all’intento finale, poichè ciò che realmente interessa è l'ampiezza delle projezioni. SERGE Siano P. il peso del martello o mazza indicato colla lettera A ed ww, la sua massa P, il peso dello scalpello indicato colla lettera B ed 7, la sua massa P, il peso del frammento o scaglia indicato colla lettera C' ed wm, la sua massa h Valtezza di caduta del martello A g l accelerazione dovuta alla gravità u=/2gh la velocità teorica del martello al momento dell’ urto, dovuta unicamente alla sua caduta libera dell’altezza / u, la velocità effettiva del martello A al momento dell’ urto V,,0, @ ©, rispettivamente le velocità dei corpi A B e C subito dopo l'urto nell’ ipo- tesi che questo sia diretto ed il corpo € libero w la velocità del corpo ( dopo l’ urto nell’ ipotesi che il frammento Cl faccia corpo colla massa principale e ne sia staccato per effetto del colpo di martello. Nel lavoro di scalpellatura il martello cade sulla testa dello scalpello da un’al- tezza A, sviluppando un lavoro PA ed assumendo al momento dell’ urto una velocità u=|/2gh. Nel suo movimento però il martello è guidato ed assecondato dal braccio dell’ operaio e 1’ accelerazione del corpo A viene aumentata in una proporzione mal definibile dall'azione muscolare e che potrà essere simboleggiata, indicando con y l’ accelerazione totale e con e un coefficiente per ora incognito, colla formula y=g9(1+ €). In queste condizioni il lavoro sviluppato dal martello sarà dato da Pkh= myh=wmg(1+e)h e la velocità w, sarà espressa da u = 29h(1+ e) ossia da u=/ 2gh /1+e=uy1 +Pe=uy/k. I corpi B e C sono a contatto ed in riposo, quindi il valore di > indicando con a un coefficiente di imperfetta elasticità detto anche di semielasticità, sarà dato dalla nota formula i: RAP. o = (la= 2) od anche Sag PP, Ac so == (ll de = dg 3 MEG rio Sy KE e quindi, per le cose sopra esposte PP, det PP, i “ (PRE (PIP5) (0 35/5) (Ea) esile 08 nella quale 0 =8(1+y/ ak ed a secondo Morin e Weisbach può ritenersi 2 SAI . 3 : eguale a (3) Il valore di 8 può andare da 0 ad 1, praticamente però avviene RO che si riconosce quando il frammento sta per staccarsi ed in tal caso lo si abbatte d’ ordinario a piccoli colpi, per cui difficilmente 8 avrà un valore superiore a 0,8, poi può ritenersi variabile fra 1 e 3 e ben difficilmente potrà arrivare a 4. Il valore di P, varia entro limiti ristretti e d’ordinario è assai piccolo rispetto a P,, il che vuol dire che il valore di 7, in pratica avrà una assai piccola influenza sul valore di x, per cui la ricerca che ci occupa, applicata ai piccoli. frammenti scaglie, teste di chiodi etc... non risente grandi variazioni al variare del peso di questi elementi, e conseguentemente rispetto ai medesimi acquista carattere di ge- neralità. 5 2 Supponiamo di ritenere a = (3) e 8 = 0,80: assumendo pel lavoro di scal- pellatura coll’ uso della mazza come valori medì P,= 85800 (mazza) P,= 1*850 (scalpello) P,= 0508 (frammento) h=2%00 uy/2gh = 6,26 DI 8 le cai — le SP u/k= 9197 9 daro) o 10408 perse di= E ie=#2 w = 12.85 a=9 VOM IS = vo) = INSZ Analogamente nel lavoro di scalpellatura a mazzetta assumendo h=0,30 ‘e quindi u—y/2gh = 3,183 P,=1%800 (mazzetta) P,= 0" 40. (scalpello) P,= 001 (frammento o scaglia, si ricava D\ TOKIO = 2a = 0,30( | Las 5 ) eso e V0) VARI RARZ0ONAE er ae= 1 0.20 DR = DO NI) COZIONIA DIR VW=RST40 Di Re VOM] LNgg re In conseguenza della velocità iniziale assunta < il frammento P, viene lanciato nello spazio ed in base a formule note la massima altezza, che può assumere rispetto w° al punto di partenza, è teoricamente data da H=3- mentre la massima distanza di proie- 29 zione a livello col punto di partenza a cui può arrivare è data dalla formola teoria Partendo da queste formule si può comporre il quadro seguente. Lavoro di scalpellatura a mazza. li = | gt BIZ dal== ASA. CMS 49 = & IZAIIZIà = @ = IWNGSG =33 vd = NEITS Jelz= 1260 CA=RZ0 la==4 wi Wl324 Tef== NEDO @ = SS-90 Lavoro di scalpellatura a mazzetta. =; ll w= 4.20 DET=10%88 CA-=RINIO [AA US l=="ME30 © = 0 (3 —45) COIMOSZA, ai #2300. ca-=#400) la: de=19010) Jef == BO @="T80 Ri==20 W 1941 Udi = 490 = I numeri sopra riportati corrispondono a casi ideali che in generale non si ve- rificheranno in pratica. Una gran parte dell’ energia d’ ordinario viene assorbita dal lavoro distacco del frammento, l’urto è spesso obbliquo e non centrale, e sovente le projezioni sono dirette verso il basso e, se si elevano, ciò avviene per rimbalzo cop perdita notevole di forza viva. Si comprende però come in un lavoro seguito tutte le possibilità astratte possano realmente verificarsi, compresa anche quella che un ope- rajo per uno 0 pifi colpi maneggi la mazza o la mazzetta con vigore notevolmente superiore all’ usuale. Questi casi di massimo slancio per fortuna avvengono raramente, perchè difficilmente si verifica contemporaneamente il complesso di circostanze che li provocano, ma pur si verificano, e gli atti dei congressi su gli infortuni di lavoro lì registrano. — Indipendentemente dalle pubblicazioni ufficiali dei congressi, aventi piuttosto forma statistica, e nell’ intento di assegnare entro limiti lati un valore pratico alla ricerca superiore ho creduto di dovere eseguire una specie di inchiesta presso grandi stabi- limenti siderurgici e cantieri di tagliapietre, della quale riporto un sunto atto a LBRTOZInie dimostrare che i valori superiori, riguardati come massimi fortunatamente rari, non presentano alcuna esagerazione. A Bologna nel 1903, mentre venivano ripulite le fusioni fatte nell’ intento di saldare fra loro le rotaje della tranvia elettrica, un frammento o grossa scaglia andò a colpire l’ occhio di una persona che passava a m. 13,00 circa di distanza dal punto, nel quale avveniva la ripulitura del pezzo di fusione: 1’ occhio fu perduto e la cosa fu ufficialmente verificata perchè ebbe un seguito giudiziario. Interrogato per lettera un esimio insegnante, che fu per molti anni direttore di un grande stabilimento di costruzioni metalliche, se ne ebbe una ampia risposta, della quale trascriviamo il seguente brano. Nel tagliare ferri, acciai e ghise mediante la trancia 0 gli scalpelli le scheggie possono essere lanciate ad una distanza al minimo di un metro ed al massimo di dodici metri. Nel far saltare le teste dei chiodi con la trancia si sono avuti feriti fino a m. 15 di distanza; le semplici sbavature sono proiettate fra uno e tre metri: moltissimi casi si sono avuti di operai che così perdettero un occhio. Nella stessa Impresa molti anni or sono una sbavatura colpì di sbalzo a circa sei metri di distanza un operaio cagionandogli la perdita dell’occhio. Informazioni corrispondenti sono state date da altre persone pratiche di lavori di scalpellatura e dirigenti grandi officine di costruzioni metalliche o cantieri di costruzioni navaii: nell’ Italia centrale in un grande stabilimento metallurgico la testa di un chiodo, lanciata in aria sotto l’azione della mazza e dello scalpello, ruppe i vetri della tettoja, alta ben dodici metri dal suolo, sotto la quale veniva effettuato il lavoro. Gli stessi fatti sono confermati dagli scalpellini che }avorano le pietre: per tacere d’altri riferiremo le risposte avute da due industriali capi di cantieri di tagliapietre. Uno di questi disse che le scaglie d’ ordinario saltano a due o tre metri di distanza; avvengono però anche casi straordinari e nel breve tempo rimasti in cantiere avemmo occasione di verificare projezioni eccedenti il limite ordinario sopra indicato. L’ altro ha risposto che in determinate circostanze favorevoli le scaglie pos- sano andare a cadere molto lontano, dipendentemente anche dalla natura delle pietre. Esso ha affermato che le scaglie di macigno possono arrivare a sei metri e quelle di granito fino a distanze quasi doppie ed a riprova di questo ha citato il fatto di essere stato ferito in vicinanza all’ occhio stando ad una distauza di circa nove metri dall’ operaio scalpellatore. Questi fatti anpajono sufficienti a dimostrare che i numeri riportati nel quadro superiore sono praticamente atti a designare la zona ordinariamente pericolosa nel lavoro di scalpellatura e quella che può diventarlo in condizioni straordinarie e poco comuni. È sembrato ozioso fermarsi a discutere lungamente sul valore dei coefficienti 8 e k, troppo varie essendo le condizioni possibili di obliquità, di azione muscolare e di assorbimento di energia al distacco. Sembra sufficiente aver dimostrato che 6 difficilmente è superiore a 0,80 e X a quattro nel lavoro colla mazza ed a 5 col iavoro a mazzetta. La conclusione pratica di questa analisi è che la teoria e 1’ espe- rienza si accordano nel designare nel lavoro di scalpellatura intorno ad ogni punto di lavoro una zona pericolosa; di qui la necessità di prendere speciali precauzioni tanto in riguardo agli operai quanto rispetto alle persone, che occasionalmente pos- sano avvicinarsi al cantiere di lavoro. Il non cautelarsi affatto, od il cautelarsi sol- tanto parzialmente rispetto alle projezioni di scalpellatura, costituisce un atto di ma- nifesta imprevidenza rispetto ad un fatto teoricamente e sperimentalmente accertato, quindi ogni infortunio, che in queste circostanze avesse a verificarsi, riveste necessa - riamente carattere colposo. e a VELA LI « 9 POE SS pl PEIELS PROCESSO PER LA DETERMINAZIONE DEL MANGANESE NEI PRODOTTI SIDERURGICI NOTA DEL Prof. ALFREDO CAVAZZI (letta nella Sessione del 21 Maggio 1911). I fatti essenziali più o men noti nel loro insieme, ma non tutti tenuti rispetto all’ ana- lisi nella debita considerazione, dei quali mi sono valso nello studio del processo che propongo per la determinazione del manganese nel ferro dolce, nell’ acciaio, nelle ghise e nel ferromanganese sono i seguenti: 1° FaTTo. — Il ferro di questi prodotti siderurgici può essere facilmente trasformato in solfato ferrico, e questo privato con conveniente riscaldamento di tutto l'acido libero, pur rimanendo solubile nell’acqua bollente, e atto perciò a fornire una soluzione neutra, quale non è possibile ottenere in modo altrettanto semplice e completo per aggiunta di alcali o dei loro carbonati ad una soluzione fortemente acida di un sale ferrico. Simulta- neamente il manganese in lega col ferro assume la forma di sclfato manganoso 2° Fatto. — Facendo bollire una soluzione concentrata e neutra, in cuì il solfato fer- rico sia n grande prevalenza rispetto al solfato manganoso, il persolfato potassico ne separa il manganese in forma di biossido insieme ad una piccola quantità di ossido di ferro. Se nella soluzione si trovassero ad un tempo piccole quantità o tracce di solfati di altri elementi i quali possono riscontrarsi nel ferro o nelle sue leghe o nelle scorie inter- poste, come Ca, Al, Mg, Cu, Ni, Co, essi resterebbero nella soluzione. La utilità e convenienza di questo modo di precipitazione del manganese col persolfato potassico viene ancor più manifesta allorchè si consideri che la presenza di alcuni di questi elementi nelle soluzioni dei prodotti siderurgici non lascia libertà di scelta del reattivo di cui si voglia far uso per separare dalle soluzioni finali il solo manganese. Non minor van- taggio è che il biossido di manganese precipitato è accompagnato da una quantità relativa- mente piccola del ferro esistente nella soluzione, di guisa che, trasformando i due ossidi in solfati privi di acido solforico libero e sciogliendoli in acqua bollente, la separazione del ferro dal manganese mediante l’ acetato sodico, specialmente in presenza di un po’ di nitrato di ammonio, riesce più esatta, e la filtrazione e i lavamenti più facili e spediti. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 14 OR ZE La sostituzione del persolfato ammonico al potassico, che alcuni consigliano, porte- rebbe nella precipitazione del manganese perdite notevoli non trascurabili. Non ho fatto parola del solfo, del fosforo e dell’ arsenico, perchè nella determinazione del manganese io comincio l’ operazione sciogliendo i diversi prodotti siderurgici nell’acido cloridrico a caldo, per cui i detti elementi vengono espulsi in forma di composti idrogenati (H,S, AsH,, PH,). Questo anzi è il motivo pel quale, volendo seguire e praticare il mio processo, debbo sconsigliare di sciogliere fin dal principio il ferro o le sue leghe con acido nitrico concentrato o con acqua regia, cioè con reattivi ossidanti che convertirebbero par- ticolarmente il fosforo e l’ arsenico negli acidi corrispondenti, fosforico ed arsenico. Quanto poi accade del carbonio e del silicio, cimentando i prodotti siderurgici con acido cloridrico bollente, sarà detto più innanzi con maggiore opportunità. 3° Fatto. — Se ad una soluzione neutra e fredda di solfato manganoso si aggiunge acqua ossigenata, poi rapidamente ammoniaca in eccesso, il metallo precipita completa- mente in forma di fiocchi molto scuri di idrato di biossido, il quale non è minimamente alterato e disciolto dall’acqua bollente, e raccolto su filtro è permeabilissimo al liquido stesso. La reazione e la purezza della sostanza ben lavata non cambiano anche quando nella soluzione del sale manganoso, debitamente allungata, si trovi del solfato e nitrato di sodio e del nitrato di ammonio. Dopo ricerche e prove numerose e concludenti sono venuto nella convinzione che questo modo di precipitazione del manganese sia il migliore e più comodo di tutti e preferibile a quello particolarmente raccomandato dal Traedwel], il quale consiglia di impiegare come ossidante l acqua di bromo invece dell’acqua ossigenata; preferibile anche agli altri me- todi in cui si fa uso al medesimo fine dei carbonati alcalini o del carbonato ammonico 0 del solfuro di ammonio; notando che all’ applicazione del detto metodo non farebbe ostacolo la presenza nella soluzione del sale manganoso di piccole quantità di Ca, Sr e Ba ed anche di Mg, purchè la soluzione contenesse un po’ di sali ammonici. I carbonati di sodio o di potassio, per cause ben note, sono i sali meno aceconci alla precipitazione del manganese, anche quando la soluzione su cui si opera sia priva di altri metalli atti a produrre carbonati insolubili. Nel caso che la soluzione finale contenga soltanto sali di manganese e sali alcalini e di ammonio, con ragione si dà la preferenza al carbonato ammonico. Secondo il consiglio del Tamm la soluzione neutra del manganese deve contenere sali ammonici, e dopo l° ag- giunta di carbonato bisogna riscaldarla moderatamente e a lungo. Il carbonato di manga- nese si depone lentamente ed essendo finissimo durante la filtrazione il liquido passa tor- bido, specialmente quando si comincia a lavare il carbonato stesso con sola acqua calda. Infine, per la presenza di quantità relativamente forti di sali ammonici, la precipitazione del manganese non è mai completa e la perdita non assolutamente trascurabile. La precipitazione del manganese in forma di solfuro mediante il solfuro ammonico, metodo che viene particolarmente seguito allorchè il manganese trovasi in presenza di Ca, Ba, Sr, Mg, è un processo lungo, incerto causa gl’ inconvenienti che presenta e molesto. Non di rado nella filtrazione, lenta per se e richiedente in precedenza un lungo riposo, ii liquido passa torbido e ciò talvolta avviene quando si comincia a lavare il solfuro man- ganoso con acqua che contiene soltanto piccole quantità di solfuro ammonico. È pur dif- ficile impedire in modo assoluto che durante la filtrazione il solfuro non venga alterato dall’aria o dall’ossigeno sciolto nell’acqua di lavamento con produzione di un po’ di ossido salino idrato e di solfato manganoso. Riuscendo però a poter evitare tutti questi inconve- nienti, il processo merita la fiducia e considerazione iu cui è tenuto 4° Famto. — La perdita di manganese nelle tre principali e successive operazioni che comprende il nuovo processo, sia nella prima precipitazione del metallo col persolfato potas- sico, sia nella separazione cel ferro dal manganese, nel precipitato prodotto da questo sale ossidante, coll’acetato sodico im presenza di un po’ di nitrato di ammonio, sia nella seconda ed ultima precipitazione mediante l’ ammoniaca in presenza di acqua ossigenata, è minima e trascurabile. Di che ho avuto prove ben certe applicando la reazione sensibilissima del Volhard. Nel primo e nel terzo caso operando sul liquido filtrato dopo averlo ridotto a piccolo volume; nel secondo trasformando |’ acetato basico in solfato ferrico privo di acido solforico libero e sciogliendo questo sale in poc’ acqua bollente. Queste singole soluzioni, trattate a caldo con acido nitrico e biossido di piombo, hanno acquistata la colorazione dell’acido permanganico, ma in grado lievissimo. In base a parecchi saggi colorimetrici credo di poter affermare che la perdita totale di manganese che si ha operando sopra 9g. l di un prodotto siderurgico non sia superiore alla quantità di manganese esistente in 1 milligramma di permanganato potassico. Data poi la preferenza al metodo di separazione del manganese in forma di biossido idrato per aggiunta di acqua ossigenata e poscia di ammoniaca alla soluzione finale, ho stimato necessario di provare e di assicurarmi se fosse più esatto di dosare l’ossido stesso riducendolo per arroventamento in ossido salino Mn,0, o trasformandolo in solfato anidro MnSO,. Le ricerche eseguite in proposito da me, e con non minor attenzione e accuratezza dal mio assistente Dott. l'erni, hanno messo in chiaro che in qualche rarissimo caso le due forme conducono al medesimo risultato: in generale invece dosando il manganese nella forma di ossido salino si ottiene più del metallo che realmente esiste nel sale sottoposto all’analisi, e l’errore è tutt’ altro che trascurabile quando la lega di ferro che si assaggia è molto ricca di manganese. Del resto il Treadwell ed altri chimici fanno giustamente rilevare che la composizione della sostanza, che si ottiene per arroventamento di un os- sido qualunque di manganese in crogiuolo di porcellana, non corrisponde mai esatta- mente a quello dell’ossido salino Mn,0,: essa talvolta contiene Mn0,, tal’ altra Mn,0, di guisa che l’effetto finale è sempre incerto e varia secondo la durata e intensità del ri- scaldamento, non che pel modo con cui la fiamma che serve ad arroventare il crogiuolo involge e circonda il recipiente. Quasi sempre avviene, che, dopo un certo periodo di forte riscaldamento colla fiamma del cannello Teclus di un ossido puro più ossigenato dell’ 0s- sido salino, il peso della sostanza anzichè diminuire o rimanere, come dovrebbe, costante, aumenta. In conclusione, le esperienze eseguite nel mio laboratorio confermano in certo modo quelle del Volhard, del Gooch e Austin e dello Schudel, e cioe che la forma più acconcia e sicura per la esatta determinazione del manganese è quella di solfato. — 100 — Premesse. queste notizie, le quali, derivando da fatti ben accertati, danno sufficiente ragione e garanzia della semplicità e bontà del processo da me studiato, dirò come questo deve essere eseguito nell’ analisi dei diversi prodotti siderurgici. I. Determinazione del manganese nel ferro dolce, nell’ acciaio e nella ghisa bianca ordinaria. È noto che le ghise bianche ordinarie, ed anche le raggiate, contengono sempre meno del 5 per 100 di manganese, e che nel ferro dolce e nell’acciaio di uso comune la quan- tità di questo metallo può variare fra 0,04 e 1,4 per 100. Le operazioni descritte in questo primo capitolo sono pure applicabili alle ghise specolari o spiegeleisen in cui la dose del manganese non suneri il 7 o l 8 per 100. Si introduce g. 1 di uno di questi prodotti in forma di fina polvere entro matraccino conico dell’ Erlenmeyer con 20 cent. cub. di acido cloridrico fumante; si riscalda a poco a poco sino all’ ebollizione che sì mantiene il tempo che basta per espellere lo zolfo, il fosforo e l’arsenico in forma di composti idrogenati e scacciare la maggior parte dell’ acido cloridrico libero. Cimentando così il ferro, l’acciaio e le ghise bianche non si ha in generale residuo di carbone, perchè il carbone di tempra e il carbone del carburo Fe,C nell’acido cloridrico bollente e in presenza di idrogeno nascente generano carburi gassosi o volatili. La solu- zione però, operando specialmente sulla ghisa bianca, si fa più o ineno torbida per fioc- chetti bianchi di silice idrata, che non occorre di separare per filtrazione, non essendo di ostacolo alle operazioni successive. La soluzione cloridrica, limpida o no, sì versa entro capsula di porcellana, sì riscalda sin quasi all’ ebollizione e poscia si stilla in essa a goccia a goccia acido nitrico concen- trato a fine di trasformare il sale ferroso in sale ferrico; di poi s° aggiunge un eccesso del medesimo acido e 5 cent. cub. di acido solforico un po’ allungato (mescolanza di vo- lumi uguali di acido concentrato e di acqua). Dopo di che si poggia la capsula sopra una rete metallica riscaldata inferiormente con un fornello a gas fornito di molte fiammelle uscenti da fori disposti in parecchi cir- coli concentrici e si evapora sino a secchezza: al che si giunge in breve tempo e senza pericolo di perdite, regolando opportunamente l'altezza delle fiammelle sotto la rete e agi- tando senza interruzione con bacchettino di vetro la sostanza vischiosa che si forma nel- l’ultimo periodo della evaporazione che precede il suo prossimo passaggio allo stato solido. Siccome quasi sempre in questo passaggio la sostanza s'attacca con forza alle pareti della capsula, così, dopo aver espulsa una parte dell'acido solforico libero, si sospende il riscal- damento e, cessati che siano 1 fumi bianchi dell’acido stesso, si stacca la sostanza me- diante spa‘ola di platino per evitare un eccessivo riscaldamento di quella parte di essa che è in intimo contatto colle pareti del recipiente, ma non occorre ridurla in polvere o in piccoli granuli, perchè rimettendo la capsula sul fornello nelle condizioni di prima, man mano che la sostanza perde il resto dell’acido solforico libero, basta battere leggermente — 101 — sui pezzetti così staccati con bacchettino di vetro per disgregarli e ridurli in polvere o in particelle di sufficiente tenuità. La temperatura può essere facilmente regolata in modo da scacciare interamente l'acido solforico libero senza scomporre il solfato ferrico e tanto meno il solfato di manganese. Allorchè cessa lo svolgimento di fumi bianchi, sì toglie la capsula dal fuoco e dopo raffreddamento si aggiunge alla sostanza rimasta nel recipiente g. 0,2 di solfato manganoso anidro purissimo, poi 25 a 30 cent. cub. di acqua bollente, la quale, mantenuta che sia in questo stato pochi minuti, scioglie tanto il solfato ferrico, quanto il solfato di manga- nese. Più avanti dirò dell’ opportunità di fare quest’aggiunta di solfato manganoso. Tal- volta la soluzione è limpida, tal’ altra è leggermente torbida, ma tanto nel primo caso come nel secondo, per essere ben certi di non perdere traccia alcuna di manganese, si versa il contenuto della capsula entro bicchierino da precipitato insieme ad altri 30 cent. cub. circa di acqua calda che si impiega per lavare con cura la capsula medesima, e sì fanno cadere nella soluzione g. 3 di persolfato potassico in polvere fina. Con un tratto di penna si segna sul bicchierino il livello della soluzione, poi si porta questa rapidamente all’ ebollizione e così si mantiene per 15 minuti, aggiungendo ogni 3 o 4 minuti un po’ di acqua bollente a fine di evitare una eccessiva concentrazione della soluzione, il cui volume, in virtù di queste aggiunte di liquido, deve piuttosto aumentare che diminuire. In questa maniera il manganese si separa in forma di biossido insieme a piccola quan- tità del ferro esistente nella soluzione, e il precipitato, oltre i due ossidi, contiene 0 può contenere un po’ di silice e raramente traccie di solfato di bario e di piombo. La reazione incomincia soltanto ad una temperatura prossima all’ ebollizione. Dopo 15 minuti di ebollizione si filtra e si lava la sostanza raccolta sul filtro con acqua bollente. Nel liquido filtrato passano i solfati di Ca, Mg, Al, Cu, Ni, Co. Seccata la sostanza entro stufa ad acqua, la si pone in capsula di porcellana insieme alla ceneri del filtro bruciato a parte, poi su di essa si fanno cadere 10 a 15 cent. cub. di acido clo- ridrico e 3 o 4 di acido solforico allungato (mescolanza di volumi uguali di acido solfo- rico concentrato e di acqua), e si riscalda sul fornello ponendo la capsula su rete metallica come fu detto più sopra. L’acido cloridrico scioglie subito gli ossidi di ferro e di manganese, e l’acido solforico converte ì due cloruri in solfati ferrico e manganoso: si evapora sino a secchezza finchè non si svolgono più fumi bianchi di acido solforico. Nel ripetere questa operazione bi- sogna condurre il riscaldamento con maggior cura, in modo cioè di giungere al grado di calore sufficiente per scacciare tutto l’ acido solforico libero senza scomporre minimamente il solfato ferrico, molto meno stabile del solfato manganoso: condizione del resto che può essere facilmente conseguita moderando la temperatura e usando le cautele e gli artifizi che furono indicati nella stessa operazione descritta precedentemente. Sulla sostanza che rimane nella capsula dopo questa operazione, e che è formata di solfato ferrico e di solfato manganoso misti a un po’ di silice e raramente a traccie di solfato di bario e di piombo, si versano 25 a 30 cent. cub. di acqua bollente; si riscalda ancora 2 0 8 minuti per sciogliere completamente i due solfati, indi si versa la soluzione CI OLE e l’acqua di lavaggio entro una grande capsula di porcellana contenente 200 cent. cub. circa di acqua bollente, gr. 1 di acetato di sodio e gr. 1 di nitrato ammonico. Così il ferro, com’ è noto, si separa nella forma insolubile di acetato basico, mentre il manganese ri- mane in soluzione. Dopo 10 minuti di ebollizione si sospende il riscaldamento per lasciare depor bene il precipitato; si decanta il liquido su grande filtro (diam.° cm. 12) in cui per ultimo si versa e raccoglie anche l’acetato basico di ferro, che basta lavare 6 volte sol- tanto con acqua bollente. La quale operazione riesce molto più sollecita quando mediante spruzzetta si faccia ogni volta arrivare con forza l’acqua bollente di lavaero contro la sostanza in modo da smuovere particolarmente l’acetato basico che aderisce al fondo e alle pareti più basse del filtro Con tale artifizio e, ben s'intende, usando un filtro grande, il precipitato può essere ben lavato in meno di 1 ora e mezza. Insieme all’acetato basico di ferro resta sul filtro un po’ di silice e tracce, se vi sono, di solfato di bario e di piombo. Al liquido separato per filtrazione dall’ acetato di ferro e contenente tutto il manga- nese si aggiungono 4 o 5 cent. cub. di acido nitrico concentrato, poscia sì svapora prima a fuoco diretto e in ultimo a bagno maria sino a perfetta secchezza all'intento di scacciare interamente l’ acido nitrico libero, non che I acido acetico proveniente dalla scomposizione dell’ acetato sodico che fu introdotto in eccesso nella soluzione primitiva. Il residuo di questa evaporazione, composto essenzialmente di solfati e nitrati di man- ganese, di sodio e di ammonio, viene sciolto in 25 a 30 cent. cub. di acqua: nella solu- zione bollente si fa cadere a goccia a goccia dell’ammoniaca diluitissima finchè si produ- cono dei fiocchi di colore piuttosto scuro, i quali contengono le minime quantità di ferro che non sono state separate dall’acetato sodico, non che un po’ di idrato di manganese. Si fa bollire pochi minuti per scacciare dalla soluzione il lieve eccesso di ammoniaca, poi si raccoglie il tenue precipitato su piccolissimo filtro, ricevendo la soluzione e le acque di lavaggio entro un bicchiere da precipitato che indicherò con A. Dopo di che si piega su se stesso il jiccolo filtro e ancor bagnato si pone entro crogiuolo di platino e si incenerisce colle ben note cautele. Il tenue residuo di questa calcinazione si fa cadere nella grande capsula di prima; si bagna con 10 o 12 goccie di acìdo cloridrico e 2 o 3 di acido solfo- rico allungato, indi sì svapora ponendo il recipiente sulla rete metallica del fornello e sì riscalda finchè cessano i fumi bianchi di acido solforico, e così si ha un po’ di solfato ferrico e di solfato manganoso. Dopo raffredamento si aggiunge al piccolo residuo 2 deci- grammi circa di nitrato di ammonio e un po’ d’acqua calda, e sulla soluzione bollente si ripete come sopra il trattamento con ammoniaca diluitissima. In tal modo si separano piccolissime quantità di idrato ferrico privo di manganese che rimane disciolto per la pre- senza del nitrato di ammonio: infine si filtra ricevendo il liquido nella soluzione del bic- chierino A, in cui si trova finalmente e scevro di ferro tutto il manganese esistente nel prodotto siderurgico analizzato. A questa soluzione, dopo completo raffreddamento, si aggiunge acqua ossigenata pri- ma, poscia tutta ad un tratto ammoniaca in eccesso e agitando con bacchettino di vetro, perchè operando con lentezza il biossido idrato di manganese che precipita per le prime gocce dell’alcali scomporrebbe rapidamente pel fatto solo della sua presenza la maggior parte — 103 — della rimanente acqua ossigenata. Un centimetro cubico di questo reattivo al 30%, por- tato con acqua a 10, basta per soluzioni che contengono sino a grammi 0,4 di solfato manganoso L’idrato di biossido, che così si separa in forma di fiocchi molto scuri, viene raccolto subito, senza riscaldare, su filtro di carta purissima, poi lavato 30 o 40 volte con acqua bollente. Dopo averlo ben seccato in stufa a 100° si introduce in crogiuolo di porcellana insieme alle ceneri del filtro bruciato a parte e si arroventa per 1 ora circa ed anche meno sulla fiamma del cannello Teclus a fine di convertire la maggior parte almeno di MnO, in Mn,0, ed evitare così uno svolgimento troppo forte di ossigeno, quando la so- stanza sarà cimentata a caldo con acido solforico. E appunto ciò che si fa tosto che l’ os- sido che rimane sì è raffreddato; sì bagna questo con 10, 12 o più gocce di acido solforico concentrato, quante cioè possono essere sufficienti a convertire l’ossido in solfato e a stemprarlo, mediante pressione esercitata con bacchettino di vetro appiattito ad un suo estremo, in forma di una poltiglia abbastanza fluida e fenuissima senza granuli visibili, poi si pulisce il bacchettino facendovi cader sopra poche gocce di acqua. In questa ope- razione, del resto semplicissima, bisogna porre la massima cura. Ciò fatto si scalda il crogiuolo prima a bagno maria per espellere l’acqua, poi a temperatura grado grado più elevata per scacciare tutto l’ acido che non ha reagito con l’ossido e rendere infine il sol- fato manganoso perfettamente anidro. Per quest’ultimo e maggiore riscaldamento mi valgo di un apparecchio che è una semplice e comoda modificazione di quello descritto dal Treadwell nel suo trattato di chimica analitica. L'apparecchio si compone di un crogiuolo di ferro alto cent. 6,5 con diametro di cent. 7, dentro il quale si pone un triangolino di porcellana o di ferro in modo che pogziando sul triangolo il crogiolino di porcellana, contenente la sostanza da riscaldare, il fondo di questo disti dal fondo del crogiuolo esterno di ferro 1 cm. o poco più. Si riscalda il cro- giuolo esterno con un buon cannello Bunsen, prima moderatamente con fiamma corta, e ìn ultimo a tutta fiamma, tanto che il fondo del crogiuolo di ferro arriva al color rosso scuro. Si lasciano i due crogiuoli aperti finché si svolgono fumi bianchi di acido solforico, ces- sati i quali si chiude il minore con coperchio di porcellana o di platino e l’ esterno con coperchio di ferro, e si continua questo forte riscaldamento 25 a 30 minuti. Così si ottiene solfato manganoso anidro purissimo senza pericolo alcuno di perdite o di alterazione del sale. E necessario che l’ acido solforico eccedente sia scacciato con conveniente lentezza affinchè i suoi fumi non trasportino con se particelle di solfato. L'aumento di peso del crogiuolo fa conoscere la quantità del manganese, sapendo che 100 parti in peso di solfato manganoso anidro contengono 36,394 di metallo. Dal peso totale del manganese bisogna poi sottrarre gr. 0,07279, che è la quantità del metallo esistente nei 2 decierammi di solfato manganoso aggiunti alla sostanza primitiva. Da una ghisa bianca in forma di grossi cristalli, che ebbi in dono dai fratelli Glisenti, trovai 5,1 per 100 di manganese. Qui viene a proposito di dire che l'aggiunta di g. 0,2 di solfato manganoso torna so- prattutto opportuna quando si analizzano prodotti siderurgici molto scarsi di manganese, e — 104 — tali sono in generale il ferro dolce, gli acciai di uso comune e non poche ghise, e non reca inoltre alcun inconveniente quand’ anche la quantità del manganese giunge al 7 o 8 per 100. Allorchè è tenuissima, il precipitato che sì produce in virtù dell’azione ossidante del persolfato potassico non assume la forma più conveniente, le operazioni seguenti rie- scono men comode per scarsità di sostanza, e pare inoltre che la presenza di una quantità rilevante di solfato manganoso, similmente al solfato ferroso, faciliti la soluzione del sol- fato ferrico che sia stato riscaldato a temperatura alquanto elevata. Evidentemente i piccoli errori inevitabili in qualsiasi analisi non si ripartiscono sul manganese aggiunto in forma di solfato, in quanto che, a lavoro compiuto, dalla quantità del manganese trovato e totale bisogna togliere, come dissi poc'anzi, quella esistente in er. 0,2 del sale aggiunto alla sostanza primitiva. Nel caso quindi di dover analizzare un prodotto siderurgico poverissimo di manganese, inferiore ad esempio a 0,5 per 100, si può consigliare per maggior esattezza di operare non sopra gr. l di ferro o di ghisa, ma sopra gr. 5, sciogliendo da prima il metallo in 20 cent. cub. di acido cloridrico, tenendo ferma la solita aggiunta di gr. 0,2 di solfato anidro, non che la quantità del persolfato potassico (gr. 3), ed eseguire tutte le operazioni come sono state descritte precedentemente: soltanto conviene portare ad un centinaio circa di centi- metri cubici la soluzione in cui deve effettuarsi la precipitazione del manganese in forma di biossido col persolfato potassico, a cagione della maggior quantità di solfato ferrico che bisogna sciogliere nell’ acqua bollente. In un ferro ricevuto da una casa estera come metallo puro ho trovato 0,44 per 100 di manganese operando sopra gr. 1 e 0,46 operando su gr. 5. II. Determinazione del manganese nelle ghise grigie. In generale le ghise grigie contengono poco di manganese, elemento che, com’ è noto si oppone alla separazione del carbone grafitoide, a meno che la lega non sia ad un tempo ricchissima di silicio. La quantità massima di manganese 3,90 per 100, fu trovata dal Ledebur in un campione di ghisa grigia, la quale conteneva 2,5 per 100 di silicio. Quindi alle ghise grigie è esattamente applicabile il metodo descritto al numero L., non esclusa l’ aggiunta di gr. 0,2 di solfato manganoso. Soltanto dopo aver sciolto gr. 1 di lega nell’ acido cloridrico bisogna aggiungere acqua e filtrare per separare il carbone gra- fitoide. Residuo di carbone può anche aversi sciogliendo nell’ acido cloridrico l'acciaio conte- nente molto carbone di ricottura, il quale, similmente al carbone grafitoide, non è alterato dal detto acido concentrato e bollente. In una ghisa grigia esistente nella collezione del Laboratorio e ricea di silicio ho tro- vato 2,01 per 100 di manganese. — 105 — III. Determinazione del manganese nel ferromanganese. Il ferromanganese può contenere dal 20 al 90 e più per 100 di manganese. Se la dose di questo metallo è compresa fra 20 e 40 per 100 sarà bastevole sottoporre all’ana- lisi gr. 0,4 di lega senza aggiungere solfato manganoso, e pel resto tenersi in tutto alle operazioni descritte al numero I. Quando invece la lega è molto ricca di manganese (40 o 90 o più per 100) basterà ope- rare sopra gr. 0,2. In questo caso non occorre naturalmente l’ aggiunta di solfato manganoso. Ma fatta che sia la soluzione della lega nell’acido cloridrico è mecessario aggiungere ad essa gr. 1 o gr. 1,5 di solfato ferroso puro e privo di manganese, qual’ è in generale il sale che le buone fabbriche ottengono per precipitazione coli’ alcool. È raro invece di tro- vare in commercio solfato ferrico privo di solfato manganoso. Ho detto che quest’ aggiunta di solfato ferroso alla soluzione delle leghe ricchissime di manganese è necessaria, perchè la precipitazione del metallo in forma di biossido col persolfato potassico avviene bene e completa sol quando nella soluzione il ferro è in grande prevalenza sul manzanese, ossia quando predomina il solfato ferrico che deve sommini- strare la quantità di ossido di ferro che si separa sempre insieme al biossido di manganese. Una soluzione al volume di 15 cent cub, che conteneva gr 1 persolfato potassico e gr. 1 di solfato ferrico scevro di acido solforico libero e assolutamente privo di solfato manga- noso, dopo 10 minuti di ebollizione entro tubo d’assaggio era ancor limpida. È adunque manifesto che nella soluzione concentrata e bollente di solfato ferrico una parte dell’ossido di ferro si separa, purchè sia presente il manganese. Nella quale condizione pare che. il precipitato che si forma, più che una mescolanza di due ossidi, sia un manganito ferrico, ma non ho fatto in proposito tutte le ricerche necessarie per esserne ben certo. Allorchè si è introdotto nella soluzione cloridrica di gr. 0,2 di lega e gr. 1 a gr. 1,5 di solfato ferroso, si aggiunge acido nitrico per convertire i sali ferrosi in ferrici, poi acido solforico, e si continua l’ operazione com'è state detto al numero I. In un ferromanganese ricco che ebbi pure in dono dai fratelli Glisenti, tanto io che il Dott. Terni abbiamo trovato 80,5 per 100 di manganese. La lega sì scioglie nell’ acido cloridrico bollente senza residuo di carbone, quantunque il ferromanganese, che viene pre- parato nell’ alto forno in andamento caldissimo e con formazione di scorie rieche di calce, ne contenga più delle ghise ordinarie in causa della dose maggiore del manganese, per cui il carbonio prende le forme di carbone di tempra o disciolto e di carbone del carburo eliminabili entrambi coll’ acido cloridrico bollente. In tutte le analisi considerate nei numeri I, IT e III ho tenuto ferma la quantità del persolfato potassico, supponendo che quella del prodotto siderurgico messa in prova dia come ultimo risultato non più di gr. 0,5 di solfato manganoso. In caso diverso bisogne- rebbe aumentare la dose del sale ossidante, la cui deficienza si rileva quando, facendo scaldare la soluzione contenente il persolfato potassico, dopo 6 o 7 minuti di ebollizione Serie VI. Tomo VIII. 1910-41. 15 — 106 — cessa del tutto lo svolgimento di ossigeno. Allora nulla impedisce, dopo questo periodo di riscaldamento, di aggiungere alla soluzione la quantità bastevole e mancante di sale ossi- dante in polvere e continuare di poi il riscaldamento altri 8 o 10 minuti. In seguito farò ricerche dirette a dimostrare se questo processo, come spero, possa essere applicato con vantaggio all’ analisi dei minerali di manganese. Faccio per ultimo a me stesso la domanda più indiscreta. Il nuovo processo è impor- tante? Rispondo che la modestia e la prudenza mi consigliano di non attribuire mai questa parola un po’ azzardata e prosuntuosa ai miei lavori sempre modestissimi. Mi sia però le- cito di aggiungere, senza contradirmi, che è utile per me, perchè, conoscendo minutamente tutte le condizioni in cui bisogna operare, seguendo il mio processo sono sicuro di giungere a risultati più esatti di quelli a cui potrei pervenire applicando i processi altrui, dei quali molto spesso non si ha precisa conoscenza, nè pratica sufficiente. Non per altro ho cercato di essere minuzioso nella descrizione del nuovo processo che potrà perciò apparire, ciò che veramente non è, piuttosto lungo e complicato. In due giorni di lavoro ben regolato e as- siduo si può determinare la quantità del manganese in qualunque prodotto siderurgico. Nr E5E= vu TAPIRI FOSSILI BOLOGNESI NOTA DEL Prof. GIOVANNI CAPELLINI (letta nella Seduta del 26 Marzo 1911). Il Sasso di Glosina sulla sinistra riva del picciol Reno delimitato in parte dal Rio Gemese, improvvidamente mal tagliato in data antichissima per la via da Bologna a Por- retta era pure internamente scavato per rifugi, taluni dei quali probabilmente da riferirsi ad epoca preistorica. Di altri cunicoli si ha notizia che, da prima servirono per Ospizio e relativo Santuario e in seguito ingranditi e moltiplicati furono concessi per abituri. E di buon ora, per opera dell’ uomo, avvenne del Sasso di Glosina quello che accade delle rupi calcaree e delle scogliere madreporiche bucherellate dai litofagi, sicchè fino dal 1300 si hanno ricordi di parziali rovine del Sasso delle quali, anche di recente, il Dott. G. B. Comelli ha reso conto in una pregevole Monografia dal Titolo « Za rupe e il Santuario del Sasso » (1). Delle frane o rovine più recenti quella colossale del 1892 riescì più di tutte le prece- denti veramente disastrosa, poichè dei trentotto abitatori delle tane del Sasso, ben quat- tordicì vi perirono miseramente sepolti. Nelle prime ore del mattino 24 giugno, un rumor cupo e un fremito come di onda sismica destò improvvisamente gli abitatori del vicino Borgo e, per buona fortuna, un can- toniere della ferrovia immediatamente resosi conto dell’ immane disastro, riescì ad avvisare e fermare il treno da Bologna a Porretta che a grande velocità arrivava contro la rovina. Uno dei passeggeri che tranquillamente dormivano in quel treno N. 7, la mattina dopo sul giornale la Gazzetta dell’ Emilia narrò come il treno era stato fermato a breve distanza della frana e quanto era apparso a tutti coloro che, destati dal martellare delle campane della vicina chiesa, furono immediatamente sul posto per apprestare soccorso. Il volume della massa rocciosa allora precipitata fu valutato in duemila cinquecento metri cubi; l’ ingegnere Niccoli, in nome di una commissione incaricata di studiare cosa occorreva fare per prevenire altri disastri, riferì che era necessario di far precipitare altra roccia e fu allora deliberata la demolizione di altri diecimila metri cubici di quella massa molassica. (1) Comelli Dott. G. B. - La Rupe e il Santuario del Sasso (Montagna bolognese) — Bologna Tip. Ditta A. Garagnani, 1906. — 108 — Nell’ agosto 1893 cominciarono i lavori di sostegno per la roccia che doveva essere prudentemente demolita e due anni dopo fu intrapresa la demolizione sotto la direzione del sig. Ing. Canonici. Il Dott. G. B. Comelli mio antico discepolo aveva vivamente raccomandato che si tenesse conto dei resti fossili che eventualmente fossero stati trovati e la raccomandazione non riescì vana. i Il masso da demolire si elevava a ben 22 metri sul livello della strada provinciale e alla profondità di m. 5,24, ossia quando già era ridotto a soli m. 16,76 sul livello stradale, fu trovato uno strato ghiaioso che inferiormente passava ad una molassa grossolana ricca di filliti con avanzi indecifrabili di molluschi ma che facilmente si poteva conguagliare con la molassa ricca di filliti del non molto lontano Mongardino. Due metri circa ancora più basso, ossia inferiormente a quella molassa grossolana furono scoperti avanzi di ossa piatte assai malconce e tra esse un osso lungo passabil- mente ben conservato ed un frammento di mandibola con due denti. Quei resti li ebbe subito il Dott. Comelli e da esso mi furono gentilmente comu- nicati per studio e poscia donati per la collezione dei vertebrati fossili bolognesi. Essi consistono : 1° Porzione della mandibola sinistra con due bellissimi denti, il 2° e il 3° molari. Questo frammento osseo lungo appena sette centimetri è inferiormente troncato sicchè dal margine alveolare si hanno appena due o tre centimetri di altezza ; è però meglio conservato dal lato interno per tutta la lunghezza del 3° mo- lare. Il terzo molare è perfettamente conservato e mi fu pos- sibile di istituire principalmente con esso i necessarii con- fronti per identificarne la specie. Il secondo molare è assai meno ben conservato ; il tuber- colo anteriore esterno è rotto e in parte mancante e della metà anteriore del dente mancano le radici e la corrispon- dente porzione ossea mandibolare. Tuttavia questo avanzo è interessante e direi prezioso poichè ci ha permesso di anno- verare, con sicurezza, anche il genere Tapiro tra i vertebrati fossili del Bolognese. E quanto alla specie, sebbene si abbiano soltanto questi due denti non abbastanza caratteristici per certe minute par- ticolarità sulle quali i paleontologi insistono per differen- zare, dopo la bella importantissima memoria del Dott. Del Campana « Sui Tapiri del Terziario italiano, (1) con tutta sicurezza riferisco il tapiro del Sasso al T'apirus arver- nensis di Croizet et Joubert. 2° Omero sinistro, disgraziatamente mal conservato tanto da non poterne cavare (1) Del Campana D. I Tapiri del terziario italiano — Palaeontographia italiana Vol. XVI, pag. 147-204 (1-58) Tav. XIX-XXI, Firenze 1910. — 109 — particolareggiati termini di confronto come sarebbe stato desiderabile. La lunghezza appros- simativa di quest’ osso è di m. 0,16 e dico approssimativa perchè la testa o estremità prossimale è sciupata e non permette di averne misura esattissima. Di essa neppure è il caso di accennarne le particolarità di struttura essendo schiac- ciata e deformata. La diafisi è ben conservata nella faccia laterale esterna, mentre a metà della lunghezza manca l’ osso per un tratto di venticinque millimetri. Benissimo conservata è la porzione inferiore dell’ omero, specialmente per quanto riguarda la sua estremità e la faccia laterale interna, e mentre la troclea è ben conservata e carat- terizzata, manca il condilo esterno e anche questa parte è incompleta. Evidentemente il condilo fu rotto e perduto da chi tentò di liberare quell’ osso dalla roccia che lo includeva. Ben conservata è la cavilà coronoide e la fossa olecranica è ampiamente perforata con foro ovale leggermente piegato dall’ alto in basso verso 1’ esterno. Giova notare che questa perforazione olecranica si riscon- tra molto pronunziata anche nel Tapiro americano col quale il 7. arvernensis sembra avere stretti rapporti. Ho già accen- nato a porzioni di ossa piatte delle quali non avevo creduto di potere tentare alcuna identificazione. Di questi avanzi il più interessante è un frammento lungo m. 0,20 con una larghezza media di m. 0,20; l’ osso nelle porzioni fratturate porta tracce evidenti di subìta pressione e stiramento come si nota in esse rocce stirate sotto pressione le quali sono indi- cate col nome «li stiloliti. Tenuto conto della conformazione di uno dei margini dell’ osso ancora ben conservato, avuto riguardo alla grossezza e ad altre particolarità ho motivo di ritenere che si tratti di una porzione di Ileo; per altri avanzi nulla avrei da notare e non potrei assicurare che tutti siano da riferirsi al bacino. Cinque anni, or sono (1906) il professore Tommaso Mori gentilmente mi favoriva avanzi di un vertebrato fossile, scoperto nella lignite di Livergnana. Lietamente sorpreso di riconoscere che quei resti spettavano al genere Tapiro, fin d’ allora pensai di farli conoscere quando avessi avuto occasione di occuparmi del tapiro del Sasso. Detti avanzi consistono in porzione di cranio, due denti molari isolati e altri due frammenti pure di denti. La porzione di cranio consta del mascellare sinistro e vi si nota la mancanza della corona del primo premolare di cui restano solamente le radici. Del secondo premolare — 110 — restano il tubercolo anteriore interno ed il tubercolo posteriore esterno. Il terzo premolare è perfettamente conservato e su di esso ho potuto verificare le seguenti misure. Lunghezza lato esterno. ... mm. 17,5 "% Lunghezza lato interno . ... » 15,0 Larghezza del lobo anteriore » 19,0 Larghezza del lobo posteriore » 19,5 Del quarto premolare restano solamente una piccola porzione del tubercolo anteriore interno e la metà interna del tubercolo posteriore interno. Sotto questo dente si vede parzialmente il dente di rimpiazzo. Mancano completamente il primo e il secondo molare e resta la metà interna del lobo anteriore del terzo ed ultimo molare. Evidentemente, questa porzione di cranio quando fu scoperta doveva essere assai meglio conservata e, dalle fratture fresche, ho ragione di arguire che fosse guernita di tutti i denti perfettamente conservati. La corona di un terzo molare destro i cui tubercoli sono molto logorati probabilmente spettava allo stesso individuo e inferiormente vi si nota la impronta dei tubercoli del dente che doveva rimpiazzarlo. Lunghezza del lato esterno mm. 20, lunghezza del lato interno mm. 18. Un secondo molare destro perfettamente conservato e che non aveva ancora funzio- nato, perchè doveva essere evidentemente ancora protetto dal dente che avrebbe dovuto rimpiazzare, ha le seguenti dimensioni : Lato esterno lunghezza . . ... mm. 20 Lato interno lunghezza . ...... >» 18 Questi avanzi lasciano vivamente desiderare che si trovino altri resti e che i cavatori, avvertendoli, abbiano cura di meglio custodirli, senza darsi premura di liberarli dalla roccia nella quale si trovano. Dopo la bella Memoria del Dott. Campana Sui Tapiri del terziario italiano per gli accurati confronti da esso istituiti tra i resti di tapiri del Val d’Arno, della Valle del Serchio e di Spoleto, è facile di rilevare che anche i resti del Tapiro di Livergnana si devono riferire alla stessa specie del Tapiro del Sasso : Tapirus arvernensis, Cr. et Job. E poichè il Tapiro delle ligniti del Casino presso Siena non può distinguersi, dai pre- cedentemente notati, altrimenti che quale semplice varietà, si deve concludere che la mag- gior parte dei resti di tapiri del terziario italiano fin qui scoperti sono da riferire ad una sola specie, quella che fino dal 1828 fu illustrata da Croizet et Jobert tra i fossili del Dipartimento del Puy de Dome. Dissi, la maggior parte, perchè occorre di fare eccezione pei resti di Tapiro di Val di Magra pei quali, avendone riconosciuta la parentela col Tapirus hungaricus e in parte — lll — la somiglianza col Tapirus minor, mi ero limitato a dare una coscienziosa descrizione dei pochi resti che ne erano stati raccolti, senza affermare a quale specie avrebbero potuto essere riferiti (1). Il Dott. Campana, avendo ripreso in esame quanto io avevo osservato a tal propo- sito, in seguito ad accurati confronti con i tapiri del Casino, di Spoleto e delle altre loca- lità italiane, ba dimostrato che il Tapiro di Sarzanello poteva essere considerato come specie nuova che gentilmente volle distinguere col nome di Tapirus Capellinii (2). I resti di Tapiro del Sasso e di Livergnana costituiscono un importante contributo non solamente alla fauna paleomammologica del Bolognese ma eziandio alla ricca colle- zione dei Vertebrati fossili del nostro Museo geologico nel quale finora scarseggiavano avanzi di tali animali. Rinnovo pertanto le più sentite grazie agli egregi donatori Dott. G. B. Comelli e Prof. T. Mori, augurando che dalle cave di lignite di Livergnana si possano avere ancora altri importanti avanzi di vertebrati ad incremento della collezione paleontologica bolognese. (1) Capellini G. Resti di l’apiro nella lignite di Sarzanello: Attî della R. Accad. dei Lincei Ser. 8 Vol. IX. Roma 1881. (2) Del Campana. - Mem. cit. pag. 200. —dpar (abb 1A SA E . ‘4 vci DA AIAR E ala a Wed MUSg, Dici ST NOTATO co Ù pui 3 AAA Ma ati i “ ea end i COR ZA, IERI VU Acea i IM, ‘ : iaia VIRA ACNE ZIFIOIDI FOSSILI NEL MUSEO GEOLOGICO DI BOLOGNA NOS: EROFZGIONIANNIMO SEE INI (letta nella Seduta del 26 Marzo 1911). La prima notizia di Zifioidi fossili in Italia è dovuta a Roberto Lawley il quale nel 1875in una Nota « Pesci ed altri Vertebrati fossili del Pliocene toscano » (1) così ricor- cava il genere Dioplodon: « Dioplodon sp.? Questo Zifioide per la prima volta rinvenuto in Italia sarà determinato dal prof. Ricchiardi ». Un anno dopo lo stesso Lawley nei « Nuovi studi sopra ni pesci ed altri vertebrati fossili delle colline toscane » (Firenze 1876) a pag. 109 descrive il dente di Dioplodon pro- veniente da Orciano del quale il prof. Riechiardi non si era occupato, e lo intitola al professore Meneghini (Dioplodon Meneghinii). l’are che molte altre parti dello scheletro fossero state trovate, ma, essendo male conservate, non furono curaite e andarono disperse. Il Lawley ricorda che un dente simile era stato trovato al Ponte della Ficaiola nella via maremmana presso il Gabbro, ma altro non aggiunge al riguardo; invece descrive un frammento di mascella con dente raccolto, con frammenti di ossa indeterminabili, nel podere delle Volpaie presso le Saline di Volterra. Il Lawley sperava di trovare altri resti di Zifioidi e ancora sperava che | amico Ricchiardi li avrebbe illustrati. Fino dal 1884 con una Memoria sul Zifioide proveniente da Fangonero presso Siena (2) e acquistato dal Dott. D° Ancona pel Museo di Firenze cominciai ad occuparmi di questi singolari cetacei dei quali rari e molto incompleti avanzi già avevo osservati nel museo di Siena e altrove e, un anno dopo, con altra Memoria « Resti di Dioplodon e Mesoplo- don » (3) feci conoscere quauto fino allora sì trovava di avanzi di tali animali in tutti i musei d’ Italia e più particolarmente in Bologna. (1) Atti Società toscana Scienze nat. Vol. I, Fasc. I. n. 32 1875. (2) Capellini G. Del Zifioide fossile (Choneziphius planirotris) scoperto nelle sabbie gialle di Fangonero presso Siena. Mem. R. Accad. dei Lincei Cl. Sc. Fis. e mat. Vol. I. Roma, 1885. (3) Capellini G. Resti fossili di Dioplodon e Mesoplodon. Memoria R. Accad. delle Scienze. Serie IV. l'om. VI. Bologna, 1885. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 16 — ll4 — Il superbo rostro di Dioplodon scoperto nel 1887 nelle Sabbie marnose plioceniche della Farnesina presso Roma, avendomi fornito argomento per altra Memoria che ebbi 1’ onore di presentare a questa Accademia nel febbraio 1891 (1) approfittai di quella circostanze per far conoscere altro avanzo di Zifioide raccolto presso le Case bianche in Val di Cecina e più ancora per nuove informazioni intorno alla provenienza del frammento di rostro di Dioplodon gibbus che si trova nel museo geologico di Roma e fu raccolto nel Catanzarese. Avrei allora dovuto ricordare che il Dott. A. Neviani, già in una Nota « Sui gia- cimenti di cetacei fossili di Monteleone con indicazione di altri rinvenuti nelle Cala- brie » (2) aveva assicurato che il fossile, già donato al Prof. Lavisato dal signor Fra- gale di Serrastretta, proveniva dalla collinetta Canciello distante un chilometro da Migliuso, ed era stato raccolto nelle argille turchine plioceniche verso rio Casciara che scorre nel lato orientale della collina stessa. Con ciò resta definitivamente rettificato quanto riguarda anche la esatta provenienza dell’ esemplare di Dioplodon gibbus donato nel 1879 dal Prof. Lovisato al Museo geolo- gico della R. Università di Roma. > Tre anni dopo la pubblicazione della Memoria sul Dioplodonte della Farnesina e pre- cisamente il 28 luglio 1894 trovandomi in Arcevia per studiare il giacimento del Delfinide di Acquabona, per mezzo del Cav. Anselmi conobbì il Signor Vincenzo Mazzi dal quale potei avere pel Museo di Bologna altro bel frammento di rostro di Dioplodon che l° egregio donatore mi disse di aver raccolto nel 1875 in un fosso sotto Piticchio. Questo frammento lungo circa venti centimetri rappresenta la estremità del rostro del zifioide abbastanza ben conservata, come del resto si verifica per tutti i resti analoghi di detti cetacei; anteriormente scheggiato nel lato sinistro (mascellare e intermascellare) senza doverne fare una sezione trasversale ritengo di poterlo con tutta sicurezza riferire al Dioplodon tenuirostris, Owen, del quale il Museo già possiede una bella porzione di rostro proveniente da S.ta Luce presso Orciano pisano. Il Dioplodonte di Piticchio interessa in modo particolare, perchè è il secondo esempio di avanzi di tali animali nel pliocene del versante adriatico dell’Apennino. Terminerò questa breve Nota col catalogo di tutti.i resti di zifioidi che oggi si tro- vano nel Museo di Bologna o che vi sono rappresentati con buoni modelli. Genere Dioplodon. longirostris, Owen. Case bianche in Val di Cecina. longirostris, (modello) Fangonero, presso Siena. gibbus, Owen. (modello) Migliuso presso Serrastretta. tenuirostris, Owen. (Calabria). tenuirostris, Owen. Piticchio presso Arcevia. UbbES (1) Capellini G. Zifioidi fossili e il rostro di Dioplodonte della Farnesina presso Roma. Mem. R. Accad. delle Scienze. Bologna. Serie T. Tom. I. Bologna, 1891. (2) Bollettino della Società geol. ital. Vol. V. Roma, 1886. — 115 — . tenuirostris, Owen. S.ta Luce, presso Orciano. bononiensis, Cap. Rio Predone, (Bolognese). . medilineatus, Owen. Orciano. . senensis, Cap. (modello) S. Casciano dei Bagni. Lawley, Cap. Saline di Volterra. . Meneghinii, Law. (modelli) Orciano. Farnesinae, Cap. Farnesina presso Roma. Sp. Orciano. bbDHIBED Gen. Mesoplodon, Gew. M. D'Anconae, Law. (modello) Saline di Volterra. Mesoplodon sp. cassa timpanica ? Gen. Choneziphius, Cuv. Ch. planirostris, Cuv. (modelli) Fangonero. Ch. planirostris, Cuv. (modello di cranio). Anversa. Gen. Placoziphius V. Ben. Modello di cranio di giovane individuo. — Rocca di Volterra. ci pepinuidr Calcolo Funzionale MEMORIA PRIMA DEL PROF. SALVATORE PINCHERLE Letta nella Sessione del 27 Novembre 1910 INTRODUZIONE Parecchi anni or sono, lo studio di qualche problema d’ inversione d° integrali defi- niti mi conduceva a considerare ]° espressione (1) /a(2,y) f(4)dy come un’ operazione applicabile all’ elemento variabile /(y), nella stessa guisa che una funzione è applicata alla sua variabile indipendente (*). Questo concetto, analogo a quello che signoreggia il Calcolo delle variazioni, veniva da me ripreso e svolto in in una serie di note e poi in un volume (**) pubblicato in collaborazione con un va- lente mio discepolo, ora mio egregio collega. Secondo codesto concetto, le funzioni di una determinata classe, più o meno estesa, erano da considerarsi come punti di uno spazio ad infinite dimensioni, e le operazioni distributive o lineari erano le omografie operanti su questo spazio. Per meglio delimitare la questione, mi ero trattenuto spe- cialmente su quello spazio i cui elementi sono le serie di potenze di una variabile; ogni tale serie sì considerava come un punto di quello spazio, ed i coefficienti ne rappresentavano le coordinate : anche limitato in questi termini, il concetto di spazio funzionale e di operazione geometrica sugli elementi di questo spazio sì rivelava fecondo e metteva in luce inattese analogie fra la teoria delle funzioni analitiche ed il calcolo delle ope- mazioni (***). D'altra parte, dopo notevoli ricerche del Volterra, lo studio delle equazioni integrali, cui ha dato un meraviglioso sviluppo la memoria ormai classica del Fredholm (****), ha aperto all’ indagine matematica nuovi campi, nei quali si vanno giornalmente racco- (°) La prima nota in cui abbia accennato a questo concetto è comparsa negli Acta Math, T. VII, pag. 381 (1885). (‘*) Le operazioni distributive, Bologna, Zanichelli, 1901. ("‘) Si noti come questo concetto abbia giovato al compianto T. Cazzaniga nei suoi lavori sui determinanti infiniti secondo H. von Koch; v. in particolare Atti della R. Accad. di Torino, 1. 34 (16 Aprile 1898). ("°) Acta Math., T. XXVII, p. 365 (1908). Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 17 — 118 — gliendo risultati di grande e di riconosciuta importanza. Fra questi risultati, i più notevoli ed acquisiti nel modo più completo e definitivo, sono quelli che riguardano le equazioni integrali lineari: queste, e con esse lo studio, che vi si connette intimamente, delle operazioni funzionali della forma (1), che si chiameranno operazioni integrali, hanno dato un’ estensione inattesa alle ricerche sulle operazioni lineari che agiscono in un campo fun- zionale. In codeste ricerche, lo spazio funzionale è quello delle funzioni continue, o quelli, più estesi ancora, delle funzioni integrabili nel senso di Riemann o delle funzioni sommabili nel senso di Lebes@ue; dalle ricerche stesse, le operazioni lineari che un tempo primeggiavano, come le forme lineari differenziali o alle differenze, vengono in qualche modo ricacciate in seconda linea. Nei lavori ai quali alludiamo, e fra i quali il posto più cospicuo è occupato da quelli di Hilbert e della sua scuola, le equazioni integrali e le operazioni che ad esse si collegano vengono considerate sopratutto da un punto di vista che in altra occasione ho chiamato quantitativo 3 questo punto di vista è preva- lente nelle questioni di meccanica e di fisica matematica che hanno data origine a simili equazioni e ad esso si sono specialmente attenuti i numerosi autori che si sono occupati della loro risoluzione e dei problemi affini, fra cui principalissimo quello della sviluppabilità di una funzione arbitraria in serie procedente secondo una successione di funzioni determinate : problema che a buon diritto sì può considerare come quello della rappresentazione lineare di un elemento arbitrario di uno spazio funzionale mediante una data base. Ma se è grandissima in sè, e per le applicazioni, l’ importanza di questo punto di vista quantitativo od arifmetico sotto al quale si suole considerare il calcolo funzionale, non per questo è privo d’ interesse il punto di vista qualitativo, che si potrebbe anche dire geometrico ; è sotto a questo punto di vista che deve venire tentata la classificazione delle operazioni lineari ; a questo appartiene lo studio delle proprietà delle operazioni integrali (1) in corrispondenza alle proprietà analitiche del loro nucleo a(x, y), la na- tura analitica del risultato di una tale operazione in relazione con quelle dell’ ente su cui si opera (corrispondenza funzionale), le condizioni che regolano la distribuzione degli elementi invarianti, ecc. Questo secondo modo di considerare la teoria delle operazioni integrali starebbe di fronte al primo, all’ incirca in quella relazione in cui la teoria delle funzioni analitiche sta rispetto alla teoria delle funzioni arbitrarie di variabili reali; che, per altro, i due modi di considerare la teoria delle operazioni o delle equa- zioni funzionali lineari abbiano fra di loro stretti legami, è ben naturale a priori, ed è dimostrato, per esempio, da quei risultati del Poincaré, del Riesz e di altri, che fanno dipendere la possibilità della risoluzione di un’ equazione funzionale, cioè, una que- stione di indole morfologica, da un criterio puramente aritmetico, ad esempio dalla con- vergenza di una data serie. Il presente lavoro cui, per molte ragioni, non posso dare che il carattere di sem- plice abbozzo, è il primo di una serie destinata ad illustrare il punto di vista al quale ho per ultimo accennato. I risultati che esso contiene saranno, senza dubbio, giudicati incompleti ; mi si permetta solo di ritenere non infondata la speranza che, nella dire- SENO zione che vi è indicata, siano da incontrarsi argomenti di interessanti ricerche. Questa memoria è dedicata allo studio di operazioni lineari per le quali si ammette 1’ esistenza di una risolvente di Fredholm che sia una funzione analitica di forma determinata del parametro ; ci si propone di vedere quali conseguenze, per l’ operazione stessa e per la ripartizione che essa effettua nello spazio funzionale su cui agisce, nascano dall’ ammis- sione di una risolvente di questa o di quella forma. Codesto studio, premesse nell’ art. I alcune considerazioni generali sulle operazioni lineari in relazione specialmente colle con- tinuità e nel II alcune nozioni sulla risolvente, si svolge negli art. III-V, in cui vengono esaminati tre casi che forniscono altrettanti tipi interessanti ; nel III, il tipo, che si può dire del Volterra, in cui l’ operazione non ammette nello spazio considerato elementi invarianti ed è base di un calcolo che procede colle regole del calcolo ordinario ed ha una validità assai estesa; nel IV, il tipo in cui la risolvente è meromorfa rispetto al parametro e al quale ha condotto il caso classico studiato dal Fredholm ; infine nel V, un’ operazione che si distacca dalle precedenti per avere una risolvente, che, come fun- zione del parametro, ammette una linea di discontinuità e per presentare quindi, secondo la nomenclatura dell’ Hilbert, uno spettro continuo. Î. Le considerazioni che seguono si potrebbero riferire a tutte quelle classi di enti pei quali si immaginano definito il concetto di uguaglianza e disuguaglianza, quello di addizione, quello di moltiplicazione per un numero, quello di passaggio al limite : ciascuno di questi concetto essendo caratterizzato dalle sue proprietà elementari. Non sarebbe necessario di particolarizzare maggiormente tali enti, e la trattazione potrebbe condursi in modo astratto : però, per meglio fissare le idee, ci pare opportuno di specificarne la natura, e nella scelta di questa specificazione vi è una notevole arbitrarietà : ad esempio, sì potrebbero considerare classi di vettori di un numero indeterminato di dimensioni, 0 funzioni di un numero arbitrario di variabili date in un dominio comune di variabilità. Per brevità di linguaggio, e anche in vista delle applicazioni, ci restringeremo — la re- strizione non ha nulla di essenziale — al caso in cui gli enti in discorso sono funzioni di una variabile #, date in un intervallo J; tali funzioni saranno gli elementi di un insieme, che nei singoli casi verrà definito da un conveniente sistema di proprietà, e che diremo spazio funzionale S. 2. Gli elementi di ,8° verranno di norma, in ciò che segue, designati con lettere greche minuscole ; useremo talvolta anche lettere minuscole latine stampatelle. Le lettere latine minuscole corsive ci serviranno a rappresentare numeri. Un elemento a di ,$ è dunque una funzione della variabile # data nell’ intervallo Y; non è però escluso che «, oltre che di , possa essere funzione di altre variabili y, ,.... Se ciò accade, si am- metterà che & sia elemento di ,8° per ogni sistema di valori dati ad y,,... nei ri- spettivi loro campi di variabilità. 3. Ammetteremo che lo spazio , sia lineare. Intendiamo con ciò che se a, 8, Y, .... appartengono ad ,$, vi appartenga anche aa +58 +cy+.... per ogni sistema di funzioni a, 8, VARE 4. Ammetteremo ancora che lo spazio ,8 sia denso. Intendiamo con ciò che, preso un numero positivo e arbitrario, esso contenga funzioni che, in tutto l° intervallo J, si mantengano in valore assoluto inferiori ad e. Questa condizione è pochissimo restrittiva ; basta infatti che fra gli elementi di ,$° vi sia una funzione & limitata in tutto J, perchè url ae a| < m, la funzione =) che ap- la condizione sopra detta sia verificata, poichè, se è partiene ad ,$8, è in valore assoluto inferiore ad e. Se è denso, esso contiene, insieme ad un suo qualunque elemento a, infiniti elementi a' tali che sia |al—- a | "kquesel sì diranno appartenere all’ intorno (e) di a. 5. Diremo che p è elemento limite di ,S se è possibile di estrarre da ,8' una suc- cessione @,, A, 93 --- Any... di elementi avente per limite e tale che la convergenza al limite sia uniforme nell’ intervallo J. Scriveremo in tale caso : lune, =05 n= 09 con questa scrittura intenderemo dunque, senza che sia necessario di ripeterlo esplici- tamente, la convergenza uniforme al limite in tutto J. Lo spazio ,8 si dirà chiuso se contiene i suoi elementi limiti. @. Le operazioni che si possono applicare agli elementi di ,8 si dicono operazioni funzionali. Noi ci occuperemo specialmente di quelle, fra codeste operazioni, che am- mettono le seguenti proprietà : i a) Applicate ad un elemento di ,$, esse danno origine ad uno, o più, elementi di ,S medesimo. Considereremo il caso più semplice, in cui 1’ operazione, applicata ad un elemento di ,$, genera un solo elemento dello spazio medesimo; essa viene detta allora UNIVOCA. b) Se A è l'operazione considerata, ed A(a) il risultato che si ottiene applicandola ad un elemento di a, deve essere per ogni coppia elementi a, 8 e per ogni numero e : A(a + B8)= A(a) + A(8), A(ca)= cA(a); l'operazione A ‘è cioè distributiva. c) Preso un numero e arbitrario positivo, deve esistere in corrispondenza ad e e all'operazione A un tal numero g, che se 1° elemento a di ,$, in tutto J, soddisfa alla — 121 — disuguaglianza |a] n 6 per ogni elemento a' di ,8, soddisfacente alla condizione |a' — a|< g, è |La') — A,(a')|» La £ è operazione distributiva ; basta mostrare che è continua. Ora, la differenza L(a) — L(a') può scriversi : L(a) — A,(a) + Ax(a')— L(a')+ A,(a) — Ax(a') onde (3) |Z(a) — L(a)| <|Z(a) — A.(a)|+|Z(a') — 4,(0')|+|4,(0) — A,(4')|. SAN Si scelga un numero positivo arbitrario e. Preso un elemento a in ,8,, per le ipo- tesi, esistono due numeri, n, e g, tali che per un a' di ,Sj tale che sia |a — a'|< 9, 1 euper n > n, è |Z(a)— Ax(A)] << |La)— A(a)|<3. Fissato il valore x, poichè A, è continua, esiste un intorno (g') di x tale che per ogni a'' contenuta in quest’ intorno, è |An(a) — d(a")|<3 Ma $, essendo denso, si può prendere a' di ,$, tale che sia ad un tempo in (9g) ed in (g), e sarà allora, per la (3): IG Con ciò è dimostrato che Z è continua, ed è pertanto un’ operazione lineare. 14. « Se le A, sono ugualmente continue, lo spazio 8) è denso, e la (1) converge « uniformente in un intorno di ogni «4 di SHE » Essendo e un numero positivo arbitrario, esiste per l’ eguale continuità, un numero g 2) ) € n tale che per |a — a'| » e per ogni intero 7, è in tutto J: Si consideri un elemento a' di ,$° per il quale sia (4) |al—a|= » e per qualunque 7 : ini oi Ne risulta anzitutto che a' appartiene ad ,$, il quale è pertanto denso ; inoltre, ne viene ancora che la (1) converge uniformemente in tutto l’ intorno (9g) di a. 15. Se le A, sono uniformemente convergenti in un intorno di ogni a di IS e_ se S si suppone denso, le A sono ugualmente continue. Vi sia la convergenza uniforme per ogni a. Preso e positivo arbitrario, gli cor- rispondono dunque due numeri positivi g, 7 tali che per ogni a' di S, tale che sia r 3 o È |a—a (a @ JR Oui M> I E DS I ° [A,(a') Apa Aneep(@)| < O Ora è [An 4, (2) — An4+;(0)| <|An(0') — A,4,(0))|]+|A,(0) — 4,4,(0)|+|A,(a) —A4,(a')|. Ciò posto, si fissi 2 > #1. Essendo A, continua, vi è un numero positivo g' tale che Ù Ul x ’ n e per |a—a'| r. Ciò posto, scelto un numero s grande a piacere, sì prenda un s, tale che sia (7) SSL indi si prenda s, positivo abbastanza grande perchè sia ad un tempo : > fi (0 ©) x_— x Va A E VA In virtù della (10), c essendo opportunamente scelto, è per ogni coppia 2, x e per per un intorno di ogni elemento « : m pn |A B |< Mt n? Sa onde, per la (15) Ue | AS | < (s pene 2 mn ed essendo w + n > r, si avrà per le (18) AIR LEE | Cm,n | matn SI Da ciò segue che, poichè lo sviluppo (16) contiene termini omogenei di grado 7», poi —. 383 = di grado r + 1, di grado r + 2,.. in A e B, sarà c Poi Da Pole) s (+ 1)c 2 3 (r+l)c <—_ |1+-+ e, SI \ s s : Tape s(1—.) $ Posto 5=c', e tenuto conto della (17), viene : l ds) G (+1) st CA | LI, B|< —-<; a b) sk? n) ei] REC ESA ma poichè ir tende a zero per » = co, così si può assegnare un numero c'' tale che per ogni valore di © sia URI | PAC BI<4. La P appartiene dunque al tipo V. Si verifica immediatamente che P”(A, 5), applicata ad a, dà un elemento di $, e che l’ operazione P è permutabile con A e B. 29. Dato in uno spazio funzionale lineare ,8° un sistema di operazioni di tipo V, fra loro permutabili, A,, A,, .. Ap, sì possono dunque dedurne infinite espressioni ope- rative mediante la sostituzione di A,, A,,.. A, in serie di potenze arbitrariamente prese di p variabili, soggette alla sola condizione di non essere sempre divergenti e di avere uguale a zero il termine indipendente dalle variabili. Reiterando indefinitamente il pro- cesso indicato, si ottiene un insieme (V) di operazioni, avente la potenza del continuo : tutte le operazioni del sistema sono definite, lineari in ,8, appartenenti al tipo V, per- mutabili colle operazioni A,, A,, .. Ap e permutabili fra loro. Per codesto insieme (V) valgono le considerazioni fatte dal Volterra per il caso delle operazioni integrali fra limiti variabili permutabili fra loro (*), considerazioni che permettono la risoluzione di infinite classi di equazioni integrali. Quando le considerazioni si vogliano estendere al caso di operazioni lineari qualunque di tipo V per le quali non si presupponga alcuna rappresentazione integrale, converrà prendere le mosse da un’ equazione (19) DE, 05 dove il primo membro è una serie di potenze 3,, = 3,3 ; supposto che il punto 9,00 z:=%,=-.-3r = 0 non sia punto critico per la «, definita da (19) come funzione (°) V. il $ 4 della Nota dei Rendic. della R. Accad. dei Lincei, 20 febbraio 1910. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 19 — 134 — implicita di z,, 2,,--Zr, Se ne ricaverà nel modo noto CRE READ ! MR +0, Ù Sa (20) Le di Cnyng i nrF1389% pio (co...0= 0), UR) (> dove lo sviluppo sarà convergente in un intorno del punto z,,,,.. 3 = 0. Sostituendo ora nella (19), al posto di z,, 2,,-- 2, le A,, 4, 4r; © ponendo al posto di v un sim- bolo operativo UV, si avrà un’ equazione (2419) P(A,, Agg: An, UV) = 0: QI equazione che si potrebbe dire operazionale rispetto ad U, poichè è equazione funzionale solo quando si intenda fissato I° elemento a cui è applicato il sistema delle A. Questa è risoluta non solo formalmente, ma effettivamente in tutto lo spazio $, dalla SERA Ù/ 4N n, n Up x Cra e che è operazione del tipo V. 30. Come caso particolare, sia un’ operazione di tipo V e permutabile con A, della forma P= Ae c3A° no cA°+ Erga Nell’ ipotesi che sia c, = 0, si calcoli la serie inversa di io 303 RE; : uZezt 8 A+ 04 SP. 0000 con uno qualunque dei noti metodi che si hanno per il ritorno delle serie di potenze ; ne verrà: AGG IT 353 pertanto, l’ operazione A sarà espressa in funzione di P, da AP + cPik PELI: Sui sistemi (V) di operazioni si presentano questioni varie ed interessanti, che però non è qui il luogo di considerare: accenniamo, fra queste, al problema (che il V ol- terra dice fondamentale nel suo studio sulle operazioni integrali permutabili (*)) della ricerca di tutte le operazioni di tipo V permutabili con una data, e alla discussione della polidromia cui danno luogo le equazioni della forma (21) nel caso che il punto z,=%=...=2,=0 sia critico per la w definita dalla equazione (19). (*) Nota citata del 20 febbraio 1910. 31. Considereremo, sempre in astratto, un secondo tipo di operazioni lineari non degeneri. Esse saranno quelle per le quali « la risolvente , in quanto dipende dal pa- « rametro &, è funzione meromorfa di questo parametro, a poli fissi, e in quanto è « operazione sugli elementi 4 di ,8, è tale che lo sviluppo in serie di potenze di & — &, « che la rappresenta nell’ intorno di un valore &, di & che non sia un polo, converge « uniformemente nell’ intorno di ogni elemento a di ,8. » Come è avvertito al $ 5, è sottintesa la convergenza uniforme rispetto ad x in tutto |’ intervallo J. Le operazioni che ammettono una tale risolvente verranno dette operazioni del tipo di Fredholm, o, per brevità, operazioni di tipo F. 32. Cominceremo dall'esame di un caso particolare molto semplice, ma altrettanto istruttivo. L'operazione A, data in 8 e priva di radici, ammetta come risolvente una operazione X la quale, come funzione del parametro &, sia uniforme con un solo polo fisso (indipendente da a e da x) di prim’ ordine & = &,, oltre al punto singolare essen- ziale per & = co. La È può pertanto scriversi : B(a) iL) la o IR + Ga; k) dove G(a; k), in quanto dipende dal parametro, è funzione intera, definita da uno svi- luppo in serie (2) Giai dI Gn(4)k" n=0 convergente in tutto il piano &; in quanto sono operazioni applicabili agli elementi di 8, la 5, la G e le G,, sono distributive, e la serie (2) viene infine supposta uni- formemente convergente in un intorno di ogni elemento a di ,S Queste ipotesi permettono di dedurre proprietà notevoli per l’ operazione A. a) Sappiamo dal $ 19 che per |z|<]|&,|, la R(a) è rappresentata dallo svi- luppo in serie (3) OE ETZE dal confronto con (1), ne segue B(a (4) = - ) “5 GO)a l e in generale i B(a (4) AR (a) (e) Gee 1209 ) -- 1356 — D'altra parte, essendo per definizione ($ 19) kR —RAR=4A, viene per la (1) B_— KAB— (k — R)(AT_ GA-RAG), onde, passando al limite per & = &,: (5) ERA: Prendendo dunque sui due membri della (4) l’ operazione A”! e tenendo conto della (5), il confronto colla (4') ci dà : Coli e pertanto : (6) CRESTE) n=0 La successione A” -!G, è dunque ologene, cioè l’ operazione A applicata sugli ele- menti G,(a) è del tipo V. Talchè : « Se l’ operazione A ammette una risolvente della forma (1), gli elementi B(a) sono « invarianti di A relativi al numero &,, e gli elementi G,(a) sono tali che per essi, « l’ operazione A è del tipo V. » b) Vediamo sotto quali condizioni un elemento % di ,$° possa essere invariante per A. Dovrà essere, se l’ elemento è invariante rispetto al numero # : n= A); onde SSA A (27) Hani h e quindi, per || inferiore al più piccolo dei due numeri |&,| ed ||, si ha da (3): Rm=z lx Ma dal confronto con (1) risulta, per il principio di identità delle funzioni analitiche : h==k,, BM)=%, GM;k)=0, l’ultima delle quali equivale a (7) GM) = 0. Se ne conclude che « 1° operazione A non può avere invarianti se non relativi al numero &,; per questi, l’ operazione B coincide coll’ operazione identica ; infine codesti invarianti sono radici della operazione G,. = c) Vediamo ora sotto quali condizioni l’ operazione A possa essere di tipo V per un elemento o. Se è tale, A”(0) è successione ologene e quindi la (3) è funzione intera in R. Dal confronto con (1), e dal citato principio d’ identità, segue dunque : (8) B(0) = 0, R(0) = G(0; k). d) Indichiamo con 7 l° insieme degli elementi invarianti di A; con ,Sj I° insieme degli elementi pei quali A è del tipo V. Evidentemente, tanto 77 quanto ,$, sono spazi lineari. Dalla conclusione di @), e dalle (7) ed (8), risulta : « che essendo 4a un ele- « mento qualsiasi di ,$, l’ elemento 2(a) appartiene ad 77, l’ elemento G,(a) appar- « tiene ad 8; che ZY è spazio di radici (*) per l’operazione G,, e 8, è spazio di « radici per l’ operazione 5. » e) « Gli spazi Z7 ed ,S, non hanno elementi comuni. » Infatti, se a appartiene ad _H, è A(a)= =; se a appartiene ad ,S, la successione A”(a) è ologene, e queste due illazioni si con- traddicono. f) Tanto lo spazio ZZ quanto lo spazio dell’ operazione A; infatti è chiaro che se « appartiene ad 77, vi appartiene anche rimangono invariati dall’ applicazione A(a), e che se a appartiene ad ,8, vi appartiene anche A(a). g) « Ogni elemento a di ,8° può, ed in un solo modo, decomporsi nella forma (9) a= PW « dove 7 è elemento di Z7 e o elemento di $. » Si ha infatti, da @), che B(a) è un elemento di 77; sia indicato con 7. Dalla (4) Sigha:: Ad GARE onde A"a—R)=A"-G(a). Il secondo membro è, per «), una successione ologene e quindi a — 7 è elemento di 8; lo si ponga uguale a 0, e la (9) è così dimostrata. La decomposizione è poi possibile in un solo modo, poichè in caso contrario si avrebbero elementi comuni ad Z7 ed 8, contro quanto si è veduto ad e). Mediante la decomposizione di ,8'° nella forma ST UH=ISO, quale risulta da quanto si è ora esposto, si può dire di avere ottenuta /a struttura dello spazio ,8 rispetto all’ operazione A. (*) Pincherle e Amaldi: Le operazioni distributive, p. 31, Bologna, Zanichelli, 1901. Serie VI. Tomo VIII. 1910-41. 20 34. Veniamo alla risoluzione di alcune equazioni funzionali relative all'operazione A. a) Per l'equazione lineare di prima specie (10) A()ii05 dove a è funzione data in ,S e $ funzione incognita, o in altri termini, per la deter- minazione dell’ operazione A! inversa di A, la risoluzione è subordinata a quella della stessa equazione nello spazio 8, cioè all’ inversione di una operazione del tipo V. Se infatti si pone = PE viene A (a)=k% + 470) ; = , che dimostra l’ asserto. Non si può aggiungere di più, non potendosi dire nulla di ge- nerale sull’ inversione delle operazioni di tipo V. Per l’ equazione di seconda specie (11) P—- KRA(D) = a, o equazione di Fredholm, dove a è data in 6 e @ è incognita, la soluzione, come risulta dal S 19, è data da q=a+kR(a)=a + LeRO) + kG(a; k) oo per ogni valore di &, eccettuato & = &,. Per il caso R = #,, la soluzione g@, se esiste o potrà decomporsi ($ 33, g) in P==N+0, 7 elemento di Z7, o elemento di ,8, ; ora sostituendo, viene N+0o-khA4N+0)=0—kA(0)=a; l'elemento dato «x deve dunque appartenere ad ,8,. E questa condizione necessaria è anche sufficiente per la possibilità dell’ equazione ; infatti, se a appartiene ad ,$,, una soluzione è data da POSI e da questa soluzione particolare si deduce la soluzione generale D+ 7, dove 7 è un ele- mento arbitrario di Z7. 35. Le combinazioni per somma e moltiplicazione di operazioni permutabili della specie definita al S 32 sono soggette alle leggi del calcolo ordinario, e si possono ri- solvere formalmente quei problemi la cui soluzione sia riconducibile alla costruzione di una serie di potenze. Il procedimento da seguire è quelio stesso indicato dal Volterra, nelle note citate, per le operazioni integrali e che abbiamo richiamato per le operazioni astratte di tipo V al $ 29 di questo lavoro. Ma per la validità degli sviluppi ottenuti, — 139 — è da notare una differenza essenziale col caso allora considerato ; in quel caso infatti, se, partendo da una serie di potenze (per semplicità, di una sola variabile) 33 CnEn avente un raggio non nullo » di convergenza, se ne deduceva la (12) Dei questa godeva della convergenza, uniforme in 7 ed in un intorno di ogni elemento « di ,$, senza restrizioni ; nel caso attuale invece, lo sviluppo (12) può venire usato con sicurezza solo quando sia 7 > |&, È A questa osservazione è subordinata la validità dei risultati ottenuti mediante 1 accennato calcolo funzionale. 36. Lasciando al lettore la facile estensione dei risultati precedenti al caso delle operazioni A la cui risolvente sia della forma KAZE dove F è, rispetto a &, una funzione razionale a poli fissi e G una funzione intera in &, passiamo ad abbozzare lo studio delle operazioni generali di tipo /, definite al $ 31, in cui la A} è funzione meromorfa del parametro £. Supporremo, per semplicità, che i poli della detta funzione meromorfa siano del primo ordine ; la complicazione maggiore che porterebbe il caso di poli di ordine qualunque dà luogo a difficoltà di forma che si superano con procedimenti ben noti, e che non toccano all’ essenza della questione, specie dal punto di vista al quale ci siamo posti. La risolvente meromorfa £ di A si ponga sotto alla forma nota che le si può dare in base al classico teorema di Mittag Leffler. Essendo i poli della detta funzione i punti &,, &,...f,..., ordinati in modo che sia (&, differente da zero) : | ky | S | Eri cOneglimiNz,i— Con = si avrà: ; LITE RS, (13) “SZ (; — — — Jgi.. 2) +61): 2 ei; m pe le ky ke, Bg gl’ interi (non decrescenti) 7, sono scelti in modo che la serie del secondo membro con- verga uniformemente rispetto a & entro un’ area grande a piacere ma finita, da cui i punti interni &, siano esclusi con cerchi aventi i centri in questi punti e raggi piccoli a piacere. La Gia, h) = » Gn()k" è funzione intera di &. Si ammette, come è stabilito, la convergenza n=V dello sviluppo in quell’area come uniforme rispetto ad @ in tutto J e uniforme in un intorno di ogni elemento 4 di ,S. Evidentemente, le 2, e le G,, sono operazioni distribu- tive in S. — 140 — 37. a) Per |k|<|&,|, lo sviluppo (13) si può ordinare per le potenze crescenti di È, Sor) Bi(0) _._ fo (14) t= YI k i Ta + e co al) Mi==21 IL (di dove qg= g(x) è un intero variabile con » e tale che sia my n_ 1. D'altra parte, se la # ammette uno sviluppo convergente in serie di potenze di &, esso non può differire da (3) R(a) = YA" (a) n=1 come sappiamo dal $ 19. Abbiamo dunque B (a BA Bd (15) A"(a)= a e. 10) LG, _1(0) LI 9 b) La È essendo definita da RT_—-kAR=A, sostituendovi la (13), moltiplicando per %& — &; e passando al limite per & = &,;, viene Bi) E) MEZZE) Onde « l’ operazione B;, applicata agli elementi di ,$, genera elementi invarianti dì A « rispetto a k;. » c) Sia y un elemento invariante di A rispetto ad un numero %. Si avrà: ” hh (16) ANA) MA) Dal confronto con (13), segue che /# non può differire da uno dei numeri, ; sia PEZIARSITS MAI R() = B;(7) ( ] 1 k kn, = k; hè ARI: Onde, dal confronto colle (16), viene (17) Bi =: mpeg (S daN / 7, (18) mae, Gp on Vedi nec ks kî Ss ki: Talchè « l operazione A non ha invarianti all’ infuori di quelli riconosciuti a d); per « gl’ invarianti 7, relativi al polo &,, l’ operazione 8, è l’ operazione identica ; gli ele- — Rd « menti 7; sono radici per le operazioni G, di indice non inferiore ad 7, e per le « operazioni B, dove v è diverso da s. » d) Indichiamo con Z7 l'insieme degli elementi invarianti di A. Lo spazio 77 si divide negli spazi 7, Z,,... degli invarianti relativi ai singoli numeri k,, R,, ..; due spazi Z7;, HI; ron hanno elementi comuni se è è =F j, come risulta subito dalle (17). Ogni spazio H,, + 4H,, + .. H,,è mutato in sè dalla operazione A. e) < Se p. è radice delle operazioni B,, B,, -.. Bo, è (19) AO) AE D.(0) Jniatersse go ReRtadieetde 82,256) snai dalla (013): Mm n 1, pm, Epe->kp,er-==== #56.) È val È k(ko— k) ‘ ma si ha pure ed il secondo membro converge per || < oz ROSE vel e ciò dimostra la (19). 38. «) In base alle osservazioni del S precedente, si scorge facilmente che « ogni « elemento a di ,$° può porsi nella forma (20) O=YQT Nt Yo + Più « dove 27; 7, -- Xp sono elementi di Z7, H,,... H, vispettivamente, e p è radice et, .. B,.> Si formi infatti 5;(4);.il risultato sarà un elemento 7; di Z7; ($ 37, 0). Consi- derando allora pelle pe Bi(P) Bia} —=Bm)=0. Verrà, per le (17), Inoltre la decomposizione di & nella forma (20) è possibile in un sol modo; in altre parole, una somma (A? Won e E non può essere nulla se non ne sono nulli tutti i termini, come si vede applicandole una qualunque delle operazioni B;(î = 1, 2,...p). b) Se 8 è radice di B;, è tale anche A(8); infatti, è + G(8; k) (*) La scrittura n è stata usata da varì autori per indicare che la serie di potenza Na,3” converge entro il cerchio |— . el — 142 — (i) dove DI v valore © = i. Ma & è permutabile con A, come risulta dalla (3); onde indica che la sommatoria va estesa ai valori di v da 1 a co, eccettuato il ; pk, RA(8) = XY" 4B,(6) i i : AG(O ; k REI Io) ae 0 ), e questa mostra che RA(8) non contiene il polo X = &;, cioè che è B;(4(8)) =0. c) Pertanto, segue da (20), per qualunque 7 : < ) RE 77 74 Ip n (21) A” (a) EE E pmi nto III ceo A° (P), l 2 ‘p dove A”°(0) è radice di BRDS: 2 De 39. La risoluzione dell’ equazione di Fredholm (11) sì ha immediatamente in base alla (3) del $ 19, se X ha valore diverso da Ri; Ra, Ro, ... E però anche facile vedere sotto quale condizione sia possibile 1° equazione ' . (QI) D_- k;A(P)=a, (dla In base ai SS precedenti, si può scrivere, se esiste Pins: P= N +6, dove 8 è radice di B; ed 7; è un elemento di Z7;. Ne viene 8 Farà k;A(0) — 4, e quindi ($ 38, 5), anche « deve essere radice di 2;. Questa condizione necessaria di risoluzione di (11') è anche sufficiente, perchè qualora sia soddisfatta, l'elemento 22) d=a+k;E(a) soddisfa senz’ altro alla (11'). La soluzione generale di (11') è data da D+ ni, essendo P la funzione data da (22) e x; un elemento arbitrario di 77;. 40. Riassumendo i risultati ottenuti in ciò che precede circa alla struttura dello spazio ,8 in relazione ad una operazione di tipo , possiamo dire che « ad ogni polo k; (numero invariante di A) corrisponde uno spazio invariante Z7;, <« in cul l'operazione A si riduce alla moltiplicazione per x? ed una operazione B; ti « che nello spazio Z7; è 1’ identità, mentre negli spazi 7; (s =|° i) è 1’ operazione nulla. <« Ogni elemento a di ,8 è decomponibile ed in un sol modo, nella forma (20), o nella « forma più generale (23) a=R+ +... + p SME « dove 7;, 7j, -- s appartengono rispettivamente agli spazi BRE ASSESSORE « radice delle corrispondenti operazioni 8;, B;, ... Bs. >» La #; si può dire la componente di a in Z;. 41. Si ha ancora la seguente importante osservazione. Dato un elemento a, si pos- sono determinare successivamente le sue componenti 27, 7, -.. in Z7,, £,,...; si ha allora, dalla (15), che ; 7 ” (7 Na( ) Mi (24) lim (4 (a) — i Je po, CIMA: a A) EI n OD 1 2 gn) dove g="g(n) è definito al $ 37, a); e di più, la successione % UE Nam) n 1 2 di (25) Wai sa: I MED q(m) è ologene. 42. I risultati precedenti si presentano in forma assai più semplice quando i nu- meri 72,, 77 che, in base al noto metodo di Mittag Leffler, si devono sce- ppnac gliere in modo da ottenere Ja convergenza al secondo membro della (13), si possono prendere tutti fra loro uguali. Indichiamo in tale caso con »: il loro valore comune. La (18) viene allora sostituita da (26) p=N ao EEA viene (27) AC A IG pi = CO e i ZIE (28) sa ni ) SICA (0) Oi Ora da queste ultime, viene, mediante applicazione dell’ operazione A : NCAA CIRCO) CIO] 0a TOTI TRAP E il simbolo operatorio (1+- BA +RA°+....)Gm è dunque funzione intera in &, e quindi la G,, trasforma lo spazio ,$' in uno spazio per il quale la A è operazione del tipo V. In questo caso siamo dunque pervenuti al seguente risultato : — l44 — « Se la A ammette una risolvente meromorfa della forma (26), essendo a un ele- « mento qualsivoglia di 8° e posto B,(a)==#,, si ha per A”(a) lo sviluppo (29) A (E Si Lo +p,, (> M) n yi « dove 0, è elemento di uno spazio per il quale A è operazione di tipo V; e lo svi- luppo (29) è uniformemente convergente rispetto ad w. » 43. Si può riguardare lo spazio ,° come ripartito in una somma degli spazi H,, H,,... H.,... e di uno spazio S, per modo che preso un elemento 4 in ,S' e posto B,(a)=n,, ed essendo 7, elemento di £4Z, e p, di SACE (30) A_N e quì, uguaglianza (==) ha semplicemente un carattere virtuale, ma essa dà luogo ad una uguaglianza effettiva in seguito all’applicazione dell’operazione A” (n > m), e pre- cisamente dà lo sviluppo (29). 44. Nei casi concreti che si sono presentati nello studio delle equazioni integrali e in cui si possono applicare le considerazioni astratte precedenti, accade di norma che gli spazi Z7, siano ad una dimensione : ad ognuno dei numeri £, corrisponde un solo elemento 7, di , (all’ infuori d’un moltiplicatore numerico), talchè ad un elemento a di ,S corrisponde una costante c,, tale che I) == Oa I numeri c, si possono allora dire, in senso esteso, coefficienti di Fourier-Hilbert di a rispetto all’ operazione A. Si avrà lo sviluppo virtuale : (30') a = ZyC0M%v + Po e, per n > ®, lo sviluppo effettivo GI (31) Ma (ET pri Mo SD Dal Come al $ 33, si prova immediatamente che ,8j non può avere elementi comuni cogli 77, e che le 747, sono spazi di radici per G,,; ne segue che lo sviluppo di A" (@) nella forma (31) è possibile in un solo modo. 4-5. Nell’ ipotesi del S$ precedente, qualsiasi operazione funzionale rappresentata da una funzione /(A4) razionale intera o fratta del simbolo A, purchè contenga a fattore A”( > m) in numeratore e non contenga A a fattore in denominatore, sì può eseguire sostituendo, nella (31), al coefficiente c, : 2, il coefficiente — ]45 — a Pn, il risultato di f(A4(p,)), il quale si ottiene mercè il calcolo funzionale delle operazioni di tipo V ($ 23-30). Talchè : 1 n f@)= e (7) No+f(A(P)), 7 ; sviluppo che ammette la convergenza uniforme in .7. Notevole il caso cui manchi la funzione intera G, nel quale caso le A”, per n © #, si comportano in , precisamente come si comportano le omografie in uno spazio ad un numero finito di dimensioni in cui si siano presi come elementi base gli elementi invarianti dell’ omografia stessa. V. 46. Considereremo, per ultima, un’ operazione A lineare univoca e non degenere in uno spazio funzionale ,S, la quale per gli elementi di codesto spazio abbia una risol- vente /, definita al solito da (1) R— RAR=A, colla condizione che questa risolvente, come funzione del parametro, sia della forma : ) e -°P(c; u) du x; u) du da il mt Qui s’ intende con @(7; «) un elemento di ,8° (funzione di + data in J) che inoltre è funzione del parametro reale « dato nell’ intervallo 4 < % < d, con a > 0; questa funzione dipende da :x medianto un’ operazione 8 : OI Bia u). Per ogni a dell’insieme ,S, la (x, v) si supporrà continua in v ed uniformemente rispetto ad x; essa sì supporrà inoltre limitata per tutti i sistemi di valori di w nel- l’ intervallo a ...d e di @ in J. La R stessa si indicherà con R(a), con R(k) o con E(a; k) secondo che si vorrà porre in evidenza o l’ elemento su cui opera, o il para- metro, o entrambe queste quantità. Un’ operazione A avente una tale risolvente della forma (2) si dirà del tipo di Hil- bert o brevemente di tipo H. La (a), rispetto al parametro k&, è funzione analitica regolare in tutto il piano eccettuato il taglio a ...d; la (1) permette dunque ($ 19) di risolvere l'equazione di Fredholm per ogni valore di & non appartenente al taglio, e la soluzione è data da (3) P=a+kR(a); sì vedrà più avanti come questa soluzione sia unica. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 21 L'operazione 5 è distributiva. Infatti, è R(a+l6)= R(0) + R(8), onde fa (a+0;)du = fe LL ai Sa u — k u— k Sa uk Ne viene, dallo sviluppo in serie di potenze di questa espressione, sviluppo convergente per |&| d: è B(a; udu =D VITA DI = JE (a; u)u"du, k n=0 x dove anche qui i coefficienti delle potenze di & sono elementi di 6; sostituendo in (1), viene : D (6) 4f B(a; u)du= A(a) at da ed II) I) (7) 4} Bla; u)u"*'du= [ B(a;u)u" du. (*) Acta Math. T. 27. — 147 —-— La (6), poichè A non ha radici in $, dà db (8) | BOI) onde, dalle (7): x (5) A "(a)= Î B(a;uu"du, M=1,2,...). L’ ipotesi dell’ esistenza di una risolvente della forma (1) permette dunque di risol- vere l’ equazione funzionale lineare di prima specie N35 per la (5'), la soluzione è data da ) i INC B(a;uudu. 48. L’ unicità della soluzione dell’ equazione di Fredholm, per ogni valore di & non appartenente al segmento «...d, si può riconoscere come segue. In sostanza, si ha da dimostrare che per un valore &, di & non appartenente al detto segmento, non può esistere elemento invariante di A. Sia, se è possibile : Am=t; ne viene, da (1), LIA {dfn D'altra parte la (2) permette di scrivere : B(7;) du È RE rw= f. ee ei di n=0 per i valori di % tali che |&R —k,| sia inferiore alla minima distanza di &, dal se- gmento a ...d. Duna parte dunque (7) avrebbe un polo per & = &,, mentre d’altra parte sarebbe regolare per quello stesso valore di &: la proprietà dell’ invariante non è dunque possibile se &, è fuori di @...d, e quindi l'equazione di Fredholm ha l’unica soluzione (83). Questa soluzione si può esprimere in serie di potenze intere positive di & se è |R|< @; di potenze intere negative se è | &| 8; di potenze intere posi- UNCNdnZAZ, nima distanza di ki CA Aeoo de se &, è preso comunque fuori di a ...d e |&KT— &, | è minore della mi- 49. Nella AR considerata come funzione di h, si diano a & i due valori : ER — 148 — dove &, è un valore reale compreso fra a e d. Verrà È; a RTLA) c SIRIA — 9 (9) R(E')— R&")= 2ir La nn Sì prenda un numero positivo g arbitrario ; indicata con P(v) la B(a; v), si può, per le ipotesi del $ 46, determinare un intervallo &, — €, ....k, + € incluso in a...d e tale che per ogni « di J e ogni punto « di quell’ intervallo sia RS Sg (10) P(u = PE) +0, con |o(|< Ti Sia inoltre m un numero positivo maggiore del massimo valore assoluto di @(v) in Lutto ra #0 Re fperditutieneva] ordini L'espressione (9) si può decomporre in REA e B(a;u)du db J,= zir | E a) 35 = 27 7 ,,= ir | ME +(u—k,) * TaeSe Ù dove Peri primo termine ssi Naso, do) |\/| Vea | 5 DE == (0 FA iva ma è (utR)}+t> È, onde 2Tm(k — a) | J, | S È : 9 gE —_—_____, o a più forte ragione Gm(k, — d)° Se dunque sì prende 7 inferiore a ge al TT" Io) al ; PA) (u— hat 3 leo» — 149 — Per il secondo di questi, si ba per la (10): kj+€ U 0) ba e siccome l’ integrale definito dà qui un arco positivo inferiore a 7, lol =è b) Pertanto, prese € e 7 in modo da soddisfare alle (10), (11), si ha: (362) | RR) RA')-7|<9. Ora, passando al limite per t = 0, si ha lim J,= 2ixp(k); t=0 P(k,) è un elemento di ,$ che, anche come tale, rappresenteremo con Pi; R(k) — RE) è pure un elemento di ,° che rappresenteremo con @y,,”. Si ha da (12): (13) lim Pw=2Ti@, W', x!! e poichè A è operazione lineare e nelle (13), per le ipotesi fatte, la convergenza al limite avviene uniformemente rispetto ad x, così è lim A(Pw, pu) = 2TiA(P). (= Riferendoci ora alla (1), abbiamo, per uno stesso a : R(k') — R'AR(k')= R(k')—k'AR(k'), onde Puri — RA(Gw, 1°) = iTAR(R') + itAR(R"). Passando al limite per &'= &'", o ciò che è lo stesso, per 7 = 0, viene infine : (14) P_RkA(G)=0. Siamo giunti così al seguente risultato : « Per la (2), ad ogni elemento di a corrisponde un elemento B(a; ), funzione di « e di w. Per ogni valore reale di «, compreso fra a e d, la B(a;«) verifica l’ ugua- « glianza (15) B(a;u) — uAb(a;u=0, « ed è quindi elemento invariante di A relativo al valore u. » — 150 — 50. Per quanto abbiamo veduto, le operazioni del tipo Z7 non ammettono ($ 48) elementi invarianti relativi a valori del parametro non appartenenti al segmento a ...d, che, seguendo la nomenclatura dell’ Hilbert, diremo spettro dell’ operazione. Per i valori « appartenenti allo spettro, esistono invece elementi invarianti ($ 49), verificanti l'equazione (15). Ogni tale elemento è funzione di x e di w. Sia @(2,u) un elemento invariante di A per tutti i valori di vw appartenenti allo spettro ; sia cioè (15) o(2,u =uA(0(2,u)); sarà allora elemento invariante anche c(v)0(x,%), essendo c(u) una funzione arbitraria di u. Più elementi invarianti @,, @,, ...@, saranno linearmente dipendenti se si potranno determinare » funzioni della sola w, c,(), c.(0), ...c,(v), tali che sia identicamente rispetto ad co + Ud + ...+ 6(0)0, = 0; saranno linearmente indipendenti nel caso contrario. Ogni combinazione lineare, a coeffi- cienti funzioni arbitrarie di «, di più elementi invarianti, è pure un elemento invariante. 51. Supponiamo che per ogni valore di « compreso fra 4 e d esista un solo ele- mento invariante per A, all’ infuori di un moltiplicatore arbitrario dipendente dalla sola w. Fissiamo per ogni « una determinazione di questo moltiplicatore, in modo che 1’ inva- riante @(2,v), così determinato, risulti continuo in x. Per ogni elemento a di ,S' è allora B(a;u =0(x,u) au), dove a(u) è una funzione determinata di « nell’ intervallo @...2; siccome @(@,%) e B(a;u) sono funzioni continue di «, la prima per la determinazione scelta, la seconda per l’ ipotesi del $ 46, così anche a(u) è continua. Ma si ha allora, per la (8): -» (16) dd) = | oO(d,u) a(u)du; (4 ne risulta quindi, in base alle ipotesi del $ 46, che « se per A e per i valori di w « compresi nell’ intervallo a ..., vi è una sola soluzione dell’ equazione OZUA(0) « all’ infuori di un moltiplicatore funzione della sola «, gli elementi dello spazio « ammettono una rappresentazione integrale della forma (16). » La corrispondenza fra le funzioni a(x) ed «(u) si può esprimere mediante un simbolo operativo, dl dove l’ operazione 7° è manifestamente lineare ; inoltre, essendo da (5): x du A(a)= {| 0(2,4) au—, a U segue che A è la trasformata mediante 7 dell’ operazione di moltiplicazione per 1 : %. Da ciò, facili considerazioni, che lasciamo per brevità al lettore, permettono di risol- vere l’ equazione funzionale (17) oP+cA(P)t.... + enA4"P)= a, dove a è un elemento dato di ,8° e $ è un elemento incognito, mediante la formula (È (e, u) a(u) "du DI e OE b) (18) p= e di discuterne la soluzione. 52. Come caso particolare della (17), abbiamo l’equazione di Fredholm, la cui soluzione non dà luogo ad alcuna osservazione se & non è compreso nell’ intervallo a... d. Se invece è &, un valore di & compreso in quell’ intervallo, si osservi che : =D du o—-kA4(a)= | o(r,u au (u —k) a e siccome fra le ipotesi del $ 46 vi è quella che B(a,u=0@(x,) a(«) sia limitata nell’intervallo a... (*), così all’elemento a — 4, 4(a) corrisponde, mediante 1’ opera- zione T-!, una funzione di w che, per «= &,, ha uno zero di prim'ordine almeno. . Reciprocamente, se a(u) è nullo almeno di prim’ordine per un valore R, di u compreso nell’ intervallo a... b, la a = 7(a) si può porre sotto la forma 8 — k,A(8), dove 6 è elemento di ,; basta prendere infatti CERA a(u) du WU È dove la funzione sotto il segno soddisfa alle ipotesi del $ 46. Onde, sotto quelle ipotesi, « la condizione necessaria e sufficiente perchè 1° equazione D-kA(P)=a, a» “gr. 1,91 > CHIRAIRE GB LA2 5 gr. 3,80 » Osservazioni operato il 17 Maggio 1910, fatta la determinazione della fi- brina il 27: ha presentato dimagramento, dispnea, abbat- timento la determinazione della fibrina venne fatta il 6 Giugno dopo 7 giorni di digiuno di cibo, non dì bevanda cane sano operato il 17 Giugno, fatta la determinazione il 22, da gr. 9,900 era disceso a gr. 8,800 presentava tremori di- magramento, dispnea da gr. 22,400 in 6 giorni di digiuno di cibo era sceso a gr. 18,500 sano, normale operato il 17 Ottobre e fatta la determinazione il 26, qual- che accesso di tetania, tremori, mangia ebbe una grande emorragia e dopo 43 giorni non presentava affatto fenomeni operato il 25 Ottobre e fatta la determinazione il 2 Novem- bre : accessi di tetania, dispnea, rifiuto del cibo per tre giorni, peso iniziale gr. 9,000 dopo 7 giorni 6,600 convulsioni, abbattimento, rifiuto del cibo per i tre ultimi giorni beve, ma non mangia, ha respiro frequente, dispnoico, con- vulsioni, cammina male digiuno da 5 giorni, ma conservava ancora molto grasso esportate le tiroidi in due sedute, ha tardato molto a pre- sentare fenomeni, i quali non ebbero molta gravezza La media quantità di fibrina nei cani stiroidati era di gr. 4,69; in cani dig jun 1,57; in cani normali 2,51. Le nostre cifre relative a cani stiroidati sì dovrebbero confron- tare veramente con quelle dell’animale digiuno, perchè i nostri cani operati erano quasi sempre digiuni di cibo e bevanda che rifiutavano. Interessante è l’ esperienza XIII b nella quale venne trovata una bassa quantità di fibrina in un cane che non aveva presentati fenomeni dopo la tiroparatiredectomia. Non si può dare una interpretazione sicura del fatto, ma è probabile che questo au- mento di fibrina possa stare in rapporto col rallentamento dei fenomeni del ricambio e dell’ ossidazione, ed io mi propongo di ritornare con nuove ricerche sull’ argomento. Mi piace ricordare che Lussana (1) ha sempre considerato la fibrina come un pro- dotto catabolico e dopo di lui altri hanno attribuito lo stesso significato alle elobuline. Intanto queste esperienze appoggiano la dottrina di Vassale (2) che l eclampsia di- penda da difetto funzionale dell’apparecchio paratiroideo (3). La fibrina infatti venne tro- vata molto aumentata nel sangue delle eclampsiche da P. Kollmann (4). Il quale in un 0) ro caso la vide salire al 4 °/,, in altro caso trovò nella madre e nel bambino 7,5% in un terzo caso 6,7 %,- Risultati simili nell’eclampsia ebbe anche Dienst. Devo ancora qui ricordare alcune ricerche di Kottmann-Lidsky (5) pubblicate dopo la mia comunicazione, per il rapporto probabile che possono avere colle mie. Lidsky ha esaminato come proceda la coagulazione del sangue in varie malattie della tiroide, servendosi del metodo di Vierordt modificato. Ed ha trovato che nella malattia di Basedow la coagulazione era rallentata in 29 casi su 37 (= 78%), in due normale, in 6 accele- rata. In contrapposto era accelerata e aumentata nella cachessia strumipriva e in casì di gozzo con segni di ipotiroidismo : nel gozzo senza segni di ipotiroidismo mancava questo reperto. Ho già iniziato esperienze per riconoscere quale parte spetti alle tiroidi e quale alle paratiroidi nella produzione del fenomeno. III. — PROTEINE TOTALI DEL SANGUE. Anche le proteine totali del sangue sembrano un po’ cresciute nei cani privati delle tiroidi e paratiroidi, quantunque le mie esperienze siano ancora un po’ scarse sull’ argomento. (1) Filippo Lussana, Fisiologia umana, Vol. II, 2% ediz. Padova 1879. (2) Vassale e Generali. Sugli effetti dell’estirpazione delle glandole paratiroidee. Rivista di Pat Nervosa e Mentale, Vol. I, 1896. Vassale. Eclampsia gravidica e insufficienza paratiroidea. Boll. della Società Medico-chirurgica di Modena. Anno IX 1905-1906. Vassale. Le traitement de l’eclampsie gravidique par la parathyrèoidine ecc. Arch. It. de Biol. MOST, fasc 1, 1905. (3) A. Massaglia e G. Sparapani, Eclampsia sperimentale e Eclampsia spontanea degli ani- mali. Gazzetta degli Spedali, 1907. (4) P. Kollmann, Centralbl f. Gynàkol, 1897, pag. 34. (5) K. Kottmann, Beitràge zur Physiologie und Pathologie der Schilddrise. I Mitteilung. Ueber die Beeinflussung der Blutgerinnung durch die Schilddrise. Von Anna Lidsky. Zeit. f. Klin. Med. Bd. 71, pag. 344. — 196 — Esse vennero determinate raccogliendo il sangue dalla carotide in vaso contenente la quantità necessaria di ossalato di potassio in polvere per impedire la coagulazione, e se- parando il plasma ossalato colla centrifugazione. In detto plasma si precipitavano le pro- teine coll’ ebollizione e cauta aggiunta di acido acetico diluito, o con 4 volumi di alcool, il precipitato veniva raccolto su filtro tarato, lavato con acqua e alcool, seccato a 110° e pesato: dal peso della sostanza si sottraeva poi il peso delle ceneri. Oppure si precipita- vano le proteine nella maniera predetta e si determinava l'azoto e da esso si deduceva la loro quantità. La determinazione dell’azoto nel plasma ossalato permetteva poi il con- fronto fra la quantità di azoto proteico e non proteico. Ducceschi, Mariotti-Bianchi e Pisenti hanno pubblicato delle esperienze sugli albuminoidi del siero in cani stiroidati di cui tratterò in altra memoria. TabeLLa © TRA Proteine < Peso Fibrina RE Sostanze Acqua ; 2-91 A coagulabili SENTO S Ammoniaca | specifico su 1000 per 100 solide % % Cane stiroidato . . . 1053, 7 39 5, 967 20, 67 099 Cane digiuno . . .. 1057,9 1,55 5, 43 milligr. 0,63 Va 0, 63 Cane normale... . 1060, 5 ANO 5,46 id. stiroidato . . . 3,07 6, 43 Cane normale. . . . 1,49 ao È Azoto Differenza Massa 400 Noale delle proteine| 0 azoto del plasma coagulate °,|non proteico Cane stiroidato . . . Gane digiuno . . . . 1349;4 Cane normale... . | 0,89% id. stiroidato . . . MORSE 0,875 0, 065 Cane normale . . . UÙIL3% 0,38 0, 048 IV. — AMMONIACA DEL SANGUE. Già fino dal 1906, partendo dal concetto che i fenomeni tossici susseguenti all’espor- tazione dell’apparecchio paratiroideo potessero dipendere da avvelenamento per ammoniaca — 197 — o per carbonato d’ ammonio, ricercai l’ammoniaca nel sangue di cani così operati e con risultato negativo. Coronedi fa cenno di quelle mie esperienze, nella sua memoria sui « Rapporti fra tiroidi e reni », presentata alla Società Medica di Bologna e pubblicata nel Boll. delle Scienze Mediche di detta Società nel 1909. Ma Carlson e Clara Jacobson in due pubblicazioni recenti (1) hanno sostenuto che nel sangue di animali paratiroidati è cresciuta l’ammoniaca e che gli accessi di te- tania dipendono da accumulo di ammoniaca. Ho ripreso quindi in esame questo argomento, servendomi per il dosamento dell’ammoniaca nel sangue del procedimento studiato da Beccari (2) nel mio Laboratorio, il quale dà risultati molto esatti. Si distilla il sangue nel vuoto, e non tutta insieme la massa voluta, ma a piccolissime porzioni arrivanti mano mano, per mezzo di un conveniente tubo capillare, nel recipiente a distillazione in cui si mantengono la temperatura e la pressione richiesta. Il metodo di Beccari, non è abbastanza noto, per cui ritengo utile riprodurre la descrizione dell’ autore. Un matraccio A per distillazione frazionata, tipo Ladenburg, serve da recipiente di- stillatore; esso viene mantenuto alla temperatura voluta mediante il bagno d’acqua €, e comunica direttamente, per il suo tubo d’efflusso con i recipienti D collettori del distillato ; il tubo adduttore 5, a parete spessa ed a lume finamente capillare, è addattato al collo del matraccio A mediante un buon tappo di caucciù, e giunge col suo estremo alla parte A - Matraccio Ladenburg (capacità ce. 500-700). B -‘l'ubo capillare adduttore. C - Bagno d’' acqua. D - Recipienti collettori del distiliato. S - Recipiente contenente il sangue. M - Manometro. P - Pompa aspirante ccn bottiglia di sicurezza. APPARECCHIO PER LA DISTILLAZIONE DEL SANGUE NEL VUOTO. superiore del pallone, mentre dall’ altro lato è congiunto per mezzo di un robusto tubetto di caucciù al tubo di aspirazione del sangue dal recipiente ,S. Una morsetta a vite appli- cata a questo tubo di caucciù permette di chiudere e regolare l’accesso dell’aria e del sangue nel matraccio distillatore. L'apparecchio è congiunto poi con una buona pompa ad acqua P e col manometro M mediante un robinetto a tre vie. (1) A. J. Carlson and Clara Jacobson, American Journal of Physiology 1910, vol. XXV, pag. 408 e vol. XXVI, pag. 407. Vedi anche la nota comparsa dopo « Further Studies on the nature of parathyroid tetany. Ameri- can Journal of Physiology, 1911 vol. XXVIII, pag. 133. (2) Lodovico Beccari. Sul dosamento dell’ammoniaca nel sangue. Boll. delle Scienze Mediche di Bologna. Vol. V, Serie VIII, 1905. — 198 — Rispetto all’ apparecchio di Nencki, il matraccio A ha ancora il vantaggio di per- mettere una chiusura ermetica più rapida e semplice, non avendo che un apertura unica e stretta. Il lungo collo a bolle serve di s curezza per trattenere e rompere la. schiuma che potesse salire in qualche momento per una distillazione troppo vivace. La distillazione infatti deve procedere con molta cautela e lentezza. Montato l'apparecchio com’ è disegnato nella figura, si chiude la morsetta a vite e si fa agire la pompa fino a produrre la rare- fazione massima (una buona pompa ad acqua raggiunge in breve ora 15-20 mm. di pres- sione); contemporaneamente si riscalda il bagno d’acqua a C. 38°-40°. Constatata la perfetta tenuta dell’ apparecchio e posta nel recipiente ,S la quantità di sangue da distillare, si apre con cautela la morsetta a pressione in modo che il sangue sia aspirato per il capillare B e pervenga nel matraccio a goccie molto rade; ogni goccia di sangue, appena raggiunge l’estremo del capillare, svolge ampie bolle di gas e cadendo sulle pareti del matraccio evapora rapidamente. Regolando l’accesso del sangue con la rapidità della distillazione si evita ogni pericolo di schiuma: si ottiene così agevolmente la distillazione di 30-40 gr. di sangue defibrinato all’ ora. In tre ore circa si possono quindi distillare 100 gr. di sangue fino quasi a !, della massa primitiva cioè con più del 60% di distillato. L’ammoniaca viene dosata direttamente, come cloroplatinato, raccogliendo il distillato in acido cloridrico diluito e purissimo e seguendo con ogni cura il metodo descritto dal Fresenius per le piccole quantità di cloroplatinato d’ammonio, calcolando cioè V NH, dal platino metallico ottenuto. Beccari ha trovato nei cani normali millig. 0,80 —- 0,76 — 0,82 NH, per 100 di sangue defibrinato ; fino dal 1906 io avevo trovato milligr. 0,37 % di NH, dopo l’ espor- tazione delle tiroidi e paratiroidi nel cane. In una nuova serie di esperienze ora eseguite ho trovato per il cane digiuno milli- grammi 0,63% e dopo l’estirpazione dell’apparecchio tiroparatiroideo in animali con accessi di tetania milligr. 0,60 — 1,38 — 0,34% di sangue defibrinato, vale a dire nessun aumento sulla cifra normale. Le oscillazioni non escono dai limiti ordinari. Bisogna del resto avvertire che il leggiero aumento di ammoniaca nel sangue trovato da Carlson e Clara Jacobson non può dare accessi tetanici e può dipendere anche dal digiuno e dalle convulsioni, che produconò acidosi, cioè può essere effetto indiretto della sospesa funzione tiroidea. Si aggiunga che le funzioni epatiche sono compromesse e con esse è compromessa la capacità sintetica e formatrice dell’urea dall’ammoniaca in seno al fegato. Per attribuire la tetania tireopriva all’ammoniaca bisogna che essa esista nel sangue in quantità sufficiente a produrla ed escludere anche le altre condizioni che all’ infuori della soppressa funzione tiroidea possono farla aumentare. V. — GLUCOSIO NEL SANGUE In una tesì del Dott. Traversa del 1906 ho fatto studiare le modificazioni che su- biva il sangue nella quantità di glucosio in seguito all’ estirpazione delle tiroidi e parati- roidi nel cane. — 199 — La quantità di zucchero esistente nel sangue del cane normale era ben nota per mol” teplici esperienze mie e di altri (1); oscilla da 0,80-1,00 su 1000 di sangue. I cani che abbiano subito estirpazione delle tiroidi e paratiroidi il glucosio si trova nel sangue nei limiti normali, però di solito al limite minimo di 0,80 per mille. Anche in questi cani, come nei cani normali, i ripetuti salassi fanno crescere la quantità di glucosio nel sangue; in un caso saliva da 0,70 ‘/ dopo tre salassi a 1,30%: Non abbiamo mai trovato glucosio nell’ orina di questi cani, i quali erano quasi sempre digiuni. (1) P. Albertoni, Diffusione degli zuccheri nell'organismo animale: Atti della R. Accademia delle Scienze di Bologna 1905 e Archivio di Farmacologia, Vol. XII, fase. 1, 1906. Vedi anche gli Atti del VI Congresso Internazionale di Chimica applicata, Roma 1906. cn Ha di Appunti cristallografici NOTA DI GIOVANNI BOEFERIS Letta nella Sessione del 28 Maggio 1911. (CON DUE FIGURE INTERCALATE NEL TESTO) Forma cristallina del composto di addizione della naftalina colla s-trinitpoanilina, CH C.H:(N0)) NH, P, di fus. 168°-169°, Sistema cristallino : monoclino CORE CEE 004 È = 810 e Angoli. Limiti delle osservazioni Medie Cale. N. (100): (001) GIO 4 9200 S1° ga si 24 (001) :(102) 30 dia Sto 0 Se 30° 53! 14 (102): (101) 203 282 DIN 21143 10 (101): (100) (5 22 co 50 15030 i IO (001) : (111) CIONI GIONI I (113) (0) DS 42 2. BONES l (001): (110) 99 IN = 85 16 Soi 30. 19 10 (100): (110) Sd 12 54 30 54 19 vi 40 (110): (010) Do Sy 950 0 35 48 5 Al 2 MULO): ((00) ee 0 22 rale 2 20 (01/0): (1) 50 —_ (RI) e (00010) 48.10 — (DI) (10) TORNA — CORI GC S — (110): (101) 05 7 06 2 09° 50 05° 5 4 (110): (102) Orta ee 3 76 94 76 50 8 Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 29 -_ 202 — Questa sostanza fu preparata fin dal 1875 da Liebermann e Palm, (!) mesco- lando le soluzioni alcooliche dei due componenti. Ne ebbi dei bei cristalli sciogliendola a freddo in acetone e lasciando lentamente evaporare la soluzione così ottenuta. Questi cristalli per la massima parte si presentano coll’ aspetto della unita fig. 1, sono cioè prismatici secondo z. Qualche volta per altro sono più allungati in questo senso di quanto mostri detta figura, e qualche altra lo sono meno e allora sono come piuttosto, schiacciati secondo }001|. Sono forme costanti {100}, 5110} e {001}. Non infrequenti sono }10]} e {102}, però queste due forme hanno sempre facce subordinate a quelle di {110} e }001}. Quanto alla }100} ha pure sempre facce subordinate. Rara è la }[]1} e con facce poco estese, e più rara ancora sembra essere la ;010} che fu riscontrata in ogni caso con facce meno grandi di quelle della }100|. Tutte le facce di {010}, {T11{, {110}, j101} e |102} sono sempre abbastanza piane e molto lucenti, e quelle di }100} e ;001} in generale sono pure tali, meno qualche caso in cui sono foggiate a tramoggia. Fic. |. Si osserva una sfaldatura non del tutto perfetta secondo 1100}. I cristalli hanno un bellissimo colore aranciato. Gli assi ottici per la luce rossa (Zi) e per la gialla (/Va) sono in piani normali a (010); stanno in questo piano quelli per la luce verde (77). Sulla (110) una direzione di estinzione fa un angolo di circa 12° (Na) collo spigolo [110 - 110] nell’ angolo piano acuto che questo fa con [110 : 001]. Forma cristallina del composto di addizione del tolano coll’ acido picrico. Clin 20 ELIO), O RAT sciiti Sistema cristallino : monoclino. aio = WEIL 308 I/O = I0° 3 (1) Ueber Verbindungen von Kohlenwasserstoffen mit Abkòommlingen der Pikrinsdure. Ber. d. d. chem. Ges., 3, 377. — 203 — Forme osservate: {001}, {110}, {111}, {111}, {112}. Angoli. Limiti delle osservazioni. Medie. Cale. N. (001) :(111) Quo alto GI gd GNESNGI * 12 (by (QUO) 15 12.05 Sq co 20 logi 10 (001): (110) SIRIO 82 40 $ 10 (110): (112) 3 ZO 50 BI ‘(Se SO 8 (112): (001) Coma 6018 652 65 41 12 UO) (0000) 16 39 Ta. SI I (111): (001) 80 30 80 49 1 (110): (110) Sd ge 65 84 50 ian 6 (TIE) EIA G VI D I (DIE) 0. 2 76 36 1 (9010) 83 14 SSA si (1001) 3 (Q090)) SION pra (11010) 8 (00089) 95 (80 0586 95 33 05, SI 9 (O), 86 58 La. (110); (112) 89 24 SISMIMES ] (100950009) 99 48 = Bruni e Tornani (') prepararono questa sostanza mescolando le soluzioni eteree dei due componenti e lasciando evaporare lentamente a freddo. Ebbero dei grossi cristalli tubulari assai ben formati. Ripreparai la sostanza seguendo il modo indicato da Bruni e Tornani ed ottenni effettivamente dei bei cristalli che si possono benissimo ricristallizzare dall’ acetone, nel quale solvente riescono anche meglio pur conservando l’ abito tabulare di quelli che si hanno dalle soluzioni eteree. Sono forme costantemente presenti la :001} sempre largamente predominante su le altre, j111{ e }112}. È piuttosto rara ad incontrarsi la {110} ed anche più rara Mali. Sfaldatura abbastanza facile secondo }001|. Il colore dei cristalli è giallo vivo. (') Sui picrati e su altri prodotti di addizione di composti non saturi. Gazz. chim. ital., 1905, II, 304. DOCLA TA nici ni î TRASI AZIONE: DISINTEGRANTE CEREBRALE DEL CLORURO SODICO IN SOLUZIONI FISIOLOGICHE STUDIO CRITICO E SPERIMENTALE DELL’ ACCADEMICO BENEDETTINO Prof. IVO NOVI ORDINARIO DI FARMACOLOGIA NELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA (Memoria letta nella Sessione del 29 Gennaio 1911). Importanza fisiologica, patologica, farmacologica del Cloruro sodico secondo le osservazioni più recenti. Nel mio lavoro (1) pubblicato l’anno scorso nelle memorie di questa Accademia, richia- mati gli studi eseguiti sopra questo argomento e il contributo personale da me portato, ho messo in vista che perfusioni di soluzioni al 10% o 2 norm. di NaCl nella carotide pro- ducevano una perdita di Ca nella sostanza cerebrale fino al 50 “/ del contenuto normale, o mentre non valevano a sottrarre nulla o quasi nulla del Mg preesistente. Questa decalci- ficazione che io ho potuto di nuovo ampiamente dimostrare nell'annata scolastica testè chiusa, fu ulteriormente provata nel mio laboratorio per i muscoli, per il fegato da alcuni miei allievi e in varie condizioni sperimentali. Essa secondo il pensiero del Linguerri (2) sarebbe la ragion d’essere dei fenomeni di eccitamento che si notano in modo più o meno intenso negli animali di prova, mentre, come è noto, secondo il concetto del Sabbatani, al fatto della decalcificazione non si dovrebbe dare la massima importanza, ma sì a quello della scomparsa del Ca{-+, la quale tuttavia nelle condizioni nostre deve ancora dimostrarsi, laddove la decalcificazione non ha bisogno di ulteriori prove. Un fenomeno degno di essere più precisamente studiato nelle sue particolarità e nel suo meccanismo, mentre riguarda fatti che possono essere facilmente verificati, è quello (1) Ivo Novi. Azione disintegrante del Cloruro sodico sul cervello. Memorie della R. Accademia delle Scienze in Bologna, Serie VI XVII 1909-1910, pag. 211-256. (2) Dom. Linguerri. Azione dei reattivi decalcificanti ete. Archivio di psichiatria, neuropato- logia e medicina legale, 1904, vol. 656-671. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 30 CEE scoperto dal Chiari (1) e che si riferisce alla scomparsa, secondo lui, dei Calcio ioni, se- condo me invece del calcio complessivo, contenuto nella parete intestinale in particolari condizioni di esperimento. Isolate diverse anse intestinali della lunghezza di circa 40 cm. ognuna in gatto nar- cotizzato con uretano, si insinuavano nelle anse stesse soluzioni di purganti salini, o so- spensioni di calomeiano o infusioni di droghe aventi azioni alcaloidiche purgative. I purganti salini contenenti anioni atti a precipitare il Ca diedero luogo ad un au- mento di Ca nella parete intestinale, gli altri purganti compreso il calomelano produssero un impoverimento di Ca nella parete medesima, in ogni caso afferma il Chiari, una di- minuzione dei Ca++. Per quest’ultima affermazione evidentemente sarebbe occorso eseguire non una deter- minazione totale del Ca nella parete intestinale, ma una tale, che desse veramente i soli Ca++, senza distruzione della parete, senza fissazione e scomposizione dei materiali che eventualmente potevano contenere il Ca in ailro stato oltre che in quello di jone. E quanto alla interpretazione del fenomeno mi sembra che per riguardo all’influenza dei purganti salini la maggiore abbondanza del calcio nella parete intestinale possa spie- garsi col fatto dell’ assorbimento del purgante medesimo, che in parte avviene o almeno sì fa massimamente per l’anione nel caso ad es.: del solfato di magnesio. Cotesta presenza di anione atto a precipitare il Ca dà luogo ad una fissazione del catione nella parete, in cui per la iperemia prodotta dal purgante è accorsa una mag- gior copia di sangue e così la parete medesima contiene alla fine una maggiore quantità di Ca, probabilmente non jonizzato. Riguardo poi agli effetti degli altri purganti i quali non vengono assorbiti, come il calomelano o anche assorbiti non hanno affinità chimiche col Calcio, dobbiamo ricordare che essi esercitano quell’ azione irritante che dà iperemia, e maggior secrezione intestinale e tendono quindi ad impoverire la parete dei suoi elementi costitutivi e quindi anche di Ca, facendo lavorare le cellule secernenti che riversano nel lume dell’intestino i loro pro- dotti. Il calomelano poi in quanto possa essere reso solubile dai succhi intestinali come fu dimostrato dal compianto nostro Torsellini per la pepsina, potrà anche combinarsi con la calce per dare un sale doppio insolubile, ed estrarre quindi del Ca-+-- dalla parete anche per questo secondo meccanesimo. E dunque questo un bell’esempio di disintegrazione cellulare complessa, che merita di essere ulteriormente illustrato. Ma esperienze riferite nel mio lavoro sopra citato e molte altre eseguite in quest’anno nel mio laboratorio non dimostrarono per influenza delle perfusioni saline il quadro carat- teristico dell’eccitamento e precisamente, questo mancò negli animali molto giovani, op- pure nelle perfusioni o infusioni di soluzioni deboli. Ebbene, anche in questi casi l’analisi chimica eseguita sul cervello dimostrò che era (1) Dott. Richard Chiari. AbfuiArmittet und Kalkgehalt des Darmes. Archiv. fir experimen- telle Pathologie und Pharmakologie, 1910, LXIII, pag 434-440. — 207 — avvenuta una forte decalcificazione, anzi una delle più forti si ebbe precisamente in una cagna cucciola in cui si perfuse nella carotide 1,11 gr. di NaCl in soluzione acquosa al 10 °/. per Kg. d’animale. Evidentemente la interpretazione che potrebbe darsi della man- canza delle convulsioni negli animali giovani, perchè questi abbiano un cervello più ricco di Ca, almeno secondo i dati raccolti da Aron (1) e quindi abbiano un cervello meno ecci- tabile, non può ammettersi dopo le mie esperienze, perchè la determinazione chimica ha dimostrato precisamente in questi casi un minimo di Ca in seguito alla perfusione e d’ altra parte nelle mie prove si sono trovati parecchi casi di animali uccisi durante il periodo di massimo eccitamento dovuto ad una forma di rabbia convulsiva e tuttavia ricchissimi di Ca nel loro encefalo. Si obbietterà che in cotesti il Ca poteva essere immobilizzato e non contenuto allo stato di jone, ma si troverà anche giusto l’osservare che tale obbiezione ha bisogno di prove sperimentali, che si spera possano essere date da qualche oculato osservatore di microchimica. D'altra parte secondo Voit e Dhéré e Grimmé con l'età si avrebbe un progres- sivo aumento del contenuto di Ca ed appunto data questa contraddizione io ho istituito alcune ricerche, che mi hanno già condotto a risultati importanti atti a dirimere ogni controversia, perchè io ho operato sopra parecchi animali (cani) del medesimo parto ed ho trovato costantemente una diminuzione del Ca cerebrale col crescere dell’età. E lecito dunque di dubitare che il Ca cerebrale possieda veramente quella funzione o Z0) inibitrice che gli fu attribuita o almeno è lecito il pensare, che buona parte, fino al 50 | di esso, possa essere allontanato dal cervello senza alterarne la funzione in nessuna ma- niera dimostrabile, valendosi della speciale influenza esercitata da soluzioni di cloruro sodico. Scopo di questa mia pubblicazione è quello di dimostrare se le stesse soluzioni fisio- logiche di Cloruro sodico perfuse nelle carotidi, o comunque introdotte nell’organismo, pos- sano nel fatto produrre i fenomeni di disintegrazione causati calle soluzioni concentrate e se quindi non possa per avventura avvalorarsi il concetto da parecchi sostenuto, di danni ora più ora meno gravi che si devono attendere dall’uso di soluzioni saline in terapia. Sono troppo noti perchè occorra ricordarli i molti casi in cui si ricorre nella pratica alle introduzioni ipodermiche o endovenose di soluzioni dette isotoriche di NaCl, così dette più che non sieno dimostrate. L’illustre e carissimo Kronecher (2) fu tra i primi a sostenere l’importanza di so- luzioni di cloruro sodico al 0,73%, che chiamò « lebenrettende » appunto perchè atte vera- mente a rimediare talora a danni gravissimi, a togliere un imminente pericolo di morte. Egli sconsigliava in quella pubblicazione l'aggiunta di altre sostanze. (1) Aron ete. Citazioni nel mio lavoro sopra notato. (2) H. Kronecker. /Mritisches und Experimentelles ueber lebenvettende Infusionen von Kochsalslosung bei Hunden. Correspondenzblatt fiv Schweiz. Aerzte, XVI, 1886. — 208 — Le molte osservazioni che si sono fatte successivamente con riguardo alla isotonia de- gli elementi del sangue e dei tessuti hanno dimostrato la necessità di regolare in modo speciale la composizione chimica di queste soluzioni seguendo i concetti esposti dall’Ham- burger, dal Benecke, dal Thies, da me già citati nel lavoro precedente e fondati sopra gli effetti prodotti rispettivamente dai diversi sali, che troviamo nell'organismo e che possono dimostrare azioni diverse a seconda degli anioni e cationi che sono liberi o possono liberarsi nelle varie contingenze. Gli è così che si sono adottate formule speciali per la preparazione dei liquidi che devono essere introdotti nell’ organismo, formule che comprendono l’uso dei sali di Ca, di K, di Mg oltre a quello del NaCl, formule che dal punto di vista dell’ isotonia compren- dono anche l’uso di sostanze colloidi, sostenuto dal nostro Albanese. Fra le formule più note abbiamo quelle dei così detti liquidi del Ringer e del Locke, che corrispondono benissimo al loro scopo. Indipendentemente dalle considerazioni che si riferiscono alle idee svolte dall’ Ham - berger sull’ isotonia specialmente dei globuli sanguigni, e a quelle di Benecke, di Thies sulla infiuenza dei principi minerali sugli elementi dei tessuti, si sono avute indi- cazioni per molti dati interessantissime dalle odierne vedute sulla concentrazione moleco- lare del siero sanguigno. Abbiamo accennato nel lavoro precedente al concetto del Quinton sull’ importanza dell’acqua marina per la preparazione dei siero fisiologico ed è certo che se il punto di partenza del Quinton era un po’ artifizioso, tuttavia dando per risultato la introduzione di molti corpi minerali che sono necessari alla vita dei tessuti, mentre il cloruro di sodio non è che uno di essi, doveva ammettersi che ogni indicazione che tendesse alla massima semplificazione nella composizione dei sieri artificiali non poteva essere esatta. Bosc e Vedel (1) conchiudevano dai loro studi che la soluzione semplice di NaCl mentre ha il medesimo valore fisiologico delle soluzioni composte, possiede minori incon- venienti. Iacoangeli (2) che ha fatto studi interessanti sopra questa questione ha conchiuso che le soluzioni che contengono verso 0,75%, di NaCl e verso 0,10 % di carbo- nato sodico, come furono indicate da Maragliano, da Lichtenstein, da Samuel mentre corrispondono abbastanza bene alla richiesta concentrazione molecolare hanno anche un buon potere di conservazione degli elementi dei tessuti. Secondo lo stesso Iacoangeli ia soluzione salina composta preferibile è quella pro- posta da De Dominicis contenente 0,5 di NaCl, 0,5 di fosfato bisodico e 0,7 di solfato sodico per 100 di acqua distillata. Il Coronediì (3) ha trattato chiaramente questa questione nell’ appendice all’ aureo (1) Bosc et Vedel. Mecherches expérimentales sur les effets des injections intraveineuses massives de solutions salines simples et composces. (Compt. rend. Acad. Sc., 1896, CXXIII, 63). (2) T. Iacoangeli. Z2 valore dell’ isotonia e tensione osmotica del sangue nelle iniezioni endovenose. (Boll. R. Accad. med. Roma, 1900, XXVI, pag. 50 dell’ estratto). (3) G. Coronedi. Appendice al trattato di Terapeutica e Farmacologia di E. Soulier. Vallardi, Milano 1903, pag. 36. — 209 — libro del Soulier e mentre afferma che un liquido da introdursi liberamente in circolo, o anche sebbene con minore necessità, da somministrarsi per via ipodermica deve soddi sfare alle condizioni di molecolarità volute dalla concentrazione molecolare del siero san- guigno (A = — 0°,560) non accenna, nè in parte lo poteva per ragione di data, alla influenza degli altri principi minerali come Ca, K, Mg, i quali mentre insieme possono produrre la concentrazione molecolare richiesta si mostrano importantissimi già nel semplice espe- rimento biologico anche senza |’ aluto delle cognizioni di chimica-fisica, che in questo caso son venute come il soccorso leggendario di Pisa. ; Questi liquidi, queste soluzioni non sono tuttavia sempre usate, come dovrebbero e noi le vediamo più facilmente usufruite nel Jaboratorio per ricerche biologiche, che non nella pratica, sicchè giustamente continua la discussione sui danni e sui vantaggi del clo- ruro sodico. Cosi mentre von Hoesslin (1) in conferma delle esperienze di Pugliese (2) e di Pu- gliese e Coggi ammette che dosi di 3 gr. di NaCl vengono eliminate dall’ organismo senza manifestare influenze di sorta e con risparmio di albumine, egli afferma tuttavia che dosi maggiori producono una perdita di fosfati, il che certamente può implicare una disinte- grazione di tessuti importantissimi, di elementi di prima necessità. Vi è pure chi vuol portare un contributo di recente interpretazione allo studio del Cloruro sodico come atto ad aumentare la coagulabilità del sangue. Von den Velden (3) infatti asserisce che l'introduzione di Cloruro sudico per bocca, sottocute, per via endovenosa valga a rendere più pronta la formazione del coagulo san- guigno non già per azione di joni, ma egli dice per aumento della concentrazione del siero e per la idremia che ne consegue. In cotesto modo sarebbe richiamata in circolo una trombochinasi che sarebbe causa del fenomeno. E questo noi aggiungiamo può essere un beneficio e un danno a seconda dei casi. Ma nella pratica non mancano nuovi sostenitori dei danni prodotti anche dalle infu- sioni di soluzioni saline; così il Lippel (4) sostiene che se reni sani non risentono azioni deleterie da coteste introduzioni, le risentono molto reni malati, laddove jle somministra- zioni fatte per bocca o per l'intestino non danneggiano perchè per tal modo è assorbito solamente quel tanto che corrisponde al ricambio fisiologico ! È veramente un teleologismo, che non ha nè capo nè coda, perchè è noto che introdu- zioni gastroenteriche possorto produrre danni facili a riscontrarsi e numerosi. Widerébe (5) mentre espone che molti reputano innocue grandi iniezioni clorosodiche (1) Heinrich von Hoesslin. Experimentelle Untersuchungen sur Physiologie und Pathologie des Kocksalz Stoffiwechsel. Zeitscrift fiv Biologie LIII, pag. 29. (2) A. Pugliese. Azione del cloruro di sodio e di potassio sul ricambio materiale. Arch. di farmacologia e terapeutica Vol. III fase. 7. (3) Dott. Reinhard von den Velden. Z?utuntersuchungen nach Verabreichung von Halogen- salzen. Zeitschrift fiir esp. Path. und Therapie, 1909, Vol. VII, pag. 290. (4) A. Lippel. Ueder Gefahren der subcutanen Kochsalzinfusion bei Eklampsie. Deuts chemedic. Woch, 1910, n. 1; Therap. Monatsh. XXIV, pag. 112. (5) Sofus Widerde. Welche Organvertinderungen bewirken grosse subcutane Kochsalzinfusionen? Berliner klin. Wochenschrift, 1910, Vol. XLVII, pag. 1275. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. dI — 210 — afferma di aver trovato nei conigli degenerazioni miocardiche e parenchimatose in altri organi, oltre a iperemie capillari e a piccole emorragie. Hoessli (1) richiama due osservazioni fatte da Roessle in necroscopie, che dimo- strarono effetti non indifferenti dell’ uso di iniezioni saline. Avendo egli pure trovato un altro caso simile in occasione di una necroscopia, eseguì iniezioni endoperitoneali in cavie con soluzioni al 0,9 e 0,92 9, di NaCl alla temperatura di 38° a 40° e nel rapporto di 1a % del peso dell’ animale. Dopo 6 a 7 ore dalla introduzione sì trovano grassi e lipoidi nelle fibrocellule del cuore e negli elementi renali. Dopo 24 ore questo reperto è massimo e dopo 48 non si vede più nulla. Adoperando liquido del Ringer queste alterazioni sono minime. Noi notiamo che la introduzione endoperitoneale produce tutt’ altro effetto da quella endovenosa o parenchimatosa, che nel peritoneo iniettato si vede accumularsi in quantità del grasso, mentre deve aver luogo un abbondante lavorio dei vasi linfatici locali. E però il reperto dell’Hoessli andrebbe confrontato con quello che può notarsi in casi di altre introduzioni parenterali diverse dalla peritoneale. Altre ricerche nel campo biologico che possono avere connessione con osservazioni nel campo terapeutico e patologico son quelle della Mengarini e di Scala (2) eseguite sopra cladofore e spirogire. Queste soffrono più o meno per immersioni in soluzioni al 7% di NaCl, o in altre isotoniche di KCl o Mg Cl, o in soluzioni da 2 a 4% di Na CI. Specialmente le soluzioni ipertoniche di NaCl possono generare intime modificazioni chimiche sul protoplasma cellulare con formazione di un mezzo avente reazione fortemente acida atta a far cambiare colore al violetto di metile. Una grande importanza nella terapia ed un notevole interesse in farmacologia ha il fatto illustrato già da parecchi pediatri, che somministrazioni gastroenteriche o ipodermiche di soluzioni saline producono una ipertermia che ha caratteri, intensità e durata molto diversa nei diversi casi. i Secondo Nothmann (3) questa febbre si osserva per soli 8 gr. di sale anche in bam- bini abbastanza avanzati in età e dipende da un cumulo di fattori individuali. Friberger (4) mentre ammette questo fatto in linea generale, dimostra con espe- rienze sul ricambio materiale, che l’ eliminazione del Cloro in bambini affetti da eczemi 0 (1) Hans Hoessli. Veber sehidigende Wirkung der physiologischen Salzlòsung. Frankfurt. Zeitschif. fir Pathologie, 1910, Vol. IV, pag. 258. Therapeutische Monatshefte, XXTV, 1910, pag. 444. (2) M. Traube Mengarini und H. Scala. Ueber die chemische Durchlissigheit lebender Algen und Protozoenzellen fiir anorganische Salze und die specifische Wirkuny letseterer. Centralb. fii» Physiologie XXIV, pag. 114. (3) A. Nothmann. Zur Frage des Kochsalzfiebers beim Satigling. Zeitschrift fiir Kinderheilkunde. Centralblatt fiir Physiologie XXIV, pag. 1240. (4) R. Friberger. Untersuchung ber das sogennante Kochsalzfieber und riber die Clorausschei- dung bein Sarigling. Arch. fiv Kinderheilkunde LIII 1-3. Zentralbl. fiir Physiol. XXIV, 1240. La — 211 — da malattie del tubo digerente è un po’ minore che nei sani, oltre che normalmente il cloruro sodico introdotto per via ipodermica si elimina più tardi e più irregolarmente di quello somministrato per bocca. Come punto di partenza dei disturbi che conducono alla febbre il Friberger am- mette una sorta di lesione cellulare. Heim e John (1) credono che quando artificialmente non si aumenti l° introduzione di acqua in bambini assoggettati ad una somministrazione salina, la febbre sia dovuta a ritenzione di acqua e quindi a minore perdita di calorie per evaporazione diminuita e suc- cessivamente a diminuita « perspiratio insensibilis » in ragione di edemi cutanei. Se proprio non ci sembra che quest’ultima sia la migliore delle interpretazioni è certo tuttavia che la febbre da sale ha un'origine multiforme e più o meno indiretta, ma la lesione protoplasmatica ci pare quella più plausibile e quella meglio dimostrata da tutte le osservazioni precedenti. In contrapposizione coi fenomeni legati ad una abbondanza artificiale o naturale di NaCl nell’organismo potrebbero porsi tutti quei fatti che si osservano per opera delle così dette diete ipoclorurate o aclorurate, che tuttavia non è qui il caso di richiamare e di cui ho detto qualche cosa nel mio lavoro-precedente. Quì invece mi par opportuno il richiamo ad una osservazione recentissima del Kitt- steiner (2) sulla eliminazione del cloruro sodico mediante il sudore. Sono note le an- tiche esperienze della scuola del Ludwig e del Ludwig medesimo sui rapporti fra ve- locità di secrezione e contenuto specifico del secreto. Io stesso portai un contributo sperimentale per riguardo al Cloro della saliva dopo introduzioni metodiche di Na CI nel sangue. Non per tutte le secrezioni e non per tutti gli elementi costitutivi di un secreto può dirsi che la eliminazione sia direttamente proporzionale alla velocità di secrezione. Ebbene, le esperienze del Kittsteiner sulla secrezione del sudore hanno dimostrato precisamente, che il contenuto del sudore in cloruro sodico è di- rettamente proporzionale alla velocità di secrezione, mentre la temperatura, l’ umidità, il bagno generale, l’attività muscolare, le azioni psichiche non esercitano una infiuenza propria. D'altra parte l’aumento del NaCl nell’alimentazione produce pure un aumento nella quantità secreta, ma solamente quando si abbia a che fare con variazioni durature e non con variazioni rapide e passeggiere. Io mi sono domandato se promuovendo la diaforesi non si possa raggiungere lo scopo che ci proponiamo con le diete ipoclorurate o declorurate e se eventualmente un’ abbondante secrezione di sudore non possa essere anche maggiormente proficua in quanto, come è noto, essa vale ad allontanare dall’organismo copie notevoli di prodotti tossici, ben più dannosi del medesimo cloruro sodico. (1) P. Heim und K. John. Ein Beitrag sur Theorie des Salzfieber. Monatschrift fi Kinderheil- kunde IX, pag. 516. Zentralblatt fù» Physiologie XXIV, pag. 1241. (2) C. Kittsteiner. Secretion, Kochsalzgehalt und Reaction der Schweiss. Archiv. fùr Hygiéne 1911, LXXIT, pag. 275. —.Rl2 = Metterebbe il conto anche che si cercasse metodicamente se sia più facile e più co- piosa oltre che più pratica e meno dannosa per il rene, una eliminazione di NaCl ottenuta mediante abbondante diaforesi, che non mediante abbondante diuresi operata da ingestione di acqua o da diuretici specifici. Dai fatti che abbiamo esposto come risultanti dalle osservazioni più recenti è provato dunque che iniezioni di soluzioni saline possono produrre danni notevoli, ma non bisogna nascondere che anche recentemente nuovi sostenitori insistono a difenderle strenuamente. Max Heukei (1) porta alcune sue esperienze dalle quali apparisce come le infusioni sa- line anche al 10% non danneggiano gli organi e neppure i reni anche se malati! Van- taggiosissime specialmente esse sarebbero nelle infezioni, nelle quali, soluzioni simili senza ledere i tessuti danneggerebbero i microrganismi, e soluzioni più deboli potrebbero dimi- nuire la concentrazione dei veleni microbici e così indebolirne l’azione ! Questi vantaggi che sono a parer nostro molto problematici devono essere messi di contro al danni che a tutt'oggi sono ben dimostrati e che tutt'al più potranno mancare in qualche individuo o in qualche contingenza, precisamente come solo in qualche indi- viduo 0 in qualche contingenza potranno verificarsi i vantaggi messi in vista dal- P Heukel! Ma chi direbbe che proprio contro quella malattia nella quale, attratti da un concetto aprioristico si è creduto di dover saturar l'organismo con sali calcari per averne un sa- lutare effetto inibitorio, cioè contro l'epilessia, si è invocato di recente il cloruro di sodio che pure vale certamente a decalcificare il sistema nervoso centrale 2! Infatti A. Ulrich (2) mentre afferma che la somministrazione del cloruro sodico può giovare nella epilessia in quanto combatte efficacemente i disturbi del bromismo grave. afferma ancora che l'astinenza dal cloruro sodico può bastare a sospendere gli accessi epilettici. Tuttavia egli dice di aver provocato violenti accessi somministrando ad individui af- fetti indubbiamente da epilessia Jacksoniana dosi giornaliere di 20 a 30 gr. di cloruro so- dico e di averne veduti vantaggi successivi. Questi accessi secondo | Ulrich avrebbero servito a scaricare, come egli dice, il sistema nervoso e ad impedire ulteriori disturbi oltre che avrebbero potuto avere una speciale importanza diagnostica. Anche qui veramente lasciamo volontieri all’ Ulrich la responsabilità della sua pro- posta, perchè non vi è non dico terapista, ma il più umile medico che non sappia come l’aggravare gli accessi epilettici non possa rappresentar a nessun costo un benefizio, mentre ogni sforzo della cura è diretto ad attenuarli o a toglierli, giacchè precisamente il ripe- tersi degli accessi rappresenta spesso la ragion d’essere della loro riproduzione. (1) Max Heukel., Veber den Einfluss der Kochsalz infusion. Minch.medice. Wochenschrift 1910, vol. LVII, pag. 48. Schmidt ’s Iahrbich. 191, vol. 309, pagina 28. (2) A. Ulrich. Ueder die praktische Verwendung des Kochsalzes in der Behandlung der Epilepsie. Neurologisches Centralblatt 1910 n. 2. ‘T'herapeutische Monatshefte 1910 vol. XXIV, pag. 394. II. Contenuto dell'organismo in calcio e rapporto con le varie forme di tetania e di rachitismo. Nella determinazione della patogenesi dell’ epilessia e più della rachitide si tien conto delle cause che impediscono il normale deposito di calcio nei tessuti rispettivamente ma- lati, cervello e ossa, ma si sa che, potendo questo deposito variare per molti dati, ancora non possediamo notizie direttive sicure in proposito. Naturalmente la profilassi di queste malattie o rispettivamente la loro terapia è molto incerta e forsanche solo sintomatica. Recenti determinazioni del Romacci (1) sul contenuto in calce del latte di donna hanno dimostrato che sopra 68 campioni, il contenuto in Ca O oscillò fra 0,0291 e 0,2791 variando più ordinariamente intorno ad una media di 0,1024 di Ca O pari a 0,073 di Ca ". L’età della donna si mostrò senza influenza notevole sul contenuto di calce, il quale tende a crescere fino al 5° mese dell’ allattamento. Il Romacci dal punto di vista della patogenesi delle forme di lesione ossea avrebbe osservato che di 9 rachitici e di 9 che presentavano diatesi neuro-artritica, 6 avevano ricevuto un latte inferiore alla media sopra citata. Questo dato di fatto se conferma il rapporto patogenetico relativo all’ assorbimento cella Calce dall’ alimentazione, non ci permette di valutarlo in modo assoluto, perchè troppi altri rachitici sono divenuti tali senza che la loro alimentazione fosse povera in Calce. E tuttavia interessante dal punto di vista igienico e fisiologico l'osservazione eseguita dal Franck (2), il quale non ha potuto notare differenza di sorta nel contenuto in Calce del latte di vacche alimentate con solo foraggio di prati irrigati o altrimenti nutrite, sicchè l'influenza dell’alimento più o meno ricco di Calce non si fece sentire sul contenuto di Calce del latte. A questo proposito è assai notevole lo studio eseguito dal Coleschi (3) sull’ assorbi- mento della calce in forma di carbonato e bicarbonato. Egli ha trovato che la sommini- strazione di questi sali per bocca dà un assorbimento più cospicuo, se essi sono sciolti in acqua, che non se sono dati in sostanza; che buona parte del sale assorbito è emessa per il latte e che l'assorbimento è favorito dalla presenza di CO, nell'acqua di dissoluzione. Riproduciamo dalle tabelle del Coleschi il seguente quadretto che dimostra i rap- (1) A. Romacci. Sul quantitativo in Calcio del latte di donna. La Pediatria, settemb. 1910, n. 9. (2) L. Franck. Ueder den Einfluss kalkarmen Futters auf den Kalkgehalt der Kuhmilch. — Chemische Zeitung 1910 XXXIV, pag. 978-979. — Centralbl. fiir die gesamm. Physiolog. und Path. des Stoffwechsel, 1911. Iahrgang VI, pag. 137. (3) Lorenzo Coleschi. Z2 ricambio del Calcio nelle donne lattanti dietro l’uso delle acque minerali bicarbonato-calciche. — Archivio di farmacologia sperimentale e scienze affini, 1910, vol. X, pag. 254-267. — 214 — porti di assorbimento ed eliminazione in casi di somministrazione di carbonato in natura, oppure in soluzione nell'acqua Marcia o in quella delle Ferrarelle. Ca0 assorbita Cao ; PE Somministrazione 0 0 eliminata Mem ie Cao dell’ ingerita col latte con le orine con le fecce ritenuta Carbonato di Ca . . 1,68 0,6 0,17 8,32 0,90 Ferrarelle. . .... © 2A], (),33 4,89 2,66 Acqua Marcia .. . . 2,64 0,98 0,28 7,36 1,38 Ma naturalmente un organismo può aver penuria di Calce anche perchè ne perda più del normale. In una bellissima tesi del Fritsch (1) fra le notizie particolari che riguardano il ricambio della Calce specialmente nell’arteriosclerosi, che è riputata del tutto indipendente dalla introduzione di Calce mediante l’alimentazione e quindi del tutto inaccessibile alla influenza di alimentazioni povere di calce, è affermato il fatto che la Calce sì elimina in buona parte con le fecce, il che del resto si osserva anche nella tabella sopra riportata. La eliminazione seguirebbe secondo il Fritsch per la mucosa intestinale come avviene per il ferro, sicchè si comprende il reperto del Proskauer (2) di un aumento del Ca nel sangue in 4 casì di disturbi acuti e cronici del tubo digerente, aumento certamente legato o ad una diminuita eliminazione per il tubo gastro enterico, oppure ad una disinte- grazione organica, che può benissimo effettuarsi per queste speciali condizioni patologiche dell’organismo. La ricchezza del sangue in Calcio può essere causa dei danni che si osservano nel- l’arteriosclerosi, secondo il Fritsch, solamente come seguito di lesioni molto antecedenti dell’intima, e può essere causa di danno, come altra volta rappresenta una condizione fisiologica di prima importanza. Già da molti autori era stata notata l’influenza che il Ca può esercitare sulla contrattilità dei vasi, oltre che sul cuore e sulla coagulabilità del sangue. Dice il Barr (3) che il Ca + + insieme ai secreti delle capsule surrenali e del- l’ipofisi aumenta il tono vasale e rappresenta una condizione importantissima di resistenza in molte malattie come nella pneumonite. È certo però che nella ipertensione arteriosa cotesto benefico effetto diventa un danno e un grave danno. (1) Alfred Fritsch. Beitrag sum Studium des Kalkes im Organismus besonders in seinen Ver- hiltnissen zum Pathogenese des Arterio-sklerose. hése de Nancy, 1909. Maly’s Iahresbericht 1909, Volume XXXIX, pag. 626. (2) I. Proskauer. Veber den Erdalkaligealt des Sariglingsblutes bei Ernihrungstorungen. Arch. fir Kinderheilkunde LIV, 1-3. Centralblatt fire Physiologie XXIV, pag. 1243. (3) I. Barr. Use and abuse of the lime salts in healt and disease. British medical Journal 24, sept. 1910. Schmidt’s Iahrbùcher 1911, Vol. CCCIX, pag. 185. AO Secondo il Rutkewitsch (1) l’infiuenza del calcio sui vasi e sul cuore è esercitata anche dallo sironzio ed essa può produrre talvolta perfino alterazioni del ritmo cardiaco per danni diretti portati sul miocardio. Non sarebbe il caso allora di pensare che il clo- ruro di sodio sottraendo Calcio ai tessuti producesse bensì dapprima un aumento nel sangue, che è stato osservato già da miei allievi nel mio laboratorio, ma poi a lungo andare avendo luogo una sicura eliminazione per le urine, o per l'intestino, venisse libe- rato l'organismo da quell’ eccesso di Calcio che si dimostra realmente dannoso ? Una comunicazione orale gentilmente fattami dal Dott Bonetti di Genova sugli effetii delle inalazioni secche col sistema K6rting, per le quali certo si assorbono rapi- damente grandi quantità di cloruro sodico insieme a quantità forse trascurabili di joduri, deporrebbe proprio per un risultato benefico del cloruro sodico in casi di ipertensione, che potrebbe spiegarsi con quello che ho notato più sopra. i Dunque si possono avere danni dai sali di Calcio ma non per questo si devono dimen- ticarne i beneficii, come non si possono dimenticare quelli del ferro solamente ponendo mente ai fenomeni di avvelenamento che questo può produrre. È certamente con esagerazione che il Berg (2) sostiene essere inutili o dannosi nella terapia i sali di calcio specialmente i fosfati, perchè non possono servire che come ecci- tanti, non danno fosforo all’organismo ed anche i più elevati come la lecitina unita al Calcio o la fitina avrebbero solamente azioni indirette, la prima servendo da afrodisiaco, la seconda da stimolante per l’appetito. Che se vogliamo seguire ricerche più profonde e speciali abbiamo un caso molto istruttivo illustrato dall’Oerì (3) in una donna affetta da sclerosi laterale e sottoposta ad un regime dietetico adatto allo studio del ricambio del fosforo o del calcio. L'aggiunta di Calce all’alimentazione produsse una perdita di fosforo in forma di leci- tina ed acido nucleinico oltre che in forma inorganica. Che se si dava all’ammalata del fosfato sodico, si aveva una perdita pure di fosforo e di Calcio, ma varia a seconda del contenuto dei cibi in calce. Da che risulta che i sali di Calcio possono essere assorbiti da più o meno; essi secondo il Fritsch non sono atti a produrre di per sè un’arteriosclerosi, ma data un’alte- razione dell’intima possono permettere depositi calcari, essi possono dare dei vantaggi e dei danni, essi possono finir col produrre tutt’altra cosa da quella per la quale erano stati somministrati. Nè per questo è meno dimostrato che la mancanza di Calce possa rappresentare una condizione dannosa per l’ organismo, o inversamente che possa l’aggiunta di Calce ad un menstruo salino togliergli delle azioni dannose, che altrimenti esso avrebbe esercitate. (1) Rutkewitsch. Die Wirkung der Calcium und Strontium salze auf das Herz und Blutgefcs- system. Pligers Archiv. CKXIX, pag. 487. Centralblatt fir Physiologie XXIV, pag. 501. (2) Ragnar Berg. Veber die Ausscheidung von per os eingefihriten Phosphaten besonders der Calciumphosphate. Biochemisches Zeitschrift 1910, Vol. XXX, pag. 107. (3) Felix Oeri. Zin Betrag sur Kenntniss des Phosphosctiure und Kalkstofficechsel beim erwachsenen gesunden Menschen. Zeitschrift fire klinische Medicin LXVII, pag. 288-306. — 216 — Così oltre all’azione nota sui centri nervosi o sul cuore è stato dimostrata una influenza inibitrice, arrestatrice sulla permeabilità dei vasi sanguigni. Il Meyer (1) avrebbe veduto che l’azione di diversi veleni che agiscono sui vasi può essere impedita o sospesa da sali di calcio e che questo fenomeno importantissimo si osserva meglio quando dopo aver somministrato il Ca si dia un veleno atto a produrre edemi o versamenti in cavità sierose. Chiari e Januschke (2) hanno più particolarmente sviluppato questo studio riu- scendo a dimostrare con nuove esperienze su cani e cavie, che raccolte pleuriche dovute all'introduzione di joduro di sodio, di tiosinamina, di tossine difteriche, edemi flogistici della congiuntiva prodotti nei conigli da instillazione di olio di senape o di abrina, ven- gono impediti o arrestati o diminuiti da sufficienti introduzioni ipodermiche o endovenose di sali di Calcio cioè lattato o meglio ancora cloruro. Cotesta azione può aversi 3 ore dopo la somministrazione del Calcio e dopo 24 ore è scomparsa. Se sì vuol impedire la formazione degli edemi, occorre che la introduzione dei sali di Calcio sia fatta mezz’ ora dopo quella irritante e per quanto riguarda gli effetti dell’abrina o dell’olio di senape, queste sostanze devono essere applicate dopo l’uso dei sali di Calcio. I quali sali calcari secondo Chiari e Januschke dovrebbero agire fondamental- mente per la loro influenza coagulante o a dir meglio per un aumento di resistenza, che devono generare negli elementi vasali. È forse di questo genere l’azione osservata da Lillie (8) nelle asterie e arbacie, nelle quali l’aggiunta di cloruro di calcio alle soluzioni isotoniche di sali sodici impedisce la permeabilità cellulare, rallenta 0 impedisce la formazione delle membrane e protrae l’iniziarsi della divisione cellulare. Forse appartiene anche alla stessa influenza il fatto notato da Lussana (4) di una diminuzione o rallentamento della respirazione dei tessuti per opera del cloruro di Calcio. E ancora un certo antagonismo è stato riscontrato fra cloruro di Calcio e adrenalina, antagonismo anche questo per certi dati legato ad azioni intime sugli elementi dei tessuti. Fu lo Schrank (5) che avendo osservato un’ azione antagonistica fra cloruro sodico e clo- ruro calcico quanto alla peristalsi intestinale ed avendo veduto che il cloruro sodico può (1) Hans Horst Meyer. Veber die Wirkung des Kalkes, Mùnchener medicinische Wochen- scrift 1910 LVII, pag. 44. (2) D.r Richard Chiari und D.r Hans [anuschke. Hemmung von Transsudat und Essudat- bildung durch Kalziumsalze. Wiener klinische Wochenschrift 1910 n. 12. Archiv. fiir experimentelle Pathologie und Pharmakologie 1911, Vol. LXV, 120-127. (3) R. S. Lillie. Zhe phisiology of Cell- Division III, The action of calcium salts in preventing the initiation of cell division in unfertiliged eggs trough isotonic solutions of sodium salts. 'Vhe american Journal of Physiology 1911 Vol. XXVII, pag. 289-307. (4) Filippo Lussana, Zn/luenza degli joni metallici sopra la respirazione dei tessuti. Bul- lettino delle scienze Mediche 1907, pag. 169-185. (5) Fr. Schrank. Esperimentelle Beitrage sur antagonistischen Wirkung des Adrenalins und Chloralcium. Zeitschrift fir klin. medicin. LXVII, pag. 230. Centralbl. fir Physiologie XXIV, pag. 220. — 217 — produrre glicosuria come l'adrenalina, volie tentare se il Calcio potesse contrastare con l’adrenalina come contrastava col sodio e trovò infatti che nella rana la midriasi da adre- nalina si combatte con iniezione di cloruro calcico e così può combattersi la glicosuria da adrenalina. Tuttavia le lesioni vasali dell’ arteriosclerosi non si poterono affatto combattere, noi riteniamo anzi che l’adrenalina possa preparare il terreno per l’incrostazione successiva di sali calcari, come abbiamo notato più sopra. Prima della dimostrazione da me data nel lavoro pubblicato lo scorso anno e più volte ricordato, si giudicava solamente per induzione o per analogia che certi sali e fra essi il cloruro sodico potessero esercitare una particolare azione, in quanto precipitassero o estraes- sero il Calcio contenuto nei tessuti o nei liquidi endo o estra cellulari. Anche recentissi- mamente un argomento che è probativo solo per verosimiglianza è dato da Chiari e Frohlich (1). Essi hanno veduto che la sensibilità delle terminazioni nervose dei sistemi della vita vegetativa (simpatico ed autonomi) per l’adrenalina e la pilocarpina viene aumen- tata negli avvelenamenti da acido cloridrico e ossalico e da ossalato di sodio. E gli autori pensano che verisimilmente ciò sia dovuto ad una asportazione di Calcio per opera dell’acido cloridrico o precipitazione per l’ossalico, per l’ossalato. Ed è pure un argomento di verisimiglianza quello che raccogliamo da Loew (2) sul comportamento delle cellule che si trovano in certi vegetali più bassi, in talune alghe, di fronte all’ acido ossalico. Queste alghe sono prive di Ca e per esse i sali solubili del- l’acido ossalico non sono venefici. Il calcio secondo 11 Loew sarebbe combinato con nu- cleoproteidi o almeno sarebbe a loro congiunto e per questo mezzo potrebbe esercitare la sua azione biologica sur nuclei cellulari e sui corpi clorofillici. Azione complessa certa- mente e molto più ragguardevole di una semplice influenza inibitrice, che talora può del tutto mancare o anche essere sostituita da quella opposta. Le ricerche che nel mio lavoro sopra citato io ho richiamato da Hamburger e De Haan, da Loeb, da Osterhout, da Benecke, da Thies, da Busquet e Pachon, da Pouchet e Chabry furono riprese dal Loeb (3) l anno scorso e dimo- strarono del resto una vera e propria azione antagonistica, che si aggiunge al fatto da me dimostrato della sostitezione o comunque se si voglia della sottrazione dei Ca + +, quando ne sia il caso. Il Loeb, riprendendo lo studio in parte eseguito da Pouchet e Chabry sulle ova del riccio di mare, ha dimostrato che l’azione tossica esercitata sullo sviluppo di esse da soluzioni di cloruro sodico neutre o leggermente acide è tolta più dall’ aggiunta di po- (1) R. Chiari und A. Fròhlich. Erregbarkeitsinderung des vegetativen Nervensystems durch Kalk-entziehung. Archiv. fur experiment. Pathol. und Pharmak, 1911. Vol. LXIV, pag. 214-227. (2) Oscar Loew. UVeder die physiologische Rolle der Calciumsalze. Mùnchener medicin. Wochen- Schrift, 1910. Vol. LVII, pag. 2572. (3) Jacques Loeb. Veder den Einfluss der concentration der Hydroxyljonen in einer chlorna- trium-losung auf die relative entgiftende Wirkung von K und Ca. Biochem. Zeitschrift, XXVIII, pag 176. Schmidt’s Jahrbicher, 1911, CCCIX, pag. 122. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 32 LEONI tassa che da quella di Calce, se invece le soluzioni sono alcaline agisce meglio il Calcio che il potassio. Inoltre se invece di aggiungere potassa o calce sì ricorre ad una mescolanza del- luna o dell'altra base, si ha maggior effetto che non si potesse desumere dalla somma degli effetti singoli. Questi dati nel riguardo del potassio ricordano troppo bene quello che io dicevo ap- punto confrontando gli effetti chimici di sostituzione prodoiti dal cloruro sodico per il K e per il Ca. Affermavo come nessuno avrebbe potuto negare che eventualmente le azioni biologiche esercitate dal cloruro sodico fossero dovute alla perdita del K, oltre che alla perdita del Ca, ricordandosi come l’azione paralizzante, protoplasmatica del K, fosse ben chiara e di- mostrata. Anche se è nota per deboli dosi di potassa e sul principio dell’azione, come è stato visto da Astolfoni, una certa influenza eccitante, essa è certamente assai piccola, mentre il Calcio abbiamo veduto che da molti è ritenuto pure atto ad esercitare azione eccitante e recentemente anche in rapporto con una precedente influenza del Magnesio, si è asse- rito dal Meltzer (1) che il Ca può eccitare o rialzare la eccitabilità nervosa particolar- mente se depressa dal Mg, azione quindi tanto più notevole, quando si pensi alla tossicità di questo elemento. Ho detto tossicità del Magnesio perchè questa parola corrisponde bene alla intensa azione biologica che esso può esercitare e deve essere ben ricordata quando si consideri la così detta azione anestetica che fu dimostrata per i primi da Meltzer ed Auer. Guthrie e Ryan (2) affermano a questo proposito che i sali di Magnesio non possono essere riguardati come anestetici nel vero senso della parola. Secondo le esperienze di questi autori, l’ effetto dell’iniezione ipodermica dei sali di magnesio è quello di una paralisi degli apparecchi periferici neuro muscolari dei muscoli volontari, l’ anestesia dipenderebbe dal grado di asfissia generale o anche dell’ asfissia par- ziale dei tessuti maggiormente lesi. Ed in prova ulteriore di questo concetto citiamo le esperienze di Hyndman e Mit- chener (3) le quali furono eseguite in conigli sottoposti ad iniezioni di solfato di Magnesio e resi così anestetici. Questi animali reagivano alla stimolazione elettrica dei centri cor- tica:i, che dunque avevano conservato la loro eccitabilità. Questa conchiusione veramente non è contraria al concetto di un’azione anestetica del solfato di Magnesio, ma ci dice come questo non abbia ad esempio l’azione della morfina, nè quella del cloroformio, cioè vera azione centrale, bensì debba ritenersi che agisca alla periferia. Ora, un'azione di contatto (1) J. Meltzer. Einiges sur Physiologie und Pharmakologie des. Magnesium und Calcium. Deutsche medic. Wochenschrift, XX XV, pag. 1963. Centralbl. fir Physiologie XXIV, pag. 527. (2) C. C. Guthrie and. A. H_ Ryan. On. the alleged specific anaestetie properties of Magne- stum salts. 'l'he American Journal of Physiology 1910, Vol. XXVI, pag. 328-345. (3) H. F. Hyndman and W. E. Mitchener. he influence of Magnesium sulphate on the motor cells of the cerebral cortex. The Journal of the American Medical Association LV pag. 281. Central- blatt fù» Physiologie XXIV, pag. 915. — 219 — del solfato di Magnesio sui nervi o apparecchi nervosi periferici, che valga ad esercitare le influenze che noi chiamiamo anestetiche locali, come quelle del freddo, della cocaina, non può ammettersi e però resta ancora come la più plausibile, l'opinione di Guthrie e Ryan di una asfissia periferica. IL’asportazione del Calcio, oltre che del potassio dai tessuti cervello, muscoli, fegato è stata dimostrata dalle mie esperienze e da quelle dei miei allievi, la precipitazione del Calcio per opera di sali decalcificanti come gli ossalati è possibile e potrebbe in ogni modo dimostrarsi con osservazioni microchimiche, ma noi abbiamo più volte accennato alle esperienze di molti autori, che hanno veduto sospendersi i disturbi prodotti dall im- mersione di elementi in soluzioni di cloruro di sodio o simili mediante l'aggiunta di sali di Calcio alle soluzioni medesime. Questo Calcio che si può togliere ai tessuti è esso fissato ai nucleoproteidi come vor- vebbe il Loew o si trova nei liquidi frapposti agli elementi cellulari? Esso evidentemente è jonizzato, altrimenti delle soluzioni di cloruro sodico anche abbastanza diluite, special- mente poi le fisiologiche come vedremo nelle mie nuove esperienze, non potrebbero de- terminarne il distacco. Ma il fenomeno opposto, quello cioè per il quale molti autori hanno veduto per l'aggiunta di sali di Calcio sospendersi i disturbi prodotti da altre solu- zioni saline, questo fenomeno come può interpretarsi? Il calcio può farsi entrare ad arte negli elementi cellulari? Le nuove esperienze dell’Ha mburger (1) tendono a rispondere affermativamente a questa questione. : Minime tracce di cloruro di calcio (5 milligr. per 100 di menstruo) agiscono già sulla motilità dei fagociti e rendono verisimile l entrata del calcio in essi. Si può determinare chimicamente questo passaggio, ma si osserva anche che se questi globuli vengono lavati col loro siero il Ca non si dimostra più. Secondo Hamburger il Ca deve ritenersi almeno in parte come contenuto nei. li- quidi endocellulari e può dimostrarsi infatti nel materiale ricavato per compressione dei globuli medesimi e non è ammissibile che sia semplicemente assorbito dallo stroma. Il Loeb crede che dai globuli immersi in soluzione di cloruro sodico avvenga il passaggio del Ca perchè vi può essere scambio fra i Na + ed i joni metallici del contenuto globu- lare, il che noi pure abbiamo sempre ammesso, ma secondo Hamburger una maggiore importanza deve essere esercitata dalla pressione osmotica, che può farsi variare anche con l’aggiunta di zucchero nel liquido ambiente, aggiunta che può far entrare nei globuli il caleio e aumentarne quindi il contenuto normale. Confessa l’Hamburger che questo fenomeno ha bisogno di essere studiato ulteriormente. Evidentemente con qualche fenomeno chimico o chimico fisico degli elementi specifici deve essere legato il fenomeno importantissimo della fissazione del Ca in tutti i tessuti in genere, come nei globuli sanguigni ed in taluni in ispecie come nelle ossa. (1) H.I Hamburger. Veder den Durehtritt vor Ca Ionen durch die Blutkòrperchen und dessen Bedingungen. Zeitschrift fir physiol. Chemie LXIX, pag. 663. Centraiblatt fiir Physiologie XXIV, 1145. — 220 —- Le questioni del rachitismo, dell’ osteomalacia come quella dell’ arteriosclerosi sono ben lontane dall’ essere risolute; da tutto quello che si sa finora risulta evidente che de- vono esistere condizioni speciali per cui gli elementi destinati all’assorbimento e al deposito del Calcio, anche immersi in un menstruo ricchissimo di questo metallo non riescono ad appropriarselo. È alla ricerca di queste condizioni intime che bisogna muovere e non già restare al primo o all’ultimo episodio della malattia, alla alimentazione, al difettoso as- sorbimento, alla affrettata eliminazione. Intendo in questi pochi cenni bibliografici di accennare solamente alle pubblicazioni fatte nell’anno testè finito e nella prima metà del presente, avendo riassunto nel lavoro dell’anno scorso quei dati che più da vicino riguardavano l'argomento delle perdite di Calcio e quindi anche quelle riferibili al rachitismo, o all’ osteoporosi, all’ osteomalacia. Determinazioni chimiche eseguite dal Gassmann (1) su ossa normali e ossa rachi tiche hanno dimostrato che nelle une e nelle altre è costante il rapporto fra il catione Ca e gli anioni SO, e CO,, è costante, pur mancando nelle ossa rachitiche tanto il Ca quanto l’acido fosforico e il carbonico. Nelle rachitiche sì trova il 5° di più di sostanze orga- niche, 1° 1%, di meno di acqua ed è abbondante la Magnesia. Anche i denti che cadono in carie sono più ricchi in magnesia, sicchè il Gassmann ritiene che il Mg abbondi là dove vi sono alterazioni del ricambio del Calcio. Nelle mie esperienze io ho sempre veduto che condizioni che sono atte a staccare dai tessuti anche copiosamente la calce, la potassa, l’acqua del tessuto nervoso non riescono a spostarne la Magnesia. Corrispondenti ai dati del Gassmann sono anche quelli del Mac Crudden (2) in un caso di osteomalacia. Mentre nell’osso normale egli trovò per cento 28,83 di calce, 0,14 di magnesia, 19,55 di anidride fosforica, 0,14 di solfo, nell’osso osteomalacico trovò rispettivamente 15,44 di calce, 0,56 di magnesia, 12,01 di anidride fosforica e 6,56 di solfo. Adunque anche qui più di sostanze organiche rappresentate dal solfo, più di magnesia e meno di calce e di anidride fosforica. Questi nuovi risultati non ci danno veramente indicazioni, che possano illuminarci, ma ci mostrano però due fatti di una certa importanza l’ abbondanza della magnesia, il rap- porto costante fra Ca e gli acidi che lo legano. Wells e Mitchell (3) hanno cercato invece come il Ca giunga alle ossa e dopo aver dimostrato che saponi di soda e di calce, introdotti nel peritoneo di conigli possono 2 essere assorbiti senza che la calce venga a combinarsi con acido carbonico o fosforico (1) Th. Gassmann. Chemische Untersuchungen von gesunden und rachitischen Knochen. Zeit- schrift fiv physiolog. Chemie 1910, vol. LXX, pag. 161. Schmidt’s Tahrbicher fir die ges. med 1911, CCCIX, pag. 198. (2) F. H. Mac Crudden. Chemical Analises of Bone from a case of human adolescent osteo- malacia. Journal biological Chemitry, VII, pag. 200. Centralblatt fùr Physiologie, XXIV, pag. 641. (3) Gideon Wells and James Mitchell. Studies on calcification and ossification. Journal of Medical Researces, vol. XXII, pag. 501. —- 221 — così da aversi una mineralizzazione del sapone, hanno immerso cartilagini fetali in un menstruo contenente Ca + + e ve le hanno lasciate per 10 giorni alla temperatura di 37° a 38°, per vedere se gli elementi delle cartilagini che si sa possono a lungo vivere fuori dell’organismo possedessero un’affinità per i Ca joni. Ciò tuttavia non si è punto verificato. Nella rachitide interverrà alcuna delle condizioni negative che si sono verificate nel- l’esperienza di Wells e Mitchell? Afferma il Lehnerdt (1) che nel rachitismo la calci- ficazione non è impedita nè da una scarsa introduzione di calce con | alimentazione, nè da scarsezza di assorbimento in generale, nè perchè anormali processi del ricambio o aì- terazioni del tubo gastro enterico sottraggano metalli alcalini, ma perchè il tessuto osseo neoformato non è in caso di fissare normalmente i sali calcari che pure vi arrivano in copia. Tuttavia il tessuto osseo nel rachitismo si comporta istologicamente come il sano per quanto può osservarsi, fuori che per quanto riguarda la fissazione della calce. Del resto secondo Schabad (2) una alimentazione povera di calce non produce che una pseudorachitide, che rapidamente sparisce appena si aggiunga calce al cibo sommi- nistrato. Sembra adunque che si tratti di un'alterazione intima degli elementi, di un’altera- zione forse del loro ricambio, che toglie o diminuisce la funzione caratteristica riguardante la fissazione della calce. L'influenza che esercita lo stronzio sul tessuto osseo in via di sviluppo è ben inte- ressante a questo proposito. Dobbiamo all’Oehme (3) alcune ricerche, che meritano ulteriore esame e che a mio parere potranno anche render conto dei fenomeni che analogamente si manifestano in si- mili malattie dell’ osso, come |’ osteomalacia. Dice l’Oehme, che se si nutre con cibi poveri di Ca un cane in via di sviluppo, si presenta osteoporosi, perchè il nuovo tessuto osseo si calcifica a spese del preesistente. Dunque il tessuto osseo normale anche sprovvisto della calce occorrente per la fissazione fisiologica ha le attitudini sufficienti per togiierlo anche là dove è tenacemente fissato. Se allora si somministra fosfato di stronzio si produce una forma del tutto simile alla rachitide, probabilmente secondo l’Oehme, perchè lo Sr eccita gli osteoblasti e stimola una maggior produzione di osso che porta via la Calce dove già si era deposta. Tuttavia, se ad un animale in via di sviluppo si somministra insieme ad abbondante alimentazione calcare una piccola quantità di stronzio non si ha una maggiore produzione di osso normale, ma piuttosto un riassorbimento di quello già sviluppato. (1) F. Lehnerdt. Warun dleibt das rachitische Knochengewebe unverkalkt 2 Ergebniss der inn. med. und kinderheilkunde, VI, pag. 120. Centralbl. fù» Physiol. 1911, vol. XXV, pag. 120. (2) I. A. Schabad. Der Mineralstoffivechsel bei Rachitis. Jahresber, ueber die Fortschritte der Medicin XXVIII, pag. 1057. Centralbl. fur Physiologie, vol XXIV, pag. 374. (3) Curt Oehme. Veder den Einfluss von Strontiumphosphat auf das Knochenwachsthum bei kalharmen Kost. Beitràge zur path. anat. und allgem. Path. 1910, vol. XLIX 2°, pag. 248. Schmidt's Tahvbuch. fir die gesamm. Med. 1911, vol. CCCIX, pag. 147. (AS) DD, Da che si deduce a parer mio, che gli osteoblasti hanno bisogno di speciali condizioni per la loro funzione, come del resto avviene per tutti gli elementi dei tessuti; che essi sentono influenze speciali come quella dello stronzio, quella del magnesio dimostrata da Malcolm su cani e topi, da Weiske su conigli, quella forse del cloruro di sodio, che ancora non è dimostrata, ma che mi sembra sicurissimo debba avvenire, sicchè nella te- rapia della rachitide si dovrebbe anche aver presente la eventuale importanza di una dieta aclorurata. Come il cloruro di sodio agiscono gli acidi, i quali in fuori dell’ ossalico che dà invece fenomeni di precipitazione producono una dissoluzione dei sali calcari, specialmente dei carbonati e conseguente eliminazione e perdita per le urine. Precisamente perchè rella rachitide non si ha copiosa eliminazione di calce per le urine, dove anzi questa base è scarsissima, ma bensì quasi esclusiva eliminazione per l’intestino, è negata dallo Schabad (1) ogni fiducia nella teoria dell’acidosi, con la quale si è voluto spiegare il meccanesimo di produzione delia rachitide. La quale potrebbe trovare anche una spiegazione per ragioni d’analogia nel fatto os- servato da Morpurgo e Satta (2) in un caso di osteomalacia. Ossa di una donna osteomalacica furono sminuzzate e sottoposte a 350 atmosfere sotto una pressa di Buchner. Se ne estrasse un liquido che fu diviso in due porzioni, l’ una riscaldata a 66°-70°, l’ altra lasciata a sè come la prima, ma senza essere sottoposta al riscaldamento. Nel primo liquido riscaldato si trovò 0,0183 di Ca 0, in quello non riscal- dato se ne trovò 0,0287, il che dimostra la presenza di un fermento termolabile che nelle ossa malaciche scioglie i sali calcari. Certamente questa esperienza merita conferma, ma ha una grande importanza e ci fa pensare che nel rachitismo potrebbe pure esistere nell’organismo o almeno nel tessuto osseo un elemento finora sfuggito al nostro esame appunto come uno degli innumerevoli fermenti che troviamo nella vita animale e che esercitasse sugli osteoblasti la inibizione sufficiente ad impedire la calcificazione. Ci può essere un fermento simile nelle varie forme di tetania? In malattie di questo genere si può ammettere un agente qualsivoglia, atto a sciogliere i sali calcari, oppure a precipitarli, oppure a estrarli dai tessuti e quindi anche dalla sostanza nervosa? Noi abbiamo già veduto più sopra e io | bo scritto nel mio lavoro precedente che una importanza assoluta alla mancanza o diminuzione di Ca nel cervello, come produt- trice di fenomeni di eccitamento, non può darsi più che non possa darsi per esempio al potassio. Ma vi sono quegli stati di tetania successiva alle estirpazioni dell’apparecchio tropa- ratiroideo, che si prestaro assai per ammettere il concetto che ho esposto, che cioè in (1) I. A. Schabad. Zur Bedeutung des Kalkes in der Pathologie der Rachitis. Avchiv fùr kin- derhellkunde 1910, vol. LIII, pag. 380. (2) B._ Morpurgo e G. Satta. Sulla presenza di un fermento attivo sui composti di Ca nelle ossa malaciche. Giornale della R. Accademia di Medicina di Torino, 1908, Anno LXXI, pag. 9. — 223 — queste condizioni sperimentali esista, sia pure, un fermento prosperante dopo | estirpa- zione della tiroide o un prodotto chimico che l'apparecchio tiroideo distruggeva, e che è capace di sottrarre calce ai tessuti o impedire che questi la ritengano. Interessa conoscere a questo proposito una osservazione di Mac Callum € Voegtlin (1) sulla cessazione dello stato di tetania dovuta a paratiroidectomia me- diante l’iniezione di sali calcari proprio come si può averla con iniezioni di succo ghian- dolare di altri animali. Anche sali di Mg possono produrre questo risultato, ma in modo incostante, perchè la tossicità del Mg non permette un sicuro intervento, ma sali di K o di Na anche alcalini non hanno azione di sorta. Di fatto questi stessi autori avrebbero veduto in 3 cani paratiroidectomati una note- vole diminuzione della Calce in tutti gli organi e specialmente nel sangue e nel cervello. Mac Callum e Voegtlin pensano che si tratti in questi casi di uno stato di aci- dosi, dimostrato anche da una abbondante eliminazione di Ammoniaca, ma avvertono che questa sola condizione non può dare un’ interpretazione sufficiente perchè anche introdu- zioni abbondanti di bicarbonati non raggiungono affatto lo scopo, che si ottiene invece con sali di Calcio. Come non si può affermare che sia proprio l’azione inibitrice del Ca quella che, man- cando questo elemento, permette lo scoppio della tetania, perchè altro può mancare oltre il Ca, così la questione si rende anche più difficile a spiegarsi, quando si rifletta che in casi di teiania tireopriva il Ca può anche abbondare, come risulta dalle esperienze di Parhon e Dumitrescu (2). Essi pure non negano importanza al Calcio, ma ammettono che la tetania non può spiegarsi solamente con la deficienza di questa base, perchè hanno veduto che i centri nervosi di un animale nel corso della tetania da asportazione dell'apparecchio tiroparatiroideo possono presentare maggior quantità di Ca, che non quelli di un animale che non mostri traccia di fenomeni convulsivi. Se non si voglia ammettere che gli uni o gli altri di questi autori abbiano errato nelle loro determinazioni, il che non è lecito, si dovrà pur persuadersi che la conclusione più logica che può trarsi sia quella che nega alla mancanza del Calcio |’ importanza massima nella produzione della tetania. Abbiamo altra volta annunziato il concetto dello St6ltzner sul ristagno di Ca nel sangue e nei liquidi dell’organismo con sottrazione dai centri nervosi per ispiegare la spasmofilia dei bambini, concetto da porre in fila con tutti gli altri che sì imperniano sulla importanza del Calcio. II Longo (3) seguendo questo concetio ha eseguito espe- (1) W. G. Mac Callum and Carl Voegtlin. Ueder die Beziehungen der Tetanie zu den Nebenschilddriisen und sum Kalkstofftwechsel. Baltimore. Iournal for experim. Medie. Vol. 11, pag. 118- 151. Maly’s Iahresbericht ueber Thier-Chemie, 1909 XXXIX, pag. 628. (2) D.r C. Parhon und D.r Dumitrescu. Neue Untersuchungen ‘ber den Kalkgehalt des Blutes und der nervencentren bei experimenteller Tetanie in Folge von Extirpation von Thyreoidra und Paratyroidea. Schmidt's Jahrbicher 1910 Vol. CCCIX, p. 146. (3) A. Longo. Calcio e spasmofilia infantile. Policlinico. Sezione medica 1910. Anno XVII, fase. 11. SIRZZA rienze sopra 3 spasmofilici confrontandole coi risultati ottenuti in 5 bambini per questo rispetto normali. Le cifre avute dal sangue e parti molli sono negli spasmofilici 0,171 — 0,166 — 0,252%, e nei normali 0,211 — 0,175 — 0,140 — 0,207 — 0,194 e cioè in media 0,196 negli spasmfilici e 0,185 nei normali e se si voglia come è più giusto guardare ai massimi e minimi, si sarebbe trovato negli spasmofilici il minimo 0,166 e il massimo 0,252, e nei normali il minimo di 0,140 e il massimo di 0,211. Comunque si consideri, le prove del Longo avrebbero dati valori superiori negli spasmofilici, che nei normali. Si sa che l'esportazione del timo, precisamente come l'alimentazione mediante timo, non produce nel cane nessun aumento nella eliminazione della Calce, come è stato visto dal Sinnhuber, il Soli 1) ha estirpato il timo a galline ed ha notato che 15 a 20 giorni dopo l’operazione esse emettevano ova senza guscio, ma ciò avveniva in modo tem- poraneo. Il Soli attribuisce il fenomeno a una mancata influenza del timo sull’ovaia, per la quale mancanza non avveniva più il deposito di Ca, mentre i sali calcari non mancavano nel sangue. Ma si potrebbe anche pensare che come talora per influenze varie le galline emet- tono uova senza guscio, avvenisse lo stesso nel caso del Soli in seguito semplicemente all’atto operativo. Un’ ultima osservazione vogliamo aggiungere riguardo a questi fatti così importanti e cioè quella eseguita dal D.r Canestro (2) su animali in preda a tetania paratireopriva. Il Canestro ha osservato che i fenomeni convulsivi si possono arrestare rapida- mente con l’iniezione ipodermica di soluzioni isotoniche di solfato o cloruro di Magnesio in dosi da 0,50 a 2 gr. per Ke. di animale. L'azione è prontissima, ma non impedisce che gli animali soccombano all’avvelena- mento prodotto dall’atto operativo, se non si sono lasciati residui di ghiandola sufficienti per il ritorno allo stato normale. Evidentemente in questo fatto non si tratta di un fenomeno di semplice anestesia, ma sì di quello stato asfittico che secondo Guthrie e Ryan si osserva per azione del Ma- gnesio e che non ha nulla a che vedere con influenze specifiche quali sono quelle eser- citate dalle secrezioni interne III. Esperienze proprie. Ho eseguito le esperienze in cani sani tenuti in osservazione in laboratorio, ho adope- rato il metodo analitico (3) descritto nel mio lavoro precedente e per confronto con i dati (1) U. Soli. Zr/uenza del timo sul ricambio del calcio nei polli adulti. Pathologica 1911, n. 57. (2) D.r Corrado Canestro. Contributo al trattamento della tetania paratireopriva mediante iniezioni ipodermiche di sali di Mg. Policlinico. Sezione Medica 1910, fase. 3°. (3) L'unica differenza che posso notare nel metodo è quella di aver curato sempre nella precipi- tazione del pirofosfato magnesiaco, che nel menstruo esistesse una quantità di ammoniaca eguale al 2° con ciò si evita di concentrare il liquido e di aggiungere troppo fosfato, il che renderebbe più lunga la lavatura del filtro. — 20 — normali ho scelto quelli che risultavano dalle determinazioni istituite da me precisamente allo scopo di avere termini esatti di paragone. I valori normali che io riscontrai nel cer- vello dei cani oscillarono fra un minimo di gr. 0,0143 di Ca e un massimo di 0,0588, osservando tuttavia che quest’ ultimo risultato si ebbe in un cane ucciso nel periodo con- vulsivo della rabbia, sicchè, io preferisco non computarlo fra i normali, anche perchè nelle determinazioni successive mie e dei miei allievi non abbiamo mai più trovato un conte- nuto così alto. Le determinazioni dunque dalle quali parto per confronto diedero rispettivamente in Micani 0,0167 — 0,026 — 0,0159 — 0,0143 — 0,0206 — 0,0157 — 0,031 di Ca per 100 di cervello fresco. Un minimo come dissi di 0,0143 un massimo di 0,031 e un valore medio di 0,0226 fra gli estremi e di 0,01998 complessivamente fra tutti. Per il Mg. trovai sopra 6 casi rispettivamente 0,0149 — 0,0167 — 0,0152 — 0,0144 — 0,0143 — 0,0156, cioè un minimo di 0,0143 e un massimo di 0,0167 e un valore medio fra gli estremi di 0,0155 e di 0,0151 complessivamente fra tutti. Ho detto più sopra che la questione che mi ero proposto riguardava la possibilità che il cloruro sodico anche introdotto in circolo in tenui quantità ed in soluzioni che ordina- riamente sono ritenute innocue, desse luogo ad una perdita di Calcio nel tessuto nervoso centrale. . Ho ritenuto che una determinazione chimica diretta risolvesse la questione nel modo più sicuro, mentre le ricerche che ho citato non davano altro che degli argomenti di vero- simiglianza, ma non facevano presumere affatto una perdìta della calce cerebrale. In qualche caso ho eseguito la determinazione anche nel sangue prendendo un saggio normale prima della somministrazione del Cloruro sodico Questo è stato introdotto in soluzione 0,75 %, alla temperatura di 38° a 40° e per vie diverse e cioè 3 volte nella carotide, due volte nel peritoneo, una volta in via endovenosa ed una volta nello stomaco mediante sonda esofagea. Introduzioni parenterali e gastriche hanno dato il medesimo risultato, quanto a feno- meni presentati dagli animali, vale a dire nessun fenomeno. Dopo l'introduzione, qualunque essa fosse, il cane non mostrava disturbi di sorta, solamente le più abbondanti perfusioni diedero respirazioni un po’ più profonde, ma null’ altro; lasciati a sè gli animali non pre- sentavano niente di notevole, si potevano far camminare per il laboratorio senza che si osservassero lesioni funzionali. Le perfusioni che avevo eseguito precedentemente con soluzioni al 10‘, avevano intro- dotto da 0,25 a 2,85 di cloruro sodico per ke. di animale, sciolti rispettivamente in 2,5 c. c. e 23 e. c. di menstruo per kg. di cane, invece nelle tre perfusioni eseguite con soluzioni al 0,75% iniettai un minimo di gr. 0,061 di NaCl in gr. 8,21 di liquido per kg. di animale ed un massimo di gr. 0,10 in 13,3 c. ce. per kg. di animale. La velocità di iniezione fu la solita, che in un cane di 5 o 6 kg. permette di intro- durre nella carotide 20 c. c. in un minuto ed in un cane di 25 o 30 kg. lascia entrare nella carotide 100 c. c. in 2 0 3 minuti. Quanto alla somministrazione per lo stomaco essa fu Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 39 — 226 — eseguita con soluzione alla temperatura ambiente cioè a 20° circa, ma ia ricerca deve essere meglio sviluppata, non interessando quì che il fatto speciale che riguarda la disin- tegrazione del cervello, mentre ho in corso altre prove circa le condizioni peculiari dello assorbimento. Il decorso di questa serie di esperienze, quale risulta dal protocollo di laboratorio è il seguente : I. 18 Maggio 1910 — Vecchio cane di razza San Bernardo, pesa kg. 36,500. Alle 17,40 si iniettano nella carotide sinistra c. c. 100 di soluzione NaCl al 0,75% alla tempe- ratura di 37° si ripete l'iniezione alle 17,51 e di nuovo alle 17,55, non si osserva nessun fenomeno fuori di qualche atto inspiratorio un po’ più profondo del normale. Alle 18 si uccide l’animale per insuftlazione d’aria nella giugulare, si decapita per lasciar scolare il sangue dal cervello e sì estrae dopo 15° l’encefalo che pesa er. 85,85. II. 6 Giugno 1910 — Cagnetto bastardo pomero adulto, pesa kg. 6,500 Alle 17 si iniettano nella carotide sinistra 20 c. c. di soluzione Clotosodica Al075 70 alla temperatura di 40°, alle 17,10 si ripete l’ iniezione e così alle 17,13, non si osserva nessun fenomeno motorio, solamente un po’ di dispnea di profondità. Slegato tenta di fuggire. Alle 17,15 si uccide il cane con insufflazione d’aria nella giugulare, si decapita e si estrae il cervello alle 17,55. Esso pesa gr. 62,20. III. 7 Giugno 1910 — Cagnetto giovane pomero bastardo, pesa kg. 6. Si iniettano alle 16.40 nella carotide sinistra 40 c. c. di soluzione al 0,75% alla tem- peratura di 38°, si ripete l’ iniezione alle 16,45 e non si osservano spasmi, nè parziali nè generali. Si uccide alle 16,50 con insufflazione d’aria, l’animale però reagisce con grida e cloni forse perche | insufflazione non viene eseguita abbastanza rapidamente. Il cervello estratto dopo 15‘dalla decapitazione pesa gr. 63,10. IV. 11 Febbraio 1910 — Grossa cagna setter bastarda, in laboratorio da 6 mesi, pesa ke. 14,900. Si prende dalla carotide un campione di sangue di er. 64,35 e si iniettano nel peritoneo 500 gr. di soluzione di NaCl al 0,75%, alla temperatura di 40°, dopo 8° sì iniettano altri 500 c. c. L'animale non manifesta disturbi di sorta. Slegato dal tavolo di contenzione si fa girare nel laboratorio, non emette urina, resta calmissimo. Dopo 18° dall’ ultima iniezione si prende dalla carotide un secondo saggio di sangue, 55,90, e dopo 40° del termine dell'iniezione eseguita si estraggono dalla medesima carotide altri gr. 50,30. Poi si uccide il cane con insufflazione d’aria nella giugulare, si decapita si estrae l’encefalo, che pesa gr. 87,30. Nel cavo peritoneale si trovano c. c. 795 di un liquido sanguigno che con confronto colorimetrico eseguito mediante il sangue del secondo saggio, dimostra di contenere circa 53 gr. di sangue. Esso proveniva da una ferita addominale fatta per errore da chi doveva eseguire una semplice paracentesi. I visceri addominali erano tutti anemici, il liquido del- l’addome torbido per grasso sospeso e globuli bianchi. V. 20 Febbraio 1910 — Cane bracco bastardo, pesa k. 23,200 Prelevati gr. 59,87 di sangue dalla carotide alle ore 16 si iniettano con ago cannula dalle 1(,30 alle 16,45 a 100 c.c. per volta lentamente nel cavo peritoneale c.c. 500 di soluzione di NaCl a 0, 75 ‘% alla temperatura di 37°. L'animale slegato, lasciato a sè, non presenta nulla di notevole. Alle 17,40 si estrag- gono altri gr. 49,52 di sangue «dalla ‘carotide e si uccide il cane per insufflazione di aria nella giugulare alle 18. Nel cavo peritoneale si trovano 280 c.c di liquido sanguigno, tutto il peritoneo è iperemico, la vescica è piena, l’ intestino contiene molte fecce solide. Da un’ampia breccia cranica si estraggono gr. 35,71 di sostanza cerebrale e lasciata — 227 — a sè la carogna si eseguisce per altro scopo una perfusione dopo 20 ore, nella carotide del lato opposto a quello della breccia praticata. VI. 21 Aprile 1911 — Cagna barbona bastarda di kg. 15. Ha partorito il 1 Marzo 1911 dieci feti a termine, ne ha allattati fino ad oggi 2, gli altri furono uccisi a diverse scadenze. Mangiava molto. Alle ore 15 si prende un sag2io di sangue dalla carotide, gr. 36,9, e alle 15,15 si iniettano in via ipodermica ai lati dell’ad- dome in 2 volte c. c. 200 di soluzione NaCl al 0,9%. Nessun fenomeno si osserva, alle ore 15,40 sì estrae dalla carotide un altro saggio di sangue di gr. 28,20 e si nota che il li- quido iniettato è stato assorbito per due terzi circa. Alle 16 si estrae un terzo saggio di sangue carotideo cioè gr. 71 e si uccide l’animale per iniezione d’aria della siueulare. Incisa la cute nel ‘luogo delle ipodermoclisi si trova come un tessuto edematoso, che no lascia uscire fra una parte e l’altra un 30 c.c. di liquido. L’encefalo estratto dopo la decapitazione, pesa gr. 71,80. VII. 28 Marzo 1910 — Cagnetta adulta bastarda, pesa kr. 5,500 digiuna dal mattino alle 7 Alle ore 16 dopo avere preso un saggio di 14 gr. di sangue carotideo, si inietta nello stomaco con sonda esofagea e si introducono così c c. 290 di soluzione di NaCl al MIO Un'ora dopo si estrae dalla carotide un altro saggio di sangue, gr. 32,34, e si uccide la ono con insufflazione d’aria. L° encefalo pesa gr. 66,20; nello stomaco si sono trovati 255 c.c. di liquido che per errore andarono perduti. Esposti così i dati che segnano le condizioni sperimentali da noi prodotte, riuniamo in una tabella sola tutti i risultati delle determinazioni chimiche, riservandoci poi di illustrare separatamente i risultati e dividendoli a seconda della via di introduzione che venne scelta- È Via oi gr. Ca in grammi 9/4 | Mg in grammi 9/9 S di soluzione | di Na C1 9 } 3 cam assorbita per. Ke. nel sangue nel nel sangue nél z strazione Rel Kg: di cane ; 3 , È oz di cane prima dopo cervello prima dopo cervello | I | carotidea 821 | 0,061 == 2 0,0111 i _ 0.0157 II » TREO 0,069 Era a 0,0164 RA — | 0,0146 III » 13,3 0,099 * = 0,0097 — -_ 0,0155 IV ! peritoneale 17,8 0,129 | 0,00426 0,0042 0,032 0,0041 0,00319 | 0,0183 V » 9,48 | 0,071 |0,00538 | 0,00537 | 0,0138 | 0,0038 | 0,0028 | 0,0162 | 1° 00060 1 | 1° 0,00298 ROSE VI | ipodermica e 0900/0070 sai 0,0129 | 0,0034 I VOSCIISO 2° 0,0065 2° 0,00387 | VII | gastrica 6,45 | 0,048 | 0,0050 0,0050 | 0,0066 | 0,0062 | 0,0048 | 0,0143 Le prime tre esperienze con introduzione carotidea diedero veramente un risultato così chiaro e dimostrativo, che richiede poche parole di commento. Il Mg si è compor- tato in questi casi come in tutti quelli precedenti, in cui si iniettarono soluzioni concen- trate e cioè rimase nei limiti perfettamente normali cioè medio fra gli estremi 0,0151 e medio generale 0,0152, essendo come abbiamo scritto il valore medio normale fra gli — 293 estremi 0,0155 e il medio generale normale 0,015] ed è abbastanza naturale che ciò sia avvenuto; dato quanto si è notato nel mio lavoro precedente, aggiungo che questa co- stanza era facilmente prevedibile. Quanto al calcio si è trovato veramente meglio di quello che potesse pensarsi. Abbiamo ottenuto infatti con le perfusioni al 10%, un valore massimo di 0,0091 ed uno minimo di 0,0073 con una media di 0,0082 fra gli estremi ed una media complessiva di 0,00825 cioè sensibilmente la medesima e nei casi presenti con perfusioni appena al 0,75 ‘4, si è avuto un valore massimo di 0,0164 ed uno minimo di 0,0097, con una media fra gli estremi di 0,0180 contro una media normale fra gli estremi di 0,0223 ed una media com- plessiva di 0,0126 contro la .media complessiva normale di g,01998. La perfusione adunque di soluzioni al 0,75%, nelle carotidi ha portato una decalci- ficazione del 37 al 41°, a seconda che il calcolo si fa sulla media complessiva 0 su quella fra gli estremi e non ostante così grande diminuzione della quantità di Ca nel cervello la funzione di questo non si è mostrata per nulla modificata. Se cerchiamo di determinare le condizioni sperimentali corrispondenti al massimo effetto, troviamo che esse si riferiscono alla massima introduzione di cloruro sodico, che fu in questo caso di 99 milligr. per kg. d’animale, mentre negli altri due fu rispettiva- mente di 61 e 69. Nei casi di perfusioni con soluzioni ipertoniche le introduzioni per kg. di cane erano state molto più abbondanti, poichè la minima fu di 250 milligr. Ma anche in quella di 1110 milligr. non si ebbero tuttavia convulsioni e pure la decalcificazione del cervello fu massima. Dai quali risultati apparisce come non vi sia necessità di introdurre forti dosi di clo- ruro sodico, nè di introdurre questo sale in concentrazioni molto elevate, perchè la decal- cificazione avvenga e del resto esperienze che ho affidato a due miei allievi di Labora- torio Biancone e Catterini hanno dimostrato che la decalcificazione stessa avviene anche per soluzioni poco concentrate e introdotte in minor quantità. I,e esperienze IV e V riguardano un altro modo di introduzione, la peritoneale, che come è noto dà luogo ad un assorbimento molto più lento, quando si tratti di notevoli quantità di materiale, giacchè in buona parte l’ assorbimento medesimo si compie per mezzo delle vie linfatiche. In questi due casi la soluzione introdotta per kg. di animale fu nell’ uno il doppio che nell’altro e del resto presso a poco nei limiti osservati per le perfusioni. Gli animali fu- rono sacrificati a diversa distanza dall’iniezione e cioè solamente dopo 45° nel caso della maggior introduzione e ] ora e mezzo dopo nell’altro caso, sicchè è facile il comprendere come da un soggiorno due volte più lungo abbia potuto originarsi un assorbimento più abbondante di liquido e di Na Cl. Ciò in fatto si è verificato perfettamente perchè nel caso del più breve soggiorno (caso IV) scomparve dal cavo peritoneale e fu quindi assor- bito il 25,8%, del liquido introdotto e invece nel caso V fu assorbito il 44% cioè quasi il doppio. Naturalmente una più accurata determinazione come quella che ho iniziato sulla intensità di assorbimento, richiederebbe anche la ricerca quantitativa del Na Cl rimasto nel SIONE cavo peritoneale per poterne inferire più precisamente sulla sua influenza decalcificante. Io ho parlaio qui grossolanamente di assorbimento della massa iniettata, perchè già una grandissima influenza deve essere esercitata dalla superficie di assorbimento. Noi vediamo infaiti dalla tabella, che le prove chimiche eseguite sul sangue non di- mostrarono nessuna variazione nel contenuto in Ca, si è verificata invece una forte dimi- nuzione del contenuto in Mg, che dalle esperienze dei Dott. Biancone e Catterini sarà meglio illustrata con ricerche apposite. Nel cervello la decalcificazione fu nulla o almeno un effetto notevole si ebbe solamente nel caso del lungo soggiorno mentre nel N. IV si notò uno dei valori massimi osservati nelle esperienze ncermali. Ed alta pure si riscontrò la cifra del Mg. anzi nel caso IV fu una delle più elevate che io abbia mai osservato nel cervello. Tuttavia una perfusione eseguita per altro scopo nella carotide 20 ore dopo la morte dell'animale produsse una decalcificazione ulteriore, essendosi trovato 0,0102 di Ca e 0,0155 di Mg del quale fatto in esperienze speciali ha trattato un altro allievo di labora- torio, il Dott. Maimone. Conchiudendo sugli effetti della somministrazione endoperitoneale di soluzioni deboli di Na Cl, dobbiamo dire che esse non producono neunche per forti introduzioni quell’ azione decalcificante intensa, che abbiamo trovato per le perfusioni, giacené nella media fra i due estremi non si forma che la cifra di 0,0229, che rappresenta presso a poco la media normale fra gli estrenii determinata in gr. 0,0226. Per quanto sì riferisce al Mg mentre non è avvenuta nessuna perdita di questo ca- tione nei cervelli, che anzi dimostrarono un contenuto molto elevato, si è riscontrata una notevole perdita da parte del sangue in entrambe le esperienze e cioè nell’ una del 22 °/ e nell'altra del 26%; questo fenomeno è stato notato anche nelle altre prove eseguite nel «mio laboratorio. Passando ora alla somministrazione per via ipodermica che è rappresentata dall’ espe- rimento N. VI, osserviamo innanzi tutto, che tanto la dose della soluzione introdotta, quanto quella del sale somministrato si mantennero nei limiti ordinari delle altre esperienze. Un pò superiore fu per la quantità di sale, perchè la soluzione che venne adoperata era del 0,9 e non del 0,75%. l’intervallo di tempo trascorso fra l’ipodermoclisi e l’ uccisione dell’animale fu di 45, come nel caso IV, ma come si è detto 1’ assorbimento era seguito così bene che non si poterono trovare in luogo che 30 cc. dei 200 che si erano introdotti sicché la soluzione fu assorbita, quanto a massa nell’ 85. Il sangue estratto 25° dopo l’ipodermoclisi presentava una decalcificazione del 14%, e poco prima dell’ uccisione del cane cominciava già a rimettersi, perchè in esso la dimi- nuzione del Ca, desumendola per confronto col valore normale prima della ipodermoclisi, non raggiungeva che | 8,4. Così per il Mg, che nel primo saggio di sangue preso 25° dopo l'iniezione diminuì del 24 %, e invece nel secondo saggio preso 45° dopo lipodermoclisi superava la cifra normale. 2300 Quanto alla disintegrazione del cervello, notiamo che la cifra di 0,0129 rappresenta una decalcificazione del 35 sulla media normale complessiva di 0,01998 e per rispetto al Mg il valore trovato fu certamente un po’ più basso avendo raggiunto gr. 0,0139, mentre la media normale complessiva fu da noi calcolata in gr. 0,0151, avendosi così una perdita di 7,9% la quale forse rende conto dell’aumento riscontrato nel Me del sangue, notando che altri tessuti in tali contingenze possono perdere dei loro Mg. il che non è stato veri- ficato ancora. L'ultima prova di queste nostre esperienze è quella di una somministrazione per via gastrica. Certamente molto incostante deve essere l’ assorbimento in queste condizioni e relativo allo stato del tubo gastro enterico. Nel nostro caso il cane non aveva mangiato da 9 ore, doveva quindi avere, come si verificò alla necroscopia, lo stomaco vuoto. Il soggiorno della soluzione salina nel ventricolo fu di un’ ora, l’ animale non presentò feno- meni di sorta, ma l'assorbimento della massa parve minimo essendosi ritrovati nello sto- maco 255 ce. di liquido dei 290 introdotti con la sonda esofagea. Calcolato così come abbiamo fatto per gli altri l'assorbimento, che da osservazioni in corso ho veduto verificarsi in modo vario nei vari casi, il cane di prova avrebbe assorbito solamente ce. 6,45 di soluzione per kg. del suo peso e gr. 0,048 di Na Cl, cioè la dose minima fra tutte quelle delle altre esperienze. Il sangue non presentò infatti nessuna modificazione del suo contenuto di Ca, bensì una diminuzione rimarchevole del Mg e cioè del 22% sul normale. Nel cervello tuttavia si ebbe un fatto del tutto inatteso e sul quale non voglio qui pronunziarmi, perchè essendo esso troppo probativo non vorrei che non provasse nulla! L'animale era in laboratorio da poco tempo, esso poteva quindi essere mal nutrito, ma il fatto sta che non conteneva che 0,0066 di Ca, di sostanza cerebrale cioè avrebbe presentato una decalcificazione del 66,9%, calcolata sulla cifra media normale complessiva di gr. 0,01998. Un valore di questo genere ed anche più basso io ho trovato in giovani cani di 3 0 4 mesi di età, risultato che esporrò in un prossimo lavoro sulla influenza dell’ età, io non posso aire affatto che nel caso attuale si trattasse di un animale molto giovine, anzi appariva senz’altro adulto, era di razza piccola e non poteva esserci equivoco di questo genere, sicchè fino a prova contraria io credo di poter ammettere che una somministrazione di Na CI nello stomaco in soluzione al 0,75% può produrre una decalcificazione forte nel cervello nel termine di un’ora, quando sia fatta in dose di 53 ce. di soluz per kg. di cane e di gr. 9,59 di Na Cl per kg. di animale. Riguardo al Mg la differenza trovata non è sufficiente per inferirne qualche dato. Venendo ora a confrontare gli effetti dei diversi modi di somministrazione, se poniamo da parte il risultato ottenuto con l'introduzione gastrica sul quale mi riserbo di portare nuovi contributi, noi vediamo che la decalcificazione del cervello si produce in vario grado a seconda della rapidità con cui il Na Cl viene in contatto con la sostanza cerebrale, quando le altre circostanze, quantità del sale, concentrazione delle soluzioni sieno le stesse. — 231 — Infatti la introduzione peritoneale, che dà un assorbimento lento, non riesce a togliere il Ca dal cervello, come non lo toglie dal sangue, l’ ipodermoclisi dà un effetto notevole, la perfusione produce le azioni più intense e richiamando i risultati del mio lavoro pre- cedente faccio osservare che la stessa infusione nelle vene richiese una somministrazione doppia del sale per produrre tuttavia un grado di decalcificazione inferiore a quello ot- tenuto con le perfusioni. Le conchiusioni che si possono ricavare dalle mie esperienze sono quelle che seguono : I. Il cloruro di sodio in soluzioni dal 0,75 al 0,90%, somministrato per bocca, per ipodermoclisi, per perfusione nelle carotidi, in dosi da 5 a 10 centigr. per kg. di cane ed in un intervallo di tempo variabile da 10 a 90 minuti, produce una decalcificazione nel cervello che varia dal 35 fino al 66%, del Calcio contenutovi. II La somministrazione endoperitoneale anche di dosi superiori alle sopra dette non produce questo fenomeno. III. Mentre, qualunque sia la via di somministrazione, il Na Cl non toglie al cervello il Mg contenutovi, esso sottrae sempre questo catione al sangue in quantità che giunge fino al 26%. IV. Coteste sottrazioni di Calcio al cervello, di Magnesio al sangue, così come furono prodotte nelle nostre esperienze, non sono accompagnate da fenomeni apprezzabili nel campo della motilità e della sensibilità. V. Per queste osservazioni io proporrei il Na Cl per via gastrica, intestinale o ipo- dermica nella cura dell’arteriosclerosi, nel periodo che precede le alterazioni renali e le diete declorurate nell’osteomalacia e nel rachitismo. a Feet Bier COSSERVAZIONIE ETRTCERCHE MURS RIECIALI SCARICHE ELETTRICHE (OMO) OIONOTOCKOT® (OO) NOTA DEL eos VORO AMADUAZI (letta neila Sessiene ordinaria del 23 Aprile 1911). (cOn 4 FIGURE NEL TESTO) È noto da parecchio tempo il fatto seguente, messo in rilievo e studiato ampia- mente da Lehmann (1) specialmente, che se due conduttori in forma di sfere sono congiunti ai poli di una macchina mossa con continuità, sono affacciati |’ uno all’ altro e se ne può variare la distanza rispettiva col variare la distanza, la scarica fra le due sfere passa con una certa continuità atiraverso a quattro stadi consecutivi. Pro- cedendo da una distanza discretamente grande a distanze di più in più piccole si ha la scarica per bagliore (Glimmentladung) (2) interessante le regioni limitrofe agli elettrodi; la scarica arboriforme (Bischel-entladung) pure non continua da un elettrodo all’ altro; la scarica @ striscie (streifenentladung) costituita da striscie azzurre che partono dall’ elettrodo negativo e da arborescenze che esse raggiungono e che partono dall’ elettrodo positivo; la scarica per scintille dapprima meno e poi più numerose. Come ricordai in una precedente Nota (3), molti anni or sono ebbi occasione di rilevare che se si varia la distanza fra gli elettrodi collegati ad una buona macchina mossa molto rapidamente, uno dei quali elettrodi sia una punta smussa e l altro un disco, le vicende della scarica si accrescono e si modificano in modo da aversi, col diminuire graduale della distanza fra gli elettrodi, dei quali la punta è positiva ed il disco è negativo : Aspetto I. - Fiocco violaceo alla punta, che da questa si diparte attraverso ad un filamento rossigno. (1) Wied Ann. XI, 4. 1880. (2) Feddersen - Pogg. Ann. Iubelband 1874. (3) Rend. Accademia di Bologna. Nuova Serie, Vol. XIII pag. 112. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. DI — 234 -- Aspetto II. - Abbondante effluvio violaceo che occupa tutto lo spazio interposto fra gli elettrodi e che dalla parte della punta si inizia con breve filamento rossigno. Aspetto III. - Scintille lineari bianche verso il disco e gialle verso la punta. Aspetto IV. - Effluvio violaceo copioso che sembra il più delle volte rimbalzare sul disco. Manca del filamento rossigno. Aspetto V. - Scintille lineari per la massima parte bianche. Aspetto VI. - Scintille lineari apparentemente ingrossate, bianche agli estremi prossimi agli elettrodi. e di un color violaceo nella rimanente parte centrale. Sl ha l’ impressione che questo colore violaceo sia determinato da una semplice guaina. Aspetto VII. - Scintille lineari bianchissime e nutrite. Di recente i signori P. Villard ed H. Abraham (1) ebbero occasione di rico- noscere che il potenziale esplosivo V, agli estremi di uno spinterometro a elettrodi sferici, meglio se il positivo sia. a piccolo diametro ed il negativo a grande diametro ’ od in forma di disco, poteva, per mezzo di alcune precauzioni, venire sorpassato senza produzione di alcuna scintilla. Questo accrescimento della tensione è tuttavia limitato, e, per uno spinterometro dato esiste oltre al potenziale esplosivo V,, un secondo poten- ziale esplosivo V, che può. essere il doppio del primo, caratterizzato da un regime tutt’ affatto differente di preparazione della scintilla, la produzione di questa essendo preceduta, non più dalla apparizione di fiocchi ma dalla formazione sull’ anodo di un bagliore persistente visibile anche in pieno giorno ». « Si può anche operare a potenziale costante e far variare la distanza degli elet- trodi. Si trovano allora per ogni potenziale due distanze esplosive, mentre che non sì ha mai scintilla per le distanze intermediare. Così, per il primo potenziale esplo- sivo V,, solo osservato in generale, la scintilla è sotto la dipendenza del fiocco pre- paratorio e costituisce, in qualche guisa, un accidente che è. possibile evitare. Il secondo potenziale V,, al contrario, sembra corrispondere ad un fenomeno normale a preparazione regolare. Fra questi due valori, il regime luminescente è perfettamente stabile ed una scintilla non è possibile che coll’ intervento di una azione esterna ». Poichè in nota alla loro Comunicazione i Signori Villard ed Abraham ricor- davano che « varie osservazioni di Nicholson (1787) di Faraday e di diversi altri fisici, sulle scariche per bagliore (glowdischage, glimmstrom) e su certi ritardi alla scarica, si riattaccan sia al fenomeno ben definito descritto, sia ad altri modi di scarica del tutto differenti » mi permisi (2) in una breve comunicazione all’Acca- demia delle scienze di Parigi di ricordare le mie citate osservazioni, facendo rilevare che nel caso di elettrodi a punta ed a disco da me osservati e studiati, la luminosità superficiale od epipolica dell’ anodo, manìifestantesi per le distanze degli elettrodi cor- rispondenti ai due potenziali di scintille V, eV,, si traduceva in una luminosità con- tinua fra anodo e catodo (Aspetto IV). (1) Comptes Rendus T, 150, p. 1286. (2) Comptes Rendus T, 151, p. 140. — 235 — I due fisici francesi mi risposero (1) come avrebbero dovuto se io avessi asserito d’ aver primo osservato la luminosità epipolica dell’ anodo, dichiarando questa volta in modo deciso che il fatto da loro preso in esame era già stato descritto dal Fara- day e dal Lehmann, che non era più da scoprire nel 1904 all’ epoca delle mie prime osservazioni, è che essi si eran solo proposti di precisarne le caratteristiche. Non replicai allora, ma giacchè ora mi se ne presenta l° occasione osservo che io intendevo come risulta dalla mia Nota, segnalare un fatto (quello della luminosità continua fra gli elettrodi, sostituente, nel caso di elettrodi a punta smussa e disco, la luminosità epipolica) da me messo in rilievo, che dava ragione di pensare ad una variazione di aspetto della scarica col variare della distanza esplosiva piuttosto che alla esistenza di due potenziali esplosivi. « Ho considerato il fenomeno — concludevo nella mia Nota — in un modo obbiet- tivo quale una variazione dell’ aspetto della scarica in corrispondenza di una varia- zione della distanza esplosiva ». Comunque, a più riprese mi sono occupato dei caratteri più salienti delle varie forme di scarica che si succedono al graduale accrescersi delle distanze fra gli elet- trodi. Particolarmente mi son fermato sulla forma di scarica a lungo fiocco violaceo, (Aspetto II), come quella secondo me più interessante. Oggetto di questa Nota è il riferimento di esperienze e misure eseguite : 1° Per indagare come varia il potenziale esplosivo al variare della distanza fra gli elettrodi specialmente in corrispondenza di quell’ intervallo di distanza per cui si ha quella determinata forma di scarica a fiocco violaceo o come si suol dire ad effluvio indicato colla denominazione di Aspetto IV. Ciò principalmente perchè sul conto di questo aspetto non fu possibile eseguire utilmente col mezzo di una sonda delle misure sulla distribuzione del potenziale, come si potè fare invece per 1° altro effluvio violaceo chiamato scarica ad aspetto II. 2° Per stabilire come si modificano le vicende varie di scarica col diminuire graduale della pressione dell’ aria interposta al disotto della pressione atmosferica. TE Pel primo dei due suesposti argomenti di ricerca mi sono servito di un volta- metro per altissimi potenziali costruito dalla Casa Westinghouse (Pittsbrug. U. S. A) e munito di una graduazione doppia per differenze di potenziale da 0 a 50000 volta e da 50000 a 100000. L’ ago in forma di rettangolo, terminato ai lati verticali da bordi arrotondati secondo piccola curvatura, è sospeso verticalmente, è mobile intorno al proprio asse verticale e porta un indice orizzontale mobile su di un quadrante graduato. Esso sente l’ azione di due conduttori arcuati muniti di capacità e collegati con due reofori ben lunghi e ben protetti da materiale isolante alla loro superficie (1) Comptes Rendus 1°. 151, p. 177. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 34* — 236 — salvo che ai loro estremi da collegare coi due punti fra i quali interessa conoscere le differenze di potenziale. Ago e conduttori arcuati si trovano entro una ampia cassa ripiena di ottimo olio isolante. Per effettuare le misure, credetti prima conveniente confrontare per i potenziali più bassi le indicazioni dell’ apparecchio con queile fornite da un voltametro ad ago verticale di Thomson e per potenziali più elevati a quelle della scintilla equivalente fra sfere di un cm. di diametro. Posi poi, dopo i confronti indicati che mi dimostrarono sufficientemente buona per una prima parte la graduazione dell’ apparechio e mi portarono quindi la fiducia nella bontà dell’ ultima parte, gli estremi liberi di questa in derivazione sui conduttori a distanza variabile dello spinterometro, e procedetti alle misure. Riporto qui sotto due serie di misure riferentesi, la prima al succedersi degli aspetti dal VII° al IV°, e la seconda all’ aspetto IV seguito per breve tratto dall’ aspetto IIl. a) Distanza fra gli elettrodi Potenziale esplosivo dello spinterometro. in Volta. cm. 1 e e 000 2 cea e ubi A e A 20000 3 doge cile Dion iec ui 6 30000 spelto VM, po io ea ei 0000 | 4 RCS 4,5 50000 e 0) DCR ee Ae 900 I Aspetto VI. 6 56000 | 6,5 63000 TI 000 \spello e 000 8 CA 0000 So ee e SS 00) 9 uil, iileog e fare ST000 Soi Ae 008 TO 0 LI Re SOZI0O Il ee E 000 1,5% e 0000 12 i e e OOO b) Distanza fra gli elettrodi. 9 9,5 10 10, 5 ll 11,5 12 12,5 13 3,5 14 Potenziale esplosivo. 80000 82000 84000 86000 88000 90000 91000. 93000 94000 97000 più di 100000 Aspetto IV. cessa l’ effluvio e si hanno scariche a scin- tilla. Aspetto III. Rappresentando graficamente l’ andamento dei fatti si ottengono le curve delle figure. 70 60 50 Lo 30 20 L{6) © }------------------+---------------.--- Leo ga Distanze = 038 La curva della figura 1 riguarda dal suo inizio sino ad A l’ aspetto VII, da A a B |° aspetto VI, da B a € l’ aspetto V, da C a D l'aspetto IV e più oltre, pel bre- vissimo tratto considerato, l’ aspetto III. La curva della figura 2 riguarda dall’ inizio sino ad A aspetto IV netto e puro, da B a C l’ aspetto III e da A a 2 una condizione di passaggio dall’ aspetto IV all’ aspetto III. Non sembra privo di interesse il risultato ottenuto, in quanto esso mostra per la 100 mula lotta 90 80 fase dell’ effluvio ad aspetto IV una variazione del potenziale esplosivo proporzionale alla variazione della distanza. Ciò fa pensare ad una caduta di potenziale lungo la scarica ad effluvio sensibil- mente proporzionale alla lunghezza di questo. La qual cosa merita di essere ravvicinata alla osservazione da me fatta (1) a (1) Rend. Acc. Bologna Il. c. = Sggg e proposito dell’ aspetto IV, che cioè la scarica avente questo aspetto si mostra allo specchio girante a circa 600 giri al minuto, dotata di una continuità che non si rin- viene invece per gli altri aspetti della scarica. O0E, Per ciò che concerne il secondo degli argomenti di ricerca che formano oggetto di questa Nota ho dovuto ricorrere al dispositivo sperimentale seguente. y E B “@«--:;--«« rr eesosa Fig. 3. 8S__ Al manometro i f Alla pompa Un pallone di vetro quale è rappresentato dalla fig. 3 è attraversato in corri- spondenza di tre aperture, chiuse poi a perfetta tenuta d’ aria con mastice fusibile : 1° da un conduttore terminante verso l’ interno con un disco G a contorno arrotondato e verso l’ esterno con una sferetta metallica. 2° da un tubo di vetro C aperto verso 1’ interno del pailone, chiuso all’ altro estremo mediante un cappelletto metallico, cui, internamente al tubo, è saldata una i e spirale di ottone. Questa spirale si continua entro un altro tubo di vetro £ di dia- metro un po’ più piccolo del diametro di €, introdotto e mobile in questo, chiuso in F da una punta smussa di alluminio alla quale è saldato 1 estremo libero della spirale. 3° da un tubo di vetro I munito di rubinetto a tre vie che ne consente la comunicazione con un manometro o con una pompa pneumatica Come è faciie intendere, con piccole scosse date al sistema si possono avvicinare od allontanare più o meno la punta X ed il disco G che per mezzo degli estremi metallici D ed M possono collegarsi ai conduttori della macchina elettrostatica. La distanza fra f e G può misurarsi in ogni caso con riferimento ad una scala milli- metrata incollata sul tubo © e sulla quale si legge la posizione dell’ estremo N di £. Si tratta dunque di uno spinterometro a distanza variabile fra i conduttori, col- locato in un ambiente del quale mediante il tubo ZL può variarsi la rarefazione. La pressione dell’ aria nell’ ambiente può poi misurarsi facilmente mediante un manometro a mercurio. Gli estremi M e D dei conduttori dello spinterometro venivan collegati durante le esperienze coi conduttori della macchina di Holtz, e mediante un interruttore oppor- tuno si poteva mettere su di essi in derivazione uno spinterometro a vite micrometrica con sfere di ottone aventi il diametro di un cm. Questo per fare, per mezzo della scintilla equivalente, delle misure di differenze di potenziale. Il voltametro usato per le scariche nell’ aria alla pressione ordinaria, mostrava di perturbar troppo il regime delle scariche medesime allorchè queste si producevano in ambiente rarefatto. Per tale ragione dovè essere abbandonato e sostituito dal vecchio sistema della scintilla equivalente. I risultati ottenuti vengono riassunti come segue : a) Dalla pressione atmosferica sino ad una pressione di circa 45 mm. le vicende della scarica si mantengono alla stessa maniera come furon già descritte. b) Alla pressione di 440 mm. sì hanno, a partire dalla distanza. massima fra gli elettrodi ottenibile nel tubo di scarica, i seguenti aspetti, a proposito dei quali sì indicano le distanze fra i conduttori. — 241 — Distanza fra gli elettrodi i Aspetto della scarica mm. 145 effluvio violaceo filiforme debolissimo. 105 ancora cc. S. (49) effluvio violaceo più intenso. 30 CS 20 effluvio rossigno. 10 ancora eftiuvio rossigno. 19) effluvio rosso violaceo. c) Alla pressione di 290 mm. si hanno i seguenti aspetti : Distanza fra gli elettrodi ; Aspetto della scarica mm. 145 effluvio violaceo debolissimo e filiforme. 100 effluvio violaceo debole e diffuso. 65 CHASE 45 effluvio rosso violaceo più tendente al rosso. 20 effluvio paonazzo. To 10 , effluvio violaceo. d) Alla pressione di 210 mm. Distanza fra gli elettrodi x i ica NET Aspetto della scarica mm. Li 145 efHluvio violaceo. 110 effluvio violaceo diffuso. 85 CS. T0 effluvio rossastro. 50 effluvio rossastro debole. 40 CHASI 30 fiocco rossastro alla punta. 20 \ 10 effluvio violaceo. 6 e) A pressioni variabili da 160 mm. ad 85 mm. si hanno tre fasi principali almeno sino alla massima distanza fra gli elettrodi sperimentata. Per piccola distanza d (variabile come diremo colla pressione) fra gli elettrodi si ha una scarica diffusa rosso violacea. Per distanza maggiore si ha un fiocco rossigno alla punta. Per di- stanza più grande ancora D (variabile colla pressione) si ha un effluvio pressochè filiforme rossigno nelle regioni prossime agli elettrodi e di un color viola nella regione mediana. Il massimo valore di d ed il minimo di D variano colla pressione per modo che il primo diminuisce col crescere della pressione e 1’ altro aumenta. Questo aumento avviene in modo più rapido di quel che non avvenga la diminuzione, come indica il seguente prospetto. Pressione CE Gori D min. 85 mm. CMARZIO gu II 110 mm. cm. 2 CM 4, — 243 — f) A pressioni comprese fra i 90 mm. ed i 30 mm. sì possono osservare due sole fasi di scarica, per le distanze possibili fra gli elettrodi. Esse si possono ritenere le prime due considerate nel paragrafo e). Per piccole distanze d fra gli elettrodi si ha la scarica diffusa rosso violacea e per distanze maggiori si ha il fiocchetto rossi- gno alla punta. Il massimo valore di d diminuisce col crescere della pressione nel modo seguente Pressione d mass. 30 mm. GIMMINS 45 mm. CM, 9,2 65 mm. CINANO O Rappresentando graficamente la variazione colla pressione del massimo valore di d Distanze (0) to 26 do So 50 60° fo 80 90 itc0 no 120 UREON si ottiene la curva della fig. 4 se ai valori considerati in questo paragrafo sì aggiun- gono anche quelli considerati nel paragrafo precedente. Concludendo, la scarica assume vicende discretamente nette alla pressione ordi- naria ed a pressioni non molto lontane da questa. Per certi valori più bassi della pressione essa mostra una variabilità meno precisa. — 244 — Finalmente, per valori ancora più bassi essa mostra per le distanze sperimentate, alcuni aspetti ben definiti e accenna a seguire nella variazione di elementi caratte- ristici di questi aspetti, delle regole ben determinate. Si direbbe che fra la pressione di 450 mm. e quelle di circa 200 si sovrappon- gano e si confondano il regime di scarica alla pressione atmosferica e quella di scarica a bassa pressione. Non sembra tuttavia fuor di luogo notare, per le osservazioni fatte alle pressioni da 440 a 210 mm,, l’ apparizione di una scarica ad effluvio rossastro a distanze di più in più grandi col crescere della distanza fra gli elettrodi (20 mm. per la pres- sione di 440 mm; 45 mm. per la pressione di 290 mm.; 70 mm. per la pressione di 210 mm.). CONDUCIBILITÀ ED ISTERESI FOTOELETTRICA DI MISCELE ISOMORFE SOLEO-SELENIO. È SELEMO-TELLURIO NOI LAVORO AMADUZZI e MAURIZIO PADOA (letta nell’ Adunanza del 21 Maggio 1911) (CON UNA FIGURA NEL TESTO) 1. Riferiamo brevemente in questa Nota i principali risultati ottenuti da una serie di ricerche intraprese sul comportamento fotoelettrico, (in ordine alla variazione di conduci- bilità elettrica per illuminazione) di cristalli misti dei sistemi binari solfo-selenio e selenio- tellurio. | Si trattava di vedere se e come lo solfo ed il tellurio rispettivamente, modificassero le note proprietà del selenio cristallino mescolandosi ad esso con formazione di soluzione solida. Abbiamo a tal fine studiata la variazione della conducibilità elettrica delle miscele coila illuminazione, e la variazione nel ritorno all’ oscurità, per rilevare i caratteri di una eventuale isteresi. Inoltre abbiamo studiata la variazione col tempo della conducibilità delle miscele soggette ad una determinata illuminazione, nonchè la variazione col tempo della condu- cibilità medesima dal momento dell’ oscuramento successivo a tale illuminazione. Le miscele studiate venivano opportunamente preparate in celle costruite con fili di rame su steatite, materiale questo di facile lavorazione e di buona resistenza alla tem- peratura cuì dovevano essere portate le iniscele per provocarne la cristallizzazione. 2. Miscele solfo-selenio. — Dagli studi di Ringer (1) su questo sistema binario risulta che per un contenuto inferiore al 90 atomi ‘ circa di selenio si hanno dei cristalli misti in forme diverse da quella del selenio metallico, epperò era da prevedersi che solo entro questi limiti si sarebbero potute avere miscele sensibili alla luce. Infatti abbiamo constatato 0 che una cella formata con una miscela contenente 80,04 atomi ‘“, di selenio aveva debole conducibilità ed era assolutamente insensibile. (1) Misebkrystalle von Lehwefel und Selen, Zeitschrift fir Anorganische Chemie 32, 183. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 35 — 246 — Abbiamo eseguite misure su miscele della seguente composizione : a) 1) Solfo 11,01 atomi % Solfo 4,116 atomi % Selenio 88,99» >» Selenio 95,884» » La sensibilità, espressa mediante il rapporto fra la conducibilità al buio e quella im- mediata per la illuminazione a 81 Lux risultò rispettivamente di 1,20 e 3,6 in relazione diretta quindi al contenuto in selenio. La curva di variazione della conducibilità colla illuminazione mostra nettamente come la miscela 0) abbia ancora una marcata sensibilità alle variazioni nel campo delle luci forti, mentre la curva corrispondente alla miscela a) mostra molto piccola la sensibiltà di questa per tali luci. Notevole, a proposito di queste miscele solfo-selenio, è il fatto che nel ritorno per gradi alla oscurità dopo una graduale illuminazione appariscono per la miscela @) valori delle conducibilità inferiori a quelli misurati, nella fase di illuminazione, mentre che per la miscela 2) si ha comportamento inverso. Il che fa ritenere che una miscela a com- posizione intermedia potrebbe mostrare valori di conducibilità per la fase di oscuramento coincidenti con quelli delle fasi di illuminazione. Su questo ci proponiamo di esperimentare ancora perchè ci sembra che non sarebbe privo di interesse trovar modo, coll’ aggiungere solfo a selenio, di eliminare quel fatto di isteresi che nel selenio è discretamente pronunciato. 3. Miscele selenio-tellurio. — Secondo le ricerche di Pellini e Vio (1) il selenio ed il tellurio sono completamente miscibili tanto allo stato liquido quanto allo stato solido. Per ora noi abbiamo esaminate le miscele sino al contenuto in tellurio di 6,513 atomi %. Ordiniamo qui le miscele studiate (e denominate secondo |’ ordine di preparazione) in serie per la decrescente loro sensibilità alla luce. Si esprime anche per esse tali sensibilità mediante il rapporto fra la conducibilità al buio e quella immediata per una illuminazione a 81 Lux. Miscela I Sens, 2,18 Ne ROSS 0,553 atomi % Miscela III » Ioi® Re/AMEL9N 0,935 atomi ‘ Miscela IV » 1,31 Me 2409 1,967 atomi % (1) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei 1906, II. 46. Miscela II Sens. ; 1,15 l'e 4% 3,899 2,384 atomi % Miscela V » TATO Te % 6,008 3,870 atomi %, Miscela VI » 1,08 L'eR/AAl0:09)1 6,513 atomi %, Come apparisce chiaramente la sensibilità delle miscele va decrescendo al crescere del contenuto in “ di tellurio. La variazione rispettiva della sensibilità e del contenuto in © di tellurio viene bene rappresentata dal diagramma, sul quale lungo l’ asse delle ascisse si rappresenta il per cento di tellurio e lungo |’ asse delle ordinate la sensibilità misurata. I II IV ua VA VI Gomp. delle VI miscele Se la sensibilità alla illuminazione debole segue regolarmente la composizione, non avviene altrettanto per le variazioni di illuminazione nel campo deile luci forti. Ciò porta a distinguere le varie celle da noi preparate colle indicate miscele, per una differente durezza, secondo la nota locuzione di Ruhmer. Dalle nostre misure tali celle appariscono di crescente durezza nel seguente ordine : IL IV, 08 II, VI, V. 4. Miscele solfo-tellurio. — Data la posizione chimica intermedia del selenio fra il solfo ed il tellurio tentammo di rinvenire in una miscela solfo-tellurio la proprietà fotoelettrica del selenio, ma con esito completamente negativo. 5. Le osservazioni relative alle isteresi delle miscele selenio-tellurio e quelle sulla variazione della conducibilità col tempo non presentano tale interesse che giustifichi la esposizione loro in questa brevissima Nota preliminare. Crediamo opportuno dichiarare che in questo lavoro, della parte fisica si è occupato più specialmente L. amaduzzi e della parte chimica più specialmente M. Padoa. AVANZI DI “ TURSIOPS., DEL PLIOCENE SENESE MEMORIA DEL Prof. VITTORIO SIMONELLI (letta nella Sessione del 28 Maggio 1911). CON UNA "l'AVOLA In una pubblicazione mia giovanile sopra il territorio di San Quirico d'Orcia in pro- vincia di Siena (1) decantai l’abbondanza straordinaria di avanzi di vertebrati — di pesci, la più parte, ma di testuggini anche e di coccodrilli e di delfini — che avevo riscontrati in una porzioncella limitatissima del Pliocene locale; nei sodi di Selvapiana, situati a mezza costa della pendice che da San Quirico scende al torrente uoma, subito a sinistra della strada romana. Mi si consenta di ricordare che giusto nelle argille glau- conifere a Pecten hystrio e ad Ostrea cochlear di Selvapiana, insieme a migliaia e migliaia di resti di selaciani, mi capitò di raccogliere il bellissimo dente di Pthyckhodus che il Meneghini si degnò di presentare in mio nome alla Società Toscana di Scienze naturali, segnalandolo come il primo e l’unico trovato sino a quel tempo in terreno dichiaratamente neogenico (2). Da una località poche centinaia di metri distante da Selva piana, dai sodi del podere detto « Palazzo » costituiti pur essi di argille glauconifere a Pecten hystrix e ad Ostrea cochlear, ho avuto in questi ultimi tempi una serie copiosa di ossami e di denti, trovati tutti lun presso l’altro, che senza difficoltà si davano a riconoscere come spettanti a un grosso delfinide. Disgraziatamente le ossa eran quasi tutte in miserevolissimo stato; per colpa, principalmente della marcasite onde un tempo dovettero essere impregnate, e che alterandosi determinò in seguito la formazione di selenite, a spese soprattutto della parte calcarea delle ossa medesime; come pur troppo quasi sempre accade per gli avanzi dei cetacei e dei sirenoidi in questa sorta di crete, immancabilmente cosparse di monete del diavolo e di rose di gesso. Fu solo possibile, con molta pazienza, ricomporre mercè tali avanzi buona parte di un teschio e un atlante quasi completo; si dovette rinunziare al (1) V. Simonelli. I dintorni di S. Quirico d’Orcia. Boll. d. R. Com. Geol. It., 1881. (2) Proc. verb. d. Soc. ose. di Sc. Nat. residente in Pisa. Adunanza del 14 marzo 1877. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 36 — 250 — ristauro di numerose altre vertebre, costole ecc., di cui non si avevano che frammenti di poco conto. Ma già il teschio e l’ atlante eran bastevoli per indicare che sì trattava con sicurezza di un delfino spettante al genere 7ursiops, non però identificabile con alcuna delle tre specie di questo genere segnalate per l’ innanzi nel Pliocene (1). Da ciò 1’ opportunità di darne notizia, come mi provo a fare nelle pagine seguenti. Abbiamo potuto ricostruire interissimo il rostro e ricomporre soddisfacentemente la regione supero-anteriore del cranio, compresa fra le apofisi preorbitarie e la sutura fronto- occipitale: eccetto un’ampia breccia mediana dei premascellari, che ci porta via tutto il margine anteriore degli orifizi nasali, e un’altra breccia, pure irrimediabile, che cì fa perdere tutta la porzione postorbitaria del mascellare e del frontale di destra. Oltre i mascellari e i premascellari, nell’avanzo da noi ristaurato figurano ambo gli jugali, tutto il frontale sinistro, il mesetmoide, i nasali, una piccolissima parte del parietale sinistro e una porzioncella anche del palatino pure di sinistra. Salvo queste ossa, non cì resta del cranio che un mucchio di scheggiuole, fra cui neppur due che tornino bene una all’altra. In ogni modo, abbiam capisaldi abbastanza per una istruttiva comparazione craniolo- gica del Tursiops del « Palazzo » con le forme congeneri plioceniche e attuali (2). Ecco, per cominciare, le principali misure del nostro avanzo: Lunghezza massima, dall’apice del rostro alla sutura fronto-occipitale, mm. 535 Lunghezza massima del rostro, dall’ apice alla retta tangente i mar- gininposteriori delle tacche Mpreorbita rie RSA 005 Larghezza massima del rostro, da margine a margine interno delle racche: preorbitaneni.! Sage Seno Larghezza fdel#rostro ‘a tmetazdell'afsuaglunoh'ezza eee e e 0 Proporzionatamente al diametro longitudinale del cranio, misurato fra la punta estrema (1) Nel Catalogus' Mammalium di Trouessart (Berlino, 1898-99, ©. II, pag. 1029) sono indicate soltanto due specie plioceniche del gen. Z'ursiops: 7. Cortesiù Desmoul., comprendente una varietà astensis Sacco; e T°. Brocchii Balsamo Crivelli. Conviene aggiungere una terza specie : T. Capellinii Sacco, di cui non si fa cenno dal Trouessart neppure nel supplemento ultimo del Catalogus pubblicato nel 1904: specie pur dimostrata validissima, oltrechè dall’ ampia illustrazione datane dal Sacco stesso, dagli studi posteriori di Alberto Del Prato. (2) Grazie all’ usata liberalità del Sen. Capellini, mi son potuto valere, pei confronti, del ric- chissimo materiale cetologico radunato nel Museo di Bologna. Quivi ho avuto a disposizione : pel Z'ursiops Cortesti, i modelli in gesso del cranio e dell’ atlante del classico esemplare cortesiano della V’orrazza ; pel 7. Brocchii gli avanzi importantissimi descritti dal Capellini nella sua memoria sui Delfini fossili del bolognese (Mem. dell’ Acc. d. Sc. d. Istit. Bol., 1. III, Serie II, 1864) più un magnifico scheletro, non ancora illustrato, proveniente dal Pliocene di Orciano; e infine, pel 7. Z’ursio, un bel cranio donato al Capellini quasi mezzo secolo addietro dall’ illustre suo collega Calori. — Pel 7. Capellinii mi son dovuto riferire alle descrizioni e alle figure date dal Sacco (Delfino pliocenico di Camerano Casasco, Mem. della Soc. It. delle Sc., tomo IV, serie 3%, N. 5. Napoli 1893) e da Del Prato (Il Tursiops Capellinit Sacco del Pliocene piacentino, Palaeonthographia italica, VOlSIUNPgeisan 397% -- 251 — del rostro e la sutura fronto-occipitale, il rostro viene ad avere circa la stessa lunghezza che ha nel 7. Brocchii (Bals. Criv.) se mai qualcosa in più che in meno. Risulta invece sensibilmente più corto che nel 7. Cortesi (Desmoul.) e nel 7. tursio (Fabr.) e, all’ in- contro, più lungo, ma di molto, che nel 7. Capellinii Sacco. Considerato il rostro isolatamente, e preso come unità di misura 4» della sua lun- ghezza, otteniamo, comparatamente alle altre specie già nominate, le cifre seguenti : Larghezza del rostro alla base Larghezza del rostro nel mezzo Esemplare di S. Quirico 49 Sil TCA 5Il DO UPON. 51 290 LC I 7 43 MB SONE i. . 50 29) Proporzioni, come si vede, discordanti pìù o meno da quelle di tutte le altre forme messe a confronto; ma sopratutto marcatissimamente diverse da quelle che si rilevano nel Tursiops Capellinii. Veniamo ad esaminare partitamente il nostro esemplare. Nella porzione rostrale il margine esterno dei mascellari esordisce notevolmente con- vesso; ma è così per un tratto brevissimo, fino a non più di una cinquantina di millimetri dal margine posteriore delle tacche preorbitarie. Indi in poi corre quasi rettilineo fino a pochissima distanza dalla punta del rostro. Solo una trentina di mm. prima di questa, piega bruscamente verso l’indentro, per andare a battere e a terminare contro il margine esterno dei premascellari, che spingonsi da soli per circa 10 mm. oltre il confine estremo dei mascellari predetti, e da soli costituiscono il mucrone terminale del rostro. Come il margine esterno, si mantiene pure quasi rettilineo, per la massima parte della sua lunghezza, il margine con che i mascellari confinano coi premascellari nella faccia superiore del rostro: press’ a poco così come accade nel Tursiops Cortesii, nel T. Brocchii, nel 7. fursio, e a differenza, aggiungiamo, di quel che si riscontra nel 7. Capellinii. Di quest’ultima specie sappiamo infatti esser caratteristica la conformazione del rostro 0r- copsoidea, risultante, oltre che dalla inarcatura verso l’ esterno del margine libero dei ma- scellari, dall'andamento sinuoso del margine esterno dei premascellari, stretti nella regione posteriore, dilatati nella mediana, di nuovo tornanti a ristringersi nella regione an- teriore. Sempre nella faccia di sopra, i premascellari mantengono per quasi tutto il loro de- corso, larghezza uguale, o, se mai, un tantino inferiore a quella dei mascellari. Nei due terzi posteriori del rostro son quasi piatti e si elevano di pochissimo sulla superficie pure pianeggiante dei mascellari; nel terzo anteriore, invece, i premascellari appaiati offrono, in senso trasversale, una pronunziata convessità, raccordantesi a dritta e a sinistra con la superficie pronunziatamente declive dei mascellari contigui. —iRb2k= Trattandosi di un avanzo deformato come il nostro, non è il caso d’insistere più oltre su minuti particolari di questa sorta: particolari del resto, che ben poco significherebbero anche se rilevati sopra un esemplare perfettissimo. Si sa ormai troppo bene come nei Del- finidi in generale la forma del rostro e l’andamento della linea di confine tra mascellari e sopramascellari variino non soltanto da specie a specie, ma da individuo a individuo, se- condo il sesso e l'età. Il buono è per noi nella faccia inferiore del rostro. Dirò di volo che la superficie pa- latale dei singoli mascellari, salvo il terzo posteriore, dov’è il forte rilievo che si raccor- dava coì palatini, sì mostra uniformemente piana, o appena appena convessa in senso tra- sversale; senza traccia nessuna di solchi longitudinali, sul genere di quelli che immanca- bilmente si riscontrano nei veri e propri De/prinus. Quel che più importa è che i mascel- lari ci lascian vedere completa la serie degli alveoli dentari. Nel mascellare destro, ch? è il meglio conservato, si contano distintissimi non meno di 21 alveoli, che insieme ai pon- ticelli ossei frapposti, occupano un tratto lungo all’ipcirca 270 mm ; spingendosi | nltimo alveolo fino a soli 50 mm. dalla base del rostro, molto più indietro cioè che non sì spinga l’ultimo alveolo mascellare del 7 Cortesiù e del 7. Brocchii. Nell’ esemplare di 7. Cortesii del Museo di Milano, che ha il rostro lungo esattamente come quello del 7° di S. Quirico, l’ultimo alveolo rimane circa 90 mm distante dalla base. Nel 7. Brocchii di Orciano l’ultimo alveolo è distante dalla base 115 mm., pur essendo la luughezza del rostro solo di circa !%» più grande che nel Tursiops di Val d° Orcia. È da ricordare come fra i Tursiops viventi nei mari odierni e i 7ursiops fossili riscontrati fino ad ora nei sedimenti pliocenici d’Italia, corra una differenza che certo esce fuori dal- l’orbita delle variazioni individuali dipendenti dal sesso o dalla età. Nel 7. Cortesii, già disse il Balsamo Crivelli (1) che «il numero dei denti in totale dev’ essere di cinquan- tasei, ventotto per mascella e quattordici per ogni lato ». Nel 7. Brocchii i denti non son più di sedici per ciascun ramo della mandibola e non certo più di diciassette per ogni lato della mascella. Nel 7. Capellinii finalmente, i denti sarebbero, secondo il Sacco, circa 16 nei mascellari superiori e circa 15 nelle mandibole. All’incontro nei 7’wrsiops viventi i denti vanno, secondo Flower (2) da %, a *4.. Abbiamo dunque nell’avanzo trovato a San Quirico il primo esempio di 7ursinps pliocenico a denti conformi per numero (e, ve- dremo in seguito, anche per dimensioni) a quelli delle congeneri specie attuali. Delle rimanenti parti del teschio poco sapremmo dire oltre quello che dicon da se le nostre figure. Ci limitiamo a far notare come le tacche o insenature preorbitarie sian qui considerevolmente più profonde e più anguste ed assai più nitidamente scolpite che nel Tursiops tursio e nel 7°. aduncus viventi, e piuttosto sì rassomiglino con quelle del 7°. Cor- tesii e del 7. Brocchii. Notiamo pure come la squama posteriore dei mascellari si spinga (1) Memoria per servire all’ illustrazione dei grandi mammiferi fossili esistenti nella I. R. Gabi- netto di S. Teresa in Milano, ece. Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di Se. Lett. ed Arti, Tomo II. Pag. 130 — Milano 1842. (2) On the Delphinidae. Proc. Zool. Soc., London, November 1883. — 253 — fin vicinissimo al confine anteriore del sopra-occipitale e dei parietali — non tanto vicino come nel 7. Cortesii, ma certo più assai che nel 7. tursio e nel 7. Capellinii -- deter- minando così una forte riduzione in larghezza della zona costituita dagli adiacenti fron- tali: come il margine esterno dei mascellari stessi, circa a metà del suo tratto post-orbi- tario, offra una brusca, pronunziatissima insenatura, cui sì accompagna una forte conves- sità della superficie della lamina mascellare: insenatura che non si riscontra nel 7. Ca- pellinii, dove, a giudicar dalle figure date dal. Sacco, l'arco regolarissimo formato dal margine esterno dei mascellari nel tratto postorbitario, si raccorda perfettamente con la curva descritta dalla sutura fronto-mascellare; che neppure si riscontra nel 7. fursio e nel 7. aduncus, dove anzi ì mascellari, invece di ristringersi come nel caso nostro, pre- sentano nella regione postorbitaria una sensibile dilatazione; e che solo pare accennata nel Tursiops Cortesii. Notiamo finalmente che i nasali formano accoppiati una unica emi- nenza, piuttosto stretta e allungata, fiancheggiata da due fosse profonde, giusto come nel T. Cortesiù ora detto. Il ramo sinistro della mandibola si può dire perduto; solo ce ne restano poche, insi- gnificantissime schegge, che non è possibile riassestare. Del ramo destro ci rimane invece discretamente conservata una buona metà — l'anteriore — nel troncone rappresentato dalla fig. 5. Quel troncone misura mm. 230 di lunghezza, circa mm. 40 di massimo diametro ver- ticale, e circa mm. 28 di massimo diametro trasverso. La porzione sinfisiaria si estende dall’avanti all’ indietro pressa poco per 65 mm. e misura in diametro verticale poco più di 30 mm. Per tre quarti della sua lunghezza — a cominciar dall’ estremo anteriore — il troncone in discorso si mostra distintamente inarcato verso l’ esterno, ma nel quarto po- steriore diventa invece convesso verso l’interno. Superiormente offre ben chiari sedici al- veoli, dei quali i sei primi anteriori vanno gradatamente crescendo in larghezza dall’ avanti all’indietro, mentre i posteriori, a cominciare dal dodicesimo, dall’avanti all’ indietro sem- brano andare man mano rimpiccolendo. Vario, ma ragguardevole sempre è lo spessore dei ponticelli ossei che intercedono tra alveolo ed alveolo; fra quelli in specie della metà posteriore del troncone ve n° ha che uguagliano e magari che sorpassano il diametro degli alveoli contigui. I sette alveoli dall’ottavo al quattordicesimo, in media non più larghi di 9 mm. ciascuno, son distribuiti sopra un tratto lungo all’incirca 110 mm. Lo spessore considerevole dei diaframmi interalveolari raccosta la mandibola del Twr- siops di San Quirico alle specie fossili già note nel Pliocene italiano, piuttosto che al T. tursio attuale, dove i detti diaframmi son quasi papiracei: tanto che nell’ individuo del Museo Capellini i sette alveoli dall’ottavo al quattordicesimo, benchè larghi all’ incirca come quelli del nostro esemplare, capiscono tutti in un tratto di 8 centimetri appena. Arguendo dalla situazione dell’apofisi postorbitaria del frontale la situazione che do- vette avere nel contiguo squamoso la superficie destinata ad articolarsi con la mandibola, possiamo calcolare che la mandibola stessa raggiungesse una lunghezza di circa 44 centi- Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 36* — 2504 — metri. Dato che la regione alveolare raggiungesse nella mandibola circa la stessa lunghezza che ha nei mascellari. cioè 27-28 cm., e stesse quindi rispetto alla totale lunghezza del- l’osso nel rapporto di 64:100, ci risulterebbe una differenza notevolissima in confronto sia del 7. tursio e del 7. Brocchii, dove tale rapporto è rispettivamente di 46: 100 e di 47:100, sia del 7. Capellinii e del T. Cortesii, dove la lunghezza del tratto dentigero pareggia o quasi la lunghezza del tratto disarmato. Dei così detti ossi dell'orecchio abbiamo potuto ricuperare, discretamente conservati, il periotico destro (fig. 6-8) ed ambo i timpanici, destro e sinistro (fig. 9 e 10). Notoria è l’importanza che a tali ossi viene attribuita nella sistematica dei cetacei; ma purtroppo difettano pel caso nostro gli opportuni termini di confronto. Nulla infatti sappiamo dell’apparato uditivo del Tursiops Cortesii e pochissimo di quello del 7. Capel- linii. Circa quest’ultimo il Sacco (1) ci da soltanto una minuscola fotografia, che a me sembra rappresenti la cassa timpanica destra, vista dalla faccia inferiore; ad ogni modo una figura che non sì presta a confronti. Neppure possiamo aiutarci molto con le informa- zioni che ci fornisce il Del Prato (2) intorno al timpanico e al periotico del bellissimo esemplare di 7. Capellinii trovato nella valle dello Stramonte; limitandosi il Del Prato a dare le principali dimensioni della cassa timpanica e a farci sapere che il periotico « sì accorda perfettamente per forma e per dimensioni con la figura 1 della Tav. LX del Gervais » (3). Unicamente del 7. Brocchii ci è noto a sufficenza l’apparato in di- scorso. Oltre la cassa timpanica descritta e figurata dal Capellini, quasi mezzo secolo addietro, nella già citata memoria sul delfino di San Lorenzo in Collina, ci è dato esami- nare direttamente il periotico destro completissimo e ragguardevoli avanzi dei due tim- panici, pertinenti al magnifico scheletro di 7 Brocchii, venuto al Museo Capellini dal Pliocene di Orciano. Questo per ciò che riguarda le forme fossili. Circa le attuali non abbiamo altro materiale di confronto che l'apparato uditivo del 7. tursio e quello del Delphinus delphis, forniti entrambi dalla collezioncina osteologica che pure fa parte dello stesso Museo. Nella tabella seguente sono indicate le principali misure dei cetoliti spettanti al del- finoide del « Palazzo » (I) e di contro quella degli ossi corrispondenti del 7’ursiops Broc- chii, del T. Capellinii, del T. tursio e del Melphinus delphis - (1) Z2 Delfino pliocenico di Camerano Casasco. Vav. II, fig. 16. (2) Op. cit., pag. 5: (3) Il cetolite rappresentato dalla fig. 1 della Tav. LX dell’Ustéographie des Cétaces, è indicato nella spiegazione di quella tavola come cassa uditiva destra di Delphinus, trovata a San Frediano in l'oscana. Periotico I II III IV \i (VAL Lunghezza massima fra le estremità delle due apofisi anteriore e po- SUCLHIOLC IMMA Ot e Ano) — 38 — 35 2109 Diametro trasversale deila faccia superiore nella parte mediana . » 15 = 14 = 15 7 Massimo diametro supero-inferiore della faccia interna, fra il mar- gine superiore dell’ orificio udi- tivo interno e il lato interno della faccia superiore . . . . >» 9 _ 10 = a Diametro trasversale dell’apofisi an- fegioregalla@nas ceo 1355 — 13,5 — 13 ll Diametro massimo della faccia in- terna dell’apofisi posteriore, de- stinata a connettersi col timpa- DIGO I I HE ll = 155 = 14 10 ® Timpanico Lunghezza massima, fra il colmo del lobo posteriore esterno e l'estremo anteriore. < . . . » 34 37,9 = = 39 32 Lunghezza a partire dall’ insenatura trai lobi posteriori... e. è 31 33 — 4 O 30 Larghezza massima della porzione Blopata-eneee e rnina l'o;St 201 > —_ 24 21 15 I. Tursiops del Palazzo. — II. 7. Brocchii (S. Lorenzo in Collina). — III. Idem (Orciano). — IV. 7. Capellinii (Valle dello Stramonte). — V. 7. tursio (Es. adulto del Museo Capellini). — VI. Delphinus delphis (Es. giovane dello stesso Museo). Alle immagini e alle misure stimo opportuno di aggiungere queste poche osser- vazioni. Noto, anzitutto, nel periotico del delfinide di San Quirico una particolarità che vale da sola a dimostrarne la pertinenza piuttosto ad un Tursiops che a un vero e proprio Delphinus; la strettezza di quella parte della faccia interna che rimane compresa fra il margine su- periore dell’orifizio uditivo e il bordo interno della faccia superiore; strettezza che ha per compenso una considerevolissima dilatazione deila faccia superiore nel senso trasver- sale. Per meglio spiegarmi, nell’esemplare di San Quirico, supposto fosse completo, il dia- — 250 — metro massimo verticale della faccia interna, compresa la rocca, supererebbe il massimo diametro trasversale della faccia superiore soltanto di un quarto: pressa poco come nel Tursiops tursio e nel 7. Brocchii; mentre nel Delphinus delphis quel diametro della faccia interna misura più che il doppio della larghezza massima della faccia superiore. D'altra parte qualche differenza si rileva anche nel confronto coi cetoliti dei delfinidi congeneri. Nel periotico trovato al Palazzo è da segnalare, fra l’altro, la eccezionale robustezza del collo dell’ apofisi posteriore, non che la specialissima conformazione della faccetta esterna costulata, mercè cui detta apofisi si doveva connettere col timpanico; faccetta che qui è limitata inferiormente e superiormente da margini pressochè paralleli, non già divergenti come nel 7. tursio e nel T. Brocchii, e che proporzionatamente è molto più concava che nel 7. fursio e molto più stretta che nel 7. fursio e nel 7. Brocchii. Sia nei mascellari, sia negli avanzi di mandibola descritti più sopra, non è rimasto infisso un sol dente completo; solo qualche mozzicone di radice in certuni alveoli e nien- t'altro. Ma ben trentaquattro denti, la più parte interissimi, si son trovati sparsi nell’ ar- gilla, subito attorno a quer resti. Ho rinunziato, contro mia voglia, a rimetterli schierati nell'ordine primitivo; a fatica son riuscito a discernere quelli spettanti ai mascellari, da quelli che dovevano armar la mandibola. Circa la forma loro, mi limito a dire che ri- sponde in complesso a quella solita a riscontrarsi nei 7ursiops già noti del pliocene d’I- talia. Se mai, presentano qualche non trascurabile differenza in confronto di quelli del T. tursio. Ad esempio, i denti più dritti e più grandi, verosimilmente appartenuti al forte della mandibola, hanno le corone meno pronunziatamente compresse dall’ avanti all’ indietro, e marcate in una faccia sola — anzichè in ambo le facce anteriore e posteriore — da segni di sfregamento coi denti dell’opposta fila mascellare. Non solo; ma le radici, specie verso la base, sono più fortemente compresse in senso trasversale e dilatate secondo un piano verticale normale o quasi a quello che contiene la curvatura massima della corona. Quanto a grandezza, per contro, i denti del delfinide di S. Quirico rispondono quasi esattamente a quelli del 7- sio, vale a dire son parecchio, ma parecchio più piccoli di quelli delle tre specie fossili tante volte nominate. Nell’esemplare tipo del 7. Cortesii già il 4° dente mandibolare raggiunge la lunghezza complessiva di mm. 50 e il diametro di mm. 14,5 a metà della radice (1); ed altri mandibolari raggiungono (secondo Balsamo Crivelli) la lunghezza di due pollici (= mm. 64,9) e la larghezza di sei linee (= mm. 13,5). Nel 7. Brocchii di San Lorenzo in Collina si hanno denti mandibolari lunghi sino a 53 mm., contro un diametro massimo di 10 mm.; e nell’esemplare di Orciano taluni di essi denti arrivano a misurare mm. 55 di lunghezza per 13 di diametro. Nel 7°. Capel- linii della valle dello Stramonte il Del Prato (2) trova l’ undicesimo e il dodicesimo (1) V. Capellini, Di «n Orca fossile scoperta in Toscana, Mem. dell’Accad. delle Sc. dell’Ist. di Bologna. Ser. IV. Tom. VI. Tav. I, fig. 9. Bologna, 1883. (2) Mem. cit., pag. 7. Tg mandibolari lunghi rispettivamente mm. 44 e mm 41. Invece fra 1 denti trovati al Palazzo i più grossi di tutti non superano 36 mm. di lunghezza, per mm. 7 di massimo diametro alla base della corona e mm. 8,5 circa di massimo diametro nella radice. Della colonna vertebrale l’unico avanzo istruttivo che ci rimanga è l’ atlante bellissimo, rappresentato dalle fig. 12 - 14. Saldato con esso atlante trovasi, come di solito nei del- finoidi, lo epistrofeo, di cui però son conservate soltanto, e molto malamente, le apofisi trasverse e la porzione superiore dell’arco neurale: alla quale ultima si veggon saldati, alla lor volta, esigui rimasugli degli archi neurali della 3° e della 4° vertebra cervicale. Di queste due vertebre abbiamo trovato — ma a parte — anche i corpi, atiaccati uno all’altro mercè un tenue velo di cemento argilloso-ocraceo; e nelle fig. 13 e 14 son rap- presentati pur essi, ricongiunti, come abbiamo potuto meglio, al maggiore avanzo già detto. Le principali misure dell’ atlante e delle cervicali successive son riferite qui sotto. Larghezza massima dell’ atlante, apofisi trasverse comprese, circa mm. 180 Distanza massima fra i margini esterni delle faccette articolari an- iononeielienio nre feet ee o on e e i 110 Massimo diametro verticale dell’atlante, fra il margine infero-ante- Fiore'Mesuli margine ‘basale: dell’apofisi spinosa i. 0. 00» 75 Uaxshezza massima del'canaler neurale 0.00. 0.0.0. 4080 53 Aliezzaimassima: delbeanale; neurale it. Lo. pli DuRdi 32 Diametro verticale delle apofisi trasverse a metà della loro lunghezza » 17 Diametro ant.-post. delle medesime a metà della loro lunghezza . . >» 16,5. Massima lunghezza delle faccette articolari anteriori dell’atlante . . » 67 Mossimaglareherzza idelletstessetttà i, eni 44 Lunghezza totale approssimativa delle prime quattro vertebre cervicali » 38 Massimo diametro antero posteriore del corpo della 3° cervicale. . » 6,5 Massimo diametro antero-post. della 4° cervicale . . . .. .. > 6,5 Larghezza massima del corpo della 4* cervicale... . . ... » 45 Altezza massima del corpo della 4* cervicale . . . . . . sen 142 Dietro quanto si è detto, avremmo nel Tursiops di San Quirico una sinostosi cervi- cale rispondente a quella del delfino di Camerano Casasco (7. Capellinii) dove il Sacco appunto riscontrava esser saldata perfettamente la quarta cervicale con la terza, come la terza con l’epistrofeo, ma solamente, ben inteso, per la ‘parte superiore dell’arcata neurale; a differenza dal 7. Cortesii del Colle della Torrazza, dove all’ epistrofeo si salda parzial- mente soltanto la terza cervicale, e dal 7. Brocchii di Montezago, dove (come nel T. tursio attuale) la sinostosi comprende solo le prime due vertebre (1). (1) Dico questo in base ai modelli in gesso venuti da Milano, che si conservano quì nel Museo Capellini. Veramente altri han detto (il Sacco, per esempio) che nel 7. Cortesii l’atlante è solo saldato con l’asse e che nel 7. Brocchii si unisce all’asse od epistrofeo anche la terza vertebra cervi- cale. Certo è che dei due modelli che ho sott’occhio, quello che a parità di dimensioni nel corpo ha 258 — Poco monta questo, date le variazioni che oggi sappiamo riscontrarsi anche fra in- dividuo e individuo di una medesima specie di 7w*siops, quanto al numero delle vertebre partecipanti alla sinostosi cervicale. Forse più interessanti sono altri caratteri che il nostro fossile ci consente di rilevare. Le apofisi trasverse dell’atlante -— giudicando da quella di sinistra che ci rimane completissima — a partir dalla base son decisamente inclinate dall’alto verso il basso. Lo stesso accade nel 7. tursio; mentre nel 7. Cortesii son press’ a poco orizzontali, e nel T. Brocchii volgonsi manifestamente verso l’alto. D'altra parte le stesse apofisi nell’atlante del delfino di S. Quirico hanno su per giù grossezza uguale, tanto secondo il diametro ver- ticale, quanto secondo il diametro antero-posteriore; sono su per giù cilindroidi; mentre nel 7. Capellini sono compresse orizzontalmente (1), nel 7. Zursio son fortemente schiac- ciate dall’avanti in alto all’indietro in basso, e in questo medesimo senso, ma men pro- nunziatamente, sono schiacciate nel 7° Cortesii, e nel 7. Brocchii son coniche. I pilastri che reggon la cuspide neurale dell’atlante non sono compressi nel senso antero posteriore come accade nel 7. tursio; ma pressa poco hanno uguale il maggior diametro trasverso al maggior diametro longitudinale, in ciò raccostandosi piuttosto a quelli del 7°. Cortesii e del T. Brocchii. L’apofisi spinosa, pur troppo mutilata della porzion superiore, ha la particola- rità di essere pochissimo inclinata verso l’ indietro: per la forma generale arieggia a quella del 7. Brocchii più che ad ogni altra: ha però la cresta assiale anteriore debolissima, com’ è, secondo il Del Prato, quella del 7. Capellinii. Pure come nel 7. Capellinti il margine supero-laterale delle faccette articolari anteriori poco si eleva sulla superficie del corpo, ed appena è accennato il solco che invece scorre largo e profondo, contiguamente e quasi parallellamente a detto margine, nel 77. tursio e anche nel 7. Cortesti e nel 7. Brocchii. Si associano, come si vede, nell’atlante del delfino di San Quirico, caratteri che si riscontrano isolatamente nelle specie di 7u7siops messe a confronto: più qualche distintivo suo proprio, come la debole inclinazione del processo spinoso, e un altro che non voglio dimenticare: la totale mancanza dell’ insenatura mediana che il margine infero-anteriore dell’atlante offre così pronunziata nel 7. sito, in corrispondenza dell’ intervallo fra le due faccette articolari; e che più debole, ma sempre ben distinta, si offre anche nel 7°. Capel- linii e nelle altre due specie di 7ursiops trovate fossili in Italia. Concludiamo. — Gli avanzi da me ricuperati e ricomposti alla meglio, non bastano di sicuro per una soddisfacente reintegrazione del delfino sanquirichese. Bastano però ampiamente per attestarne la pertinenza al genere 7ur:siops: unico genere, nella famiglia il processo spinoso più lungo, e che quindi dovrebbe spettare al 7. Brocchi, offre nella sinostosi cer- vicale solo l’atlante e l’epistrofeo: l’altro invece, a processo spinoso brevissimo (quindi da ritenere spettante al 7. Cortestî) mostra con tutta evidenza saldata all’ epistrofeo la sommità dell’arco neurale di una terza vertebra. (1) Del Prato, mem. cit, p. 9: PEG a = ‘sal 40 "Mi (A MEMO (Ten ideare carenate i peg” — 259 — dei Delphinidae, che presenti associate le caratteristiche — tutte esibite dal fossile del Palazzo — del rostro nettamente distinto e considerevolmente più lungo della porzione craniale del teschio; della superficie palatale dei mascellari priva di solchi longitudinali tra il bordo alveolare e la commessura mediana; della sinfisi mandibolare abbreviatissima, occupante poco più di ‘4 della lunghezza totale di ciascun ramo; del numero dei denti non superiore a ®/.. Bastano inoltre quei pochi avanzi per dimostrare che si tratta di una specie di 7ur- stops chiaramente diversa da tutte le altre segnalate fino ad oggi dai paleontologi; di- versa, prima di tutto, per la formula dentaria, che raggiunge °/,, mentre è */, nel Neorte sE 0A mellezi Capellini, 33 mensioni molto minori dei denti; particolarmente distinta dal 7 Capellini per l assai mag- ‘nel 7. Brocchii; diversa in pari tempo per le di- giore lunghezza e acutezza del rostro, per l'andamento rettilineo del margine esterno dei mascellari e della linea di confine tra questi-e i premascellari. E non stiamo a ripetere quanto abbiamo detto via via, nelle pagine innanzi, circa non pochi altri caratteri differen- ziali del teschio in genere, delle ossa uditive e della prime vertebre cervicali, in confronto sia delle forme fossili, sia delle odierne. Ci conviene dunque gravare di una nuova specie l’ elenco dei cetodonti fossili del Pliocene italiano. Per buona sorte si tratta di una specie che viene opportunamente a colmare un vuoto spesse volte lamentato dai paleontologi: la lacuna fra i 7ursiops fossili sino ad ora conosciuti, di cui nessuno ha più di 66 denti, e i Trsiops attuali che ne han da 84 a 100 « Non sarebbe temerario, scriveva in proposito il Capellini (1) di dire che sotto questo punto di vista (del numero dei denti) ed anche per la forma che alcuni di essi (dei delfini fossili riferiti al genere Tursiops) presentano, si riscontra qualche analogia col genere Orca ». Ed ecco il delfino di San Quirico, che pure accordandosi col T. Brocchii e col T. Cortesii per la conformazione generale del teschio, si accorda per la dentatura col 7. tw'sio attuale, e così viene a dileguare ogni dubbio circa la paren- tela di questo con quelli. Mi auguro che ulteriori reperti vengan presto a farci conoscere compiutamente i ca- ratteri della nuova specie, e a chiarir meglio le sue relazioni con le congeneri fossili e attuali. Intanto propongo di chiamarla 7ursiops Osernnae, dal nome Osenna ch’ ebbe in antico il territorio dove oggi è San Quirico d’ Orcia (2). (1) Del Tursiops Cortesii e del delfino di Mombercelli nell’ Astigiano. Mem. dell’ Ace. delle Se. dell’ Ist. di Bologua, Ser. IV. T. III, pag. 8. Bologna 1882. (2) Gigli G. - Diario Sanese. P.e I.® p. 483. Siena 1854. Figura » » » » » » » » » » » » 4 9 UE 13 14 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA TPursiops Osennae Sim. Cranio visto di sopra (circa //,) Lo stesso, visto dalla faccia inferiore (c. s.) Lo stesso, visto dalla faccia laterale sinistra (c. s.) Sezione del rostro, in corrispondenza dell’ XI alveolo (circa ‘/) Frammento del ramo mandibolare destro, veduto di sopra (circa %) Periotico destro, visto dalla faccia interna (4) Lo stesso, visto dalla faccia superiore (c. s.) Lo stesso, visto dalla faccia inferiore (c. s.) Timpanico sinistro, visto dalla faccia inferiore (c. s.) Timpanico destro, visto dalla faccia superiore (c. s.) Denti diversi. (1) Atlante, con residui delle successive tre cervicali, visto dalla faccia anteriore (circa 1/3) » » » » » » pi posta(c2899) » » » » » visto dalla faccia laterale sinistra (c. Ss.) _M_3I KE —_ D 2 DI S D s a Ò D i (do) ; ©) à E z v 4, (©) N .Q Ri 5 . [nni Vv Td (9) o (©) tes) (6°) (CH id) E Li I] Lu z O > 1) al T ©) nl O) xl ES _i (si > = ©) HH e pb (cb) er] (RI D . SA 3 ‘ Lu E z Ci S = 2 RFFETTO HALLWACKHS E FOTOTROPIA MEMORIA DI LAVORO AMADUZZI e MAURIZIO PADOA (letta nella Sessione del 12 Marzo 1911). 1. Come è noto, da qualche tempo si vanno moltiplicando sostanze dotate della sin- golare proprietà di cambiare colore per esposizione più o meno prolungata alla luce so- lare e più specialmente alle radiazioni di breve lunghezza d’onda in essa contenute, o pro- dotte artificialmente. Queste sostanze, dopo aver subita la variazione di colore, ritornano in un tempo più o meno lungo allo stato primitivo, quando vengano abbandonate a loro stesse v assoggettate a riscaldamento o all’azione di radiazioni di lunghezza d’onda più grande di quella delle eccitatrici. Uno di noi (1) ebbe a preparare numerosi corpi dotati di tale proprietà in modo spiccato, appartenenti al gruppo degli idrazoni e degli osazoni, procurando di mettere in relazione il fatto colla costituzione chimica. Markwald dette al fenomeno il nome di fototropia e a questo vocabolo generalmente usato si suol ora legare la opinione che il fenomeno si riduca ad un semplice cambiamento di colore e sia in ogni caso percepibile dall’organo visivo. Fin da ora ci permettiamo di emettere l'opinione che la fototropia sia fatto della più larga generalità, tanto per ciò che concerne le radiazioni che la suscitano, come per le radiazioni che vengono emesse. Con questo modo di vedere il fenomeno di termo- tropia messo in rilievo da Senier e Shepheard (2) potrebbe essere considerato come fototropia eccitata da radiazioni di grande lunghezza d’onda. Ci è parso conveniente iniziare una serie di ricerche per stabilire se altre modifica- zioni nei caratteri fisici delle sostanze fototrope accompagnano il cambiamento di colore. Prima fra tutte fu presa da noi in esame la eventuale variazione del potere fotoelettrico, sulla quale, finora, non venne eseguita alcuna ricerca sistematica. La letteratura ci dice (1) M. Padoa, Rendiconti della R. Accademia dei Lincei dal 1909 in poi. (2) Questi autori notarono che certe sostanze organiche di costituzione analoga ad altre che pre- sentano il fenomeno di fototropia, portate dalla temperatura dell’aria liquida in ambiente alla tempe- ratura ordinaria, cambiano colore. Chemical News 1909, vol. C, 265. Vedi in proposito anche Stobbe, Liebigs Annalen 880, 17. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 37 262 — solo che il pensiero di una tale ricerca interessò Kowalski (1) alcuni anni or sono. Questo fisico, incidentalmente, durante una discussione riferì di avere eseguita una misura sul platinocianuro di stronzio nelle condiziori ordinarie e dopo l’azione di raggi Rontgen, che lo rendono verde. Secondo l’autore, parallelamente al cambiamento di colore si avrebbe un aumento di potere fotoelettrico. Nella medesima occasione il Prof. Schaum fece sapere che Elster aveva ottenuto un risultato negativo, cioè non aveva notato va- riazione di potere fotoelettrico, sperimentando sulla tetraclorodichetodidronaftalina di Zincke e Markwald, che è fototropa. Da quell'epoca nessuna misura ci consta che sia stata eseguita da chicchessia. L'importanza della ricerca per noi consisteva specialmente nella possibilità eventuale di avere nella variazione di potere fotoelettrico, un indice fisico di modificazioni nel corpo, anche qualora la fototropia non fosse alla maniera usuale ma- nifesta 2. A questo fine il piano del nostro studio fu di esaminare le sostanze fototrope prima e dopo la eccitazione della fototropia; e di esaminare poi le medesime sostanze ad una temperatura che più non permettesse il manifestarsi della fototropia medesima. Come è noto difatti, la maggior parte delle sostanze fototrope non inanifesta più la fototropia nel senso ordinario, quando le sostanze stesse siano portate a temperature variabili fra i 60° e 145° C. Per potere istituire dei confronti st operò in tale maniera anche con sostanze della stessa classe delle fototrope esaminate; e su sostanze non fototrope in condizioni par- ticolari, come verrà detto. Il dispositivo sperimentale da noi usato è molto semplice; ma tale, ci sembra, da for- nire per un primo esame indicazioni sufficientemente buone. Fu già usato da uno di noi (2) con esito soddisfacente per lo studio del selenio cristallino. Si riduceva in sostanza a collegare il materiale da studiare con un elettroscopio, a caricare a potenziale negativo il materiale medesimo, a fare agire su di esso radiazioni ultra-violette ed a misurare contemporanea- mente il tempo di scarica. L’elettroscopio usato era a foglia di alluminio e di questa. si leggevano gli spostamenti con un micrometro oculare. Avendo intenzione di studiare | ef- fetto delle radiazioni a temperature varie, il corpo soggetto a studio, veniva fissato contro ad una faccìa di un cubo metallico cavo, che poteva venir riempito con olio caldo per modo che poteva essere portato a temperature varie a seconda della temperatura dell’olio immesso. Il cubo, girevole intorno ad un asse verticale, era racchiuso entro una fitta rete metallica in comunicazione col suolo e munita di una apertura ricoperta di rete a maglie larghe contro la quale si disponeva la faccia che doveva ricevere la radiazione. La illu- minazione del corpo da studiare si poteva fare colla luce diretta del sole e con una lam- pada Heraeus a vapore di mercurio. Le esperienze venivano condotte in modo da valu- tare il tempo impiegato dalla foglia dell’ elettroscopio a passare dallo zero al cento della (1) Vedi Zeitschrift fur Elekrochemie 1908, 483. (2) L. Amaduzzi, Rendiconto della R. Accademia delle Scienze di Bologna, Gennaio 1910. — 263 — scala oculare; tali limiti essendo lontani rispettivamente dalla posizione occupata dalla foglia dell’ elettroscopio carico e da quella occupata dalla foglia dopo la scarica. 3. Le esperienze venivano condotte nel modo seguente: Il materiale veniva deposto sopra una delle faccie del cubo, facendo uso di un solvente appropriato che era, a seconda dei casi, alcool o benzolo o cloroformio o etere. Dopo deposizione, il solvente evaporava completamente e la sostanza da esaminare rimaneva in strato uniforme ed allo stato cri- stallino aderente alla superficie metallica. Misurato il tempo di scarica sotto l’azione dei raggi ultra-violetti, prima della variazione di colore, tempo che in ogni caso era incompara- bilmente minore di quello richiesto, per ottenere la variazione del colore della sostanza per azione dei medesimi raggi, si assoggettava detta sostanza ad una azione prolungata dei raggi ultra-violetti quando non si usò la luce solare diretta, sino ad ottenerne la variazione di colore. Si misurava quindi di nuovo il tempo di scarica del dispersore; e tale misura per vari corpi si ripetè ad intervalli di tempo successivi di più in più grandi per indagare l’ eventuale stanchezza del materiale. Simili determinazioni, venivano di poi eseguite sullo stesso ma- teriale dopo avere riempito il tubo con olio di vasellina bollente, così da portare il tutto ad una temperatura tale che il fenomeno delia fototropia nel senso ordinario non si ma- uifestasse più. La temperatura del sistema andava naturalmente decrescendo con conti- nuità, ma le misure si effettuavano sempre oltre i limiti di temperatura necessaria alla esclusione della fototropia. L'esposizione del materiale caldo ai raggi ultra-violetti non portava naturalmente a variazioni di colore per esso, ma noi la eseguivamo alla stessa maniera e per lo stesso tempo come facevamo per il materiale freddo. 4. Indichiamo qui i risultati ottenuti per alcuni dei corpi assoggettati ad esperienze : 8-naftilidrazone dell’ adeide salicilica (non fototropo) esperienze a freddo scarica in 4’) dopo 3 minuti di luce» SOA 8-naftilidrazone del piperonalio (fototropo) esperienze a freddo STRATO I stRATO II scarica 9” 9) dopo illumin. sole |» -7 subito illuminaz. ultra-viol. 3‘! subito 8" 3 minuti dopo 6° 5 min. dopo OTTONE » Non si potè sperimentare a caldo non potendo raggiungere temperatura abbastanza elevata. Fenilidrazone della benzaldeide esperienze a freddo STRATO I STRATO II scarica 20” DS colorato al sole » TSO illuminaz. ultra-viol. 14” subito 17” dopo 5 minuti — 264 — Fenilidrazone della benzaldeide esperienze a caldo STRATO II scarica 8° illumin. ultra-viol. » ab La temperatura era troppo bassa e il corpo si colorò lievemente. 8-naftilosazone del piperile scarica 3° a freddo dopo illuminaz. u. v. DITO $-naftilosazone del piperile + cloroformio a freddo scarica 1° !4, dopo illuminaz. uv. » A O-tolilosazone del piperile a freddo STRATO I STRATO II stRATO III scarica 4° 0 1 dopo illuminaz. u. v. 2° dopo illum. u. v. 5” dopo 1 min. GLU US 74800, CONDI 3, dopo 2 min. Oo dee VIN a caldo STRATO II STRATO lI dopo ‘/ ora stRATO III D 6° dd scarica 5° 1 dopo illuminaz. u. v. 3° subito Qi di Wo E° n/! 9 : 5. dopo 2 min. DO Ù di e suolo 6” dopo 5 min. B- naftilosazone dell’ anisile a freddo STRATO I STRATO I dopo ‘,, ora SCArIcaNz4iA DU dopo illuminaz. u. v. 1% dopo illuminaz. u. v. 1% STRATO II STRATO III 4" SI DI dopo illuminaz. u. v. 3° dopo illuminaz. u. v. 3° dopo 4 minuti 37 dopo 5 minuti DO ge > IO» ; a caldo STRATO I STRATO II sTRATO III SCARicaniziin A 20 SÒ AA dopo illum. u. v. 1° dopo illum. u. v. 2° dopo illum. u. v. 1°, dopo 2 min. 3° dopo 5 min. 20 AES è-naftilosazone dell’ anisile + benzolo scarica 5 dopo illuminaz. u. v. 3° — 265 — Sperimentammo anche su -naftilidrazone dell’aldeide cinnamica, p-tolilidrazone del piperonalio, 5-naftilidrazone dell’ aldeide p-toluica, f-naftilidrazone della vanillina, e i ri- sultati ottenuti sono in accordo nelle linee generali con quelli precedentemente indicati I risultati medesimi si possono indicare come segue: a) Al cambiamento di colore corrisponde quasi sempre una variazione nel potere fotoelettrico. Per la maggior parte delle sostanze esaminate si ha un aumento; per al- cune una diminuzione. Tutte le sostanze esaminate manifestano il noto fenomeno di stan- chezza. b) L'esame delle sostanze a caldo ha condotto a rinvenire una variazione nel po- tere fotoelettrico conseguente ad esposizione ai raggi ultra-violetti, sebbene questi non operino alcun cambiamento di colore. Anche a caldo le medesime sostanze manifestano il fenomeno della stanchezza. Ciò farebbe ritenere che fra la fototopia nel senso ordinario e la variazione di potere fotoelettrico, non esista alcun legame diretto; ma si tratti, per la esposizione delle so- stanze a radiazioni ultra-violette di una modificazione strutturaie di natura incognita, la quale si accompagni o no a seconda dei casi e delle condizioni ambiente, ad una varia- zione di colore. Prova ne sia che l’ esame da noi fatto del f-naftilidrazone dell’ aldeide salicilica, non fototropo sebbene appartenente allo stesso gruppo di sostanze fototrope, ha mostrato a freddo una variazione di potere fotoelettrico in conseguenza della esposizione per un certo tempo a radiazioni ultra-violette. La variazione si è tradotta in una diminuzione forte di potere fotoelettrico. Inoltre, delle sostanze esaminate ve ne sono due che possono cristallizzare con un solvente dando così composti di addizione non fototropi, e cioè il f-naftilosazone del pi- perile con una molecola di cloroformio e il f-naftilosazone dell’ anisile con una molecola di benzolo. E come risulta dalle cifre riportate, il primo ha un potere fotoelettrico note vole che più non varia colla illuminazione, e il secondo, meno sensibile, lo diventa di più dopo la illuminazione. c) Una cosa che da tutto il complesso delle nostre misure sembra risultare, è un potere fotoelettrico generalmente elevato per quelle sostanze che mostrano più spiccata- mente la fototropia. d) Facciamo rilevare incidentalmente la forte variazione colla temperatura del po- tere fotoelettrico del fenilidrazone della benzaldeide, che contrasta singolarmente colla pic- cola variazione presentata dall’o-tolilosazone del piperile e del f-naftilosazone dell’ anisile. La cosa merita qualche rilievo perchè qualche autore ritiene costante colla temperatura il potere fotoelettrico dei corpi. Ci si consenta di ricordare qui come uno di noi, in un lavoro, qui citato, rinvenne una variazione del potere fotoelettrico del selenio cristallino colla temperatura. 5. Ci sembra che il comportamento delle sostanze da noi esaminate, riferito in questa nota, sia degno di qualche rilievo che giustifichi il proposito nostro di proseguire la. ri- — ego cerca su altri corpi e sui medesimi già sperimentati valendoci di mezzi anche più precisi. Osserveremo inoltre come l’esame da noi fatto delle varie sostanze, tutte organiche, in- dicate in questa nota, sotto il punto di vista del loro potere fotoelettrico, ci abbia indotti, visto il valore discretamente alto di questo, a cercare nella letteratura, se furono molti i materiali organici studiati sotto questo riguardo. E a dir vero rimanemmo SONPIESI nel constatare che non troppe furono le determinazioni di potere fotoelettrico dei corpi orga- nici. Si tratta semplicemente di misure su sostanze luminescenti e fluorescenti, su sostanze coloranti e su qualche idrocarburo aromatico. Il gran numero di corpi che ancora riman- gono da esaminare, per un lato; per l’altro il pensiero che l'intensità varia della emis- sione di elettroni provocata dalle radiazioni, sia legata alla costituzione strutturale varia della materia; ci hanno indotti alla determinazione di eseguire delle misure numerose di potere fotoelettrico su delle serie di sostanze organiche. Crediamo opportuno dichiarare che in questo lavoro, della parte fisica si è occupato più specialmente L. Amaduzzi e della parte chimica più specialmente M. Padoa. OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE EsURiRE DU RANFTEL'ANNO 1910 NELL’ OSSERVATORIO DELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA INE EMIR AI DEL PROF. MICHELE RAJNA DELL’ ASTRONOMO R. PIRAZZOLI E DELL’ AssIstTENTE DOTT. A. MASINI (1) (letta nell'adunanza del 23 Aprile 1911). Avvertenze generali, Le osservazioni di cui qui si presentano i risultati sono quelle delle ore 9, 15 e 21 di ciascun giorno (tempo medio civile dell'Europa centrale), prescritte dal R. Ufficio centrale di Meteorologia e Geodinamica. Non si riportano, invece, i risultati dell’altra osservazione che si fa ogni mattina alle ore 7 dal 1° aprile al 30 settembre e alle ore 8 dal 1° ottobre al 31 marzo, e che serve per il telegramma da spedirsi al predetto Ufficio. L’altezza barometrica si legge sempre a un barometro Fortin, cui si applica la cor- rezione costante + 0"", 46, determinata anni addietro per cura dell’ Ufficio centrale. Il pozzetto del barometro si trova a metri 83, 8 di attitudine sul livello del mare (2). La temperatura dell’aria si legge sul termometro asciutto di un psicrometro di August e le temperature estreme su termometri a massima e a minima. I termometri sono collo- cati sopra la banchina di una spaziosa gabbia meteorica formata da persiane di legno ed esposta al nord. Il piano della banchina si trova all’altezza di metri 38, 39 sul suolo, ossia a metri 90, 81 sul livello del mare. Le altezze dei bulbi dei termometri sopra il piano della banchina sono le seguenti: per il termometro a minima metri 0,26; per il termo- metro a massima metri 0, 41; per il psicrometro metri 0, 33 La quantità delle precipitazioni si ottiene in millimetri d’acqua mediante il pluvio- metro registratore di Fuess, provvisto di un sistema di riscaldamento ad immersione per ottenere la fusione della neve A questo sistema di riscaldamento è innestato un termo- (1) Il dott. Masini prestò servizio fino al 1° novembre 1910. (2) Da misure dirette prese nell’anno 1904 risulta che il pozzetto del barometro si trova a 28" ,76 di altezza sul capo saldo della liveilazione di precisione situato alla base della torre dell’ Osservatorio, sulla facciata esposta a sud-ovest. Tale caposaldo è elevato di 2" ,65 sul suolo, ed ha la quota di 55" ,066 sopra il livello medio del mare a Genova, secondo una cortese comunicazione dell’ Istituto geografico militare. Quindi il pozzetto del barometro ha l’altezza di 55" .07 + 28" ,76= 83" , 83 sul livello del mare. lo ga, e metro il quale permette di verificare che il liquido riscaldato non raggiunga una tempe- vatura troppo elevata da alterare sensibilmente per evaporazione la quantità di acqua caduta. Il pluviometro è collocato nel punto più elevato della torre ed ha lapertura libera superiore a un’altezza di metri 49, 20 sul suolo e di metri 101, 62 sul livello del mare. La tensione del vapore acqueo e l'umidità relativa si determinano con l’anzidetto psi- crometro di August provvisto di ventilatore a palette, del solito modello adottato in Italia. L’apprezzamento della nebulosità si fa stimando ad occhio, in ciascuna osservazione, quanti decimi di cielo sono ricoperti dalle nubi. La provenienza del vento si desume dalla direzione della banderuola di un anemoscopio all’atto dell’osservazione. Per la velocità si prende la media giornaliera dei chilometri in- dicati da un anemometro di Fuess a registrazione elettrica. Tanto la banderuola dell’a- nemoscopio, come il mulinello a coppe dell’anemometro sono situati sulla sommità della torre a 49 metri e ‘,, di altezza sul suolo. L’evaporazione dell’acqua si misura ogni giorno alla sola osservazione delle ore 15 nell’evaporimetro posto nella gabbia meteorica e quindi protetto dai raegi solari e dalle precipitazioni. Il pluviometro e l’anemometro, di cui è fatto cenno, furono collocati per cura del prof. Bernardo Dessau nel tempo in cui egli diresse interinalmente 1° Osservatorio (1900-03); a lui sì deve pure l’acquisto di tre strumenti registratori di Richard, un ba- rografo, un termografo e un igrografo, i quali, con le loro registrazioni continue servono di complemento alle osservazioni dirette. Riassunto dei quadri mensili. Barometro La media pressìone barometrica dell’anno risultò di mm. 753, 0, cioè 1 millimetro infe- riore al corrispondente valore normale ed inferiore pure alla media annua ottenuta negli ultimi anni. Le singole medie di aprile, maggio, giugno, luglio e novembre risultarono alquanto più basse della media annua, quelle invece degti altri mesi alquanto superiori, fatta ecce- zione pe! mese di febbraio che ebbe la media eguale alla annua. I valori estremi raggiunti dalla pressione atmosferica furono: Pressione massima mm. 769, 4 il 10 gennaio alle ore 21. Pressione minima mm. 730, 4 il 25 gennaio alle ore 15. Così l’intera escursione barometrica di mm. 39 si verificò nel breve intervallo di 15 giorni. Dopo il minimo principale ora detto, il barometro cominciò a salire di nuovo quasi regolarmente fino a raggiungere un’altra alta pressione di mm. 764,5 il 22 febbraio alle ore 21. Passata questa maggiore onda atmosferica, il barometro mantenne un andamento più prossimo al normale, finchè al 15 di novembre precipitò alla depressione di mm. 734, 6, minimo secondario dell’annata, per risalire poscia il 22 dicembre al massimo secondario — 269 — di mm. 765, 7. Questi squilibri atmoferici non diedero luogo a gravi perturbazioni di sta- gione; in corrispondenza delle maggiori depressioni non vi furono nè venti impetuosi, nè abbondanti precipitazioni, e così pure in corrispondenza delle più alte pressioni mancarono i periodi di giornate serene che di solito le accompagnano. Temperatura La temperatura media annua fu uguale a 13,° 4, inferiore di 2 decimi di grado alla normale corrispondente. Le medie dei mesi invernali risultarono superiori ai corrispondenti valori normali, mentre quelli degli altri mesi ne rimasero alquanto inferiori. Ciò contribuì ad avvicinare i limiti dei valori estremi e a rendere il clima più mite del consueto. Non si ebbero freddi intensi nè duraturi; colla fine di gennaio ebbero termine i minimi sotto zero e si iniziò la primavera precoce ed il calore temperato si protrasse fino verso il ter- mine di giugno. L’estate giunse tardivo, giacchè la media mensile più elevata fu quella di agosto 23,° 7, mentre la media normale più elevata risulta essere per Bologna di 25,° 2 in luglio. L’intera escursione termometrica fu di soli 36,° 3, dal valore minimo — 3,° 9 nel giorno 9 gennaio al valore massimo 32,° 4 nel 22 agosto; mentre la corrispondente escur- sione normale risulta di 41,° 9 fra gli estremi valori normali - -- 7,° 1 alla metà circa di gennaio, e 34,° 8 alla metà circa di luglio. Precipitazioni L'acqua caduta durante l’intero anno fu di mm. 721,3. Il numero dei giorni con pre- cipitazioni, 114, fu ripartito abbastanza regolarmente nei singoli mesi, siechè non si ebbero lunghi periodi di gran secco, nè di troppa umidità. Il maggior numero mensile di giornate piovose fu 14, e la maggiore quantità mensile di pioggia fu mm. 113,1, e l’uno e l’altra accaddero nel mese di ottobre. Il minor numero di giornate con pioggia lo ebbe luglio, 5 giorni; la minor quantità di acqua, agosto, mm. 18, 4. Nel mese di giugno si segnala- rono per abbondanza di precipitazione le giornate 5 e 13 con mm. 34, 4 e 41,7 di acqua rispettivamente. Fra i giorni con precipitazione sono annoverati anche quelli in cui cadde neve, la quale fu quasi sempre in quantità trascurabile e generalmente mista alla pioggia. Nei soli due giorni, 25 gennaio e 26 novembre. la neve riuscì a coprire il suolo, la prima volta per cm. l e la seconda per cm. 8. I temporali locali, quelli cioè che svolsero la loro attività sopra questa stazione, fu- rono i 13 seguenti: 1.° Il 23 maggio nel mattino con tuoni deboli, pioggia ordinaria e vento debole. 2° Il 23 maggio nel pomeriggio con tuoni deboli, pioggia incalcolabile a grosse goccie e vento moderato. 3.° Il 26 maggio sul mezzodì con tuoni deboli, pioggia ordinaria con pochi chicchi di grandine minuta e vento debole o moderato. 4.° Il 27 maggio nel pomeriggio con tuoni deboli, pioggia ordinaria e vento debole o moderato. 5.° Il 28 maggio nel pomeriggio con tuoni deboli, poca pioggia e vento debole. 6.° Il 5 giugno nel pomerigio con alcuni tuoni forti, pioggia torrenziale con qualche chicco di grandine minuta e vento debole o moderato. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 38 — 270 — 7. Il 6 giugno nel pomeriggio con alcuni tuoni forti, pioggia forte e vento debole. 8.° Il 19 giugno nel pomeriggio con alcune potenti scariche elettriche, pioggia tor- renziale e vento debole. 9.° Il 4 luglio intorno al mezzodì con tuoni deboli, pioggia piuttosto forte e vento moderato. 10.° Il 15 luglio nel pomeriggio con debole attività elettrica, poca pioggia e vento debole. 11.° Il 12 agosto nel pomeriggio con poca attività elettrica, debole pioggia e vento moderato. 12.° Il 23 agosto nel pomeriggio con poca e debole attività elettrica, breve e for- tissimo acquazzone e vento moderato. 13.° Il 580 ottobre nel pomeriggio con pochi e deboli tuoni, fitta e violentissima gran- dinata, quasi asciutta, che in pochi minuti ricoprì il suolo di grani di diversa grossezza, alcuni superiori a una noce; vento moderato. Tensione del vapore acqueo La tensione media annua del vapor acqueo, mm. 8,3 fu superiore in generale a quella degli anni precedenti, e così pure le medie mensili dei primi ed ultimi mesi dell’anno furono più alte dei corrispondenti valori normali. Nel complesso l’andamento della tensione seguì quasi regolarmente quello della temperatura, verificandosi analogo ritardo nella media mensile più alta, che risultò quella di agosto, e nel valore estremo superiore che fu di mm. 16,9 il 29 dello stesso mese. Una notevole irregolarità avvenne nel mese di luglio in cui la media fu inferiore di mm. 0,9 a quella di giugno, e così nel mese di novembre in cui la media risultò inferiore di mm. 1,0 a quella di dicembre. Umidità relativa Abbastanza regolari risultarono nella prima metà dell’anno i valori delle medie men- sili, essendo discesi quasi con continuità dal valore di 81 centesimi, media di gennaio, al valore minimo di 50 centesimi, media di luglio, che fu pure il mese che ebbe il minor numero di giornate piovose. Nella seconda metà dell’anno non si verificò, invece, tale re- golarità, e specialmente se ne scostò il mese di ottobre, che ebbe la media umidità rela- tiva assai più alta di quella del mese seguente, e ciò in correlazione col maggior numero di giornate piovose e colla maggior quantità di pioggia caduta, come si è già notato, in ottobre. Il punto di saturazione dell’aria (umidità relativa 100) si raggiunse 4 giorni in gennaio, 1 giorno in marzo, 2 giorni in dicembre in coincidenza con nebbie folte, con brine o con precipitazioni. Il valore minimo dell’umidità relativa nell'intero anno fu di 23 cen- tesimi ed accadde, come il valore minimo della tensione del vapor acqueo, il 12 novembre alle ore 21, con vento moderato di ponente e con cielo sereno. Nebulosità La media generale della nebulosità, considerata in decimi di cielo coperto da nubi, risultò eguale a 5. Se, seguendo l’uso stabilito, si chiamano giorni sereni quelli nei quali la somma della nebulosità delle tre osservazioni giornaliere non fu superiore a 83; giorni Ia misti quelli nei quali tale somma rimase compresa fra 4 e 26; giorni coperti quelli nei quali la somma stessa risultò superiore a 26, i giorni sereni furono 59, i misti 229, i co- perti 77. Il maggior numero mensile di giornate serene lo ebbero, luglio 11 giorni, e agosto 10 giorni; gli stessi mesi furono i soli dell’anno che non ebbero alcun giorno con cielo coperto. Dicembre ebbe il maggior numero di giorni coperti, 15. Rappresentando ora per maggior chiarezza in centesimi il rapporto del nuinero dei giorni sereni, coperti e misti al numero totale dei giorni dell’anno, si ha rispettivamente 16, 21 e 63, donde risulta che vi fu scarsità di cielo del tutto sereno e del tutto coperto e notevole prepornderanza di cielo misto. Provenienza e velocità del vento Nelle 1095 osservazioni del vento 78 volte non si notò la provenienza, perchè l’anemo- metro indicava la calma assoleta. Nelle rimanenti 1017 volte ebbero una enorme prevalenza i venti intorno a ponente, essendosi osservato per 362 volte il vento di ovest, 256 volte quello di sud-ovest e 122 volte quello di nord-ovest. Delle altre provenienze la meno frequente di tutte fu quella di nord che fu osservata solo 26 volte. Se anche qui si esprime in cente- simi il rapporto del numero delle volte in cui il vento spirò dalle singole provenienze al numero totale delle volte osservate, si ha: NESEENER_:8 — to: SSBi_9ST— 63 SW=R20:WE_B86ENWE—=13: da ciò risulta, a colpo d’occhio, la varia proporzione nella frequenza dei venti. La velocità media generale risultò di Km. 9 all’ora. Le medie mensili furono tutte poco elevate; la maggiore fu quella di giugno, 13 chilometri all’ora; la minore quella di ottobre, 4 chilometri all’ora. Non vi furono giornate di uragani, nè di venti impetuosi ec- cezionali. Vento piuttosto forte soffiò nei giorni: 8 maggio, 26 giugno e 2 novembre, tutti del terzo quadrante, con una media diurna di chilometri 31, 28 e 29 rispettivamente. Evaporazione La totale quantità di acqua evaporata fu di mm. 1048, 2 corrispondente a una media diurna di mm. 2, 9; questi valori sono sensibilmente inferiori a quelli dell’anno precedente ed ai rispettivi valori normali. Tale diminuzione fu specialmente dipendente dallo scarso contributo recato dai mesi estivi a cagione delle poco elevate temperature e della scarsità di giornate serene che si ebbero in tali mesi. L'andamento delle medie mensili seguì regolare, cioè, ascendente senza eccezione dalla media minima di mm. 1,0 di gennaio alla media massima di mm. 5,9 di luglio, e discen- dente, pure quasi regolarmente, da questa all’altra media minima di mm. 1,0 in dicembre. Irregolarità si riscontrò nel solo mese di ottobre, nel quale l’evaporazione media fu infe- riore a quella di novembre, e ciò perchè in tal mese le condizioni atmosferiche furono sfavorevoli alla evaporazione essendovi nell’aria abbondanza di umidità a cagione del grande numero di giornate coperte e piovose e della grande quantità di acqua caduta. — Rig — OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE ) È, oi N m FATTE NELL’OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83”, 8) (cb) f Ri 6 d D 2 GENNAIO 1910 Tempo medio dell’ Europa centrale |5 © Z E mi Forma HI NÉ o È Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada È SE delle } & 0 E Mt E | | Media |'9 PE| precipitazioni iS gu {SAR IRAN IM cia ANO® MD %® | Mass. | Min. |mass.min.|® = °° D | qu 21 ® mm. mm. mm. mm. (0) (0) (0) | (0) (0) (0) mm. 0) DI (o 0) 19 09 DS 0 DI 9 — (CHISAISI 4 2, Cos ea 9 o NONNA 00, o Sb con De 76940 Mrostol 6900 esa ZIONI 10) NT68491 0160988 NIGSTA 66938 0a o e ea e 0,7 ORE Varg LO o 3 I DI 69 I 19 DO VOLE fc») | 748,4 | 751,6 4,0 4,6 1,6 nl (6) o) I ZAN zo 9A NN, POR e 0 a ira toi ri Ra oe 20 4,3 1,3 | pioggia e neve D) [ 43 7438 10,7 ui 741,2 | 740,9 5,4 | pioggia e neve TSSRON TAO IU I 3 ioggi 59 1,4 | pioggia e neve 6 ORA N20 003: MO) 04 | LE 20) (36) È (SI ni = SUI nl 19 DI CO 0 DI e Sh Si > (>) SI SS I 17 neve (SAMURAI RT SRI 7 0,6 | pioggia e neve 7 737,7 4 15939 0/21 Mor 0 vo c2 E ier) == a Wo UT (Her) dI > WI = Di SO 28 | 792,8 | 753,8 | 703,8 ca 0.8 TIR | 1,4 De 0,5 pioggia 6 7,6 pioggia I (>) e) (Dai RS 1 (Da; S 31 | 751,6) 7516507524] 78 sete 35 0 3,4 5,8 pioggia i Comm i È 6 : Altezza barometrica massima 769,4 g. 10 Temperatura massima 16,1 g. 19 » » minima 730,4 » 25 » minima — 3,9 » » media 753,9 » media 7219) rr—————________________r————_—_—_________________________—_€——_—<_ÈÈ«e—__o__—m——————m—_——ee— ——r—————m—mmtmt .Ò (35 ‘ — ì O, ( o 0 = 1} O 2 = (ep) 3 2 (er) = Y DI Ce ol È JdA-dIu EEE e e SEEN ehi iO ie dr 8 920, 222 22.95, 27, 28 99, 30, 3 Brina nei giorni 4, 6, 7, 8,9, 10, 17, 18. Ricreazione 5 SN Mes N: I9 4,2 1,9 0,3 | pioggia e neve 4 | 761,9 | 763,0] 764,6 | 763,2] 24 DO | DEV 1,4 c 15] 762,4 | 760,5 | 759,9| 760,9] 21 5,0 4,0 | 5,4 aq 16 | 761,4 | 761,0 | 760,9: 764,1 OOO 4,5 5,8 0,8 3,4 ii 759928 ora 57/0061 58286 EI TONT O 2a SM6 UI r—————_——_—_Ée —_———@—PP1[912 sx oscscccrrGcx=ox-<=—=xcx=--<“SSc csc IE SOM.» —11==ÀÀZZÀ==y --r————21 — Ris — OSsERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL’OsservarorIo peLLA R. Università pi BoLoona (alt. 83",8) 2 GENNAIO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale SME 5 223] 25 E Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza 2 & 2S a, in millimetri in centesimi in decimi del vento Sail 2 E — - S| E° Lari D (Sf e | 9h | 158 | 200 | Media | 9® | 15% | 218 | Media | 9 | 155/2085] @ || 20 ls] 3 mm 434,546 COD SL. 76 | 2 80 4 10,40 ? W W 7 ALATI QAS MO o 4,8 GOZO | T2 0 3 0 | W W_ | SW 8 IS LC ARAN 72 GI US MORIESY e vv 5 | 2 LAS TON oi 450 4,3 58 | ol 9A 4 O {| SWINWNW 7 1,6 Sez GS ist sso | 5975 | 65 66 cao ui va NY: SAMIMIES 6|44(5,1| 9,4 5,0 80 | 68 | 78 76 2 0 0 SE ? W 6 1,6 e is tor pros 1987 96 92 lo | 10 |10| s|(swiw 309 SRSNGR zi gi uo lgs. | 93 100 94 o o0|4i0| w|NW|NW| 3 |gelato OM sla 39 | 7 | 94 | 98 93 0 | 10 | 10 | NV ? W I |gelato Ioia ole 22 gi | 96] 9694 4 | 10|10| w ? ? 3 |gelato {54 4,9 4,8 4,7 9 | Se | a 95 10 SO ? ? W 2 {gelato 17 | CEE SiisOol 98 | 96 | 96 97 10 | 10 10 w | w |NW]| ?2 |gelato IRR 947 9,0 97 89 87 OI 10 10 6 | NW |NW| W 10 4,20 IMSS 404,2 4,1 CRA 69 0 0 O0{ WI/NW| W 10 1,8 50 SASA DELE 60 | 52 | 61 58 7 3 3 ISW | W W 9 139 16/43 | 49| 44 4,5 77 72 | 169 TE 5 0 0 o) N SW 6 1,5 aes ton go ez | SU | 88 85 DI RSI OS W. | W SANTI Roi Ceol(5.2) 55 5 193, 100 93 o | 10| 10 W |NW| N SAMIUIEO 19] 486,0 |5,2 DSS 64 | 45 | 85 69 6 { 6 | SW | SW S 12 1,9 2901 4,5 6,9|6,3| 59 co 79 3 2 i |SW|Ssw|Sw GI Nile /6.6.|4,9) 5.7 On CEscUgo 91 8 ORTONE ve NW 8 || MD 22145 | 4,6) 4,9 41 II 89 | 100 918) 10 10 10 W W._ | NW 10 0,2 Ro, 3,3 n Mo 3 0 59 8 Q 0 |] W W W 13 1,0 ARS RS RI il (69 65 CI ANCO LOR RSIVVAN NIMAIA ] LOR ZZZ] 37 86 | 67 | 85 79 10 6 0 |{NW|NW! NW 3 | gelato 2% [5 BZ CONO 76 2 | 10 | IO | NW| SW| W 7 |gelato Pe 05) N 4,5 0288 OR S5 90 10 | 10 9 ? W | SW 4 |gelato 5045040 4,0 78 To | 89 SI 0 0 10 | SW ? SE 8. |gelato DONNA ZO 4,8 100 | 194 OI 95 10 10) 10 ? W W 6 |gelato MRZOTSi Mato Sesso s? | 88 | 95 87 g|io|to|Nw{ w | w 9 | 4,50 Ri RONN Roson E5S6 50) 97 95 95 96 10 10 lO | SW | SW | SW 12 0, $ A CZ 4,6 SI US) SI SI 9) 6 6 7 13,0 T'ens. del vapor acq mass 6,9 oO Proporzione Media nebulosità DIN, » Mii ZA È . dd » » media 4,6 dei venti nel mese relativa nel mese Umidità relativa mass. 100 g. 8,18, 22,29 1 p a (lai > > nin 00 DIE N NE E SE S SW W NW LACCI » » media Sl e OCA] 2 d9 30 17 6 ———@————++—+1ym92— — ___-——--&GGG,àÒÒÒ”e; y)5Nn>>ÒÒ>=,è: (1) Comprende anche 1° evaporazione dei giorni precedenti in cui l’ evaporimetro rimase gelato. 24 — USssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università pi BoLogna (alt. 83m, 8) — == = cb) Ò (S| (e») £ FEBBRAIO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale |e © £ 8 RIS Forma 2 (c] E S S Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada ipa delle pr È SES Ei | Media [9 2 £| precipitazioni = ; . = È Ò 3 S=03 S gn 15h 21° | Media gh (E QNia Mass. | Min. |mass min.|®'=.® È | OZIA mm mm. min. mm. (0) (0) (0) (0) (0) (0) mm. L | 7o1,4| 749,6 | 748,8 | 749,9 3,4 5,4 SI 5,8 2013 4,3 2 | 748,5 | 748,0 | 748,3 | 748,3 4,5 7,8 9, d 8,0 4,3 5, 6 SI ITATENA TA A2029 TA: SII US 5,6 8,9 NT 9, 0 ONES ITA COS IZ, 3,0 3,6 4,2 TA ZA 4,3 a pioggia 5 | 750,4 | 751,8] 754,4| 75221 38 6,8 SI 24 4,6 0,7 pioggia GA aZiO Or Mor 754024 SE 7,0 O | 760 9,9 4,8 USD 7| 751,4 | 749.9) 749,5 | 750,2] 6,4 | 10,6 ne ong 5.7 7,6 8 | 746,2 | 7449. zago | 745.00 5,2 | (607 5,1 TZ 5,5 3,6 pioggia 9 | 741,9 | 743.1] 747,0 | 744,0 2.6 40 3,9 Sal 2,6 3, 6 193,2 | pioggia e neve il ORARIA R6R0ON 75600] 63% 9,0 6,8 432 TOO 3,8 9,0 0 pioggia If 5 95) oro RIST MS RO) De? 3,4 5,6 1,8 De 0,4 pioggia 12 | 756,3 | 754,7 | 754,8 | 755, 2,6 5,4 OO 0,2 DE RT 6900 MET UO O 2,0 6,0 5,0 6,2 1,5 3,7 MOTORIO OST Iso) 2 3,4 9, 6 De DAN 90 4,4 15} 753,2 | 750,1| 747,4| 750,2] 40 6,0 4,8 6,2 31 4,5 16 | 745,3 | 746,8 | 751,6 | 747,9 208 200 3,3 4,8 dI SAN MTA OSATO TSI 60 NoN 5990 0,4 8,8 6,4 9,0 3, 6, 0 TRN |] 759851699 AZ6001 4,2 8,6 6,7 8,9 2, 5, 6 O oro e 606 1,6 5,5 1,3). pioggia 20.) 759,9 | 754,6 | 759,7 | 759,9 5,6 6,8 TRS 19 5,3 6, 6 0,8 pioggia 270896) 7500 N60 5996 9,4 8,0 7,6 8,7 DL 6,7 0,2 pioggia QI M639] SANT 645 MMG 6,8 IM9 8,8 12,4 5,9 8,5 2307627 elet 6088 eta o 8,4 | 44,4 GUN 8.6 QUO SSN MISA D SOTA ONO 2 12,6 8,7 12,9 3,6 1,9 25 | TATA | 756,6 | 755,0/7563| 70 9,8 8,4 | 10,0 7,0 8,1 26 | 753,9 | 750,4 | 746,9 | 700,2 2 11,4 11,6 ISO 6,9 9, 6 Ori 740897 BUCA ZAR MIONO 7,6 6,9 1202 6,5 8,8 EN pioggia QSUI 220753090 M755N9 038 4,6 6,2 4,6 6,7 4,4 dd 0, $ pioggia I | | UD ITRA TO LASÙ 5324 (50) 4,7 ie 40 9, $ 290 | Î | Altezza barometrica massima 764,5 g. 22 Temperatura massima 12,8 g. 24 » » minima 737,3 » 27 » ATTRA O NI » » media 753,0 » media 5,8 Nebbia nei'giorni 9: 465, 8 9N ON AS 2022238240251 orni del mese 5|® Lod DICO SMINOTO. 4| 4,7 DIBRONO DIA MS DO Rao 9 0,3 095 40 2 6668 15} || NEC IZOSTA iù |£65) 16, 9,2 I76 || 9 18 | 4,6 10) || 9) 20. 6,4 Zoni RM ROS 24 | 6,0 25 | 6,6 ReiNono RI RS 2BRIONI Da Tens. del vapor acq. mass. OssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL'OsservatorIO DELLA R. Università DI BoLocna (alt. 83m, 8) — 275 Umidità relativa mass. » » E FEBBRAIO 1910 -- Tempo medio dell’ Europa centrale 5 2| e VO © © Ae Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza 2 E| E® in millimetri in centesimi in decimi del vento E TE 2, Sessi = ®© E 9% | 23 | Ned | O | 465 Zi Meda | Us: 245 gh 15° pih | E tî mim AA 4,9 Song ron Mor 76 3 ( 3 W.|SW| W 9 1093, DES MONO O 74 67 S3 79 6 2 10 W 2 SE S 119 35 | 2 5,6 Se 78 I 84 9) 9 10 ? SW | SW 8 192 9,9 | 5,4 DI 83 | 90 | 87 87 2 10 10 {NW | NW | W 9 1,0 DI | 46 DI DO | #7 | Gi 78 8 2 4 {NW| W W 9 A TAI 4, 4 10 Mo 2 Me? 54 0 2 5) W_ |NW|SW 8 3,0 Se a on 6200540 Nor 61 GIR NAZAE ON ovali evvai US 2A DN ROS 5,6 SI | 70 | 86 SD FS LLC A TICO | IAN ANAVVAN MIS 11 1,6 4,95; 4 DIR 96 | SO | 88 88 10 10 lO {I NW W | NW 14 1,0 429,0 4,8 SI 57 | 80 73 10 | 10 10 W NE | SE 8 182 LO | 0a) 095 ta. || 25 73 64 0 2 0 W_ | NW S î 2 3,3 | 4,0 37 ZOO 62 6 2 0 W W W 3 od LI 49 4,3 mi SOM 68 SE IIO 10 W |NW | W 8 93) GONO Raisi AO 69) 2 1.66 69 10 | 10| 10j W| w| w SORIANO o 562 4,7 T0| 64 | 81 tu? 10 2 10 W N B 7 1,6 o 49 DR 9 | OY 65 92 10 10 0 {NW|NW| W 7 0,9 COS 00) 42 RINO 97 0 0 0 W W | SW ll 2.6 4,6 | 4,8 4,7 TA 55 65 65 0 7 5 I SW | NE W 1 ig Del IONI 5,8 S4 | 91 | 88 88 10 | 10 10 W W W 3 192 DO 63 6,9 94 | 94 | 94 94 10 10 | 10 ? SW | NW 7 0,7 2 Rea 84 10 | 5 IRR RENVA VA evvai MOSTO Til | 9 6,9 62 | (68 | 189 S0 8 7 6 {SW | SE W 6 18 ei IO Til SON en MOR 85 6 6 5) W._ | NW S 6 1,4 SEUI AO oe cora LO CSO) 88 10 9 10 I NW | NW | NW 6 1,1 7,8 | 78 (5 SU eo | 90 10 SIMMONS ? W 4 2 TA el eda) Ass 0735 TI Te IS RIVA ESEl se svi 0 O RON DI? Da | (66) 76 66 4 10 0 I SW | W | SW 27 DIQ Da | DO 5, A SI | $2 | 84 82 10 8 3 W |NW|NW 10 1,6 Pa ee ole 76 mere 814 | i 8, SiR Proporzione Media nebulosità » » min. 3,0 » Il : b » » media 5, dei venti nel mese relativa nel mese 97 16, 24 3 RARO, STO RODI N NE E SE S SW W NW "n diana » media 76 | 2A CI INIET 19 Z 276 — OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università pi BoLoona (alt. 83”, 8) Nebbia nei giorni 1, 9, 13, 14, 15. = = D Ri D g MARZO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale 5OE & ROS Forma se Barometro ridotto a 0° G. Temperatura centigrada 25 delle ia _ |&roz ia E | Media |9 SE precipitazioni S gh L5b RR Aegiani ion 9 21% | Mass. | Min. \mass.min.|]g = D P, IRIS mm. mm mm. | mm. o o o o o o mm. NO ee 84 ae 00 108 4,2 mA 2| 756,2 | 756,4 757,5 756,71 6,4 TA 0 5,7 66 RIVoTA SI Bordo oO RIOT 6,8 9,6 7,8 9,8 6,2 7,6 0,2 pioggia 4 | 158,3] 157,6 || 7081, 758,0 DS 9,8 (0 10, 4 4,0 6,8 DU 7601 | 7602 || 26121760, 44 8,$ 6,5 9,1 3,9 5,9 Cr ToAZA (60) 7/0/1827 (6188 6,6 102 7,8 10,7 9,0 (9 PAZ ZO 0 0 SRO) 122 DI 8,5 Sire AO rt Need 2) o I Das GAI 9,1 9| 7620 | 761,2 | 761,5! 761,6) 84 | 1259 95 3,0 6,2 9,3 TOR 61128 09 ToN] Ro SToN AZ00SII (2 13,6 10,3 14,0 6,0 9, 4 LANZO 7600N 6976, | Wbo9Ho Nils 13,6 3 13,8 6,8 1082 1005 Oo To SR 75900 59 14,2 10,6 14,6 8,7 11,3 | È A MEN € | n n O Riise or re desi des Rec 9,5 NANO SSTO SSkTA RSS 05895 7,5 10,4 10,0 10,6 6,9 8,8 l NR ST60 50008 N56 ore MIN 11,6 10,4 12,0 Oo 10, 6 0,7 pioggia ANNO SA 7 509 o TRINO 989 13,2 10,5 197 URS 10,3 BI! pioggia Mv 109 Raise 08 IO RITO VAS IZZO CSO 050 15,0 1282 19,2 3,6 11,3 19] 745.6 || 745,30| 746,4) 745,7 13,2 (15,0 | 10000) 15,9 | 10,0 | 123 i 00) oi 8798 o sà Mo dr 9,2 10,3 0,6 pioggia OR O RR 9a | 10,2 3,5 pioggia I DIL SLA 60) dai ig 38) 4 107 Re Led 8293892 28 ion 2 82. 10,3 2 | 75500. | 7548 | 755,3 | 7550] 9,8 | a2°8 | 009 | 00 8 10,4 | 25 | 756,9 | 757,2| 7582 757,4) 74) 102 8,5 | 10,6 5,4 7,9 26. 75808 (75809 veg mosto 820 uns 9,6 | 12,1 6,3 9,0 ZETA TOSTI 7089) 798,9. 10,2 13,4 1,2 13,7 U5d 10,7 28076900 este 5961 (gia 2008 Dia ee 12,1 29 | 759,0 | 756,2 | 756,1| 75701] 1204 | d6060) 134 | 171 96 | 13, | 30 | 754,8 | 750,6. 750,6 | 752,0 (6. 1250 6.7 | 13.4 6,7 9,1 0,8 pioggia | 314 | 748,3 | 750,3 | ORASA SONO 4,4 3, d 3,8 2 2h 4,9 18,9 pioggia TOONON ODNSA 50924 5682 8,7 iQ a 12,6 7,0 9,4 DIA Altezza barometrica massima 762,0 g. 9 Temperatura massima 17,1 g. 29 » » minima 745,3 » 419 » minima Ta, dal » » media 756,2 » media ON4 ii Sq o OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL'Osservarorio peLLA R. Università DI BoLoGna (alt. 83”, 8) ne) ta) Tres | È MARZO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale © S| ® © E S| SG di, cla - |Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza > El so les in millimetri in centesimi in decimi del vento 92 SS = alal a S| 9% | 15h | 21] Media | 9® | 15% | 21h) Media | 9® | 15h [210] gn | 15002 og 8° mm Toi SASSI So 4,9 09 | 47 | 0 60 $ 5) S| W |NW W 12 1,9 Sii le, 30 507 I ese (83.188 NI LO 0 O go SR MG NOSSA Nono 6,9 t9) 76 82 SI 10 9 0 W W W 10 1662 4 | 5,8 | 4,0 | 5,2 5,0 85 42 70 66 0 DI 0 W NW | SE 8 1.8 Ser 0 io ez Ir zo | 69 71 dio og ee sw 4 | 21 6| 4, AZIO UR, 60 46 dI 52 0) 0 0 WI W SW 8 21 T|{ 50 | 49 | 4,9 DO) 41 59) O 0 0 0 W W SW SÒ 2005) atea peo seat 50 59 50 1059 56 08 OR 0 vai o ISVV 8 | 203 OA ZA 58) 4,9 65 40 55 53 0 0 0 W W SW Îi 21 ONESa 428 MON 4, T 63 54 5I (0) 0 0 W E SW 9 3, I z| DL 5A 47 70 58 O) 2 0 | SW W SE 13 3,9 290% I? 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Tomo VIII. 1910-11. 3 CROTIE USSERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NkLL'OsservatorIo peLLA R. Università DI BoLogna (alt. 83m, 8) ® D ° D £ APRILE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale 5Oz S pc Ca Forma ©) TIE Sr - ERE Gs 3 Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada 3 ap delle Has NESS E Media |'9 Z| precipitazioni .2 Oui 195 24h | Media gn No 2 Mass. | Min. |mass.min.|®'=.°° (do) I qu 20 d min mm. nm mm. 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TATE 61 TIZIO 60 A 8A2A | 901 est Maisto ss9 MAQH6 15,4 RA LITI SO 49981 74008) 0750828 13008 7020) o re 0 14,4 %5) P1088 25. | 747,6| 747,7.) 749,0) 748,1] 16,0) 19,4) 15,7) 19,6 | 10,4 15,4 E 00 0 Me 4 I 202 | IO 6% SER I 2 VERO | 2276 ie de 97 EE 9 06015600 | 766,9 | 6,0 MO NIZZA 0,6 13,0 QORIMSTIN 5289 RoZA KA RO Re RU 8,9 192 300750821 740821 75060 5000, NRs84 reed e io o 14,2 TRE R750981 6 1 re I 25 8 9,2 123026 | | Altezza barometrica massima 757, 6 CURCI Temperatura massima 23,8 g. 20 » » minima 745,6 » 9 » minima 20 >» A » » media 751,3 » media 12.9) Nebbia nei giorni 1, 20/3, 4/14, 22/291 24° LA OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università Di BoLogna (alt. 83",8) APRILE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza in millimetri in centesimi in decimi del vento del vento in chilom. all'ora nelle 24 ore Qi | 218 | Media, || 9 [EE 2 Med || Gi ghe gh | 45h DI Velocità media Evaporazione D n e [©| ©) DI E :2 DS tO 9 1 > OI S tO = —1 DUO 10 1 TO dv 9 0 CNISAIS 3 DOS --1 DUI DI 1010 (Re 9) 103 (DA { © 9 O! 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DI 8 20 Proporzione Media nebulosità dei venti nel mese relativa nel mese 7 D& Vi idità r iv 970 0a ( j imi Mn iaitavrelaciva ga - 8: DO 9 N NE E SE S SW W NW in decimi » » media 67 2 3 DARIO NERI 6 =—t11@rr————@<@<—@111@93£<, ‘IC. @W...©U.-©©DÈU-r@r@@@__—@_@—@——@——@—#@#(r700791<@71111111—@<##—@111#11@1111101 /—@6@@@@@@5ÙLÙ\’‘ o..." I\W.L|.\ .-. ND.) —"@‘NCSDOO |@O LU GGOIEE( 2 i — = = Uta 0 [Oa] v z RD OD SD UTO UùT SOR (Mi op) DA 1 00. 00 [[ONN! TO TO WI (e ol©r] e du Du O — Ol») voler (©PM3%) 00) = (> = (NI sE DE zz (9 p) Sg 5 100 DI — PO ui OI USssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL Osservatorio DELLA R. Università DI BoLoena (alt. 83”, 8) O v o _ 5 MAGGIO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale DIE S ica Forma 2a qfro = Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada ESE delle FE Cal Solis: alte . . E Media |9 5 £| precipitazioni S gu SL 24° | Media | 9" 19 DIA Mass. | Min. |mass min.jg = D OUSOZIONI È mn mm. mn. mm. (0) (0) (0) (0) (0) (0) mm. ipa fo 2087 ei 874 ee ORA MRO 2.1 746,8 | 743,6 | 743,8 | 744,7 | 121 15,8 11,6 15,8 10,1 19,4 1,3 pioggia FRASE ZA 12 16,0 18,0 $,0 Ma. 7 A pioggia 4 | 744,8 | 743,8 | 744,0 | 744,2} 15,0 | 194 | 16,8) 20,0 | 12,0 16,0 5.| 745,3 | 745,0 | 746,6 | 745,6 1° 13,4 TRASI 16,8 U9 13, 2 3, pioggia Lea, 7620175955 2 16,0 13,5 16,4 dd 12,6 3,6 pioggia TA [0198 50958) 7500 75 0NON MZI68S 19,0 11052 19,6 12,6 16,3 SIA, CSA 44 7A5 ON | EMIR 18,2 15,5 19,0 14,6 16,9 9 | 745,3 | 746,0 | 747,1 | 746,1 | 16,8 17,6 TRS ASINI RISI 15, 4 Ì 10 | 748,9 | 749,4 | 748,7 | 749,0 920 2208 LEO MEL350. 8,0 10,4 MURE, | esa 60 8 MESSO 8 | 412 SI MELZO 8,8 9,8 11,2 pioggia IMM Tea 013] 708.9 | 19,6 15,0 13,1 15,6 85 IRE Bo 0328 753900 No 3ASEIMIRA6 17,8 15,6 18,0 11,0 14, 4 TO ZIZA Mo2924 RISO 14,6 IS AZ 120) 14,6 Io DARA 168 0178 02 18,6 15,4 18,8 10,3 14,7 116% NO SSA SOR TOZZI Ro, LSSR| LOR 19,4 AV? 19,6 RR 16, 6 MO Io HZ OZ 18,4 16, 18,8 13,7 6x2 I AZ MEO Me oo Re. | 29 Ma 0 14,9 18,0 ES 80 ME 01 i 460 26 17,4 RENE ALA 2 201) 750,2) | 749,6) | 7508 | 75002 I 18,8 22.6 TERSIn 232 USO 18, $ ATO 0606 USV 202] 29 ulto 2552 MIAO ZIO ZO TOO OLI | 794266 1 20,9 18,7 21,6 { 15,7 1852 OZ V0060 74 7909768169 INA 20, 4 15,4 17,8 QI pioggia DZ OLT TEZ V0| 7523 10,2 17,8 16,4 18,6 15,4 16,9 1,3 pioggia VOI MOTI LAO 21,6.) 165 21,18 14,0 18,0 j DE ID 0400 650100, 12,2 19,0 | 21,8 16,0 19,0 dol pioggia A IO | 020 SI 2150 17,8 ASA 2250) 16,8 11943 36 pioggia IZ TL 7980.) 7958 IR 224 INA O22A6 ) 18, 6 1,0 piogg a 2 604] 7600® | 7509. ASA 21,3 ISSN 2282 15,0 18,5 Sl ASSO VADA 4 TASSO 102 20 | 20,5 | 282 14,6 19,7 Ze 7783 |WZ0,8 | 46659 20,2 23,4 RENI 24,2 16,7 20,8 CASA . 2 | | o Ze Me 790260 | A 162 | TO | 120 162 41,7 | | | li RE SR E E I mm (1) Altezza barometrica massima 755,0 e. 26 Temperatura massima 25,2 g. » » minima 743,1 » 3 » minima RON » » media 750,2 » media 16, 2 Nebbia nei giorni 18. 19. Temporale nei giorni 23 (due volte), 26, 27, 28. ) —FFF rr _e_o_ we o} rT_r_—r T —_ _uUae0_d____-" POLITO e | E n TT ee ur — 281 — OssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL Osservatorio peLLA R. Università pr BoLocna (alt. 837,8) = MAGGIO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale = E do | O ST; SS Ra, BI DIS [Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza 22 E = ne in millimetri in centesimi in decimi del vento Fio = S SS|gé RE i 2 Meda RN MR ZIEN MMediaNi Rion ARA 24090 ORE SZ] mm I Oto, 15 GRZ 67 63 IO 8 E INI

» » » media 8,9 dei venti nel mese relativa nel mese Umidità relativa mass. 91 g. 2 ; imi È MR tg N NE E SE S SW w NW Lp Cool » » media 61 > 00 dI de 2 0 ua 6 Serie VI. l'omo VIII. 1910-11. 40 — 282 — USSERVAZIONI METEOROLOGICHE ratte NeLL OsservaroRrIO DELLA R. Università pi BoLocna (alt. 83m, 8) Giorni A ® E a ds s GIUGNO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale Ep E got Forma E DE a i Es S Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada 3 delle & 50 | Î | Media | S| precipitazioni OLA RAG] 2. Media | (OR. | 16° 21" | Mass. | Min. |mass minj/£ a dI | 9, 20 |& mm. mm. INM. mm. (0) (0) (0) (0) (©) (0) mm. 1 | 754/41 | 750,6°| 751,2) 751,0] 23,0) 25,8 | 23.0 | 26,2 | 18,6) 227 QI MS ISO A ZZZ 9004 2,6 200 OI ME i Vo 006 (9020224600 2,2.) 185 23,1 il Î | 4 | 749,6 747,0) 7476 | 748,1] 25,0 ZE 2] 268) 206 23 DIAZ MI4888 IST Ea L90186 2340 16,3 15,5 34, 4 pioggia 6| 746,0 | 747,7 74006) 747,8] 80 | 230) 204 | 200 | 1560195 | 158 pioggia | i | ero e 6558 020 0) 20551 256 | 107 21,6 Se 0 eo e 22020 2 | 189 29,1 OR Z2 VEL Vo 2 L90202 N20 29 | 2760) 106 23, 8 754,2 | 748,9 | 748,7 749,6] 224 25,4) 2930 25.6 | 062207 749 108818 TO 75 008 2 A 20208 020008 232 8,2 QI 2 SIMON AZONOr NZ 0g 2/08 Rae 032 20, 4 TAURO RTLA ISTE 45924 KO” 169508 20 14,7 16, 8 41,7 pioggia IE 0A 08 006 AA 2052 | 1668) 254) 100 18,4 2 pioggia MOZITA 1032A 703890 5388 LI 08 MOSS N08 RR 28M 108 19,8 OA ISO Moi ZIO. 2502289 | 24 | 16,8 21,9 ODO TA 704, TODO I250 280 | 235 252 | 20,3 235,8 l 755,5 | 754/4| 755.1 | 755,0] 23,0 | 24,8 | 2109 | 25,6 | 184 | 222 1,2 pioggia OO 2 WA R50 228 | 24 | 16,6 21,9 11,3 pioggia Di IA 22,2 | 29,8 2040 74 00,9 23 0 TOI O IO O ZIc0 2206 (MOT I AILT 20, 4 | | OMM 66% 230230 23,9) 26,3 | 170 CONS, 00 e ee ee 00 0 2 20) 200 Tale8t 750.90 ve 010 rs 00020987 0 27208 2500 ro 215 | IERI IO RTARO 2460200) 2724204 24,0 CID WR MR 329,2 | 298 | 241) 96 | 21,9 AA MO RO La 209 (262 | 222 200 (17,7 22,0 PISO 10 990) ZL) Wa 230 | 2640) 60 ZA 756,0 | 754,6 | 753,4] 54,7] 24,8) 284) 24,4 | 290) 20,4 | 246 OA Mi e Re QoS 23,90 292 120.9 24,6 i nd 59 LI 054.) 761, ZL) | 258 241 257 69) 229,0 (107,1 Altezza barometrica massima 757,1 g 19 Temperatura massima 29,0 g. 29 » » minima 742,2 » 26 » minima 14,7 » 13 » » media 791,5 » media 220) Temporale nei giorni 5, 6, 19. CR A Lr — 1288. — OssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLoena (alt. 83", 8) : GIUGNO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale = È co DIS e) — SIE -$ [Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza Se | Sa ‘n in millimetri in centesiini in decimi del vento are 9 a Oda Sa S a È ate CRE || 9 | 493 | 20 | Media || 9 |a 2751] Media Stio Mz oa mm le 208 ONOR LAZ AS 60 | 40 | 55 DR 0 2 3 ? SW | SW 10 {4,9 2002 0 NT aa 02400 53 e srl Sw 6. 6.1 Si IS28 128 MO 0 | 44.58 5I 0 2 0 W E SW TM MON SZ 20 DON IS? 48 48 94 50 20 MO. IURIS BE. iS 14 6,3 d [190 27 MS | A25G 80 | Si | 84 82 00 E LO ALOR IN W | NW USO 6 {14,4 [11,1 (10,6 | 11,0 15 | 53 | 59 62 QU ZE SUASA Sv 0 TM? 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Università pr BoLoona (alt. 83", 8) LUGLIO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale lone Forma delle precipitazioni itaz ipi i del mese Barometro ridotto a 0° G. Temperatura centigrada Media Min. |mass.min. QI pioggia, neve e grandine fuse Prec O 15h RARI Me dira }{f (gn ADR DIE ! Mass. mm mm. mm. mm. 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DI TO TO PO (MIMO) I = CO 2 9,0 pioggia TO ro 9 LD | 152:3 | 751,3 | 754,5| 751,7] 29,6 | 26,2.) 23,2 | 274 | 195 | 23,4 | 34,7 | imm (0) Altezza barometrica massima 756,3 g. 22 Temperatura massima 31,8 » » minima 744,5 » 7 » minima 12,5 » » media 751,7 » media Da Al Temporale nei giorni 4, 15. — 285 — OssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL’OsservaToRIO DELLA h. Università pi BoLoona (alt. 83”, 8) i [o] 5 LUGLIO 1910 - Tempo medio dell’ Europa centrale = Sea SISIGI BS S [Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza z 2 E 23 È in millimetri in centesimi in decimi del vento ci Se si | SR ERE Sass 5 | 9 | 15 | 215] Media | 9 | 15° | 215) Media | 9 | 150 [210] gi | as lonmf 85 mm JONSl ennio ese 46 | 25 | 42 38 0 1 O{SW|SW|SwW| 2 | 8% ON2A ON MONS 8,9 54 41 33 13 2 n) Di) W N SW 11 6,4 OSS ASS SZ CLI 47 37 41 42 2 $ 2 {SW |SW | SW 18 6,3 RS RL RUS 6 | 62 58 5| 10 140 JNW|SW | W | 15 | 5.9 Gao 0,90 706 7,6 65 36 42 48 10 U) | W SW | SW Il 3,4 SR NONO MONO, ez 47 2089 SIL 9 6 10 W E SW 12 7,3 10,8 (I£,2| 9,4) 10,5 58. | 58 | 60 59 4 È) 9|SW | SE | N 16 | 5,1 COR SS Moni e ZO 49 5 o {I {| NE| NE|SW]| d1 | 3.6 9,2 | 9,8 (10,1 7 o 39 50 4T 0 3 0 W SW_.| SW ll 4,3 Nogiionie Mo:2 o de | 48 39 | 39 42 0 3| O0|SW|SW|SW]| 2 | 5.6 ie NIOx6 859) 1053 55 | 42 | 4l 46 5) 6 SRESWR SEA Sw |-1683 RA sor Ro IE 9 62 90 57 56 0 { è W W S 8 4,6 (3: |12,9 [12,5 |14,0| 13,4 62 | 49 | 68 60 0 6 2] W W E 58 14 (14,2 (12,1 |l4,7 | 13,7 CORE Ne 59 0 7 0 Cai S SERIO 15 [14,8 [14,4 (14,6 | 14,6 61 62 68 64 0 lo) 2: ? 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Università pi BoLogna (alt. 83m, 8) ® SÒ e >) D AGOSTO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale BI È [a] Da ci "Mm È E S Ta orma È : nc ni : = a Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada as delle fr SES E 5 i Media |J9 | precipitazioni 9 Oh I5Ò QU | Media] 9 15° 21% | Mass. | Min. |mass.min.]® =. 2 Pr dI 8 mm. mm mm. | mm. (0) (0) (©) (0) (0) (0) mm RO 0 SO MIRI 22259 23,9 90528 M2350 26, 2 275253 SA sio] 751602550) iogist eo 0 220 ee 3] 750,8 | 749,2 | 746,5 | 749,5 | 26,1 2010 RA PAZZINI 28,1 23,0 2a DA REIT SLIGO. 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Ì o ) 7 5: È RE — 287 — OssERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL’Osservatorio peLLA R. Università Dt BoLogna (alt. 83”, 8) i | 5 z - AGOSTO 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale 5 3|%% 2 <= So | |Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. | Provenienza = È 5 ca = in millimetri in centes'mi in decimi del vento sE i 235/53 18 | 9® | 15» | 21° | Media | 9® | 158 | 218 | Media { 9 | 1588 [20] 9 | sn [an > e|3 | min a oR 29686201251 49 43 47 46 AA TA 0 W NE SW 13 Tad A MUS2A OSSA MELI? 48 39 39 41 Od 0) W SE SW 16 UA 3 hole ie 8 lido | 133 | 48025 | 67 53 G.S | TAV Av Me? 4 {13,5 10,3 | 9,4| 11,1 69 |037 | 45 50 0| 2| 0|NW|SW]|SWl] ie | 4,5 a ee ro 7g | 45 | 2460 937 35 ARA OR SW SWE SW | 240707 Bj RONIin MSSON ONG oe 48 39 450 o ORE ORE NV SY S ll nea | | seen 103) |a 60 60 56 OLTRE 3 | Sv ONT Bre 009 44 39 68 50 0 ON NC [UNE | SE 9 SANI 909 NE Lesa LB 93 93 | 80 62 10 10 I WES | S 9 9,0 folio 14,8 10,2] 11,3 | e5| 55|55| 58 FOO ev 8 | 2,8 [i [12,4 |11,5 (13,0 | 12,2 E i od 3 A SE E SWI3C6 12 [10,5 |!2,0 [10,9 | 11,1 62M 580 59 2 5 Ol wW E | SW SAMINEZZO | PUO e 14,4) 97 | 50 | 26 | 49 12 QU 2a Noise wi sw i 7 44 |12,4 |10,7 |12,3 1,8 SO. 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Università DI BoLocna (alt . 83m, 8) del mese iorni G Nebbia nei giorni 6, 7, 9, 15. 9 D SETTEMBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale |5 2 £ È is E 2 orma 5 (Cl Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada È sE delle & 0 | | Media |'d Z| precipitazioni 9h 15° 2h | Media] 9 15° 2 | Mass. | Min. 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Università DI BoLogna (alt. 83”, 8) © È E 5 SETTEMBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale = SI © ® | CROMO de: SEA -$ |Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza 32 8 Sa E in millimetri in centesimi in decimi del vento sa 29 I RS 2 Media Or Mr E2I2N MMediati|M9L LORA MEZ TA OR ZI Ps mm. I |\6,7|8,8|8,6 8,0 96 | 43 | 44 41 8 $ DIRI AVVES ONER|NSE 7 8, l 2 || G0| 3 | 00 7,0 D. | 29 al 38 2 (| 40) W | NW | SE 13 4 3 | BO| S| 650 7,6 49 | 34 | 48 44 DIMIAZO 0 NW | NW | SW 5 DIO 41B3 89269 8,3 400035028 41 D) 2 {SW | SW | SW 11 5,8 d MO 005 QI SS | 56 | 62 69 9 2 0 INW|NW) SE 4 3,8 De LORO IEZZO ARMOR AGES] 67 70 83 73 ) 10 10 ? NW ? 6 289, TIA | S| 0 83 | 44 | 61 63 5 0 0 | W SE S 4 15® SAI ORON AZStLO LORS O 99) | 184 | 66 DI 0 U 6 B SE | SE a) 3,5 907/9111, 1004 || 70 | 48 | 69 62 10 | 10 ? 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RI OUSssERVAZIONI METEOROLOGICHE pATTE NELL OsservatoRrIO DELLA R. Università DI BoLoona (alt. 83”, 8) i ® S) o E. | 8 OTTOBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale DIE ; S Nos forma sai S 5 © 5 Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada ES delle . n — op Sa Dà . . E Media |9 S| precipitazioni 9 Oi 5h ZAN Media 15È 21h | Mass.| Min. [mass min|g/s.® D gn, 2h {fa SÒ mul Mu. nu. mm. 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S | 0,8 REM ANANOT (92803 85 85 | 90 | 90 88 O 0 0 USE W W 30,5 RIANESSTO 8.84 8,4 94 | 76 | 86 85 10 | 140 | 10 {NW| W W DINIIENO 3 BACO Gi 0 LILLA: IR a RISO RSA ISS) 8; Bi 8976. 183 83 DS O AVV SET RS E OR2 RI TSI ‘850 84 | 69 | 84 79 0 0 MORA ESE SE 2000) ROMITA RR RESI ‘(816 93 | 94 | 95 dA 10 | 10 | 10 2 |NW| W 2 10,6 LIMESESN SONO 0 JORINESoni N03 89 O LORA AZIO ? ? N (03 30 | 9,6 (10,7 |10,2| 10,2 93 | 99 | 96 96 10 | 10 | 10) w |NW|SW 6 | 0,6 DINI OSSA NOTSRIROR? Cho 90 | 88 | S9 89 10 d 0 W._| SW S dA 09 OSS 1029 L'ON 2A AZIONI 9 | Z| 85 82 6 6 5) 4 9 Tens. del vapor acq mass. 15,1 g.4 Proporzione Media nebulosità » » » pid 0 6 È ; » » » » media 10, 1 dei venti nel mese relativa nel mese Dio TEIUra SE Sa S: i NONE EU SEOS SW WNW in decimi » » media $S2 I d 3 15 S 7 34 6 6 292 USsERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83”, 8) tag] ® ad) S D È NOVEMBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale |S E = ale N59 3 Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada a he [MESS S Media |'9 > £ 39 gh Joh QAR Mediati 095 No 2h | Mass. | Min. \mass.min|®'a.°° Si | | CR (SE mm mm mm. mm (0) (0) (0) (0) (0) (0) mm. ITA 749920 7428578 744820 TON MISTA RLE8N 55 9,5 12,5 2907908 oe RA 15,2 SATA 742908 7439088 MIA 14,2 AAA 14,4 9,6 11,6 Lil ove ra) met 20 rie Ro roi re a 5 | 745,1 | 742,6 |.738,4 | 742,04 44,4 | 14,3 HO NISO iS 13,0 3,9 6 sv 00) ad 0001028 ea o OA Mei 0 7,6 7 | 749,4 | 749,0 | 750,4) 749,6] 10,4 | 146) 120 | 148) 7,9 11,3 8 | 752,8 | 753,9 | 756,5) 754,4] 14,6 | 1772 | 146 | 176 | 10,2] 142 R7o7 0175468 73 759 on 689 SO MANNI AIA 15,2 LORA A 900 oO 0 6,4 6,5 15,0 4,7 10,2 10,4 10 | 7563 751668609] fer deo ro aio 8,4 12 | 750,0 | 753,3 | 756,6 | 753,3 OS ICI ORSAN NIIS 5,5 8,9 13 | 759,5 | 758,6 | 758,4 | 758,8 6,8 9,6 6,8 9,9 5,0 1 14 | 753,4 | 747,7 | 744,9 | 748,7 9, $ 6, 8 3, 8,6 dI 6,7 15,3 15 li 35000 ina) arte |, eni en ra o 54 |19,0 MRO e ee Og 6a 8,7 41 19 | 99 | 75202) 75000 Si 2 7 io 8,2 18 | 743,2 | 741,4 | 741,8) 742,0] 4,4 LO AR oi MITO 5,6 | 14,4 19 | 747,2 | 748,2 |\751,3| 748,9) 33 8,1 6,3 ne ZI9) 5,0 301 20 | 755,9 | 755,8 | 756,2 | 756,0 9, A 59 5,0 8,0 5,0 5 8 ORE ORO RIO ZOO LO) 1,8 3,5 DI RR e 02 06 68 (7 3,8 0609 | 6500 6,7 4,8 6,9 |—1,0 32 24 | 724,5 | 756,6 | 758,4 | 756,5 22 6,0 905 6,3 |-053 QNO] 25. | 758,13) 156,3 | 7946) Mo6,4 | 258 DER 33) 4,8 1,8 392 26] 752,2 | 751,6 | 753,5 | n524| 17 ee ec 0 1,2 | 10,0 VAIO 5TR68 58075 ION 1,2 0,4 LA |(=24 = 02 28 | 708,1 | 707,8 || 708,8 | 758,2 | 0.4 Q,2 23) 20 | 2,3. 0,6 290 | 9R00 7582 MSA MoSÒ5 3,0 4,0 4,2 4,3 2093, 3,4 UR SOLISTA, 755888 15540) 755 RS 08 Roi e o 5,4 0, 6 1903149058 rotta 75000) Rn Sti ir OR 0 7,4 | 94,2 Altezza barometrica massima 759, ) 1 Temperatura massima 18, 4 » » minima 734,6 » 15 » minima — 2,4 » » media 750,0 » media To Nebbia nei giorni 14, 15, 21, 25, 26, 27, 28, 29, 30. Brina nei giorni 22, 23, 24. Forma delle precipitazioni pioggia pioggia pioggia pioggia pioggia pioggia pioggia pioggia pioggia e neve pioggia pioggia = @@—@@—=x"- So SITO N NE E SES SW W Nu e » » media 6S h) l 0 o Si 2 8 d (I) Comprende anche l’ evaporazione deì giorni precedenti in cui l’ evaporimetr» rimase gelato. ——1—____c———————11———————_—_—_————__j i. ;pone:i Gi _ _—iiGo.acczc a (SsERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Unrversità pi BoLogna (alt. 8308) das) ® cd) ° G 2) DICEMBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale |£ © S ISEE Forma S E © ; @ : 0 (A 7a : 3 & Barometro ridotto a 0° GC. Temperatura centigrada Sica delle Sr Le _ ao Si i Media ['d 2 Z| precipitazioni 10 ON OE 212 | Media gh ii 2 Mass. | Min. |mass.min.|? = D gr 25 |& cè) mm. mm. mm. | mul. (0) (0) (0) (0) (0) (0) min. ili75206) 308) Gee es et e 6,8 DIO GLI 2.7 pioggia IRA TOTI 0 2 100 6,8 8.7 31 75408 | 7546 | 755,5| 755,0] 80009 209 | 10 7,3 8.6 x | 756,0 | 755,2 | 755,3 | 755,5 | DIA ezse 4 7,9 AT 6,4 DLL TITO 2 $,4 8,8 8,8 6,4 7,8 9 pioggia TOZZI 7500 MIZScO MOLO SHOE U0N5 MT 1250 92 O 7701 ASA 754880 Mo 28 NOZIO 9, $ 10,6 ,0 IRS5 9,4 10,4 SAITORAON Io 1Ron RZ OS0A FS 10,5 13,0 59 13,3 8,4 11,0 9 | 746.1 | 745,7 | 746,4 | 746,4] 12,6 | 10,9 OSO 00 | 6,9 pioggia 10 | 748,7 |.748,4 | 748,4 | 748,5 9,0 O 8,6 10,0 8,3 9,0 i GR OA 92 8 983100 Ab pioggia 12 | 75300 | 753,6 | 755,2 | 753,9 Se CSO Mosa Mo, BS |a pioggia CÀ NOS 2A Meo Meo 92 8,0 95 9,0 9,6 USI $, 6 : IC We: 68 Reti MOSS 8,0 9,0 9,0 92 8,0 8,6 0,2 pioggia IE ZO osa) ESe,O S,4 8,8 TOO) OR 7,8 8,3 16.| 75616! 756,6 756,9 756,7] 6,6) e 790) 96 | 65 7,6 Mete ti sO | SO) 0) 5 74 Si ri ars zoro ez ten ESM SE ORO RIGA To5 0,1 pioggia 100548 6oTATA 6056876164 TR0 9,4 7,9 9,4 ORA T,4 200) 762040 76100) 76220] 6250 6,5 8,8 7,4 903 SON Ty? SIN AT62A7A 62461 63198 6299 DEL 6,2 Dal 1,4 3,4 4,7 Pd oe o 4 4 TOS OST 40259) | ISS 3,6 5,4 2,6 DI 2900 34 MSI 24 | 759,7 | 757,04) 755,4 107,4|/- 14,8 sii uo io Rose PIOSSIE DTT, | TO%, 795,4 d7,4 î, ORIO È 4,0 ZAC È DORATE od 26 | 745,7 | 744,6 | 744,7 745,0 1,0 4,1 152 4,3 0 1,6 ST N SRO 73920 739 00 0,6 a ES o 0,2 NRE T VE ao so 00 2,9 | 23,4 pioggia 0) Td 0799 | 795,6 3 7 DU DIF DI DORLI AZ 1695 pioggia 90 ESTA IMboNON ZE 7500 208 Ds 3,9 6,0 236 3, 8 SN 1059 0688 do a 450) 5510 3,2 i | 900 oz] 534 038 9,1 DI | 00 Se 5,0 6,4 94,2 Altezza barometrica massima 769,7 g. 22 Temperatura massima 13,3 g. 8 » » minima 738,9 » 27 » minima —2,9 > 24 » » media 753,9 » media 6, 4 IIIa 4 80109, 0, TI IZ 19 TA, 105 18) 24 2a 28 27, 26, 206 Brina nei giorni 23, 24, 25, 26, 27. OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE 209 FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università pr Borocna (alt. 83”, 8) . DICEMBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale 5 È Lo s ==@| EE E Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza 3 2 £ Ea aS) in millimetri in centes!mi in decimi del vento STE Se S 2365 SE S D to 5 | 9® | 15: | 246 | Media | 9® | 150 | 214 | Media | 9 | 15° [216] gn | n | on JP mm. aio en 28 609 DO 96 0 |10 | 20 ? W W 3 1,0 ® LO 82 (088 93 | 88 | 88 90 9 | 40 8| W W W 7 1,4 | Dale reo ona 83 | 81 | 94 86 2 IN RLORITS.VVIE MIN ? 6 LO | 262095 ON OA OT 94 UO ESSERNE 2 l RA) Sine Se si 09 Moog 99 | 196 98 TON gn on von iv sw DS GENIO 67,8 |8,8|91 8,6 Q7:| 9 | 89 93 QUO SO ay S SW 907 786 OZ 2 95 (99 | 78 89 10 9 20 INNO AVO SW 7 1430 SEIOROA o SA 2 TI US 73 5 8 SISW|SW|. Ss 18 1,6 ONES sro, sez 85 iz MO R95 86 O) AO S W_ | W 1 20 MORISIOR IST ero 809 CR 020) 94 10 IVA Aa S 4 | 0,4 Mm jis,7 8,8 86) 87 |100 | 80 | 95 92 10 8| 10 | SE | SE W LSM MOR? IRINA A 2705 94 | 93 | 86 9I LO 4 | W W. | SW 4 1,0 13 54M 94 | $3 | 89 89 TONI ION IO ? W ? MONS isa Asso, az Oni 9310 SO 92 O oa Ve eS W 12 | 0,8 IoaiMesoR Mez 65 en So SON 82 82 $ 9 ÙU {SW S W 8 5 163 6,0 | 6,6 | 6,5 6,4 SQ | | 82 79 0 0 0{SW| W |SW 5 1,0 Jr MONSE NONO TA 91 | 90 | 96 92 10 MOLO S SE A 0, 6 18 68607460) SR N27 85 8 e ON VA NEVA SAVA IMAA ONG IOMIMGNZA Mez Men 6, 2 O 6 70 80 4 8 0 W ? W 6 1,4 SMART 59407 DI GG 696 65 O) 0 0 | W W | SW 7 IE Obi 2 446 Sol Mo 76 0 0 Ù ? W S 2 IR? 2291 4.9|5,0/5,0) 5,0 SON Ao N79 78 10 6 O | W.| W| SW CONERO DI Re 80, | 78 | 82 80 0 l) OÙ | Wil W.|NW ) RD 2x|3,3|4,8|3,9 4,2 96 | 80 | 98 91 () CNNIO ? ? 2 06 21 9,9|42|41 4,1 90 | 92 | 89 90 (OR MOR aio ? Ù ? 0 |gelato REA son ear 89 | 82 | 94 88 10 Di AS W 4 |gelato CRA ZOO ot 98 | 85 | 89 91 O 040 ? ? W 0 |gelato Vl AES e 920 93092 92 LORI ON STORMY W | NE 5 1,6 ZORIMDROR NostoN Tos2N 505 93 | 93 | 94 90 TON AEON LO VA VS 8 1,4 Zen ir Mad o 83 | 68 | 69 73 8 0 O|NWI| W W 6 1,7 SIA ASSO NG 3, 6 O | SS || 50 60 0 0 (A W ? 5 2,0 GARA GSO MO GTA 88 | 84 | 85 86 7 7 7 6 | 1,0 Tens. del vapor acq mass. 94 ® 7 Proporzione Media nebulosità » » » DEMRTIITE d. 4 » 31 - - Pi i media 604 dei venti nel mese relativa nel mese Umidità relativa mass. 100 g. 5 11 ” i imi 3 SE ST N NE E SE S SW W NW in decimi » » media 86 | QI Vo Se 13 3 7 (1) Comprende anche l’ evaporazione dei giorni precedenti in cui l’ evaporimetro rimase gelato. 4 it eg] xe È pela 4 ai » D x pi) vEi fn 3 È RR I size desco velati ara iO i G E NE I e SEGA SI ni RT a iaia ee pin st De n I IMESIZE TAM ME TAR A SOR, v de E N Erin Cirene prin" Ren int ini Si e e, di sil im Pirri iii mie cia ig mita SOPRA UNTNTEGRAFO POLARE NOTA Prof REDERIGORGUARDUCGI (Letta nella Sessione del 26 Marzo 1911) CON DUE FIGURE NEL TESTO Abbiasi una curva € (fig. 1) riferita a un sistema di coordinate polari 7 e 0 avente per polo o e per asse polare 0%. Ci possiamo proporre di trovare una disposizione cinematica capace di tracciare mec- canicamente la curva €, (riferita al medesimo sistema polare ed il cui raggio vettore indicheremo con ) tale che la differenza p — pf fra due raggi vettori ci misuri l’area del settore oMN della curva data, in modo cioè che si abbia P_Pi= area MN. Indichiamo infatti in generale con » il raggio vettore di C e con dS l’area elementare Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 42 — 298 — nel sistema di coordinate adottato ; avremo come è noto per cui l’area del settore oMN sarà Il "0 s=3 | rdO =p_ pp do Avremo perciò 370 = dp da cui 0 I CO] Si di Se ora dal polo o con un raggio oN = p (fig. 2) descriviamo un arco di cerchio, sì ha, indicando con a l’angolo che la curva €, forma con questo cerchio in N, dp paòo tanga = @ 1938 la. (01) (2) tanga = — = p — 299 — ZAN Se ora per N, conduciamo la N,7° normale alla C,, si vede che anche l’angolo oN,T è uguale ad a; e se consideriamo il punto È d’intersezione di N,T colla ok perpen- dicolare al raggio vettore oN della curva data e facciamo in modo che of sia uguale r° ; 235) sarà la quale coincide - colla (2). p Per realizzare la condizione oR = — basterà prendere sul prolungamento di fo una D lunghezza 0Q = 2, congiungere @Q@ con N e condurre da N la NR perpendicolare a QN 2 % ; Rina: la quale incontrerà of in A alla distanza voluta —, giacchè sì ha De, da cui La normale alla curva €, dovrà dunque concorrere nel punto & risultante dalla precedente costruzione, la posizione del quale si potrà ottenere meccanicamente mediante due regoli ad angolo retto di cui l’ uno sia assoggettato a passare pel punto Q@ mentre il vertice dell’angolo retto percorre la curva data ; l’altro lato dell’ angolo retto in- contra il prolungamento di @o alla distanza voluta oR = 56 Per costruire un istrumento basato sopra questo principio conviene servirsi delle medesime parti ausiliarie adoperate da Abdank-Abakonwitz pel suo integrafo or- togonale (*), cioè di una rotella a bordo semitagliente che si appoggia con questo bordo sulla carta ed è capace di ruotare sul proprio piano ma non di spostarsi normalmente ad esso, ed inoltre, di regoli che scorrono sopra carrelli a incassatura convergente posti nel punti Q, 0, R di un altro regolo QAR girevole attorno al polo 0. — Collocando infatti in N, la rotella col suo asse di rotazione secondo NR ed imperniata in modo che possa far scorrere 0 nel senso della sua lunghezza ; ponendo in N una punta ob- bligata a rimanere sopra oN, e percorrendo con questa punta la curva data C, ver- 1 ranno realizzate le condizioni volute e il punto di contatto della rotella, ossia N,, descriverà la curva integrale C. (*) Cfr. Abdank-Abakanowitz — Les ZIntegraphes. Paris. Gauthier Villars 1886. RS Prendendo come abbiamo supposto 0@ uguale a due volte |’ unità lineare assunta, le unità lineari che misurano le variazioni del raggio vettore corrisponderanno alle unità superficiali delle variazioni dell’ area. — Se per ragioni di spazio e di comodità vogliamo che queste vengano espresse in una unità diversa, basterà variare secondo un opportuno rapporto la lunghezza 00. Bologna, 26 Marzo 1911. DETERMINAZIONE ASTRONOMICA DI LATITUDINE E DI AZIMUT == i FANO (ASSE DEL FANALE) NOA DEL PROF. FEDERIGO GUARDUCCI (Letta nella Sessione del 23 Aprile 1911). La presente pubblicazione fa seguito ad altre due già presentate a questa On. Acca- demia (°) destinate a fornire materiale per la determinazione del geoide terrestre nell'Italia centrale in funzione delle deviazioni locali della verticale. — Essa pubblicazione tende inoltre a dimostrare, insieme alle altre, che pel conseguimento di visultati convenienti allo scopo non è affatto necessario, come sì propende generalmente a ritenere, che le osservazioni di latitudine e di azimut vengano eseguite con istrumenti mastodontici, (che non dappertutto si possono portare e che in ogni caso richiedono gravi spese di trasporto e d'impianto), e con esagerate minuziosità che complicano il lavoro e ne prolungano la durata con van- taggi di precisione molto discutibili. — L’istrumento da me usato è al contrario, anche questa volta, leggero, facilmente trasportabile ovunque e viene adoperato sopra un robusto trepiede in piena aria, riparandolo tutt'al più attorno con una semplice tenda allorchè il vento diviene incomodo. Rimandando alle pubblicazioni suaccennate per quanto riguarda il metodo tenuto per la determinazione della latitudine, mi limiterò nella presente a far notare che l’azimut fu osservato per gruppi di puntamenti « Mira - Polare - Polare - Mira » coll’ istrumento nelle due posizioni, diretta ed invertita, e per diverse regioni del cerchio, seguendo nel rimanente la forma generalmente adottata come è sufficientemente posto in evidenza dal relativo modello riassuntivo delle osservazioni e dei risultati. Le osservazioni poterono essere eseguite tutte in tre mezze nottate circa; avrebbero potuto durare anche meno se la nebbia non le avesse ostacolate e, come apparisce dai due quadri annessi N. I e II, presentano errori medi dell’ ordine degli errori d'osservazione ciò che le rende completamente accettabili. Bologna - Aprile 1911. (*) Determinazioni astronomiche speditive eseguite a Bologna (1908). Id. id. eseguite a M. Catria e a M. Conero (1909). Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 43 QuaDRO N.° 1 1° Serie =—_ ————e="="“=-=-=- -+-«+»------'à'à'à4)àÀàì42À}4lkt__—_T_———°__=“<<©ùX! Sg] Pra] adito (SI fg | Dedizioni (cone del]_igie lait | Zoni suum | Seo | 1910 o ui fn 95° a ra ira] + do 0) [Rea vi Ri a io Sat IO CRCR, 0.55: 0 [RO n i sO Pagasi | Gi |New| ili5.070| 4258380] 360 }o oo] » > 13) — oi n Ci n ce | elette else | e del eee ee E a A i "IBESI (G5| E | 16927466 | isging 306 | di" | rase 0 Lee en [Faso] Tila | Eta DES Ue cao cane ST Rein e e SS i CO I I Calce oi e EE eee è“ [Ecate ae S| 0 | SIL e e is palo 600 e 0 i Tie ie ee E mi i o coro e Tee li | sas e: i Ar Re | ee lc da 0.0 Valore medio mj = 43. bl. 10.7 =tai092 2a Serie (’) Data | e, [Gram [Gale | Deelnazioni [eat dona Nite pena 1910 Ie i i 3 ERRATE ZioEI i n 00 (i eni CRE RAR Ae °° (CERERE Add ZIii e SN i i) If] I it) Galia ioselse) aij> 22] > > 02] +18 TO |40Grosiopese | do S| Fesaizo asosdoni s60j > > 69] » > 090 18 in ag n) io Sol 1 |> > 0) ssosnssil + no 0/ERMREEAAROEO A] e pani IST Tsi ils) El) > 007] > sio as Micca) | La te e) Sgr > ss) or ripete | LS) NO Pon A RT] rai | 0,0 Valore medio my == 43.51.10.4 + 0,56 Attribuendo rispettivamente pesi 2 e 1 a ciascun valore della 1% e della 2* Serie si ha la media ponderata : __ 0 n A do, M G? = 150, 510 94 ae 0° 88 riduzione all’ asse del Fanale . + 0.04 all'infuori della Valore della latitudine di Fano (asse del Fanale) TR DIO 68 an 028 riduzione al Polo medio Bpoca 1910, 736. (*) Nei valori che compariscono in questa serie una delle stelle è già entrata a far parte delle coppie della Serie 1° nella quale invece le coppie sono formate tutte da stelle diverse. — Perciò nel formare una media unica è stato attribuito a ciascun valore della 2* Serie un peso metà di quello attribuito ai valori della Serie 1°. (S°) = 0. 42. Ol Quapro N.° 2 Data _1910 28 Settembre » » Posiz. Istrum. Lettura sulla mira TO, ES dS di 0.04. (SS D (>) 150. 05. 05. 5 30.01. 210. 01. (SS = (Dai DIRO OW TTI 90. 02. (©) SD (Sa, ZIO ORE (36 ES QISTTE o O © vie 150. 02. 330. 03. SS ORO VM Ore GCollim. SS Spa rosi SS UO) (Dai (dai (Dai (Dai = (SU Gr Ga Gui Lm © 0. 180. 30. 01. 60. 210. 330. 04. Di OLE 04. 04. o 025 508), 02. Cm COMMOSSA GU Ei et Ex & © & Br A Azimut della polare (da N) (27) _ ww (DON (Sa; i . © © Si DI 1 © w Lettura sulla polare Ln 78. 258. £ ia er © Ga 04. ek _ Gu i Si (DO) SI £ SMETTO LO) ari (bai FS SPS > SN (Dai Correz.® inclin.® i colg 2 o Oo o © ji CS. 3) RD 25 I cm ori sore ©) Ad ED 839 | co % 90 9% i 4 | co % % 9% 4 4 o o ss . & ea (00) - 280 23% 41,4 108. | 288. Ù L. sull’ orizzonte di Fano (asse Fanale). Eira merid. Lettura merid. Azimut (esclusa la Cm (compr LE 17% Scostam. i sen z So] Sn = Ca Medie VV. Annotazioni collim.) sen 3 È Ù RA (E — ila i sen 3) sen z È | 146 50.344 O + BU VI ee ; i i Aa L DI sc si a RR 0.36 La livella adoperata ha una î be. i sensibilità di 1”.33 per fi: Son 220506001 SSR) ERE i 03:3 ai o St; pi +-08 | 08 2 Î È == bo Ò) D 76.47.03. 7 + 21.8 TO: 2129. | SS DZ [2 9 SZSMEMO) J 05.0) + 21.8 26.8 3.3 DRS 2: 20 RD6. 47.49.0| — 21.8 | 256.47.27.2 94,1 3 N. in IMPE 21.8 25.3 53.5 de De ISO MID ost90 ZIA e 2201 | 106-51-03-9) | 318.13. 53.9 | P66. 51. 27.4] — 22.1) 266.51.05.3 93.4 136. 48. 02.0 ERO It RU SEZIONI MISS J So + 0.2 0. 04 É 03.0| + 22.6 25.6 57 sl dì i MESnIoi AS 48. 200 22.6) 316. 48.25 6 56. 6 Î | 9 44 45.5| — 226 22.9 56.3 ( di eni sa 346.48. 47.0 e Zi SOS 338,900) E 4 OR Î 58.4] + 24.1 22.2 n to ; ci 48.47,0| — 24.1 | 166.48.22.9 52. 6 ( 55 + 0.4 0. 16 i MR 17.8 58.7 | Da : 196. 48, 38.9 + 24.4 | 196.49.00.3 | 313. 13.58.22 { 0.49 DONO MiO 4 35.9] 4 2.4 00.3 53.7 | È 16. 49. 24, 8 — 2.4 16.49. 00, 4 54.6) | 56.0] -+ 0.8 0. 64 i 27-58) — 24.4 03.5 DINO Î | 0°..00 10. 48 È Valore medio = | 313.13.55.2 aaa u_uoi. ( converg. dei merid. = — 0.1 Riduzione all’ asse del Fanale ì ( riduz direz. Pesaro == — 51.2 ‘Azimut del Fanale di Pesaro all’Asse del Fanale di Fano = | 313.13.03.9 = 0”.28 (all'infuori della riduzione Epoca 1910, 742 al Polo medio) . Ao) Pesaro sull'orizzonte di Fano (asse Fanale), Quanro N. 2 Azimut (da N ad E) del Fanale di “PL EZI | “N: si Lettura merid, Azimut o Lettura sulla | Gollim. I ie Ae LO a Cn ita n° L | Scostam, RE Posiz. FRE Im E on | polare (da N) polare inclin.® |, E i cole: o) sen s Sorge E Medie i su ‘Amo ori Istrum. w CE @n Ur î colga Di ih (4 de 3 |__|] ee | rr —T["|_—_ nil—____ | ET 59 | p DES) 1 dtt È Pi A Masi | pron] dorsio) fagos | d828450] + 10/9) apogeo o l 46 50. 58. 1 | i Sa i > 46.0) + 40.4 56,4 1.32.55, 0 22.0 | + 10.9 929 ST:9 ESRI MEO Bei a 166 As Dea sensibilità di 133 per s S| tso.0p.085| — 10.4 | 180.045: 1.31,57,6 | 228/23:10:5.| + 10.9| 228.23/004| | lar6nl288| — 29.7 | 226.50.60.1 SEO | Sì È - | ogni millim. : Alioni 131406 22:53.0.| 4 40.9 03.9 23.3 | — 23.7 59. 6 56.0 DIES FOSSE | Dali | Ì » » 30.01.08.0)| + 11.7) 30.01.1807 | 4, 28.48.7 T8.15:37.5| 4 9.9] 78.6 \ian07) + 21.8) 76. 318. 13.53. 2 | =“ 0g | > 08.4 | + 107 204 | I75. + 9,9 374 Uo:0l| <- 218 26.8 o | e | a E 210.01.33:0| — 11.7| 210-01.21.3 | 1.30.44.9, || 258:48.24.0| + 9.9) 258:18,33.9 DEAT:s0.0 | — 21.8] 256.47.27. 54 ca 7 i | | È MG ii I8.8| 130/244 025) + 9.0 ne an 21.8 59/5 ani gti 1-96 | » D 60. 04. 45.0 | + IR:8| 00.06-57.8] 1.26.51.4 | 108:17.27.0| 4 5.9) 108.17.30.9| || 0650418 4] 106.51-03:9| 313. 13.53.9 mese oe | i 15.0} + 12.81] LL 3 04.0) + 5.9 09,9 40.6 I 02.7 55.1 dii | as | € 5 iO. 06.11.51 | — 19:81|\/240.04-58.7 {25.100 288.16: 31.5 | + 5.9 288.16.87,4 266. 51.27, 4 . 1 | 266.51. 05.3 93.4 Ì a 19 | ; io) — 12:81] 57.2. 124407 15.585] + 5.9 giA| + 89.7] - sel LG 5.6 | EL DIA Ì | » D | 90,02.06.5 | TOIUA | 90.02.18. | 1.16.57.0 | 138.05.07.4| — 8.4| 158.04.590 BAROLO! + 22:6| 136.48:24.6 | 313:13:53.7 | 51 3 i | » 11.0) + 11.8] 22/8] A. 46.24.19) OCRA] = A 2.9 08.0.| + 22.6 25.6 57,2 Î ni 40 0.04 | 7 È 970,02.34.0| — 11.8 | 27009,29;2 1.14.28. 4 318.03.25.0| — 8.4| 318.03: 46.6 bt | 22.6] 3:16. 48.25 6 50. 6 | de mi ne > 30 | 18 19,2] 1.13.55.4 02-49.0. || — (8.4 02, 40.6 45.5) — 226 99.9 56.8 | S6A| +02 Idi | | » D 300..02..03.0| + 12.5 | 300.02, 15.5 | 1.06, 27.2 317, 54.30.0. — 8.4] 347.094.216 346, 48. 47.0 | + 24.4 | 346.48. 18.5 | 313.13.57.0. da DIE ca | 2 040 | + 12.5 10.5 1..05.40.5 03,47.0| — 8.4 58. 98.0 DA | 4 24.1 929,2 54,3 I 50, 6 { | n Gi 120:102.98.0 I — 12.5] 120.02; 1.03 37.6. | 167.52.33.0|) — S(4| A67052/2406 166:48/47.0| — e4.41 | 166:48,22.9 52.6 | POI SPATOE, na) | sega 29.0] — 12.5] 16.5. | A4.02.49.7 5I. 40.0) — (8.4 51.81,6 ML — 17918 58.7) DES . di | » D | 150. 02:49.0 | + 12.5 | 450:03.04.5 197.45.27.5,| — 9A4| 197-45.48 106: 48.38.90! x 24.4 || 196:49.00.3 | 313:13:58.2 I di Ra dv n sea TI) n1.43.5 — DA 48:34. 99.0| 4 24.4 00.3 53.7) i SS ; S| 330.03.07.5| — 12.5| 830.02.5500| 1.00.19.3 17.49. 46.5 | — 94] 1749301 16:49.24.8/ — o4.4| 16.49.00,4 54.6 cal » | bari — aa 01.0 | 0.59.18.7 8.50.0.| -- DA . 48.46.60 2A ESSO 03.5 57.5 SRO da 000] 10.48 Valore medio = | 313.18.09.2| | Riduzione Ts ( converg. dei merid. — QUEI | riduz direz. Pesaro = OI | Azimutdel Banale di Pesuro all'Asse del Fanale diFano= | 318.18.03.9 sE 0#28 (all'infuori della riduzione I Epoca 1910, 742 al Polo medio) SMR tICARITÀ DELLA STADIA NELLA MISURAZIONE DELLE DISTANZE IN PLANIMETRIA MEMORIA DEL Prof. FRANCESCO CAVANI letta nella Sessione del 7 Maggio 1911 (CON DUE FIGURE IN FINE). Nelle operazioni di rilevamento planimetrico del terreno, specialmente colla Cele- rimensura e colla Tavoletta pretoriana, si usa come metodo normale per la misura- zione delle distanze, quello che si suol dire diretto, od anche della stadia, dal nome che si da all’ asta graduata che, unitamente ad un cannocchiale diastimometrico, serve per l’ applicazione pratica del metodo stesso. E qui non è fuori di luogo ricordare come il principio su cui si fonda un tale metodo di misurazione delle distanze possa giustamente dirsi dovuto a Geminiano Montanari professore di matematica della nostra Università nel secolo XVII. Il Montanari fece noto il principio della misurazione indiretta delle distanze nel 1674 (i) e quindi più di un secolo prima dell’ inglese William Green al quale erroneamente si attribuisce l’ invenzione del metodo fondato su tale principio, e che solo nel 1778 (2) propose il metodo stesso perfezionando praticamente, come è doveroso dire, 1° idea del Montanari. Il principio esposto per la prima volta dal Montanari comprende in se tanto quello dei cannocchiali misuratori delle distanze ad angolo diastimometrico variabile, come | altro dei cannocchiali ad angolo diastimometrico costante e quindi il Mon - tanari si può giustamente dire precursore del Green. Ciò si deduce chiaramente dalla esposizione e dalla applicazione che il Monta- nari stesso ha fatto nei suoi scritti del principio da lui ideato, poichè prescriveva di misurare direttamente volta per volta l altezza reale di un oggetto qualsiasi a cui (1) La livella Diottrica del Dott. Geminiano Montanari, Bologna per li Manolesi, 1674. (2) Description and Use of an Improved Reflecting and Refracting ‘l'elescope and Scales for Sur- veying by William Green, 1778. Citato dal Jadanza « Per la storia della celerimensura. Rivista di Topografia e catasto, Roma, Civelli 1894. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11 FS Ho — 308 — sì traguardava e poi quella della sua immagine sopra di un micrometro costituito da più fili equidistanti fra loro e in unità della equidistanza dei fili stessi (1). La teoria della misurazione delle distanze colla stadia non è che una applicazione di quella dell’ ottica sui sistemi diottrici centrati, e il micrometro del cannocchiale, coi fili che danno 1’ angolo diastimometrico, e la faccia graduata della stadia debbono essere due immagini coniugate della lente obbiettiva del cannocchiale e quindi su piani diretti perpendicolarmente all’ asse ottico di questa lente. Coll’ asse ottico della lente obbiettiva, supposto che su di esso si trovi 1 incro- cicchio dei fili del micrometro, coincide la linea di collimazione del cannocchiale e quindi stadia e micrometro debbono essere perpendicolari a tale linea. L’ equazione della stadia Il D= —— H+F+C 2 Tang, w|S nel caso del cannocchiale comune ad anallattismo esterno, nel fuoco anteriore della lente obbiettiva, e 1° altra 2a 0; we rel caso del cannocchiale anallattico del Porro ad anallattismo centrale, nelie quali D, è la distanza da misurare, H, la parte di stadia compresa fra i fili del micrometro, ©, l’ angolo diastimometrico col vertice nel fuoco anteriore dell’ obbiettivo nel primo caso e nel centro dell’ istrumento nel secondo, F, la distanza focale della lente obbiettiva C, Ja distanza dal centro dell’ obbiettivo a quello dell’ istrumento che porta il can- nocchiale, suppongono soddisfatta la condizione di perpendicolarità sopra indicata ed anzi nelle applicazioni pratiche ammettono che la linea di collimazione del cannocchiale sia orizzontale e il piano del micrometro e quello della faccia graduata della stadia siano verticali. (1) Nella Zivella diottrica op. cit. del 1674 scrive il Montanari « Volendo dunque sapere quanto è lontano qualunque luogo, che io possa vedere con detto cannocchiale, basta osservare |’ al- tezza d’ una finestra, porta o colonna, torre o altra simil cosa, quanto spazio cioè ella occupi tra li fili o capeli sudetti posti nel cannocchiale, e fare misurare sul luogo la giusta altezza di detta finestra o porta ecc. In altra edizione della Livella diottrica, Venezia, 1680 a pag. 31 scrive: Per esempio voglio sapere la distanza dalla Piazza di San Marco a San Giorgio Maggiore: mando a misurare qualche parte conspicua di San Giorgio. v. g. l’ altezza di una finestra e la trovo ecc. di poi stendo alla Piazza guardo con il cannocchiale a quella finestra, e trovo che ella tiene nella reticola spazi) ecc, Se Questa condizione bene spesso in pratica non può essere soddisfatta; la linea di collimazione del cannocchiale deve inclinarsi o sopra o sotto all’ orizzonte per poter collimare alla stadia. In tali casi per applicare le equazioni della stadia si possono seguire due metodi e cioè: o inclinare la stadia alla verticale di un angolo eguale a quello di cui si inclina la linea di collimazione all’ orizzontale, così da rendere quella perpendicolare a questa ; o tenere la stadia verticale, determinando su di essa la parte H, compresa fra i fili del micrometro e calcolando poscia quella ZH che vi dovrebbe essere compresa e dovrebbe servire a risolvere le equazioni della stadia. Il primo metodo presenta gravi inconvenienti nella pratica, cosichè sovente non è neppure applicabile; ha il vantaggio che una inclinazione anche sensibile della stadia alla perpendicolare alla linea di collimazione, non influisce sensibilmente nella misu- razione della distanza e per questa ragione da alcuni e in alcuni luoghi è il preferito. Il secondo metodo non presenta inconvenienti nella sua pratica applicazione ; ha lo svantaggio che una inclinazione anche piccola della stadia alla verticale produce un errore sensibile, non trascurabile in generale, nella misurazione delle distanze. Lo studio di questo errore è lo scopo della presente Nota. TÈ L’ errore che sì ha, nella misurazione delle distanze inclinate all’ orizzonte, pro- dotto da una deviazione della stadia dalla verticale, è stato studiato dal Werner (1) dal Jadanza (2) dal Jordan (3) dal Prevot (4) dal de La Barcena (5) dal Borletti (6) e da molti altri (7). (1) C. Werner. Die Tacheometrie und deren Anwendung bei Tracestudien. Lehmann et Wentzel. Wien 1873. (2) Jadanza N. Sullo spostamento della lente anallattica e sulla verticalità della stadia. Atti della R. Accademia delle scienze di ‘l'orino, Vol. XXIII. Torino, Stamperia Reale 1888. — Jadanza Geometria pratica. Torino, Vincenzo Bona 1909. (3) Dott. W. Jordan. Handbuch der Vermessungs Kunde. Stuttgard J. B. Metzler, 1893. (4) Prevot Eugene. Topographie, Paris, Dunod 1898-1900. (5) De la Bircena. Tratado de l'aquimetria Madrid E Cuesta 1882. (6) Borletti HF. Celerimensura. Manuale Hoepli, Milano, Hoepli 1893. (7) Si possono pure citare. — Orlandi ing. Giuseppe. lacheometria, Corso pratico di ‘l'opografia numerica, Sassari G. Gallizzi e C. 1894. — Meyer Jean. Mémoire sur la stadia "l'opographique et son application. Paris, Baudry et C. 1885. -- Cerri ing. Angelo. Deviazioni della stadia, Politecnico Anno XLII Milano 1894. — Wagner Carl. Ueber die Hiilfsmittet der l'achymetrie, in besondere iilber die Vorziige der schiefen Lattenaufstellung. Zeitschrift fir Vermessungswesen, Stuttgart 1886. — Baggi V. Trattato elementare completo di Geometria pratica. Topografia parte seconda. Torino, Unione ‘l'ipografica editrice, 1895-1898. OE In generale è stato considerato uno solo dei casi che si possono presentare nella pratica, estendendo alle volte la formola trovata anche agli altri casi, ma spesso in modo non esatto. Inoltre lo studio è stato fatto per lo più collo scopo di arrivare ad una formola semplice, spesso teorica e di poco pratica applicazione, ed anche non del tutto esatta, come nei casi in cui è stato determinato )’ errore in funzione di quan- tità da misurare sulla stadia inclinata alla verticale e che dipendono esse stesse dal- l’ errore che si ricerca, e negli altri casi in cui si è presa la lettura mediana della stadia, che corrisponde al filo di mezzo del micrometro e quindi alla linea di colli- mazione del cannocchiale, eguale aila semisomma delle letture degli altri due fili che corrispondono all’ angolo diastimometrico adoperato, lo che non è giusto se non quando ia detta linea è perpendicolare alla stadia. Ad una formola semplice si può arrivare, e molto facilmente, ma solo con una soluzione approssimata del problema. La ricerca di questo errore non si fa per correggere l’° errore stesso, poichè ciò non sarebbe possibile, e perchè si deve sempre supporre di non commetterlo. Si fa per determinarne 1’ influenza nella misurazione indiretta delle distanze, per dedurne la necessità di evitarlo, e per stabilire quali regole si possano seguire nella pratica per renderlo minimo in ogni caso e quindi trascurabile. LOC Con un cannocchiale diastimometrico da un punto A si collima ad una stadia disposta verticalmente su di un punto 5, e si determina la parte di stadia ab = 4, compresa fra i fili del micrometro, che sottendono 1 angolo diastimometrico @, dalla quale colle note formole si ottiene la distanza 48 = D ridotta all’ orizzonte. La linea di collimazione del cannocchiale può essere, per le condizioni locali, diretta o sopra o sotto all’ orizzonte del centro dell’ istrumento che porta il cannoc- chiale e che è in istazione nel punto A. Quindi 1 angolo @ di inclinazione all’ oriz- zonte di detta linea di collimazione, può essere un angolo di elevazione, come nel caso della fig. 1 oppure un angolo di depressione come nel caso della fig. 2. La stadia invece di avere la direzione verticale, può essere, per errore, inclinata a tale direzione di un angolo a o indietro allontanando, o avanti avvicinando la parte superiore di essa al cannocchiale. Per questa inclinazione della stadia alla verticale si ha un errore in più od in meno, a seconda dei casi, nella parte ab di stadia compresa fra i fili, che porta di conseguenza ad un errore nella determinazione della distanza orizzontale D fra i punti ANCRESI Nella pratica si possono presentare 4 casi che conviene considerare separatamente ; due di essi si riferiscono alla linea di collimazione diretta al disopra dell’ orizzonte ed alla stadia inclinata indietro od avanti, e gli altri due alla linea di collimazione — 311 — diretta al disotto dell’ orizzonte ed alla stadia parimente inclinata indietro od avanti. Le formole che si trovano in questi 4 casi si riuniscono facilmente in una sola quando si usi di una soluzione approssimata del problema; 1 unione di tali formole in una sola riesce molto più complicata quando il problema lo si voglia risolvere esattamente. Sull’ errore che si vuole determinare influiscono 5 quantità variabili che rendono il problema molto complesso e che sono gli angoli @, @& ed © sopra indicati, la parte ab di stadia compresa fra i fili e ]’ altezza verticale sul punto 28, di quello in cui la linea di collimazione del cannocchiale incontra la stadia o meglio | altezza aB = @ o l’ altra 6B = di uno dei punti estremi del segmento ab sul punto 2 del terreno. Se si considerano tutte 5 queste quantità variabili si hanno formole esatte per la determinazione dell’ errore che si cerca; formole che sono complicate e che non possono convenientemente semplificarsi. Se si eliminano alcune di quelle 5 variabili si hanno formole approssimate e abbastanza semplici. La semplificazione più comunemente usata, e giustificabile, si è quella di trascurare | angolo diastimometrico @, ed allora le formole, che danno l° er- rore cercato, sono pure indipendenti dal punto in cui la linea di collimazione incontra la stadia; non dipendono che dalle quantità @: ed a, potendosi eliminare anche il segmento «0 col considerare 1’ errore riferito all’ unità di distanza. Le formole, che danno l’ errore che si cerca, ridotte alla loro forma più semplice, potrebbero ritenersi troppo poco approssimate ed allora si può usare, come vedremo, di una formola abbastanza semplice di correzione ai risultati ottenuti con esse. ING è Consideriamo il 1° caso, ossia quello in cui la linea di collimazione è sopra all’ o- rizzonte con un angolo @ di elevazione e la stadia è inclinata indietro di un angolo a. Facendo uso di tutti i simboli precedenti e indicando con 2' = a'd' (fig. 1) la parte di stadia inclinata alla verticale, compresa fra i fili del micrometro, si ha che gli angoli dei due triangoli aBa', bBD' hanno rispettivamente i valori O dota di 90+PD+- 0) % O O 00 See reg Pigi, d_- a 3 Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 45 così che da tali triangoli si ricava COS (È — . cos(d+a—3) COS (1 na 5) DIBI= — To) COS (9 + a 3) dA Bi=tad e quindi la parte 7" di stadia compresa fra i fili, affetta dall’ errore di verticalità e che si determina colla lettura del cannocchiale diastimometrico, è La l' ha sempre un valore maggiore di quello della Z e quindi 1° errore che si ha in questo caso è sempre in più. Ciò si può dedurre molto facilmente dalla equazione (1) trasformata nel modo seguente, Indicando con X' e X'' rispettivamente i coefficienti di d e di a ed osservando che bza+l È si ottiene = K'l1+a(K'— K'. Ciò fatto basta osservare che i due coefficienti X' e X' sono’ entrambi maggiori dell’ unità, poichè le frazioni che li costituiscono hanno tutte e due il denominatore minore del numeratore, essendochè gli angoli nei denominatori sono rispettivamente maggiori di quelli dei numeratori e quindi i coseni minori. Ne consegue subito che il primo termine X'Z del valore di 7 sarà maggiore di /. Se poi si riducono i coefficienti frazionari X' e X'' allo stesso denominatore, si trova che la differenza X' — K' viene espressa dalla formola. sen a sen Q IO) _ 2 d cos — Sen (D+ a). colonia Essendo | angolo piccolissimo e l angolo D+ a sempre inferiore ai 45 gradi (OSS; si ha che la formola ora trovata avrà sempre davanti a se il segno + e quindi il secondo termine del valore di /' sarà positivo, lo che contribuisce ad aumentare il valore di l' in confronto ad /. Questa conclusione poteva dedursi facilmente in questo caso anche dalla semplice ispezione della fig. 1. Considerando il 2° caso, quello cioè in cui la linea di collimazione fa un angolo P di elevazione coll’ orizzonte e la stadia è inclinata in avanti di un angolo a (fig. 1) mantenendo gli stessi simboli e indicando con 2" = d' d'' la parte di stadia incli- nata alla verticale, compresa fra i fili del micrometro, sì ottiene una formola analoga alla (1) considerando i due triangoli «Ba'', bBb'', gli angoli dei quali banno rispet- tivamente i valori : (5) O CO = = Olga +3 d—-? A (0,0 Ig ata 3 (19) 5 Sed La formola che si ottiene è la seguente : La determinazione del segno della differenza fra /'"" ed 7 non è in questo caso così semplice come nel precedente, e come in generale è stata ritenuta, poichè a seconda ri e quantità variabili che entrano in tale differenza a È re in dei valori delle quantità variabili che entrano tale differenza, essa può essere meno od in più. Indicando, come si è fatto nel caso precedente, con X' e X'' i coefficienti di d e 7 b) di a sì ottiene qui pure = Kl+a(K — K'). I coefficenti frazionari £' e X'' della (2) sono minori dell’ unità quando @ — e K' è pure minore dell’ unità anche quando solo (Mar > a, poichè allora gli an- goli nei denominatori sono minori di quelli dei rispettivi numeratori, i cosenì dei primi maggiori di quelli dei secondi e quindi le frazioni minori dell’ unità. — silld — Se si verificano le diseguaglianze inverse, allora, nen avendovi influenza i segni, finchè gli angoli a-(9+3) ed a-($—$) sono minori di quelli dei corrispondenti numeratori, rimangono le frazioni minori del- l’ unità, ma crescendo gli 4 al disopra del doppio degli angoli dei numeratori, i primi angoli possono diventare maggiori dei secondi e quindi i denominatori minori dei numeratori e i coefficienti X° e X' maggiori dell’ unità. Ciò evidentemente può suc- cedere anche solo per il coefficiente X''. Il caso più comune della pratica è quello in cui i detti coefficienti sono minori dell’ unità, ma è utile sapere, e conviene alle volte ricordare, che possono essere anche maggiori dell’ unità, Quando X' è minore dell’ unità, il primo termine X'! del valore di ?" è minore di e quindi per questa ragione si avrebbe un errore in meno. Se ora si riducono i coefficienti frazionari X' e X' allo stesso denominatore, si ottiene che la loro differenza X' — X' è espressa da — sen «a sen ®@ CSS 5 xo ny COS — — sen — a Le) ; } i 5 5 : o @ ed è sempre negativa per i valori che possono avere in pratica gli angoli 5; Deda. Ne consegue da ciò che nell’ ultima formola che dà il valore 7, si avrà il secondo termine del secondo membro che sarà negativo ed il valore di /'' diminuirà così sempre più, riuscendo iu questo secondo caso in generale Z" < e quindi | errore in meno. Se poi crescendo a, come sopra si è detto, i coefficenti X' e X'' diventassero mag- giori dell’ unità, si può avere un errore in più, quando nel primo termine del valore di 2'', il coefficiente X' faccia crescere il termine stesso X' di tanto che anche dimi- nuito del secondo termine, rimanga sempre maggiore di /. In pratica i valori dell’ angolo @ sono tali in generale da avere in questo secondo caso quasi sempre un errore in meno. Up errore in più si può avere per piccoli valori di @ e per valori relativamente grandi di a. Con una applicazione numerica s1 possono meglio far vedere le deduzioni sopra esposte. Supponendo di collimare col filo inferiore del micrometro ad un punto della stadia alto m. 1 sul terreno, così che sia a = |] i — 315 — di avere la parte / di stadia compresa fra i fili del micrometro eguale a m. 2 così che sia db = 3 di fare uso di un angolo diastimometrico eguale a 0°. 34'. 22", 63 che corrisponde ad uno dei più comuni rapporti diastimometrici, a quello cioè di 1:100, e così di LAI ln) IO. avere 3 = 0°, 17', 1l'" trascurando le frazioni di secondo : e dando agli angoli $ ed « diversi valori, si può calcolare colla formola (2) la seguente tabella : P A | Goefficienti pei Errore gradi | gradi 1 K' Jie 1° termine | 2° termine | differenza | jin più in meno sessag.:Se8S25- metri metri metri metri metri metri metri 1 fl 0,99976 0,99994 2490928 0,99994 | 199934 —_ 0,00066 | I 3 1,00020 1,00072 3,00060 1.00072 1,99988 — 0,00020 I 8 1,00665 1,00806 3,01995 1,00806 | 2,01189 0,011S9 = | 3 Il 0,99916 0,99933 2,99748 0,99933 | 1,99815 _ 0,00185 3 6 0,99948 1,00052 299844 1,00052 199792 = 0,00208 | 3 8 1,00174 1,0031414 3,00522 1,00314 2,00208 2,00208 = | | | Crescendo @ gli angoli a per i quali si avrebbero errori in più, dovrebbero essere sempre maggiori di quelli qui considerati, ma ciò non è ammissibile nella pratica, dovendosi ritenere esagerato anche 1 angolo d° errore di 8°. Il 3° caso è quello in cui la linea di collimazione sia diretta sotto all’ orizzonte con un angolo @ di depressione e la stadia sia inclinata indietro dalla verticale di un angolo « (fig. 2). Conservando le solite notazioni, e indicando con l'" = a''D' la parte di stadia inclinata, compresa fra i fili del micrometro, basta anche in questo caso considerare i due triangoli «Ba'' bBb''', gli angoli dei quali sono rispettivamente (09) (0) 90 —-Gd—-- 90— D+: A a) 5 (6) (0) OSSA O0igae e che danno : (f9) 5 lt) COS 3 COS P -H=- 3) ==), O ò) cos(F_ra— 5) cos (a+ 3) e, Anche in questo 3° caso la determinazione del segno dell’ errore non è semplice come nel primo e non si può, come si fa comunemente, dedurla dal caso stesso senza considerazioni speciali. Indicando come nei casi precedenti con X' e X'' i coefficienti frazionari di d e di a si può avere il valore di '' espresso colla solita formola ‘' — K'1+a(K' — KE"). Confrontando fra loro le equazioni (2) e (3) del 2° e 3° caso. si vede che i coeffi- cienti di d e di a sono scambiati; il coefficiente di d nella (3) è eguale al coeffi- ciente di a nella (2) e reciprocamente quello di a delia (3) è eguale al coefficiente di d della (2). Ne risulta quindi che per i coefficienti X' e X' di questo 3° caso si debbono ripetere tutte le osservazioni fatte per i coefficienti del 2° caso precedente, solo tenendo conto della loro inversione. Il coefficiente X' è in generale minore dell’ unità e quindi il primo termine X'/ del valore di /''' è minore di / e per questa ragione si avrebbe /'"< e quindi un errore in meno. La differenza K' — X' è positiva per |’ inversione dei coefficienti di questo caso rispetto al 2°, e quindi il secondo termine del valore di 2''' è positivo e non con- corre così coll’ altro termine a fare diminuire il valore di 7" come nel caso pre- cedente. Se la diminuzione del termine X'/ è tale che anche aggiunto ad esso il valore del secondo termine si abbia una quantità minore di 7, si avrà un errore in meno. Se il secondo termine ha valore tale che aggiunto a X' dia una quantità supe- riore ad 7, ed anche se l° angolo a è tale che il coefficiente X' sia superiore all’ u- nità, si hanno due ipotesi, in ciascuna delle quali ) errore è in più. In generale dovendo considerare gli angoli $ grandi e gli a piccoli, gli errori che si avranno saranno in meno. Una applicazione numerica potrà anche in questo caso far vedere chiaramente i risultati delle deduzioni sopra esposte. Con valori numerici, che in parte sono quelli considerati nel caso precedente, sì ottiene la seguente tabella. — 317 — P d Coefficienti pori Errore gradi | gradi K' Res I° termine | 2° termine | differenza | in più in Lei sessag.| sessag. meri metri metri metri metri metri metri 1 0,30 0,99993 0.99984 2,99979 099984 1,99995 | — 0,00005 I | 0,99993 0,99976 299979 0,99976 | 2,00003 | 0,00003 — I 2 1,000L7 0,99982 3,00051 0,99982 2,00069 |._0,00069 | _ 1 3 1,00072 1.00019 3,00216 1,00019 | 2.00197 | 0,00197 — 2 { | 0.99963 | 099946 | 299889 | 0,9996 | 199943 | ana 2 3 0,999S1 0,99928 2,99943 0,99928 2,00015 | 0,00015 — 2 4 100035 | 0,99965 | 3,00105 | 0,99965 | ‘200140 | 0,00140 na 2 | 5 | 100120 | 1,00032 | 300360 | 1,00032 | 200328 | 000328 ? 3 | 0,99933 0,99915 2,99799 0,99915 1,99S84 = 0,00116 3 3 0,99889 0,99837 2,99667 0,99837 | 1,99830 = 0,00170 3 Ò 0,99967 0,998S0 2,99901 0,99850 | 2,00021 0,00021 - 3 6 1,00052 0,99947 3,00156 0,99947 2,00209 0,00209 = a) Ss 1,00313 1,00174 3,00939 1,00174 2,00765 | 0.00765 = 5 1 1,99871 0,99854 2,99613 099854 1,99759 = 0,00241 5 3 0,99707 0,99654 2,99 124 099654 1,99467 si 0,00533 1) 5) 0,99663 0,99576 2,98959 0,99576 1,99413 = 0,00987 5 Ss 0,99826 0,99686 2,99478 0,99686 199792 | — | 0,00208 5) 12 1,00497 1,00260 3,01491 1,00260 2.01231 0,01231 =i Questa tabella fa vedere giustificate tutte le conciusioni dianzi esposte. Il valore di « per il quale sì ha il passaggio dall’ errore in meno a quello in più, cresce, come si era già visto, al crescere di @..Per $@ piccoli si possono verificare nella pratica errori in meno ed errori in più, poichè sino a 4° o 5° si può supporre che possa arrivare il valore di a. Per @ superiori ai 5° si avranno sempre errori in meno, poichè non sono possibili angoli a così grandi da cambiare i segni agli errori stessi. Il 4° caso si ha quando la linea di collimazione è diretta sotto all’ orizzonte di — 318 — un angolo P di depressione e la stadia è inclinata in avanti dalla verticale di un angolo @ (fig. 2). Colle solite notazioni, indicando con l = a"“d! la parte di stadia inclinata alla verticale e compresa fra i fili del micrometro, ed osservando che i due triangoli aBa' bBb' hanno rispettivamente gli angoli : O) 90 SED VERO O a O ° A) OOO he I sì ottiene O) O) COS ( —;) COS (È 3) (4) v=b —7 O cos (p+a—3) cos (f+0+2) Indicando come negli altri casi con X' e X' i coefficienti di d e di « 1 equa- zione (4) sì trasforma nell’ altra w—=Kl+a(K — K') Osservando i due coefficienti frazionarii X' e X'' si vede che essi sono eguali a quelli della formola (1) del 1° caso e sono soltanto scambiati fra di loro, così chè il coefficiente X' della (4) è eguale al X' della (1) e il X' della prima è eguale al X' della seconda. Si può quindi concludere che i due coefficienti frazionari saranno sempre maggiori dell’ unità, ma che in questo 4° caso si avrà XK' < XK" e quindi la differenza K' — K' negativa per inversione dei coefficienti di questo caso in confronto al 1°. Il primo termine X7 del valore di /! sarà quindi sempre maggiore di 7, ma il secondo termine sarà negativo. i Riducendo allo stesso denominatore i due coefficienti X' e X' si ha che la loro differenza, che è il coefficiente di a in tale secondo termine, sarà dato da — sen a sen - 20 -2 x cosg — Sen |Ppta fa Questa espressione, per i valori che possono avere in pratica gli angoli @, & e P fa vedere che il coefficiente di a, dell’ ultima equazione sopra scritta, sarà sempre — 319 — espresso da una quantità di molto inferiore all’ unità. Così ad esempio coi seguenti dati P= 305, @= 5°, @= 340 220 e IO 2 AMO Se — 000 2.119. Da tutto ciò ne consegue che in questo 4° caso si può ritenere che sia > / e che si abbia quindi in generale un errore in più Dalla (4) però si desume che per D = 0, 0 per $ molio prossimo allo zero, si può avere (“ a, come succede generalmente, poichè allora 1° angolo del denominatore della (6) sarà minore di quello del numeratore. Nel 2° e 3° caso sarà pure in meno sino a che a'non superi 29. quando a > 2P Il errore sarà in più. Le formole ora trovate non sono sufficientemente approssimate in molti casi e possono servire a dare un idea degli errori, ma non a valutare sempre l° entità degli errori stessi. Infatti l’ angolo diastimometrico @,.che si trascura, ha in generale uno dei due valori seguenti : TO 00 22°, 03 INR i Soa l ix che corrispondono ai rapporti diastimometriciì 50 e 100 più comunemente adoperati nella pratica. Alle volte si usa anche | angolo diastimometrico ZOO l corrispondente al rapporto -;- ZO , ma in modo apparente e non reale, poichè non vi sono nel micrometro del. cannocchiale i fili che a tale angolo corrispondano, ma sì ottiene il rapporto relativo ad esso dalla media di 2 determinazioni della distanza l l col rapporto di — 0 di 4 con quello di ——. 50 100 (i Per i suindicati valori dei più comuni e più grandi angoli diastimometrici, si vede subito che se @ od anche solo — è trascurabile in confronto all’ angolo 9 che p) —- 321 — può avere in generale, un valore di molti gradi, non lo è in confronto ad a che non potrà avere un valore se non inferiore ai 2 o 3 gradi. Le formole approssimate (5) e (6), che sì potevano dedurre anche direttamente dalle (1), (2), (3) e (4) mettendo in esse - = 0, non possono quindi servire a risolvere con- 2) venientemente il problema di cui qui si tratta, sia per la poca approssimazione dei risultati che da esse si ottengono nelle applicazioni numeriche, sia perchè non distin- guono esattamente i varii casi che si possono presentare nella pratica e non fanno risaltare le differenze fra i casi stessi. Per il 4° caso, ad esempio, non dimostrano la possibilità di un errore in meno. WIL Per usare le formole approssimate trovate precedentemente e passare da esse, quando lo si voglia a formole esatte, si possono determinare delle formole speciali di corre- zione alle prime che ne rettifichino i risultati e li rendano esatti, oppure anche tali da discostarsi da questi di quantità trascurabili, quando si vogliano semplificare tali formole di correzione in modo approssimato, ma con approssimazione sufficiente in ogni caso della pratica. Considerando il 1° caso (fig. 1) si vede subito quale sia la relazione fra la parte di stadia a'b' compresa fra i fili del micrometro, quando le linee di mira, determi- nate da tali fili, fanno fra loro l’ angolo diastimometrico ®@ e la parte di stadia 4,d,, compresa fra i fili stessi, quando tali linee di mira si suppongono fra loro parallele. La differenza fra |’ una e l’altra di tali parti di stadia è data dalla somma dei due segmenti d'a, e d,0', così che chiamandola dZ, si ha = d'a, ii bb è Per determinare i valori dei due segmenti d'a, e bb basta considerare i due triangoli aa'a,, bb,b' che hanno rispettivamente gli angoli e dai quali si può ottenere sen — 9 5 2 00) l 1 tà) COS (9 +0 — 3) 2 6) sen — s 2 D'oA===100 I U d COS (9 +a+ 3) Considerando poi i due triangoli «Ba, bb, che sono simili ed hanno gli angoli 90+g, a, 90—-p—a si ‘ottiene da essi, ‘colle solite ‘posizioni di Ba —ra e Bb =. sen sen a al, si === DÒ, = OR cos (P+ a) cos (P+ a) Con tutti i valori ora trovati si può avere n) (h) sen a sen sen a sen — 2 Pa di, =@ +- cos ($ + a) cos (p+a—3) cos (P + a) 008 (P+a +5) Questa formola che dà la correzione dl, da fare ad l, per avere l' può essere semplificata, con sufilcetente approssimazione nella maggior parte dei casì pratici, Sn ON O quando si ammetta di trascurare l’ angolo 9 in confronto a D+ a; allora si ottiene : (09) sen a sen 5 d,=(a+0) - cos (D+ a) Con procedimenti analoghi, osservando la fig. 1 per il 2° caso di un angolo @ di elevazione e di un angolo 4 d° inclinazione in avanti della stadia, e la fig. 2 per gli — Yo == altri due casi 3° e 4° di un angolo @ di depressione e della stadia inclinata indietro o in avanti, ed indicando rispettivamente con d/, dl, e dl, le correzioni da farsi alle Cmc Uni quantità /,, Z, ed 2, per avere le / / URALI ed l'", si otterranno le formole seguenti (19) (1) sen a sen — sen a sen — 9 DI) 9, & gia x + d 008 ($ — a) cos (Ga —5) c0s (B — a) cos (G— a+ 5) O O) sen 0. sen — sen a sen — 2 9 ded To + d Ò) a ser 2A De Sir aa cos (DB — a) cos (dî a + 3) cos (D — a) cos (9 A 3) Tn) To) sen a sen — sen a sen — 2 2 dl, =a gir? 7 O D Di, di O l 30 COS (P + a) cos (9 +a+ 3) cos (PD + a) cos ($ 2 W o) Anche per questi casì sì può ammettere con una approssimazione sufficiente che 1° an- 0 TORA: iti Ù so: golo 3 sia trascurabile di fronte a P—a per il 2° e 3° caso ed a G+ a per il 4°. Con questa ipotesi si ottengono le formole di correzione così semplificate. (19) sen a sen 5 di, =(a +5) — cos (D — ad) O sen a sen — di, = (a+) 3 — 2 cos (D — a) O sen a sen — 2 di, =" (&4+#- D) “È cos (P+ a) Osservando le quattro formole approssimate delle correzioni si vede subito che la 1° e la 4° sono eguali fra loro e così pure sono eguali fra loro la 2* e la 3*. La semplice ispezione poi delle figure 1 e 2 fa vedere che le correzioni del 1° e 3° caso sono positive e quelle del 2° e 4° negative. ge Con queste considerazioni le formole di correzione si riducono alle due seguenti : (0) sen & sen 5 (0) d,=d,=t(a+b0) cos (P+ 4) (19) sen a sen — 8) s ( degl san cos (P — a) nelle quali i segni superiori sono da usarsi rispettivamente per il 1° e 2* caso e gli inferiori per il 4° e per il 3°. Per i segni degli errori si potrebbero anche considerare gli a ed i @ di diverso segno nei varii casì, ma le regole relative al loro uso riescirebbero più complicate, poichè in altre formole anche l angolo ora entra col segno positivo ed ora col we negativo. Le correzioni (7) ed (8) sono sempre espresse da quantità piccole essendo gli angoli 5 ed a molto piccoli in valore assoluto ed anche in confronto cogli altri angoli De O+a e P_a nella generalità dei casi. Se ora si uniscono insieme le formole (5) e (7) e le (6) ed (8) si ottengono le parti di stadia inclinata alla verticale, compresa fra i fili del micrometro, rispettiva- mente nei casi 1° e 4° 2° e 3° determinate da formole che si possono ritenerefa sufficienza approssimate. Indicando con Z,, ed /,, queste parti di stadia si ha : 4 (A) sen a sen — 2 (9) Pe T(a+) — cos (D+ a) 00510 =, A) sen a sen 3 (10) MIE I 2 cos (P — a) cos (G— a) Qui poi si deve richiamare tutto ciò che si è detto precedentemente in riguardo ai segni degli errori e più specialmente che 1 errore nel 1° caso sarà sempre in più, nel 4° pure in più salvo che per $ = 0, o molto prossimo allo zero ed a piccolo, e nel 2° e nel 3° caso sarà generalmente in meno e solo in. più in via eccezionale. Lio Devesi pure richiamare la regola dei segni delle correzioni rappresentate dai secondi termini delle sopra scritte equazioni e cioè che i segni superiori servono per il 1° @ 2° caso © ali intensi jar ICE Si vede poi da tali equazioni che le correzioni fanno nel 1° e 2° caso crescere i valori degli errori, ossia le differenze fra { ed /, ed 7, e nel 3° e 4° li fanno di- minuire. Le formole (9) e (10) si possono trasformare in espressioni un po’ più semplici, ossia nelle seguenti. I è = e cos @ cos(P+ a) + (a+ bd) sen a sen . cos (P+ a) ni Ch È D di, NO) Lg = —(l1cospcos(P_ a) x (1+0)senasen 5) cos (PD — a) 7. VAdL Nelle applicazioni pratiche invece di considerare la parte di stadia inclinata alla verticale compresa fra i fili del micrometro, in confronto a quella della stadia verti- cale, conviene determinare l’ errore per unità «li stadia che si ha in causa della incli- nazione della stadia stessa alla verticale. Il passaggio dalle formole trovate sin qui alle altre che danno il detto errore unitario è molto semplice. Se / è, come al solito, la parte di sladia verticale ed /' quella della stadia inclinata, |’ errore riferito all’ unità di stadia è dato da (203) e —_ questa formola da anche il segno dell’ errore, poichè se la differenza l' —/ risulta positiva sì avrà un errore in più, se negativa lo si avrà in meno. Considerando le formole (1), (2), (3) e (4) che danno il valore esatto dell errore, si possono trasformare molto semplicemente in altre che diano 1° errore unitario ed anche riunirle in una sola formola con doppi segni. Se si indica con € l’ errore uni- tario che così si ottiene, si avrà la formola : nella applicazione della quale si dovrà osservare che per ì segni superiori debbono wie usarsi nel 1° e 2° caso e gli inferiori nel 3° e 4°; per & i superiori nel 1° e 4° e gli inferiori nel 2° e 3°. Dall’ applicazione di questa formola risulterà poi che si avrà un errore in più nel 1° e 4° caso ed un errore generalmente in meno nel 2° e 3°, potendo poi 1’ errore stesso solo in via eccezionale riuscire in più in questi due ultimi casi ed in via ancora più eccezionale in meno nel 4° caso, quando per @ = 0, o molto prossimo allo zero, tale caso si confonde col 2°. La formola (12) non può essere semplificata volendo manteneria tale da dare esattamente l’ errore dovuto nei varii casi alla inclinazione della stadia della verticale. Considerando le formole (5) e (6) che danno un +alore approssimato dell’ errore e applicando ad esse la (11) si ottengono due equazioni che si possono facilmente unire insieme in una sola con doppiì segni. Indicando con €, il valore approssimato dell’ errore dato da tali equazioni vi ha : BE arcos:0 Î 7 cos (BP Ta) i ricordando poi che il segno superiore davanti ad a si deve usare nel 1° e 4° caso e il segno inferiore nel 2° e 83°. Questa formola darà evidentemente essa stessa il segno dell’ errore €, che sarà positivo nel 1° e 4° caso, negativo in generale nel 2° -@ La formola ora trovata si può facilmente trasformare nell’ altra (13) og (9==5) sen ( £ 5) che meglio si presta alle applicazioni numeriche e nella quale i segni superiori da- vanti ad a e ad si adoperano -per il 1° e 4° caso e gli inferiori pel 2° e 3°. SN Considerando ora la correzione da farsi alla (13) per avere un valore dell’ errore che poco si scosti in ogni caso dal vero, e sia quindi sempre sufficientemente appros- simato, bisogna ricorrere ai valori già trovati, ma non a quelli esatti perchè si rica- verebbe una formula non meno complicata della (12). Conviene ricorrere alle formole (7) ed (8) colle quali si ha sempre una sufficiente approssimazione. Tali formole danno gli errori in valore assoluto e per trasformarle in altre che diano i valori unitarii basta dividerle per /. Riunendole in una sola e — 824 — indicando con de, la correzione si avrà a+ dD O Sen & Sen — che è meglio scrivere in quest’ altro modo sa a+ d (14) AETTZE I cos (PT a) sen (# a) sen (e ws ) per poter applicare la convenzione generale per i segni, già data per la formola (12) e cioè che per l’ angolo a i segni superiori servono nel 1° e 4° caso e gli inferiori nel 2° e 3° e per l’ angolo 5 l superiori per i 1° e 2° e ali imtasioni ae dl 80 n°, 4° caso. Le formole (13) e (14) si possono pure riunire in una sola che, detto €, il valore risultante, può con poche trasformazioni ridursi alla seguente : (15) n-__l2en( +3) c08($£ a)sen (29) + + (a+ d)sen (#3) sn(5)| da applicarsi colla convenzione solita già stabilita, che per 4 o per l segni supe- WIR Tiori servono, nel 1° e 4° caso e gli inferiori nel 2° e 3° e per > quelli superiori nel 1° e 2° e gli altri inferiori nel 3° e 4°. Per fare delle applicazioni numeriche si può supporre / = 1 ed allora d =a+ 1 e la (12) diventa COS ( = 5) COS (9 re 5) (IZ) e=(0+1) — a — l 3 , cos (0ora=3) cos (fax 5) la (13) non cambia e la (14) diventa 2a + 1 O (14) de = —— sen ( a) sen (- 3) cos @ 22.0) Le, Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. AT SES ORA Colla formola (12') che offre il valore esatto dell’ errore, colla (13) che da il valore approssimato dell’ errore stesso, si è calcolata la seguente tabella A nella quale sono pure riportate le correzioni della (14') ed i risultati che si ottengono unendo insieme le (13) e (14') e quindi nei casi in cui si volesse applicare diret- tamente la (15). La tabella A è calcolata, usando per @, come nelle applicazioni numeriche prece- denti, il valore 0°, 34', 22'', supponendo pure a= 1 e considerando diversi valori degli angoli @ ed « indicati nella prima e nella seconda colonna della tabella stessa. Per maggiore semplicità sono riportati nella tabella i valori percentuali dei singoli errori. 1 —' 329 — : ) i ù TABELLA A. Errori unitari percentuali. | Angoli Formola (12’) Formola (13) Formola (14’) Somme (13) +- (14°) pi e p.. 1 P. % der P. "o e2 D. %o gradi | sessag. Gasì diversi Gasì diversi Gasì diversi Gasì diversi i DI YACI (9}0) (0) || 0° LO 9) 4° 10 40 90 a go Di a st LIM di ne 20 30 VO Il | io (1 40,042) — 0,001) +0,042| — 0,011 | +0,015 | +0015 | #0,026 | 0,026 | +0,041 | — 0,011 | + 0,041 | — 0011 De" 0216 | + 0,059 | 40,216 | 40,059 | 40,137 | + 0,137 | # 0,079 | 0,079 | + 0,216 | 4 0.058 | 4+- 0,216 | + 0,058 fo 540514 | +0250 | + 0514 | + 0250 | +0,382 | +-0,352 | +0,132 | +0,132 | + 0,514 | + 0,250 | + 0,514 | +- 0,250 || -+-0,072 | — 0,042 | 4- 0,011 | + 0,019 | + 0,046 | — 0,015 | # 0,026 | 0,026 | 4-0,072 | — 0,041 | 4 0,011 | 40,020 1 |3|40,307 | — 0,033 | + 0,124 | + 0,151 | +-0,229 | 40,046 | +- 0,079 | 0,079 | +-0,308 | — 0,033 | #4 0,125 | #- 0,150 it | 5) 10,667 | +0.097 | + 0,360 | + 0,403 | 40,535 | +0,229 | +0,132 | 0,131 | + 0,667 | + 0,098 | + 0,360 | + 0,403 GS 0133 — 0102 | — 0054] 4 0,081 | 4 0107 | — 0,076 | +0,026 | 0,026 | +0,133 | — 0,102 | — 0,050 | + 0,081 If 3 40492] — 0215] — 0,059) +0,334| 40,413 | — 0,137 | + 0,079 | 4-0,078 | 4-0,492 | — 0,215 | —0,059 | + 0,334 St os — 0.207. 4 0.054 | ozit| eog44 | — 0,076 | +0.133 | = 0131 | 40,977 —0,207 | 40,055 | + 0,741 RNOT| 140,351 | — 0,318 | —0,264 | + 0,297 | + 0,324 | — 0,291 | 0,027 | 0,027 | 4-0,351 | — 0,318 | — 0,264 | 4- 0,297 MIO) 3 | 41,153 | — 0,859 | — 0,700 | + 0,989 | + 1.071 | — 0,779 | 40,082 | + 0,080 | 41,153 | — 0,859 | — 0,699 | 4- 0,989 non 2094 | — 1274 | dot (1,844 | 4 1,954 | — 1,143 | + 0,140 | 0,132 | + 2,094 | — 1,275) — 1,011 | + 4,814 io | 141069] — 1017 — 0.949 | + 0,997 | + 1,033 | — 0.983 | +0,036 | 0,034 | +1,069 | — 1,017 | — 0,949 | 4-0,997 | 30 i | SES | 20 = 205 | ES ES 2A EEA VIE EZIEA ZORRO MB0|5| + 5,916) — 4604 | — 4,286 | + 5,528 | + 5.722 | — 4,445 | #0,194 | 0,159 | 45,946 | — 4604 | -- 4.286 | + 5.528 Per avere la corrispondenza fra i risultati di questa tabella e quelli delle tabelle precedenti, ad eguaglianza di angoli y j Nore Nei valori di Èe; della formola (14') il segno + serve per i casi 1° e 3° e il — per i casi 2° e 4°. l ; basta dare in queste a % il valore 2, conservando per a il valore 1. \ i — 330 — La tabella A conferma tutte le deduzioni fatte precedentemente e dimostra come la formola di correzione (14') abbia una approssimazione tale da dare, unita alla (13), valori degli errori eguali a quelli che si ottengono dalle formole esatte. A parità di altre condizioni, sì vede da tale tabella che i maggiori errori in più ed anche in valore assoluto, sì hanno nel 1° caso; i maggiori errori in meno, per sensibili inclinazioni all’ orizzonte, che sono quelle più comuni da considerarsi, si hanno nel 2° caso e quindi l’ inclinazione della stadia dalla verticale influisce meno quando P è un angolo di depressione. La tabella A conferma la necessità di tenere la stadia esattamente verticale, poi- chè solo che l’ angolo F abbia un valore di pochi gradi, gli errori dovuti ad angoli a, anche molto piccoli, non sono trascurabili. Una considerazione speciale si deve fare per il caso di 9 = 0 che corrisponde a quello della stadia perpendicolare alla linea di collimazione del cannocchiale. Le diverse formole in tale caso riescono evidentemente tutte semplificate ; gli errori che si hanno nel 1° e 2° caso sono necessariamente eguali a quelli che si hanno rispet- tivamente nel 3° e nel 4°; gli errori per piccoli valori di a si possono ritenere tra- scurabili e per valori di a di qualche grado sono sensibilmente minori di quelli che si hanno per altri valori di @, lo che giustifica l’ asserzione che il metodo della stadia perpendicolare alla linea di mira è sotto questo rapporto preferibile a quello della stadia verticale. Gli errori crescono al crescere di @ e quindi si deve cercare in pratica che la linea di mira sia inclinata all’ orizzonte il meno che sia possibile. VIE Per applicare lo studio fatto sin qui e determinare l° errore A di cui può essere affetta una distanza orizzontale per una certa inclinazione della stadia alla verticale, essendo la linea di collimazione del cannocchiale inclinata all’ orizzonte di un angolo @ di elevazione o di depressione, basta moltiplicare D per 1’ errore unitario = e. Infatti : La parte di stadia inclinata compresa fra i fili del micrometro è data da Mittel Se X è il coefficiente diastimometrico, la distanza errata ridotta all’ orizzonte sarà —9 D,= KW el) cos P mentre la vera distanza sarebbe 9 D= Id sp — sol — L’ errore della distanza D sarà quindi dato da o = A=D—D= KUl£el)cosp — KI cos$ 1 ossia 9 INZEZIRIOI 0 e per il valore di D scritto superiormente IN tt) Per fare uso della tabella A basta quindi nei varii casi moltiplicare gli To per le distanze D che si vogliono considerare, per dedurre quale sarebbe in ogni caso l’ errore causato da una inclinazione della stadia della verticale. IX. Le conclusioni che si possono trarre da tutto lo studio fatto sono le seguenti : 1.° È necessario curare, nel miglior modo possibile, la verticalità della stadia, poichè gli errori dovuti alla mancanza di tale verticalità non sono in generale tra- scurabili. 2.° Gli errori sono i minori per @ = 0, ossia per la stadia perpendicolare alla linea di collimazione del cannocchiale. 3.° Gli errori crescono e sensibilmente al crescere di @, ossia della inclinazione all’ orizzonte della linea di collimazione del cannocchiale. 4.° Si deve cercare nella pratica di tenere sempre la linea di collimazione inclinata il meno possibile alla orizzontale. 5.° Nei casi più comuni della pratica, a parità di altre condizioni, gli errori tanto in più quanto in meno hanno valore minore per $@ angolo di depressione sotto l’ orizzonte, anzichè per @ angolo di elevazione. 6.° Gli errori dovuti alla inclinazione della stadia dalla verticale sono sempre in più nel 1° caso contemplato comunemente, ossia in quello di @ angolo di eleva- zione e della stadia inclinata indietro; sono pure in più nel 4° caso, ossia quando @ è angolo di depressione e la stadia inclinata in avanti, salvo che si abbia p = 0 o molto prossimo allo zero ed a molto piccolo; sono in meno nel 2° e nel 3° caso, ossia per @ angolo di elevazione e stadia inclinata in avanti e @ angolo di depres- sione e stadia inclinata indietro, quando si abbiano valori sensibili di @ e si consl- derino gli a possibili nella pratica; per piccoli valori di @ gli errori anche in questi casi possono essere positivi. = Do (0) 7.° In valore assoluto, e a parità di altre condizioni, l’ errore è sempre massimo nel 1° caso; è minimo nel 3° nei casi più comuni della pratica, e solo per piccoli valori di @ l’ errore minore. in valore assoluto, si può avere nel 2° caso. 8.° Gli errori dovuti alla inclinazione della stadia dalla verticale si possono calcolare colla formola approssimata (13) molto semplice, ricordando che per valori sensibili di @ si ricavano errori minori dei veri nel 1° e nel 2° caso, errori mag- clorienelatssfe mez 9.° Volendo determinare pure in modo semplice i valori esatti degli errori sì può ricorrere alla formola (14') dalla quale si rlcavano le correzioni da farsi ai risul- tati ottenuti dalla applicazione della formola (13). X. L’ inclinazione della stadia dalla verticale produce un errore anche nella proie- zione verticale della dIstanza inclinata che, proiettata orizzontalmente, serve a dare la distanza orizzontale D fra due dati punti; errore che si riproduce sulle quote altimetriche ottenute con istrumenti di altimetria a visuale libera. Un errore consi- mile, dovuto ad una inclinazione della stadia dalla verticale, sì ha pure sebbene in generale molto piccolo, nelle quote altimetriche che si ottengono nelle operazioni di livellazione con strumenti a visuale obbligata alla direzione orizzontale. La determinazione di questi errori, che sin qui sono stati rare volte presi in con- siderazione, potrà essere oggetto di un altro studio di completamento del presente. 333 ig 334 osti * 5 6 o5vI . Rj ria ene" i irerkd ZE TEMbO CAPRSUEARE HO RREESO NELLA RIDUZIONE IPPSREN OSS EZTONI ANTERO-ANPERNE | RBbECLSOMERO: | MEMORIA DEL Prof. ALFONSO POGGI letta nella Sessione del 28 Maggio 1911 (CON ‘TAVOLA DOPPIA). A seconda del meccanismo di produzione le lussazioni antero-interne dell’ omero sono distinte in lussazioni primitive ed in lussazioni secondarie. Le prime possono essere l’ effetto di un colpo violento applicato nella superficie poste- riore della spalla, che spostando la testa dell’ omero in avanti, produce la lussazione: ma oltre questo meccanismo diretto possono essere prodotte anche da causa indiretta, quando il braccio elevato posteriormente, con forza venga spinto anteriormente nella direzione del suo asse longitudinale. In ambedue i casi la lacerazione capsulare interessa tutta, o pressochè, la metà ante- riore della capsula e quel che più importa resta illesa una porzione del segmento inferiore, oltre quello posteriore e parte del superiore V. Fig. 2° e 3°. Le lussazioni secondarie invece si producono precipuamente con la forzata elevazione del braccio : la lacerazione del segmento inferiore della capsula ne è una conseguenza, unitamente alla lussazione sotto glenoide temporanea, che con un movimento di circon- duzione, si trasforma in lussazione anteriore, per successiva lacerazione del segmento ante- riore della stessa capsula. In questa lussazione anteriore la sede della rottura interessa sopratutto il segmento inferiore, estendendosi però anche nel segmento anteriore V. Fig. 1°. Già il Loreta aveva, per induzione, preso in considerazione questa diversa sede della rottura capsulare, nella riduzione delle lussazioni sottocoracoidee. Egli riteneva nelle lussa- zioni sotto-coracoidee da causa diretta, appunto perchè l’ occhiello capsulare era anteriore, irrazionale per la riduzione il metodo delle trazioni a braccio elevato, giacchè 1° innalza- mento dell’ estremo inferiore omerale doveva necessariamente essere accompagnato da un corrispondente abbassamento della testa slogata, che andando a premere contro l’ angolo inferiore dell’ occhiello, creava un’ ostacolo che non esisteva ad omero abbassato, nell at- teggiamento proprio della lussazione. Per questo atteggiamento la testa omerale, in vero, Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 48 = SÒ è in diretto rapporto collo squarcio capsulare e non trova altro ostacolo alla riduzione che nel ciglio glenoideo, che si vince facilmente con un movimento di rotazione esterna del braccio. Il Loreta per tal ragione raccomandava in questi slogamenti da causa diretta di impiegare il processo a rotazione esterna del Fort, e nel suo pregievole trattato sulle lussazioni traumatiche ne riporia un caso felicemente ridotto. Da queste considerazioni tutte intuitive del Loreta, ho preso le mosse per istituire ricerche sperimentali coll intento di studiare 1’ azione che la capsula a seconda delle due principali sede di lacerazione, può avere nel fissare più o meno il capo tanto nelia sua superficie articolare, quanto fuori di posto, in caso di lussazione antero-interna. E poi l’ impedimento legamentoso al ritorno in posto dell’ osso slogato, è necessario conoscerlo in tutte le sue particolarità, perchè non cede alle semplici trazioni nè all’ ane- stesia generale come la resistenza attiva muscolare e solo è possibile vincerlo, con adatti movimenti impressi all’ osso lussato, che richiedono evidentemente nozioni precise anatomo- patologiche. Nel cadavere ho prodotto una doppia serie di lussazioni sottocoracoidee, una di lus- sazioni primarie da causa indiretta e l’altra di lussazioni secondarie, mettendo in opera i convenienti e noti meccanismi di produzione. Poi, a lussazione ridotta, denudando le articolazioni dalle parti molli, pelle, muscoli ecc., preparavo 1° articolazione con 1’ apparato legamentoso, nel quale appariva evidente la lacerazione avvenuta. Una di queste due sedi ben distinte di lacerazione capsulare, non è a ritenere che avvenga sempre costantemente in tutti i casì nel vivo, anzi è razionale il prevedere che possono accadere delle varianti ed anche delle eccezioni in relazione alle variabili ed eccezionali modalità colle quali il traumatismo può a ire, nell’ accidentale produzione della lussazione. Ma tutto ciò non toglie che le suddette due sedi principali di rottura capsulare non possano essere prese a tipo delle presenti indagini. Ho cominciato, dapprima, col ricercare il modo di comportarsi dei lembi capsulari rimasti illesi, a seconda della sede della lacerazione, nei vari atteggiamenti del braccio relativamente ai principali processi di riduzione, spettanti, s° intende, al metodo di dolcezza. I processi manuali di riduzione sono numerosi, però quelli più in uso, si possono ridurre a due tipi principali, e cioè in quelli nei quali le manualità sì eseguono a braccio elevaio (Withe, Mothe) e negli altri che si compiono a braccio abbassato, in variabile grado di abduzione, (Processo del Fort e quello del Kocker, processo misto). Ora vediamo, come si comportava la capsula quando il braccio veniva elevato oriz- zontalmente nel piano trasversale del corpo ed in uno stato intermedio di rotazione, ad osso in posto. Nei preparati a lacerazione capsulare anteriore, fissata la scapola nella posizione nor- male ed inalzato 1’ omero fino all’ orizzontale, la testa manteneva l intimo contatto con la superficie glenoidea come se la capsula fosse stata totalmente integra, e se si eseguivano trazioni, anche forti, per allontanarla, essa non si discostava punto dalla corrisponaente superficie articolare. E tutto questo perchè la parte inferiore capsulare rimasta illesa fun- zionava quale punto di arresto dell’ elevazione del braccio, come in condizioni normali. Notavasi pure un avvicinamento dei margini della rottura V. Fig. 2°. egg Se invece si eseguivano le stesse manualità in una articolazione con rottura infero- anteriore capsulare, la testa omerale non si fissava punto nell’ innalzamento dell’ osso e sotto la trazione si allontanava notevolmente dalla superficie glenoidea, tanto da potersi introdurre fra le superficie articolari quasi due dita trasverse, e 1° apertura dello squarcio si faceva beante V. Fig. 1°. Cogli stessi preparati ripetendo l’° osservazione non più a braccio elevato ma abbas- sato in uno stato di semplice abduzione si osservava col 1° preparato che la testa, nel- l’abduzione, non si fissava e, colla pressione dell’ omero nell’ ascella, si poteva spostarla in fuori di un dito trasverso circa perchè in tale posizione si rilasciava il lembo capsulare inferiore V. Fig. 3°. Ripetendo la stessa prova col secondo preparato a lacerazione capsu- lare infero-anteriore, sì otteneva a presso a poco il medesimo risultato. Da queste osservazioni è permesso trarre deduzioni rispetto al grado diverso di rila- sciamento dei lembi legamentosi a seconda dell’ atteggiamento del braccio, nei due tipi di lacerazione della capsula fibrosa, che sono significative per giudicare dell’ opportunità 0 meno di un dato processo di riduzione. 1°. A lacerazione capsulare anteriore, |’ elevazione dell’ omero nel piano trasversale del corpo, tende notevolmente il tratto inferiore della capsula illeso, avvicina ì margini della rottura e fissa la testa. 2°. Nella lacerazione capsulare inferiore, nelle stesse condizioni dell’arto, i )embi sono al massimo grado di rilasciamento, così che |’ omero si può allontanare notevolmente dalla superficie glenoidea. s°. A braccio abbassato, nell’ abduzione, in ambedue i casi di sede dello squarcio, si_ha un’ analogo risultato, cedevolezza dei lembi legamentosi ed in grado minore che nel caso precedente, circa la metà. Pure a normale rapporto delle ossa ho creduto bene, tanto a braccio elevato quanto nello stato di abduzione, in un grado intermedio di rotazione, esperimentare 1° azione dei movimenti di rotazione sia esterna che interna, nel fissare più o meno la testa omerale. Nel preparato a lacerazione capsulare anteriore, a braccio elevato, le dette rotazioni non apportano modificazioni rilevanti nella fissazione della testa, coll’ esterna però si allarga l’ occhiello, coll’ interna invece se ne avvicinano i margini. Nel preparato con lacerazione inferiore le rotazioni accorciano i lembi che si attorcigliano fra le due superficie artico- lari e le avvicinano alquanto. Cogli stessi preparati facendo la prova delle rotazioni a braccio in abduzione, nel 1° preparato la rotazione esterna apre l’ occhiello capsulare, 1° interna chiude l’ apertura e tende la capsula, nell’ altro preparato la rotazione interna fissa la testa nell’ articolazione, al contrario la rotazione esterna produce la lussazione sotto coracoidea. Il qual fatto dimostra che detta lussazione secondaria ridotta ha la possibilità di riprodursi con una inconsulta rotazione esterna del braccio in abduzione, senza bisogno dell’ elevazione. Vengo ora, senza altro, a ricercare l’ importanza della diversa sede della lacerazione capsulare, ad omero lussato, per le principali manualità di riduzione, tanto nella lussa- — 398 — zione sotto che intracoracoidea, questa è veramente la parte che più interessa perchè finora in queste lussazioni è ben poco nota l’ influenza dei legamenti articolari nel facili tare o difficultare la ricomposizione dall’ osso lussato, e le conoscenze che si hanno sono per lo più frutto di induzioni anzichè di osservazioni dirette. Riferisco intanto il risultato delle mie ricerche fatte col metodo a braccio orizzontale e con trazioni, adoperando i preparati del 1° tipo a lacerazione capsulare anteriore, nei quali era stata prodotta la lussazione sotto-coracoidea e cioè con la testa sotto il becco coracoideo, col collo anatomico in rapporto col ciglio glenoideo e | omero in rotazione esterna. Se sollevavo 1’ omero conservando la rotazione esterna propria della lussazione, sotto l’azione della trazione si riusciva a spostar la testa dal margine glenoideo e la riduzione era possibile; ma se prima di elevar l’ omero, vi si imprimeva un movimento di rotazione interna, la trazione a braccio orizzontale, non riusciva a svincolare la testa dal ciglio, se non quando | omero venisse rimesso in rotazione esterna. L’ esito quindi dei processo operatorio era subordinato allo stato di rotazione dell’ osso spostato. Nello stesso pezzo anatomico avendo prodotto la lussazione intra-coracoidea caratte- rizzata da uno spostamento della testa all’ interno del processo coracoideo e dalla rota- zione interna dell’ osso se mi accingevo alla riduzione collo stesso processo, esso falliva, anche con forti trazioni, per una singolare e tenace fissazione del capo omerale. Io agivo come è prescritto col processo ad elevazione del Mothe. La scapola era fissata da un assistente, poi l’ omero nel grado di rotazione proprio della lussazione veniva alzato nel piano trasversale del corpo fino all’ orizzontale, per eseguire poi le trazioni. Ebbene in tale posizione l’ omero si sentiva fisso come in una morsa e non solo non obbe- diva alle trazioni ma neppure ai movimenti sia di rotazione esterna che interna. L'aumento dell’ elevazione del braccio aumentava la resistenza degli ostacoli i quali cessavano, come per incanto, se per poco fosse abbassato | omero o innalzato | angolo articolare della scapola, si che avvenisse fra scapola ed omero, un lieve movimento di adduzione, che rilasciasse, anche di poco, il tratto di lembo capsulare inferiore. Ho voluto verificare se i punti precisi nei quali esiste la lacerazione capsulare ante- riore potessero aver influenza, ma l’ incastro accade tanto se la discontinuità è avvenuta per distacco della capsula dal margine glenoideo o del collo anatomico dell’ omero, quanto nei punti intermed!. La fig. IV è la fotografia di un preparato anatomico con lussazione intracoracoidea primaria e distacco della capsula della metà anteriore del ciglio articolare, a braccio ele- vato, e con la testa omerale fissa da un cingolo legamentoso, contro il margine anteriore dlella superficie glenoidea. È manifesto che il lembo capsulare rimasto aderente al collo omerale ed attaccato coi suoi due estremi al polo superiore ed inferiore del contorno glenoideo imprigiona la testa contro il margine della superficie articolare e sotto il processo coracoideo. È un vero incastro osseo fra la testa omerale e il margine anteriore glenoideo non che 1’ apofesi coracoldea, mantenuto dall’ eccesiva tensione legamentosa, — 339 — Anche se il distacco della capsula ha luogo dal collo dell’ omero, anzichè dal ciglio articolare, la tensione del margine superiore ed inferiore dell’ occhiello che aderiscono al collo, agiscono egualmente che l’ intera ansa legamentosa a fissare il capo omerale. Collo stesso processo operatorio applicato nelle lussazioni secondarie, a lacerazione capsulare inferiore, sì aveva, tanto nella sotto che infracoracoidea, normalmente una facile riduzione. Il lembo capsulare stesso disteso dalle trazioni dell’ omero portava in posto la testa lussata. E la riduzione accadeva anche con lieve trazione e cioè tanto se all’omero veniva impresso un movimento di rotazione esterna, oppure di rotazione interna. Il risultato tanto diverso che si ha dallo stesso processo di riduzione secondo che venga applicato alle lussazioni primarie o secondarie è intimamente legato all’ esistenza, anche parziale, del segmento inferiore della capsula nelle prime e alla sua completa lace- razione nelle seconde: ed è in piena relazione con quanto si è accennato, esperimentando sugli stessi preparati anatomici, con l’ omero in normale rapporto colla superficie glenoidea. Il metodo dell’ abduzione e rotazione esterna nella lussazione antero-interna colla lace- razione capsulare anteriore (lussazioni primitive) ne provoca facilmente la riduzione, la quale avviene specialmente per opera del tratto postero-inferiore del lembo capsulare. Questa specie di cordone nella lussazione sotto-coracoidea è teso per lo spostamento in avanti della testa omerale e per la sua rotazione esterna. Così pure è teso nella lussa- zione intracoracoidea, non ostante la mancata rotazione esterna dell’ omero, per il mag- gior spostamento da essa testa, subito. L° esperimento coi pezzi anatomici riguardo al modo col quale avviene la riduzione sia col processo del Fort che con quello del Kocher, non fa che confermare cose note, anzi dirò che la teoria emessa dal Kocher per inter- pretare il modo d’ agire del suo processo nei vari momenti, ha trovato la più ampia con- ferma. La capsula adunque in questi casi non solo non oppone nessuna difficoità al ritorno in posto dell’ osso lussato, che anzi, costituendo come un ipomoclio ai movimenti impressi al braccio, concorre al buon esito delle manualità operatorie. Ho messo alla prova gli stessi processi, alla riduzione delle lussazioni pure antero- interne ma secondarie con lacerazione capsulare infero-anteriore; ed ho visto che i lembi capsulari nè i margini della rottura si oppongono alla riduzione, però questa non accade colla stessa facilità e costanza che nelle lussazioni primarie. In queste lussazioni i movimenti impressi all’ omero non sono più regolati dal lembo legamentoso postero-inferiore che è rimasto lacerato, ma dal segmento superiore capsulare che si inserisce al collo anatomico in tutta l’ estensione compresa fra la testa ed i due trochiti. Coi miei preparati st rivela bene la differenza che passa fra gli effetti della rota- zione esterna sulla lussazione sottocoracoidea nei due casi di diversa sede della lacera- zione capsulare. In ambedue le condizioni l’ aumento della rotazione esterna è utile in quanto svincola il capo dal ciglio glenoideo, e toglie quindi | ostacolo osseo, colla diffe- renza però che nel caso di lussazione primaria la testa è contemporaneamente spostata in — 340 — dietro e si impegna già nella superficie glenoidea, spostamento che non accade nella lussa- zione secondaria, da ciò il pericolo nella rotazione interna, necessaria per completare la riduzione, di riprodurre la lussazione. Può aversi però una buona rotazione con lieve spostamento indietro della testa, anche nelle lussazioni secondarie se sì ha 1 avvertenza di portare il gomito posteriormente si che l’abduzione del braccio sia veramente nel piano trasversale del corpo e un po’ anche poste- riore; questo movimento obbliga la testa ad impegnarsi nella superficie articolare. La cosa si dimostra all’ evidenza col preparato anatomico e del resto è una conseguenza del fatto che il movimento dell’omero essendo regolato dal segmento superiore capsulare che vi si fissa sul vertice, la testa che vi sta sotto, in proporzione minore ed in ragione inversa della lunghezza del braccio, deve seguire, nella stessa direzione, i movimenti impressi all’ estremo inferiore, mentre nel caso di lacerazione capsulare anteriore, il fascio lega- mentoso trovandosi inserito sotto alla testa, i movimenti del braccio si trasmettono a questa in direzione inversa. Le varianti sono poi più grandi quando si faccia il confronto col processo del Kocher. Nulla ho da aggiungere per i due primi tempi del processo, abduzione e rotazione esterna molto è a dirsi invece pel 3° e 4° momento Quando esiste la corda legamentosa postero-inferiore i movimenti impressi all’ omero nel 5° momento, per le ragioni già addotte, sono opportuni perchè sollevando |’ omero anteriormente nel piano sagittale del corpo la testa altalena indietro e si impegna nel cavo articolare mentre la pressione sul gomito verso l’ adduzione lo sposta in fuori, con- dizioni meccaniche le più opportune perchè la rotazione interna del braccio completi la riduzione. Nei preparati a lacerazione infero-anteriore, lussazioni secondarie, la meccanica della riduzione nei due ultimi tempi del processo è più o meno modificata, e non esiste più la sicurezza dell’ esito favorevole; se non si hanno cautele speciali è possibile il ripristina- mento della slogatura. Con i due tipi di preparati anatomici la diferenza del meccanismo sì vede manifesta. Col preparato di lussazione sotto-coracoidea del 1° tipo, nel 3° momento del processo, sollevato l’ arto anteriormente se si spinge il gomito nell’ adduzione e sì ruota interna- mente non si riproduce la lussazione che invece può avvenire, sotto le dette pratiche, coil preparati della medesima lussazione del 2° tipo; e la ragione sta in ciò che in questa ultima lussazione è lacerato completamente il segmento inferiore della capsula. In vero nel sollevare il braccio nel piano sagittale mancando la corda legamentosa inferiore, la testa non è più sospinta nel piano articolare ma si mette in rapporto collo spazio com- preso fra il becco coracoideo ed il margine anteriore glenoideo, impegnandosi solo in parte nella superficie glenoidea. Sicchè nel movimento di rotazione interna (4° tempo) necessario per completare la riduzione, vi è il pericolo di riprodurre la lussazione. Infatti io ho notato nei miei preparati, in detto 4° tempo della riduzione, che se la rotazione interna era ac- compagnata da trazioni la testa si portava sotto il processo coracoideo per il rilasciamento dei lembi capsulari, che se invece della rotazione interna si spingeva l omero in dietro nella direzione del suo asse la testa veniva condotta in cavità. — dla Nella riduzione della lussazione intracoracoidea è evidente che se differenze si pos- sono avere a seconda della sede della rottura, queste non potranno trovarsi nella faci- lità o meno del movimento di rotazione esterna del braccio per trasformare la intra in sotto coracoidea. Nel cadavere la trasformazione della sottocoracoidea in intra si ottiene con un movi- mento forzato di rotazione all’interno dell’ omero senza che avvengano per questo nuove lesioni di rilievo nella capsula, e con un movimento inverso di rotazione si ripristina la varietà di prima. Ora nelle due varietà di preparati anatomici non ho trovato grande divario nell’ otte- nere la rotazione esterna, indispensabile pel buon esito operatorio, nella lussazione intra- coracoldea. Solo dirò che in quelle lussazioni intra-coracoidee con lacerazione capsulare inferiore sì trova qualche volta un intoppo alla rotazione efficace nel becco coracoideo che ostacola il passaggio della testa che deve spostarsi all’ esterno. Ciò dipende dal fatto che queste lussazioni hanno |’ abduzione dell’ omero con il gomito un po’ avanti, a differenza di quelle a lacerazione capsulare anteriore nelle quali 1’ abduzione è veramente nel piano trasversale ed anche un po’ posteriore. Invero portando il gomito un po’ indietro l’ ostacolo è presto superato. Non mi occupo delle altre cause che possano rendere difficile la rotazione esterna, o inefficace, come quando avviene la rotazione intorno all’ asso omerale quindi senza sposta- mento in fuori della testa, perchè sono indipendenti dalle due varietà di sede di rottura capsulare prese in considerazione, sebbene la buona rotazione sia indispensabile per la riuscita dei due ultimi tempi del processo. Il processo di riduzione a braccio abbassato con rotazione esterna, misto del Kocher, può adunque anche nelle lussazioni sotto ed intra-coracoidea dell’ omero secondarie dare un risultato buono per riguardo ai lembi capsulari, come nelle primarie, quando si abbiano le avvertenze speciali indicate dalle condizioni anatomiche della lesione capsulare. Perciò il detto processo di riduzione è commendevole in quanto ha il vantaggio, su quelli ad elevazione dell’ omero, di sottrarsi alla resistenza attiva dei muscoli. Dalle mie ricerche sperimentali, sempre in riguardo relativamente ai lembi capsulari rimasti illesi, si possono trarre le seguenti conclusioni rispetto alla riduzione delle lussa- zioni sotto ed intra-coracoidee dell’ omero coi processi più in uso. 1.° La lussazione intra-coracoidea, ed in circostanze speciali anche la sotto-coracoidea, primarie possono essere ribelli al processo di riduzione del Mothe e Withe a braccio elevato, perchè il lembo capsulare eccessivamente disteso col margine superiore ed inferiore, fissa solidamente la testa contro il ciglio glenoideo, ed il processo coracoideo. Coi processi invece ad omero abbassato a rotazione esterna del Fort e misto del Krocher i lembi legamentosi concorrono efficacemente alla riduzione di tutte e due le varietà di lus- sazione. 2.° Le lussazioni sotto ed intracoracoidee, a lacerazione capsulare infero-anteriore, hanno nella capsula residuata le condizioni più favorevoli per la riduzione a braccio ele- vato. Nell’ elevazione dell’ omero i lembi e i contorni dell’ occhiello capsulare si trovano nel massimo grado di rilasciamento. Anche il processo misto del Krocher, non trova in queste lussazioni secondarie, difficoltà capsulari, però l’ esito non è così facile e costante come nelle lussazioni primarie. 3.° La teoria che il Kocher ha emesso per spiegare il modo di agire del suo pro- cesso, se nelle mie ricerche è stato trovata giusta per le lussazioni a lacerazione capsu- lare anteriore, non così è stato per le lussazioni secondarie a lacerazione infero-anteriore. Quindi in queste ultime lussazioni il seguire con rigore tutti i particolari del processo può essere causa di difficoltà o di insuccesso, che è dato evitare facilmente con le opportune modificazioni suggerite dalle condizioni anatomo-patologiche della capsula articolare. 5.° Infine si può adunque asserire in tesì generale che i margini della lacerazione capsulare per sè soli non oppongono aleun ostacolo alle manualità operatorie ed i lembi capsulari regolando ì movimenti dell’ omero, possano assecondar la riduzione, quando però la scelta del processo, e le manualità siano bene appropriate alle lesioni capsulari. Memorie. Serie VI, Tomo VIII. 1910-1911, A. POGGI — Importanza del lembo capsulare rimasto illeso, nella riduzione delle lussazioni ecc. lai I — 3849 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Tutte le figure sono tolte da preparazioni anatomiche dell’ articolazione scapolo omerale. Fig. 1.° — La lacerazione capsulare ha sede inferiormente, come nelle lussazioni secon- darie, accade. E evidente la possibilità di un notevole allontanamento delle superfici articolari, ad omero orizzontale. Fig. 2° — Lacerazione capsulare anteriore consecutiva a lussazione primaria: ad omero orizzontale non è possibile, con la trazione, allontanare le superfici articolari. Fig. 3.° — Lo stesso preparato anatomico della Fig. 2°, con l’omero abdotto anzichè ele- vato. Dimostra, in tale atteggiamento, la possibilità di allontanare |’ omero, in grado modico, dalla superficie glenoidea. Fig. 4" — Lussazione iufra-coracoidea da causa diretta con lacerazione capsulare ante- riore, irriducibile col metodo di elevazione orizzontale e trazione. È evidente il cercine legamentoso che fissa la testa omerale contro il margine ante- riore glenoideo. -— eo Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 49 = 7% Na 3% sorti Prera pito in oi î n Na 5 i 1a 4 a ‘0 DI SEEITEA E TITA SILLA a ta i Da fi ASTARROG SR PERE CUNEARIBTIA DEL FRENULO PREPUZIALE SOPRANNUMERARIO MEMORIA SECONDA DEL Pror. DOMENICO MAJOCCHI (letta nella Sessione del 10 Maggio 1911). Dopo la pubblicazione della mia memoria sul Frenulo prepuziale sopranzumerario (1), continuando io le ricerche intorno a questa rara anomalia, mi venne fatto di raccoglierne due varietà, sugli infermi che frequentano il Dispensario della Clinica Dermosifilopatica di Sant’ Orsola, ambedue assai rilevanti e degne sotto molti rispetti di essere registrate. Siffatte varietà, sebbene affini ai tipi già da me studiati e descritti, nullameno pre- sentano alcune differenze riguardanti e la sede e la forma del frenulo prepuziale soprannu- merario Ho detto affini ai tipi già descritti, quantunque di questo genere di anomalie sia difficile stabilire un ipo urico, dal quale tutti gli altri provengano, o anche fissarne un numero ristretto, ma costante. Sotto questo rispetto, non potendo venire ad una conclusione recisa, mi par di necessità non allontanarmi dai caratteri anatomici più salienti, già sta- biliti nel mio precedente lavoro Su questa guida, quando molte delle varietà del frenulo prepuziale soprannumerario saranno state raccolte, potranno essere vagliate con una critica più esatta, e in pari tempo disposte in una classificazione fondata sopra la costanza dei caratteri suddetti, e specie su quelli di forma, di sede, e anche d’inserzione. Per non dilungarmi di soverchio, passerò subito a dare una breve descrizione dei casi occorsimi di questa anomala formazione. Caso I — Si presentò al dispensario della Clinica dermosifilopatica nel Giugno 1910 un tal Bonora Giuseppe di anni 22, ebanista, nato in Bologna, affetto da un’ ulcera del solco balano-prepuziale, e più precisamente nel lato sinistro. L’ulcera era superficiale, con margini frastagliali, con fondo necrobiotico, irregolare per forma, alquanto dolente, svi- luppatasi dopo qualche giorno dall’ ultimo coito. Si fece diagnosi di ulcera venerea e fu prescritta la miscela di Calomelano e Iodolo. (1) Majocchi. Sul frenulo prepusziule soprannumerario. Memoria con due tavole e figure inter- calate nel testo. (Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Serie VI, Tomo V, 1907. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 49 A — ‘846 — Facendo | esame dall’ulcera, si potè scorgere immediatamente una specie di brighia nastriforme che si inseriva inferiormente alla faccia interna del prepuzio, a 3 mm. circa dal fondo del sacco prepuziale e superiormente alla faccia anteriore del ghiande, alla distanza di 17 mm. dal meato uretrale e a 9 mm. dall’orlo coronale. Il paziente ricorda di avere questa anomalia fin dalla sua fanciullezza, anzi afferma di esser nato colla me- desima, siccome in proposito fu assicurato dai suoi genitori. (Nig. 4). La faccia esterna, o superiore (prepuziale) del nastro è alquanto striata nella sua lunghezza, ma le strie sono divergenti verso la base del nastro medesimo; inoltre presenta in alto, e vicino al margine destro, un foro alquanto irregolare, della grandezza di 2 mm; La distanza del detto foro dal margine sinistro della fascetta nastriforme misura 9 mm.. dal margine destro, 3 mm.; dalla corona del ghiande 7 mm. La faccia inferiore, o posteriore (balazica) tocca la mucosa del ghiande, ma non ade- risce del tutto alla medesima, come dirò in appresso. Fig. I. Rispetto alla sede di questa fascetta nastriforme, è d’ uopo rilevare che essa non tro- vasi nel mezzo della regione anteriore del ghiande, ma si porta alquanto a destra, per modo che il suo margine sinistro si allontana dalla linea mediana di qualche mm. appena, e soltanto verso la sua base tocca la detta linea. Per stabilirne meglio la sede e postura valgano le seguenti misure prese dal frenulo normale, alla base della detta fascetta na- striforme: a) nel suo margine sinistro, 27 mm.; 0) nel suo margine destro, 34 mm. Per riportare nella linea mediana della faccia anteriore del ghiande la fascetta na- striforme, basterà tener conto della differenza fra queste due distanze, la quale, come di per sè è evidente, risulta di 7 mm. Vista di fronte, presenta la fascetta nastriforme una figura a triangolo smusso, con base piuttosto larga; misura nei suoi diametri : Lunghezza co Roe Ro ine all’apice, inserzione superiore (balan'ca). 9 mm. Larghezza nel mezzo .. . . a eat IT? alla base, inserzione inferiore, (prepuziale) 21 mm. SR Come ho detto, la sua faccia inferiore non aderisce interamente al ghiande, ma libera passa, come un ponte, sul solco balanico, per una estensione da 7 a 8 mm. La descritta fascetta nastriforme è distendibile ed elastica, tanto che nell’atto dello svaginamento del ghiande può essere sottoposta ad una distensione maggiore di quella, nella quale è stata fotografata. Il frenulo normale è regolarmente sviluppato. L’ulcera, essendo discosta dalla fascetta nastriforme, non ha recato sulla medesima nessuna irritazione, almeno in apparenza, per modo che il paziente non ha mai sofferto il minimo disturbo in tutti i movimenti di scoprimento del ghiande; a ciò ha contribuito anche la cura intrapresa subito con lavande e con polveri antisettiche. Mentre il paziente era sotto le nostre cure, gli fu proposto di fare |’ estirpazione della descritta fascetta nastriforme, che. ora possiamo dire senza altro frenulo prepuziale so0- prannwnerario: e non ostante che egli non ne provasse alcuna molestia, accolse di buon grado il nostro consiglio. Non appena cicatrizzata l’ ulcera, feci l’ estirpazione del frenulo suddetto, infilando il bisturi sotto il ponte del medesimo e recidendo a piatto ambedue le sue inserzioni (bala- nica e prepuziale), senza lasciare alcuna irregolarità sulla superficie del ghiande Il pezzo reciso fu conservato per l’ opportuno esame istologico, che più tardi verrà descritto Caso II — B. B., di anni 20, nativo a Jesi, sergente del 6° Bersaglieri, fu condotto in Clinica Vl 11 ottobre 1910 dal Dott. F. De Napoli, Capitano medico e assistente onorario della Clinica dermosifilopatica, perchè affetto da sifiloma della palpebra superiore destra, seguito da roseola: il paziente fu di poi assoggettato, nell’ ospedale militare, alla cura antisifilitica col 606. Nel fare l’ esame del paziente, il Dott. De Napoli si accorse che esso presentava un pic- colo frenulo soprannumerario; in pari tempo il frenulo normale era regolarmente svilup- pato e della lunghezza di 5 mm. Interrogato, il B. B., sull'origine di questa produzione balano-prepuziale, ricorda di averla vista fin dalla sua fanciullezza: anzi egli crede fermamente che essa rimonti fin dalla nascita, stando anche a quanto affermano i suoi parenti. Siffatta anomalia, esaminata attentamente, ci mostra i caratteri di un frenulo sopran- numerario, 0, per dir meglio, una varietà di esso, sotto forma di un corto cordone, leg- germente appiattito, sottile nel mezzo e alquanto più largo nelle sue estremità, costituenti le sue inserzioni. Di queste l’inserzione dalorica si fa precisamente sull’ orlo coronnule con espansione ristretta, mentre l’inserzione inferiore o prepuziale spicca dalla mucosa del prepuzio, con espansione alquanto più larga, a 4 mm. dal fondo del sacco prepuziale. Sebbene si presenti molto corto e sottile, pur esso è assai distendibile nello svagina- imento del ghiande. Le misure dei suoi diversi diametri sono le seguenti: Lunghezza normale a ghiande svaginato 5 mm. Lunghezza con iperdistensione del prepuzio 9 mm. inserzione superiore (balarica). o mm. Larghezza nel mezzo SR 4 mm. Ì inserzione inferiore (prepuziale) . . . .34 mm. Dal meato uretrale all’inserzione balanica. . . . 34 mm. DalkireniloamormaletNaN destra e RA Se SEMI » » VESIUIS(IFA RIA NA NOE e Risiede esso nella regione laterale destra del ghiande e si allontana dalla linea mediana 11 mm.; non aderisce alla sottostante mucosa del ghiande, ma forma un ponte al disopra del solco balanico della larghezza di 3 mm. (Fig. 2). Durante la cura della sifilide il giovane bersagliere fu consigliato a farsi estirpare il frenulo soprannumerario e ai 19 Novembre 1910, col consenso del paziente, fu reciso il cordoncino intiero, previa legatura alle due inserzioni. La cicatrice avvenne entro 8 giorni. Il pezzo reciso fu conservato come il primo per le ricerche istologiche. Esame istologico. —— Per stabilire il modo di comportarsi della struttura in ambedue le varietà dei frenuii soprannumerari, già descritti, furono fatti tagli di traverso su tutta la loro lunghezza. Essendo però ben poche le differenze istologiche nei diversi tratti di ognuno dei medesimi, mi fermerò principalmente a descrivere i tagli microscopici corri- spondenti, tanto alla parte media, quanto alle due inserzioni, e soprattutto quelli, nei quali si rinvenne qualche particolarità degna di nota. I. — Cominciando dall’esame microscopico del Z° Caso, i tagli dell’ inserzione superiore mostrano le due superfici corrispondenti alle due faccie del frenulo soprannumerario (pre- puziale e balanica) rivestite da epidermide, disposta in parecchi strati. Vi sono però par- ticolarità istologiche diverse nelle due superfici suddette, che meritano di essere descritte. Nella superficie posteriore di rivestimento, lo strato m@/pigRiano è il più sviluppato, risultante di zaffi, alcuni corti e sottili, altri larghi e tozzi, inferiormente rotondati, tutti pressa poco uniformi per lunghezza e intercalati da basse e sottili papille. Su queste ee poggiano ben distinte le cellule basali, di forma cilindrica e cubica, mentre le rimanenti cellule epiteliali degli zaffi medesimi spiccano per la loro forma poligonale, e mostrano assai bene le ciglia e gli spazi intercigliari, nei quali d’ ordinario si scorgono fatti evidenti di diapedesi leucocitaria. Di mano in mano che si sale in alto, le cellule epiteliali pigliano una forma fusata, o losangica, mentre si vanno gradatamente schiacciando e perdendo le loro ciglia, finchè nel limite esterno si fanno piatte e sottili. Non si riesce a distinguere nettamente uno strato granuloso: questo s' intravvede per la presenza, in qualche tratto, di due o tre ordini di cellule losangiche rigonfie, ma prive di granuli di cheratojalina, sebbene esse siano state trattate con adatte colorazioni. Dello strato Zucido, nessuna traccia. Rispetto poi allo strato delimitante, le cellule più esterne, benchè piatte e sottili, non mo- strano di avere raggiunto il processo di perfetta cheratinizzazione, anzi quando esse siano isolate, si scorgono ancora fornite di un bel nucleo elittico, alquanto discentrato: in altri termini le cellule epiteliali delimitanti, che rivestono la faccia posteriore del frenulo s0- prannumerario, offrono presso a poco lo stesso carattere corneoide degli epiteli della mu- cosa balanica. (Fig. 1, 2, 3). Rispetto al rivestimento epidermico, corrispondente alla faccia anteriore del frenulo soprannumerario, si scorge immediatamente una maggiore sottigliezza di esso, ed una di- sposizione sopra un piano irregolare, formante diverse pieghe e insenature; non solo è più sottile, ma di spessezza ineguale e, mentre in alcuni tagli lo strato di Malpighi si mostra povero di zafli, d’ ordinario piccoli e disformi, in altri invece ne è pressochè privo, o appena lascia vedere una lieve ondulatura nella linea epidermica profonda Anche qui al disopra del corpo malphighiano non si distinguono i due strati, granuloso e lucido: invece le cellule epidermiche tendono a pigliare la forma fusata, si fanno gradatamente piatte, lamellari, formando queste un sottile strato corneoide. Ma ciò che colpisce fin dai primi tagli, fatti in corrispondenza dell’ inserzione supe- riore, è la presenza di un’ispessimento del corpo malpighiano, nel mezzo circa del rive- stimento epidermico della faccia anteriore del frenulo soprannumerario, ispessimento che fa contrasto colla sottigliezza della rimanente epidermide di rivestimento e che ben presto (nei tagli successivi) si converte in'un grosso zaffo, al quale aderisce una formazione ci- stica. (Fig. 1). Siffatta cavità cistica, piccola, di forma ovale, fatta di una sola parete epiteliale, sottile ed uniforme, è posta, col suo diametro più lungo, orizzontalmente nella spessezza del derma; e mentre nei primi tagli, fatti poco sotto all’ inserzione balanica, vedesi essa vicina al rivestimento epidermico della faccia anteriore, aderente al medesimo per un zaffo malpighiano, vario per dimensione e lunghezza, ove integro, ove interrotto in due 0 tre pezzi: invece nei tagli successivi la cavità stessa si fa totalmente libera, approfondasi alquanto, arrestandosi circa nella parte media della sosianza dermica del frenulo sopran- numerario. La parete propria della piccola cisti risulta degli stessi strati epiteliali del ri- vestimento epidermico, fra i quali il m:a/pighriano conserva presso a poco la stessa spes- sezza, e mentre lo strato delimitante, fatto di cellule fusate ed allungate, lucenti, diafane (st. lucido ?), appare a primo aspetto sottilissimo, invece con attento esame si scorge che Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 49 B 350 — esso forma una massa compatta, molto trasparente, disposta a strati concentrici. Qui pure lo strato graruloso non si fa palese con alcun metodo di colorazione. Del resto la massa corneoide in alcuni tagli riempie tutta la cavità cistica, ma in altri si mostra distaccata dalle pareti della medesima, e talvolta anche alquanto discosta, forse per retrazione, av- venuta durante la preparazione. (Fig. 1, 2, 3). Rispetto al derma di questo frenulo soprannumerario, mostrasi esso costituito da fasci collageni, abbastanza compatti nello strato superiore (prepuziale), aventi una disposizione orizzontale e una conformazione ondulata, confinante col rivestimento epidermico sovra- stante, mercè un margine irregolare, formante in qualche tratto piccole rilevatezze pa- pillari, fra le quali immettonsi zaffi malpighiani. Possiede molta copia di capillari san- guigni, e tra i fasci collageni le cellule connettive fisse mostransi in file e in gruppi ac- compagnate da una rada intiltrazione di leucociti polinucieati, specie attorno ai capillari stessi. Ai contrario, più lasso appare il derma della faccia inferiore (balanica): quivi i fasci collageni sembrano alquanto più rigonfi, ondulati anch'essi, disposti prevalentemente in direzione orizzontale, mentre nel margine confinante del rivestimento epidermico, arcuan- dosi, formano un corpo papillare più o meno uniforme, in correlazione collo sviluppo del corpo malpighiano sopradescritto. Ma la particolarità, che spicca più evidentemente, è la maggiore ricchezza vasale: infatti, oltre la circolazione papillare, che in alcuni tratti pos- siede anse capillari assai ben conformate, vedonsi ancora in maggior numero tagli tra- sversi e obbliqui di capillari ectasici (dei quali 1’ endotelio è molto spiccato) nello strato subpapillare, come pure nel derma medio mostransi in sezione trasversa ampi vasi forniti, alcuni di uno o due ordini di endoteli e di una sottile tunica avventiziale, altri, oltre di questa, anche di una tunica media uniformemente sviluppata. Havvi pure una maggior ricchezza di leucociti polinucleati, che infiltrano uniformemente le papille, ma più abbon- dantemente lo strato subpapillare, ove formano una vera zona regolare, orizzontalmente disposta, e quindi parallela all’ epidermide sovrastante. (Fig. 1, 2, 3), Spiccatissimi poi sono i fatti di diapedesi interepidermica da parte di questi elementi leucocitari e così pure non manca qualche accenno a spongiosi delle cellule malpighiane, come nell’inizio di una vescicolazione. Come si è detto, i fasci collageni del derma, mentre hanno una disposizione orizzon- tale in corrispondenza delle due faccie, balanica e prepuziale, del frenulo soprannumerario, pigliano invece un’andatura circolare attorno alla sopradescritta cavità epidermica, quasi per dare a questa una parete esterna, che però non è affatto distinta. In questo punto sono più manifesti alcuni elementi istologici, dei quali faccio parola soltanto ora, non ostante che s’ incontrino (sebbene meno spiccati) nel tratto superiore in corrispondenza dell’ inserzione balanica, La foro forma fusata e allungata, il loro nucleo ba- stonciniforme, il protoplasma cellulare omogeneo, in fine, la loro disposizione nastriforme, ci fanno senz'altro ritenere questi elementi per fibro-cellule muscolari, sia riunite in fasci- coli, sia a foggia di corti nastrini nella spessezza del derma, e specie in vicinanza dei vasi. L'importanza di tale reperto non può disconoscersi in siffatta produzione. (Fig. 5). — 351 — In alcuni tagli corrispondenti tra il terzo medio e il superiore della fascetta nastri- forme del detto frenulo, s'incontra la sezione trasversa del foro sopradescritto: il quale appare come una grande cavità rivestita di epidermide di varia spessezza, ove sottile e disposta a strati orizzontali, ove grossa, dando luogo a qualche zaffo informe, nel derma sottostante, e questo, mentre lo circonda, non presenta alcuna particolarità degna di nota, tranne una certa ricchezza vasale in alcuni punti del suo contorno. Di mano in mano che si discende coi tagli in serie verso il tratto medio, si trova che la piccola cavità non è chiusa del tutto, ma lascia vedere un’ apertura nella parete ante- riore, corrispondente alla faccia prepuziale del frenulo soprannumerario. Siffatta apertura, assai ristretta, dopo cinque o sei tagli si allarga, formando una specie di doccia (che termina ben presto) rivestita anch'essa dagli stessi strati epidermici, e continuantesi con quelli del rivestimento esterno del frenulo medesimo. Quest’ ultima particolarità ci conduce facilmente a riconoscere che la cavità sopradescritta non è una vera e propria cisti ro- tondeggiante, ma piuttosto è una cavità alquanto allungata, di cui vedremo più tardi quale possa essere il meccanismo di formazione. (Fig. 4). Passando all’ esame dei tagli corrispondenti alla metà del frenulo soprannumerario, si osserva che esso si espande in basso come un nastro solido, per modo che il derma delle due faccie, superiore (prepuziale), inferiore (balanica) è in immediata continuazione; non ostante ciò sì distingue sempre a colpo d’occhio il derma della faccia prepuziale da quello della faccia balanica, perchè questo non solo presenta maggior regolarità dei zaffi mal- pighiani e migliore conformazione delle papille, ma ancora ci mostra la regolare zona d’infiltrazione leucocitaria subpapillare. L’ epitelio di rivestimento circonda tutto attorno il nastro dermico, stratificandosi presso a poco nella stessa maniera, come nel tratto su- periore. Discendendo gradatamente in basso, seguendo le sezioni in serie, s'incontrano sempre presso a poco le medesime particolarità di struttura, finchè si giunge in corrispondenza dell'inserzione inferiore del frenulo soprannumerario: quivi notasi maggiore spessezza del connettivo dermico, notevole sviluppo di vasi, alcuni ettasici, forniti di una sottile parete avventiziale, e altri invece aventi caratteri di arteriole con tuniche ben sviluppate, spe- cialmente la media. Parimenti, l'epidermide di rivestimento mostra anche nelle sezioni di questa estremità le stesse modalità istologiche, tanto nella faccia balanica che prepuziale, tranne una maggiore spessezza e un maggiore sviluppo di zaffi malpighiani in ambedue le faccie suddette. | Un fatto che colpisce maggiormente nei tagli, fatti in tutta la lunghezza della fascetta nastriforme del frenulo suddetto, è la spiccata differenza nell’epitelio dello strato basale delle due faccie; dappoichè mentre nella faccia prepuziale l’epitelio basale è assai ricco di granuli di pigmento, quello della faccia dalarnica ne è assolutamente privo. In alcune sezioni, corrispondenti ai diversi tratti della fascetta nastriforme del frenulo, oltre la presenza di fascetti di /îbro-cellule muscolari liscie nella spessezza della sostanza dermica, e un notevole sviluppo vasale, mercè la colorazione di orceinà (metodo Taenzer- Unna) si fa palese in tutte una grande ricchezza di fibre elastiche: queste assai scarse ig ei nelle papille e nello strato subpapillare della faccia balanica, si mostrano evidentissime e numerose nel resto del derma e principalmente nello strato medio, attorno ai capillari e nell’avventizia delle arteriole. La disposizione del tessuto elastico è varia; dappoichè, ove forma un reticolo a maglie assai strette, ove si dispone in fascicoli serrati assai ben vi- sibili nella parte media del derma, e ove si espande in forma raggiata, specie attorno alle arteriole. Inoltre, alcune sezioni, e particolarmente quelle dell’ inserzione inferiore, mostrano tale dovizia della trama elastica, che insieme al notevole sviluppo vasale e alla presenza di fascetti di fibro-cellule musco'ari, porterebbero a credere alla struttura di un tessuto erettile, sul quale mi fermerò più tardi. (Fig. 6). Da ultimo è d’ uopo rilevare che in tutto il nastro del detto frenulo non si rinviene traccia alcuna di organi ghiandolari e di follicoli piliferi e, ciò che più importa, manca assolutamente il pannicolo adiposo. Laonde è d’uopo concludere che il descritto frenulo soprannumerario è costituito da un’espansione nastriforme dermica, rivestita da epi- dermide. II. — Non mì fermerò a lungo sulla descrizione istologica del secondo frenulo sopra- nnumerario, essendo poche e di poco conto le differenze di struttura dal /° caso sopra- descritto. Anche di quello furono studiate le sezioni microscopiche, fatte di traverso in tutta la sua lunghezza, tenendo conto sia delle due inserzioni, sia della sua porzione media. Sono di forma rotondeggiante le sezioni dell’ inserzione superiore, in forma di tri- foglio quelle dell’ inserzione inferiore, per la presenza di due solchi nel loro contorno, corrispondenti ad alcune pieghe naturali del frenulo sopradescritto, e queste sono assai più grandi delle prime: invece le sezioni del tratto medio hanno forma elittica, e per dimensione sono le più piccole. (Fig. 7, 8, 9). Dall’ esame microscopico istituito sulle sezioni medesime fu agevole stabilire, trat- tarsi anche qui di una produzione cordoniforme, fatta da solo connettivo dermico, ri- vestita da epidermide, coi caratteri di quella della mucosa balano-prepuziale: manca in- fatti ogni traccia di pannicolo adiposo. I fasci collageni sono abbastanza compatti, ma ricchi di cellule fisse, aventi direzione varia, alcuni posti di lungo e quasi paralleli all’ asse del frenulo stesso, altri invece obliqui e finalmente divergenti verso le due estremità, cor- rispondenti alle due inserzioni. La massa di connettivo, costituente il cordoncino del fre- nulo suddetto è abbastanza fornita sia di capillari sanguigni, sia di vasellini ectasici, aventi un endotelio molto spiccato e una sottile tunica avventiziale, sia anche di qualche arte- riola, principalmente verso la sua parte centrale, e più scarsamente in quei punti della sua periferia, ove il derma forma rudimentali papille. Non s'incontrano rudimenti di or- gani ghiandolari, nè di follicoli piliferi in tutta la sua lunghezza. Come si è detto più sopra, il rivestimento è costituito da un’epitelio dì superficie che mostra ì caratteri istologici dell’ epidermide, rivestente la mucosa balano-prepuziale. Lo strato malpighiano non è molto spesso nel contorno delle diverse sezioni microscopiche, tranne in alcuni punti, ove forma piccoli zaffi, corrispondenti ai tratti forniti di un rudi- mentale corpo papillare. Dello strato granuloso e lucido non si riesce a dare una chiara —— 353 — dimostrazione: lo strato delimitante è sottile, fatto da cellule piatte, di aspetto corneoide, assai facile a distaccarsi in alcuni tratti, e talora esfogliantesi in quasi tutto il contorno della sezione. Non ostante la sottigliezza del rivestimento epidermico, rinviensi in alcuni tagli, cor- rispondenti all’inserzione superiore (balanica), un ispessimento rotondeggiante, formato da un grosso bottone sezionato di traverso e talora in obliquo. Questo parte come una gem- mazione dal rivestimento epidermico, e approfondandosi nel derma occupa costantemente un punto circoscritto del contorno del taglio microscopico. Sebbene il detto bottone risulti degli stessi strati epiteliali del rivestimento epidermico, nullameno merita vederne la di- sposizione per meglio stabilire il meccanismo di formazione del medesimo. (Fig. 7). Orbene, perifericamente esso è costituito da un solo strato di cellule basali, di forma cilindrico-cubica, appresso da cellule poligonali, più internamente da cellule fusate, mentre circa nel suo mezzo trovasi una piccola massa concentrica di cellule corneoidi. In alcuni tagli si rinviene nella parte superiore del bottone medesimo una piccola apertura roton- deggiante, circondata da cellule fusate e piatte: siffatta apertura potrebbe a tutta prima simulare la sezione trasversa di un tubulo ghiandolare, apparenza che facilmente viene chiarita da due fatti: 1°) dalla mancanza di ogni traccia di organi ghiandolari e follico- lari; 2°) dalla presenza di questo foro in sole poche sezioni del bottone epiteliate. Da ultimo è d’uopo rilevare che tanto nello strato dasale del rivestimento epidermico di questo frenulo soprannumerario, quanto in quello del bottone epiteliale, non si rinviene affatto pigmento. Dalla descrizione anatomo-patologica di queste due varietà si rileva chiaramente che, sia per la loro origine congenita (1), sia per la loro forma e disposizione, sia per, le loro inserzioni, sia finalmente per la loro elasticità e distendibilità, possiedono esse i caratteri proprî del frenulo soprannumerario, non ostante che in ognuna delle medesime si notino alcune differenze. Ed è su queste che vorrei fermarmi alquanto con qualche considera- zione che valga a mettere sempre meglio in chiaro alcune questioni riguardanti gli attri- buti del frenulo soprannumerario, questioni, che verranno poste qui sotto forma di quesiti. I. E prima di tutto: A quali tipi anatomici appartengono le suddette varietà di fre- nulo soprannumerario ? Dando uno sguardo ad ambedue queste produzioni anomale ben tosto vi riconosciamo i due tipi anatomici fondamentali del frenulo soprannumerario, già descritti nel mio pre- (1) Rispetto all’ origine congenita del frenulo soprannumerario, questa mi risultò sempre per via anamnestica, cioè per assicurazione dei pazienti, e dei loro parenti. Fin qui però non mi fu dato d’in- contrare siffatta anomalia nei neonati: e confido nelle successive osservazioni d’imbattermi in bam- bini, colpiti dalla detta anomalia, cedente lavoro, cioè il tipo a nastro e il tipo a cordone. Se non che havvi qualche par- ticolarità diversa in ciascheduno dei due tipi, e specie nel primo (tipo a nastro), il quale come s’ è detto mostra una spessezza varia, una larghezza maggiore di tutti gli altri esemplari descritti fin qui, e di più ci offre un forame verso il margine superiore del nastro medesimo. Del pari se nell’ altro tipo (a cordone) la conformazione è regolare, nul- lameno vi sì nota, come variante, la sua cortezza (lunghezza normale 5 mm.), avendo esso la sua inserzione superiore sulla corona balanica (fatto rarissimo), cosicchè per farlo spic- care sulla fotografia si dovette esercitare una sopradistensione del prepuzio sul ghiande, raggiungendo allora la lunghezza di 9 mm. Ora nei tipi fondamentali del frenulo soprannumerario, aventi sede nella linea mediana della faccia anteriore del ghiande, non furono notate fin qui queste varianti morfologiche. II. Ma ciò che costituisce la differenza più spiccata in queste due varietà di frenulo soprannumerario è la sede delle medesime. A questo proposito però sorge naturale una domanda: La mancanza di sede topografica precisa di queste due varietà deve farle escludere dal novero dei frenuli soprannumerari? Come si è detto, ambedue non occupano il mezzo della faccia anteriore, e perciò non si trovano in opposizione al frenulo normale: laddove è precisamente questa particolarità di topografia che ha condotto ad attribuire la qualità anatomica di frenulo a questa pro- duzione nastriforme e cordoniforme balano-prepuziale Tuttavolta un piccolo spostamento a destra della linea mediana anteriore è stato già da me osservato in qualche esemplare di frenulo soprannumerario (1), per modo che questo lieve grado di deviazione non ba- stereobe a fargli perdere siffatto attributo. Ciò ammesso, ne consegue che un grado mag- giore di deviazione si potrebbe incontrare anche nelle dette produzioni rispetto alla loro sede, di guisa che il criterio topografico varrebbe solo per le forme tipiche del frenulo soprannumerario. Che se poi si terrà conto di quanto mi fu dato di esporre intorno alla teratogenesi del frenulo soprannumerario si vedrà di leggieri come, per la sede topogra- fica del medesimo, non vi possa essere quella costanza come si vede nel frenulo normale: dappoichè mentre questo è il risultato di una neoformazione dermo-epidermica, che si de- termina, allorchè si chiude la porzione balanica della doccia uretrale: invece il frenulo soprannumerario ha la sua origine nella spessezza dell’ epitelio balano-prepuziale con uno di quei varî meccanismi, da me ammessi nel precedente lavoro. Ne consegue pertanto che, se lo sviluppo di questa produzione avviene spesso nel mezzo della faccia superiore del ghiande, può in ogni modo formarsi ugualmente in un punto qualsiasi del cappuccio epiteliale balano-prepuziale del ghiande stesso: in altre pa- role, mentre il frenulo normale ha. una sede fissa, determinata cioè dal suo costante mec- canismo di sviluppo embrionale, invece nel frenulo soprannumerario manca per la sua to- (1) Vedi Fig. 7, Tav. 1, della mia citata memoria nella quale havvi uno spostamento del frenulo soprannumerario (sebbene non registrato) di appena un millimetro dalla linea mediana. -- 355 — pografia un punto circoscritto e stabile, embriologicamente prestabilito. Per siffatte ragioni anatomiche potrebbero considerarsi come frenuli soprannumerarî anche quelle produzioni nastriformi e cordoniforini che deviassero alquanto dalla linea mediana anteriore, ovvero se ne allontanassero maggiormente, sviluppandosi nelle regioni laterali del ghiande stesso. III. Un'altra non meno importante questione si presenta a questo punto: Quali fattori anatomici possono influire sulla forma del frenulo soprannumerario? Avendo già fatto rilevare di passaggio l’importanza delle inserzioni rispetto alla con- formazione anatomica del frenulo soprannumerario, non sarà inopportuno che io mi fermi alquanto sulle medesime rispetto alle due varietà sopradescritte Nella prima (mastriforme) l'inserzione prepusziale si fa nella faccia interna del prepuzio, verso il fondo del sacco pre- puziale, mentre l’inserzione dbalarica sta a 9 mm. al di sopra della corona del ghiande. Rispetto all'altra varietà (cordoriforme) l'inserzione prepuziale sorge circa alla me- dietà della faccia interna del prepuzio, laddove quella balanica piglia la sua origine netta dall’orlo coronale. Ora queste due distinte e nette inserzioni balano-prepuziali, non man- cano mai nel frenulo soprannumerario e, per meglio dire, ne costituiscono un carattere formale, laddove nelle sinechie accidentali, e specie in quelle flogistiche, non havvi mai questa disposizione così regolare: anzi com’ è agevole comprendere le sinechie aderiscono, oltrechè per i loro margini, bene spesso per tutta la loro superficie alla faccia interna del prepuzio e del ghiande. Non basta: l’importanza anatomica delle dette inserzioni si può dedurre dal fatto, che talora esse sono fornite di branche distinte; infatti fra gli esemplari di frenulo soprannumerario, da me descritti, ve ne hanno due che sono appunto muniti di attacchi speciali, simmetricamente posti e uniformemente distendibili nello svaginamento del ghiande. Di questi uno si inseriva con due branche superiori (balaziche), e inferior- mente con due branche prepuziali press’ a poco uguali: l’altro invece si attaccava supe- riormente soltanto con due branche e inferiormente col solo margine della produzione na- striforme; di guisa che uno pigliava la forma di H e l’altro a V maiuscoli (1). Forse col moltiplicarsi delle ricerche e col reperto di nuovi esemplari di frenulo so- prannumerario si potranno descrivere altre varietà di inserzioni, e forse alcune anche rare ed eccezionali per numero e per forma. Comunque però queste speciali forme di inserzioni meritano di essere tenute in conto per un’altra ragione, ch'è quanto dire, per. stabilire la distinzione fra i frenuli soprannumerarî e le semplici accidentali sinechie. Ma per far rilevar sempre più l’ influenza che possono spiegare le inserzioni del fre- nulo soprannumerario sulla conformazione anatomica del medesimo, non sarà inopportuno che io mi fermi intorno ad una minuta particolarità, riferita nella descrizione del primo caso, vale a dire, intorno alla presenza di un forame della grandezza di due mm. circa, formante una finestra a margini irregolari in vicinanza della inserzione superiore (dala- nica). A questo proposito ricorderò che pure in uno degli otto casi precedentemente stu- diati fu trovato un frenulo soprannumerario, fornito di un piccolo pertugio, il quale però (1) Vedi Fig. 3, 4, Tav. 1, della citata memoria. —: 890 metteva in un canalino rivestito da epitelio, canalino che scorreva in tutta la lunghezza del frenulo medesimo, e sul quale fu emessa l'ipotesi di una forinazione omologa ad un canale parauretrale. Al conirario in questa varietà, descritta nel primo caso, si tratta di un forame semplice che attraversa la spessezza del frenulo soprannumerario e non la lun- ghezza del medesimo. È molto verosimile che siffatto pertugio sia dovuto ad un difetto nel primitivo sviluppo della produzione nastriforme dermo-epidermica in un punto della sua superficie, ma è pur verosimile che esso abbia la sua origine da uno stiramento esa- gerato di una delle sue inserzioni. E a questo proposito mi basterà richiamare quanto dissi più sopra intorno all’ influenza che può avere la distensione delle inserzioni del fre- nulo soprannumerario sulla determinazione della forma del medesimo. Del pari oggi posso aggiungere che tale influenza si spiega anche sulla spessezza dei frenuli stessi; ammet- tendo infatti che per lo sviluppo progressivo del ghiande il nastro del frenulo soprannu- merario venga disteso nelle sue inserzioni, o anche in una sola di esse, ne consegue che in un punto, ove esso fosse più sottile, verrebbe per lenta atrofia a perforarsi, soprattutto se la distensione si facesse in maniera disforme. Con questo semplice meccanismo potreb- bero spiegarsi le aperture fenestrate del frennlo soprannumerario, come nel caso sopra-. descritto, laddove un processo di necrosi non potrebbe in simili evenienze essere ammesso. Ma con tutto ciò intendo di aver parlato soltanto di uno dei varî fattori che possono spiegare la loro influenza sulla forma del frenulo soprannumerario, laddove è verosimile che altri ancora vi siano non meno importanti, per ora non facilmente determinabili. IV. E qui si presenta un’altra questione assai affine alla precedente: Quali condizioni possono influire sulla grande frequenza della forma a ponte del frenulo soprannume- rario? Intorno a siffatta particolarità anatomica merita fermarsi alquanto, perchè trovata anche nei due esemplari sopradescritti. La costituzione del frenulo soprannumerario sotto forma di un ponte, che passa sopra il soleo balano-prepuziale, si vede a colpo d'occhio nella fig. 1 (tipo nasti/0:me) la quale ci rappresenta l’arcata del ponte medesimo attraversato da una sonda. Anche l’altro tipo a cordone forma egualmente un ponte sopra il solco balano-prepuziale, assai più piccolo del precedente, e in correlazione con la sua brevità. Sotto il rispetto statistico nei dieci casi, da me descritti fin qui, otto volte rinvenni la forma a porte del frenulo soprannu- merario. La frequenza di questo fatto non può a meno d’impressionare chi si pone per poco a considerarlo: ed io mi sono già altra volta fermato su di esso, facendone rilevare l’importanza che potrebbe avere sulla genesi del frenulo soprannumerario e sulle diffe- renze di questo con altre produzioni balano-prepuziali. Certo è che nelle sinechie acciden- tali flogistiche non s'incontra questa formazione a porte, ma sibbene l’aderenza completa fra le due facce balano-prepuziali; e volendo anche ammettere, nel concetto teoretico, questa particolarità anatomica nelle sinechie flogistiche, certamente che ciò non avverrebbe mai con tanta costanza e regolarità, ma solo eccezionalmente. V. Comunque però un leggero processo fiogistico è stato trovato e descritto nel 7° caso e in base a questo reperto potrebbe sorgere il dubbio trattarsi qui di sinechia acciden- o tale d’ origine flogistica; occorre pertanto rispondere al seguente quesito: Z fatti infiam- matori sopradescritti, quale origine hanno avuto nel 1° caso di. frenulo soprannu- merario ? A tutta prima parrebbe doversi rispondere: che il processo infiammatorio avesse pi- gliato il suo punto di partenza dall’ulcera venerea, risieGente nel solco balano-prepuziale ed avesse invaso la fascetta nastriforme del frenulo soprannumerario. Ma, a questo propo- sito, fa d° uopo tener conto di alcuni argomenti, i quali non sarebbero in appoggio di questa interpretazione. Innanzitutto si tenga conto del fatto clinico, registrato più sopra, che 1’ ul- cera era situala nel solco balanico e precisamente nel lato sinistro, laddove il frenulo soprannumerario volgeva alquanto a destra: ed è per ciò che l’ ulcera era discosta di al cuni millimetri dal margine sinistro del frenulo medesimo e della sua inserzione prepu- ziale: come pure è da tener conto che la sollecita cura arrestò l’estendersi del processo necrobiotico dell’ ulcera stessa. D'altra parte, nè rossore, nè edema si ebbero mai a notare sul nastro del frenulo so- prannumerario, tantochè la sua elasticità e distendibilità si conservarono sempre in con- dizioni funzionali perfette. Ma ciò che ha maggior valore nel caso presente, è la sede ed, aggiungerò ancora, la circoscrizione del processo infiammatorio nel derma della faccia ba- lanica sotto forma di una regolare zona d’ infiltrazione leucocitaria nello strato subpapil- lare, mentre siffatte alterazioni non si notano nel derma della faccia prepuziale. Anzi è da questa circoscrizione delle lesioni dermitiche sopradescritte che si può stabilire con molta verosimiglianza quale sia stata 1° origine del lieve processo flogistico, origine che, a mio avviso, deve attribuirsi ad una irritazione provocata da prodotti (smegma, urina...) rac- coltisi tra la faccia inferiore del nastro e la faccia balanica del ghiande, ovvero anche all’attrito che si svolse sulle due superfici di contatto, come nelle forme intertriginose. VI. Dalla descrizione istologica sopra esposta è agevole rilevare che la struttura del frenulo sopranumerario non presenta alcunchè di singolare: tutta volta essa ci offre qualche fatto importante sotto il rispetto funzionale per la presenza di alcuni dei suoi elementi costitutivi: Fra questi merita di spiccare sugli altri il /essuto muscolare liscio, ed è però che cade qui opportuno di domandarsi: Quale importanza deve attribuirsi alla presenza, delle fibrocellule muscolari ? Riguardate per sè sole, l’importanza anatomo-fisiologica delle fibrocellule muscolari non è certamente di grande entità: dappoichè a tutti è noto che nella pelle del pene, nel derma del ghiande, e soprattutto nello scroto è largamente rappresentato il tessuto musco- lare liscio. Ma se accanto a questo si voglia tener conto della ricchezza dei vasi, assai sviluppati e spesso ectasici, in pari tempo della grande copia di fibre elastiche, allora la struttura del frenulo soprannumerario viene ad avvicinarsi a quella dei tessuti erettili, struttura che primeggia negli organi genitali. Occorre però studiare sotto questo rispetto la presenza del tessuto muscolare liscio in tutti i casi di frenulo sopranumerario per sta- bilirne in quali proporzioni e con quale frequenza detto tessuto vi sia rappresentato: dap- poichè di queste due varietà sopradescritte soltanto in una (7° caso) venne fatto di dimo- — 358 — strare fascetti di fibrocellule muscolari. Ma devo qui ricordare che anche nei due casi, istologicamente studiati e descritti. nella mia precedente memoria, si rinvennero questi elementi, sebbene non così sviluppati in fascicoli, come nel caso presente: tutta volta feci rilevare fin d’ allora l’importanza del tessuto muscolare liscio, non che la ricchezza dei vasi e della trama elastica, in uno spazio tanto ristretto, come è quello delle produzioni nastriformi e cordoniformi del frenulo soprannumerario; il che ci farebbe proclivi ad am- mettere, come già feci rilevare nel mio precedente lavoro, che avvenissero (nello stato di erezione del pene) cambiamenti nella spessezza e lunghezza del frenulo medesimo, in altri termini, che esso fosse atto ad inturgidirsi, come un tessuto erettile. Inoltre siffatto reperto istologico potrebbe a mio avviso, servire come criterio diffe- renziale per distinguere le semplici sinechie balano-prepuziali d’ origine flogistica dalla pro- duzione del frenulo soprannumerario. VII. Da ultimo, a quale delle ipotesi, emesse per interpretare lo sviluppo del frenulo soprannumerario, si possono riportare le due varietà sopradescritte ? Come già dissi in altro mio lavoro, ben poca luce si è fatta fin qui sopra la %eralo- genesi del frenulo soprannumerario: alle future ricerche è affidata |’ ultima parola su questa importante questione e conseguentemente anche sulla formazione a ponte di questa ano- mala produzione. Infatti anche per i due casi sopradescritti volendo rimontare alla loro origine terato- genetica è difficile la. scelta tra le diverse ipotesi, da me invocate a spiegare lo sviluppo del frenulo soprannumerario. Non si può ricorrere alla genesi dai canali parauretrali, perchè non si rinvenne in nessuna delle due varietà suddette una vera formazione cana- liforme, ma soltanto nel 7° caso si ebbe ad incontrare una piccola cavità fornita di rive- stimento epidermico senza, però, alcuno dei caratteri notati nei canali parauretrali. Del pari non è qui il luogo per l’ ipotesi. dell’origine del frenulo soprannumerario, da una anomalia ipospadica, mancando in proposito qualsiasi traccia di questo vizio congenito: e nemmeno la genesi da una ripiegatura, in un punto circoscritto, della mucosa balano pre- puziale può acattarsi a spiegare lo sviluppo delle due varietà sopradescritte. Comunque però il meccanismo di una ripiegatura, o di un invaginamento, del rivestimento epider- mico potrebbe soltanto darci la spiegazione intorno allo sviluppo della cavità cistica (4° caso) notata più sopra, come pure nel grosso zaffo epiteliale descritto nel 2° caso: e forse per la genesi di ambedue queste produzioni non si potrebbe trovare altra ipotesi più soddisfacente. Ma, per concludere, intorno alla teratogenesi di queste due varietà di fre- nuli soprannumerari l'ipotesi più verosimile sembrami quella, già ammessa da me per gli altri casi esposti nella mia precedente memoria, che consiste nella penetrazione di un tralcio vasale fra le lamine dell'epitelio balano-prepuziale, portante con sè elementi di con- nettivo embrionale, capaci di organizzarsi e di dar luogo infine ad una fascetta dermica, che ben presto si riveste dell'epitelio circostante. Con siffatto meccanismo noi possiamo comprendere in tutti i suoi vari tipi anatomici lo sviluppo del frenulo soprannumerario: ma, ripeto, l’ ultima parola, 0, meglio, la dimostrazione istologica è riservata alle future ricerche. D°Majocchi- Sopra alcune varieta... i Serie VI. Tomo VIII. 1910-1911. MS ARIANO FAREI rat ZA ari CD oa SERI: (TE Se È Le1 At eg) CASSA: POSA ERI NAS se e peg. = pie e CRÀÀ DTS SEZ A ea Cara ERS SÒ id, N SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1. — Sezione trasversa del frenulo nastriforme soprannumerario nel suo terzo supe- riore (7° caso) vicino all’inserzione balanica. ep) Rivestimento epidermico della faccia superiore (prepuziate). cc) Cavità cistica aderente all’ epidermide della faccia prepuziale. B il rene cefalico, si veda per breve tratto la vena cardinale posteriore sinistra. In questo esemplare l’ intiero rene è lungo mm. 136. La lun- ghezza del rene cefalico è di circa mm. 18 e la larghezza di mm. 19,5. La larghezza nel tratto di unione tra rere cefalico e rene addominale è di mm. 10, quella del rene addominale mm. 9. Fig. 1. A Fig. 1. B od apice della massa può essere acuminato o leggermente arrotondato ovvero presentare una lieve incisura mediana. A queste parti anteriori slargate a guisa di spatola, situate tra il cuore e l° esofago, al disotto, e le prime vertebre, dalla prima (1) alla settima o all’ottava, al di sopra, se- guono le parti medie del rene come due striscie longitudinali addossate alla parete dorsale dell’addome, sulle cui depressioni e rilievi si modellano; queste parti medie o addominali (1) L’apice od estremo craniale del rene cefalico giunge a livello circa della prima vertebra. — 370 — sono un poco più strette delle anteriori colle quali però si uniscono piuttosto largamente, cioè mediante un tratto di passaggio non strozzato che va man mano restringendosi verso l’indietro per raggiungere le dimensioni della parte addominale. Nella loro porzione poste- riore o caudale i due reni sono saldati fra loro e questa porzione, pianeggiante nella sua faccia inferiore, carenata nella superiore, va gradatamente assottigliandosi e termina più Fig. 2 del testo. -- Rappre- senta l’ intiero rene isolato di un esemplare adulto (un po’ meno grande del precedente) di Salmo fario. Grandezza naturale. A, ve- duto dalla faccia ventrale. B, ve- duto dalla faccia dorsale. ip (c$), interrenale posteriore (corpuscoli di Stannius); red, res, rene ce- falico destro e sinistro; ud, us, uretere destro e sinistro; vcpd, vena cardinale posteriore destra. In questo esemplare l’ intiero rene è lungo mm. 132. La lun- ghezza del rene cefalico è di circa mm. 16 e la larghezza di mm. 25. La larghezza nel tratto di unione tra rene cefalico e rene addomi- nale è di mm. 10, quella del rene addominale mm. 8-9. Fig. 2. A Fig. 2. B o meno appuntata. Il saldamento comincia già più in avanti, poichè le due striscie addo- minali del rene sono separate soltanto nel loro terzo anteriore circa. La vena cardinale posteriore destra è molto più ampia della sinistra che è appena visibile (Fig. 1-5 del testo, v c p d). La destra riceve rami, in qualche caso numerosi (Fig. 1 del testo), anche dal rene sinistro, percorre il rene cefalico destro fin verso il suo margine craniale per poi uscirne e raggiungere il rispettivo dotto di Cuvier. La vena cardinale posteriore sinistra, oltre che essere molto più piccola, è di solito compresa nello spes- sore della massa linfoide e solo nelle sezioni trasversali microscopiche apparisce distintamente. — Sil —- Nell’ adulto il rene cefalico, costituito per la più gran parte da tessuto linfoide, non contiene nè porzioni dell’ uretere primario nè canalicoli urinari; questi cominciano poco dopo il rene cefalico, verso la metà del tratto di passaggio che congiunge il rene cefalico alla parte addominale del rene. Presso all’apice od estremo anteriore del rene cefalico sì riscontra per altro un resto, ben riconoscibile, del grande corpuscolo malpighiano del pronephros; quantunque atrofiz- zate, se ne distinguono chiaramente le sue due parti: la camera interna e il glomerulo. rcd Fig. 3 del testo. — Rappre- senta l’intiero rene isolato di un esemplare giovane di Salmo fario. Grandezza naturale. A, veduto dalla faccia ventrale. B, veduto dalla faccia dorsale. ip (cS), inter- renale posteriore (corpuscoli di Stannius); red, res, rene cefa- lico destro e sinistro; vepd, vena cardinale posteriore destra. In questo esemplare l’ intiero rene è lungo mm. 102. La lun- ghezza del rene cefalico è di circa mm. 13 e larghezza di mm. 18. La larghezza nel tratto di unione tra rene cefalico e rene addomi- nale è di mm. 9, quella del rene addominale mm. 6. Fig. 3. A Fig. 3. B Dopo aver detto della forma del rene, aggiungiamo subito che l’interrenale ante- riore è situato nella sua porzione craniale rappresentante il rene cefalico, il quale perciò non risulta di solo tessuto linfoide, e i corpuscoli di Stannius o interrenale po- steriore risiedono invece in corrispondenza della porzione addominale, a livello del terzo medio circa dell’ intiero rene. Macroscopicamente alla superficie del rene cefalico non si notano formazioni o mas- serelle glandolari e non se ne scorgono nemmeno nella superficie di sezione dei tagli gros- solani praticati attraverso alla massa dell’ organo, e ciò forse per il colorito loro proprio e fors’ anche a causa dell’abbondante pigmento di cui è ricca la massa linfoide Nella serie delle sezioni microtomiche invece, già ad occhio nudo e meglio ancora con una semplice lente d’ ingrandimento, si veggono delle isole, d’ aspetto diverso da quello del -- 372 — tessuto linfoide in mezzo al quale si trovano disseminate, variamente estese, costituite dal tessuto glandolare rappresentante l interrenale anteriore (Tav. I, Fig. 1, è @). Alcune delle isole più grandi misurano in Salmo furio da mm. 0,5 a mm. 1-1,5-2 e persino 2,5-3 nel loro asse maggiore e da mm. 0,25 a mm. 0,5 e anche 1 nell’ asse minore. Da queste isole o lobuli di notevoli dimensioni si passa ad altre molto più piccole, visibili soltanto all’ esame microscopico. Studiando al microscopio la serie delle sezioni, si osserva che le isole o lobuli di tes- suto glandolare rappresentante l’interrenale anteriore, formate di trabecole o cordoni epi- teliali, non posseggono involucro connettivale proprio e sono di svariatissima forma e va- riamente orientate (Tav. I, Fig. 1 e 2, è da). L’interrenale anteriore incomincia già presso l'apice del rene cefalico, cranialmente al residuo del corpuscolo malpighiano, dove si presenta con due piccole isole, disposte una per lato del piano mediano, e si continua poi ai lati del corpuscolo malpighiano, al quale livello Fig. 4 del testo. — Rappresenta l’intiero rene isolato di un esemplare molto giovane di Salmo irideus. Grandezza naturale. A, veduto dalla faccia ventrale. B, veduto dalla faccia dorsale. ip (c$), interrenale posteriore (corpuscoli di Stannius); red, res, rene cefalico destro e sinistro; wd, us, uretere destro e sinistro; vcepd, vena cardinale po- steriore destra, la quale _s’ intravede in parte anche dalla faccia dorsale. L'intiero rene è lungo mm. 48. La lunghezza del rene cefalico è di circa mm. 7 e la larghezza di mm. 9. La larghezza nel tratto di unione tra rene cefalico e rene addominale è di mm. 5, quella del rene addominale mm. 5. Fig. 4. A. Fig. 4. B le isole si mantengono ugualmente una per lato. Da questo estremo anteriore l’interrenale, sempre sotto forma di isole di varia grandezza, si segue poi indietro fino al limite poste- riore del rene cefalico e anche sino al principio del tratto di passaggio alla porzione addo- minale del rene. Progredendo, coll’ esame delle sezioni, dall’ estremo anteriore verso il li- mite posteriore del rene cefalico, le isole d’interrenale si veggono sulle due metà della massa dell’ organo disposte irregolarmente una o due per parte, senza simmetria e come sparse nel tessuto linfoide. Più caudalmente, a livello della parte media e della parte: po- steriore del rene cefalico, le isole aumentano di numero, sicchè se ne contano persino quattro o cinque per lato disseminate senz’ ordine (Tav. I, Fig. 1, è a). In qualche sezione sì possono incontrare tre o quattro fin’ anche cinque isole che si seguono luna all altra sopra una medesima linea. Le isole possono essere completamente circondate da tessuto linfoide o pure stare con un loro margine addossate ad un ramo venoso, ad una delle vene reveenti del rene cefalico. Più indietro, nella regione delle vene cardinali posteriori, sia allorchè queste stanno per attraversare il rene cefalico e lasciarlo per dirigersi ai dotti di Cuvier, sia quando percorrono la parte posteriore del rene cefalico, le isole d’interre- nale si trovano anche addossate alla parete delle dette vene o a far parte di questa stessa = S719 — parete spingendosi fino sotto l’endotelio. Le isole d’interrenale situate nella parte media e posteriore del rene cefalico sono più grandi, più estese di quelle poste nella sua parte an- teriore. Nella porzione caudale del rene cefalico i lobuli d’interrenale diminuiscono di nu- mero e di grandezza, ma s'incontrano, come sopra si è già ricordato, sin verso la zona di passaggio (Tav. I, Fig. 7, 8, è d.. Le isole di interrenale anteriore (Tav. I, Fig. 2, 3, è @) sono costituite da cordoni o trabecole epiteliali che, ramificandosi e anastomizzandosi fra loro, formano una rete nelle cui maglie più o meno ampie sono compresi degli spazi sanguigni, dei sinusoidi (s ©), e l’ endotelio che delimita questi sinusoidi è direttamente applicato alla superficie delle tra- becole. T'alune isole o parti di quelle più grandi mostrano gli spazi sanguigni, assai larghi, fittamente ripieni di corpuscoli rossi e risaltano in modo particolare per questo loro carattere. Ciò si osserva pure in qualche parte della grande isola rappresentata dalla Fig. 2 (a destra della Figura in s ©). Non sempre le trabecole o cordoni epiteliali sono disposti in modo da formare un re- ticolato, con ampi seni interposti fra loro, ma in alcune isole, come si rileva più di fre- quente in quelle che occupano la porzione anteriore del rene cefalico, e generalmente in quelle più piccole, essi hanno piuttosto l’ aspetto di lobuletti epiteliali e sono maggiormente avvicinati fra loro. Nelle isole più grandi penetra anche del tessuto linfoide che poi s’interpone, più qua e più là, fra le trabecole (Fig. 2 e 3). Le trabecole o i cordoni, come dimostra la Fig. 3, sono d’ordinario composti di due o tre serie, raramente di quattro o cinque ovvero di una sola serie, di cellule schietta- mente epiteliali, di varia forma: cilindriche o prismatiche non molto alte, cubiche o in altra guisa poliedriche, con citoplasma finamente granuloso, con nucleo rotondeggiante o legger- mente ovalare, provvisto di nucleolo. Nella precedente descrizione, relativa al comportarsi dell’ interrenale anteriore, mi sono più specialmente riferito a ciò che si osserva nella serie delle sezioni trasversali del rene cefalico di Salmo fario. Per le altre specie di Sa/z0 studiate dirò soltanto, senza dilun- garmi, che in Salmo lacustris, S. irideus, S. trutta, S. carpio, S. salar e S. fontinalis si hanno disposizioni simili a quelle fatte, qui sopra, conoscere per il S. fario. Conviene tuttavia che io spenda qualche parola per rilevare alcuni particolari delle disposizioni che l’ interrenale anteriore offre in Salmo salar e in S. fontinalis. In Salmo salar, di cui ho esaminato un esemplare molto giovane (i reni isolati di questo esemplare sono rappresentati nella Fig. 5 del testo), l’interrenale anteriore è più specialmente disposto intorno alle vene cardinali posteriori, sia attorno alla destra, che è assai più ampia, sia attorno alla sinistra, molto angusta, sotto forma di lobuli di varia grandezza, 1 quali si seguono in direzione cranio-caudale anche nel tratto di passaggio dal rene cefalico alla porzione addominale del rene (mesonephros). I lobuli d’interrenale, a cominciare dall’ estremo anteriore del rene cefalico, s'incontrano già cranialmente al resto del corpuscolo malpigliano, parecchie sezioni prima di giungere ad esso Sono dapprima irregolarmente disseminati nel tessuto linfoide e alcuni stanno in vicinanza di grossi rami — 374 — venosi 0 sporgono un poco in questi. Su una sezione trasversa si possono contare fino a dieci isole d’interrenale. Sorpassato il glomerulo, procedendo caudalmente nello studio delle sezioni seriali, si veggono le isole d’interrenale in più stretto rapporto coi grossi rami ve- nosi ed allora si osserva pure che vicino o addossato ad esse trovasi il tessuto cromaffine distribuito lungo questi vasi. Quando si arriva sulle vene cardinali posteriori, particolar- mente sulla cardinale destra, le isole aumentano di numero e si dispongono soprattutto attorno alla detta vena (Tav. I, Fig. 4-6, è a), nel perimetro della quale in qualche sezione se ne possono contare da 5 a 9. Più in dietro s'incontrano poi, di tanto in tanto, piccoli lobuli nel tratto di passaggio tra rene cefalico e porzione addominale del rene (Tav. I, Bios SAelavISEri o 0) Nel rene cefalico, dell’ esemplare di $S. sala» di cui ho qui sopra brevemente discorso, Fig. 5 del testo. — Rappresenta l’ intiero rene isolato di un esemplare molto giovane di Salmo salar. Grandezza naturale. A, veduto dalla faccia ventrale. B, veduto dalla faccia dorsale. ip (cS), interrenale posteriore (corpu- scoli di Stannius); red, res, rene cefalico destro e sinistro; vepd, vena cardinale poste- riore destra. L'intiero rene è lungo mm. 62. La lun- ghezza del rene cefalico è di circa mm. 7,5 e la larghezza di mm. 6. La larghezza nel tratto di unione tra rene cefalico e rene addominale è di mm. 5, quella del rene addominale mm. 5-6. Fig. 5. B sebbene sia ancora conservato il corpuscolo malpighiano col glomerulo, non si scorge più alcuna traccia del canale del pronephros (uretere primario), resti ben distinti del quale si notano nella regione di passaggio alla porzione addominale. Anche in Salmo fontinalis di cui ho esaminato esemplari giovani della lunghezza di mm. 1]4, le isole o lobuli d’interrenale anteriore appariscono già cranialmente al grande corpuscolo malpighiano e s’incontrano poi più di frequente aggruppate attorno alle vene cardinali posteriori destra e sinistra, nel tratto craniale di queste vene che percorre la massa linfoide del rene cefalico. Negli esemplari di S. fontinalis, al quali ho ora accennato, trovai, insieme al grande corpuscolo malpighiano, ancora ben conservato il canale del pronephros od uretere primario che con anse convolute corre nella sostanza linfoide del rene cefalico. I tagli delle anse, essendo molto aumentato il tessuto linfoide, sono distanti fra loro e come sparsi in questo tessuto. Similmente accade in giovani esemplari di Salmo fario, S. lacustris e S. inideus. Relativamente alla presenza delle anse del canale del pronephros, possiamo dire, in maniera generale, che nei giovani esemplari delle varie specie di Sa/m0 coesistono nella oa massa linfoide del rene cefalico le isole o lobuli d’interrenale anteriore insieme alle anse del canale del pronephros, sempre però facilmente distinguibili le une dalle altre per i loro caratteri strutturali. Anche nel caso in cui sezioni tangenziali delle anse del canale del pronephros appariscano a guisa di cordoni epiteliali, si riesce a determinare con precisione il loro vero significato, oltre che per i peculiari caratteri degli elementi cellulari che li compongono (1), anche per il fatto che, seguendo la serie delle sezioni, si scopre sempre il lume caratteristico dei tratti del canale del pronephros. In niun caso si possono rilevare segni di derivazione delle isole epiteliali rappresen- tanti l’interrenale anteriore da trasformazione di tratti del canale del pronephros. Anzi, seguendo l'evolversi di queste due diverse e distinte formazioni in esemplari sempre più avanzati in età, si osserva che col tempo le isole o lobuli dell’ interrenale anteriore si ac- crescono e acquistano i loro caratteri definitivi, mentre le anse del canale del pronephros si atrofizzano e scompaiono. Il tratto posteriore del canale del pronephros od uretere pri- mario, quel tratto che percorre la regione di passaggio al mesonephros, permane più a lungo e lo si può incontrare ancora esistente in esemplari di uno o due anni. Disposizione dell’ interrenale anteriore o cefalico in Coregonus wartmanni. Diversa da quella descritta nei Salmo e ancora più interessante da meritare una de- scrizione a parte, è la disposizione dell’interrenale anteriore o cefalico nel Coregonus wart- manni, del quale esaminai un esemplare adulto, il cui rene isolato è rappresentato nella Fig. 6 del testo. In questo esemplare tutto il rene è lungo mm. 175. Dalla sua parte anteriore (cra- niale) alla posteriore (caudale) esso va restringendosi gradatamente e in dietro termina appuntato. Nel suo terzo posteriore cresce di spessore nel senso dorso-ventrale ed è qui fortemente carenato sulla sua faccia dorsale. Nella parte sua anteriore più slargata, cor- rispondente al rene cefalico, ha una larghezza di mm. 17. Il contorno craniale di questa parte, slargata a guisa di spatola, mostra un breve processo o prolungamento mediano a modo di punta che si spinge in avanti e due brevi prolungamenti laterali. Nella faccia ven- trale leggermente concava di questa porzione anteriore, verso il mezzo di essa, si vede sorgere l’arteria mesenterica che, nascendo dall’ aorta, attraversa la massa linfoide per giun- gere ventralmente e uscirne. L’arteria mesenterica lungo il tratto di emergenza dalla faccia venirale del rene cefalico è circondata da rami nervosi e grossi gangli simpatici (gangli celiaci); rami e gangli simpatici l’accompagnano anche durante il tragitto attraverso il rene cefalico. Nel tratto attraversato dall’arteria mesenterica i due reni cefalici sono se- parati tra loro, nel rimanente sono saldati assieme. (1) Le cellule rivestenti le anse del canale del pronephros sono di forma cilindrica prismatica o cubica, sempre disposte sopra una sola serie, nettamente delimitate e nelle sezioni tangenziali della parete delle anse appariscono di figura poligonale (esagonale) ben distinta. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 51 — 376 — Poco al di dietro (circa 3 mm.) dell’ estremo craniale del rene cefalico si trova, sui lati del piano mediano e situato profondamente in mezzo alla massa del tessuto linfoide, un residuo (240) Fig. 6 del testo. — Rappre- senta l’intiero rene isolato di un esemplare adulto di Coregonus wartmanni. Grandezza naturale. A, veduto dalla faccia ventrale. B, veduto dalla faccia dorsale. ip (cS), interrenale posteriore (cor- puscoli di Stannius); red, res, rene cefalico destro e sinistro; ud, us, uretere destro e sinistro ; vcpd, veps, vena cardinale posteriore“de- stra e vena card. post. sinistra. Le dimensioni dell’ intiero re- ne e delle sue parti sono date nel testo a pag. 375 e 377. È d : (AS Fig. 6. A Fig. 6. B ancora ben riconoscibile del grande corpuscolo malpighiano del pronephros in cui si vede il glomerulo (1), la camera interna e l’inizio del canale del pronephros od uretere primario. (1) I due glomeruli sono saldati tra loro sul piano mediano — 377 — La vena cardinale posteriore destra (Fig. 6 del testo, v c p d) è molto ampia e assai ben manifesta e nella figura è mostrata tagliata di traverso in corrispondenza del prolungamento laterale destro del rene cefalico di dove passa poi al rispettivo dotto di Cuvier. La vena cardinale posteriore sinistra è molto meno ampia, poco visibile e poco estesa (v c p s). Al di dietro della parte anteriore (rene cefalico) slargata il rene misura mm 9,5 di larghezza; verso il mezzo della parte addominale mm. 8 e a metà della porzione poste- riore mm. 5,5. Nel Coregonus l’interrenale anteriore si trova pure situato nella porzione anteriore del rene, in quella porzione, cioè, indicata col nome di rene cefalico, ed incomincia già all’ e- stremo craniale della medesima, al davanti del rudimento del corpuscolo malpighiano. Seguendo nello studio la serie delle sezioni in senso cranio-caudale, 1’ interrenale anteriore s'incontra già fin dalle prime sezioni ai lati del piano mediano. Nella porzione .craniale del rene cefalico esso è anche maggiormente abbondante e meglio appariscente che nella parte posteriore del medesimo rene cefalico. In direzione cranio-caudale esso sì estende per la lunghezza di circa 20 mm. La disposizione dell’interrenale anteriore nel Coregonus è molto particolare e difficil- mente se ne può dare un giusto concetto colla semplice descrizione. A farsene un'idea abbastanza adeguata aiuterà molto uno sguardo alle Fig. 1l e 12 della Tav. II. Anzichè in forma di isole o di lobuli più o meno grandi, come vedemmo nei Salmo, l’interrenale anteriore nel rene cefalico di Coregonus è distribuito in forma di sottili tra- becole epiteliali, le quali, in parte a guisa di uno strato costituito da una o due o tre serie di cellule, raramente da quattro o cinque, stanno situate, immediatamente sotto 1° endo- telio, attorno ai rami e ai tronchi venosi più grossi (vene reveenti del rene cefalico) che formano i tratti principali della ricchissima rete venosa della massa linfoide del rene ce- falico. Siechè questi tratti venosi appariscono come circondati da un manicotto o guaina d’interrenale. Ma le pareti e gli strati d’interrenale di tali tratti venosi ron sono continue, bensì mostrano delle frequenti aperture di comunicazione con spazi venosi attigui, ossia con i rami venosi o lacune venose più piccole che si aprono negli spazi venosi maggiori; e le trabecole d’interrenale seguono questi vasi venosi più piccoli, questi sinusoidi, e ramifi- candosi e anastomizzandosi fra loro vengono a formare in certi punti, in vicinanza dei tronchi venosi maggiori e dentro la massa linfoide del rene cefalico, un delicato reticolo di trabecole epiteliali d’iuterrenale, più o meno esteso nei vari livelli in cui cadano le sezioni. Le trabecole di siffatto reticolo nella loro disposizione imitano e seguono Ia trama dei tratti o cordoni linfoidi, e pertanto ad una prima osservazione potrebbero sfuggire ed essere confuse con questi, anche perchè in alcuni punti, più qua e più là, trabecole epi- teliali d’interrenale e tratti di tessuto linfoide s’intercalano fra loro. Alcune delle trabe- cole possono essere così tenui che quando le maglie, come accade in certi punti, sono for- temente ripiene di sangue, difficilmente si scorgono se non si adopera un adeguato ingran- dimento (vedasi la Fig. 11 a destra). L'insieme delle trabecole d’interrenale e dei tratti di tessuto linfoide costituiscono una rete ad ampie maglie, nei cui spazi sono racchiusi ampi —- 378 — seni sanguigni, l’endotelio dei quali si applica direttamente alla superficie di quelle tra- becole e di quei tratti (1). Ma il territorio di distribuzione dell’interrenale è anche lungo la porzione craniale o prossimale delle vene cardinali posteriori, vale a dire lungo quella loro porzione che per- corre il rene cefalico e ne raccoglie le vene reveenti. Nella parete delle vene cardinali, tanto della destra quanto delta sinistra (Tav. II, Fig. 12), si ha, subito sotto 1’ endotelio, uno strato di lIobuletti o trabecole d’interrenale che in alcuni tratti, anche estesi, delle sezioni trasverse appariscono come uno strato epiteliale. costituito da una o due serie di cellule cilindriche basse o cubiche, regolarmente ordinate. E presso queste stesse vene o sul loro lato mediale, come succede più particolarmente per la vena cardinale posteriore destra, o verso il lato ventrale esterno e verso il lato mediale, come si osserva per la vena car- dinale sinistra (Fig. 12, a sinistra e in basso), si trovano gruppi di trabecole ramificate e anastomizzate che formano reticolati più o meno estesi, ì quali si collegano poi con gli straterelli d’interrenale che rivestono i rami venosi più grandi, ossia i rami reveenti che affluiscono alle cardinali. La disposizione dell’ interrenale anteriore nel Coregonus ricorda molto da vicino alcune delle disposizioni già da me descritte nei Murenoidi. Gli elementi cellulari che compongono l’interrenale anteriore del Coregonus sono al- quanto più piccoli di quelli dell’interrenale di Sa/m0, ma presentano gli stessi caratteri citologici ed hanno ugualmente forma cilindrica bassa o cubica, o in altra maniera polie- drica, quando non stanno regolarmente ordinati. Un’altra caratteristica interessante che si verifica nel Coregonus si è quella di una più intima associazione (in confronto a quanto sì riscontrò nei Salmo) fra interrenale e tessuto cromaffine. Infatti, mentre nei Salmo il tessuto cromaffine si trova addossato, in alcuni punti anche molto strettamente, all’ interrenale, ma non mai intercalato alle trabecole di questo, nel Coregonus, come meglio dirò parlando del sistema cromaffine, singole cellule feocromiche o più frequentemente gruppi di esse s°interpongono alle trabecole d’interre- nale o alle serie di cellule interrenali che a guisa di epitelio rivestono la parete delle vene cardinali e dei grossi rami venosi (Tav. II, Fig. 11, 12, s c). Corpuscoli di Stannius o interrenale posteriore nei Salmo e nel Coregonus. Icorpuscoli di Stannius o interrenale posteriore, tanto nelle diverse specie di Salmo quanto nel Coregonus, si trovano sempre situati nella porzione addominale del rene, ossia, e più precisamente, nel terzo medio circa dell’intiero rene (2). La loro posizione (1) I rami venosi e i sinusoidi della rete venosa sono assai ampli, sicchè le isole e i cordoni di tessuto linfoide, appariscono, specialmente nelle figure, dove è omesso il sangue, molto discosti fra loro. Nell'insieme le maglie sono più ampie che in Salmo. (2) Felix nei suoi studi sullo sviluppo del rene nel Salmo (Anatomische Hefte. Bd. VII. 1897) vide i corpuscoli di Stannius nell'adulto ma non li interpretò giustamente. Ciò apparirà meglio nella seconda parte di questa memoria. Gioverà ricordare che in altri 'eleostei, come ad es. nei Murenoidi, nei Ciprinidi, nei Lofobranchi, i corpuscoli di Stannius (di solito in numero di due, uno per lato) sono situati presso l’ estremo cau- dale del rene, e che tali corpuscoli non si riscontrano mai nella porzione anteriore o rene cefalico. — 879 — in questa stessa regione, dove essi risiedono, è assai mutevole. Infatti essi appariscono sia nella faccia ventrale del rene sia, più di frequente, sulla sua faccia dorsale, più o meno profondamente immersi o sepolti nella sostanza renale. Quasi costantemente qualcuno dei corpuscoli di Stannius da un lato e dall’ altro è collocato sul margine esterno del rene [Fig. 1 a 6 del testo, é p (c S)]. Quando i corpuscoli di Stannius sono posti nella faccia ventrale o nella faccia dorsale del rene, essi risaltano maggiormente per il loro colorito bianco sul colore scuro della massa renale, quando stanno sul margine esterno dell’ organo possono confondersi con il tessuto adiposo, che sempre si riscontra lungo questo margine e dal quale tessuto però si distinguono per essere di un bianco opaco madreperlaceo. Qualche corpuscolo di Stannius si può trovare completamente sepolto nella sostanza del rene. Essi variano di numero e difficilmente se ne incontra lo stesso da un lato e dall’ altro; d’ordinario se ne trova un numero diverso nei due lati; di solito sono più numerosi a sinistra che a destra; se ne contano da 7 a 9 in un lato e circa 5 nell'altro; e di rado sì veggono disposti simmetricamente quelli di un lato rispetto a quelli dell’altro lato (1). Variano anche di grandezza e di forma, la quale però di consueto è rotondeggiante od elis- soidale. Quanto a grandezza, da corpuscoli di dimensioni abbastanza vistose, di mm. 0,5 fino a mm. 2-2,5 nel loro diametro maggiore, si passa a corpuscoli minutissimi, di appena qualche decimo di mm. Sono sempre nettamente contornati e con facilità si separano completa- mente dai tessuti circostanti, essendo avvolti da un involucro o capsula connettivale (Tav. II, Fig. 13, c n) che manca invece ai lobuli e alle isole dell’interrenale anteriore. Esaminati al microscopio nella serie delle sezioni mostrano la caratteristica struttura dei corpuscoli di Stannius, e come chiaramente si rileva dalla Fig. 13 della Tav. II, che rappresenta parte della sezione trasversale di un corpuscolo di Stannius di Salmo fario adulto, risultano costituiti di otricoli epiteliali pieni (solidi) (è p), più o meno incurvati o tortuosi, convoluti (2), in parte ramificati e anastomizzati tra loro, ma piuttosto strettamente addossati l’uno all’altro, di maniera che nei corpuscoli di Stannius non è dato vedere quegli ampi sinusoidi che invece di regola si scorgono fra i cordoni o trabecole epiteliali d’interrenale anteriore anche in quei punti dove esse si raccolgono in estese isole. Il con- nettivo che forma l’ involucro o capsula connettivale del corpuscolo, invia delle tenui pro- paggini a guisa di sottili sepimenti nell’interno del corpuscolo medesimo, le quali, nello stesso tempo che servono di sostegno ai vasi sanguiferi e ai nervi dell’ organo, separano tra loro anche gli otricoli glandolari, di cui contribuiscono a formare la sottile parete con- nettivale. Le cellule epiteliali che compongono gli otricoli possono essere distinte in cellule parietali o periferiche e cellule centrali o assiali. Le prime sono di forma cilindrico-pri- smatica o cilindro-conica, non molto alte, abbastanza regolarmente ordinate in senso ra- diale sulla parete degli otricoli, con citoplasma meno finamente granuloso che non sia quello delle cellule dell’interrenale anteriore, con nucleo rotondeggiante o leggermente (1) Corpuscoli di Stannius vicini, d'uno stesso lato, possono anche fondersi tra loro. (2) Data questa loro disposizione, alcuni degli otricoli si mostrano nelle sezioni, e così anche nella Fig. 13, tagliati trasversalmente, altri longitudinalmente od obliquamente. -— 380 — ovalare, posto verso la loro parte basale. Le cellule centrali che, in scarso numero, occu- pano l’asse longitudinale degli otricoli, sono irregolarmente disposte, hanno forma svariata, sono alquanto più grandi delle parietali e di dimensioni alquanto maggiori è anche il loro nucleo. Nei preparati nella parte centrale (assiale) degli otricoli apparisce come una specie di fessura o di strettissimo lume, ma non si tratta di un vero lume, di una vera cavità glan- dolare, bensì di stretti spazi prodottisi artificialmente per retrazione del citoplasma delle cellule determinata dall’ azione dei fissativi. Siffatti spazi non si scorgono o sono assai meno visibili nei preparati ottenuti con fissazione in liquido di Flemming o di Her- Manngio) Le strutture sopradescritte per l’interrenale anteriore e per i corpuscoli di Stannius (interrenale posteriore) sono quali ci appaiono nei preparati ottenuti con la fissazione nella miscela di liquido di Miller e formolo. Una più minuta ricerca citologica, che mi pro- pongo di eseguire, con gli adeguati procedimenti tecnici, porrà in evidenza altri caratteri differenziali tra gli elementi cellulari dell’interrenale anteriore e quelli dei corpuscoli di Stannius. Ad ogni modo però non può fin da ora sfuggire la diversità strutturale che passa tra le due formazioni, ed un confronto tra la Fig. 13, che ci rappresenta parte della sezione trasversale di un corpuscolo di Stannius, e le Fig.1-3, che mostrano la disposi- zione e la struttura dell’interrenale anteriore o cefalico di Salmo fario, come anche il confronto con le Fig. 4-8, nelle quali si scorgono lobuli d’interrenale anteriore di giovane Salmo salar, varrà a mettere megiio in risalto la differenza di caratteri strutturali fra le due formazioni glandolari: corpuscoli di Stannius o interrenale posteriore da un lato e in- terrenale anteriore o cefalico dall’ altro. La differenza rilevasi ancor più agevolmente con- frontando tra loro la Fig. 13 e le Fig. 11 e 12. Sistema cromaffine (sistema feocromo) nei Salmo. Il sistema cromaffine (sistema feocromo) è distribuito lungo la porzione craniale delle vene cardinali posteriori e lungo i grossi rami venosi, vene reveenti, che percorrono il rene cefalico e affluiscono alle vene cardinali. Nella vena cardinale poste- riore destra (la quale oltre ad essere molto più ampia della sinistra è anche più lunga, sicchè in dietro ci appare come vena cardinale mediana) si estende caudalmente, dopo cessato l’interrenale anteriore, anche sino a livello del terzo medio del rene, ossia sino a (1) Potrebbe dirsi che nel suo complesso la struttura del corpuscoli di Stannius ci dà in qualche . maniera l'impressione della struttura dei corpuscoli epiteliali. È inoltre da ricordarsi che cogli elementi dei corpuscoli di Stannius non si associano mai gli elementi del tessuto eromaffine, mentre invece questi si associano, talvolta in maniera assai intima, come qui ce ne offre esempio il Coregonus, cogli elementi dell’ interrenale anteriore. Associazione intima degli elementi cromaffini coll’ interrenale anteriore riscontrasi nei Murenoidi, nei Ciprinidi, nei Lofobranchi ece. Si veggano in proposito le mie precedenti pubblicazioni sulle capsule surrenali di tali forme (Memorie e Rendiconto della R. Acc. d. Sc. di Bologna. Classe di Sc. fis.). SERRE livello della regione in cui sì trovano i corpuscoli di Stannius, e nelle vene reveenti di questa regione, particolarmente sui contorno del loro sbocco nella cardinale. Gli elementi cellulari del sistema cromaffine sono variamente distribuiti o in nidi di diversa grandezza od anche in estesi gruppi ovvero in singole cellule isolate, a seconda dei punti in cui s’ incontrano, e varia inoltre anche la loro situazione, essendo posti o subito al disotto dell’ endotelio o nello spessore della parete delle vene oppure anche più profonda- mente nel tessuto linfoide (1) che circonda tali vene (Tav. I, Fig. 4-8, e Tav. II, Fig. 9, 10, sc). Il tessuto cromaffine in Salmo non s’ interpone fra le trabecole che costituiscono i lobuli od isole dell’ interrenale anteriore nè s’ intercala lungo le medesime, tuttavia si trova spesso addossato, ed anche più o meno strettamente, alle dette isole in quei punti in cui esse sono poste nella parete delle vene od hanno immediato rapporto col lume di queste. In alcuni tratti, specialmente nella regione di passaggio tra rene cefalico e porzione addominale del rene, il tessuto cromaffine è molto più abbondante e occupa grandi esten- sioni della parete delle vene, soprattutto della vena cardinale destra ma anche della sini- stra, ed i nidi di elementi cromaffini possono pure sporgere con superficie convessa nel lume vasale. In qualche specie, come in Salmo salar, lungo la vena cardinale posteriore destra, nel tratto di passaggio tra porzione cefalica e porzione addominale del rene, gli elementi del tessuto cromaffine si dispongono in grandi gruppi od accumuli, segnatamente sulla parete mediale e sulla laterale del vaso, talvolta anche nella parete dorsale, come sì osserva nelle Fig. 7 e 8 della Tav. I., 9 e 10 della Tav. II. Oltre che in grandi gruppi, gli elementi cromaffini si dispongono in questa regione anche in piccoli nidi e in serie o catene di cellule, come più particolarmente accade di vedere nella parete dorsale e nella parete ventrale della vena cardinale posteriore destra. Pure lungo la vena cardinale poste- riore sinistra sì hanno piccoli nidi e brevi catene di cellule cromaffini. ‘l'ale disposizione in piccoli nidi e in brevi serie di cellule cromaffini sì scorge poi, nelie varie specie di 8470, procedendo in direzione caudale, anche lungo il tratto di vena cardinale destra (vena cardinale mediana) che corre nella porzione anteriore del rene addominale fino a livello circa della regione in cui risiedono i corpuscoli di Stanniu S, se non che lungo questo tratto sono piuttosto rare. Sistema cromaffine (sistema feocromo) nel Coregonus. La distribuzione del sistema cromaffine nel Coregonus offre ancora maggiore inte- resse poichè, come già sopra ricordai, parlando dell’ interrenale anteriore, gruppi di elementi cromaffini s’ intercalano lungo le trabecole d’ interrenale e altri se ne interpongono fra le medesime, con le quali pertanto vengono in certa maniera ad intrecciarsi (lav. II, Fig. 11 e 12, sc), determinandosi così un’intima associazione tra sistema interrenale e sistema cromaffine. (1) Anche quando sono nel tessuto linfoide trovansi sempre in rapporto con seni sanguigni. — 382 — Il tessuto cromaffine è più specialmente situato nella parete del tratto craniale delle vene cardinali posteriori, di quel loro tratto cioè che percorre il rene cefalico. Si continua inoltre lungo i grossi rami venosi, che affluiscono a questo tratto, e s° interna nella massa linfoide per quivi seguive la rete di trabecole dell’ interrenale anteriore, con le quali inti- mamente si associa. Nella parete delle vene e dei rami venosi, rivestita d’interrenale ante- riore, il tessuto cromaffine s’ intercala alla serie di cellule interrenali, o mediante elementi isolati o mediante gruppetti di elementi feocromici o mercè nidi piuttosto grandi. Gli aggruppamenti di cellule cromaflini sono più vistosi, più estesi presso i punti d’ affluenza dei grossi rami venosi nelle vene cardinali posteriori, massime nei punti di sbocco nella vena cardinale posteriore destra. Pure nel Coregorus il tessuto cromaffine estendesi in dietro, dopo cessato l’interrenale anteriore, sin verso il terzo medio del rene. Nell’ intercalarsi del tessuto cromaffine al tessuto interrenale nella parete delle vene si ha una disposizione simile a quella che descrissi per i Murenoidi, segnatamente mag- giore somiglianza con quella illustrata nell’ Oprisurus (Ophichthys) serpens. L’ intima associazione fra tessuto cromaffine e tessuto interrenale si rende ancor più manifesta e più interessante in quei punti in cui l’ interrenale anteriore forma una rete di trabecole (Fig. 12, a sinistra in basso), poichè qui gruppi di cellule cromaffini si veg- gono intercalati o interposti alle trabecole d’interrenale, e tutto 1’ insieme strutturale di questa disposizione ci ricorda il comportamento che sistema interrenale e sistema cro- maffine mostrano nelle capsule surrenali degli Anfibii e soprattutto degli Anfibii anuri. Gli elementi del tessuto cromafline, tanto in Salmo quanto in Coregonus, oltre che per il caratteristico colore giallo-ocra o giallo-aranciato che assumono per l’ azione del bicro- mato di potassio, si distinguono dagli elementi del tessuto che costituisce 1° interrenale anteriore anche per i caratteri del loro plasma e del loro nucleo non che per la forma del loro corpo cellulare. Le cellule del tessuto cromaffine hanno forma molto varia : cilin- drica, cubica, rotondeggiante, poligonale con contorni irregolari non sempre ben definibili, talvolta allungata o fusata, determinata così dalla forma dello spazio, che è loro concesso di occupare, come dal luogo dove esse debbono risiedere per compiere la loro funzione. Sono più grandi delle cellule dell’ interrenale ed il loro nucleo è pure di volume alquanto maggiore; esso ha la cromatina divisa in finissimi granuli ed è di figura sferica od ova- lare, ed ellissoidale quando il corpo cellulare è allungato o fusato. Rapporti del sistema cromaffine col sistema nervoso simpatico. Tanto in Salmo quanto in Coregonus ho seguìto nello studio della serie delle sezioni i gangli della catena gangliare del simpatico, ma non sono riuscito a scorgervi cellule cromaffini. Nidi, anche discretamente grandi, ho invece ritrovato nei gangli simpatici celiaci che accompagnano l’ arteria mesenterica e che stanno situati attorno ad essa, sia quando si stacca dall’ aorta (gangli celiaci dorsali), sia (gangli celiaci medi) lungo il suo decorso nella massa linfoide del rene cefalico, sia, più specialmente, alla sua uscita dalla faccia ventrale del rene cefalico (gangli celiaci ventrali). I nidi cromaffini, sebbene in Mem. R. Acc. d. Sc. Bologna, Serie VI, Tomo VIII. y 2A POSDE ® 0) o Se © @ ®, Sei PE) CIC) la) Y (cs0) SÈ PLS 09200 ® LIS O © 8A o Ù = (0g x % ci DI E. GIACOMINI - Anatomia microscopica e sviluppo, ecc. - Tav. |. Fig. 2 ealtà si SANA Dil Mem. R. Acc. d. Sc. Bologna, Serie VI, Tomo VIII. », dg (do 4 Arti gun: IA î BEST O \ EOCRI RISE dad S9 Vasto xe NI ICEBVZIA Po 28 DIS) O DI LE LARILITDI® SON ao 04 Da ORI pat e 2 DR SEE 00: NU 7 24 O SE $ \Ù \o Si i Na Fig, 13 RENT alt veae/ ANTI Fig. II E. GIACOMINI - Anatomia microscopica e sviluppo, ecc. - Tav.ll. Pe . COMINI - Mi Sc Bologna, Serie V I, Tomo VIII. E G A em. R. Acc. d. Anatomia microscopica e sviluppo, ecc. = Tav.ll. — 383 — scarso numero, SÌ rinvengono tanto nei gangli celiaci dorsali e medi, quanto nei ventrali dove appariscono più voluminosi. Le Fig. 14 e 15 della Tav. II mostrano appunto sezioni di gangli celiaci ventrali di Salmo fario con grandi nidi di cellule cromaffini (sc). Qualche piccolo nido di cellule cromaffini si riscontra pure lungo i tronchicini nervosi simpatici che corrono dentro la massa linfoide del rene cefalico, accompagnando |’ arteria mesenterica. Inoltre ramuscoli nervosi del simpatico e piccoli gangli simpatici si rinvengono sparsi qua e là nell’ interno della massa linfoide del rene cefalico lontani dall’ arteria mesenterica. E rami nervosi simpatici e anche singole cellule gangliari o gruppetti di esse stanno non di rado presso gli accumuli maggiori di cellule cromaffini anche lungo la porzione craniale delle vene cardinali posteriori. Conclusione generale relativa alla prima parte. Da quanto ho riferito, in questa prima parte, intorno all’ anatomia microscopica del sistema interrenale e del sistema cromaffine dei Salmonidi, risulta, come conclusione gene- rale, che nei rappresentanti di questa famiglia, similmente a ciò che già feci conoscere in due estese memorie per i Murenoidi e a ciò che in brevi note ho accennato per molti altri Teleostei di diversi generi e famiglie, oltre ai corpuscoli di Stannius (inter- renale posteriore), esiste l’interrenale anteriore, situato nel così detto rene cefalico, in forma di trabecole o cordoni epiteliali, i quali o si raccolgono, come nei Salmo, in isole più o meno estese e più o meno addossate alla parete della porzione prossimale (craniale) delle vene cardinali posteriori e alla parete delle reveenti di questa regione, 0, come in Coregonus, si dispongono lungo la parete di dette vene cardinali e reveenti in modo da rivestirle come d’ una guaina o manicotto di trabecole d’interrenale anteriore. Nell’ uno e nell’altro caso le trabecole mostrano la caratteristica disposizione che oftre l’interrenale negli Anfibii. Ed esiste d’altro canto il tessuto cromaffine il quale è prevalentemente distri- buito lungo la porzione craniale delle vene cardinali posteriori, seguendo anche le vene reveenti, e può stare strettamente addossato, come in Salmo, oppure, come in Coregonus, intimamente associarsi ail’ interrenale anteriore in modo da risultarne la costituzione di vere e proprie capsule surrenali, simili, sotto molti riguardi, a quelle degli Anfibii. Nidi, anche discretamente grandi, di cellule cromaffini sì riscontrano nei gangli celiaci e nei tronchicini nervosi simpatici che accompagnano l’ arteria mesenterica nel suo tragitto ‘ dorso-ventrale attraverso la massa del rene cefalico. Fatte conoscere queste principali disposizioni, passerò, nella seconda parte del lavoro, ad esporre le ricerche sullo sviluppo del sistema interrenale e del sistema cromaffine dei Salmonidi, con le quali sarà completato lo studio morfologico di questi due sistemi nella detta famiglia, studio da servire, insieme alle precedenti mie note sopra agli stessi organi nei Murenoidi e in parecchie altre forme di Teleostei, quale contributo alle conoscenze in- torno al sistema delle capsule surrenali dei Teleostei in genere. Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. UT (4°) — 384 — SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Tutte le figure sono state ritratte con l’aiuto della camera lucida Abbè-Zeiss. Nelle figure le parti molto in nero rappresentano cellule pigmentate o cumuli di pigmento. Generalmente, per ragioni di semplicità e di chiarezza, si omise di rappresentare nelle figure il sangue contenuto sia nelle vene sia nei seni venosi e in altri vasi. Fissazione: miscela di liq. di Muller e formolo. Colorazione: carminio alluminico od emallume, soli od associati ad eosina. INDICAZIONI COMUNI A TUTTE LE FIGURE am arteria mesenterica sc elementi del sistema cromaffine (so- cgs cellule gangliari simpatiche stanza cromaffine) o sistema feocromo cn involucro (capsula) connettivale sv seni venosi, sinusoidi gsc gangli nervosi simpatici celiaci tl tessuto linfoide ia interrenale anteriore v vene (rami venosi, vene reveenti) i p interrenale posteriore (otricoli dei cor- vepa vena cardinale posteriore destra puscoli di Stannius). vcps vena cardinale posteriore sinistra p pigmento vs vaso sanguifero TAVOLA I Le Fig. 1 a 8 si riferiscono a Salmo fario adulto. Fig. 1. — Rappresenta un sezione trasversale, veduta a debole ingrandimento, dell’intiero rene cefalico a livello della sua porzione anteriore. La sezione cade un po’ al davanti dell’estremo craniale delle vene cardinali posteriori, le quali perciò non compariscono tagliate nella figura. Il limite superiore, convesso, della sezione corrisponde alla faccia dorsale del rene cefalico, il limite inferiore, concavo, alla faccia ventrale. Nella massa del tes- suto linfoide si veggono disseminate (nella sezione se ne contano dieci) le isole dell’in- terrenale anteriore, i a, alcune più grandi, altre più piccole. Alcune delle isole d’ interre- nale sono con un loro margine in immediato rapporto coi rami venosi maggiori, v, vene reveenti, della rete venosa. Nel limite inferiore della figura si vede l'arteria mesente- rica, am, circondata dai gangli simpatici celiaci, gs c. Ingrand. diam. 16 circa. (Disegno di I. Biagi). Fig. 2. — Rappresenta una delle grandi isole d’interrenale anteriore veduta ad un medio ingrandi- mento. Nell'isola si veggono alcuni dei seni venosi fittamente ripieni di corpuscoli san- guigni rossi (nella parte destra della figura). Il tessuto linfoide, in mezzo al quale l'isola si trova, s’intromette in qualche punto anche tra i lobuletti o trabecole epiteliali d’in- terrenale. Nel tessuto linfoide numerose macchie di pigmento. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di I. Biagi). Fig. 3. — Rappreserta una parte di un’isola (di quella disegnata nella precedente figura) d’interrenale anteriore veduta a più forte ingrandimento. E un tratto in cui si veggono assai distinte — 385 — le trabecole o cordoni d’interrenale anteriore, è a, che formano un reticolato, gli spazi delle cui maglie sono occupati da ampi sinusoidi, sv, dai quali le trabecole stesse sono bagnate. È stato omesso il sangue che si trovava nei sinusoidi. Ingrand. diam. 160 circa. (Disegno di I. Biagi). Le Fig. 4 a 8 (come anche le Fig. 9 e 10 della Tav. II) si riferiscono ad un giovane esem- plare di Salmo salar. Furono ricavate più specialmente per rappresentare la distribuzione del tessuto cromaffine e perciò la scelta delle sezioni da servire per i disegni fu fatta più in base alla presenza di tessuto cromaffine che in base alla presenza di isole d’inter- renale, cosicchè in alcune figure le isole d’interrenale sono colpite soltanto tangenzial- mente. Nel tessuto linfoide di tutte queste figure si veggono piccole macchie di pig- mento. Fig. 4. — Rappresenta parte d’una sezione trasversale del rene cefalico a livello della sua porzione media. Per ragioni di spazio la figura nella tavola è stata messa verticale anziche nella sua posizione naturale obliqua, di guisa che il suo lato sinistro, volto verso il margine si- nistro della tavola, è quello che guarda la faccia medio-ventrale del rene cefalico e il destro è quello che guarda la faccia latero-dorsale. Vi si vede colpita obliquamente la vena car- dinale posteriore destra, vc pd. Attorno alla vena o nella sua stessa parete si scorgono isole d’ interrenale anteriore, # a. Un’ isola d’ interrenale, in basso (rispetto alla posizione naturale) e a sinistra della figura, si nota pure in mezzo al tessuto linfoide. Numerosi grup- petti o nidi di cellule cromaffini, se, nella parete della vena. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi). Fig. o. — Rappresenta parte d’una sezione trasversale del rene cefalico. La sezione cade un poco più al di dietro della precedente. Vi si veggono colpite due isole d’interrenale anteriore, i a. I nidi di cellule cromaffini, se, contenuti nella parete della vena, sporgono in parte nel lume del vaso. In basso e a sinistra si scorge un maggiore accumulo di elementi ero- maffini attorno allo sbocco di un ramo venoso (vena reveente) colpito tangenzialmente. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi). Fig. 6. — Rappresenta parte d’una sezione trasversale del rene cefalico a livello della sua porzione posteriore. Ventralmente la vena tocca la superficie del rene cefalico e non è circondata da tessuto linfoide. Vi si veggono colpite tre isole d’interrenale anteriore, i a. Notevole è la quantità di elementi cromaffini nella parete dorsale, nella parete mediale e in quella laterale della vena. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi). Fig. 7. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione tra rene cefalico e porzione addominale del rene. Il disegno è orientato secondo la posizione na- turale dell’organo. Il lato mediale guarda a sinistra, il laterale (dove il disegno è inter- rotto) a destra, il dorsale in alto e il ventrale in basso. Il calibro della vena cardinale posteriore destra è qui un po’ più ampio. A sinistra vedesi un lobuletto d’interrenale an- teriore, 2a. Nella parete mediale e nella parete laterale della vena si scorgono nidi o brevi serie di cellule cromaffini. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi). Fig. 8. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione tra rene cefalico e porzione addominale del rene. La sezione cade alquanto più caudalmente della precedente. Il disegno è orientato come sopra. A sinistra vedesi un lobuletto d’interre- nale anteriore, 2a, e presso a questo nella parete mediale della vena cardinale posteriore destra un cumulo di cellule cromaffini. Piccoli nidi o brevi serie di cellule cromaffini si notano inoltre nella parete mediale, nella parete dorsale e anche in quella ventrale del vaso. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi). — 386 — TAVOLA II. Le Fig. 9 e 10 si riferiscono, come le Fig. 4-8 della Tav. I, ad un giovane esemplare di Salmo salar ed appartengono alla medesima serie. Fig. 9. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione del rene ce- falico colla porzione addominale del rene. A. destra il disegno è interrotto. La sezione cade ancor più in dietro di quella della Fig. 8 (Tav. I). Nella parete mediale, nella parete dorsale ed in quella latero-ventrale della vena cardinale posteriore destra si vedono nidi o brevi catene di cellule cromaffini, se. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gi- lardi). Fig. 10. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione del rene cefalico colla porzione addominale del rene. La sezione cade ancora un poco più caudal- mente della precedente. Nidi e serie di cellule cromaffini, sc, si veggono nella parete dorsale, nella parete laterale e in quella ventrale della vena cardinale posteriore destra. Vi si vede anche un lobulo d’interrenale anteriore, 7a. Ingrand. diam, 80 circa. (Di- segno di M. Gilardi). Le Fig. 11 e 12 si riferiscono ad nn esemplare adulto di Coregonus wartmanni. Fig. 11. — Rappresenta parte d’ una sezione trasversale del rene cefalico. La sezione cade verso l'estremo anteriore (craniale) del rene cefalico, un poco al davanti del rudimento del cor- puscolo malpighiano e la parte rappresentata sta medialmente alla vena cardinale destra. Il lato inferiore della figura guarda la faccia ventrale del rene cefalico. Vi si veggono tagliati dei grossi rami venosi (vene reveenti), v, e attorno al lume di questi vasi, nella loro parete, si nota uno strato d’ interrenale anteriore, 2a, ai cui elementi si associano in modo assai intimo, intercalandosi ad essi, cellule cromaffini, s c, isolate o riunite in gruppi. Vicino a questi vasi, circondati come da un manicotto o guaina di tessuto interrenale, si vedono, in parte in rapporto di continuità con lo strato circondante il lume dei detti rami venosi, delle trabecole d’interrenale anteriore ramificate e anastomizzate tra loro in ma- niera da formare dei delicati reticoli. Si osservi specialmente la parte destra della figura. Nel loro andamento le trabecole imitano e seguono il comportarsi dei cordoni o zolle di tessuto linfoide con le quali in certi punti potrebbero confondersi, senza attenta osserva- zione. Anche con queste trabecole sono associati gli elementi del tessuto cromaffine. I sinusoidi, sono molto ampi e perciò anche le zolle o cordoni dì tessuto linfoide appariscono molto discosti tra loro, la qual cosa nella figura risalta anche maggiormente per il fatto che è stato omesso il sangue che nel preparato riempie i sinusoidi. Nei cordoni e zolle di tessuto linfoide si veggono numerose macchie di rigmento. Ingrand. diam. 100 circa. (Disegno di M. Gilardi). Fig. 12. — Rappresenta parte di una sezione trasversale del rene cefalico a livello della sua porzione anteriore in corrispondenza della parte più cvaniale della vena cardinale posteriore sini- stra, la quale è colpita molto obliquamente e a destra riceve lo sbocco di ampie vene reveenti, La figura è orientata secondo la posizione naturale dell’organo, di maniera che la sua parte inferiore guarda la faccia ventrale e la parte sinistra il margine laterale sinistro del rene cefalico. Per questa figura valgono le stesse avvertenze fatte per la precedente. lutto all’intorno del lume della vena, nella parete di questa, vedesi uno strato di trabecole e di lobuletti d’ interrenale anteriore, #@, a cui si associano in nidi più o meno grandi gli elementi del sistema cromaffine, sc. Notevole è l'insieme delle trabecole che si vede a sinistra e in basso della figura, presso la faccia ventrale del rene cefalico. RE Le trabecole ramificate e anastomizzate tra loro formano un reticolato e gli spazi com- presi nelle maglie di questo rappresentano ampî sinusoidi. Lungo le trabecole e fra le medesime si veggono intercalati gruppi di elementi cromaffini, se. Ingrand. diam. 100 circa. (Disegno di M. Gilardi). Fig. 13. — Rappresenta parte della sezione trasversale di un corpuscolo di Stannius (interrenale posteriore) di Salmo fario adulto. Un involucro conettivale, cn, avvolge il corpuscolo. Sottili propaggini dell’involucro si avanzano fra gli otricoli epiteliali, îp, che compon- gono il corpuscolo. In vs, vaso sanguifero con eritrociti. Per maggior spiegazione veg- gasi il testo a pag. 379-380. Ingrand. diam. 160 circa. (Disegno di I. Biagi). Le Fig. 14 e 15 si riferiscono ad un esemplare adulto di Salmo farzo. Fig. 14. — Rappresenta la sezione di uno dei gangli simpatici celiaci ventrali, nel quale si nota un grande nido di cellule cromaffini, se. Un altro nido, molto più piecolo, vedesi in alto e a sinistra (di fronte all’ indicazione per la cellula gangliare). Ingrand. diam. 200 circa (Disegno di I. Biagi). ° Fig. 15. — Rappresenta la sezione di un altro ganglio celiaco ventrale. La sezione cade presso al punto in cui il ganglio sta per continuarsi con un tronchicino nervoso. Vi si vede un nido discretamente grande di cellule cromaffini, sec. Ingrand. diam. 200 circa. (Disegno di IRE p_SÒ FO = G. G. A. IINIDIG@& Tizzoni — Sulla possibilità di trasmettere la pellagra alla scimmia (con una. tavola)l fr ee E e eo Razzaboni — Sulle curve a doppia curvatura in geometria iperbolica. . . > Ciamician e C. Ravenna — Sul contegno di alcune sostanze organiche mne) vegetali. IV. Memoria . . . IR RR e Baldacci ez eoratdellemhisolcMRelag0SCMEOORE RE Righi - Nuove ricerche sul potenziale di scarica nel campo magnetico (cor T4:fieure:mel'-testo)iic; a ate eee a e e A ao e I Canevazzif = SPr0\CZ0ONVWW ESCO WROTE Cavazzi — Processo per la determinazione del manganese nei prodotti side- DONA (E MAS N dal A e D Capellini == Zapwefoss_tmMolognest® (const zuremelbtesto) RR eeeee Capellini — Zifividi fossili nel museo geologico di Bologna . ......... >» Pincherle — Appunti di Calcolo Funzionale. I. Memoria... >» Baldoni — Sulla resezione del condilo della mandibola nell’ artrite purulenta traumatica temporo-mascellare nel cavallo (con 4 figure nel testo). . . . >» Pesci — reazioni tra gli acetati di mercurio ed i rantogenati alcalini . . >» Pesci =ASu/latcosttuzioneRdelloWMerciofenlanr'\ EROE Ruggi -— Ancora dell’ emiprostatectomia verticale nelle iscurie da ipertrofia prostatica » Ruggi — Asportazione completa dello sterno a cura di un trapianto carci- nomatoso successivo ad amputazione mammaria (con 5 figure nel testo). . >» Albertoni —- ricerche sulle modificazioni del sangue in seguito all’ estirpa- ZIONCAdell'AAPPareechioNMopuzat0 CORR E > 63 s9 173 181 191 — 389 — G. Boeris — Appunti cristallografici I. Novi — Azione disintegrante cerebrale del cloruro sodico in soluzioni fisio- logiche (Studio critico e sperimentale) L. Amaduzzi — Nuove osservazioni e ricerche su speciali scariche elettriche (con quattro figure nel testo) L. Amaduzzi e M. Padoa — Conducibilità ed isteresi fotoelettrica di miscele isomorfe solfo-selenio e selenio-tellurio . V. Simonelli — Avanzi di « Tursiops » del Pliocene senese (con tavola) . IL. Amaduzzi e M. Padoa — Effetto Hallwachs e Fototropia M. Rajna — Osservazioni meteorologiche fatte durante Vl anno 1910 nell’ Osser- vatorio della R. Università di Bologna F. Guarducci — Sopra un’ Integrafo polare F. Guarducci — ’etferminazione astronomica di latitudine e di azimut a Fano (asse del Fanale). F. Cavani — Sulla verticalità della stadia nella misurazione delle distanze in planimetria A. Poggi — Importanza del lembo capsulare rimasto illeso, nella riduzione delle lussazioni antero-interne dell’omero (con tavola doppia) . . .. . D. Majocchi — Sopra alcune varietà del frenulo prepuziale soprannumerario (con tavola). II. Memoria . F. Brazzola — Ricerche sulle mutazioni (variazioni) del gruppo coli-tifo . E. Giacomini — Anatomia microscopica e sviluppo del sistema izterrenale e del sistema cromaffine (sistema feocromo) dei Salmonidi. Parte I. Anatomia microscopica (con due tavole doppie e sei figure intercalate nel testo) FINITO DI STAMPARE MaGgiIo 1912 Pao. » » » » » » » » » » » » 201 205 267 297 301 5307 399) 545 361 367 EbEINIDICE G. Ruggi — Asportazione completa dello sterno a cura di un trapianto carci- nomatoso successivo ad amputazione mammaria (con 5 figure nel testo). P. Albertoni —- Ricerche sulle modificazioni del sangue in Jan all’ estirpa- zione dell’ apparecchio tiroparatiroideo G. Boeris — Appunti cristallografici I. Novi Azione disintegrante cerebrale del cloruro sodico in soluzioni fisio- logiche (Studio critico e sperimentale) L. Amaduzzi — Nuove osservazioni e ricerche su speciali scariche elettriche (con quattro figure nel testo) . Pag. » » L. Amaduzzi e M. Padoa — Conducibilità ed isteresi fotoelettrica di miscele isomorfe solfo-selenio e selenio-tellurio . V. Simonelli — Avanzi di « Tursiops » del Pliocene senese (con tavola) . L. Amaduzzi e M. Padoa — Effetto Hallwachs e Fototropia M. Rajna — Osservazioni meteorologiche fatte durante l’anno 1910 nell’ Osser- vatorio della R. Università di Bologna F. Guarducci — Sopra un’ Integrafo polare F. Guarducci — Determinazione astronomica di lutitudine e di azimut a Fano (asse del Fanale). F. Cavani — Sulla verticalità della stadia nella misurazione delle distanze in planimetria . . A. Poggi — Importanza del lembo capsulare rimasto illeso, nella riduzione delle lussazioni antero-interne dell’omero (con tavola doppia) D. Majocchi — Sopra alcune varietà del frenulo prepuziale soprannumerario (con tavola). II. Memoria . F. Brazzola — Ricerche sulle mutazioni (variazioni) del gruppo coli-tifo . E. Giacomini — Anatomia microscopica e sviluppo del sistema interrenale e del sistema cromaffine (sistema feocromo) dei Salmonidi. Parte I. Anatomia microscopica (con due tavole doppie e sei figure intercalate nel testo) FINITO DI STAMPARE Maggio 1912 » » » » » » » » » 307 335 345 361 367 Si Raso Ri bi e È d % sf, 0 Ga a Be TRE ts ss St UNAIIARL ANNEO PIA fu ti sile alt ie pla a n CEI ad. i VAI,A da Vie T_ Lele. |) >. di 0 e > ppprolt Miano BE da mi sal T9IPI sp T Vai 7 NINA VAnd sla’ J "i asl La ai Ni 3 ZA Î 25 SR su n | RA $ af Na “a - a 2 avg pe A pel sa ro api pa SA NARNA ZAZAÀ: DELI NRE 2-Za ha sog SIL ef "ef 9 rà; à & È sf ’ REA Na 9 pr rimapAaroroo , Da Saras abi. pi LA N va A Pg ° SI diasianizzio 9 PA nad SCRAII AL pei VS si a ARABA SZ arntBanant, a ge r apo nnnastfe essre: Ji do NOA | du NA L \\ TI È a 9A * PPTTCYN o > af” Valy TIA: le 7 è < SÙ 2 DI dI, X e Y SÙ SI iNà, po - ARZZ es RION n SR dg mor uzaot => di PS : ALGA > al Ù è — e NANI 5 =) Are A i) VAT Min là a aa A RA iù la PIA i mA 5 AYA A neve AA VaR A DAT QAA | La” nracate@? 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