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MEMORIE
* R ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA
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1915-16
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MEMORIE
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CLASSE DI SCIENZE FISICHE
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BOLOGNA
TIPOGRAFIA GAMBERINI E PARMEGGIANI
1916
METODO ABBREVIATO DI CALCOLO PER LE
TRAVI QUADRANGOLATE AD ASSE RETTI
LINEO E AD ALTEZZA COSTANTE O VARIABILE
MEMORIA
DEL
Pror. SILVIO CANEVAZZI
letta nella Sessione del 14 Novembre 1915.
(CON UNA TAVOLA)
1. Una trave quadrangolata, confrontata con una trave ordinaria a parete piena,
di pari altezza e di forma normale, cioè costituita da due nuclei detti corde, piatta-
bande o nervature, riuniti da una parete continua, si differenzia pel fatto che, divisa
la trave in tronchi di lunghezza Ax, uguale o non molto diversa dalla sua altezza,
la parete continua di collegamento verticale fra le nervature inferiore e superiore è
sostituita in ogni tronco da un montante, situato in corrispondenza della mezzeria del
tronco considerato (Fig. 1 e 2). Una trave così composta viene anche detta trave
Vierendel dal nome dell'ingegnere, che l’ha studiata con speciale interesse, dandone
anche una teoria completa (1), e risulta formata di due piattabande (nervature, corde
o nuclei resistenti) una superiore ed una inferiore e di montanti, rigidamente connessi
alle corde o piattabande, in guisa da lasciare fra loro vani di forma quadrilatera con
due lati verticali. Gli angoli dei vani elementari ordinariamente sono smussati o rac-
cordati (Fig. 3) e ciò all’intento di rendere più robusto l’attacco del montante colle
piattabande. Se si considerano due travi quadrangolate uguali ed in una di queste, se-
condo una delle diagonali dei quadrilateri elementari, si dispone una barra resistente,
collegata cogli elementi, che concorrono nei due angoli alle estremità della diagonale
considerata, si ottiene necessariamente una trave reticolata a triangoli, che indicheremo
col nome di trave triangolata correlativa alla trave quadrangolata primitiva. Se si trac-
ciano poi due figure geometriche formate cogli assi delle barre componenti le travature
sopraindicate si ottiene ciò che viene chiamato lo schema geometrico della travatura
quadrangolata oppure della sua correlativa triangolata (Fig. 4).
Prescindendo dalle deformazioni elastiche, la funzione delle diagonali nella trave
triangolata è di rendere invariabili col concorso dei montanti le distanze relative fra
le estremità dei montanti stessi e gli altri elementi della struttura in guisa da op-
(1) Bulletin de l’Association des ingènieurs civils de France. Aoùt 1900.
Giornale del Genio civile 1899. Il ponte Vierendel e la sua calcolazione (Prof. Andruzzi).
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 1
LIS ea
porsi agli scorrimenti relativi delle corde in senso parallelo all’asse come se fra le
medesime esistesse una parete continua di collegamento, atta a renderle solidali nella
resistenza alla flessione. Nella trave quadrangolata, mancano le barre diagonali, la
funzione su esposta rimane affidata ai soli montanti, i quali debbono per ciò presentare
una conveniente rigidità trasversale ed essere saldamente connessi ad incastro colle
nervature.
2. I quadrilateri elementari componenti la trave quadrangolata vengono detti campi,
scomparti od anche intervalli. Ognuno di questi, mancando una diagonale di irrigidi-
mento, che ne determini la forma in base alla sola lunghezza dei suoi elementi, non
può, prescindendo dalle deformazioni elastiche, conservare la sua figura iniziale sotto
l’azione di forze esterne altrocchè se le varie membrature (corde superiore ed inferiore,
montanti) sono saldamente incastrate fra loro nei punti di concorso o nodi, e se esse
sono sufficientemente rigide rispetto alle azioni che le sollecitano.
La trave triangolata semplice correlativa ad una trave quadrangolata data, pel fatto
di essere costituita da una serie di triangoli adiacenti e successivi con un lato comune,
pur ritenendo le unioni nei nodi a cerniera, è indeformabile. Infatti se » è il numero
dei nodi, tanto per tutto il sistema come per una parte di esso, date le lunghezze delle
barre, si hanno 22 — 3 condizioni, cioè quante sono necessarie e sufficienti per deter-
minarlo. Essendo poi supposto che le unioni nei nodi siano a cerniera, le varie barre
non possono subire che sollecitazioni assiali, per cui il numero delle reazioni incognite
agenti nelle membrature è 2% — 8, cioè tante quante sono le condizioni che assicurano
l’equilibrio di ogni singolo nodo (due per ogni nodo) diminuite delle tre relazioni ge-
nerali di equilibrio nel piano, ed il sistema è staticamente determinato ed in modo
univoco, perchè tutte le equazioni sono lineari. La trave quadrangolata correlativa in-
vece, se & è il numero degli scomparti, contiene 2n — 3 — & barre e per conseguenza
con unioni a cerniera nei nodi, indipendentemente dalle deformazioni elastiche, non può
avere forma determinata: perchè ciò non sia è indispensabile che le varie membrature
siano fra loro unite ad incastro, dando così origine, oltrecchè a sforzi assiali, anche
a sforzi di taglio ed a momenti flettenti. In queste condizioni il numero delle reazioni
incognite diventa di tre per ogni membratura, cioè 3 (2a — 3 — &), ed il problema
della loro determinazione entra nella categoria dei problemi iperstatici. Fatta una se-
zione orizzontale, più esattamente secondo l’asse della trave, in modo da tagliare tutti
i montanti, le caratteristiche di sollecitazione in ogni membratura potranno essere
espresse in funzione delle forze esterne attive, delle reazioni e delle caratteristiche mec-
caniche incognite sollecitanti le sezioni tagliate (sforzo assiale V, sforzo tagliante @,
momento flettente 4). Col metodo poi degli spostamenti, come hanno fatto Andruzzi
e Vierendel, oppure utilizzando le proprietà del lavoro elastico di deformazione (teo-
rema di Menabrea, teoremi di Castigliano) ed eventualmente anche dei teoremi
di correlazione (*) potranno essere determinate in ogni elemento sezionato le incognite
(*) Canevazzi S. Arte del fabbricare. Meccanica applicata alle costruzioni. App. II.
LE PA
della questione, uniformandosi ai metodi ben noti per la risoluzione dei problemi iper-
statici, che si incontrano nello studio della scienza delle costruzioni.
Questo procedimento di calcolo, certamente razionalissimo, richiede un lungo svi-
luppo algebrico, come è carattere specifico di tutti i problemi iperstatici a molte in-
cognite, e come appare anche dall’ esame dello studio, superiormente citato, fatto dal-
l’ing. Vierendel. I lunghi sviluppi algebrici e le formule complesse non sono molto
adatte per la pratica professionale, la quale preferisce le formole semplici, anche se
soltanto approssimate, semprecchè l’approssimazione sia contenuta entro limiti razionali.
'l'ale preferenza viene ordinariamente giustificata coll’incertezza relativa che regna sul
valore degli sforzi unitarìî massimi ammissibili pei singoli materiali, colle differenze
che si riscontrano anche fra materiali della stessa specie e finalmente col risparmio di
tempo e colla maggiore probabilità di evitare errori numerici nell’ esecuzione dei cal-
coli di resistenza e stabilità, senza contare che spesso nella messa in opera della strut-
tura non si arriva a realizzare le condizioni supposte dal calcolo iperstatico. Tenendo
presente queste considerazioni e per gli intenti tecnico-professionali appare evidente la
convenienza di far ricerca per la trave quadrangolata di un processo di calcolo, il
quale, se pure non assolutamente rigoroso, dia sufficiente garanzia di approssimazione
praticamente accettabile e nello stesso tempo offra svolgimento e formole finali semplici
e di facile applicazione. Già nel lavoro citato dell’ingegnere Vierendel è fatto cenno
di un modo di abbreviare i calcoli, introducendo approssimazioni razionali nelle formule
proposte, e più recentemente il prof. Danusso, in una memoria pubblicata sul giornale
il Cemento (anno 1911), ha riconosciuto l’ opportunità di semplificare le formule pel
calcolo della trave quadrangolata proponendo una teoria approssimata sull’equilibrio della
medesima, e di questo argomento si è pure interessato l’ing. G. Revere. Uno studio
informato a questi criteri sembra presentare tanto maggiore interesse in quanto che la
travatura quadrangolata costituisce un tipo costruttivo, che in molti casi, specialmente
in causa delle difficoltà inerenti al getto entro casseri per strutture reticolate complesse,
appare conveniente per opere in cemento armato, materiale pel quale le ricerche teo-
riche non possono avere che un carattere indiziario largamente approssimato, e quindi
tale da consigliare l’uso di formole semplici e di coefficenti prudenziali. In questa nota
ci proponiamo di determinare le condizioni di equilibrio di una trave quadrangolata
accettando i criterî d’approssimazione, correntemente usati nello studio delle grandi travi
soggette a flessione, e di collegarne la teoria con quella delle grandi travi reticolate
semplicemente triangolate, mirando ad arrivare a formule aventi carattere professionale,
largamente approssimate bensì, ma sufficenti per la pratica.
3. All’intento di semplificare l’analisi riteniamo che i carichi esterni siano appli-
cati alla trave quadrangolata in corrispondenza ai montanti, supponendo concentrato nei
nodi anche il peso proprio della trave. Rappresenteremo genericamente con P(P,, P,...P,)
i carichi corrispondenti ai montanti (1, 2...) distinguendo rispettivamente con P° e P®
la parte di carico agente alla parte superiore ed inferiore del montante, in guisa che
SEI
sia P° + P“—= P. Una più larga ipotesi di carico complicherebbe senza vantaggio la
questione, poichè effettivamente in pratica le travi secondarie sono spesso, se non il
più delle volte, attaccate alla trave maestra in corrispondenza ai montanti. Quando
anche in qualche caso ciò non fosse, ì pesi verrebbero sempre riportati sui montanti,
e l’effetto locale, colle norme usuali, può sempre essere calcolato a parte ed aggiunto
agli sforzi ricavati nell’ ipotesi della concentrazione dei carichi in corrispondenza
ai montanti. Questa ipotesi autorizza a considerare costante lo sforzo tagliante in ogni
tronco di trave compreso fra due montanti, ed i momenti flettenti variabili linearmente
‘fra gli stessi limiti, ciò che permette di semplificare ì calcoli che ne dipendono. I campi
o scomparti in una trave quadrangolata hanno ordinariamente la medesima larghezza,
per cui la distanza 4 fra montante e montante ha valore costante; se ciò non si ve-
rifica allora rappresenteremo ordinatamente con 105, A: ..-.À, le larghezze successive dei
varî scomparti, incominciando la numerazione da sinistra.
Indichiamo coll’ indice 1, 2,...#...7 i montanti successivi di una trave quadran-
golata, incominciando a contare dall’estremità di sinistra della medesima, e conveniamo
di rappresentare con
O lo sforzo agente assialmente nella nervatura superiore della trave
U lo sforzo assiale nella nervatura inferiore
S lo sforzo assiale che, a pari condizioni di carico, si svilupperebbe nella saetta
della trave triangolata correlativa alla trave quadrangolata considerata
a, 8, y rispettivamente gli angoli che con una orizzontale fanno la corda o ner-
vatura superiore, la corda inferiore e la saetta
e di distinguere i varî elementi segnando al piede l’indice del montante, che
limita a destra lo scomparto, al quale le membrature appartengono. 0, Un Sn Am
bai Ym corrisponderanno con questa convenzione agli elementi dello scomparto 1 — oe
compreso fra il montante m — 195° ed il montante m.SfiP°,
Rappresentiamo con
M il momento flettente in una sezione qualsiasi della trave, con M,, il suo valore
in corrispondenza all’ 7°"""° montante e con Mm_3il momento nella sezione mediana
4
dello scomparto n. — 1.°8°M°
F lo sforzo tagliante in una sezione qualsiasi e con /,, lo sforzo tagliante nello
scomparto 7. — 1.98" aegiungendo uno o due apici a seconda che interessa mettere
in evidenza il suo valore all’estremo sinistro o destro dello scomparto considerato
I il momento d'inerzia di una sezione qualsiasi della trave e con Z, lo stesso
momento nello scomparto 7.*8!!0
A l’area della sezione della trave
Q° ed Q” le aree delle sezioni rette delle corde e con Q il loro comune valore
quando sono uguali
dora N ed. Que a |
COS & cos 8
ls
e aree delle sezioni delle corde o nervature fatte con
Mi e
un piano verticale, intendendo che in questi simboli o si riferisca alla corda superiore
ed « a quella inferiore
V lo sforzo assiale nel montante, con V,, quello che si verifica nel montante m.9!°
Q lo sforzo tagliante agente nel montante in corrispondenza alle sezioni d’incastro
colle corde superiore od inferiore e con @,, lo stesso sforzo nell” mSiM° montante
u° e u"” rispettivamente i momenti di incastro del montante colla corda superiore
ed inferiore e con um ® Un le stesse quantità per 1’ mesim°o montante.
u e v le coordinate di un punto qualsiasi della sezione della trave riferita a due
assi baricentri, quello delle « orizzontale e quello delle v verticale
u, la larghezza della sezione della trave in corrispondenza all’ ordinata v
v e v' rispettivamente le coordinate delle fibre superiore ed inferiore più lontane
dall’asse delle
v e © le ordinate corrispondenti ordinatamente al limite superiore ed inferiore del
vano quadrilatero in uno scomparto qualsiasi
h l'altezza della trave per cui XA = 0 + o"
h' l'altezza del vano interno in ogni scomparto per cui %' =v,+ v'/'
H la distanza fra gli assi delle nervature superiore ed inferiore
A = Ax la distanza fra gli assi di due montanti successivi: quando non si av-
verta il contrario si riterrà costante
À' la larghezza del vano quadrilatero in ogni scomparto: quando non si avverta il
contrario /' si riterrà costante
C il momento statico della sezione, che per gli assi baricentrici è necessariamente
nullo
C' e C'' i momenti statici, uguali e di segno contrario della parte di sezione su-
periore all’ asse neutro e di quella inferiore
C, il momento statico della parte di sezione resistente compresa fra due orizzontali,
una di ordinata v' e l’altra di ordinata v
Mv } ;
Pryx = È = — lo sforzo molecolare normale alla sezione verticale della trave in
un punto di ordinata v
FC pene, i
Pav = Pvx = lo sforzo molecolare unitario tangenziale in corrispondenza di un
1
punto di ordinata v
t° e T” lo sforzo di taglio longitudinale in corrispondenza alle linee limitanti su-
periormente ed inferiormente i vani quadrilateri di ogni scomparto per la lunghezza 4'
T° e T“ gli stessi sforzi considerando però la lunghezza 4, cioè la distanza fra
gli assi di due montanti successivi.
W' il momento risultante degli sforzi tangenziali in corrispondenza al vano di uno
scomparto, qualora il vano stesso non esistesse
W il momento somma dei momenti elementari di distorsione (degli sforzi moleco-
lari tangenziali) di tutti gli elementi resistenti della parete verticale di collegamento
SRO -Np: A
fra i nuclei (corde o nervature) in una trave a parete piena, di pari altezza di quella
quadrangolata considerata, e compresi fra gli assi di due montanti successivi e delle
nervature superiore ed inferiore
vi, € vi, i momenti alle estremità di un tronco di nervatura compresa fra due
montanti successivi: »},° vr° per la nervatura superiore e »;,% »,“ per la nervatura
inferiore.
N la componente orizzontale dello sforzo O agente nella corda superiore, o dello
sforzo U agente nella nervatura inferiore: Ocosa = — N, Ucos06 = N.
4. Se si immaginano due travi ad asse rettilineo, parallele, orizzontali e cogli assi
posti nello stesso piano verticale, collegate fra loro con montanti, entro i limiti delle
deformazioni elastiche ordinarie, si possono considerare due casi diversi ben distinti :
a) I montanti sono uniti colle travi superiore ed inferiore a cerniera e quindi
vincolano solo le deformazioni in senso verticale in guisa che, prescindendo dalle de-
formazioni elastiche dei montanti, gli spostamenti Ay in senso verticale sono pratica-
mente i medesimi per le due travi. Ciascuna trave si inflette sotto l’ azione dei carichi
per rotazione indipendente e libera della propria sezione, e la deformazione avviene
come se le due travi, sopprimendo i montanti, fossero poste a contatto senza alcuna
disposizione atta ad impedire gli scorrimenti longitudinali relativi delle medesime. Un
sistema così composto prende il nome di travatura combinata, e, se si indicano con
M il momento flettente dei carichi agenti sulla travatura
M°' ed M* le porzioni di momento flettente cui rispettivamente resistono la trave
superiore ed inferiore in guisa che sia M° + M“ =
I° ed I% i momenti d’inerzia particolari della trave superiore ed inferiore
Ay° e Ay" gli abbassamenti verticali della trave superiore ed inferiore sotto l’a-
zione dei carichi
in causa dei vincoli imposti dovrà verificarsi in ogni sezione la relazione
Ay° — A yi
ossia
"M°ada ‘Moda “M°xda
Jp Tia Jr
e quindi anche, ritenendo £ costante per le due travi,
dalla quale sì ricava
I°
(O) = di
Mo== porre A ee= iM
u
M“=M—- M°= DP4 I di i, M
ZIP (0 TA
Se si considera il solo sforzo di taglio F e si indicano con F° ed F* le porzioni
dello sforzo tagliante ° corrispondenti rispettivamente alla trave superiore ed inferiore
in guisa che sia F° + F“= F
Q° ed Q% le aree delle sezioni trasversali della trave superiore ed inferiore, con
procedimento analogo si ricava
* ali Qo mi.
ora i
Qu È
ino ii
b) I montanti sono uniti ad incastro colla trave superiore ed inferiore e pre-
sentano sufficente rigidità per vincolare non solo le deformazioni verticali, ma anche
gli scorrimenti relativi longitudinali delle due travi.
In queste condizioni, e prescindendo dalle deformazioni elastiche, le estremità dei
montanti sono fisse rispetto alle nervature superiore ed inferiore, come .lo sarebbero
nella trave triangolata correlativa per l’esistenza delle saette. Sotto l’azione del mo-
mento flettente le rotazioni delle sezioni trasversali delle nervature rimangono forzate,
cioè vincolate in modo comparabile a quanto avverrebbe in due travi sovrapposte a
contatto, nelle quali con opportuni espedienti costruttivi fossero impediti gli scorri-
menti relativi in guisa da formare un’unica compagine saldamente assicurata. ll cal-
colo della resistenza a flessione di un tale sistema deve essere fatto considerando l’area
resistente completamente solidale nella deformazione, e nella formula di stabilità si deve
quindi introdurre il momento d’inerzia I dell’ intera sezione fatta con un piano nor-
male all’asse del sistema considerato.
Nel caso che ci occupa ed in conformità di quanto si usa per le grandi travi, ri-
tenendo le due nervature di area uguale (Q° = Q”—= Q) come avviene generalmente
nella pratica, si può ammettere
Il 5 ì I
e quindi
RI
WI — ROTH
(2)
M
= N=—- 0/(=U
H
perchè ==0i=0
Se il sistema resistente, invece di essere composto da due corde o piattabande orizzontali
riunite con montanti incastrati nelle medesime, è formato con nervature curve, allora
sì ha ancora
M
teN=—-
VEL
ma
AVEC IMAGO
o=—- piene
H cosa H così
od anche, con maggior precisione e con riferimento al valor medio in corrispondenza
alla mezzeria di ogni intervallo fra montante e montante,
NEVI
De e I
0 Hm-1% Hm608Gm © Hm-4 008Gn"
M 1
ME tI ‘rato 1
US == ==
Hm + Hm08 6, Hm_-4 008 bm
formole che danno gli sforzi assiali nelle nervature di una travatura quadrangolata con
montanti incastrati nelle medesime, e ciò, ben inteso, senza pregiudizio di altre solle-
citazioni che possono essere dovute anche all’effetto dei vincoli esistenti fra le varie
parti della struttura e che dovranno essere composte colle azioni assiali. poc’ anzi de-
terminate.
5. Prendiamo da prima in esame il caso di una trave quadrangolata ad altezza co-
stante, che interessa particolarmente in causa delle numerose applicazioni che queste strutture
possono avere nella pratica. Se si confronta la trave quadrangolata con una trave a.
parete piena di pari altezza e lunghezza appare che per la porzione di parete corri-
spondente al vano ' %' della trave quadrangolata gli sforzi tangenziali pav = Pve =
IBC ;
= — sviluppano nella trave a parete piena un momento resistente alla distorsione
U
1
dovuto alla somma dei momenti dei singoli elementi w,dxdv, cioè alla somma dei ter-
mini p,, %, dadv in tutto il campo %' 4'. Per lo scomparto mm — 1°""° avremo
®» x a, v)” » hh 3 F C
! I 2V OSATO)
W,=|dx [Pa “udo= | da | —— dv
e’ 0 VA O 0 Ù JE
In base all’ipotesi di carico ammessa 7,, ha valore costante in tutto lo scomparto od
intervallo 4 > 4' e sono inoltre costanti H ed 2, per cui ritenendo, come d’uso, per
le grandi travi
S QH, (OE
Co= == =
2 (2)
si ricava
tà
h
O SO
JEI
MIAO i
Wi — "°° da [a= aC
mi
Mm a 0 VU” mM
se, come avviene in pratica usualmente, si può ritenere £' = H allora W,, = Fy4'.
Dalla relazione superiore si ricava come valore dello sforzo tagliante longitudinale
Men ig
t in corrispondenza alla linea limitante il vano
pil A
Care
In causa del vano esistente nella travatura quadrangolata lo sforzo T viene riportato sui
montanti in corrispondenza alle loro sezioni di incastro come sforzo di taglio, cui de-
i 2 . , nr ° ò . di Ò AR, Ò o
vono resistere. Indicando con 7,, e T,, le azioni sui montanti di sinistra e di destra si
può scrivere
Il montante deve resistere oltre chè all’azione dello sforzo r anche a quello dello sforzo
tagliante corrispondente alla sua sezione d’ attacco colle nervature. Il momento resistente
di distorsione W nella trave a parete continua di confronto superiormente indicata, e
che chiameremo primitiva, perchè da essa si deduce la trave quadrangolata pratican-
dovi tagli ed opportune asportazioni di parete, per tutto il tronco compreso fra gli
assi di due montanti successivi è dato da
__Fnl h'
n= f@2 (pesi Di; O (do do = Pod
Per consuetudine accettata dai costruttori nello studio delle grandi travi, si suppone il
materiale resistente concentrato lungo l’asse delle varie membrature. In questa ipotesi
ih H quindi
e lo sforzo @,, di taglio nella sezione d’incastro del montante risulta
qu Ta Tnzi 1 (Fodet Fusina)
2 2 & H
Ordinariamente il valore di À è costante per tutti gli scomparti della trave, quindi in
tal caso
Fm& PF
di = Mm MI 1 À
2A
È interessante osservare che in una trave ad asse rettilineo nelle condizioni supposte
FA=4AM; quindi la formula superiore per una trave ad altezza costante può anche
essere scritta nel modo seguente
AM,n_:+AMn
2H
Serie VII. Tomo II. 1915-1916. 2
Il montante è soggetto ad uno sforzo assiale V in dipendenza ai carichi che vi sono
applicati, ed agli sforzi taglianti @ nelle due sezioni di incastro, quindi i momenti d’in-
castro saranno dati da
I SMOIE
ui = Del
Quando i carichi sono applicati ai montanti, le sezioni delle nervature in ogni scom-
parto sono o possono essere ritenute uguali, e così pure i loro momenti d’inerzia 1° ed I°,
quindi
1
PEA
È 1 1 l
USA Fn tInai = AM» _ + AMyp
1 1
Come alle etremità di ogni montante si esercitano due sforzi di taglio # @ e due
momenti u (u° e 4”), così alle estremità di ogni tronco di nervatura corrispondente
ad uno scomparto agiscono due sforzi di taglio Z' e Z' e due momenti »' e »'". In
condizioni normali rispetto alle ipotesi fatte sulla distribuzione dei carichi
1 1 i l
lora ole id pt:
e supponendo, come d’uso per le grandi travi, le aree resistenti delle membrature con-
centrate nei loro assì
I PI VA W F
Ml An = Foa È Fu =t—-
ee ci 24 24 2
1 1 l
end b=h5 À
l'anto nei montanti quanto nelle nervature i momenti dipendenti dall’ unione ad incastro
variano linearmente in guisa che a metà altezza del montante u = 0 e così pure a
metà lunghezza del tronco 4 di nervatura » = 0. Nei nodi per l’equilibrio sarà ne-
I
cessariamente u, = Da + D+ 1
Qualora le sezioni delle nervature fossero talmente diverse da non poter ritenere 1
coefficenti di rigidità i, ed i, uguali fra loro ed eguali ad Vo allora nelle espressioni
di 4 e nelle altre che ne dipendono bisogna conservare in evidenza i coefficenti è, ed è,
ed attribuire loro il valore che corrisponde al caso che si considera.
La forza assiale agente nel montante si ricava dalla considerazione che, soppor-
tando in condizioni usuali ogni corda o nervatura la metà del carico che gli è tra-
LAI RS
smesso, la detta forza sarà data dalla semidifferenza fra il carico P* agente in basso
del montante ed il carico P° agente invece sulla corda superiore
1 i;
og = 9 (ci FI pe)
In via generale sarebbe
Wa =" Ù% oi Vini do Pi
mi
Lo sforzo assiale nei montanti intermedî ha in genere poca importanza nel calcolo di
queste travi, mentre invece ne hanno moltissima ì momenti 4 e », che in vicinanza
agli appoggi specialmente assumono valori importanti. Anzi è bene osservare che al-
l'intento di diminuire il valore dei momenti 4 può essere consigliabile di avvici-
nare i montanti diminuendo il valore della distanza 4 in vicinanza agli appoggi. Si è
‘osservato che d’ordinario î° = è, = 5 però, specialmente quando le travi secondarie,
almeno in parte, riposano in corrispondenza agli scomparti invece che sui montanti,
può avvenire che le due corde abbiano sezione diversa perchè diversamente sollecitate.
In questo caso bisogna tener presente l’ osservazione fatta sui valori di w e di », bi-
sogna cioè mantenere in evidenza i coefficenti di rigidità è, ed è, ed attribuire loro
il valore che compete al caso considerato.
6. Dalle cose esposte risulta che pel calcolo pratico-professionale di una trave qua-
drangolata ad altezza costante caricata da pesi agenti in corrispondenza ai montanti e
colle nervature (piattabande o corde) così formate da poter ritenere, come avviene
usualmente,
l
2
(o 0g = pE= =
vl
occorrono le seguenti formule, semplici nella forma e facilissime ad essere dimostrate
e calcolate,
1
Neg ea. Wi, 9 AG i OG
fpr=== mi Sy 9 — Jef
l Milia
CaTcg Fado + Fax Am 4 1) E 35 Fnt Fms1)
I LI 1
ZU cel,
Um = i = (Fodm+ Fay Amp) = (Ft Frs 1)
I LI 1
Um = Pm = Frdm
DO
Serie VII. Tomo III. 1915-1916.
I risultati che si ottengono da queste formule rientrano nella cerchia di approssima-
zione ordinariamente raggiunta nei calcoli usuali per le grandi travi a parete continua
o reticolata. Si potrebbe forse anche dire per queste ultime che 1 approssimazione è
maggiore, poichè nessuna delle ipotesi ammesse involge un errore dell’ importanza di
quello di considerare come cerniere unioni costituite invece da membrature saldamente
incastrate fra loro. In nessun caso i risultati ottenuti da queste formule e quelli ot-
tenuti impiegando rigorosamente i teoremi della teoria generale della resistenza dei
materiali possono differire fra loro più del 10°, perchè le ipotesi introdotte si ridu-
cono a considerare valori medî in sostituzione di altri variabili fra limiti poco di-
versi, e quindi l’ errore possibile sta in relazione col piccolo scarto fra i massimi e
minimi dei valori variabili ed il loro valor medio assunto a base dei calcoli. Vale
scarto sta appunto fra i limiti considerati e come prova riportiamo il seguente quadro,
nel quale per la trave ad altezza costante studiata dall’ing. Vierendel nella me-
moria sopra citata sono inscritti i valori di @ ottenuti colle formule proposte dal detto
ingegnere e quelli ricavati applicando le formule oltenute superiormente.
+ _ —_—CT—_ __———"*-——r-pll.__@--etE+_ «E P—_ ——-
Metodo Vierendel Metodo Vierendel Metodo abbreviato
(procedimento rigoroso) |(procedimento approssimato) | (formole di questa nota)
ZIO) LIS ZO) ES 30 250
43 795 43 336 46 720
33 430 85 151 33 800
20.00 ZIONI 20 200
6 762 CONNOR 6 996
Dall’ esame del quadro riportato risulta che la differenza fra i valori nelle tre co-
lonne non arriva al 10% e che anzi è notevolmente inferiore : questa differenza nel
metodo di calcolo abbreviato proposto risulta favorevole alla stabilità del sistema.
Il calcolo delle sezioni resistenti viene fatto colle formule usuali di resistenza pei
casi di sollecitazione complessa. Il montante deve resistere allo sforzo assiale V co-
stante, al momento 4, massimo nelle sezioni d’incastro e nullo nella sezione mediana,
ed allo sforzo di taglio costante @, quindi, coì simboli usuali, dovrà essere i
e 0 Gee
A IA A
ritenendo che esprimano
A l’area della sezione retta del montante
1 il momento d’ inerzia nel montante
R lo sforzo unitario normale
RES i
S lo sforzo unitario tangenziale
v la distanza della fibra considerata dall’asse neutro baricentrico del montante.
Il tronco di nervatura compreso fra due montanti è sollecitato in modo analogo.
Esso deve resistere allo sforzo assiale #2 N costante, allo sforzo di taglio Z pure co-
stante e finalmente al momento flettente » variabile linearmente da »' a »'' e nullo nel
punto di mezzo. Le formule di resistenza sono ancora quelle indicate pel montante col-
l’avvertenza che v, A ed / si debbono riferire alla corda o nervatura che si considera
v Z
pb
A I
7. Prendiamo ora in esame il caso più generale di una travatura ad altezza va-
riabile considerando nelle varie membrature concentrate il materiale lungo il loro asse,
per cui #' —= &=4H. Gli sforzi agenti nelle nervature per lo scomparto generico
m — 1°r° sono dati ($ 4) da
MES
0 Mn _ it Mn 1 a 67
= = —— ‘sec. a
SOA 080 lim — * Ù
Moe
Re
i RE 00 rin a
9
Se si confronta la trave quadrangolata colla trave primitiva corrispondente a pa-
rete piena, l’azione verticale esercitata in una sezione sulla parete di collegamento fra
le nervature si compone della somma algebrica dello sforzo di taglio F colle compo-
nenti verticali dei due sforzi O ed UV agenti nelle nervature. Se questa risultante si
indica con ®, nel campo generico m — 1°ÎN° si ha
M, !
M + M E 9
i. SME n (tea + to lele toa + 188»)
ri Mm a nia ne ho mM 8n 7 ha bi E hy (MIO) 28,
od anche
I
® — n _ Mm + Mm lim —hm-r_ gr ao Mm_2 I A LEE
m m hay ER hm 7 m Le) CE Ces DE RZ
In ogni scomparto compreso fra due montanti successivi /,, ha valore costante,
perchè i carichi si suppongono concentrati in corrispondenza ai montanti, quindi anche
®,, è costante, e perciò, nell'ipotesi di riferirsi alla trave primitiva a parete piena e
che io sforzo tagliante, come si usa ammettere in via ordinaria, sia distribuito uni-
formemente nella sezione A della parete verticale, per cui sì verifichi la relazione
D
Prov = Pra — A
ROAARI + (i FORA
sì ricava immediatamente pel tronco di trave compreso fra gli assi di due montanti
successivi, come valore del momento resistente alla distorsione,
ma fa x fab, = la MA = DIA
Questa stessa formula, ricordando che per le grandi travi
co=l=" I=-0HF°,
può dedursi anche dalla formula
Ira fd fr (nl BOE Alana
Sostituendo a D,, il suo valore, si ottiene per 4 = 4,
M, My
Wi o = D,, 05 MF Mr — RS (fm Dr Wim e ) =
Rana la
IVES pes 1
Lhc en )
tana m mm Dan RE [oa 15 Mm m_ 1
e quindi lo sforzo tangenziale risultante medio sarà dato da
Wim A D) Ito, lia
“= === =
i La Zante Nm Nn ‘ogg Tm
9 Min Lair Mm Tm =—ù Rm = 9 Dn Nr
him 14 Ra Am A Rp Pola 0
Se si indicano con 7, e 7, gli sforzi taglianti riportati alle estremità superiore
ed inferiore dei due montanti limitanti lo scomparto # — 1°""° sarà
DI m
adi
7 + dh, 5 sa
Dm (P=- IC a
e ritenendo accettabile che sia
/ I
I 105 i ea WI 0%
sì ricava immediatamente
I ( Jin al to a)
us
SOR
od anche, sostituendo a 7°, il suo valore,
1 À
T' == D, OXA
ATTO hg
1 V)
T'! = (()) e
m D m 5
Da queste relazioni, ritenendo in conformità a quanto si verifica ordinariamente
nella pratica,
l
ii =i=3z Mida ricava
I vr 1 À i
CREATE dm +1) eta
2llm m
E I À
UT URTI, lm = (0 Am + Bn 1 An i )=T (0 + a)
1
ASA
2
1 1
A ml dr P,, À
mn 4 4
TI '
Um Vin PUn+i
Alle estremità del montante agiscono in senso verticale lo sforzo esterno ivi ap-
plicato più la componente verticale degli sforzi agenti nelle nervature che vi concor-
rono. Se la risultante verticale di queste azioni si indica con Y all’ estremità supe-
riore sarà
VG, + 1 Mm = i
VEIL 18m + 78m
Py + Nim ici
2 2
e a quello inferiore
My + I Mm = L
wu (2A SS n 2
Ym = Pn + te0mea i 115 0m
Rm 5 5 (055 paia
Lo sforzo assiale nel montante, ritenendo al solito il coefficente di rigidità è uguale
1
ad un mezzo (5) sarà dato da
aa —
Se la trave, invece che ad altezza variabile, fosse ad altezza costante H, allora
a=B =0 e le formole superiori si cambiano in quelle ricavate direttamente nel
numero precedente per la trave quadrangolata ordinaria ad altezza costante. Infatti
8. Le formule trovate nel numero precedente servono a calcolare gli sforzi agenti
nelle membrature di una travatura quadrangolata a montanti verticali incastrati e coi
carichi concentrati in corrispondenza dei montanti, sia essa ad altezza costante o va-
riabile. Per le stesse ragioni esposte al paragrafo sesto parlando delle travature ad
altezza costante, esse conducono a risultati aventi lo stesso grado d’approssimazione che
si ottiene nelle travature reticolari ordinarie applicando la teoria usuale basata sulla
considerazione che se la trave è in equilibrio, debbono essere in equilibrio anche tutte
le sue parti, cioè o i nodi di concorso, oppure una porzione staccata con una sezione
che tagli non più di tre membrature incognite. La differenza fra i valori forniti dalle
formule del numero precedente e quelli ricavati dalle espressioni complesse ottenute
dall’ing. Vierendel nella memoria citata, applicando il metodo degli spostamenti
alla risoluzione generale del problema iperstatico dell’equilibrio di una travatura qua-
drangolata non arriva mai al 10% ed è quasi sempre notevolmente inferiore, per cui
(0)
il metodo proposto è accettabile nella pratica. Confrontando i valori ottenuti dall’ ing.
Vierendel con quelli che si ricavano da queste formule rimane verificato 1° asserto
come è stato dimostrato con un esempio numerico al paragrafo sesto.
Il calcolo delle sezioni resistenti pei montanti e per le nervature si fa, applicando
le formule convenienti alla sollecitazione complessa nel modo indicato per le travature
ad altezza costante al paragrafo sesto.
9. È interessante osservare che il metodo abbreviato di calcolo proposto riposa
essenzialmente sulla determinazione degli sforzi Q@ agenti come sforzi taglianti trasver-
salmente ai montanti nelle loro sezioni d’attacco ad incastro colle nervature superiore
ed inferiore. Lo sforzo @ nelle travi ad altezza costante è esattamente uguale alla se-
misomma degli sforzi 7° negli scomparti di sinistra e di destra adiacenti al montante
considerato, nelle travature ad altezza variabile invece è uguale alla somma, delle
azioni T"' e T" agente a sinistra ed a destra del medesimo, somma che necessariamente
Sp ed
differisce pochissimo dalla semisomma dei valori 7° dai quali dipendono 7" e 7". Se
si richiamano le formule che danno 7, e 7.
Mm 1
2 DT M, ! pai
D,,, A 24 mio
Goa = mm ea Mm Ho ud CR MAIO, (e Cr, DE te 8»)
(0%) —- l + 0 Ora — 1 = HE, Voga 22 == li
da ci e; RI
Ta =D Se ||) =2 IL: Fd te (ta + t90m )
Se
n H Hm-3
(AS)
Dna
AM IRA MEDA
ANG = maine ia RM ID
1 D D
O=7 (AM, i+ AMm) = gp (Mmir — Mm) = 570
== ==
(9
/EL
D
(2m inn) = 7A
Vin lierna Day Pan
’ i D D
a (fmi Mm) =
i TIE
Se si ha cura di prendere D in modo che H sia un numero intero, il calcolo
grafico riesce semplicissimo e speditivo.
Quando la trave quadrangolata è ad altezza variabile, il procedimento grafico di
calcolo diventa alquanto più complesso. Disegnato, come precedentemente, lo schema geo-
metrico della trave AB ed il poligono delle forze e funiculare (A, B, C€,) relativo ai
carichi concentrati in corrispondenza ai montanti (Fig. 6), si tracci il diagramma A, 8, 0,
degli sforzi
costruendo per ogni ordinata 7,,_! una quarta proporzionale dopo D ed %,,_*,epei
9 9
n
punti a, !si conducano le normali alle membrature di contorno comprese fra 1’m — 1*8!M°
9
&
e 1° ®© montante ad incontrare in d,, _! e c,_! le orizzontali condotte per d,, _ 4
9 9 9
O,n = An = : Ora = 1 Un = Am = i Cn = 2
lefditferenze polo CT I eee ao on E
2 2 2 7
Costruendo i poligoni di equilibrio per ogni nodo (Fig. 7) sì ricavano, come è già
stato indicato, i valori di Y}, ed Y% e quindi anche i valori di V,,, non che un se-
gmento proporzionale a @,, che dovrà essere uguale, come verifica delle operazioni fatte,
a 1_ su;
Cm +3 Cm}
Nella figura la costruzione è stata indicata per m = 4.
ed
emorie, - Serie Vil. Tomo Ill. 1915-16.
M
S. CanEvazzi. — Metodo abbreviato di calcolo per le travi quadrangolate ecc.
i
e ee ra
Pini Si
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9
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Qi fn Pa I È (Eee De iu “
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n
« Fis
x A . 9 09)
5 3
RICERCHE SPERIMENTALI SULL’ IPERTHY-
REOSIS E L'ATHYREOSIS È SU ALCUNE
AZIONI DELL’ADRENALINA.
MEMORIA
DEI,
Prof. PIETRO ALBERTONI
letta nella Sessione del 16 Gennaio 1916.
(con 16 riGurE).
1. Eccitabilità del vago nell’ ipertiroidismo.
Le esperienze di Cyon hanno dimostrato che la tiroide, e con essa 11 suo prodotto
speciale la iodotirina, esercita un’ influenza regolatrice sull’ eccitabilità dei nervi cardiaci
vago e depressore, e precisamente nel senso di aumentare la loro eccitabilità. I risultati
di Cyon vennero confermati da Boruttau, da Ocafia, da Besmertuy, da Kraus
e Friedenthal], da Coronedi (1) ed i risultati negativi di alcuni autori non possono
distruggere il valore di quelli positivi.
Lo stato di eccitabilità del vago nell’ ipertiroidismo non venne, per quanto mi è
noto, esaminato finora con speciali esperienze nel cane e nel coniglio. Nelle nostre
esperienze il grado di eccitabilità venne misurato colla slitta di Kronecker animata
da pila termoelettrica di 3 volts, o da 2 elementi Daniell, partendo dalla conoscenza
sperimentale delle unità di detta slitta necessarie a produrre 1° arresto del cuore, che
è di 500 Unità per il coniglio e di 100 Unità per il cane.
Riproduco alcune grafiche dalle quali risulta che 1 eccitabilità del vago è molto
diminuita, o spenta, specialmente quando la somministrazione della tiroide viene pro-
lungata a lungo e spinta ad alte dosi, quali sono necessarie a produrre veramente
l’ ipertiroidismo. In precedenti ricerche di altri autori sull’ argomento dell’ ipertiroi-
dismo le dosi impiegate erano troppo basse, il che spiega certi risultati negativi.
L’ esperienza 1* si riferisce ad un cane di circa un anno, sano, robusto, del peso di
Kgr. 7,600 al quale si cominciò a somministrare la tiroide il 17 Novembre 1913, dopo
un periodo di osservazione e tenendolo ad una dieta di carne cruda gr. 53,20, pane secco
gr. 152, strutto gr. 30,4, divisa in due parti eguali somministrate alle 8 del mattino e
alle 17. Si è continuata !a somministrazione di tiroide fino al 16 Febbraio 1914, aumen-
(1) Coronedi Giusto, Stimoli fisici e veleni del vago studiati sopra animati privi di apparec-
chio tiroparatiroideo. Arch. Intern. de Pharmacodynamie Vol. 23° fas. 5 e 6, 1913,
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 3
So (a
tando la dose da 2 a 10 gr., poi a 20 a 30 ed a 40 gr. ed in fine fino a 90 e 100
gr. di tiroide bovina fresca. I cangiamenti di peso, di frequenza del polso e del
respiro furono in breve i seguenti :
Data Peso Pulsazioni Respiro ‘l’iroide Osservazioni
30 Ottobre 1913 7,600 = _ —
3 Novembre » 7,400 110 22 _
197 » » 7,850 == = 0,10
24 » » 7,650 = = 0,50
28 » » 7,550 120 = 2,00
1 Dicembre » 8,000 158 — 2,00
a) » » 7,150 180 Nar 10,00
15 » » 7,800 216 40 20,00 Respiro irregolare
31 » » 7,700 196 RT 30,00
7 Gennaio 1914 7,400 190 47 30,00
15 » » 7,400 208 32 40,00
31 » » 6,550 140 34 40,00
3 Febbraio » 6,600 174 41 40,00
15 » » 6,300 192 25 100,00
Il 16 Febbraio si fa l’ eccitazione del vago, la temperatura rettale è 39,2.
La pressione è piuttosto bassa 126 millim., forse per diminuzione del tono vaso-
motorio; la frequenza del polso è di 35 in 10", si mantiene inalterato per eccita-
zione con 100 e con 400 U., scende una volta a 22 in 10' quando si eccita con 800 U.
L’ iniezione di adrenalina non ha prodotto il caratteristico rallentamento iniziale
del polso, per cui si conferma la perdita dell’ eccitabilità del centro del vago e del
depressore. La pressione sanguigna aumentava, però in grado minore dell’ ordinario.
Successivamente anche il taglio dell’ altro vago non ha prodotto nessun aumento nè
della pressione, nè della frequenza, ulteriore conferma della perdita del tono del vago.
16 Febbraio 1914. — Cane ipertiroidato, di Kg. 6,150. Manometro a Hg. nella carotide
sinistra. Vago sinistro (V.S.) isolato e tagliato. Vago destro (V.D.) intatto. Eccitamento del vago
con corrente faradica misurata in unità della slitta Kronecker. Ordinariamente l’arresto si ottiene
con uno stimolo di 100 unità.
AILORA, VARSE
700
PAG
Fig. 1. Stimolo del vago sinistro (V.S.) da + a + con 300 unità.
Fig. 2. Id. id. con 400 unità.
NAVA è V. SE
“
TITTI Sinai o nati tenne e een
Fig. 3. Id. id. con 800 unità.
Li PT NI BET IMAA POS IO VD TRE I E TI MI
Fig. 4. Id. id. con 1000 unità.
id V.D. imlollo
800 «.
se i om
140 no Nitatia
720
Too |
LAZ,
70
Fig. 5. Id. id. del vago destro intatto con 800 unità.
720
l00
VAL
Fig. 6. Dopo avere tagliato anche il vago destro si stimola questo con 800 unità.
Il cane dell’ esperienza II era una femmina di 9 mesi alla quale venne sommini-
strata tiroide bovina fresca dall’ Aprile 1914 al 2 Maggio, seguendo il decorso del
peso, del polso, del respiro, della temperatura e il contegno dell’ animale.
Data Peso Pulsazioni Respirazioni l'emperatura ‘l'iroide
vaginale somministrata
23 Febbraio 1914 7,300 = 30 == =
1 Marzo » 6,700 132 219) -— —
10 » » 6,900 az 33 38,83 —
31 » » 6,400 110 30 38,6 =
7 Aprile » 6,500 101 38 38,7 10
15 » » 6,300 178 58 39,0 PAD)
ZO » 6,300 188 44 _ 50
749) » > 6,000 RRR ig — 80
30 » » 5,600 220 138 40,2 100
1 Maggio » 5,500 238 83 — 105
È » » 5,500 192 84 41,3 107
n=
In questo cane la pressione non era bassa, con 100 U. si ebbe rallentamento del
polso, più spiccato con 200 U. e completo arresto con 300 unità.
2 Maggio 1914. — Cagna ipertiroidata di Kg. 5,500. Manometro a Hg. nella carotide sinistra.
Vago destro tagliato. Eccitamento del vago (V.D.) con corrente faradica misurata in unità della
slitta di Kronecker. L’ intensità ordinaria per l’arresto del cuore è di 100 unità.
Fig. 3. Id. id. con 100 unità.
TI
s900n.
V.D.
Do 200 Www
V
780
DI Biol [Tm
/20 i I
700
Lo
60
so
4"
Fig. 4. Id. id. con 200 unità.
amm. VD.
E 00 4.
1760 |
/50
720
Zoo
Po
60
40
ui \
Fig. 5. Id. id. con 800 unità.
DIDO
24 Luglio 1915. — Cane ipertiroidato di Kg. 6,900. Manometro a mercurio nella carotide
destra (l’animale aveva da tempo legata la carotide sinistra) Vago sinistro isolato e tagliato,
Stimolando questo con correnti faradiche di 500 unità della slitta di Kronecker si ha l’ arresto
completo del cuore. Si taglia anche il vago destro: la pressione si innalza molto e si mantiene
sopra i 200 mm. di Hg.
Si stimolano comparativamente i due vaghi senza notare differenze di eccitabilità
00
Fo
ef LINA RA E e ES A tr SL RA A
Fig. 1. Stimolo del vago destro con 500 unità.
(o i fata
A
(£0 si
‘60
/$0
Ti
Td
Fig. 2 Id. id del vago sinistro con 500 unità.
7 Giugno 1915. — Coniglio ipertiroidato. Peso iniziale gr. 2940. — Dopo 14 giorni di
alimentazione tiroidea il peso del coniglio é disceso a gr. 1988 (tiroide somministrata da 5 a 10
gr. al giorno; in totale gr. 85 di tiroide fresca e gr. 5 di tiroide secca). Manometro a Hg nella
carotide sinistra; slitta di Knonecker con pila termoelettrica di 3 volt.
Vago sinistro tagliato Eccitamento del moncone periferico con corrente faradica di 500
(Fig. 1.), 800 (Fig. 2), e 1000 unità (Fig. 3). Pressione media mm. 188. Nel coniglio normale lo
stimolo di 500 unità suole dare costantemente 1’ arresto cardiaco.
E Suo
Oi
Nel coniglio ipertiroidato non ebbesi un arresto completo neppure con 1000 unità.
Le differenze individuali sono molto spiccate come si osserva anche per l’ aspor-
tazione delle tiroide.
Le piccole dosi del secreto della tiroide e delle paratiroidi aumentano |’ eccita-
bilità del vago cardiaco, le grosse dosi la diminuiscono. Una diminuzione si nota
anche in seguito all’ estirpazione della ghiandola.
2. Fenomeni e modificazioni chimiche nell’ ipertiroidismo.
I nostri animali presentavano i caratteristici fenomeni dell’ ipertiroidismo, cioè
dimagramento, alta frequenza del polso, del respiro e aumento della temperatura. No-
tevole in questi animali la sete intensa e 1’ aumento della diuresi.
La tachicardia venne nel nostro Laboratorio osservata da "'livoli quale fenomeno
costante nei cani, e la frequenza del polso raggiunse anche il doppio del normale,
specialmente con le forti dosi di tiroide. La tachicardia va mano mano crescendo e
facendosi costante continuando la somministrazione di tiroide. Invece nel coniglio, Sega
non ha notato tachicardia : in quest’ animale il tono del vago è debole. La differenza
delle dosi impiegate e degli animali rendono ragione dei risultati contraddittori degli
Autori su quest’ argomento.
La tachicardia venne attribuita ad aumentato tono del simpatico, ma può attri-
buirsi a perdita del tono del vago come risulta dalle nostre esperienze.
La frequenza del respiro subisce un aumento talvolta lieve, ma talvolta si sono
raggiunte dispnee intensissime, simili a quelle che si vedono anche dopo l’ estirpazione
della tiroide. Anche il ritmo si altera e si fa irregolare.
L’ipertermia in vario grado si osserva per le grosse dosi di tiroide e per la pro-
lungata somministrazione ; si è avuto un aumento di 1 a 2 gradi sulla temperatura
normale. La dispersione del calore è molto aumentata.
Come Krause e Crawer, Zarubin ed altri abbiamo veduto una poliuria anche
di grado intensissimo, accompagnata da sete intensa; un cane bevve anche più di
1500 cc. d’ acqua nelle 24 ore, mentre nel periodo normale beveva come i cani della
sua mole circa 200 cc. al giorno come massimo,
La quantità di orina si mostrò notevole, in media 700-800 cc., e fino 1200 cec.,
di basso peso specifico (in media 1008-1010), di reazione alcalina, probabilmente per
presenza di ammoniaca.
La glicosuria è un fenomeno frequente. L’ eliminazione azotata si trovò pure note-
.
i
volmente aumentata ; in un cane con una introduzione giornaliera di azoto corrispon-
dente a gr. 8,38 si ebbe colle urine una eliminazione di gr. 8,93 dapprima; poi di
lO di 0-0bp finota 13,31.
I fenomeni di tremore ed agitazione che Zarubin vide in due dei suoi malati,
che furono riscontrati da Carlson e Rooks, vennero pure osservati da Tivolie da
Serie VII. Tomo II. 1915-1916. 4
Siglo oa
Sega nei cani e nei conigli, ai quali si somministrava solo tiroide fresca, enon pos-
sono quindi essere considerati come afferma Cunningham quali fenomeni tossici
dovuti a prodotti di decomposizione.
Le modificazioni trofiche chimiche in questi cani ipertiroidizzati vennero studiate
con molta precisione nel mio Laboratorio dai Dott. Tivoli e Sega.
La percentuale di acqua nel sangue presenta di solito un forte aumento e così
quella del fegato e del rene, sebbene in grado minore. Nel tessuto muscolare invece
prevale una diminuzione della percentuale di «acqua. Il cervello presenta anche in
questo caso una notevole costanza nel contenuto di acqua rispetto agli animali di
controllo.
Lo stato di idroemia nell’ ipertiroidismo deve dipendere dalla enorme quantità di
acqua ingerita dagli animali, acqua che nonostante la poliuria è anche trattenuta
dall’ organismo; dal consumo di grasso del corpo ed in parte anche da sottrazione
d’ acqua al tessuto muscolare. Quando lo stato di ipertiroidismo va gradatamente
progredendo fino a dare la morte dell’ animale, si osserva che 1° idroemia va progres-
sivamente scemando e così pure la disidratazione del tessuto muscolare.
Nel fegato si osserva un aumento costante della percentuale azotata del residuo
secco, (2,31%); siccome contemporaneamente diminuisce e quasi scompare il glicogeno,
questo vale a spiegare l’ aumento relativo della percentuale azotata. L’ aumento sì
verifica anche in grado minore nel tessuto muscolare e nel rene; si ha poi lievissima
diminuzione nel sangue, nessuna modificazione nel cervello.
Esiste una diminuzione quasi costante dell’ estratto etereo nel tessuto muscolare,
che va da 2,/6%/ fino al 4,38%, in grado minore nel tessuto renale 1,80% al
3,10 ° o Aumentato invece appare |’ estratto etereo, nel sangue e nel cervello.
Mentre il glicogeno, diminuisce o scompare nel fegato; subisce poche modificazioni
nei muscoli.
3. Sostanze ipotensive nel sangue di animali stiroidati.
Nei cani ipertiroidati la pressione sanguigna venne trovata talvolta bassa, al dì
sotto del normale. Si poteva quindi pensare che in seguito all’ estirpaziona delle
tiroidi si accumulassero nel sangue delle sostanze ipertensive. Allo scopo di chiarire
questa quistione ho iniettato a cani normali alcuni ce. di sangue defibrinato prove-
niente da un cane che presentava i noti fenomeni dell’ atiroidismo. In seguito a detta
iniezione ebbesi invece un abbassamento di pressione, come si può vedere nelle
seguente esperienza che riferisco per intero.
Cagnetto sano di Kgr. 4,300: il 26 Marzo 1913 si estirpa la tiroide, il 5 Aprile
presenta rigidità, tremori, congiuntivite, trisma, grande diminuzione di peso fino a
Ker. 3,500. Si è sacrificato cavando il sangue dalla carotide e defibrinandolo.
Venticinque ce. di questo sangue defibrinato vennero lentamente iniettati nella
PIRATI SD, le
giugulare di un cane robusto, sano di Kgr. 9,500 nel quale prima si era preso un
tracciato normale col chimografo.
Pressione normale massima 160-170, minima 140, frequenza del polso normale 40
battiti su 30 mm. del tracciato.
Dopo l’ iniezione del sangue quasi immediatamente si produce abbassamento rapido ad
un minimo di 94 millim. pressione, le oscillazioni sistoliche sono molto piccole, le oscil-
lazioni respiratorie molte ampie; dopo un rialzo della pressione a 130 si ha un trac-
ciato regolare, pressione massima 138 minima 130, frequenza in 30 millim. 39
pulsazioni. Solo dopo parecchi minuti la pressione ha raggiunto un massimo di 150-155,
frequenza 25 ‘pulsazioni in 80 millim.
Il tracciato è simile a quello ottenuto da Schafer (1) per l’ iniezione nelle vene
di estratto di tiroide.
Negli animali privati di tiroide non si aumentano adunque, e non prevalgono, le
sostanze ipertensive, ma invece si ha un effetto opposto che può anche dipendere da
accumulo di sostanze tossiche, finora indeterminate. Questi risultati vengono a confer-
mare le osservazioni di Eppinger, Falta e Rudinger i quali hanno veduto che
dopo |’ estirpazione della tiroide manca quasi del tutto non soltanto l azione glico-
surica dell’ adrenalina, ma anche quella ipertensiva.
4. Influenza della specie e dell’ età nella tiroidectomia.
Io ho negli anni decorsi e fino dal 1911 fatte esperienze nella capra, nella pecora
e in agnelli sugli effetti della tiroidectomia in detti animali, avendo osservato 1’ esi-
stenza di varie contraddizioni negli autori.
La pubblicazione di Sutherland Simpson (2) sull’ argomento ha veramente portato
molta luce; e le mie esperienze servono ad ulteriore illustrazione dell’ argomento. Sim p-
son riferisce che l’ estirpazione della tiroide e delle paratiroidi interne non produce
disturbi nel montone adulto, o nell’ agnello che abbia passato i sei mesi, mentre la
stessa operazione praticata su agnelli di due mesi produce un cretinismo tipico.
La tiroparatiredoctemia totale non ha prodotto nell’ adulto nessun sintomo per la
durata delle osservazioni (tre o quattro mesi); ma negli agnelli di cinque o sei setti-
mane, questa stessa operazione ha rapidamente provocato un tetano acuto e fatale.
In agnelli colpiti da cretinismo in seguito all’ estirpazione delle tiroidi e delle
paratiroidi interne dell’ età di 2 mesi Simpson ha tentato, quando ebbero un anno
di età, l’ estirpazione delle paratiroidi esterne. Quest’ operazione non produsse che
leggieri disturbi.
Io ho praticata più volte l’ estirpazione delle tiroidi e paratiroidi nelle capre e nelle
pecore tenendole in vita per mesi senza osservare disturbi e neppure dimagramento. In una
(1) Edward A. Schàafer, The Endocrine organs pag. 35. London 1916.
(2) Sutherland Sympson, Quarterly Jour. of experiment. Physiol. Vol. VI. N. 119. 1913.
el i
capra operata nel Febbraio e uccisa nel Luglio 1911 non si è trovato traccia di
tiroidi all’ origine dell’ aorta od in altre località. La pituitaria era molto grossa.
Una pecora nera del peso di Kgr. 37,500 venne operata di paratirodectomia il
25 Luglio 1911 ed ha poi sempre mangiato con voracità senza presentare disturbi,
il 31 Ottobre ha partorito un agre/lo bianco, robusto, svelto che mangia bene e pesa
gr. 3100. Il 15 Dicembre sta bene, mangia erba e pesa Kgr. 8,600, globuli rossì
7,200,000. Si esportano tiroidi e paratiroidi da ambedue i lati.
19 Dicembre. L’ agnello mangia e sembra in buono stato, ma oggi dopo una corsa
è stato preso da grave dispnea, ed era diventato cianotico.
25 Dicembre. Oggi ha avuto un vero accesso di tetania, era caduto in preda a
tremori, con arti rigidi in tetano e grande dispnea : l’ accesso ha durato due ore.
12 Giugno 1912. Continua una grande frequenza e difficoltà di respiro, 1° animale
mangia poco, è abbattuto, pesa Kgr. 6, il sangue è nero, asfittico nella carotide.
In un’ altra pecora bianca compagna della precedente del peso di Kgr. 36 si é
praticata il 26 Luglio 19) la paratiroidectomia senza notare mai disturbi durante
sei mesi di osservazione, il peso corporeo era cresciuto a Kgr. 42,600, Lo stesso si
deve: ripetere per una grande capra nera di Kgr. 56,500 che crebbe in sei mesi
a Kgr. 69.
In un agnello bianco, maschio di Kgr. 9,300 e di giorni 22 si estirpano il 29
Maggio 1912. le tiroide e paratiroidi. Il 21 Giugno pesa Kgr. 11,000 sembra un
po’ depresso, l’° incesso è incerto, mangia con voracità.
Il 10 Ottobre 1912 si nota una certa depressione fisica e psichica, incesso incerto,
l’ animale non cresce e non ha vivacità rispetto all’ altro sano, mangia. Ha alterata
la voce quando bela. Il 13 Ottobre ebbe un accesso di tetania con respirazione fre-
quente, pesa Kgr. 15,500. In seguito si osserva intelligenza molto diminuita, respi-
razione difficile, ventre gonfio.
Lo stesso giorno 29 Maggio 1912 un altro agnello bianco di Kg. 9,800 e di
giorni 22 d° età, simile al precedente venne sottoposto alla tiredectomia. Il 21 Giu-
gno pesa Kgr. 11,900; sembra fiacco. Il 16 Ottobre 1912 è cresciuto ancora in peso,
mangia, ma ha intelligenza poco sveglia.
Il 18 Dicembre pesa Kgr. 17,300 è poco svelto e poco intelligente, incantato,
imbecillito, con collo grosso; non sembra debole.
Dobbiamo concludere che nella capra e nella pecora adulta non sì presentano feno-
meni morbosi per l° estirpazione delle tiroidi e delle paratiroidi, continua 1)’ accre-
scimento in peso e la produzione del latte. Il prof. Ruffini ha trovato all’ esame
istologico normali il fegato, i reni, il midollo spinale, 1’ ipofisi e le capsule surrenali.
Invece negli agnelli giovani si hanno fenomeni di tetania, dispnea, o fenomeni di
cretinismo, talvolta tardivi: può continuare l’ accrescimento in peso e gli animali soprav-
vivono a lungo, a differenza di quanto si osserva nei carnivori. L’ importanza funzio-
nale di queste ghiandole appare adunque minore in detti erbivori anche in rapporto
al mantenimento della vita.
5. Emorragie cerebrali da adrenalina.
Emorragie cerebrali in seguito ad iniezioni di adrenalina vennero descritte da
Er} junior (1) e da altri autori. Sembra che 1° adrenalina abbia poca azione sur vasi
del cervello vi dovrebbe quindi avvenire che sotto | azione della medesima la massa
sanguigna si spostasse verso le carotidi. È certo che le ripetute iniezioni di adrena-
lina possono dare emorragie cerebrali, il fatto non è naturalmente costante e questo
fa ritenere che possa stare in rapporto colla resistenza e collo stato dei vasi. Io rife-
risco un tipico esempio.
Il 10 Maggio 1911 in una cagnetta sana di 5 Kgr. si è applicato il chimografo
ed ottenuto un tracciato normale si iniettava per la giugolare 1 cc. di soluzione del
cloridrato di adrenalina Clin 1/5 @ SÌ aveva uno straordinario aumento di pressione
di 100 e più millim. Hg, e aumento di frequenza del polso. Dissipatisi in alcuni
minuti gli effetti di quest’ iniezione, si ripeteva con un altro cc. e si aveva lo stesso
innalzamento di pressione ed aumento della frequenza del polso, che poi scomparivano.
Slegato il cane e messo a terra si vide che non si reggeva sulle gambe, tentava
di camminare ma cadeva specialmente a destra e sbatteva continuamente il capo sul
suolo senza risentirsi e come incosciente. Questi fenomeni continuarono per alcuni
giorni, poi si mitigarono, ma rimase la tendenza a cadere sul lato destro.
Ma verso la metà di Giugno il cane presentava una paraplegia quasi completa,
solo di quando in quando e incompletamente riusciva a reggersi cogli arti posteriori.
Abbiamo quindi sacrificato il cane. Il cuore e i vasi sembrano sani, così il cer-
vello e il midollo all’ ispezione, ma sezionato il cervello, abbiamo trovato a sinistra
nella regione optostriata una cavità della grandezza di una nocciuola evidente residuo
di focolaio apoplettico, come risulta anche dalla fotografia presa.
CONCLUSIONE
L’ eccitabilità del vago cardiaco nell’ ipertiroidismo è molto diminuita, o spenta,
specialmente quando la somministrazione della tiroide venne prolungata a lungo e
spinta ad alte dosi, quali sono necessarie a produrre veramente |’ ipertiroidisimo. Mentre
nel coniglio normale lo stimolo di 500 unità, slitta di Kronecker con pila ter-
moelettrica di 3 volts, suole dare costantemente 1° arresto cardiaco, questo non si pro-
duce nel coniglio ipertiroidato con 800 unità, ed anche con 1000 riesce dubbio. Nel
cane l’ arresto sì ottiene ordinariamente con uno stimolo di 100 unità, e nel cane
ipertiroidato può mancare con 800 unità.
(1) Erb W., jun, Ueber Gehirnblutungen bei Kaninchen nach Adrenalinjektionen. Ziegler’ s Beitr.,
Festschrift fur J. Arnold, ps. 500, 1905.
Cares ica)
Vi sono differenze individuali spiccate come sì osservano spesso anche rispetto agli
effetti dell’ estirpazione della tiroide.
Si può concludere che i prodotti secreti dalla tiroide e paratiroide esercitano una
notevole influenza sull’ eccitabilità del vago cardiaco; le piccole dosi 1° accrescono e
le grandi dosi la scemano o l’ aboliscono.
Sono fenomeni caratteristici dell’ ipertiroidismo la tachicardia, il dimagramento, la
frequenza del respiro, l’ aumento della temperatura, la poliuria, la sete intensa, 1° agi-
tazione, i tremori, la glicosuria, 1° iperazoturia. Questi sono gli stessi fenomeni che si
osservano nella malattia di Basedo w, per cui viene appoggiato il concetto che detta
malattia dipenda da esagerata funzione della tiroide.
I tessuti presentano in questi cani ipertiroidati modificazioni trofiche chimiche.
Quasi costante è un forte aumento della percentuale di acqua nel sangue, nel fegato
e nel rene a cui fa riscontro una diminuzione nel tessuto muscolare. Nel fegato si
osserva un aumento costante nella percentuale azotata del residuo secco, mentre dimi-
nuisce e quasi scompare il glicogene. Il cervello anche in questo caso conserva la
costanza della propria composizione sia in riguardo all’ acqua, che alla percentuale
azotata.
Dopo 1’ estirpazione delle tiroidi si accumulano nel sangue delle sostanze ad azione
ipotensiva.
Nella capra e nella pecora adulta non si presentano fenomeni morbosi per 1’ estir-
pazione dell’ apparecchio tiroparatiroideo, continua 1’ accrescimento in peso e la pro-
duzione de! latte; non si trovano modificazioni degli organi all’ esame istologico. Invece
negli agnelli giovani si hanno fenomeni di tetania, dispnea, o fenomeni di cretinismo,
talvolta tardivi; può continuare |’ accrescimento in peso e gli animali vivono a lungo,
a differenza di quanto sì osserva nei carnivori. L° importanza funzionale di queste
ghiandole appare adunque minore in detti erbivori anche in rapporto al mantenimento
della vita. |
Sembra che 1° adrenalina eserciti poca azione sui vasi del cervello per cuì può
aumentare la pressione nei medesimi e determinare emorragie. Certo per ripetute inie-
zioni intravenose di adrenalina si può avere una vera apoplessia cerebrale, un’ emor-
ragia nella regione optostriata.
SULLA COMPOSIZIONE E SOLUBILITÀ
DEL CARBONATO ACIDO DI CALCIO
NOTA
DEL
Pror. ALFREDO CAVAZZI
letta nella Sessione del 9 Aprile 1916.
Composizione del carbonato acido di calcio
Nel titolo della presente pubblicazione ho usato | espressione generica e indeter-
minata di carbonato acido di calcio per indicare il sale che si forma quando il carbo-
nato neutro si discioglie in acqua più o meno ricca di acido carbonico, e che la grande
maggioranza dei chimici suole specificare col nome di dicardonato, assegunandogli la
formola Ca(HCO,),. i
Che tale sia la composizione del carbonato acido di calcio è cosa assai probabile,
ma non confortata e dimostrata, che io almeno sappia, da prove sperimeutali più va-
lide e convincenti dei semplici fatti di analogia con altri carbonati e in particolare
coi carbonati alcalini.
I dubbi che rimangono intorno alla composizione del carbonato acido sono di-
chiarati nelle memorie originali di parecchi autori, nei Dizionari e nei Trattati di chi-
mica, non escluso quello di Chimica Minerale del Moissan pubblicato nel 1904. A
pagina 581 del volume 3° di quest’ opera si legge « Le soluzioni di carbonato di
calcio nell'acqua carica di acido carbonico contengono verosimilmente del bicarbonato
in istato di dissociazione. La formola presunta di questo corpo è Ca(HC0,),».
Il Bineau nella sua pregevolissima memoria « lRemarques sur les dissolutions
de quelques carbonates et notamment du carbonate de chaua » comparsa negli Annales
de Chi. et Phy. del 1857, non nega, per considerazione di analogie chimiche, che il
nuovo sale che si forma, agitando il carbonato neutro con acqua più o meno ricca
di acido carbonico, sia il bicarbonato, ma soggiunge subito dopo « tuffavia non bi-
sogna perdere di vista che la proporzione di carbonato di calce che ammette l’acqua
fortemente 0 mediocremente carica di acido carbonico non può bastare alla composi-
zione di un bisale ». Della stessa opinione, secondo il Bineau, era pure il Lassaigne.
Se io non bo mal interpretato il loro pensiero, i due valentissimi chimici non
considerarono che agitando, non abbastanza lungamente, della polvere di carbonato neutro
con acqua più o meno ricca di acido carbonico, oppure facendo passare una corrente
di CO, nell'acqua di calce diluita, la soluzione prodotta in un caso e nell’altro contiene
ad un tempo carbonato acido di calcio e acido carbonico libero.
SE ZA
Partendo da questo semplice concetto venni nella persuasione che sarebbe stato
. possibile e facile il dimostrare sperimentalmente e in modo convincente la vera com-
posizione del carbonato acido di calcio, cominciando coll’eliminare dalla soluzione tutto
l'acido carbonico libero con aggiunta di acqua di calce, e determinare poscia nella
soluzione filtrata, in cui rimane il solo sale acido, il rapporto in peso fra la calce e
l’ anidride carbonica. A questo fine ho immaginato e applicato i due primi metodì se-
guenti, colla piena speranza di non fare inutili tentativi, perchè, prima di arrivare a
produrre un lieve intorbidamento stabile di CaCO, in una soluzione limpida non troppo
concentrata di carbonato acido e ricca di acido carbonico libero, bisogna aggiungere
ad essa, come dirò appresso, un volume forte di acqua di calce, laddove lo stesso ef-
fetto, in virtù della lieve solubilità del carbonato neutro, si avrebbe con piccola ag-
giunta di acqua di calce, allorchè questa base reagisse prima sul carbonato acido, an-
zichè coll’ acido carbonico libero per generare nuovo sale acido.
PRIMO mEroDO -— Introdussi in bottiglia di vetro, munito di tappo smerigliato e
della capacità di 3 litri circa, 600 cme. di acqua di calce pura, preparata di recente
e satura a temperatura ordinaria, poi 600 cme. di acqua distillata, e nella soluzione
così allungata feci passare una corrente molto rapida di CO,, derivata da una bombola
contenente il gas a forte pressione. Dopo un minuto, poco più o poco meno, la solu-
zione, che nel primo momento intorbida, ritorna limpida. Allora mediante un soffietto
ho scacciato l atmosfera di CO, rimasta nella bottiglia senza però far gorgogliare l’aria
nella soluzione, ed a questa ho aggiunto altri 600 cme. di acqua distillata, all’ intento
di non produrre una soluzione troppo ricca di carbonato acido e particolarmente so-
prassatura, la quale, come dirò più innanzi, molto facilmente e rapidamente sì decom-
pone con separazione di CaCO, .
Così preparata la soluzione, ho versato entro la bottiglia stessa acqua di calce
satura limpidissima a 50 cme. circa per volta, operando e agitando ogni volta la
bottiglia sollecitamente, sino a che apparve un intorbidamento lieve, ma ben manifesto
e permanente. Per produrre questo effetto nella predetta soluzione ho dovuto introdurre
nella bottiglia 560 cme. di acqua di calce. Il qual fatto dimostra appunto che l’ idrato
di calcio disciolto da prima si combina coll’ acido carbonico libero, generando sale
acido che si scioglie, poscia agisce sul sale stesso facendo deporre del carbonato neutro,
per cui l intorbidamento aumenta.
Tosto che apparve il lieve, ma ben visibile intorbidamento, di cui ho fatto parola,
aggiunsi alla soluzione altri 200 cme. di acqua di calce per essere ben certo di avere
non solo saturato ed eliminato tutto quanto l’acido carbonico libero, ma anche de-
composta una certa parte del sale acido. Dopo di che versai subito tutto il liquido
torbido (cme. 2560) entro due grandi filtri e raccolsi della soluzione filtrata poco più
di 1500 cme.
In causa della facilità con cui il carbonato acido, in assenza di acido carbonico
libero, si decompone con separazione di CaC0,, è necessario che la filtrazione avvenga
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in breve tempo e di operare a temperatura non superiore a 15°, quantunque un lie-
vissimo intorbidamento della soluzione filtrata, purchè omogeneo, non abbia inconve-
niente sulle operazioni successive.
Dell’ unica soluzione di carbonato acido, privata dell’acido carbonico libero e fil-
trata, ne misurai 500 cme. in matraccino tarato, e la feci svaporare a bagno-maria
entro capsula di platino. Così il sale perde l'anidride carbonica, che suolsi chiamare
semicombinata, e resta carbonato neutro. Io potei giovarmi di una di quelle capsule
abbastanza grandi (diam. cm. 8) sottili e di peso poco superiore a gr.34, usate nel-
l’analisi elettrolitica del solfato di rame commerciale, Siccome per svaporare 500 cme,
della predetta soluzione occorrono all’ incirca & ore, e in questo lungo periodo di tempo
il carbonato acido, soprattutto in presenza dell’ aria, lascia deporre a temperatura or-
dinaria del carbonaio neutro, che aderisce non leggermente al vetro, così, appena mi-
surati i 500 cme. nel matraccino tarato, versai la soluzione entro grande bicchiere
da precipitato, altrimenti. non potendo far uso di acidi, sarebbe stato molto imbaraz-
zante lo staccare il CaC0, che aderisce al fondo e alle pareti laterali di un matraccio.
Quasi simultaneamente, della medesima soluzione di carbonato acido ne intro-
dussi 1000 cme, entro matraccio conico delia capacità di 1500 cme. con 15 cme. di
acido solforico allungato (5 cme. di 4,80, e 10 di 4,0) e alcuni pezzetti di pietra
pomice, e determinai l’ acido carbonico totale (combinato e semicombinato) valendomi
dell’ apparecchio e del metodo stesso che descrissi a proposito della determinazione del-
l'anidride carbonica totale nelle acque naturali comuni (1). Nel matraccino conico, che
nella pubblicazione dell’anno scorso chiamai collettore, introdussi 50 cme. di soluzione
ammoniacale contenente cme. 25 di 4,0, 25 di soluzione concentrata di ammoniaca
e gr. 3 di CaCt,, soluzione debitamente preparata, come dissi nella pubblicazione me-
desima, e regolando il riscaldamento del grande matraccio (generatore) in guisa che
nella soluzione ammoniacale del collettore non passassero più di 30 bolle di gas al
minuto.
Non occorre far rilevare quali fra le operazioni sopradescritte possono e devono
essere eseguite colla maggior possibile speditezza, sia per non lasciar deporre innanzi
tempo del carbonato neutro, sia per evitare dispersioni di anidride carbonica.
Nell’ ultima di queste ricerche, eseguita nelle condizioni di maggiore accuratezza,
dai 500 cme. della soluzione di carbonato acido, svaporata nella capsula di platino,
ricavai, dopo essiccamento del residuo in stufa a 100°, gr. 0,441 di CaCO, e quindi
da 1000 cme. gr. 0,882: e dai 1000 cme. della stessa soluzione, dalla quale separai
la totalità dell’ anidride carbonica mediante l’ acido solforico, ottenni gr. 1,772 di CaC0,,
ossia il doppio: risultato a cui sono sempre giunto applicando questo metodo nel saggio
di tutte le soluzioni di carbonato acido prive di acido carbonico libero a diversi gradi
di concentrazione.
(1) Determinazione dell’anidride carbonica nelle acque naturali comuni. Memoria della R. Ac-
cademia delle Scienze di Bologna. Serie VII. Tomo II, 1914-15.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 2)
Seconpo METODO — Questo secondo metodo, con cui veramente iniziai le mie ri-
cerche sulla composizione del carbonato acido, è pur esso semplice e razionale.
Preparai non meno di 2500 cme. di soluzione piuttosto concentrata di carbonato
acido facendo passare rapidamente una corrente di CO, in 1400 cme. di soluzione for-
mata da 700 cme. di acqua di calce satura a temperatura ordinaria e da altrettanto
di acqua distillata: scacciai colla soffieria l'atmosfera di CO, sovrastante alla soluzione
limpida del sale acido, poi aggiunsi altri 600 cme. di acqua per arrivare al volume
di 2000 cme. Nella soluzione così preparata versai in più riprese acqua di calce sino
ad avere un primo intorbidamento lieve e stabile, poi ne aggiunsi subito altri 200 cme.
per essere ben certo, come dissi nel metodo 1°, di avere introdotto più calce di quella
che sarebbe bastata a neutralizzare completamente 1° acido carbonico libero.
Per produrre il primo e lieve intorbidamento possono bastare 500 cme. di acqua
di calce quando si arresta la forte corrente di CO, appena la soluzione é ritornata
limpida, ma ne occorrono anche più di 800 se la corrente viene mantenuta più lun-
gamente senza bisogno e senza vantaggio.
Dopo aver aggiunto gli ultimi 200 eme. di acqua di calce passai senza indugio
tutto il liquido molto torbido su due grandi filtri, e della soluzione filtrata ne intro-
dussi 1000 cme. per ciascuno di due matracci conici che per brevità di discorso di-
stinguerò colle lettere A e 5. Fui costretto ad usare recipienti della capacità di 1500 cme.
perchè i cataloghi non offrono matracci conici di grandezza intermedia fra 1000 e
1500 cme.
La soluzione del recipiente A fu senz’altro portata e mantenuta per 1 ora ad
ebollizione, dopo la quale aggiunsi acqua boilente per renderla pressa poco al volume
primitivo. i
Alla soluzione invece del matraccio B aggiunsi subito 100 cme. di soluzione am-
moniacale formata con 50 cme. di acqua, 50 di ammoniaca concentrata e gr. 3 di CaCt,
e debitamente preparata: chiusì il recipiente, non ermeticamente, con tappo di gomma
e lo tenni immerso per 45 minuti nell’ acqua bollente di un bagno-maria.
Ugual volume di soluzione ammoniacale di C«C7, aggiunsi pure al recipiente A,
ben s'intende, dopo averne fatto bollire la soluzione per un’ ora, e quest’ aggiunta è
necessaria per due ragioni: la principale è che la presenza di una quantità forte di
ammoniaca, com'è noto, diminnisce notevolmente la solubilità del carbonato di calcia;
la seconda era consigliata dal considerare che curante la successiva filtrazione le con-
dizioni fossero preparate in guisa da avere le stesse cause di piccoli errori inevitabili
nella raccolta e nel lavamento dei due distinti precipitati di CaCO, che si formano
nei recipienti A e 2. Fatta l’ aggiunta della soluzione ammoniacale, tenni parimente i)
recipiente A immerso per 45 minuti nell’acqua bollente del bagno-maria.
Poscia chiusi ermeticamente i due recipienti e li lasciai in riposo finchè il liquido
sovrastante al deposito di CaCO, divenne perfettamente chiaro. Allora tolsi con un si-
fone dai due matracci la massima parte deb liquido limpido e praticai la filtrazione
DE SIRI 1.) a
simultaneamente raccogliendo separatamente i precipitati in due, piccoli filtri (diam°. 9 cm.)
seccati a 100° ed esattamente pesati. Su ciascun filtro feci da prima 4 lavacri con
acqua distillata a temperatura ordinaria, poi altri 16 a freddo con acqua contenente
10 i in volume di ammoniaca concentrata: seccai i due filtri in stufa e pesai di
nuovo.
Dalla soluzione del recipiente A, da cui fu scacciata per semplice ebollizione l’a-
nidride carbonica semicombinata, ottenni gr. 0,8684 di CaC0,, e da quella del ma-
traccio B, in cui fu precipitata nella stessa forma la totalità dell’ anidride carbo-
nica (cioè combinata e semicombinata) ricavai gr. 1,729 di CaC0, ossia il doppio,
J72:9 FISICO
— = 0,8645 come col metodo precedente. Parecchie prove fatte su soluzioni si-
milmente preparate e di diversa concentrazione condussero sempre allo stesso risultato.
Or bene, | unica conclusione, a cui portano con certezza i risultati conseguiti coi
due metodi d’analisi applicati alle soluzioni di carbonato acido, è la seguente:
Il sale che resta in soluzione di carbonato acido di calcio, dopo aver eliminato
interamente coll’ acqua di calce l'acido carbonico libero, contiene calce e anidride car-
bonica nelle proporzioni di 1 molecola di CaO e 2 molecole di CO,, ossia nel rap-
porto in peso che occorre per formare il bicarbonato Ca (HCO,),; come era stato sup-
2)
posto in considerazione di semplici fatti di analogia, i quali naturalmente non hanno
mai il valore e la sicurezza di una dimostrazione sperimentale diretta.
Se tale è la composizione cel carbonato acido, le seguenti equazioni dimostrano
che dalla soluzione contenente il solo sale acido e scomposta per semplice ebollizione
sì doveva ottenere appunto la metà del CaCO, che forniva, a caldo, un egual volume
della medesima soluzione cimentata con soluzione ammoniacale di cloruro di calcio:
CONICO RAI TO SZ
o E00)p ap 005582 NOOO)
TERZO METODO — Questo metodo può considerarsi quale esperimento di conferma,
non necessaria ma molto valida, della precedente conclusione.
In bottiglia di vetro, della capacità di 2 litri circa, introdussi 600 cme. di acqua
distillata, nella quale feci passare per alcuni minuti una corrente di CO,; poscia chiusi
il recipiente con tappo di gomma e lo agitai fortemente alla temperatura ambiente (15°)
per 10 minuti circa, dopo i quali rinnovai nella bottiglia l atmosfera di CO, e ripetei
alcune volte la stessa operazione a fine di ottenere una soluzione satura di CO, in
atmosfera di questo gas.
Ciò fatto versai con sollecitudine la soluzione così preparata entro bicchiere da
precipitato per liberarla dall’ atmosfera incombente di CO, e dal bicchiere in bottiglia
che conteneva già 1600 cme. di acqua distillata: volume totale della soluzione 2200
cme. circa.
Faccio rilevare la necessità riconosciuta di impiegare una soluzione di acido car-
bonico cosi diluita, affinchè, agitandola con carbonato di calcio, sì producesse una quan-
RR IRSA
tità di carbonato acido inferiore a quella che presumibilmente può star disciolta nel-
l’acqua a temperatura ordinaria e fuori del contatto dell’aria.
Della predetta soluzione allungata di CO,, resa ben omogenea per blanda agita-
zione con bacchetta di vetro, ne introdussi con lungo sifone 1000 cme. in matraccio
tarato e aggiunsi senza indugio gr. 2 di CaCO0, precipitato e seccato a temperatura
ordinaria.
Ebbi l'avvertenza di scegliere un matraccio con collo stretto e avente il tratto che
indicava il volume di 1000 cme. a piccola distanza dalla bocca del recipiente, talchè
quel po” di aria che rimaneva nel recipiente non poteva avere azione sensibile sulla
decomposizione del carbonato acido che a poco a poco andava formandosi nel periodo
dell’ agitazione.
Subito dopo l’ aggiunta del CaCO,, chiusi ermeticamente e stabilmente il ma-
traccio con buon tappo di gomma e lo agitai spessissimo per 5 giorni nelle ore di
lavoro in laboratorio, dopo i quali passai tutto il Jiquido torbido su grande filtro e
della soluzione limpida filtrata ne raccolsi 500 cme. in matraccino tarato e la feci
senz'altro svaporare nella capsula di platino.
La fuga di CO, che ebbi manifestamente in un esperimento, aprendo il matraccio
dopo 2 ore soltanto di scuotimento, mi fece palese la necessità di una prolungata agi-
tazione, considerando ancora che il carbonato di calcio, indipendentemente dalla pre-
senza dell’ acido carbonico, si scioglie nell'acqua poco bensì e con grande lentezza, ma
quella parte che passa a poco a poco in soluzione reagisce senza dubbio e subito
anche colle soluzioni molto diluite di acido carbonico.
Ho detto sopra della necessità di eseguire questi esperimenti con soluzioni di-
luite di CO,,
meno concentrate arrivai a risultati finali tanto meno esatti, quanto maggiore era la
ed ora aggiungo che in tutti quelli in cui feci uso di soluzioni più o
concentrazione: effetto che si spiega facilmente in causa della tendenza che ha il
carbonato acido a decomporsi con separazione di CaC0,, quando particolarmente il
sale acido abbonda nella soluzione e sia invece mancante o scarsissima la quantità
dell’acido carbonico libero: nel qual caso nella soluzione filtrata e limpida del carbo-
nato acido si trova necessariamente meno di CaC0, e più di acido carbonico libero.
Debbo pur dire che in questi esperimenti non ho tenuto conto delle variazioni,
del resto piccole e senza influenza della temperatura ambiente (12° a 15°), nè delle
variazioni frequenti avvenute nella pressione atmosferica, alle quali, anche volendo,
non avrei potuto rimediare per mancanza dei necessari apparecchi.
Dopo queste osservazioni e disgressioni, a mio avviso non superflue, dirò che quasi
simultaneamente al riempimento del primo matraccio contenente il CaC0, introdussi
collo stesso sifone altri 1000 cme. della medesima soluzione diluita di CO, entro ma-
traccio conico da 1500 cme., aggiungendo inoltre 300 cme. di acqua fredda, che era
stata bollita di recente, al solo fine di diminuire lo spazio libero sopra il livello della
soluzione, e per semplice ebollizione, usando l’ apparecchio e il processo indicati nel
metodo 1°, fu scacciata l'anidride carbonica totale e fatta assorbire nel collettore da
DEL E
una soluzione ammoniacale formata con 25 cme. di acqua, 25 di ammoniaca concen-
trata e gr. 2 di CaCI,, al solito debitamente preparata.
I risultati conseguiti nelle due distinte operazioni sono i seguenti: Dopo i 5 giorni
di scuotimento, in presenza di CaCO,, dai 500 cme. della soluzione filtrata, poi sva-
porata in capsula di platino, ricavai gr. 0,267 di CaCO, e quindi da 1000 cme.
gr. 0,534; mentre dai 1000 cme. della soluzione di CO, fatta bollire nel matraccio
conico, e ricevendo il gas in soluzione ammoniacale di CaC/,, ne ottenni gr. 1,0804
ossia il doppio con una differenza in più di 1,1 A circa.
Questo risultato porta quindi a concludere che la quantità di CaCO, che si scioglie,
dibattendo a lungo questo sale con soluzione convenientemente diluita di CO,, è quella
che occorre per formare il bicarbonato Ca(HCO,),.
Solubilità del bicarbonato di calcio
Tolta sperimentalmente ogni incertezza sulla vera composizione del carbonato acido
di calcio, ho creduto più necessario che opportuno di eseguire alcune ricerche sulla
solubilità del bicarbonato di calcio, le cui trasformazioni sì manifestano in fenomeni
naturali importantissimi, quali sono la formazione delle stalattiti, delle stalagmiti, dei
travertini e in generale delle incrostazioni e concrezioni calcaree, e per gl’ inconve-
nienti che ne conseguono nell’uso delle acque più o meno ricche di bicarbonato nei
generatori a vapore, nei tubi per conduttura di acque potabili, nella irrigazione e in
parecchie operazioni industriali.
A proposito della solubilità del bicarbonato non potrei dire che le notizie riferite
nelle memorie originali di alcuni sperimentatori, e in particolare poi dai Dizionari e
Trattati di chimica, abbiano il pregio della concordanza della precisione e della esat-
tezza, e poche citazioni basteranno a giustificare questo mio giudizio.
Il Caro ha affermato in un suo lavoro che 1 litro di acqua scioglie al massimo
gr. 3 (!) di carbonato di calcio, e che questo massimo è raggiunto a 5° alla pressione
atmosferica. L° errore non lieve in cui è caduto il Caro fu rilevato prima di me
dall’Engel in una sua nota comparsa nei Comptes Rendus del 1885, dalla quale ho
attinto la presente notizia.
Nel Dizionario di Chimica del Wurtz si legge che una soluzione satura di acido
carbonico può sciogliere gr. 0,7 di carbonato per litro a 0°, e gr. 0,88 a 10°, ma
non è detto a quale pressione, nè la durata dell’azione. Molto probabilmente questi
dati sì riferiscono ad esperimenti fatti nelle stesse condizioni di pressione, e siccome
l'anidride carbonica è alquanto più solubile a 0° che a 10°, così era da mettere in
dubbio che 1 litro di acqua satura di acido carbonico a 0° sciolga meno di CaC0,
che a 10° o a 15°. Secondo le mie esperienze, i dati stessi sono sbagliati nel senso
e non poco inferiori al vero per grandezza.
Nel trattato di Chimica Minerale del Moissan, pubblicato nel 1904, e in altri
ancor più recenti, si dice che la solubilità del carbonato di calcio nell'acqua carica di
acido carbonico a 15° è di gr. 0,885 per litro: ma a quale pressione? Se l’acqua è
satura di acido carbonico ed è mantenuta tale in presenza dello stesso gas alla pres-
sione atmosferica, la quantità di CaC0, che sì scioglie in 1 litro a 15° supera un poco
il triplo di gr. 0,385. D'altra parte ho trovato che 1 litro di liquido, che era stato
ottenuto aggiungendo a 1600 cme. di acqua distillata 600 cme. soltanto di soluzione
satura di CO,, ossia 1 litro di soluzione molto allungata di C0,, dopo 5 giorni di
agitazione ha sciolto gr. 0,534 di CaCO,.
SOLUBILITÀ DEL BICARBONATO A 0° — Entro bottiglia della capacità di 2 litri in-
trodussi cme. 1000 di acqua distillata, e immersi il recipiente nell’ acqua di un secchio
portata a 0° da grossi e numerosi pezzi di ghiaccio. Quando il liquido fu giunto a 0°,
aggiunsi gr. 3 circa di carbonato di calcio precipitato e seccato a temperatura ordi-
naria, e feci passare in esso una corrente di CO, mediante l’ apparecchio Kipp, perchè
l’anidride fornita dalla bombola a gas compresso, di cui avrei potuto disporre, con-
teneva il 7°, in volume di aria. Poscia chiusi la bottiglia con tappo di gomma e la
agilai fortemente e spesso, rinnovando entro il recipiente l° atmosfera del CO, di fre-
quente nelle prime ore e a lunghi intervalli in seguito. Agitai pure molto spesso i
pezzi di ghiaccio per impedire che lo strato inferiore dell’acqua contenuta nel secchio
potesse giungere a 2° e anche a 8° sopra lo zero. Queste condizioni di temperatura
furono mantenute due giorni. Al qual fine, per la notte trascorsa fra un giorno e l’altro,
misi nel secchio molti e grossi pezzi di ghiaccio che con un robusto panno costrinsi
a stare in basso, e collocai inoltre il secchio fuori del laboratorio dove l’aria aveva
una temperatura di poco superiore a 0°.
Dopo 48 ore versai tutto il liquido torbido sopra un unico filtro e della soluzione
filtrata limpidissima ne ricevetti 500 cme. in matraccino tarato: da questo la passai
entro bicchiere da precipitato e la feci svaporare in capsula di platino a bagno-maria.
Da questi 500 cme. di soluzione di bicarbonato ottenni, dopo essiccamento del re-
siduo in stufa a 100°, gr. 0,78 di CaCO, e quindi gr. 1,56 per 1000 cme. Aggiun-
gendo a gr. 1,56 di carbonato neutro la quantità equivalente di acido carbonico #4,C0,
sì ha gr. 2,5272 di bicarbonato.
Ricorderò in proposito che 100 (CaCO,) parti in peso di carbonato neutro equival-
gono a 62 (4,C0,) di acido carbonico, e che una molecola di bicarbonato 162 (Ca(AC0,),)
ne contiene una di CaC0, e una di 4,C0,. Ca(HCO,), = CaCo, + H,CO,.
Conclusione: Za quantità massima di CaC0, che, dopo prolungata agitazione, si
scioglie in 1 litro di acqua a 0°, satura di acido carbonico e mantenuta tale in pre-
senza di CO, alla pressione atmosferica, è di gr. 1,56 e conseguentemente quella del
bicarbonato di gr. 2, 5272.
Io fui ben assicurato di aver raggiunto il massimo di solubilità, perchè in due
precedenti prove, nelle quali operai nelle stesse condizioni e cogli stessi artifizi, ma
limitando la durata degli esperimenti a 9 ore di una sola giornata, ebbì quasi esat-
tamente il medesimo risultato.
dog a
Torno a ripetere che non ho potuto tener conto delle piccole variazioni avvenute
nella pressione atmosferica, le quali d’ altra parte avrebbero portato differenze ben
piccole nel risultato finale dell’ esperimento.
SOLUBILITÀ DEL BICARBONATO A 15° -— Ho aspettato di eseguire le ultime ricerche
in un periodo del mese di marzo, in cui la temperatura nella camera di lavoro era
di 16° circa di giorno e 15° di notte.
La solubilità del carbonato di calce a 15° fu determinata con due metodi diversi :
Nel primo ho seguito il procedimento testè descritto per la solubilità a 0°, sol-
tanto la bottiglia stava immersa nell’acqua di una grande bacinella, in cui il liquido
fu mantenuto facilmente e costantemente a 15°. L’esperimento ha durato 4 giorni.
Dopo il primo giorno, l’ atmosfera di CO, entro la bottiglia veniva rinnovata una sol
volta ogni mattina.
Dai 500 cme. della soluzione finale filtrata, dopo evaporazione in capsula a bagno-
maria ed essiccamento del residuo a 100°, ottenni gr. 0,5876 di CaCO, e quindi gr. 1,1752
da 1 litro: aggiungendo a quest’ultimo dato la quantità equivalente di H,C0,, ossia
gr. 0,7286, si trova che 1 litro di soluzione contiene gr. 1,9038 di Ca(HC0,),.
In due precedenti prove, nelle quali aveva limitata la durata dell’ esperimento a
10 ore di una stessa giornata, ricavai da 1 litro di soluzione filtrata gr. 1,0964 di
CaCO, invece di gr. 1,1752: è quindi manifesto che 10 ore di assidui scuotimenti
non bastano. D'altra parte, considerando che la differenza fra i due risultati è rela-
tivamente lieve, ebbi la certezza di aver raggiunto in 4 giorni il massimo di solu-
bilità.
Il secondo metodo è non meno semplice. Nella solita bottiglia da 2 litri intro-
dussi 700 cme. di acqua di calce preparata di fresco e satura a temperatura ordi-
naria (15° circa). Facendo passare in questa una corrente fortissima di CO, derivata
da una bombola a gas compresso, dopo 1 minuto circa, come dirò appresso, ebbi una
soluzione quasi limpida e fortemente soprassatura di carbonato acido. Allora chiusi la
bottiglia con tappo di gomma, senza aggiungere polvere di CaCO0,, perchè questo co-
mincia a formarsi quasi subito e in abbondanza per decomposizione dell’ eccesso di
sale acido: di guisa che la solubilità di CaCO, era data non dal sale neutro che si
scioglie nell’acqua, come nel metodo precedente, ma dal sale che resta in soluzione
a 15° al cessare dello stato di soprassaturazione. E per evitare appunto con sicu-
rezza l’ errore che deriverebbe dalla rimanenza di un lieve grado di soprassaturazione,
come accade pure delle soluzioni soprassature di solfato di calcio specialmente quando
la temperatura è piuttosto bassa, ho tenuto la bottiglia nell'acqua a 15° e agitata di
frequente per 5 giorni, rinnovando ogni mattina l'atmosfera interna di CO, con gas
sviluppato coll’ apparecchio del K1pp. Certamente sarebbe bastata una durata molto
minore dell’ esperimento, perchè le soluzioni soprassature di bicarbonato di calcio, in
causa della lievissima solubilità del carbonato neutro, sono assai meno stabili di quelle
di solfato.
RN.
Operando come nelle precedenti esperienze, dai 500 cme. di soluzione filtrata ot-
tenni gr. 0,585 di CaCO0, e quindi da 1 litro gr. 1,17: aggiungendo a gr. 1,17 la
quantità equivalente di 4,C0, si ha gr. 1,8954 di bicarbonato Ca (HC0,)..
La differenza fra i risultati conseguiti coi due metodi è abbastanza lieve per po-
terla attribuire più che altro alle piccole variazioni avvenute nella pressione atmosfe-
rica, che è quanto dire alle piccole quantità di anidride carbonica che in più o in
meno si sciolgono nell’ acqua a 15°.
La conclusione cui conduce il risultato del primo esperimento è la seguente:
La quantità di CaCO, che dopo lunga agitazione si scioglie in un litro di acqua
a 15° satura di acido carbonico e mantenuta tale in presenza di CO, alla pressione
atmosferica, è di gr. 1,1752 e conseguentemente quella del bicarbonato, di gr. 1,9038.
Faccio rilevare che in condizioni analoghe 1 litro di acqua a 0° tiene in soluzione
gr. 2,9272 di bicarbonato.
SOLUZIONI SOPRASSATURE DI BICARBONATO -— Più sopra ho avuto occasione di ac-
cennare al modo e alla facilità di ottenere soluzioni soprassature di bicarbonato, tanto
che non si comprende come questo fatto sia sfuggito ai chimici, i quali non ne fanno
menzione, che io sappia, nelle loro memorie originali e così pure nei Dizionari e nei
Trattati di chimica più recenti.
« Da lungo tempo, dice il Bineau nella sua memoria già citata, il Rose ha
segnalata l’ impossibilità di ridisciogliere, mediante una corrente di acido carbonico, la
totalità del precipitato formato da questo gas nell’ acqua di calce non diluita ».
L’ affermazione del Rose esprime un fatto che avviene sempre allorchè la corrente
di CO, non è abbastanza energica, ma, a conferma di una mia previsione relativa alla
solubilità del carbonato di calce, certamente idrato, nel momento che nasce nell’ acqua
di calce per opera dell’ anidride carbonica, ho provato che con corrente fortissima e,
direi forse meglio, violentissima in acqua di calce satura a 15°, corrente che è facile
produrre mediante bombola a gas compresso, dopo 1 minuto circa, il forte intorbida-
mento, che è prodotto dalla corrente come primo effetto, scompare e si ha una soluzione
quasi del tutto limpida; instabilissima però, tanto che dopo il primo minuto comincia
a farsi torbida e ] intorbidamento va a poco a poco aumentando, pur mantenendo la
fortissima corrente di CO,. La quale instabilità, come dissi, deriva manifestamente dalla
lievissima solubilità del carbonato neutro, che è uno dei prodotti di decomposizione
del sale acido.
Tosto che la soluzione di calce fu diventata quasi limpida ne feci svaporare 500 cme.
in capsula di platino, non tenendo conto del lievissimo intorbidamento, ed ottenni gr. 1,145
di CaCO, è quindi da 1 litro gr. 2,29, a cui aggiungendo la quantità equivalente di ‘
H,CO, si ha gr. 3,71 per litro di bicarbonato, laddove nelle soluzioni normalmente
salure di acido carbonico a 15° e in presenza di CO, alla pressione atmosferica, la
quantità massima di bicarbonato che passa in soluzione è poco più della metà, e pre-
cisamente gr. 1,9038.
SOA pri
Secondo Dalton, la quantità di C«0 che occorre per saturare 1 litro di acqua
a 15° è gr. 1,2853 ed equivale a gr. 3,718 di bicarbonato invece di gr. 3,71. È
noto che una molecola di ossido di calcio (Ca0 = 56) corrisponde ad una di bicar-
bonato (Ca(4C0,), = 162).
Considerando poi che nonostante la corrente violentissima di CO,, l’acqua di calce
satura a 15° non acquista assoluta limpidezza, sono portato a credere che l’acqua
stessa contenga la quantità di base che, nelle predette condizioni, genera il massimo
di bicarbonato che per brevissimo tempo può rimanere in soluzione.
Se l’acqua di calce satura a 15°, resa quasi limpida per corrente fortissima di CO,,
si lascia per 24 ore circa a 15° entro bottiglia chiusa in atmosfera dello stesso gas,
in 1 litro di soluzione filtrata si trova soltanto gr. 2,10 di bicarbonato e dopo 4 giorni,
come si disse, gr. 1,896, invece di gr. 3,71. Il fatto della soprassaturazione è quindi
palese e certissimo.
Infine per comodo dei chimici che avessero interesse di prendere cognizione dei
risultati delle mie ricerche, credo opportuno di riassumerne le conclusioni :
1* Sperimentalmente è dimostrato che il sale acido che si forma per azione
dell’ anidride carbonica sull’acqua di calce, o di un’acqua più o meno ricca di acidu
carbonico sul carbonato neutro, è realmente il bicarbonato Ca(4C0,),.
2* La quantità massima di CaCO, che dopo prolungata agitazione (non meno di
10 ore) si scioglie in 1 litro di acqua a 0°, satura di acido carbonico e mantenuta
tale in presenza di CO, alla pressione atmosferica, è di gr. 1,56 e conseguentemente
quella del bicarbonato gr. 2,5272.
8° In condizioni analoghe e dopo alcuni giorni di agitazione, 1 litro di acqua
a 15° scioglie gr. 1,752 di CaCO, e conseguentemente contiene gr. 1,9038 di bicar-
bonato.
4° Facendo passare una corrente violentissima di CO, in acqua di calce satura
a 15°, questa da prima intorbida fortemente, ma dopo 1 minuto circa si ha una so-
luzione quasi limpida e fortemente soprassatura di carbonato acido, la quale, nel bre-
vissimo tempo del suo nascimento e di sua stabilità, contiene in 1 litro gr. 2,29 di
CaCO, e conseguentemente gr. 3,71 di bicarbonato.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 6
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LA CONIUGAZIONE
IL DIFFERENZIAMENTO SESSUALE NEGLI INFUSORI
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CONDIZIONI CHE DETERMINANO LA CONQUGAZIONE RIPETUTA NEL CIILODON UNCINATES
MEMORIA
DI
ECkzOronE NE EQUES
letta nella Sessione del 28 Novembre 1915.
SOMMARIO: I. Scopo delle presenti ricerche.
JI. Allevamento del Chilodon e sue coniugazioni in generale.
III. Modo per avere le coniugazioni ripetute.
TV. Considerazioni.
V. Conclusioni.
VI. Note bibliografiche.
I. Scopo delle presenti ricerche.
Nel Chilodon uncinatus, gli exconiuganti, ossia gli individui appena usciti da una
coniugazione, possono, senza riprodursi per scissione nemmeno una volta, entrare di
nuovo in coniugazione, o con altri exconiuganti, oppure con individui non exconiuganti.
Dimostrai questo fatto collo studio di preparati microscopici, nel 1908. In questa
specie gli exconiuganti si riconoscono bene, perchè hanno un macronucleo nuovo molto
grande, e tutto il corpo pure molto più grande di quello degli individui normali.
Trovando dunque individui con questo caratteristico aspetto, accoppiati, conclusi che
sì trattava di una coniugazione ripetuta. Notai anche, in queste coppie, la presenza
di processi normali nei micronuclei, sì da far credere che la coniugazione ripetuta dia
buon esito come qualunque ordinaria coniugazione. Finora però non avevo studiato in
quali circostanze si produca questo fenomeno.
Dopo il mio lavoro sull’ argomento, coniugazioni ripetute sono state trovate (sempre
in condizioni sperimentali non precisate) da Collin negli Acineti e da Klitzke anche
nel Paramecio, confermando così questi AA. i resultati delle mie ricerche.
Cogli esperimenti che qua descrivo, mi son proposto di determinare le condizioni
che nel ChRilodon provocano la coniugazione ripetuta.
= Aga=
II. Allevamento del Chilodon e sue coniugazioni in generale.
Isolato un individuo, ricavatane una cultura e poi molte altre, tutte alimentate con
decotto di fieno molto allungato con acqua potabile, ho cercato in primo luogo di
avere coniugazioni. Sapevo già per l’esperienza del primo lavoro fatto sul Chilodon
nel 1908, che per questa specie non è necessario preoccuparsi particolarmente della
composizione salina più opportuna, della temperatura, o delle condizioni precedenti nella
vita della stirpe, che in qualche modo possano influenzare la sua coniugabilità. —
fatti e condizioni che trovammo importanti e decisivi per altre specie. È il CRilodon piut-
tosto facile a coniugarsi; adoprando acqua potabile, lavorando a temperatura ambiente o
poco più elevata, allevando con alimentazione abbondante ma non tanto batterica da
produrre effetti degenerativi, ci si trova in condizioni che permettono di provocare la
coniugazione. Il punto più importante è quello di regolare la quantità di decotto rispetto
all’acqua, per nutrir bene ma non intossicare. Riuscito questo, si alleva la specie
« al massimo », ossia ogni giorno si getta via la maggior parte del liquido con gli
Infusorî, per sostituirlo con liquido fresco, nel quale i pochi rimasti si moltiplicano
attivamente.
Le coniugazioni sì provocano in culture collaterali, fatte con uguale metodo, nelle
quali però si interrompe il ricambio del liquido. I CRilodon si moltiplicano, pullulano
alla superficie ed anche al fondo del vaso, e finalmente, dopo pochi giorni dal prin-
cipio della cultura, entrano in coniugazione. Il decorso abituale della epidemia porta
per conseguenza, che gli exconiuganti son presenti in un momento in cui vi è penuria
di cibo nella cultura. La loro crescita è quindi molto ostacolata e rallentata, essi
restano molte volte anche piccoli, non assumendo il macronucleo quelle vistose dimen-
sioni che sono rappresentate nelle figure del mio primo lavoro sul Chilodon. Le cose
procedono diversamente nelle diverse prove, ma generalmente, quando nello stesso tempo
e con quantità di liquidi misurate si: preparano parecchi vasi, tutti hanno un decorso
molto somigliante. Questa circostanza. permette di sperimentare su culture contempo-
ranee, l’ effetto di condizioni diverse.
III. Modo per avere le coniugazioni ripetute.
Ho pensato di provocarle, facendo agire sugli exconiuganti quelle medesime condizioni
che, agendo sui CRilodon in generale, provocano la coniugazione; dando cioè ad essi
alimento, e poi lasciandoli di nuovo a digiuno. Ho provato perciò ad aggiungere cibo
una o più volte alla cultura, appena insorta la epidemia di coniugazioni, oppure un
giorno dopo, o più tardi ancora. Preparando negli esperimenti parecchi vasi, si può
determinare quale è il momento e la quantità di cibo più appropriati, ed il numero
delle volte che è necessario dare il cibo.
LETI pren
I resultati di queste prove si possono così riassumere. In primo luogo, non si
ottengono in linea generale coniugazioni ripetute, se si aggiunge cibo soltanto prima
che la epidemia di coniugazioni sia scoppiata. I resultati più favorevoli si ottengono
quando si aggiunge cibo dopo alcuni giorni dal principio della epidemia, per esempio
2 0 3 giorni; si possono però avere coniugazioni ripetute anche dando cibo il giorno
successivo a quello in cui la epidemia è scoppiata, e forse anche dandolo appena si
vede una ricca epidemia. Dopo l’ aggiunta di cibo, che deve essere moderata e fatta
una sola volta, gli exconiuganti cominciano a crescere rapidamente ; si possono avere
coniugazioni ripetute anche 2 soli giorni dopo la aggiunta di cibo ; più spesso 3 giorni
dopo, più spesso 4 giorni dopo. Se dopo 4 giorni non si sono viste coniugazioni ripe-
tute, diminuisce grandemente la probabilità di vederne nei giorni seguenti. Non ne ho
mai viste, come ho detto, prima di 2 giorni dall’ aggiunta di cibo.
Le coniugazioni ripetute che si osservano nelle condizioni sperimentali suddette,
appartengono ai tre tipi che già riscontrai nello studio citologico : può essere exconiu-
gante solo l'individuo che funge quasi da femmina — ed è il caso più frequente —
mentre l’ altro è normale ; possono essere exconiuganti tutti e due gli individui della
coppia, od infine può essere exconiugante solo quello che funge da maschio (caso oltre-
modo raro; per le ragioni di questi fatti si veda il mio lavoro precedente). Le coniu-
gazioni ripetute si osservano e riconoscono benissimo sul vivo. Adoperando per le
culture di esperimento scatole del Petri, e mettendo queste direttamente sotto il micro-
scopio, si vedono benissimo tali coppie, alla superficie od al fondo, anche con un
ingrandimento moderato. Spicca sempre il grande macronucleo in formazione della prima
coniugazione, nella parte posteriore del corpo del Chilodon. Si capisce che osservazioni
più accurate di controllo, a forte ingrandimento, venivano sempre fatte. L'osservazione
diretta, ad ingrandimento debole, mi ha permesso di constatare che nei casi più favo-
revoli si sono avute delle vere epidemie di coniugazioni ripetute, il cui numero appariva
perfino superiore, in certi momenti, a quello delle coniugazioni ordinarie contempora-
neamente presenti nella cultura; questo è però un caso eccezionale. Che esse siano
tanto frequenti da vederne contemporaneamente parecchie sotto il campo del microscopio,
con un obbiettivo 3 di Koristka, questo è invece un caso assai frequente.
IV. Considerazioni.
Dopo quanto ho scritto nei precedenti lavori, credo non vi sarebbe bisogno di
aggiungere altro, per quanto riguarda la dimostrazione che la coniugazione negli
Infusorî è una reazione a particolari e determinate condizioni di ambiente, per nulla
dipendendo dalla lontananza da coniugazioni precedenti, da parentela o meno degli
individui della cultura ecc. — È certo pur tuttavia che anche i presenti resultati sono
una nuova prova di questa affermazione : una volta di più vediamo gli Infusorî reagire
SI
con esatto determinismo alle condizioni ambiente, ed entrare in coniugazione, nonostante
che proprio allora uscissero da una coniugazione precedente.
Una circostanza mi sembra debba essere qui considerata. Secondo i resultati di
tutte le ricerche precedenti, si ottengono coniugazioni agendo sulla cultura, ed in tal
maniera che, la nostra azione stimolante cominciando in un dato momento, la reazione
avviene dopo qualche tempo (non si può naturalmente precisare il tempo, variando
questo secondo le circostanze e le specie); in questo tempo di reazione, gli Infusorî
si moltiplicano ; forse un certo numero di divisioni deve necessariamente avvenire, dal
momento in cui comincia ad agire la condizione stimolante del digiuno, a quello in
cui la coniugazione avviene. Già il Maupas ha descritto le divisioni che si producono
rapidamente come reazione alla diminuzione di cibo, divisioni che egli ritiene in nu-
mero vario secondo le specie (spesso 2) e che R. Hertwig ha sempre constatato in
numero di 2 nelle specie da lui studiate. Io stesso, studiando il Cryptochilum nigricans
(1909), osservavo numerosissimi individui in divisione nel momento prossimo all’ apparsa
della epidemia di coniugazioni, cioè dopo che cominciavano ad agire le condizioni deter-
minanti la epidemia. Anche nelle piccole culture in goccia, di Colpoda steinî, nelle quali ho
ottenuto la coniugazione dopo poche generazioni dalla coniugazione precedente, accadeva
certamente lo stesso, e così pure in quelle somiglianti che ho fatto colla Opercularia
coarctata (1907).
La reazione ora ottenuta col Chilodon uncinatus è dunque diversa. Questa è reazione
dell’ individuo, che, stimolato, dopo qualche tempo entra in coniugazione senza dividersi.
Tre ragioni lo dimostrano chiaramente :
1) Gli exconiuganti non erano destinati necessariamente alla coniugazione ripe-
tuta; infatti essi sono entrati nuovamente in coniugazione nei vasi ai quali è stato
aggiunto cibo una volta, ma in due condizioni differenti da questa non sono entrati
nuovamente in coniugazione : 4) in quei vasi nei quali non è stato aggiunto cibo affatto,
dopo la prima epidemia ; allora Ja loro carriera di exconiuganti ha avuto un decorso
più stentato, senza vistosa crescita, o, in ogni caso, senza coniugazione ripetuta; d) in
quelli nei quali e stato aggiunto cibo ripetutamente, su porzioni della cultura allungate
con molto liquido fresco, in maniera da non far mai giungere momenti di penuria
alimentare, prifna che gli exconiuganti si fossero divisi; crescevano essi grandemente
in tali condizioni, poi diminuivano di grandezza, si dividevano, non presentavano la
coniugazione ripetuta.
Dunque, proprio quelle circostanze particolari — cibo, poi penuria di cibo -— hanno
determinato la coniugazione ripetuta.
2) Non sarà forse sfuggita al lettore la circostanza più sopra esposta, che non
basta, per ottenere coniugazioni ripetute, agire col cibo sulla cultura, prima che la
epidemia di coniugazioni sia scoppiata. Se questo bastasse potremmo fare la seguente
supposizione : con un particolare stimolo su individui normali, li induciamo a coniu-
garsi due volte (anzichè una come di solito); e rimarrebbe ancora possibile la sup-
posizione che essi, prima di incominciare la prima coniugazione, vadano soggetti alle
MOT (© ne
solite divisioni di digiuno. Non è così, visto che dobbiamo agire quando già vi sono
exconiuganti nella cultura; è evidente che proprio su questi agisce lo stimolo alimen-
tare, conducendo direttamente l’ individuo — l’ exconiugante — alla seconda coniugazione,
_ 3) Si ricordi inoltre che si possono avere coniugazioni ripetute, già dopo 2 giorni
dall’ aggiunta del cibo. Ciò esclude che lo stimolo agisca prima della prima coniu-
gazione ; potei infatti constatare che per questa occorre circa un giorno ed anche più ;
e poi almeno 2-3 giorni perchè gli exconiuganti raggiungano le dimensioni con cui
compaiono nelle coniugazioni ripetute. Manca dunque più di un giorno. Necessità quindi,
anche per questa ragione, che lo stimolo abbia agito sugli exconiuganti.
Ho detto che si possono avere coniugazioni ripetute dando cibo alla cultura allo
scoppio della epidemia, e che si possono avere dopo 2 soli giorni dall’ aggiunta del
cibo; ma non bisogna credere che si possano riunire queste due circostanze. Se si dà
cibo allo scoppio della epidemia, coniugazioni ripetute appaiono alcuni giorni dopo;
perchè possano apparire dopo 2 giorni, bisogna darlo quando già vi sono exconiuganti
nella cultura, ossia almeno 1-2 giorni dopo lo scoppio della epidemia. Ogni cosa, come
sì vede, concorda; per ogni verso vediamo così dimostrato che la seconda coniugazione
viene determinata da stimoli agenti direttamente sugli exconiuganti della prima, non
sui loro progenitori per più generazioni. Si capisce che i dati relativi ai tempi impie-
gati dai varî fenomeni e reazioni, non hanno un valore assoluto, ma solo relativo agli
allevamenti miei o fatti in condizioni identiche.
Finalmente, da un altro punto di vista si può considerare il resultato di questi
esperimenti. Si può domandare quale è, in fondo, la differenza tra il modo di reagire
del Chilodon exconiugante e quello degli Infusorî in generale ; perchè qui non si hanno
divisioni prima della coniugazione — la seconda s’ intende —, ed in generale sì.
Potrebbe darsi che si trattasse di una proprietà specifica del CQrilodon. Ma questa
spiegazione non si accorda colla maniera colla quale si ottiene la prima epidemia di
coniugazioni ; essa si ottiene, come sempre, colla penuria di cibo dopo la ricca ali-
mentazione, e dal momento nel quale si fanno nella cultura quelle operazioni, diverse
da ogni altra specie di allevamento abituale, che conducono alla epidemia, fino all’ap-
parire di questa, passa un tempo, nel quale accadono divisioni. Mi sembra lecito fissare
l’attenzione su una notevole differenza nelle proprietà dell’ exconiugante, confrontato
cogli individui ordinarî : l’ exconiugante è l’ unico individuo che possa essere alimentato
per uno o due giorni, magari anche tre giorni, senza che si divida. Esso reagisce,
come qualunque altro individuo, alle condizioni di alimento — cibo, poi digiuno —,
ma ha la proprietà speciale di potere subire queste azioni stimolanti per un tempo
abbastanza lungo, senza essere in questo tempo, per effetto stesso del cibo, costretto
a dividersi. Di qui il sospetto che anche gli individui ordinarî, sia in questa, sia in
qualunque altra specie, non siano costretti a dividersi, prima di coniugarsi, ma ciò
accada di regola solo perchè è difficile praticamente fare agire le condizioni favorevoli
alla coniugazione per un tempo tanto breve, che durante lo svolgimento di queste con-
Ra NE
dizioni, l’Infusorio non sia obbligato a dividersi. Certo, su questo punto non possiamo
pronunziarci in modo deciso; occorreranno esperimenti molto delicati prima che la
questione si possa risolvere; forse non si riuscirà a risolverla. Ma qualunque sia la
soluzione per gli individui ordinarî, questo va notato : la prima volta in cui si è tro-
vato un Infusorio, capace di subire mutamenti di alimento che nel corso di un paio
di giorni conducono alla coniugazione, senza essere obbligato per le sue prorietà fisio-
logiche anche a dividersi, esso ha reagito colla coniugazione, individualmente, non coi
suoi figli o nipoti. Una certa indipendenza appare dunque in ogni modo tra la reazione
coniugativa e la divisione.
V. Conclusioni.
l. Si ottengono coniugazioni ripetute di Chilodon uncinatus, aggiungendo cibo una
sola volta ad una cultura in cui già è scoppiata una epidemia di coniugazioni, e la-
sciando insorgere una nuova penuria di alimento. Esse sono talora assai abbondanti,
sì da costituire una vera epidemia di coniugazioni ripetute, senza escludere con questo
che coniugazioni ordinarie siano contemporaneamente presenti.
2. Le circostanze di tempo in cui si verifica la reazione dimostrano che si agisce
collo stimolo alimentare sopra all’ exconiugante, inducendolo per causa di detto stimolo,
alla seconda coniugazione. È la prima volta che si ottengono coniugazioni stimolando
direttamente l’ individuo che entrerà in coniugazione ; generalmente si ottengono stimo-
lando individui i cui discendenti prossimi entrano in coniugazione.
3. Il concetto della coniugazione come reazione alle condizioni esterne, riceve così,
dalle presenti ricerche, nuova conferma.
VI. Note bibliografiche.
Le precedenti memorie dello stesso titolo sono pubblicate nei luoghi seguenti :
I. Archiv fir Protistenkunde, Vol. 9, p. 195-296, 1907.
II. (Wiederkonjugante und Hemisexe bei CRilodon uncinatus). Ibidem, Vol. 12, p. 213-276, 1908.
III. Memorie di questa Accademia, Ser. 6, Vol. 6, p. 463-500, 1909.
IV. Ibidem, Vol. 7, p. 161-198, 1909-10.
V. Memoria del Dott. Jules Zweibaum, in Archiv fir Protistenkunde, Vol, 26, p. 275-393, 1912.
Abbondante bibliografia sulla coniugazione in generale, fino al 1912, si trova in queste memorie.
Riguardano la coniugazione ripetuta i seguenti lavori:
Collin, B.: Sur l’existence de la conjugaison gemmiforme chez les Acinétiens, C. R. Accad. Sc.,
Paris, Vol. 148, p. 1416-1418, 1909.
Klitzke, M.: Ueber Wiederconjuganten bei Paramaecium caudatum. Arch. f. Protistenk. Vol. 83,
p. 1-20, 1914.
Bologna, Istituto zoologico.
— oz —-.
ELEFANTI FOSSILI
NEL R. MUSEO GEOLOGICO DI BOLOGNA
Parte II
MEMORIA
DEL
Pror. Sen. GIOVANNI CAPELLINI
letta nella Sessione del 30 Gennaio 1916.
ELEPHAS ANTIQUUS, Falconer.
Pochi sono i resti di E/ephas antiquus nel Museo di Bologna, ma per circostanze
diverse parecchi di essi sono particolarmente interessanti.
Nell’ antico Museo di Storia naturale, le ossa fossili erano fissate entro cassette,
dietro le quali erano poi incollati foglietti con note autografe dell’ Abate Professore
Ranzani. Da quelle note si rileva che, alcune delle ossa di Elefante mandate a
Bologna dal Generale Marsigli, nei primi anni del secolo XVIII, provenivano forse da
una grotta scoperta nel 1700 nelle vicinanze di Canstatt.
Ranzani a questo riguardo. cita il catalogo manoscritto dello stesso Generale
Marsigli, che esiste nella biblioteca della Università (Codici Marsigliani N. 104), nel
quale si legge: « Nella cassa segnata C N.° 13 Varii Eburii, et uni corni fossili |
« trovatesi nella Selva negra, particolarmente nel paese di Vittemberg in una grotta
« vicina ad un luogo di Canstatt discoperto l’ anno 1700, dove si ritrovano ossi di
« ogni sorte d’ animali come dalli due pezzi segnati III da questi segni ».
Nel maggio 1861, avendo avuto la fortuna di potermi occupare di vertebrati fossili
con la guida del celebre Falconer che accompagnai pure in profittevoli escursioni
nell’ Emilia, nelle Romagne, nel Veneto, nell’ Istria, con una prima revisione dei resti di
elefanti fossili le ossa mandate dal Marsigli, trovate con la indicazione del Ranzani
forse provenienti da Canstatt furono riferite all’ Elephas antiquus, Falconer. Nel 1868
essendo a Stuttgart per fare escursioni nelle classiche località ricche di fossili. giu-
rassici, e segnatamente a Boll per visitare le cave di schisti ardesiaci nei quali si
trovano tanti avanzi di Ittiosauri, pensai di fare altresì una escursione a Canstatt per
studiare il giacimento ove nel 1816 era stato trovato l’ ammasso di zanne elefantine
che si conserva nel museo di Stuttgart con molti altri avanzi di Elephas primigenius
provenienti dalla stessa località.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 7
ESE SI (GRAAE
Mentre per una parte in me si avvalorava il dubbio della esatta provenienza dei
resti degli elefanti, riconosciuti spettanti all’ E. antiquus nel Museo di Bologna, per
l’ altra esaminando tutto quanto si trova nel Museo di Stuttgart, proveniente da Can-
statt, mi pareva di riconoscere che, oltre a copiosi avanzi di vero E. Primigenius, vi
fossero pure indubbii resti di altra specie per la quale restavo però alquanto incerto
se da doversi riferire all’ E. antiquus oppure all’ E. armeniacus.
Dopo ciò, ritenendo con tutta sicurezza che non vi sia più da dubitare sulla pro-
venienza degli avanzi elefantini inviati dal Marsigli come provenienti da Canstatt,
passerò senz’ altro alla loro enumerazione, cominciando dall’ esemplare per la cui esatta
determinazione non si ebbe mai alcun dubbio, perchè dovuta all’ autore della specie.
Facendo seguito, con la numerazione, alla registrazione dei resti di Elephas meridio-
nalis descritti nella 1% Memoria del 1914, comincerò il presente catalogo col N. 132.
132. Penultimo dente molare inferiore destro ben conservato ; vi si contano dodici
lamine alquanto logorate ; la lunghezza della corona essendo m. 0,17, nella maggiore
larghezza misura m. 0,085. Per la fossilizzazione questo dente corrisponde perfettamente
a tutti i resti elefantini da me. esaminati. Questo esemplare proveniente da Canstatt
nelle note del Prof. Ranzani era così indicato: N. 2. Mascellare inferiore intero.
Forse di una grotta vicina a Canstadt.
133. La porzione di un bel dente incisivo, lunga appena m. 0,33 e con una cir-
conferenza massima di m. 0,45 segnato dal Ranzani col N. 2 è notata pure come
« Parte insigne di una enorme zanna di Elefante, forse di quello scoperto nell’ anno
1700 in una grotta vicina a Canstatt ».
134. Altra porzione di zanna lunga m. 0,30 e con m. 0,32 di circonferenza è
pure indicata come proveniente da Canstatt.
155. Porzione sinfisiaria della mandibola abbastanza ben conservata, riconosciuta e
già determinata dal Professore Ranzani. Con questo frammento si completano i pochi
avanzi raccolti dal Marsigli e indicati come provenienti da Canstatt.
136. Zanna lunga m. 2,07 in parte incrostata e, per fratture risaldate, distorta ;
però complessivamente ben conservata e spettante a un individuo adulto colossale
come fu l’ E. antiquus in confronto alle altre specie.
Dopo la escursione a Canstatt nel 1868, questo esemplare ebbi in dono dal Prof.
Oscar Fraas; con esso, di sicura provenienza da quel celebre giacimento, ho finito
di dire dei più antichi e dei più recenti avanzi di elefanti fossili del nostro Museo
provenienti da Canstatt e dintorni.
187. Fra gli esemplari dell’ antico Museo di Storia naturale passati alla Geologia
trovasi il ramo mandibolare destro di un elefante fossile con il penultimo e l’ ultimo
PIT) (0A
molare ben conservati. Il penultimo molare lungo m. 0,21 con dodici lamine che avendo
tutte funzionato permettono di apprezzarne le caratteristiche relative alla forma, allo
smalto e alla dentina, per le quali è indubbiamente riconoscibile che si tratta dell’ Y.
antiquus e come tale fu riconosciuto anche da Falconer e da Pohlig, due grandi
autorità in tale materia. L’ ultimo molare si mostra appena spuntato nell’ alveolo, ma
poichè questa parte di mandibola è rotta nella sua estremità posteriore e inferiore, è
possibile di studiare questo ultimo dente nella sua parte radicolare e vi si contano
pure distintamente dodici lamine.
Quanto alla provenienza vi ha da dubitare fortemente che la antica indicazione
(proveniente da Canstatt) non sia esatta. Per lo stato di conservazione, ossia per la
natura della fossilizzazione, sì -potrebbe sospettare che piuttosto provenisse dal Valdarno:
da Canstatt no certamente.
138. Due modelli di incisivo, o zanna, di latte, evidentemente riferibili all’ esem-
plare proveniente da Taubach illustrato da Pohlig (1). Questi modelli furono donati
dal preparatore Bercigli del museo di Firenze con la indicazione che quel germe di
zanna era stato raccolto a Bonn, forse perchè allora il Dott. Pohlig era a Bonn e
da esso il Bercigli aveva avuto il dentino da modellare.
139 - 140. Due modelli di molari di latte antipenultimi inferiori con una sola radice,
sempre e unicamente in questa specie. Gli originali provenienti da Taubach (Sassonia)
raccolti nel quaternario medio furono illustrati dal Prof. Pohlig e figurati nella
Memoria citata Tav. II bis fig. 4 e 6. Donati dal Prof. Pohlig nel giugno 1911
con l’ augurio, per il direttore del Museo geologico, ad multos annos.
141. Un ultimo molare inferiore destro, di straordinaria bellezza per le dimensioni
e per la bella conservazione.
L’ esemplare nella sua maggiore lunghezza misura m. 0,36; ma tenendo conto
del modo col quale le sue lamine si presentano sulla faccia coronale sarebbe un poco
più corto se pure non manca una ultima lamina posteriore come vi ha motivo di
dubitare. Le lamine logorate sono dodici compresa la prima anteriore della quale
resta soltanto una parte; vi sono poi altre quattro lamine posteriori che non avevano
ancora funzionato e forse ne manca, l’ ultima, come ho sopra accennato. La maggiore
larghezza della corona corrisponde alla lamina sesta anteriore.
L’ avvocato Cantamessa aveva acquistato questo esemplare dal Brilli raccoglitore
di fossili Valdarnesi ben noto in Toscana e che assicurò di averlo trovato nei dintorni
di San Giovanni; faceva parte della collezione di vertebrati fossili acquistata pel Museo
di Bologna nell’ anno 1890.
(1) Pohlig Dr. Hans — Dentition u, Kraniologie des Elephas antiquus, Falc. Zweiter Abschnitt.
Band. 2 Fig. 1. Halle 1891.
SLIGO dal
142. Penultimo molare superiore destro con dodici lamine; nella lunghezza di
m. 0,19. Le lamine anteriori più larghe misurano da m. 0,70 -m. 0,065. Anche
questo esemplare proviene da San Giovanni in Valdarno e faceva parte della collezione
Cantamessa. i
148. 3° molare superiore destro con quattordici lamine ben distinte ma mal con-
servate ; di ignota provenienza molto dubitativamente di Toscana e forse dal Valdarno.
144. Modello di dente molare superiore di giovane individuo, ben conservato, con
undici lamine usate ; lunghezza della corona m. 0,140. L° originale si trova nel Museo
di Firenze ed è registrato come proveniente dai dintorni di Livorno.
145. Porzione di un dente molare superiore sinistro con nove lamine non usate,
tre usate; mancano certamente almeno altre quattro lamine anteriormente. Anche di
questo esemplare non si conosce la esatta provenienza nè mi è stato possibile di con-
getturarla pel modo di fossilizzazione.
146. Porzione mediana di dente molare superiore sinistro; quattro lamine ben
conservate e usate, larghe m. 0,023.
Evidentemente questo frammento si riferisce a un individuo adulto colossale e se
fosse completo non dovrebbe essere stato inferiore per lunghezza all’ esemplare di
molare inferiore descritto al N. 141 e cioè: doveva avere una corona lunga com-
plessivamente m. 0,360 - 0,380. Neppure di questo esemplare mi è riuscito di rico-
noscere la provenienza; certamente non proviene dal Valdarno.
147. Porzione di dente molare inferiore destro assai male conservata e da riferirsi
dubitativamente all’ E. arfiquus, Falconer. Interessa soltanto per la ben accertata
provenienza da Romagnano (Veneto).
148. Frammento di teschio del quale è necessario di tener conto perchè proveniente
dalla collezione di Anatomia comparata e registrato nel catalogo del professore Ales-
sandrini col N. 6141, con la indicazione di averlo avuto dalla ‘Toscana nel luglio
1859.
Si capisce come per questo frammento debba essere assolutamente incerto il rife-
rimento all’ £. antigquus Falc., piuttosto che all’ E. meridionalis, Nesti.
149. Ultimo e penultimo molari superiori delle due mascelle delle quali restano
porzioni che incassano i denti.
I due penultimi destro e sinistro sono usati e vi si contano nove lamine, gli
ultimi molari posteriori spuntano dall’ alveolo con le tre prime lamine anteriori appena
logorate. Di ignota provenienza esatta ma certamente di Toscana, forse di Val di Chiana.
all O i
150. Porzione di mandibola sinistra con due denti incompleti; donato dal capitano
Verri nel 1877 e proveniente da Gioiello. Per lo stato di conservazione, ossia per
la fossilizzazione ricorda talmente la porzione di cranio sopra descritta (149) da potere
‘sospettare che i due esemplari provengano da uno stesso giacimento.
151-152. Due porzioni dei primi molari, destro e sinistro, inferiori di giovane in-
dividuo. Nella porzione di molare destro (191) si contano ancora otto lamine comin-
ciando dall’ ultima posteriore ; del molare sinistro (152) restano solamente sei lamine,
ultime posteriori.
I due frammenti furono raccolti fra Pozzuolo e Gioiello presso il lago Trasimeno.
158. Porzione di dente molare inferiore destro, con frammento della mandibola.
Fra Pozzuolo e Gioiello.
154. Un bel dente incisivo, o zanna, di m. 2,65 di lunghezza, con una circonfe-
renza di m. 0,55 nella estremità radicolare fu raccolto a Castel Viscardo e donato
al Museo dal Principe Federico Spada Veralli nel 1869.
155. Dente molare superiore destro, lungo m. 0,21 con quattordici lamine delle
quali le due prime anteriori mutilate e le tre ultime posteriori non ancora usate ;
pel resto è ben conservato e per più riguardi può dirsi interessante.
Questo esemplare ho trovato nella collezione già del Museo di Anatomia comparata,
catalogato dal professore Alessandrini col N. 531 e dalla nota relativa si rileva che
fu « trovato dai contadini nelle colline a breve distanza dalla città (parrocchia della
Croara) scavando nello strato di ghiaia che costeggia la strada comunale, nel marzo
1834 ». Il diligentissimo professore ha pure indicato quanto ebbe a pagare per questo
fossile e cioè Sc. 1,60, ossia circa lire otto e mezza.
156. Dallo stesso giacimento del pliocene superiore proviene pure un frammento di
molare con avanzi di quattro lamine e ‘ghiaiuzze cementate.
IL’ esemplare interessante per la provenienza si trovava nell’ antico Museo di Storia
naturale con la seguente nota autografa del professore Bianconi. « Dente fossile
« trovato nella Collina della Croara, in luogo detto io delle gioie, cavato di mezzo
« allo strato di ghiaia e sabbia che ivi si trova sovrapposto alle marne turchine (bleu);
« dono del Sig. Canonico Garagnani ».
157. Porzione di dente molare superiore forse del Bolognese.
Questo frammento fu portato al Museo nel 1913 e donato dal dott. Giacomo Ber-
sani che assicurò di averlo trovato a Gaibola, ove peraltro non è possibile di pensare
che si trovasse in situ, poichè vi hanno soltanto gessì del mio-pliocene o strati a
Congeria; quindi da ritenersi come erratico e che ivi fosse stato trasportato d’ altronde.
SEE gen
158. Altro frammento di dente molare, con le quattro ultime lamine posteriori non.
usate e avanzi di una quinta anteriormente, è semplicemente indicato come prove-
niente da Imola.
159. Modello del 6° molare inferiore destro proveniente dalle ligniti bituminose di
Durten al nord di Roppschwillere e conservato nel Museo di Lione.
160. Modello della mascella superiore destra con il 3° e 4° molare di un individuo
giovane. L’ esemplare originale fu raccolto nei dintorni di Marsiglia e si trova nel
Museo di Lione.
ELEPHAS INTERMEDIUS, Jourdan.
161. Modello di un sesto dente molare superiore sinistro raccolto nel letto della
Saone Vaise, conservato nel Museo di Lione e pel quale il Jourdan pensò di proporre
un nuovo nome specifico che ricordasse come quell’ elefante partecipasse dei caratteri
dell’ E. antiquus Falce. e dell’ E. primigenius, Blum.
Sopra una lunghezza di m. 0,360 si contano 27 lamine che ricordano le due
specie sopra indicate forse un poco più le lamine dell’ E. primigenius.
162. ELEPHAS ARMENIACUS, Falc.
163. ELEPHAS TROGONTHERII, Pohlig.
Nel 1856 il dottor Fabroni di Arezzo donava al Museo di Bologna una porzione
di palato di elefante fossile raccolto in Val d’ Arno presso Quarata. L’ esemplare cui
era unito un frammento con inesatta indicazione, veniva descritto dal prof, Alessandrini
nel catalogo del Museo di anatomia comparata e registrato col N. 5824. Dal cartellino
originale che si trova unito all’ esemplare e dal citato catalogo resulta che il pro-
fessore Alessandrini aveva riconosciuto che 1° esemplare al quale sono uniti due bei
denti molari mascellari ancora al loro posto, era da riferirsi al genere ZElephas (E.
fossilis) e confrontava quei denti con altro illustrato da Cuvier e che si trovava
nel Museo di Firenze nel 1861.
Quando U. Falconer venne a trovarmi in Bologna per avermi compagno di
escursioni nell’ Emilia, nelle Romagne, nel Veneto, in Carnia e nell’ Istria, benchè
allora si interessasse particolarmente dei preziosi resti di Rinoceronte del nostro Museo,
approfittai della bella opportunità anche per una prima revisione dei resti di elefanti.
E l’ esemplare di Quarata molto interessò il Dottor Falconer che in esso rico-
nosceva un esemplare tipico dell’ Elefante che aveva denominato E. armeniacus.
Nelle Memorie paleontologiche del grande paleontologo, pubblicate dopo la sua
morte non è fatta menzione alcuna di questo esemplare, e da tempo avevo fatto pre-
Sali
parare anche fotografie pensando di darne una particolareggiata descrizione ; ma nulla
era stato fatto quando il Dott. Pohlig fu per alquanti giorni a esaminare e studiare
i resti degli elefanti fossili del Museo geologico di Bologna.
La prima notizia, pertanto, relativa a questo esemplare del quale pure mi occupai
con quel valente paleontologo, si trova nella sua interessante pubblicazione sull’ E/e-
phas antiquus Falc. (1).
Il Dott. Pohlig discute lungamente sui caratteri pei quali V’ 4. Trogontherii si
avvicina all’ £. primigenius, all’ E. antiquus e talvolta perfino all’ E. mieridionalis,
riconosce che l’ esemplare più importante e più tipico da esso esaminato è questo del
Museo di Bologna e ne dà anche una meschina figura (% dell’ originale).
Indubbiamente tutte le notazioni del Pohlig vanno tenute in seria considerazione ;
qualora si avessero numerosi e ben conservati esemplari provenienti da ben noti gia-
cimenti si potrebbe anche meglio chiarire se si tratti soltanto di transizione dall’ E.
antiquus all’ E. primigenius, a quest’ ultima maggiormente affine, oppure altrimenti.
È degno di nota che in conclusione il Pohlig, trattandosi dell’ esemplare di
Bologna che il Falconer fino dal 1861 riferiva all’ E. armeniacus, conguagliandolo
con l’ E. Trogontherii aggiunge un punto interrogativo.
Per il fine e l'indole di questo catalogo, per ora credo opportuno di non dire
maggiormente di questo interessante esemplare.
164. Un bello esemplare di dente molare superiore destro proveniente da Ponte di
Tresa va pure riferito a questa specie e fino dal 1861 è notato come spettante all’ E.
armeniacus. Vi si contano 14 lamine delle quali la prima incompleta e le ultime poste-
riori poco logorate. Diametro antero-posteriore m. 0,210; larghezza maggiore m. 0,10.
Il Dott. Pohlig descrive pure questo esemplare che riferisce al suo E. Trogontherii;
ma, attribuendovi cartellini che certamente erano spostati, dice che si riteneva plio-
cenico; mentre è da avvertire che il cartellino unito all’ esemplare e sul quale è
stampato Elephas armeniacus essendo in carta color verdolina indica che spetta al
pleistocene. Nel nostro Museo i vertebrati fossili del pliocene hanno cartellini di color
giallo corrispondente al gamma dei colori per la carta geologica di Europa adottata
dal Congresso geologico internazionale di Bologna nel 1881.
ELEPHAS AUSONIUS, Major.
165. Col N. 5825 segnato dal professore Alessandrini sul fossile e nel rela-
tivo cartellino, trovasi indicato il destro ramo della mandibola di elefante con un
dente mancante, anteriormente, di porzione di due lamine restandone dodici abbastanza
ben conservate. Questo esemplare raccolto nel pliocene di Montepulciano fu donato al
Museo di Anatomia comparata e veterinaria di Bologna nel 1856.
(1) Pohlig. Dv Hans. — Dentition und Kranologie des E/ephas antiquus, Falc. Erste
Abschnitt. ZMalle 1888.
Il Dottore Forsyth Major visitando il Museo di Bologna trovò il fossile di
Montepulciano tra i resti di E. meridionalis, ma con un punto interrogativo. Il bravo
paleontologo che già tanto si era interessato dei vertebrati del Valdarno e della Val
di Chiana credette di riconoscere nel nostro esemplare le caratteristiche della specie
che aveva proposto di distinguere col nome di Z/ephas ausonius.
Mancandomi elementi per una seria discussione sul valore da attribuire alla nuova
specie distinta dal Prof. Major, per deferenza verso il valente scienziato, benemerito
del nostro Museo per doni pregevolissimi, ho pensato di mantenere quella indicazione
semplicemente annotandola.
166. Porzione di un dente molare che può considerarsi come la metà posteriore
costituita da sette lamine, nessuna delle quali presenta tracce di logorazione, segnato
con la etichetta stampata Elephas antiquus? Falc. proveniente dal pleistocene del
Ponte di Tresa, ancora dubitativamente veniva riferito all’ £. ausonius del Major.
L’ esemplare incompleto e mal caratterizzato, lascia dubitare non soltanto per il rife-
rimento specifico ma anche per la esattezza della indicata provenienza.
ELEPHAS PRISCUS, Falconer.
Dall’ isola di Candia e precisamente da Grida Avlaci provengono i seguenti resti
di elefante fossile ivi raccolti dal professore Vittorio Simonelli, da esso illustrati
e poscia donati pel nostro Museo (1).
167. Mandibola con due molari ma disgraziatamente mutilata, minutamente descritta
dal Prof. Simonelli e confrontata con l’ E. africanus e con V E antiquus.
168. Azlante. Questa vertebra abbastanza ben conservata ha permesso al Prof. Si -
monelli di istituire interessanti confronti con la analoga di altre specie particolar-
mente con l’ E. indicus e con l’ E. africanus.
169. Omero destro, come i precedenti avanzi descritto e figurato nella citata Me-
moria del Prof. Simonelli cui ha servito anche per importanti comparazioni con
parecchie altre specie per poter concludere della dimensione dell’ elefante di Grida
Avlaci, che ritiene dovesse essere di m. 2,50 di altezza al garrese e da considerarsi
come statura cospicua per un proboscidiano insulare.
170. Bacino porzione; porzione di una costola e frammenti di ossa diverse spettanti
allo stesso animale, ma di poco interesse paleontologico, sono pure conservati nel Museo
con questo unico numero.
(1) Simonelli V. — Mammiferi quaternari dell’ isola di Candia. Memoria seconda. Mem.
della R. Accad. delle Scienze dell’ Ist. di Bologna. Serie VI. Tomo V. p. 397. Bologna 1908.
SEEN SME
ELEPHAS PRIMIGENIUS, Blum.
Dell’ Elefante primigenio, il nostro Museo possiede alcuni avanzi che hanno grande
importanza per la loro provenienza e per aver fatto parte delle collezioni con le quali
fu iniziato il Museo di Storia naturale dell’ Istituto delle Scienze di Bologna, fondato
dal Generale Conte Luigi Marsigli nel 1714 ad fotius Orbis usum.
Nell’ opera colossale che ha per titolo: Danubius pannonico-Mysius, sono descritti
e figurati avanzi di elefanti raccolti dal Generale in Transilvania e da esso attribuiti
ai Romani che in guerra si giovavano efficacemente di tali animali. De ossibus ele-
phantorum variis in paludibus repertis qui antiquitus in acie erant ad instar porta-
tilium fortilitiorum.
Il Marsigli dice di aver avuto da un contadino di Sirmia alcuni denti e vertebre
provenienti dalla palude Julea in Slavonia interrita dalle piene del fiume Baconsio o
Buzuth e dalla Sava e, poichè gli storici parlano di battaglie che ebbero luogo in
quella regione, il Marsigli si rende conto della presenza dei resti di elefante in detti
luoghi.
Nell’ opera citata tali avanzi furono figurati in grandezza naturale e di essi il
più importante era senza dubbio la bella mandibola coi due ultimi molari che, nella
tavola 31, è rappresentata naturali forma ac magnitudine, raccolta da pescatori in
una palude del Tibisco poco sopra Romeskanz.
Già nella mia prolusione al corso di geologia e paleontologia nel 1862 ebbi oc-
casione di lamentare che della bella mandibola fino allora altro non mì fosse riescito
di trovare fuorchè il cartellino del secolo XVIII, quando il museo era affidato a Giu-
seppe Monti (2). Per accurate ulteriori indagini mi riescì di trovare tutti i resti ele-
fantini figurati dal Marsigli, ma della mandibola soltanto porzioni.
171. La estremità sinfisaria ancora ben conservata, porzione del ramo destro della
mandibola col bellissimo ultimo molare che però era disgiunto dal frammento osseo
relativo col quale potei raccordarlo ; nulla del ramo sinistro. Sulla faccia esterna del
frammento mandibolare si legge ancora, scritto con inchiostro comune e appena visi-
bile: Portio mawiliae inferioris elephantis... ex latere dextro; questa iscrizione sta
ad indicare che quella porzione del ramo mandibolare destro riconosciuta come por-
zione della mandibola figurata dal Marsigli era da tempo disgiunta dalla porzione men-
toniera con la quale va raccordata.
Il più antico catalogo del Museo di Storia naturale che si conserva nel Museo
geologico ha per titolo : Synopsis Musei Mineralium. Una annotazione in margine della
(1) Marsili Conte Ferd. — Danubius Pannonico-Mysius observationibus geogr. astronom.
hydrogr. histori, physicis illustratus. Tomus secundus. Amsterdami MDCCXXVI.
(2) Capellini G. — Geologia e Paleontologia del Bolognese. Cenno storico. Bologna, l'ip. del
Progresso, 1862.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 8
dar (CR
prima pagina lo indica copiato, probabilmente da Gaetano Monti che nel 1720 intra-
prese il catalogo generale del Museo sotto la direzione del di lui padre Giuseppe e
vi è aggiunto: Rivisto dal Can.°° Trionfetti (1).
Nel capitolo di detto catalogo col titolo: Ligna et animalium partes petrificatae
si hanno le seguenti numerazioni che corrispondono a parte delle ossa fossili di ele-
fante figurate dal Marsigli : i
N.° 20 Os Tibiae seu... Elephanti.
» 21 Mandibula una elephanti cum dentibus, filo ferreo traiecta.
» 22 Vertebra ejusdem in duas partes.
» 23 Ossa quadam ex majoribus non integra num.° tria ; Item por-
tiones radicum dentis Elephanti numero quinque videntur
petrificato.
Da queste indicazioni che ben corrispondono ai resti fossili dei quali ci occupiamo
sì ricava che la bella mandibola già era spezzata e legata con filo di ferro, però
nulla doveva. mancare perchè accennasi cum dentibus.
172. La porzione mediana di un dente molare ultimo del lato sinistro mandibolare
evidentemente spetta allo stesso esemplare di cui restano soltanto porzioni.
Mancano a questo dente cinque lamine nel lato posteriore e sei anteriormente ;
restano dodici delle lamine mediane.
Non si può escludere il sospetto che si tratti di porzione dell’ altro dente molare
figurato dal Marsigli nella Tab. 30 e indicato come proveniente esso pure dalla palude
Hiulca o Hiulea insieme a porzioni di zanne.
173-174-175-176. La porzione di zanna figurata dal Marsigli nella Tab. 30. del
Tomo 2 dell’ Opera citata era stata particolarmente notata dal Professore Ranzani
e, avendola trovata con altre tre porzioni o frammenti di zanna che evidentemente
provengono da uno stesso giacimento, non dubito che anche questi resti si debbano
ritenere come l’ esemplare principale donati dal Generale Marsigli e raccolti nella palude
Hiulea in Transilvania.
177. La bella vertebra cervicale ; Atlante, figurata in grandezza naturale nella
Tab. 28 dell’ opera del Marsigli fa parte del prezioso materiale proveniente dalla
palude Hiulea e per essa ho pure trovato il cartellino artistico col quale nel secolo XVIII
era già segnalata come rimarchevole.
178. Una tibia sinistra ben conservata e con antica indicazione di provenienza
dalla palude Hiulea non corrisponde, per le sue estremità, alle figure date dal Mar-
(1) Al canonico Trionfetti il Generale Marsigli nel 1714 aveva affidata la direzione del Museo da lui
fondato e questi la tenne fino al 1718 e morì nel 1722. Al Trionfetti succedette Giuseppe Monti aiu-
tato dal figlio Gaetano che finì il catalogo nel 1795 e cioè dopo 75 anni di lavoro.
Rie
sigli nella Tab. 29 con la seguente iscrizione : Os tibiae Elephantinae fibris ac poris
suis interius uliquantis per persum repertum in palude prope Fogheras in Transil-
vania. Un vecchio cartellino attaccato all’ osso ne indica soltanto la dimensione : Tibia
d’ elefante lunga piedi due e pollici quattro ; rigorosamente misurata m. 0,65.
179. E per ultimo un misero avanzo di un omero destro pure indicato come pro-
veniente dalla palude Hiulea.
Questi avanzi della donazione Marsigliana si conservano fuori serie nella tribuna
dedicata ad Aldrovandi nella quale sono raccolti gli avanzi delle più antiche collezioni
con le quali nel secolo XVIII ebbe principio il Museo di Storia naturale dell’ Istituto
delle Scienze di Bologna.
180. Modello di una mandibola assai bene conservata che si trova nel Museo di
Storia naturale di Lione. Da un cartellino affisso a questo modello che il Museo di
Bologna deve alla cortesia della Direzione del Museo Lionese si rileva che 1’ originale
fu trovato a Ecully nel 1839. Il Prof. Jourdan aveva riconosciuto questo esemplare
come tipico della specie che esso aveva fondata col nome di Elephas intermedius.
Demi lune, route de Brignais à Champagne, Ecully, (Rhone).
181. Bellissimo modello del sesto molare superiore sinistro che pure si trova nel
Museo di Lione. Il cartellino fissato sul modello indica la provenienza dell’ originale
da Pont le Veyle nel 1859.
182. Pure dal Museo di Lione altro modello dell’ ultimo molare superiore destro.
Il modello fu tratto da un esemplare raccolto a Psassikon, ad Est di Zurigo; così
dal cartellino del Museo di Lione.
188. Una porzione mediana di dente molare superiore consta di sole otto lamine
caratteristiche. Da un cartellino che doveva servire per il numero da attribuire al-
l’ esemplare ne fa conoscere la provenienza dalle più antiche collezioni, però non vi
ha alcuna indicazione del giacimento. L’ esemplare è interessante per la parte radicale
ben conservata.
184. Merita appena di essere ricordata altra porzione di dente molare superiore,
per la cui provenienza in vecchi cartellini trovai indicato Gambach? e più Gratz in
Stiria.
185.. Molare inferiore sinistro di giovane individuo con sole dodici lamine, man-
candone forse un paio anteriormente. Raccolto nel diluviale grigio del Bacino di Parigi.
In un periodico di Terra d’ Otranto (Il Cittadino Leccese), fino dal maggio 1872
il Cavaliere U. Botti annunziava la scoperta di ossa e denti di elefante raccolte due
anni prima a Cardamone presso Novoli, circa dodici chilometri da Lecce. L° importante
scoperta era ancora ricordata dal Botti nel 1874 in una breve Nota col titolo : Sco-
perta di ossa fossili nella Terra d’ Otranto (1) e in seguito, illustrando la Grotta
ossifera di Cardamone faceva meglio apprezzare la importanza dei resti di elefante
che riferiva decisamente all’ Elephas primigenius, proponendo di distinguerlo come
varietà, col nome di Var. Ridruntinus (2).
Il Botti istituiti accurati confronti anche con altri resti di E. primigenius scoperti
in Italia, accompagnava con figure la descrizione di due molari benissimo conservati
e i preziosi esemplari donava al Museo geologico della nostra Università.
186. Un 1° molare superiore sinistro, (Boll. cit. Tav. XXVI fig. 1) con undici
lamine usate ed una non ancora scoperta fornito di robuste radici fu così determinato
dal Botti seguendo Blainville.
187. Altro dente pure proveniente dalla Grotta di Cardamone (fig. 2 Tav. cit.) va
riferito all’ ultimo di latte o premolare inferiore sinistro. Per le piccole dimensioni il
Botti opportunamente confrontò i denti dell’ Elefante di 'l'’erra d’ Otranto con gli ele-
fanti di Malta e con altri resti di E. primigenius raccolti in Italia e in Ungheria.
Il professore E. Flores che in seguito si interessava dell’ elefante primigenio nell’ Italia
meridionale continentale, ebbe occasione di occuparsi in modo particolare dei denti
provenienti dalla Grotta di Cardamone e confrontandoli con il molare di La Loggia
insiste e conclude sui loro stretti rapporti e cioè da riferirsi egualmente all’ £. pri-
migenius, Blum. var. hydruntinus, Botti (3).
188. Un bel modello del molare controverso, del quale si interessò in modo parti-
colare il Prof. Portis e che si trova nel Museo di Torino da antica data. mi fu
donato dal Prof. Gastaldi con la seguente iscrizione : Elephas primigenius ; nel letto
del Po presso Carignano. Il Flores ha giustamente confrontato quell’ esemplare con
i classici denti della varietà scoperta dal Botti per l’ elefante della Grotta di Car-
damone e poichè il Portis ne ha parlato abbastanza diffusamente mì limiterò a ri-
cordare che la sua Nota è anche accompagnata da buone figure (4).
189. Un bel modello di cranio completo con la rispettiva mandibola, tratto dal
superbo esemplare completo che si ammira nel Museo di Storia naturale di Bruxelles
fu donato al Museo di Bologna dal compianto Prof. E. Dupont. Questo modello prov-
visoriamente è collocato, fuori serie, nella Sala N.° X nella quale sono conservati
avanzi delle più antiche collezioni litologiche in scaffali del Secolo XVIII.
(1) Bollettino del R. Comitato geologico d’ Italia. Anno V. Roma 1874.
(2) Botti U. -— La grotta ossifera di Cardamone in "l'erra d’ Otranto. Bollettino della Società
geolog. ital. Vol. IX. Roma 1891.
(3) Flores E. — L’Elaphas primigenius, Blum. nell’ Italia meridionale continentale. Bollettino
della Società geologica italiana Vol. XXII. 1903.
(4) Portis A. — Di alcuni avanzi elefantini fossili scoperti presso Torino. Bollettino della
Società geol. ital. Vol. XVII. Roma 1898.
En e
190. Col N. 5827, tra i resti di mammiferi fossili avuti dal Museo di Anatomia
comparata, trovai notato come porzione di zibia la metà superiore o prossimale che
dir si voglia di un bel cubito che, avuto riguardo anche alla sua provenienza, fu
attribuito all’ E. primigenius. Questo esemplare fu raccolto in Val di Chiana presso Fras-
sinetto e dal Dott. Fabroni donato al professore Alessandrini nel 1856. Poichè mi
consta di altri avanzi di E. primigenius raccolti a Frassinetto, ritengo giusto il rife-
rimento a questa specie.
191-192-193. Tre frammenti di un dente molare, il capo articolare di un femore
ed un bello esemplare di astragalo indicati come provenienti da Fontignano sono pure
riferiti all’ E. primigenius; ma per verità questi avanzi lasciano molto da dubitare
quanto alla esattezza della determinazione loro, poichè dalle lamine residue del dente
si potrebbe invece sospettare che fossero da riferirsi all’ E. antiquus.
194. Al Prof. Karpinski della Accademia delle Scienze di Pietroburgo il Museo
di Bologna è debitore di un bel ciuffo di peli della criniera di un Elephas primigenius
trovato lungo le rive dell’ Jana nella Siberia occidentale.
195. Avanzi vegetali tratti dallo stomaco di un Mammouth il cui cadavere fu
scoperto nel 1901 sulla riva destra del fiume Beròsowka affluente del Kolym nella
provincia di Jakutsk in Siberia.
Appena ebbi notizia della importante scoperta, scrissi al professore Karpinski
vivamente interessandolo perchè mi procurasse un poco del pasto non digerito del fos-
sile siberiano che doveva contribuire notevolmente a farci conoscere le vere condizioni
climatologiche delle regioni abitate dall’ Elephas primigenius in Asia e in. America;
in Siberia e nell’ Alaska.
Solamente nel 1911, tra i doni che per fausta circostanza ricevevo dall’ Europa
e dall’ America, dall’ amico Karpinski ricevevo un bel saggio dei preziosi avanzi ve-
getali lungamente desiderati e | amico gentile li accompagnava con uno schizzo di
carta geologica e interessanti indicazioni riguardo al giacimento del cadavere i cui
resti sono ora conservati nel Museo di Pietrogrado.
L’ esame degli alimenti dell’ Elefante Siberiano era stato intrapreso dall’ accademico
Vorognin ma, essendo morto prima di aver fatto conoscere i resultati delle sue in-
dagini, della importante determinazione dei vegetali dei quali si cibavano i Mammouth
si incaricò il Prof. S. N. Sukacew.
Un sunto della Memoria pubblicata in proposito si trova nel Bollettino dell’ Acca-
demia delle Scienze di Pietrogrado e, da esso, credo opportuno di riferire la lista
degli avanzi delle piante finora riconosciute con certezza (1).
(1) V. Sukacew N. — Analyse des debris des plantes dans les aliments du Mammouth trouvé
pres du fleuve Beròsowka. Bulletin de l’ Acad. Imp. des Sciences de St. Petersbourg. VI Serie. fév. 1913.
Per: CITA
Alopecurus alpinus Sm. Beckmannia cruciformis, Host. Agrophyrum cristatwn, (L.)
Bess. Hordeum violaceum, Boiss. et Huet. Carea lagopina Wahlenh. Ranunculus acris
L. Oxytropis sordida Wild.; oltre a questi, due muschi Hyppnum fluitans, (Dill.) Au-
locomnium turgidum, (Wahlemb.) determinati da Broterus. Da tali residui emerse la
conclusione che 1’ alimento principale dei Mammouth era fornito da graminacee e che
la vegetazione d’ allora era identica a quella d’ oggi in quella stessa località.
ELEPHAS MELITENSIS, Falconer.
All' illustre paleontologo Paolo Gervais il Museo di Bologna è debitore della
bella serie di modelli di questo elefante pigmeo. Tali modelli in parte furono eseguiti
espressamente a mia preghiera e per raccomandazione dello stesso Dott. Falconer.
196. Modello di una zanna quasi completa di m. 0,27 seguendo la curva esterna,
mancante tutto al più di altri tre centimetri per la lunghezza totale.
197. Due modelli di porzioni della mandibola.
198. Modelli di due porzioni della prima vertebra cervicale (atlante).
199. Modello dell’ asse o seconda vertebra cervicale.
200. Modello di una vertebra dorsale. Il corpo di questa vertebra ha un diametro
trasversale appena di m. 0,054.
201. Vertebra lombare.
202. Modello di porzione di una costa.
208. Modello di un omero sinistro al quale manca il capo articolare. Lung. m. 0,24.
204. Modello della porzione superiore di un omero destro di dimensioni un poco
maggiori del precedente.
205. Modello della porzione inferiore di un piccolo cubito destro.
206. Altra porzione di cubito destro di un esemplare un poco maggiore del pre-
cedente.
207. Modello di porzione del bacino.
208. Modello di femore destro mancante delle due estremità.
209. Modello di piccola tibia destra incompleta.
SO
210. Modello della epifisi superiore di una tibia destra.
211. Modello dell’ astragalo.
212. Modello del IV metatarso.
213. Modello di una prima falange.
CONCLUSIONE
La collezione dei resti di Elefanti fossili del Museo di Bologna è particolarmente
interessante per taluni esemplari che furono oggetto di studio dei più valenti paleon-
tologi, e per altri anche importanti per la loro provenienza; fra questi mi basterà
di ricordare quelli donati dal Generale L. Marsigli e che già fecero parte del Museo
di Storia naturale di questo Istituto delle Scienze da lui fondato nel 1714.
Nelle diverse parti del mondo si conoscono circa una dozzina di specie di elefanti
fossili e di quasi tutte il Museo Geologico di Bologna oggi possiede qualche avanzo
o modello.
Oltre i resti Marsigliani che si riferiscono all’ E. antiquus e all’ E. primigenius,
meritano speciale attenzione i resti di E. meridionalis con etichetta di pugno di
Cuvier e i bei molari di E. primigenius, var. hydruntinus Botti della Grotta di
Cardamone in Terra d’ Otranto che hanno stretti rapporti con il molare raccolto fra
Moncalieri e Carignano. E finalmente mi piace di accennare i resti della veste e del
cibo dell’ elefante primigenio vissuto in Siberia in condizioni climatologiche non diverse
da quelle delle quali quella regione gode anche attualmente.
Dell’ E. primigenius si trovano copiosi e importanti avanzi anche nell’ Alaska in
condizioni analoghe a quelle dei Mammouth siberiani e il Prof. Osborn e gli altri
paleontologi americani hanno concluso che ivi pure le condizioni climatologiche del-
l’ epoca dei Mammouth non fossero diverse dalle attuali. Con questo criterio, coi resti
trovati, con le figure lasciateci dai preistorici che vissero contemporaneamente all’ E.
primigenius e certamente contribuirono alla sua estinzione, si è potuto immaginare il
Mammouth restaurato coperto di un forte pesante mantello di pelo grossolano con più
lunghi peli setolosi.
Di tali restaurazioni piacemi di segnalare, come la migliore a me nota, quella
dovuta a Charles R. Knigt eseguita sotto la direzione del Prof. Osborn per il
Museo americano di Storia naturale a New York.
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VII. MEMORIA
DI
GIACOMO CIAMICIAN E CIRO RAVENNA
letta nella Sessione del 30 Gennaio 1916.
Colle esperienze finora descritte nelle nostre precedenti Memorie (1) abbiamo sempre
studiato il contegno dei composti organici nelle piante adulte alle quali le sostanze
venivano o inoculate allo stato solido nel fusto o fatte assorbire per la via delle radici.
Con entrambi i sistemi abbiamo avuto, in alcuni casi degli indizi in altri si potè dare
la prova che facendo assorbire alle piante certe sostanze aromatiche si formano, nel-
l’ interno delle piante stesse, i relativi glucosidi.
Ci è sembrato ora interessante di studiare se un simile risultato si fosse ottenuto
anche sui semi germinanti. Abbiamo a tal fine prescelto i semi di mais, frumento,
fagioli, lupino, veccia ; le sostanze sperimentate furono : la saligenina, 1’ idrochinone,
la pirocatechina, |’ alcool benzilico, 1’ acido gallico ed il tannino.
SALIGENINA. — Questa sostanza, che ci aveva dato colle piante adulte i migliori
risultati, venne presa, per le piantine germinanti, in speciale considerazione. Le prove
vennero eseguite col lupino, la veccia, il mais ed 1 fagioli.
Esperienze sul lupino. — Per le prime prove col lupino vennero messi a rigon-
fiare nell’ acqua, il 2 marzo, per 24 ore, alcuni semi e furono quindi posti a germi-
nare su carta da filtro alla luce. A germinazione iniziata, cioè l’ 11 marzo, si cominciò
a bagnare la carta, sistematicamente, con soluzione di saligenina a 1 per mille. Le
piantine però dimostrarono di non sopportare il trattamento, così che dopo 5 giorni
accennarono ad appassire. L’ esperienza venne perciò abbandonata.
Abbiamo tentato allora di abituare le piantine alla saligenina immergendo i semi,
prima della germinazione, per 24 ore, anzichè nell’ acqua, nella soluzione di salige-
nina a l per mille e facendoli germinare in presenza della soluzione stessa. La germi-
(1) Queste Memorie, serie VI. tomo 5, pag. 29 (1907-08); serie VI. tomo 6, pag. 109 (1908-09);
serie VI, tomo 7, pag. 143 (1909-10); serie VI, tomo 8, pag. 47 (1910-11); serie VI, tomo 9, pag. 71
(1911-12); serie VI, tomo 10, pag. 143 (1912-13); serie VII, tomo I, pag. 339 (1913-14) -— Vedasi
anche: Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, XVIII, 1, 419 (1909); XVIII, 2,594 (1909); XX,
IRS92 (911): DE, 6147090):
Serie VII. Tomo JIT. 1915-1916. 9
SEI AO NO
nazione si iniziò regolarmente come nell’ esperienza precedente, ma alla distanza di
pochi giorni, anche in questo caso, le piantine morirono.
Da queste esperienze è dunque risultato che la soluzione di saligenina adoperata,
pur non danneggiando l’ inizio della germinazione, determina un ostacolo all’ ulteriore
sviluppo delle giovani piante.
Esperienze sulla veccia. — Con questi semi venne eseguita una sola prova ini-
ziata il 16 marzo colle modalità descritte per la seconda esperienza sui lupini; cioè
vennero immersi nella soluzione di saligenina a 1 per mille, per 24 ore, alcuni semi,
che furono posti a germinare alla luce, su carta da filtro bagnata colla soluzione
stessa di saligenina. Il risultato fu analogo a quello ottenuto coi lupini ; cioè mentre
la saligenina non impedì la germinazione dei semi, determinò in pochi giorni la morte
delle piantine.
Esperienze sul mais. -— Le esperienze di germinazione col mais vennero eseguite
prima in piccolo, poi sopra più larga scala.
Nell’ esperienza in piccolo si posero a germinare alcuni semi, alla luce, sopra carta
da filtro bagnata con acqua ed a germinazione iniziata si eseguì il trattamento con
saligenina a 1 per mille. Le piantine si svilupparono regolarmente senza dare il minimo
segno di sofferenza.
Per la prova in grande si adoperò 1 Kg. di semi che vennero posti a germinare
su carta da filtro bagnata con acqua, alla luce. L’ esperienza venne iniziata il 26
aprile. Quando le piantine avevano raggiunto un certo sviluppo, cioè il 7 maggio, si
cominciò a bagnare sistematicamente la carta con soluzione di saligenina a 1 per mille
sino al 30 maggio giorno in cui, a germinazione quasi ultimata, le piantine vennero
prelevate. La quantità di soluzione fornita complessivamente fu di 5 litri, vale a dire
5 gr. di saligenina. Il peso complessivo delle piantine era di gr. 2800.
Per vedere se dalla saligenina avesse preso origine la salicina, analogamente
a quanto avevamo dimostrato per il mais adulto, abbiamo innanzi tutto preparato
un estratto acquoso. A tal fine le piantine, lavate con acqua, vennero immerse,
senza triturarle, a poco alla volta, per qualche minuto nell’ acqua in ebollizione, allo
scopo di distruggere gli enzimi che potevano eventualmente determinare la scissione
del glucoside. Le piante vennero quindi ridotte a poltiglia estratte con acqua, spre-
mute al torchio ; il liquido acquoso ottenuto fu riunito all’ acqua in cui era :avve-
nuta la scottatura e il tutto concentrato a piccolo volume. Il liquido così ottenuto venne
estratto ripetutamente con etere allo scopo di spogliarlo della saligenina libera even-
tualmente esistente. L’ estratto etereo si rese alcalino con carbonato sodico e fu estratto
di nuovo con etere. Per evaporazione del solvente si ottenne un residuo cristallino
misto ad una sostanza oleosa del peso di 1 decierammo. Dava la reazione della sali-
genina col cloruro ferrico ; ma in causa della piccola quantità e delle impurezze che
l’ accompagnavano non si potè ricristallizzare per farne il punto di fusione.
Il liquido alcalino residuo dell’ estrazione eterea venne acidificato con acido solfo-
rico ed estratto di nuovo con etere per vedere se una parte della saligenina fosse
STAN ceo
stata ossidata ad acido salicilico. L’ estratto, in piccolissima quantità, diede però col
cloruro ferrico, una colorazione incerta.
Allo scopo di vedere se nel liquido primitivo dal quale venne estratta la salige-
nina, si trovasse un glucoside simile alla salicina, si riscaldò all’ ebollizione fino ad
eliminare |’ etere e vi si aggiunse, dopo raffreddamento, un poco di emulsina. Dopo
24 ore di riposo il liquido venne estratto con etere; l’ estratto etereo, disciolto in
acqua, fu reso alcalino con carbonato sodico e nuovamente estratto con etere. Per
evaporazione del solvente si ottenne un residuo cristallino che, seccato nel vuoto,
pesava gr. 0,2. Dava la reazione della saligenina e ricristallizzata dal benzolo fondeva
a 86° che è il punto di fusione, dato dagli autori, per la saligenina.
Il liquido alcalino residuo di quest’ ultima estrazione venne acidificato con acido
solforico ed esaurito con etere. Si ottenne un residuo sciropposo che sciolto in acqua
e trattato con cloruro ferrico diede una colorazione che non ci indicò con nettezza la
presenza dell’ acido salicilico.
Dalle esperienze sul mais risulta dunque che facendo assorbire la saligenina per
la via delle radici alle piante germinanti, si forma la salicina, analogamente a quanto
abbiamo osservato inoculando la stessa sostanza nel fusto delle piante adulte.
ESPERIENZE SUI FAGIOLI. — Anche coi fagioli si eseguì dapprima una prova in
piccolo, poi delle esperienze su più larga scala.
Per la prova in piccolo si posero il 2 marzo a germinare, alla luce, alcuni
semi, su carta bagnata. A germinazione iniziata, cioè | 11 marzo, si cominciò ad
innaffiare sistematicamente con soluzione di saligenina a 1 per mille. Le piantine, che
sì erano conservate in ottimo stato, vennero prelevate il 25 marzo. Si immersero per
qualche minuto nell’ acqua bollente allo scopo di distruggere gli enzimi, quindi le
piantine triturate vennero poste a digerire nello stesso liquido che fu filtrato ed esau-
rito con etere. Per evaporazione del solvente si ottenne un residuo che disciolto in
acqua dava debolmente la reazione della saligenina.
Il liquido residuo dell’ estrazione eterea venne liberato dall’ etere quindi trattato
con un poco di emulsina. Dopo 24 ore si esaurì di nuovo con etere e si ottenne un
estratto che, sciolto in poca acqua, dava col cloruro ferrico, intensamente la reazione
della saligenina.
Ciò prova che anche nell’ esperienza coi fagioli germinanti si trovava, accanto a
una traccia di saligenina libera, una certa quantità di salicina. i
Per stabilire il rapporto fra la saligenina rimasta libera e quella combinata, sì
pose a germinare alla luce, il 29 marzo, su carta da filtro bagnata, 1 Kg. di fagioli.
A germinazione avanzata, cioè il 20 aprile, si cominciò ad innaffiare sistematicamente
le piantine con soluzione di saligenina a ] per mille, fino al 13 maggio, giorno in
cui le piantine furono prelevate. La quantità totale di soluzione somministrata fu di
10 litri, pari a gr. 10 di saligenina. Le radici vennero lavate e asciugate fra carta.
Il peso totale delle piantine era di gr. 2200.
Il materiale venne ridotto a poltiglia e messo a digerire in acqua fredda; la
a PRE
massa torchiata, concentrata nel vuoto a piccolo volume ed il liquido estratto ripetu-
tamente con etere. L’ estratto etereo venne sciolto in acqua, filtrato, reso alcalino con
carbonato sodico e nuovamente estratto con etere. Per evaporazione del solvente si
ottenne un residuo cristallino del peso di gr. 0,8. Esso dava la reazione della salige-
nina col cloruro ferrico e cristallizzato dal benzolo fondeva a 86° (saligenina). Il liquido
alcalino dal quale venne estratta la saligenina libera fu acidificato con acido solforico
e nuovamente estratto con etere. Si ottenne un residuo sciropposo che dava col clo-
ruro ferrico la reazione dell’ acido salicilico.
Il liquido primitivo dal quale era stata estratta la saligenina libera, venne trattato,
dopo evaporazione dell’ etere con un poco di emulsina e lasciato in riposo per 24
ore. Si estrasse quindi con etere e seguendo il procedimento precedente si ottenne,
dall’ estratto reso alcalino, un piccolissimo residuo che dava appena la reazione della
saligenina e dall’ estratto acido, un residuo cristallino (gr. 0,1) che, sciolto in acqua,
dava col cloruro ferrico la reazione dell’ acido salicilico.
Questa esperienza ci ha dato dunque un risultato alquanto diverso da quello otte-
nuto nella prova in piccolo, nella quale si ritrovò soltanto una traccia di saligenina
libera e una quantità notevole di glucoside, mentre nell’ esperienza in grande la quan-
tità di saligenina allo stato di glucoside fu esigua e relativamente rilevante quella
libera.
Abbiamo ritenuto che la causa di questa contraddizione fosse da ricercarsi nelle
condizioni in cui venne preparato l’ estratto acquoso delle piante, cioè nel primo caso
a caldo, nel secondo a freddo. La digestione a freddo avrebbe quindi permesso agli
enzimi delle piante di scindere il glucoside. Per dare la prova di questa supposizione
abbiamo ripetuto ]° esperienza coi fagioli e questa volta tanto alla luce, come al buio.
Per l’ esperienza alla luce si pose a germinare, il 18 giugno, mezzo Kg. di fagioli.
Il 22 giugno, a germinazione iniziata, sì cominciò a bagnare sistematicamente ì
semi con soluzione di saligenina a 1 per mille. Le piantine vennero prelevate il 5
luglio dopo aver loro somministrato, complessivamente, 10 litri di soluzione. Il peso
totale delle piantine era di gr. 1450. Con esse venne preparato un estratto acquoso
ponendole prima, senza triturarle, nell’ acqua in ebollizione. Seguendo quindi il metodo
precedentemente descritto si ottenne una piccolissima quantità di saligenina libera
riconosciuta alla reazione col cloruro ferrico, ma che non potè essere cristallizzata.
Per trattamento con emulsina si ottennero gr. 0,2 di residuo cristallino che cristal-
(0)
lizzato dal benzolo fondeva a 86° ed era quindi costituito da saligenina proveniente
da un glucoside. ‘l'anto dall’ estratto diretto, come da quello ottenuto dopo il tratta-
mento coll’ emulsina si ebbe la reazione dell’ acido salicilico.
L'esperienza al buio venne iniziata il 4 luglio, anch’ essa sopra mezzo Kg. di
semi. La quantità totale di saligenina somministrata dal 9 luglio, giorno in cui si
cominciò 1° innaffiamento, al 25 luglio, giorno della raccolta, fu di gr. 8. Le piantine
pesavano gr. 2325. Il risultato fu analogo al precedente ; si ottenne cioè una picco-
lissima quantità di saligenina libera ed una quantità più rilevante (gr. 0,2) di sali-
CAME 15, a
genina combinata allo stato di glucoside. Anche in questo caso si ebbe la reazione
dell’ acido salicilico tanto nell’ estratto diretto, come dopo l’ aggiunta di emulsina.
Queste ultime prove dimostrano che la saligenina si trovava nelle piantine germi-
nanti per la maggior parte allo stato di glucoside. Non si può anzi escludere che
tutta la saligenina fosse contenuta in tale stato poichè è verosimile che la piccola
quantità trovata libera fosse dovuta a traccie della sostanza rimaste aderenti alle
radici.
ALCOOL BENZILICO. — Con questa sostanza si eseguì dapprima un’ esperienza in
piccolo sopra il mais ed i fagioli allo scopo di vedere se i germogli sopportavano il
trattamento senza soffrire. Si posero a tal fine in due germinatoi, il 27 aprile, rispet-
tivamente 20 semi di fagioli e 20 di mais. Il 7 maggio si cominciò ad innaffiare i
germogli con una miscela di 1 gr. di alcool benzilico in 1 litro d’ acqua fornendo,
in 10 giorni, gr. 0,5 di sostanza. Alcuni giorni dopo il trattamento esalava dal ger-
minatoio un grato odore che ricordava quello dei fiori di datura. Le piantine non
mostrarono di soffrire affatto. L’ esperienza venne perciò ripetuta in grande, sui soli
fagioli.
Si pose a tal fine a germinare su carta da filtro, il 25 maggio, mezzo Kg. di
fagioli. Dopo una settimana si cominciò ad inaffiare con alcool benzilico a 1 per mille.
Il trattamento durò dal 2 al 22 giugno fornendo complessivamente gr. 12 di sostanza
Il peso delle piantine, al momento della raccolta, era di gr. 1900. Le piantine, dopo
lavate ed immerse per qualche minuto nell’ acqua bollente, vennero estratte con acqua;
il liquido acquoso si concentrò nel vuoto a piccolo volume e si estrasse ripetutamente
con etere. Per evaporazione del solvente si ottenne un residuo oleoso che venne trat-
tato con carbonato sodico diluito e nuovamente estratto con etere. Per identificare
nell’ estratto 1° alcool benzilico, abbiamo tentato di trasformarlo in acido benzoico ossi-
dando colla miscela di Beck mann, col procedimento altrove descritto. Si ottenne una
piccolissima quantità di prodotto dal quale non si potè avere alcun indizio della
presenza di acido benzoico. Ciò era del resto prevedibile poichè l’ alcool benzilico even-
tualmente rimasto libero sarà stato trascinato col vapore nella distillazione.
Per vedere se nelle piante si fosse formato dell’ alcool benzilico un corpo di na-
tura glucosidica, si fece bollire per mezz’ ora, con acido cloridrico diluito il liquido
residuo dell’ estrazione eterea primitiva. Dopo raffreddamento si estrasse con etere, il
residuo venne reso alcalino con carbonato sodico ed estratto di nuovo. L’ estratto etereo
oleoso venne bollito per mezz’ ora colla miscela di Beckmann e il prodotto si estrasse
con etere. Per evaporazione del solvente si ebbe un piccolissimo residuo oleoso che
seccato nel vuoto, solidificò in cristalli bianchi. Abbiamo tentato di ricristallizzarli
dall’ acqua, ma si ottenne una quantità così piccola di prodotto da non poterne deter-
minare il punto di fusione. Abbiamo perciò cercato di identificarlo mediante il tratta-
mento con carbonato sodico diluitissimo e cloruro ferrico. Si ottenne un precipitato
carnicino che ci indicò la presenza di acido benzoico.
Da questa esperienza è perciò risultato che nei semi germinanti trattati coll’ alcool
NPI ( (Sf
benzilico si è formata una traccia di un composto che dà alcool benzilico per ebolli-
zione con acido cloridrico. Ciò analogamente a quanto fu da noi altra volta riscon-
trato per inoculazione dell’ alcool benzilico nel mais e per inaffiamento dei fagioli
adulti colla stessa sostanza.
IDROCHINONE. — Anche coll’ idrochinone si eseguì prima un’ esperienza in pic-
colo, poi una su più larga scala. Per la prova in piccolo si sperimentò il mais ed i
fagioli. Si posero a tal fine a germinare il 27 aprile, rispettivamente 20 semi di
mais e 20 di fagioli. Il 7 maggio si cominciò ad innaffiare 1 germogli con soluzione
di idrochinone a 1 per mille. Le piantine di mais dimostrarono alcuni giorni dopo
il trattamento, qualche sofferenza mentre quelle di fagioli si svilupparono in modo
normale.
Fu perciò eseguita 1’ esperienza in grande sui fagioli. Si pose a tal fine il 25
maggio a germinare alla luce mezzo Kg. di semi e dopo una settimana si cominciò a
innaffiare sistematicamente colla soluzione di idrochinone a 1 per mille. Le piantine
vennero raccolte il 18 giugno e pesavano gr. 2200. La quantità totale di idrochinone
somministrata fu di gr. 12
Le piantine, dopo lavate ed immerse per qualche minuto nell’ acqua bollente, ven-
nero triturate, estratte con acqua ed il liquido acquoso concentrato nel vuoto a piccolo
volume. Il residuo si estrasse con etere ]° estratto etereo sciropposo fu reso alcalino
con carbonato sodico ed il liquido estratto nuovamente con etere. Per evaporazione
del solvente si ottenne un residuo del peso di un decigrammo costituito da un miscu-
glio di cristalli bianchi e neri, probabilmente idrochinone e chinidrone. Per cristalliz-
zazione da molto benzolo si ottennero cristalli bianchi fondenti a 169° (idrochinone).
Per vedere se, come nei casi precedenti, si fosse anche qui formato un composto di
natura glucosidica, si aggiunse al liquido residuo dell’ estrazione primitiva, dopo avervi
eliminato 1’ etere, un poco di emulsina. Lasciato 24 ore in riposo, il liquido venne
nuovamente estratto con etere. Evaporato il solvente si ottenne un piccolissimo residuo
da cui nulla si potè isolare.
Allo scopo di vedere se l’ idrochinone avesse formato un composto non scindibile
dall’ emulsina, ma bensì dall’ acido solforico, abbiamo fatto bollire per mezz’ ora il
residuo dell’ estrazione con acido solforico diluito ed abbiamo nuovamente esaurito il
prodotto con etere. Per evaporazione del solvente rimase una piccola quantità di ceri-
stalli che, ricristallizzati dal benzolo fondevano a 169°. Erano quindi costituiti. da
idrochinone.
Questa esperienza ha dunque dimostrato che dall’ idrochinone sì è formato nella
pianta un composto probabilmente di natura glucosidica, simile all’ arbutina, non idro-
lizzabile dall’ emulsina, ma scindibile dall’ acido solforico diluito a caldo.
PIROCATECHINA, ACIDO GALLICO, TANNINO. — Colla pirocatecina si sperimentò il
mais ed i fagioli. Le prove eseguite trattando i semi germinanti con soluzione di
pirocatechina a 1 per mille dimostrarono però che tale sostanza è tossica, tanto che
pochi giorni dopo il trattamento, le piantine erano perite.
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Le esperienze coll’ acido gallico e il tannino furono eseguite sui semi di lupino, di
frumento e di veccia, che vennero posti a germinare a contatto delle soluzioni a 1
per mille. La germinazione avvenne regolarmente per tutti i semi sia se trattati con
acido gallico, sia con tannino. Quelli con acido gallico però dimostrarono dopo alcuni
giorni evidenti segni di sofferenza ed in breve morirono. Relativamente al tannino,
perirono in breve quelli di lupino, mentre continuarono a svilupparsi, ma assai sten-
tatamente, i semi di veccia e di frumento.
In causa della manifesta tossicità di queste sostanze, abbiamo rinunziato ad isti-
tuire esperienze su larga scala.
Anche con piante germinanti che devono vivere a spese delle riserve avviene la
formazione dei glucosidi così come introducendo le sostanze nelle piante adulte sia per
mezzo dell’ inoculazione, sia per 1’ assorbimento dalle radici.
Mentre che volendo sperimentare quantità forti di sostanze è opportuno seguire il
metodo dell’ inoculazione, per esperienze in cui non siano richieste grandi quantità si
raccomanda il sistema dei semi germinanti perchè il materiale da esaminare è meno
ingombrante mancando le parti legnose.
Operando colle piante germinanti si rende più facile lo studio dei fenomeni in
assenza della luce ed è così che si è potuto osservare la formazione della salicina al
buio dimostrando che nella genesi dei glucosidi la luce non è necessaria. Il fatto poi
che la salicina si sia prodotta nelle piante che non potevano assimilare non è con-
forme alla supposizione di alcuni autori secondo i quali i glucosidi sarebbero mate-
riali di riserva, perchè si formano in piante che, crescendo al buio, non possono con-
tenere quantità eccedenti di glucosio. Ma con questo non è detto che le sostanze aro-
matiche che si riscontrano libere o come glucosidi nelle piante siano da considerarsi
soltanto come materie di rifiuto come vorrebbe segnatamente A. Pictet. Secondo noi
appare più probabile che le sostanze che sembrano accessorie abbiano la loro funzione
sebbene questa rimanga ancora, nella maggior parte dei casi, sconosciuta. Anzi, su
questo importante argomento intendiamo di ritornare quando ci sarà possibile eseguire
delle appropriate esperienze.
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RICERCHE SULL'INCROCIAMENTO
DEL GALLUS SONNERATI CON POLLI DOMESTICI
MEMORIA
DEL
Prof. ALESSANDRO GHIGI
letta nella Sessione del 16 Gennaio 1916.
(CON UNA TAVOLA)
SOMMARIO
I. Impostazione del problema.
II. Materiale e metodo.
III. Le penne squamose del Gallus sonnerati.
IV. Descrizione delle serie incrociate.
Ibridi F, ed F..
Reincroci unilaterali con Gallus gallus.
Reineroci complicati di varia natura.
Reincroci reciproci con Gallus sonnerati.
V. Riassunto dei risultati.
Fecondità.
Eredità dei caratteri sonneratici.
Caratteri dei reincroci.
iL Impostazione del problema.
CARLO DARWIN scrive nella Variazione degli animali e delle piante allo stato dome-
stico (1): «Il Gallus sonnerati fu riguardato per lungo tempo come lo stipite delle nostre
razze domestiche, prova che egli se ne avvicina molto per la sua generale conformazione,
ma le sue penne lanceolate consistono di lamine cornee particolarissime, trasversalmente
rigate da tre colori, carattere che a mia conoscenza non fu osservato in alcuna razza do-
mestica. Questa specie differisce anche molto dalle nostre razze comuni per la sottile se-
ghettatura della sua cresta, e per la mancanza di vere penne lanceolate sulle reni. La
sua voce è affatto diversa. Esso s’incrocia facilmente colla gallina dell’ India. Il BLyTH ha
ottenuto un centinaio di pulcini meticci, ma erano molto delicati e perirono quasi tutti
giovani. Quelli che si poterono allevare, restarono affatto sterili tanto fra di loro che con
l’uno e l’altro dei due genitori. Alcuni meticci della stessa origine, allevati nel Giardino
Zoologico, non si sono mostrati affatto infecondi. Il Dixon m’informa che secondo alcune
ricerche da lui fatte su questo soggetto, col concorso di YARRELL, sopra una cinquantina di
(1) Trad. ital. di G, Canestrini, Torino, Unione Tip. Editr. pp. 204-205.
Serie VII. Tomo III. 1915-16. 10
LETTO ge
uova siensi ottenuti soli cinque o sei pulcini; alcuni di questi meticci, incrociati di nuovo
con un loro parente, un bantam, hanno dato qualche pulcino, estremamente debole. Degli
incrociamenti simili, operati nei diversi modi dal Dixon, gli hanno dato dei prodotti più o
meno fecondi. Lo stesso accadde delle esperienze che furono intraprese su larga scala nel
Giardino Zoologico. Sopra cinquecento uova prodotte dagli incrociamenti svariati tra i G. son-
nerati, bankiva e varius non si sono ottenuti che dodici pulcini, dei quali tre o quattro
provenivano da ibridi accoppiati iter se. Questi fatti, aggiunti alle differenze rimarcate e
di cui abbiamo parlato sopra tra il gallo domestico ed il G. sonnerati, devono dunque farci
abbandonare l’ opinione che quest’ultima specie sia il ceppo di qualche razza domestica ».
E più innanzi (p. 209):
« In queste indagini sulla provenienza delle razze domestiche da una specie unica,
il G. bankiva, o da molte, non bisogna nè sconoscere, nè esagerare l’importanza degli ar-
gomenti desunti dalla fertilità. La maggior parte delle nostre razze sono state sì spesso
incrociate, e i loro meticci furono tenuti in tanta copia, che è quasi impossibile che il
minimo grado di infecondità abbia potuto passare inosservato. D'altra parte noi abbiamo
veduto che le quattro specie conosciute di Gals, incrociate fra loro, oppure, ad eccezione
del G. bankiva, colle razze domestiche, hanno dato dei meticci infecondi ».
Infine (p. 215):
« Noi possiamo dunque conchiudere che non solo la razza pugnace, ma tutte le altre
razze, provengono dalla varietà malese o indiana del G. bdbankiva ».
Questi argomenti del DARWIN tendenti ad escludere la partecipazione del G. sonnerati
alia origine delle razze domestiche, ed altri tendenti a provare la monogenesi di queste dal
G. gallus L. (ferrugineus Gm; bankiva TEMmM.) hanno fatto prevalere il concetto monoge-
netico, accolto poi nei trattati di Zootecnia, Zoologia ed Avicoltura come fatto provato.
Fino dal 1907 (1), accennai alla possibilità della origine di talune razze domestiche di
polli da ibridi del dbankiva con altre specie, e particolarmente col sonmerati, ma ponevo in
rilievo la difficoltà di poter sperimentare, data la enorme diversità di clima e di
ambiente, la quale rende molto difficile 1’ acclimazione fra noi degli esemplari di G. sow-
nevali importati.
E evidente che quand’ anche non si possa provare che determinate razze domestiche
derivino esclusivamente dal G. sonnerati, il problema della loro variazione acquista valore
assai diverso quando sia stabilita l’ origine poligenetica, giacchè in questo caso molte pre-
sunte mutazioni delle razze domestiche sarebbero spiegate dal comportamento ereditario di
caratteri inerociati.
Nel 1912 ho dato un primo contributo alla soluzione del problema, riferendo (2) come
un ibrido sonnerati X gallus fosse risultato completamente fecondo colla specie che nella
sua produzione aveva funzionato come madre.
(1) Ghigi A. — Sulla poligenesi dei piccioni domestici. Rend. R. Accad. Lincei, Cl. Sc. fis. mat.
nat. Vol. 17, ser. 5, fase. 5, pp. 271-276, 1908.
(2) — Contro la monogenesi dei polli domestici dal Gallus bankiva 'l'emm., Rend. R. Accad.
Scienze Bologna. Anno 1911-1912, pp. 1-4, 1912.
[
PRESA o] rn
Nel successivo triennio ho voluto allargare le esperienze in modo da potere risolvere
in maniera precisa la questione della fertilità fra gli ibridi del Gal-
lus sonnerati con G. bankiva, giacchè se le conclusioni del DARWIN sono assolute,
non sono per altro privi di qualche contraddizione e di non poche incertezze gli esperi-
menti sui quali egli si è fondato.
II. Materiale e metodo.
La prima coppia di Gallus sonnerati che io ho posseduto, fu da me acquistata nel 1908
dal negoziante di Marsiglia, RAMBAUD; era una coppia che non aveva ancora vestito l’ a-
bito adulto. Giunse il luglio; passò in buona salute l'estate, sciolta in un piccolo giardino
chiuso da muro in Rimini: alla metà di settembre fu posta in una voliera della mia villa
a Bologna, ma la femmina rapidamente morì e dopo un mese, alla fine di ottobre, morì
anche il maschio.
Nel 1910 acquistai a Vienna un maschio adulto che superò l'inverno, chiuso in una
stanza; riprodusse nella primavera del 1911 con una gallina comune entro un vasto gab-
bione di 616 metri di superficie; nel 1912 riprodusse prima con una gallina bantam di tipo
bankiva perfetto, entro una ordinaria voliera da fagiani; poi fu lasciato in libertà com-
pleta, ma divenuto eccessivamente molesto pel suo carattere battagliero, dovetti rinchiu-
derlo nuovamente: si ammalò l’anno dopo nelle vie respiratorie e morì nell’ autunno
del 1913.
Nel 1912 acquistai dal sig. OLLIvRY, allevatore francese, un gallo nato presso di lui
nel 1911 da coppia importata: questo fu lasciato in libertà, e mi permise di constatare
che questa specie facilmente si associa alle galline comuni nei dintorni delle abitazioni:
fu questa osservazione che mi indusse a lasciar libero } esemplare adulto di Vienna, il
quale poi scacciò il giovane che fu disperso, probabilmente divorato da un animale da
preda, in una notte turbata da grande uragano.
Nel 1913 dallo stesso sig. OLLIVRY ottenni un gruppo di un gallo e due galline impor-
tate: erano i riproduttori dai quali egli aveva allevato molti esemplari e se ne disfaceva
volontieri per la loro estrema selvatichezza. Questi esemplari hanno superato l'inverno in
voliera ed hanno riprodotto abbondantemente in gabbia di 150 metri di superficie, ma io
non sono riuscito ad allevare neppure un piccolo. I pulcini nascevano robusti e svelti, man-
giavano abbondantemente, ma dopo tre o quattro giorni di vita venivano colpiti da diarrea,
‘ed in poco tempo morivano. Si tratta di un mio insuccesso personale, giacchè il sig. OL-
LIVRY ha al contrario allevato con grande facilità numerosi prodotti, nati da quel gruppo
originario.
È certo che quando il G. sonnerati è stato in libertà, esso ha coperto numerose gal-
line bantam, ma poichè non era possibile identificare la madre di ciascun pulcino, io non
ho tenuto conto di alcuni ibridi nati in questo modo e che, appartenendo al sesso femminile,
non offrivano particolarità degne di rilievo.
RES eo
Le galline comuni accoppiate col gallo sorzerati di Vienna, e dalle quali ho ottenuto
ibridi sono state:
1°: una gallina proveniente dall’incrocio di gallo Padovano dorato e combattente
nana, della quinta generazione (F,) e che è indicata col N. 76 nel mio lavoro sull’eredità
dell’ ernia cerebrale nei polli in correlazione ad altri caratteri (Archiv. Zool, Napoli vol. 8
p. 66, 1914). Tale gallina era di colore fulvo molto scarsamente macchiata di nero, ed
aveva ciuffo ed ernia cerebrale poco sviluppati;
2°: una gallina bantam, per fattezza e colore perfettamente identica alla tipica dan-
Riva selvaggia. Tale gallina mi era stata favorita dal Prof. GIACINTO MARTORELLI, Direttore
del Reparto Zoologico dei Giardini Pubblici di Milano, dove da molti anni si alleva questa
razza di polli.
I galli ibridi hanno poi riprodotto:
1°: con una gallina proveniente dall'incrocio padovano X combattente suddetto, di
2° generazione; senza ernia, con poco ciuffo, bianca picchiettata di nero.
2°: con una gallina combattente birchen (nera colle penne lanceolate del collo mar-
ginate di bianco), di razza pura.
Le serie di incroci che io ho potuto ottenere dal 1911 ad oggi sono state le seguenti.
nelle quali S= sonner'ati e G = Gallus gallus tipici o di razze domestiche. Il nome pa-
terno precede sempre quello materno.
I Sx G(F, ed F,) . contenente di sonnerati 50%,
do (S-G)\XGt 3 ER 04 » ZIA
X
DI (Sx G)X (SS) Lee » 37,90%
4. G-((Sx@x(G)). RMB en LIO
PS
9) (Sx G) Xx ((8 x G)x Da » 43,50%,
6. S- (SG RARO E » 1(5I9/A
MSC na ©) >» 6250%
Q (SEZGoaksi ila talco » 70%
Nessun prodotto delle serie sesta e settima ha raggiunto lo stato adulto; delle serie
terza, quinta ed ottava ho coppie adulte dalle quali confido di poter ritrarre nella prima-
vera prossima prodotti della generazione F,.
Qualcuno obbietterà forse che io avrei dovuto fare serie meno complicate, e cercare
di ottenere subito le seconde generazioni dai reincroci. Rispondo che questo sarebbe stato
il mio desiderio, ma le malattie per gli esemplari chiusi, e gli animali da preda per quelli
liberi, mi sono stati di serio ostacolo; in questo genere di esperienze è neces-
sario fare quel che si può e non quel che si vorrebbe. Gli uccelli esotici e
selvatici offrono tali difficoltà che bisogna provare per credere, e chi non mi crede provi!
sie o E
III. Le penne squamose del Gallus sonnerati.
Gli ornitologi hanno rilevato come il GaWus sonnerati abbia penne di struttura tutta
particolare. La rachide appare ingrossata ed espansa in una specie di squama, la quale
è per solito di colore diverso e, per l’assenza di barbe, produce un effetto caratteristico
quale si otterrebbe se una pennellata di vernice o di lacca fosse passata sulla penna.
Non mi consta tuttavia che queste penne speciali abbiano formato oggetto di osser-
vazione accurata e minuta, cosicchè io credo non privo di interesse fermarmici sopra, molto
più che la stessa omologia delle porzioni squamose può essere diversamente interpretata.
Nel Gallus sonnerati adulto i seguenti gruppi di penne portano espansioni squamiformi.
1°, copritrici delle ali e scapolari;
2°, penne bordeggianti il sopracoda;
3°, penne dei fianchi;
4°, penne lanceolate del collo.
Tra le copritrici delle ali, quelle che hanno espansioni più estese sono le più grandi
tra le mediane, mentre le maggiori copritrici hanno una espansione molto ridotta e le più
piccole, che rivestono il bordo dell’ ala, ne sono prive. Tra le scapolari ne sono provviste
le posteriori contigue alle copritrici, mentre le anteriori che sono a contatto colle penne
del dorso sono normali.
Esaminiamo le grandi copritrici. Quelle che ricoprono la base delle prime remiganti
secondarie sono normali, ma quelle che rivestono le ultime e le terziarie hanno, su fondo
grigio ferro cangiante in violaceo e spruzzato di bruno, una stria longitudinale mediana
paglierina nella metà basale, che passa all’arancione nella metà terminale. Questa stria è
in massima parte limitata alla rachide, la quale si allarga verso la estremità fino a rag-
giungere un millimetro di larghezza, in luogo di assottigliarsi e terminare come una barba.
Nelle copritrici mediane la rachide comincia a dilatarsi verso la metà della penna e
rapidamente si trasforma in una specie di grossa spatola, larga fino a cinque millimetri
nelle penne maggiori. Nelle altre si hanno le stesse proporzioni. L’ espansione è quasi sempre
tagliata longitudinalmente in due o tre pezzi, per effetto dell'uso: in molti casi, spe-
cialmente nelle scapolari, è contornata da una frangia filamentosa. In alcune delle piccole
copritrici essa porta ancora barbe, mentre nella quasi totalità delle penne, alla maggiore
dilatazione non corrispondono barbe.
Le penne dilatate dei fianchi sono poche: la rachide s’ingrossa ad un terzo dell’apice,
poi si restringe e poi torna ad allargarsi di nuovo, terminando con frangia di barbe. Ab-
biamo dunque una strozzatura nell’ espansione, la quale è complessivamente sottile e di
forma irregolare: ma la lente permette di riconoscere un fatto interessante e cioè che nella
regione della strozzatura vi sono barbe che partono dall’apice della prima espansione e
raggiungono la base della seconda, in modo tale da far ritenere che la squama non sia
dovuta ad una semplice dilatazione della rachide, ma ad una fusione delle barbe, la qual
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 10,
let Qi e
cosa è corroborata dal fatto che le barbe costituenti la frangia terminale partono dall’ e-
stremità della porzione squamosa.
Le penne del sopracoda sono dello stesso tipo, colla differenza che le strozzature sono
due e la porzione squamosa risulta costituita da triplice dilatazione. In questa è frequente
un altro fatto: la rachide appare in alcuni tratti divisa longitudinalmente in tre parti co-
stituendosi ai lati dello stelo centrale due piccoli specchi allungati, irregolari e diseguali,
contenenti un tratto di barba.
L’alternanza di porzioni di barbe libere con espansioni squamiformi raggiunge il suo
massimo sviluppo nelle penne lanceolate del collo, dove essa è in correlazione colla mac-
chiatura. È noto che in queste penne tre macchie trasversali bianche o paglierine sono se-
parate da macchie nere vellutate: le prime colorano le porzioni squamose, mentre le altre
colorano i tratti nei quali le barbe sono libere.
Queste osservazioni dimostrano come le penne squamose del Gallus sonnerati debbano
la loro particolarissima struttura tanto a dilatazione della rachide, quanto a
parziale fusione di barbe fra loro e colla rachide stessa: tale fusione
poi è così completa da non permettere di distinguere nelle porzioni
squamose il territorio spettante alla rachide, da quello spettante alle
barbe.
Ed ora dirò qualche cosa circa l’epoca di comparsa delle penne squamose.
In primo luogo le penne squamose appartengono soltanto al maschio: la femmina ha
sulle ali strie longitudinali paglierine, ma la rachide è assolutamente normale. Si tratta
quindi di carattere sessuale secondario.
Le penne squamose appaiono soltanto nell’abito di adulto ed in diversa succes-
sione: prima sorgono quelle delle spalle, mentre quelle dei fianchi e del sopracoda sono le
ultime. Soltanto nella muta che ha luogo nel secondo anno di vita le penne squamose rag-
giungono il loro massimo sviluppo: negli esemplari di un anno esse sono molte più piccole.
Le penne squamose del collo appartengono soltanto all’abito di nozze: sono
sostituite nell’abito estivo da penne di struttura normale. Si verifica
dunque nel Gallus sonnerati, come nel G. gallus, la perdita delle penne lanceolate, ma a
questa si aggiunge la perdita delle squame. Si possono dunque considerare come un ca-
rattere transitorio, come un dimorfismo di stagione.
IV. Descrizione delle serie incrociate.
F,
Dall’ accoppiamento del Gallus sonnerati puro con gallina di tipo gallus, ottenni
quattro pulcini, su cinque uova deposte, i quali raggiunsero tutti lo stato adulto e risul-
tarono 3 maschi ed una femmina.
I pulcini avevano l’aspetto dei piccoli sonnerati puri: fulvi, colle parti inferiori bian-
chicce, le ali sfumate di castagno, una stria marrone sull’occipite ed altra sulla linea me-
RR: (SISSI
diana dorsale nonchè due redini posteriormente agli occhi, color marrone-scuro: due strie
giallastre ai lati della dorsale scura: becco e zampe gialle.
Uno di questi pulcini aveva il gozzo ed il petto leggermente sfumati di nerastro: adulto
risultò maschio a caratteri esclusivamente di gallus.
Gli altri 3 vengono descritti quì sotto.
oo — Penne lanceolate del collo rosso arancio colla base bruno-nera e con una
macchia nera preapicale. La rachide, prima e dopo la macchia nera, è leggermente ma
pur manifestamente incrassata e di colore più chiaro che non le barbe circostanti. Penne
della base del collo e del dorso grigio-scure, con stria rachidale bianca e margine gial-
lastro: quelle che separano il dorso dal groppone hanno larghi bordi rosso vivi e rachide
aranciata. Groppone e sopracoda con penne nere a rachide e bordi aranciati che diventano
sempre più accesi fino ad un color rosso-fuoco a contatto colle timoniere, mentre la parte
nera di ciascuna penna acquista riflessi violacei sempre più intensi. Parti inferiori varie-
gate di bianco-gialliccio, nero e rossiccio. Il nero predomina sulla parte basale del collo,
il bianco gialliccio al centro del peito, e il rosso sul ventre, ma la macchiatura è dello
stesso tipo: sono più chiare la stria mediana e le due laterali, più scure quelle intermedie.
L'intensità della colorazione dipende dalla maggior larghezza delle strie nere.
Scapolari e piccole copritrici delle ali rosso cremisi scuro, con doppio incrassamento
della rachide. Grandi copritrici e piccole secondarie violacee. Primarie nere, secondarie
nere con bordo esterno castagno. Timoniere nere. Becco e zampe brune.
2 — Parti superiori variegate di bruno-olivastro, di nero, di giallo e di bianchiccio.
Può dirsi che ciascuna penna ha fondo nero fittamente spruzzato di bruno, con rachidi
giallo-bianchiece e bordi chiari o giallo dorati. Questi predominano sulle penne lanceolate
del collo; mentre le strie rachidali bianchicce predominano sul dorso, sulle scapolari e sulle
piccole copritrici. Le parti inferiori sono bianchicce, variegate e spruzzate di bruno e di
giallastro, specialmente sul petto e sui fianchi, con tendenza peraltro alla formazione di
strie longitudinali.
Confrontando questi ibridi col G. sorrerati puro, risultano le seguenti rassomiglianze
e differenze.
Per quanto riguarda il maschio: il sistema di macchiatura è di tipo sonnerati, giacchè
tutte le penne del corpo a cinque strie longitudinali alterne, chiare e scure, offrono questo
carattere tanto nel sonzerati quanto nell’ibrido. Il colore al contrario è di gallus, giacchè
l’ intonazione generale dell’ibrido è aranciata o rossa, mentre nel sornerati risulta grigia.
La squamosità delle penne delle ali e del collo del sonnerati è presente ma poco accen-
nata negli ibridi. Questo ultimo carattere è dunque di {rasmissione variabile, giacchè nel
primo ibrido che io ho ottenuto da altra madre, e del quale ho parlato altrove, non v'era
traccia di squama, e, nei tre maschi di questa serie, due soli hanno traccia di squame.
La femmina rassomiglia alla sonnerati pura per la disposizione generale delle macchie,
e ne differisce per la minore intensità dei contrasti: più strette e meno bianche le strie
longitudinali mediane del dorso: incomplete e poco marcate quelle marginali dal petto,
che nella sonmerati pura formano un bordo nero ben netto.
ELI 7 RESA
Quanto ai caratteri fisiologici dirò che la voce in entrambi i sessi é intermedia, che
i maschi hanno sempre vestito un abito estivo con penne brevi e non lanceolate sul collo
come nel sonnerati, che la fecondità è stata perfetta.
La femmina depose una prima covata di 11 uova, all’ aperto, nel mese di novembre:
in seguito ha deposto tre o quattro covate all’anno. Come chioccia si è sempre manife-
stata assai selvaggia, ma affezionata al nido ed ai piccini. Morì nell’estate 1914. Questi
esemplari si sono sempre appollaiati sugli alberi, mai in voliera od in pollaio.
F,
Ho avuto, di questa generazione, una covata di 10 pulcini nella primavera del 1913:
crebbero bene fino all’età di un mese circa, poi cominciarono ad ammalarsi e perirono,
ad eccezione di un gallo e due galline che raggiunsero lo stato adulto. In seguito, come
ho detto sopra, ho avuto molte altre covate, ma i pulcini sono sempre morti di enterite o
di malattie di gola prima di raggiungere un mese di età.
I pulcini erano di colore eguale a quello dei genitori, simili dunque a quelli di G. son-
nerati puro.
Una pollastra della prima covata morta in età di tre mesi, dopo la muta, aveva le
penne color marrone, orlate di nero, come nella razza malese.
Gli adulti assunsero in entrambi i sessi il manto del G. gaZlus. Il gallo aveva in-
fatti le parti inferiori interamente nere, così pure erano interamente nere le penne del
dorso sottoposte a quelle lanceolate del collo, nè si osservavano tracce di ingrossamenti
alle rachidi di queste ultime penne e delle copritrici della coda.
Nelle femmine é pure aumentata la intonazione bruno-rossiccia delle parti superiori e
quella dorata del collo; sono meno accentuate le strie longitudinali mediane bianche del
dorso e delle ali. Le parti inferiori hanno un’intonazione fondamentale rossastra che pro-
duce un effetto più uniforme, rende più evidente la stria mediana chiara, ma confonde
quelle intermedie colle marginali.
Anche questi esemplari sono risultati perfettamente fecondi, ma non ne ho potuto avere
prodotti consanguinei, giacchè le galline morirono d’infiammazione all’ovidutto nel deporre
il primo uovo.
Reincroci unilaterali con Ga//us gallus.
Ho accoppiato l’ibrido maschio con galline comuni, ed ho ottenuto numerosi esemplari
che hanno raggiunto lo stato adulto. Questi soggetti corrispondenti alla formola (Sx G) x G
con un solo quarto di sangue sorzerati, sono molto diversi gli uni dagli altri, ma non
meritano tuttavia descrizioni individuali.
Bisogna in primo luogo che distingua i prodotti che ho ottenuto accoppiando l’ ibrido
figlio di gallina bastarda padovana e combattente con altra gallina della medesima famiglia,
da quelli che ho ottenuto dall’ incrocio con gallina combattente.
Tutti i prodotti ottenuti, circa una cinquantina, offrono caratteri materni, non soltanto
SIR
specifici ma anche etnici. Tra i figli della bastarda padovana ve ne sono col ciuffo, altri
colla cresta doppia; tutti sono diversi di colorito e presentano i mantelli che si sogliono
osservare nei polli comuni: argentati, dorati, bruni col collo dorato, grigi, fulvi. Tale varietà
di aspetti non sorprende, giacchè questi sono i colori che vengon fuori anche dall’incrocio
diretto del padovano dorato col combattente nano argentato.
I figli dell’ibrido e della gallina combattente sono molto più uniformi; cresta abbon-
dante e seghettata nei maschi: molto ridotta e nerastra nelle femmine, salvochè nel periodo
della deposizione delle uova: allora diviene rossa. Quanto al colore 1 maschi hanno l’abito
nero ornato di rosso come il ga//us, oppure di giallo argentato e le femmine sono intera-
mente nere o, al più, con dorature nelle penne del collo.
In questi incroci nulla tradisce il quarto di sangue sornerati, ma non si può dire di
essere tornati al presunto antenato dei polli comuni, il tipico Gallus gallus, se non negli
esemplari maschi a mantello nero ornato di rosso. Nel reincrocio appaiono prevalentemente
ì caratteri etnici delle razza domestica, alla quale apparteneva la madre.
Reincroci complicati di varia natura.
Una gallina bruno-dorata, della serie ibrida precedente, figlia di bastarda padovana
senza ernia, fu incrociata con gallo padovano di origine impura, ed allevò una covata di
otto prodotti, i quali avevano tutti il ciuffo abbondante e ben fatto, con debolissime tracce
d’ ernia. Quanto al colore eravi un giardinetto: fulvi, grigi, argentati, dorati: quanto alle
forme rassomigliavano esattamente agli incroci padovani e combattenti e non avevano altra
caratteristica loro propria che quella di essere molto selvatici e di appollaiarsi sugli alberi.
Incrociando una gallina della stessa serie, tutta nera, figlia di combattente, con gallo
padovano nero dorato, ho otttenuto il medesimo risultato in quanto si riferisce alla forma
ed alla presenza di ciuffo e di tracce d’ ernia; quanto al colore questi esemplari sono bruno
neri con collo dorato e, nel maschio, con ali pure dorate. Tali reincroci hanno la seguente
G 3 SIG nek
: in essi il Gallus sonnerati è rappresentato per un ottavo comple-
(Sx) » ibrida F..
-- "Tratto di una penna del sopracoda di gallo sonzerati puro ingrandito 10 volte.
— Tratto apicale della scapolare figurata al n. 8, ingrandito 10 volte.
— "Tratto distale della penna di reincrocio figurata al n. 3, ingrandito 4 volte.
— Porzione apicale della stessa ingrandita 10 volte.
Penne lanceolate del collo di due galli ibridi F,, ingrandite dieci volte.
Memorie. Serie VIII. Tomo Ill. 1915-1916 A. GHIGI. Ricerche sull’'incrociamento del G. somnerati ecc,
E 20
FOTOGRAFIE DI F. ALZANI
SULLA FASE INIZIALE DELLA SCARICA
IN CAMPO MAGNETICO
MEMORIA
Prof. Sen, AUGUSTO RIGHI
letta nella Sessione del 12 Marzo 1916.
(con 11 riGURE NEL TESTO)
Cap. I.
Esperienze anteriori e metodi addottati.
1, Origine delle ricerche. Sono svariatissime le circostanze, nelle quali si manife-
stano dei fenomeni, che si spiegano semplicemente, e spesso si prevedono, considerando
l’azione esercitata dal campo magnetico sul moto dei ioni e degli elettroni, cosicchè
lo studio di simili fenomeni fornisce sempre nuove conferme alle teorie sulle strutture
atomiche e sulla ionizzazione, sviluppate dai fisici in questi ultimi anni. Chi scrive ha
tratto più volte da esse l’ispirazione delle sue ricerche, e segnatamente delle espe-
rienze relative ai così detti raggi magnetici, delle esperienze dimostranti le rotazioni
ionomaugnetiche, ecc. sino alle più recenti, che mostrano gli effetti prodotti dal campo
sui ioni elettrolitici, dei quali risulta da esso modificata la distribuzione (!).
In molti di questi casi i ioni posseggono oltre al moto termico anche quello pro-
veniente dall’esistenza della scarica elettrica, di guisa che l’azione del campo si ma-
nifesta con modificazioni della scarica medesima.
Di tali modificazioni, quelle che si riferiscono all’iniziarsi della scarica, presentano
speciale interesse, ma in pari tempo particolari difficoltà per l’ indagine loro. E poiché
occorre stabilire una certa differenza di potenziale fra gli elettrodi, affinchè una sca-
rica si produca, lo studiare come un campo magnetico faccia variare detta differenza,
o, come si suol dire: il potenziale di scarica (che per brevità indicherò d’ ora in avanti
con p. d. s.), costituisce una ricerca interessante, anche perchè la variazione del p. d. s.
ha luogo, o forse meglio sembra aver luogo, prima che la scarica esista in atto, e quindi
prima che i ioni posseggano quei moti, dai quali risulta costituita la scarica.
(1) Mem. della R. Ace. di Bologna, 18 aprile 1915. — Ann. de Pbys. 1916, pag. 229.
CGA <
A due riprese ho eseguito questo studio (*), ed ora per la terza volta me ne sono
occupato, onde coordinare i risultati prima ottenuti, stabilirne alcuni nuovi e comple-
tarne la spiegazione. Rimando alla (I) il. Lettore, che volesse sapere quali ricerche
sullo stesso soggetto o su soggetti molto affini siano state antecedentemente compiute
dai fisici. °
2. Risultati miei antecedenti. Alle mie prime ricerche fui condotto dal desiderio di
chiarire un fenomeno da me osservato, dopo avere constatata l’esistenza di un minimo
di potenziale di scarica fra elettrodi paralleli nell’aria rarefatta, in corrispondenza di
un certo valore della loro distanza, quando questa si faccia gradatamente variare. Tale
fenomeno fu il seguente, e cioè che un campo magnetico profondamente modificava
I’ andamento del detto potenziale al variare della distanza fra gli elettrodi. È questo
il motivo pel quale i tubi da scariche adoperati nel corso delle ricerche descritte in (I)
ebbero sempre la forma particolare di tubì ad elettrodi piani e paralleli affacciati 1’ uno
all’altro e a distanza reciproca generalmente piccola.
I risultati delle misure furono esibiti mediante certe curve caratteristiche, costruite
prendendo per ascisse le intensità del campo magnetico in cui è collocato il tubo, e
per ordinate i corrispondenti valori della differenza di potenziale minima occorrente ad
iniziare la scarica.
Il risultato fu diverso per i vari tubi, secondo le loro forme e dimensioni e quelle
degli elettrodi, come pure secondo che il campo era diretto parallelamente ai due dischi
oppure era ad essi perpendicolare; ma il più delle volte la curva caratteristica del fe-
nomeno presentò il seguente andamento. Partendo da un punto dell’ asse dei potenziali
(la cui ordinata non è altro naturalmente che il p.d.s. per campo zero) essa scende
al crescere del campo sino ad una ordinata minima, indi risale. Spesso (e a quanto
credo sempre, se si dispone di campi abbastanza potenti) la curva presenta più oltre
una ordinata massima, dopo la quale nuovamente discende,
Siccome nel corso di quelle prime ricerche ebbi ad accorgermi di alcune irregola-
rità da attribuirsi alla formazione di cariche elettriche sulle pareti del tubo, così,
quando pensai di riprendere le mie ricerche, che altri soggetti di studio mi avevano
fatto abbandonare, cercai di eliminare l'inconveniente facendo sì, che uno degli elet-
trodi tappezzasse buona parte della parete interna del tubo. Se non che, così facendo,
s’introdusse una complicazione, che rese più laboriose le ricerche, in quanto che, come
è noto, il solo fatto d° impiegare due elettrodi differenti fra loro rende necessaria la
distinzione fra due casi, secondo che funziona come catodo l’uno o l’altro di essi.
I tubi adoperati nelle esperienze (II) furono dunque muniti dapprima di elettrodi,
(*) Dovendo spesso citare le relative pubblicazioni, le indicherò con I e II fra parentesi. Così (1)
servirà a designare la Nota: Sul potenziale necessario a provocare la scarica in un gas posto mel
campo magnetico, Rend. della R. Acc. di Bologna, 29 maggio 1910. — Le Radium, octobre 1910. Con (II)
designerò la Momoria: Nuove ricerche sul potenziale di scarica nel campo magnetico, Mem. della
R. Acc. di Bologna, 26 marzo 1911. — Le Radium, mars 1911. — Phys. Zeitschr. 1911, s. 424.
PIO
uno dei quali era di forma cilindrica ed applicato alla parete interna del tubo, mentre
l’altro soleva essere una lamina piana parallela all’ asse del cilindro. Visto poi che
l’orientazione di questa lamina rispetto al campo magnetico poco influiva sui risultati,
fui condotto ad adottare poscia elettrodi cilindrici coassiali. Questa forma presenta un
interesse notevole dal punto di vista della spiegazione dei fenomeni, come si vedrà più
oltre.
Anche quando, colla speranza di raccogliere utili indicazioni, furono adoperati al-
cuni tubi ad elettrodi alquanto lontani fra loro, si trovarono curve caratteristiche pre-
sentanti il più delle volte il solito andamento, cioè con un minimo di p.d.s. seguito
da un massimo ad un più elevato valore del’ campo magnetico.
3. Metodo seguito nelle misure. Il metodo adottato per le nuove misure del p. d. s.
corrispondente alle varie intensità del campo magnetico è stato quello stesso del quale
mi ero valso per le esperienze descritte in (II). Quello seguìto in (I) aveva l’ inconve-
niente di essere lungo e penoso. Esso consisteva infatti nell’ aumentare di una unità per
volta il numero dei piccoli accumulatori formanti la batteria, sinchè si iniziasse la sca-
rica; e questo doveva ripetersi per un certo numero di valori dati al campo. Nelle
esperienze (II), ed in quelle che saranno descritte più avanti, ho seguìto un metodo
perfettamente opposto, e cioè, fissato un determinato valore per la differenza di poten-
ziale applicata agli elettrodi, si aumenta lentamente a partire da zero per mezzo di un
reostata a corsoio l’ intensità della corrente generatrice del campo, sinchè la scarica
compare. In generale ad un dato valore del p.d.s. corrispondono più valori della in-
tensità del campo, il chè rende necessari particolari artifici nella condotta delle misure.
Ciò in conseguenza del noto fatto, in virtù del quale una volta che la scarica si è iniziata
rimane, anche se viene subito troncata, un certo grado di ionizzazione nel gas rarefatto.
Questa ionizzazione persistente fa sì, che il p.d.s. appaia in una nuova misura più
piccolo di quello che è in condizioni normali. Ecco ora quale è stata la disposizione
generale delle esperienze.
4. Disposizione degli apparecchi. La batteria di piccoli accumwatori AB (fig. 1),
costituita da un numero di elementi, che qualche volta giunse
a circa 2600, ha i suoi poli in comunicazione coi pozzetti a
mercurio 4, d, di un inversore, col quale possono scambiarsi
le comunicazioni fra i detti poli A, B, ed i pozzetti a mercurio
c,c', e d,d', da cui partono i conduttori che vanno agli elet-
trodi #, F, del tubo da scariche. Nel circuito così formato
sono incluse due fortissime resistenze £,,$, variabili a piacere
e costituite da lunghi tubi di vetro contenenti alcool più o
meno diluito, come pure il galvanometro G (a campo fisso con
derivazione variabile per regolare il valore della sua costante)
destinato a indicare l’esistenza della corrente di scarica, ed
eventualmente misurarla.
AO Gea
Infine un elettrometro a quadranti di lord Kelvin, X, messo in derivazione, serve
a misurare la differenza di potenziale agli elettrodi allorchè la scarica non passa ancora.
Il più rigoroso isolamento di tutti gli apparecchi è indispensabile, se si vogliono
evitare diverse cause di errore.
Nella fig. 1 non è indicata nè l’elettrocalamita producente il campo magnetico, nè
il reostata a corsoio con cui si fa variare il campo da essa prodotto, nè l’ amperometro
con cui si misura la corrente magnetizzante. Dalle indicazioni di questo si determina
l’ intensità del campo in base a determinazioni preliminari. Salvo per alcuni tentativi,
pei quali adoperai la grande elettrocalamita di Weiss, quella antica di Ruhmkorff
ebbe sempre la preferenza, perchè più comoda per le ricerche di cui qui sì tratta.
5. Sostituzione dell’elettrometro al galvanometro. Poichè in generale il galvano-
metro non compie in queste esperienze altro ufficio che quello di avvertire del passaggio
della corrente nel gas rarefatto, si può ad esso sostituire un sem-
plice elettroscopio. La disposizione sperimentale diviene allora quella
schematicamente rappresentata dalla fig. 2, nella quale non si sono
indicate le parti che restano le stesse che nella fig. 1. Uno degli
elettrodi del tubo, per esempio F, è messo in comunicazione colla
scatola metallica Z circondante l’elettroscopio a foglia d’oro H,
la quale comunica coll’altro elettrodo E. La foglia resta lungamente
sollevata quando, avendo per un istante chiuso 1’ interuttore 7, si è data una certa dif-
ferenza di potenziale agli elettrodi, purchè questa sia minore del p. d. s. Se allora per
un qualsiasi motivo quella differenza di potenziale cessa di essere inferiore al potenziale
di scarica, l’immediata caduta della foglia ne porge 1° annuncio.
Siccome la durata del passaggio della corrente nel tubo da scarica è sempre assai
breve, così l’impiego dell’ elettroscopio offre sul metodo usuale il vantaggio, che la
ionizzazione residua entro il tubo è piccolissima e sparisce relativamente presto.
6. Condotta delle esperienze. Volendo studiare in modo abbastanza completo il
comportamento di un dato tubo da scarica non basta in generale una sola serie di mi-
sure. Per esempio un tubo contenente elettrodi cilindrici coassiali richiederà quattro
serie, perchè può essere catodo o l’elettrodo esterno o quello interno, e in ciascuno dei
due casi il campo magnetico pnò avere l’una o l’altra delle due direzioni principali,
cioè essere o parallelo o perpendicolare all’asse degli elettrodi. Ognuna di quelle serie
permetterà di disegnare la corrispondente curva avente per ascisse le intensità date
al campo magnetico e per ordinare i corrispondenti valori del potenziale di scarica,
cioè la relativa curva caratteristica.
Merita somma attenzione il fatto, che per un dato valore del potenziale adoperato
possono esistere più valori del campo; o in altre parole, che ad intensità differenti del
campo magnetico può corrispondere un identico p.d.s. Per comprendere quali diffi-
coltà ciò possa suscitare, è utile prendere in considerazione la curva caratteristica ; si
supponga che questa sia la curva ABCD della fig. 3, ciascun punto della quale, per
esempio P, ha dunque per ascissa O l’ intensità del campo e per ordinata RP il corri-
spondente valore del p. d. s. In questa figura OA è il p. d. s. quando non esiste campo
magnetico; per cui se si applica agli elettrodi una diffe-
renza di potenziale 0M < OA non si ha certo la scarica.
Creato il campo e facendo crescerne l’ intensità non si avrà
mai passaggio di elettricità, se come nella figura la retta
MM parallela ad OX non incontra la curva caratteristica.
Se invece la batteria fornisce una differenza di potenziale
ON tale, che la retta NN parallela ad OX incontri la curva,
per esempio in P, quando al crescere della intensità del
campo questa raggiungerà il valore Of, subito sì inizierà
la scarica. Fatta una simile constatazione restano senz’ altro determinate le due coordinate
OR, EP di un punto P della curva. Similmente si determineranno tanti altri punti ripe-
tendo le esperienze con differenti valori di ON; ma divengono necessarie certe avver-
tenze, quando la retta NN incontra la curva in altri punti, per esempio, anche nel
punto @Q. In tal caso, se si seguita ad aumentare il campo sino al valore OS, la cor-
rente seguita a passare; ma persiste anche oltre OS, benchè in tal caso il p. d. s. sia
ora maggiore di ON. La ragione è la solita (ionizzazione residua nel gas). Per deter-
minare colla necessaria esattezza il valore 0$, occorre procedere nel modo seguente.
Dopo avere interrotto per qualche minuto il circuito, si dà per tentativi al campo
magnetico un valore, che sia convenientemente più grande di OS, e poi si chiude il
circuito del tubo. La corrente dapprima non si produrrà; ma basterà diminuire lenta-
mente l’ intensità del campo sino a che si produca la deviazione nel galvanometro, per
ottenere il cercato valore OS. Analogamente sì procederà nei casi in cui la curva carat-
teristica sia incontrata in un terzo punto dalla NN.
L’inconveniante della ionizzazione residua, che tende a far apparire meno grande
il p.d.s., si attenua alquanto dando alle resistenze R ed $ (fig. 1) valori elevatissimi.
Questa precauzione fu sempre osservata, come pure quella di interrompere il circuito
di scarica non appena avviene la deviazione del galvanometro.
Cap. II
Considerazioni teoriche.
7. Spiegazioni proposte. A differenza delle esperienze descritte nella pubblicazione
(I) e delle prime fra quelle esposte nella (II) le mie nuove esperienze furon guidate da
una idea teorica o ipotesi spiegativa. Or bene, per risparmiare a questo mio scritto
ogni apparenza di artificiosità, giudico opportuno discutere l'ipotesi ispiratrice prima di
esporre le verifiche sperimentali.
Quei fisici, che ebbero a studiare 1’ influenza del campo magnetico sulle scariche, si
attennero alla idea, che per ispiegare i fatti bastasse prendere in considerazione le
deviazioni subìte dai ioni e dagli elettroni. Però, nel caso di cui qui si tratta, quello
LL agg
cioè del cambiamento di p. d. s., sembrò a qualcuno difficile il comprendere come possa
il campo esercitare la sua azione prima che la scarica realmente abbia avuto principio.
Ma tale obbiezione perde valore se si pensa, che qualche traccia di ionizzazione sempre
esista, cosicchè, quando gli elettrodi posseggono opposte cariche, si ha un moto di
particelle elettrizzate (dispersione lenta delle cariche). L’ azione del campo su quei mo-
vimenti potrà a seconda delle circostanze o favorire o ostacolare 1° intensificarsi di quel
processo, che conduce all’ iniziarsi della scarica.
Però non si tardò a riconoscere, che anche nei casi in cui si fa agire il campo
magnetico solo quando la scarica è già avviata (per esempio quando sì studia 1’ in-
fluenza del campo sulla differenza di potenziale agli elettrodi, oppure sulla intensità di
corrente) il tener conto dei cambiamenti di forma delle traiettorie delle particelle elet-
trizzate non sempre basta a spiegare i fenomeni. Per esempio si può constatare, che
il campo magnetico produce in certi casi diminuzione del p. d. s. (quando il campo
preesiste alla scarica) e diminuzione della differenza di potenziale agli elettrodi (quando
la scarica è iniziata prima che esista il campo), quantunque le deviazioni dei ioni e
degli elettroni avvengano in tal senso da far prevedere risultati inversi. Perciò è
giuocoforza ritenere, che il campo magnetico, oltre che modificare le traiettorie, eserciti
qualche altra speciale azione.
8. Magnetoionizzazione, L'ipotesi della magnetoionizzazione, che ho proposto per
spiegare i diversi fenomeni da me constatati ('), definirebbe appunto quella seconda
maniera di azione del campo magnetico. L’enunciai una prima volta (veggasi (I) alla pag. 13)
in modo generico dicendo, che ogniqualvolta l’ orbita di un elettrone atomico si trovi
opportunamente orientata, in guisa cioè che la forza dovuta all’ azione del campo sul-
l’elettrone sia diretta verso l’ esterno dell’atomo, l° energia necessaria per separare
quell’ elettrone sarà minore di quella che occorrerebbe in assenza del campo, ragione
per cui la separazione stessa resterà agevolata. L’ipotesi della magnetoionizzazione, più
che una causa di ionizzazione, addita dunque una condizione di cose creata dal campo
tendente a favorire la ionizzazione per urto. Ma esposta in questi termini l’ ipotesi
lascia l’adito ad una obbiezione; e cioè, come possono esservi atomi nella indicata
condizione che favorisce il distacco di un elettrone, altri ve ne saranno nelle condizioni
contrarie, pei quali cioè la forza agente sull’elettrone è diretta verso l'interno dell’a-
tomo. Sembrerebbe dunque che i due opposti effetti dovessero compensarsi.
Onde togliere di mezzo questa difficoltà bisogna prendere in considerazione anche
l’intera azione esercitata dal campo sugli atomi o sulle molecole del gas o in altri
termini la magnetizzazione del gas medesimo.
Secondo le idee generalmente accettate, di ogni atomo fanno parte degli elettroni,
che si muovono in orbite chiuse intorno ad un nucleo avente nel suo complesso carica
positiva, benchè vi siano motivi per ammettere che anche degli elettroni ne siano parti
costitutive. Per formarsi una idea dell’azione esercitata dal campo magnetico sugli
(*) Comp. Rend. 30 Jan. 1911.
CARS (0) gie
atomi giova imaginare, che ogni orbita degli elettroni sia sostituita da una corrente di
egual forma. La direzione da attribuirsi a tale corrente dovrà essere quella contraria
alla direzione del moto dell’ elettrone. Si comprende così il comportamento magnetico
del gas, ossia l’orientazione che il campo tende a dare alle sue molecole. Se |’ atomo
non contenesse che un unico elettrone sattellite, l’ orientazione che esso tenderebbe ad
assumere sarebbe quella, per la quale il piano dell’ orbita (che supponiamo appunto
piana per semplificare) diviene perpendicolare alla direzione del campo magnetico, mentre
l’orbita stessa è percorsa dall’ elettrone nel senso opposto a quello della corrente ge-
neratrice del campo medesimo. Siccome però è verosimile, che i vari elettroni separa-
bili di un atomo percorrano traiettorie variamente orientate, così la tendenza verso una
determinata orientazione non sarà che un effetto risultante, che eventualmente potrebbe
essere nullo per certi atomi. Naturalmente, in causa dei moti proprii degli atomi, e delle
molecole che essi costituiscono, 1’ orientazione imposta dal campo non sarà forse mai
neppure per un istante raggiunta; cosicchè l’azione della forza magnetica si ridurrà
ad una parziale e verosimilmente debolissima magnetizzazione del gaz. In altre parole
accadrà per gli atomi gassosi ciò che si immagina prodursi nel caso di un corpo ma-
gnetico, e cioè la tendenza negli atomi verso una concorde orientazione; ciò che del
resto è conforme alla teoria elettronica dei fenomeni magnetici.
Ciò posto si consideri per semplicità, che l'orbita di un elettrone di un atomo abbia
raggiunto ad un dato istante l’orientazione, che il campo tende a fargli assumere, e sì
consideri la forza magnetica esercitata dal campo stesso sull’elettrone in moto. Am-
mettendo altresì, sempre per semplificare, che l’ orbita sia circolare, e tenendo conto
del senso in cui gira l’elettrone, si riconosce subito, che detta forza è diretta secondo
il raggio della traiettoria e verso |’ esterno. Essa renderà quindi minore la forza totale
che trattiene l’ elettrone nella sua orbita, e così resterà diminuito 1’ ammontare di energia
occorrente per staccare l’ elettrone, ossia per ionizzare l’ atomo. Pur non ammettendo
la possibilità d’ una spontanea ionizzazione prodotta dal campo magnetico (che forse a
rigore il vocabolo magneto-ionizzazione sembrerebbe indicare, e che d’altronde non si
saprebbe dimostrare impossibile a priori) resta dunque dimostrato, che per opera del
campo la ionizzazione per urto rimane agevolata.
Questa conclusione vale evidentemente anche nel caso reale, cioè nel caso in cui
le orbite degli elettroni non raggiungano l’orientazione imposta dal campo, come pure
per il complesso degli atomi del gas esposto all’azione del campo.
Nel caso che qui interessa, e cioè delle esperienze relative all’ influenza del campo
magnetico sul p.d.s. esiste, oltre al detto campo, anche il campo elettrico dovuto alla
differenza di potenziale applicata agli elettrodi. Le esperienze anteriori mi avevano mo-
strato, che la forza elettrica, la quale naturalmente è tanto più intensa quanto più gli
elettrodi sono avvicinati, coopera a rendere più marcata la diminuzione del p.d.s. Ciò
mi ha indotto a pensare, che la reciproca inclinazione dei due campi abbia notevole
influenza sulla grandezza degli effetti osservati.
Ecco quali congetture possono farsi in proposito. Si consideri nuovamente il caso
Serie VII. Tomo IIT. 1915-1916. 12
Mv
di un atomo orientato per opera del campo magnetico in guisa, che l’orbita di un suo
elettrone giaccia in un piano perpendicolare al campo. L'effetto prodotto dalla collis-
sione di un elettrone libero sarà verosimilmente diverso a seconda della direzione del
suo moto (che sarà prevalentemente quella del campo elettrico), e sembra anzi proba-
bile, che quando l’ elettrone urtante si muove nel piano dell’orbita, la perturbazione
prodotta nell’atomo debba essere più profonda che quando l’ elettrone arriva in una di-
rezione perpendicolare al piano dell’orbita stessa. Inoltre, mentre in questo secondo caso
il campo non modifica il cammino dell’elettrone libero, nel caso in cui questo arrivi
con una velocità diretta quasi nel piano dell’ orbita, esso assume una traiettoria eli-
coidale, la cui proiezione sul piano dell’ orbita è una circonferenza percorsa in senso
opposto a quello secondo cui si muove l’elettrone sattellite dell’atomo (*); e non è
arsurdo il pensare, che questa circostanza possa rendere più efficace la collisione in
quanto a determinare la ionizzazione.
Ma queste ed altre consimili considerazioni, che passo sotto silenzio, non hanno che
il valore di suggestioni, sulla cui attendibilità spetta all’ esperienza il decidere.
(GAD: JUDE
Nuove esperienze.
9. Esperienze con tubi aventi elettrodi assai distanti. Nella maggior parte delle
esperienze da me altra volta descritte i tubi adoperati avevano elettrodi così disposti,
che non era facile localizzare l’azione del campo magnetico e limitarla ad una deter-
minata porzione del tubo. Ho quindi creduto di dovere istituire esperienze su tubi della
forma più consueta ed assai lunghi, muniti di elettrodi alle estremità. Questi furono
ora filiformi e disposti lungo l’asse del tubo, ora ebbero forma di piccoli dischi per-
pendicolari all’ asse stesso. Fra i due casi non ebbi a rilevare differenze degne di essere
notate. Le esperienze fatte con simili tubi non presentano alcun carattere di novità; e se
qui ne presento i risultati, è soltanto per mettere in rilievo le differenze che esistono
fra essi e quelli forniti nel caso di elettrodi fra loro vicini.
Il diametro esterno dei tubi da me adoperati superava di poco i due centimetri,
e perciò essi potevano venire introdotti nel foro assiale della usuale elettrocalamita di
(*) Che un elettrone in moto su cui agisce un campo magnetico si muova in modo, che la proie-
zione del suo movimento sopra uv piano normale alla direzione del campo sia una circonferenza per-
corsa nello stesso verso della corrente cui può essere il campo attribuito, risulta immediatamente dalla
regola che da la direzione della forza elettromagnetica. Il senso di girazione dell’elettrone è stato
d’altronde stabilito già in occasione delle mie esperienze sulle rotazioni ionomagnetiche. Se i’ elettrone
libero si combinasse con un ione positivo sotto l’azione del campo, il nuovo atomo così formatosi do-
vrebbe invertire la propria orientazione per obbedire alla forza orientatrice del campo. Anche nel caso
speciale in cui l’elettrone, anzichè formare col ione positivo un atomo neutro, diviene semplicemente
un sattellite di questo assai lontano dal nucleo, formando così uno di quei loppiettà da me immaginati
per rendere conto dei fenomeni presentati dai raggi catodici in campo magnetico, il senso di girazione
dell'elettrone è tale, che col suo moto sta a rappresentare un atomd diamagnesico.
— 101 —
Ruhmkoff, come vedesi nella fig. 4. Facendo scorrere il tubo 48 nella direzione del
proprio asse (in realtà facendo scorrere il carrello a ruote su cui è collocata l’ elettro-
calamita, ciò che permette di mantenere il
tubo congiunto alle pompe) si può fare in A ! ; i | MB
modo, che l’azione del campo magnetico sì | |
faccia sentire, ora a metà del tubo, nel i
qual caso il campo presso gli elettrodi è o
nullo, ora presso l’uno o l’altro degli elettrodi, che venga condotto a trovarsi nell’ in-
tervallo fra i poli. Tale intervallo fu in queste esperienze eguale a 5 centimetri. È
altresì facile mettere il tubo in direzione trasversale, sia con uno degli elettrodi in
mezzo ai poli, sia in modo che il campo agisca a metà della lunghezza del tubo.
I risultati ottenuti con ripetute esperienze restarono sostanzialmente invariati, quando
si variò la pressione del gas o la dimensione dei tubi. Trattandosi di esperienze più
che altro qualitative mì risparmio di riportare lunghe tabelle numeriche, e mi limito
ad enunciare i risultati ottenuti.
Con un tubo collocato come mostra la fig. 4, lungo circa m. 1,20 contenente aria
a 0,26 mm. di pressione e con differenza di potenziale di 5200 volta circa, non si
aveva passaggio di corrente. Creato il campo e fattane crescere lentamente | inten-
sità si osservò un brusco stabilirsi della corrente, allorchè tale intensità raggiunse il
valore di circa 4900 gauss. Qualche volta la corrente non è stabile, e la deviazione
galvanometrica cessa in breve, per ripetersi ad intervalli; ma gli intervalli si raccor-
ciano e in breve spariscono per poco che si aumenti ulteriormente la intensità del
campo magnetico.
Il risultato è perfettamente opposto quando il tubo viene collocato trasversalmente
rispetto al campo. Infatti, per avere la corrente bisogna cominciare coll’applicare al
tubo una differenza di potenziale almeno eguale al p.d.s. senza campo magnetico. Se,
così stabilitasi la corrente, si crea il campo e poi poco a poco se ne aumenta l' in-
tensità, la corrente ben presto s’interrompe. Se poi si vuol far passare la corrente a
campo chiuso, occorre una differenza di potenziale tanto più elevata, quanto più in-
tenso è il campo magnetico. Se ne conclude, che quando il campo magnetico è diretto
trasversalmente al tubo, la scarica resta ostacolata; dalla precedente esperienza risultava
un effetto inverso meno marcato quando il campo era longitudinale. Dunque in entrambi
i casi l’effetto constatato si può spiegare nel modo ordinario, giacchè infatti un campo
trasversale distoglie le particelle elettrizzate (e particolarmente’ gli elettroni) dalla di-
rezione di moto loro impressa nel senso dell’ asse dalla forza elettrica, direzione che
deve predominare nel processo della scarica; e nel caso di campo longitudinale quella
direzione di moto resta agevolata dal campo, perchè i ioni e gli elettroni, che fra un
urto e l’altro i muovono in direzioni svariate, sono deviati in modo che la direzione
dei loro moti si avvicina alla direzione dell’ asse.
Se poi il tubo è collocato in modo, che fra i poli si trovi uno degli elettrodi, il
risultato varia di poco nel caso di campo trasversale. Nel caso di campo longitudinale,
— 10 —
in cui si può impiegare una differenza di potenziale minore del p.d.s. ordinario (cioè
corrispondente a campo nullo), la corrente appare facendo agire un campo meno intenso
di quello occorrente quando lo si fa agire in una regione del tubo lontana dagli elet-
trodi. Ciò è evidentemente conforme ai risultati offerti dalle ultime esperienze della (II).
Passo sotto silenzio |’ influenza che esercita il segno di carica dato all’ elettrodo
posto fra i poli, perchè è di assai lieve entità.
10. Influenza della direzione del campo magnetico relativamente a quella del
campo elettrico. Come si vede, i tubi da scarica più usuali, in cui gli elettrodi sono
assai lontani fra loro, hanno un comportamento, del quale si rende conto in modo ab-
bastanza soddisfacente colla consueta considerazione delle deviazioni subìte dai ioni e
più ancora dagli elettroni per opera del campo magnetico; perciò i fenomeni relativa-
mente complicati, che presentarono i tubi adoperati nelle ricerche (I) e (II), si debbono
verosimilmente alla circostanza dell’ essere in essi la forza elettrica alquanto intensa in
causa dell’ essere gli elettrodi assai vicini fra loro. Era quindi naturale il ricercare se
e quale influenza sui fenomeni esercitasse l’inclinazione reciproca delle
forze elettrica e magnetica, non che esaminare se le previsioni formulate
alla fine del $ 8 siano o no confermate. A tale intento furono fatte le
seguenti esperienze, per le quali fu preparato 1’ apparecchio rappresentato
dalla figura 5.
Esso consiste in un recipiente ABC, chiuso dal suo tappo smerigliato
AB (diametro del recipiente circa 9,5 cent. altezza circa 20), attraverso
al quale passano due fili metallici, circondati da cannelli di vetro, che ‘
sostengono gli elettrodi £, Y, come pure il cannello di vetro P per la
comunicanione colle pompe pneumatiche (*). Il detto cannello ha una
congiunzione a smeriglio @, che permette di fare ruotare l° apparecchio
intorno al proprio asse di figura. Quanto agli elettrodi, essi sono lastrine
rettangolari di alluminio larghe 2 cm. ed alte 6, parallele fra loro e
distanti 1 cm. luna dall’ altra.
Fig. 5
Essendo l'apparecchio collocato fra i poli della elettrocalamita di
Ruhmkorff (le cui faccie polari sono ora a circa 10 cm. di distanza), è facile far
sì, che le due lastrine risultino orientate ora perpendicolarmente ora parallelamente al
campo magnetico. Naturalmente si deve poi immaginare che 1° apparecchio della fio. 5
sia messo al posto del.tubo #Y nella disposizione sperimentale indicata dalla fig. 1.
Le numerose esperienze, sempre sostanzialmente fra loro concordanti, che ho eseguite
col descritto apparecchio, debbono forse la regolarità dei loro risultati al fatto che, es-
sendo gli elettrodi assai lontani dalle pareti, l’ influenza delle eventuali cariche di queste
non interviene in modo sensibile. Ecco in dettaglio il risultato d’una serie di misure.
(*) I due fili ed il cannello sono fissati con ceralacca. Questa resta sommersa nel mercurio di un
pozzetto RS, formato da un anello di vetro fissato con un cemento sul tappo, secondo un artificio pra-
ticissimo altra volta descritto e che assicura un’ottima tenuta.
— 103 —
La pressione dell’aria entro il recipiente era eguale a circa un venticinquesimo di
millimetro, e si applicò agli elettrodi una differenza di potenziale, il cui valore è se-
gnato nella prima colonna della seguente tabella. Per ciascuno di tali valori determinai
quelli della intensità del campo magnetico entro i quali si osservava la deviazione gal-
vanometrica. Per esempio, con differenza di potenziale eguale a 1040 volta esisteva la
corrente allorchè il campo aveva un intensità compresa fra 155 e 195 gauss. Questi
valori limiti del campo sono stati appunto segnati nella seconda colonna della tabella.
Intanto l’apparecchio era così orientato, che le due lastrine funzionanti da elettrodi si
trovavano parallele alla direzione del campo. Il valore zero, che vedesi nell’ ultima linea
orizzontale sta ad indicare, che con 1200 volta si aveva la corrente’ anche quando la
elettrocalamita non era eccitata, e cioè quando .il campo magnetico era semplicemente
quello dovuto al magnetismo residuo dei suoi nuclei.
Pot. d. s. | Campo magnetico
in volta in gauss
880 intorno a 165
960 » » 165
1040 da 155 a 195
1120 >
1200 » 0 > 355
Per ogni valore del potenziale segnato nella prima colonna della tabella si fece l’os-
servazione anche dopo avere girato di 90° l’ apparecchio intorno al suo asse verticale,
ed il risultato fu costantemente questo, che mai ebbe luogo una deviazione galvano-
metrica, pur arrivando a dare al campo una intensità di 3200 volta, la quale nelle
condizioni dell’ esperienza mia era la massima che potessi raggiungere.
Come si vede, i risultati sono esattamente opposti a ciò che si poteva prevedere
tenendo conto soltanto delle deviazioni prodotte dal campo sulle particelle in moto. Infatti
si osserva l’ abbassamento di p. d.s. precisamente quando, essendo il campo diretto per-
pendicolarmente alle linee di forza elettriche le dette deviazioni non possono che essere
di ostacolo alla scarica. Non può dunque rimanere nessun dubbio sulla necessità di am-
mettere l’esistenza di una azione speciale del campo magnetico tendente a favorire l’i-
niziarsi della scarica. A mio avviso tale azione speciale è appunto la magnetoionizza-
zione.
La tabella precedente fa vedere, che l'abbassamento di p.d.s. prodotto dal campo
magnetico, quando esso è diretto perpendicolarmente alla forza elettrica esistente fra
gli elettrodi, si verifica soltanto quando l’intensità di esso è compresa entro certi li-
miti. Con campi anche più intensi l’effetto delle deviazioni impresse ai ioni ed elettroni
prende il sopravvento, superando l’ opposto effetto della magnetoionizzazione. Questo si
constata altresì, quando si mettono in opera potenziali superiori all’ ordinario potenziale
Serie VII. Tomo II. 1915-1916. le”
— 104 —
di scarica. Così per esempio, se si continua la serie di misure riportate nella tabella,
applicando agli elettodi una differenza di potenziale di 1440 volta (che è appunto mag-
giore all’ ordinario p. d. s.) sì ha passaggio della corrente non solo con campo nullo,
ma anche aumentando l’intensità di questo, sinchè si arriva al valore di 930 gauss;
ma un ulteriore aumento di intensità del campo sospende la corrente.
È quasi superfiuo notare, come i risultati offerti da queste esperienze bene si ac-
cordino colle previsioni esposte alla fine del $ 8.
E degna di nota la seguente forma semplice data all’ esperienza, la quale diviene
in tal modo più evidente.
Applicata agli elettrodi una differenza di potenziale minore del potenziale occorrente
per determinare la scarica senza campo magnetico, e dato a questo un appropriato va-
lore facile a trovarsi con pochi tentativi, si faccia girare l’intero apparecchio intorno
al suo asse, in modo che le due lastrine risultino ora parallele, ora perpendicolari alla
direzione del campo. In questa seconda posizione non si avrà passaggio di corrente nel-
l’ apparecchio. Ma il galvanometro immancabilmente devierà, quando mercè la rotazione
il piano delle lastrine farà un angolo abbastanza piccolo colla direzione del campo.
Qualora l° esperienza venga eseguita nella oscurità il galvanometro diviene inutile, ba-
stando alla constatazione del risultato lo sparire e riapparire della luminosità nel gas
rarefatto.
Si comprende ora come avvenga, che la curva caratteristica abbia, pei tubi ado-
perati nelle esperienze anteriori (I) e (II), il più delle volte una forma del genere di
quella indicata nella fig. 3. La parte in discesa da A a 8 in corrispondenza dei pic-
coli valori del campo è dovuta alla magnetoionizzazione in prossimità degli elettrodi,
mentre l’altro tratto in discesa, che spesso esiste in corrispondenza ad alte intensità di
campo, pare debba ascriversi, come fu detto già (vedi $ 7 della pubblicazione (II)) alla
magnetolonizzazione nel gas lungi dagli elettrodi.
11. Caso dei tubi ad elettrodi cilindrici e coassiali. — Si è visto come le ri-
cerche (I) e (II), abbiano passo a passo condotto all’ impiego di questa forma di tubi da
scarica, colla quale resta eliminata ogni influenza disturbatrice delle cariche eventual-
mente acquistate dalle pareti. Come è già noto, tali tubi presentano poi uno speciale
interesse, perchè quando si fa agire su di essi un campo diretto secondo l’asse, è pos-
sibile ottenere una diminuzione del p.d.s. benchè le deviazioni delle particelle tendano
a produrre un risultato contrario. Per essere di ciò persuasi basta esaminare quale sia
la traiettoria d’un ione o d’un elettrone con e senza l’azione del campo (*). Se questo
non esiste una particella elettrizzata (di cui si trascurerà la velocità iniziale, perchè
piccola al confronto di quella che in breve gli comunica la forza elettrica) si muove
lungo un raggio, cioè secondo una retta passante per l’asse del sistema e perpendico-
(") Veggasi per esempio la Memoria; Nuove ricerche sulle rotazioni ionomagnetiche in Mem. della
R. Acc. di Bologna, 16 febb. 1913; IL N. Cimento, luglio 1913. — Le Radium, Juin 1913. — Phys.
Zeitschr. 1912, s. 688.
— 105 —
lare.a questo asse. Una volta però che il campo magnetico diretto secondo l’asse
esista, la traiettoria diviene una specie di linea spirale giacente in un piano normale
al campo, ed avente una certa circonferenza come assintoto. In tal modo il moto della
particella si compone di un moto radiale e di una rivoluzione intorno all’ asse del si-
stema, il senso della qiiale è il medesimo per gli etettroni che camminano dal catodo
verso l’anodo come per i ioni positivi, che camminano dall’ anodo verso il catodo.
Consegue da ciò, che gli incontri fra particelle di opposta carica sono resi meno pro-
babili, d’ onde la previsione di un aumento del p. d.s. Qualcuna delle ultime esperienze
descritte in (II) fa vedere invece una diminuzione del p.d.s.: di qui l’importanza del
caso considerato, che obbliga alla supposizione della magnetoionizzazione o di altra
nuova speciale azione del campo magnetico in più di quella da tutti riconosciuta, Mi
limiterò a riportare qui due serie di misure, fra le tante assai concordanti da me ese-
guite. Per effettuarle ho fatto uso del tubo da scariche rappresentato dalla fig. 6.
Esso contiene un elettrodo cilindrico AB formato da una lastrina M p
di alluminio applicata contro il vetro, ed un secondo elettrodo | |
CD coassiale al primo. Questo ha 5 mm. di diametro, mentre i
AB ha il diametro di 2 c.; entrambi poi sono lunghi 5 c., ce s/ EE
che è la distanza che separa le faccie polari MN, PQ dell’ elet- Ù 5
trocalamita. Il tubo di comunicazione 7° colle pompe è poi for- N
mato di due parti unite a smeriglio, e ciò allo scopo di potere Fig. 6
dare al tubo anche la posizione trasversale rispetto al campo, come si farà più tardi.
La seguente tabella presenta i risultati di due serie di misure. La prima colonna,
comune alle due serie, contiene la differenza di potenziale applicata agli elettrodi
espressa in volta, la seconda e la terza i due valori dell’ intensità del campo magne-
tico fra i quali si osserva l’esistenza della corrente. In questa serie di misure l’elet-
Potenz. | Elettrodo interno + | Elettrodo interno —
in volta Campo in gauss Campo in gauss
350 290 1095 290 3080
440 293 1500 220 3420
540 325 1740 205 >6650
780 370 2190 170 »
960 380 2780 io »
1170 410 3700 168 »
1385 455 4120 180 »
lio 505 > 6650 220 »
2065 525 » 225 »
2410 580 » 240 »
2760 665 » Zio »
Silo0 675 » 25) ©
3680 725 » 300 »
4535 | 310 »
— 106 —
trodo CD funzionava da anodo; ma dopo ogni misura se ne faceva un’altra con ca-
riche invertite, ed i risultati si sono registrati nelle colonne quarta e quinta. La pres-
sione nel tubo era di 0,13 mm.
Il valore 6650 del campo magnetico era il massimo che potessi raggiungere.
Coi numeri della precedente tabella ho
potuto costruire le curve caratteristiche fig. 7.
Esse hanno il consueto andamento; ma non ho
potuto aumentare il campo sino ad ottenere
il punto di massima ordinata, che invece rag-
giunsi in altre condizioni sperimentali.
Riescirà utile l’ esame della fig. 7, quando
si tratterà più oltre delle esperienze elettro-
scopiche. Per questo medesimo intento ho do-
vuto fare le misure seguenti.
12. Caso in cui il campo è diretto per-
pendicolarmente all'asse degli elettrodi. La
tabella seguente dà i risultati ottenuti dopo
avere fatto girare di 90° il tubo della fig. 6
intorno al giunto smerigliato 7. La pressione
entro il tubo era sempre 0,13.
Potenz. | Elettrodo interno + | Elettrodo interno —
in volta Campo in gauss Campo in gauss
630 498 1500 — —_
770 420 3650 — —-
945 400 > 6650 — —
1170 420 » — —
1260 442 » = -
1410 455 » = —
2420 — — 0 50
3150 — -- 0 To)
3680 — — 0 25
3805 — — 0 156
45835 — — 0 216
Per rendere chiaro il significato di questa tabella saranno utili le seguenti deluci-
dazioni.
I numeri della seconda e della terza colonna dànno (come nel caso della tabella
del $ 11) i valori del campo fra i quali si ha corrente nel tubo, ossia le due ascisse
della curva caratteristica corrispondenti al valore dell’ ordinata scritto nella prima co-
lonna. Per esempio, quando il potenziale ha il valore 945 volta, la corrente, che com-
— 107 —
pare col campo di 400 gauss, persiste per quanto si accresca l'intensità del campo.
Se il potenziale applicato non è che 770 volta, la corrente si ha solo quando il campo
ha un’intensità compresa fra 420 e 3650 gauss. L'andamento della caretteristica, di-
segnata nel diagramma fig. 8 e contrassegnata dal + è, come si vede, assai simile
a quello delle curve della fig. 7.
Ben diverso è il risultato che si ottiene, quando l’elettrodo interno funziona da
catodo, e lo dimostrano i numeri della prima, quarta e quinta colonna dell’ ultima
tabella. In primo luogo si vede, che non si ebbe
la corrente, che allorquando la differenza di poten-
ziale fornita dagli accumulatori raggiunse il valore
di 2420 volta (che è all’incirca il p. d. s. per
campo nullo), ed in tal caso la corrente cessò non
appena crescendo l'intensità del campo, questa rag-
giunse il valore assai piccolo di 50 gauss; e questi
valori aumentarono un poco quando si andò ripe-
tendo l’esperienza con potenziali più elevati.
La curva segnata — nel diagramma fig. 8 è
quella fornita dai precedenti dati. Essa presenta
un andamento affatto diverso da quello più usuale,
in quanto che essa sale rapidamente senza lasciar
scorgere la tendenza a presentare una ordinata mas-
sima per poi discendere. Incontrai curve di questo
genere altravolta, cioè in certi tubi di forme poco
comuni (II).
A questo punto mi venne il dubbio, che probabilmente avrei raggiunto il presup-
posto tratto discendente della curva, e cioè l’effetto della magnetoionizzazione, se avessi
Pressione 0,25 mm.
Campo in gauss
Pressione 0,16 mm. Pressione 0,20 mm.
en: Campo in gauss RODenE: Campo in gauss POONT
in volta in volta ù in volta
1210 0 50 1020 0 62 350 0
1410 0 15 1095 0 TO 440 0
17605 0 100 1235 0 105 530 | 0
2305 0 145 o 1850 a
2670 0 205 1385 0 125 635 0
de 6650 x 2480 (I
2960 0 275 1450 0 175
Di: > 6650 (4 > 6650
24
31
50
560
170
> 6650
MOST
avuto a mia disposizione un maggior numero di accumulatori. Non avendone altri ebbi
l’idea di rifare le misure con rarefezione un poco meno spinta, e ciò perchè di solito
si ottengono risultati poco dissimili quando si fa variare nello stesso senso il poten-
ziale e la rarefazione.
La previsione è stata subito confermata, come mostrano i risultati numerici della
tabella riportata alla pagina precedente.
Le tre curve costruite con questi dati veggonsi nella fig. 9. Quella che occupa la
parte inferiore di essa si riferisce alla pressione 0,25, quella che gli sta al disopra
im—_—_——————__ll_ corrisponde alla pressione 0,20, e così di
seguito. Infine quella più alta non è altro
che la curva segnata — nella figura 8,
quì riportata per confronto, e che si rife-
risce alla pressione 0,13.
Come si vede a colpo d’ occhio, anche
in questo caso del tubo disposto trasver-
salmente nel campo magnetico e con ca-
todo circondato dall’ anodo, si osserva
l’effetto della magnetoionizzazione, cioè
4000 - na o
9000
2000 na
nia mi si presentò la necessità di studiare
una diminuzione di p. d. s. entro certi
valori della intensità del campo. Ed è
degna di nota la circostanza, che nel caso
attuale così lievi variazioni della pres-
sione del gas diano luogo a tanto notevoli
modificazioni della curva caratteristica.
13. Misure di corrente. Nel corso
delle mie ricerche sui raggi magnetici
quale influenza esercitasse il campo ma-
gnetico sulla media intensità della cor-
rente che attraversa un tubo da scariche,
come pure sulla differenza di potenziale
1000 cero s. esistente (durante il passaggio della cor-
rente, e da non confondersi quindi col
p. d. s.) agli elettrodi (*). Ora è facile riconoscere, che esiste necessariamente una certa
relazione fra il modo nel quale varia il p. d. s. e quello nel quale varia 1’ intensità
della corrente allorchè si fa variare l'intensità del campo magnetico, e che questa rela-
zione permette sino ad un certo punto di farsi una idea dell’ andamento della curva
caratteristica relativa al potenziale di scarica in base a misure dell’ intensità di corrente.
(*) Rend. della R. Acc. dei Lincei, v. XX, pag. 167, 1911. — Phys. Zeitschr. 1911, s. 833. —
Le Radium, November 1911.
— 109 —
Sia ABCD (fig. 3) la curva caratteristica ed ON la differenza di potenziale (mi-
nore del valore che ha il p.d.s. quando non esiste campo magnetico) applicata agli
elettrodi. Cerchiamo di renderci conto della intensità di
corrente pei vari valori dell’ intensità del campo magnetico,
che supporremo di accrescere lentamente partendo dal valore
zero. È chiaro che, sinchè il campo non raggiunge il valore
OR, l’ intensità della corrente è nulla, e che è nulla di
nuovo (salvo il solito effetto della ionizzazione durevole)
quando l’intensità del campo oltrepassa il valore OS; ed
è pure chiaro che l’intensità della corrente crescerà da
Fig. 3
zero sino ad un massimo per poi nuovamente diminuire,
allorchè il campo passa gradatamente dal valore OR al valore OS. Dunque, se facendo
variare il campo si trova un massimo di corrente, ciò indica in generale l’ esistenza
di un minimo di p. d. s. Ma il valore del campo magnetico corrispondente al minimo
di p. d. s. non risulterà identico a quello cui corrisponde il massimo di corrente, non
fosse altro in causa del solito perdurare della ionizzazione.
Analogamente, se si verifica che per un valore del campo maggiore di OS manca
la corrente, e questa ricompare con un campo anche più intenso, ciò indicherà l’ esì-
stenza di un massimo di p.d.s.; e la stessa conclusione si dedurrà, se si constata
l’esistenza di un minimo di corrente per una intensità di campo maggiore di OS,
quando s’impieghi una differenza di potenziale maggiore dell’ ordinata del punto C.
Ecco dungue che, se si determina la curva avente per ascisse le varie intensità date
al campo magnetico e per ordinate le corrispondenti intensità di corrente, tenerdo intanto
invariabile la forza elettromotrice della batteria di piccoli accumulatori, tale curva for-
nirà utili indicazioni circa i massimi e minimi della curva caratteristica del p. d. s.
Per giustificare tutto ciò e per dare un esempio riferirò alcuni risultati sperimentali.
Il tubo fig. 6 contenente aria ad un quinto di mm. di pressione era collocato tra-
sversalmente fra i poli dell’ elettrocalamita, e funzionava come catodo 1° elettrodo interno.
La curva caratteristica per questo caso è una di quelle della fig. 9, e precisamente la
seconda andando dal basso all’ alto. Essa sì è riprodotta nella fig. 10 a scopo dei necessari
confronti. Dopo avere costruito tale curva ho proceduto alle seguenti misure. Applicata
agli elettrodi una differenza di potenziale di 1320 volta ho misurato per diversi valori
dal campo l’intensità di corrente indicata dal galvanometro, ed ecco i risultati ottenuti.
Campo Corrente Campo Corrente
in volta in microampère in volta in microampéere
0 9 480 8,5
105 6,6 800 OMO
125 Fl 1390 7,0
160 0 2250 0
420 0
— 110 —
Prendendo per ascisse i numeri della prima colonna e per ordinate quelli della seconda
si è costruita la curva inferiore della
fig. 10. L'asse delle intensità di campo
magnetico è comune alle due curve.
Esse mostrano a colpo d’occhio, che
la corrente manca per quei valori del
campo, che sono compresi fra le ascisse
dei primi due punti in cui la retta
d’ordinata 1320 taglia la curva del p.
d. s. e che presenta un massimo d’in-
tensità nell’intervallo fra il secondo ed
il terzo dei punti d’incontro suddetti.
Siccome le misure di corrente sono
rapide e facili, sarà dunque utile ricorrere ad esse piuttosto che a quelle del p. d. s.
per acquistare una prima idea dell’andamento delle curve caratteristiche.
14, Esperienze elettroscopiche. La disposizione sperimentale della fig. 2 egregia-
mente si presta per fare esperienze qualitative o di dimo-
strazione. Descriverò qui coi necessarî dettagli, il modo di
effettuarle. Tali dettagli potranno a qualcuno apparire su-
perflui, ma tali non saranno giudicati da chi si accinga a
riprodurre quelle esperienze (*).
La fig. 11 indica la forma da preferirsi per il tubo da
scarica. I suoi due elettrodi sono cilindrici e coassiali, lunghi
circa 5 centimetri. Uno di essi A ha 5 mm. di diametro,
l’altro 33, che è cavo e circonda il primo, ha circa 26.
di diametro. La pressione dell’aria entro il tubo è fra 5
e 10 centesimi di millimetro. Più la rarefazione è spinta
e più alta è la differenza di potenziale a cui conviene por-
tare ì due elettrodi (5000 volta in media).
Uno degli elettrodi A del tubo vien messo in comuni-
cazione coll’ elettroscopio a foglia d’oro (le foglie di ottone
o di falso oro sono da preferire) C, mentre l’altro elettrodo
Fip. ]l BB comunica colla scatola dell’ istrumento e col suolo.
Quando si voglia effettuare una esperienza (e sarà pre-
feribile proiettare una immagine della foglia) si deve cominciare col dare al sistema
conduttore AC (che deve essere isolato a perfezione) una adeguata carica ricorrendo
ad un metodo qualsiasi, per esempio facendo uso di un dielettrico strofinato. Siccome
però un potenziale troppo debole rende il risultato nullo 0 poco appariscente, mentre
(*) Durante la preparazione della presente Memoria ho pubblicato una breve Nota sull’argomento
nei Comp. Rend. del 1° maggio 1916.
— Ill -
uno troppo alto conduce ad un altro inconveniente, che spiegherò fra poco, così è assai
preferibile far uso per la carica di una buona pila Zamboni, che fornisca ‘il poten-
ziale della dovuta grandezza.
Un tipo di pila, che ho trovato veramente eccellente, è il seguente. I dischetti di
carta (portanti come di consueto una sottilissima foglia di stagno su una delle faccie e
una leggera spalmatura di biossido di manganese stemprato in latte assai diluito sul-
l’altra faccia) sono introdotti in un lungo tubo di ebanite, ove restano stretti fra due
dischi d’ottone, con cui si comincia e si termina la pila. Uno di essi almeno deve
essere mobile, ed essere più o meno spinto verso l’ interno per mezzo di una vite, con
che si comprime così tutta la colonna di dischi. Ora, basta appunto variare il grado
di compressione, perchè varii alquanto la differenza di potenziale ai poli della pila secca.
Coll’uso della pila secca si evita facilmente il pericolo, di stabilire per un istante
una differenza di potenziale fra gli elettrodi che arrivi al p. d.s. Se ciò accaddesse la
foglia dell’ elettroscopio immediatamente cadrebbe; dopo di chè si dovrebbe aspettare,
prima di ritentare |’ esperimento, alquanto tempo, affinchè sparisse la ionizzazione residua
entro il tubo. L'impiego di una batteria di accumulatori darebbe altrettanto buoni ri-
sultati; ma naturalmente con minor semplicità.
Se dopo aver dato all’ apparecchio la richiesta carica, e constatato che la foglia
resta sollevata e sensibilmente immobile si accosta al tubo una elettrocalamita anche
se di modeste dimensioni, oppure, se questa è lasciata in posto, sì manda nel suo av-
volgimento una corrente, si vede tosto la foglia cadere sino allo zero o quasi. Il ri-
sultato è sensibilmente lo stesso, sia che le linee di forza magnetiche abbiano dire-
zione parallela o perpendicolare all’asse del tubo, purchè però in questo secondo caso
siasi data all’ elettrodo interno la carica positiva. Infatti in questi casì le curve ca-
ratteristiche hanno tal forma (fig. 7 e 8), che esse scendono rapidamente nel tratto cor-
rispondente alle piccole intensità del campo; e l’effetto osservato dipende appunto da
tale loro andamento. Per rendersene conto giova prendere nuovamente sottocchio la fig. 3.
Sia ON la differenza di potenziale (minore del p. d. s. OA corrispondente al valore
zero del campo) applicata agli elettrodi. Per essere ONZOA Y
non si avrà scarica, e la foglia d’oro resterà a lungo sol- |
levata. Ma se si eccita il campo magnetico e se ne aumenta A E
l'intensità sino al valore Of, cui corrisponde un p. d. s. "il NOD
RP= ON, subito la scarica si produce e la foglia cade. M
Se non fosse per la ionizzazione residua, che protrae il pro-
cesso di scarica anche quando la differenza di potenziale è X
divenuta assai minore di RP, la foglia scenderebbe appena, È Fig *
‘ forse anche in modo indiscernibile.
Poichè, come si è visto, la parte in discesa della curva ABC è effetto di quella
speciale azione del campo, di cui l’ipotesi della magnetoionizzazione rende conto, così
sì può dire, che lo scaricarsi del conduttore AC (fig. 11) è l’effetto visibile della
magnetoionizzazione.
Serie VII. Tomo II. 1915-1916. 13
— 112 —
Variando di poco l’ esperienza si riesce ad ottenere un risultato inverso, e cioè a
far veder che, caricato il conduttore mentre ‘agisce un intenso campo magnetico, si
ottiene la scarica immediata interrompendo il campo o diminuendone sufficientemente
l'intensità. Con cio non v'è però nessuna contraddizione fra le due esperienze, giacchè
questo nuovo fatto accade allorchè interviene quel tratto della caratteristica, che è in
salita.
Suppongasi infatti di applicare agli elettrodi la differenza di potenziale ON (fig. 3)
mentre esiste un campo magnetico un poco maggiore di OS. Naturalmente, siccome per
tale intensità di campo il corrispondente p. d. s. è maggiore di ON=S0Q, così la foglia
d’oro rimarrà sollevata. Ma se si diminuisce l’ intensità del campo sino ad 0$, subito
la scarica ha luogo; e lo stesso risultato si ottiene anche interrompendo la corrente
nell’ elettrocalamita accostata al tubo, benchè possa aversi alla fine un p. d. s. OA mag-
giore di ON. Infatti lo scaricarsi del conduttore AC ha largamente il tempo necessario
per compiersi mentre il campo passa dal valore OS a quello OR.
Questa seconda esperienza sta a dimostrare, non più la magnetoionizzazione, ma
bensì 1’ effetto d’impedimento alla scarica, da tutti considerato come conseguenza delle
deviazioni subìte dalle particelle eletrizzate per opera del campo.
Nei casi delle curve caratteristiche della fig. 7, i tratti ascendenti sono assai lon-
tani dall’ asse dei potenziali e quindi corrispondono a grandi intensità del campo. Al-
trettanto può dirsi per quella delle due curve della fig. 8 che è segnata +, e che è re-
lativa al caso in cui è anodo l’elettrodo interno. Invece, nel caso in cui fa da catodo
l'elettrodo interno la caratteristica ha una ripida salita in corrispondenza ai piccoli
valori del campo, come mostrano anche le curve della fig. 10. Sarà dunque vantag-
gioso, onde realizzare la seconda esperienza senza dover far uso di campi di grande
intensità, il disporla come se si trattasse di eseguire la prima, badando però di dare
all’ elettrodo interno A carica negativa, e di far agire il campo in direzione trasver-
sale. Ben inteso che il campo deve esistere ora prima di dare la carica.
Per la prima esperienza la direzione del campo non ha, come sì disse, che scarsa
influenza. Se quindi si addotta stabilmente la posizione della elettrocalamita che dà
campo trasversale, si avrà una disposizione unica per le due esperienze; e non si avrà
che a cambiare i segni delle cariche per passare dall’ una all'altra.
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE DELE ANNATA 19f5
ESEGUITE E CALCOLATE
DALL’ Astronomo R. PIRAZZOLI
E DALL'AsTROoNOoMO AGGIUNTO DR. &. HORN
NELL’ OSSERVATORIO DELLA R. UNIVERSITA DI BOLOGNA I
INERER RIVIERA
Prof. MICHELE RAJNA
presentata nell’ adunanza del 28 Maggio 1916.
Avvertenze generali.
Le osservazioni meteorologiche che servirono alla compilazione dei quadri che se-
guono, sono quelle eseguite ogni giorno alle ore 9, 15 e 21 di tempo medio dell’ Europa
centrale, prescritte dal R. Ufficio centrale di Meteorologia e Geodinamica. Si omettono
invece i risultati di un’altra osservazione, che si fa pure ogni giorno alle ore 8, per
lo scopo di compilare il telegramma del mattino, che si trasmette al predetto Ufficio.
L’ altezza barometrica si legge a un barometro « Fortin », cui si applica la cor-
rezione costante + mm. 0,46 determinata anni addietro per cura dell’ Ufficio centrale.
Il pozzetto del barometro si trova a m. 83,8 di altitudine sul livello del mare (1).
La temperatura dell’aria, all’ istante dell’ osservazione si le@ge sul termometro
asciutto di un psicrometro di « August », e le temperature estreme su termometri
a massima e a minima. I termometri sono collocati sopra la banchina di una gabbia
meteorica sporgente a nord della torre, costruita recentemente a perfetta circolazione
d’aria, avendo il piano, su cui poggiano i termometri, formato da un reticolato in
ferro e le pareti a doppio ordine di persiane. Il piano della banchina si trova all’ al-
tezza di m. 90,81 sul livello del mare, ed i bulbi dei termometri sono elevati sul
piano stesso di m. 0,26 per il termometro a minima ; di m. 0,41 per quello a mas-
sima, e di m. 0,33 per il psicrometro.
(1) Da misure dirette prese nell’ anno 1904 risulta che il pozzetto del barometro è situato a
m. 28,76 di altezza sul caposaldo della livellazione di precisione collocato alla base della torre del-
l'Osservatorio, sulla facciata esposta a sud-ovest. Tale caposaldo è elevato di m. 2,65 sul suolo e ha
la quota di m. 55,066 sopra il livello medio del mare a Genova, secondo una cortese comunicazione
dell’ Istituto geografico militare. Quindi il pozzetto del barometro ha l’ altezza di m. 55,07 + 28,76 =
m. 83,83 sul livello del mare.
— 114 —
La quantità della precipitazione si ottiene in millimetri di acqua mediante il plu-
viometro registratore di « Fuess », provvisto di un sistema di riscaldamento a immer-
sione per ottenere la fusione della neve. A tale sistema di riscaldamento è innestato
un termometro, il quale permette di verificare che il liquido riscaldato non raggiunga
una temperatura troppo elevata da alterare, per evaporazione, la quantità di acqua
caduta. Il pluviometro è collocato nel punto più alto della torre, e ha l’ apertura libera
superiore a un’ altezza di m. 49,20 sul suolo, e di m. 101,62 sul livello del mare.
La tensione del vapore acqueo e l’ umidità relativa dell’ aria si determinano col
psicrometro di « August » a ventilatore a palette, modello ordinario degli Osservatorî
italiani.
L’ apprezzamento della nebulosità si fa stimando ad occhio quanti decimi di cielo
sono coperti dalle nubi in ciascuna osservazione.
La direzione della banderuola dell’anemoscopio serve a stabilire la provenienza del
vento; e la velocità oraria in chilometri è data dalla media diurna delle indicazioni
dell’anemometro di « Fuess » a registrazione elettrica. La bandueruola dell’ anemoscopio
e il mulinello a coppe dell’anemometro sono sulla sommità della torre a m. 49,50 di
altezza sul suolo.
L’evaporazione diurna dell’acqua si misura ogni giorno alle ore 15 nell’ evaporimetro
posto nella gabbia meteorica, quindi al nord e all’ ombra.
A complemento e controllo delle suddette osservazioni dirette si consultano i dia-
grammi dei tre registratori « Richard »: barografo, termografo, igrografo. |
Riassunto dei quadri mensili.
Barometro.
L’ intera oscillazione barometrica dell’ anno, cioè la differenza fra i due valori estremi
osservati, risultò eguale a 40 millimetri, ed è una delle più ampie che si siano veri-
ficate nel periodo di osservazioni 1903 .... 1915. La pressione minima fu di mm. 729,0,
nel giorno 22 fehbraio, valore mai raggiunto dalle minime annue nello stesso periodo
di tempo; la massima invece, eguale a mm. 769,0, nel giorno 21 novembre, è assai
vicina al valore massimo normale annuo. La pressione media generale risultò di
mm. 752,8, valore questo non mai raggiunto in alcuno degli anni del suddetto periodo
1903 .... 1915 e alquanto inferiore al valor medio normale risultante da un lungo
periodo di osservazioni.
Fra le variazioni secondarie, comprese nella escursione generale, le più considerevoli
per ampiezza di oscillazione furono quelle di gennaio, febbraio e marzo, eguali rispet-
tivamente a millimetri 33,8; 35,7; 27,1. In questi stessi mesi si ebbero le medie
mensili più basse, e specialmente quella di gennaio, eguale a mm. 746,4, rappresenta
un valore veramente eccezionale. Corrispondentemente a tale notevole e persistente
_ultlo —
depressione barometrica, si verificarono perturbazioni atmosferiche con frequenti preci-
pitazioni di acqua e di neve.
Temperatura.
La temperatura si manifestò generalmente mite, tanto rispetto ai freddi invernali,
che per i calori estivi. Infatti nel mese di gennaio, che ordinariamente è il più rigido
dell’anno, il termometro discese ben poche volte e di poco al disotto dello zero; altret-
tanto accadde in febbraio, eccezion fatta per i primi giorni del mese, in cui il freddo
fu alquanto più intenso. In segnito il termometro segnò temperature costantemente
superiori allo zero e via via crescenti quasi regolarmente fino ai calori estivi. Questi
non furono molto intensi, ma per compenso ebbero assai lunga durata, essendo inco-
minciati in sul finire di maggio, e terminati agli ultimi giorni di settembre.
I valori estremi osservati furono, per il massimo, + 32°,9, il giorno 10 agosto,
data alquanto tardiva rispetto alla data normale del massimo estivo, che, da un qua-
rantacinquennio di osservazioni risultò stabilito intorno alla metà di luglio; per il
minimo, — 4°,1, il giorno 29 novembre, e questa data è eccezionalmente irregolare,
poichè il valore minimo invernale accade normalmente circa alla metà di gennaio. La
media generale della temperatura, calcolata in base ai quattro valori giornalieri delle
ore 9, ore 15, massimo e minimo, risultò di 13°,2, ciò fu di 4 decimi di grado infe-
riore al valor medio normale annuo. Fra le temperature medie di ciascun mese pre-
sentarono notevole anomalia quelle del primo e dell’ ultimo mese dell’anno rispetto ai
corrispondenti valori normali dell’anno; quelle degli altri mesi invece seguirono abba-
stanza da vicino l’andamento dei valori normali, come si vede chiaramente del prospetto
seguente :
TEMPERATURA MEDIA
genn. | febbr.| marzo | aprile maggio|giugno | luglio | agosto [settem.|ottobre|novem.| dicem.
Auno 1915 ‘ È 3 9 ° È a 3
di 32 3,9 9, l 1259) MISAOE 208) 2498 225008 RA MIO 6,7 6,0
iiinormale ast sl 84 08,8 (a 7 52102480200) 14,9) 813,3
Inoltre furono registrate 26 giorni con gelo così ripartiti: 10 in gennaio; 5 in
-
febbraio; 1 in marzo; 5 in novembre e 5 in dicembre.
Precipitazioni.
Il numero totale dei giorni con precipitazione, cioè di quelli nei quali 1° altezza
dell’ acqua raccolta nel pluviografo non fu inferiore a 1 decimo di millimetro, risultò
— 116 —
eguale a 103. Questi rispetto alla qualità della precipitazione, per 86 appartengono
alla pioggia, 5 alla neve, 7 alla pioggia mista a neve e 5 alla pioggia mista a gran-
dine minuta. L'altezza complessiva dell’ acqua caduta fu uguale a mm. 657,7; questo
valore è assai vicino al valore normale annuo (mm. 663,8), che fu stabilito in base
alle indicazioni di un intero secolo .di osservazioni (1813 .... 1912), eseguite senza
alcuna interruzione in questo Osservatorio. L'altezza dell’acqua caduta in ciascun mese
fu molto irregolare e in generale discorde da quella dei corrispondenti valori normali:
se ne allontanarono per: difetto specialmente i mesi di marzo, aprile e dicembre, e per
eccesso i mesi di gennaio e, sopra tutti, di agosto, come risulta evidente dal seguente
specchietto : i i
PRECIPITAZIONE (pioggia, neve e grandine fuse).
genn. | febbr. | marzo | aprile Imaggio|giugno| luglio | agosto |settem./ottobre|novem.| dicem.
la mm. mm. mm. mm mm. mm. mm. mm. mm. mm. mn. mul
Anno 1915
7A, 6 47,8 | 181 |028,18| 17498065) 4 2555) 08008 MOSSA ROC ZOA
Auno normale || 38,7 | 41,4 | 51,6 | 57,9 | 66,3 | 56,3 | 35,2 | 41,6 | 62,6| 87,5 | 74,1 | 50,5
Inoltre furono registrate le precipitazioni incalcolabili, cioè quelle che non raggiun-
sero 1 decimo di millimetro di altezza, o anche furono limitate alla caduta di poche
gocce o di piccoli fiocchetti di neve, e ciò avvenne complessivamente in 39 giorni
dell’ anno.
Fu pure determinata l’altezza raggiunta dalla neve, quando questa cadde non mista
a pioggia, mediante la media di varie misure eseguite sulla terrazza superiore del-
l’ Osservatorio, e risultò eguale a centimetri 51.
Temporali.
I temporali che svolsero attività elettrica sopra la città, cioè ì così detti temporali
locali, furono i seguenti :
1° — Il giorno 28 marzo, proveniente da WNW alle ore 14 e sparito verso
levante alle 15" 30": tuoni poco frequenti, piuttosto forti con un fulmine nel momento
della fase massima sulle 14" 30"; lampi a zig-zag intensi; pioggia generalmente forte.
2° — Il giorno 8 giugno con origine a NE intorno alle 13" e termine sulle 14"
verso ponente; tuoni prolungati; qualche lampo intenso a zig-zig; breve acquazzone con
chicchi di grandine minuta come piselli.
3° — Il giorno 10 giugno proveniente da SE intorno alle 16 e sparito a SW
alle ore 17; nubi nere ed opache occupanti metà circa del cielo visibile mandavano
ae
SZ
guizzi di lampi luminosi, alcuni di luce vivissima, abbagliante, seguiti da potenti scoppî
di fulmine; breve e poca pioggia.
4° — Il giorno 23 giugno con origine a SE alle 11° 15" e termine a SW
alle ore 14; scarsa attività elettrica di lampi e tuoni con due brevi acquazzoni.
5° — Il giorno 25 giugno proveniente da SW alle ore 14, con nubi in forma
di fracto-cumuli; lampi intensi a zig-zag, o diffusi; tuoni generalmente deboli; alcuni
fulmini, e due brevi acquazzoni.
6° — Il giorno 1° luglio proveniente da levante intorno alle 18 e sparito a
ponente alle 19" 30"; lampi diffusi e intensi; tuoni prolungati, talvolta forti, e breve
pioggia piuttosto forte.
7° — La notte 30-31 luglio proveniente da N e diretto a SW; tuoni deboli
e prolungati; lampi frequentissimi, abbaglianti e diffusi, dalle 23" 30" fino a 1° circa;
pioggia, da prima torrenziale, poscia leggiera.
8° — Il giorno 4 agosto con origine a nord sulle ore 14 e termine a sud
intorno alle ore 16; tuoni prolungati, continui e deboli con un fulmine scoppiato a
breve distanza alle 14° 45"; lampi deboli diffusi e a zig-zag; pioggia fortissima con
chicchi di grandine minuta come piselli.
9° — Il giorno 12 agosto preveniente da NE intorno alle ore 13 e sparito
verso S alle 14" 30"; nembi opachi e densissimi che scaricarono una pioggia torrenziale
violentissima con pochi chicchi di grandine minuta; attività elettrica di poca intensità,
ad eccezione di un fulmine scoppiato alle 14, preceduto da vivissimo guizzo di lampo.
10° — Il giorno 183 agosto proveniente da N con nubi molto oscure e tuoni
e lampi deboli dalle 10" 40" alle 11" 45"; pioggia violentissima specialmente intorno
allletore SIT.
11° — Il giorno 21 agosto proveniente da S intorno alle ore 15; debole atti-
vità elettrica con pochissima pioggia a grosse gocce miste a chicchi di grandine
minuta.
12° — Il giorno 3 settembre provenienne da SW intorno alle ore 13 e sparito
a NE alle 15; tuoni generalmente deboli e prolungati; lampi deboli e diffusi; acquaz-
zone con alcuni colpi di vento forte.
13° — Il giorno 25 settembre proveniente da SE alle ore 15 e allontanatosi a
ponente alle 18" 30"; tuoni deboli e prolungati; lampi intensi e diffusi; pioggia
forte.
14° — Il giorno 29 settembre con origine a NW intorno alle ore 22 e diretto
verso NE; lampi intensissimi a zig-zag, generalmente muti; pioggia ordinaria; vento
impetuoso del terzo quadrante.
Oltre i temporali locali su riferiti, furono osservati temporali vicini nei giorni:
cibano ROS 80Naprile; 14,819 e298magalo;:n9,10, (19 e 24
giugno; 18 luglio; 3 e 31 agosto; 2 e 27 settembre; 5 e 30 ottobre. Lampi muti
furono segnalati nella sera dei giorni: 31 maggio; 3, 8, 13, 27, 29 e 30 giugno;
13 luglio; 14 agosto.
— 118 —
Tensione del vapore acqueo e umidità relativa.
La media generale della tensione del vapore acqueo risultò eguale a -mm. 8,4; ì
valori medi mensili, più bassi in gennaio e febbraio, aumentarono regolarmente fino
al valore medio massimo, che fu quello di giugno eguale a mm. 13,2, e poscia discesero
quasi regolarmente fino alla fine dell’anno, seguendo con un certo parallelismo |’ an-
damento dei cerrispondenti valori medî termici. ì
Rispetto alla umidità relativa, il valore medio annuo risultò eguale a 69 parti
centesimali di saturazione; i valori medì di ciascun mese furono piuttosto irregolari;
per altro furono maggiori nei primi e negli ultimi mesi dell’anno, e minori nei mesi
intermedi, cioè ebbero un andamento sensibilmento inverso a quello della temperatura,
come appare manifesto dall’ esame del seguente prospetto :
VALORI MEDI
genn. | febbr. | marzo | aprile | maggio|giugno| luglio | agosto |settem.|ottobre|novem.| die.
|
|
|
|
(0) (0) (0) (0) (0) (0) (0) (0)
FT (0) (0)
l'emperatura | 3,2) 8,9 91. 12,3.| 18,9 | 21,6 244|228 17,7 109 604060
mn. mm mm. mm mm. mm mm. mm. mm. mm mm. mn
a
Tens. vap.acg.|| 46: 4/4: 5,7 7,4 \112.|-18,2 19/2 | 12,4: 96. 865.56
(parti centesimali)
Umidità relat.|| 78 val 63 66
Sd
NI
67 52 60 61 78 73 87
I valori estremi raggiunti dalla tensione del vapore acqueo furono alquanto consi-
derevoli, tanto per il valore minimo, eguale a mm. 1,2, che si verificò il giorno 2
marzo, quanto per il valore massimo, eguale a mm. 18,5 che avvenne il giorno 29 luglio.
Per l’ umidità relativa, l’ estremo inferiore fu eguale a 12, ed avvenne nello stesso
giorno 2 marzo, in cui accadde il minimo della tensione; il grado 100 di saturazione
dell’aria fu registrato nei giorni: 11° febbraio; 6, 7, 17,18, 20, 25, 27, 28 dicembre?
Provenienza e velocità del vento.
La provenienza del vento fu registrata solamente 728 volte, trascurando. le rima-
nenti 367 volte in cui si fece l° osservazione durante l’ anno, perchè in queste 1’ ane-
mometro indicava la calma assoluta.
Rispetto ai principali 8 rombi di vento, le provenienze registrate risultarono così
ripartite: 60 volte di nord: 17 di nord-est; 21 di est; 48 di sud-est; 49 di sud;
120 di sud-ovest; 319 di ovest; 94 di nord-ovest. Risultò quindi di gran lunga domi-
nante il vento di ponente, il che si verifica d’ ordinario ogni anno in questa regione.
— 119 —
La velocità oraria media dell’anno fu eguale a Km. 5,5. In generale la forza del
vento fu debole o moderata; assunse talvolta il carattere di vento forte o quasi forte,
specialmente nel mese di luglio per 14 giorni il vento di libeccio; e di vento impe-
tuoso, il levantino del 22 febbraio.
Nebulosità ed evaporazione.
Il numero dei giorni con cielo sereno fu in tutto l’ anno eguale a 78; con cielo
misto 203; con cielo coperto 84, indicando, giusta la solita convenzione, con cielo
sereno quei giorni nei quali la somma dei decimi di cielo coperto dalle nubi nelle tre
osservazioni giornaliere risultò non superiore a 3; con cielo misto quei giorni nei quali
tale somma rimase compresa fra 4 e 26; con cielo coperto quei giorni nei quali la
somma stessa fu superiore a 26. La media nebulosità dell’anno fu esattamente eguale
a 5 decimi.
Il totale annuo dell’ evaporazione risultò di mm. 1148,7. La quantità relativa a
ciascun mese fu proporzionale, oltre che al corrispondente valore termico, alla intensità
della forza del vento; il che si rese evidente specialmente nel mese di luglio, ove la
maggior quantità di evaporazione fu causata non tanto dalle alte temperature quanto
dai forti venti di libeccio che vi dominarono.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 14
ue
(SssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL’ OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83m, 8)
| Giorni del mese
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° D
GENNAIO 1915 — Tempo medio dell’ Europa centrale Boe
Resi Forma
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Barometro ridotto a 0° G. Temperatura centigrada RIS delle
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743,2 | 744,9 | 748,6 | 745,6 1,0 DI 4,5 5,4 02 2,8 0, 6 neve
1930 | 7093 | 70641] 705,1 6,0 8,6 UA? 8,8 4,0 6,5
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100.6 | 746,00 | QUA ZATAI 94 5,7 95, 6,0 2,9 3, ©)
TERA BILIA BILIA Bo SA 6,1 4,6 759 3,0 4,6
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757,0) | 799,0 | 762,1 | 759,4 ZAR DR 3,9 6,3 HA 3,6 | 14,3 | neve e pioggia
763,2 | 760,5 | 759, 1.| 760,9 [—0, 4 Jo 088, 3,9 |-1,0 0,7 |incalc. fiocchi
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73039) | 799,0 .).795,2 | 795,5 1,0 3,0 2,0 4,9 0,8 QI incale. fiocchi
1903. IRO4| 7838 | 730,8 1,6 DAN ARE 3,2 |-0,3 59) 9,5 | neve e pioggia
1084 | 79178) 790,8] 317 ONG, 3,8 4,1 5,3 2,8 4,0 10,9 | neve e pioggia
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TELS 793 79699 0,8 4.4 4,8 Ta |=02 SR 3, 0 neve
740,6 | 740,0 | 740,6) 740,4) 20 3,3 4,2 5,2 1,4 3,2
744,0.) 746,0 | 749,2 | 746,4 |/— 0,6 DI 2,6 1,0 | 056 Ò
7540) 1548581 e BL 204 E 2,2
|
GC VR 3,2 | 74.6
Altezza barometrica massima 763,2 g. 20 Temperatura massima 8,8 gg. 13
» » minima 729,4 » 23 » minima — 1,0 >» 20
» » media 746,4 » media DR
Nebbia nei giorni 1, 2, 3, 5, 89, 1, 415, 16, 24 25. 26027.
Brina nei giorni 3, 5, $, 9, 11, 17.
Gelomne N 2IO RN MIRA LINQ 22 RN SRI 01
OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
ezzli
FATTE NELL'OsservarorIo DELLA R. Università DI BoLoGna (alt. 83", 8)
È GENNAIO 1915 — Tempo medio dell’ Europa centrale È Slo
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» » » >» min. Zi 6» | 3; 91 6 "
3, SMS » media 4,6 dei venti nel mese relativa nel mese |
Umidità relativa mass. 96 4. 27 smau o in decimi
» » media 78 0 1 0 I | 6 42 2 6
(*) Comprende anche l’ evaporazione del giorno precedente in cui l’ evaporimetro rimase gelato.
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—- 122 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'Osservarorio DELLA R. Università DI BoLoona (alt. 83», 8)
| Giorni del mese
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TOSO || 7999 T2050 | T9A6 DÌ, 7,0 5,6 Tod 2,9 I 0,1 pioggia
132,4 | 7354 | 73977357] 42 6,8 5,6 6,9 1,4 45 | 13,8 pioggia
144,9 | 745,8 || 747.60 | 746,1 632 9,4 USO 99 DIS AZ 0,6 pioggia
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163,1 | 7622 | 762,2 | 762,6] 22 5,7 3,6 6,1 1,8 34
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Altezza barometrica massima 764,7 3 Temperatura massima 10,2 e. 15
» » minima 729,0 » 22 » minima — 2,7 » 1,5
» » media Ta) » media 9,9
Nebbia nei giorni 8,9, 110, 11, 12, 13, 14, 16, 20, 25.
Gelo nei giorni I, 2, 3, 4, 5.
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL’OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLoena (alt. 83m, 8)
DI
5 FEBBRAIO 1915 -- 'l'empo medio dell’ Europa centrale cd 9 ®
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» » media 71 1 OZ LOR ORLO, 36 | 6
(*) Comprende anche l’evaporazione del giorno precedente in cui l’evaporimetro rimase gelato.
124
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL’ OsservarorIo DELLA R. Università pi BoLogna (alt. 83m, 8)
| Giorni del mese
DU
DO I
——————6m——____1#p1péT_s a edili dei venti nel mese relativa nel mese
Umidità relativi ssi Ipo 925 3 SQILIE
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125
UssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL Osservatorio DELLA R. Università Dr BoLogna (alt. 832, 8)
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OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservarorIo DELLA R. Università DI BoLocna (alt. 83, 8)
APRILE 1915 — Tempo medio dell’ Europa centrale
Barometro ridotto a 0° C.
Temperatura centigrada
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| Giorni del mese
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mm. | mm.
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750,4 | 756,4
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|
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— 127 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL OsservatorIOo DELLA R. UNIVERSITÀ DI
BoLogna (alt. 83", 8)
È APRILE 1915 — Tempo medio dell’ Europa centrale SL
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2 ‘l’ensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza oo) Sie 2%
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Serie VII. Tomo III. 1915-1916.
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OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NkLL Osservatorio DELLA R. Università DI BoLoona (alt. 83”, 8)
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— 129 —
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università pi BoLoena (alt. 83", 8)
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OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
ratte NELL Osservatorio DELLA R. Università DI BoLoena (alt. 83m, 8)
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— 131 —
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
carte NELL'OsservarorIo DeLLA R. Università DI Boroena (alt. 83m, 8)
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132 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Unrversità pi BoLogna (alt. 83,8)
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DI TIRO T0 | 7559 7608) 230252 | 23,1 28,2 16,0 22,6
QI | 52) 0A | 0457 | 2559 27,4 24, 4 29,0 19,4 24,7
DO 652] ZI IZ 200 | 202 24,1
2 RS TO) 702,5 | 75008] 268 202 | 27600 LO. 106 26, 0
QI ORA TESA TESTATA SAAS] 30,4 Rod DION 2350 26,3
25 | 748,4| 748,4] 750,2] 749,0] 24,0 | 29,2 | 23,8! 29,5 | 194 | 24,2
26 | 75007 | 751,2 | 753,3 | 754,7] 25,3 | 2800 | 25,2 | 28,8 | 20.7 | 25.0
27 | 755,9 | 755/4 | 755,2 755,5] 23,5 | 28/6 | 25/8 | 3000 | 20, 25,0
3 MIL LIZ 00 | 10593 | 269 0949 287 936 | 21,6 27,4
29 | 755)4 | 754/4 | 755,0] 754,9] 22,8 | 244 | 24,3 | 287 | 213 | 23,5 |incale. gocce
IO 26706) 79800 2002 718,8 | AO | 216 | 1706 19,4 9,3 pioggia
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TAR ZAR eh 2082 2450.2709 | 24,65) 2950. |. 20,3) 24,4 29,1
Altezza barometrica massima 757, 5 TONRO Temperatura massima 32,6 g. 13, 28
» minima 747,0 14 minima 15,0 1
» media 753,2 media 24, 4
Nebbia nel giorno 29.
Temporale nei giorni 1, 30.
— 133 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL OsservaroRIO DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83”, 8)
| A LUGLIO 1915 — lempo medio dell’ Europa centrale 0 È 2
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2 Gal Sa
È |Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza do) z & 5°
si in millimetri in centesimi in decimi del vento Solis
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| | min.
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23 [13,8 |16,0 (13,8 | 14,5 9010 bs MO 53 0 2 ? NW | SW 5 5.4
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25 [1,5 [ii [ino | 11,5] 52 | 40 | 50 4T ci ce o ei i iso
26 |10,0 |10,8 |I2,1| 14,0 2 419 () 4 0 | W W | SW 17 UÈ
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Umidità relativa mass. 92 g. 1 in decimi
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— 134 —
OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIOo DELLA R. Università pr BoroGna (alt. 83”, 8)
| Giorni del mese
(OPRSARNSI 03 29
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16
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AGOSTO 1915 — 'l'empo medio dell’ Europa centrale So
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7539) | 753,2) 753,4 | 758,0] 21,59 | (20,740) (22720) 26,6, MS, (610) 1229, jlloso
|
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» » minima 747,1 » 30 » minima 13,8 >» 23
» » media 753,5 » media 22, 3
Temporale nei giorni 4, 12, 13, 21
135 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservarorIo DELLA R. UNIVERSITÀ DI
BoLoana (alt. 83", 8)
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AGOSTO 1915 — 'l'empo medio dell’ Europa centrale F_S| at
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in millimetri in centesimi in decimi del vento oZz£f È
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12,4 [13,0 (10,8 | 184 | 48 | 39 | di 43 gl Rev 0 ly ? ? ONTO
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» min.
12
» media 12,4
Umidità relativa mass. 92 g. 13
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media 60
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dei venti nel mese
relativa nel mese
N NE E SE S SW W NW
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20
15
in decimi
3
Serie VII. Tomo III. 1915-1916.
— 136 —
OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservarorIo DELLA R. Università Di BoLocna (alt. 83, 8)
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- SETTEMBRE 1915 — Tempo medio dell’ Europa centrale | © È È
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- Barometro ridotto a 0° G. Temperatura centigrada £5 delle
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VO WI 9) 06 | 20,4 | 16,0 | 240 13,9 17,0 IE? pioggia
9 | 1929 [00.700,07 1 15,5 22,8 lO | 236 12,4 17,4 4,9 pioggia
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(009 | 791 790,0 | 07 | IGA 22,6 9 | 232 14,4 18,4
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I 980 | MIS | 09,20) M685 6,5 | 19,4 16,3 | 20,0 14,1 16,7
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1 10001 Bo onor boro Wo6t2 D,4 19,4 OZ NAZIO 12,0 10,9
13) {| 79750 [7669 | 759.| 7056. 19,2 || 20,8 ING ZIE0 13,5 16, $
TM T990 | 06304 | 706,9 | 191 2392 IO | 20 15,4 19,4
| 010,0. 7682 | 64] 204 240 | Od 20,1 17,4 20,9
oa 019 Ev 0290 0200, O 2/0 0 16,0 187
17 | 763,4 | 7618) 7614 7621 IZZO ZII 29,2 16,1 20, 4
18] 758,6 | 756, 1999 | 790,4 || 22 | 26,2 QI | 29,5 giù 21,8
IE aa || 7592202 0 206 264 11982 21,6
20] NOTA 5028 Nera Roe Mo ZI? 17,6 29 15,3 79
2108 (60828 60878 620008 760, A Ss8 50 sa Miro o 1992 2,8 pioggia
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26. | 746,4 | 746,0.) 745,8 | 746,1 19,6 DIE 18,4 22,0 15,1 18,8 |incalc. gocce
CI SRI e RA |? AA 21,8 16,6 | 22,0 14,6 17,6 dai pioggia
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Mio IA MU | 60 IA 40 || 18,8 | 188 16,5 |incalc. gocce
30. | 744,3 | 744,4.) 745,8 | 744,8 | A7.A IM | dor 235 Ms iui 11;2 pioggia
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III 0159 | 704, 17,1 21,0 IAA ZI So iL 68, 1
Altezza barometrica massima 764,6 BRR22I ‘Temperatura massima 26,5 9g.
» » minima 743,4 >» 27, 20. » minima 10,6 »
» » media 754,9 » media Lee:
Temporale nei giorni 3, 25, 29.
— 137 —
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL’ OsservatorIo DELLA R. Università DI Boroona (alt. 83m, 8)
ER a)
| 5 SETTEMBRE 1915 -- Tempo medio dell’ Europa centrale ES ©
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BD i c'SE
-$ [Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza s S E sa
E in millimetri in centesimi in decimi del vento szà| se
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ali i ostie 49035 | 058 47 0 650 ARES vi SE 8 | 3,4
Mii 10931 RO28 1091 ON) 59. 40 | 66 5I 2 2 0 W ? ? 9 9a
16 [12,1 [10,4 (10,1 | 10,9 TO | A (62 60 0 3 0 W_ | SW 4 1
{7 10,4 | 9,2 (10,1 GO 62 40 94 92 0 0 0 ? W S 2 DA
18 |10, 1 |11,3 |10,5 | 10,6 04 | 45 | 54 5I 0 0 0 ? SW OS
NOR ABI 01 2,10 MISS) 2,0 59 | 48 | 76 61 0 0 2 NW ? NE IR:
20] 57 |A.87 10,8 0,7 2 | 2 69 0 2 9 ? W N A 33
21 {14,1 [11,6 |12, ee ont oniU9p 92 io | 10 | 10 |NW| ? ? 0 | 2,2
22 | SA RS 2 8,1 718 | 54 | 59 64 10 4 0 | NE | NW ? I [0,8
RENI MGNOR MONS N85 17,4 097066 58 0 0 0 W W ? 2A IAZZO
2A 18,9 | 7,9) |10, 4 OI 79] 49 | 76 66 0 6 6 ? W SE 2 [IS
2 [IS 2 6 08 ee 99 | 76 | 73 gl IO | MIO | 10 E SE | SW Oi
ZeN N98 ISO 5) DO 43 70 Db 0 4 10 | SW | SW | SW 15 1,8
Onie:g ora 4 1009 | 85 | 47.81 7I 2 Ros RZ ve DIN 4 | 2,9
28 |10,3 |11, SO 10,2 92 | 9 5) 2) W SW | SW IN 29
29 |10,4 |10,4 (10,6 | 10,5 Ty | 60. 69 TI 9 AO | AO S W S IZZO
SURINONON ESS6R MON? e 68 | 50 | 65 61 Poi RIONE AZIONA ESVVAA SIN S AO RI?
9,6 | 91 (10,0 9,6 00 | 30] 66 61 3 9) 3 6 Si
Tens. del vapor acq. mass. 13, 6g. 25 Proporzione Media nebulosità
SEND > ina VS ; 5
Pe » media 9,6 N dei venti nel mese relativa nel mese
Umidità relativa mass. 94 g. 21 i imi
3 Saro e N NE E SE S SW W NW POE FISGHIDI
» >» media 61 DE ET A 4
USI =
LUSsERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL’OsservatorIo DELLA R. Università DI Boroona (alt. 83", 8)
®
i OTTOBRE 1915 — "lempo medio dell’ Europa centrale |5 © 2
E fsi Sha Forma
5) Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada FCE delle
ba o S ni . .
E | Media |'9 2 £| precipitazioni
© QUA NALoÌ 2A RM e dra NROÀ 15° 2" | Mass. | Min. |mass.min.|®'=,°°
[lo] | gr 9jh & ®
| D)
min mn mim. min. (0) (0) (0) (0) (0) (0) mm.
Agi IZ |A 462069 160 | 156 | I64 | 441 15, $
ZIO] 0152 094 | A | 8 | LR 10,4 14,3
FITTO] 00 5024 | 16,5 | 14,7 | 100 | 10,7 12,6 1.8 pioggia
WNT | 70452 | T52 | 7084 | 108] UT) 98 | 10,4 11,4 1,0 pioggia
DO LZ TI 9300] 7938 | 40% || 1450 | 41,3 | 155) 10,3 {Y 10,3 pioggia
Gezio 330 50 A o O RS In RASANIONO 11,6 | 25,5 [pioggia e grand.
CILS 00) 798 050) 1,8 | I40.| 129 | 15,2 | 10,3 12,6 |incale. gocce
8 | 752.7 | 750,9 | 750,6 | 71,4| 11,9 | 16,0 | 13,4 | 160 | 10,£ | 19,8 0,8 pioggia
O LIOO,T | 004 | 790,60) 790,6] MZ 1468 | 138 |) /(62.| 10,0 13, 6 4,8 pioggia
IO TOLb4l 75052 7050 798 40 LAO | 142 79 | 19,7 dI
IM || 766,0. 7660.) 7962 | 7064 || 19,6 II Ao SEO IA RZ 14,5
12 OT 5900 o oo RU 191028 5:98 A o 15,0 |incale. gocce
007060 864 798147 196 | 146568 | 16,2 | 16 15,0 0,3 pioggia
IA DA 0790 7084 || | 138 | 12,2 | 14,8 | 19,2 ION 13,8 pioggia
IO IA | T0 050 | ZE) 5641450 | IA 40 10, 6 (UO) 2.9 pioggia
0 | TO | 17958 LO |A | 458] 44,2 | 102 12,10
ae RSI SRO MS 2a 80 115,5 | 103 12,8
9 980] 750,3 700,0) | 7098 AS, NOR RRLZASO O SS 82
O) RAI | 700070301 02 | 14,6 | 11,8 | 15,0 OI 11,5
20. | 755,8 || 750,4 | 756,0. | 755,7 OO RON RZI2288 ITER 8,0 11,0
QI OE SSL TZ 065000 4 44, 14,9 8,5 11,4
PRO SON DIS ORO ISICSIINZIONI 14,4 (1,4 | 14,8 no 10,9
IDA | TSO TESA ISS) 100438 01 13, 4 7,8 10,4
QNT | LA 062 | VO 9 OI NEL 9 LORO LS 133) 10, 2
29 NOS | 70 | 056 | 70,5 8,6 9,6 SASINI LORI 6,4 8,6 0,5 pioggia
70 MO 9004 9004106 | 4108 | 1058 | 8,5 10,3 0,6 pioggia
Z| V09 | 0,0) 7954 | 608 8,2 9,8 92) 410,9 Toe) 9,0 RSA pioggia
28] 751,8 | 749,9) 74890 750,2 62 OG | 104 11,0 6,8 8,8. |incale. gocce
29) | T009 | 76159 | 762,6. | 761,6 10,1 IRAR 9, 2,15 0) 10,1 0,8 pioggia
30 | 750,6 | 749,2 | 750,6 | 750,1 78 | Ad 9,0 42,0 7,0 OI 5,0 pioggia
O 0228 0 RESA N56 OA IRA NAZIONI 12,8 7,9 10,0
PI o 0 76894 |A 20 | 145 OS EIARO 79,8
Altezza barometrica massima 759, (6 (o 2 Temperatura massima 1804 g. 1
» » minima 747,1 » I minima 6,4. > 25
» » media 753,9 ” media Mg
Nebbia nei giorni 13, 14, 25, 27, 30.
tà Pa)
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83",8)
139
(OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
d
: OTTOBRE 1915 — lempo medio dell’ Europa centrale SMS
o Skl o
E. Egl| Ss
#5 [Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza de E o
= in millimetri in centesimi in decimi del vento Rie SS
Sirio Ss Sa
as ? o Ce
©) gu JBL 9h Media gu 15° 2h Media gn 150 Q]N gu 150 Q]l E
mim
Tre SS ASSE TON Mez N03 65 2 5 QAR W W $ | 3,6
RSNON Ria 03 SI 09 OZ SZ 66 I 2 $ ? ? E 0
IM 18,9] 16,9 8,8 86 | 64 | 86 79 9 von EL W SW ? SURI
SO SSIS, SS, (ca 86 81 O HO AMO AA W STO
DRS 90 9 90 Soa MON ICH 86 10 8 S|NW| W N ® || AO
Mogifis so 837980 848 SG 190 84 7 SAN FRLIO W W ? SERRA
MfSI3. (8.7 8886 SI 78 dA BA INVII O 4 | 1,3
SONA AIoI OI 8,7 AO O 75 î $ 6 SW ? ? LO
SE EA ASEAOA CAO (0 RISORTO uni 3 IO IO ? W_ | SW SAR
LORO NON SO: 579x995 76 | 64 | 82 TA 3 4 0 ? ? ? IMC
RI OA9A TONE 108 0A Ac 3: 82 0 $ $ ? N SE ARGO
12 [14,7 [10,6 {12,5| 156 | 95 | 74 | 97 80 10 | 10 | 10{ SE |SW| SE 2 | 0,6
ISEIZAON MORSE 2 0T ARS Oni S3 9 94 NO ARL AZIO ? W N ANTI ONE
Ias 10,70 9,8 | 0,7 OO O 08 94 100 fe10 MSLONI SIN N N 3 | 0,0
19 ASSAI SAZA SA Mn 78 | 69 | 84 tor NIOMN AZIO 8 W W S AO)
NORIRSi i 7 0n 8 doi 80 | 60 | 78 73 8 6 S| SE | NW ? 4 {1,5
INA en uo, 960806 Rat 86 75 6 8 7 ? ? E OTIiICA
USO IT OSE SH oto 0 19 b) 5 3 ? È SE VARigico
19) o RECATA RA, Si OI IC 73 8 5 0 {NWI W ? io
0 SORA To Fo TI 8 8 0 | W ? ? SMRNMSS
Qi RCA RR 7,9 SON 5 69 0 5 0 | W W | SW IM EE)
REA 600,16 6, 8 (8 | 909 65 66 0 0 2 È W._|CSE SANI
ROMIIO N No] -68 ART TOS SDA O 68 9 3 0 ? ? ? QAR MIDI
lO 608.1 TOA 00 fo So 12 0 0 0 ? SW | SW RIUNIONI
30 DE CC TOCGO ROIO
Bono AS 2 9 8,3 O |-SI| 07 86 O O LIO EXE DOVYI W 6 | 0,1
io SITA 8 OR INOnRNS5 85 JOAO AO ? ? ? 0 | 0,9
è RICA GOoO 76 6 Mio QI pv OT SI
29 AO Se MZ 7 TRAIL 81 OO ? NW E 7 | 0,5
Rit 6 SG 858 97 | 85 | 96 93 10 SO ? S S 1 {0,5
SIN Ele 96 sir Sonori 82 dhi 2 6 3 W_| W | SW SENI
SAS NS) MSSIS MIMISSO A OS SY 78 6 7 6 SANITA
Tens. del vapor acq. mass. 12,5 CAR Proporzione Media nebulosità
» » » » min. 6,0» 2 : |
Dn mediato dei venti nel mese relativa nel mese
Umidità relativa mass. 99 g. 14 MI A Ì imi
3 a N NE E SE $ SW W NW ti AGcurni
» » media 78 6 O 8 6 3 8 26 6 6
-===—@_r__Trm___t TtT—_—___—_tt+—_———____m__rrr
— 140 —
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatoRIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83”, 8)
Nebbia nei giorni 2, 3, 9,10, 13, 28, 29.
Gelo nei giorni 17, 27, 28, 29, 30.
D)
z| NOVEMBRE 1915 — Tempo medio dell’ Europa centrale |E © &
(| eg F
E Ris ‘orma
= I [c]
È Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada IE delle
ali o E
E Media |'o S £| precipitazioni
2 gh T9h UN Meda. 9) IS 214 | Mass. | Min. |mass.min.|® =
D gn, 27 A ®
mm. mm. mm. | mm. (0) (0) (0) (0) (0) (0) mm.
A| 745,4) 745,1. 746,2 | 745,44 10,6 11,0 9,4 103% 8,9 10,9 42 pioggia
2 | 748,2 | 748,0) | 748,1 | 748,1 9,8 TA 6,9 9,4 4,8 4
IAC 42881 CER RSI 8,5 9,4 94 9,4 6,7 8,6 24,1 pioggia
QNT |60 | Z050 6606812 13,8 16,2 8,3 1250 1,6 pioggia
25 791,8 79058) 7990) 103 1250 DA 1359 ON 10% 6,4 pioggia
DIS VI, | 70560 | 7059 106 IO | 40 39) 1052 did 0,2 pioggia
PUOI |760 | 7060) 102 | 13,0 10,9 14,2 9,0 10,8
7940 | 7025) 75929,6 | 7552 || 10% 11,6 Il | #6 | 10,0 10,9
O 793 06 6050 | 2500 | 062 12 | 102 11,5 9,8 10, 4 4,7 pioggia
10. | 745,5 | 742,6) 42,4) 743,4 O Lon UO don 9,0 11,0 0,3 pioggia
Ri VIS e za 22 | AG TA 10,1
(2 TOT 00,7 | 40 750, 0 6, 6 9,4 8,2 10, 1 9, 9 7,6. |incale. gocce
IRA NZONOR 08 MERA ZI, 8,2 10,6 8,8 17,8 7,6 10,6 |incalc. gocce
AL | 747,4 | 747,6 | 746,0 | 747,0 9,4 IS5 OO || 1255) 19 9,8
15.0) 747,8 | 74806) 750,7 | 749,0 7,0 10,6 8,8 10,6 o,4 8$,0. incalc. gocce
16..| 749,70! 749,3 || 749,3! 749, 6 3,8 1,2 37 8,8 1,0 3,8 7,7 | pioggia e neve
III 1 | 704,7 3, 8 8,0 5,6 8,1 0,3 4,4
IO LA 009 | 7084 | 2677 0,4 7,8 4,0 7,8 4,0 5,3
19. | 760,0 | 760,4 | 761,0 | 760,5 20 3,6 4,4 1,6 2 52
20. | 764,3 | 765,3 | 766,9 | 765,0 5,0 dA dA 9,4 4,0 5,0
2A | 769,0 | 768,0) 768,2 | 768,7 4, 4 6,5 6,3 6,7 3,8 DN ANA incalei gocce
2 TC 0970, || 705 5,0 6,4 DRS 6,8 Dad 9, 2
23 | 758.4 | 756,2 | 755,6 | 756,7] 41 8,0 4,8 8,4 3.3 5,2
DER? TOI e | 702, 3,8 us 5,4 UU 1,7 4, 6
O T0) L00041) 6A 2,9) 5,0 4,8 5,4 299 4,0
2600481 Ao TASSO] MUZIO 3,0 8,2 3, 8 9,0 2,0 4,4
RIENTRI |A 60 705,4 0,2 0 1,9 4,1 |— 0,6 1, A
28. 763,4 | 764,2 | 765,5 | 764,4 |/— 1,6 QI 0,0 3,0 | 2,1 | —0,2
29 | 764,4 | 762,3 | 761,6 | 762,8 |— 2,4 0,2 0,1 0,7 |--4,1|—41,4
e so Vi vat Roe oo (109 0,4
00 NO ORSI Bo 80 0898 5,9 8,3 6,8 9,8 4,6 6,7 49, 2
Altezza barometrica massima 769,0 Qui l'emperatura massima 1758 LU
» » minima 740,4 > 13 » minima —:4,1 >». 29
» » media 753,3 » media 6,7
LL a
—————__——__—_—nlnln“€<@l2l@Bm“l2&l212—_l1_—- o ————————_———=——<<=—E_Em_—_————_r_7_____————_——n11n1n12n1ànàn@2n11_1112aA_AA2<_ @_a__—_______—_—_—-+___—_—_—_-—_—_—_—x @&—&—&&
=
oe Nolo osi DUI VID =
IPANSZIO e) DI LL CO Si DD |
(Mo 0°S > DI 00 ooo _ OD
141
OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83", 8)
Giorni del mese
NOVEMBRE 1915 — Tempo medio dell’ Europa centrale Ss cs SE
D5 A. ©)
n i Ss su
T'ensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebhulosità relat. Provenienza a 2 © Ea
. in millimetri in centesimi in decimi del vento Cal 6
= ©
D S|
O io i e IVI de OA Ro ZIE Media [eg Ti 2 OE Oi a
mm
TO | GI 7,6 06 Mii Elo gl 5 6 0 | NE W W 10 24]
LOLLI, 60 TOI ISO 95 LOR O AO ? ? ? 1 0,2
8,3 8,6 8,3 Sti o 7 96 to. | 10 0 W SE W 5) 0,2
10.65 ta Ba (SÒ | 60 66 3 2 2 \W S SW 12 9
DR 01 Mso 99 93 i ONIONS Da ? 6 | 0,6
8,7|8,6 8,8 9 ON) MISSA MESI 88 10 | 10 0 | W W |.SW 2 N?
SRO ESTA A 809 84 | 77 | 86 82 8 0 0 W ? NW 1 0, 6
SA SOR ISO 86 | 85 | 80 84 ARR ZIONE O P ? 0 0, 5
848,9 8,6 92 | 89 | 96 9I OO | 0 ? ? 0 0,2
PRO 504 Mero eo 15 10 8 3 ? SW W 8 0,9
SMS 13,58 4,8 TI) | 99 (41 5I 1 2 0 W I SAN U0 II
O TO 6,2 GIS REL ISO 76 (an CONI AZIO ? W W 9 DIO
i (AZ A Qi | 70 | 8a 85 10 2 0 ? W | NW 8 55
55/62) 5,6 | 56 | 54 | 68 59 Di MS SO HR SW ns
$ LOZZO 9 e 2 30 48 0 2 0 ? W W 7 SO
i n 0 e ero we 5 | 2,0
ZIO 202 2D ARS OR 37 0 0 0 W W_ | SW | 16 1,8
303 FR 30% DR PESSANO? 5I 0 2 0 S W S 11 1,3
NO SS NOE NA 66.| 64 | 57 62 OO AR SAY 3 1,4
444,9 4,3 Sai Oo 64 TO SONE LO AVI W W O IL
; 5,0 | 5,0 D% Cone 00 17 10 | 10 DIRINSAVNVANA RINIVVINI RIEN 6 AGE:
4,90 4.6 IGEA 01, IGSA F169 68 0 2 0 W | W W 6 293
402 4,6 Co MSc Si 68 0 00 ? ? W 4 DAR
o E o SI 76 0 620 os W | SE 3 | 0,7
AR n, 4,5 SJ ORI O 73 10 SALONE A W |NW 2 1,6
ZO 4,0 DO | S| 64 1 2 8 ? W W 4 1,4
Zoo (2,6 RINO Se eos 0 56 0 0 0 | W W ? 4 IR
254] 02,9 DI TRA ZO 63 58 2 0 0) ? E SE 2 Lt
NON 5 SS 3,4 52 | 90 281 76 O 40 | 10 ? ? W I |gelat
ie Est 85 Dog 87 10 | 10) 10| W ? i | 330)
DTA NIOVIONE MONO IRIDRO Mo a ES 6 6 5) 5) 5
T'ens. del vapor acq. mass. 9,7 g. 5 Proporzione Media nebulosità
dd » Di snai 29 a 5
DINO ine datano dei venti nel mese relativa nel mese
Umidità relativ SO EE i imi
E NB E SES SN “a dona
» » media 73 Vi ee AI 42 6 6
i TU
(*) Comprende anche l’ evaporazione del giorno precedente in cui l’ evaporimetro rimase gelato.
— 142
OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservarorIo DELLA R. Università pi BoLogna (alt. 28:
O D
È DICEMBRE 1915 —- l'empo medio dell’ Europa centrale |E 2
E R 27 Forma
— (cl
e Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada FEE delle
DI ro)
5 | Media [93 Z| precipitazioni
= î A \ . . = D
9, 9h 15" ZIA Me dia OE 15" 21% | Mass. | Min. [mass.min.|f #
D qu 20" |& ®
mim. mm. mm. Mu (0) (0) (0) (0) (0) (0) mm.
1/00. 700,9 | 799,2 | 755,8 0,1 1,4 IL 1,9 |-0,6 0,8
DIVI 2 692 | 644 3, 8 8,0 6,7 $,3 1,4 5,0
Mae 002] 799,0 DA 2 682 9,4 4,0 652
|
ET 000] 7064 | 755,3 o IO Td 10, 9, 6 9
009001060 | 7090 SUORE NATONO MQ | 1050 7,0 SH
OI Z0 | 7930 | 79 84 8,3 12,2 79) 8,8
TI IX0 | TZ 705,0 || 794,5 7,8 9, 6 8,9 9,6 6,3 8,2
dì | 098) 7949 192 7,3 11,0 9 |A TA 8,8
GRIS TON MobHoN 5698 5089 7 | 04 10,1 10,9 9,3 10, 0
TON|NZbONON N55. 56 562 90 | 42,6 10, 8 IRA 8,7 10,5
UH ZOca | 796792 | 76099) A00 1 NOI ILS SON IIS 8,8 2
2 TO | 7608 | TATO | 79009 || 16,0] 1654 15,2 16, 6 6,6 12,8
13 | 7466 | 747,9 | 752,8] 49,3 | 132] 4) 6,5 (5,2) 650 04 002 pioggia
4 | 761,4 | 762,2) 763,5 | 76274 3,4 | 6,8 39) TA 3,0 4,3 2,0 pioggia
15 | 761,3 | Z67, 8) | 756,0 | 7584 Le | 40 39 4,0 LES 2,6 |incalc. gelicidio
10) | 7930 | 7631 791,6 993,0 Dal 42 4,2 2) 20 3,4 |incale gocce
702 708) 705,8 7/05,9 SIN 9,0 DI 9, 7 8a) 4,6 incale. gocce
{809440 7559075600 55M 6, 6 7,8 750 8,2 9,3 6,8 0,1 pioggia
10 | Z| 702,2 | 09 LU831 6,2 7,0 US 19 6,0 6,8 8,2 pioggia
20. | 747, | 747,3 | 749,4 | 748,14 T,4 T,4 5,4 7,8 do, 4 6,5 9,0 pioggia
21002488 58908 524 638 4,0 ti, 6 4,0 09 3,3 4,6
2 0 | 760) 59 | 7595 Dall 4,8 22 4,5 1,6 CAN]
2008 eZ IRA Ne RN 0g O 2,2 |-4,0 | — 1,3
ZON 75024750557 75006 0,8 3,0 2,4 9 |=06 10
25) | 497,8! |M r5) 748518, e O) 9 | IU] 40 2,0 6,6. |incalc. socce
260 MN 0500 Io 250 56908 5285 9,0 8,8 0, 1 MILA 2,4 6,0 |incale gocce
2070008 6000) 01824 00 HO 2,2 9 poll /=201 0,8
231 010 5 0928 5998 0,0 4,0 4,4 4,6 |—1,4 1,9
20) [ST T99,0 700,0 | 796,0 4,8 7,6 6,3 19 4,3 5,8
SONNO ON, oo N91 STAR N62 6,2 7,0 6,2 7,0 6,0 6, 4
Sil Il 760,6. || 7607 | 6157609 6,9 8,4 8,2 8,5 6,1 7,4
|
199,1 | 764,5 | 764,9 | 764,8 9, 2 7,4 6,5 8,4 3,9 6,0 16,0
|
Altezza harometrica massima 763,5 g. 14 Temperatura massima 16,6 g. 12
» » minima 743,8 » 25 » minima — 4,0 23
» » media 754,8 » media 6,0
Nebbia mertgionni 196; 859 6A IS 000 ERRO N 027 O OOO ION
Brina nei giorni I, 22) LO NAZZI REQ ANS
Gelo nei giorni I, '98,°2 ZANERIIA ‘98.
143
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università DI Borogna (alt. 83", 8)
d
| = DICEMBRE 1915 — 'l'empo medio dell’ Europa centrale 30 È =
NEMO Ste=r) 3
| DB (eu N gi
2 |Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. | Provenienza SEE 2
sE in millimetri in centesimi in decimi del vento gi =
E sE
s gh 150 Q4h Media gn 150 Q]h Media gu 15° Qun gn | 150 Qh a £ ca
Mmni
1|4,0|4,7|4,5 4,4 87 93 89 90 10 10 10 W W W 3 |gelato
RA oN2i NONSO Colli 5, 6 Si | 12) 78 79 3 2 4 | W ? ? 2 |A)
ANIMO 01039 6,2 86 | 86 | 83 85 6 Ò 4 W ? ? AMEN INISTI
i 000 eo 20) 84 da gt (e Co 9 9 n CNG
DIOR STO io 7,4 80. | 88 | 92 87 8_| 10 8 S ? ? 0 0, $
CI NTAON ESSO ES2 TO 400 | 97 |A00 99 10 | 10 2 | SE ? W 3 0,2
vg iriO N ASSO ES STA NI00N 19296 96 IO | O | 10 W WI W 2 0,2
Rliaritoni MSAST CSS3 8,2 CO | 0 | On 93 10 9 | 40 ? ? ? 0 0,4
9] So | 78,4 8,5 | 2 | 55 10 | 10 5) ? W ? 0 0,4
0{S4|9,1| 8,6 8,7 92 | 83 | SS 88 2 8 0 ? ? ? 0 0,$
Id | S56. (953 807 8,9 94 | 84 | 7 85 1 2 l ? W_ | SW | dd
Risi an 7 | 56 gi 65 RSS sw|swl| 20 | 1,5
[95868 9,8 43 OT 94 65 3 10 10 {| SW ? E 13 1,8
TAO] SS 4,2 97 46 63 69 8 2 0 W |NW| W il 3,0
IERI 40 3,6 00) Moi M68 63 2 Di JO] da W W 3 den)
Piton st0 6 54 | 98 80 | 90 89 10 | 10 | 0] w 9 ? 6 {14
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DD Sa A2 41,5 ol | 7 79 0 0 0 ? ? ? 0 0,3
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Vi ro 4,8 02 83 95 90 2 10 9 W 2 ? l 0,0
Lo oa o 0998 6,8 100 | 100 95 98 10 10 10 2 ? SW 2 0, 1
LORO od Modo 9,0 75 68 S4 H 0 0 0 W_ | NW/|NW 8 IN
7 GRAVA a 4,8 98 | 96 |100 98 IO AO) 40 ? W S 0 0,9
SSUN4C0N Ponzi fo 0,4 100 93 92 99 10 10 5) ? W W 0 082
DON INGNON ona Non 6,9 093. | 86 | 94 9I 10 SANZIO ? ? ? | 0, 6
30 | 69 | 6,5 | 6,7 6,7 97 | $$ | 9% 93 10 | 10 | 10 ? ? ? 0 0,8
I IS] 64 6,9 90 | 89.| 70 $$ 10 | 40 | 40 ? ? ? 0 0,2
DRIUN NGRZA MORO 6,4 90! $3 | 88 | 87 i 8 7 3 0,8
Tens. del vafior acq. mass. 9, 31129 Proporzione Media nebulosità
» » » yi 3 © 9 È È
» » » » media 6,4 dei venti nel mese relativa nel mese
Umidità relativa mass. 100. &. 6, TE, 8, a
TIRA DO 27,28. | N NE E SE S SW W NW LITI VO
> > in. 43 g. = = x
» » media $7 i Ù Ù ! 1 2 2 29 6 i
(*) Comprende anche l’evaporazione del giorno precedente in cui l’evaporimetro rimase gelato.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916.
17
reo —_ —Trr— ="! \s.---Ccnxccmux) _—T—tt——z—<<---=<-<=-=-—=+==—TTEÉEEE—————T—_—_—_—++-—+P—_+—+—<, po d pignj e apicha alsolaro co 6 chiodl e una ciavarda i mezo poj metti sopa
i coreti tavole e poj iquadrellj e questo stucho. e buono a ffare. chasse. e molte
altre chose.
anchor giesso segatura e cimatura. e colla fa bono. stucho
anchora stoppa alzata. colle manaie ne 1 modo de le gualchiere ciesso e colla, e bona.
Insegna come si fa un solaro Dello.
ito SIZE
Cita legnami tondi di abete o di castagno.
1 SNA
Scize ro lo che fanno i putti cho prugnj.
f. 346 v. (2)
i l fumo de |...| cto ulopiativo tolj (s. tor) seme dl (torto magli)? loglio riparo e
doracq® vitejbabagia dl dete cavalino
de labro
semeerardkce dda * ma ppe lo e se ca onj cosi e ssa po luere è corpo ra co cafora
e de fato
fumo mortale
foli an se nico è corpora co solfo orisalgallo
Cie BA Delon Frammenti Wineranis Vi, pag. I°
riparo aqua rosa e
UDO
fagioli o UWupini tinti nel suo nasscimeto fetteragi o nociole o fave
15 LOMO RN
Si tratta di strane profezie e credenze saltuarie senza corrispondenza tra | una e
l’altra. « de legniami che brucano op” lial D e albusti della gra selve siconvertirano
incenere » «lulie che chagia deli uliuj e da noci lolio che fa lume » « dellino cheffa
la cura de cecj » « Liomijni sinasconderanno sotto le scorze delle isscorti cate erbe »
« li omjni che va sopa li albi adando inzo choli » «sara si grade ifanghi chellio-
mijni andranno sopa lialbj de lor pae si » «delle casse che riseruano molti tesori
troverassi dentro a de noci e de li albi ealtre piante tesori gradissimj i quali li
stanno occulti ».
A. proposito di quest’ultima credenza, ho sentito comunemente tra i popoli balca-
nici la medesima voce.
— 186 —
E poi «wvedrassi li albi delle gra selve dtaurus e dsinai a penino ettalas scorere
p laria da oriete a ocidete daa quj lone a ine ridi e portarne p laria gra moltitudine
(A spet) duminj... ».
lago SOA
Sappi cheffacciedo bollire o lio dilino seme immodo che visappicchi dentro ilfuocho
gittandovj su il wino verermiglio seneleua fian me grandissime didi vers cho lorj
edura jlfia mmeggiare quato dura iluino e nno ta chellaqua. che ue isstato invmolle
i ra dech i facciendo m.
TRS Soli
Lobelico elegameto del figlol colla guaina chello veste. il equale ra mi ficha e ssi
lega colla matrice co ine bottone cono chiello 0 come brusstia co brustia o UHapola co
lapola.
FAVOLE
i GU 8 favola
I rovisstrice. sendo stimolato melli sua. sottili ramj ripienj A novellj frutti da i
pugieti artigli. ebecho. delle inportune merle (c) sido leva chopietoso. ramarichio.
verso. essa merla. pregando. quella che poi chellei litoglieva. esua dIlettj. fruttj ilmeno.
nolle (togliessi) privassi. de lefoglie. lequali lodlfendevano. daicocièti. razi. del
sole eche cholla chute vnghie nonischortichasse dessuestissi della. sua tenera. pella A
laquale lamerla chonvilane rapognje rispose. otaci. salua ticho. sterpo. nòsaj chela-
natura ta futti. produre. questi frutti pmio notriméto nòued chesse alinòdo p ser-
virmi dl (11). tale cibo nò sai vilano. chetu. sarai. inela prossima ?©uernata notri
méto e cibo del focho. le quali (dopo pi) parole ascholtate dalalbo patiète mete nò
sanzalacrime. jfra pocho tenpo il merlo peso dallaragnja e cholti de ramj p fare
gabia. p?chacierare essomerlo tocho infralaltrj ramj al sottile rouistricho affare
leujmjnj de la gabia le quali vedèdo essere chaua della psa libta delmerlo ralegra-
tasi mosse tale parole. O merlo. isomquj nonachora. chomsumata come dcievi dal
focho prima wvederote prigione che ttu me brusiata
Vi è della gente cui passa per la testa vuota di buon senso, ma piena, in cambio,
di alterigia e di orgoglio, che tutti e tutto debbano essere in loro servizio. Con questa
favola Leonardo flagella a morte costoro, facendo risaltare la loro stupidità ignoraute.
Idem favola
vedendo. illavro. e mjrto. tagliare il pero. chonalta voce gridarono. Opo. ovevaj.
tu. ove. lasupbia. che aveuj. quido evi. itua. maturi. frutti. (m.) hora. nòci fara].
tuòbDa chole tue. folte chiome. Allora. il pero. rispose. io ne vo collagrichola che
mjtaglia e mj portera alla bottega dottimo sculture. il quale mifara. chonsuarte
eg — 3
— 187 —
pigliare la forma dgi (©) ove. ido. essaro dedlchato nel tenpio. edagliomjnj adorato
in vece dgiove. e ttuti metti è puto arimanere ispeso. storpiata. epelata de tuaramj
iquali. mifieno da liomjnj ponorarmi poste dntorno.
È naturale che un artista come Leonardo faccia parlare il pero, così come ha
fatto, per il pregio che ha in arte il legno tanto ricercato di questa pianta. Ciò in
antitesi stessa col lauro e col mirto che se servono bensì per far ghirlande a mostrare
il genio, sono unicamente di pompa, ma di nessuna utilità pratica. E Leonardo pre-
ferisce 1’ utile in arte, condannando la leggerezza delle cose. Cfr. Ms. A. f. 1 r.
Idem favola
uedèdo. jlchastagnjo. lvomo. sopa. ilficho. ilquale (ma) piegava in' verso se isua
ramj e A quelj isspichava. imaturi. (fichi) fruttj e quellj. e quali mette va ne lla
pta bocha dsfacciedolj edsertado li choiduridetj. (par) crollà do. (il chapo). ilun-
ghi ramj e chò (are) temultevole. mormorio disse. O ficho. quato settu médme. obri-
gato. alla. natura. ved, chome ime ordno. seratj. imja. dolcifigliolj. prima. vestitj
d sottile cha mjcia sopa la quale. eposta la dura e foderata. pelle. e nò chò tèta
dosi dl tanto benjficharmj. che Wa fatto loro la (spinosa) forte abi tatione e sopra
quella. fondo achute. effolte. spine. acio che lle manj dellomo. nòmj possino nvocere.
A lora. ilficho chomj cio. insieme chosua figlioli aridere (d) e ferme le risa dlse cho
chonosci lomo. essere dtale ingiegnjo che lui tisapi cho le pertiche. e pietre e sterpi
trattj infraitua rami farti povero de (j) tua fruttj e que li chaduti peste chopiedl 0
chosassi imodo che fruttj tua escino straciati estorpiati fora dellarmata chasa e io
sono cho dlligieza tocho dalle manj e nòchome te da basstoni e dassassi e
Il castagno è come coloro che non sanno quello che dicono o fanno e cercano
imporsi finché trovano chi li mette a posto dopo aver loro fatto la parte che si meri-
tavano. Qui Leonardo innalza il genio dell’ uomo e lo porta a vincere la stessa natura.
Notevole è il modo col quale Leonardo chiama i frutti, figliuoli (Cfr. Mss.).
Idem favola
trovadosi. lanoce. essere dalla chornachia (essere). portata. sopa. vnalto. chan-
panjle. ep. vna. fessura dove chade fu libata. dal mortale (becho) suo. becho.
pegho. esso muro. (cnella. ricieta) pquella. gratia chedlo. liaveva dato. delessere
tanto emjnete. e magnjo. e richo disibelle chapane edta to honorewvole. sono. chella
douessi sochorere (eda) pche. la nonera. pututa chadere sotto iverdi ramij del suo vechio.
padre. e essere nellu gra satera richopto delle sue chudéti foglie. chenola volessi lui
abandonare. tpo chella trovddosi nel fiero becho della. fiera chornachia chella si boto
(v) che schaàpaido daesa voleua finjre luuj ta. sua muvnpiciolo buso. alle qualj (il)
parole ilmuro. mosso. achopassione. fuchotento riciettar la nelocho (©) ouera chaduta.
e in fra pocho tèpo lanoce chomjcio apirsi emettere le radci infru le fessure delle-
pietre. ecquelle allargare egitture iramj fori della sua. chaverna. (eb). equegli
inbrieve leuati sopa loedlfitio e ingrosatele vitorte radlci comjncio aprire imvri echa
— Os
ciare le antiche pietre deloro. vechi. lochi allo ra il muro. tard. eindarno pianse.
lacagione de | 1 | suo dano e inbieve apero rovino gri parte delle sua mébe.
Leonardo colpisce magnificamente coloro che s° insinuano usando di ogni arte nel-
l'animo dei buoni cui tendono a strappare favori e che poi premiano con la più nera
ingratitudine.
Idem
Il mjsero. salice. trovandosi (ognjao) nò potere fruire il piacere. dl vedere. isua.
sottili. ramj. fareove0dure. alla. desiderata. grandeza. edrisarsialcielo. pchagione. della
vite. (d) edqualunche piùta. liera visina. senpe ellj era. storpiato. edramato eguasto
eracholte. inse tutti lisspiri ti. (egi) echonquelli ape (se le por) esspalancha. leporte
alla imaginatione. estando. inchòtinva. (imaginatione) cogitatione. ericier chando.
chonquella. (poi) lunjcerso. delle piate. choquale dquele. esso cholle gare. sipotessi.
(La quale) che nonavessi. biso gnj. dellaivto. desua. leganij estàdo. alquanto. inquesta
(imaginatione) motritiva. imaginatione. cosubito assa limeto licorse nelpesiero.
lazucha. echrollato tutti ira mj pgrade. allegreza. pare li. avere. trouato chòpa
gnja. alsuo. dsiato. proposito. ipo. checquella. epiv. atta allegare. altri che essere
(Lei) legata. (epato. lasschaza chelli piàti. d) effatta taldlibatione rizo.
isua. ramj inuerso ilcielo attédea sspettare qualche amjchevole. ecciello chellj fussi
attal dsiderio mezano jfraquali. veduta. asse vicina. lassgaza. disse. iver. dquella.
ogiétile. vciello. jo ti priego pquello. sochorso. cheacque |.| sstj giornj. damattjna. ine
mja. ramj trovasti quado. lafamato. falchone. crudele. he rapace. tevoleva duorare
(etti piego) e. p quelli; riposi chesopi (imjaramij) me ispeso ai vsato. quido.
(inernvi. motori delle tue. istaichi. mopoteano. piv menare ice
alie). lulie tue. atte. riposo chiedeano. epquellj piacie re che infradettj. miaramj
sche»zddo cholle tue chòpagnje ne tua. amori gia ajvsato. Iotipiego. chettu tuovj lazucha.
einptri dacquella alquate delle sue semeze e dl acquelle. chenate. chelle. fieno. chio
lettrattero no naltre. méti. chessedelinjo chorpo. gienerate lauessi (essi) essjmilmete
vsa tutte quelle parole chedsimijle intè tione psuasive. sieno benche (Jo) atte maestra
delingua gi insegnjare. nobisognja. essecqesto. (serujtio mj) faraj. io sono. chon-
teta dlricieuere iltuo njdjo sopa ilnassimeto demja. ramj. insieme (le) cholla tua fa
miglia. sanza pagameto dalcù fitto. allora lassga za. fatto. effermj. alquati capi (1)
tolj «A novo (s) cholsalice. ema. simo. chebissie. offajne (no) sopa se mai nonac-
ciettassi alzato lacoda e bassato. latesta egittatasi delramo (d) réde ilsuo. peso. allalj.
e cquelle battédo sopa lafugitiva. aria. ora qua ora illa culriosamete choltimò della-
coda drizidosi. puene. auna zu (=) cha. e chobelsaluto e alquate bone. parole (in p)
inpetro ledimadate semèze e chondottele alsalice. (fugr) fu cholieta ciera ricevuta e
rasspato alquato copie iltereno vicino alsalicie chol becho. iciercho (al salice)
aesso. esse. granj. piùto. lequalj inDieve tèpo. cressciedo. cOmjcio. chollo accresciméto.
heaprimeto de sua ranij. aochupare. tutti. iramj. del salice e cholle sue grafoglie.
attorle la belleza del sole edelcielo. e nò bastato. tato male (ne) seguedo lezuche.
o a RI AIR Ma |
a
di
i
Vi
y
—aille9r_=
comjcio p dscò cio peso attirare le. cime de tenerj ramj inver late rra chonjstrane
torture e dsagio dd quelli — allora scotèdossi eindarno crolladosi pfare dasse esse
zuche chadere eindarno vane giaido alquatigiornj. insimjle ingano. pehe labona efforte
chollegatione tal péèsieri negava. vedèédo passare iluèto. acquello racomadadosi e cquello
soffio forte allora sa pse iluechio e voto gabo delsulice in 2 parti insino alle sue
radce eccaduto in 2 parti indarno pianse semedesimo e conobe chieranato pnonaver
mai bene
Gli sfruttatori si impossessano generalmente dei deboli o degli ingenui o degli
idealisti; quando gli sfruttati vorrebbero liberarsi, raccomandandosi all’ intervento di
terzi, dei loro parassiti, è cattivo destino che cadano nelle braccia di elementi peg-
giori dei primi e che la cattiva sorte, perseguitandoli anche per altre vie, li riduca
frequentemente agli estremi.
Idem.
(Iluino. vedendosi nelle parti maumettane ognj giorno. daibe-
uitori essere messo. inelle fasstidlose. budella. e chouer tito ino-
rina. e daciere. poi ligaméete ne neibrutti epuzolenti lochi. dli-
bero adopare. (è sua spiritj eò on) ognj. sua. forza. (aua). alri-
paro dicata nefanda vilta. e trovadosi sopa latavola d mavmetto.
nona. richa. ebella).
Trovddosi iluino ildvino licore. delluua. invna aurea erichacha. taza sopalatavola
A ma vmetto. (Ad [.| e cho) emòtato. ingroria dta to honore. subito fu assaltato.
davna còtrariu cogitatione. dciédo. asse. medesimo. cheffoi. dche mi rallegro. io.
nomavedo. (0). essere. vicino alla mja. morte. ellassciare. laurea. abitatione de lla
taza. centrare. inelle. brutte effetide chavene delcorpo vmano. elli (s) trassmvtarmi
dlodorife ro essuave. (vino) licore. in brutta ettrista orina enò basstàdo. tatomale.
chio anchora deba silîiga méète. dlasiere. ine brutti riciettacholi chollaltra fetida e
chorotta materia. vsscita delle vmane inte riora grido inverso. ilcielo. (qAcie) chie-
dèédo vedetta dtanto danno. (allora giove fecie ch che) echesi. ponessi ora
maj fine attato dsspregio che poi che quello. paesse producea ((il.) le piv belle e
migliore. vue dtutto. laltro mòdo cheilmeno elle nonfussino. invino chodotte allora
giove fece chel beuto. vino damaumetto eleuo lanjma sua inverso. ilcielabo. ecquello.
imodo cotamjno che lo fecie. matto. e partori tanti errori chattorna to inse fecie
legie. chenessuno. assiaticho beessi vino. effu nassciato poj (Ad) libe le ujti cosua frutti.
gia iluino entrato nell o stomaco co mjncia abo llire esscòfia re gialani ma quello
comjncia abi donare ilcor po. giasivolta inverso ilcielo trova ilcie labro. cagione
delle dwjsione dal suo corpo gialo comjciu a acòtamjnare effarlo furia re amodo dl
ma tto gia fa in riparabiliero ri amazado isu a. amjci.
Parla dell’ orgoglio del vino e dei suoi effetti nel corpo umano; accenna alla
bontà della religione musulmana che lo proibisce.
— 190 —
Idem
favola. della lingua. morsa daidèti
ilciedro insupbito della sua belleza dubita delle piate chellj sò ditorno effa tolesitore
dnanzi iluèto poj no nessé do interotto. logitto piera. dradchato.
La superbia e 1° alterigia punite.
Idem favola
laformjcha. trovato vno. grano dd miglio. jIgrano sétendosi peso dacque lo grodo.....
se mj fai tato piacere d. lassciarmj fruire ilmjo desiderio del nassciere. iotiredero.
ciéto me medesimj e cosi fufato.
La logica d’ accordo con la pratica senza bisogno di lunga discussione.
Idem
trovato. il ragnjo. vno grappolo. duue il quale. pla suadolceza era. molto. visitato
da ave edluerse qualità «A mossche. li parve. avere. trovato locho. molto. chomodo.
alsuo. inganno. echala tosì gu. p lo suo. sottile. filo. e ètrato. nella no va. abita-
lione. liognj. giorno. (conjuganj chonducie.) faciédosi alli spiraculi. fatti
dallj intervallj. degranj delluue. assaltana chome ladrone. imjseri anjmalj. che da
Uuj nonsi guardauano e passati. alquantj. giornj. il vendemjatore. colta. essa. vua
emesse. collal tre. insieme chonquelle. (p) fu. pigiata. echosi luna fu laccio e nganno
dello ingantatore ragnjo. chome. delle. ingannate. mossche —
Lo sfruttatore senza scrupoli e senza misura usando ed abusando dell’ altrui bontà
viene finalmente ad essere punito come si merita. Disgraziatamente, con lui finiscono
buoni e malvagi.
Idem
laujtalba. nonjstàdo. cotenta. nella sua siepe. comjcio. apassare. cosua. ramj. la
comvne. strada. eapicharsi. alloposita siepe onde. daujadanti, poi. fu rotta.
Chi non si contenta finisce male.
[NNT(GRNTI ciedro
avedo ilciedro desiderio dl fare 1" bello e gràde frutto inella somjta. dl se lomjse
asegujlione cho tuta Ile forze del suo omore. Il quale frutto crescivto. fu chagione
d fare declinare laeleuata e dritta cima.
rappresenta splendidamente l’ ambizione guidata dall’ ignoranza.
Idem psicho
il psicho avèdo. jvida alla grà quatità de fru tti visti fare alnoce suo vicino
d librato fare il simjle. sicharicho de sua imodo tale che Ipeso dl detti fruttj lo tivo
dradchato e rotto alla piana tere.
Ripete, press’ a poco, il pensiero della favola precedente.
Ie
Idem noce
il noce (f) mostràdo sopa vna strada aividdanti laricheza de sua frutto. ogni
omo lo lapidaua.
Coloro che si pavoneggiano sono derisi da tutti.
Idem ficho
il ficho stàdo sanza frutti nessuno loriquardava volendo chol fare essi frutte essere
laldato dalio mjnj. fu da quellj piegato. e rotto —
. Coloro che si pavoneggiano senza sostanza finiscono tutti come il fico di Leonardo.
Idem holmo fico
Stando. ilficho. vicino allolmo. e riguardando isuau ramij essere. sanza. frutti e
avere ardmeto dl tenere ilsole. asua. acerbi. (fru) fichi chòra pognje. gli dse. hoholmo.
nonaj tu vergognja ha starmj dAnazi mauaspeta. che mja figlioli sieno imatura. eta €
vederaj doue titro veraj iquali figlioli poj maturatj cha (©) pitàdovi 1° squadra dsol-
dati. fu daqueli ptore isua fichi tutto lacera. to. edramato e rotto ilquale stido.
poj cho si storpiato delle sue meba. lolmo lodmado dcie do hofjcho quato era ilmeglio
astare sanza figliolj che p que lj venjre insi misera bile. stato -—
Superbia e prepotenza sono punite esemplarmente. Noto che anche qui, Leonardo
chiama « figlioli » del fico i fichi maturi (1).
Ione
una. pietra nova méte placque scopta d bella qrideza sistaua sop un cierto locho
rile vata dove termj nava udlettevole bosscheto sopa una sassosa strada îchoò pagnja
derbette dl vari fiori Ad versi cholori or (ta) nata evedea (i viandati ) lagra soma
delle pietre (essere solie) che nella asse sotto posta strada chollo chate. erano le
uene desiderio dllagiu lassciarsi cha dere dciedo. cò se cho che foio quj. chò queste
erbe io voglio cho queste mje sorele (im) inchopagnia abitare e giu lassatosi chadere
infra le desiderate chopagnje finj suo volubile corso. e stata alquato chomjcio aessere
dale rote de charrj. dai pie de fferati chavallj e deviundatj. aessere inchontinuo
travaglio. chila volta quale lapesta va alchuna volta sjleuava alehuno pezo. quado
stava chopta dal fa go osstercho dd qualche anjmale. einvano riguardava ilocho dò
de parta ta sera inello cho della solletaria etraquila pace — così acade acquellj che
della vita soletaria e chotenplativa voglia no venjre abitare nelle citta infra ipopoli
pienj dnfinj malj.
Questa favola, oltre |’ interesse che offre per lo studio della psicologia Leonar-
desca, è opportuna a dimostrare una volta di più | amore che Leonardo portava alle
piante e ai fiori, che egli richiama qui per dare vita al paesaggio.
(1) Queste favole del f. 76 sono accompagnate da figure intelligibili.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 24
— 192 —
IS o
vn certo merèdon cresscuto (inàzi a l tenpo) allugga come la zucho olmelo p
supchio omore 0 co me il bozachio p li acquazonj. no tu nò d bene satu chie. par
quele egli e proprio gucho. dagello raso achapochia ma li macha il chavolo (da)
olla fogla della zucha dachola re ilattime di ssu sandro che tte ne pare iti dro il
uero e no me riusscito.
Si può leggere anche: « No, tu non dì bene; sai tu che par quale; egli è proprio
quasi d’ augello raso a capocchia »? Che cosa significa ad ogni modo questa fantasia ?
A mio modo di vedere sono due interlocutori, i quali vogliono parlare di terza per-
sona di nessuna intelligenza e di nessuna attività. Uno lo paragona alla zucca o al
melone cresciuto all’ ombra e in terreno troppo grasso e quindi insipido, o al bozac-
chio (susina cresciuta male e piena di gommosità per |’ accesso di acqua) per gli
acquazzoni, L’ altro, invece, lo paragona ad un uccello da preda di poco fatto prigio-
niero e perciò con le ali tagliate e col capuccio sugli occhi come a quei tempi si
tenevano gli uccelli rapaci per addomesticarli ; ma gli manca i cavolo (allude, forse,
Leonardo ad un modo di quei tempi di alimentazione erbacea o lattea cagliata col cavolo
o la zucca degli uccelli rapaci? Non mi pare che cavolo o zucca debbano riferirsi ad
un terzo paragone che si voglia fare del « certo merendone » (uomo stolto e dappoco)
con un bamboccio coperto di lattime, medicato con le foglie di cavolo 0 zucca. Sono
s° intende, modi di dire dei tempi Leonardeschi. Vuole interpretarsi, forse, uno. sfogo
per qualche incarico dato e. non eseguito a questo Sandro che Leonardo tratterebbe
di merendone ?
SUL TRASPORTO DELLE COORDINATE GROGRAFICHE
LUNGO ARCHI DI GRODETICA DELL'ELLISSOIDE TERRESTRE
MEMORIA
DEL
Prof. FEDERIGO GUARDUCCI
L (letta nella Sessione del 26 Marzo 1916)
Duo
0
DI,
Il problema fondamentale della geodesia che si enuncia :
Essendo dati, in un punto dell’ Ellissoide terrestre, la latitudine, la longitudine nonchè
la lunghezza e l’azimut dell’arco di geodetica che unisce questo punto ad un altro pure
sull’ Ellissoide, determinare in quest’ultimo le analoghe quantità, si risolve, come è
noto, con più metodi i quali sostanzialmente si possono ridurre a due, cioè :
1° integrando per serie con opportuni espedienti di calcolo, e introducendo anche
variabili ausiliarie, le equazioni differenziali delle geodetiche. (Metodi di Bessel,
Hansen, Baeyer, Helmert ecc.);
2° esprimendo le quantità che si cercano per mezzo di serie ordinate per le po-
tenze ascendenti del rapporto fra l’ arco s e uno dei raggi di curvatura dell’ Ellissoide,
rapporto che viene considerato come una piccola quantità del 1° ordine di grandezza.
(Metodo di Legendre che va impropriamente sotto il nome « Metodo di Delambre »
perchè da questo adoperato nelle operazioni geodetiche francesi che servirono di base
al sistema metrico decimale).
Il primo metodo ha bensì il vantaggio di potere essere applicato fra punti separati
da distanze comunque grandi, ma riesce in compenso non semplice nella sua pratica
attuazione ; il secondo invece è semplicissimo e praticissimo finchè l’arco, che indicheremo
con s, è tale che si possono trascurare, negli sviluppi, i termini di 3° ordine, ossia per
valori di s che si aggirano attorno a 25-30 chilometri; diviene alquanto più laborioso,
(ma pur sempre conveniente rispetto al primo), per distanze di 60-80 chilometri, nel qual
caso occorre tener conto anche dei termini di 3° ordine, mentre per distanze maggiori che
impongono di conservare i termini di ordine superiore al 3°, per avere la precisione ordina-
riamente richiesta nei centesimi di secondo per la latitudine e per la longitudine, e nei
decimi di secondo per l’ azimut, il numero dei termini negli sviluppi cresce sensibil-
mente, ed il calcolo diviene così laborioso e complicato che riesce preferibile l’applica-
zione del primo metodo. — In particolare per distanze s di circa 500-600 chilometri
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 25
—- Idi
occorre tener conto dei termini di 5° ordine, ed il metodo diviene pressochè inapplica-
bile in .pratica.
Scopo della presente nota è di mostrare come, anche in quest’ultimo caso, cioè
degli sviluppi protratti fino ai termini di 5° ordine, si può con un ripiego assai sem-
plice, ridurre sensibilmente il calcolo numerico rendendo così ancora conveniente questo
secondo metodo rispetto al primo.
Riassumiamo perciò le formole che Helmert nel suo oramai classico trattato,
Die mathematischen und physikalischen Theorieen des hòeren geoddsie (Vol. I, pag. 298)
ha sviluppato fino ai termini del 5° ordine inclusivamente, dando loro, mediante oppor-
tune ausiliarie, forma il più possibile concisa ; e, per maggior semplicità dei confronti
che dopo faremo sopra un medesimo esempio numerico calcolato dallo stesso Helmert,
conserveremo esattamente le medesime convenzioni e i medesimi simboli da esso adoperati.
Le formole in parola sono le seguenti :
ii i 1 ASTI
udito —-(13-3P)uo-- (23-31) (ina
1 l
2 DI ANO x È 44 4
in sec. STR 3 Il 5 1 hi)
+0 sen 2B,uU—-d (300522 +7 (5cos 2B,—4)uv )
+ termini di 6° ord.
l ONSIZ l VISI 1 2 3
Ci n ero ag a )tu®v
e Box (041504158080
(2) «——. L= L+ p'secB, 3 15 l5
in sec.
9 9 l 9
_ È 1+20#+30#5)u°03 — 3 Ò cos B uv
+ termini di 6° ord.
1 3 1 1
fo—3(1+2f)uo—=(14+-20)to°+-(5+-62°) tv
fa
Il l
x 2_1 94/4\,)3 2A ONTO
i +24f)u Casa (1+20f+24f°)uv
e,
Il
120
9) 200 LI D) 1 >
(3) ao, =0+180°p (+ (61-+-18024-120t9)tu'o—==(584-2801 +-24045) td?
in sec.
SEA + 20f+ 244‘) to I 300888 uv
120 si Ò 2 i
ei
TS 5 Mes
+5 0sen2 B.(—v°)v+ termini di 6° ord.
nelle quali le B e le Z rappresentano respettivamente le latitudini e le longitudini
(contate queste da Est verso Ovest), le a gli azimut contati da Sud verso Ovest (Vedi figura
“ERO
nell’esempio numerico) ed s l’arco di geodetica, e nelle quali sono state fatte le posizioni
pete a,== semiasse maggiore dell’Ellissoide [log=6.8046434.637]
a Sa 1A
4) to W=VI — e°sen°B,
| = SSeNa,o e = eccentricità dell’ Ellisse meridiana secondo Bessel
i e°=0.00667437 --. [log=7.8244104.149— 10]
t=tang-5,
1
[da e PA LU) RS
p in 00264 .806247 -.-[log=5.3144251.332]
e
d= I 000092181 SO [log= 7.8273187.745—10].
Come si vede, questi sviluppi, quando non si tratti di calcolarne solo i primi ter-
mini, sia pel numero di essi termini sia per la forma complessa dei respettivi loro
coefficienti, (i quali debbono venir calcolati per ogni punto di provenienza M,) sono
veramente tali da sgomentare qualunque più sperimentato calcolatore, e da riuscire perciò
assolutamente disadatti all’ uso corrente ; tantochè anche Helmert dichiara che la con-
venienza di usarli si potrebbe avere solo quando tutti i punti di cui si vogliono calco-
lare le coordinate geografiche fossero legati con provenienza diretta ad un unico punto,
(che sarebbe il punto M,) giacchè allora i coefficienti, rimanendo sempre gli stessi, si
calcolerebbero una volta sola.
E facile però vedere che la prolissità di questi calcoli si riduce in misura molto
larga se dall’ Ellissoide trasportiamo il problema, fin dove è possibile, sopra una sfera
di raggio conveniente.
Imaginiamo infatti di far variare il raggio equatoriale a, dell’ Ellissoide fino a farlo
divenire uguale alla gran normale
pe 4
1 == —_r_—_—rr=+r_ oe_*=a
Vv 1— e°sen° B,
relativa al punto M, lasciando invariata 1° eccentricità e; è evidente che le formole
(1) (2) e (3) varranno ugualmente per questo nuovo Ellissoide; e se si suppone in
questo e = 0 lasciando però invariato il raggio equatoriale precedentemente modificato,
ci ridurremo sopra una sfera di raggio N,; così il termine W, della (1) diverrà l’unità,
il coefficiente 1+-d diverrà pure l’unità, e tanto in essa come nelle (2) e (3) spari-
ranno i termini nei quali comparisce d, mentre le w e © rimarranno ancora le (4) perchè
il coefficiente —, facendo e=0, in W,, ritorna quello che era prima della variazione
4
0
fatta subire ad a,. — Le (1), (2) e (3) ci danno dunque le differenze di latitudine,
di longitudine e di azimut su questa sfera corrispondenti ai medesimi dati del pro-
blema ; contrassegnando queste differenze col simbolo []s esse saranno
— 196 —
Î l 2 1 0) D) 1 D) 22 1 2
cs 2 QQ? 2 LD Qu? Dono QI? 4
dai AI )uv gar )tu"v Tago )to
ei
5). |B_B|=— pp" 1 î CRPAZILIII 3
[372] p — (A+ 19f+151)l0 4-7 (14-301°4+- 451 )uo
1 È lo l
o—-tuv+ a 1+3/°) sie +3) tu"
dI l 2,0 NS 2 4\ 7,4
(6) |L,— L]js=P sec B, ag lieran ae era ee per 15 le
]l 3 o
i IE termini di 6° ord.
\
l 5 l 1
to—(1+-20)uo—-(14+28)t004--(5+6#)tu®
] 2 4\ 7,3 ! 2 4\ 1,758
“oca ri )u DER +20£#+240°)uv°
I 2
+ —_(61+-1807#4+ 120%)tu%v
(1) [aa 180%]i==p Tr
l 2
can +280/+ 2401!) tu03
+—(1+20#+-24#‘)0°+ termini di 6° ord.
120
ed il paragone di queste colle (1), (2) e (3) ci dà
G
T
rr DI 3 rr N; DI)
(8) B,=B,+p Wi(14-d)[B,—B]:— 0 W0(1+-d)sen2 Bu
(300 W?d(1+0d)cos2 B+P Wid(1+0d)(5cos28,—4)uv"4- termini di 6° ord.
= ] (a) sfata 0
(0 — L+[Ly,—L]s+3P Ò cos B,u°v + termini di 6° ord.
1 9 l ULSS p 2
(10) Co n 9+-180°+-[0n,,—a,°— 180°]:+-- p"d cos' Bo —3p Òsen2 B (—0°)v
+ termini di 6° ord.
Si vede dunque che i valori ellissoidici cercati si ottengono aggiungendo a quelli
sferici risultanti dalla semplice risoluzione di un triangolo sferico (la quale sostituisce,
con evidente grande economia, il calcolo dei secondi membri delle (5), (6) e (7)), piccoli
termini correttivi che, come vedremo fra poco, si calcolano molto facilmente con brevi
calcoli a poche cifre logaritmiche ajutati da una tavola numerica.
Indicando dunque A 8 e C (fig. 1) i verticì del triangolo sferico sulla sfera di raggio
a
Ne ——__
l (TRI G
V 1 —e?sen°B,
+ termini di 6° ord.
— 197 —
8 A
e di cui sono dati gli elementi
(11) a=90 — B,
(12) Ca==/S
(13) B=a;,, — 180° (sarà invece 180° — @,,, se il punto A
trovasidall’altra parte di 80)
risolveremo le formole sferiche
sen 1 (a—c)
l 1
tang-(A—C)= î coto — B
2 senz(a+-c) 2
14
“a late cost (a—c) 1
tap (ARC) 008 B
2 cos3 (a +c)
e, ottenuti A e C, calcoleremo il lato
(15) b=|[90 — B,];= 90° — [B.]:
mediante la formola del seno
sen 5
send = sena 4
sen
Ottenuto d, si passa a [B,]: mediante la (15); e sottraendo da questo 8,, si avrà [B,— 8],
che dovremo moltiplicare per
È e° lle Peseos BI Li
(16) Wa+9)=(1—-ese2)(1+—)=( = oe
ie le
oppure, indicando con #'' il numero di secondi di arco contenuti in [B— CAR aggiungere
ad n" la quantità #''dcos’ B,, ed avremo così il secondo termine del secondo membro
della (8) al quale dovremo poi aggiungere i tre termini di correzione contenenti esplicita-
— 198 —
mente d. — Per la longitudine non vi è da aggiungere che un solo termine e per
l’azimut due; dimodochè, avuto riguardo alle (4), se poniamo
3 _n0(1+0)
k=— n ai Wisen2 B,
100) 6
oo O ivi cose 5,
I Od 4-0)
k,=3P' su (5cos2 B — 4)
(17) pica
k,j==p" ! cos B
4 3 aù 1
k, di I 003° B
SIRO aî I
] 0 Wi
cls I sen2 B,
e osservando che
|B,— B,|:=90—b— 8,
ZIO (sarebbe uguale a + © se il punto A sì trovasse
(18) ‘E, L, S C bp
dall'altra parte di BC)
(ei= 180° — A
le formole definitive si possono scrivere (sempre avuto riguardo alle (4))
(19) B,=B+0Wî(1+d)[90°—b— 5]: +k,5°c0s°a, + k,5°c0s°a,3+k,5°sen°a, 30090, 5
+ termini di 6° ord.
(20) L=L —C+k,s°cos'4,3sena,3+ termini di 6° ord.
(21) a,=180°—A+-k,s°sena,3008a;3-+k;5°c0s2a; Sena, 3-+ termini di 6° ord.
e se il vertice A del triangolo sferico si trovasse dall’ altra parte di BC, bisognerebbe
sostituire nella (21) 180° +4 a 180°—A.
Le costanti &, f, &, k, k, e k, sono state ridotte a tavole che dànno i loro loga-
ritmi e nelle quali si entra coll’argomento B,; e poichè è sufficiente per quei termini
di correzione, usare quattro o tre cifre decimali del logaritmo * così le tavole risultano
poco estese e l’interpolazione si fa molto facilmente.
Il nostro calcolo si riduce dunque sostanzialmente alla risoluzione, di un triangolo
sferico, risoluzione che dovrà essere eseguita con accuratezza adoperando 8 cifre deci-
mali del logaritmo **, cosa del resto che occorrerebbe fare anche nel calcolo delle
3
(1) (2) e (3), giacchè i primi termini di esse possono raggiungere un numero di secondi
* Nella tavola annessa sono state tenute, per maggiore serupolo, 5 e 4 decimali rispettivamente.
** Nell'esempio riportato, trattandosi di cimentare la precisione delle formole, sono state tenute
10 cifre decimali.
sa
= ISO =
tale da reclamare appunto l’uso della 8* decimale per garantire le frazioni di secondo
di cui si deve tener conto.
Il risultato, come si vede, nell’esempio riportato concorda identicamente coi valori
esatti dati da Helmerte ottenuti per altra via con metodo rigoroso, dai quali invece
differiscono di qualche centesimo di secondo i valori ottenuti da Helmert col calcolo delle
(1), (2) e (3); dimodochè si può dire che, fino a lunghezza di arco di oltre 500 chilometri,
il metodo esposto può ritenersi praticamente esatto mentre riesce in pari tempo tutt’altro
che faticoso; giacchè la parte di esso che richiede una certa accuratezza si riduce a
quella relativa alla risoluzione del triangolo sferico, mentre il calcolo delle correzioni
è semplicissimo e spedito.
Se, come si pratica generalmente in Italia, gli azimut vengono contati da Nord
verso Est e le longitudini da Ovest verso Est, cambiano i segni dei termini di ordini
dispari rispetto ad s nelle correzioni relative alla latitudine e all’ azimut ; bisognerà
perciò prendere col segno invertito le costanti &, #, &, della tavola annessa.
Bologna, 12 Marzo 1916.
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logsena = 9. 7844012. 998-410 ® logsen È (a—e) = 9,4500020. 3800-10 È si
logsen 2 = 9.9355442. 629- 10 celog sen si (a +0) = 0. 4432420. 867
clogsenA= 0.0417790.969 logcote L R = 0,2425065. 599
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logsend = 9 logte 3 (A—@) = 0,1358006. 766
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bh = 35.17.27.659 logcos è (a—c) = 9. 9820232. 528 — 10
90. 00. 00. 000 elogeos È (2-40) = 5. 0302081.502 Ì
42032341 logcotg Un = 0). 2425060. 599 î
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mA logte A (440) = 0,2547382: 629 _5a. 07:
[I Bi 0 B= 242-415. 644) = n° — 79854. 641 A — 114,18; 54.377
= 7.05.59. 969
logò — 782731 -10 di
a A 180. 00. 00: 000)
Iogeos li = A =2144.43. 54.377
logeor. = 1.29569 —10..... + 19.756 © = — 7.05.59.069 180 —A Los 16. 08. 623
Ì
logl — 9.39174,=20 logk, = 20324 -%0 loghi, = 8.79841-20 È
2logs = 11.14852 3logs = 17.1798 2logs = 11, 44852
Zlogeosa,e = 940964 -—10 ‘
DBLOSars 10984 —A Zlogcosa,s = 9.4096 —410 logsena,e = 9.93594,=10
log corr, = (024987 — 1.777 logsena,» = 9. 8714, 10 logcos a.» = 9.70482,—10.
logcorn = 8.4859,-10.... — 0.031 logcori = = 9:88729 - 400... + 0.771
logk. = 1.8383,-20 logla 246307220
Zlogs CAMS: 3logs 2 ATA29
3logcosa,. = 9. 1145, — 10 ci log cos?a,.. = 9.6869,-10
logcor. = 8:1256,=10 .... + 0.013 DOGANA o
logcorr = =: 8:4260 - 40: — 0027
logky = 2.6718,-20 È
3logs = 17.1728 i
2logsena..= 9.871 -10 i
logcosa,., = 9.7048,-10 î
logcori. = 9.4205,-40. .... + 0.263
23 |
Bi—B, = 2.12.33.890
Bi = 52.30. 16.700
Bs = 54.42.50.596 I, — Ly= — 7.06.00.000 tto, = 65.16. 09. 367
Valori esalti..--........ 50. 60 00.000 09. 37
invertire î segni delle costanti /y 7 Jg+
Tavola ausiliaria pei Valori delle equazioni (17).
RR Logs DR Log 4 Di UGO PO DOSI | HU Log ssa Log ha
ee ess a n SS
35.00.| 9.38150, — 20 19613 — 20 23100, 9. 05720— 20 16202 — 20]
» 30] 938414, #88! 19399 2 T23| 23250, {7 0319.005182 . 6228
36.00] 938663, aL NOTO 2_T0 234047 09904684 |
» 30 FILONI pseori TS ago, FI
37.00 DialTa) IPISROTA MES 5 n
» 30 #88 18400 9! |0.3820n AAB6 UE 2928
38.00] 19395138, S| +4] 18106 IIS 1457 A
» 30] 939691, S| 1.7790 2 10.3!|19,4083» 1426 CIGUO aneA
39.00 || 9. 39853, DIA rin ai ogg on |
» 30| 940008, DU zona Faz) MONig308 1363 210 9, 00506
40.00] 9 40138, +45 16664 87 la 4454, 1331 TAM sa BAG?
» 30] 940264, Ad) 16210 SI 99 UU 6413
4100. 9. 40368, 3.0 5701 "| 9. 4685» 2. 1266 al 6425
» 30) 9. 40469, dI 45124 24795 1239 alla 6494
12,00 | 940544, a 2. 1905, Uol 6443
» 30|9: 40618, 3! 1.3667 2 pulci 6449
13.00)| 9: 40667, +13) 12699 io
» 30| 940707 181450 12 6459
14,00] 9. 40735» 1.0/ 0.9690 2 ORIISTTONI 6468
» 30] 9: 40758 0-5 0..6680 2. 22 893648 . BABA
15.00 | 9. 4075% Ur0 2, 2.0980 UR 592895 . GA6A
» 30) 940740, TUE 2 2.094) ZUERIIS 6463
16.00] 9.40716n muil8! TOXOG87, ooo 2. 0902 io L.GAGI
» 30| 9.40679, SIRO AE FSM 0862 3! 840552 I.
17.00 | 9. 40626, 1812694, a (I 0821 ag agzaa Lb
» 30 9. 40501, CECO 9 #80) o orso | 18 scesa I.
48.00 | 9, 40483» SR 4449, 9, #2 orge | I.
» 30) 94039 HO Lpd PCI E iz ENTO USL iL
49. 00.| 9: 40287» 236113691, 26208, ET 2.0651 ai I.
» 20| 9. 40169, 3.9 1.6198, Sia | Prime i ti ;
50.00 | 9. 40037, et Musco Ao, | 2 |a 16394
» 30] 9.39894n IetABI TEZOGON TESGN Io] 20516 muta 3055) iogra
51,00| 9.39732, 17492 FAR lo: 6506, AI BLU] 16364
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52.00| 9392725 1. 8089, È so 26649 R e 880881 \
» 30] 939173, o 1.835, x aL UTI n nr N. TORA
53..00.| 9. 38950, i SODA, | 2-6786n inni RSÙ
» 3U| 938727, 75) 18909, TE D6 106859, UT 77882
54. 00)|(9. 38483, 34 1.9159, a E 2. DI? miti SGRO 6240
N. B. — Se gli uzimut vengono contuti dia Nord verso Bst e le longitulini div Ovost verso Est, si debbono in questa tavola
CONSIDERAZIONI
sulla trasformazione delle curve a flessione costante
a centro di curvatura ideale in Geometria iperbolica
%
==
A
SOI
Prof. AMILCGARE RAZZABONI
letta nella Sessione del 28 Maggio 1916.
E noto che se per ogni punto di una curva a flessione costante si conduce normal-
mente ad essa un segmento di lunghezza arbitraria, ma fissa e che sia inclinato sulla
normale principale di un angolo soddisfacente ad una certa equazione differenziale del
tipo di Riccati, il luogo degli estremi di quel segmento è una curva della medesima
flessione costante, la quale è altresì trajettoria isogonale dei cerchi di curvatura della
superficie canale, che ha per asse la curva primitiva e per raggio il segmento consi-
derato (*).
Contenendo l’ angolo surricordato una costante arbitraria, è chiaro che infinite sono
le curve che si ottengono in questo modo su ognuna di tali superficie canali, dovendosi
però avvertire che, mentre l’ indicata costruzione è sempre reale qualora lo spazio sia
ellittico od euclideo, non lo è più se lo spazio è iperbolico (di curvatura — 1), quando
la flessione della curva sia minor d’uno. Tuttavia sussiste ancora la proprietà che tutte
le trajettorie isogonali dei cerchi di curvatura di ogni superficie canale ad asse imma-
ginario sono curve della medesima flessione costante (< 1).
Per la dimostrazione di questa proprietà converrà dapprima esaminare il caso che
l’asse della superficie sia reale, con che verremo a confermare per altra via i risultati
surricordati e nel tempo stesso a renderci ragione dell’ opportunità del metodo.
Partendo dunque dall’ ipotesi che lo spazio sia iperbolico e che l’asse della super-
ficie canale che si considera sia reale, riferiamo la superficie stessa ai suoi cerchi di
curvatura v (geodetiche) e alle loro trajettorie ortogonali «, per modo che l’elemento
lineare relativo avrà la forma
ds = du° + Gdo,
(*) Sulle superficie nelle quali i circoli osculatori delle linee di curvatura di un sistema tagliano
un piano fisso sotto un angolo costante, Memorie di questa R. Accademia, Serie VII, Tomo I, p. 114.
Serie VII. Tomo IM. 1915-1916. 26
PRO
e proponiamoci di determinare la G ponendo la condizione che una trajettoria isogonale
dei cerchi v, sotto un certo angolo 0, sia a flessione costante
to hb'
Osservando che le linee w e v sono di curvatura per la superficie, detti f, e 0,
i corrispondenti raggi, dovranno aver luogo le formole (Bianchi, Zezioni di Geom.
diff. Vol I, pag. 499):
È e (i
Pi pl do OA
0) et ila
Pi Po du du ;
e A IZ
\ = 7alalra du ci
che valgono per ogni superficie che sia riferita alle sue linee di curvatura. Nel caso
attuale, trattandosi di una superficie canale, se ne indichiamo con a il raggio, avremo
Il
e = ON
(2) nin cotha,
e poichè E = 1, la 1.* delle (1) sarà identicamente soddisfatta; mentre la 2.* ci dà
A45] nai
VAL, = cotha) = (00)
1
denotando @(v) una funzione arbitraria di v che potremo prendere eguale ad | cam-
biando il parametro ; di guisa che sarà
1 1
(3) — =cotha +=.
P, NALCI
1
Se ora nella 3.% delle (1) sostituiamo questo valore e quello di — dato dalla (2),
2
otteniamo |’ equazione
cot ha 1 Da VACI
— nat ap l
/G / G du”
coth'a +
o l’altra che immediatamente se ne deduce
d/G DG
AA TE Mata + cotha = 0
du sen la
che è un’equazione differenziale lineare del 2.° ordine che integrata ci dà per j/G il
valore
— CT) \
4 G = Vceos ( —T— V.) — senkacosha
(4) du x =" rus ) 1
ovvero l’altro equivalente
(4*) y/G = VeosQ — senhacosha,
ove si è posto per semplicità
0)
AM;
(5) » senha ao
essendo V e V' due funzioni arbitrarie di ».
Assoggettiamo ora la nostra superficie a soddisfare alla condizione che una sua
3 5 | 1
trajettoria sotto un certo angolo costante o dei cerchi v sia a flessione costante ni
gh
si avrà per questa curva l’equazione differenziale
(6) tangodu — /Gdv=0;
STRETTO Il
ma se con DI indichiamo la curvatura gcodetica di questa linea e con — la sua cur-
g 13
vatura normale, sussisterà, come è ben noto, la relazione
l I
7 > =
(7) ighb. p
2
9
ii : 1 da era !
e quindi sostituendo in questa a —, — i loro valori, otterremo un’eguaglianza che
r
2
dovendo essere identicamente soddisfatta, darà luogo ad altre eguaglianze che determi-
neranno ©, non che una delle due funzioni arbitrarie V e V, che figurano nella (4).
A tale oggetto osserviamo che dalla (6), per mezzo della formola del Bonnet, si trae
mentre per la formola di Eulero si ha
I costo sen’
DD 6 ll
+ —= coso cotha + sen*o (cotna —- —)
P, P,
VG
S|
od anche
1 sen’
—= cothka+-=—;
v VG
di guisa che facendo nella (7) le corrispondenti sostituzioni, otterremo
/G\? =
: Dl ) + (cothaj/ G+ sen°o)?
du
UG G
sen*o (
ovvero per la (4*)
V°sen?W
sen ha
toh°b (VceosQ — senRracosha)
2
sen“o + (VceothacosQ — cosh'a + seno)?
e infine
sen°o te h°b V*sen®Q
senh°a
+ t2/°D ( VcothacosQ — cosh°a + seno) = (VcosQ — senhacosha)
che è l’identità che trattavasi di determinare e nella quale Q ha il valore (5).
Ordinando l’ identità stessa rispetto a cosQ, otteniamo
2 2 2 o, Seno. 2 )
V (o atoh°b — teh°b peg I) coso +4 2 Î cothaten" (seno — cosh'a) +
sen
DI
seno
_ V?-— senh*acosh*8a = 0
+ senhacosha VeosQ + tge1°b (seno — cosh°a)+ tgh° È
I senl°a
e dovendo essa valere qualunque sia 9, si scinderà nelle tre
2
3 sen°o
coth°atgn®b — teh'b ——- —1=0,
F sen /°a
(8) cothateh°b (sen’o — cosh®a) + senZacosha = 0,
sen°o
ta h°D (senf@e — cosh°a)" + teh°b — na V°— senl’acosh'a= 0,
senha
di cuì le prime due si semplificano subito nell’ unica :
tg/°b (cosh*a — seno) = senta ;
ma se si osserva che
cosh°a — sen'o = 1 + senl’a — sen’o = senta + coso,
sostituendo nella precedente, avremo
toh°b (senh'a + coso) = senl’a
od anche
senh*b (senl’a + cos'o) = senl’acosh®,
indi
senl*bcosto = senh’acosh°b — senhasenh*b = sent’a (cosh°b — senh°b) = senl*a
e infine
(9) senhbcoso = senka
che è la nota relazione caratteristica per tale trasformazione (*).
(*) Sulla trasformazione delle curve a flessione costante, Memorie di questa R. Accademia, Serie VII,
omo II, p. 345.
o e
Quanto alla 3.* delle (8), essa dà per V un valore costante che determiniamo sotto
forma più semplice eliminando dapprima o tra essa e la (9), con che si ha
senlfa 2 tor” senh*a
tel (1 — — cola) + ( — i V°— senh’acosh*'a = 0
senZ?*b senh*a senh*b
ovvero
1 1 senla\?
te/°b ( SO, ) V°—= senh*a cosha — teh°b (senta n)
5 senhfa senQ’b è DE send
eguaglianza che si semplifica ulteriormente nella
tg/°b (senh°b — senh°a) V° = senh'a (cosh’asenh°b — senh°acosh*) ;
ma
cosh°asenh°b — senh’acosh°b = (1 + senl°a) senh?b — senl?a (1 + senh?b) =
= senhb — senlÈa,
sicchè sostituendo si avrà
toh1°b.V°= senh'a,
da cui
— senh'a U
Gai 09 -—-_+-V ) — senkacosha
senha
in cui figura una funzione arbitraria (la V,) come è naturale ; giacchè dovendo l’asse
della superficie essere una curva soltanto a flessione costante, si può prendere ad ar-
bitrio la torsione.
Seguendo lo stesso procedimento, passiamo ora a considerare il caso che l’asse della
superficie sia immaginario, supposto sempre lo spazio iperbolico.
La superficie in questione ce la possiamo rappresentare come caratterizzata dalla
proprietà di avere un sistema di linee di curvatura formato da geodetiche della mede-
sima flessione costante (minor d’uno). Allora, indicando con © il relativo parametro e
con « quello delle trajettorie ortogonali, avremo pel quadrato dell’elemento lineare della
superficie la solita espressione
ds° = du° + Gdv
ove anche qui determineremo G ponendo la condizione che le trajettorie isogonali dei
cerchi v siano curve della stessa flessione costante (< 1).
1
Essendo — < 1, potremo porre
2
1
— = igha (= (COR)
2
— 206 —
e quindi, come precedentemente, dalla 2.% delle (1) seguirà
Il
—= tgha +
Pi VATI
mentre troveremo per j/G l’equazione differenziale
d°/ G y/G — senka cosha
du cosh°a
3
= 0.
da cui, integrando,
—_ u u
(10) VG= Veosh-—_+ Vsenh —T + senhacosha,
cosha cosha
con V, V, funzioni arbitrarie di .
Procedendo sempre come superiormente, conducendo cioè una trajettoria isogonale
sotto l’angolo o delle v, che ora supponiamo a flessione costante < 1, e il cui valore
potremo perciò indicare con tg/b, avremo da verificare, anzi che la (7), la relazione
Tee
o l’equivalente che immediatamente se ne deduce, sostituendo a —, — i loro valori,
a
Pg
d/G \° JE.
sen°g /dj/ G sen?o\? sen°o = + (tehaj/ G+ sen°g)}
telb= — (& DI + (2 Se =) —_ ui
G du i VG G
Questa, alla sua volta per la (10), dà luogo all’ altra
9
seno
igH°D(VeoshU + V sent U+ senhacosha) = — = (VsenhU + V,coshU f+
cosa
De | tgha (VeoshU + V,senhU)+ senta + sen°o |
ove si è posto
u
cosha”
ovvero, sviluppando,
toh°b [( VeoshU +V,senhU) + 2senkacosha (Veosk U+-V,senha) + sent°a cosh°a | phi
sen°o
"Ra 325 [ VsenhU + Vo così UY+ toh? a ( Veosh U + V, senh U? d, ms
+ 2tgha (senl’a + seno) ( VeoshU+ V,sentU) + (sent’a + sen°o)?
o finalmente, ordinando rispetto a coshV, senRU,
o seno sen°o
(ten. V°— E V._— tgh°aV°) cosh°U+ 2 (t21h° — SE
— t2h°a) VV, senh Ucosh U +
9
sen“
+ (ten°b. Vî — V° — tigh°aVî) sent®U+ 2 | senz?a coshateh°"b —
cosk*a
— tgha(senh*a+sen °0) | Veosh U+2 | sentacoshatehb—tgha(sent'a+ sen°0) | Vv senRU+
+ | sen? acosh*ateh°b — (sent a + sen°o ) = =W0.
— 207 —
Dovendo questa eguaglianza ridursi all’ identità
cosh°U— senh°U=1,
dovranno sussistere le altre
È 2
seno __, È : 3
(1 1) ton” } VSS Se Vi tela yV? tela Vv? Seno
2 22
Conn V tolhebiiT=
costa
= (senh°a + seno) — senh’acosh’atgh%,
seno E
(11*) tor°b—- —-—tgra=0, senhhacoshatgh®b — tgha (senh*a + seno) = 0
cosh°a
ma poichè queste ultime danno concordemente
Le sen'o+ sent'a _sen'o + costa —1 __. coso
SF cosh°a DTA cosh°a si cosh?a
od anche
TER cos°o
| cosà ——9cosh’a’
se ne conclude che fra a, bd e o avrà luogo la relazione
(12) cosha = coshb coso
perfettamente analoga alla (9). Quanto alle (11), la 1.*% si semplifica subito nelle (12);
mentre l’altra, eliminando tra essa e la (12) la o, diventa
ll l DI 9 ’
(teh° — tgh°a) V? — (Do —_ 0) V? = cosh'ateh° (cosh’aten*b — senta)
che equivale alla
(senl°bcosh®a — senta cosh°b) V° + (cosh'a — cosh°b) Vî =
= cosh'atgh°b (cosh'asent°b — senh°acosh*b) ;
ma
2 2 2 in 2 2
senhbcosh'a — senh'acoshb = coshb — cosha,
per conseguenza la precedente si semplifica nella
V° — V? = cosh'ateh°b
che è la relazione cui debbono soddisfare le due funzioni V e V, che entrano nell’espres-
sione (10) di G, e che ne lascia perciò arbitraria una.
Dimostrata così l’ esistenza di infinite curve a flessione costante (< 1), come trajet-
torie isogonali delle linee di curvatura di una medesima superficie canale, la questione
è ora ridotta a realizzare una costruzione che permetta il passaggio dall’una all’altra di
queste curve; e poichè nel nostro caso l’asse della superficie è ideale, la corrispondente
costruzione (reale) dovrà risultare dalla composizione di due immaginarie (coniugate).
> di € rei _—_ er
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he FE cure SATA La
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‘a
ix
i
.
Ho
è
SULLA VERTICALITÀ DELLA STADIA
—— NELLE OPERAZIONI DI LIVELLAZIONE
MEMORIA
DEL
Prof. FRANCESCO CAVANI
letta nella Sessione del 9 Aprile 1916.
IE
di
Questa breve nota non è che un complemento di altre due precedenti, nelle quali
ho fatto lo studio degli errori che una deviazione della stadia dalla verticale produce
nella misurazione delle distanze in planimetria (1) e nella determinazione delle quote
altimetriche in altimetria cogli istrumenti altimetrici a visuale libera (2).
In questa nota considero soltanto l’ uso degli istrumenti a visuale obbligata alla
direzione orizzontale e le operazioni che comunemente sì eseguiscono con essi ed alle
quali si da il nome di livellazioni.
Le operazioni di livellazione, anche eseguite nei lavori comuni di Geometria pra-
tica o di topografia, rivestono sempre un carattere di precisione, sensibilmente mag-
giore di quella che si richiede negli altri lavori di altimetria ed in quelli di plani-
metria, e quindi debbono essere svolte con criteri e procedimenti speciali, per elimi-
nare tutti gli errori sistematici o regolari e per ridurre al minimo gli effetti degli
errori accidentali od irregolari.
Si deve sempre tenere conto di tutti gli errori strumentali e cercare di eliminarli;
si debbono ricercare tutte Je cause degli ‘errori che possono verificarsi nelle operazioni
di determinazione delle differenze di livello e quindi delle quote altimetriche, per poi
fare uso di quei procedimenti di rilievo che per simmetria od altrimenti eliminano
gli errori stessi o li riducono al minimo possibile.
Fra le operazioni di livellazione vi sono poi quelle che chiamansi di. precisione,
per le quali si debbono, dirò così, intensificare le regole per la eliminazione o ridu-
(1) Sulla verticalità della stadia nella misurazione delle distanze in planimetria — Atti della
R. Accademia delle scienze dell’ Istituto di Bologna, serie VI, tomo VIII, 1910-11.
(2) Sulla verticalita della stadia. nella determinazione delle quote altimetriche. Atti della R. Acca-
demia delle scienze dell’ Istituto di Bologna. Serie VIII, tomo II, 1914-15.
Serie VII. Tomo II. 1915-1916. 27
— 210 —
zione degli errori; regole che se non totalmente, pure in molta parte ed in modo più
semplice, dovrebbero sempre applicarsi anche a quelle operazioni comuni che si suole
chiamare di livellazione geometrica, o topografica.
Nella serie degli errori di cui si è fatto cenno, vi è compreso quello dovuto alla
deviazione dalla linea verticale dell’ asta graduata che si colloca verticalmente sui
punti dei quali si debbono determinare le differenze di livello cogli istrumenti di
livellazione. Per tale asta in antico servivano le così dette biffe a scopo, mentre oggi
giorno, quasi esclusivamente, servono le stadie comuni, in passato chiamate biffe par-
lanti, poichè su di esse si leggono direttamente le battute di livellazione.
Lo scopo della presente nota è appunto quello di studiare 1’ errore che una incli-
nazione della stadia dalla verticale può produrre nelle battute e di conseguenza anche
nella determinazione delle differenze di livello.
Lo studio di un tale errore non deve servire a determinarne il valore per fare la
relativa correzione, poichè ciò evidentemente non è possibile non potendo mai sapere
se ed in quale misura si verifichi all’ atto pratico in ogni caso particolare, ma deve
servire a far vedere il modo con cui l’ errore stesso si può presentare, a farne rile-
vare l’ importanza e la necessità di impedire che esso si verifichi,
II.
I principali Autori trattano in generale dell’ errore causato dalla deviazione della
stadia dalla verticale nella misurazione delle distanze in planimetria, ma in modo
incompleto, come già osservai nella prima mia nota sopracitata. In minor numero
sono quelli che trattano del consimile errore in altimetria nella determinazione delle
differenze di livello cogli istrumenti a visuale libera e sempre in modo incompleto,
come pure indicai nella seconda mia nota già citata. Minore ancora è il numero degli
Autori che si occupano dello studio di cui è oggetto questa nota. Alcuni ne fanno
cenno in modo superficiale, come forse può ritenersi sufficiente nella pratica. Altri
prendono maggiormente in considerazione questo errore, senza però studiarne a fondo
gli effetti, specialmente nei casi in cui sia collegato ad altri errori, come a quello
della imperfetta orizzontalità della linea di collimazione del cannocchiale dello stru-
mento di livellazione del quale si fa uso.
Nella prima metà del secolo scorso in cui ebbero un singolare impulso gli studi
di Geometria pratica, ed in cui si può dire che ebbe origine 1’ indirizzo attuale degli
studi stessi, i principali Autori non si occuparono dell’ errore proveniente dalla devia-
zione della stadia dalla verticale nelle operazioni di livellazione o non diedero ad esso
altro che poca importanza.
Lo Stampfer nella classica sua Guida per la livellazione, la prima edizione della
quale uscì nel 1845, non si occupa di tale errore. Ne fa però cenno nella edizione
— gll =
ottava (1) al paragrafo 59, dichiarando di non discutere questo ed altri errori, perchè
affatto indipendenti dall’ istrumento, e perchè con molta cura ed attenzione nel lavoro
si possono rendere inapprezzabili.
Il Conti (2) trattando delle aste da usare in livellazione dice che la verticalità
dovrebbe assicurarsi col filo a piombo, ma che però si possono mettere ad occhio
poichè la deviazione non può essere che leggera e portare un errore trascurabile nei
risultati.
Il De Ayala y Godoy è il primo fra gli Autori italiani che, a mia cono-
scenza, sì sia occupato un po’ diffusamente di questo errore, nel suo trattato di T'opo-
grafia militare (3). Egli dichiara di ritenere che raramente l’ errore dell’ allontana-
mento dall’ « piombo della mira potrà essere tanto considerevole da compromettere
l’ esattezza della livellazione, ma però ne fa vedere l’importanza con un quadro in
cui espone gli errori in unità di misura del palmo di Napoli, per battute a diverse
altezze sulla mira e per inclinazioni della mira stessa dalla verticale, di 1 a 4 gradi.
Il Vogler (4) spesso citato da altri autori, si occupa più specialmente della
difficoltà di tenere la stadia verticale sotto 1’ azione del vento.
Il Baggi (5) nel suo trattato di Geometria pratica ed in una sua memoria,
se ne occupa facendone rilevare l’ importanza. Così pure l Habets (6) se ne occupa.
dichiarando che tale errore è sensibile e lontano dal poter essere trascurato.
Pochi altri autori si occupano di questo errore e basterà citare ancora il Durand -
Claye (7) ed il Lallemand (8) che studiarono |’ errore stesso per averlo presente
nelle operazioni della livellazione generale di alta precisione della Francia.
Il Durand-Claye nella prima parte della citata pubblicazione fa rilevare l’ im-
portanza del detto errore, che 1° operatore che sta all’ istrumento non può avvertire,
lo calcola con una formola approssimata e suggerisce un procedimento per evitarlo,
del quale fa pure cenno il Vogler dianzi citato.
(1) Stampfer S. — Theoretische und praktische Anleitung zum Nivelliren — Achte vermehrte
Auflage bearbeitet von Dr. Ios. Ph. Herr — Wien, Carl Gerold’ s Sohn, 1877.
(2) Conti Carlo — Trattato di livellazione ad uso degli Ingegneri. — Padova, l'ipi del Semi-
nario, 1846.
(3) De Ayala y Godoy — Trattato di topografia — Napoli, Regia Tl'ipografia Militare, 1852.
(4) Vogler Chr August. — Ueber Ziele und Hilfsmittel geometrischer Pràcision — Nivellements —
Munchen, Cotta’schen Buchhandlung, 1873.
(5) Baggi ing. V. — Trattato elementare completo di Geometria pratica. Parte II°. — Torino,
Unione T'ipografico editrice, 1895-1898.
Baggi ing. V. — Alcune considerazioni sulla livellazione topografica. — Estratto dal periodico
l’ Ingegneria civile e le arti industriali, Vol. XVIII, Torino, Camilla e Bertolero, 1894.
(6) Habets Alfred — Cours de Topographie — Paris, CH Beranger éditeur, 1902.
(7) Durand-Claye Ch-Leon, André Pelletan et Charles Lallemand — Leves des
Plans et Nivellement -- Paris, Baudry et C.ie 1889.
(8) Lallemand Charles — Nivellement de haute précision. Paris, Baudry et C.ie 1€89.
Ministére des travaux publics (Lallemand Charles). — Instructions prèparèes par le Comité du
Nivellement pour les opérations sur le terrain. — Paris, Baudry et C.ie 1889.
= Qla =
Il Lallemand nelle sue pubblicazioni sopra indicate, la prima delle quali costi-
tuisce pure la terza parte del Trattato del Durand-Claye ecc. e la seconda è in
parte un estratto delle precedenti, enumera 25 errori da temersi nelle livellazioni,
comprendendovi sia gli errori propriamente detti, che chiama piccole inesattezze inevi-
tabili, e gli errori così detti materiali o sbagli, provenienti da inettitudine o da negli-
genza e che hanno in generale una grandezza notevole. Classifica tutti questi errori
in quattro categorie relative rispettivamente alla mira o stadia, al livello, agli ope-
ratori ed allo stato del suolo e delle condizioni atmosferiche. Indica i valori limiti
che per ogni errore possono aversi nella pratica ed i mezzi per evitarli. Fra gli errori
che riguardano gli operatori mette per primo quello dovuto alla possibile inclinazione
della mira dalla linea verticale, ed assegna all’ errore stesso la possibilità di un valore
fra due limiti, la cui media è maggiore di quella di molti altri errori.
Tutti gli autori sopra citati e gli altri che si sono occupati di questo errore,
hanno sempre considerato soltanto, come si è già detto, il caso in cui la linea di
collimazione del cannocchiale sia orizzontale, senza esaminare l’ ipotesi, che si verifica
spesso nella pratica, della esistenza di un errore di inclinazione, della linea di colli-
mazione del cannocchiale del livello, all’ orizzonte.
Questa ipotesi allarga lo studio dell’ argomento e dà luogo a considerazioni che
possono avere una certa importanza nella teoria e nella pratica, come sì vedrà dal
successivo svolgimento di questa nota.
Non si può più dire allora che l’ errore sia il medesimo per una eguale inclinazione
della stadia all’ avanti od all’ indietro e che sia sempre un errore in più. Bisogna
considerare ì quattro casi, di cui nelle precedenti mie note sulla verticalità della
stadia in planimetria ed in altimetria, e che si presentano combinando insieme 1° in-
clinazione della stadia all’ avanti od all’ indietro, coll’ angolo d’ errore nella direzione
della linea di collimazione del cannocchiale rispetto alla linea orizzontale, angolo che
può essere di elevazione o di depressione.
JO0L
Per determinare la differenza di livello fra due punti, ossia la quota altimetrica
di un punto, data quella dell’ altro, si fa stazione con un livello sopra uno dei punti
e colla linea di collimazione diretta orizzontalmente si fa una battuta sulla stadia
disposta verticalmente sull’ altro punto (livellazione da un estremo); oppure meglio sì
fa stazione col livello in un punto intermedio, approssimativamente a metà distanza
fra i due di cui si vuole determinare la differenza di livello, (livellazione dal mezzo)
e si fanno due battute di stadia una su di uno dei due punti e 1° altra sull’ altro
punto.
In una battuta qualsiasi la faccia graduata della stadia deve essere disposta ver-
ticalmente. Se ciò non avviene si ha un errore nella battuta, tanto maggiore quanto
più la stadia devia dalla direzione verticale nel senso della linea di mira.
Ae
Nel numero V della precedente mia nota (1) in cui ho trattato della verticalità
della stadia nella determinazione delle quote altimetriche, è compreso in via eccezio-
nale il caso ora esposto e lo studio del quale forma oggetto di questa nota.
Nella precedente nota consideravo gli istrumenti di altimetria a visuale libera e
quindi la linea di collimazione del cannocchiale non si supponeva in generale diretta
orizzontalmente, ma bensì inclinata all’ orizzonte di un angolo @ qualsiasi di eleva-
zione o di depressione, non superiore però ai valori che possono presentarsi nella
pratica.
Nel caso generale doveva naturalmente essere contemplato il caso speciale che ora
si considera, quello cioè in cui la linea di collimazione sia diretta orizzontalmente e
quindi l’ angolo 9 eguale allo zero.
Conviene qui riportare la formola generale (2) della precedente nota che è la
seguente :
nella quale :
O,» è l’ errore unitario che può aversi nella quantità m, la quale in altimetria si
chiama lettura mediana e che in livellazione si chiama dattuta.
@ angolo di elevazione o di depressione all’ orizzonte della linea di collimazione del
cannocchiale.
a angolo di inclinazione della stadia dalla verticale all’ avanti od all’ indietro rispetto
alla posizione dell’ istrumento di misura.
In questa formola i segni positivi e negativi riguardano i quattro casi nei quali
si può presentare |’ errore studiato in quella nota e cioè : i segni positivi i casi ;
1° in cui @ è angolo di elevazione e la stadia è inclinata all’ indietro,
4° in cui g@ è angolo di depressione e la stadia è inclinata all’ avanti :
i segni negativi gli altri casi ;
2° in cui @ è angolo di elevazione e la stadia è inclinata all’ avanti,
3° in cui @ è angolo di depressione e la stadia è inclinata all’ indietro.
Se da quella formola si passa al caso particolare in cui @ sia eguale allo zero,
si ottiene la (3) della stessa. precedente nota che è la seguente :
(0,1
Ò,, = tangatang e (2)
la quale serve al presente studio e ci dà |’ errore unitario d,, per unità della battuta
m quando la linea di collimazione del cannocchiale sia disposta orizzontalmente.
(iCavanitize
Serie VII, Tomo III. 1915-1916. 27°
RIE
La formola (2) qui riportata aveva poca importanza per lo studio fatto in quella
nota, ne ha molta nel caso attuale.
Essa ci dimostra che l’ errore d,, nella battuta 2 in livellazione è indipendente
dalla distanza dei punti dall’ istrumento, come lo era pure in altimetria : che l’ errore
è sempre in più, ossia positivo; che si ha lo stesso errore per un dato angolo & di
deviazione della stadia dalla verticale, sia che questo dipenda da una inclinazione
della stadia stessa all’ avanti, oppure all’ indietro.
ale formola applicata a casi numerici offre i risultati di una tabella inserita nella
precedente nota e riportata parzialmente, in una altra tabella esposta più avanti, nella
prima serie degli errori nelle battute, per i diversi valori di a che possono aversi
nella pratica, e relativi alla ipotesi di @ = 0, ossia della linea di collimazione del
cannocchiale diretta orizzontalmente.
Dalle cifre di quella tabella si vede come l’ errore in m possa essere rilevante.
Se si supponesse di fare una battuta prossima ai 4 metri, come spesso può succedere
in pratica specialmente nelle comuni livellazioni, e se la stadia deviasse dalla verti-
cale di 1 a 2 gradi, si avrebbe un errore prossimo ai due millimetri e che non
sarebbe affatto trascurabile in qualsiasi livellazione.
Il Durand-Claye (1) calcola questo errore con una formola approssimata dedotta
dalla nota relazione fra la tangente, la segante e la sua parte esterna, che rappresenta
l’ errore,in un circolo che ha la battuta per raggio. Trascura il quadrato dèll’ errore
ed ha risultati analoghi a quelli ottenuti dalla formola (2) che è esatta.
Suggerisce un procedimento, che non è però molto pratico nelle comuni livella-
zioni, per assicurarsi che la battuta sia fatta a stadia verticale, quello cioè di pre-
scrivere al porta-stadia di far oscillare lentamente la stadia all’ avanti ed all’ indietro,
poichè allora il valore minimo della battuta corrisponde al caso della stadia verticale.
Il Vogler (2) dice che per l’ azione del vento la stadia può oscillare di 50' e
quindi deviare dalla verticale di 25', ma non considera i casi di una deviazione pro-
dotta da disattenzione del portastadie o da altre cause.
Il Lallemand (3) assegna a questo errore una grandezza possibile da 1 a 2 mil-
limetri. Egli suggerisce di assicurarsi al momento della lettura che il filo verticale
del reticolo sia parallelo al bordo della stadia, ma ciò non serve evidentemente a
scoprire 1’ errore ; serve solo a scoprire una inclinazione laterale della stadia che è
manifestata pure dalla mancanza di parallelismo fra il filo orizzontale del reticolo e
le linee delle divisioni della stadia.
Questo errore regolare o sistematico, perchè sempre dello stesso segno, non si può
eliminare per simmetria col procedimento della livellazione dal mezzo, anche suppo-
nendo che la stadia deviasse dalla verticale di eguali quantità nelle due battute, e
(1) Durand-Claye ece. I. c.
(@) Voglor, i e
(3) Lallemand. I. c.
rante ti
— 215 —
ciò a causa dei valori delle battute stesse, ossia di 7, che non saranno quasi mai
eguali: Con tale procedimento però se ne diminuisce 1’ effetto nel fare la differenza
delle due battute che dà il dislivello dei due punti considerati.
In ogni caso ed in una qualsiasi livellazione bisogna cercare di eliminare sempre
questo errore, o di ridurlo al minimo possibile, col munire le stadie di fili a piombo
o di livellette a bolla d’aria sferiche, e facendo pure uso di una o di due aste incli-
nate lateralmente da una parte e dall’ altra della stadia, tenute ferme dal portastadia
contro la stadia stessa ed appoggiate al terreno.
IV.
Lo studio fatto sin qui non ha molto di speciale, trovandosi in parte compreso
nella precedente mia nota sulla verticalità della stadia nella determinazione delle quote
altimetriche cogli istrumenti a visuale libera, ed essendo soltanto uno sviluppo di
quelli sommariamente esposti nelle pubblicazioni dianzi citate. Esso non esaurisce com-
pletamente l’ argomento, poichè non considera tutti ì casi di errori nelle battute di
livellazione che si possono avere per le deviazioni della stadia dalla verticale.
Conviene completare un tale studio esaminando l’ ipotesi, precedentemente accennata,
che la linea di collimazione del cannocchiale del livello, non sia orizzontale, ma sia
inclinata all’ orizzonte, sopra o sotto di esso, di un angolo @ di elevazione o di
depressione.
Lo studio da farsi ora ha una caratteristica diversa da quello fatto nella prece-
dente mia nota, e della quale si è già fatto cenno, poichè allora l’ angolo @ era un
dato del problema, variabile entro limiti molto distanti, a che solo per eccezione in
un caso speciale poteva assumere il valore zero, mentre qui è un angolo d’errore, che
dovrebbe non esistere e che in ogni caso deve avere un valore sempre molto piccolo.
L’ angolo @ nei livelli può essere dato da errori istrumentali ed assumere valori
sensibili sebbene non grandi. Così, ad esempio, l’ errore, detto di collimazione, dipen-
dente dallo spostamento della linea di collimazione del cannocchiale, al variare della
distanza della stadia, per un anormale movimento del micrometro, e quindi dell’ in-
crociechio dei fili, nell’ adattamento del cannocchiale alla distanza stessa, può dare
all’ angolo @ un valore che si avvicini ad l' (1) e tale quindi da non essere affatto
trascurabile.
L’ angolo @ può essere dato da una imperfetta rettificazione del Livello ed assu-
mere allora valori molto più grandi.
Se da una stazione di livello fatta in A (fig. 1) colla linea di collimazione Oxa del
cannocchiale diretta orizzontalmente si batte la stadia disposta sul punto 2 nella dire-
zione verticale By si fa nel punto M la battuta #, che serve a dare la differenza di
livello di 8 rispetto al punto di stazione e ad altri punti.
(1) Iadanza N. — Geometria pratica — ‘l’orino, Vincenzo Bona, 1909.
hi
PI si
— Rlo —
Se la stadia si inclina alla verticale, all’ indietro in direzione opposta del punto A,
o all’ avanti in senso contrario, di un angolo a e la linea di collimazione del can-
nocchiale è orizzontale si fanno le battute nei punti M, ed M, affette, rispetto alla
battuta in M, degli errori M,p ed Mg eguali fra di loro e che si sono precedente-
mente studiati.
UNI)
M 1.caso
Se la linea di collimazione del cannocchiale si inclina all’ orizzonte di un angolo @
di elevazione o di depressione si fanno nei punti M', M", M" ed M' le battute wa,
mi, mi, ed m!" tutte diverse fra di loro e dalla # e che corrispondono alle diverse
posizioni della linea di collimazione e della stadia combinate fra loro così da dare i
4 casi più volte studiati e richiamati, contraddistinti come segue :
1° @ angolo di elevazione; a inclinazione della stadia all’ indietro
2° @ angolo di elevazione; a inclinazione della stadia all’ avanti
3° @ angolo di depressione; a inclinazione della stadia all’ indietro.
4° @ angolo di depressione; & inclinazione della stadia all’ avanti.
— g17 —
La battuta m = MB è la vera che si dovrebbe fare in ogni caso e quindi essa è
affetta da errori, in ciascuno dei quattro casi ora indicati, che sono rappresentati dalle
differenze fra la battuta stessa e le battute m' = BM!', m'" = BM", m'" —= BM" ed
Si — BMW,
Come è evidente, e come risulta pure dalla figura 1, 1’ errore in ognuno dei detti
quattro casi è rappresentato dell’ errore dovuto in ciascun caso alla deviazione della
stadia dalla verticale sommato algebricamente con quello dovuto, pure in ciascun caso,
alla inclinazione della linea di collimazione del cannocchiale alla orizzontale.
I valori delle quattro battute fatte sulla stadia nei punti M', 3", M", ed M" sono
dati, come è facile dimostrare, dalle formole seguenti, nelle quali D rappresenta la
distanza orizzontale fra ì punti A e 25.
cos
cos(Q + a)
cosp
cos(@ — a)
m'= (m — Dtang@) —
(71
cos @
cos(d + a)
m' = (m + DtangP)
m'= (m + DtangP)
m'‘“= (m — Dtang@)
Queste espressioni tutte diverse fra loro dimostrano che i quattro errori nella 72
sono tutti diversi fra loro, lo che si può pure desumere dal semplice esame della
MO
Dalle formole ora trovate si può subito passare alla determinazione degli errori,
ossia delle differenze fra la m e le quattro battute, e si ottengono i valori seguenti :
e i a) sen
m'—m=m 27 en
i eo cosf — cos(p — a) sen@
m o == “Men SR ISOmN
003 Pos sen
mi m= m EE ST
IV PT COS ) mi cos (P = 4) sen@
UOMO UM Re (@ Ire a) — cos(@ + a)
Passando ai valori unitari d', d!, d!, e d', per unità di m e con semplici tra-
sformazioni trigonometriche si hanno le formole seguenti :
— 218 —
2 A SD (Sea
I = —__ ——
cos(P+ a n (+ 2) sent 20m cos(P + a)
2 D
“ue sen (F— 3) sen (- i TMP
cos(d — a) 2 m cos(@ — a)
i È sen (F—- 2) sen (-5 i
cos(P_— a) 2 ma cos(P — a)
2 A a D senp
NESS RE RI ( 5) RAI dia
cos(P + a) Si dra ECT cos(@ + a)
Queste espressioni degli errori unitari in mm nei 4 casi che sono possibili nella
pratica si possono riunire nella sola seguente :
2
sN 2 a A D seng
= RES (#5) = ia -- (3
nella quale i segni positivi nei valori degli angoli servono per il 1° e 4° caso ed i
negativi per il 2° ed il 8°, mentre poi il segno + che unisce i due termini del 2°
membro serve per i casi 1° e 2° in cui @ è angolo di elevazione, ed il segno — per
i casi 3 e 4 in cui @ è angolo di depressione.
La formola (3) si presta alle seguenti osservazioni :
L’ errore nella battuta #. non è più indipendente dalla distanza D, come era
facile intuire, poichè le diverse battute errate vanno sempre riferite alla #m che è una
quantità costante rispetto alle battute stesse, mentre queste variano al variare della
distanza D.
Non è così in altimetria, come si è visto nella precedente mia nota, poichè al
variare delle letture di stadia, varia pure la mediana 7, conservandosi fra questa e
quella un rapporto costante per eguali valori di a e di @.
Il primo termine del 2° membro della (3) rappresenta |’ errore proporzionale al
valore della 7, ed il secondo termine quello proporzionale alla distanza D.
Il primo di questi due termini non è altro che il valore di d, nella formola
generale (1),
Se @ =0 scompare il secondo termina ed il primo sì riduce al 2° membro
della (2).
Il secondo di tali termini è di un ordine di grandezza sensibilmente. maggiore di
quella del primo, per cui conviene anche in riguardo alla possibilità dell’ errore che
qui si studia fare le battute a non grandi distanze, perchè D non abbia grandi valori.
sor
— 219
Applicando la (3) ad alcuni casi numerici si hanno i risultati della seguente tabella :
Angoli Valori Valori di Valori assoluti
lo)
È , del 1° termine sen @ degli errori ò (formola (3))
pare, della formola (3) fee MSse) per D=30 metri, n =3 metri
No del 2° termine della (3) i
sessagesimali adi Th Cai
al e 020 Re a 1° 2° 30 4°
p millimetri | millimetri| millimetri| millimetri| millimetri | millimetri | millimetri | millimetri
0° | 0° 0, 0 6 0, 0 6 6 E
u©) =] no) no)
» 30° + 0,038 5 ce, ©) + 0,414 5 S 3)
2 = = 2 2 È
» 1° + 0,152 [3 = E + 0,456 S' SI SI
2° 0,610 830 © © ©
i POR E + 480) È z 2
» 3° | + 1,373 9 ar 119 3 3 3
20” 0° 0, 0 0,0 | + 0,0970 + 3910) + 2,900) — 2910) — 2,910
» 30° + 0,039 | + 0,037 | 4 0,0970 + 3,027/4 3,021) — 2,799) — 2,793
» 19 + 0,154 | 4 0,151 | 4 0,0970 K + 3,372|4 3,363) — 2,457) — 2,448
» DO + 0,613 | + 0,606 | + 0,0970 © + 4,749| + 4,378) — 1,092|— 41,071
» 3° + 1,377 | 4 1,367 | 4 0,0971 ‘— + 7,044|4+ 7,014/4 4188|4 1,218
50” | 0° 0, 0 0,0 | + 0,2424 E @ (ao ra op STI
[Si
» 30° | + 0,040 | 4 0,036 | + 0,2424 TIE + 7,392|/4 7,380) — 7,164] — 7,152
> | 1° | + 0,156] + 0148/+ 0,224) 53 |4 n.740 + 7723) — 6895) — 6,304
» 2° + 0,618 | + 0,601 | + 0,2426 da + 9132|4 9,081) — 5,475) — 5,424
» 9L + 1,985 | + 1,360 | + 0,2427 i = + 44,436] 4 11,361] — 3,201) — 3,126
li o 0, 0 0,0 | 4 0,5818 SE ore ii
» 307 | + 0,043 | + 0,033 { + 0,5818| & It meet Vea e
» i® + 0,162 | + 0,142 | + 0.5819 E 4 17,943| 4 17,883) — 417,031) — 16,971
» 20 + 0,630 | + 0,589 | + 0,5821 oo 4 19,353 | + 19,230) — 15,696) — 15,573
» 3° | + 1403| 4 1,342] + 0,5826 i due e 20 = ea = 99
30° 0° 0,0 0,0 | + 8,7268 + 261,804 | 4 261,804] — 261,804| — 261,804
» 30° + O,LI4 | — 0,038 | 4 8,7278 | 4 8,7266| + 262,176) 4 261,684| — 261,912) — 261,456
» 1° + 0,305 0, 0 | + 8,7296) + 8,7268| 4 262,803| + 261,804| — 261,804| — 260,889
» RO + 0,914 | + 0,305 | 4 8,7348| 4 8,72961 4 264,786] + 262,803 | — 260,973| — 259,146
» DÒ + 1,830 | + 0,914 | + 8,7428| 4- 8,7348| 4 267,774| + 264,786| — 259,302] — 256,554
Da questa tabella si possono dedurre altre osservazioni da farsi sulla formola (3)
e che si potrebbero pure ricavare dalla discussione della formola stessa.
Gli errori sono sempre in più nei primi due casi, poichè il secondo termine del
2° membro della (3) è sempre positivo e così pure il primo, salvo una sola eccezione
: 5 > (03 II
che si verificherebbe nel 2° caso quando si avesse pf > DI Succedendo ciò si avrebbe
il primo termine negativo, ma il suo valore risulterebbe sempre minore di quello del
secondo termine e quindi non cambierebbe il segno dell’ errore d. In pratica poi non
der» È GUT - 0) SUSA x i 3
può in generale verificarsi il caso di d > 5 poichè @ sarà sempre piccolo e se a è
ancora più piccolo gli errori da questo angolo dipendenti saranno sempre trascurabili.
—R204=
Gli errori sono sempre in meno negli altri due casi 3° e 4°, salvo che eccezio-
nalmente si avesse il primo termine maggiore del secondo nel 2° membro della (3).
Questo può succedere per piccole distanze e per forti battute. Così si vede nella su
esposta tabella che avviene per D = 20" ed a = 3°; succederebbe pure per D= 10"
ed' me =)8%, (con p'=—#208eda —240EShora dille feconda a
Gli errori crescono di regola secondo l’ ordine crescente della numerazione dei 4
casi in cui si distingue 1’ errore Ò.
Nel 1° caso si ha l’ errore massimo ; il minimo si ha nel 4° caso e solo in via
eccezionale nel 3° quando si cambii il segno dell’ errore d negli ultimi due casi. Nel
2° caso sì ha un errore in valore numerico maggiore che nel 3°, salvo i casi ecce-
zionali di @=a e di p=i.
Gli errori maggiori sì hanno nei primi due casi perchè i due termini del 2° mem-
bro si sommano, mentre negli altri due casi di regola sì sottraggono. Il valore mas-
simo del 1° caso dipende dal maggior valore che ha il primo termine della (3).
Per il valore speciale di D = 0 si hanno gli errori eguali nei quattro casi, come
sì è già visto, e sempre in più; così pure quando sia a = 0 si hanno gli errori
eguali nei quattro casi, in più nei due primi, in meno negli altri.
Vi sono pure i casi speciali di @ =a e di @ ig che sl verificano negli esempi
numerici della tabella, ma che non hanno importanza nello studio attuale, e dei quali
si è già fatto cenno.
Gli errori 0, per valori qualsiansi di 4 e di @ non si possono eliminare per sim-
metria nella livellazione dal mezzo; però con tale procedimento 1’ errore che si ha
nella differenza di livello viene ridotto, poichè nelle due battute si avrà sempre un
angolo @ o di elevazione o di depressione e quindi gli errori d dello stesso segno. Se
per disattenzione dell’ operatore si dovesse avere in una battuta I’ angolo @ di eleva-
zione e nell’ altra di depressione gli errori 0 sarebbero di segno contrario e si som-
merebbero nella determinazione della differenza di livello fra i due punti.
Facendo la media aritmetica delle due letture che si possono fare sulla stadia,
per determinare il valore della battuta, colla rotazione del cannocchiale attorno all’ asse
dei collari supposto orizzontale, si elimina l’errore dovuto all’angolo @ se a = 0 ; non
lo sì elimina completamente se a è diverso da zero, ossia se la stadia devia dalla
direzione verticale. Così per @ = 50" e colla stadia inclinata all’ indietro di a = 2°,
si avrebbe nella media delle due letture un errore di quasi due millimetri.
V.
Le conclusioni dello studio fatto possono riassumersi nelle seguenti.
1.° Nelle operazioni di livellazione devesi tenere la stadia sempre disposta ver-
ticalmente.
— 221 —
2.° La stadia deve sempre essere munita di un filo a piombo o di una livelletta
a bolla d’aria sferica, e tenuta ferma dal porta-stadia con una o due aste disposte
trasversalmente ed appoggiate al terreno.
3.° L’ errore nelle battute causato da una deviazione a della stadia dalla verti-
cale è sempre in più se la linea di collimazione del cannocchiale è orizzontale ; può
essere in più od in meno se questa linea non è orizzontale, ossia se all’ errore pro-
dotto da a si aggiunge quello causato dalla non orizzontalità della linea stessa.
4.° Se la linea di collimazione è inclinata all’ orizzonte di un angolo @ si ha
di regola un errore in più quando @ è di elevazione, in meno quando è di depres-
sione, dipendendo in generale il segno dell’ errore da quella parte di esso che proviene
dall’ angolo @.
5.° L’ errore nelle battute è indipendente dalle distanze a cui si fanno le bat-
tute stesse se $ = 0; non lo è se @ è diverso da zero.
6.° L’ errore massimo per le due inclinazioni a e coesistenti si ha nel 1°
caso (@ angolo di elevazione; a angolo di inclinazione all’ indietro); il minimo nel
4° caso (@ di depressione; a di inclinazione all’ avanti) ; 1’ errore stesso nel 2° caso
(P di elevazione; 4 di inclinazione all’ avanti) è maggiore di quello del 3° caso ($ di
depressione ; 4 di inclinazione all’ indietro) e tutto ciò facendo astrazione dal segno
dell’ errore e dai casi particolari.
7.° La livellazione dal mezzo è sempre da preferirsi anche in riguardo all’ errore
qui studiato, poichè può avere per effetto di diminuirne 1’ influenza nella determina-
zione delle differenze di livello.
8.° Colla media delle due battute che si possono fare ruotando il cannocchiale
attorno all’ asse dei suoì collari, si elimina totalmente l’ errore proveniente da @ solo
se a = 0; non lo sì elimina completamente se «a è diverso da zero.
9.° Conviene rettificare sempre il livello per avere @ = 0 o poco diverso da
zero, allo scopo di diminuire l° influenza nelle battute di una eventuale inclinazione
della stadia dalla verticale.
10.° Conviene fare le battute a poca altezza sulla stadia e a distanze non molto
grandi dello strumento che si adopera nella livellazione.
a.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 28
Pa;
ui i
a LS)
7%
Rat,
| PIF
hs; (0) i
|
ALS, VO O
TOTO TOI VOTO O 9 PE "TRIO
BEFRTTI DI SCARICA LATERALE IN LIQUIDI
INFORECÀ:
DEL
Prof. LAVORO AMADUZZI
letta nella Sessione del 28 Maggio 1916.
(con 10 FIGURE)
1. Come è noto, la elettricità passa attraverso ai liquidi in due modi, almeno per
la apparenza sostanzialmente diversi, che trovano riscontro nei due principali proce-
dimenti di scarica attraverso ai gas: in quello con pressione non inferiore alla atmosfe-
rica, nel procedimento cioè di convenzione ionica, ed in quello distruttivo per scintilla.
In proposito si fa la distinzione fra resistenza alla conducibilità che il liquido
oppone al passaggio della corrente elettrica, e resistenza alla scarica esplosiva. La
prima non dipende solo, a parità di natura del liquido, dalla distanza degli elettrodi,
ma anche dalla loro forma ed estensione, come pure dalla forma del liquido nel quale
sono immersi; invece la resistenza alla scarica deve dipendere, almeno prevalentemente,
dalla sola distanza esplosiva.
2. La scarica per scintilla nei liquidi largamente studiata dal Righi (1) dopo
ricerche sporadiche e pochissime concludenti di altri fisici, venne dal Righi stesso
considerato come un fenomeno di scarica laterale, tanto nel caso di scarica interna
come in quello di scarica superficiale.
E ciò nel modo che segue. i
Quando la corrente di scarica comincia, l’ elettricità è trasmessa dal liquido per
conducibilità, ma la differenza di potenziale sugli elettrodi si accresce gradatamente,
e se raggiunge il valore richiesto onde vincere la resistenza alla scarica che oppone
il liquido, sì ha la scintilla. Perchè adunque avvenga una scarica esplosiva di data
lunghezza entro un liquido dotato di sensibile conducibilità, come 1° acqua, è necessario
che una scintilla addizionale nel circuito di scarica superi un certo valore minimo
che dipende, non solo dalla distanza esplosiva nell’ acqua, ma anche dalla capacità
del condensatore.
(1) A. Righi. — Ricerche sperimentali delle scariche elettriche. Seconda Memoria. — Mem. Acc,
Lincei, 1877.
ROde
La lunghezza della scintilla addizionale dovrà quindi essere tanto più grande quanto
maggiore è la distanza esplosiva nel liquido. Se la scintilla addizionale non è sufficiente
onde avvenga la scarica sul liquido, questa si produrrà aumentando convenientemente
la capacità del condensatore. L° aggiunta di una grande resistenza nel circuito impedirà
alla scarica di prodursi, giacchè diminuirà la differenza massima di potenziale agli
elettrodi.
3. Se la scintilla nei liquidi è un fenomeno di scarica laterale, dipendendo la
massima differenza di potenziale fra gli elettrodi dalla resistenza alla conducibilità
del liquido, si dovranno ottenere a parità di circostanze scintille più lunghe, rendendo
questa resistenza assai maggiore.
Tale considerazione, fatta dal Righi, lo portò nelle sue ricerche in scariche entro
liquidi ad una verifica sperimentale di esse coll’ uso di recipienti a piccola sezione che
conferivano maggiore resistenza al liquido attraversato dalle scariche e quindi rende-
vano queste più lunghe.
Questo però potè fare entro limiti determinati, per il fatto che la resistenza del
tratto percorso dalla scarica si fa sentire nell’ intero circuito nel modo indicato nel $ 2.
4, Numerosi e varii fenomeni il Righi potè riprodurre, che davano valido appog-
gio alla sua ipotesi.
Avendo di recente avuta occasione di eseguire esperienze inerenti a scariche con
elettrodi liquidi, mi si sono presentate varie manifestazioni che secondo me dan ragione
alla ipotesi del Righi alla quale più sopra ho accennato. Non ritenendole per tale
riguardo, prive di un qualche interesse ; ho creduto conveniente di farne breve descri-
zione in questa mia Nota.
Il dispositivo sperimentale da me adoperato consisteva (fig. 1) in una macchina di
Holtz i cui condutlori A, B, venivano messi in comunicazione colle armature € di
Cia
una batteria di condensatori, e collegati al circuito di scarica, costituito, da un reo-
stato È ad acqua, dallo spinterometro MZ d'esperienza e da un altro spinterometro S
a sfere d’ ottone per una scintilla addizionale.
Quest’ ultimo spinterometro veniva talvolta soppresso.
Nello spinterometro di esperienza ho fatto uso di elettrodi (Fig. 2, 3 e 4) di varia
forma e costituzione che qui descrivo :
a - Elettrodo sferico di metallo ;
8 - Elettrodo sferico con goccia liquida terminale ;
y - Massa liquida ad ampia superficie piana contenuta in recipiente attraver-
sato nel fondo da un conduttore cui si poteva dare varia forma terminale e varia
distanza dalla superficie liquida. Le disposizioni principali per questo elettrodo y erano
lagflfe la. 2.
Fig. 2
Fig." 3
Ò - Tubi di vetro attraversati in alto da un conduttore metallico, aperti in
basso, e nei quali potevasi mantenere acqua, sia usando superiormente un tappo attra-
versato da un filo conduttore ed a perfetta tenuta (1 a 5), sia adoperando un tappo
attraversato oltre che dal filo conduttore, da un tubo con stantuffo (6). Questo artificio
del tubo con stantuffo poteva permettere la variazione dell’ andamento della superficie
terminale inferiore del liquido, qualora questa variazione avesse occorso.
5. Ciò premesso, indico succintamente le osservazioni da me fatte:
— Glì elettrodi dello spinterometro di esperienza sono costituiti, il positivo da una
sfera con goccia d’acqua rivolta in basso, il negativo da una massa d’acqua ad ampia
superficie contenuta nel primo recipiente della fig. 3. Lo spinterometro aggiunto ha le
sfere quasi in contatto e quindi in esso si produce una piccolissima scintilla addizionale.
La goccia d’acqua, come ebbi ad indicare in una mia precedente Nota (1), a mano a
(1) Rendiconti Acc. Bologna, 1915.
— 226 —
mano che il potenziale cresce, si appuntisce (Fig. 2, 6') finchè si produce la scarica.
Questa ha la forma di scintilla partente dall’ estremo limite della goccia, rasentante la
4 Da 3 x >]
Di PI DE DE
È È Il,
superficie esterna della goccia appuntita sino alla punta di questa e procedente poi in
linea retta verso 1° elettrodo opposto (fig. 5).
Fig. 4
Fig. 6
Qui si tratta evidentemente di un effetto di scarica laterale parallelo a quello ben
noto verificabile con un conduttore quale è rappresentato dalla fig. 6. Per caso della
goccia il tratto conduttore sarebbe dato dal metallo costituente la sferetta, dal liquido
lungo 1’ asse del cono e dall’ aria preventivamente ionizzata per dispersione dalla punta”
fra il vertice di questa e l’° elettrodo opposto. L’ intervallo a d sarebbe costituito da
una generatrice del cono liquido.
— 227 —
Usando, per formare la goccia, invece che acqua comune dotata di una certa resi-
stenza ‘alla conducibilità, acqua acidulata, la scintilla parte dal vertice del cono liquido.
Ciò in armonia in quanto fu detto nel $ 3.
— La scarica avviene fra l’elettrodo d 1 (fis. 4) e l’ elettrodo piano y 2 (fig. 3).
Lungo il percorso della scarica si ha una scintilla addizionale e piccola resistenza.
La scarica è costituita da una scintilla rettilinea fra gli elettrodi che si insinua per
breve tratto entro il liquido dell’ elettrodo d I (fig. 7, 1).
7 2 3 4
IA A A A
Î
6
V3 b rad 8
Fio. 7
Questo tratto di scarica interno al liquido si deve evidentemente ad un effetto di
scarica laterale analogo a quello che il Righi osservò con elettrodi formati da tubi
forati nella scarica entro liquidi.
Col tubo 2 il tratto interno di scarica apparisce (fig. 7, 2) a parità di tutte le
altre condizioni, più lungo, e più lungo apparisce nel tubo 3 (fig. 7, 3). Ciò eviden-
temente per le considerazioni fatte nel $ 3. Per identica ragione si ha che, dando al
tubo la forma 4, il tratto interno raggiunge (fig. 7, 4) la estensione a d. La esten-
sione di tale tratto si accresce usando un tubo più sottile e si accresce ancora entro
certi limiti, aumentando il numero delle strozzature « d (elettrodo d, 5, fig. 8).
— Coll’elettrodo d 5 è possibile ottenere che la scarica attraversi una o due masse
liquide limitate o separate da intervalli d’ aria (fig. 9).
— Tutti gli effetti indicati si producono solo usando una capacità conveniente, €,
fissa questa, una distanza esplosiva addizionale conveniente. Fissa la capacità si accen-
tuano col crescere della distanza esplosiva addizionale medesima.
Per una determinata distanza esplosiva addizionale si accentuano colla capacità.
— 228 —
Se all’ acqua comune usata nelle precedenti esperienze entro i tubi, si sostituisce
acqua acidulata, scompaiono le manifestazioni di scarica interna.
Fig. 8 Fig. 9 Fig. 10
Coll’elettrodo d della forma 5, frazionando in varie masse il liquido in esso con-
tenuto, si hanno (fig. 10) scintille nei tratti gasosi interposti fra le masse liquide entro
l'elettrodo, e fra elettrodo 0 ed elettrodo piano sottoposto.
Si deve avvertire che il menisco liquido nell’ elettrodo a tubo era, nelle esperienze
descritte, leggermente concavo.
TAVOLE
per calcolate il levare e tramontare della Iruna a Bologna ed a Roma e per
ridurre il levare e tramontate del Sole e della Luna da Roma a un altro
luogo qualunque in Italia e nelle regioni eireonvieine
CON ALTRE TAVOLE AUSILIARI
NOTA
Prof. MICHELE RAJINA
presentata nell'adunanza del 28 Novembre 1915.
Su questo medesimo argomento io già presentai una Nota a questa R. Accademia
nell’ anno 1905 (*). Quel lavoro conteneva una tavola che d’ allora in poi servì
all’ Osservatorio di Bologna per calcolare le epoche del levare e tramontare della
Luna relative al nostro orizzonte, deducendole dalle epoche analoghe date per 1’ oriz-
zonte di Parigi dalla Effemeride astronomica francese intitolata « Connaissance des
temps ou des mouvements célestes à Vl usage des astronomes et des navigateurs ».
Attualmente quella tavola deve esser cambiata, per il motivo che principiando col
volume del 1916 la Connaissance des temps ha applicato completamente le decisioni
prese a Parigi, nell’ ottobre 1911, da una Conferenza dei direttori delle grandi Effe-
meridi astronomiche. Per effetto anche di una legge francese del 9 marzo 1911, che
modificò il tempo legale in Francia e in Algeria, la Connaissance des temps e VAn-
nuario del Bureau des longitudes danno attualmente le epoche del levare e tramontar
del Sole ancora per l’ orizzonte di Parigi, ma espresse in tempo medio di Green-
Wich (**).
(*) Tavole per calcolare il nascere e tramontare della Luna a Bologna e per ridurre il nascere e
. tramontare del Sole e della Luna da Bologna a un altro luogo qualunque d’Italia (Memorie della R.
Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, tomo II, Serie VI, 1905).
(**) A partire dal volume 1916 il Berliner astronomisches Jahrbuch adottando anch’ esso meri-
diano e tempo di Greenwich dà il levare e tramontare del Sole e della Luna per l’ orizzonte del luogo
definito dalle coordinate geografiche pg = + 50°, X= 0 (luogo che cade nella Manica 57 km al nord
di Le Havre). Questo Annuario dà pure tavole di riduzione ad altre località appartenenti alla zona
geografica compresa tra 45° e 55° di latitudine boreale. Quindi queste tavole servirebbero soltanto per
la parte più settentrionale d’Italia. Del resto, a una diffusione del Berliner Jahrbuch tra noi (anche
Serie VII. Tomo II. 1915-1916. 29
— 230 —
Nella prima parte della presente Nota ho ripreso i calcoli eseguiti 1° altra volta,
modificandoli a partire da un certo punto dove entrava in conto la differenza di lon-
gitudine tra Bologna e Parigi da una parte e dall’ altra la differenza di longitudine
tra Bologna e il meridiano di 15° E. di Greenwich (meridiano di Termoli o del-
l’ Etna), sul quale è regolato il cosiddetto tempo dell’ Europa centrale.
Nei calcoli 1’ approssimazione arrivò ai centesimi di minuto di tempo, per garanzia
dei decimi di minuto conservati da ultimo nei risultati.
Così ho ottenuto una nuova tavola senza perdita di precisione in confronto della
tavola antica.
Per estendere alquanto 1° interesse del modesto lavoro, ho calcolato con lo stesso
metodo una tavola analoga relativa all’ orizzonte di Roma, e poi ho calcolato anche
due tavole che servono a passare, per Sole e Luna. all’ orizzonte, da Roma a un
altro luogo gualunque in Italia e nelle regioni circonvicine.
Da ultimo aggiungo altre tavole ausiliari, cioè le seguenti :
I. - Tavole per ridurre i tempi di culminazione del Sole e della Luna dal meri-
diano di Greenwich ai meridiani di Bologna e di Roma;
II. - Tavole di archi semidiurni per i paralleli di Bologna e di Roma.
Calcolo della tavola per ridurre il levare e tramontar della Luna dal-
l’ orizzonte di Parigi a quello di Bologna.
Trascuriamo - come è lecito in questo caso - il moto della Luna in declinazione
durante |’ intervallo di tempo che passa tra il levare (oppure il tramonto) della Luna
a Parigi e il levare (o il tramonto) a Bologna. Inoltre ammettiamo che 1’ effetto di
rifrazione e parallasse sul levare e tramontar della Luna sia prossimamente uguale
nelle due località ; cosa lecita pur essa nel caso attuale. Allora è manifesto che per
ottenere l’ arco semidiurno #, della Luna a Bologna, corrispondente a una data decli-
nazione Ò deila Luna, basterà conoscere l’ arco semidiurno 7, a Parigi, corrispondente
alla medesima declinazione, e aggiungere ad esso la differenza t, — 5:
Indichiamo con @, la latitudine geografica dell’ Osservatorio di Parigi e con P,
quella dell’ Osservatorio di Bologna, cioè poniamo
Pi = SOA Pi 4429080
in tempi normali) si oppone il suo prezzo assai elevato in confronto della Commnaissance des temps.
Siccome poi il Berliner Jahrbuch considera l’ intersezione del parallelo di 50° col meridiano di Green-
wich, così ora rimane escluso completamente quel piccolo vantaggio che prima ci poteva offrire 1’ uso
del Jahrbuch, per la minor distanza in longitudine tra le nostre regioni e il meridiano di Berlino, in
cenfronto di Parigi. Il meridiano di Berlino traversa il Friuli press’ a poco da Malborghetto a Grado,
poi l’Italia peninsulare da Filottrano (Marche) a Fondi (Campania), e la Sicilia da Palermo a Gir-
genti, all’ ingrosso.
— 231 —
allora avremo
cost, = — tgp,t2d cost, = — tgp, td
e quindi
cost, = tg@, cotP,c08/, =|[9,93405] così, , (1)
dove il numero iu parentesi quadra è un logaritmo.
Con questa formula si passa da £, a “%, essendo entrambi questi archi espressi in
misura angolare. In simili casi l unità più comoda è il grado ordinario, nonagesi-
male, suddiviso in parti decimali (*).
Bisogna osservare tuttavia, che la cercata tavola di riduzione deve avere per
argomenti gli archi semidiurni della Luna a Parigi, espressi in ore e minuti di tempo
medio solare, cioè quali si ricavano dalla Connaissance des Temps o dall’ Annuaire.
Indichiamo con #, questi argomenti della tavola, espressi in minuti di tempo, proce-
denti per intervalli uguali di 10 in 10 minuti e compresi tra i due limiti 3% 10" —
lioon e 9° 10% — 5507 (**). Per esprimere i ?, in gradi, cioè per convertirli nei #,
da usarsi nel calcolo della formula (I), bisogna prima esprimerli in minuti di tempo
vero lunare e poi ridurli in gradi mediante la divisione per 4. Ora nella prima parte
dell’ operazione è lecito assumere come costante il ritardo diurno della Luna rispetto
al Sole e adottarne il valor medio, che è = 50", 5. Quindi in primo luogo si ha da
calcolare la formula
90 Dil a idr i
TIZIO AZZ
ossia
fest = [IS 0 (II)
Ottenuti così i £,, la formula (I) serve a calcolare i #,, e poi si formano le diffe-
renze &, — f,. Poichè queste risultano espresse in gradi, bisogna ora convertirle in
minuti di tempo medio solare, con una operazione inversa a quella che ha. servito a
passare da #, a f,- Cioè le differenze #, — , devono essere moltiplicate per il fattore
1490 AGIO -
costante 4 La AA 1403, di cui il logaritmo è = 0,61703.
1440
In questa maniera si tiene conto della differenza di latitudine tra Parigi e Bologna.
Per tener conto approssimativamente anche della differenza di longitudine, basta
considerare che la culminazione della Luna ritarda in media ogni giorno 50",5
(*) Per questa suddivisione del quadrante vi sono le tavole logaritmico-trigonometriche di C. Bre-
miker, a 5 cifre decimali (edizione italiana per cura di L. Cremona, Milano, U. Hoepli editore).
(**) Veramente i due limiti da considerarsi sarebbero 3°%20" e 90%, perchè i valori estremi possi-
bili per l’arco semidiurno della Luna a Parigi, espressi in tempo medio solare, sono Sa ORNCHSS Ol
come risulta da un facile calcolo dove ho tenuto conto delle correzioni per rifrazione e parallasse. Ma
per lo scopo di ulteriore interpolazione è utile considerare due valori esuberanti dell’ argomento, uno
in principio e l’ altro in fine della_serie.
— R32 —
rispetto a quella del Sole. La differenza di longitudine tra 1’ Osservatorio di Bologna
e quello di Parigi vale 36"35,55 = 36",05917 = 0%,600986 = 0402504 (3).
Quindi usando il ritardo diurno medio della Luna rispetto al Sole si vede che
per avere l’ ora della culminazione lunare a Bologna (in tempo medio locale) bisogna
sottrarre la quantità
50",5 Xx 0,02504 = 15,26
dall’ ora della culminazione a Parigi, qualora questa fosse data pur essa in tempo
medio locale.
Ma ora la culminazione della Luna a Parigi è data in tempo medio di Green-
wich, e per ridurla in tempo locale bisogna aggiungere 9"20%,93 = 9",35.
Dal tempo medio di Bologna si passa al tempo medio dell’ Europa centrale aggiun-
Sendo: oro MAO
In conclusione, indicando ora con (f, — 4)' le differenze #, — ?, convertite, come
fu detto, in minuti di tempo medio solare, sì avrà
levare — (G—4)— 1",26 + 9,35 + 14,59 = — (&— 4)+ 227,68
ve lui sé
PT } tramonto + (t— 4) — 1%,26 + 9",35 + 14,59 =+(f— 4) + 22,68.
I risultati dei calcoli finora descritti sono contenuti nel quadro numerico I. In
esso le ultime tre colonne costituiscono due tavole di riduzione separate, una per il
levare e 1’ altra per il tramonto.
L’ uso di queste tavole diventa il più semplice possibile quando per ciascuna di
esse si cerchino quei valori dell’ argomento che limitano i successivi minuti interi
nella colonna delle riduzioni. In altre parole bisogna cercare quei valori dell’ argo-
mento che corrispondono ai valori — 5",50 — 4",50 — 3",50 . .. nella terz’ ul-
tima colonna del quadro I, e poi quelli che corrispondono ai valori + 50",5 + 49",50
+ 48",50 . . . nell’ ultima colonna del quadro stesso. Questa operazione di rever-
sione delle due tavole si può fare mediante la rappresentazione grafica, o con |’ uso
di una formula quadratica d’ interpolazione (come già indicai nella Nota del 1905),
oppure con |’ equivalente procedimento che segue.
Per tre punti dati si può sempre far passare un arco di parabola conica, rappre-
sentata in coordinate cartesiane ortogonali dall’ equazione
y= @ + ba lc
Nel caso attuale (come succede spesso in pratica), i punti da considerarsi hanno
le ascisse in progressione aritmetica.
(*) Questo è il valore che si ricava dal Nautical Almanac 1917; esso proviene dalla compen-
sazione delle longitudini europee fatta dal prof. Th. Albrecht.
— 233 —
Indichiamo con (@_;,%_1) (40, Yo) (2,1,%+;) il gruppo di tre punti per i quali
sì vuol far passare l’ arco di parabola. Poniamo l’ origine delle coordinate nel punto
intermedio (2, %) e prendiamo come unità di misura per le ascisse 1’ intervallo
costante 2, — ®_q1=" &%,, — %. Allora si avrà
y,yj+=m=a—-b+c
Yo =@
YyBATbL+c
da cui risulta
ay 2 gay, Be Yak yr 2%.
Queste formule semplicissime determinano i coefficienti dell’ equazione della pa-
rabola.
Ciò fatto, si passa a calcolare quel valore di x che corrisponde a un dato valore
di y. Si avrà
co + bor +aT—y=0
Cig
z =
0
5 db
I de got
c
ossia coi simboli soliti
c+pe+q=0.
Indichiamo con &' @' le due radici dell’ equazione di secondo grado: il metodo
più comodo in pratica per calcolarle numericamente consiste nell'usare le due relazioni
c'+a'= — p ga i palag,
di cui la II* si calcola coi logaritmi di addizione e sottrazione.
Nel caso attuale è manifesto che bisogna prendere quella radice per la quale la
quantità Vp — 4g ha il segno contrario di — p.
In tal maniera si ottiene il valore di x espresso in parti dell’ intervallo costante
fra le ascisse, e poi lo si esprime in altra unità più opportuna secondo i casi (*).
(*) La sostituzione di un arco di parabola a un arco di curva empirica determinato da tre punti
dati fornisce un metodo di calcolo molto utile in un gran numero di problemi delle Matematiche
applicate, come si vede anche da ciò che segue.
I. - Calcolare in ciascun punto dato della curva il valore della derivata 2 . — Per questa
si ha l’ espressione
— 234 —
Per semplicità la reversione delle ultime tre colonne del quadro I è stata eseguita
graficamente, correggendo poi, dove occorreva, la serie dei risultati della interpolazione
grafica dietro quella nota regola che dice che un errore di una unità nell’ ultima
cifra si rivela raddoppiato e con segno contrario nella differenza seconda corrispondente.
Così fu ottenuto il quadro II, dal quale sì passa direttamente alla tavola D, che
presenta i risultati nella forma definitiva e più comoda in pratica.
Calcolo della tavola per ridurre il levare e tramontar della Luna dal-
l orizzonte di Parigi a quello di Roma.
Questo calcolo fu eseguito precisamente come 1° altro precedente.
In Roma ho considerato l° Osservatorio astronomico del Collegio romano, di cui la
posizione geografica, secondo il Nautical Almanac 1917, è la seguente :
OSIO di= 49055 860E di Gr = MA0034 MAS REN co
In frazione di giorno la differenza di longitudine tra Roma e Parigi vale 0,028176
e quindi, col valor medio (50®,5) del ritardo diurno della Luna rispetto al Sole, sì ha
50",5 X 0,028176 = 1", 42.
Dunque 1° ora della culminazione della Luna a Roma (in tempo medio locale) si
ottiene sottraendo 1",42 dall’ ora della culminazione a Parigi (pure espressa in tempo
medio locale).
II. - Determinare sulla curva empirica i punti di massimo e minimo (punti tropici). — Essendo
per questi punti
b+2eae=0,
le coordinate di un punto tropico sono date da
e=- — y=zA4+x(0 + ca).
Sostituendo qui per d e e i loro valori in funzione delle ordinate date, si trova
Ya Yi e ] (Yui — 3)?
________ ME = ——_-_—_ +8 .
Yo — (Yui + Ya) VE Ea 2yo + (Yu + Y1)
Wi
Si è ammesso che i punti dati abbiano le ascisse equidifferenti. Ma è facile applicare lo stesso
metodo anche quando tale condizione non è verificata.
— Lod =
Ma ora la Connaissance des Temps dà la culminazione a Parigi in tempo medio
di Greenwich, e da questo si passa al tempo medio di Parigi aggiungendo 9"205,93
19030.
Quindi per ridurre la culminazione della Luna da Parigi a Roma bisogna applicare
al dato della Connaissance des Temps la correzione + 9",35 — 1",42 = + 7,93.
Così si ottiene la: culminazione a Roma in tempo medio locale.
Dal tempo medio di Roma (Collegio romano) si passa al tempo medio dell’ Eu-
ropa centrale aggiungendo 10"4*%,64 = 10",08. i
In conclusione, per ridurre la culminazione della Luna da Parigi a Roma e otte-
nerla espressa in tempo medio dell’ Europa centrale, bisogna applicare al dato della
Connaissance des Temps la correzione + 7°,93.+ 10%,08 = + 18",01.
Indicando poi con (#, — #,), come prima, le differenze #, — £, convertite in minuti
di tempo medio solare, si calcolano le riduzioni del levare e tramontar della Luna da
Parigi a Roma come segue : i
CAT {levare = —(—-i)l4+ 18% 01
Riduzione per il
tramonto = + (i, — t)' + 18", 01.
I risultati dei calcoli ora descritti sono contenuti nel quadro III, dal quale si è
poi ottenuta per via di interpolazione grafica, in forma definitiva, la tavola E.
Calcolo delle tavole per ridurre il levare e tramontar del Sole e della
Luna da Roma a un altro luogo qualunque in Italia e nelle regioni
circonvicine.
Queste due tavole (F e G) sono state ottenute col metodo già indicato sopra. Esse
sono a doppia entrata e nel senso orizzontale procedono di grado in grado, da 36° a
47° di latitudine geografica. I limiti delle due tavole nel senso verticale dipendono
dal fatto che per il Sole e per la Luna i valori estremi possibili dell’ arco semidiurno
429 9mn 4° iù i i
in tempo medio solare.
735 8 18
Il modo di usare queste tavole è facile da intendersi e qui sarebbero fuor di
a Roma sono rispettivamente 0
luogo ulteriori spiegazioni in proposito (*).
Così pure sono chiare per sè stesse le altre tavole ausiliari segnate H, K, L, M,
Ne P. È
(*) Due tavole analoghe, relative a Bologna come punto di partenza, sono date nella mia Nota
del 1905, già citata in principio,
— 290 =
Le ultime due tavole contengono i valori dell’ arco semidiurno per i paralleli di
Bologna e di Roma, di grado in grado di declinazione da zero fino a =# 30°. Esse
sono destinate specialmente al calcolo del levare e tramontar dei pianeti. L’ effetto
della rifrazione sull’ arco semidiurno #, fu calcolato in minuti di tempo mediante la
formula
1 DE
At=——
° 15 cos@cosòsint,”
dove i 35' rappresentano la rifrazione astronomica all’ orizzonte.
In ambedue le tavole la serie dei valori dell’ arco semidiurno apparente fu rego-
larizzata in base all’ andamento delle differenze seconde, correggendo così in pochi
casì i piccoli errori inevitabili dell’ ultima cifra.
ROS
QUADRO I. — Elementi e risultati del calcolo che dà le riduzioni da Parigi a Bologna
per il levare e tramontare della Luna.
4,1403 x Riduzione Riduzione
INS MES do i ti--to o
(ty — bo) del levare del tramonto
m O) (0) O) m m h m m
1| 190) 45,890 93,279 | # 7,385 | + 30,58 90 SINO 0926
+ 225 — 225
2” 200) 48,306 09,149 | + 6,843 | + 28,33 | — 5,65 _ 2 9. 20 51,01 + 12
+ 213 = De
3 ZIO 07% 57,050 | #+ 6,329) | #+ 26,20 | — 3,92 — 10 330 48,88 sato
+ 203 — 203
4 220387 58,977 | + 5,840|+ 24,17) — 1,49 ao 3 40 46,89 #10
+ 198 — 198
d || 0 60,924 | 4 5,372 | + 2224| + 0,44 Dal 3 50 41,92 GARE
+ 185 — 185
6| 240 | 57.967 62,891 | + 4,924 | + 20,399) + 2,29 mA 40 43,07 doi
+ 178 — 1178
7250 | 60,382 64,876 | + 4,494 | + 1861) + 407 — 0 410 41,29 sio
+ 172 — 172
S | 260 | 52,798 | 66876 | + 4,078| + 16,89| + 5,79 San 39,57 + 5
+ 167 — 167
O ZZ0 | Gozo 68,889 | + 3,676 | + 15,22) + 7,46 si 430 37,90 usi
+ 162 = 162
10 | 250 | 67.628 70,914 | + 3,286 | + 13,60) + 9,08 pito 4 40 36,28 co
+ 157 26107
Mn IZ90n z0,044 | 72/949 | 2905 | L20387) + 10,65 0 4 50 34,71 aratci
+ 153 — 158
T2.| 300) || 72,459 74,994 | + 2,539 | + 10,590 | + 12,18 an SIMO 33,18 ari
+ 151 — J5i
13 | 3I0 | 74,874 77,045 | + 2,171 | + 8,99 | + 13,69 mao D 10 31,67 dae
+ 148 — 148
14 (1320 | 77,290 79,104 | + 1,8I4/+ 75L| + 15,17 È 5) 20 30,19 tao
+ 145 — ib
15 | 330 | 79,705 81,168 | + 1,463 | + 6,06] + 16,62 SA d 30 28,74 + 1
+ 14 = ILL
16 | 340 82,120 83,236 | + 1,116 | + 4,62] + 18,06 mai 5 40 27,30 aa
+ 142 =IL2
17 | 350 | 84,535 85,307 | + 0,772 | + 3,20) + 19,43 0 5 50 20,88 Ù
+ 142 — ia
18 | 360 | 86.951 9163 SIL 0 N 4301 AS 0590) = ll 00 24,46 st
+ 141 — Ml
19 | 370| 89,366 89,455 | + 0,089 | + 0,37| + 2231 0 6 10 23,05 0
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 30
— 238 —
QUADRO 1. (continuaz.) — Elementi e risultati del calcolo che dà le riduzioni da Parigi
a Bologna per il levare e tramontare della Luna.
‘41408 x Riduzione Riduzione
INFONTTA 4 n AU DA
(ty — to) del levare O del tramonto
m O) O) 0 m m la sin m
N0NAS70 89,366 89,459 | + 0,089 | + 0,37 | + 29,31 0 6 10 + 23,05 Ù
- IA — dl
20 | 380 91,781 91,530 | — 0251) — 41,04| + 23,72 Ù 6 20 + 21,64 Ù
+ 141 — Id
Z2IN390 94,197 93,605 | — 0,592 | 245. | + 25,13 #1 6 30 + 20,23 ai
+ 142 — 142
22 | 400 96,612 95,677 | — 0,935 | — 3,87 | + 26,55 Lo 6 40 + 18,81 =:
+ 143 — 143
23 | 410) 99,027 | 97,747 | — 1,280) — 5,30] -+ 27,98 “DiRe 6 50 | + 17,38 ni:
+ 145 — ito
24 | 420 | 101,443 99:81 | R6308 = 675 ME2978 ol UO, -+ 15:93 ode
+ 146 — 46
25] 430 | 103,858 || 101,875 | — 1,983 | — 8.21 | + 30,99 staiS do 10 + 14,47 a
+ 149 — 149
26.) 440 | 106,273 | 103,930 | — 2,343 | — 970. + 32,38 p_& MO, + 12,98 e
+ 152 = 1159
27 | 450 | 108,688 | 105,976) — 2,712) — 11,22. + 33,90 iui. Ù 30 + 11,46 pt
+ 155 — 155
28 | 460 | 114,104 | 108,019 | — 3,085 | — 12,77 | + 35.45 + 4 740 + 991 Me
+ 159 — 159
29 | 470) 143,519 | 110,050) — 3,469 | —- 14,36 | + 37,04 + 5 7 50 + 8,32 peo.
+ 164 — 164
30 | 480 | 115,934 | 112,068 | -—- 3,866 | — 16.00| + 38,68 tao 80 + 6,68 amo,
+ 170 0
31 | 490) 118,350 | 114,076 | — 4,274 | — 17,70 | + 40,98 FO S_10 + 4,98 AR
i + 175 — 175
32 | 500 | 120,765 | 116,069 | — 4,696 | —- 19,45 | + 42,15 #06 S_20 + 3,23 gii
+ ISI — 181
33 | 510 | 123,180 | 118,045 | — 5,135 | — 21,26] + 43,94 PIE 830 + 1,42 =
+ 189 Ea,
34 | 520 | 125,596 | 120,004 | — 5,592 | — 23,15 | + 45,89 stadio $S 40 — 0,47 e)
+ 198 — 198
35 | 530 | 128,014 | 124,942 | — 6,069 | — 25,13 | + 47,81 + 10 850 —- 2,45 a LU
+ 208 — 208
36 | 540 | 430,426 | 123,555 | — 6,571 | — 27,21 | + 4989 spe 90 — 4,53 "RO
+ 217 — dilj
37 | 550 | 132,841 | 125,745 | — 7,096 | — 29,38 | + 52,06 9 10 — 6,70
è Ab
E
Quadro II. — Risultati della interpolazione grafica eseguita sulle riduzioni del levare e
tramontar della Luna da Parigi a Bologna.
Levare Tramonto
Riduz. Ao Riduz. (0 Riduz. Cd Riduz. GIA
m Ino nm m lm mn m oa m In soa
o 2008 + 235 | 6. 183 + 50,5 | 3 224 295 (601959
+ 48 (, + 71 + 46 + 72
ao 8 3001 + 24,5 | 6 25,4 + 49,5) 3 27,0 + 25 | 6204
+ 49 + 70 + 47 + 71
mp 3 300 + 25,5 | 6 324 SA Io RIT sc Mb e 232
+ 50 + 70 + 49 su 70
— 15/3 40,0 + 26,5 | 6 394 + 47,5 | 3 36,6 4 o | 6 352
+ 52 + 70 + 50 + 69
=> 08. 3402 + 27,5 | 6 46,4 + 46,6 | 3° 41,7 SR Sho MONATIOAI
+ 53 + 70 + 52 + 69
+ 05) 3 50,5 + 28,5 | 6 534 + 45,5) 3 46,9 + 17,5 | 6 49,0
+ 53 + 70 + 54 + 69
+ 415) 3 5558 + 29,07 04 + 445 | 3 59,9 + 16,5 | 6 55,9
+ 54 + 69 o: 3 + 63
Miu 254 12 SRD 8 --- 13,9 | S_ S790 CIAO CONI MITIONZIVI
+ 56 + 68 | + 55 + 68
+ 30 4° 68 + 51,0 | 7 141 + 425 4 3,2 + 145| 795
+ 57 + 67 + 56 + 67
se RO + 92,5 | 7 20,8 +45 | 4A S8 Ra 162
+ 59 + 66 + 57 + 67
+ 55 | 4 484 0 IA + 409 | 4 145 + 125 7 229
+ 59 + 65 + 58 + 67
+ 65) 4 243 DIO MRO + 39,5 | 4 20,3 SUO ME ZOO
+ 59 + 63 + 60 + 67
+ 7.5) 4 302 + 355 | 7 402 + 38,5 | 4 26,3 + 10,5| 7 36,9
+ 60 + 63 + 61 + 65
* 85 4 802 + 36,5 | 7 46,5 = SAVA + 95) 7 438
+ 62 + 63 + 63 + 63
sE O) ZAZZA IT De + 36,5 | 4 38,7 + 89) 7 491
+ 63 + GI + 63 + 61
SOS IZ S87 = 395) 7 539 + 35,9 | 445,0 ul | 7 5592
+ 65 + 59 + 64 + 60
“= i | 4 562 + 39,5 | 8° 4,8 + 34,5 | 4 DIA = (6.5.0 SO 12
+ 66 + 58 + 64 + 58
i o ORI ES + 40,5 | S 10,6 + 33,5 | 4 57,8 + 599) 8 70
È + 67 + 57 + 66 + 57
FAM 6 (865 + 4150 8 416,3 + 325 | 50 44 + 45 | 8 12,7
+ 68 + 57 + 67 + 57
5. | + 425! 8 22,0 + 315 | 5 41/4 + 39 | 8 184
+ 69 + 56 + 67 + 56
loro Mor QI + 43,0) S 27,6 + 30,5 | 5 17,8 + 253 8 240
+ 69 + 54 + 68 + 56
* dee ZO + 44,5 | 8 33,0 + 295 | 5 24,6 sE 49 | 80 206
+ 70 + 52 + 69 + 54
+ 175 OS + 45,5 | $ 38,2 + .28,5 | D 34,5 “P_Oo 8 390
+ 70 + 52 + 70 + 52
sb DI + 46,5 | S_ 434 SNO MSI — Wa g 402
+ 7 + 51 + 70 + 50
+ 195 | 5 50,2 + 47,5) S 485 + 26,5 | 5 45,5 — 10 | 8 492
se Fil + 49 + 70 + 49
POR + 489 | S_ 534 EDO MO RI5 — Rol 8 54
+ 70 + 48 + 71 + 49
+ 215 | 6° 4,3 sE ZI0 IS 5852 4 24,5 | 5 59,6 do 8 5590
+ 70 + 71 + 48
+ 22,5 | 6 11,3 SON MOMMNONI — 46 | 8 598
— 240 —
TAVOLA D. — Riduzione del levare e tramontar della Luna dall’ orizzonte di Parigi a
quello di Bologna.
N B.— L'argomento della tavola è I arco semidiurno (in tempo medio) che si ottiene dalla Connaissance des Temps 0
dall’ Annuario del Bureaw des Longitudes (annate posteriori al 1915) prendendo la differenza tra 1’ ora del levare (o del tramonto)
e l’ora della culminazione superiore a Parigi. I risultati sono espressi in tempo medio dell’ Europa centrale.
Levare Tramonto | i
Arco Riduzione Arco Riduzione Arco Riduzione Arco Riduzione
semidiurno a semidiurno a semidiurno a semidiurno a
a Parigi Bologna a Parigi Bologna a Parigi Bologna a Parigi Bologna
h m In oa h m la 1a
m m m m
ì. 253 Otis) ZA 6 13,9
—- 4 + 23 + 50 +22
3 30,1 6 18,3 327,0 6 21,1
— 3 + 24 + 49 + 2
SO 6. 254 9 DI 6 28,2
— 2 + 25 + 48 + 20
3 40,0 6 324 3 00 (DS
— I + 26 . + 47 + 19
i. 452 O SILA 9 41, 6421
0 = 9d7 + 46 + 18
350,5 6 46,4 3 46,9 649,0
+ I + 28 + 45 + 17
3 55,8 653,4 3 523 6 55,9
+ 2 t 29 + 44 SS
MAD TL 3 SII TAZZA
+ 3 + 30 + 43 + 15
46,8 T 18 ARRE Ù 95
+ 4 + SI + 42 SM
I 25 RAV 4 8,8 Ti 62
+ 5 + 32 + Al + 13
4 184 7 20,8 4 145 7 229
+ 6 + 33 + 40 + 12
4 24,3 UT QI 4 20,3 MZ
+ 7 + 34 + 39 + Il
4 30,2 939 4 26,3 7 303
+ 8 + 35 + 38 + 10
4 36,2 n 402 4 324 1 428
+ 9 + 36 + 37 + 9
4 42,4 7 46,5 438,7 7 49/1
+ 10 + 37 + 36 + 8
4 48,7 I 928 4 45,0 U OL
+ Il + 39 + 39 7
4 552 599) 451,4 8° 12
+ 12 + 39 Sg + 6
5 18 848 457,8 STO
4- 13 + 40 + 80) + 5
9 Sh 810,6 544 o 497
+ 14 + 4l + 32 + 4
5 15,3 8 163 5 ALI S_ 184
+ 15 + 42 + 31 + 3
> 292 8220 5179 24,0
+- 16 + 43 + 30 + 2
5 201 S_ 27,6 Do 240 S 29.6
+ 17 + 44 + 29 + 1
5 36,1 833,0 531,5 835,0
+ 18 + 45 + 28 0
) 46l 898,2 5 39,5 8 40,2
+ 19 + 46 + 27 — ll
DDOR S_ 434 Do 55 8 45,2
-- 20 + 47 + 26 — 2
5 573 8 48,5 5 525 8 50,1
+ 21 + 48 + 25 — 3
GMZO3, ARA 5 596 855,0
> 2 49 sai = e
6 113 8 582 BG 69 8 598
+ 23
GIRI
— 241 —
QUADRO III. — Elementi e risultati del calcolo che dà le riduzioni da Parigi a Roma
per il levare e tramontare della Luna.
4,1403 x Riduzione Riduzione
NQ (a ti ti--to da
(ty — to) del levare del tramonto
m O) O) O) m m h m m
1| 190) 45,890 56,908 | #+11,018 | + 45,62| — 27,61 SIMO + 03,63
— 321 — 321
2200) 48,306 08,949 | 410,243 | + 42,41) — 24,40 FE SINO) + 60,42 + 14
— 307 — 307
3 | ZIO son 60522308 05028 9A 298 + 2 330 + 57,99 + 12
— 295 — 295
4|220| 53,137 | 61,928 | + 8,791 | + 36,39| — 18,38 A VM o Uro
— 283 — 283
5 || 20. 65592 63,658 | + 8,106 | + 33.56 | — 15,55 + 10 350 <> 997 + 10
=. Sa alora
6 240 | 57,967 65,413 | + 7,446 | + 30,83 | — 12,82 ao ZINIO) + 46,84 strie
_— 264 — 264
7|250| 60,382 67,190 | + 6,808 | + 28,19) — 10,18 pet 410 + 46,20 doll
IONI SIDE
8 | 260) 562,798 68,986 | + 6,198 | + 25,62| — 7,61 Fate 4 20 + 43,63 nas
— 249 — 249
9| 270) 65,213 70,800 | + 5,597 | + 23,13 | — 5,12 Haro 4 30 + 41,14 6
— 243 — 243
10) 280 | 67,628 (ROS | 000 EZIO Zoo stiro 4 40 = SAI +6
— 280 — 237
ti 290 | 70,044 TIRATI 4 4427 A 18,33 | — 0332 da) 450 + 36,94 n S
— 282 — 232
12 | 300| 72,459 76,325 | + 3,966 | + 16,01) + 2,00 dato OMM 4 134,02 3talito
— 229 — 229
13|3I0| 74,874 MS MS SA OI IRA 29 Sage o 410 +- 31,73 ali
— 2925 — 225
14 320) 77,290 80,061 | 4 2,771 | + 11,47 | + 6,54 siae DIRO + 29,48 pe
— 221 — 221
15 | 330 | 79,705 | 8941 |+2,236|+ 9,26] + 8,75 2 9 30 + 27,27 + 2
— 219 — 219
16 | 340| 82,120 83,826 | # 4,706.) + 7,07 | + 40,94 el 5 40 + 25,08 Aol
— 218 — DE
17 | 350 | 84,533 89,716 | + 1,184 | + 4,89) + 13,12 sai 5 50 + 22,90 + I
— 217 — 217
18 | 360) 86.951 87,609 | #4 0,658 L4- 2,72] + 415,29 siate CNN + 20,73 stage
— 215 =: 95
19 | 370 | 89,366 89,003 | + 0,137 | + 0,57] + 17,44 si CARGO + 18,58 ga
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. al
— 242 —
QUADRO III. (continvaz.) — Elementi e risultati del calcolo che dà le riduzioni da Parigi
a Roma per il levare e tramontare della Luna.
94,197
96,612
99,027
101,443
103,858
106,273
108,688
414,104
113,519
115,954
118,350
120,765
123,180
125,596
128,011
130,426
132,541
o)
89,503
91,397
93,290
95,182
97,070
98,953
100,830
102,698
104,557
106,407
108,242
110,063
114,869
113,656
115,423
117,167
118,886
120,575
122,235
ti lo
(0)
+ 0,137
— 0,984
— 0,907
— 1,430
21901]
— 2,490
— 3,028
— 3,575
— 6,481
— 7,109
— 10,606
41403 x
(ty — to)
Riduzione
del levare
44,84
4T,A4
50,13
-— 216
— 218
— 235
— 240
— 300
— 312
+
+
Riduzione
del tramonto
— 278
— 300
— 812
-dad
ovs
quello di Roma.
N B. — L'argomento delia tavola è l'arco semidiurno (in tempo medio) che si ottiene dalla Connaissance des Temps 0
dall’ Annuario del Bureau des Longitudes (annate posteriori al 1915) prendendo la differenza tra 1’ ora del levare (o del tramonto)
— 243
TAVOLA E. — Riduzione del levare e tramontar della Luna dall’ orizzonte di Parigi a
e l’ ora della culminazione superiore a Parigi. I risultati sono espressi in tempo medio dell’ Europa centrale.
Levare
2 E SSR
suse ah
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— 245 —.
l'AVOLA F. — (continuaz.) Riduzione del levare e tramontare del Sole da Roma a un
altro luogo qualunque in Italia.
Avvertenza. — Per ogni valore della riduzione il segno superiore vale per il levare e il segno inferiore per il tramonto.
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7 40 2083 MEO == MES pui x 16,8 x 214
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 32
qualunque in Italia.
Avvertenza. — Per ogni valore della riduzione il segno superiore v&le per il levare e il segno inferiore per il tramonto.
36°
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37°
— 246 —
38°
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TAVOLA G. — Riduzione del levare e tramontare della Luna da Roma a un altro luogo
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247
TAVOLA G. — (continuaz.). — Riduzione del levare e tramontare della Luna da Roma a
un altro luogo qualunque in Italia.
Avvertenza. — Per ogni valore della riduzione il segno superiore vale per il levare e il segno inferiore per il tramonto.
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—— pg E
TAVOLA K. — Riduzione del tempo medio a mezzodì vero dal meridiano di Greenwich
a quello di Roma.
(Roma, Osservatorio del Collegio romano: Z= 49% 55s, 36 E. di Gr.)
N. B. — I’ argomento della tavola è la variazione per Ih data dal Nautical Almanac o dalla Connaissance des Temps.
Variazione Variazione Variazione Variazione
Riduzione Riduzione Riduzione Riduzione
per 1h per Il per 1h per hl
S S S S
S S S S
0,000 0,331 0,667 . 1,004
0,00 0,28 0,56 0,84
0.006 0,343 0,679 1,016
0.01 0,29 0,57 0,85
0,018 0,355 0,691 1,028
0,02 0,39 0,58 0,86
0,030 0,367 0,703 1,040 i
0,03 0,31 5.59 0,87
0,042 0,379 0,715 1,052
0,04 0,32 0,60 0,88
0,054 0,391 0,727 1,064
0,05 0,33 0,61 0,89
0,066 0,403 0,739 1,076
0,06 0,34 0,62 0,90
0,078 0,415 0,751 1,088
i 0,07 0,35 0,63 0,91
0,090 0,427 0,763 1,100
0,08 0,36 0,64 0,92
0,102 0,439 9,775 1,112 ì
0,09 0,37 0,65 0.93
0,114 0,451 0,787 1,124
0,10 i 0,38 0,66 0,94
0,126 0,463 0,799 1,136
UNGI 0,39 0,67 0.95
0,138 0,475 (ORSARI 1,148 i
0,12 0,40 0,68 0.96
0,150 0.487 0,823 1,160 i
0,13 0,41 0,69 0,97
0,162 0.499 0,835 IAT
0,14 ì 0,42 0,70 0;98
0,174 0501 0,847 1,134
0,15 i 0,43 0,71 0.99
0,186 0,523 0,859 1,196 i
0,16 È 0,44 0.72 1.00
0,198 0.535 0,871 1,208 }
0,17 È 0,45 0,73 1.01
0,210 0,547 0,833 1,220
0,18 i 0,46 0,74 1,02
0,222 0,559 0,896 1,232 i !
0,19 0,47 0,75 1.03
Uol 0,571 0,908 1,244
0,20 0,48 0,76 1,04
0,246 0,583 0,920 1,256 i
0,21 0,49 0,77 1,05 |
0,258 0,595 0,932 1,268
0:22 0,50 0,78 1,06
0,270 0,607 0,944 1,280
0/29 0,51 0,79 1,07
0,282 0,619 0,956 1,292
0,24 0,52 0,80 1,08 |
0,294 0,631 0,968 1,304 |
0,25 0,53 0,81 1,09 Ù
0,306 0,643 0,980 1,316 O
0,26 0,54 0,82 |
0,318 0,655 0,992 |
| 0,27 0,55 0,83 |
0,331 0,667 1,004 |
|
— 249 —
TAVOLA H. — Riduzione del tempo medio a mezzodì vero dal meridiano di Greenwich
a quello di Bologna.
Bologna, Osservatorio della R. Universtài : 4= 45m 245, 48 E. di Gr.)
N. B. — IL’ argomento della tavola è la variazione per 12 data dal Nautical Almanac o dalla Connaissance des Temps.
Variazione Variazione Variazione Variazione
Riduzione Riduzione Riduzione Riduzione
per Ah per dh per 1h per hb
S s S S
S S s S
0,000 0,324 0,604 0,984
0,00 0,25 0,50 0,75
0,007 0,337 0,667 0,998
0.01 0,26 0,51 0,76
0,020 0,350 0,680 1,014
0,02 0,27 0,52 0,77
0,033 0,363 0,694 1,024
0,03 0,28 5.53 0,78
0,046 0,377 0,707 1,037
0,04 0129 0,54 0,79
0,059 0,390 0,720 1,050
0,05 0,30 0,55 0,80
0,073 0,403 0,733 1,064
0,06 0,31 0,56 0,81
0,086 : 0,416 0,747 1,077
0,07 0,32 0,57 0,82
0,099 0,429 0,760 1,090
0,08 0,33 0,58 0,83
0,112 0,443 9,773 1,103
0,09 0,34 0,59 0,84
0,126 0,456 0,786 1,147
0,10 0,35 0,60 0,85
0,139 0,469 " 0,799 1,130
0,11 0.36 0,61 0,86
0,152 0,482 : 0,813 1,143
0,12 0.37 0,62 0,87
0,165 0.496 , 0,826 1,156
0,13 0,38 0,63 0,88
0,178 0.509 } 0,839 1,169
0,14 0.39 0,64 0,89
0,192 0,522 i 0,852 1,183
0,15 0.40 0,99 0,90
0,205 0,535 i 0,865 1,196
0,16 0.41 0,66 0,91
0,218 0,548 i 0,879 1,209
0,17 0.42 0,67 0,92
0,231 0,562 i 0,892 AR222
0,18 0,43 0,68 0,93
0,244 0,575 i 0,905 1,235
0,19 0,44 0,69 0,94
0,258 0,588 3 0,918 1,249
0,20 0,45 0,70 0,95
0,271 0,601 È 0,932 1,262
0,21 0.46 0,71 0,96
0,284 0,614 È 0,945 1,275
0,22 0.47 0,72 0,97
0,297 0,628 ° 0,958 1,288
0,311 0,641 ; 0,971 1,302
0,24 0,49 0,74 0,99
0,324 0,654 i 0,984 1,315
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 33
= R00 —
TAVOLA L. — Riduzione della culminazione della Luna dal meridiano di Greenwich a
quello di Bologna.
san
(Bologna, Osservatorio della R. Università: 4= 45m 245, 48 E. di Gr.).
N. B. — L’ Argomento della tavola è la differenza tra due culminazioni inferiori consecutive, date dal Nantical Almanac. I
risultati sono espressi in tempo medio locale.
Ritardo diurno Ritardo diurno
della Luna Riduzione della Luna Riduzione
rispetto al Sole rispetto al Sole
m m
m m
36,5 55,5
— 12 — 1,8
39,6 58,7
= 113 — 1,9
42,8 61,8
— 14 — 2,0
46,0 65,0
— 1,5 — 2,1
49,2 68,2
— 1.6 — 22
52,3 714
ZI i
55,5 |
TAVOLA M. — Riduzione della culminazione della Luna dal meridiano di Greenwich a
quello di Roma. |
(Roma, Osservatorio del Gollegio romano: 4.= 49m 555, 36 E. di Gr.).
N. B. — L'argomento della tavola è la differenza tra due culminazioni inferiori consecutive, date dal Nantical Almamnac. I
risultati sono erpressi in tempo medio locale.
Ritardo diurno Ritardo diurno
della Luna Riduzione della Luna Riduzione
rispetto al Sole rispetto al Sole |
m m
m m
36,1 ; 53,4 |
— 1,3 — 1,9 i
38,9 56,3
Dei, SES)
41,8 59,1 |
DOG LO
44,7 62,0
— 1,6 — 22
47,6 64,9 |
— 1,7 — 2,3
50,5 67,8 |
SULO — 24
53,4 70,7
|
|
Ì
ì
|
Declinaz.
Arco
semidiurno
vero
— 25]
TAVOLA N. — Archi semidiurni per il parallelo di Bologna.
(Bologna, Osservatorio della R. Università: @.= 44° 29' 53").
Effetto
della
rifrazione
3,9
3,3
34
34
34
è)
Arco
semidiurno
apparente
In ma
(0 89)
— 39
5 59,4
2 80
DIOSTO
— 39
o 51,6
— 40
5 47,6
— 40
5 43,6
— 40
5 39,6
— 40
DITO
— 40
5 31,6
— 40
5 27,6
L250
DL)
— di
5 19,4
SEAT
5 15,9
— 4
5 11,1
243
5 6,8
SER
DU
LD
4 58,1
— 45
4 53,6
— 45
4 491
— 46
4 44,5
— 46
4 39,9
SEGAT
li AL
Luco)
4 30,3
— 50
4 25,3
25851
4 20,2
SN
4 14,9
£ — 54
i 95
— 55
4 4,0
— 56
3 56,4
=
So
— 62
3 46,3
Declinaz.
È -
Totti nar naro.
e a
+4 ++
Arco
semidiurno
vero
CI ea cd ie ed edi cd Cd dd ene Jar
"5 :
(J6)
Si
SS e)
3
(ie ano
SRO
Effetto
della
rifrazione
m
+ 3,3
3,3
3,3
3,3
3,8
3,3
3,3
3,3
3,3
34
3,4
3,4
34
9,9
Arco
semidiurno
apparente
(0/0)
D
(Sa;
(e 0)
(4°)
(7°)
D
— 252 —
TAVOLA P. — Archi semidiurni per il parallelo di Roma.
(Roma, Osservatorio del Collegio romano: g = 41° 53' 53", 6).
Arco Effetto Arco Arco Effetto Arco
Declinaz.| semidiurno della semidiurno Declinaz.| semidiurno della semidiurno
vero rifrazione apparente vero rifrazione apparente
00 Joi 200 m h cm 00 h m m mì ma
0 6 0,0 + 3,1 DDA 0 6 0,0 + 3,1 O Sol
— 36 + 36
— 1 5 56,4 SR 5 59,5 + A 6 3,6 3,1 3 Gu
- = 85 + 36
— 2 D 925 3,1 d 55,9 + 2 6 2 ohi 6 10,3
— 36 + 36
Sg) 5 492 3A 5 523 2090, 6 108 3,1 6 13,9
65 + 37
— 4 5 45,6 932 5 48,8 + 4 6 14,4 3,2 6 17,6
| — 36 + 36
— K 5 42,0 SR 5 45,2 + 5 6 18,0 3,2 CAZIA2
| — 36 + 36
eee 3,2 5 41,6 + 6 6 21,6 3) 6 24,8
| = 7 + 37
— 7 5 34,7 3,2 537,9 + 7 6 25,3 932 6 28,5
— N + 37
— 8 SERIO SI? 5 342 + 8 6 29,0 SR 6 32,2
297, + 37
— 9 DUI 3,2 5. 30,5 + 9 GS 32. 6 35,9
— + 37
— 10 5 23,6 a? 5 26,8 + 10 6 36,4 3} 6 39,6
— &y + 38
— 5 19,8 352 5234 + Il 6 40,2 3,2 6 43,4 |
— 38 + 38 |
— 12 5 16,0 3,9 5 19,3 < 9 6 44,0 3,3 6 47.2 Î
— SB + 39 |
— 13 DIRIIZIO 3,3 SIMS + 13 6 47,8 3,3 6 51,1
= 39 + 39
— 14 9 © 379 5 11,6 + 14 © DIL 3,3 6 55,0
= 5A + 40
215) DAN 3,3 DIVANI + 15 6 55,6 3,3 6 59,0 |
— 40 + 40
— 16 o 04 3,4 DMS NT + 16 6 59,6 94 TRO
— 40 ì + 41
— 17 4 56,3 3,4 4 59,7 + 17 NI 34 OMEIAA
— + 42
— 18 US 3,4 4 55,6 + 18 YU TS 94 Ti a
Sl i + 42 |
10) 4 48,0 3,9 4 51,5 + 19 712,0 9.5 EA |
— 42 + 43 |
2) 4 43,7 3,5 4 47,3 + 20 los 95 7198
SV49 3 + 44 |
SER | 4394 3,6 4 43,0 + 21 7 20,6 3.6 7 24,2 |
RSI ù + d4
—.99 4 35,0 3,6 4 38,6 + 22 725,0 3.6 7 286
SZ Ù + 46
— 923 4 30,5 3 4 34,2 + 23 70295 37 7 33,2
— 46 ì + 47
— 24 4 25:18 3A 4 29,6 + 24 2 3,7 TSI |
= 4% + 48
= 20) 424,1 3,8 4 24,9 + 25 7 38,9 3,8 TAZNI
— 48 + 50 |
— 26 4 16,2 3,9 4 20,4 + 26 7 43,8 3,9 VATI |
— 49 + 51
9 4 14,2 4,0 4 15,2 SNON 7 48,8 4,0 7 52,8 |
— 51 + 52
208 4 6,0 4,0 4 10,1 + 28 7 540 40 7 58,0 |
9? + 54 |
= % N00 4A 4 4,8 + 29 7 598 4,1 83,4 |
È sù + 56 Ì
— 30 319932 4,2 3 59,4 + 30 848 4,2 89,0 il
SULLA ELIMINAZIONE DELL’'AMMONIACA
NEI GROSSI ERBIVORI
MEMORIA
DEL
Prof. LODOVICO BECCARI
letta nella Sessione del 28 Maggio 1916.
È cognizione ormai bene stabilita che l’ orina degli animali erbivori, di reazione alcalina,
non contiene che minime tracce di ammoniaca, mentre quella dei carnivori e dell’uomo,
di reazione normalmente acida, contiene ammoniaca in quantità facilmente dosabili e che
rappresentano una percentuale notevole (dal 3 al 5% e più) dell’azoto totale orinario.
Ma mentre abbondano i dati analitici sicuri su questi ultimi, scarseggiano nella lettera-
tura fisiologica i valori relativi agli erbivori anche più comuni. Anzi è strano come un
falto così distintivo fra:i due gruppi di animali si basi sopra dati estremamente rari e
niente affatto controllati per una parle di essi.
"Così nel trattato di Neubauer e Vogel (Analyse des Harns III Aufl. 1898, S. 42)
si afferma semplicemente che « nell’orina del coniglio manca l’ammoniaca (Salkowski)e
così pure in quella del cavallo e del bue (Gumlich)». Secondo Kellner (citato in Ellen-
berger’s Handbuch. I, S. 379, 1890) nell’orina del coniglio i sali d’ammonio possono dirsi
mancanti, nel cavallo essi sono in quantità dimostrabile e constano in gran parte di car-
bonati.
Salkowski e Munk (Virchow's Arch. Bd. 71, S. 500, 1877 e Zeitsch. f. phys. Ch.
Bd. 1, S. 17) portano un solo dato analitico relativo al coniglio; in questo l’ ammoniaca
dell’orina delle 24 ore è di gr. 0,0065 pro Kilo (rapporto con l’ azoto totale = 1:54) mentre
nel cane è di gr. 0,043 pro kilo (rapporto c. s. = 1:15). i
Per il cavallo non possediamo che un risultato analitico di E. Salkowski; l’animale
era alimentato ad avena, fieno, crusca e paglia; l’orina (cc. 2055 pro die) aveva reazione
neutra ed il p. s. di 1046. Per il dosamento dell’ ammoniaca venne usato il metodo SchlOòsing
con acqua di calce e tenendo per 5 giorni la orina sotto la campana di assorbimento.
Eccone i risultati:
Azoto totale gr. 30,92 p. 1000 gr. 65,94 in tutto
Ammoniaca » 0,176 » » 0,357 »
L’azoto dell’ammoniaca rappresenta il 0,46%, dell’azoto totale. Mentre nell’uomo a
dieta mista il rapporto fra NZ, ed azoto totale è di 1:24, nel cavallo in esame è di 1:214.
Serie VII. Tomo II. 1915-1916. 34
— 254 —
Quanto ai dovini Ellenberger (I. c. I, S. 393) riferisce che Boussingault e
Rautenberg trovarono ammoniaca nell’ orina del bue nella quantità di 0,006 - 0,01 p. 100.
Molto più recentemente Salkowsky (Zeitsch. f. phys. Ch. Bd. 42, S. 213, 1914)
ha pubblicato un’ analisi dell’orina di vaccina alimentata a foraggio secco; da essa risulta
che l'azoto totale è di gr. 7,5 per 1000 mentre l’ ammoniaca è di 0,06-0,1 p. 1000 (rap-
porto 1:75 — 1:125).
Nella pecora non ho trovato che i seguenti dati di Henneberg relativi alle orine
di due montoni: azoio totale 13,7 p. 1000, ammoniaca 0,2 p, 1000. L’azoto ammoniacale
(0,164 p. 1000) rappresenta 1’ 1,2 ‘ dell'azoto totale (rapporto 1:84).
Tali i pochissimi dati frammentari sulla eliminazione dell’ ammoniaca negli erbivori.
Io ho voluto in parte colmare la lacuna eseguendo ripetutamente ricerche sull’orina di
bovini e di equini in condizioni tali, che mi permettessero (rarre conclusioni sicure sul con-
tenuto di ammoniaca preformala.
Come è noto, la determinazione esatta dell’ammoniaca preformata nell’ orina richiede
metodo e cautele, che possano in modo assoluto evitare da un lato ogni minima perdita,
dall’altro qualsiasi formazione accidentale di ammoniaca o per fermentazioni batteriche
dell’ orina .stessa o per alterazione di componenti azotati dovuta al metodo analitico. E ciò
è tanto più necessario nel nostro caso trattandosi di orine facilissime alla scomposizione
(per la reazione loro alcalina) e poverissime di ammoniaca preformata. Quanto al metodo
mi sono servito della distillazione nel vuoto a 4 40° usando lo stesso apparecchio, comodo
e sicuro, da me già impiegato per il dosamento dell’ammoniaca nel sangue (Bullet. delle
Sc. Med. 1905, p. 292):
L’orina degli erbivori, fortemente alcalina e ricca di carbonati, si presta alla distilla-
zione direttamente, cioè senza aggiunta di alcali (latte di calce, di magnesia ecc.) neces-
sarî a mettere in libertà l’ ammoniaca nelle orine acide. Il pallone in cui perviene a goccia
a goccia l’orina per il tubo capillare di accesso, deve essere ampio (circa ‘/, litro di capa-
cità) sia perchè si svolge (come per il sangue) abbondantissima schiuma sia perchè devonsi
distillare quantità notevoli di orina per cttenere una quantità dosabile di ammoniaca. Questa,
assorbita dalla soluzione acida contenuta nei collettori, viene dosata per titolazione col
metodo iodometrico. Non ho raccolta 1 orina degli animali in serbatoi per quanto accura-
tamente costruiti e puliti; credo che in tal maniera non si possano evitare inquinamenti
ed alterazioni dell’orina. I valori assoluti non hanno nel nostro caso maggior valore di
quelli relativi, e così ho preferito raccogliere un campione freschissimo di orina dosando
in esso tanto l’azoto totale col metodo Kjeldahl quanto l’ammoniaca, e stabilendo il rap-
porto fra i due valori ottenuti; contemporaneamente ho dosato la reazione dell’orina valen-
domi del tornasole e facendo la titolazione a caldo mediante soluzione deci-normale di
acido solforico.
Perciò ho raccolto l’orina durante la minzione spontanea dell’ animale, tralasciando di
accogliere il primo getto, che può trascinare con sè materiali estranei od alterati delle
vie orinarie più esterne. Questo mezzo mi ha servito bene nel cavallo e nella vaccina, ma
non è bastato a ovviare l'inquinamento dell’orina nel bue. Infatti l’orina del bue così rac-
i
= Id =
colta mi ha dato in due casi dei valori troppo superiori a quelli delle vaccine per non
dubitare tosto della presenza di ammoniaca di fermentazione; anche l’odore basta ad avver-
tire che l’orina è già inquinata, poichè essa sa di stalla. Ciò si spiega facilmente consi-
derando che l’orina nella minzione attraversa il lungo prepuzio e scorre lungo i peli abbon-
danti all’ orifizio di questo, onde, oltre caricarsi di germi, essa facilmente trascina già seco
prodotti di fermentazione dei materiali organici rimasti in sito nella minzione precedente.
Sarebbe necessario in questo caso il cateterismo della vescica, ma non ho avuto campo di
usarlo. Perciò quanto ai bovini mi sono limitato all’anallsi di orine di vaccine sane, in
buono stato di nutrizione. i
Premesse queste osservazioni raccolgo nelle due tabelle seguenti i risultati delle analisi.
NHs3 DELL’ORINA NEI BOVINI
“a ea = S SS
sr RE 5 Di n Sura
? SSR IIS = 7 Du S
Animale Pe ae Tr = 2 ROS]
do e IE 6 si £ SETE
2 3.| 859 È S > S (ERO
Ri < ù = CHE
cc. mer gi gr.
l - Vaccina lattifera d’anni 8 | 1033, - 6, 66 2 1,4 0, 0269 9,26 0,239 %
(foraggio verde) .
2 - Vaccinalattifera d’anni 7 | 1033, - 7,88 100 1,4 0, 0140 11,34 0, 101 %
3 - Vaccinalattifera d’anni 6
gestante da 5 mesi . . .| 1042,5| 6,46 50 1,03 | 0, 0206 18, 60 0, 124 %o
4 - Vaccinalattifera d’anni 6
gestante da 6 mesi . . .| 1029,-| 7,383 50 27. | O. 0254 7,66 0, 272 %
5 - Vaccina lattifera di razza
olandese see LOR 8,07 50 0,875 | 0,0175 9,2 0; 15619
NH: DELL’ORINA NEL CAVALLO
9 Di CS Sì) S 22
= 2 ia RE @ 3 = È S E
| ISS ie
Animale O iii = È z 2 Zi
FORZA EE a Gi :S FO
Au Zi Pa Pa D
cc. mar. gr. gr.
IRESCayvalllotsmeoane 02 DARA MISS 50 05250 AOA00 o MASSO 0, 096 %
(fieno e foraggio fresco)
2 Cavallo soc oe | 02 100 2. 08 0, 0203 | 19, 50 0, 085 %
(fieno e avena)
oeiCavall ole e 0802 560. 100 zz 0;,0127 Io RMONONIANO
(fieno e avena)
— 256 —
La notevole uniformità dei risultati ottenuti in ciascuna specie, ci permette di trarre
conclusioni generali sicure sulla eliminazione dell’ammoniaca in questi erbivori. In cifra
assoluta essa si riduce a pochi milligrammi per litro di orina (da 0,014 a 0,0269 nella
vaccina, da 0,0105 a 0,0203 nel cavallo) e sarebbe certamente in quantità non dosabile
coi metodi ordinari, se non si sottoponessero alla distillazione quantità molto notevoli di
orina (almeno 50 cc.). Anche il rapporto dell’azoto ammoniacale all’azoto totale è estre-
mamente basso, andando da 0,10 a 0,27 % nelle vaccine, e da 0,071 a 0,096 %, nel cavallo.
Confrontati coi dati rinvenuti nella letteratura, devo osservare che i miei risultati si
accordano abbastanza bene con quelli relativi ai bovini, pure mantenendosi ad essi infe-
riori; il che io credo non sia dovuto a perdite analitiche ma a maggiori cautele nell’ evi-
tare la formazione di ammoniaca per fermentazione o l’ inquinamento dell’ orina. Più note-
vole è la discordanza fra i miei risultati e quelli di Salkowski sul cavallo; i miei valori
sono quasi dieci volte minori di questi. Certamente la circostanza che il Salkowski dovette
raccogliere tutta l’orina delle 24 ore, ed il metodo impiegato al dosamento fanno ritenere
che si sia verificato un lieve aumento dell’ammoniaca per formazione successiva; ma qui
vi è una circostanza che può spiegare la differenza in più a carico dei risultati di Sal-
kowski senza ricorrere all'ipotesi di errori di analisi; ed è che l’orina di quel cavallo
presentava reazione neutra e non già alcalina come nei miei casi e nella più parte dei
nostri cavalli nutriti prevalentemente a fieno. Ciò può spiegare bene l’aumento della eli-
minazione, come si vedrà dalle considerazioni che seguono.
L’ammoniaca eliminata con l’ orina trae certamente origine dalla combustione dell’al-
bumina nell’organismo; infatti essa non scompare nemmeno nel digiuno più assoluto e,
d’altra parte, nei cibi non si contengono che quantità trascurabili di sali d’ ammonio. All’in-
contro l’ammoniaca, sotto forma di carbonato o di composti congeneri, trovasi costante-
mente nel sangue e nei tessuti; di questa ammoniaca circolante, che si produce nell’ orga-
nismo certamente in quantità notevole (sul quale punto però le idee sono ancora discordi),
una piccola parte passa nell’orina. Per molto tempo non si dette speciale importanza a
questo componente azotato dell’ orina. Ma il significato della eliminazione dell’ ammoniaca
per le orine ricevette nuova luce dall’osservazione di Walter (Arch. f. exp. Path. Bd. 7,
S. 148, 1877), il quale scoprì che nel cane in seguito alla somministrazione di acidi la quan-
tità dell’ammoniaca eliminata con l’orina aumenta. Fondandosi su questi risultati e sulle
osservazioni di Salkowski (Virchow’s Arch. Bd. 53, S. 1, 1871 e Bd. 58, S. 486, 1873), che
negli erbivori l’introduzione di acidi non determina un aumento dell’ammoniaca dell’ orina
ma fa crescere soltanto gli alcali della medesima, lo Schmiedeberg ammise che la
quantità dell’ammoniaca che abbandona con l’orina l'organismo fosse in relazione alla
quantità degli acidi che si formano nell'organismo stesso o che vi pervengono dall’ esterno.
Perciò l’ammoniaca, che si forma per l’ossidazione dell’albumina, acquisterebbe così
una funzione protettiva o svelenatrice come mezzo di neutralizzazione degli acidi, che costan-
temente si formano o che vengono introdotti nell’organismo, a seconda che gli alcali fissi
apportati dagli alimenti sono in quantità sufficiente a saturare completamente o incom-
pletamente i detti equivalenti acidi.
sà
— 257 —
In accordo con questa dottrina Salkowski e I. Munk(Virehow's Arch. BA. 71, S. 500
1877) osservarono che nel cane la somministrazione di alcali fa diminuire la eliminazione
dell’ammoniaca; infatti mentre per un vitto carneo il rapporto fra ammoniaca e azoto totale
orinario eva di 1:15, con lo stesso vitto addizionato di un sale alcalino (acetato di sodio)
tale rapporto scendeva a 1:57. Come nei carnivori, anche nell’uomo la eliminazione del-
l’ammoniaca aumenta per l’ introduzione di acidi (Hallervorden), diminuisce per quella di
alcali (Coranda). Hallervorden (Arch. f. exp. Path. Bd 12, S. 237, 1880) infatti osservò
su di sè quanto segue: in 5 giorni a diela costante si eliminarono con l’orina gr. 4,139 di
NH,; nei 5 giorni successivi, sempre con la istessa dieta ma introducendo inoltre gr. 5,62
di acido cloridrico, vennero eliminati gr. 6,194 di ammoniaca; l'aumento fu quindi di
gr. 2,035 (la quantità corrispondente all’ acido cloridrico introdotto sarebbe stata di gr. 2,6).
Molti altri sperimentatori confermarono questi risultati. Fra gli altri Haskins (Jow-n.
biolog. Cham. Vol. II, p. 216, 1906) ottenne il massimo della diminuzione dell’ ammoniaca
eliminata nelle 24 ore dall’uomo (da gr. 0,8 a gr. 0,115) somministrando citrato di sodio.
Molto istruttivi sono pure i risultati ottenuti da Kowalewsky e Salaskin (Zeitsch.
f. phys. Ch. Bd. 35, S. 552, 1902) sulle oche; mentre nelle condizioni ordinarie di alimen-
tazione l’azoto ammoniacale eliminato rappresenta il 15,8 p. 100 dell’azoto totale, e nel
digiuno scende al 14,98, invece somministrando 25 gr. di bicarbonato nelle 24 ore ad oche
digiunanti essi fecero discendere l’azoto ammoniacale al 4,51 p. 100, mentre per introdu-
zione giornaliera di 6 gr. di acido cloridrico tale azoto salì al 33,36 p. 100 di quello totale.
Così si spiega pure la piccola quantità di ammoniaca eliminata con l’ orina dagli erbi-
vori. È noto infatti che i cibi vegetali, pure contenendo sostanze proteiche, che, come quelle
dei cibi animali, producono nella combustione organica gli stessi radicali acidi (solforico,
fosforico), contengono pure in gran copia sali di acidi organici, i quali per ossidazione
nell’organismo si convertono in carbonati; e così forniscono al plasma gli alcali necessari
a saturare completamente gli acidi prodottisi nel metabolismo proteico, e spesso in misura
sovrabbondante; onde la reazione alcalina dell’orina.
Ma, quasi contemporaneamente, un’altro gruppo di fenomeni riguardanti il metabolismo
azotato venne a connettersi con la questione dell’ammoniaca dell’ orina e col comporta-
mento di questa sostanza nell’organismo. Voglio dire della formazione dell’ urea dai com-
posti ammoniacali.
La genesi dell’urea per traformazione diretta del carbonato d’ ammoniaca (teoria ani-
drica) venne sostenuta da Schmiedeberg (Arch. f. exp. Path. BA. 8, S. 1, 1878) in base
alle osservazioni sue e di Hallervorden (Arch. f. exp. Path. Bd. 10, S. 126, 1879) sul
cane, in cui il carbonato d’ammonio somministrato per bocca si trasforma in urea. Tale osser-
vazione fu confermata da Feder e Voit (ZeifscA. f. Biol. BA. 16, S. 179, 1880) nello stesso
animale e da Coranda (Arch. f. exp. Path. Bd. 12, S. 76, 1880) nell’uomo. I primi dati
sulla genesi dell’urea dall’ammoniaca si devono a Knieriem (Zeitsch. f. Biol. Bd. 10,
S. 263, 1874) secondo il quale nel cane ammoniaca introdotta come cloruro d’ammonio
veniva trasformata in urea. Salkowski non potè confermare tale asserzione, al contrario
osservò che la maggior parte del sale ammoniaco somministrato veniva eliminata immo-
— 258 —
dificata (Zeilsch. f. phys. Ch. Bd. 1, S. 1, 1876). Nel tempo stesso però questo autore trovò
che nel coniglio l’ammoniaca del cloruro d’ammonio scompare totalmente, mentre nel-
l’orina compare un aumento corrispondente di urea, che non è dovuto ad accresciuto con-
sumo di albumina poichè non si ha aumento della eliminazione del solfo. Veniva così dimo-
strato, già prima delle celebri osservazioni di Schmiedeberg e di Hallervorden,
che negli erbivori l’ammoniaca inirodotta viene trasformata nell’ organismo in urea.
Queste ed a.tre ricerche hanno dimostrato ormai sicuramente, che il carbonato di am-
monio ed i sali organici di ammonio (acetato, formiato ecc.), che nell’ organismo vengono
ossidati a carbonati, vengono tanto nei carnivori che negli erbivori trasformati in urea.
Le esperienze di Schroder (Arch. f. exp. Path. Bd. 15, S. 364, 1882) con la circolazione <
artificiale hanno posto fuori di dubbio che il fegato è sede prevalente di questa sintesi.
In tali condizioni la introduzione di ammoniaca non modifica affatto la eliminaaione di tale
sostanza per l’orina. Al contrario esiste una profonda differenza fra i carnivori e gli erbi-
vori rispetto ai sali ammoniacali di acidi minerali (cloruro ecc.) o di acidi organici che
non vengono ossidati (es: acido benzoico, Jolin); nei primi tali sali non sono trasformati
in urea e passano integralmente nell’orina facendo aumentare l’ammoniaca di questa; nei
secondi invece si ha egualmente formazione di urea, e questo viene spiegato ammettendo
che gli alcali fissi del plasma saturino l’acido minerale mettendo in libertà 1)’ ammoniaca,
che era ad esso legata, e che può così essere trasformata in urea.
Così anche il processo di trasformazione dei composti ammoniacali in urea, che ha
sopra tutto luogo nel fegato, può essere un fattore della eliminazione dell’ammoniaca con
l’orina.
L'introduzione di acidi minerali o la formazione di acidi non ossidabili completamente
può ostacolare direttamente il processo della formazione dell’urea ovvero può sottrarre
a questo processo una certa quantità di ammoniaca che serve a neutralizzare questi acidi
e viene con essi eliminala per l’orina. Anche sotto questo aspetto i carnivori e gli erbi-
vori sì differenziano assai; infatti nei primi (e così pure nell’uomo)la introduzione di acidi
minerali aumenta la eliminazione di ammoniaca con l’orina perchè l’organismo ha la pro-
proprietà di impiegare l’ammoniaca proveniente dalla demolizione delle proteine alla neu-
tralizzazione di tali acidi, e così questa risparmia la sottrazione degli alcali fissi, che è
molto perniciosa. Agli erbivori manca questa facoltà; in essi gli acidi minerali vengono
salurati dagli alcali fissi, e ben presto la somministrazione di acidi minerali riesce grave-
mente deleteria in tali animali. Tale diversità, ammessa dagli autori come carattere distin-
{ivo fra ì due gruppi di animali, non è forse così assoluta come si ritiene. In tempi più
recenti alcuni autori, Winterberg (1898), Eppinger (1906), avrebbero dimostrato che
anche nel coniglio in seguito all’introduzione di acidi l’ eliminazione dell’ammoniaca può
crescere notevolmente purchè mediante l’alimentazione venga reso disponibile una quan-
tità di ammoniaca sufficiente alla neutralizzazione di quegli acidi; e, che per converso, nel
cane viene a perdersi la funzione di neutralizzazione degli acidi mercè l’ammoniaca quando
l’animale riceva un vitto povero d'azoto. Tali risultati però sono stati criticati e la que-
stione non può ritenersi peranco chiarita nè risolta.
—_ 260.
Giova pure notare che la funzione dell’ammoniaca quale neutralizzatore degli acidi
non ossidabili introdotti nell'organismo o con gli alimenti o sperimentalmente non è così
assoluta come farebbe ritenere la dottrina di Schmiedeberg. Gaethgens (Zeilsel. f.
phys. Ch. Bd. 4, S. 36, 1880) ha dimostrato che, per la somministrazione di acidi, oltre
l’ammoniaca aumentano pure gli alcali fissi dell’orina del cane. Lo stesso fatto è stato
provato nell’uomo da Dunlop (Journ. of Phys. Vol. 20, p. 82, 1896) e da Biernacki
(Munch. med. Woch. 1896); Limbeck (Zeit. f. klin. Med. Bd. 34, p. 419, 1898) per
introduzione di acidi (lattico e cloridrico) nell'uomo ha constatato insieme all'aumento del-
l’ammoniaca orinaria del 16-19 °/,, un’accresciuta eliminazione degli alcali fissi che va dal
39 al 40%, provenienti non solo dal sangue ma anche da tessuli importanti quali le ossa
e i muscoli in alto grado. Anche il calcio ed il magnesio prendono parte a questo pro-
cesso di neutralizzazione degli acidi.
Ben presto quesio argomento è divenuto oggetto di numerose ricerche anche nel campo
patologico, dove si è chiaramente dimostrato un rapporto .fra l’acidosi che accompagna
certe malattie (diabele) e l'aumento dell’ammoniaca eliminata con l’orina: Ma anche in
questi casi è molto difficile stabilire quanta parte possa prendervi primitivamente |’ alte-
rato processo di formazione dell’urea dai composti ammoniacali.
Evidentemente, nelle condizioni fisiologiche, tanto l’ ureopoiesi quanto la funzione pro-
teltiva (antiacida) dell’ammoniaca devono essere in dipendenza streltissima dei rapporti
esistenti fra anioni e cationi del plasma e dei liquidi che bagnano gli elementi, che pren-
dono parte a tali processi. La determinazione comparativa della concentrazione degli Z-ioni
coi metodi più delicati, quali l’ elettrometrico, potrebbe recare molta luce su tale argo-
mento; ma finora non esistono ricerche in tale direzione.
Negli erbivori, per la sovrabbondanza degli alcali circolanti, si verificano le condizioni
più favorevoli al processo di trasformazione dell’ammoniaca in urea; perciò si potrebbe
ritenere come molto verosimile che la scarsissima eliminazione di ammoniaca con l’orina
dipendesse in gran parte da una metamorfosi più completa e più rapida di questa in urea.
Per risolvere questo punto ho determinato la quantità dell’ammoniaca del sangue delle
specie esaminate, parendomi che da essa potesse dedursi almeno in modo relativo |’ inten-
sità del processo di trasformazione in urea. Ho proceduto col metodo, già da me usato e
descritto, della distillazione nel vuoto a + 40°; il sangue veniva raccolto direttamente dai
vasi dell’ animale e defibrinato con bacchette di vetro, indi sottoposto immediatamente
all’analisi. Riferisco i dati ottenuti nei bovini e nel cavallo (vedi tabella a pag. seguente):
Come si vede i dati sono molto concordi e ciò parla a favore dell’ esattezza del metodo
di dosamento. Ma ciò che interessa è che la quantità dell’ammoniaca del sangue non è
punto inferiore a quella trovata nei carnivori coi migliori metodi di analisi, e specialmente
nel cane, il quale presenta spesso le cifre più elevate dell’ammoniaca orinaria. Infatti nel
mio lavoro citato ho trovato una media di mgr. 0,79 di NZ, per 100 gr. di sangue nel
cane; gli allievi di Nencki, Horodynski, Salaskine e Zaleski trovarono una media
anche più bassa (mgr. 0,41; da un minimo di mer. 0,20 ad un massimo di mgr. 0,65 °/). Picci
nini col mio metodo (Boll. d. Sc. Med. 1905) ha trovato nel cane mgr. 0,80 - 0,60 - 0,51,
— 260 —
nel coniglio mgr. 0,85 - 1,1% di sangue; in un lavoro posteriore lo stesso autore ha tro-
vato nel cane una media di mgr. 0,70 p. 100 (ArcA. d. Farmacol. e Sc. Aff. 1906, p. 36 - 54).
Adunque non può essere la deficienza di ammoniaca nel sangue la causa diretta della
scarsa eliminazione di questa sostanza negli erbivori, nè, quindi, il processo di trasforma-
zione dei composti ammoniacali in urea, più completo in questi animali che nei carnivori
NH; DEL SANGUE
iS Sk
Ore [asi =
Quantità 5 = 50
Animale di sangue 5 2
Co) um 2
analizzata tà =
ana
gu. mer. mgi.
Biesse 156, 5 lo 52 0,97
sangue
carotideo
Giovenca (4 anni) 203, 5 1,62 0, 80
sangue
carotideo
Cavallo (0) o e 137 1,05 0,76
sangue
giugulare
(1) Il cavallo è lo stesso a cui si riferisce 1’ ana-
lisi dell’orina N. 2.
nei suoi risultati finali, non pare modificare affatto la proporzione dell’ ammoniaca del
sangue circolante. Questa non pare quindi nemmeno in relazione con la maggiore o minore
ricchezza di alcali fissi del plasma; eppure il suo passaggio nell’ orina dipende certamente
da rapporti fra cationi ed anioni del plasma, che determinano poi la reazione dell’ orina.
Io mi convinco sempre più che la eliminazione dell’ ammoniaca per l’ orina viene regolata
da condizioni di equilibrio fra 4'- ioni e OH'-ioni, che si esercitano sopra tutto a livello
del rene, ed in questo senso intendo studiare la questione con ulteriori ricerche.
Istituto di Fisiologia della R. Università
diretto dal Prof. P. Albertoni.
— Sha
SUL SIGNIFICATO DELLA TAVOLETTA PREISTORICA
fui ao kRoenne
=
NOTA PALETNOLOGICA
DEI,
Prof. DOMENICO MA JFOCCHI
DIRETTORE DELLA CLINICA DERMO-SIFILOPATICA NELLA R, UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
letta nella Sessione del 28 Maggio 1916.
È sempre difficile l’interpretazione di usi, costumi e. pratiche nella preistoria, dovendo
noi fondare il nostro giudizio sopra rozzi manufatti litici, ossei, cornei, ovvero sopra rap-
presentazioni figurative, talvolta guaste e frammentarie.
In siffatte condizioni si comprende facilmente che non sempre è dato di cogliere il
significato vero di quanto fece e inventò l’uomo in quelle lontanissime età: nè ci deve
meravigliare, se anche illustri Paletnologi si trovarono dubbiosi in questo genere di ricerche,
e se talvolta demolirono quello che già avevano edificato.
Non ostante, quando si avesse costanza di reperti nelle diverse stazioni preistoriche
di un determinato periodo e, soprattutto, quando siffatti reperti ci offrissero disegni rap-
presentanti la stessa scena, e da ullimo quando qualche circostanza speciale favorisse una
indicazione ristretta ad un certo ordine di fatti, allora si potrebbe tentare 1’ interpretazione
di un prodotto figurato dalle mani dell’uomo preistorico.
Questo tentativo, non so, se possa farsi per la favoletta preistorica, sulla quale vedesi
effigiata una donna vicino ad una renna. Za femme au Renne, come la chiamarono i
Paletnologi francesi, attira anche oggi l’attenzione dello studioso, perchè può avere una
significazione d’un certo valore scientifico, sia per lo stato in cui trovasi la donna, sia per
la postura, che questa occupa.
Per stabilire una significazione accettevole è d’uopo vedere cosa contiene la tavoletta
sopramentovata.
Descrizione della tavoletta preistorica.
La tavoletta è fatta con corno di renna, e non, come alcuni han creduto, colla sca-
pola dello stesso animale (1). Fu trovata a Laugerie Basse e descritta per la prima volta
(1) E. Du Cleuziou. — La creazione dell’uomo e i primi tempi dell’umanità. ("l'raduzione
con note del DIM Diego Sant'Ambrogio). Milano 1887.
Serie VII. Tomo III. 1915-16. 35
— 0g =
dal sacerdote Landesque, e poi ridescritta dall’ illustre Piette (insieme ad altri oggetti
preistorici) in una dotta memoria, pubblicata nel giornale « ZL’ AntAropologie », dalla quale
possiamo riassumere la seguente breve descrizione (1).
Fig. 1
Le due figure della tavoletta sono incise col bulino e, come ben osserva il Piette,
il disegno è un lavoro d’arte assai mediocre.
La donna giace distesa presso la renna, e mentre questa trovasi in un piano arferiore,
la donna è in un piano posteriore. La testa della donna e tutto il corpo della renna man-
cano per un’antica rottura: anzi della renna rimangano i soli arti posteriori, che sono abba-
stanza bene disegnati a differenza della figura della donna. Questa ha il ventre assai volu-
minoso; il che ha fatto credere, e con ragione, ad una gravidanza molto avanzata. Il sesso
è appena indicato con un semplice tratto lineare. Il petto è convesso, il braccio è gracile
e va diminuendo di spessezza dalla spalla al gomito. Le natiche sono spesse, ma senza
steatopigia. Le coscie hanno presso a poco il contorno esterno di quelle della Venere di
Brassempouy, ma non sono convesse nel davanti, forse per un artificio dello stesso incisore,
il quale, volendo vendere visibili gli organi sessuali (che non si dovrebbero vedere nella
posizione che tiene la donna), non ha voluto coprirli col polpaccio erurale, e perciò egli lo
ha soppresso. Il sistema peloso è molto sviluppato: i peli sono figurati con tratti molto
lunghi sopra le coscie, e corti sopra il monte di Venere; e questo vedesi limitato da una
linea trasversa molto ben distinta: i peli sono disposti in striscie sopra il ventre e sopra
il petto, e queste striscie sembrano indicare parti più oscure: quelle invece della Venere
(1) Ed. Piette. — La Station de Brassempouy et les Statuettes humaines du Periode Glyptique.
(L’AnrHRoPoLOGIE. l. VI. An. 1895, Paris).
Id. — Classification des sediments formes dans les Cavernes pendant V dge du Renne (id. p.129 pl. I°).
Lo stesso Autore riproduce la tavoletta nel suo AtLantE (L’A4rt pendant l dge du Renne, 1907,
tav. XXVII e XXVIII).
— 263 —
di Brassempouy non sono dirette nel medesimo senso. Za femme au Renne è ornata di
un collare di perle e di sei braccialetti al braccio sinistro.
Prima di chiudere la descrizione della tavoletta, devesi rilevare che, tenuto conto della
lunghezza degli arti posteriori della renna, la figura di questa è disegnata in proporzioni
assai grandi, in confronto a quelle della donna: e in fine, mancando della renna tutto
quanto il corpo, non possiamo determinare con sicurezza la posizione ch’ essa deve avere
in correlazione colla donna. Su questo punto tornerò più tardi.
Premessi questi brevi cenni descrittivi, quale significazione può darsi alla tavoletta
della Femme au Renne? E dapprima, rappresenta un amuleto, o un talismano ?
Dell’amuleto non riveste i caratteri esteriori: dapoichè la tavoletta di corno di renna,
sebbene sia giunta fino a noi rotta, nullameno, anche come frammento, è, a mio avviso,
troppo grande per essere portata come amuleto: senza dire che gli amuleti hanno d’ ordi-
mario in un punto del loro contorno un piccolo foro per essere appesi al collo. Del resto
ai primitivi amuleti preistorici, ossei, cornei e litici, d’ ordinario non sì dava un carattere
figurativo; serva di esempio l’ amuleto cranico che era portato dall’ uomo neolitico, come
preventivo dell’accesso epilettico (Broca): parimenti servirono allo stesso scopo le piccole
ascie litiche, sulle quali soltanto più tardi fu scolpito qualche tratto di figura animale.
Per le stesse ragioni la tavoletta cornea sopradescritta non si presta per essere qua-
lificata come talismano portatile, o da appendersi alle pareti delle caverne, alle quali
spesso si appendevano oggetti di protezione dall’ uomo preistorico. Comunque, pure ammet-
tendo che la tavoletta sopradescritta rappresenti un amuleto, o un talismano, è d’ uopo
sempre stabilire quale significato debbasi attribuire alla scena figurata sulla medesima. E
sotto questo rispetto è d’uopo studiare l’ importanza che può avere ognuna delle due figure:
la renna e la donna incinta.
Se ci riportiamo al giudizio dell’abate Landesque, lo scopritore della tavoletta sopra
mentovata, dovremmo ammettere una interpretazione, dichiarata da Cleuziou troppo ero-
tica, parto di una fantasia, che oltrepassa ogni limite. Infatti il Landesque suppone una
passione brutale nella donna incinta coricata presso ad un quadrupede inoffensivo, che
bruca tranquillamente l’erba ai suoi fianchi. Siffatta supposizione appare alla mente di
Cleuziou come mostruosa, e quasi redarguisce il paletnologo francese, affermando che
nella femme au renne non si può vedere altra cosa fuori che l’ addomesticamento forzato
dell'animale per opera dell’ essere umano, vivente a quell’ epoca.
La critica di Cleuziou appare giusta quante volte si ammetta che la renna sia stata
già addomesticata all’epoca magdaleniena. Il che non solo è verosimile, ma non v° è alcuna
prova in contrario, perchè l’uomo fosse pervenuto ad ottenere quest’ intento con poca fatica,
trattandosi di un animale assai docile.
Tuttavolta anche l’ ipotesi del Cleuziou, colla quale egli ritiene che la figura della
renna, in presenza della donna incinta, ci stia a significare l’ addomesticamento forzato del-
l’animale, non può soddisfare interamente chi si pone ad investigare la scena delineata
nella tavoletta preistorica.
— 264 —
Su questo punto della questione non mi fermo per ora: intanto è ovvio domandare, se
non era più semplice esprimere l’ addomesticamento della renna figurandola in mezzo alla
famiglia dei magdalenieni. Perchè effigiarla accanto ad una donna incinta? Bisogna dunque
venire ad allre congetture.
Ora se per poco noi ci fermiamo a riguardare la renna, a tutta prima ci verrebbe
fatto di pensare che il fine recondito del disegno di essa fosse da ricercarsi in una magica
evocazione, come direbbe Salomon Reinach: è noto infatti che l’uomo preistorice all’età
della renna pigliava assai di frequente dal mondo animale i motivi della sua arte deco-
rativa: ecco perchè in numero assai grande trovansi sulle pareti delie caverne dipinte, o
incise, figure di animali, ma esclusivamente di quelli che servono di nutrimento all’ uomo;
infatti mai sull’ apertura, o sulle pareti delle caverne dei trogloditi si scorgono rappresen-
tati animali, feroci, o velenosi, come i felini e i serpenti: e mentre questi erano temuti e
perciò allontanati, quelli invece (come osserva l'illustre paletnologo S. Reinach) venivano
figurati nelle caverne, affinchè fossero attratti in maggior numero presso i dintorni delle
medesime per una specie di magia omeopatica (Hirne): in altri termini la rappresenta-
zione di questi animali desir'ables aveva, come funzione e come fine ben determinato, l’assi-
curarsi il nutrimento: ed ecco perchè frequentissimo è .il disegno della renna nelle caverne
e su lamine ossee e cornee.
Ma nella figura della renna spicca questo intendimento del bulinatore preistorico? Non
sembra verosimile che questo sia stato lo scopo del modesto artefice: in quanto che nella
tavoletta cornea non è effigiata soltanto la renna, ma ancora la donna incinta; e se la
tavoletta avesse avuto |’ ufficio di una invocazione magica, che è quanto dire di attrazione
per gli animali utili, allora l’artista avrebbe bulinato accanto alla renna, il cervo, il cavallo,
n— 0
— 2609 —
il toro selvaggio: in una parola tutti quegli animali che servivano di nutrimento all’ uomo
preistorico.
Dunque non è la renna la figura principale e dominante della scena, disegnata sulla
tavoletta cornea, perchè appunto non é quella la cagione sopraesposta, per la quale venne
essa rappresentata.
Rimane pertanto la figura della donna a rappresentare il motivo fondamentale del
disegno: e che ciò sia vero basta soltanto riflettere alla condizione fisiologica speciale, in
cui trovasi la donna stessa: dappoichè, come si è detto più sopra, è dessa in stato di
avanzata gravidanza, come si può rilevare dal volume del ventre, e più ancora può dirsi
prossima al momento più angoscioso per lei, e più emozionante per chi le sta d’intorno,
al momento, cioè, del parto. Questa deve ritenersi la intenzione vera, per la quale il buli-
natore preistorico effigiò sulla tavoletta di corno di renna la donna incinta, colpito forse
dalle angoscie di un parto laborioso.
Ma rimane sempre da stabilire quale sia in questa scena la parte che fa la renna, e
quale correlazione vi sia fra essa e la donna incinta.
E quì è d’ uopo tornare sulla postura che occupa la renna rispetto alla donna incinta.
Ma della renna gli unici avanzi sono gli arti posteriori, dai quali però si può riconoscere
la sua posizione e intravedere forse l’atteggiamento suo. Come si è detto, guardando le zampe
della renna, si trova che questa sta eretta, e in un piano anteriore, laddove la donna sta
distesa e in un piano posteriore; ma, tenuto conto della lunghezza delle zampe posteriori,
la renna (come giustamente osservano tutti) è rappresentata in proporzioni assai più grandi
di quelle della donna.
Infatti se si prova a integrare il corpo della renna, questa sorpassa molto al di là
la testa della donna e in pari tempo si ha la conferma della sua postura rispetto al piano
occupato dalla donna stessa. Ma ciò, che importerebbe conoscere con sicurezza, sarebbe
qui, se la renna trovisi disegnata in riposo, o in movimento, vale a dire, nell'atto di
sollevare le gambe anteriori per compiere un salto. Sebbene non sia facile stabilire questo
speciale atteggiamento dell’ animale, nulla meno, ammettendo per un momento che le
zampe posteriori della renna fossero puntate al suolo, ne consegue che le zampe anteriori
potrebbero anche essere sollevate più o meno dal suolo stesso, come nell’atto di compiere
un salto vicino alla donna incinta. Quando ciò si potesse stabilire con sicurezza, si avrebbe
un altro elemento per dare la significazione alla presenza della renna rispetto alla donna
incinta.
Trovandoci di fronte a queste due possibilità, vediamo brevemente quale sarebbe la
rappresentazione figurativa della tavoletta sudescritta. Ammettendo la renna allo stato di
riposo, la tavoletta preistorica ci potrebbe rappresentare una scena domestica, nella quale
si vede una donna vicina al parto presso alla renna, animale caro alla tribù dei trogloditi.
Qui la renna sarebbe la fida compagna della famiglia anche negli avvenimenti più solenni,
ovvero figurerebbe come l'emblema della razza, e come suol dirsi il Toten. Tale inter-
pretazione si avvicinerebbe a quella del Cleuziou.
— R66 —
Rispetto alla seconda, ritenendo l’animale, colto dall’artista nel suo movimento, si
avrebbe nella tavoletta cornea la rappresentazione di una pratica volgare, basata questa
sulla emozione, che proverebbe la donna incinta, nel vedere la renna in ‘atto d’impen-
narsi, o di spiccare un salto vicino a lei, o sopra di lei, pratica destinata ad impressionare
la donna e a renderne più agevole il parto.
Ambedue queste congetture sono verosimili per chi riguarda le due figure frammen-
tarie della tavoletta preistorica. Ma sta tutto qui nel vedere, se si hanno fatti, sia nella
preistoria, sia fra i selvaggi viventi, che stiano più in appoggio dell’ una, anzichè dell’ altra
congettura.
Che l’emozione sia stato un espediente, usato per favorire il parto fin dalla più remota
età, alcuni scrittori antichi lo attestano, e alcuni anche oggi lo confermano, avendo visto
tale usanza presso popoli civili e selvaggi. Certamente che neppure | uomo preistorico
sfuggì all'influenza delle emozioni (1).
(1) Su questo proposito basterà leggere i Principi di Sociologia dello Spencer, nei quali Egli
tratta l’argomento, facendo rilevare, che l’uomo primitivo, come il selvaggio vivente, obedisce a delle
emozioni dispotiche: esso, nella sua intensa impressionabilità, tiene una condotta esplosiva, caotica, per
la quale è condotto rapidamente a determinate azioni. Herbert Spencer. Principes de Sociologie.
‘om. I° Paris 1878. (Cap. VI. L’Zomme primitif-émotionel pag. 78).
— 267 —
Non è pertanto inverosimile che davanti alla donna, in preda all’angoscia di un parto
laborioso, anche l’uomo delle caverne abbia cercato qualche mezzo (sia pure il più semplice)
per diminuirne le sofferenze, accelerando con qualche pratica l’ espulsione del feto. E se
la tavoletta della Femme au Renne non fosse giunta a noi in condizioni frammentarie,
forse avremmo potuto stabilire, per mezzo di essa, se la donna incinta fosse posta sotto la
renna, già impennata, per ricevere una subita e forte emozione.
Non potendo far ciò direttamente, sarà opportuno citare in proposito qualche esempio,
riferentesi a questo sistema emozionale, in voga presso alcune genti anche oggi, quando fia
d’uopo sollecitare un parto stentato.
È costume presso i Calmucchi (1) di spaventare la donna vicino al parto con improvvise
detonazioni: la partorieute, se trovasi in condizioni difficili, è assistita dalla levatrice, la
quale, allorchè vede la testa del feto in vagina, cerca di reggere il perineo: ad un dato
momento fa un segno ad alcune persone nascoste e armate di fucile, perchè facciano fuoco.
Alla improvvisa detonazione la donna espelle il feto. Siffatto costume esiste ancora in Abis-
sinia, e non è raro trovarne qualche esempio anche presso di noi.
Ma più affine alla interpretazione della scena, figurata nella tavoletta sopradescritta,
è il costume presso i popoli Comanci (2) di esporre la partoriente ad una forte impressione,
mercè il salto di un cavallo sulla sua persona: ed ecco quale sarebbe il processo messo
in opera da questi selvaggi. La donna partoriente verrebbe portata e distesa orizzontal-
mente nel mezzo di una pianura: intanto un guerriero illustre, montato sopra il più focoso
corsiero, e vestito di tutta la sua armatura di guerra, si spinge a grande galoppo diret-
tamente sopra il corpo della donna: ma all’ ultimo momento, quando la donna sta per essere
schiacciata dai piedi del cavallo, il guerriero si rivolta indietro. Con questo terribile appa-
rato scenico e sotto questa profonda emozione si determina l’ espulsione del feto (3).
Costumi analoghi, mantenuti da antiche superstizioni, e aventi per scopo di provocare
forti impressioni nelle partorienti, si trovano anche oggi presso il volgo in alcune nazioni
d’ Europa, specie in Russia, come pure regnano in certe regioni dell’ America e dell’ India.
Sono forse queste altrettante sopravvivenze, aventi la loro origine molto lontana nella storia
dell’ umanità.
(1) KaLmougs (Kamyk) una delle più grandi divisioni della razza Mongola: essi ne formano la
branca occidentale: abitano all’O. tra il Jenisséi superiore, e il Don, e sono la maggior parte sotto
l'autorità dell'Imperatore di Russia. — Now». Diction. Geogr. Univ.: M. Vivien de Saint-Martin.
1879.
(2) Popolazione del Texas occidentale (Reg. Merid. degli Stati-Uniti) sui confini del Nuovo Messico
e della Prov. Messicana, CoaQuila. I tratti di questi popoli selvaggi sono quelli della razza, che noi
qualifichiamo dei Pelli-Rosse, con fisonomia fortemente caratteristica. La loro intrepidezza e le loro
abitudini di scorrerie e di saccheggi ne hanno fatto il terrore dei popoli finitimi e particolarmente dei
Messicani di Rio Grande. Sono soprannominati i Tartari del deserto : essi sono veri Centauri (Nouv.
Diction. de Géogr. Univ.).
(3) G. J. Engelmann. — Za pratique des Accouchements chez les peuples primitifs. Étude
d’Ethnographie et d’Obstétrique — (Edition francaise remanite et augmentée par le DI Paul Rodet.
Paris 1886).
— 268 —
Comunque, per la significazione della tavoletta, che porta incisa la Femme au Renne,
sarebbe d’uopo avere in mano altri documenti della stessa epoca per compararli fra di
loro (1).
Ma questi, per quanto concerne figure umane, sono piuttosto scarsi, e artisticamente
sempre inferiori a quelli rappresentanti disegni di animali: e di più quando si vogliono
trovare colla stessa rappresentazione scenica, ch’ è quanto dire nelle stesse reciproche con-
dizioni della donna e della renna, non ci vennero ancora forniti dalle scoperte paletnolo-
giche; non ostante ciò noi possediamo alcuni disegni dell’ arte quaternaria, nei quali vedesi
effigiata la donna nuda colle anche molto sviluppate, e in posa da partoriente (?) colle
gambe flesse e posta come sopra un piano inclinato. Basterà guardare nel Repertoire de
l Art quaternaire (S. Reinach) 1913, la Fig. 3° pag. 100 per avere questa impressione.
Non mancano ancora altri esemplari figurati di donne con ventre tumido, almeno appa-
rentemente incinte, come si può scorgere in alcune delle statuette, trovate nella grotta
di Menton (Repertoire, pag. 25. ); ma siamo ben lontano dalla scena caratteristica della
tavoletta colla Femme au Renne.
(1) In un argomento, così arduo come questo, ho voluto anche sentive il pavere dell’illustre
prof. Pigorini; e questi (che fu sempre gentile con me ogni volta che lo interpellai su questioni di
preistoria) non si mostrò molto inchinevole a dare una significazione specifica alla tavoletta della Femme
au Renne, basando il suo modo di vedere su validi argomenti. Trattandosi del giudizio di un così emi-
nente Paletnologo, non posso dispensarmi dal riferive un brano della sua interessante lettera:
Koma, 27 Novembre 1916..... « Se le due figure della donna incinta e del renne formino
« realmente « un tableau » come ha scritto il Piette, e se la loro unione possa esprimere qualche
« pratica per agevolare il parto, come Ella non crede si possa a priori escludere, io proprio non saprei
« dire. Guardando al materiale figurato che conosciamo del periodo del renne, io ne ho questa impres-
« sione, che le popolazioni di quella lontana età, come si verifica fra i viventi iperborei, essi pure
« compagni del renne, sentissero il bisogno di rappresentare figure umane di animali su ciò che loro
« apparteneva, senza un concetto vero e proprio di comporre delle scene; dirò anzi che sentissero il
« bisogno di coprire, pur che fosse, i loro oggetti con riproduzioni di esseri viventi, ma senza rapporto
« alcuno fra l’uno e l’altro. Veda, ad es., quel frammento di uno dei così detti « bastoni di comando »
« (per me capestri), pubblicato da Mortillet (Muse Preristorique, tav. XXVII, fig. 198), oppure il
« corno inciso dato dal Piette (L’ Art pendant l’ dge du renne, tav. XXXIX, fig. 1, 1%, e tav. XL fig. 4).
« Nel primo caso chi potrebbe, senza abbandonarsi ai più arditi voli della fantasia trovare il signifi-
« cato di una incisione, nella quale si trovano riunite due teste di cavalli, un serpente e un uomo nudo
« che tiene un bastone sopra una spalla? Nel secondo caso abbiamo intere figure di renni, e nei vani
« fra le loro gambe sono incise immagini di pesci. A trovare rapporto fra il pesce e il renne, credo
« che non sia cosa facile. Rimane invece, almeno a me, l'impressione, che non garbasse all’ incisore
« di lasciare dei punti senza decorazioni nel corno, e per toglierli vi rappresentò altri animali, quali
« per forma e dimensioni gli convenissero ».
Giustissime osservazioni queste del prof. Pigorini, che io non oserei di contradire, specie per gli
esempi, da esso opportunamente citati, e per altri ancora che si trovano nel Repertoire de l'Art qua-
ternaire di S. Reinach.
Non ostante ciò (come ho detto in principio) ho voluto tentare siffatta interpretazione sopra la
tavoletta della Memme au Renne, incoraggiato in ciò, sia dall’opinione del celebre Piette che la
considera come un tableau, sia dalla dotta parola del Ch.mo prof. Capellini, il quale, dopo la lettura
del lavoro, ha trovato la significazione, da me sopraesposta, non indegna di essere mandata a stampa
accanto alle altre interpretazioni sullo stesso argomento.
vczoad
— 269 —
E d’uopo pertanto che la copiosa suppellettile, rinvenuta dai paletnologi nel periodo
glittico della preistoria, venga un giorno raccolta (come in gran parte ha fatto il Piette
nel suo grande A/lante « l Art pendant l’ dige du Renne 1907 ») in un CORPUS GLYPTICUM
PRAEHISTORICUM UNIVERSALE, perchè si possa con questo, e sulla guida del metodo compa-
rativo, illustrare nella loro più genuina significazione molte rappresentazioni figurative di
scultura, pittura e bulinatura, che l’uomo: delle caverne creò in quelle remotissime età:
e in pari tempo ci sarebbe dato di conoscere meglio i suoi costumi, e di penetrare più
profondamente nella sua psiche.
Che se questa proposta fosse accolta ed attuata dai Paletnologi, non mediocre van-
aggio potrebbe venirne anche alla medicina della preistoria.
Serie VII. Tomo III. 1915-16. 36
Ai
4 GU,
San
DI
I MAMMIFERI FOSSILI
DELLA CAVERNA DI MONTE CUCCO
=="
MEMORIA
DEL
Prof. VITTORIO SIMONELLI
letta nella Sessione del 28 Maggio 1916.
Nel calcare neocomiano del Monte Cucco — un monte posto a cavaliere tra Vl’ Um-
bria e le Marche, subito accanto al nodo del Catria — si addentra per più di sei-
cento metri una stupenda caverna : sprofondante come un pozzo all’ ingresso, che resta
circa 1410 metri s. l. d. m.; strozzata, a luoghi, in cunicoli quasi impervii, a luoghi
sfogata in sale di oltre cinquanta metri d’ altezza, superbamente decorate di stalattiti
e di stalagmiti,
Il merito di aver, mi si consenta la frase, messa in valore quella maraviglia
di natura, spetta al Dott. Giambattista Miliani di Fabriano; un uomo che ha
fatto e fa onore alla sua regione nativa non soltanto come industriale e come depu-
tato al Parlamento; ma anche come alpinista e speleologo fra i più appassionati e
più colti. |
Racconta il Miliani (1) che quando si avventurò la prima volta dentro la caverna
—- nel giugno del 1883 — credeva « di avanzare per anditi sconosciuti »; e fu
« abbastanza maravigliato di scorgere qua e là, sulle pareti, dale e nomi chiara-
mente incisi, o scritti col carbone ». Più frequente di ogni altro, segnato anche nelle
più intime latebre della caverna, un nome, scritto a caratteri gotici « Ludovico »
seguito da una data — 1551 — con accosto « una sigla formata da una croce su
cui era innestata la leftera S. »
Ma nella caverna di Monte Cucco il Miliani trovò non soltanto le orme di
questo Ludovico, che « se non fu il primo a visitarla, fu il primo che la percorse
con intelletto d’ amore » ; e che certo merita, per anzianità, un posto onorevolissimo
nella storia della Speleologia. Trovò — durante un’ altra visita fatta alle caverna
nel 1889 — un blocchetto di calcare stalagmitico, con dentro impigliati frantumi
d’ ossa lunghe e qualche dente. Ebbe la buona idea di sottomettere il blocchetto
(1) La Caverna di Monte Cucco. Boll. del Club Alpino Italiano, N. 58, Vol. XXV. Anno 1891.
Torino 1892,
— 272 —
all’ esame del Sen. Capellini, e questi subito riconobbe appartener tali avanzi ad una
specie estinta e non comune di orso; all’ Ursus mriscus Cuv., segnalato per la prima
volta dal Goldfuss nella caverna di Gaylenreuth (1).
Calorosamente incitato dall’ insigne paleontologo di Bologna, il Miliani intra-
prese nelle caverne di Monte Cucco nuove, diligentissime esplorazioni, volte in parti-
colare alla scoperta di altri avanzi animali. Ad una di quelle esplorazioni, tutt’ altro
che agevoli, fatta nel settembre del 1890, volle partecipare il Capellini in per-
sona : allora ed oggi sempre giovanilmente alacre, come era nel 1858, quando esu-
mava gli ossami dell’ Ursus minor nella caverna di Cassana (2).
Frutto delle esplorazioni onde ho fatto cenno fu una raccolta, che oggi figura
onorevolmente nel Museo geologico dell’ Università di Bologna; raccolta già parzial-
mente illustrata dal Capellini, prima con una nota « Sulla scoperta di una caverna
ossifera a Monte Cucco » (3) e poi con un elenco — comunicato al Miliani e dal
Miliani pubblicato (4) — delle specie riconosciute con maggior sicurezza : Ursus
spelaeus — Ursus priscus — Felis antiqua — Felis catus magna — Cunis vulpes
spelaeus — Mustela foina — Vespertilio ferrum-equinum.
Ho avuto dal Sen. Capellini l’incarico graditissimo di ordinare quella raccolta
e il permesso, non meno gradito, di pubblicare quanto vi trovassi d’ interessante o
di nuovo. Ho adempiuto come ho potuto meglio all’ incarico e oggi profitto del per-
messo; non senza riconoscere, dichiarando anzi, io per primo, che assai meglio
sarebbe stato se il Capellini avesse tenuta la promessa, fatta nella sua nota preli-
minare del 1889, di render « conto particolareggiato » dei fossili di Monte Cucco.
La revisione fatta da me degli avanzi fossili raccolti nella caverna porta solo
lievi modificazione all’ elenco trascritto più sopra.
Le forme da me riconosciute, e parzialmenfe descritte nelle pagine che segui-
ranno, son queste :
1. Myotis myotis Bork. Martes foina Erxleben
Felis pardus Lin.
5)
2. Vulpes vulpes Lin. 6. Felis silvestris Schreb.
Ursus spelaeus Blumb. 7
8
Ursus priscus Gdf. et Cuv. Rupicapra rupicapra Lin.
Myotis (Vespertilio) myotis Borkhausen sp.
1797. Vespertilio myotis Borkhausen, Deutsche Fauna, p. 80.
1912. Myotis myotis Miller, Catalogue of the Mammals of Western }uropa, p. 192.
Gli avanzi di pipistrello trovati nella grotta di M. Cucco furono già riferiti a
Vespertilio ferrum-equinmun Schreber, Ma contro questa determinazione sta la formula
(1) Nova Acta Ac. Leop., 1821, X, 2, p. 259.
(2) Bulletin de la Soc. géol. de France, 3.8 Serie, I XV, p. 428, T. XVI, p. 21. Paris 183%
(3) Boll. della Soc. Geol. It. Vol. VIII, fasc. 3. Roma 1889.
(4) La Caverna di M. Cucco. Boll. del Club Alpino Italiano, N. 58, Vol. XXV, Anno 1891,
pag. 15. 'l'orino 1892.
— 273. —
dentaria che in più mascellari e mandibole da me esaminati ho trovato esser costan-
€ 6
2 SÙ IR
temente è 3 Eqpa 3 m 3 invece che è il pia 3 m 3 come nei Rrinolophus (1). Tal
formula coincide invece esattamente con quella del gen. Myotis, di cui talune specie
(M. myotis, M. oxygnathus Monticelli) hanno a comune col pipistrello di Monte
Cucco anche le dimensioni, notevolmente superiori a quelle degli altri chirotteri europei.
Myotis myotis
Esemplari di Monte Cucco i
(da Miller)
I II III IV min. Mass.
Lunghezza massima del cranio . 23 _ 20 28 29 23, 6
Diametro bizigomatico . . . . — 14,4 14 19,9 14, 6 15,8
Diametro interorbitario. . . . 5 0) dl DE DIO DAO 4,6
Diam. trasv. massimo della cassa
cranica SME SR 9,8 10, 0 9,93 10,3 9,8 10, 6
Lunghezza dellla mandibola . . 13,5 IDE — — IS 19
Fila dei denti mascellari . . . WS 10,0 10, 0 ML ar 190
Fila dei denti mandibolari . . 11}3 11,3 = — 10, 4 102
La riportata tabella di misure dimostra la piena rispondenza nelle proporzioni, tra
il nostro fossile e gli esemplari attuali di Myotis myotis. Ugualmente completa è la
rispondenza nella forma generale del cranio e nei minuti caratteri dei denti: Notasi,
fra l’ altro, che nel terzo molare inferiore il secondo triangolo è molto più piccolo del
primo, e che nella mascella il premolare mediano è spostato dall’ asse della fila den-
taria verso l’ interno; ciò che vale giusto a differenziare Myotis muyotis dalle specie
congeneri.
Vulpes vulpes Lin.
1758. Canis vulpes Linnaeus, Syst. Nat. I, edit X, p. 40.
1912. Vulpes vulpes Miller, Op. cit., pag. 326.
La volpe della caverna di Monte Cucco fu già indicata col nome di Canis vulpes
spelaeus: ma a me sembra non diversifichi in nulla dalla nostra volpe comune.
La specie è rappresentata dagli avanzi di almeno due individui : fra i quali avanzi i
più interessanti sono un cranio poco men che completo, una mandibola intera, e un
mascellare sinistro con i pm. 3 e 4 e 1 m. l e 2.
(1) Miller. — Catalogue of the Mammals of Western Europe. London 1912. Pag. 137.
— 274 —
Eccone le misure, comprese quelle dei denti superiori e inferiori : messe di fronte
ad altre misure prese sopra un cranio di Vu/pes vulpes attuale, di mezzana gran-
dezza, che fa parte della collezione osteologica del Museo Capellini.
Vulpes Vulpes vulpes
di M. Cucco del Mus. Cap.
Lunghezza del cranio, dall’ estr. post. della cresta sagittale 1: U.
a una linea tirata fra le apofisi postorbitarie, mm. 65 — 64
Larghezza del cranio tra le apofisi postorbitarie . . 37 —_ 39, 5
Massima larghezza del cranio, posteriormente. . 48 — 47
Spazio occupato complessivamente dai pm. 3 e 4 e
dal vie Ri A REA RES 36 35 34
Lunghezza del pm. 4 nella faccia esterna . . . . . 13 12,7 i Je
[arehezzafimass ian el 007 6,5 6,2 6,4
Lunghezza della mandibola, dai condili al marg. incisivo 98,2 _ 100, 6
Altezza del corpo della mandibola in corrispondenza del
Md (estena mento Re 13 — 13
Spazio occupato dal pm. 4 e dai molari I, 2,3 infer. 32,2 — 34
Lunghezza del 2. 1 infer. nella faccia esterna . . . 14,6 © — 15,6
MassimaMilarshezza#tdeltz0] Ginfer RR SSR 0, — ò, 7
Parimenti le altre ossa ritrovate armonizzano, per le dimensioni, con quelle della
V. vulpes odierna.
Vulpes —V.vulpes
di M.
Cucco Mus. Cap.
Omero - Lunghezza totale . . SO e en de LI 10/875 127
Dame ttofitrasvala este dista eee: 19 21
Ulna:r-.Gunshezzatitotale ere eee RR 128 J]S785
Diametro antero-post. a livello del becco olecranico . . . .. 15,3 16
Remoreie Run snezzagit ot e e ERRE 124,5 135
DIAMETRO RTAS VACATION RAS 19, 6 21,6
‘IMbiaf=eluunehezza tota] MER ; 133 142
DiametyogtraswiWall'iestr\Nprossi ac ARMA 20,5 21,9
— 275 —
Ursus spelaeus Blmb., e Ursus priscus Gdf. Cuv.
La parte più cospicua e interessante del materiale raccolto dal Miliani nella
caverna consiste in ossa e denti di orso. Ve n’ ha quanto occorre per rappresentare
almeno una ventina d’ individui, diversi d’ età, di sesso, e, quel che più conta, di specie.
Il Capellini (1) aveva scritto: « Contrariamente a ciò che si verifica in gene-
rale per le caverne ossifere, 1’ orso di cui si può ritenere che troveremo resti più
abbondanti [a M. Cucco] non sarà il grande orso delle caverne, ossia 1° 7/rsus spelaeus
Blumb., bensì il piccolo orso che Goldfuss segnalò pel primo come raccolto da Soem -
mering nelle parti più profonde della caverna di Gaylenreuth e al quale diede il
nome di Ursus priscus ».
La previsione del Capellini si è verificata a puntino. Gli avanzi d’ orso trovati
a Monte Cucco appartengono in maggioranza grandissima a una specie o, se si vuole,
a una razza, a una varietà, diciam pure a una forma, cui spetta il nome medesimo
adoprato già pel piccolo orso di Gaylenreuth (U. priscus). Altri, assai più scarsi
esemplari, son da attribuire all’ V?'sus spelaeus.
Debbo qui dire come nel prepararmi allo studio degli orsi di Monte Cucco, io
mi sia trovato dinnanzi una letteratura parecchio dissonante.
Il De Blainville (2) considerava semplicisticamente gli orsi tutti dalle caverne
d’ Europa come pertinenti ad un’ unica specie, che ancora in Europa ha soggiorno : U.
arctos. Ammetteva soltanto due varietà; una di prima e una di seconda grandezza.
Ursus giganteus, U. spelaeus, U. major, U. Pitonii, U. Neschersensis sarebbero stati
i maschi, Ursus arctoideus, U. leodiensis le femmine della prima varietà : alla lor
volta U. spelaeus minor sarebbe stato il maschio, U. priscus la femmina della varietà
di seconda grandezza dell’ arctos.
Gli autori inglesi, Busk (3) fra gli altri, Lydekker (4), Reynolds (5), son di
tutt’ altro parere, almeno circa |’ U. priscus. Questo é, secondo loro, tutta una cosa,
non con l’ arctos, ma con |’ VU. Rorribilis Ord., cioè col Grizzly notissimo dei caccia-
tori americani. E in questa opinione conviene esplicitamente un chiaro paleontologo
nostro, il Portis. « Tutta quanta la così detta specie Ursus priscus Goldf. Cuv.,
cadendo nella sinonomia dell’ U. rorribilis Ord., ne viene di conseguenza dice — il
Portis — che i singoli esemplari che verranno a costituirla, verranno per forza natu-
rale degli eventi a far parte della specie Ursus Rorribilis Ord., provengano essi da
Gaylenreuth o da Roma o dalla Spagna o dalla Francia » (6).
(1) Op. cit. pag. 5.
(2) Osteographie des Mammiferes — 'V. 1, pug. 59 e seguenti.
(3) Busk. — Observations on certain points in the dentition of fossils Bears. Proc. Geol. Soc.,
Vol. XXIII, pag. 342. London 1867.
(4) Lydekker. — Cat. Fossi Mamm, Brit. Mus., Vol. I, p. 166. London 1885.
(5) Reynolds. — The Pleistocene Bears. Palaeontographical Society. Vol. LX. London 1906.
(6) Portis. Di due notevoli avanzi di carnivori fossili dei terreni tufacei di Roma. — Boll. d.
Soc. Geol. Ital. Vol. XXVI. Roma 1907.
SR
Viceversa il Gaudry e il Boule (1) mantengono, rispetto all’ YU. priscus,
l’ opinione stessa del De Blainville. Trovano, a giudicare dai materiali del Museo
di Parigi, che l’ Orso grigio di California, il Grizzly (Ursus horribilis) differisce dal-
l Ursus priscus più assai che non ne differisca |’ orso bruno d’ Europa (U. arctos).
Propendono per considerare il priscus come un U. arctos di grande statura, e pen-
sano che la meglio sia d’inscriverlo sotto il nome di Ursus aretos (razza priscus).
Aggiungono essere stata emesso il medesimo parere molti anni prima dal Filhol,
che studiando un cranio di U. priscus della caverna del Herm, ne aveva fatto risal-
tare la somiglianza con l’ orso bruno dei Pirenei.
Il Trouessart taglia corto, inscrivendo nel suo Catalogus mammalium ) U.
priscus Cuv., come specie autonoma, l’ UV. minor di Gaudry e Boule come varietà
dell’ YU. spelaeus.
Zittel fa come Trouessart. Tiene distinto come specie l V. priscus (2), avvertendo
che taluni lo identificano con il Grizzly (U. feroa Geoffroy)altri con l'orso bruno (V. arctos).
Una quistione che rimane irresoluta fra studiosi i quali, non foss' altro, da una parte
hanno a disposizione le raccolte del Museo Britannico, dall’ altra quelle del Jardin des
Plantes, non può esser tentata da me, così scarsamente fornito come sono di mezzi di
confronto, specie per quel che concerne le forme viventi. Senza addentrarmi perciò in
discussioni, mantengo al termine U. priscus il significato stesso che ha dato loro
l’ insighe autore del « Catalogus mammaliun » : e vengo a dire quel che di più impor-
tante ho potuto rilevare nell’ esame comparativo degli avanzi di orso raccolti a M. Cucco.
Crani e mandibole. — Abbastanza ben conservati son quattro crani: tre dei
quali appartenenti ad UV. priscus ed uno appartenente ad U. spelaeus.
A distinguere questo da quelli vale un carattere già messo in evidenza da molti
paleontologi, a cominciar da Cuvier: la forma della fronte, che è piatta trasver-
samente e longitudinalmente nell’ 77. priscus, senza concavità pronunziata; mentre nell’ Y.
spelaeus la fronte, al punto di congiunzione con i nasali, si rigonfia e si rialza quasi
ad angolo retto, dividendosi in due bozze considerevolmente sviluppate. Un altro buon
carattere distintivo è il seguente. Le due creste che dalle apofisi postorbitarie sì diri-
gono convergenti verso la protuberanza sopraoccipitale, nell’ Y. spelaeus giungono distiute
fino a breve distanza dalla protuberanza stessa (a 4 cm. circa nel cranio figurato). Nei
cranì che attribuiamo ad U. priscus invece la fusione delle due creste si compie, come
nell U. arctos, a metà distanza, all’ incirca, fra una linea passante per le apofisi postor-
bitarie e il sopraoccipitale. L° angolo formato posteriormente da dette creste viene ad
essere così di circa 38° nell’ U. spelaeus, di circa 57° nel priscus. Infine, i margini
posteriori del parietale e del temporale si raccordano in una linea sigmoidea che nell’ U.
priscus va molto meno inclinata dall’ indietro in basso all’ avanti in alto, di quel che
non faccia nell’ U. spelaeus.
(1) Materiaua pour l’ histoire des temps quaternaires. Fasc. IV. Les Oubliettes de Gargas et le
petit Ours des cavernes, pag. 112. Paris, 1892.
(2) Zraité de Palcontologie. P. I. ‘1. IV. pag. 648. Paris, 1894.
|
(a°)
mne
Il bel cranio di UV. spelaeus cui si riferiscono le fig. 5, 6 e 7 della Tav. I, misura
dall’ estremità della cresta sagittale all’ estremità del muso soltanto 35 centimetri
circa: la mandibola meglio conservata non è lunga più di 18 cm. dal margine inci-
sivo al principio del processo coronoide : dimensioni inferiori notevolmente a quelle
offerte da un Ursus spelacus di mezzana grandezza. Se non fosse lo stato delle suture
che indica trattarsi di un individuo assai giovane, potrebbe quindi pensarsi che
invece di trattarsi della forma tipica dello speleo si trattasse della var. minor stata
illustrata ultimamente dal Gaudry e dal Bou le (1) e prima assai stata segnalata
in Italia dal Capellini (2).
La mandibola del nostro U. spelaeus è proporzionatamente assai più alta di quelle
di priscus della nostra raccolta, più curva nel senso longitudinale, scafoide, anzi
che rettilinea, per il massimo tratto della lunghezza del margine inferiore.
Ursus U. priscus
spelaeus
I II III
Lunghezza del cranio dall’ intaglio o seno
intercondiloideo all’estr. anteriore mm. 334 308 circa — _
Distanzaggirate Reso 4 19,7 — 29, 8 =
Altezza verticale dal margine inferiore dei
condili occipitali alla sommità della cre-
Siaesialtibalet at e na = — — 123
Larghezza fra l'estremità dei processi po-
SFOrDalierai e e n 92 102 116 119
Lunghezza, dalla protuberanza sopra-occipi-
tale ad una linea tirata dall’ una all’altra
aporsi postilla e de I83 181 — 214
Massima larghezza posteriormente, in corri-
spondenza dei processi mastoidei del pe-
PIOLICO,: FOA TANO ER RI IR —_ 162 — 182
U. U.
spelaeus priscus.
Massima lunbhezza del ramo mandibolare dalla estremità ante-
RIOLCEMECONANO RITIRO I e o eo — 256
Lunghezza misurata dal margine incisivo al margine posteriore
cela Sea RS OE E SARI ]
ji
Lo)
Did
DS
Altezza, dall’angolo alla sommità del processo coronoide. . . = 101]
Altezza del corpo esternamente, in corrispondenza dell’ inter-
talioua 4 160,2 Rei E 57 41,5
J]unehezzazdelNdiastemarttra tere pm. di. o. i 60 40
(1) Op. cit.
(2) Nuove ricerche paleontologiche nella caverna ossifera di Cassana. (Lettera al Prof. Les-
sona). Liguria medica, n. 5 e 6. Genova 1859.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 37
— 2718. —
Denti. — Ciò che di più notevole si riscontra nell’ esame comparativo dei denti
è la presenza, nei resti attribuiti ad U. priscus, del 3° premolare superiore, gemmi-
forme, e degli alveoli dei pm. 1 e 2, nonchè dell’ alveolo del pw. 1 nella mandibola ;
mentre nè la mandibola nè la mascella dell’ Y spelaeus serbano traccia dei primi tre
premolari. Inoltre il pm. 3 nello spelaeus ha sviluppatissima la cuspide esterna, e
ben sviluppata, sebbene non nel medesimo grado, l’ interna; nel priscus la cuspide
interna è debolissima e 1° orlo posteriore del dente è segnato di piccole colline rile-
vate. Il molare 1 è anteriormente più ristretto nello spelaeus che nel priscus.
Circa le misure, eccole qui riportate.
Denti superiori
Ursus U. priscus Î
spelaeus Cranio I. Cranio II. Î
Canino - Diam. ant. post. al colletto mm. . . . 24,83 20 II È
DIAmMetcorantAtrasverso NES 20, 4 15 12,8
Premolare 3 - Diametro massimo... ./... = 7 6, 4 |
Premolare 4 - Diametro ant. post... /... 20,7 16,8 , i ì
Diam. trasverso massimo... .. 15,7 13 o di
Molare 1 - Diam. anteroposteriore.. . . . .. 80,3 23, 5 21,9 |
Diam. trasverso Massi ORI e 20 16, 6 16,3
Molare 2 - Diam. anteroposteriore . . . .. . 44 41,0 35 di
Diam. trasverso massimo . 0/0... 22 19, 5 7, ©
Denti inferiori
Ursus U. priscus
spelaeus destro sinistro
Canino - Diam. ant. post. al colletto mm... . . 21 22 _
IDEA. IPRASVERSO ed 0 al 5 o JS _
Premolare 4 - Diametroant. post. 0/0. 14,83 14 14
DI VMEtrORvEA SVEN O E e 9,3 To 3 7 03
Molare RitzàDla metro Rate 00s AR 29,5 25 a
Diam. trasverso poster... . .. 13, 4 12,5 (o \
Molare 2° - Diametro ‘anti post. 0.0. 28, 5 27,2 27,4
DIAINetroRttasve iso Re 17 16, 5 16,3
Molare sf 2RDiametroNant poste e Zio ri Pao 23,9
IDRA MRAENASO o o Iva2 16 16
— 279 —
Circa il rimanente dello scheletro ho limitato l’ esame alle ossa che mi era dato
mettere in confronto con altri esemplari di sicura determinazione e di non dubbia
provenienza ; alle scapole cioè, alle ulne, ai femori, alle tibie.
Scapole. — Ben 17 scapole sono rappresentate nella raccolta di M. Cucco: ma
in tutte si è conservato il forte soltanto, cioè il terzo, o, al massimo la metà infe-
riore. Impossibile quindi stabilirne il contorno e valutarne le dimensioni principali.
Talune son di vecchi, altre dl giovanissimi individui. Nella più piccola la super-
fice articolare misura soltanto 35 mm. di maggior diametro: nella più grande ne
misura 79. ©
Il contorno di detta superficie articolare permette di spartire queste scapole in
due gruppi. In uno il contorno ovale allungato, con la proporzione di 49:79 fra
lunghezza e larghezza, risponde esattamente a quello dell’ U. spelaeus. (es. di 1° Herm
del Mus. Capellini). Nell’ altro il contorno più tondeggiante (lungh. mm. 62, largh.
mm. 45) fa pensare sì tratti dell’ UV. priscus.
Cubiti. — Le variazioni estreme nella forma e nelle proporzioni dei cubiti d’ orso
raccolti a M. Cucco sono rappresentate dagli esemplari delle fig. 18 e 10 della Tav. I.
Il primo, che io ritengo spetti ad UV. priscus, differisce dal secondo — pertinente. a
mio avviso, ad U. spelaeus — per la grossezza molto minore della diafisi, per il molto
minore sviluppo dell’ olecrano nel senso antero-posteriore e per l’ andamento comples-
sivo del margine superiore dell’ olecrano stesso, che apparisce tagliato obliquamente
anziché troncato orizzontalmente.
U. priscus U. spelaeus
Punelezzasio a e 339 350 —
Diametro antero-post. dell’olecrano. . . . ... 56 68 82
Diam. antero post., a metà della diafisi . . . . , 29 32 4l
Diam. trasverso a metà della diafisi. ././.... 16, 4 24 81
Diam antero-post., all’ articolazione carpale. , . . 35 46 —-
DiamfttrasversorallMartie: (carpale ef e e A. 22 26 —
Femori. — Facile anche per questi distinguere ciò che spetta ad U. spelaeus da
ciò che spetta all’ U. priscus. In quelli riferibili alla prima specie la diafisi è pro-
nunziatamente compressa in senso antero-posteriore (negli esemplari di M. Cucco come
in quelli del Herm e di Cassana) In quelli del priscus invece la diafisi è cilindroide ;
i due diametri antero-posteriore e trasverso per poco non si equivalgono. L° insieme
dell’ osso è inoltre in questi ultimi più snello e leggero.
LS
Ciò risulta dalle misure qui appresso riferite, prese sui due esemplari dove meglio.
sono espresse queste caratteristiche. (Son gli esemplari figurati nella Tav. I sotto i
Dun erRiagl Ul aesstli9)?
U. priscus U. spelaeus
Lunghezza: totale pitt Mei COEN Ren i 394 407
Diamaeino fmsrenso, wi eomelilito dos dd 04 sa 74 97
Diametotantypostadellagtes Re 45 49,5
Diam. ant. post. della diafisi a metà lunghezza... ... 29 26
Diam. trasverso della diafisi a metà lunghezza . 0... 81 37
Diam. trasverso alla estwr. prossimale traverso la testa e il gran
trocanbere: Si N tt A CADE AS AREE RITI Re 91,5 106
Tibie. — Pur di queste è facile l’ assegnazione ai legittimi proprietari. Breve e
tozza la tibia dell’ Y. spelaeus, e quasi tonda a metà della diafisi ; allungata, snella
quella del priscus e foggiata nel mezzo a prisma triangolare. La superficie articolare
inferiore in senso trasversale è proporzionatamente molto più allungata nella tibia
dello spelaeus che in quella del priscus.
U. spelacus U. psiscus
Diametro massimo trasverso all’estr. prossimale mm... . 82 (circa) 70)
Diametro ant. post. all’estr. prossimale, dall’ intaglio della sup.
albicolareMfpelWiemoretegdlaferest Re e 69 61
Dimaro maavero alllagha distale: 3 o oss 8a 67 69
Diamertotant spostata Uest#dsta)] Ae 37 219)
Diam. trasv. nella parte più sottile della diaasi. . . .., 29 24
Lunghezzabtotalett o Coe i PR AS OR EIAOAO 278 290
Concludendo, circa gli orsi, oltre l Y. priscus noi abbiamo un numero cousiderevole di
avanzi che complessivamente possiamo indicare come spettanti ad U. spelaeus. Per taluni
di questi (come ad esempio per il cranio rappresentato dalle fig. 5, 6 e 7 della Tav. I)
non possiamo escludere, anzi saremmo inclinati a ritenere si tratti della var. min0r.
Ma per altri, come p. es. per certe mascelle formte di canini lunghi fin 126 mm., e
aventi diametro antero-posteriore di ben 36 mm., come anche per certi omeri e certi
femori pari in grandezza agli esemplari maggiori di Z. spelaeus esistenti nel Museo
Capellini, si può esser certi che si tratta della forma normale o major dell’ U.
spelaeus medesimo.
— 2sl —
Martes foina Erxzleben
1777. Mustela foina Erxleben, Syst. Regni Anim., I, p. 458.
1912. Martes foina Miller, Cat. of the Mammals of Western Europe. London, p. 374.
Un cranietto conservatissimo di mustelide si fa riconoscere agevolmente come
appartenuto a Martes foina per la forma allungata (non triangolare nè rombica come
in Meles e in Lutra) della corona del ferino superiore, per la presenza di 4.4 pre-
molari (anzichè di 3.3 come in Vormela e in Mustela), e infine perchè il maggior
diametro del # non arriva alla lunghezza del margine esterno del ferino (come in
Martes martes). Il pm' ha la corona biconvessa, anzichè concavo-convessa come
in M. martes; il lobo interno del pm misura appena metà della larghezza della
parte tagliente della corona, invece di pareggiare detta larghezza, come accade in M.
martes.
Ecco le dimensioni del cranio di cui ho detto :
Lonehnezzakmassona e Me. e mo. 76,0
WorebhezzaWfmastoldeat i, do » 42 (circa)
» INCerORbita lese e e » 20 (circa)
» vostraleNsopratiteanini ni » TGs
» dell'alficassalfcranie MR » 29, 8
Lunghezza della serie dentaria mascellare . » 32
Le proporzioni di altre ossa di mustelide trovate pure nella caverna di Monte
Cucco, concordano ugualmente con quelle delle corrispondenti ossa di Martes foina.
OT LinmIieza linale mme 67,8
Nassimogdiametrozaltesteti dista RA 15
Radiog-glhunehezz MP ee Aa ea a ea tte 54,5
IDamEento mosso linienona ig to 9,2
Cobitoli-2iMmoliezza totale MO e e 65, 8
Diametro ant. post. a livello del becco olecranico . . . . 9
Remo eng hezza Avo CRM N 71,5
DAME LRONILASVEESO MERO RC MO IS I. la 2
ibinggieupslezza totale cn) ee a ao 83
DiamftrasversolallZestr prossimale tt 9 14,6
Felis silvestris Schreber.
1777. Felis (Catus) silvestris Schreber, Saugethiere, III, p. 397.
Il gatto selvatico è rappresentato nella nostra raccolta da una mandibola quasi
completa, da un frammento di cranio comprendente il palatino e il mascellare sinistro,
— 282 —
con gli alveoli del canino e del 7.1 e con i tre premolari conservalissimi, da due
frammenti di omero, da un osso iliaco sinistro e dalla metà inferiore di un femore.
Ecco le misure dei denti del gatto selvatico di M. Cucco (I) messe in confronto
con quelle che il Miller (1) fornisce pel Y. silvestris (II) e pel F. catus (II).
I. II. IIl.
Lunghezza complessiva del ferino superiore
CADI NE RE ARE 20,3 16,6-20,0 15,0-17,8
Lunghezza complessiva dei tre denti 7 e
fue, cell mamdioola ss so 0 0% 24,6 18,8-23,6 18,0-20,4
Lunghezza del molare inferiore . . . . . 9,8 7,8-10,0 6,6- 8,6
Come le dimensioni dei denti superano di circa Le quelle dei denti del F. catus,
così le poche ossa rinvenute sono, rispetto a quelle del 7. catus, circa di 76 più
grandi, come risulta dallo specchio qui annesso :
Felis F. catus
di M. Cucco — del Mus. Cap.
Omero - Diametro trasverso all’ estr. distale mm... 23,9 167
Femore - Diametro trasverso all’estr. distale... . 22,6 17,9
Osso innominato - Lunghezza totale... /...°. 100 74
Felis pardus Linn.
1767. Felis pardus Linnaeus, Syst. Nat., Edit. XIII, T. I. p. 61.
Fra gli antichi ospiti della caverna di Monte Cucco figura un grosso felino, pros-
simissimo, per non dire identico, all’ attuale pantera d’Africa e d’Asia. È rappre-
sentato questo felino da una mandibola priva delle apofisi. coronoide e condi-
loidea, ma recante tuttora, oltre gli alveoli dei canini e degli incisivi, i premolari
tutti e i molari di destra e di sinistra: più da due mascellari, uno di destra e uno
di sinistra, entrambi con ancora saldata buona parte dei rispettivi giugali, e offerenti
completa la serie dei denti superiori, salvo gl’ incisivi e i molari. Si aggiunga un
frammento d’ osso iliaco sinistro, e un piccol numero di ossa lunghe, molto ben con-
servate : tre omeri e due cubiti, un radio e due femori.
Ecco qui sotto le dimensioni delle ossa lunghe, messe in confronto con le misure
fornite dal De Blainville (2) per alcuni esemplari di Felis pardus del Museo di
(1) Millew. Op. cit. p. 462.
(2) De Blainville. — Ostéogr. des Mammiféres, Gen. Felis. Paris 1841.
RRDIRRE I
Parigi, e con quelle rilevabili dalle figure date dal Gervais.(1) per il Felis antiqua
della caverna di Mialet.
Felis F. pardus attuale FP. antiqua
di M. Cucco (sec. De Blainville) Cav. di Mialet
I II III
Omero - Lunghezza totale mm. . 218 — 219 203 210 228
Massimodiametro trasverso alla
eRuaiaiià ere Se 00 50 59 — — — 51
Diametro trasverso a metà della
VASTO ee dig] 19 = — _ 20
Radio - Lunghezza totale . . . 187 — 172 176 182 200
Massimo diametro all’articola-
ZIONCNEREPAlet CR 0 i 190. — — = — 37
Massimo diametro a metà della
COIN e e ES ERRE E) = — _ — 18
Cubito - Lunghezza totale . . . 228 _ — _ e -
Massimo diametro antero-po-
steriore a livello del becco ole-
GEOMCOL Re e e n SÙ) 32 — — — 37
Femore - Lunghezza totale. . . 248 — 235 283 234 256
Massimo diametro all’ estremità
distale saggi aan 46 — — — — 50
Diametro trasverso a metà della
AI SIR Nn) = — = Se 22
Apparisce da queste misure come il felino della caverna di Monte Cucco pareg-
giasse la statura di un’ ordinaria pantera, e, tanto per la mole quanto per le rispet-
tive proporzioni delle singole ossa molto si avvicinasse anche al Felis antiqua, che,
del resto, è ritenuto dal Falconer tutt’ una cosa col F. pardus (2) e dal Troues-
sart è considerato come semplice varietà di questa specie (3).
Anche i mascellari e i giugali non presentano serie differenze da quelli dell’ at-
tuale Pantera. Soltanto può notarsi che il margine inferiore dell’ orbita, invece di
essere regolarmente arcuato come nel Felis pardus, corre quasi rettilineo per un
buon tratto: e che il giugale concorre in assai minor misura del mascellare alla
formazione della faccia esterna del ponticello ond’ è limitato superiormente ed ester-
namente il foro intraorbitario.
__ (1) Gervais P. — Zoologie et Palgontologie generales. PI. XIII. [Caverne de Mialet|. Paris.
1867-69.
(2) V. Boyd Dawkins a. Ayshford Sanford. British Pleistocene Mammalia. P. IV. Palaeon-
tographical Society. Vol. XXV, pag. 177. London 1872.
(3) Catalogus mammalium tam viventium quam fossiliumT. I. pag. 355.
Soa
Quanto ai denti superiori dobbiamo anzitutto accennare la presenza di un dentino,
a dir meglio, della radice di un dentino, nello spazio compreso fra il c destro e il
pm. Nel mascellare sinistro si osserva al posto del dentino la traccia di un alveolo
quasi completamente obliterato. A parte ciò la dentatura superiore risponde, in com-
plesso, assai bene, a quella della Pantera e del Felis antiqua. Soltanto le dimensioni
sono notevolmente ridotte e i premolari secondo, terzo e quarto risultano più com-
pressi trasversalmente : il pin? in special modo non offre nel suo terzo posteriore il
pronunzialo rigonfiamento che si osserva nel corrispondente premolare del Y. pardus.
Ciò risulta chiaro dalle misure che riporto qui sotto, mettendolo in confronto con
quelle date pel Y. pardus dal Del Campana (1), con altre da me prese diretta-
mente sopra un cranio di Pantera messo a mia disposizione dal Ch.mo Prof. Gia-
comini, e pel Yelis antiqua con qnelle rilevabili dalle figure del Gervais (op.
ig ano SII01):
È II. IIUG TIVE V. VE
Canino superiore - Diametro ant.
posteriore al colletto mm... . 12,5 16,5 16,3 14 I 13
Dancnonasrego » 4 è 60 97 TS 1258, 10 8 =
Premolare secondo - Diam. ant.
posteriore: SL Re 5,0 7 _ — — _
Diametro-trasverso 0/0. AT 9,9 = — — —
Premolareterzo- Diametro ant. post. 16,3 19 16,8 16,5 15 19
Diametro trasverso massimo . . . Tod 1l 8 8,5 6,8 —
Premolare quarto - Diam ant. post. 25 29 24,5 24,7 22,8 25
INIAIMEGNTO MNMSVOTSO ose IA 15 135 12, 28. —
Alveolo del molare - Lung. massima 8 9 “i 2 = =
I. Felis di M. Cucco — II. Felis pardus viv. Collez. Univ. di Bolog. — III. Zeopardus par
dus d' dell’Affrica orientale (Del Campana) — IV. L. pardus 9 della Colonia del Capo (Del Cam-
pana). V. L. Pardus var. minor dell’Affrica orientale (Id.) — VI. Felis antiqua della Cav. di Mialet.
La mandibola si fa notare, a prima vista, per la pochissima altezza del suo
corpo. In rispondenza del pn. 3 essa misura difatti solo 22 mm, mentre quella del
F. pardus attuale arriva nel medesimo punto a 25, a 27 e fino a 29 mm,, e quella
del N. antiqua misura da 28 mm. (es. della grotta di Cucigliana nei M, Pisani (2)
a 29 mm. (es. di Mialet) fino a circa 30 mm. (esemplare della grotta delle Fate
nel Finalese (3). Altre peculiarità non vi ho saputo rilevare.
(1) Nuove ricerche sui Felini del Pliocene italiano, Palaeontographia Italica, Vol. XXI, Pisa
1915).
(2) Issel. — Nuove ricerche sulle caverne ossifere della Liguria. Mem. della R. Acc. dei Lincei.
Ser. 3, Vol. II, Roma 1878, pag. 53, tav. IV, pag. 1-3.
(3) Acconci. — Sopra una caverna ossifera scoperta a Cucigliana. Mem. della Soc. ‘l’ose. di
Sc. Nat. Vol. V. fase. 1°. Pisa 1881, pag. 144, Tav. IV, fig. 4.
— 286 —
Confrontando i denti inferiori del Felis pardus attuale (fornitomi dal Museo di
Anatomia comparata dell’ Università bolognese) con quelli della fiera esumata a Monte
Cucco, si notano differenze sensibili tanto nelle dimensioni quanto nella forma. Più
diverso di tutti è il p»:.. 3, che nella Pantera attuale è pronunziatamente rigonfiato
nella sua metà posteriore, mentre nel fossile presenta, tanto anteriormente quanto
posteriormente, larghezza identica o quasi.
Ciò risulta, oltre che dalle figure, anche dalle cifre riportate qui appresso. Ma
non certo è carattere da prendere in soverchia considerazione. Chi esamina materiale
sufficientemente copioso, trova che in Felis pardus il pm 3. offre così anteriormente
come posteriormente diametro pochissimo diverso. Anzi Del Campana cita per il
F. pardus var. Panthera il caso di un pr 3 in cui il diametro anteriore supera il
diam. posteriore di quasi mm. 1,9.
Felis di M. Cucco Pantera
del Mus. di Anat.
Destro Sinistro comp. di Bo-
logna
(0) Si Ù x
Premolare 3° (infer). - Lunghezza mm. . . . TRS n, 11,6 15
Diametro trasverso, anteriormente... 0... 5,5 6 6,5
Diametro trasverso, posteriormente: 0/0 0.0.0. 6,8 6 9,3
EPremolaret44=Meunohezza gi e 16,7 16,7 19,6
Diametro trasverso, anteriormente... /. 0... 7 705 8,6
Diametro trasverso, posteriormente... . ... 0. 8 8,4 10,5
0 di n :
Wolacetle- iunehezza a 0 e e a 19,1 19,4 9]
ameno IRasvenso Massimo so Se SI 8 10, 6
Rupicapra rupicapra Lin.
1758. Capra rupicapra Linnaeus, Syst. Nat., I. ed. X. p. 68.
1910. Rupicapra rupicapra Vrouessart, Faune mamm. d’ Europe, p. 295.
Nell’ ossario di Monte Cucco il camoscio è rappresentato unicamente da un meta-
tarso; da un osso solo, ma che fortunatamente è in questa occasione, tra i più
significativi. Ì
È un metatarso sinistro, lungo mm. 161, largo trasversalmente mm. 22 all’ e-
stremità prossimale, mm. 29 all’ estremità distale, con un diametro trasverso di mm.
4,5 a metà circa della diafisi. Facilmente si distingue da quelli degli Ovis, - per la
molto minore larghezza dell’ estremità prossimale in confronto al diametro che ha
osso nella parte più sottile della diafisi ; altrettanto facilmente si distigue da quelli
dei Cervidi per le doccie longitudinali anteriore e posteriore molto meno profonde, e
per la presenza di un forte rilievo quasi nel mezzo del margine posteriore della faccia
articolare superiore.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. : 38
20
21 Rupicapra rupicapra Lin.
e 14 Ursus priscus Gdf. et Cuv. Crani (c. s.).
e
17
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA |
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
Mascellare e giugale destro (*).
Mandibola (c. s.).
Ramo mandibolare sinistro (c. s.).
Cranio (4).
Ramo mandibolare destro (c. s.).
Cubito (c. s.).
Omero (c. s.).
MIA (So)
Denti superiori (%/). I
Ramo mandibolare destro (7). o
Cubito (c. s.).
Femore (c s.).
MIDA (8)
Metatarso (c. s).
Serie VII. Tomo III. 1915 - 1916.
1. CALZOLARI BFERRARIO=MILAN
SIMONELLI - Mammiferi fossili della caverna di Monte Cucco,
pria
Mn
ALZANI FOT.
VERITA Ra roi PR can —
Serie VII. Tomo Ill. 1915 - 1916.
SIMONELLI - Mammiferi fossili della caverna di Monte Cucco,
LIERCALZOLARI ASEARANIQ-mrtanD
ALZANI FOT.
DE ai
TEN
ELIMINAZIONE DELL'ACIDO URICO
e fieambio inorganico nella cura antitabica di un urigemieo
=D
NOTA PRELIMINARE
DEL
Prof. IVO NOVI
ACCADEMICO BENEDETTINO
DIRETTORE DEI.’ ISTITUTO DI MATERIA MEDICA NELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
(letta nella Sessione del 21 Maggio 1915)
Da qualche anno ho studiato e fatto studiare da allievi del mio Istituto alcune modi-
ficazioni del ricambio materiale che si osservano durante la cura antirabica eseguita col
metodo di vaccinazione del Pasteur.
Io stesso, ricordo di aver notato individui, che nella cura antirabica presentavano feno-
meni di euforia, aumento dell’ appetito, miglioramento della nutrizione, fatti che possono
essere messi in rapporto con una sollecitazione del ricambio insieme a migliorate condizioni
dell’ assorbimento.
Ordinariamente però durante la cura antirabica non si nota nulla di particolare e sola-
mente possono osservarsi disturbi inerenti a fatti locali di infiltrazione, che facilmente si
manifestano nelle persone obbligate a stare in piedi o a percorrere a piedi o in bicicletta
lungo tratto di cammino.
Si sono anche riscontrati fenomeni di depressione generale attribuibili senz’ altro alla
fosfaturia e alla iperazoturia, che furono rilevate già da me e dai miei allievi. Le quali
perdite, quando non si accompagnino ad entrate fisiologiche alimentari maggiori, devono
certamente deprimere l'organismo, perchè rappresentano un maggior consumo dei mate-
riali più nobili, albumine e nucleine e nucleoproteidi in generale.
Con questi fenomeni depressivi possono spiegarsi anche azioni terapeutiche favorevoli,
che ho potuto notare io stesso in individui epilettici o soggetti a forme nervose equi-
valenti. Osservo tuttavia che avendo tentato in individui epilettici non morsicati e quindi
non altrimenti bisognosi di vaccinazioni antirabiche, se la cura del Pasteur avesse potuto
portare beneficio come presidio terapeutico, non ebbi ulteriori risultati degni di nota.
Per usufruire però la cura antirabica per altro scopo terapeutico oltre che come pre-
ventivo dell’infezione rabbica, bisognava prima ricercare le origini della iperazoturia e
della fosfaturia, dato che sopra questi fenomeni si fosse voluto costruire un edificio tera-
peutico, in quanto ad essi si potessero attribuire modificazioni del ricambio sia generale sia
degli uni o degli altri organi o tessuti.
— 288 —
Per ora è solamente un saggio preliminare quello che io ho voluto eseguire. I miei
studi precedenti e quelli di alcuni miei allievi sopra l'influenza esercitata dalla fitina sul
ricambio, influenza che vale a diminuire notevolmente |’ eliminazione dell’azoto e del fosforo
ed a correggere quindi l’effetto prodotto dalla cura antirabica, meritavano di essere am-
pliati nel senso di ricercare come fosse modificata |’ eliminazione dei singoli prodotti azo-
tati o fosforali durante la cura antirabica e sotto l’azione della fitina limitatrice del
ricambio materiale.
Nel fatto io dimostrai già che la fitina diminuisce e toglie la fosfaturia della cura
antirabica. Le esperienze dei miei allievi V. Santonoceto e G. Gregorio hanno messo in
vista che la fitina in individui normali diminuisce tanto | eliminazione del fosforo totale
come quella dell’azoto totale, e finalmente le esperienze di altri miei allievi Massella e
Venturi hanno provato che la diminuzione che si osserva nella eliminazione dell’ azoto totale,
sotto l’azione della fitina si compie a carico dell'azoto ureico e di quello estrattivo e non
già di quello urico e di quello ammoniacale e ciò pure in persona sana. Era quindi oppor-
tuno l’ indagare se in individuo uricemico il comportamento dell’acido urico quanto alla
sua eliminazione fosse il medesimo durante la cura antirabica o si modificasse e come
potesse anche modificarsi ulteriormente sotto l’azione della fitina.
Per ora le mie ricerche si sono limitate ad un saggio preliminare atto a dimostrare
quali modificazioni si notassero nella eliminazione dell’ acido urico e dell’ azoto totale
durante la cura antirabica di un uricemico e se si osservassero particolari modificazioni
del ricambio inorganico, il quale finora è stato troppo (trascurato in generale nello studio
della gotta.
Non è così facile il determinare quale e quanta importanza abbia l’ eliminazione totale
dell’azoto e anche quella speciale dell'acido urico nella uricemia, sebbene sembri intuitivo
che una malattia la quale essenzialmente consta di una abbondanza dell’ organismo in acido
urico debba essere fortemente modificata da una più grande eliminazione di questa sostanza.
Tuttavia è evidente che se l'osservazione del Garrod, dell'abbondanza di acido urico
nel sangue dei gottosi, è ancora da tulti ammessa, non è il medesimo degli altri punti che
riguardano la patologia della gotta, cioè come si produca e si mantenga la copia di acido
urico nel sangue, se si tratti di maggior produzione o di minore eliminazione, se i tessuti
presentino speciali condizioni che favoriscano il deposito dell’ acido urico nella loro com-
pagine, se gli organi emuntori male sì prestino all’ allontanamento dall’organismo, se la
maggiore produzione eventuale sia dovuta ad alterazione funzionale di taluni organi pro-
duftori o distruttori di acido urico, o sì debba invece ad una modificazione generale del
ricambio; tutti problemi di importanza fondamentale e di difficoltà notevolissima per la
loro risoluzione.
La patogenesi della gotta è tutt’ allro che semplice e ben dimostrata.
Se risaliamo all'origine fisiologica dell'acido urico notiamo che se la sintesi dell’ acido
urico è provata, essa non ha che un'importanza secondaria, mentre la produzione dell’ acido
urico dalla scissione delle nucleine è un fenomeno che si impone, che ha molti fatti che
ne dimostrano la verisimiglianza e che è particolarmente suffragato dall’ abbondanza del-
—- R89 —
l'acido urico nei casi di abbondante leucolisi secondo quanto è stato ben messo in vista
dall Horbaczewski 1).
Secondo le osservazioni di questo autore, dai nuclei di leucociti in via di disfacimento
e dalla polpa della milza in incipiente putrefazione si può ottenere acido urico e quindi
questa sostanza potrebbe prodursi ogni qualvolta si abbia leucolisi. Secondo l’ Horbac-
zewski la nucleina invece introdotta nell’ organismo con l’ alimentazione, come quella for-
matasi nelle cellule non rappresenterebbe affatto la sostanza madre dell’ acido urico.
La produzione dell'acido urico dalla distruzione dei leucociti e quindi di nuclei cellu-
lari e l'aumento di acido urico nelle urine durante la crisi delle pneumoniti, nella leucemia,
in seguito all’applicazione di raggi ROntgen, sono fatti comunemente ammessi e citati
dai trattatisti, da che il rapporto chimico fra basi nucleiniche ed acido urico fu dimostrato
e dal Kossel ed allievi fu provato il rapporto genetico fra nucleina ed acido urico.
Tuttavia Zagari e Pace 2) negano il parallelismo fra leucocitosi ed aumento di acido
urico e non credono neppure alla trasformazione ulteriore dell’acido -urico in urea. Essi
ricordano infatti le esperienze del Sivén, le quali dimostrarono un aumento di acido urico
per pura alimentazione con albume d’ovo e nessuna influenza della leucocitosi e della
introduzione di nucleina.
In esperienze eseguite col D'Amato lo Zagari 8) ha confermato che la scomposi-
zione delle nucleine aumenta la eliminazione dell’acido urico ed ha messo in vista parti-
colarmente che l'ossigeno e l’attività museolarve non hanno influenza sulla scomposizione
dell’albumina, bensì su quella delle nucleine. L’ossigeno ritarderebbe la scomposizione
nucleinica e l’attività muscolare l’ accelerebbe.
D'altra parte secondo molte osservazioni di Kossel, Tichoniroff, Burian e
Schnur l'acido urico può provenire anche da altri corpi azotati oltre che dalle nucleine
e si nota che negli uccelli in cuì l'eliminazione dell’azoto è rappresentata quasi unicamente
dall’acido urico, l'alimentazione risulta di poche basi nucleiniche.
A questo proposito bisogna distinguere bene, perchè se ciò è ammissibile per gli uccelli
da cortile, alimentati con farina di frumentone o altri prodotti residui della alimentazione
umana e contenenti massimamente idrocarburi, non può dirsi altrettanto per gli uccelli
che vivono allo stato di libertà o che in generale si cibano di grani e sementi. In questi
certamente l'introduzione di nucleine è abbondante.
Il brodo e l’estratto di carne oltre all’acido urico e all’allossurico fanno crescere tutti
gli elementi azotati secondo le osservazioni di Zagari e Pace, sicchè non si potrebbe
ammettere l’esclusivismo della formazione di acido urico dalle nucleine o dalle basi puri-
niche, che ne possono derivare, per quanto sia accertato che i prodotti alimentari sopra-
indicati nei quali indubbiamente vi è abbondanza di basi puriniche, si prestano molto alla
formazione di acido urico ed all’aumento della sua eliminazione.
Le esperienze di Strauss, Smith-Jerome, Sivén 4) dimostrano questo fenomeno
« ad abundantiam » e quelle del Sivén anzi provarono un aumento di acido urico anche
mediante alimentazione con sole basi puriniche, con ipoxantina, con adenina, ma non con
guanina.
LOI
Questa esclusione non è oggi più accettala dalla grande maggioranza, che non am-
mette più il concetto del Minkowski della formazione di acido urico dalla sola ipoxan-
tina, ma da tutte le basi puriniche.
Con tulto ciò deve notarsi che la introduzione di basi puriniche nei gottosi non diede
ristagno, ma maggior eliminazione di acido urico, il che è importante per la patogenesi
della gotta, per il meccanesimo cioè con cui si producono i sintomi di questa malattia.
Il Bonanni 5) ha osservato che una dieta povera di azoto e ricca di idrati di car-
bonio fa diminuire l’ acido urico delle urine da gr. 0,265 a 0,218 per giorno.
Vi sono oscillazioni giornaliere, ma con una dieta puramente vegetale non si può mai
far sparire del tutto l’ acido urico dalle orine, il che del resto non deve meravigliare.
Secondo le osservazioni di Hirschstein 6) la somministrazione di basi puriniche nei
sani darebbe luogo a maggior eliminazione di glicocolla per le orine, glicocolla che tut-
tavia si trova aumentata anche nelle orine dei gottosi secondo Ignatowski 7) ed in
rapporto col fatto che l’ acido urico può scindersi e produrre glicocolla.
La produzione dell’ acido urico nell’organismo degli uccelli dalle basi puriniche è stata
dimostrata direttamente dal Valenti 8) e confermata dal Camurri 9).
Il Valenti ha dimostrato che negli uccelli l'iniezione ipodermica di xantina trimeti-
lata dà luogo a maggior eliminazione di acido urico, il che deporrebbe per un’ ossidazione
della xantina in acido urico oppure che la caffeina così introdotta aumenta tale elimina-
zione. Il fegato di bue finamente soppestato può trasformare la xantina in acido urico, il
rene non opera tale trasformazione, ma dà lieve aumento dell’azoto allossurico. I muscoli
diminuiscono le basi allossuriche e non aumentano la produzione dell’acido urico. In questo
stesso lavoro sull’ azione dei tessuti il Valenti 10) porta ancora altre esperienze dalle
quali risulta che nell'uomo l’introduzione di caffeina e teobromina producono un aumento
dell’azoto allossurico.
Il fegato che ha dunque l'attitudine di formare acido urico dalle xantine può rifarlo
dai prodotti di scomposizione dell’acido stesso.
Infatti le esperienze di M. Ascoli e di Izar 11) hanno dimostrato che mentre la
poltiglia di fegato non riesce a formare acido urico dalle mescolanze di urea e allantoina,
urea e allossana, urea ed acido parabanico, urea e glicocolla, essa raggiunge l’effetto in
contatto della miscela di urea ed acido dialurico. Naturalmente ciò non si ottiene se la
poltiglia di fegato sia stata sterilizzata a 100°.
La ricostruzione dell’acido urico per opera del fegato è stata studiata dall’Izar 12)
anche nei particolari, che riguardano la reazione del sangue.
Infatti ’Izar nelle sue osservazioni con Bezzola e Preti aveva veduto che la cir-
colazione artificiale attraverso al fegato di cane, fatta con sangue arterioso contenente
acido urico, dava ]uogo ad una distruzione più o meno notevole di questo.
Ma poi se il sangue era saturato di acido carbonico si aveva di nuovo formazione
dell’acido urico distrutto. i
In altro lavoro dello stesso Izar 13) è dimostrato che la ricostruzione dell’ acido urico
scomposto può aversi direttamente in seno ad una poltiglia di fegato trattata con sangue
— 291 —
addizionato di anidride carbonica o di alcali, purchè le quantità dell’uno o dell’ altro sieno
piccole. Che se le dosi sono più notevoli, tale ricostruzione è difficoltata o impedita spe-
cialmente dall’aggiunta degli alcali.
A questo proposito era già stato notato dal Garrod che sulla formazione o anche
sul semplice fatto del deposito nei tessuti ha grande influenza il fenomeno della alcalinità.
Ma veramente già l’ osservazione fondamentale del Garrod sulla presenza di acido urico
nel sangue non sarebbe troppo favorevole a questo concetto, perchè la diminuzione del-
l’alcalinità nel sangue è ben lontana dall’ essere dimostrata.
D'altra parte secondo Klemperer il siero di sangue dei gottosi è capace di scio-
gliere grandi quantità di acido urico, sebbene Loewy e Strauss abbiano veduto che in
questi malati l’alcalinità del sangue è diminuita. Nè può infirmare questo dato l’osserva-
zione del Magnus Lewy di sedici gottosi, nei quali durante gli accessi non si notarono
differenze degne di nota per l’ alcalinità del sangue.
Nei liquidi dell’organismo, nei quali si ha fisiologicamente una reazione acida come
nell’orina, si è ammesso dal Ritter 14) che la solubilità dell’acido urico dipenda dal rap-
porto fra fosfati monobasici acidi e bibasici alcalini. Se sono presenti molti monobasici,
acidi, si avrebbe la precipitazione.
Con questa osservazione si spiegherebbe 1° antica esperienza del Pfeiffer, la quale
consiste nel collocare acido urico sopra un filtro e versarvi sopra orina. Se questa è nor-
male, attraversando il filtro vi abbandona un po’ di acido urico proprio, ma se appartiene
ad individui gottosi ne abbandona di più. Da che il Pfeiffer argomentava che l’ acido
urico dei gottosi precipita con maggiore facilità.
Si presenta così la questione interessantissima del deposito di acido urico nei tessuti.
Già il Riehl aveva trovato cristalli di acido urico in tessuti normali ed His e Freu-
deweiller hanno potuto determinare sperimentalmente la formazione di tofi per iniezioni
di acido urico e l’Ebstein seguendo gli antichi concetti aveva ammesso che il deposito
si facesse più facilmente là dove il ricambio materiale è più lento, nelle cartilagini, nei
legamenti, tendini, fascie muscolari, in seno alla sinovia.
Se ricordiamo quello che si è esposto a proposito della influenza esercitata dalla pre-
senza di anidride carbonica, comprendiamo l’importanza del lento ricambio atto a favorire
l'accumulo di questo gas.
Kionka nel 1900 vide che l'alimentazione carnea negli uccelli produce tipici tofi ed
abbondanza di acido urico nel sangue e l’Ebstein notò deposito di acido urico nei reni
e nel pericardio degli uccelli per avvelenamento con sali di acido cromico iniettati sotto
cute, mentre ciò non si osservava nei mammiferi.
Naturalmente la possibilità del deposito deve variare a seconda della facilità di eli-
minazione per gli emuntori normali ed anormali.
D'altra parte per il Kionka 15) stesso la gotta non dipende che da una alterazione
del ricambio globale dell’albamina dovuto ad alterazione della funzione epatica, nel senso
che il fermento che forma urea nel fegato e forse in altri organi non sia sufficientemente
attivo per questa produzione e lasci liberi dei materiali atti a dare acido urico.
SR
Ciò tuttavia è contestato da Brugsch e Schittenhelm 16). Questi autori credono
senz’ altro che l’uricolisi sia turbata nel gottoso e che in questa malattia si abbia non
maggior produzione, ma minore distruzione di acido urico; da ciò l’accumulo nel sangue.
Non sì spiega però, come non avvenga in tal caso una maggiore eliminazione del mate-
riale stagnante nell’ organismo.
Per i due autori ora citati la formazione di acido urico dai corpi nucleinici sarebbe
più lenta del consueto e così la gotta proverrebhbbe da un’anomalia fermentativa di tutto
il ricambio delle nucleine nel senso di un rallentamento. î
È certo che l’antica concezione patogenetica del Garrod non richiedeva affatto le
particolarità minute e gli studi sulla formazione di maggior copia di acido urico nella
gotta, studi che si sono resi necessari con lo svolgersi degli argomenti relalivi a questa
malattia, ma il semplicismo del grande clinico inglese, che ammetteva niente altro che un
accumulo di acido urico per diminuita eliminazione del rene, non potè accertarsi una volta
che non potè dimostrarsi un accumulo vero nel sangue e nell’organismo nelle consuete
forme morbose renali, tanto più essendosi notato che se anche in tali casi l’ aumento nel
sangue si produceva, non si avevano tuttavia i depositi che costituiscono |’ essenza sinto-
matica della gotta.
Contro tale origine dell’accumulo di acido urico depongono anche le osservazioni 0
piuttosto le opinioni dello Pfeiffer 17) prima e del Minkowski poi, che cioè 1° acido
urico circoli in combinazioni tali nella gotta, da non prestarsi ad una eliminazione per il
rene. Invece il concetto del Garrod potrebbe essere sostenuto dalle esperienze di Schi t-
tenhelm 18) e Wiener 19), le quali hanno dimostrato che i reni sono fra gli organi
atti a distruggere acido urico.
Un altro appoggio alle viste del Garrod è dato dalle esperienze dell’ Umber 20) il
quale ha veduto che se si alimenta un individuo sano con cibi privi di purine e gli si
inietta nelle vene acido urico in forma di urato di piperazina, questo ricompare nelle urine.
Per le ragioni del nostro studio è interessante anche il vedere come sieno notate e
commentate le trasformazioni possibili dell’acido urico e la eliminazione di esso, per indurre
qualche dato di fatto in seguito ad eventuali azioni della cura antirabica.
Abbiamo già notato che l’ accumulo di acido urico nel sangue ammesso dal Garrod
come proveniente da una mancata eliminazione, può aversi anche quando questa non sia
impedita affatto, ma indipendentemente pure dalla eliminazione medesima normale che si
effettua attraverso il rene può pure avvenire l'allontanamento dal sangue come effetto del
ricambio dei tessuti. Il Salecker 21) saggiando in un infermo di gotta il contenuto del
sangue arterioso in acido urico, trovò il 5 per mille e nel sangue venoso il 3, e poichè le
prove di sangue erano state prese entrambe dal braccio si doveva ammettere che la scom-
posizione dell'acido urico, e la scomparsa del 2 per mille di esso fosse dovuta al ricambio
materiale dei muscoli del braccio, del tessuto cioè più abbondante ed importante di questa
parte del corpo.
Si è veduto più sopra che è ammessa una formazione di acido urico dalla glicocolla
e che la sottrazione di questa può ritenersi adatta ad impedire l’accumulo di acido urico
nell’ organismo.
— 293 —
Ma è noto pure dalle osservazioni di Ignatowshi che nelle urine dei gottosi si
trova glicocolla, in rapporto col fatto che l'acido urico può dar origine a questa sostanza,
mentre l Hirschstein avrebbe veduto comparire la glicocolla anche nell’orina dei sani
in seguito a somministrazione abbondante di basi puriniche.
D'altra parte, come osserva lo Schittenhelm l’acido urico può trasformarsi in copia
notevole in urea in vari animali e specialmente nell’uomo e di un’altra trasformazione di
questa sostanza si ha la prova nella dimostrazione della presenza di allantoina nell’ urina
umana secondo Schittenhelm e Wiener, confermata da Satta e Gastaldi 22). Nel-
l'individuo normale si produce tanto acido timinico quanto basta a combinarsi con tutto
l’acido urico che proviene dalla scissione delle nucleine endogene ed esogene e secondo
Schmoll 28) nella mancanza o deficienza di questo e di materiale simile si deve ricono-
scere l'origine dell’accumulo di acido urico.
Nel sangue secondo il Preti 24) si trova un fermento atto alla distruzione ed alla
ricostruzione dell’ acido urico.
Già Schittenhelm aveva dimostrato nel fegato del maiale la presenza di un fer-
fermento uricolitico atto in fase ultima a trasformare questo prodotto in urea. Ma finora
simile dimostrazione non si è data per il fegato dell’ uomo.
G. Izar 25) ha messo in vista che il fegato di animali digiunanti non ha nè azione
uricolitica, nè ricostruttiva, ma acquista entrambe queste due proprietà appena detti ani-
mali sieno nutriti o ancora quando in essi si inietti sangue di animali nutriti. Interessanti
sono i fenomeni osservati da questo autore negli uccelli. In essi il fegalo possiede azione
uricolitica anche se privo di sangue. Due ore dopo l'alimentazione ed in assenza di ossi-
geno, quest’ organo è atto a riprodurre acido urico per opera del fermento termolabile del
sangue o di un cofermento termolabile del fegato solubile in alcool e che non esiste nel
rene. L'aggiunta di acido lattico, paralattico, acrilico, ossalico in assenza di ossigeno non
dà formazione di acido urico, ma questo invece si forma in copia in presenza di anidride
carbonica da carbonato d’ ammonio ed urea.
Secondo le esperienze di Satta e Gastaldi la mancanza o la deficienza funzionale
del fegato, quale può aversi in malattie epatiche o in anîmali operati di fistola di Eck
produce un aumento nella eliminazioue dell’acido urico.
Questi fatti comprovano ancora l’azione uricolitica del fegato e la necessità che si
parli, come già propose il Rosin di una urolisi oltre che della glicolisi.
Quanto all'eliminazione dell’ acido urico il Pfeiffer osservava nel 1896 il fenomeno
molto suggestivo in riguardo alla concezione del Garrod, che tale eliminazione sia dimi-
nuita prima dell'accesso gottoso, che aumenti durante esso ed in seguito.
Dal Magnus Lewy nel 1899 si è aggiunto che l aumento incominci al principiare
degli accessi e così pure si è ritenuto dall’ His nel 1900, con la differenza, secondo V' His,
che finito l’accesso si avrebbe una diminuzione della eliminazione.
Lo Zagari non ha veduto regolarità in tali successioni di fenomeni, ma solamente
| qualche aumento di eliminazione durante 1° accesso.
Serie VII. Tomo III. 1915-1916. 39
— 294 —
Effetti notevoli sulla eliminazione come opera di escrezione dall’ organismo si sono
notati nelle esperienze del Pollak 26), il quale ha dimostrato che 1° alcool produce riten-
zione o ritarda l’ escrezione dell’acido urico per le urine, mentre un aumento della alca-
linità di queste, tende a diminuire la solubilità degli urati.
D'altra parte von Loghem ha veduto negli animali che la somministrazione di acido
cloridrico non produce nessun accumulo di urati negli organi.
Tutti curano la gotta proponendosi di allontanare acido urico dall’organismo e però
rassegnandosi ad un provvedimento terapeutico eminentemente sintomatico. Ma fra il feno-
meno cui effettivamente si mira e cioè l’ eliminazione dell’acido urico e quello della reale
diminuzione di questa sostanza nell’ organismo ci corre molto. Il più antico medicamento e
secondo alcuni ancora il più attivo, il colehico, che cerlamente camuffato da salicilato di
colchicina o colchisal che dir si voglia, non può aver acquistato gran che, può dare secondo
Mohr e Stàhelin risultati meravigliosi, sebbene non si sappia ancora certamente come
esso raggiunga lo scopo. Si ritiene che tenda a limitare la produzione dell’ acido urico,
ma veramente il vedere che per opera del colchico diminuiscono i disturbi locali in atto
non pare dia argomento a simile interpretazione.
Il mezzo che più comunemente si trova in pratica è quello rappresentato dall’ uso di
sostanze atle a sciogliere l’acido urico dai suoi vari depositi in seno ai tessuti.
Il Voit 27) chiama inutili tutti 1 mezzi diretti a promuovere la dissoluzione degli
urati o altri prodotti dell’acido urico depositati nei tessuti nel senso di introdurre un
menstruo alcalino.
Afferma anzi il Voit, che una maggiore alcalinità diminuisce la solubilità degli urati,
ma per fortuna le acque alcaline che si utilizzano a questo scopo non raggiungono certa-
mente il meccanismo cui tendono, di modificare cioè l’alcalinità dei tessuti o quella del
sangue. E d'altra parte von Loghem avrebbe veduto negli animali non prodursi verun
accumulo di urati negli organi in seguito a somministrazione di acido cloridrico. Il Fal-
kenstein 28) anzi ha proposto addirittura l’ acido cloridrico come mezzo terapeutico nella
gotta !
Più utili sembrano invece quei medicamenti che non si limitano a provocare una dis-
soluzione dei depositi di acido urico, ma li scompongono combinandosi con 1 acido urico
stesso. Così in parte la piperazina e suoi prodotti, ma più l'acido nucleinico e prodotti
viciniori come l’acido timinico, l’acido fenilcinconinico (atofan) e prodotti simili quale la
diapurina di Ciusa e Luzzatto. Essi hanno un ufficio molto più notevole e possono real-
mente svelenare l’organismo da questo materiale di rifiuto. Tutti questi medicamenti se
hanno oggi dei detrattori, hanno anche ora ed ebbero sempre dei sostenitori valenti.
È interessante l’uso dell’acido timinico proposto già dal Minkowski 29), in quanto
questa sostanza si forma, come più sopra si disse, nell’organismo e potrebbe anche essere
fisiologicamente destinata alla dissoluzione dell’acido urico e dei suoi prodotti. È certo che
questa sostanza che sotto il nome di solurol è molto diffusa in terapia fa eliminare gran
copia di acido urico per le orine, ma è anche necessario il ricercare se e fino a quale dose
essa possa essere sopportala dall’organismo senza produrre qualche altra azione oltre
a quella terapeutica che gli sì domanda.
— 295 —
E quindi un buon principio di studio quello del Cosentino 80) diretto a ricercare se
la somministrazione di acido timinico negli animali modifichi i fenomeni di avvelenamento
o in generale i disturbi prodotti da precedente o contemporanea introduzione di acido urico.
Le rane, che furono scelte come animali di ricambio lento, dimostrarono che l'acido timi-
nico peggiora le condizioni prodotte dall’ acido urico, invece nei conigli si ebbe un reperto
opposto. In questi cioè fu veduto che l’ acido timinico rende più lieve l’avvelenamento da
acido urico o ne fa sopportare dosi più elevate.
Varrebbe la pena di osservare questi fenomeni nei cani, in cui è possibile il prodursi
di sintomi simili a quelli della gotta nell’ uomo, specialmente operando su individui delle
razze così dette Danesi, che vanno facilmente soggette a forme artritiche degli arti.
Insieme occorrerebbe vedere le condizioni dell’ eliminazione rispettiva dell’acido urico.
Quanto ai più recenti farmaci, all’atofan cioè e alla diapurina, non è forse tanto semplice
l’interpretazione del rispettivo modo di agire. L’ atofan, acido fenilchinolin tetra carbonico,
per generale consenso di farmacologi e terapisti, dopo le prime osservazioni di Nicolaier
e Dohrn 831) può dare un aumento dell’acido urico per le urine fino al quadruplo del-
ordinario. La massima eliminazione avviene nel primo giorno di somministrazione e poi
essa diminuisce.
Lo stesso fatto si produce sebbene con effetto minore per la diapurina di Ciusa e
Luzzatto 32), con la differenza che l’effetto potente dell’ atofan ha potuto produrre coliche
renali per la rapida eliminazione dell’ acido urico, come io stesso ebbi a verificare in un
amico mio che avevo già posto sull’avviso sulla possibilità della non piacevole compli-
cazione.
La diapurina esercitando un’azione più lenta e più mite non fa incorrere in simili
pericoli.
Il meccanismo col quale secondo Nicolaier e Dohrn si provoca una maggiore eli-
minazione di acido urico per le urine, consiste nella facoltà che l’atofan possiede di distrug-
gere una maggior copia di nucleina. Parrebbe che il materiale distrutto fosse quello già
destinato alla formazione di acido urico e che l’atofan affrettasse il fenomeno, in modo da
scaricar l’organismo da questa sostanza molesta.
Lo stessò concetto è sostenuto dallo Starkenstein 33), il quale mostrando come
successivamente all’ uso dell’atofan si abbia una diminuzione di eliminazione dell’ acido
urico per le orine, crede di aver dimostrato con ciò la distruzione dei nucleo-proteidi pro-
genitori dell'acido urico.
Invece il Weintraud 34) in seguito ad esperienze eseguite in individui di cui era
determinato il bilancio organico ha potuto escludere che avvenga questa maggiore distru-
zione di nucleine ed ammette nell’atofan una azione elettiva sul rene, che acquiste-
rebbe la proprietà di lasciar passare più facilmente l’ acido urico. Nelle prove del W ei n-
traud l’acido urico delle urine in seguito all’uso di atofan dapprima cresce e poi dimi-
nuisce, mentre diminuisce anche nel sangue e nei tessuti. In individui sani che non ave-
vano depositi di acido urico ed erano mantenuti a dieta apuriniea si ebbe pure maggiore
eliminazione di acido urico da principio della somministrazione di aiofan e poi non più.
— 296 —
Queste osservazioni veramente contrastano del tutto col concetto dello Starkenstei n,
il quale tuttavia avrebbe bisogno di determinazioni più precise che si riferissero alle
nucleine più labili atte a dare acido urico nei casi di gotta. Con ciò non intendiamo di
di abbandonare la interpretazione del Weintraud che oltre a tutto è sostenuta anche
dalle esperienze di Bauch e Frank 35). Questi osservatori avrebbero veduto che |’ acido
urico introdotto nelle vene di un gottoso ricompare nelle urine nei giorni di somministra-
zione di atofan, ma invece per buona parte rimane neil’ organismo, quando | atofan non
sia somministrato.
Il che ci porta naturalmente ad altra concezione della patogenesi della gotta che non
sia una alterazione del ricambio, ci riconduce cioè all’antico pensiero del Garrod di una
mancata eliminazione per deficienza renale.
L'esperienza di Bauch e Frank un po’ avventata dal punto di vista umano, è molto
conchiudente per il vecchio concetto anzidetto, ma poichè è pur noto che una maggior
copia di acido urico si osserva di fatto nei gottosi, sia perchè pur essendo copiosa l’ elimi-
nazione o anche superiore alla norma si hanno depositi e ristagno nel sangue e nei tes-
suli, sia perchè anche in dieta apurinica il gottoso può continuar a produrre e ad elimi-
nare acido urico, è lecito anche ammettere 1)’ opportunità di tali farmaci che combattano
la gotta dal punto di vista di diminuire la formazione di acido urico.
Il più caratteristico di questi farmaci è rappresentato dall’ acido chinico, cui sono asso-
ciati altri elementi, come l’urea nell’ urol, il citrato di litio nell’ urosina, la piperazina nel
sidonal. L'acido chinico, come è noto, rallenta il ricambio azotato e parrebbe quindi a tutta
prima controindicato nella gotta.
Ma nello stesso tempo si osserva che sotto l’uso di acido chinico diminuisce la for-
mazione di acido urico, perchè esso si trasforma nell’ organismo in acido benzoico, che con
la glicocolla dà acido ippurico. È così sottratta la glicocolla all’organismo ed è limitata
la conseguente formazione di acido urico per questa via.
Come possono influire sulla eliminazione o rispettivamente sulla produzione dell’ acido
urico condizioni che tendano a distruzione di nucleine, ad aumentare la eliminazione del
fosforo e dell’azoto per le urine 2?
La cura antirabica che ha siffatte attitudini influisce sulla eliminazione e produzione
di acido urico ?
Per rispondere a queste questioni che interessano la patogenesi dell’ uricemia e quindi
la cura di essa, almeno quanto interessano i rapporti con gli effetti della cura antirabica,
bisogna innanzi tutto dimostrare fino a che punto spetti alla cura o vaccinazione antira-
bica un’ azione disintegrante di composti nneleinici, atta a liberare in ultima analisi del-
l’acido urico o a determinarne depositi nell’organismo e peggiorare quindi le condizioni
di una diatesi uricemica.
Già fin dal 1899 io avevo fatto eseguire nel mio Istituto uno studio preliminare dal
Dott. Bellucci 36) per notare se nelle condizioni fatte dalla cura del Pasteur si avesse
una modificazione del ricambio azotato.
— 297 —
Te esperienze del Bellucci furono condotte sopra due individui giovani e sani che
tuttavia non sì mantennero a dieta costante e furono sottoposti alle vaccinazioni antira-
biche unicamente a scopo sperimentale. Non si può tener conto in questi casi se non dei
valori medi, perchè la dieta non fu rigorosamente costante, ma tuttavia anche i valori
medi dimostrano ad esuberanza il fatto. Nei due individui in seguito a dette vaccinazioni
si ebbe una maggiore eliminazione di azoto per le urine ed anche per le feci. Si noti che
contemporaneamente in questi stessi individui si dimostrò una minore introduzione di azoto,
il che rende più accentuato il fenomeno, ma fa pensare anche a disturbi accessori insorti
durante la cura.
Per queste ragioni feci ripetere le prove da altri, ed uno studio eseguito 1’ anno suc-
cessivo dal Dott. Dalmastri 37) confermò i risultati precedentemente ottenuti e aggiunse
anche dati importanti riguardo al ricambio fosforato.
Le esperienze del Dalmastri eseguite sopra lo stesso osservatore, che si trovava in
perfette condizioni di salute, risultano di 5 periodi di prove e cioè il primo per istabilive
le condizioni normali di confronto, il secondo comprendente 12 giorni di vaccinazioni con
le quali si introdussero sottocute le emulsioni dei midolli di coniglio dal N. 14 al N. 3 vale
a dire dal 14 al 6, midolli non virulenti perchè provenienti da conigli morti per innesto
di virus rabbico fisso, ma tenuti per un tempo da 14 a 6 giorni a 20°. Seguirono le. vac-
cinazioni con materiale virulento cioè con midolli N. 5-4-3. Il terzo periodo comprendeva
giornate di riposo per osservare eventuali effetti successivi. Nel quarto periodo si ripresero
iniezioni di materiale virulento e nel quinto periodo infine sì lasciò un riposo assoluto di
8 giorni per notare le condizioni di ritorno al normale.
I risultati medi di queste prove eseguite con grande esattezza sono riassunti nella
tabella che segue :
1° Periodo | 2° Periodo n SCOLO 4° Periodo | 5° Periodo
(normale) | (cura) pe di ripresa | (riposo)
Introduzione di Azoto... .. . 10, 6 IO 7 22 II 07 108
PerditaWpengle* feci. i .unifst 1,385 1, 454 1,376 1, 498 1, 959
Perdita per le orine ...... 9,03 9, 84 11, 10,37 9, 26
AVEVO. GI VAVADIO, do do + 0,19 | — 0,58 | -- 0,26 | — 0,80 | + 0,21
Azoto delle orine °/ introdotto 85, 18 91, 96 90, 16 93, 67 83, 95
Azoto feci °/, introdotto. . . . . 1,30 5 1 1,34 1, 4l
Le perdite di azoto per le feci non dimostrano modificazioni degne di nota e provano
che le condizioni del tubo digerente si mantennero normali.
Quanto alle perdite per le orine esse sì produssero nel primo periodo in ragione del-
135 °/, dell’ azoto introdotto con l’ alimentazione, anzi nell’ ultimo periodo normale, di riposo,
— 298 —
si nota che le condizioni normali sì ristabilirono al punto .che la eliminazione di azoto per
le orine diminuì anche al disotto del periodo normale di confronto e certamente per rime-
diare alle perdite prodottesi durante le vaccinazioni.
Notiamo che appunto per queste perdite si ebbe in questo individuo un aumento del-
l'appetito, che si estrinsecò con una maggiore introduzione di azoto. Le perdite totali medie
furono di 0,58-0,26-0,80 nelle giornate di vaccinazione o in quelle immediatamente succes-
sive, mentre nei periodi normali si era avuto un avanzo di 0,19 e 0,21 di azoto sulla intro-
duzione effettuata.
È dunque fuor di dubbio che la vaccinazione antirabica porta una maggiore scompo-
sizione di sostanze proteiche. La ricerca contemporaneamente eseguita nei rapporti della
anidride fosforica può dirci se la disintegrazione riguardasse nucleoproteidi. Nel fatto se
consideriamo ancora la divisione dei cinque periodi sperimentali anzidetti possiamo formare
la tabella che segue e che si riferisce solamente alla eliminazione dell’ anidride fosforica
per le urine.
1° Periodo . 7
vani 2° Periodo | 3° Periodo | 4° Periodo | 5° Periodo
i a .
HE S "pres: )
la cura durante uccessivo | ripresa dopo
A ME Re e i
L'aumento dell’ eliminazione è ben visibile, ma esso si rende più evidente, se il 2°
periodo venga scomposto in due parti, quella dei midolli non virulenti e quella dei viru-
lenti. In questo modo si osserva che l’ eliminazione sotto l’azione dei midolli non virulenti
fu di 1,18 e per i virulenti 2,19 presso a poco come nei 3 giorni successivi alle vaccina-
zioni, cioè nel 3° periodo. Ammettere dunque in base a queste esperienze una maggiore
scomposizione di nucieine mi sembra lecito e mi par possibile quindi intravedere la even-
tualità di una maggiore produzione di acido urico.
Eva tuttavia ammissibile un dubbio, se cioè la fosfaturia o anche l iperazoturia
si dovessero direttamente alle emulsioni di midolli introdotti sottocute pur sapendosi che
il midollo così iniettato per ogni inoculazione oscilla intorno a mezzo gramma di sostanza
nervosa fresca.
Già cotesta osservazione che pochissimo era il materiale introdotto poteva allontanare
il dubbio affacciato, molto più che nelle prove sopraindicate si era visto il massimo effetto
tanto per l’azoto come per il fosforo sotto l’azione dei midolli virulenti, che pur contene-
vano la medesima quantità di sostanza nervosa.
Un altro mio allievo si assunse questa ricerca, il Dott. Majara 88) il quale eseguì
le esperienze sopra sè stesso mantenendosi a dieta costante ed aumentando di peso dopo
la fine di esse. Il Majara fu inoculato dapprima con midolli di coniglio sano e normale
e poi con i soliti midolli rabbici di serie fino al N. 5.
AZIO
I risultati sono esposti nella tabella seguente :
Durante
Prima midolli Dopo di essi
normali
RENE &UBE 16 3 ARA]
ATO GI AZOIO e eee o 2,917 2, 591 Da
® Eliminazione di P°O? per le orine 2), CITI) 3, 195 3, 218
Durante
Prima midolli Dopo di essi
rabbici
ATAIZO GI VAZIOIO. Sio oto oto 3, 389 2 SIL 2,385
Eliminazione di P°O? per le orine SIlor 3, 804 5,100
Nessuna variazione notevole si osserva nel caso dei midolli normali, le iniezioni quindi
di sostanza nervosa normale nelle proporzioni tenui usate durante le vaccinazioni antira-
biche non danno effetti di sorta per quanto si riferisce all’azoto ed al fosforo eliminati.
Invece nelle prove eseguite con midolli tolti a conigli morti per virus rabbico fisso,
sebbene non si sia proceduto al di là del N. 5 e non cioè ai più virulenti, si ebbe una
forte diminuzione dell’avanzo di azoto ed un fortissimo aumento nelle perdite di fosforo;
l’uno e l’altro fatto continuatisi nel periodo successivo alle vaccinazioni.
Anche questo lavoro risolveva dunque categoricamente la questione posta.
Senza dubbio l’aumento dell'azoto parallelo a quello del fosforo nelle orine fa pensare
ad una disintegrazione di nucleoproteidi, di composti cioè da cui suole originarsi anche
l’acido urico.
Tutte le vaccinazioni in generale portano da più a meno ad una leucocitosi e relativa
leucolisi. Questo fatto riguardo alla cura antirabica fu oggetto di studio in un lavoro uscito
dal mio Istituto e pubblicato dal Dott. Paltracca 39) che lo verificò in varie persone
sottoposte alla cura anlirabica.
È possibile che la distruzione successiva delle forme globulari neoformate conduca alla
fosfaturia ed iperazoturia notate e quindi si presenta tanto più probabile che dato tale
fatto si debba avere una maggior produzione di acido urico ed anche di materiali inor-
ganici che nei globuli stessi si contengono e deve essere eliminato dall’ organismo.
In occasione per ciò di un caso occorsomi che mi costrinse a sottopormi di nuovo alle
periodo successivo ad essa.
vaccinazioni antirabiche, studiai il ricambio mio limitatamente ad alcuni prodotti della
eliminazione per la via urinaria, durante alcuni giorni della cura antirabica e durante un
Le condizioni in cui mi trovavo in quel tempo cioè dal 10 al 24 Febbraio 1915 erano
normali. Attendevo alle mie consuete occupazioni, cioè alle lezioni, al lavoro di laboratorio,
al servizio antirabico, rimanendo in piedi la massima parte della giornata, percorrendo
®
— 300 —
circa 6 chilometri al giorno cioè 4 volte la distanza che separa la mia casa dall’ Istituto,
evitando strapazzi di ogni genere e possedendo come sempre buon appetito.
Non ebbi disturbi apprezzabili, emisi orine ordinariamente limpide non ostante la bassa
temperatura esterna, in ogni caso ebbi cura di riscaldarle prima delle prove per ottenere
la dissoluzione degli urati precipitatisi per la temperatura esterna.
Non mi sottoposi ad una dieta rigorosamente costante, ma mantenendomi al mio con-
sueto regime, che è molto regolare, evitai modificazioni sia pur lievi alle mie diete abi
tuali e trattandosi di confronti non occorreva determinismo diverso.
Il tipo di cura che mi applicai comprese un periodo dal 29 Gennaio al 17 Febbraio e
fu eseguito rispettivamente con la serie di midolli sotto indicata.
29 Gennaio — Midollo di 12 giorni 8 Febbraio — Midollo di 3 giorni
30 id. _ » 10.» 9 id. = » O»
81 id. — » 8» 10 id. _ » One
1 Febbraio — » T ‘5 iù id. — » ARS
2 id. — » ©» 12 id. — » Se
3 id. — » DD 13 id. — » 05
4 id. — » 4» 14 id. — » 6. »
9) id. — » IS 15 id. — » Dis
6 id. — » 5.» 16 id. -- » 4. »
7 id. — » 4» 17 id. — » BILIE
L'esame delle urine fu eseguito sul materiale raccolto giornalmente dalle 8 del mat-
tino durante le 24 ore successive. La ricerca cominciò dal giorno 10 Febbraio e continuò
ininterrottamente fino al termine della cura eccezion fatta dall’ ultimo giorno cioè il 17 nel
quale per errore il materiale andò perduto.
Si riprese poi il 18 fino al 24 cioè per altri 8 giorni successivi.
Nessun fenomeno degno di nota nè soggettivo nè oggettivo si presentò in questo periodo,
l'emissione delle feci seguì regolarmente ad ogni 24 ore.
La determinazione dell’acido urico fu compiuta con l’antico metodo dell’Heintz e la
correzione proposta dallo Zabelin secondo il riferimento del Neubauer 40) Se pure
questo metodo non è esattissimo, esso però nella fattispecie soddisfa allo scopo perchè ese-
guito sempre in orine dello stesso individuo, alimentato in maniera uniforme, con sistema
di vita costante ed in giornate vicine le une alle altre così da aversi ottimi raffronti, anche
se i valori assoluti non sieno stati esaltissimi.
Il Cloro venne determinato col processo noto del Volhardt da me 41) modificato.
L'acido solforico totale fu isolato come di consueto bollendo con cloruro di Bario previa
acidificazione e bollitura con acido cloridrico.
L’azoto totale fu determinato col noto processo del Kijehldahl]. Il calcio precipitato
in forma di ossido, acidificando prima con acido cloridrico poi aggiungendo cautamente
ammoniaca e infine acetato d’ammonio, fu raccolto su filtro tarato e dopo incinerimento
in crogiolo di platino venne trasformato in carbonato con aggiunta di qualche goccia di
soluzione acquosa di carbonato d’ ammonio.
— 301 —
La quantità dell’ orina raccolta nelle 24 ore era misurata in cilindro tarato e in essa
determinato col densimento a 15° il peso specifico. I dati raccolti con questi metodi hanno
servito alla formazione della tabella che segue e che comprende tutti i risultati degli esami
eseguiti sulle orine nei due periodi sopra cennati.
1 Giornata. | ingo, | Densità | tetato || arico | 80° | OL lealcolato| 2
10 Febbraio | 1215 | 1020 |10,274 |0,4823 | 2,700 | 6,458 | 10,660 | 0,1652
il id 1240 | 1018 |10,624 | 0,4916 | 2,734 | 7,389 | 12,196 | 0,3199
12 id. 1500 | 1015 |10,164|0,4726 | 2,379 | 7,748 | 12,789 | 0,1920
13 id. 1690 | 1015 | 11,924 |0,5724| 2,464 | 9,802 | 16,180 | 0,1448
Let: 1175 | 1020 | 8,422 |0,3937| 2,619 | 7,0H1 | 11,622 | 0,2429
15 id. 1175 | 1023 |11,778|0,3875| 2,743 | 8,375 |13,824 |0,2084
elia 1470 | 1018 |12,183|0,3182 | 2,410 | 7,691 | 12,695 | 0,2178
Media | 1352 1018 | 10,767 | 0,4454 | 2,578 | 7,787 | 12,853 | 0,2150
18 Febbraio 1710 1017 11,491 | 0,4753 |. 2,117 8,703 | 14,366 | 0,1542
loiiia 955 | 1024 | 11,177| 0,5488| 2,295 | 5,376 | 8,3874| 0,1354
20 id. 1520 | 1020 | 16,428 | 0,1406| 3,245 | 7,937 | 13,101 | 0,1966
2 esta 1255 | 1019 | 16,656 | 0,3343| 2597 | 7,669 | 12,659 | 0,1262
2 id. 845 | 1021 | 11214] 0,2046| 2209 | 5,865 | 8,856 | 0,1042
330 id. 910 | 1028 | 12,077 | 0,4887| 2,370 | 6,135 | 10,127 | 0,0820
24 id. 1080 | 1025 | 14016) 0,6149| 2,890 | 5,294 | 8,738 | 0,1777
Media | 1175 1021 13,294 | 0,3931 2,982 6,639 | 10,960 | 0,1399
Le cifre in grassetto riguardano le giornate di vaccinazione antirabica.
Il primo risultato che emerge dall’ esame della tabella come effetto delle vaccinazioni
è l'aumento della quantità dell’ orina, aumento che la densità corrispondente dimostra essere
dovuto massimamente ad acqua, perchè alla maggiore quantità eliminata corrisponde una
densità minore, ed alla quantità minore, durante il riposo, corrisponde una densità mag-
giore con un rapporto eguale. Calcolando infatti il residuo secco dell’ orina dalla densità
rispettiva si avrebbe una media eliminazione giornaliera di gr. 24,33 durante le vaccina-
zioni e di gr. 24,67 durante il riposo; un residuo dunque un po’ maggiore nel riposo.
Se consideriamo questo fatto nelle esperienze sopra citate del Dalmastri troviamo
che si ha un fenomeno opposto. e cioè una maggior eliminazione di prodotti fissi durante
la cura antirabica, una minore eliminazione durante il periodo normale. Si ha cioè nel
periodo normale prima della cura gr. 23,95, in quello successivo alla cura stessa gr. 24,13
e invece durante le prime vaccinazioni gr. 23,90 e subito dopo gr. 25,89, durante le vac-
cinazioni virulente gr. 25,32.
Serie VII. Tomo HI. 1915-1916, 40
— 302 —
Nelle esperienze del Majara si ebbe 25,49 prima delle vaccinazioni, 26,2& durante le
vaccinazioni con midolli inattivi, 29,98 subito dopo di queste e 30,57 durante le vaccina-
zioni con midolli virulenti. Nel periodo di riposo successivo si tornò a 28,78.
Perchè dunque nel mio caso si è verificato l’ inverso che in quello dei miei giovani
allievi? Le prove eseguite sopra di me in periodi precedenti non mi permettono nessun
confronto da questo punto di vista, perchè non fu preso in quelle mie altre esperienze il
peso specifico dell’orina. Se ora consideriamo le condizioni che possono aver influito sul
peso specifico dell’orina, dobbiamo notare che il primo nesso causale deve essere dato
dall’ azoto.
La tabella ci dimostra infatti che in me le vaccinazioni antirabiche non produssero
affatto iperazoturia, sebbene le prove fatte riguardassero gli ultimi 7 giorni, con midolli
della massima virulenza, fino anzi al N. 2 che nelle cure eseguite sui miei allievi non
venne mai adoperato.
La cifra media riferita dalla tabella ammonta a gr. 10,76 durante il periodo vacci-
nale e gr. 13,294 nel periodo di riposo successivo.
Un risultato analogo al mio troviamo nelle prime ricerche eseguite dal Bellucci e
ricordate più sopra. I due individui sani e giovani che furono oggetto di quelle ricerche
si trovavano entrambi in risparmio di azoto. Ebbene, nell’uno il risparmio giornaliero che
era di 3 gr. prima della cura scese a gr. 2,25 durante questa, nell’altro era di gr. 3,5],
scese a soli gr. 3,28 durante la cura e successivamente discese a gr. 2,45, dimostrando
adunque una maggiore perdita dopo la cura che non durante la medesima.
Questo secondo caso parrebbe dunque assomigliare al mio, ma è solamente un’ appa-
renza insuperficiale. Se guardiamo infatti alla tabella, osserviamo che nei sette giorni suc-
cessivi alle vaccinazioni non si son notate affatto cifre scalari che tendessero a dimostrare
un rialzo come effetto postumo della cura e un successivo ritorno graduale alla norma.
Le eliminazioni giornaliere dell’ azoto totale furono sempre elevate in tutte le sette gior-
nate con un rialzo anzi nell’ultima, dimodochè bisogna proprio conchiudere che la mia
reazione individuale fu diversa da quella dei miei allievi. Può porsi questo caso in conto
della diatesi uricemica, affermata da pregresse artropatie, da disturbi gastroenterici, da
tara ereditaria? Certamente occorreva un periodo di ricerca precedente alla cura o lon-
tano assai da questa per dirimere la questione, ehe qui può ricevere solamente un prin-
cipio di soluzione.
Se poniamo mente alle determinazioni dell'acido urico, notiamo un risultato, che giu-
stifica il concetto di una leucolisi durante la cura, ma non è certamente parallelo a quello
che riguarda l’ eliminazione dell’azoto totale.
L'acido urico emesso durante le vaccinazioni antirabiche raggiunse una media di
gr. 0,4454 per giorno, mentre nel periodo di riposo successivo discese a gr. 0,393 e se
prendiamo quest’ultima cifra come rappresentante dello stato normale avremmo una maggior
eliminazione del 13,30%. Anche per questo caso un esame della eliminazione di acido
urico in un periodo precedente alle vaccinazioni sarebbe stato utilissimo per conchiudere
con maggior fondatezza, se durante la cura antirabica si elimini maggior copia di acido
agi
urico proveniente da depositi preesistenti, o da scomposizione di prodotti intermediarî, o
anche da aumento del fermento uricolitico dello Schittenhelm.
Mi sembra lecito l’ammettere che i risultati ottenuti nei sette giorni successivi alla
cura rappresentino le condizioni normali e non un effetto tardivo delle vaccinazioni, perchè
le cifre ottenute sono saltuarie, non decrescenti, anzi con un aumento massimo nell’ ultimo
giorno di osservazione, il più lontano dalle vaccinazioni antirabiche.
Che se potesse confermarsi in altri uricemici specialmente più gravi e più netti di
quelli che non sia il mio caso, che la cura antirabica pure diminuendo le perdite di azoto
produce una maggiore eliminazione di acido urico, ne verrebbe una indicazione terapeutica
di una certa importanza.
Le determinazioni analitiche eseguite su qualche elemento del ricambio materiale
inorganico tendono anch’esse a confermare che non vi sia stata durante il periodo della
cura una maggior distruzione di proteidi dacchè non si ebbe maggior perdita di acido
solforico totale.
Infatti l'eliminazione media di acido solforico durante la cura fu di gr. 2,578 e dopo
di essa gr. 2,532, una differenza di appena 4 centigr. corrispondenti a centigr. 1,3 di solfo,
che calcolando il contenuto medio delle albumine in 1,35%, rappresenterebbero gr. 1 di
albumina, dato e non concesso che questo solfo provenisse tutto da distruzione di sostanze
proteiche.
D'altra parte il fatto che non potè riscontrarsi durante la cura una maggiore perdita
di azoto, che dovrebbe di necessità notarsi per una maggior distruzione di proteine, ci per-
mette di arguire che l’ aumento dell’acido solforico tenga piuttosto ad una variazione del
ricambio minerale. Infatti il cloro che si ritiene generalmente connesso col ricambio mine-
rale, aumentò notevolmente nel periodo vaccinale, poichè mentre nelle condizioni di riposo
la eliminazione giornaliera di cloro era in media di gr. 6,639, durante il periodo della cura
fu di gr. 7,78, cifre che si possono rendere anche più accentuate se cotesto cloro si con-
sideri legato alla soda. In forma di cloruro sodico la eliminazione normale delle 24 ore
sarebbe stata di gr. 10,96 e quella invece della cura antirabica sarebbe ammontata a
gr. 12,85. Evidentemente un aumento del cloro avrebbe anche potuto accompagnare un
aumento del ricambio organico, ma daechè questo non potè dimostrarsi nelle nostre espe-
rienze, occorre attribuirlo alla variazione del ricambio minerale il che meglio si sarebbe
provato con dirette determinazioni della soda o della potassa o dell’azoto ammoniacale,
determinazioni che non furono eseguite.
Quanto al calcio osserviamo che la media di eliminazione nelle giornate normali fu
di gr. 0,139 e quella del periodo di cura raggiunse i gr. 0,213, con un aumento di 0,074
cioè del 53,9%, mentre il cloro era cresciuto del 17,2%.
Si sa che il calcio si associa di consueto alla eliminazione dell’ acido fosforico e noi
sappiamo dalle nostre esperienze che l'aumento dell’ anidride fosforica non è mancato mai
in tutti i casì di cura antirabica fin qui studiati compresi naturalmente quelli in cui io
stesso fui oggetto di esperimento.
— 304 —
Nel caso attuale la maggiore eliminazione di calce può tenere tanto alla maggiore
perdita di acido fosforico, di origine organica, come ad un acceleramento del ricambio
minerale. Per risolvere la questione bisognerebbe che fosse studiato nei suoi vari compo-
nenti il ricambio azotato per poter attribuire il fosforo eliminato o a nucleoproteidi che
distruggendosi aumentassero l’ eliminazione dell’ acido urico, o invece a materiali fosforati
di minore importanza fisiologica.
Le lacune che io ho messo in vista particolarmente saranno colmate quanto prima,
non mancano certamente i soggetti di esperimento ed è interessante il profiltarne per uno
studio così proficuo.
Intanto quale che sia l’importanza di questo mio studio preliminare rimane dimostrato
che le vaccinazioni antirabiche pure essendo atte a cagionare una leucolisi non diedero in
un uricemico l’attesa scomposizione di sostanze proteiche, non produssero iperazoturia, ma
aumentarono l’ emissione dell’acido urico insieme al calcio e al cloro.
Opportuna ancora si presenta la ricerca dell’acido urico in queste condizioni in indi-
vidui giovani e sani per venirne a conchiusioni terapeutiche e ad applicazioni pratiche.
— 305 —
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N Teseo
Sul canali pleuropericardiaci in embrioni di
Muletia (Tatusia, Dasypus) novemcincia
NOTA
Prof. ERCOLE GIACGOMINI
(letta nella Sessione del 21 Maggio 1916)
In due embrioni di armadillo, di Muletia (Tatusia, Dasypus) novenicincta (1), uno della
lunghezza di mm. 12,4 e l’altro di mm. 12, il primo suddiviso in sezioni seriali trasversali,
il secondo in sezioni seriali sagittali, ho osservato alcune particolarità sulla disposizione e
sull’aspetto dei canali o dotti pleuropericardiaci (ductus pleuropericardiaci), di quei canali
‘cioè che si formano nel complicato meccanismo di separazione della cavità pericardiaca
dalla rimanente cavità del corpo e per mezzo dei quali, durante un certo tempo, la cavità
pericardiaca comunica da ogni lato con la rispettiva cavità pleurica e, quando questa non
è ancora chiusa caudalmente e separata dalla cavità peritoneale, comunica anche col resto
della cavità viscerale.
Il nome di canali o condotti pleuropericardiaci (ductus pleuropericardiaci) si dà anche
a tutto lo spazio celomatico situato dorsalmente alla cavità pericardiaca primitiva e che
dapprima fa comunicare ampiamente questa cavità con la cavità peritoneale. Lo spazio
dei dotti pleuropericardiaci primitivi, che il Brachet chiamò anche doccie pleuropericar-
diache primitive, è destinato a divenire da ogni lato cavità pleurica (cavità pleurica pri-
mitiva) nella sua porzione posteriore (caudale) mentre nella sua porzione anteriore (craniale)
continua, come doccia pleuropericardiaca (Brachet) a far parte della parete dorsale della
cavità pericardiaca, e i canali che, ad un periodo piuttosto inoltrato dello sviluppo embrio-
nale, allorchè la separazione della cavità pericardiaca dalla cavità pleurica è già avanzata,
permettono ancora la comunicazione tra l'una e l’altra di queste due cavità, sono un
residuo dei primitivi dotti pleuropericardiaci e si formano nel punto di passaggio tra le
due porzioni testè ricordate. Nella presente nota col nome di canali pleuropericardiaci
indichiamo tali residui.
(1) Appartengono a quella stessa serie di embrioni di Muletia che servirono a Vernoni per il
suo lavoro su « lo sviluppo del cervello in Muletia » (Arch. Ital. di Anat. e di Embr. Vol. 12) ed
a me per lo studio su « l’organo di Jacobson od organo vomero-nasale, il nervo vomero-nasale, il
nervo terminale etc, » (Queste Memorie, Ser. VI, Tomo X).
Serie VII. Tomo III, 1915-16. 41
— 308 —
Nulla posso dire intorno al modo col quale questi canali si formano nell’ armadillo,
mancandomi tutti gli stadî precedenti a quello in cui li ho veduti e studiati, ma poichè
se ne discostano un poco sia per la loro disposizione sia per il loro aspetto. strutturale,
credo che anche la maniera di loro formazione, pur essendo la medesima nei tralli essen-
ziali, debba alquanto differire da quella conosciuta negli embrioni di altri Mammiferi, spe-
cialmente di coniglio e di cavia, per gli studi di Uskow, di Lockvood, di His, di Ranv
e segnatamente di Brachet e di Hochstetter.
Anche nell’ embrione umano i canali pieuropericardiaci sono stati bene studiati per
opera di His, di Mall e più recentemente di Broman, che, nel suo libro « normale und
abnorm Entwicklung des Menschen » a pag. 586 (Fig. 466), dà una figura di un modello
di ricostruzione che mostra assai chiaramente la loro disposizione.
Come ha dimostrato Brachet, negli embrioni di coniglio di dodici giorni e mezzo e
di tredici giorni e mezzo di età e anche in embrioni della lunghezza di 9 a 11 mm., gli
sbocchi dei due dotti pleuropericardiaci si presentano sotto forma di due strette fessure
che. poi decorrone cranialmente a guisa di due doccie, una per lato, dall’autore chiamate
doccie pleuropericardiache. Queste due doccie, che sono la porzione craniale delle doccie
pleuropericardiache primitive e che fanno parte della parete dorsale della cavità. pericar-
diaca (1), verso l’interno (medialmente) sono delimitate dal grosso cercine longitudinale,
cercine mesenterico come lo chiama Brachet, che corrisponde alla porzione anteriore 0
craniale del mesocardio dorsale ed è formato dalla massa di tessuto connettivo embrionale
in cui sono compresi l’ esofago e la trachea (donde anche il nome di cercine tracheale) e
che sporge sulla linea mediana nella parete dorsale della cavità pericardiaca primitiva;
verso l’esterno (lateralmente) sono invece delimitate dalla parete mediale del dotto di
Cuvier del. rispettivo lato.
La chiusura delle cavità pleuriche [che rappresentano. ad un certo momento la por-
zione posteriore (caudale) delle doccie pleuropericardiache primitive, vale a dire quella loro
porzione che Brachet ha indicato col nome di doccie pleurali (cavità pleurali primitive) (2)]
verso la cavità pericardiaca avviene per il fatto, rilevato da Brachet,.che i dotti di
Cuvier, quando, cambiando direzione, assumono un decorso longitudinale (caudo-craniale),
stanno dapprima addossati agli atrî del cuore e successivamente si saldano con la parete
dorsale degli atrî medesimi, mentre il cercine mesenterico o cercine tracheale della parete
dorsale della cavità pericardiaca nella sua parte posteriore (caudale) si unisce sulla linea
mediana con la parete dell’atrio formando il mesocardio dorsale propriamente detto (che
(1) Esse appartengono in certa maniera alla parete dorsale del corpo che qui cranialmente viene
a costituire la parete dorsale della cavità pericardiaca. Brachet fa osservare che non si è ancora
seguìto il destino delle doccie pleuropericardiache nell’ulteriore evoluzione del pericardio definitivo.
Accennerò più innanzi alla regione del pericardio che, almeno in parte, io ritengo derivare da esse nel
successivo modificarsi del pericardio.
(2) Questa porzione posteriore corrisponde al recessus parietalis dorsalis di His (al prolungamento
toracico della cavità del tronco) nell’embrione umano, il quale recesso diviene la cavità pleurica e
riceve l’abbozzo del polmone,
— 309 —
sì melte in continuazione col meso ventrale dando luogo ad un setto tra i due polmoni,
il setto mesenterico) e da ogni lato con la parete dei vicini dotti di Cuvier. Per mezzo
di questo processo descritto da Brachet, le doccie pleuropericardiache nella loro porzione
posteriore, nel tratto cioè di passaggio alle doccie pleurali divenute cavità pleuriche, sono
trasformate in strette fessure o canali, i canali pleuropericardiaci, i quali però finalmente
sì chiudono per saldamento delle loro pareti. In altre parole, i canali pleuropericardiaci si
restringono fino a ridursi ad anguste fessure per azione dei dotti di Cuvier e poi si chiu-
dono completamente per | attivo accrescimento delle membrane pleuropericardiache che
rappresentano la parte dorso-craniale del setto trasverso e che Broman chiama anche
setto pericardiaco-pleurale primitivo (1). Da ultimo ciascun canale ha l’ aspelto di fessura e
si trova a lato del cercine tracheale tra questo eil rispettivo dotto di Cuvier. Nell’ esame
della, serie delle sezioni, procedendo in senso cranio-caudale, i canali negli embrioni di
coniglio s’ incontrano prima di giungere a quelle sezioni che cominciano a colpire le cavità
pleuriche e l’ estremo craniale dell’ abbozzo dei polmoni e pertanto prima di giungere sulle
membrane pleuropericardiache. In avanti (cranialmente) i due canali si aprono, come sopra
sì è ricordato, nella cavità pericardiaca e precisamente in quello spazio che può essere
considerato come la continuazione delle doccie pleuropericardiache primitive, destra e
sinistra. Queste due doccie nel loro tratto posteriore (caudale) si uniscono, passano cioè
luna nell'altra, al disotto (ventralmente) del cercine mesenterico (cercine tracheale) a
costituire uno spazio che lateralmente è chiuso dai dotti di Cuvier aderenti agli atrî e
che nelle sezioni trasversali ha figura semilunare o a ferro di cavallo e circonda, dal lato
ventrale il detto cercine. "l'ale spazio viene a trovarsi subito al davanti (cranialmente) del
margine superiore (craniale) libero del mesenterio ventrale che lo chiude dal lato caudale.
La sua parete dorsale è fatta dal cercine e dalle doccie, la parete ventrale dalla super-
ficie esterna della parete dorsale degli atrî. In avanti (cranialmente) le doccie si aprono a
loro volta largamente nel resto della cavità pericardiaca.
Le strette fessure o canali pleuropericardiaci sono molto corti, hanno le pareti liscie
e i loro sbocchi, tanto il craniale o anteriore nelle doccie pleuropericardiache, quanto il
caudale o posteriore nella rispettiva cavità pleurica, non muniti di alcuna piega.
Una uguale disposizione io ho osservato nelle sezioni seriali trasverse di due embrioni
di ratto albino che sono presso a poco a quel grado di sviluppo nel quale si trovavano gli
embrioni di coniglio dalle cui sezioni trasverse il Brachet ricavò le figure 5 a 9 e le
fisure 10 a 15 del suo lavoro « Recherches sur l’évolution de la portion céphalique des
cavités pleurales et sur le développement de la membrane pleuro-péricardique ».
Vengo ora a dire brevemente delle mie osservazioni in embrioni di Muletia.
Negli embrioni di Muletia, che io ho studiati, le cavità pleuriche sono già molto
ampie : esse si estendono cranialmente fino a livello dell’estremo anteriore degli atrì del
cuore: caudalmente comunicano ancora mediante una stretta fessura con la cavità peri-
(1) L’accrescimento avviene non perchè i dotti di Cuvier stirano cranialmente le membrane
pleuropericardiache, ma in conseguenza della notevole distensione della cavità pericardiaca e delle cavità
pleuriche.
—- 310 —
toneale (1). La cavità pericardiaca è notevolmente ampia e già assai estesa è la membrana
pleuropericardiaca (porzione dorso-craniale del setto trasverso), che, come si sa, deriva in
parte dalla separazione del seno venoso dal setto trasverso e in parte si accresce attiva-
mente per l’ingrandirsi della cavità pericardiaca. I dotti di Cuvier hanno una direzione
obliqua cranio-caudale e decorrono quasi paralleli alla trachea (2). Si potrebbero già indi-
care col nome di vene cave superiori. Le doccie pleuropericardiache, molto ben distinte, sono
limitate medialmente dal grosso cercine mesenterico (porzione craniale del mesocardio dor-
sale) costituito dalla massa mesenchimatica che avvolge l’esofago e la trachea e che a
guisa di bassa e larga cresta arrotondata sporge dalla parete dorsale della cavità peri-
cardiaca (3) cranialmente al margine anteriore libero del mesenterio ventrale. Lateralmente
esse vengono delimitate dalla parete mediale del rispettivo dotto di Cuvier. Nella porzione
craniale di ciascuna doccia pleuropericardiaca scorre, occupandone il suo angolo o fondo
dorsale e formandovi quindi una leggera sporgenza, l’ arteria polmonare (il rispettivo ramo
dell’arteria polmonare). Più indietro, quando è avvenuta la divisione della trachea nei due
bronchi, i rami dell’arteria polmonare decorrono nello spessore del cercine mesenterico, situati,
ciascuno, lateralmente e ventralmente al bronco del proprio lato (4). A differenza di quanto
accade negli embrioni di coniglio, in quelli di armadillo è più esteso in lunghezza il tratto
craniale del cercine mesenterico in cui questo è libero (non aderente alla parete del cuore),
sicchè, procedendo caudalmente nell’esame delle sezioni trasversali, soltanto quando si
incominciano ad incontrare i canali pleuropericardiaci e quando si è sorpassato quello di
destra, il cercine si salda alla parete dorsale del tratto trasverso del seno venoso. Ai due
lati del cercine mesenterico ciascun dotto di Cuvier si è unito per mezzo della sua parete
inferiore colla parete dorsale del corrispondente atrio (a destra più precisamente colla
parete dorsale del corno corrispondente del seno venoso che è la prosecuzione caudale del
dotto di Cuvier destro). Ne consegue che lo spazio compreso tra la superficie ventrale
convessa e libera del cercine mesenterico (mesocardio dorsale) e la superficie esterna della
parete dorsale del cuore, in gran parte dell’ atrio sinistro e del seno venoso, viene chiuso
all’esterno (lateralmente) ed allora nelle sezioni trasversali apparisce uno spazio chiuso ai
lati dai mesocardi laterali (5), spazio di figura semilunare o a ferro di cavallo che circonda
ventralmente il cercine mesenterico ed ha i corni, che rappresentano le doccie pleuroperi-
cardiache, rivolti in alto dorsalmente.
(1) Come è noto, la separazione della cavità pericardiaca primitiva dalle cavità pleuriche si compie
prima, nel corso dello sviluppo, che quella delle cavità pleuriche dalla cavità peritoneale.
2) La loro porzione dorso-ventrale è ora brevissima.
(8) Si può dire che a questa cresta manca il mesenterio ventrale.
(4) Brachet indica i vasi, che egli ha disegnato, nelle Figure 10, 11 e 12 del suo lavoro, ai lati
della trachea (da ogni lato fra la trachea e il rispettivo dotto di Cuvier), col nome di vene polmo-
nari. Ora io in base alle mie osservazioni negli embrioni di armadillo e allo studio che ne ho potuto
fave in embrioni di ratto e in uno di coniglio, non che in embrioni di pecora e di maiale, sono riuscito
a stabilive che tali vasi sono effettivamente i rami dell’ arteria polmonare e non le vene polmonari, le
quali stanno più caudalmente e ventralmente e decorrono in senso quasi trasversale, contenute nel me-
senterio ventrale.
(5) Adopro questo termine di mesocardi laterali, quantunque non si tratti dei mesocardi laterali
primitivi, perchè credo che essi derivino in parte dai mesocardi laterali primitivi,
— eee
Dalle pareti laterali di questo spazio, ossia dai mesocardi laterali e più esattamente
dai margini latero-ventrali del cercine mesenterico, si vedono, nelle sezioni trasversali,
staccarsi le membrane pleuropericardiache che si estendono lateralmente con direzione
obliqua in basso e all’infuori per andare ad inserirsi alla parete laterale del corpo. In dietro
(caudalmente) lo spazio sopra descritto, restringendosi alquanto, si termina a fondo cieco
subito cranialmente al margine libero del mesenterio ventrale che quindi lo chiude dal lalo
caudale; in avanti, nella continuazione craniale delle doccie pleuropericardiache, quando
i dotti di Cuvier stanno per ricevere lo sbocco delle vene giugulari e quando viene a
cessare il saldamento loro con la parete degli atrî e vengono quindi a cessare i mesocardi
laterali, comunica ampiamente col rimanente della cavità pericardiaca. Si può pertanto
dire che tale spazio costituisce come una specie di diverticolo del pericardio : esso diverrà
il seno trasverso del pericardio (sinus transversus pericardii) dell’adulto (1).
Nello spazio che abbiamo ora descriito si aprono i canali pleuropericardiaci.
Quando, nell’esame della serie delle sezioni trasversali, procedendo da quelle più cra-
niali a quelle più caudali, incontriamo questi canali, siamo già sull’ estremo craniale del-
l’abbozzo dei polmoni e delle cavità pleuriche, le quali già a questo livello appariscono
discretamente estese. Ciò dipende dal fatto che le due cavità pleuriche si sono ormai accre-
sciute considerevolmente in direzione craniale (2).
I due canali e i loro orifizi non sono simmetrici, essendo il canale di destra situato
un poco più cranialmente di quello di sinistra (3). L’orifizio superiore o craniale del canale
pleuropericardiaco di destra è posto un poco più cranialmente di quello di sinistra; esso
(1) Il seno trasverso del pericardio è stato descritto recentemente dal Gaupp nel pericardio umano.
Esso è compreso tra la porta venosa e la porta arteriosa del pericardio e più precisamente nell’ uomo
è limitato dal tratto trasverso della porta venosa, che lo chiude caudalmente, dalla porzione superiore
del tratto longitudinale di questa porta (la porta venosa ha la forma di un = coricato) che lo chiude
lateralmente a destra, dalla parete anteriore (craniale) dell’atrio sinistro, dalla parete posteriore (caudale)
dell’aorta e dell'arteria polmonare e infine dalla parete posteriore (dorsale) del pericardio. Il seno
trasverso del pericardio si apre a sinistra nella cavità pericardiaca; anche nel caso di quei Mammiferi
in cui esistono due vene cave superiori (la destra e la sinistra), il seno trasverso del pericardio si apre
dal lato sinistro, tra la vena cava superiore sinistra e l’atrio sinistro.
Come ricordavo nella nota (1) a pag. 308, Brachet fa osservare che non si è ancora seguito il
destino delle doccie pleuropericardiache nell’ ulteriore evoluzione del pericardio definitivo. Ora io penso
che se si pone mente alla costituzione del seno trasverso del pericardio, si vedrà che alla sua forma-
zione prendono appunto parte le doccie pleuropericardiache che ne vengono a formare la parete dorsale.
In questa parete corre con direzione trasversale il ramo destro dell’arteria polmonare e il tratto più
prossimale del ramo sinistro. Nell’ embrione, come si è visto, i rami dell’arteria polmonare decorrono
appunto nelle doccie pleuropericardiache. Queste doccie, adunque, nell’ulteriore evoluzione del pericardio
divengono la parete posteriore (dorsale) del seno trasverso del pericardio e il seno trasverso stesso
deriva dallo spazio che abbiamo descritto nell’embrione e nel quale si aprono i canali pleuropericardiaci.
(2) Dapprima gli abbozzi delle cavità pleuriche, come si osserva negli embrioni di coniglio e anche
dell’uomo (embrione della lunghezza di mm. 8,3; figura del modello di ricostruzione di Broman) sono
soltanto caudalmente ai canali pleuropericardiaci che appaiono perciò come stretti tratti di unione tra
la cavità pericardiaca e le cavità pleuriche (cavità pleuriche primitive).
(3) Anche nell’embrione umano il destro è un poco più craniale del sinistro.
— 312 —
trovasi a livello del punto in cui a sinistra, procedendo coll’ esame delle sezioni in senso
cranio-caudale, non si colpisce ancora il saldamento del dotto di Cuvier alla parete dor-
sale dell'atrio sinistro. L’ orifizio superiore di ciascun canale si trova situato nella parete
ventrale e laterale della doccia pleuropericardiaca del proprio lato ed è circondato da
pliche, rivestite dall’ epitelio della sierosa, che sporgono medialmente nello spazio della
doccia e che in parte si ramificano in modo da dare al loro insieme l aspetto come di
glomerulo esterno di un pronephros, e siffatto aspetto è ancor più manifesto nelle sezioni
sagittali, dove le pliche appaiono racchiuse in uno spazio che è il taglio sagittale della
doccia pleuropericardiaca e che potrebbe simulare una concamerazione 0 diverticolo della
cavità pericardiaca che a guisa di una capsula di Bowman circondi il glomerulo.
Ciascun canale pleuropericardiaco, che è breve, della lunghezza di circa 200 « (mm, 0,2),
ha una direzione leggermente obliqua dall’ avanti all’ indietro e dall’ interno all’ esterno e
rimane compreso nello spessore della membrana pleuropericardiaca, la quale viene dal
canale attraversata presso il suo margine mediale, non lontano dalla sua inserzione al
margine laterale del cercine mesenterico. Più all’esterno corre il nervo frenico.
Perciò i canali pleuvopericardiaci di Muletia hanno una disposizione topografica alquanto
diversa da quella che posseggono negli embrioni di coniglio, di cavia e di topo.
La sezione trasversale di ogni canale è pressochè circolare o leggermente ovale. L° epi-
telio che ne riveste lo stretto lume è meno appiattito di quello che riveste la superficie
della sierosa pericardiaca e pleurica; in qualche punto assume l’aspetto di un basso epi-
telio cubico.
L’orifizio inferiore o caudale di ciascun canale pleuropericardiaco è situato sulla faccia
dorsale della membrana pleuropericardiaca, nel piano ventrale della fessura, o meglio dello
spazio pleurale a guisa di fessura che separa l’ abbozzo del polmone (l’ala polmonare) dalla
membrana pleuropericardiaca. Questo orifizio nelle sezioni trasversali è di figura imbuti-
forme ed il lembo dorsale dell’imbuto appare come una plica della membrana pleuroperi-
cardiaca, plica che funziona quasi da valvola. Oltre a questa plica principale vi sono,
specialmente nell’ orifizio caudale del canale di sinistra, altre pliche più piccole che lo
circondano.
L’epitelio degli orifizi e del territorio a loro circonvicino si mostra meno appiattito e
quindi di aspetto cubico, sebbene molto basso, anzichè del tutto piatto come nel resto della
superficie della sierosa pleurica e pericardiaca.
Da quanto ho brevemente riferito intorno ai canali pleuropericardiaci di armadillo,
risulta, come dicevo a principio, che essi per alcune particolarità relative così alla loro
topografia come al loro aspetto strutturale, differiscono alquanto da quelli di coniglio e di
cavia, in cui per i Mammiferi furono principalmente studiati.
Quanto alla loro topografia li troviamo situati più in avanti (cranialmente), e questo
va detto soprattutto per il destro, del punto in cui avviene il saldamento del cercine me-
senterico colla parete dorsale della porzione atriale del cuore e colla parte dorso-craniale
del setto trasverso e li vediamo compresi nello spessore della parte mediale delle mem-
-— 313 —
brane pleuropericardiache. Data questa loro topografia, essi, pur rappresentandoci sempre
un residuo dei primitivi e più ampi canali pleuropericardiaci, devono formarsi mediante un
meccanismo un poco diverso da quello descritto dal Brachet negli embrioni di coniglio
(saldamento del cercine mesenterico colla parete dorsale del cuore e colle pareti mediali
dei dotti di Cuvier). Forse in Mwlezia il contributo dei dotti di Cuvier nel cagionare
il rimpiccolimento dei canali pleuropericardiaci è minore che negli embrioni di coniglio,
mentre deve aver molto maggior valore, così nel determinarne il ristringimento come nel
produrre la loro chiusura definitiva, l’ attivo accrescimento della membrana pleuropericar-
diaca, il quale fattore fu già da Brachet tenulo in considerazione anche per gli embrioni
di coniglio.
Circa alla struttura, essi differiscono principalmente per la presenza di pliche che fun-
zionano come da valvole in corrispondenza dei loro orifizi o sbocchi, tanto nell’ orifizio
craniale o superiore che si apre nella doccia pleuropericardiaca, quanto in quello caudale
o inferiore che sbocca nella cavità pleurica.
Mi riprometto di ritornare su questo stesso argomento meglio illustrandolo con le
relative figure.
— 314 —
NUO RI E 101
Brachet A. — Recherches sur l’évolution de la portion céphalique des cavités pleurales et sur le
développement de la membrane pleuro-péricardique. Journal de l Anat. et de la Physiol. Année
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Uskow N. — Ueber die Entwickelung des Zwerchfelles, des Pericardium und des Còoloms. Archiv fur
mikrosk. Anat. Band 22. 1882.
INDICE
Canevazzi — Metodo abbreviato di calcolo per le travi quadrangolate ad
asse rettilineo e ad altezza costante 0 variabile (con una tavola).
Albertoni — Ricerche sperimentali sull’'iperthyreosis e Vl athyreosis e su
alcune azioni dell’ adrenalina (con 16 figure)
Cavazzi — Sulla composizione e solubilità del carbonato acido di calcio
Enriques — La coniugazione e il differenziamento sessuale negli infusori.
VI. Condizioni che determinano la coniugazione ripetuta nel Chilodon
CIS e n
Capellini — ZElefanti fossili nel R. Museo Geologico di Bologna. Parte II .
Ciamician e C. Ravenna — Sul contegno di alcune sostanze organiche nei
ego NA Memoriani 0. e.
Ghigi — icerche sull’ incrociamento del gallus sonnerati con polli dome-
stici (con una tavola)
Righi — Sulla fase iniziale dellu scarica in campo magnetico (con 11 figure)
Rajna — Osservazioni meteorologiche dell'annata 1915, eseguite e calcolate
dall’ astronomo R. Pirazzoli e dall’ astronomo aggiunto G. Horn nel-
l Osservatorio della I. Università di Bologna.
Baldeni — Contributo all’ernia perineule ed alla cisto-isteropessia (con una
figura)
Ruggi — Contributo all'uso della medicatura asettica nei feriti di guerra
(con 3 tavole)
Baldacci — La dotunica nel codice atlantico di Leonardo da Vinci
Guardueci — Su! trasporto delle coordinate geografiche lungo archi di geo-
detica dell’ Ellissoide terrestre (con una tavola e due figure nel testo).
Razzaboni —- Considerazioni sulla trasformazione delle curve a flessione
costante a centro di curvatura ideale in Geometria iperbolica .
Pag.
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
5)
10153
(hat 10724
— Ser
F. Cavani — Sulla verticalità della stadia nelle operazioni di livellazione (con
una fISUTA) o Lt et TR
L. Amaduzzi — Effetti di scarica laterale in liquidi (con 10 figure). . . . » 228
M. Rajna — Tavole per calcolare il levare e tramontare della Luna a Bologna
ed a Roma e per ridurre il levare e tramontare del Sole e della Luna da
Roma a un alto luogo qualunque in Italia e nelle regioni circonvicine . » —229
L. Beccari — Sulla eliminazione dell’’ammoniaca nei grossi erbivori. . . . » 253
ID. Majoechi — Su significato della tavoletta preistorica « La Femme au Renne »
(con ite fune). it Lt e STAI DIN TS 261
V. Simonelli — I mammiferi fossili della caverna di Monte Cucco (con una
lavata) i e RI AE SORT ME RE ERIN, NORORI O Io e RI O SII
I. Novi — Eliminazione dell’ acido urico e ricambio inorganico nella cura an-
LITADICA IRE VIT UIRICENCON TR OT ITA PONTOS PRIORI. IO" AOILCONA: O, ORI ROTTO > 287
E. Giacomini — Sui canali pleuropericardiaci in embrioni di Muletia (Tatusia,
Dasypus)novemceineta. ts atte RE AT
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SETTEMBRE 1916
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