| Library of the Museum OF | COMPARATIVE ZOOLOGY, AT HARVARD COLLEGE, CAMBRIDGE, MASS. Founded bp pribate subscription, in 1861. The gift of LOUIS AGASSIZ. No RISI AMAMI 7 | SATO MEMORIE DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DU ROrNRCINTO MEMORIE REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO SERIE SECONDA Tomo XXVI. TORINO DALLA STAMPERIA REALE ls) MDCCCLXXI. N Mn ENDICE Biasco degli Accademici Nazionali e Stranieri . . . . pag. MurazionI accadute nel Corpo Accademico dopo la pubblicazione deliprecedentefVolumetti ao e e CLASSE DI SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE Stupi sulla Mineralogia italiana; Pirite del Piemonte e dell'Elba; pertGiovannii SERUEVERNI 90. alti La ar pag: DescrizioNE ed uso del declinatore orario; di Giorgio Foscoro » Dimostrazione d’una formola di Leibnizio e Lagrange, e di alcune formole aflini; per Angelo GenoccHI . . . . ..°.. » IconoGRAFIA di alcuni oggetti di remota antichità rinvenuti in Italia; Peace a) AN Ra IPO, Un rIcorpo BOTANICO del Prof. Filippo De Firirri, ossia Cenno intorno alle piante nate dai semi da esso raccolti in Persia e nelai@hmna:fpesiGiBeDeLronTEi I SULLA DEVIAZIONE MASSIMA dell’ago calamitato sotto l’azione della corrente elettrica; del Prof. Giuseppe Basso . . . . . » Le Ranuncuracee del Piemonte; Saggio tassonomico di Augusto (EE e RE te i RA I CERERE ee SI XVI 53 61 7) 127 185 VI CataLoco delle 634 stelle principali visibili alla latitudine media di 45°, colle coordinate delle loro posizioni medie per l’ anno 1880; ed ArLanTE di dodici Carte, contenenti le dette Stelle proiettate stereograficamente sull’orizzonte, di due in due ore siderali, coi circoli e paralleli di declinazione, di ro in ro gradi; presentati alla R. Accademia delle Scienze di Torino dal ‘Direttore ‘dell'Osservatorio” WWW“... o. e 225 Nuova BussoLa rEOMETRICA; Nota del Prof. Giuseppe Basso. » 283 TRAsMISsione PNEUMATICA della forza a veicolo stantuffo senza va- riazione dell’aria circolante; del Prof. Giovanni Copazza . » 291 VII ELENCO DEGLI ACCADEMICI RESIDENTI, NAZIONALI NON RESIDENTI, E STRANIERI AL 1° DI GIUGNO MDCCCLXXI ACCADEMICI NAZIONALI PRESIDENTE S. E. ScLopis pi SaLeRANo, Conte Federigo, Senatore del Regno, Ministro di Stato, Primo Presidente Onorario di Corte d’Appello, Pre- sidente della Regia Deputazione sovra gli Studi di Storia patria, Socio non residente della Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli, Membro onorario del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Socio Straniero dell’ Istituto di Francia (Accademia delle Scienze morali e politiche), C. O. S. $S. N., Gr. Cord. #, Cav. e Cons. ono- rario &, Cav. Gr. Cr. della Concez. di Port., Gr. Uffiz. dell'O. di Guadal. del Mess., Cav. della L. d'O. di F. Vice-PRESIDENTE RicneLmy, Prospero, Professore di Meccanica applicata e Direttore della Scuola d'applicazione per gl’ Ingegneri, Comm. &, Uffiz. dell'O. della Cor. d’Italia. VIN TESORIERE Siswonpa, Angelo, Senatore del Regno, Professore di Mineralogia e Direttore del Museo Mineralogico della Regia Università, Membro della Società Geologica di Londra, e dell’ Imp. Società Mineralogica di Pietroborgo, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Gr. Uffiz. £, &, Comm. dell’O. della Cor. d’It., Cav. dell'O. Ott. del Mejidié di 2.° cl., Comm. di r.° cl. dell’O. di Dannebrog di Dan., Comm. dell’O. della St. pol. di Sv., e dell'O. di Guadal. del Mess., Uffiz. dell'O. di S. Giac. del Mer. Scient. Lett. ed Art. di Port., Cav. della L. d’O. di F. CLASSE DI SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE Direttore Sismonpa, Angelo, predetto. Segretario Perpetuo. Sosrero, Ascanio, Dottore in Medicina ed in Chirurgia, Professore di Chimica docimastica nella Scuola di applicazione per gli Ingegneri, Membro del Collegio di Scienze fisiche e matematiche, Comm. *, Ufliz. dell'O. della Cor. d’Italia. ACCADEMICI RESIDENTI Siswonpa, Angelo, predetto. Sosrero, Dottore Ascanio, predetto. Cavacti, Giovanni, Luogotenente Generale, Comandante Generale della R. Militare Accademia, Membro dell’Accademia delle Scienze militari di Stoccolma, Gr. Cord. 4, £, Comm. g, Comm. dell'O. della Cor. d’It., Gr. Cord. degli Ord. di S. St. e di S. Anna di R., Uffiz. della L. d’O. di F., dell'O. Mil. Portogh. di Torre e Spada, e dell’O. di Leop. del B., Cav. degli O. della Sp. di Sv., dell'A. R. di 3.° cl. di Pr., del Mejidié di 3.° cl., di S. WI. di 4. cl. di R. RicneLmy, Prospero, predetto. SeLLA, Quintino, Membro del Consiglio delle Miniere, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Membro dell’Imp. Società Mineralogica di Pietroborgo, Gr. Cord. £, Gr. Cord. degli Ordini di S. Anna di R di Leop. d’A., della Concez. di Port., e di S. Marino. DeLponTE, Giambattista, Dottore in Medicina e in Chirurgia, Professore di Botanica e Direttore dell'Orto botanico della R. Università, Uffiz. &. Genoccai, Angelo, Professore di Calcolo differenziale ed integrale nella R. Università di Torino, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Uffiz. &. Serie II. Tom. XXVI. a 2 Db) Govi, Gilberto, Professore di Fisica nella R. Università, Uffiz. &. MotescHorT, Giacomo, Professore di Fisiologia nella R. Università, Socio della R. Accademia di Medicina di Torino, Comm. «&. GasraLpi, Bartolomeo , Dottore in ambe leggi, Professore di Mine- ralogia nella Scuola di applicazione per gli Ingegneri, Uffiz. %. Copazza, Dott. Giovanni, Vice-Direitore del R. Museo Industriale, Socio del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, #, Comm. dell'O. della Cor. d'Italia. LessonA, Michele, Dottore in Medicina e Chirurgia, Professore di Zoologia e Direttore del Museo Zoologico della R. Università, Socio della R. Accademia di Medicina di Torino, Ufiiz. &, Cav. dell'O. della Cor. d’Italia, Dorna, Alessandro, Professore d’Astronomia e Meccanica celeste nella R. Università, Professore di Meccanica razionale nella R. Militare Ac- cademia, Direttore dell’ Osservatorio astronomico di Torino, &, Cav. dell'O. della Cor. d’Italia. Gras, Augusto, Dottore in Leggi, Assistente all’Orto botanico della R. Università, &, Uffiz. dell'O. della Cor. d’Italia. SaLvapori, Conte Tommaso, Dottore in Medicina, Assistente al Musco di Zoologia della R. Università, Prof. di Storia naturale nel Liceo Cavour, Socio corrispondente della Società Zoologica di Londra, del Liceo di Storia naturale di Nuova York, ecc. Cossa, Alfonso, Professore di Chimica agraria nel Regio Museo in- dustriale Italiano, Direttore della Stazione sperimentale agraria di Torino, Uffz. dell'O. della Cor. d’Italia. xI ACCADEMiCI NAZIONALI NON RESIDENTI S. E. MenagreA, Conte Luigi Federigo, Senatore del Regno, Luogo- tenente Generale nel Corpo Reale del Genio Militare, Professore eme- rito di Costruzioni nella Regia Università, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Membro onorario del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, C. O. S. SS. N., Gr. Cord. £, &, Gr. Cr. @, e dell'O. della Cor. d'It., dec. della Med. d’oro al Valor Militare, Gr. Cr. degli Ord. di Leop. del Belg., di Leop. dA. e di Dannebrog di Dan., Comm. degli Ordini della L. d'O. di F., di Carlo III di Sp., del M. Civ. di Sass., e di Cr. di Pori. De Noraris, Giuseppe, Professore di Botanica nella Regia Università di Genova, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Comm. &, &, Uffiz. dellO. della Cor. d'Italia. Brioscn, Francesco, Senatore del Regno, Professore d’Idraulica, e Direttore della Scuola d'applicazione per gl Ingegneri in Milano, Pre- sidente della Società Italiana delle Scienze, Gr. Uftiz. &, &, Comm. dell’O. della Cor. d’It., e dell'O. di Cr. di Port. Cannizzaro , Stanislao, Professore di Chimica nella R. Università di Palermo, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Comm. &, &, Uftiz. dell'O. della Cor. d'Italia. Berti, Enrico, Professore di Fisica Matematica nella R. Università di Pisa, Direttore della Scuola Normale superiore, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Comm. «. Scaccni, Arcangelo, Senatore del Regno, Professore di Minera- logia nella R. Università di Napoli, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Comm. #, Uffiz. dell’O. della Cor. d’Italia. BarLapa pi S, RoserT, Conte Paolo. Seccni, P. Angelo, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia. Conrnatia, Emilio, Direttore del Museo civico e Professore di Zoologia nell’ Istituto tecnico superiore di Milano, Uno dei XL della Società Ita- liana delle Scienze, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia, Uffiz. &, Cav. dell'O. della Cor. d’Italia. - ScmapareLLi, Giovanni, Direttore del R. Osservatorio astronomico di Milano, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Uffiz. &, &, Cav. dell'O. della Cor. d’It., Comm. dell'O. di S. Stan. di Russia. ACCADEMICI STRANIERI. ELie pi Beaumont, Giambattista Armando Lodovico Leonzio, Ispet- tore generale delle Miniere , Professore di Storia naturale dei corpi inorganici nel Collegio di Francia, Segretario Perpetuo dell’ Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia, Comm. +, Gr. Uffiz. della L. d°O. di F., a Parigi. Liesie, Barone Giusto, Professore di Chimica nella R. Università e Presidente della R. Accademia delle Scienze di Monaco (Baviera), Socio Straniero dell'Istituto di Francia, &, Uffiz. della L. d’O. di F., a Monaco. Dumas, Giovanni Battista, Segretario Perpetuo dell’Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia, Gr. Cr. della L. d’O. di F., a Parigi. BiLrier, S. Em. Alessio, Cardinale, Arcivescovo di Ciamberì, Presi- dente Perpetuo onorario dell’Accademia di Savoia, Gr. Cord. &; già 4cca- demico nazionale non residente. De Bair, Carlo Ernesto, Professore nell'Accademia Medico-chirur- gica di S. Pietroborgo, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia. Acassiz, Luigi, Direttore del Museo di Storia naturale di Cam- bridge (America), Socio corrispondente dell’Istituto di Francia. Mayer, Giulio Roberto, Dottore in Medicina, Socio corrispondente dell’ Istituto di Francia, ad Heilbronn (Wurtemberg ). HeLmsoLtz, Ermanno Luigi Ferdinando, Professore nella Università di Heidelberg, Socio corrispondente dell’ Istituto di Francia. ReenauLt, Enrico Vittorio, Professore nel Collegio di Francia, Membro dell’ Istituto di Francia. XIII CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE urdddbotieee——__ —_ Direttore Sauri p’ IeLiamno, Conte Lodovico, Senatore del Regno, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Accademico d’Onore dell’Accademia Reale di Belle Arti, Gr. Uffiz. &, Cav. e Cons. &, Comm. dell'O. della Cor. d’Italia. Segretario Perpetuo Gorresio, Gaspare, Prefetto della Regia Biblioteca Universitaria, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), della R. Accademia della Crusca e di altre Accademie nazionali e straniere, Comm. &, #£, Comm. dell'O. della Cor. d’It. e dell'O. di Guadal. del Mess., Uffiz. delia L. d’O. di F. ACCADEMICI RESIDENTI Sauci p'IeLiAno , Conte Lodovico, predetto. S. E. ScLopis pi SaLerano, Conte Federigo, predetto. Baupi pi Vesne, Conte Carlo, Senatore del Regno, Segretario della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Comm. +, &. Prowrs, Domenico Casimiro, Bibliotecario di S. M., Vice-Presidente della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Comm. #&, e dell'O. della Cor. d’Italia. Ricorti, Ercole, Senatore del Regno, Maggiore nel R. Esercito, Professore di Storia moderna nella R. Università, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Gr. Uffiz. #, Cav. e Cons. &, 6. Bon-CompAcni, Cavaliere Carlo, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria e del Collegio di Belle Lettere e Fi- losofia della R. Università, Gr. Cord. #, Cav. .e Cons. &, Gr. Cr. dell'O. della Cor. d’Italia. Prowmis, Carlo, Professore emerito di Architettura nella R. Scuola di applicazione per gli Ingegneri, Regio Archeologo, Ispettore dei Monu- menti d’ Antichità, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Accademico d’onore dell’Accademia Reale di Belle Arti. XIV Gorresio, Gaspare, predetto. Bertini, Giovanni Maria, Professore di Storia della Filosofia antica nella Regia Università, Uffiz. &. Fasrerti, Ariodante, Professore di Archeologia greco-latina nella Regia Università, Assistente al Museo di Antichità ed Egizio, Uffiz. &, &. GimunceneLro, Giuseppe, Dottore in Teologia, Professore di Sacra Scrittura nella Regia Università, Uffiz. &. Peyron, Bernardino, Professore di Lettere, Vice-Bibliotecario della R. Biblioteca Universitaria, & . Reymonp, Gian Giacomo, Professore di Economia politica nella Regia Università, & . Ricci, marchese Matteo. Vacrauri, Tommaso, Professore di Letteratura latina nella Regia Università, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Accademico corrispondente della Crusca, Comm. &. FLecnia, Giovanni, Professore di Lingue e Letterature comparate nella R. Università, Uffiz. &. Lumsroso, Giacomo, Dottore in Leggi. ACCADEMICI NAZIONALI NON RESIDENTI Manzoni, Nob. Alessandro, Senatore del Regno, Accademico cor- rispondente della Crusca, Gr. Cr. dell'O. della Cor. d’It., a Milano. Spano, Giovanni, Dottore in Teologia, Professore emerito di Sacra Scrit- tura e Lingue Orientali nella R. Università di Cagliari, Comm. *. CarurTI DI CantoGno, Domenico, Consigliere di Stato, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Gr. Uffiz. &, &, Gr. Cord. degli Ord. d’Is. la Catt. di Sp. e di S. Mar., Gr. Uffiz. dell’O. di Leop. del B., Gr. Comm. dell'O. del Salv. di Gr., Comm, dell'O. del Leone neerlandese. Tora, Pasquale, Consigliere nella Corte d’Appello di Genova, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Comm. &. Amari, Michele, Senatore del Regno, Professore onorario di Storia e Letteratura araba nel R, Istituto superiore di perfezionamento di Firenze, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Gr. Uffiz. £, Cav. e Cons. &, Comm. dell'O. della Cor. d’It. Mmervini, Giulio, Bibliotecario della Regia Università di Napoli, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Cav. dell’Ord. della Gor. d’Italia e della L. d’O. di Fr. xv TWiers, Luigi Adolfo, Membro dell'Istituto di Francia (Accademia Francese ed Accademia delle Scienze morali e politiche). Grote, Giorgio, Socio Straniero dell’ Istituto di Francia (Accademia delle Scienze morali e politiche), in Londra. Mownwsen, Teodoro, Professore di Archeologia nella Regia Università e Membro della Reale Accademia delle Scienze di Berlino, Socio cor- rispondente dell’Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere). MicrLer, Massimiliano, Professore di Letteratura straniera nell’Uni- versità di Oxford, Socio Straniero dell'Istituto di Francia ( Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere). Rrrscar, Federico, Socio Straniero dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), in Zipsia. Mixer, Francesco Augusto Alessio, Membro dell'Istituto di Francia (Accademia Francese) e Segretario Perpetuo dell’Accademia delle Scienze morali e politiche. Renier, Leone, Membro dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere). AVI MUTAZIONI accadute nel Corpo Accademico dopo la pubblicazione del precedente Volume MORTI ò Aprile 1871. Savi, Paolo, Senatore del Regno, Professore di Zoologia ed Anatomia comparata nella Regia Università di Pisa, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Comm. &, Cav. e Cons. &, Comm. dell’O. della Cor. d’It. 141 Maggio 1871. HerscHeL;, Giovanni Federico Guglielmo, Membro della Società Reale di Londra, Socio Straniero dell’ Istituto di Francia. ELEZIONI SaLvapori, Conte Tommaso, Dottore in Medicina, Assistente al Museo di Zoologia della R. Università di Torino, Professore di Storia naturale nel R. Liceo Cavour, eletto il 29 gennaio 1871 Accademico residente nella Classe di Scienze fisiche e matematiche. Cossa, Alfonso, Professore di Chimica agraria nel Regio Museo In- dustriale Italiano, Direttore della Stazione sperimentale agraria di To- rino, eletto il 29 gennaio 1871 Accademico residente nella Classe di Scienze fisiche e matematiche. SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA PIRITE DEL PIEMONTE E DELL’ELBA GIOVANNI STRUEVER ASSISVENTE ALLA CAYTEDRA DI MINERALOGIA PRESSO LA R. SCUOLA D'APPLICAZIONE DEGLI INGEGNERI DI TORINO ——_r___ml Memoria letta ed approvata nell’adunanza del 13 dicembre 1868. e __ INTRODUZIONE Bia dalle numerose ricerche dei mineralisti, istituite su gran numero di sostanze cristallizzate, fu dimostrato che, date le costanti cristallo- grafiche, ossia gli angoli della forma primitiva di una sostanza qualsiasi, possono esistere in essa tutte indistintamente le faccie, le quali ubbi- discano alla legge della razionalità degli indici, potrebbe a taluno parere opera vana il voler indagare, quali fra il numero infinitamente grande di faccie possibili realmente si osservino nelle differenti sostanze. Tutti i cristallografi sanno tuttavia che, per avere concetto esatto della cristallizzazione di una sostanza, importa assaissimo avere l’elenco delle forme semplici e delle combinazioni .di esse forme semplici realmente osservate nella sostanza. Vedremo più sotto, dalle indagini istituite sulla frequenza relativa delle diverse forme della Pirite, che di gran lunga la maggior parte dei cristalli presentano solidi risultanti dalla combinazione di un piccolo Serie II. Tom. XXVI. A 2 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. numero di forme a semplicissimo simbolo, mentre tutte le altre forme appaiono accidentali, essendo state osservate in pochi cristalli, ed anche in un solo, e talvolta in facciuzze pochissimo sviluppate ed appena percettibili. Se questo fatto, da una parte, ci appalesa la poca importanza del maggior numero dele forme che incontransi nelle diverse sostanze , dall'altro lato queste forme rare acquistano maggiore interesse, consi- derando le circostanze in cui si producono : il quale interesse va aumen- tando, quando in alcuni, benchè pochi casi, vediamo maggiormente svilupparsi, anzi prevalere, forme rare e di complicato simbolo. Certo, i cristallografi non possono pretendere di saper indicare quali sieno state, in ogni singolo caso, le cagioni perchè la stessa sostanza si trova. eristallizzata ora in questa, ora in tal altra forma. Le esperienze a tal uopo fatte con sali artificialmente cristallizzati, finora, ci hanno ben poco svelato sull’influenza, che esercitano sul modo di aggregarsi delle molecole, le condizioni in cui si trovano nell’atto della cristallizzazione. Sappiamo bensì, che la stessa sostanza può assumere forme assai differenti, secon- dochè passi allo stato solido da quello di fusione o di soluzione, se- condochè cristallizzi da una soluzione neutra, alcalina o acida, ecc., ma sono queste osservazioni isolate, insufficienti a stabilire le leggi che regolano tali fenomeni. Meno ancora si sono finora studiate le relazioni che hanno luogo fra le forme cristalline di un minerale e la diversa natura dei suoi giaci- menti ovvero la sua paragenesi, la quale sotto un certo aspetto ci può indicare le circostanze in cui il minerale si formò. E tuttavia, per isco- prire un giorno le leggi che governano le relazioni fra composizione chimica, forma cristallina e caratteri fisici, od almeno per aprire all’a- nalisi la strada di tentare la soluzione dell’arduo problema, sarà d'uopo di studiare, anche minutamente, le forme, le proprietà fisiche delle. diverse sostanze e tutto ciò che possa aver attinenza alla loro formazione. Onde contribuire, per quanto mi sia possibile, all'opera sovraccen- nata, intrapresi gli studi, i cui risultati sono contenuti nelle seguenti pagine. Non posso pretendere di dare una Monografia completa per tutte le località, mancandomi il materiale indispensabile ; mi restringo ad esporre unicamente le osservazioni che durante alcuni anni ebbi agio di fare sulle ricche collezioni di cristalli di Pirite del Piemonte e dell’ Elba esistenti presso il Gabinetto mineralogico della R.° Scuola degli Ingegneri PER G. STRUVER. (S5) ed il Museo di Storia naturale dell’Università di Torino. E qui non posso non rendere sentite grazie al Comm. A. Siswonpa, il quale con isquisita gentilezza volle mettere a mia disposizione tutta la magnifica serie di cristalli di Pirite della raccolta di cui è Direttore. Il numero dei cristalli esaminati supera i 5 mila, dei quali più di 800 appartenenti al Museo di Storia naturale, gli altri esistenti nel Ga- binetto di mineralogia della R:° Scuola d'applicazione per gli Ingegneri di Torino (1). La massima parte dei cristalli studiati proviene dalle miniere di Brosso e di Traversella presso Ivrea, alcuni pochi da altre località del Piemonte, e forse 200, fra gruppi e cristalli isolati, dall’Elba. 1 Se perciò il materiale che era a mia disposizione, rappresenta appros- simativamente tutte le combinazioni che s'incontrano a Brosso e Tra- versella, in ragione della loro relativa frequenza, lo stesso certe. non si potrà dire riguardo ai cristalli dell'Elba. E giacchè non furono ammesse nel quadro delle combinazioni altre fuorchè quelle .da ame stesso esami- nate, non sarà improbabile che, riguardo alle località dell'Elba, la nostra Memoria non dia una idea compiuta della ricchezza di forme che vi si osserva. Tanto però mi sembra possasi fin d'ora asserire, che cioè le miniere di Brosso e Traversella offrono numero di forme e varietà di combinazioni di gran lunga maggiori dei giacimenti dell'Elba. I cristalli, che in quasi tutti i Musei sono registrati come provenienti da Traversella, provengono da due località ben diverse, Brosso e Tra- versella. Ma, a motivo della vicinanza dei due giacimenti metalliferi, i raccoglitori confondevano continuamente i minerali delle due miniere, talchè ora riesce alquanto difficile, massime per i cristalli isolati, il de- cidere, da quale delle due località essi provengano. ‘Ciò nonostante vi sono certi criteri, i quali per molti gruppi e cristalli permettono di ri- conoscerne con certezza la provenienza. Rimandiamo il benevolo lettore ‘alla Nota, annessa alla- nostra Memoria, ove troverà alcuni cenni sui diversi giacimenti di Brosso e di Traversella, e sulle differenze che v'hanno fra le forme di Pirite delle due località. (1) A riunire tanto materiale, contribuirono soprattutto i signori Comm. Quintino SELLA € Prof. Bartolomeo GASTALDI, le cui raccolte private, unitamente alla Collezione statistica formata dal BARELLI, coslituiscono la maggior parte dell’attuale Gabinetto mineralogico della R.4 Scuola d’applicazione degli Ingegneri di Torino. — STUDI SULLA MINERALOGIA. ITALIANA ECC. Prima di entrare nel nostro argomento, sarà necessario premettere ancora qualche cenno intorno al modo di orientazione adottato per il disegno delle diverse forme osservate. Il Serra nelle sue « Lezioni ele- mentari di cristallografia (!) », per validi motivi, che appena occorre di accennare, propone di scrivere, nei sistemi monometrico e romboedrico, gli indici di un simbolo mp sempre in modo:che n >7r>p, e di dare alle forme dirette degli emiedri a faccie parallele il simbolo generale: rmnp, a quelle inverse il simbolo zrmp, metodo diverso da quello. finora adottato dai cristallografi che si servono dei simboli del Mixer. A quell'epoca la maggior parte delle nostre figure, ed anzi le più com- plicate, erano già disegnate secondo le regole esistenti. Onde poter tuttavia adottare il metodo dal SeLLA proposto, senza aver bisogno di rifare il nostro lavoro, si supposero nei disegni i due assi orizzontali delle X e delle Y cangiati in modo che X è diretto verso l'osservatore, Y da destra a sinistra. L’ inconveniente che ciò reca con sè, non sarà punto grave per un cristallografo. (1). Q. Setta. Lezioni elementari di cristallografia. Torino , litografia P. Briola ,. 1867. PER G. STRUVER. 5 CAPITOLO I. FORME SEMPLICI E COMBINAZIONI OSSERVATE. La Pirite va annoverata fra quei minerali, che più frequentemente s'incontrano in natura, e più vanno distinti per la bellezza dei loro cristalli. Tant'è che da lungo tempo la Pirite attirò l’attenzione dei mineralisti, e massime gli stupendi esemplari provenienti dalle stesse località, le quali: diedero argomento alla presente Memoria. Talchè poteva sembrare ar- rischiato l’intraprenderne nuovamente lo studio, e se noi tuttavia ci decidemmo a ciò fare, egli fu nella persuasione, che ad ogni osservatore natura offre qualche cosa di nuovo, siano pure i fenomeni, al cui esame egli si dedichi, le tante e tante volte da altri studiati. Ed infatti, benchè nella Pirite, prima che noi ci mettessimo a rivedere le sue forme cri- stalline, provenienti dai suoi più celebri e più noti giacimenti, fossero conosciute gran numero di forme diverse, tuttavia le nostre ricerche quasi raddoppiarono il numero delle forme in essa osservate, portandolo a più di cinquanta. Nel primo quadro, che facciamo seguire qui sotto, sono riunite le forme che finora dai cristallografi furono, a nostra conoscenza, constatate nella Pirite. Benchè abbiamo adottato per la notazione delle forme il sistema del Mirrer, tuttavia avremo cura di indicarle nei quadri altresì coi simboli che loro si convengono secondo i metodi del Naumann, del Weiss e del Lévy. Va aggiunta al quadro un’ ultima colonna, nella quale s'indica, per ognuna forma, l’autore che il primo la osservò 0 pubblicò. Se questa parte storica del mio lavoro riescirà alquanto difet- tosa, lo si voglia attribuire alla scarsità di libri di cui posso disporre. 6 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. QUADRO delle forme semplici finora osservate nella Pirite. Simboli Simboli Simboli Simboli di _ di di di MILLER NAUMANN WEISS Levy 100 0 Plinio ? Biringuccio 1540. ill : : Gesner 1562. 110 9 3 Hauy. 211 5 R. de \’Isle, Hauy. Sil Hauy. dii | Hessenherg 1863. 221 : 12 Hauy. clan» {i 7210 e 7120| + 5 9 droit et gauche 210 Gesner1562, 7120Hauy.|| 2 2320 e 7230| += ita: id. id |7x320 Hauy, 7230 Rose? | 00 - 7430 e 7340| È 9 : id. id. Rose? Desclo:zeaux 1862. Descloizeaux 1862. Quenstedt 1854. Descloizeaux 1862. Levy 1837. Hessenberg 1863. Quenstedt 1854. Dufrénoy 1845. il 321 e n291| P_= ina: - id. id. | =321R. del’Esle, 7231 Hauy. | T421 e 724Î ; : ih id. id. 7421 Hauy, 7241 Mohs 1836. |? do) | 9 : 5 = id. Hauy. Descloizeaux 1862. 10 51 : Da: DE id. Descloizeaux 1862. 10 61 :> a: id. Descloizeaux 1862. 7453 È :i 3 id. | Lévy 1887. PER G. STRUVER. 7 Alle forme indicate nel precedente quadro le nostre osservazioni ag- giunsero gran numero di forme che dobbiamo considerare come nuove per la Pirite, giacchè non riuscimmo a trovarle citate in alcuno dei Trattati e delle Memorie che sono a nostra disposizione. Siamo però lungi dal volere pregiudicare l’altrui priorità. Come più sotto si vedrà, dalla descrizione delle più interessanti com- binazioni, tutte queste forme nuove furono incontrate su esemplari provenienti da Brosso e da Traversella. Nella relazione sul presente lavoro, presentata dal Sera, due anni fa, all'Accademia delle Scienze di Torino (!), il pentagonododecaedro 7 530 figura come osservato su cristalli dell'Elba, perchè io l'aveva scoperto su un gruppo di due o tre cristalli (vedi fig. 129, tav. vm), i quali si trovavano fra altri pro- venienti dall’Elba. Più tardi però osservai la stessa forma su un altro gruppo (vedi tav. vini, fig. 128), il quale certamente è o di Brosso o di Traversella, e talmente rassomiglia l’altro, che non mi rimane più alcun dubbio sull’errore commesso nel mettere il primo gruppo fra quelli provenienti dall'isola dell'Elba. (1) Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino. Adunanza del 30 dicembre 1866, pag. 41-48 8 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Facciamo ora seguire il quadro delle nuove forme da noi osservate. Simboli di MiLLer | Simboli di NAUMANN | Simboli di WEISS Simboli di LÉvy & pi 11 55 SO ma ala a? ao) da: a; a a 9 5 a ‘ > 3a a: a a [NE Pai = a: 7 a [SI 7750 ? 2 SOI DI td . x 030 — a:Za:va Dil i I n0ì 3 AO 250 GE a:ta:©a 203 gauche s0 pi FL: 11 40 3 - glassa —55 droit 7920 n] a:la:va uh id. 2 007, a | na"710? “on a:;:la:na? md 06, 204 LAN Leno Ì 1432 e 7342 22 3 a ia 2a 1 6363 57 fai et gauche 302 ASA 7.632 3 a:2a:3a 70:65 b6 } id. 203 fa SN 7932 3 a:3a:ta 7(0?0369 id. Lai tI 10% gi it 52 —— 5 PER G. STRUVER. 9 Secondo i due quadri precedenti e la proiezione stereografica della tav. xrv, sono ora noti nella Pirite : I cubo; 1 ottaedro; tr rombododecaedro ; 7 icositetraedri ; 3 triacisottaedri ; 16 pentagonododecaedri diretti ; 8 pentagonododecaedri inversi ; 13 emiesacisottaedri diretti e 4 emiesacisottaedri inversi. Benchè per alcuni pentagonododecaedri non sia ancora indubbiamente determinato il simbolo che loro si conviene, dobbiamo tuttavia ritenere che tutti i pentagonododecaedri summentovati sono fra di loro differenti. Riguardo alle forme inverse ci siano permesse alcune considerazioni. Quando la natura ci presenta una forma emiedrica di Pirite, p. e. un pentagonododecaedro, egli è assolutamente impossibile di decidere dalla forma sola, se essa sia da considerarsi come diretta, ovvero come inversa. Come è noto, il MarsackÒ (!) constato, che la Pirite e la Cobaltina, minerali ambidue cristallizzanti in forme emiedriche a faccie parallele, presentano due varietà di cristalli, diverse fra di loro per le proprietà termoelettriche, talchè un cristallo dell'una varietà con un cristallo del- l’altra costituisce una coppia termoelettrica più potente di una coppia composta di bismuto e antimonio, essendo l'una delle due varietà più elettronegativa del bismuto, e l’altra più elettropositiva dell’ antimonio. Il MarzacH suppone, che tali proprietà siano in relazione colla forma cristallina, colla emiedria dei due minerali. Qualche anno dopo, FriepEL(?) riprese lo studio delle proprietà termoelettriche della Pirite su cristalli provenienti da Traversella, però non riuscì a trovare una relazione ben decisa fra queste proprietà elettriche e la forma cristallina della Pirite, per mancanza di cristalli sufficientemente omogenei. D'altra parte il FriepeL rese probabile l’esistenza della piroelettricità della Pirite, con- statando che, avuto riguardo alla direzione delle strie sulle faccie del (1) V. Comptes rendus de l’Acad. de Paris. 1857, vol 43, pag. 707. (2) Institut. 1860, N.° 1408, pag. 420. Estratti inediti della « Société Philomathiqgue de Paris ». Serie II. Tom. XXVI B TO STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. cubo, le due estremità della grande diagonale di. esso non sono sovrap- ponibili, ma appunto per mancanza di cristalli omogenei non potè isti- tuire esperienze decisive. Le mie proprie osservazioni fatte allo scopo di distinguere le forme dirette ed inverse, confermano pienamente, che è difficile d’incontrare fra i cristalli di Brosso e di Traversella esemplari omogenei ed adatti a siffatte esperienze. Dovetti perciò rinunciare all’idea di distinguere le forme dirette ed inverse per mezzo delle loro proprietà termoelettriche. Il metodo poi definitivamente adottato per distinguere le forme dirette ed inverse, è quello arbitrario ed abituaimente seguito dai cristallografi , di considerare cioè le forme emiedriche in generale come dirette, salvo quando siano combinate, le une: colle altre, forme emiedriche diversa- mente orientate, nel qual caso si prendono per dirette le faccie pre- dominanti o più lucenti, e per inverse le altre subordinate o meno splendenti. Il grande numero di forme di diverso simbolo , osservate nella Pirite, farebbe credere, che la natura ci dovrebbe presentare un immenso numero di combinazioni diverse. Tuttavia, dal quadro delle combinazioni realmente da me osservate a Brosso, Traversella ed all’Elba, si vedrà che il loro numero non ascende che a poco più di ottanta, benchè io abbia incon- trato sui cristalli esaminati tutte le forme conosciute nella Pirite, eccetto i tre emiesacisottaedri 7 531, 7 10 dI, 7 241, l’icositetraedro gir ed i pentagonododecaedri 7.340, 7720, 7 11 go. E qui giova notare, che l'esame delle combinazioni si fece colla lente e colla maggior possibile accuratezza. Questo modo di procedere certamente riduce il numero. delle combinazioni e delle forme semplici che si citano come osservate in natura, ma è l’unico che sia ragionevole e possa impedire di veder figurare nei trattati forme semplici e combinazioni che non furono mai osservate. E basti citare un esempio. Non di rado si legge nei manuali di mineralogia che 7321 trovasi isolato a Traversella. Or bene, fra pa- recchie centinaia di cristalli anteriormente e recentemente raccolti a Traversella, nei quali domina x 321, non ne trovai un solo, in cui a 7.321 non si associasse qualche altra faccetta. Queste e simili considerazioni mi hanno indotto a non ammettere nel quadro seguente altre combinazioni fuori quelle da me stesso osservate, benchè io sia lontano dal voler negare, che non ve ne possano esistere in altri Musei. PER G. STRÙVER. THA QUADRO delle combinazioni osservate. SIMBOLI LOCALITA delle forme semplici che costituiscono donde provengono ciascuna combinazione le combinazioni osservate in cui fu osservata ciascuna combinazione Numero d’ordine Numero degli esemplari, -—— Brosso? Traversella CSI o 1 O A |] (MD c TEO na RAPTOR CRI tÌ 454 2|1il 13 3 {7 MOORE 475| 14. id. id. M.° Acuto UE || ALII Dati reset MIO Tae id 10 {| ACT LAMA EE See A TO a PDAIR 64) AS id 19 1) EE OS Re EROE Ri SIR a A 55) SMMi de id 12 EL R e e aenioE La, e IENA GI NI 1a Di TARE O ORARIA NRE n e ULI SA A id LORIENT 0 ZAR E IE LO sla ide id. ? 16 | 100, 111, 7210, 7321........... np I det UAAR 2273] Id. — id 1A BLOOR TEO ZII nt 216| td. id. id 18 LIA ER id a Baba pi) o RL id TONE LOO RATA ORIO E IS OI AAA = 200 ROOT PA E PEGASO rega ra De Di REESNT A n AR CLOON ZIO TIA ART TI i spire \— id SALOON IO TIZI TAO NT QUI Si id IIGIMO0N 21073 Int iene id 24 | 111, #210, 7321, n421........ POT. SRO RECARE 1) id 20 OO 210 II A 490) IA id. 204001 AO TM i|_- — id. 12 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECE. plari, ata SIMBOLI LOCALITÀ delle forme semplici che costituiscono donde provengono ciascuna: combinazione le combinazioni osservate Numero d’ordine Numero degli esem in cui fu osserv ciascuna combinazione 100, 111, 7210; p 2 Traversella. 100, f11, 7210, 100, 111, 7210, 7321, 7432 10010! AI AEREI 100, 111, x 210, 7421, 211 100, 111, x 210, 7421, 2° 100, 111, 7210, 7421, x11 52 100, 111, 210, 110, 211 100, 111, 7210, 7120, 211 100, 111, =210, 7230, 211 100, 111, x 210, 7430; 211 100, 7210, 7321, =421, 2I1 100, x 210, 7321, 7453, 7851 100, 210, 530, #540, #10 6l.............. CRISI. 111, 210, 110, 211, 221 111, 7210, 7321, 7421, 7320 111, 7210; 7321, = 421, 2453 111, 7210; 7321, =421, 221 111, 2210, 7321, 7421, 211 111, 7210, 7321) 7421, 7881 ............. SISLIGO 111, 7210, 7321, =320, 7453 100, 111, 7210, 7321, 7453, 7342 100, 111, 7210, 7421, 109, 111, 7210, 7421, 110; 211 111, x210, 7421, 7310, 7430 7210, 421, 211, 7453 210, 421, 211, 221 T210, 7421, 221, nil 52... 7210, 7421, 2230, 211 2210, 221, 10 87 110, 211 110, 211 110, 211, 221 PER G. STRUÙVER. 13 ® Ea s SIMBOLI EHE LOCALITÀ = delle forme semplici che costituiscono sii donde provengono È ciascuna combinazione BEE le combinazioni osservate | G1 | 100, 111, 7210, 211, 7750 ?, 7560.................... ni —>. Mago CL 62 | 100, 111, #210, 211, 311, 7650? ...... i i] — — Traversella tl 63 | 100, 7210, 7321, x 421, 1320, 7453... sell Are id. 64 | 100; 7210, 7321, 7421, 211, #851 ......-..- il -— id. | t.;llllIY‘‘teÎÎmTmtm+—-—-—— — ———<_—<__——_—_———_—__—_———————_€€——€€——_——————m———m€m€m | 65 | 100, 111, x210, #321, 421, 320, 7453 .......... ... = = id 100, 111, 1210, 7321, 7421, 7320, 1.851 ............ acli dii, = e=> id 67 | 100, 111, =240, 321, n 421, 7851, 1453.............-. gi = == id | 68 | 100, 111, 7210; x 321, r.421, 7632, 716 63............. il—- — id 69 | 100, 111, 210, 7321, 421, 7453, 1342 .......0.. e fil cc e== id 7O}C100; 1112210, 70421 1440) 1211 221 ene ul => id. ? — 71 | 100, 111, 7210, 7421, 7230, 110, 211.................. 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OEii BRR Lot nocssenanno cano cdondagoa nono LINE? id. ? 14 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Come si vede dalle figure, e meglio ancora dalla proiezione stereo- grafica, tav. XIV, vi sono alcune zone straordinariamente ricche di faccie. È degna anzitutto di menzione la zona [110], nella quale entrano oltre all’ ottaedro i tre triacisottaedri 331, 221, 332, ed i sette icositetraedri 211, 11 55, 944, 522, 311, 4rt, gri. Non meno ricca è la zona [120], cui appartengono 10 dr, 421, 632, 211, 423, 212, 213, 214, 63 16. Di altri esempi ci occorrerà parlare, quando tratteremo più in esteso delle forme osservate nella Pirite. Un altro risultato che facilmente ricavasi dal precedente quadro delle combinazioni osservate, si è, che la massima parte dei cristalli è termi- nata da un piccolo numero di forme a semplicissimo simbolo, 100, 7 210, rst, 7321 e x 421. Le altre forme sono lontane dalla frequenza delle cinque sunnominate, moltissime non furono osservate che una sola volta. Onde meglio far risaltare questo fatto, facciamo qui sotto seguire un quadro delle forme, nel quale è indicato, quante volte ognuna fu in- contrata nell’esame dei 5603 gruppi e cristalli isolati. NUMERO NUMERO NUMERO SIMBOLI degli esemplari, SIMBOLI /degli esemplari, SIMBOLI /dgegli esemplari, sui quali sui quali sui quali delle forme si osservò delle forme MS DROSSOLVO, delle forme MISTMOSSEEVO ciascuna forma ciascuna forma ciascuna forma 100 5539 x 210 4613 1il 4275 321 3217 991 124 94 73 t 10 30 520 750 ? 250 450 780 522 944 332 1 432 841 SD MO N90 BDO 190 LO 260 LD 19 Wo Ww Ww WI [e e © >] PER G. STRUVER. I5 CENNI SULLE FORME SEMPLICI OSSERVATE NELLA PIRITE. I. Cubo 100. Le faccie del cubo sono le più frequenti nella Pirite; fra i 5603 »- esemplari esaminati non si trovarono che 64, sui quali non si osservas- sero le sue faccie: sono le forme semplici 111, x 210 e le combinazioni ERRORI 72 SIIT DI) 72 IONI III 7 IMON ZIA DEI; TI2Mio, ira Samir 40% ri, 7210) BIO) 21,231, Frequentissimi, massime a Traversella, sono i cristalli terminati esclu- sivamente dalle faccie del cubo. La importanza di questa forma aumenta ancora, quando si consideri, che nella maggior parte delle combinazioni predominano le sue faccie. Forse il primo autore, che abbia accennato alla perfettezza dei cristalli eubici della Pirite, è il Veneziano Birincuccio (1), il quale nel suo in- teressantissimo scritto « Pirotechnia », pubblicato 6 anni prima dell’opera di AcricoLa, intorno alla Pirite si esprime nei seguenti termini: « la più ancor che la si trovi a filoni è in forme di certe grane ora grosse ed ora piccole tutte cubiche a similitudine di dadi, ovvero bisquadre tutte justamente squadrate. Talchè artefice alcuno con qual si vogli strumento non potrebbe tirar più justi nè meglio li lor angoli ». Parrebbe, che il minerale cubico di cui Prinio (®) fa menzione sotto il nome di « Amphitane » non fosse altro che la nostra Pirite. II. Ottaedro 4144. L'ottaedro allo stato isolato non s'incontrò che in pochi cristalli, i quali provengono da Brosso e da Traversella. Le sue faccie si osservano ancora sulla maggior parte delle combinazioni esaminate, ma sono meno fre- quenti di quelle del cubo. Infatti fra 5603 cristalli si trovarono 1328, in cui non si osservò l’ottaedro. Presentano codesti cristalli le forme (1) BrrinGuccio, Pirotechnia, Veneziae 1540, p. 29. (2) PLIiNIO, XXXVII 54 « Amphitane alio nomine appellatur chrysocolla , in Indiae parte, ubi formicae eruunt aurum, in qua invenitur auro similis quadrata figura ». 16 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANÀ ECC. semplici 100 e x 210 e le combinaziòni 100, 7 210; 100, x 321; 100, 210, 7321; 100, 7 210, T 4215 d00,,7 210, 7230; 100, ,7.210,) DIO, 211; 100, 7210, 7321, x 421; 100, n 210, x 321, 7453; 100, 7 210, n 321, x 410; 100, x 210, 7 321, x 421, 211; 100, 7 210, © 321, CAO ADI NOV UT MO UO UO LO 015 N00, e ZIO, DI AIR TS20) 77 ISO ITA2 007 ZINIO ZII SOI bs] RI2.10, CLTO TRO AOL RIINA 0 Frequenti sono ancora .i cristalli in cui le faccie dell’ottaedro predo- minano, massime a Brosso, ove sono impiantati sul quarzo. Il primo autore che, a nostra saputa, faccia menzione dì cristalli ottaedrici di Pirite, è il Geswer (1). Frequenti sono i cristalli che presentano la combinazione del cubo coll’ottaedro. Facciamo qui menzione di un singolare aggruppamento di cubottaedri, raffigurato al num. 185 della tav. xm. Da un frammento di dolomite di Traversella, spuntano dei cristalli di Pirite, a lor volta coperti da una sostanza brunastra, che pare si componga essenzialmente di un idrosilicato di ferro. Su questa crosta trovansi impiantati cristalli di calcare e cristallini cubottaedrici di Pirite, i quali parallelamente aggruppati imitano i tre spigoli del cubo concorrenti nello stesso angolo. III. Rombododecaedro 41410. Trovasi per la prima volta indicato da Hauy. In parecchie località fu osservato allo stato isolato, ma non conosco cristalli rombododecae- drici, provenienti dal Piemonte, benchè alcuni trattati di mineralogia ne facciano menzione. Le faccie del rombododecaedro vanno annoverate fra quelle piuttosto raramente osservate, sono però più frequenti a Brosso che non a Tra- versella. Infatti fra 35 cristalli, sui quali si constatarono le faccie di 110, 32 provengono da Brosso e soli tre da Traversella. Notisi che in quasi tutti questi 35 cristalli a 11o si associa l’icosite- traedro 211. Le combinazioni, provenienti da Brosso, in cui sì osserva il rombo- dodecaedro, sono quasi sempre associate alla Baritina, la quale una volta s'incontrava frequentemente in quelle miniere. (1) Conr. GesnERI de rerum fossilium , lapidum et gemmarum maxime, figuris. Tiguri 1564, pag. 17 « Pyritae quadrati », e pag. 25 « Pyritae:octaedri et dodecaedri inveniuntur quidam ». Vedi anche Marx, Geschichte der Rrystallkunde. Carlsruhe und Baden, 1823. PER G. STRUVER. 17 IV. Ecositetraedri. 244. La forma più frequente fra tutti gli icositetraedri della Pirite è 2It, già stata osservata da Rowé pe L'Isre e Hauy. La trovai su 124 esemplari, i quali presentano 37 diverse combina- zioni e provengono sia dall’Elba, sia da Brosso e Traversella. In alcuni cristalli di Brosso dominano le faccie di 2r1 insieme a quelle di 7 210. 344. L’icositetraedro 311, osservato da Hauy in un cristallo prove- niente da Petorka nel Perù, fu da me incontrato soltanto due volte su esemplari provenienti da Traversella, i quali presentano le combinazioni: d@OL IL 7 20, ZII, 91 TOO e) 1005) TIT 210, Ro, (art, Ir, x 650 (vedi tav. VI, fig. 107 e 109). Nella prima combinazione, 311 si determinò per mezzo della zona [roo, rr1] e dell'angolo 211, 311, il quale fu trovato di 10° 11°. 5, mentre la teoria domanda ro° 2°. Nell’altra combinazione servirono, per determinare il simbolo di 311, la zona [100, rri] e l’angolo roo, 3rr== 25° 1.5, per il quale la teoria darebbe 25° 14'. I cristalli sono impiantati su dolomite. 444. La forma 4rr, nuova per la Pirite, s’'incontrò tre volte, in una combinazione, proveniente da Traversella, ed in due che provengono da Brosso. Il cristallo, proveniente da Traversella, presenta la combi- nazione 100, III, 7 210, Iro?, 2rr, 411, 221 (vedi tav. X, fig. 137), ed è impiantato sw dolomite selliforme. Onde: determinare il simbolo del nuovo icositetraedro, il quale entra nella zona [roo, 111], fu mi- surato l’angolo che fa con 211, e trovato = 15° 41'. 5, mentre il calcolo dà per l’istesso angolo 15° 48°. La fig. 114, tav. VI, rappresenta una interessante combinazione che incontrai su un gruppo proveniente da Brosso. Essa ci presenta le forme x 210, 7 120, 7 421, 2II, 4II, 221, 100, ItI. Il simbolo di 4rr deriva da due qualunque delle zone [rrr, 100], [42t, 421], [210, 212]. oltre a ciò V angolo 4rr, 210 fu trovato = 18° 23’. 5, mentre si calcola = 18° 26. La forma 4ri si trovò ancora in un’altra combinazione di Pirite, proveniente da Brosso ed impiantata su quarzo. Essa combinazione è formata da 182 faccie cui si convengono i simboli # ato, nix 00, 7 421,221, 391, 201) 18:95; AP1at7 00 (vedi tav. X, fig. 139); 411 si determina dalle due zone [111, 100] e [210, 201]. Serie II. Tom. XXVI. e 18 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. 41 55. Nella combinazione or ora descritta, si associano all’ icosite- traedro 411 due altri, 211 e ri 55, di cui rr 59 è nuovo per la Pirite. Il suo simbolo si determina dalle due zone [111, 100] e [421, 313]. Le faccie del nuovo icositetraedro sono un po’ meno lucenti di quelle dell’icositetraedro 211. 944. Questo icosiletraedro, non ancora stato osservato nella Pirite, s'incontrò in un gruppo, proveniente con molta probabilità da Brosso, il quale presenta la più ricca combinazione di Pirite che io mi conosca. Alle sue 218. faccie si convengono i simboli: x 210, 111, 100, 2I1, 944, 221), 1992, 04903 17 11040) rl 90 ir: 780,0 NAZISTI (vedi tav. IX, fig. 136). Il simbolo dell’icositetraedro 944 si determina dalle zone [111, 211] e [102, 421]. Inoltre fu trovato l'angolo 111, 944=22° 35’, mentre si ‘calcola’ —=:22°f36% La forma 944 è segnalata dal Micrer e dal Dana nella Perowskite ; DescLorzeAUx non ne fa menzione nel suo quadro delle forme conosciute nel sistema monometrico. 522. L'’icositetraedro 522, anch'esso nuovo per la Pirite, fu da me incontrato sulla combinazione 7 210, 100, 111, 211, 221, 522, x 450, la quale probabilmente proviene da Traversella ed è rappresentata dalla fig. 117, tav. VII. Il simbolo della nuova forma deriva dalle zone [100, 111] e [210, 102]. Le sue faccie sono assai splendenti, ma finamente rigate nel senso parallelo alla zona [100, 111]. 914. L’icositetraedro gii che io non ebbi occasione di osservare, fu segnalato da HessenseRG (!) in una interessantissima combinazione 190, n 10 30, 7 210, QII, 2II, ITI, 221, proveniente dalla dolomite del « Binnenthal » nel Vallese. V. Triacisottaedri. 224. Il triacisottaedro 221 della Pirite è da lungo tempo conosciuto : già Hauy lo trovò in un cristallo oloedrico di Pirite della combinazione I1I, 221, 211, 100, 321. Non è raro a Brosso nè a Traversella, ma si presenta sempre con faccie poco sviluppate. Lo trovai in 73 esemplari, i quali presentano 18 combinazioni diverse , la maggior parte delle quali proviene da Brosso. (1) HesseNBERG, Miner. Notizen. 5. V. Abhandl. Senckenb. Naturf. Gesellsch. IV. 1863. p. 209. PER G. STRÙVER. I9o) 334. La forma 331 finora non fu osservata nella Pirite. Io la constatai sulle due combinazioni 100, 111, x 210, 7 560, 7 250, 211, 221, 331 € 100, III, 7 210, 7 120, 7421, 211, 11 55, 411, 221, 331, ambedue provenienti da Brosso, e rappresentate, la prima su tav. VII, fig. 118, l’altra dalla fig. 139, tav. X. Il simbolo 331 deriva in ambidue i casi dalle zone [1r1r, 221] e [Bro, 121]. 332. Il triacisottaedro 332, altresì nuovo per la Pirite, fu trovato una sola volta nella più sopra descritta combinazione di 218 faccie (vedi fig. 136, tav. IX). Il suo simbolo deriva dalle due zone [111, 221] ex, I2IÙ]; VI. Pentagonododecaedri. r 240 e x 4120. Fra i tanti pentagonododecaedri che si osservano nella Pirite, la forma x 210 è di gran lunga la più frequente e forse l’unica che si osservi allo stato isolato o dominante. Tant'è che da lungo tempo attirò l’attenzione dei dotti. Geswer (!) probabilmente vi accenna, parlando della Pirite dodecaedrica. KepLERO (®) conosceva l’icosaedro della Pirite, benchè lo prendesse per quello regolare della geometria. La forma inversa x 120, più rara, fu segnalata da Havy ed altri autori più recenti. Fra i 5603 esemplari da noi esaminati, le faccie di 7 210 si osservano su 4613, talchè la forma x 210, dopo il cubo, è la più frequente nella Pirite. Allo stato isolato s'incontra raramente a Traversella. La forma inversa 7 120 fu trovata in g esemplari soltanto , provenienti da Brosso. Essa è sempre poco sviluppata ed associata alla forma diretta n 210. Pochissime sono le combinazioni, sulle quali non si osservino le ideciendioz (210; Moe; nuu;)i00, in; 100; 3215 nrm;lz 321 uoog Dima dan Molte delle combinazioni, nelle quali entra la forma x 210 con due o una sola delle forme semplici 100 e 111, sono distinte per le più strane (1) Conr. GESNER, loc. cit. (2) KePLER. Harmonices mundi, IV. Linciì Austriae, 1619, p. 756. Vedi MARX, Geschichte der Erystallkunde. 20 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. deformazioni. Ne abbiamo raffigurato sulla tav. XII diversi esempi (vedi le figure 155, 157, 161, 167, 169). Quasi tutti questi cristalli deformati provengono dalla miniera di Traversella. T 320 e x 230. Dopo la forma diretta x 210, il pentagonododecaedro x 320 ed il suo inverso 7 230 sono i più frequenti. La forma x 320 fu da me osservata esclusivamente a Traversella, in cristalli in cui o domina o si trova almeno subordinato l’emiesacisottaedro x 321. \ La forma inversa x 230 s’incontrò 22 volte a Brosso, e in un sol caso a Traversella. x 320 fu segnalato per la prima volta da Hauy, x 230 è indicato da Rose nei suoi « Elementi di Cristallografia » , ma ignoro se l’abbia osservato sulla Pirite. i n 430 e 7 340. Questi due pentagonododecaedri si vedono altresì citati da Rose nei suoi « Elementi di Cristallografia » , senza indicazione però del minerale in cui furono osservati. DeseLorzeAux (4) li cita ambidue come incontrati nella Pirite. Io stesso trovai la forma x 430 in quattro esemplari delle combinazioni: 100, 111, 7 210, x 421, 7 310, x 430; 100, III, 7 210, X 430, 211; 00, IDI, 7 210, 7 430, 7 10 30, 7 11 4o, x 780, n 421, n 841, 211, 944, 221, 332. La prima di queste combi- nazioni proviene da Brosso, la seconda da Traversella, e l’ultima con molta probabilità da Brosso. Il simbolo di x 430 deriva facilmente dalle zone [100, 210] e [221, 211]. 7 540 e 7 450. Il DescrorzeAvx (?) indica, nel suo quadro delle forme conosciute del sistema monometrico, un pentagonododecaedro diretto il cui simbolo crede dover stare fra 7 54o e x 650. Giacchè ambidue questi pentagonododecaedri furono da me constatati nella Pirite, essi si indicarono nel quadro delle forme già conosciute. Trovai la forma diretta 7 540 su due combinazioni, probabilmente provenienti da Brosso, le quali presentano, l'una le forme x 540, x 10 61, x 530, x 210, 100, e l’altra 7 540, 7 10 61, x 530, 7 210, 100, 110, 211. La forma predominante della prima combinazione è appunto il pentagonododecaedro x 540 le cui faccie sono un po’ inu- guali e, benchè splendentissime, non permettono esatte misure. (1) DescLozgAaux,, Manuel de Minéralogie. Paris, 1862. Vol. I, pag. 6. (2) DESCLO!ZEAUX, loc. cit. PER G. STRUÙVER. 20 L'angolo D, quello cioè degli spigoli cubici, fu trovato = 76° 42' (media di 3 misure), mentre la teoria domanda 77° 20°. La differenza di 38’, avuto riguardo alla difficoltà di ottenere buoni risultati al goniometro, non è tanto grande da non permetterci di adottare provvisoriamente pel nostro pentagonododecaedro il simbolo 7 540. Dobbiamo qui far menzione di un singolare aggruppamento di due cri- stalli, il quale probabilmente proviene da Brosso e fa parte del Museo dell’Università di Torino. Codesto gruppo, rappresentato dalla fig. 144, tav. X, è formato di due individui ad assi paralleli di cui l’uno, sinistro, presenta la combinazione x 210, 111,100, x 421, l’altro, destro, la combinazione x 210, 211, 100, x 540. H pentagonododecaedro x 540 si determinò dalla zona [100, 210] e da due misure, le quali diedero Moon ro 0093; mentre la teoria domanda uo fase 0 O i IM Il gruppo non può ravvisarsi come geminazione, essendo le faccie di x 210, di uno dei due individui, parallele alle faccie di x 210 dell’altro. La forma inversa 7 4bo si trovò una sola volta nella combinazione più sopra mentovata di Traversella, la quale presenta le forme 100, 111, TRONO, 7:050,) 211, 922,221 (vedlitav: VII, fig. 117) x 650 e 7 560. La forma diretta x 650 fu trovata su due esemplari di Traversella, impiantati su dolomite. Presentano le due combinazioni © 250, 100; III, 2II, SII, 7 650 e 7210, 100, 111, 110, 7 650, 211, 311 (vedi tav. VI, fig. 107 e 10g). Il simbolo di x 650 si determinò dalla zona [100, 210] e dall’angolo 210, 650, il quale fu trovato nel cristallo rappresentato da fig. 109 == od) nell’altro (fig. 107) — oaieo/ La teoria darebbe per lo stesso angolo ago: La forma inversa x 560 s’incontrò su due cristalli, provenienti da Brosso, di cui l’uno presenta la combinazione x 210, 211, 100, 111, x 560, x 750? (vedi fig. 102, tav. VI), e l’altro le forme x 210, 211, 100, rrt, 221, 331, 7 560, x 250 (vedi tav. VII, fig. 118). Nell’ ultima 22 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. combinazione il simbòlo di 7 560 deriva facilmente dalle zone [100, 010] eli[r21, 391: 7 670. La forma inversa x 670 il cui simbolo è ancora alquanto dubbio, fu incontrato da me sur un sol cristallo, proveniente da Tra- versella, il quale esiste nel Museo dell’Università di Torino. Esso presenta le forme 7 321, x 421, x 851, 111, 100, x 210, 7 320, z 230, x 670, 211, 221 (vedi fig. 141, tav. X). L’angolo 100, 670, il quale si calcola a 49° 24', fu trovato su uno spigolo MIS su un altro Ma x 780. Il pentagonododecaedro 7 780 fu incontrato sulla combinazione di 218 faccie, della quale più sopra abbiam parlato (vedi fig. 136, tav. IX). Il simbolo x 780 deriva dalle due zone [100, o10] e [127, 304]. 7 520 e 7 250. La forma diretta 7 520 trovasi indicata dal DescLorzeAUx 1862. Io la constatai sulla magnifica combinazione 100, 110, x 210, 7 920, 7 4io, x 520, x 710, x 230, III, 211, 7 932, proveniente da Brosso e rappresentata dalla fig. 131, tav. IX. L’angolo 100, 520 fu trovato IO, mentre il calcolo ci dà 21° 48°. La forma inversa 7 250 è ancora incerta. Il pentagonododecaedro cui fu dato questo simbolo, s'incontra nella più sopra descritta combi- nazione di Brosso, la quale presenta le forme x 210, 211, 100, 111, 221, 331, x 560, 7 250 (vedi fig. 118, tav. VII). Esso è intermedio fra z 120 e 7 130, é non ammette misure al goniometro, perchè appannato. x 580. Si constatò sulle due combinazioni di Brosso più sopra accen- nate, le quali presentano le forme 100, x 210, 7 530, x 540, x 10 61 e 7 210, 100, x 530, x 540, 110, 211, x 10 Gr. Il simbolo di 7 530 deriva dalle due zone [100, o10] e [1o 61, 10 61]. 7 750. Forma che osservai sulla combinazione 7 210, 211, 100, 111, x 750, x 560, proveniente da Brosso e rappresentata su tav. VI, fig. 102. L’angolo 100, 750 fu trovato = 35° 40', mentre la teoria domanda per esso 35° 32". x 310. Se non erro, questo pentagonododecaedro fu indicato per la PER G. STRUVER. 23 prima volta dal Lévy (!). Lo trovai su due cristalli della combinazione 100, III, x 210, x 421, x 310, x 430, provenienti da Brosso. = 41 40. Fu da me osservato sulla combinazione di 218 faccie, a più riprese accennata (vedi fig. 136, tav. IX). Si determina dalle due zone [100, oro] e [211, 304]. Inoltre l'angolo 210, r1 4o che si calcola a RATE fu trovato = 6° 21. Incontrai la stessa faccia sulla combinazione 100, 111, x 210, x 421, x 11 40, 2I1, 22I, proveniente altresì da Brosso. 7 10 30. Forma constatata da HrssenserG (2) su un cristallo del « Binnenthal » nel Vallese. Io la osservai sulla combinazione fig. 136, tav. IX. L’angolo D (10 30, io 30) fu trovato =32° 4g'; la teoria domanda 33° 24". x 440. Trovasi indicato da Durrénoy (3) 1845. Noi l’incontrammo sulla combinazione di 146 faccie più sopra mentovata e rappresentata su tav. IX, fig. 131. L'angolo 100, 41o si determinò Me mentre la teoria lo darebbe = 14° 2/. La fig. 132, tav. IX, rappresenta un cristallo, proveniente da Tra- versella, nel quale a 7 210, x 321, roo si associano le faccie di un pentagonododecaedro cui probabilmente si conviene il simbolo x 41o. L’angolo 100, 4ro non si potè misurare che col goniometro d'’applica- zione, talchè resta alquanto dubbio, se il simbolo del pentagonodode- caedro sia realmente 7 4ro. z 920 e x 740. Sulla stessa combinazione di Brosso che presenta i pentagonododecaedri x 210, 7 230, x 920, 7 41o (vedi tav. IX, fig. 131), si osservano due altri, nuovi per la Pirite, i quali hanno per simboli 2 920 e © 710. L’angolo 100, 920 fu trovato = 12° 33, mentre il calcolo dà per esso AZ (1) Levy. Description d’une collection de minéraux, formée par M. H. Heuland. Londres, 1837. (2) HessenERG. Mineralogische Nolizen, loc. cit. (3) DurréNoy, Traité de Minéralogie. Paris, 1845. Vol. Il, pag. 448 etc. 24 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Rimane alquanto dubbio il simbolo di 7 710, giacchè da una parte il pezzetto che servì alla determinazione dell’angolo 100, 710, non presenta di 7 710 che una faccetta strettissima e perciò non adatta a misure esatte, dall’altra parte perchè l’unico cristallo che presenti la faccia 710 bene sviluppata, trovasi su un gruppo troppo grosso per essere applicato al goniometro. L’angolo 100, 710 fu trovato =8° 33’, mentre il calcolo lo dà Da Differenza = 25°. Adottando per simbolo del pentagonododecaedro 7 610, si avrebbe fra esperienza e calcolo una differenza di 55, essendo l'angolo 610, 100 igyna9 D'altronde x 710 è più probabile per la combinazione, giacchè en- trerebbe in zona con 100 e 932, faccia, la quale si osserva bene svi- luppata nel nostro cristallo. 7120 e x 11 90. Questi due pentagonododecaedri diretti si citano dal QuensTepr (1). VII. Emiesacisottaedri. n 324 e x 234. Il primo autore che faccia menzione della forma diretta x 321, è Romé pe L'Isre(?). La forma inversa x 231 fu osservata da Havy in un cristallo oloedrico di Pirite della combinazione 121, 221, 25E, 100}, 78) dams. 7 29. L’emiesacisottaedro x 321 è frequentissimo all’Elba e a Traversella, mentre pare manchi assolutamente a Brosso. Fra i 5063 cristalli esa- minati sì trovarono le sue faccie su 3217. La più frequente delle combinazioni in cui si. osserva x 321, è 100, 111, x 210, x 321, nella quale dominano ora una, ora più delle forme semplici che la compongono (vedi tav. II, fig. 30-36, ed i cristalli deformati tav. XII, fig. 156, 158, 160, 162, 163, 164, 166). Non di rado s'incontrano a Traversella cristalli in cui domina x 321. Allo stato isolato non ve l'ho mai trovato. (1) Fr. Auc. QuenstEDT, Handbuch der Mineralogie. 2 ed. Tibingen, 1863, pag. 663. (2) Romé-pE L’IsLE. Essai de Crystallographie, deuxième édit, Paris, 1783. IM, 210. PER G. STRUÙVER. 25 La forma inversa x 231 fu constatata su 3 esemplari che provengono probabilmente da Brosso (vedi tav. V, fig. 85 e 86). 7 424 e x 244. Fu osservata la forma diretta 7 421 da Hauy, quella inversa è indicata da Mons (1). x 421 è fra le forme piuttosto frequenti nella Pirite, sia all'Elba, che a Brosso e Traversella. Le combinazioni più frequenti in cui si osservano le faccie di x 421, sono 100, IrI, 7 210, x 421, nelle tre località suddette (vedi tav. II, fig. 37-40, e tav. IMI, fig. 41 e 42, non ché il cristallo deformato tav. XII, fig. 165) e 100, r1I, x 210, 7 321, 7 421, frequentissima all’Elba e a Traversella (vedi tav. III, fig. 52-60, tav. IV, fig. 6r e 62, ed i cristalli deformati tav. XII, fig. 159 e 168). A Brosso non sono rari certi cristalli della combinazione 111, x 210, 100, x 421 od anche rrt, x 210, 100, 7 421, 211, nei quali quasi tutti gli spigoli sono arrotondati, nel modo rappresentato da fig. 170, tav. XIII. Sono impiantati su quarzo. x 534. Forma osservata da Hauy in un cristallo proveniente da Petorka nel Perù. x 854. Forma indicata dal DescLorzeaux (?). Piuttosto frequente a Tra- versella. La trovai su 35 cristalli, i quali presentano 10 combinazioni diverse in cui quasi esclusivamente domina x 321. Interessante è il cristallo, rappresentato da fig. 133, tav. IX, nel quale le faccie di 7 851 dominano assieme a 7 421 e x 321. L'angolo D (851, 851) che si calcola a Taio fu trovato CIO (media di 6 misure). L'angolo 210, 851, il quale, secondo la teoria, sarebbe CISM fu trovato = 346 (media di 3 misure). L'angolo 321, 851 fu trovato =9° 31'. 5, mentre il calcolo lo dà CIGNO. x 10 54. Forma indicata da DescLorzeAux (83). x 40) 64. Forma indicata da Descroizzaux (4). Io la osservai su due cristalli della combinazione x 210, 7 540, 100, x 530, 7 10 61, e x 210, (1) Moxs. Leichtfassì. Anfangsgr. der Naturgesch. des Mineralreichs. 2° ed. Wien 1836. II, 511. (2) DESCLOIZEAUX, loc. cit. (3) Loc. cit. (4) Loc cit. Serie II. Tom. XXVI, D 26 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. x 540, 110, x 530, 100, 211, x 10 Gi, provenienti con molta proba- bilità da Brosso (vedi fig. 128 e 129, tav. VIII). Le faccie di x ro 61 in ambedue questi cristalli sono ben sviluppate e splendentissime in modo da permettere esattissime misure. L'osservazione diede per l'angolo D OP (media di 3 misure), per l'angolo U 56° 20' (media di 3 misure), mentre il calcolo dà D' = GSi i Ui= nosMiuof 7 453. La forma inversa x 453 si conosce da lungo tempo; Lévy (1) la cita nel 1837. Essa è piuttosto frequente a Traversella, ove s'incontra sempre associata a 7 321. La trovai, or più, or meno distinta, su 94 cristalli di Traversella, i quali presentano 12 combinazioni diverse. n 432 e 7 342. La forma diretta 7 432 fu trovata, alcuni anni fa, dal SeLLA sulla combinazione 100, x 432, 7 321, 7 210, 111, proveniente da Traversella, e rappresentata dalla fig. 130, tav. VIII) 432 entra nella zona [r11, 210] e si determinò per mezzo del go- niometro ad applicazione; calcolato trovato 492002 aSnole 92M o10/—T_0M9 DONZIONE /PPIO Oni Siro PRO To stesso incontrai la forma inversa x 342 su 6 cristalli, provenienti da Traversella, di cui due presentano la combinazione x 210, 7 321, 100, 111, x 453, x 342 (vedi tav. VII, fig. 115) e quattro la combinazione 7210, T 323, I00, ILL, 1.421, /409,,7,942 (vedi tav. VIS n05)! Il simbolo x 342 deriva dalle due zone [213, 111] e [o2r1, 142] © Br ae |a, II x 632. L'emiesacisottaedro x 632, nuovo per la Pirite, fu da me trovato su due cristalli provenienti da Traversella, uno dei quali pre- senta la combinazione 7 321, x 210, 100, rit, 7 421, x 632, x 16 63 (vedi fig. 134, tav. IX), l’altro le forme x 321, 100, I11, x 210, (1) Levy, loc. cit. (2) Dana (System of Mineralogy, 5 ed, London and New York, 1868, pag. 62) raffigura la combinazione 100, x 210, 111, 211, 221, x 321, x 432, proveniente da Cornwall in Pensilvania. tl simbolo di x 432 deriva dalle due zone [210, 111] e [211, 221]. PER G. STRUÙVER. 27 x 421, n 320, n 851, x 632 (vedi fis. 121, tav. VII). Il simbolo di x 632 deriva dalle due zone [321, 321] e [210, 421]. Parallelamente a quest'ultima zona le faccie di 7 632 sono striate. x 932. Anche questo emiesacisottaedro è nuovo. Lo trovai su tre cristalli, due dei quali presentano la combinazione x 210, 7 230, 100, III, 211, x 932 (vedi fig. 116, tav. VII), e l’altro la più volte accennata combinazione, distinta per gran numero di pentagonododecaedri (vedi fig. 131, tav. IX). Tutti questi cristalli provengono da Brosso. La forma 7 932 trovasi nella zona [210, 302]. Per determinare il suo simbolo furono misurati, nella combinazione più ricca di faccie, gli angoli 100, 932 e 932, 210, i quali furono trovati : (TODI Aaa I e OTO GI ES” La teoria dà per questi angoli 21° 5d', e ASD x 16 63. Nella combinazione x 321, x 210, 100, 111, 7 421, 7 632, x 16 63 (vedi fig. 134, tav. IX), anche l’emiesacisottaedro 716 63 è nuovo. Esso si determina dalle zone [210, 213] e [too, 421], ed è striato parallelamente a quest’ultima zona. 7 841. S'incontrò questa forma nuova sulla combinazione di Brosso, rappresentata su tav. IX, fig. 136. Il suo simbolo si determina per mezzo della zona [2r10, 421] e dell’angolo 210, 841, il quale fu trovato —= 6° 24, mentre la teoria domanda per esso 6° DEA z AA 52. L’emiesacisottaedro x 11 52 fu determinato su cinque gruppi, provenienti da Brosso, i quali presentano le combinazioni 7 210, 100, 111, mio ozio (vediltav. PX .ifig. 195) elri210, 100} 111, 420 x 11 52 (vedi fig. 84, tav. V). Il simbolo di x 11 52 deriva dalle due zone [rrr, 421] e [210, 102]. Tutti questi cristalli, i quali sono im- piantati sul quarzo, oltre alle forme accennate, presentano parecchie altre faccette curvate, e perciò indeterminabili. Due o tre di tali faccie trovansi nella zona [210, 102], un’altra nella zona [212, 102], ed una nella zona [111, 102]. 7 10 87. La forma x 10 87 fu determinata su un gruppo che pro- babilmente proviene da Brosso. Esso presenta la combinazione x 210, 28 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. 100, III, x 421, 221, x 1087 (vedi fig. 127, tav. VIH). Il simbolo di quest'ultimo emiesacisottaedro deriva dalle zone [111,421] e [221, 212]. Le sue faccie sono piccolissime, ma assai splendenti, e s'incontrano ben dieci volte sullo stesso gruppo. QUADRO degli angoli fatti dalle faccie di tutte le forme osservate nella Pirité, colle faccie più vicine di {400}, {4f4}, 7 {240} ©). 39° 14! 50° 46! 66° 25! 73° 60° UO 57° 70° 62° 56° 50° 540 2 59° 720, 78° 79° 58° 820 75° 55° 56° 59° 62° 66° Hal 81° 59° 40° 41° 44° 53° 60° 45° 58° 48° 59° 68° 63972 58° 64° 60° 45° 67° 64° (1) D'accordo colla maggior parte dei cristallografi, si prende per misura dell’angolo, fatto da due faccie qualunque , quello delle loro normali. PER G. STRÙVER. D We] CAPITOLO IL. GEMINATI. Gli stupendi geminati di Pirite da lungo tempo attiravano l’attenzione dei mineralisti, e, per non parlare del Davira ed altri, basti citare il Rowné pe Liste (1), del cui alto ingegno fanno manifesta prova gli immensi progressi che fece nello studio dei cristalli. Ma il primo che abbia spiegato, d’accordo colle viste dell’ odierna cristallografia , tale singolare geminazione, è il Weiss (2), il quale prese ad esaminare e a descrivere i geminati di Pirite, provenienti dalle marne variegate del « Keuper » di Vlotho presso Minden in Prussia. Più tardi, nuovi esempi di geminazione si constatarono sulla Pirite di alcune altre località. Il Naumann (8) descrive un geminato, proveniente dall’Elba, il quale presenta la combinazione del pentagonododecaedro x 210 coll’ottaedro e coll’emiesacisottaedro 7 321, ed indica diverse altre forme geminate di Pirite, le quali presentano le combinazioni : 100; x 210; x 210, 100; alano, 70 3aIr Si citano dal Dana (4) geminati di Pirite che provengono da Scoharie , Nuova York, S. U. Alle suddette località il Serra ®) aggiunse parecchie altre, Traversella e Valdieri nel Piemonte, e Souk Haras tra Bone e Philippeville in Algeria. Nel 1858 WeissackÒ (6) descrisse geminati di Pirite della combinazione 7 210, III, I00 e assai deformali, provenienti dalla lignite della Wetterau. G. SanpsBERGER (7) incontrò geminati di Pirite nella miniera « Guter Muth » presso Dillenburg nel Nassau. (1) Romi pe LisLE, Crystallographie. Paris, 1783, 2° éd. 3° vol. p. 226. (2) Weiss in: Magazin Berlin. Gesellsch. Naturforschender Freunde. VIII, 24. (3) NaumANN, Lehrbuch der reinen und angewandten Krystallographie. Leipzig, 1830. II, 233. (4) DANA, A System of Mineralogy. 2 ed. 1844, pag. 479. 4 ed. 1854. Vol, II, p. 55. (5) Q. SELLA. Studi sulla Mineralogia sarda. Memorie della R. Accad.a delle Scienze di Torino. Serie II, vol. XVII. (6) A. Werszacn. Ueber die Monstrosititen tessera] krystall. Mineralien. Freiberg. 1858. (7) G. SANDBERGER. Verein f. Naturk. in Nassau XHI.362. Vedi anche KenncoTT, Miner. Forsch. 1859, pag. 110. 30 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Il ZepmarovicrÙ (!) fa menzione di alcune località dell'impero austriaco in cui si rinvennero geminati di Pirite. A_Eisenerz in Stiria si trovano associati a siderite, a Golrad nel « Grauwackenschiefer » e a Dobschau nell'Ungheria nella « Grauwacke. » Impiantati su siderite sono altresì i geminati di Pirite, segnalati dal Lasarp (2) nel terreno giurassico medio del « Déorrel » nell’Annover. Si sa che il Weiss considerava i geminati di Pirite come composti di due emiedri di diversa natura, l’uno diretto , l’altro inverso, talchéè, se ad uno dei due individui si conviene il simbolo x 210, l’altro avrebbe per simbolo x 120. Secondo questa ipotesi, quegli aggruppamenti non sarebbero più da ravvisarsi quali vere geminazioni, ma bensì come pro- dotti da una certa tendenza della natura di formare cristalli oloedrici. Altri, invece, considerano i due emiedri, formanti il gruppo, come di ugual natura, ed in questo caso abbiamo da fare con una vera gemi- nazione, il cui asse sarebbe la normale a 110 ovvero lo spigolo [110] del tetraedro. Non potendo la sola forma decidere della controversia, bisognerà ri- correre ai caratteri fisici dei .due individui componenti la geminazione, e a ciò si presterebbero le proprietà termoelettriche della Pirite. Ma benchè non si siano finora istituite esperienze a tale scopo, mi pare tuttavia doversi fin d’ora ammettere l’ipotesi, la quale considera le associazioni in questione come vere geminazioni. Infatti, se si può, per i geminati a penetrazione, ammettere l’ipotesi del Wriss, ciò non pare più possibile per i geminati ad asse [110] ed a giustaposizione, descritti per la prima volta dal SELLA. I geminati di Pirite, esistenti nella nostra raccolta e provenienti dalle località che formano argomento del presente scritto, sono raffigurati sulle tavole X. e XI, come si presenterebbero, se i due individui fossero di uguale grossezza e ad assi coincidenti. Come il SeLrA dimostrò, sono da distinguersi nella Pirite due leggi differenti di geminazione, ambedue ad asse [r1o], ma l’una a penetra- zione, l’altra a giustaposizione. Quest'ultima legge, meno frequente, fu osservata dal Serra su un esemplare proveniente da Traversella. (1) ZeezAROvicH, Miner. Lexikon. Wien 1859, pag. 330 ecc. e Prager Sitzungsberichte 1865 JI. 10. Vedi altresì KREnNGOTT, Miner. Forsch. 1862-65, p. 282. (2) Lasarp, Zeitschrift d. deutsch. geol. Gesellschaft. XIX. 1. pag. 16. Berlin, 1867. 2 PER G. STRUVER. DUI To incontrai 3 geminati della combinazione 111, x 210, 100 (vedi fig. 154, tav. XI), formati secondo la stessa legge, fra più di due mila cristallini semplici della medesima combinazione, disseminati in un esemplare di stealite, mista a poca dolomite e provenienie da Brosso. L'altra legge, che dà luogo alla forma ben nota dei geminati pene- trantisi ed incrocicchiantisi, si osserva a Valdieri, Brosso e Traversella nel Piemonte, ed all'isola dell'Elba. Le combinazioni che presentano gl’individui di questi geminati, sono piuttosto varie. A Brosso ne trovai uno in cui, al pentagonododecaedro dominante 7 210, si associano faccette del cubo e dell’ottaedro (vedi fig. 147, tav. XI). Più frequenti vi sono geminati incrocicchiantisi della combinazione x 210, III, 100, 421, nei quali ora predomina il pentagonododecaedro (vedi fig. 149), ora l’ottaedro (vedi fig. 148, tav. XI). Da Traversella proviene un esemplare di magnetite, esistente nella nostra raccolta, sul quale, associati a cristalli di mesitina, calcare e quarzo, si vedono impiantati non meno di una ventina di geminati pe- netrantisi, i cui individui non presentano altre faccie fuori quelle del pentagonododecaedro 7 210. Un geminato di Traversella, composto di un grosso individuo x 210 che porta su ognuno de’ sei spigoli maggiori un piccolo pentagonodo- decaedro girato riguardo al primo di 180° attorno all’asse [r1o], fu descritto dal SeLLa e da noi riprodotto su tav. XI, fig. 153. Osservai altresì fra i geminati di Traversella le combinazioni : 7 210, jool ina z2isara vedi tav XI Go (nb) er i210) 100} BIT, TL d21, x 421 (vedi tav. X, fig. 143). Da Valdieri, provincia di Cuneo, proviene il geminato rappresentato su tav. XI, fig. 152, e già stato descritto dal SeLLa nei suoi « Studii sulla Mineralogia sarda ». Esso presenta la combinazione x 210, x 430. Provengono finalmente dall’ Elba una quindicina di esemplari della raccolta del Valentino, i quali presentano geminati di Pirite ad asse [110] ed a penetrazione. Fra essi il maggior numero si compone di individui della combinazione 7 210, 7 321, 100, 1t1, in cui per lo più domina x 210 (vedi tav. XI, fig. 151), mentre in un solo esemplare prevalgono le faccie del cubo (vedi tav. XI, fig. 150). Due geminati della combinazione x 210, 7 321, 100, 111 (fig. 151), hanno lucentissime le faccie di 7 210 e 100, appannate invece quelle di 7 321 e 111. Alcuni pochi esemplari, provenienti dall’Elba, presentano, 32 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. associate al pentagonododecaedro x 210, faccette di 7 421, 100, iti (vedi tav. XI, fig. 149), altri le faccie di 7 210 dominanti, e, subor- dinate, faccette di 100, tir, 7 421, 211 (vedi tav. X, fig. 145). Alcuni autori, p. e. Suckow (!) e Grrarp (®), fanno menzione di geminati di Pirite, per i quali asse di rivoluzione sarebbe la normale a 111. Malgrado il gran numero di cristalli aggruppati che ebbi occasione di esaminare, non potei mai rinvenirne alcun esemplare, nel quale gli indi- vidui si trovassero in posizione relativa tale da confermare quella ipotesi. CAPITOLO III ASPETTO FISICO E POLIEDRIA DELLE FACCIE DELLA PIRITE. La meravigliosa semplicità delle due principali leggi cristallografiche, quella cioè della costanza degli angoli diedri, e l’altra della razionalità dei rapporti tra i segmenti fatti sugli assi dello stesso nome dalle diverse faccie dei cristalli della medesima sostanza, ha fatto sì, che la maggior parte dei mineralisti consideravano, e ancora considerano, quelle leggi come fondamentali, invariabili. E noi siamo ben lungi dal negare la a importanza. Esaminando però i cristalli che la natura ci offre, egli è assai raro di incontrarne uno, se pure se ne trovano, il quale perfet- tamente risponda alle esigenze della teoria. Difatti, in quasi tutti i cri- stalli si osservano faccie non perfettamente piane, ma più o meno ir- regolari a motivo di strie, impronte o sporgenze che presentano. V'ha di più. Le osservazioni fatte dallo ScAccni sulla « Poliedria » dei cristalli hanno dimostrato, che una medesima specie di faccia può nello stesso cristallo occupare diverse posizioni, che cioè gli angoli diedri dei cristalli non sono assolutamente costanti. E benchè si possa esser d’avviso, che l'illustre mineralista napoletano faccia talvolta oscillare entro limiti troppo ampi i piani dei cristalli, tuttavia sarà, secondo noi, difficile combattere in generale le sue conclusioni ; in altre parole, sarà giuocoforza ammettere, (1) Suckow, Poggendorfs’ Annalen XXIX. 1833, p. 502 ecc. Vedi anche GLocKER, Mineral. Jahreshefte INT. 1833, p. 233. (2) Grrarp, Handbuch der Mineralogie. Leipzig 1862, p. 513. PER G. STRUVER. 33 che la legge di Hauy solo approssimativamente rappresenta i fatti real- mente osservati. Tali eccezioni alla legge generale furono già da lungo tempo segnalate, ma dai più ravvisate come mere accidentalità di poco rilievo, dipendenti da forze esterne che vennero a disturbare il regolare aggruppamento delle molecole. Nè noi esitiamo punto di ammettere la minor importanza delle circostanze di cristallizzazione, 0, per meglio esprimermi, delle forze accidentali che vengono sempre a modificare più o meno l’effetto della forza di cristallizzazione propriamente detta, la quale, se agisse sola nell’atto della cristallizzazione, probabilmente produrrebbe cristalli come quelli voluti dalla legge di Hauy. Ciò nonostante non sarà meno vero, che i fenomeni, cagionati da quelle forze di ordine inferiore, sa- ranno altissimi a gettare maggior luce sulla struttura molecolare dei cristalli. E ciò non sarà difficile a dimostrare con fatti. La nostra raccolta possiede alcuni stupendi geminati di Pirite della combinazione x 210, III, X 321, 100, provenienti dall’Elba e rappresentati dalla fig. 151, tav. XI. In codesti cristalli le faccie del cubo e del pentagonododecaedro sono perfette e splendentissime, mentre quelle dell’ottaedro e dell’emie- sacisottaedro senza eccezione sono rugose, appannate. Or bene, se tale fenomeno dipende da forze accidentali che agissero nell'atto della cri- stallizzazione o dopo, perchè mai quelle forze non hanno modificato tutte quante le faccie nello stesso modo? Evidentemente ciò deve de- rivare dalla struttura molecolare della Pirite. E se noi qui dedichiamo un intero capitolo alle osservazioni fatte sui caratteri fisici delle faccie della Pirite, egli è perchè siamo persuasi, che tali osservazioni un giorno potranno contribuire a squarciare il velo che tuttora copre la questione della struttura molecolare dei cristalli. A. Aspetto fisico delle faccie. Le faccie del cubo, sempre splendentissime, sono talvolta, esaminate colla lente, affatto piane e liscie, senza traccia di striatura; però nella maggior parte dei casi, come da lungo tempo si sa, striate nella direzione degli spigoli fatti colle faccie più vicine del pentagonododecaedro x 210 (vedi fig. 171, tav. XIII). Se tali strie il più delle volte manifestamente sì producono per il continuo alternarsi delle faccie del cubo con quelle del pentagonododecaedro, talvolta diventano finissime a segno che non Serie II. Tom. XXVI. E 34 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. si riesce più a distinguere in qual modo siano state prodotte: e allora non sarebbe impossibile che siano dovute ad un fenomeno di potiedria, prodotte cioè dall’oscillare delle faccie del cubo attorno alla loro posizione media. Questo ultimo fenomeno del resto si osserva assai bene in certi cristalli cubici, provenienti da Brosso, e non di rado interessantissimi per le faccie rare che ne modificano gli angoli e gli spigoli (vedi p. e. fig. 131, tav. IX). In un sol caso, su cristalli della combinazione 100, 111, provenienti dall’Elba ove s'incontrano impiantati su ematite, osservai sulle faccie del cubo due sistemi di finissime striature, parallele agli spigoli del cubo e perciò incrocicchiantisi ad angolo retto, come fig. 172 lo rappresenta. Altri cristalli cubottaedrici (fig. 173) fanno vedere altresì due sistemi di strie sulle faccie del cubo, ma non più parallele agli spigoli del cubo, bensì alle intersezioni delle faccie dell’ ottaedro con quelle del cubo. Tali strie mi paiono sempre dovute ad alternazioni delle faccie del cubo colle quattro adiacenti dell’ottaedro. La fig. 174, tav. XIII, rappresenta un cubottaedro in cui le faccie del cubo rivelano impronte quadrangolari, i lati delle quali sono orien- tati parallelamente alle intersezioni in cui le quattro faccie adiacenti dell’ottaedro incontrano la faccia del cubo. Esaminando attentamente tali impronte, esse si vedono formate appunto da faccette parallele a quelle quattro faccie dell’ottaedro. Quando il cubo trovisi in combinazione coll’emiesacisoltaedro 7 321 e col pentagonododecaedro x 210, come frequentissimamente accade a Traversella, si osservano sulle sue faccie tre sistemi di striature, tendenti a formare degli esagoni i cui lati sono paralleli agli spigoli dovuti all’incontrarsi delle faccie del cubo colle faccie adiacenti dell’emiesacisot- taedro e del pentagonododecaedro (vedi fig. 176). Passiamo ora a considerare le accidentalità non meno interessanti che ci offrono le faccie dell’ottaedro nella Pirite. Come il cubo, l’ottaedro va distinto per la grande lucentezza dei piani, però non di rado si presenta il caso in cui essi sono appannati, e basti ricordare l’ esempio sopra- citato dei cristalli geminati dell'Elba. Quando le faccie ottaedriche non siano affatto liscie, esse sono per lo più striate parallelamente agli spigoli che fanno colle tre faccie adia- centi del pentagonododecaedro x 210, come ciò si osserva nelle figure IMoNenn,s: PER G. STRÙVER. 90 Tali strie producono talvolta una piramide trigonale molto schiacciata che appena si eleva sopra la faccia dell’ottaedro, e siamo disposti a credere, che questo o qualche simile fenomeno abbia dato occasione al passo che troviamo nella Mineralogia di Quenstepr (!) il quale cita, come provenienti dalle Alpi piemontesi, certi cristalli in cui si osservano faccie di un icositetraedro, le quali appena si elevano sopra le faccie dell’ot- taedro, ma distintamente sono indicate da striature; se non che non abbiamo mai incontrato, nonostante il grande numero di cristalli esa- minati, sulle faccie dell’ottaedro, delle strie parallele ai suoi spigoli. Le striature sopracitate e quelle che descriveremo qui sotto, indiche- rebbero piuttosto emiesacisottaedri a faccie parallele. Sono frequenti, massime a Brosso, dei cristalli in cui l’ottaedro è combinato col cubo, col pentagonododecaedro x 210 e coll'emiesacisot- taedro x 421 (vedi fig. 188), e allora si osserva, in molti casi, come le strie non siano più parallele alle intersezioni di 111 con x 210, ma invece a quelle con 7 421. Alle striature parallele agli spigoli fatti con x 210, non di rado si vedono associate impronte della forma di un triangolo equilatero, i cui lati sono orientati parallelamente agli spigeli che le faccie di 111 fanno colle tre faccie adiacenti del cubo, ovvero, locchè vuol dire l’istesso, colle tre faccie adiacenti dell’ottaedro stesso, con quella par- ticolarità però, che gli angoli di dette impronte guardano sempre verso gli spigoli fatti colle adiacenti faccie dell’ottaedro, come fa vedere la fig. 176. Mentre tali impronte per lo più si associano alle strie senza alcuna regola apparente, si trovano a Brosso certi stupendi cristalli cubottae- drici alquanto deformati (vedi tav. XII, fig. 157), i quali presentano il seguente singolarissimo fenomeno. Alcune delle faccie dell’ ottaedro sono divise in sei aree, tre più larghe e tre più ristrette che alternano le une colle altre (vedi fig. 177); le aree più larghe abbracciano un angolo di quasi 75°, quelle meno ampie un angolo di 45° circa. Le linee che a destra terminano le aree più ampie, sono ad un di presso normali agli spigoli dovuti allo incontrarsi della faccia in que- stione colle tre adiacenti dell’ottaedro. Ora le aree più larghe sono (1) Fr. Aug. QuenstEDT, Handbuch der Mineralogie, 2 ed. Tuùbingen 1863, pag. 662-63. 36 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. striate parallelamente alle intersezioni colle faccie del pentagonodode- caedro 7 210, il quale su qualche angolo del cristallo si osserva in i) piccole facciuzze; sulle aree più ristrette si osservano gran numero delle impronte triangolari sopra citate. Se su una faccia dell’ottaedro la di- sposizione delle aree è come sopra fu esposto ed è rappresentato nella fig. 177, sulla faccia opposta invece le aree striate sono terminate a sinistra da linee normali agli spigoli prodotti dalle intersezioni colle tre adiacenti faccie dell’ottaedro. Egli segue da ciò, che due faccie opposte dell’ottaedro ovvero due angoli opposti del cubo, nella Pirite, non sono sovrapponibili, fatto già stato segnalato da FriepeLw (!) riguardo alla striatura delle faccie del cubo, e sul quale egli fonda l'ipotesi della piroelettricità della Pirite. Non osiamo per ora decidere, se debbano o no considerarsi come geminati quei singolari cristalli. Il rombododecaedro, frequente nelle combinazioni che s'incontrano a Brosso, talora presenta le sue faccie splendentissime, ma nella maggior parte dei casi rigate parallelamente agli spigoli del cubo. Dei sei icositetraedri 211, 11 55, 944, 522, Str, 4rr, che ebbi oc- casione di esaminare sulla Pirite dell'Elba e del Piemonte, 211, 311, 11 5) quasi sempre sono splendentissimi senza traccia di striature, e, ‘salvo qualche caso speciale, non presentano importanti particolarità. La forma 411, la quale alcune volte s’incontrò a Brosso e a Traversella, per lo più è splendente e liscia; solo in una combinazione, proveniente da Brosso e rappresentata su tav. X., fig. 139, essa, assieme al penta- gonododecaedro inverso x 120, è appannata; 944 e 522 sono altresì splendentissime, ma finissimamente rigate nel senso parallelo alle loro intersezioni colle faccie del cubo. Altrettanto splendenti sono i tre triacisottaedri 221, 331 e 332, que- st'ultimo però presenta strie finissime, appena percettibili colla lente, e parallele agli spigoli che fa coll’ottaedro. Veniamo ora a passare in rivista le superficie delle forme emiedriche. Cominciando dalla lunga serie dei pentagonododecaedri, conviene anzi- tutto dire, che nella maggior parte dei casi le loro faccie sono rigate nel senso degli spigoli che fanno colle faccie più vicine del cubo (vedi { 1) Vedi loc. cit, PER G. STRUVER. 37 fig. 1709). In taluni però di questi corpi, e massime in x 210 e nel suo inverso x 120, si osservano altre particolarità degne di esser mentovate. Ambidue questi pentagonododecaedri, d’ordinario lucentissimi, talora sono appannati, come accade per x 120 nel cristallo sopracitato, rappresentato dalla fig. 139, e per 7 210 piuttosto frequentemente in cristalli di Brosso, della combinazione x 210, x 421, 111, 100. Gli stessi cristalli, non che molte altre combinazioni, nelle quali entra l’emiesacisottaedro x 421, presentano le faccie di 7 210 striate normalmente agli spigoli fatti colle faccie più vicine del cubo, ovvero nel senso delle intersezioni dovute all’incontrarsi di 7 210 colle faccie più vicine di 7 421 (vedi fig. 186 e 188). Non raro è il caso in cui i due sistemi di rigature si osservano contemporaneamente, come si vede nella fig. 180, la quale rappresenta la combinazione 7 210, 100, 111, 7 321, x 421, proveniente da Tra- versella. E qui giova notare, che la striatura parallela agli spigoli del cubo predomina nei cristalli incontrati a Traversella, mentre a Brosso il pen- tagonododecaedro x 210 a preferenza è rigato nel senso normale agli stessi spigoli. Questa differenza dei pentagonododecaedri delle due località è accompagnata da un altro fatto non meno importante, ed è, che a Brosso l’emiesacisottaedro x 321 è rarissimo, se pure vi s'incontra, mentre è frequentissimo a Traversella. Or bene, nei cristalli in cui x 321 si associa al pentagonododecaedro x 210, le faccie di quest’ultimo sono rigate nella direzione degli spigoli del cubo, negli altri, frequen- tissimi a Brosso, ma piuttosto rari a Traversella, in cui con x 210 è combinato solo x 421, senza intervento di x 321, è quasi ecslusiva la striatura normale agli spigoli del cubo. Oltre alle strie, le faccie del pentagonododecaedro 7 210 presentano in molti casi impronte della forma di un triangolo isoscele, il cui apice guarda verso la faccia più vicina del cubo. In un cristallo, probabilmente di Traversella, le osservai associate a strie parallele agli spigoli del cubo, su dieci faccie di x 210; solo due faccie, concorrenti nello stesso spigolo maggiore, non ne ave- vano. Nella combinazione x 210, x 321, 111, 100, la quale in magnifici gruppi s'incontra all’Elba, codeste impronte si vedono su tutte le 12 faccie di x 210 talmente frequenti da produrre profondi solchi che per- corrono in tutti i sensi le faccie del pentagonododecaedro. Chiaramente yi sl osserva, come due lati di quelle impronte siano paralleli alle due 38 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. faccie adiacenti dell’ottaedro, ed il terzo alla faccia più vicina del cubo (vedi fig. 182). Nella stessa combinazione non di rado accade, che per ripetuta alter- nazione delle faccie di 7 321 con quelle più vicine del cubo si produce l’emiesacisottaedro 7 942. Benchè tali faccie forse non possano conside- rarsi quali vere faccie cristalline, tuttavia siamo costretti di ammettere una certa forza che obbliga quelle alternazioni di tenersi strettamente non in una sola zona, ma entro due, come succede per 7 942, il quale è comune alle zone [321, 100] e [210, 102]. L’esacisottaedro oloedrico 942 si osservò del resto dall’ Hessenserc nella Perowskite del Wild- kreuzjoch nel Tirolo (1). La fig. 181 su tav. XIII rappresenta un interessante cristallo, pro- veniente da Traversella ed esistente nella raccolta mineralogica del Museo di Storia naturale di Torino. Su alcune faccie del pentagonododecaedro, i cui spigoli maggiori sono rimpiazzati dalle faccette del cubo, si vedono, oltre a righe parallele agli spigoli del cubo, delle piramidi sporgenti, formate dalla faccia più vicina del cubo, e dalle due faccie più vicine di un emiesacisottaedro, probabilmente x 851. Quelle piramidi sono poi quasi tutte troncate da faccette parallele alla stessa faccia del pentago- nododecaedro, sulla quale si osservano. Le faccie della forma x 320 talvolta, p. e. nella combinazione x 321, x 421, x 210, 7 320, 100, III, sono rugose; tal altra splendentissime, ma striate parallelamente alla loro comune intersezione colle faccie adiacenti di 7 210. La forma inversa x 230, non rara a Brosso, presenta faccie poco lucenti e quasi sempre striate parallelamente agli spigoli del cubo. Il più frequente degli emiesacisottaedri, 7 321, va distinto per tre diversi sistemi di striature, le quali talvolta si osservano riunite nello stesso cristallo. La parte di gran lunga maggiore delle combinazioni in cui entra x 321, presentano le faccie dell’emiesacisottaedro rigate nella direzione degli spigoli fatti colla faccia più vicina di x 421 ovvero del cubo (vedi fig. 184, tav. XIII). Frequentissimamente altresì si os- servano, o sole o unite alle strie sumentovate (vedi fig. 183), delle (1) Fr. HessenBERG, Mineralogische Notizen in: Abhandl. d. Senck. Naturf. Ges. Vol. 4, pag. 20. Francoforte, 1862, PER G. STRi/VER. 39 righe parallele alle intersezioni dell’ottaedro colle faccie dell’emiesaci- sottaedro. Una sola volta, in un cristallo del Museo di Storia naturale di Torino (N° d'ordine 2620) della combinazione x 321, 100, 111, x 210, 7 421, x 320, 7 453, le ultime tre forme poco chiare, osservai sulle faccie di x 321 tre sistemi di strie unite assieme, parallele le une agli spigoli fatti colle faccie dell’ottaedro, altre parallele alle intersezioni colla faccia più vicina del cubo, ed altre ancora parallele agli spigoli maggiori dello stesso emiesacisottaedro (vedi tav. XIII, fig. 185). L’emiesacisottaedro x 421, dopo x 321 la più frequente di queste forme, è ora lucentissimo, ora appannato. Quest'ultimo caso ce lo pre sentano soprattutto cristalli della combinazione x 210, 7421, III, 100, provenienti da Brosso. Le strie che non di rado si osservano sulle faccie dell’emiesacisottaedro x 421, sono o parallele alle intersezioni fatte colla faccia più vicina del cubo (vedi fig. 184 e 185), o parallele agli spigoli in cui le faccie di 7 421 incontrano quelle più vicine dell'ottaedro (vedi fig. 188). A Traversella s'incontrano quasi esclusivamente le strie parallele a [= 421, 100], a Brosso invece quelle parallele a [7 421, 1t1]. Fra gli altri emiesacisottaedri meno frequenti o rari, 7 932, x 851, x 10 61, x 841 e 7 10 87 vanno distinti per lucentezza e mancanza di strie; la forma x rr 52 altresì è splendentissima, ma talvolta presenta strie finissime parallele alle intersezioni con x 421. L'emiesacisottaedro 7 432 presenta strie nel senso della zona [210, 111], x 632 e x 16 63 nella direzione della zona [210, 001]. Riguardo poi agli emiesacisottaedri inversi che qualche volta si osser- vano, le faccie di 7 231 sono striate nel senso degli spigoli minori del pentagonododecaedro x 210, quelle di x 453 nella direzione degli spigoli di media lunghezza dell’emiesacisottaedro x 321, e finalmente quelle di x 342 nel senso parallelo alla zona [100, 021]. Riassumendo ora, è facile vedere, come, con poche eccezioni , le strie siano parallele alle zone più semplici, le impronte formate da faccette parallele ai piani dei corpi più semplici della Pirite. Infatti tutte le strie di cui abbiam fatto menzione, sono parallele o agli spigoli del cubo e dell’ottaedro o alle zone [oor, 210], [111, 210], (421, 111] e alle loro analoghe; solo in pochi casi quelle rigature sono parallele agli spigoli minori di 7 210 e agli spigoli maggiori e di media lunghezza di x 321. 40 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Quanto alle impronte, esse sono formate dalle faccette del cubo, del- l’ottaedro e del pentagonedodecaedro. Le sporgenze invece, rappresen- tate da fig. 181, sarebbero un po’ più complicate. B. Poliedria delle faccie. Alle deformazioni, alle imperfettezze delle superficie, le quali ci rendono convinti che la natura è lontana dall’offrirci cristalli perfetti quanto li vorrebbe la legge di Hauy, si aggiungono i fenomeni compresi dallo ScAccHi sotto il nome di Poliedria. Esaminando i simboli delle faccie della Pirite, massime dei pentago- nododecaedri, i quali in parte non poterono determinarsi unicamente dalle zone, è facile vedere, che talvolta i suddetti simboli sono com- plicatissimi. E tuttavia, in qualche caso, questi simboli sono ancora abbastanza lontani dall’esprimere esattamente il risultato delle misure. Egli è vero, che non di rado ciò può derivare dal poco splendore delle faccie e dalla poca certezza delle misure che ne consegue, ma, che non sempre è così, ce lo dimostra anzitutto la moltiplicità delle immagini riflesse dalla medesima faccia. Col metodo ordinario di misu- rare gli angoli dei cristalli al goniometro di WoLrasron, egli è difficile di accorgersi di tale moltiplicità di riflessi; io mi valsi perciò del metodo proposto dallo stesso ScaccHi e da lui descritto nella introduzione alla sua « Memoria sulla poliedria delle faccie dei cristalli (!) ». E tosto dovetti convincermi, che ben raramente s'incontrano cristalli le cui faccie non diano che una sola immagine. Sono soprattutto i pen- tagonododecaedri che riflettono più immagini dello stesso oggetto, ed è da notarsi, che tali riflessi raramente escono dai piani normali alle zone che sono parallele agli spigoli del cubo. Le faccie dell’ottaedro, invece di essere poliedriche in una sola zona, come per lo più i pentagonododecaedri, rivelano, quando riflettano più immagini, una poliedria riguardo a tre zone diverse. E simili osservazioni si possono fare per gli emiesacisottaedri x 421, n 321, ecc. Ma anche nei cristalli le cui faccie sono perfettissime e non danno (1) Vedi loc. cit. PER G. STRUÙVER. 4I che una sola, ben definita immagine, frequentemente la esperienza ci dà risultati non concordanti colla teoria. Onde ciò dimostrare, basterà citare un esempio. Servì alle misure qui sotto indicate, un cristalto della combinazione x 210, III, 100, proveniente da Traversella. Le faccie di 7 210 sono perfettissime e non danno, salvo due, che una sola immagine ben precisa e di grande nitidezza; le faccie del cubo sono meno splendenti, ma riflettono altresì una sola immagine, mentre quelle dell’ ottaedro sono inuguali, benchè assai lucenti. Malgrado le tante migliaia di cristalli che erano a mia disposizione, mi fu impossibile di trovarne uno solo che meglio corrispondesse alle mie esigenze. I risultati che s’ottennero tutti col goniometro di MirscHERLICH, sono sempre le medie di tre ben concordanti esperienze. Con a, d, c, a', d', c', si indicano gli angoli degli spigoli cubici di x 210, in modo che a’, d', c' sono paralleli relativamente adla; ble: Furono trovati gli angoli di a a Seribo oil Saldi b b' 52° 57 45! besttogli 230 c c' DAL DI SE Io OL massima = 21! 4o" minima = ao Le due faccie che s'incontrano nello spigolo c', danno ognuna tre immagini; l’angolo fra le due immagini di media distanza, è quello che meglio coincide colla teoria. Egli è appena necessario di aggiungere, che tali discrepanze fra espe- rienze e teoria non possono attribuirsi nè allo strumento, nè all’osser- vatore, ma devono realmente esistere. Serie II. Tom. XXVI. F 42 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. NOTA CENNI SUI GIACIMENTI DI BROSSO, TRAVERSELLA E MONTAIEU (MONTEACUTO). Era mia intenzione di inserire nella precedente Memoria la descrizione dettagliata dei sunnominati giacimenti metalliferi, sui quali, quanto più sono celebri, tanto maggiore è la confusione che regna negli annali della scienza. Se non che recandomi in principio della scorsa estate in quella regione, dovetti tosto convincermi, che l’esatto rilevamento geologico dei dintorni delle miniere era un lavoro di lunga lena, per il quale allora mi mancava il tempo. Devo perciò rinunciare per ora ad una esatta descrizione geologica delle miniere e dei loro dintorni; tuttavia spero sarà opera grata ai mineralisti, se diamo qui qualche cenno, per poco compiuto che sia, intorno a quelle celebri località. A tale scopo mi valgo delle osservazioni che ebbi agio di fare nella nostra raccolta, e sul luogo stesso durante un soggiorno di due setti- mane circa nella valle della Chiusella, non che delle indicazioni gentil- mente comunicatemi dai signori Q. Sera e B. GasrALpI. La Chiusella, tributario della Dora Baltea, percorre una delle vallate di ordine inferiore che si frappongono fra le alte creste delle Alpi Graie e la pianura padana. Prendendo le sue origini al monte Marzo (2753”), picco dal quale l’occhio gode contemporaneamente la vista delle valli di Champorcher, Soana e della Chiusella, il torrente corre nella direzione Sud-Est fino presso Vico, ove dalla morena laterale destra del gigantesco ghiacciaio antico della valle di Aosta è obbligato di portarsi verso Sud, finchè, fra Baldissero e Strambinello, entra nel vasto anfiteatro morenico di Ivrea, e, diretto verso Est, si congiunge colla Baltea, a 7 chilometri circa a valle di quella città. Il contrafforte delle Alpi Graie, il quale, partendo dal monte Marzo, separa la Valchiusella dalla Valle di Aosta, nella sua parte più vicina ad Ivrea che sola qui ci interessa, si compone essenzialmente di micascisto PER G. STRUVER. i 43 in cui di frequente trovansi intercalati dei banchi più o meno potenti di Quarzo compatto. La monotonia del micascisto è interrotta da una interposta allungata massa di sienite a grana fina, talvolta contenente dello Sfeno, la quale dalla regione di Montaieu si estende, nella direzione Sud-Est, fino quasi a Brosso, passando a Nord-Est di Traversella; la vidi scoperta nel torrente Assa, il quale diretto verso Est passa tra Brosso e le miniere dette di Valcava, a mezz'ora di distanza al Nord-Est di quel villaggio. Le miniere di Traversella sono aperte in un irregolare ammasso me- tallifero, posto al contatto del micascisto colla Sienite, nel vallone del torrente Bersella, il quale, nascendo dalla riunione di diversi rivi discen- denti dal contrafforte suddetto, si unisce presso il paese di Traversella colla Chiusella. Per maggiori dettagli sulla natura e sull’ andamento dell'ammasso metallifero rimandiamo per ora il lettore alla Memoria del Burci (!). Noi ci limitiamo a dare qui la lista dei minerali che a nostra saputa furono incontrati nella miniera propriamente detta di Traversella : Magnetite, Calcopirite, Pirite, Dolomite, Quarzo, Calcare, Mesitina, Ematite, Galena, Cerussite, Clinocloro, Talco, Steatite, Pirrotina, Mar- cassite, Mispickel, Scheelite, Wolfram, Molibdenite, Malachite, Limonite, Antimonite, Fluorite, Blenda, Aragonite, Villarsite, Clorite talcosa (Marienac), Mica-clorite o Talco-clorite (DescLorzravx, Manuel de Min. 1. p. 450-51). Rimontando da Traversella il vallone del torrente Bersella, dopo ripida salita di circa due ore, si arriva all’Alpe del Gallo. Ad occidente del- l’abitato, nella regione detta di Montaieu, si osserva, intercalato nella Sienite, un altro ammasso o strato composto essenzialmente di Magnetite, Pirosseno e Calcare, ai quali minerali si associano molti altri. È questa la località che fornisce i magnifici cristalli di Pirgome, Epidoto e Granato di Traversella. Oltre ai minerali suddetti vi si trovano : Serpentino, Clorite, Dolomite, Quarzo, Amianto, Traversellite, Sfeno, Ematite, Anfibolo, Malachite, Calcopirite, Limonite, qualche raro cri- stallo di Pirite, Cabasite, Desmina, Apatite e una specie indeterminata di Felspato. Trovai la Cabasite fra una serie di esemplari provenienti da Montaieu (1) Gaetano BuRrci. L’eleltricitàa applicata alla preparazione meccanica del minerale di rame estratto dalla miniera di Traversella. Nuovo Cimento, vol. XII. Pisa, 1860. 44 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. (acquistati nel 1867 per la Scuola degli Ingegneri) in cristallini traslu- cidi e bianchi impiantati su Epidoto, Quarzo e Granato. L'angolo del romboedro eguale a 85° 13' (85° 14' Miccer), la striatura delle faccie parallela agli spigoli concorrenti nei vertici superiore ed inferiore, la sfal- datura abbastanza distinta secondo le faccie del romboedro, non lasciano alcun dubbio sulla determinazione del minerale, il quale al cannello si gonfia e fonde in uno smalto bolloso poco trasparente, e si decompone coll’acido cloridrico, lasciando la silice in polvere. Su esemplari simili ai sopra descritti, già da parecchi anni esistenti nella nostra raccolta, trovai la Desmina (Stilbite) in cristallini bianchi, allungati, della combinazione 001, 100, oro. L'Apatite finalmente incontrasi in cristalli superficialmente alterati della combinazione rot, 111, 210, impiantati sulla Traversellite o Piros- seno alterato. La forma cristallina, nonchè i caratteri chimici della sostanza bastano a svelare la sua natura. Le miniere di Brosso sono poste sul versante orientale del contrafforte di cui sopra abbiam parlato, a Nord-Est del paese di Brosso. Per l’estra-- zione della Pirite si coltivano al giorno d'oggi due miniere aperte in massi diversi. Nell’ammasso superiore alla fabbrica del vetriolo la ganga è dolomitica e steatitosa, e vi s'incontrano massi ragguardevoli di Pirite compatta e purissima. Nell’altro ammasso che si trova sotto alla suddetta fabbrica, la Pirite è commista intimamente a ganga quarzosa, la quale rende più povero il minerale estratto. Oltre a queste due miniere che ancora sono in attività, si vedono sul territorio di Brosso numerevoli gallerie antiche, ora tutt’affatto abbandonate. Dalle miniere di Brosso una volta si estraeva 1’ Ematite che vi abbonda, onde convertirla in ferro metallico col mezzo degli antichi fuochi Bros- saschi; ora l’Ematite si rigetta, e si utilizza la sola Pirite, sia per la fabbricazione del vetriolo di ferro, sia per quella dell’acido solforico. Riguardo alla natura dei giacimenti, siamo d’avviso che essi non sono veri filoni, ma ammassi o letti lenticolari, intercalati nel micascisto. Anche le miniere di Brosso fornirono ai Musei di mineralogia numerosa scrie di bellissimi minerali, fra i quali vanno distinti soprattutto stupendi gruppi di Pirite. Oltre alla Pirite, l'Ematite, il Quarzo, la Dolomite e la Steatite, si notano a Brosso: Limonite, Mispickel, Galena, Blenda, Siderite, Baritina, Marcassite, Pirrotina, Calcare, Goethite, Bournonite, Plumosite, Mesitina, Calcopirite, e come minerali recentemente formati nelle gallerie abbandonate, il Vetriolo di ferro ed il Gesso. PER G. STRUÙVER. 45 La maggior differenza che v'ha fra i giacimenti di Brosso e quelli di Traversella consiste nella mancanza della Magnetite nei primi, fatto il quale assai facilita la distinzione dei gruppi di Pirite, provenienti da quelle due località. Valendosi di questo fatto, e paragonando gli esemplari di dubbia località con quelli la cui provenienza è ben accertata, si riesce nella maggior parte dei casi a separare i gruppi e cristalli isolati dell’una località da quelli dell'altra. Egli è però troppo ovvio, che in parecchi casi è impossibile di decidere con certezza, se un cristallo provenga dall’uno piuttosto che dall’altro dei due giacimenti. Se perciò il risultato dei nostri studii sulle differenze che vhanno fra le forme cristalline della Pirite di Brosso e di Traversella, non sarà da considerarsi come defi- nitivo in tutte le sue parti, tuttavia siamo persuasi che poco vi sì avrà, col tempo, da cambiare. Un carattere che in generale distingue i cristalli di Brosso da quelli di Traversella è la loro tinta gialla alquanto più chiara. Riguardo alla forma cristallina, la prima cosa che colpisce la mente, si è, che la faccia 7 321 a Traversella è frequentissima ed in molti esemplari do- minante, mentre a Brosso o manca affatto od è rarissima. Non è che la combinazione rappresentata su tav. IV, fig. 69, sulla cui provenienza nutriamo qualche dubbio. Un altro fatto interessante ce lo presentano le faccie del pentagonododecaedro x 210. Mentre cioè a Traversella nella massima parte dei casi le faccie di x 210 sono striate parallelamente alla loro intersezione colla faccia più vicina del cubo, a Brosso le stesse faccie quasi esclusivamente rivelano strie nel senso degli spigoli in cui le faccie di 7 210 s'incontrano con quelle più vicine di x 421. Per maggiori dettagli possiamo rimandare al quadro delle combinazioni, nel quale sono indicate le località, donde provengono. Facciamo ancora in questo luogo seguire le liste delle forme che osservammo in ognuno dei due giacimenti. Trovansi in ambedue le località le forme seguenti: 100, III, 7 210, 7 421, IIO, 2II, 22I, 7 230, 4II, 7 430, 7 41o. Furono osservate esclusivamente a Brosso le forme: x 10 61, x 932, 10 87, 7 11 52,,7 120, x 530, 7 540, n 310, 7 750, 7 560, r 11 ho, TNDAONTRZIONTOZO; (70 "10, 11 (59, 991. Non s’incontrarono che a Traversella le forme x 321, 7 851, x 432 e x 342, n 632, 7 16 63, 7 453, x 320, x 650, x 450, x 670, 311, 522. Sono di provenienza incerta, ma probabilmente di Brosso, le forme: Ri 90, 7 LO 30, £ 94I, 0201, G44, dI2. 46 STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Predominano adunque a Traversella gli emiesacisottaedri, a Brosso i pentagonododecaedri. Egli è innegabile, che la diversità generale dei due giacimenti metal- liferi di Brosso e di Traversella si manifesta nella forma dei cristalli di Pirite. E se perciò dobbiamo conchiudere, che le circostanze di cri- stallizazione esercitano una certa influenza sulla forma cristallina dei corpi solidificantisi, dall’altra parte è giuocoforza l’ammettere la nostra quasi assoluta ignoranza sulle cagioni di tale influenza. A prova di ciò non sarà inutile di accennare in questo luogo ad alcune osservazioni, alle quali mi condusse lo studio della Pirite. In un frammento di Dolomite di Traversella erano disseminati nu- merevoli cristallini della combinazione x 321, 7 210, 7 421, 100, III. Sciogliendo la Dolomite nell’acido cloridrico, ne ottenni 1086 cristallini di diversa grossezza, i quali tutti, senza la menoma eccezione, presen- tano la medesima combinazione. In un altro esemplare di Steatite, mista a poca Dolomite e proveniente da Brosso, trovai associati a Calcopirite quasi 3000 cristallini della combinazione 111, x 210, 100, di cui tre geminati ad asse [110] ed a giustaposizione, ed alcuni pochi cristalli, i quali presentano, associate alla suddetta combinazione, faccette appena indicate di x 421. Se tali esempi bastano a dimostrare ad evidenza, che le circostanze di cristallizzazione esercitano una influenza essenziale sulla forma delle sostanze che cristallizzano, vi sono altri fatti, i quali parrebbero affer- mare il contrario, se non fossimo convinti, che le stesse forze pro- ducono sempre i medesimi effetti. E basti citarne qui un solo esempio. Su un esemplare di Siderite alquanto alterata, proveniente da Brosso, trovai impiantati parecchi cristallini della combinazione x 210, 211, 100, III, 7 750, x 560, raffigurata su tav. VI, fig. 10, ed in mezzo ad essi il cristallo rappresentato da fig. 118, tav. VII, il quale è terminato dalle faccie 7 210, 211, 100, rrI, 221, 331, 7 560 e x 25o. Egli è difficile di immaginarsi una differenza nelle circostanze che accompagnavano la formazione delle due combinazioni; tanto più strano perciò deve sem- brarci il gruppo più sopra descritto e raffigurato su tav. X, fig. 144. i 22. 23. O 1 AS OSO PER G. STRUVER. 47 SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE >>>} d («<< Combinazione TAVOLA I. 100 iii x 210 100%, 111 100, 111 111%, 100 100%, x 210 x 210%, 100 100*, x 321 111% = 210 111, x 210 n 321% 11 100*, x 210, 111 100%, 111*, x 210 111* 100, = 210 111%, x 210%, 100 x 210%, 100, 111 100%, 111, = 321 x 321% 100%, 111 111%, 100, x 321 TAVOLA II. x 321%, 100, 111 100*, x 210, x 321 x 321% = 210%, 100 (*) I simboli delle forme predominanti sono segnati con *. Combinazione x 321%, 100, = 210 x 210%, 111, x 321 x 210%, 100, x 421 111%, x 210, = 421 x 210%, 111, x 421 100%, x 210, x 230 100%, 111, x 210, = 321 100%, 111% x 210, x 321 100%, x 321% 111, x 210 111% 100, x 210, x 321 111%, x 210%, 100, x 321 x 210%, 100, 111, x 321 x 321%, 100, 111, x 210 100%, 114, x 210, x 421 100%, 111%, x 210, n 421 111%, 100, x 210, x 421 111%, x 210%, 100, x 421 TAVOLA HI. x 210%, 100, 111, x 421 x 421%, x 210%, 100, 111 x 210%, 100, x 321, x 421 x 210% 111, 7321, x 421 x 321% 100, x 210, x 421 100%, 111, x 210, 110 100%, x 210, 111, 211 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 7/5 na. 73. n4. 75. 76. ho STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Combinazione 100*, @ 210, 110, 211 x 210%, {11*, 100, 211 100%, = 321%, x 210, x 453 x 321%, 100, x 210, x 453 100%, x 210%, 111, x 321, n 421 111*, 100, = 210, x 321, = 421 100*, 111%, = 210, x 321, x 421 111%, x 210%, 100, x 321, x 421 x 210%, 100, 111, = 321, = 421 100%, x 210%, x 321% 111, = 421 x 210%, x 321%, 100, 111, = 421 100%, x 210%, x 421%, 111, = 321 x 210%, x 421%, 100, 111, = 321 TAVOLA IV. 111%, = 321% 100, x 210, = 421 x 321%, 100, 111, x 210, x 421 100%, 111%, = 210, x 321, 211 100%, 111% x 210, x 321, x 320 x 321%, 100, 111, © 210, 7 320 n 321%, x 210% 100, 111, n 453 x 210%, 100, 111, x 321, x 453 x 321%, 100, 111, x 210, = 453 x 210%, x 421%, x 321, 211, 100 100*, 111, 211, x 210, x 421 111% x 210, 100, x 421, 211 x 210%, 100, 111, x 421, 21 x 210%, 100, 111, x 421, 221 100%, x 210, 110, 111, 211 100*, x 210%, 211, 111, 110 111% 110, 100, x 210, Ai 111%, = 210%, 100, 110, 211 N.° d'ordine delle figure 100. 101. 102. 103. 104. 105. Combinazione 100%, 111, @ 210, x 120, 211 100*, x 210, x 230, 111, 211 100%, x 210%, 211, x 230, 111 TAVOLA V. b] 210%, 211%, 111, 100, = 230 x 210%, 111, 110, 211, 221 x 210%, 100, 111, 211, 7 430 x 210%, 111, 100, x 421, n il 52 x 210%, 100, 111, x 421, © 231? 210%, 100, 111, 7421, 221, 7231? 111% 100, x 210, x 421, 211, 110 111%, 100, 7321, 7210, 7421, 7320 111% = 210%, 100, x 120, 110, 211 x 210%, 110, = 230, 100, 111, 211 x 210%, 7310, 7430, 100, 111, = 421 210% 100, 111, 7321, 421, 7453 210%, x 421% 211% 100, 111, 7453 x 210%, 7 321% 100, 111, 7421, 7453 x 321% 7210, 111, 100, 221, 421 321%, 100, 111, 7210, 7320, 7421 321%, 100, 111, 2210, 7421, 7453 321% 100, 111, 210, 2320, x 453 321%, 100, x 210, 7320, 7 421, x 453 321%, 100, 111, 7210, 7320, 7491, T4S TAVOLA VI. x 210%, 111, 100, 211, 221, 110 211%, 210%, 111, 100, 7750? =560 t 210%, x 230, 100, 111, 211, n 421 321%, = 210%, 7421, 100, 111, 851 210%, 100, 7321, 111, 421, n211 N90 d’ordine delle figure 119. 120. PER G. STRUVER. Combinazione 111% =321% 421, 210, 100, 851 7210% 100, 111, 211, 311, 650? 100%, 7210, 211, x421, 111, 7230 x210*%, 100, 111, 211, 311, 110, 650 210%, 111% 100, 7120, 110, 211, 221 100%, 7210, 120, 111, 211, 2310, 110? 111%, 210, 100, =120, 110, 211, 221 TAVOLA VII. m 210%, 100, 111, r 321, x 421, x 453, n 342 x 210%, 100, 111, x 120, 7 421, 211, 411, 221 x210*, 100, 111, 7321, 7453, 7342 x 210%, 230%, 100, 111, 211, x 932 x210%, 100, 111, x 450, 214, 522, 221 210%, 211%, 100, 111, = 560, x 250; 221, 331 x 321%, 100, 111, x 210, x 320, 110, x 421, © 851 n 321% 100, 114, x 210, x 320, 7 421; n 851 T 321% 100, 111, x 210, x 320, 7 421, t 851, x 632 T 321%, 100, 111, x 210, x 421, x 851; 453 x 321%, 100, 111, x 210, x 424, > tal (ee) (3>IS ha n 321%, 100, x 210, 7851, x 453 TAVOLA VII. x 210*, 100, 111, x 421, 211, 221 210%, 100, 111, #11 40, 421, 211, 221 210%, 100, 111, 7421, 221, 10 87 540%, 110*,x 210, 7530, 100, 211,1 061 540%, x 10 61%, x 210, x 530, 100 100%, x 432%, x 321, x 210, 111 Serie II. Tom. XXVI. N09 d'ordine delle figure 137. 138. 139. 140. 141. 149. 143. 144. 145, 146. 147. 148. Combinazione TAVOLA IX. 100%, 110, 111, x 210, = 520, x 410, x 920, x 230, 214, x 932, x 710? x 210%, 100, x 321, x 410? x 421%, x 851%, 321, 210, 100, 211 321%, 7210, 100, 111, 7421, 71663, n 632 210%, 100, 111, 421, 221, 1152 x 210%, 100, 111, 211, 944, 221, 332, T10 30, r11 40, 7430, 7780, 1421, 841 TAVOLA X. 210%, 100, 111, 211, 411, 221, 110? 111% 211, 221, x 321, x 421, x 851, x 210,7 320, 100 m 210%, 111, 100, x 421, 221,331, 211, 11 55, 411, x 120 T 321%, 100, 111, x 210, x 320, 7421, n 851, a 493 n 321%, 421%, 851, 111, 100, 7210, m 320,7 230, x 670? 211, 221 t 321% 421, 851, 210, 73920, 1II, 100, 211, 221 210% =421, 7321, 100, 111; gem. [110] a penetrazione Associazione di 2 cristalli ad assi paral- leli, individuo sinistro della combi- nazione 111*, x 210%, 100, x 421, l’individuo destro della combinazione x210%, 211% x540?, 100 210%, 7421, 100, 111, 211; gem. [110] a penetrazione TAVOLA XI. 7210, gem. [110] a penetrazione 210%, 100, 111; gem. [110] a penetra- zione 111% 210, 100, -=421; gem. [110] a penetrazione (O 50 NO d’ordive delle figure STUDI SULLA MINERALOGIA ITALIANA ECC. Combinazione T2410%, 100, 111, =421; gem. [110] a penetrazione 100*, #210, 11Î, x 321 ; gem. [110] a penetrazione SIP. 210%, 100, 111, 7321; gem. [110] a penetrazione 7210, 7430; gem. [110] a penetrazione 210; gem. [110] a penetrazione 111*, =210*, 100; gem. [110] a giusta- posizione TAVOLA XII. CRISTALLI DEFORMATI. 111%, =210 111% 100%, x321% x210 111*, 100, 2210 100%, 111%, 7210, x321 100%, 321%, 2210, =421, 111 100%, 111, 210, #321 210%, 111*, 100 321%, 7210, 100, 111 210%, 111, 100, 7321 100%, 111%, x321%, = 210 x 210%, 111%, 100, 421 100%, 111%, 7 210, 7321 100%, 111%, x210* 111%, x321% 7421, 100, x210 111*, 100%, = 210 TAVOLA XII. STATO FISICO DELLE FACCIE PRINCIPALI ECC. 170. 111%, x 210, 100, x 421, cogli spigoli di iii arrotondati. INGO d’ordine delle figure 171. 176. 17. 181. 185. Combinazione 100*, = 210; 100 striato parallelamente alle intersezioni colle faccie più vicine di 7210. 100%, 111; 100 con strie quadratiche parallele agli spigoli del cubo. 100% 111*; 100 con strie quadratiche parall. alle inters. colle faccie di 111. 100%, 111*; 100 con impronte formate dalle 4 faccie adiacenti di 111. 1{t con strie triangolari parallele alle intersezioni colle 3 faccie adiacenti di a 210. 100%, 111%, 7210, 7321; 111 con im- pronte triangolari equilatere e strie parallele alle intersezioni con 7210; 100 con strie parallele alle faccie più vicine di 7210 e 7821. 111 con strie parallele alle sue inter- sezioni colle ire faccie adiacenti di x 210 e con impronte triangolari equilatere orientate parallelamente alle intersezioni con 100. x 210%, 111*; 111 con strie triangolari parallele alle intersezioni con 7210. 210%, 100; =210 con strie parallele alle intersezioni col cubo. 210%, 7321, n 421, 111, 100; 210 con strie parallele alle intersezioni con 100 e 7421. 210%, 100; su 210 strie parallele a [210, 100] e piramidi troncate, for- mate da 100, 851,851, 210. x210*%, 7321, 111, 100; su 210 strie parallele a {100, 210] ed impronte triangolari formate da 100, 111, i11. 321%, x 210, 100, 111; 7321 cop strie parallele a [321, 111] e (321, 100]. 321%, 7421, 7210, di1, 100; le faccie di 7.321 e 7 421 striate parallelamente alla comune intersezione, 7210 pa- rallelamente a [100, 210). 321% 7421, 7210, 7390, 100, 111, 453; 321 con strie parallele a (321, 32Î], [111, 321] e [421,321]; 421 con strie parallele a |421, 321], 210 con strie parallele a {100, 210] e 453 con strie parallele a [321, 132]. P. G. STRÙVER. 5I Ne N.° d'ordine Combinazione d’ordine Combinazione delle delle figure — figure = 186. 210% 100, 111, 7421; 7210 con strie parallele alle intersezioni con 7421. TAVOLA XIV 187. Cristalli cubottaedrici riuniti in modo da produrre gli spigoli del cubo. 189. Proiezione stereografica delle faccie 188. 111% 210%, 100, 7421; iii e 7421 della Pirite. striati parallelamente alle comuni in- tersezioni , 210 con strie parallele a [ 210, 421]. ___ == —>_ INDICE INTRODUZIONE REI en RL ION FAGLIA A pag. 1 Cap. I. Forme semplici e combinazioni osservate ... .......... “ARENA Forme semplici finora conosciute nella Pirite ............ SINODO) Forme semplici nuove per la Pirite ............... Pic oalbidon "DI 18 COMDINAZIONINOSSERVAterAE ei RO A dio DI ALI Frequenza relativa delle forme semplici ................... » 14 Note intorno alle forme semplici osservate nella Pirite ..... o. 19 (CUlTO cevaseconconi ago nUoino doo BARS RAG Ro I I NOCE, » divi Ottaedroe eso SEO SIRO MOT Duc onenicoì BIORIEH OSE » ivi ROMPDOLOTECI CARO REI TE NI » 16 TCOSITEttA RAM O ate dodo c'oguoi0à douiseno TR A Mntacisotta edu ee e DIRI SIM REGO COSI RO AGIO DIS, Pentagonododecaedri ....... Sarnico PRO RIEN EI FADO, Hmiesacisottaedri ............ SIE DEBGASOA0A » 24 i unadrofdenteanopliee ne o ln » 28 CAPIRE GETTITO N SARAI RR EN O) Cap. III. Aspetto fisico e poliedria delle faccie ........... ESRI » 32 Aspetto fisico ....... NE OCORIO SROROROO SI OR RA ò 198) POUCOR RETE oO ERO ELIA EO Nota. Cenni sui giacimenti di Brosso, Traversella e Monteacuto (Montaieu) » 42 Spiegazione delle Tavole ....... RSS IRR SIE ASA , BRAIN) » 47 IA aa i ù ae «iva WE PIT TOTO fi no os: (O Cr Ri Midi $i 4-4 (et s” È Neca d. NE delle Sedi Torino, Class. di Se.Fis.e Mat. Seite 29% Tom. XXVI. De P) Lg 3 É & Striver dic AN me | NE DA = -_ Zoradle GI V'ullver —Saedri sulla Mineralogia Staleena - Accad. RE delle Sc.di Forino, 6lass.di Sc Fis, e Mat, Serie 22° Ton XXVI. = Leg. 36 7 pas G Stloeri Sedi sulla Mineralogia lta rare: — DZ vale Aecad, NE delle Se di Torino, Olass.di Se Fid, e Mat, Pete 2° Ton XXVI. Maj 19 Aecad. RE delle Sedi Foro, La ss.d1 Ie. Fid.eMat Serre 22° Tom XXVI. evele” Y Svloer Studi sulla Mineralogia ltaliana - PI, Aecad. RE delle Sc.di Tocino, Glass. di Sc. Fis e Mat. Serie 22 Tom. XXVI. GIN Studi sulla Miseralogia ltafiana — Sarete” Accad. AE delle Ve.di Torino Glass di Se. FiseMat Serie 22% Tom.XXVI. Leg 107. 102. 001 A LRo012 La 4 DSS ESSE 1 Accad At delle Se.dvTorino, Glass. di Se. Fisc Mat, Serie 2°* Ton INI. Gi Sbdivei— Sud sulla Mneralogia Stalranda — 5, vale: sero veri SI hi sr 3 VARE Lecad. N delle Sdi Forino, Glass.di SeTis.e Mat, Serio 23% Tom. XXVI. Tav. VII. | 1 SNaver — Studi sulla Mneralogia Italiana — Ga, 9 Accad. RE delle Sedi Tovino, Class. di Îc. Fio.e Mat, Vere 22 Tom; XXVI. Gt ble — Sedi sulla Mineralogia Italiana — ALoryite Aecad NE delleSedi Torino, Glass.di Se. Fis. e Mat. Secie A°9 Four, MI. Sip.13% € Striiver dis QI tive — Studi sulla Mineralogia Italiana — Gaz à "adr t Mi Me Acecad. RE delle Sc.di omo, Glass. di Sc. Fid. e Mat Sere 2% Tom XXVI. Gg Struve Studi sulla Mneralogra ltabtrana — IULCSZA, Aecad N delle Ic.di Torno, CLass.di Se Fis. e Mat. Serie 22 Tom. XXVI. ESEiver dis 273 mu) Tav XII | Q21 = ‘027 A 027 Aecad. Ri delle Sd, ladsd SF. Mat, Sere 22 Fon XXVI. Ta XII. | Leg. Zi, Sag. 113. Di 179 gr RO ag. 172. Hg. 790. Zig. 181. (07 Stulwerv — Sidi sulla Mineralogia ltalrana — DP, rale: Aecad RE delle Sedi Torino, Class.di Se Fis.e Mat Serie 29 Tom XXVI. Tav. XIV. x x A AC STES TA _— SA \ 0 zso 5 7 0, VU PR TZD N SSA ATTI] 229 7 ASA 7 Li (7 XA SS DA AA e, bea D dh © O \ Ni \\ LI Pilla SS AE Ne Î Si Ù {] x <> 2 AL Vieazz asi age II Z E 1, VE LN ZA ì S 1) LA DES I\ \K //_1 el DPR AZ GU “i To f Agi ZZZ i VEN SZZERAIESIA TX EA NOE deo SRI INNI LAGA PES SSIS A < VALX Ta Ta e] AN A NT SSTTIZI o: 1] Ex 9, SD y bio ey Sturoev Studi sulla Mineralogia ltalraria —- Spe DESCRIZIONE ED USO DEL DECLINATORE ORARIO GIORGIO FOSCOLO —_ —=——_—__& Approvata nell’adunanza del 24 gennaio 1869 —__ee=-_— dico solare, che io presento sotto il nome di declinatore orario, è uno strumento, mediante il quale dalla posizione del Sole si deduce con sufficiente approssimazione l’ora media, o la vera, come pure la direzione del meridiano vero, senza il sussidio dell’ago magnetico, che fa parte degli orologi solari più comunemente usati. Ciò che in effetto fornisce lo strumento, è la immediata risoluzione di un triangolo di posizione meridiana, determinando ad un tempo l'angolo orario e l'angolo azimutale per mezzo di quegli stessi elementi che occorrono al calcolo astronomico, cioè: Zaztitudine del luogo di osservazione, declinazione del Sole ed altezza sull’orizzonte. La prima è supposta nota, la seconda si collega con la data del giorno, la terza risulta dall’osservazione. Dalla data poi dipende altresì la equazione del tempo, pel caso più frequente in cui si voglia conoscere l'ora media. Premessi questi cenni, passo a descrivere le varie parti dello strumento, e il modo di adoperarlo. Un disco metallico ONE $, di circa 0", 08 di diametro, è inserito in un piedistallo 458C, ch'è sostenuto da tre viti 4, B e C. Esso può girare liberamente intorno al suo centro D, e può arrestarsi in qua- lunque posizione mediante la vite di pressione . Insieme con esso gira la colonna DG, alla quale è solidamente fissato. Questo circolo è destinato a rappresentare l’orizzonte, i cui punti cardinali sono segnati in N, E, $, 0. Sono pure segnate all’intorno le principali suddivisioni. L’orizzontalità 54 DESCRIZIONE ED USO DEL DECLINATORE ORARIO del disco è procurata da una livelletta mobile #77 per mezzo delle tre viti sopra citate. Un altro disco KMZP, di circa o”, 12 di diametro, è sostenuto dalla colonna DG. Il suo movimento è regolato in guisa, che il diametro MPsi mantenga parallelo al diametro EO del circolo azimutale sopra descritto. Per tal modo l’altro diametro KZ, perpendicolare ad MP, si muove nel piano verticale [VG S. Alla estremità X del diametro KZ è inferiormente fissata un’appendice KQ, che consiste in un arco graduato dell’ampiezza di un quadrante, pel cui centro G passa l’asse intorno al quale si muove il disco KXMLP. Il piano dell'arco KQ è perpendicolare a quello del disco; sicchè nel movimento di quest’ultimo esso sì mantiene nel piano NG$S, internandosi nella colonna 2 G, alla quale può fissarsi mediante la vite di pressione Pt, che arresta in pari tempo il disco KMZP. È quest’ultimo circolo che rappresenta l’equatore, e l'arco KQ una porzione del meridiano. L'angolo che fa il raggio GU, parallelo a Z'K, con la verticale GA, equivale alla Zatitudine, espressa dall’ampiezza dell'arco UR. Le divisioni del circolo equatoriale KM.ZP segnano le varie ore vere antimeridiane e pomeridiane. Una piccola alidada 77Z, coincidente in direzione con un diametro del circolo, gira intorno il centro 7. A fissarla al circolo in una posi- zione determinata, serve un'apposita vite in 7. La porzione 7°Z della suddetta alidada ha forma d’indice, ed il suo uffizio è quello appunto di segnar l’ora sul disco. L'altra parte sostiene, all'estremità 77, un piccolo regolo metallico 7 X, il cui piano è perpendicolare al diametro 77Z. Il regolo è munito di un cursore Y, che per l'importante uffizio richiede minuta descrizione, e che in grandezza naturale è rappresentato Ea, ratamente, insieme col regolo, cui si trova adattato. La parte rivolta verso il centro del circolo equatoriale è un cerchietto di avorio, che ha per raggio un centimetro. Sono in esso segnati in nero due diametri 46, cd, perpendicolari a vicenda, uno dei quali ad è parallelo al piano del circolo equatoriale. L’altra parte sostiene un piccolo stile e, la cui punta è situata in modo, che passi per essa la perpen- dicolare al piano del cerchietto alzata dal centro. Il movimento del cursore è regolato per guisa, che non solo esso possa spostarsi longitudinalmente, ma sì ancora trasversalmente. La po- sizione, in cui conviene fermarlo mediante una vite f, è data da una DI G. FOSCOLO. 55 curva, tracciata sul regoletto, della quale i punti principali sono con- trassegnati dalle iniziali dei mesi. Sul punto di tal curva, relativo alla data, deve arrestarsi la punta dello stile e, se trattasi di tempo medio; e sulla proiezione di tal punto fatta sull’asse longitudinale 4 î, se trattasi di tempo vero. Infine, un piccolo braccio gf sporge dall’alidada presso al centro 7, perpendicolarmente al piano del circolo equatoriale, e sostiene un anello circolare hm /2, di raggio eguale a quello del cerchietto, al cui piano è parallelo. Quest’anello è fornito di un crocicchio formato da due sot- tilissimi fili metallici rappresentanti due diametri perpendicolari a vicenda, uno dei quali n2r. è parallelo al piano del circolo equatoriale. È l'ombra di questi fili, che deve proiettarsi sul cerchietto, e coincidere coi dia- metri su questo segnati, affinchè l’indice 7°Z segni l’ora. Per ispiegare come ciò avvenga, consideriamo lo strumento convene- volmente disposto nel momento in cui esso segna un’ora determinata di tempo vero, in un dato giorno, e in un luogo di conosciuta latitudine. In tali condizioni, il disco azimutale ON£ES si troverà orizzontale, e il suo diametro N $S coinciderà con la Zinea meridiana, S segnando il Sud, N il Nord; e la vite /° fisserà il circolo al piedistallo. La divi- sione dell’arco meridiano VQ, notata col numero di gradi della latitudine, corrisponderà ad un piccolo tratto inciso nella colonna DG dall'altra parte della vite , la quale fissa lo stesso arco alla colonna. Il piano del circolo XMZP si potrà risguardare come coincidente con quello dell'equatore celeste, e il suo diametro KZ si troverà nel piano del meri- diano del luogo; perciò alla sua estremità Z è segnata l’ora duodecima. Le altre ore sono pur segnate a destra ed a sinistra, divise in quarti, e questi suddivisi di 5 in 5 minuti. L'indice 7°Z dell’alidada segnerà l'ora di osservazione; e così l’asse dell’alidada si troverà nel piano del circolo di declinazione che corrisponde a tal ora, e fa col meridiano 1° angolo orario, contato dal Sud verso l'Est, o l’Ovest, secondo che l’ora è an- timeridiana, o pomeridiana. Un tal piano conterrà pure l’asse 7% del regolo e quello del sostegno gf, e segnatamente il filo #7 del crocicchio, che n'è il prolungamento. In tale posizione l'ombra del filo #2 coprirà la linea che segna il diametro cd del cerchiello di avorio; e la punta dello stile e si troverà sull’asse 7% del regolo. Quanto all’ombra dell’altro filo mr del crociechio, si vedrà essa pure coincidere con la linea che segna l’altro diametro « 6 56 DESCRIZIONE ED USO DEL DECLINATORE ORARIO del cerchietto, dacchè quest’ultimo sarà stato previamente disposto in guisa, che la punta dello stile e si trovi sulla proiezione, fatta sull’asse ik, del punto della curva il quale corrisponde alla data. Per tal modo la retta, che congiunge l’intersezione dei fili XZ ed mx del crocicchio, cioè il centro s dell’anello, con quella dei diametri 45 e cd, cioè col centro » del cerchietto, farà col piano dell’equatore un angolo equiva- lente alla declinazione del Sole nel tempo dell’osservazione. Qui cade in acconcio notare che, siccome un tal angolo si mantiene sensibilmente costante per tutto il corso di una giornata, se l’alidada seguirà il Sole mantenendo l'ombra del filo #7 in coincidenza col dia- metro cd, anche l'ombra del filo mr seguiterà a coincidere col dia- metro ad. Quest'ultima coincidenza persisterà sensibilmente quand’anche si muova alquanto l’alidada a destra e a sinistra, facendo spostare l'ombra del filo 42 dall’una e dall’altra parte entro il limite che comporta V'am- piezza del cerchietto. Cesserebbe però la coincidenza se si facesse girare il circolo azimutale abbandonando l’orientamento; mentre insieme con esso si muoverebbe anche il circolo equatoriale, nè il suo piano più coinciderebbe con quello dell’equatore celeste. Questa considerazione è di tutta importanza, siccome quella su cui si fonda il modo di ottenere l'orientamento, come sì dirà appresso. Poniamo ora che lo strumento debba segnare, anzichè il vero, il tempo medio. In tal caso l'indice 7'Z indicando l’ora media nel momento dell’osservazione , l’asse dell’alidada non si troverà più nel piano del circolo di declinazione in cui è veramente il Sole in quell’istante, sibbene farà con esso l’angolo relativo alla equazione del tempo. L'ombra del filo 24h non corrisponderà quindi più all’asse del regolo, ma si proietterà dall’una o dall'altra parte, secondo il segno della equazione del tempo, di una quantità più o meno grande, a tenor del valore di quella. Tale quantità mon eccederà però mai l'ampiezza del cerchietto, attesa la ristrettezza dei limiti fra cui è compresa la differenza fra il tempo medio ed il vero. Pertanto, affinchè Pombra del filo 24 seguiti a coincidere come innanzi col diametro ed del cerchietto, quest’ultimo deve trovarsi convenevolmente spostato nel senso trasversale. Tale spostamento si otterrà portando la punta dello stile e sul. punto della curva 4DO corrispon- dente alla data, anzichè sulla proiezione di esso fatta sull’asse #X. È così iche la stessa curva 420 segna la declinazione del Sole e la equazione del tempo. Siffatte quantità , funzioni ambedue del tempo, sono DI G. FOSCOLO. 57 funzioni una dell’altra. Valutate ambedue in gradi, le respettive tangenti trigonometriche sono pure funzioni l'una dell’altra; e riferita la curva ad assi ortogonali, una di esse è presa per ascissa, l’altra per ordinata. Tali sono qui l’asse #& del regolo, e l’asse pq corrispondente alle date degli equinozi. La curva si vede segnata per punti, di 5 in 5 giorni. Spiegate le condizioni dello strumento convenevolmente disposto nella indicazione di un’ora determinata, passo ad accennare il modo di va- lersene, cioè di porlo nelle condizioni accennate, acciocchéè fornisca V’ora in un dato istante, in qualsivoglia luogo e stagione. Si monti anzi tutto il cursore Y ponendolo alla dovuta altezza e al dovuto spostamento dall’asse del regolo, sicchè la punta dello stile e si trovi sul punto della curva 420 che corrisponde alla data, quando si vuole l’ora media, e sulla proiezione di tal punto fatta sull’asse lon- gitudinale éX, quando si vuole l’ora vera. Si arresti quindi con la vite f in tale posizione. Si renda orizzontale il piano del circolo azimutale NESO, adoperando il livello 77, e movendo le viti 4, B e C. Si faccia quindi girare lo stesso circolo fino a che il diametro NS si disponga, per comodità, in quella posizione che approssimativamente si presume coincidere con la linea meridiana; e si prosegua lentamente, dall'una o dall’altra parte, un tale movimento, accompagnando l’alidada YZ in guisa che l’indice 7°Z sia diretto verso il Sole, fino a che l'ombra del filo nm. dell’anello coincida col diametro ad del cerchietto. In tale posizione il diametro VS darà la direzione del meridiano vero; il circolo azimutale così orientato si arresterà per mezzo della vite 7°; e si potrà riconoscere che, imprimendo un piccolo movimento all'alidada, dall’una e dall’altra parte la ottenuta coincidenza si manterrà. Si regoli infine quest’ultimo movimento dell’alidada fino ad ottenere che anche l'ombra dell’altro filo 2h coincida con Valtro diametro cd; e allora, fermata l’alidada mediante la vite in 7, l'indice 77Z segnerà l'ora media o vera, secondo la posizione data al cursore. Ci resta a dimostrare il modo per cui delle due coincidenze testè accennate la prima procuri l'orientamento, e la seconda l’ora. A tale uopo si consideri che, se il circolo azimutale fosse orientato, e conse- guentemente il circolo equatoriale (ch’è con esso invariabilmente legato sotto l’angolo voluto dalla latitudine) si confondesse con l’equatore, il prolungamento dell’asse gf incontrerebbe il polo celeste, e nel movimento Serie II. Tom. XXVI. H 58 DESCRIZIONE ED USO DEL DECLINATORE ORARIO dell’alidada la retta indefinita passante pei centri dell'anello e del cer- chietto descriverebbe il parallelo celeste che presso a poco è percorso dal Sole nella giornata; mentre l’angolo di tale retta col piano dell’equa- tore equivale a quello della declinazione. In qualunque altra posizione del circolo azimutale il prolungamento dell'asse gf non segnerà più in cielo il polo, sibbene un punto situato sopra l’orizzonte ad un’ altezza eguale a quella del polo; e la retta sopra indicata non descriverà più il parallelo del Sole, ma uno eguale a quello, e inoltre situato, rispetto all’orizzonte, in modo che l’altezza del suo polo si mantenga costante. Pertanto, nell'atto che il movimento del circolo azimutale fa descrivere all’asse gf un circolo minore parallelo all'orizzonte e passante pel polo celeste, il movimento separato dell’alidada fa descrivere alla retta, passante pei centri dell’anello e del cerchietto, tutti i paralleli eguali a quello del Sole, i quali hanno i respettivi poli situati sul circolo minore soprac- cennato. Allorchè poi il parallelo descritto sarà quello appunto del Sole, la suddetta retta passerà pel centro dell’astro, quindi l’ombra del ero- cicchio coinciderà coi diametri del cerchietto, e ne’ piccoli spostamenti dell’alidada si manterrà sensibilmente la coincidenza dell'ombra del filo mn col diametro ad. A ricercare appunto siffatta posizione è inteso il giro del circolo azimutale; come se si facesse muovere intorno alla verticale il parallelo descritto dalla retta rs fino ad incontrare il Sole, e confondersi col parallelo diurno di questo. Vero è, che nell’intero giro l’incontro ha luogo due volte; nella stessa guisa che due sono le intersezioni del parallelo diurno del Sole col circolo minore parallelo all'orizzonte e passante per l’astro; e due pure sono i triangoli di posi- zione meridiana determinati dagli stessi elementi, simmetrici rispetto al meridiano. Si hanno pertanto due soluzioni per una stessa altezza del Sole sull’orizzonte; per ambedue è comune il valore dell’angolo orario, ma l'ora è antimeridiana o pomeridiana, secondo la posizione orientale, od occidentale di esso. In pratica l'ambiguità è tolta dal sapere innanzi se l'ora sia prima, o dopo il mezzodì; ed è prevenuta dalla previa disposizione del diametro NS a un di presso nella direzione della linea meridiana, come fu sopra accennato. La dubbiezza non sarebbe sì facile a togliere nel tempo prossimo al mezzogiorno; e ad essa si aggiungerebbe il difetto di precisione nel rile- vare la coincidenza dell'ombra del filo 727 col diametro «0. Questo DI G. FOSCOLO. 59 difetto è dovuto alla soverchia acutezza dell’angolo sotto cui si tagliano a vicenda il parallelo diurno e il circolo minore parallelo all’orizzonte e passante pel Sole; per modo che, quanto minore è la distanza dalla culminazione , tanto maggiore è la indecisione nel fissare la posizione precisa che procura la cercata coincidenza. Per queste osservazioni è in pratica da evitare l'osservazione nelle ore prossime al mezzodì. Tale avvertenza si applica, com’è noto, anche al calcolo dell’angolo orario, per ragioni analoghe, considerate nelle loro risultanze numeriche riguardo all’approssimazione. Sul quale proposito è da ricordare ciò che fu sin da principio avvertito, cioè che lo strumento è inteso a risolvere in effetto un triangolo di posizione meridiana per dedurre l’angolo orario e l’azimutale. Il suo uso pertanto è regolato in massima dalle stesse avvertenze pratiche che si osservano nel calcolo, e si osserverebbero parimente nelle soluzioni grafiche dello stesso problema. Infine, con la coincidenza dell'ombra del filo 2f col diametro cd l'indice segna l’ora per ciò, che la retta rs si trova condotta nel piano del circolo di declinazione del Sole, anzi la sua direzione passa pel centro dell’astro, In altra posizione dell’alidada, dopo ottenuto l’orientamento, quella retta insieme col filo Z& determinerebbe il piano di un circolo di declinazione qualunque; sicchè il movimento dell’alidada per ottenere la indicata coincidenza corrisponde al giro di un circolo di declinazione intorno all'asse celeste fino a passare pel centro del Sole. Quanto fu sin qui esposto giustifica in doppia guisa il titolo di decti- natore orario dato allo strumento. Esso in fatto, nel procurare l’orien- tamento indipendentemente dall’ago magnetico, trova la declinazione di questo, e nel determinare l’ora si vale della declinazione del Sole. Occorre appena avvertire che, ove per anteriori osservazioni fosse giù determinata la linea meridiana del sito, non si avrebbe che a disporre nella direzione di essa il diametro /V/$, e muovere quindi l’alidada fino a far coincidere l'ombra del filo 2h col diametro cd. Qualunque sia-l’ora, l'operazione è in condizioni egualmente favorevoli, poichè tutti i circoli di declinazione tagliano ad angolo retto tutti i paralleli all’ equatore. L'elemento declinazione rimane qui escluso dal problema. È ben vero che l’altezza del cursore devesi in ogni caso approssimativamente regolare a 5 tenor della data, affinchè l’ombra del filo cada nel campo del cerchietto; ma ciò è materialmente dovuto alla piccola ampiezza di quest'ultimo. Inversamente, se fosse nota 4 priori l'ora, facilmente potrebbesi con 60 DESCRIZIONE ED USO DEL DECLINATORE ORARIO DI G. FOSCOLO. lo strumento determinare la linea meridiana. A tal uopo converrebbe fissare l’indice su quell’ora, e girare quindi il circolo azimutale fino ad ottenere la coincidenza dell’ombra del filo col diametro respettivo. Nè la risoluzione pratica di quest’ultimo problema esige l’avvertenza di evitare le ore vicine al mezzodì; anzi per contrario ne trae vantaggio, atteso che il circolo di declinazione passante pel Sole incontra sotto un angolo vicino al retto il parallelo all'orizzonte condotto per l’astro. Comunque siasi ottenuto l'orientamento, o per mezzo della declinazione relativa alla data, o per mezzo dell'ora somministrata da un orologio, certo è che per esso il circolo azimutale diviene una dussola vera de- dotta, non da proprietà magnetiche, ma dalla osservata posizione del Sole. Ove la buona costruzione dello strumento corrispondesse all’intendi- mento relativo agli uffizi ed ai movimenti delle singole parti, il limite di approssimazione dell’ora Hlei casi ordinari non dovrebbe ascendere che a qualche minuto. Tuttavia lo strumento che io presento, unito a questa descrizione, è ben lungi dal mostrare in tutte le sue parti tale desiderabile esattezza di costruzione; nè io intendo già offerirlo siecome saggio, ma semplicemente quale modello suscettibile ancora di alcune modificazioni e perfezionamenti. Quand'io poi m’abbia agio di far costruire con cura uno di tali decZi- natori orarii, intendo fra le altre cose modificare la forma dell’alidada in guisa, che nel movimento si mantenga affatto aderente al piano del circolo equatoriale; regolare con viti di richiamo i due movimenti lon- gitudinale e trasversale del cursore; rendere suscettibili di rettificazione le distanze del punto d'intersezione dei fili del crocicchio dal piano del circolo equatoriale, e dal piano del cerchietto, mediante due piccole viti a testa rasa, che servano a modificare una l’altezza del sostegno g 4, l’altra la sua distanza dal regolo 7 X; collocare infine due punte verticali alle estremità della livelletta mobile da un lato, e praticare nel mezzo dell’altro un incavo che si adatti alla base della colonna DG, sì che la livelletta possa girare tutt'intorno alla colonna stessa, segnando da una parte un diametro del circolo azimutale, e presentando dall'altra un piano di traguardo utile a rilievi topografici. sii Cova Classe Mine Ilarda DA 4 VOL tutta LS a [iu 61 DIMOSTRAZIONE D'UNA FORMOLA DI LEIENIZIO E LAGRANGE E DI ALCUNE FORMOLE AFFINI PER ANGELO GENOCGCHI — = Letta ed approyata nell’adunanza del 21 Febbraio 1869. ———=s>__€ Si conoscono varie dimostrazioni della formola di Lersnizio, che fu l'argomento del primo lavoro giovanile di LacranGE, e che esprime 1 differenziali successivi d’un prodotto; ma lasciato in disparte il caso dei differenziali d’indice intero e positivo, nel quale si tratta d’una mera identità molto facile a verificarsi, mi sembra che per gli altri casi le dimostrazioni note non mettano abbastanza in chiaro la convergenza delle serie che allora si presentano, nè porgano alcun modo agevole di riconoscerla, e neppure di stimare per approssimazione l’errore che si commette troncando quelle serie dopo un certo numero di termini. A tali condizioni soddisfa invece la dimostrazione che qui esporrò pel caso dell'indice intero negativo, e che è semplicissima, risultando immediatamente da un noto teorema di calcolo integrale, per cui si riducono più integrazioni successive ad una sola. Altra formola più generale fu data da Prarr nell'Archivio di mate- matica dell Hinpensur (Lipsia, 1794, fasc. 3.° e 5.°), e poscia nelle sue Disquisitiones analyticae (Helmstadt, 1797; pag. 246), ma non era stata applicata (ch'io mi sappia) al caso degl’ indici negativi, cioè agli integrali. Questa ampliazione si ottiene facilmente coll’aiuto dello stesso metodo testè accennato. Una formola, affine anch'essa a quella di LerenIzio, fu ricordata dal sig. WinckLER in un’adunanza dell’Accademia delle Scienze di Vienna (8 gennaio 1863), come non mai prima stampata, e imparata soltanto 62 DIMOSTRAZIONE D'UNA FORMOLA DI LEIBNIZIO E LAGRANGE, ECC. alle lezioni di Jacosr (Sitzungsberichte, tom. XLVII, pag. 174-175); ma veramente si trova pubblicata e citata in più luoghi (1). Ho ampliata questa formola in modo simile a quello con cui PrArr ampliò la formola di Leibnizio, e l’ho stesa come la precedente al caso degl’ integrali. Si vedrà che il metodo usato riduce la formola di LersnIzio e quella rammentata dal Wincxcer alla serie di TayLor, e riduce le altre alla serie che porta il nome di Lacrance, e che si legge nelle Memorie dell’Accademia di Berlino pel 1768, pag. 275. Espongo anche una dimostrazione nuova e semplice di questa serie. Dimostro pure un’altra formola di PrArr, e indico il modo di ren- derla più generale. Da ultimo accenno come il teorema sopra indicato permetta di ap- plicare le formole dimostrate al caso d’integrali d’indice fratto (positivo). Tali sono gli argomenti trattati nella breve Memoria che sottometto al giudizio dell’Accademia. La formola simbolica d”uv=(du+d9)” nel caso di m negativo, cambiando m in —m e facendo u=f(x)dx", v=9(x), diviene dmn miti SA) dan=y(2)| falena) | fadant m+2 SARI 010) d'ernta — ecc.) ove gli esponenti della lettera f indicano il numero delle integrazioni successive. Prendiamo la variabile x tra i limiti @ ed x, e ricordiamo la formola generale dC ly (x) da" Si) (x 2) f(2)dz , nel cui primo membro intendiamo rappresentato un integrale dell’or- dine n: per mezzo di questa formola si trasformerà la serie precedente in. (1) Journal de Liouville, tom. VI, pag. 212, a. 1841; CRELLE, tom. 54, pag. 230, a. 1857, e tom. 55 pag. 305, a. 1858; MorGno, Calcul des variations (Parigi, 1861), pag. 175. PER A. GENOCCHI. 63 2(2) lppersune LO (ema: 1.2...(M—-1) i PSI o) 1.2 a mA) fear DO) eeZ=s, -..| face: ie CI RR Ma pel teorema di TayLor si ha (i+ )—.. =ele-l@e—3]=90 dunque la serie RE avrà per somma I di c cen] (in) VIOFIOLEE cioè l'integrale dell’ordine 7m”° (fOraien preso fra i limiti a ed x. Adunque l'equazione scritta in principio è verificata, vale a dire che la serie ivi contenuta sarà convergente e avrà per somma l'integrale replicato che forma il primo membro, ogniqualvolta la funzione g(z), nell'intervallo da z=« a 2=<«x, si possa svolgere secondo il teorema di TayxLor in serie ordinata per le potenze ascen- denti di x—z. Possiamo anche trovar un'espressione del resto della serie, poichè de zilo pel teorema di TayLor dopo il termine = ilo si "(x) si avrà il termine completivo 1 METE nti n Rao nor, 1) (+(—2))i di , 0 e quindi nella serie precedente dopo il termine ea) (aa "o oa 7 A F( )d 9 6/4 DIMOSTRAZIONE D'UNA FORMOLA DI LEIBNIZIO E LAGRANGE, ECC. ovvero I.2e a mere) MEZ) at) fd potrà aggiungersi a compimento il termine =“ aa nare “lf (+e na) de | fd Alla funzione "+ (2+t(2—2)) si potrà qui sostituire un valor medio tra quelli ch’essa prende nell'intervallo da #=0 a #=1 e da z=a a z=%x; ed essendo g"*'(a) e 9”"*'(x) i suoi valori estremi in tale intervallo, se essa rimane continua si potrà quel valor medio rappre- sentare con g"*'(a+0(x—a)) : ove 9 è un coefficiente ignoto compreso tra o e 1: allora per essere I I fea= A NI 0 il resto cercato sarà espresso da di gar (a+9e—a))( i To 1.2... (m—_-1) psp a dz , ovvero da m+t+n+1 I EI. Prarr ha data la formola seguente più generale della Leibniziana : n RETE n . dns q n(n—_ i 2 n—_2 q d'"(pq)=pd"q+nudp-d ( | —_ d(*dp).d (4) u I. SENI fg (Le 1.2 + nd (dp) d(L) + d"-'(u"dp). L ) DI A. GENOCCHI. 65 che suppone p, 9g, w quantità variabili, e 7 un numero dato intero e positivo. Per applicarla ad 7 negativo, facciamo n=—m, p=F(a), q=f(x)dx", u=4(x): dovremo cercare se sia vera l’equazione F(x)f(a)de"=Px | f(2)da"-F(2)y(2) Da LP) AS pit salti (@) o _m(m+1)(m+2) DPI (x)) LE gg / Avremo dunque una serie infinita, e potremo trasformarne il termine generale per mezzo d’una formola già ricordata, che ci darà l'integrale replicato uo de ca ano RETTO per tal modo quella serie diverrà F (fe — 2)" f(2)d2—P'(x)v af dz | i i A SI +) coro sali re PEA : PPP E EMO 22) I de) 1.2 dx iL POI, —.—_t—a, = <* u=———r—_—r@@i- r+-s (Disquis. anal., HeLmstADT 1797, pag. 248). Eccone un’altra dimostrazione. Si considerino v e x come funzioni l'uno di x, l’altro di y, suppo- nendo x e y variabili independenti, e prese altre due quantità p e q, l'una funzione di x, l’altra funzione di y, si formi l’espressione s=d'vd'u=md'(5)d' u + y(S)a ug une (E) m(m—1)(m r v DE r V s m 3 —_ (S)cum+..=d (2) eg ): questa potrà più concisamente rappresentarsi con Sd do [pu(im 4 AA. . =) P 12 ip DEI Ora se si differenzia un numero di volte minore di m, il prodotto m ou(1—-1) , è chiaro che ogni termine avrà sempre per fattore il q binomio 1— e quindi si annullerà se p=g. Dunque nel caso di p r+sr+s. Si otterrà un altro polinomio eguale a zero nello stesso caso, qualunque siano le costanti a, è, & prendendo y=x"%, u=x°, w= x". Ma si possono dedurre anche dal calcolo delle differenze altre identità più generali. Sia u=(arxrt+ta)"(bx+5,)}(cecr+c,)'..... CMARI Gi Yi quanti si vogliano esponenti tutti interi e positivi: sup- posto Ax=% costante, si avrà A"u=o0 se sia m>U+L+7+ ...- Ma A"UZU_—MU,,, Gee (SD _m(m_1)(m_ 2) = n 2 alloco EW, E 1.2 di IROosS meri ° si avrà dunque in tal caso i m(m— 1) m(m—-1)(m—2) Un NU n — i posso Aa inenio pssgre nilnosti: n . Eu, =0 9 e posto x=0, sarà generalmente un,=(a,+anh)"(b,+bnh)(c+enh)..... Il teorema sopra ricordato di Prarr comprende una formola di LexeLt (Novi Comm. Acad. Petrop., tom. XVI, pag. 234, anno 1771) e un’altra di Arsogast (Calcul des derivations, p. 329). Più general- mente si può asserire, che la precedente equazione tra z,, %,} -- . Wm sussiste se si prenda (dz) (dz) (dipen)... ; purchè sia m>a4g+fft+yyt.-.., e az+bf+cy,+...=0, supposti interi e positivi anche « e @,, Be f,, ye 7, ecc. Il compianto matematico francese Prouner ha date formole di questa natura in una Memoria pubblicata dal sig. LiouviLLe nel suo giornale, 2° serie, tom. I, pag. 321-344 (anno 1856). 6 DIMOSTRAZIONE D'UNA FORMOLA DI LEIBNIZIO E LAGRANGE, ECC. 7 9 EX. La proprietà della funzione V dimostrata nel $ VI conduce in un modo assai semplice al teorema di Lacrance. Perocchè facendo R=o si ha V=p=/Z(x), e per esser nulle nello ; d°V devote ; stesso caso tutte le derivate di de? dla il teorema di MacLauRIN somministra hot VaFf(a)+——___; 3 1.2...(M+1) ove si rappresenta con Y,, una funzione che non diviene infinita per &4=0. h Fatto rx +h=a, prato sì avrà dunque ve udp t° d(u°dp) F(ax)=p+t gIE; Re ira do dio io FAL dd"! ui Emti n (i Dea u tivo È Toson da 1.2...(m+1) ° Li e nel medesimo tempo sarà p= (a), u=(f(a), u=f(x), h=za—ax, x=a4+tf(x), cosicchè avremo ottenuto il teorema di Lacrance. Tl sig. Tcuesicner ha data un’espressione notabile per semplicità del resto di questa serie (Journal de Liouville, 2° serie, tom. II, 1857, pag. 171), ed è la seguente: I d' Ple +i)[tf(r+i)+a—a|" ISS di a ove si deve fare î=0 dopo le differenziazioni. Lasciando x sotto il segno integrale, cambiamo altrove x in x,; indi facciamo x—a=(x,—a)z : la serie darà F(x,), essendo a. =a+tf(x,), e il resto diverrà a A (6) dPlati+t(a—d2)|/e+i+ (ed) _fe)]" net TINTI AMEN E SR i LI Z 1.92. mM di” (2) DI A. GENOCCHI. 77 il cui valore potrà eziandio rappresentarsi con supponendo 8 compreso tra zero e 1, ovvero più semplicemente con me do) Tier VIE ME supponendo o(0)=F(a)[f(®)—0/(2.)]", e È=a+(x —a)9, valor intermedio tra 4 e <, - 1 Per mezzo di queste formole si potranno anche trovare espressioni dei resti o termini completivi delle serie considerate ne’ paragrafi II e IV. Gioverà da ultimo ricordare, che le serie formate con integrali di diversi ordini si sono dimostrate applicando la formola A \ ra - 2) f()ds ; onde segue, che se prendiamo questa formola per definizione degl’ in- tegrali d’indice positivo 7, sia intero sia fratto, potremo stendere le proposizioni che sono state dimostrate anche agl’ integrali d’indice fratto ( positivo). 79 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ RINVENUTI IN ITALIA PER E. GASTALDI PROFESSORE DI MINERALOGIA ALLA SCUOLA DI APPLICAZIONE DEGLI INGEGNERI, 50CIO DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE, CORRISPONDENTE DELLA SOCIETÀ GEOLOGICA DI LONDRA —__ Approvata nell’adunanza del 20 giugno 1869 Quantunque di recente origine la Paleoetnologia attrae potentemente l’attenzione degli uomini colti, e le molte opere, le Memorie, i periodici già pubblicati per divulgare e discutere le scoperte di oggetti preistorici che in ogni angolo della Terra si fanno, ben mostrano l’interesse che essa va destando. A porne in rilievo le attrative non poco contribuì inoltre la splendida collezione di armi e strumenti di pietra che vede- vasi disposta nel recinto della Storia del Lavoro all'ultima Esposizione mondiale. Lasciamo in disparte le esagerazioni , lasciamo in disparte le questioni di razze, di trasformazione delle specie, questioni, nelle quali non è guari prudente entrare se non si è armati di eletto ingegno e di tutte quelle conoscenze che un lungo e pertinace studio di quanto si riferisce all'organismo può solo procurare. Egli è certo però che la scoperta di tanti e sì diversi strumenti, armi, ed utensili di pietra in condizioni di località e di giacitura fra di loro così differenti, ci dimostra all’evi- denza come in Europa l’uomo abbia vissuto per lungo tempo in uno stato di selvatichezza di cui oggidì non si trovan più frequenti esempi anche in quei paesi ove la civiltà non è ancora penetrata. 80 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. Egli è certo altresì che i depositi superficiali di tante regioni della Terra che le palafitte dei laghi della Svizzera, dell'Italia, della Baviera, dell'Austria e dell'Irlanda, offrendo alla nostra osservazione ed alla me- ditazione nostra i manufatti che racchiudono, hanno aggiunto al gran libro della storia una pagina il cui contenuto potrà forse un giorno guidarci, se non a scoprire le troppo misteriose origini dell’uomo, a seguirlo coll’occhio della mente nei suoi primi passi sulla superficie della Terra sulla quale doveva poi estendere il suo imperio ora bene- fico, ora pazzamente distruttore. Le armi di pietra il cui studio ha fatto così rapidi progressi s'in- contrano in tutte le regioni della Terra; se ne rinvennero nel suolo di Roma, di Londra e di Parigi; in luoghi che furono la culla di una civiltà già antica, in quelli nei quali essa si mostra in tutto lo sviluppo che l'epoca in cui viviamo permette. Certamente deve essere ben remota l’èra in cui la stirpe umana che abitava le regioni bagnate dal Tevere, dal Tamigi e dalla Senna faceva uso di armi e strumenti di pietra. In taluni luoghi tale uso non cessò che da pochi secoli o da pochi lustri, ed in alcuni rari punti della Terra esso perdura tuttora. Lo studio adunque di tali armi e strumenti è complesso e difficile come quello che ampiamente estendesi in spazio ed in tempo: in spazio, in quanto che il suo campo è tutta quella parte della superficie ter- restre, la quale fu ed è abitata dall'uomo : in tempo, in quanto che l’uso di tali armi risale fino alle prime epoche della esistenza della stirpe umana sulla Terra. Generalmente parlando i fatti sinora osservati ci autorizzano a cre- dere che, in Europa, l’uomo abbia vissuto contemporaneamente ad animali la cui specie non è più nel novero delle viventi; per altra parte noi sappiamo ch'egli si servì di taluni strumenti di pietra anche quando già ne possedeva di metallici. Lunghissima ha dunque dovuto essere l'epoca durante la quale ha fatto uso di strumenti di pietra, e fra quelli che noi oggidì troviamo ve ne sono perciò di più antichi come di più moderni. Onde facilitare lo studio dell’epoca della pietra essa venne divisa in due periodi, l’archeolitico ed il neolitico. Nel primo sì compresero li strumenti e le armi di selce di rozzo lavoro, tagliate col processo della scheggiatura, che in Francia ed in altre località di Europa si trovano in strati alluviali di ghiaia e di ciottoli associate a resti di animali la cui specie è oggidì spenta o confinata a vivere nelle PER B. GASTALDI St regioni boreali. Nel secondo o neolitico sono compresi tutti gli strumenti e le armi di silice di più finito lavoro, non che tutti quelli di pietra tenace, che furono perciò lavorati colla confricazione, colla levigatura. Questa distinzione ha dovuto far buona prova in Francia ed in altri paesi, giacchè io la vedo generalmente adottata, ma in Italia non è sempre applicabile; noi scopriamo infatti nel terreno coltivabile, sulla superficie del suolo, manufatti litici dei due periodi, e mancandoci nella massima parte dei casi l’aiuto della Fauna che altrove li accom- pagna, ci vediamo ben sovente costretti a classificarli attenendoci alla loro forma, alloro volume, al grado di perfezione del lavoro. Ne viene quindi che trovando nella stessa località selci di rozzo e di quasi per- fetto lavoro noi siamo tratti a porle arbitrariamente o nell’uno © nell’altro dei due periodi, a seconda delie tendenze dell’osservatore. Ad altre considerazioni conviene ricorrere in ordine agli strumenti di pietra levigata. Che si trovino in abbondanza manufatti silicei nei paesi nei quali la silice è largamente sparsa nel suolo, è cosa naturale; ed è non meno naturale che se ne trovino a considerevole distanza dal luogo d’onde venne estratta la materia prima, giacchè l’uomo anche allo stato selvaggio compie lunghi viaggi per cacciare, pescare, o guer- reggiare colle altre tribù. Non è però a supporsi che l’uomo sia com- parso sulla terra colia innata conoscenza delle proprietà della silice piromaca, della durezza cioè, della relativa fragilità, della concoide frattura di quella pietra. Nè vha maggior ragione di credere che la culla del genere umano sia proprio stata in una di quelle regioni nel cui suolo provvida natura aveva pensato a deporre arnioni e banchi di silice piromaca. Se io rettamente giudico, l’uomo primitivo, luomo selvaggio costrusse la sua capanna vicino all’acqua ove la caccia, la pesca ed i mezzi di locomozione dovevano riescirgli più abbondanti e più facili, ed è sulle sponde del mare e dei laghi, sulle rive dei fiumi e dei torrenti, lungo le frane e nei banchi diluviali che egli trovò i primi strumenti, le prime armi che natura gli offriva, nei ciottoli, nei detriti di roccia di varia grossezza, forma e natura. Se su quella spiaggia, su quella sponda ove il destino lo balestrava non esistevano per ventura ciottoli o detriti di selce, non è prababile che per ciò si determinasse a cangiar paese. Di qualunque natura fossero quei detriti, è a credersi che di essi si servisse, provandosi e riescendo man mano a perfezionarne la forma, Serie II Tom. XXVI. L (0'0) 2 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. colla scheggiatura se la pietra che voleva ridurre si lasciava facilmente scheggiare, colla confricazione, colla levigatura se questa gli porgeva miglior destro di arrivare al suo scopo. Nella Lombardia, nel Veneto, nell'Italia centrale e meridionale si trovano frequenti giacimenti di selce piromaca, ed ivi altresì gli stru- menti di silice sono frequentissimi. Nel Piemonte propriamente detto, nel Monferrato , nelle Langhe, sul versante Adriatico delle Alpi marittime e dell'Appennino ligure la selce o fa difetto o vi è rarissima, ed ivi rari altresì sono li strumenti di silice, e per contro relativamente frequenti quelli di pietra levigata. Fra questi poi altri sono di perfetto lavoro , altri così rozzamente tagliati che paragonar si potrebbero colle silici del periodo archeolitico. A me pare quindi che non sia necessario il comprendere fin d’ora, - e quasi direi sul principio di un nuovo ordine d'idee relativamente alla storia «dell’uomo — tutti indistintameute li stru- menti levigati nel periodo reoditico. Sinora, e non ostante gli sforzi di alcuni dotti per dimostrare il contrario, non pare provato che l’uomo abbia preesistito all’epoca in cui si formarono i depositi diluviali che precedettero ed accompagnarono la grande estensione dei ghiacciai. Vi hanno tuttavia alcuni scrittori i quali, fondandosi su osservazioni di troppo impari alla importanza dello argomento, pretendono di far risalire la esistenza della stirpe umana sino all’epoca pliocenica o mio- cenica. Nè io voglio punto tacciare di assurda la supposizione che l’uomo possa essere stato contemporaneo dei giganteschi mammiferi dell’epoca terziaria, voglio sol dire che niuna delle scoperte, niuno dei fatti sinora divulgati ci autorizza a tale supposizione. Mentre poi da taluni si è forse esagerata l’antichità delle reliquie umane sepolte nella Terra, se ne venne da altri esagerando la modernità. Se paragoniamo fra loro le armi di pietra, qualunque e per quanto diversa essere possa la provenienza loro, noi troviamo che grandissima in tutte è l'analogia di forma; anzi, in talune provenienti da luoghi che l'Oceano separa, notiamo con meraviglia una perfetta identità anche nei più minuti particolari, di modo che ci è forza ammettere che luomo, sia nell'antico che nel nuovo Continente, dovette servirsi degli stessi processi per fabbricarle. Ciò essendo, con quale probabilità di essere nel vero possiamo noi dire che le armi di pietra trovate in quella tale regione sono Celtiche, quelle altre sono Galliche, queste PER B. GASTALDI. 83 hanno appartenuto agli Umbri, quelle ai Pelasgi, e via dicendo? Non sarebbe forse più ragionevole, se non così lusinghiero, ammettere che 5 noi siamo ancora al buio circa la origine, la migrazione, la nazionalità, se così si vuole, delle popolazioni che si servirono di tali armi, e che le citazioni di tanti autori dell’antichità non ci han fatto muovere un passo di più verso la meta che ci proponiamo ? Onde raggiungere la quale, fin dove la difficoltà dell'argomento ce lo potrà permettere, importa soprattutto attivare le ricerche, raccogliere fatti ed osservazioni. Di quanto, per parte mia, potei fare, do notizia in questo lavoro, il quale se a motivo della poca sua entità non farà progredire la paleoetnografia italiana, potrà forse invogliare qualcuno dei miei concittadini ad occuparsene. IMOLA, CASALVIERI E ALATRI. Le armi di pietra raccolte dal sig. G. ScaraseLri G. F. nell'Imolese (1) meritano il primo posto fra i manufatti litici delle antiche popolazioni italiche. Io ne raffigurai le principali nella Tav. I. Sono dieci cuspidi (1) Irtorno alle armi antiche dî pietra dura raccolte nell’Imolese, Nota di G. SCcARABELLI G. F. Annali delle Scienze naturali di Bologna 1850. In ordine ai giudizi emessi sugli strumenti di pietra scoperti in Italia trovo fra le mie carte i seguenti dali cortesemente fornitimi, alcuni anni sono, dal sig. PiGORINI, Direttore del Museo di Antichità di Parma. Michele MercaTI, Medico di S. Miniato in Toscana (morto nel 1593), parla di tali strumenti nella sua Metallotheca, libro che rimase inedito sino al 1717; è il Papa CLEMENTE XI che ne acquistò il manoscritto e lo fece stampare. Cita le accette di pietra e le freccie di silice, queste ritenendo per strumenti, dei quali si servivano gli uomini quando ancora ignoravano l’uso dei metalli; quelle per vere pietre del fulmine, ALDROVANDI (morto nel 1605) nel suo Museum metallicum dice, che le accette di pietra sono armi antiche, che il lungo loro soggiorno nel suolo ridusse a stato lapideo. VALLISNIERI (morto nel 1730) è più esplicito, ed afferma che di quelli strumenti sì servi- vano gli uomini prima che conoscessero l’uso dei metalli. Lanzi (morlo nel 1810) dice, che le saette di pietra erano armi adoperale in epoche ante- riori di certo all’uso del ferro. SaLvaGnoLI-MaRcHETTI, nel 1843, presentò alla Riunione degli Scienziati italiani, che ebbe luogo a Lucca, alcune armi di pietra da lui scoperte nella Grotta dei Santi. Questo fatto non valse tuttavia a richiamare l’attenzione dei Membri di quel dotto Consesso. La pubblicazione dello ScARABELLI (1850), per ogni verso degna di rimarco, è di gran lunga superiore a quanto si era scritto in Italia su tale argomento, 84 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. di selce tagliate colla scheggiatura e quattro utensili di pietra levigata, due martelli cioè e due accette. Chiunque abbia qualche conoscenza delle selci lavorate di Abbeville, Amiens, Moulin-Quignon, vedrà nelle figure 2, 3, 13 e 14 riprodotto quel tipo, sia pel volume che per la forma generale, e per la rozzezza del lavoro. Nè meno rozzamente sono tagliate le cuspidi di freccia o giavellotto raffigurate ai N. 4, 7, 8, 9, 10 e 11. Non v'ha niente di più primitivo, di più grossamente fabbricato, di più identico a ciò che si trova nelle suaccennate località della Francia, dimodochè se le selci di Abbeville, di Amiens, ecc. devono annoverarsi fra i più antichi prodotti dell’umana industria che si conoscano, non vi ha per me dubbio che quelle di Imola vogliano essere comprese nella stessa categoria. Io poi espressamente intercalai fra le figure di queste rozze selci quelle di alcuni strumenti di pietra levigata (fig. 1, 5, 6 e 12) all'oggetto di ricordare che finora non è stata notata alcuna dif- ferenza di giacitura fra le prime e le seconde. Dello stesso tipo è altresì la cuspide di selce che raffigurai al N.° 12, Tav. VI. Essa fu trovata a Casalvieri (Terra di Lavoro), e faceva parte della Collezione del Professore NicoLucci, ben noto per gli eccellenti suoi lavori sulla paleoetnologia, e particolarmente sulle antiche stirpi che abitarono l'Italia: la citata fig. 12 venne delineata da un disegno che ebbi dalla di lui cortesia (1). Un'altra di queste cuspidi trovata presso Alatri e notevole, se non per volume, per rozzo lavorìo, vedesi raffigurata al N.° 1 della Tav. IX; la delineai da una delle Tavole che vanno unite all'interessante opuscolo pubblicato l'anno scorso in Roma dal sig. M. S. De Rossr (2). La esistenza di cuspidi di selce, per lo più di notevoli dimensioni -e rozzamente lavorate a scheggiatura, nell'Imolese, nei dintorni di Roma e nella Terra di Lavoro, in luoghi cioè che di non poco distano gli uni dagli altri, è, a mio parere, un fatto non privo d'importanza, come quello che non è fondato sopra un solo esempio e sopra un solo esem- plare. Si trovarono infatti e sul versante dell’Adriatico e su quello del Mediterraneo, e sinora in nessuna delle località venne osservata differenza (1) Questa cuspide fu già descritta dallo stesso NicoLucci (V. fig. 20 della sua Nota sopra altre armi ed utensili in pietra dura rinvenuti nell'Italia meridionale). Napoli, luglio 1867. (2) Secendo Rapporto sugli studii e sulle scoperte paleoetnologiche fatte nel bacino della Campagna romana. Roma, luglio 1868. PER B. GASTALDI. 85 di giacitura fra questi oggetti tipicamente archeolitici e quelli neolitici, per servirmi della classificazione adottata dalla maggior parte dei pa- leoetnologi italiani. Premessi questi cenni sulle selci lavorate di tipo speciale io, rac- chiudendomi nei limiti che mi sono prefisso, proponendomi cioè sola- mente di far conoscere, col mezzo di figure e di brevissimi commenti, una serie di manufatti di epoca remota, non ancora, o poco, conosciuti, adotterò semplicemente la classificazione topografica, anche a rischio di confondere insieme oggetti di epoche diverse. Essa è per ora la clas- sificazione più razionale. Ed infatti, se è difficile sempre, ed in molti casi impossibile, classificare per ordine di antichità le selci di rozzo lavoro che vanno qua e là scoprendosi; se la supposizione che le armi di pietra tenace, ottenute col processo della levigazione, debbano tutte indistintamente ascriversi all'epoca reolitica non è fondata su fatti po- sitivi ed incontestabili, non è men vero che in alcune località trovansi promiscuamente ed armi di selce, ed armi di pietra levigata, ed armi ed utensili di bronzo. D'altronde noi abbiamo bensì alcuni dati per fissare con qualche approssimazione l’epoca in cui si incominciò a far uso del ferro, ma siamo perfettamente allo scuro in ordine a quella in cui il rame ed il bronzo andarono man mano sostituendosi alla pietra. PROVINGIE MERIDIONALI. Il Professore NicoLucci nei varii suoi scritti ha messo in rilievo la frequenza delle selci lavorate nel Napolitano. Io stesso aveva già raffi- gurato in una precedente Memoria (1) alcune cuspidi dell’Ascolitano e dei dintorni di Ancona che il sig. Orsini ed il sig. De Bosis mi ave- vano, per tratto di squisita cortesia, inviate. Posteriormente alla stampa di quella Memoria ricevetti altresì in dono dal Professore G. Scaccni un magnifico coltello di focaia proveniente da Altamura (Terra di Bari) (2). (1) Muovi Cenni ecc. (2) Questi coltelli vennero già raffigurati dal NicoLucci nella sua Nota Zrtorno alle popolazioni dell’Italia ne? tempi antestorici. Napoli 1863, Tav. lI. 86 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. Ora, mercè la compiacenza del Professore Guiscarpi, posso far co- noscere alcune altre armi di piromaca rinvenute in quelle regioni; esse sono delineate ai N.' 20, 23 e 24 della Tav. VIII. La cuspide di lancia (fig. 24) merita di essere specialmente notata per le sue dimensioni, per la eleganza della forma e per la accuratezza del lavoro; è un gioiello dell’epoca, che quasi può stare a paragone con taluna delle più belle armi della Danimarca. Anche la cuspide di giavellotto (fig. 20) è note- vole per dimensioni, ed il coltello (fig. 23) per la sua sottigliezza. Ai N. 6, 7,8 della Tavola VI sono raffigurate tre cuspidi di selce provenienti dall’agro romano, delle quali vennermi comunicati i disegni dal più volte citato Professore Nicorucci. Fra i manufatti di pietra, che ricevetti dalla inesauribile generosità del sig. Orsini, delineai quelli che per la forma loro particolare mi parevano più degni di essere conosciuti; sono due piccole accette ed una cuspide silicea di freccia (fig. 3, Tav. VI, e fig. ige 2r, Tav. VIII), la prima, della solita pietra verde, proviene dal monte Brandone; la seconda, altresì di pietra verde, e la terza, provengono dai dintorni di Ascoli. Ho passato in rassegna le rozze selci lavorate dell'Imolese, di Alatri e di Casalvieri onde mettere in sodo la esistenza in Italia di manufatti litici del tipo di Abbeville. Accennai alle molte armi e strumenti di pietra che si incontrano nelle provincie meridionali per mostrare, che nella massima parte dei casi essi sono di silice. E ciò è naturale. Noi sappiamo che nel suolo Imolese trovansi arnioni e banchi di piromaca, e sappiamo altresì che gli stessi strati nei quali essa è racchiusa si esten- dono nell’Italia meridionale, ove essendo d'altronde sviluppati su ampia scala il cretaceo ed il giurese, è molto probabile che la selce vi ab- bondi; è quanto ha luogo altresì in alcune località del Veneto e della Lombardia. Veniamo ora entro i confini della regione Ligure-piemontese, ove in generale predominano le armi e strumenti di roccie tenaci, tagliate perciò mediante il processo di levigazione. TORBIERA DI MERCURAGO. Già fin dal 1860 io segnalava i servigi resi alla paleoetnologia ita- liana dal sig. Professore G. Moro. Se la palafitta scoperta nella torbiera di Mercurago potè essere descritta; se per la prima volta in Italia si x PER B. GASTALDI. 87 poterono osservare e studiare i resti di una abitazione lacustre, lo dob- biamo a lui (1). Non ha però men diritto alla nostra riconoscenza il sig. L. MArrEI, il quale, trovandosi alla direzione dei lavori di estrazione della torba, pose ogni cura onde non fossero perduti o guasti gli oggetti che man mano si andavano scoprendo, Da lui ebbi in questi ultimi anni due cuspidi silicee di freccia (fig. 9 e 10, Tav. VI), due spilloni di bronzo (fig. 5 e 25, Tav. VIII), ed un bel vaso di terra cotta (fig. 10, Tav. VIII), il quale all’esterno è stato diligentemente levigato e tinto in nero. Nel 1866, all’epoca della ultima mia visita a quella torbiera, il sig. Marret mi mostrò sepolti nella torba parecchi rozzi e grossi utensili di legno; erano tavole unite assieme in modo da formare una specie di madia; erano tavole lunghe 1", 20, larghe 0”, 25 e grosse 0", 07 sulle quali notavasi un rialzo di figura ovale che doveva probabilmente andare ad occupare il vano di un largo buco aperto in altri più grossi e più massicci tavoloni che presso a quelle giacevano. Avrei desiderato poter conservare quei rari avanzi di sì antica industria, come già aveva fatto per le ruote (2) ed altri utensili di legno rinvenuti in quella torbiera, se la estrazione , l'imballaggio, il trasporto a Torino e la formazione in gesso di oggetti così voluminosi e di delicato maneggio non avessero richiesta una spesa supe- riore alle mie forze: dovetti perciò abbandonarli là a rapida distruzione. TORBIERA DI OLEGGIO-CASTELLO. I lavori di estrazione sono anche qui diretti dal sig. MArrEI, e tutti gli oggetti che vanno scoprendosi sono diligentemente raccolti. Proven- gono da quella torbiera la magnifica daga e la cuspide di lancia, am- bedue di bronzo, che raffigurai ai N.' 2 e 14 della Tav. VIII; queste armi furono trovate nel 1864. La daga soprattutto è di una conserva- zione tale ed ancora così tagliente che pare or ora escita dalla forma, ed io colgo quest'occasione per esprimere pubblicamente la mia parti- colare gratitudine verso il sig. Marrei, il quale volle privarsi di tutti quei rari oggetti per farmene dono. (1) Non occorre qui ripetere che l’inizialiva delle ricerche paleoetnologiche recentemente fatte in Italia è dovula al sig. E. DesoR di Neuchatel. (2) Nuovi Cenni ecc. 88 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. TORBIERA IN PRÉ. Nel territorio di Borgo-Ticino vi sono parecchie torbiere di primo ordine, a livello cioè ed in continuazione col lago. In una di queste torbiere, regione in Prè, fu trovata una bella accetta di pietra verde (fig. 1, Tav. VI) che il sig. Terwoni, conduttore della torbiera, volle cor- tesemente donarmi. All'epoca in cui quell’accetta fu sepolta nella torba, era stata da poco rifilata; notansi infatti, particolarmente su una delle sue faccie e su una delle coste, superiormente al taglio, una quantità grandissima di punture, prima con ordine disposte le une accanto alle altre, e quindi, presso alla estremità opposta al taglio, talmente riav- vicinate che si confondono assieme e danno un certo grado di asperità alla pietra. Egli è evidente che questo lavoro si eseguì martellando l’ac- cetta con altra pietra più dura ed aguzza. Nella massa eranvi sparse delle minute piriti, che, alterandosi, passarono alla limonite, la quale, scomparsa in parte per soluzione, lasciò qua e là cavità corrispondenti. BRIGA (Mandamento di Borgomanero). Sulla sinistra sponda della valle in cui scorre il torrente Agogna, nel territorio di Briga, fu trovata nel 1863 la magnifica accetta di pietra verde che raffigurai al N.° 3 della Tav. IV. Ne è proprietario il sig. Conte LeonaARDI, il quale si compiacque comunicarmela. DINTORNI DI VERCELLI. Colle informazioni cortesemente favoritemi dai signori STOPPANI, Prcorini, PaLrastrELLI, Wore, CoccHi, ScarABELLI, NicoLucci, GuiscaRrDI ed altri, che si occupano di ricerche paleoetnologiche, io potei, nel 1867, indicare, con segno convenzionale, su una carta d'Italia a piccola scala, le molte e varie località ove si trovarono armi e strumenti di pietra di remota antichità. Quella carta, dell’epoca della pietra in Italia, figurò alla Esposizione del 1867, e la sua pubblicazione, quale documento dei progressi fatti nel paese nostro in ordine alle ricerche paleoetnologiche, non sarebbe PER B. GASTALDI. $9 u riescita senza interesse. Oggidì però le scoperte crescono con tale ra- pidità che una tal carta non sarebbe più possibile in piccola scala, ma conviene farne delle regionali o provinciali, ad esempio di quanto fece testè il sig. Marinoni nella eccellente sua Memoria Sulle abitazioni la- custri della Lombardia (1). Fra le nuove località del Piemonte ho già citata la torbiera in Prè sulle fini di Borgo-Ticino, ed ora ne citerò alcune altre di non minor importanza. Si osserva generalmente, che là ove si accalca la popolazione, là ove sorge una città ragguardevole per numero di abitanti, ivi già da tempi remotissimi l’uomo aveva posto sua dimora. Vercelli è fra le città ita- liane di secondo ordine una delle più importanti, vuoi per la feracità del suo territorio dovuta a speciali condizioni idrografiche, vuoi pel numero e per la generale coltura dei suoi abitanti. Nella storia noi troviamo fatta frequente menzione di essa e dell’agro suo. È soprattutto nota la Legge del Digesto che vietava agli azrifodini dell’agro Vercellese di impiegare più di cinque mila operai nei lavori di estrazione di quel pre- zioso metallo; è noto che sul confine del suo territorio con quello degli antichi Ictumuli si rinvengono, e solo in una ben limitata regione, certe monete d’oro di conio antichissimo, che il chiarissimo Archeologo sig. Prowis, Bibliotecario di S. M. il Re VirToRIO EMANUELE, ci ha fatto conoscere in uno de’ suoi molti scritti sulla numismatica (2). La presenza di quelle singolari monete è, a mio parere, strettamente legata colla prossimità della regione detta la Bessa, la quale è una estesa area (forse un ro chilometri quadrati), il cui suolo venne intieramente smosso e rimaneggiato onde lavarne la sabbia per estrarne l'oro in pa- gliuzze. Non è adunque da meravigliarsi che nell’agro Vercellese siensi rinvenute traccie delle antiche popolazioni che facevano uso di armi e strumenti di pietra. Due anni or sono io riceveva dal sig. Ingegnere MaArcHETTI una (1) Memorie della Società italiana di Scienze naturali, Milano 1868. (2) Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino. Vol. 1, pag. 159. (1866). Il PromIs dice, che quelle monete si trovano quasi esclusivamente a Tronzano, San Germano, Santhià, Carisio , Roasenda, Lenta e Gattinara: rare sono nei dintorni di Vercelli, ben poohe quelle che si rin- vengono sulla sinistra della Sesia. Queste monete non si trovarono sinora che in Piemonte, ed in maggior copia in quella parte della Germania che è situata tra il Reno, il Meno ed il Danubio. Serie II. Tom. XXVI. M 90 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. bella selce di color biondo, di lavoro anzi che no rozzo, ma compa- rativamente molto sottile, tagliata in forma di cuspide di lancia o di giavellotto (fig. 1, Tav. V). Intorno alla scoperta ed alle circostanze di giacitura di questa cuspide il donatore mi forniva i seguenti dati: « Essa fu trovata in un suolo ghiaioso di alluvione, a tre metri di pro- » fondità nel gerbido dell’Arlanzano, alla distanza di un chilometro » dall’alveo attuale della Sesia e a due chilometri circa a monte dallo » sbocco di quel torrente nel Po. Il punto in cui giaceva è più alto » di due metri del livello cui giungono le massime piene della Sesia » in quelle località ». Qui giova fare una osservazione, non certamente nuova, ma non meno interessante. Quando s'incontrano lungo le sponde di un fiume e nelle sue antiche alluvioni armi e strumenti di pietra, si nota che essi trovansi ad un livello cui non possono più giungere le acque anche nelle massime piene : e questo fatto dimostra che, a partire dall’epoca in cui l’uomo, nei nostri paesi, faceva uso di armi di pietra, vi fu una diminuzione costante nella quantità delle acque fluenti (1). Lungo la Sesia e nei dintorni di Vercelli venne pure scoperta, pochi anni sono, dal sig. Ronco Ambrogio, una bellissima accetta di pietra verde (fig. 2, Tav. V), a Caresana dei Canonici, regione Tombei, a tre metri di profondità, in un terreno di alluvione che si stava affos- sando per ridurlo a vigneto. Ebbi questa accetta dallo scopritore, mercè i buoni uffici del distinto Botanico sig. MaLinvernI di Quinto. - Trovandomi l’anno scorso in Vercelli ospite del sig. Conte Arsorio Menta, valentissimo nell’architettura gotica e romanica che illustrò coi (1) Giterò quì le magnifiche cuspidi silicee di lancia scoperte sulla destra del Po a Calindasco presso Piacenza e raffigurate dal sig. MARINONI nella Tav. VII, fig. 17 (Abitazioni lacustri della Lombardia); citerò altresì le cuspidi e scheggie di selce scoperte a Castel Ceriolo sulla destra del Tanaro descritte e raffigurate dal sig. DEROSSI (Scoperte paleoetnologiche in Castel Ceriolo presso Alessandria. Roma 1868) in una sua lettera che per tratto di squisita cortesia volle a me pubblicamente indirizzare. Le quali scoperte ci sono di stimolo ad attivare le nostre ricerche lungo le sponde di quei fiumi, e soprattutto nei dintorni di Arena Po ove già si rinvennero tanti teschi ed ossami di Bue, di Rinoceronte, di Cervo ecc. L’aver trovato un teschio di Cervus megaceros negli scavi che si praticarono per la fondazione delle pile del ponte sul Po a Mezzana- Corti (B. GASTALDI, Intorzo ad alcuni fossili del Piemonte e della Toscana. Torino 1866), nello stesso strato e a soli 14m, 30 sotto al punto in cui giaceva un teschio umano, ci fa sperare che sì verranno a scoprire un giorno manufatti di pietra frammisti a resti di quella magnifica fauna che il nostro E. CORNALIA va man mano facendoci conoscere con splendide tavole, con dotte ed interessanti descrizioni (A. STOPPANI, Paléortologie Lombarde, Mammifères). PER B. GASTALDI. QI suoi scritti e coll’opera sua, fui da lui cortesemente introdotto presso il sig. Barone Canrono, proprietario di una bella serie di quelle monete d’oro cui accennai qui sopra. Esaminandole vidi fra di esse una cuspide silicea di freccia che il sig. CanTono dicevami essere stata trovata in prossimità delle monete nello scavare un fosso (1). Dal mio amico Dottore Serva di Graglia ebbi in' dono una rotella di pietra (Tav. X, fig. 8) con due incavi centrali uno per faccia, i quali, venendo ad incontrarsi, danno luogo ad un foro. Esaminando quegli incavi si vede chiaramente che furono prodotti facendo rapida- mente girare, sul corrispondente punto, una scheggia di pietra più dura. Fu trovata nel 1864, a profondità di un metro, presso la cascina Chiappina, in territorio di Garisio, mandamento di Santhià, È di gneiss anfibolico con rari e piccoli granati, roccia comunissima nelle parti elevate del vicino monte. Per forma è identica a quella descritta e raf- figurata dal sig. Desor (2). GATTINARA. Lungo la sponda destra della Sesia, negli scavi che si fecero per tracciare la nuova strada tra Gattinara e Serravalle, fu trovata una daga di bronzo (Tav. X, fig. 1-3) del tipo di quelle che già si rinvennero a Concise sul lago di Neuchatel, in Irlanda, in Svezia, in Norvegia ed in Danimarca (3). Ne differisce tuttavia per avere attorno al pomo dell’elsa un largo e sottile disco piegato all'insù in modo da presentare la forma di una porzione di superficie sferica. Duolmi che l’artista in- vece di raffigurare la parte superiore di questo disco, finamente ornata di circoli concentrici, ne abbia riprodotto la faccia inferiore, che viene a fare un duplicato con quella che già si vede disegnata alla fig. 2. L’impugnatura elegantemente ornata a graffito è molto corta e non misura che 7 centimetri, precisamente come quella descritta dal sig. Desor. (1) Forse allude a queste monete il PROMIS ove dice, nella citata Nota « una decina venne » trovata a S. Germano insieme ad una punta di freccia in selce e due grossi e lunghi fili d’oro » intrecciati ad uso di ornamento ». (2) Les palafittes ou constructions lacustres du lac de Neuchdtel par E. DESOR, pag. 30, fig. 21. (3) Ibid., pag. 46, fig. 48 ecc. 92 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. La brevità della impugnatura la si nota in tutte le daghe di questo tipo, e chiaramente mostra che tali armi furono maneggiate da uomini di una razza a piccole mani. La daga in discorso faceva parte della ricca collezione di oggetti antichi di spettanza del sig. Avonpo, Professore di pittura, il quale volle farne dono al Museo civico di Torino. Non vi ha dubbio che venendo ad attivarsi diligenti ricerche nell’agro Vercellese se ne otterrebbero splendidi risultati. La tradizione dice che la parte alta di quel territorio, ora landa deserta, la quale porta il nome di daraggia, fu coltivata dai Romani; venni assicurato che in- fatti vi si trovano ruderi di antiche cascine e traccie di distrutti vigneti. La Bessa poi offre ampio argomento ad uno studio geo-archeologico della più alta importanza per la storia di Vercelli e di Biella. ANFITEATRO MORENICO DI IVREA. In questa regione la estrazione della torba ha dato luogo a scoperte tanto più interessanti in quanto che esse già erano state in certo qual modo previste, e sono di tale evidenza da colpire l'immaginazione non solo dell’uomo colto ma del volgo. Il geologo aveva studiate e descritte quelle singolari colline che, disposte in ampio cerchio, chiudono, circondandolo, lo sbocco della valle d'Aosta. Ne aveva spiegata la formazione, e vedendovi delle tor- biere aveva detto che esse un tempo furono laghi nei quali all'acqua si era, col lento processo della vegetazione, sostituita la torba; ma ben pochi credono a quel che dice il geologo, ed è per lui una fortuna che la vanga del torbaiolo sia venuta a dargli ampia ragione. Anche in questa regione come nei dintorni di Arona ebbimo la sorte di trovare nei Di- rettori dei lavori di estrazione della torba, signori Dottore L. GATTA di Ivrea, Geometra Barano e Cav. D'EmarESE, persone le quali con cor- tesia superiore ad ogni elogio ci aiutarono nelle nostre ricerche. TORBIERE DI S. GIOVANNI DEL BOSCO, rrazione DI S. MARTINO CANAVESE. Provengono da queste torbiere il coltello-ascia e la cuspide di selce raffigurati ai N. 2 e 11 della Tav. VI, non che il vaso di terra cotta raffigurato al N.° 22 della Tav. VIII. Questi oggetti rinvenuti or saranno x PER B. GASTALDI. 93 dieci anni erano stati dal signor Dottore Gata donati al Professore A. Siswonpa il quale a sua volta si compiacque cedermili (1), per via di cambio, onde venissero ad ornare la collezione di oggetti preistorici da me iniziata. Il vaso è del più grossolano lavoro che immaginar si possa, e dello stesso tipo di quello che, trovato alcuni anni dopo, già è stato delineato in un mio precedente scritto unitamente ad una rotella o fusaiuola di terra cotta proveniente dalle stesse torbiere (2). Il coltello-ascia è della solita pietra verde; esternamente però il suo colore è grigio-giallognolo a motivo della alterazione cui andò soggetta la pietra; la cuspide, la quale probabilmente servì ad armare un gia- vellotto, è di color grigio-scuro; però larghe scheggie, staccate senza dubbio, posteriormente alla sua estrazione dalla torbiera, hanno messo allo scoperto la parte interna che mostrasi di un bel colore carnicino. Sul bordo dell’incavo lasciato dalla recente scheggiatura si vede altresì la grossezza della patina grigia, d'onde si conchiude che la selce al pari della pietra verde fu col tempo, e pel contatto colla torba, superficial- mente alterata. Provengono dalla stessa torbiera lo spillone raffigurato al N.° 6 della Tav. IX, ed il faZZus che vedesi delineato alla fig. 4 della stessa Tavola. Quantunque scorretto sia il disegno e grossolanamente riprodotta la forma di quest'ultimo oggetto, appare tuttavia ben chiara l’intenzione dell’artefice. Vi si nota poi una singolare particolarità; l’appendice destra è vuota internamente, ed il vano produce un buco oblongo che prende il posto di buona parte dello scroto. L'emblema è attaccato ad un anello pel quale si appendeva probabilmente al collo. Dall’essersi rinvenuti tanti di questi emblemi fra i bronzi dell’epoca Etrusca, Greca, e Romana, non converrebbe inferirne che quello trovato nella torbiera di S. Gio- vanni sia relativamente moderno; non vi ha infatti a meravigliarsi che sin dall'epoca la più remota l’uomo abbia reso un culto all'organo cui natura affidò il più importante atto della vita, quello di conservare la specie. Descrivendo quelle torbiere (3), io già aveva notato che al disotto (1) Facevano parte del Museo di Mineralogia della nostra Università ove portavano i-numeri 9301-9303. (2) Nuovi Cenni, pag. 86, fig. 14, e Tav. II, fig. 29. (3) Loc. citato, pag. 87. 94 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. del banco di torba si trova uno strato di melma verdastra. Egli è in questo strato che nel settembre 1864 si scoperse una piroga di quasi perfetta conservazione. Alcuni giorni dopo il sig. Dottore GartA me la inviava a Torino accompagnandola colla lettera che credo a proposito di qui trascrivere: « La piroga che le invio fu trovata sotto il banco » di torba di una piccola torbiera propria di un certo A. GaLro di » Castellamonte e vicino alla riva ove cessa la torba, parendo che fosse » attaccata presso la sponda del lago che ha preceduto la formazione » della torbiera e che per qualche causa, andata al fondo, siano poscia » cresciute su di essa le erbe palustri delle cui spoglie consta la torba. » Il fondo delle torbiere di questi dintorni è argilloso; sull’argilla vi ha » uno strato melmoso più o meno alto, e sulla melma riposano i banchi » di torba. La piroga era sepolta nello strato melmoso ». È un tronco scavato il quale misura 2%, 54 in lunghezza, 0”, 50 in larghezza e 0”,36 nel punto della massima sua altezza; la profondità del vano non è che di o”, 20. Una delle estremità è perfettamente con- servata e termina in punta o rostro molto sporgente. Certe traccie di logorìo, dovute probabilmente al confricare dei piedi dei battellieri, fanno presumere che in essa prendessero posto due individui tenendosi rannic- chiati alle due estremità (fig. 10, Tav. IX). Giunta a Torino alcuni giorni dopo la sua estrazione , essa si era già di alquanto deformata per essiccazione; mi affrettai ad ottenerne un getto a forma persa, mezzo che, a mio parere, è il solo possibile per ripro- durre e conservare l’esatta forma degli oggetti di legno, i quali dimo- rarono per lunghissimo tempo esposti all’azione dell’acqua. Egli è bensì vero che col getto a forma persa si sacrifica l'originale, ma noterò che esso in ogni caso è perduto, poichè essiccandosi si fende, si spacca, si rompe e contorce a segno che ogni traccia della forma primitiva scompare. Sul principio dell’anno scorso fu scoperta nelle stesse torbiere una nuova piroga con entro due pale o voghe (fig. 7, 8 e g, Tav. IX). Il sig. BARBANO si compiacque dirigerne personalmente la estrazione e l'imballaggio onde potesse giungermi a Torino in perfetto stato. Per forma questa piroga differisce notabilmente da quella di sopra descritta; è lunga 2", 64, larga o”, 50, alta 0",34, ed è di o", 20 la profondità del vano. Ecco un brano della lettera che il sig. BarBANO mi scriveva per annunziarmi il grazioso invio: PER B. GASTALDI. gÌ « Ogni anno prima che si incominci l’escavazione io faccio sempre » ripetute raccomandazioni a tutti i torbaioli affinchè venendo a trovare » qualche oggetto mi rendano tosto avvisato, e non contento di questo » fo in persona frequenti giri di ispezione. Ciò malgrado succede che » taluni si danno poca cura delle mie raccomandazioni. Nella torbiera » del sig. Moncener fu rinvenuta una bellissima piroga che venne lasciata » per varii giorni scoperta, e quando io il seppi essa era già guasta; » altre due furono rinvenute in queste torbiere, ma già in minuti pezzi. » Insomma nell’annata furono quattro le piroghe trovate, giacenti tutte » tra la melma verdastra e la torba ». L’anfiteatro morenico di Ivrea è il più chiaro, il più parlante, il più imponente fatto geologico dell’alta valle del Po. La scienza ha provato sino all'evidenza che la formazione di esso è dovuta alla dimora per secoli e secoli fatta in quel luogo dalla estremità terminale dell’immenso ghiacciaio, il quale, discendendo dalle falde del Monte Bianco e riunendo in sè tutti i ghiacciai delle valli laterali, si protendeva di oltre 20 chi- lometri nella gran pianura padana. Chiunque, in possesso di questi dati fornitici dalla geologia, si affacci ad ammirare quel vastissimo e regolare circuito di colline, non può non sentirsi l'animo commosso alla vista del grandioso spettacolo. Il geologo, il naturalista, che da uno dei tanti punti elevati che fanno corona all'anfiteatro, come Andrate, Borgo Masino, Mazzè, Torre Candia, la Rotonda di Agliè, contempli quella scena, forse unica in Europa, non può non concentrarsi in sè e correre colla mente ai tempi trascorsi. Dopo di aver assistito all'enorme sviluppo delle masse di neve e di ghiaccio che invadono gran parte del piano e gli danno l'aspetto che oggidì presentano le coste della Groenlandia, le alte valli dell’Imalaia, egli vede lentamente ritirarsi le une e le altre. Ogni lembo di terreno ridonato alle influenze atmosferiche è invaso dalla vegetazione, da prima prettamente nivale di licheni, di muffe, di graminacee ecc., e quindi, a misura che le nevi ed il ghiaccio si elevano, battendo in ritirata, sui monti e nelle valli, di arbusti e di alberi. A questo punto tutto il fondo compreso fra l'ambito delle colline è un lago, e qua e là sul loro ridosso, nei valloncelli chiusi fra poggio e poggio osserva pa- ludi e laghetti circondati da folta boscaglia di abeti, di pini, di betule, di alni, di faggi. D'un tratto fra quegli alberi sulle sponde del lago vede comparire l’uomo. Da prima selvaggio si copre di pelli ferine, come il Groenlandese ed il Kamsciadale di oggidì, onde difendersi dalla rigidezza 96 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. del clima; costruisce capanne in riva all'acqua od impianta lunghi pali nell'acqua stessa presso le sponde su cui eleva la sua dimora; caccia e pesca facendo uso di armi di pietra e di osso colle quali e col sus- sidio del fuoco abbatte alberi, li fende e li scava onde averne piroghe e legnami di costruzione. (Giungono altri uomini portando un elemento vitale di civilizzazione, il rame ed il bronzo. Il ghiaccio e le nevi si sono ritirati sugli alti monti; sull’anfiteatro di Ivrea, alle foreste di conifere succedono i castagni, gli olmi, le quercie, i pioppi, i carpini. Col lento progredire della vegetazione er- bacea, propria delle acque fredde, scomparvero le paludi ed i laghetti colmati dalla torba, ed all’azione organica venne ad aggiungersi quella meccanica delle alluvioni per colmare l’ampio lago che occupava il fondo dell’anfiteatro e ridurlo in pianura di perfetto livello. I piccoli laghi di Candia e di Viverone rimangono soli a testimoniare le antiche condi- zioni di quel suolo, ed essi stessi vanno continuamente restringendosi. Vi penetra la civiltà etrusca susseguita dalla romana, la quale a sua volta scomparendo, e con essa i monumenti di Ipporedia, sottentra il buio del medio evo ivi tuttavia animato dal continuo passaggio di gente che da oltr’alpi discende in Italia per la valle di Aosta, e di gente che la risale per gire oltr’alpi. Il paese ha mutato a più riprese di aspetto; niente ricorda i primi abitanti del luogo, e solo quando la sviluppata industria e la distruzione dei boschi obbligano l’uomo d’oggidì a trar partito della sostanza vegetale accumulatasi sul fondo degli antichi laghi, egli scopre attonito le venerande reliquie degli avi suoi; e con amore le raccoglie e con orgoglio le mostra ai suoi contemporanei, molti dei quali non potendo applicarsi a tali ricerche, a tali studii, ignorerebbero l’interesse, il fascino che ad esse va unito. Alcuni anni sono in una torbiera confinante colle già nominate il sig. Cav. D'EmARESE scoprì una gran quantità di legnetti cilindrici (Tav. 11, fig. X) diligentemente acuminati alle due loro estremità. Essi sono piegati in arco, la curvatura essendo da attribuirsi alla es- siccazione; ve ne sono di varie dimensioni, taluni misurando in lun- ghezza o",60, altri 0", 45, ed altri o”, 20. Questo bastoncello a due punte e di varie dimensioni è un utensile del quale sarebbe difficile indicare l’uso, ed è d'altronde il solo della sua specie che sinora siasi a mia conoscenza rinvenuto nelle nostre torbiere. Prima di abbandonare questa regione debbo citare ‘la bella daga di PER B. GASTALDI. 97 bronzo delineata nella fig. 1 della Tav. VIII (1), della quale vado de- Dbitore alla generosità del sig. Conte ArsorIO MecLa : essa fu trovata in una torbiera presso al lago di Viverone. TORINO. La daga di bronzo raffigurata al N.° 3 della Tav. VII fu scoperta nel 1854 negli scavi praticati per la costruzione della casa posta in via Montebello N.° 21. Giaceva in uno strato di sabbia, probabilmente dell’antico alveo della Dora Riparia, alla profondità di 8 metri. Il sig. Barone A. Casana, proprietario della daga in discorso, volle corte- semente permettermi di farne un disegno e di averne un getto in bronzo che figurò alla Esposizione del 1867. TORBIERA DI TRANA. Dal mio amico Avvocato C. CaLanpra, ben noto in Piemonte per il suo sistema di pozzi intubati coi quali egli dotò felicemente di acqua potabile e di irrigazione molti dei nostri Comuni che ne erano privi o ne soflrivano scarsità, ebbi in dono un Celé di bronzo (fig. 15, Tav. VIII) proveniente dalla nominata torbiera. È il primo strumento di questa specie che a mia conoscenza sia stato trovato in Piemonte (2), ed è altresì il primo oggetto antico che sia venuto in mie mani da quella torbiera. SAN GERMANO (Pinerolo). Raffigurai al N.° 1 della Tav. II un’accetta di pietra verde che fu scoperta alcuni anni sono nel territorio di S. Germano presso Pinerolo: essa vennemi cortesemente comunicata dal distinto Botanico sig. Dottore Rostan. (1) Vedi altresì Nuovi Cenni ecc., pag. 87, Tav. II, fig. 22. (2) Recentemente se ne rinvenne uno bellissimo nei dintorni di Costigliole di Saluzzo; esso trovasi nella Reale Galleria d’Armi. Serie II. Tom. XXVI. N 93 ICONOGRAFIA Di ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. VALLE DELLA STURA DI CUNEO; VALLE DELLA TINEA. Le figure 2 e 3 della Tav. IX rappresentano due accette che me- ritano a più riguardi di fissare la nostra attenzione. Una di esse, quella raffigurata al N.° 3 fu trovata fra le Terme di Vinadio ed il luogo detto Le Pianche ; l’altra N.° 2 alla Colla Lunga, sul versante della Tinea, ambedue ad un'altezza di oltre 1500 metri. Ebbi questi strumenti in dono dal nostro Collega sig. Conte Paolo Barrapa di S. Rosert, il quale, trovandosi in quelle valli per l’ascensione del monte Ziribras, le acquistò da un pastore. Il S. RoserT non ignorava che tali oggetti non s'incontrano d or- dinario ad altitudine così notevole, epperciò a più riprese instava per sapere dal pastore se veramente le avesse trovate sul luogo, e sempre ne ebbe risposta affermativa. Nelle accette sinora descritte la levigatura fu d’ordinario spinta sino al punto da far scomparire ogni traccia di asperità e d’'incavo che esister potesse nel ciottolo o nel frammento di roccia, prima che venisse ridotto ad accetta, mentre in queste la levi- gatura è, per così esprimermi, superficiale, ed il lavoro così incompiuto che rimangono evidenti resti delle irregolarità della superficie della pietra che si era impreso a lavorare per ridurla in accetta. Le accette levigate, di finito lavoro, possiamo paragonarle ai ciottoli dei torrenti; quelle di non finito lavoro, ai frammenti levigati dal ghiac- ciaio, nei quali si trovano sempre traccie più o meno estese delle scabre faccie di frattura. GILETTA, TORRETTA-REVEST, PIETRAFUOCO E NIZZA MARITTIMA. Giacchè nel giro che stiamo facendo delle varie località nelle quali si scopersero oggetti preistorici, noi ci lasciammo condurre sul versante della Tinea, non sarà fuori proposito che discendiamo la valle del Varo e ci rechiamo sulla spiaggia del Mediterraneo, ove ci occorrerà di vi- 5 sitare altre importanti stazioni. Se in questa nostra passeggiata noi siamo costretti di escire per poco dagli attuali confini politici d’Italia, notisi che non esciremo punto da’ suoi confini naturali, e che la Colla-Lunga è uno dei facili e non infrequentati passi per cui dal Mediterraneo si giunge sul versante Adriatico. PER B. GASTALDI. 99 Nel giugno del 1864, d’accordo col sig. di S. RosERT, € con un comune nostro amico, si era stabilito di fare una rapida corsa botanico- archeologica al colle di Tenda ed alla valle delle Meraviglie, nella quale scorre un tributario della Roia. Alla vigilia della partenza il S. RoserT ci annunziava aver saputo dal sig. Lacrance, già distinto Uffiziale di Stato Maggiore, che nella valle dell’Esteron tributario del Varo si tro- vano non infrequentemente pietre cuneiformi, alle quali nel paese si dà il nome di pietre del fulmine. La notizia era tale da obbligarci a can- giare l'itinerario ed a partire senza indugio per le indicateci località. Giunti a Giletta prendemmo lingua; da prima non fummo intesi, ma poco a poco ci femmo capire e capimmo noi stessi che le pietre delle quali eravamo in cerca chiamansivi propriamente pere du trouen. Intanto la sera stessa ce ne portarono due, e l'indomani, avendo visitato Torretta-Revest, Tadone e Pietrafuoco ne acquistammo cinque altre; e ne avremmo raccolte un numero maggiore se avessimo potuto soffermarci colà due o tre giorni. Si può affermare che tutti gli abitanti di quei paesi conoscono le pietre del fulmine che trovano, a quanto ci dissero, lavorando la terra; pochi però sono quelli che si danno cura di raccoglierle e conservarle. Giletta, Torretta-Revest, Tadone, Pietrafuoco trovansi a notevole altezza sul livello del mare. Queste accette vennero delineate ai N. 4, 5, 6, 7 e 8 della Tav. II. Due sono probabilmente di spilite; le altre della solita pietra verde. In quella raffigurata al N.° 8 la faccia di destra è tutta una faccia di frattura, come lo è altresì quella che concorre a diminuire la larghezza della testa. A parte l'assenza di strie, e l'evidente concorso della mano dell’uomo, quest’accetta rassomiglia perfettamente ad un frammento lavorato dal ghiacciaio. MENTONE E NIZZA AL MARE. Devo al sig. Dottore Perez, già Professore al Collegio Nazionale di Genova, comunicazione di una serie di interessanti oggetti che verrò citando. E da prima una notevole quantità di scheggie di selce tagliate in forma di cuspidi, il cui lavorìo è rozzo ed affatto primitivo, non che molti resti animali, cioè zanne di cinghiale, denti ed ossa di cervo e di bue, una vertebra di cetaceo, molluschi ecc. da lui trovati nella caverna ossifera di Mentone. IOO ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. Provengono dalla Rocca di Nizza al mare, e furono dal Perez sco- perti negli scavi che vi faceva eseguire, mentre egli trovavasi in quella Città sua patria alla direzione dei pubblici giardini : 1.° Le due accette cuneiformi che delineai ai N. 2 e 3 della Tavola II, scegliendole fra parecchie altre consimili. La prima (N° 2) è di un lavoro ben finito e conserva vivo il taglio; la tinta della pietra è di un verde bellissimo e parmi che possa essere spilite, tanto più che in alcuni punti presenta traccie di amigdale. L'altra (N.°-3) è di va- riolite, roccia al pari della spilite non infrequente su. questo versante delle Alpi ;- 2.° L'utensile raffigurato al N. ro della Tav. VIII, potrebbe forse essere una delle coti di cui il selvaggio abitante delle incantevoli spiaggie nizzarde si serviva per affilare le accette di pietra. La forma di questo utensile è quella di un prisma a base quadrata; è di are- naria a grana finissima, e mostra su tutte, ma particolarmente su una delle sue faccie, una profonda erosione. Ad una delie estremità vi è una scannellatura per la quale passava la cordicella cui il selvaggio lo attaccava onde appenderlo alla cintura ; 3.° L'utensile delineato al N.° 17 della Tav. VIII è una fibula probabilmente di piccolo ruminante, tagliata grossolanamente e forata ad uso di ago, col quale si cucivano assieme le pelli prima forate colla punteruola o si aggiustavano le reti ; 4-° Il coltello o scheggia di selce, N.° 16 della solita forma; 5. La rotella di terra cotta raffigurata al N.° 4 della stessa Tavola. VALLI DEL TANARO E DELLA BORMIDA. Ritorniamo ora in Piemonte per uno dei colli che mettono in comuni- cazione il versante Mediterraneo colla valle del Tanaro. È questa l'ultima, la più meridionale delle nostre valli alpine, e ad oriente di essa corre quella della Bormida la quale divide, se così si vuole, le Alpi dall’Ap- pennino. Gran parte del paese compreso fra quei torrenti porta il nome di Le Langhe, distinguendosi in alta e bassa Langa. È un paese inte- ressantissimo sotto più aspetti, ma particolarmente sotto quello della costituzione geologica. Il miocene inferiore co’ suoi ingenti banchi di conglomerato a massi giganteschi, co’ suoi strati arenacei ricchi di num- 55 muliti, co’ suoi calcari, colle sue ligniti per lo più di origine lacustre, PER B. GASTALDI. — IOI forma gran parte del suolo poggiando su un’ossatura di gneiss, di scisti cloritici o protoginici e di serpentini, roccie tutte che probabilmente vanno comprese nella zona delie pietre verdi ‘0 zona calcareo-serpenti- nosa tanto sviluppata nelle Alpi nostre. I geologi ed i paleontologi piemontesi. non tardarono a vedere la opportunità di separare dall’eocene quell’orizzonte, quantunque esso sia ricchissimo di nummuliti, ed a mettere in rilievo l'importanza della sua fauna. Nelle molte ricerche che a questo scopo dovettero fare onde rac- cogliere la maggior quantità possibile di fossili di quei luoghi, essi tro- varono sempre un efficace aiuto nel Padre Icmna delle Scuole pie, da molti anni stabilito in Carcare. Appassionato cultore degli studi naturali , il Padre Icmwa iniziò nel Collegio da lui diretto in quel paese una col- lezione mineralogica e paleontologica che con generosità non mai venuta meno pose a disposizione dei naturalisti. Data la sveglia sulla impor- tanza che gli strumenti di pietra hanno per la remota storia dell’uomo, egli si occupò a cercare manufatti litici collo stesso ardore col quale si era prima dedicato a cercare fossili e minerali, e pervenne a farne, in pochi anni, una ricca raccolta, buona parte della quale egli poi volle cortesemente cedere per via di cambi al nostro Museo Civico. Nella Tavola IMI; ai N. 2 e 4 della Tavola IV; ai N.° 3, della Ta- vola V; al N.° 5 della Tavola VI; ai Ni 11 e 12 della Tavola VII; ai N 6, 7 ed 8 della Tavola VII; al N.° 5 della Tavola IX sono raffi- gurate le accette le più notevoli per forma o per natura mineralogica, nonchè due vasi di terra cotta fabbricati senza il sussidio del torno, raccolti dal padre IcHina. Le località dalle quali provengono le accette sono. Calizzano, Ca- merana, Carcare, Cosseria, Dego, Piana, Rocchetta Cengio e Squaneto ; Farigliano ed Incisa quelle da cui provengono i due vasi. GARESSIO E CLAVESANA. L'accetta delineata al N° 6 della Tavola V, notevole per le sue di- mensioni, fu trovata a Garessio, e quella raffigurata al N.° 4 della Ta- vola VI a Clavesana, paesi del Circondario di Mondovì; le ebbi in dono dal Sacerdote Bruno, Professore di fisica nel Seminario di Mondovì, ben noto per i suoi lavori sulla meteorologia. L’accetta trovata a Cla- vesana è rotta sia al taglio che alla testa, ed in ordine a tali rotture 102 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. il donatore mi scriveva quanto segue: « Il contadino che trovò questa » pietra mi assicurava come le rotture che essa presenta ad un angolo » del taglio ed alla testa furono cagionate dal molto uso che ne fece » come strumento da taglio a lavorare pietre (arenaria molassa), ed » ultimamente per tagliarne una a chiudere la bocca di un forno .... » per parte mia non posso affatto dubitare della sincerità delle sue » parole ». NEIVE (Alba). L’egregio segretario della benemerita nostra Società promotrice di belle arti, il sig. Avvocato L. Rocca, mi inviava in dono, alcuni anni sono, la piccola accetta che delineai al N.° 1 della Tavola IV; scrive- vami in pari tempo che quell’utensile gli era stato rimesso un venti anni fa da un contadino il quale lo rinveniva impiantato nel tronco di un albero giacente nel leito del torrente Tinella, poco distante da Neive (1). DOGLIANI, MONFORTE D’ALBA, BAROLO, LA MORRA. Al N.° 5 della Tav. V è delineata un’accetta di pietra verde trovata nei dintorni di Dogliani, sulla destra del Tanaro, che il mio amico Avvocato GaAsurTI si compiacque donarmi. Fra le persone che sì inte- ressarono a queste mie ricerche devo particolarmente citare il sig. Dot- tore VaLLapa ora Direttore della Scuola di Medicina veterinaria a Napoli. Da lui ricevetti parecchie accette provenienti dai dintorni di Barolo, di La Morra, e di Monforte d'Alba. Appartenevano queste accette ai signori Cav. De MacistRIS, Borio, Burpisso e Bosone i quali sulle istanze del sig. VaLLapa vollero cortesemente arricchirne la mia collezione pa- leoetnologica. Quella delineata al N.° 4 della Tav. V fu trovata presso Monforte d’Alba. In quei paesi le accette di pietra di qualsiasi forma portano il nome di fol/gorine, ed anche di con del losn, o coti del lampo; e diconsi coti perchè accade che taluni di tali strumenti vengono con vantaggio adoperati ad affilare le falci. (1) Nel Museo Civico di /miofa vi ha una piccola accetta identica a questa. PER B. GASTALDI. 103 Fra le accette rinvenute nel gruppo di monti compreso fra il Tanaro e la Bormida alcune meritano di essere particolarmente citate perchè di un lavero veramente primitivo e rozzo. Tali sono le accette trovate dal Padre IcHnima a Rocchetta Cengio (Tav. VIII, fig. 6, 7 ed 8). Esa- minandole un po’ superficialmente hanno l’aspetto di semplici scheggie della solita pietra verde; ed in fatti la parte lavorata vi è, di gran lunga, meno estesa ed apparente di quella lasciata allo stato naturale. Queste rozze accette stanno alle armi di pietra liscia come le selci del tipo di Abbeville alle selci così elegantemente tagliate della Danimarca, nè vuolsi poca pratica di tali oggetti per poterle distinguere. Perciò non posso a meno di complimentare il Padre IcHinA di aver saputo apprezzarle e tenerle per quel che sono, quantunque egli non abbia probabilmente avuto mai occasione di vedere un gran numero di tali strumenti. Se si adotta la distinzione fra l’epoca della selce rozzamente e quella della finamente scheggiata, non vi ha motivo per non introdurre una nuova distinzione fra le pietre liscie di perfetto lavoro e quelle del tipo di Rocchetta Cengio. Colle quali fa singolare contrasto una magnifica accetta di Giadeite “Tav. IX, fig. 5) che lo stesso P. IGuinA trovava nei dintorni di Piana , paese posto sulla destra della Bormida. Egli cortesemente me la comu- nicava fin dal 1867, ed avendola io meco portata a Parigi all’epoca della Esposizione, potei rimetterla all’egregio chimico sig. Damour, il quale ne determinò il peso specifico in 3,333. Di un bel verde di serpentino con struttura compatta e simile a quella dell’agata, lascia però scorgere chiara tendenza alla scistosità ed è finamente ed irregolarmente scre- polata. La sua diafaneità, minore di quella dell’agata, non si appalesa che su pochi millimetri verso il taglio. Sulle due faccie è perfettamente forbita come lo potrebbe essere un diaspro, ma i margini sono sem- plicemente levigati a grana fina. Ne potei staccare una scheggietia che facilmente fuse alla semplice fiamma ad alcool in smalto bianco. Pesa grammi 29, e resiste perfettamente alla lima. È un vero gioiello il quale non servì probabilmente da strumento da taglio ma ad uso di emblema o di amuleto, tanto più che, astrazione fatta del tenue peso e della piccolezza dello strumento, una serie di fini screpolature dalla quale è obbliquamente attraversata ne avrebbero cagionato la rottura al primo colpo, nel caso fosse stato adoperato ad uso di strumento da taglio. 104 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. Cenni sulla composizione delle accette. Il sig. Damovr ha pubblicato alcuni anni sono un eccellente lavoro sulla composizione delle accette di pietra trovate nei monumenti celtici e presso le tribù selvagge (1). Quantunque quella Memoria del distinto chimico sia ben nota ai mineralisti.ed agli archeologi, non parrà fuori proposito ch'io ne citi qui i tratti più rilevanti come quelli che, avendo rischiarato di molto la confusione che prima regnava in tale materia, ci indicano la via. da seguire nelle ulteriori ricerche per giungere a scoprire le località d'onde gli avi nostri traevano la materia prima colla quale fabbricavansi le accette. Fibrolite. — Fra le accette scoperte nei monumenti sedicenti celtici della Francia egli ne cita di fibrolite (sillimanite), minerale che si trova in molti luoghi di quel paese. Perciò il sig. DAmovR con ragione con- chiude il capitolo sulla fibrolite nei seguenti termini: « Lorsque l’on » compare les haches en fibrolite trouvées dans le Morbihan, dans » l’Auvergne, le Lyonnais et le département de la Seine avec les échan- » tillons bruts de cette matière qu'on recueille encore actuellement en » place dans les départements du Rhòne et de la Haute-Loire, il n'est » guére possible de conserver le moindre doute sur leur identité d’o- » rigine. On peut donc admettre que la fibrolite dont. ces haches sont » formées a éte prise sur l’un des points de la France indiqués sans » qu'il soit nécessaire de remonter à des gîtes lointains ». Giadeite. — Lo stesso autore aveva già proposto sin dal 1863 il nome di giadeite per una giada orientale di un bel color verde che egli di- mostra appartenere alla famiglia delle Werneriti, onde distinguerla dalla giada bianca che vuol essere compresa in quella degli anfiboli. I principali caratteri della giadeite sono Dr=6,5.Dn=3,28 a 3,35; tenacissima; fusibile in fini scheggie alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto giallognolo o grigiastro semitrasparente. Quasi affatto insolubile negli acidi; struttura cristallina , lamellare o fibro lamellare, talvolta un pò’ scistosa; frattura scheggiosa. Color verde, verde (1) A. DamouR - Sur la composition des haches en pierre twouvées dans les monuments celtiques et chez les tribus sauvages. Paris 1865 in 4°. Extraits des Comptes-rendus. Acad. Sc. Paris, séances du 21 et du 28 acùt 1865. PER B. GASTALDI. 105 grigiastro, grigio azzurrognolo. È un silicato d’allumina molto ricco di soda (circa il 13 p. °/,) con calce, magnesia, ossido ferroso ecc. L’autore comprende in detta specie una serie di 25 accette celtiche rinvenute in varii luoghi della Francia gli uni dagli altri notevolmente distanti. Venendo quindi alla questione della giacitura di quel minerale egli cita VAsia centrale e perticolarmente la Cina, e suppone che si debba altresì trovare nel Messico. Soggiunge in fine: « Malgré bien des » recherches je n'ai pu découvrir ni dans les Alpes, ni dans les col- » lections de minéraux et de roches de provenance européenne, aucun » échantillon qui me parùt se rapporter à la jadeite. Mais avant de » trancher la question de l’origine asiatique que plusieurs archéologues » sont tentés d’attribuer aux haches celtiques faconnées avec cette ma- » tière, il serait nécessaire de s’assurer par des nombreuses recherches, » en diverses contrées de l'Europe, s'il n’en existe pas quelque gite ». Molte ricerche si son fatte in Piemonte e dal nostro collega Pro- fessore Angelo Siswonpa e da me onde trovare la giadeite vuoi fra gli esemplari delle varie nostre collezioni di minerali e roccie delle Alpi, vuoi in posto. A questo fine abbiamo più di una velta messo a con- tribuzione la estrema cortesia e la molta dottrina del sig. DamouR, cui mi è grato poter pubblicamente offrire i miei ringraziamenti. Tutte le nostre ricerche non riescirono però che alla scoperta di masse più o meno voluminose di idocrasia compatta, le quali se a prima vista presentano qualche analogia colla giadeite, ne differiscono però e per la composizione e per varii importanti caratteri fisici. Cloromelanite. — ll sig. Damour propone in fine il nome di c/oro- melanite da darsi alla roccia in cui sono tagliate moltissime delle an- tiche accette rinvenute in Francia. Il proposto appellativo di verde nerg, verde scuro, calza perfettamente alla maggior parte di tali strumenti, i quali sono per lo più nerastri o di color verde scuro all’esterno, ma di un bel verde sulle facce di fresca frattura, e per trasparenza nelle scheggie sottili. La composizione della cloromelanite si avvicina di molto a quella della giadeite. La sua durezza è altresì 6,5 e la densità tra 3, 4o e 3, 65. Fonde alla semplice fiamma ad alcool, ma meno facilmente della giadeite ; tenacissima, ha struttura cristallina, frattura finamente scheg- giosa, talvolta scistoide, polvere di color verde grigiastro. Il sig. Dawovr dà quindi un quadro della struttura e densità di 18 Serie II. Tom. XXVI. o 106 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. accette di c/oromelanite trovate in Francia, e ne cita un ragguardevole numero di alire da lui osservate nei Musei di Zurigo, di Neuchatel e di S'-Aubin. In ordine alla giacitura della cloromelanite 1 autore sì esprime nei seguenti termini: « Il (le gisement) m’est complétement » inconnu; c'est encore une matière qui doit appeler il’attention des » géologues. Au premier aspect on peut la confondre avec quelqu’une » des roches connues sous le nom d’aphanite, diabase, diorite, dolérite, » éclogite, griinstein, scaalstein etc. Mais aucune des matières ainsi dé- » nommées n'y a montré réunis au meme degré la dureté, la densité, » la fusibilité qui caractérisent le minéral que je viens de décrire », e conchiude : «On a pu remarquer encore, par ce qui précède, que les hommes » qui fabriquaient autrefois les haches en pierre polie ont su choisir, » avec une rare sagacité, précisement les matières qui seules, à l’ex- » ception des métaux, réunissent au plus haut degré les trois caractères » de densité, de dureié et de ténacité, conditions essentielles pour » l'emploi et la durée de ces instruments ». Non vi ha dubbio che la roccia in cui sono tagliate molte delle accette raffigurate in questa iconografia appartengono alla specie chia- mata dal sig. Damour cloromelanite. Io preferii tuttavia indicarla col semplice nome di pietra verde, parendomi pei saggi fatti su quelle ac- cette che buon numero di esse non presenti i caratteri della specie Damouriana. Mancandomi da una parte le necessarie analisi onde clas- sificare a dovere quelle che non sono di cloromelanite, e convenendo a tutte meno una il poco compromettente appellativo tratto altresì dal carat- tere del colore, mi decisi ad adottarlo, persuaso che lunga serie di os- servazioni e di tentativi occorreranno prima che sia posta in piena luce la natura e provenienza delle roccie in cui le antiche accette sono tagliate. La durezza, la struttura, la fusibilità e per molte anche la densità delle accette di provenienza italiana ch'io ebbi occasione di esaminare, sono indicate nel quadro che posi in fine di questo scritto. Sgraziata- mente in quel quadro non posso dare il carattere più importante, quello della composizione, non avendo trovato un chimico distinto il quale volesse incaricarsi di così lungo, delicato e non facile lavoro. Da tre di esse (vedi nel Quadro i N. 20054 a 20056 della Raccolta mineralogica) che mi offrivano evidenti i caratteri della. cloromelanite staccai scheggie che feci levigare sino a ridurle sottilissime, e vidi PER B. GASTALDI. 107 chiaramente che la roccia si compone di due minerali, uno dei quali trasparente e di un bel verde chiaro, e l'altro - disseminato in fiocchi nella massa del primo - opaco e verde scuro; fatto il quale già è stato messo in rilievo dal sig. Damour. Col quale convengo altresì nel credere che la cloromelanite, la cui composizione, densità e durezza non diffe- riscono essenzialmente da quella della giadeite, debba considerarsi come una varietà di questa. giacitura della cloromelanite; ma d'accordo anche in questo col sig. DamouR, nutro Come quella della giadeite, mi è affatto sconosciuta la fiducia che un giorno sarà scoperta in qualche parte dei nostri monti. Le ricerche a questo scopo vogliono essere soprattutto fatte in quella zona calcarea serpentinosa da me chiamata delle pietre verdi, la quale potentemente sviluppata nelle Alpi e nell’Apennino copre e ricinge il gneiss antico a struttura or scistosa or granitico-porfiroide, ed anche nelle regioni ove e porfidi e spiliti e varioliti ecc. più frequentemente sì mostrano. Il sig. Damour ha dimostrato che la materia prima delle accette di fibrolite che si rinvengono in molti luoghi della Francia proviene da località dello stesso paese. Fra le accette trovate dal sig. Professore Perez a Nizza marittima ve ne ha una di variolite, roccia che frequentemente si incontra nella valle della Durance ed in altre località delle circostanti regioni, e che non è rarissima nella valle della Dora Riparia. Alcuna delle accette trovate in Piemonte e nell'Appennino ligure sono probabilmente di saussurite, o meglio di quella eufotide a diallaggia smaragdite che forma in molte parti delle Alpi nostre masse cospicue. Nella magnifica collezione paleoetnologica di Parma vi è un martello di finissimo lavoro, tagliato in un granito a feldspato bianco e mica nera abbondantissimo (in ciottoli ed in massi) nei conglomerati mioce- , nici dell'Appennino. Ho visto un martello trovato nel Vicentino, ed è di quel porfido che s'incontra nel paese. Non ho ancora potuto esaminare alcuno degli strumenti che si tro- vano in Sicilia, ma è noto che per buona parte sono di roccie vulca- niche del paese. Tutte queste osservazioni ci autorizzano a credere che gli antichi abitanti del paese nostro traessero dal di lui suolo le materie prime 108 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. per la fabbricazione degli strumenti da taglio e da punta, e ciò sia detto non ostante l'ignoranza in cui siamo relativamente alla giacitura della giadeite e della cloromelanite. Nell’Atlante, che va unito a questo scritto, ho date le figure di un numero considerevole (36) di queste accette levigate, ed avrei potuto darne un numero ben maggiore se avessi voluto delineare tutte quelle che direttamente od indirettamente trovavansi a mia disposizione. Ciò che desidero notare è questo: se paragoniamo fra di loro queste accette, siano esse in numero di 30, siano esse in numero di 50, di 6o ecc., a stento ne troveremo due che per dimensioni e per forma siano simili. Lo stesso non accadrebbe se noi prendessimo ad esame egual numero di accette o di altri strumenti di selce della Danimarca o della Svezia. Questo, a parer mio, ci mostra che per fabbricare le loro accette gli antichi abitanti del nostro paese si servivano di ciottoli o di fram- menti staccati per cause naturali dalla madre roccia, epperciò esse riescivano di forme e di dimensioni svariatissime, mentre gli antichi Danesi o Svevi, avendo a disposizione illimitata quantità di masse di selce di ogni dimensione, tagliavano nel grosso, ed occorse perciò più di frequente che li strumenti ottenuti colla scheggiatura meglio si ras- somigliassero per dimensioni e forma. Questi lavoravano con concetto ben definito e fisso di quello che volevano ottenere; la pietra di cui si servivano essendo relativamente fragile e a frattura concoide, offriva loro opportunità di ottenere la forma che volevano, giacchè, regolando il colpo potevano staccare or grosse or piccole schegge; essi d'altronde potevano far getto del pezzo non riescito, colla certezza che la ma- teria prima sovrabbondava. Quelli al contrario lavoravano per lo più a perfezionare un pezzo le cui dimensioni, la cui forma erano l’effetto di agenti naturali: ed anche quando incontrata la pietra che loro con- veniva ne staccavano frammenti percuotendola violentemente con altra pietra, la tenacità di quella, la sua frattura scheggiosa ed irregolare , raramente permettevano di ottenere pezzi che per dimensioni e forma rispondessero al desiderio. Anche oggidì, se occorre che il geologo voglia staccare da roccie di consimile natura esemplari per collezione e dare loro adatto formato, quantunque munito sia di martello di acciaio fuso, trova sovente difficoltà a riescirvi. Sinora, per quanto mi consta, non si trovarono in Piemonte mar- telli o cunei forati; questi strumenti sono per lo più di diorite, di afanite, PER B. GASTALDI. 100 di porfido ece., e la cosa è tanto più singolare in quanto che tali roccie non vi fanno difetto. Qui avrei dovuto por fime alla mia rivista, se altre scoperte, altri oggetti di un ordine forse più archeologico che paleoetnologico non mi consigliassero a farvi qualche aggiunta, la cui opportunità non isfuggirà a chiunque voglia considerare che, se da una parte la paleoetnologia ha intime relazioni colla geologia e colla paleontologia, dall’altra viene a legarsi colla archeologia propriamente detta. Nella quale essendo io profano in tutta la estensione della parola, giovami chiedere perdono agli archeologi se ora penetro nel campo delle loro ricerche, dei loro studii. TOMBE DI CRISSOLO. Abbiamo già visto che di molti degli strumenti di pietra rinvenuti nel nostro paese possiamo con qualche approssimazione fissare il luogo donde fu tratta la materia prima; sappiamo almeno ove si trova, sia in posto che in ciottoli, una pietra della stessa natura; ed è naturale l’arguire che l’uomo dell’epoca della pietra l'abbia colà presa. Tali sono la selce piromaca, la diorite, l’afanite, la variolite, il porfido, il granito, la lava, l’ossidiana ecc. Se sinora da noi non si è ancora scoperta la giacitura della c/oro- melanite, e quella della giadeite, possiamo attribuirlo al poco sviluppo che vi hanno gli studi mineralogico-geologici. La razza dell’epoca della pietra, la quale trae dal suolo su cui abita la materia prima litica per fabbricarne strumenti, è la razza aborigena, è quella che prima venne ad abitare su quel suolo. Se in Italia la pietra in cui sono tagliati gli strumenti è quella stessa che troviamo o che con ragione supponiamo trovarsi nel paese, lo stesso non può dirsi in ordine agli oggetti, armi, strumenti, ornamenti ecc. di bronzo. Egli è bensì vero che i minerali cupriferi non sono rari in Italia giacchè si trovano almeno ovunque vi ha il serpentino, e questa roccia è larga- mente ed in masse imponentissime sparsa in molte parti dell’Italia settentrionale e meridionale; ma ci fa difetto lo stagno (1). (4) Come curiosità mineralogica citerò Ja cassiterite in Dicrorinla e rari cristalli nel granito tormalinifero e smeraldifero dell’isola dell’Elba. IIO ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. Notisi ancora che in Italia abbiamo bensì molti giacimenti di minerali cupriferi ma che il rame nativo vi è rarissimo, onde non possiamo neanche supporre che vi sia stata un'indigena epoca del rame come vi fu, a quanto pare, nell'America del Nord ove quel metallo si trova in abbondanza. Quando adunque noi arriviamo agli strumenti di bronzo, dobbiamo necessariamente ammettere che la materia prima ci fu importata. Allo stato delle nostre conoscenze in fatto di oggetti preistorici di bronzo, i più antichi sono quelli che troviamo frammisti a strumenti di pietra: tali sono per me le cuspidi di lancia scoperte dal sig. De GarTI a Cumarola presso Modena (1). Ora queste cuspidi non sono già di rozzo lavoro come li più antichi strumenti di pietra, che anzi sono di un lavoro relativamente molto finito e mostrano un certo grado di abi- lità nell’artefice se si tenga conto delle difficoltà che convenne superare onde ottenere il rame, la lega, il geito. Il bronzo adunque ci giunge importato non solo in quanto materia prima, ma ci giunge importato quando la razza che lo introduceva già ne aveva di molto perfezionato il lavorio. Con ragione perciò si può supporre che quel metallo ci fu recato da una razza invadente, da una razza emigrante. E qui conviene fare un’altra osservazione. Il processo per lavorare la pietra era ed è ovunque lo stesso, sia al Canadà che alla Terra del Fuoco, sia nella Goenlandia che a Java ecc., e la forma delle accette, delle cuspidi di freccia, di giavellotto e di lancia, dei coltelli di pietra è, in generale, così perfettamente la stessa su tutti 1 punti della Terra, che il fatto muove a meraviglia chiunque si faccia a meditarlo. Altrettanto non possiamo per ora dire del bronzo, ma ci è però lecito affermare che la forma dei così detti celt, dei paalstab, di certe daghe e cuspidi di lancia, di certi coltelli, e spilloni, e catenelle, e smaniglie, e fibule ecc. è la stessa in molte parti di Eu- ropa ed in alcune delle confinanti regioni dell'Asia. Per convincersi di quanto asserisco basta confrontare fra loro le tavole annesse alle opere di paleoetnografia pubblicate nelle principali città di Europa. La razza che portò il bronzo in tanta parte di Europa, che respinse, annientò od incivilì l’uomo semi-selvaggio dell'ultimo periodo dell’epoca della pietra, (1) Gito di preferenza i bronzi trovati in associazione con strumenti di pietra nelle tombe a quelli scoperti in pari circostanze nelle torbiere e nei laghi, perchè ivi la miscela può non essere che accidentale. PER B. GASTALDI. IRIS era un popolo numeroso e potenie. La storia di questa razza è fra le cose possibili quando conosceremo paleoetnologicamente l'Oriente; ma quelia che forse non si farà mai è la storia del popolo che insegnando l’uso del ferro ci diede la leva della moderna civiltà. La difficoltà di raccogliere i dati occorrenti a scrivere questa storia è in gran parte inerente alle qualità dello stesso metallo, il quale una volta sepolto nella terra, se non venga a trovarsi in condizicni affatto eccezionali, rapidamente si altera, ed a segno che perde la forma che prima aveva. L’epoca nostra è un'epoca di febbrile attività nella quale uno vive di più in dieci anni di quello non si vivesse prima in cinquanta. Il ferro è la più splendida espressione di questa epoca; esso ci aiuta, ci ac- compagna nella ansiosa corsa, ma come noi rapidamente si consuma. A sinistra del Po ed a partire da Crissolo fin sotto a Borgo si eleva uno stretto rialzo di roccia formato in gran parte di calcescisti; esso chiude le varie Combe dall’assieme delle quali trae nome la Ciampagna di Crissolo, ed obbliga le acque da esse discendenti a riunirsi in un torrente che poi si getta nel Po là ove il rialzo cessa, tagliato quasi a picco su un'altezza di forse oltre i 100 metri. Il santuario di San Chiaf- fredo è fabbricato su quel rialzo e proprio vicino al ciglio del precipizio col quale termina, di modo che, dietro la chiesa, e tra questa ed il muricciuolo, che provvidamente si costrusse sull’orlo del precipizio, vi ha un passaggio non più largo, in alcuni punti, di un metro. Nel 1860, a pochi passi di distanza dalla chiesa, si mise a nudo il sotto suolo di roccia onde estrarne materiali di costruzione dei quali si aveva bisogno per nuove fabbriche. Levati pochi centimetri di terra si scopersero alcuni lastroni che chiudevano il vano di una tomba scavata nel sasso nella quale giaceva uno scheletro ; le ossa furono trasportate nel cimitero, e la tomba venne distrutta nel proseguire gli scavi. Tre anni dopo, cioè nella primavera del 1863, occorrendo di mettere a nudo altro tralto di roccia, si scoperse una nuova tomba ch'io potei esaminare nel successivo agosto. Anche questa tomba racchiudeva uno scheletro il quale andò guasto in modo che alcuni mesi dopo io più non potei vederne che i frantumi; cosa tanto più da rimpiangere in quanto che seppi che il cranio era perfettamente conservato. Nelle due tombe non si trovarono, assieme agli scheletri, oggetti di sorta; udii però da ta- Inni parlare di anelli o braccialetti di bronzo, La tomba era scavata qTI2 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. nella viva roccia (calcescisto ), ed il lavoro ben condotto. Vi era un incavo (fig. 5, Tav. X) per ricevere il capo; quindi l’incavo s’allargava per ricevere le spalle ed il torso, ed infine le pareti della infossatura correvano, lievemente convergendo una verso l’altra, nella direzione dei piedi ove mancava la parete terminale distrutta nelle precedenti escavazioni. La lunghezza del vano era di 1”, Go (notisi l’accennata assenza della parete che lo chiudeva alla estremità inferiore ); la lar- ghezza media di o", 60, e la media profondità (una delle pareti era più bassa dell'altra a motivo della. pendenza del suolo) di 0”, 5o. Il fondo dello scavo non correva perfettamente orizzontale, ma presen- tava un vano più profondo in corrispondenza del dorso. Verso la parete destra vedevasi la roccia alterata e corrosa dall’acqua la quale, pene- trando per le connessure dei lastroni che coprivano il vano, era costretta a soffermarsi verso quella parete - prima di farsi strada nella massa della roccia - perchè in quel senso trovansi inclinati gli strati, mentre molto ben conservata mostravasi la parete sinistra. Attentamente esa- minando la quale parvemi vedere che l’escavazione non sia stata prati- cata cogli strumenti oggidì in uso per tali lavori, cioè colla punteruola, ma bensì con strumento a largo taglio. Trovai quella tomba molto cu- riosa e per me nuova, non avendo mai prima visto la forma del sar- cofago egizio nei nostri paesi (1), nè tombe scavate in roccia relativa- mente così dura. Non sono queste le prime tombe scoperte in quel luogo nei secoli trascorsi, ed io era indotto a sperare che non sarebbero le ultime; pregava perciò i signori Parroci di Crissolo e di Ostana, nonchè il sig. Notaio Araldo, Segretario di quel comune, ed una delle persone più colte e più benemerite di quella vallata, a volermi avvertire nel caso venissero a farsi nuove scoperte, e la mia propaganda portò buon frutto. Nello stesso territorio e a non considerevole distanza da quelle già sopra descritte rinvenivasi accidentalmente, l’anno scorso, una nuova tomba, la quale, sebbene meno singolare per la sua natura e forma, ci offerse tuttavia oggetti da cui possiamo con qualche approssimazione dedurne l'età. Trascrivo qui la lettera indirizzatami dal Reverendo D. LecNARDI, Parroco del luogo, onde darmi notizia della scoperta ed offrirmi in pari (1) In questo caso però la forma da darsi alla tomba veniva suggerita dalle circostanze, onde diminuire la cubatura del vano e risparmiare un grave lavoro. PER B. GASTALDI. I13 tempo gli oggetti rinvenutivi i quali oggidì conservansi nel nostro Museo Civico (Tav. X, fig. 4, 6, 7,9 € 10). « Scavandosi le fondamenta per una casa nella pianura precisamente » sottostante al Santuario di San Chiaffredo, alla profondità di due » metri circa ove il terreno è tutto ghiaioso, facendo da tumulo quattro » lavagne (1), si sono rinvenuti avanzi di corpo umano, fra cui parte » del cranio, altro osso del capo, il mento, un femore ecc. ed il più » singolare, catenelle ed altri oggetti che paiono essere di rame. Erasi » anche trovata una moneta — con 7/ratto patentissimo - del peso » di un doppio nostro soldo, ma peccato che avendola voluto battere » con un sasso per vedere se era oro, dicono che andò tutta in » frantumi ». Dall’essersi rinvenuta in quella tomba una moneta con effigie evi- dentissima - moneta però che niuna persona colta ha visto - non converrebbe inferirne che la tomba fosse romana, tanto più che igno- riamo se la moneta si trovasse cogli altri bronzi presso lo scheletro. Questi bronzi d'altronde sono simili a quelli scoperti a Sesto Calende, a quelli di Marzabotto, a quelli di Hallstadt ed a tanti altri che oggidì si ha l'abitudine di chiamare Etruschi. Comunque, la scoperta di una serie di tombe antiche in remota ed elevata parte (1380 m. circa) di una delle nostre valli alpine, ai piedi di uno dei poco frequentati passi per Francia, mi è parso un fatto interessante e meritevole di venir segnalato (2). SCALDASOLE (Pavia). Sono probabilmente di epoca romana gli oggetti che raffigurai ai N 9, 12 e 13 della Tavola VIII, una fibula cioè di rara conservazione e due vasi di terra cotta fabbricati col sussidio del torno, ornati a graffito e per impronta. Questi oggetti li ebbi in dono dal sig. Cav. An- tonio StRrapA il quale li rinveniva insieme a molti altri nello spianare, (1) Probabilmente lastroni di calcescisto. (2) Con lettera del 23 maggio il sig. ARALDO mi annuncia che al Santuario di San Chiaffredo fu scoperla una nuova tomba costrutta di lastroni, entro la quale vi era lo scheletro di un fanciullo. La tomba giaceva sulla roccia in posto, e questa, là ove posava il cranio, pareva fosse stata incavata collo scalpello. Serie II. Tom. XXVI. P I 14 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. alcuni anni sono, il suolo di un suo fondo nei dintorni di Scaldasole. Vasi dello stesso genere ma di dimensioni molto maggiori furono sco- perti sulle fim di Vercelli nell’aprire il Ganale Cavour. Utensili di cloritescisto granatifero. — Già altra volta notai un fatto degno di qualche attenzione, trovarsi cioè nell'Italia centrale e nell'Emilia frammenti di utensili di un cloritescisto granatifero con laminette di Sismondina e mosche di calcopirite, il quale sinora non si conosce in posto che nella valle di Aosta e più particolarmente a St-Marcel ed in altre località nelle quali vi sono masse più o meno estese di calcopirite. Oggidì si è di molto accresciuto il numero delle località nelle quali si rinvennero di quelli utensili. Ne ebbi frammenti dall’Imolese, dal Bolognese, dal Reggiano (Emilia), dal Parmigiano, dal Tortonese, dalle Langhe, e finalmente il sig. Ca- nonico Gar - la cui recente morte è una grave perdita per l’archeo- logia della valle d'Aosta - me ne comunicava una serie proveniente dai luoghi stessi nei quali si trova la madre-roccia ed ove probabil- mente furono lavorati. Sono vasi più o meno intieri i quali, per qualche imperfezione o per parziale rottura, vennero rigettati prima di essere terminati (fig. 2, Tav. VII); più frequentemente sono residui della loro fabbricazione, cioè anime o cilindri interni (fig. 13) che servirono di asse, di sostegno quando sul torno si procedeva alla lavoratura; oppure sono di questi cilindri interni ai quali va unito il fondo (fig. 1), od una parte più con- siderevole del vaso non terminato perchè rottosi mentre lo si lavorava. Di questi frammenti di vasi, di questi cilindri o fusi di cloritescisto granatifero e talvolta anche di pietra ollare se ne trova ad Ayas una ragguardevole quantità: il Canonico Gar mi scriveva che se ne fanno dei muri a secco. Altri vennero scoperti al Pezit-monde, un altro a Gignod, e finalmente altri a Valtournanche où il y avait aussi, sog- giungevami, une fabrique de ces vases.. Al N° 8 della Tavola VII ho delineato un frammento di uno di questi vasi che si rinvenne presso uno scheletro scoperto alcuni anni sono nei dintorni di Caluso. Oltre al vaso di pietra ve ne era un altro di terra di accurata fabbricazione con ornati a stampo di forma singo- lare (fig. 4); presso allo stesso scheletro si rinvennero altresì la cuspide di lancia e l’accetta di ferro che raffigurai ai N 5 e 6, non che pezzi PER B. GASTALDI. 115 di armatura dello stesso metallo (fig. 7), alcuni dei quali portano una specie di bottone (fig. 9) altresì di ferro ma ricoperto da lamina di rame e questa ricoperta a sua volta da lamina di oro, sulla quale sono incise varie figure. Analoghi pezzi di armatura con bottoni di ferro ricoperti di oro e con figure dello stesso genere (fig. 10) furono trovati alcuni anni sono presso ad uno scheletro scoperto nei dintorni di Troffarello. Devo la comunicazione di questi oggetti alla cortesia del sig. Professore Rossi, Assistente nel nostro Museo d’Antichità. TORTONA. Scavandosi nel 1866 presso a Tortona un deposito di terra nerastra, il quale presenta qualche analogia con una marniera rimaneggiata, si rinvennero parecchi oggetti antichi fra i quali noterò una quantità gran- dissima di monconi di corna cervine tagliate grossolanamente da una parte con accetta, e segati con molta precisione dall’altra; noterò altresì alcuni rami laterali di tali corna diligentemente lisciati ed ornati di figure (fig. 18, Tav. VIII), alcune fusaiuole di terra cotta e frammenti dei già SA vasi di cloritescisto granatifero. Per dare un'idea della ricca messe che un archeologo può aspet- tarsi da scavi praticati nei dintorni di questa città, trascriverò qui la lettera colla quale il sig. Professore Wolf accompagnava il grazioso invio che egli mi faceva degli oggetti qui sopra nominati e di altri la cui descrizione sarebbe qui fuori luogo. « Spedisco quest'oggi all'indirizzo di V. S. una cassetta contenente » due cranii ed una quantità di corna di cervo da me raccolte in questi » dintorni. Questi oggetti se per ventura non appartengono alla primi- » tiva civiltà delle marrniere e delle palafitte lacustri, potranno forse » occupare un posto di utilità secondaria in una raccolta, e venire a » taglio come opportuni termini di confronto. » Su due cranii ella troverà notate le indicazioni della loro pro- » venienza; le tombe da cui li tolsi sono, come al solito, i sepolcri » romani meno cospicui dell’Italia superiore, costrutte di mattoni e » coperte di tegole, queste ultime essendo appoggiate le une alle altre » in guisa di un prisma o tetto. La direzione dell’asse dell'una e dell’altra 116 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. ») tomba è levante-ponente, il capo dello scheletro a ponente, i piedi a levante. Nessun altro oggetto, per quanto tormentassi le ceneri e la terra racchiuse nelle tombe. » Le corna furono dissotterrate - e se ne dissotterrano tuttora - in occasione degli scavi che si fanno qui in Tortona per utilizzare, per la concimazione dei prati, una estesa zona di terriccio nero che circonda la città dal lato di ponente. Questa zona comprende anzi- tutto i terrapieni e spalti delle fortificazioni erette dagli Spagnuoli verso il 1670, ma si estende pure al di là di questi, abbracciando buon tratto degli attigui campi ed orti già occupati dai borghi e sobborghi, ora distrutti, dell'antica città. Per ogni dove, frammisto ad una grande varietà di oggetti dovuti all’industria romana ed a quella medievale, quel terriccio riposa immediatamente sopra uno strato, non so quanto profondo, di terra tufacea che forma l’antico suolo naturale di tutta la pianura Tortonese. » Lo spessore del terriccio non è uniforme, ma varia, secondo i luoghi, dai 2 ai 4 metri; dovunque gli scavi giungono ad una pro- fondità, proporzionata a tale misura, si scopre l’antico suolo tufaceo, intersecato da un intricato labirinto di fondamenta, di case, di pa- vimenti in mosaico ed altri, cisterne, pozzi, pilastri, condotti d’acqua e via dicendo. Le quali circostanze tutte indicano essere il terriccio stato trasportato in quei luoghi per ridurli di nuovo ad una unifor- mità di livello richiesta dalle esigenze, sia dell’agricoltura, sia dell’ar- chitettura militare. » Le corna si dissotterrano nel lembo estremo di quella zona di terriccio, cioè pochi passi fuori della porta di S. Martino entro V’an- golo che la strada di Voghera (l’antica via Emilia) forma con la nuova strada di circonvallazione. Esse si scopersero esclusivamente nella parte più bassa dello strato di terriccio, tutta sul medesimo piano orizzontale, e quasi sempre in punti in cui il terriccio è in immediato contatto con l’antico suolo tufaceo. Non sono mai accu- mulate in un punto, ma piuttosto sparse qua e là sopra uno spazio che sinora abbraccia un’area di 50 a Co metri quadrati, ma che sembra volersi allungare a misura che gli scavi progrediscono. » Insieme alle corna si trova pure una discreta quantità di ossa intiere e rotte, queste ultime però in tale stato da non rispondere al quesito se le rotture siano operate dal caso o da una volontà PER B. GASTALDI, 117 » intelligente. Esaminando le corna ella troverà sopra molte di esse » la traccia di un lavoro incominciato e non condotto a termine. Col- » pito dall’analogia di quest’ultimo fatto con le scoperte fatte nelle » marniere dell'Emilia, esaminai di nuovo quella terra cornifera sperando » di trovare altri oggetti atti a formare nuovi e più forti anelli di unione » fra queste corna e le marriere, ma non mi venne fatto di scoprire » altro che le tre fusaiuole che troverà nella cassetta. Tutti gli altri » oggetti racchiusi in quella terra (segnatamente una gran quantità di » frantumi di vasellame ) sono di fattura romana; anzi sul medesimo » piano orizzontale in cui si rinvengono le corna, fu, di questi giorni, » dissotterrato un mosaico romano ». Non posso chiudere questa breve rassegna senza porgere i miei sinceri ringraziamenti a tutte quelle persone che, con doni, con infor- mazioni, con ogni maniera di cortesia vollero rendermi più facile e meno oneroso il compito che mi era proposto, quello di formare una modesta raccolta di oggetti preistorici del mio paese. Onde poi quelle persone non abbiano a temere che gli oggetti donatimi vadano un giorno guasti e dispersi, io stimai fosse mio dovere deporre la fatta raccolta in un pubblico stabilimento, e la donai perciò al Museo Civico di Torino, colla persuasione che il Municipio nostro, cui tanto sta a cuore il ben essere e la coltura de’ suoi amministrati, vorrà con cura custodire, e con nuovi acquisti arricchire la serie di queste venerande reliquie degli avi nostri. D, DI ti IOTRI o prodi: bi g i Pig sian [bai QUADRO DEI PRINCIPALI CARATTERI DELLE ROCCIE SS IN CUI SONO TAGLIATE ALCUNE DELLE ACCETTE TROVATE IN ITALIA R. M. Raccolta Mineralogica della Scuola di Applicazione degli Ingegneri al Valentino. R. P. Raccolta Palecetnologica del Museo Civico, (N.° 20054 della R. M.) Accetta di pietra verde alla quale la levigatura dà un color verde-intenso quasi nero; struttura granosa, cristallina. La roccia è apparentemente composta di due minerali, uno dei quali di un bel colore di verde serpentino, l’altro verde intenso quasi nero. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto scuro. Resiste alla lima. Pesa grammi 364. Provenienza ignota: probabilmente delle colline delle Lanshe. (N.° 20055 della R. M.) Accetta di pietra di color verde scuro a struttura cristallino-scistosa. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lam- pada ad alcool in smalto grigio. Resiste alla lima. Pesa grammi 138 Dn=3,405 a 14°, 5 C (1). Provenienza ut supra. (N.° 20056 della R. M.) Accetta di pietra di color nero all’esterno e di un bel verde sulla faccia di frattura fresca. Struttura cristallina. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Resiste alla lima. Pesa grammi 81. Dn = 3,417 a 14°, 5 C . Provenienza ut supra. (N.° 5916 della R. M.) Accetta di pietra di color verde chiaro macchiet- tato di bianco; classificata per saussurite nella raccolta metodica di mi- nerali. La scritta la indica coll’appellativo di ferro di lancia e dà per luogo di provenienza Torino. Fonde alla semplice fiamma della lam- pada ad alcool in smalto bianco ; resiste alla lima. Pesa grammi 89. Dn=3,318 a 149, €. (N.° 15 della R. P.) Accetta di pietra di color verde; struttura finamente (1) Tutte le densità che figurano in questo Quadro vennero determinate dal sig. Dottore G. STRUvER Assistente alla Cattedra di Mineralogia della Scuola di Applicazione degli Ingegneri. 120 No O DATO DA NINO A »e 40. Dosi 12. ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. granosa; minutissimi granati e piriti decomposte in limonite sono disse- minati nella massa con disposizione regolare a strati. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto bruno, ed al cannello in smalto nero. Resiste alla lima. Pesa grammi 158,5. Dn = 3,483 a 149,5 C. Torbiera di Borgoticino (Tav. VI, fig. 1). . (N.° 16 della R. P.) Accetta di pietra di color grigio giallastro all’esterno e di color verde pallido nell'interno della massa. Struttura granosa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto bianco ed al cannello in smalto giallognolo. Scalfitta dalla linea; polvere gial- lognola; la roccia è superficialmente alterata. Pesa grammi 142. Dn=3,323 a 14° C. Torbiera di S. Giovanni del Bosco, frazione di S. Martino Ca- navese (Tav. VI, fig. 2). (N.° 18 della R. P.) Accetta di pietra verde largamente macchiata di bianco. Struttura compatto granosa; diafana nelle scheggie sottili. Ha qualche rassomiglianza con alcuna delle nostre Eufotidi. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto bianco. La parte verde resiste alla lima; quella bianca è con difficoltà scalfitta. Pesa grammi 64, 74. Dn=3, 248 a 16° C. Clavesana, regione Sabbionera (Tav. VI, fig. 4). (N.° 19 della R. P.) Accetta di pietra di color verde chiaro; struttura cristallina: opaca anche verso il taglio, diafana nelle scheggie sottili. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde- chiaro; resiste alla lima. Pesa grammi 400. Belforte presso Ovada. (N.° 20 della R. P.) Accetta di pietra, esternamente nera e verde pallida sulla faccia di frattura fresca; diafana e verde pallido nelle scheggie sot- tili; struttura granosa. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool. Difficilmente scalfitta dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 68. Dn=3, 560 a 16° €. Ascoli (Tav. VI, fis. 3). (N.° 21 della R. P.) Accetta di pietra di color verde, a struttura quasi granitoide ed apparentemente composta di tre elementi; di un minerale cioè di color verde carico, di un altro di color verde chiaro e di un ferzo «di color bianco disseminato per lo più in cristalli nella massa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto chiaro ; non è scalfitta dalla lima. Pesa grammi 32. Dn=3, 302 a 14° C. Ascoli (Tav. VIII, fig. 19). (N.° 48 della R. P.) Accetta di pietra di color verde carico; struttura granosa; molte piriti sono disseminate nella massa; fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero; resiste alla lima. Pesa grammi 304. Tra il Varo e l’Esteron (Tav. II, fig. 7). (N.° 49 della R. P.) Accetta di pietra di color verde carico; struttura granosa; fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde bottiglia; resiste alla lima. Pesa grammi 198. Dn=3,386 a 14°, 5 €. Tra il Varo e l’Esteron (Tav. II, fig. 4). 16. 19. 20. PER B. GASTALDI. I2L (N° 50 della R. P.) Accetta di pietra di color verde scuro con leggiere striscie di sostanza rossigna, probabilmente granatica regolarmente in- tercalata nella massa, la cui struttura generale è granoso-scistosa. Pare vi sia abbondante la clorite. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto grigio. Resiste alla punta d'acciaio. Pesa grammi 78. Dn=3,454 a 14°,5 C. Tra il Varo e l’Esteron (Tav. II, fig. 6). (N.° 51 della R. P.) Accetta di pietra di color verde scuro a struttura sranosa con disseminate piriti che superficialmente si ridussero in li- monite. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Resiste alla lima. Pesa grammi 84. Dn=3,373 a 14°, 5 C. Tra il Varo e l’Esteron (Tav. II, fig. 5). (N.° 53 della R- P.) Accetta di pietra di color verde scuro omogeneo ; struttura granosa. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto scuro. Resiste alla lima. Pesa grammi 150. Dn=3, 432 a 14°,5 C. Tra il Varo e l’Esteron (Tav. II, fis. 8). (N. 55 della R. P.) Accetta di pietra di color verde intenso quasi nero; diafana nelle scheggie sottili; formata di due minerali uno quasi traspa- rente e di color giallastro, l’altro opaco e nero disseminato nella massa del primo. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Resiste alla lima. Pesa grammi 21. Dn=3, +09 a 14°, 5 C. Sardegna. (N.° 139 della R. P.) Accetta di pietra di color verde intenso, esternamente e di color verde chiaro sulle faccie di fresca frattura; struttura granoso- cristallina. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto grigio. Difficilmente scalfitta dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 262. Dn=3, 412 a 14°, 5 C. Tra le Terme di Vinadio e le Pianche (Tav. IX, fig. 3). . N.° 140 della R. P.) Accetta di pietra di color verde intenso, quasi nero all’esterno, e di color verde chiaro sulle faccie di fresca frattura. Strut- tura granoso-cristallina. Piccoli arnioni sferici di una sostanza di color verde più chiaro sono sparsi nella massa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Resiste alla lima. Pesa grammi 67, 5. Dn=3,434 a 14°, 5 C. Colla-lunga, valle della Tinea (Tav. IX, fig. 2). (N.° 158 della R. P.) Accetta di pietra di un bel verde di serpentino; struttura granosa; quasi opaca anche nelle minute scheggie. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool. Scalfitta con difficoltà dalla lima. Pesa grammi 27. Dn=3, 437 a 15° C. Neive presso Alba (Tav. IV, fig. 1). (N° 165 della R. P.) Accetta di pietra verde a struttura granoso-scistosa, apparentemente composta di due minerali uno dei quali di color verde carico e l’altro di color verde chiaro. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde. Scalfitta dalla lima, polvere grigia. Pesa grammi 600. Garessio, valle del Tanaro (Tav. V, fig. 6). . N° 166 della R. P.) Accetta di pietra verde con disseminate macchiette Serie II. Tom. XXVI. Q 23. to > vo (DI 26. 29. ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. di sostanza bianca talvolta con forme regolari di cristalli, dimodochè pare a prima vista un porfido a pasta verde; rare laminette di clorite sono altresì disseminate nella pasta. La roccia ha qualche analogia con talune saussuriti. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero, resiste alla lima. Pesa grammi 91. Dn=3, 409 a 14°, 5 C. Monforte d’Alba (Tav. V, fig. 4). (N.° 167 della R. P.) Accetta di pietra di color verde scuro con zone di color rossastro (granato ? ); struttura scistosa come quella del N.° 50 della R. P.; l'accetta è anzi rotta nel senso della scistosità. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde. Inattaccabile dalla lima. Pesa srammi 64,8. Dn=3,437 a 14° C. La Morra (Langhe). (N.° 171 della R. P.) Accetta di pietra di un bel verde di serpentino, con macchie nere; struttura cristallina; in scheggie sottili è diafana e di un bel verde smeraldo. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde. Resiste alla lima. Pesa grammi 49, 5. Dn=3, 362 a 15° C. Monforte d’Alba. (N° 172 della R. P.) Accetta di pietra di color verde carico con tendenza all’azzurro e macchie di verde nerastro che le danno l’aspetto variolitico ; struttura scistosa; nei piani di scistosità vi è quantità notevole di mica gialla. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta dalla lima, polvere grigia. Pesa grammi 114,5. Dn=3,568 a 14°,5 C. Monforte d'Alba. (N.° 173 della R. P.) Accetta di pietra di color verde con leggiera tinta di azzurro; struttura cristallina. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde. Resiste alla lima. Pesa gram- mi 140, 6. Dn=3,496 a 14° C. Monforte d’Alba. (N.° 174 della R. P.) Accetta di pietra di color nero all’esterno con larga macchia di verde; di un bel verde sulla faccia di fresca frattura. Strut- tura finamente cristallina e scistosa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde. Resiste alla lima. Pesa grammi 97,5. Dn =3,389 a 14°,5 C. Vesimo (Appennino Ligure). (N.° 179 della R. P.) Accetta di pietra di un bel verde con venuzze di verde più carico e disseminate alcune macchiette perfettamente bianche. Struttura finamente cristallina, quasi compatta. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Pesa grammi 315 Caresana presso Vercelli (Tav. V, fig. 2). (N.° 230 della R. P.) Accetta di pietra di color verde grigiasiro a strut- tura cristallino-scistosa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta dalla lima (la pietra pare alquanto al- terata). Pesa grammi 97. Dn=3, 413 a 14°, 6 C. Dogliani. Tav. V, fig. 5). (N.° 238 della R. P.) Accetta o scheggia appena sbozzata di pietra di color verde pallido e struttura granoso-scistosa; diafana sugli spigoli delle scheggiette sottili. Fonde facilmente alla semplice fiamma della N.° 30. PER B. GASTALDI. 123 lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta difficilmente dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 103, 6. Dn=3,155 a 13°, 5 C. Rocchetta- Cengio (Tav. VIII, fig. 8). È (N° 239 della R. P.) Accetta di pietra di color giallognolo all'esterno, di color verde pallido sulla faccia di fresca frattura. Struttura granoso- scistosa. Non fonde alla semplice fiamma ad alcool; fusibile al cannello in smalto nero. Facilmente rigabile dalla lima; polvere giallognola; evi- dentemente la pietra è alterata. Pesa grammi 131,5. Dn= 2, 902. Roc- chetta-Cengio (Tav. VIII, fig. 7). (N.° 240 della R. P.) Accetta di pietra di color verde grigio pallido; di color verde più deciso sulle faccie di fresca frattura. Struttura granoso- scistosa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta dalla lima; polvere giallognola; evidentemente. la roccia è alterata. Pesa grammi 64,5. Dn=3,248 a 13°, 5 C. Rocchetta-Cengio (Tav. VIII, fig. 6). (N.° 241 della R. P.) Accetta di pietra di color verde sbiadito, finissi- mamente macchiettata di punti quasi neri, e con alcuni cristalli di fel- dispato bianco disseminati nella massa; struttura compatta porfiroide. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ‘ad alcool in smalto giallo scuro. Resiste alla lima. Pesa grammi 90, 6. Dn =3, 477 a 16° C. Piana, valle della Bormida. (N.° 242 della R. P.) Accetta finissimamente levigata che conserva ancora il suo taglio perfetto; di color verde porro; diafana verso il taglio; massa compatta che presenta internamente screpolature irregolari. Venne dal signor DamouR classificata per giadeite. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto bianco. Pesa grammi 39. Dn=3,333 (Damour). Resiste alla lima. Piana. (Tav. IX, fig. 5). (N.° 245 della R.P.) Accetta di pietra di un bel verde smeraldo a strut- tura compatto-scistosa con letti alterni di verde e di bianco; questi più esili degli altri macchiano di bianco il verde della roccia. Diafana verso il taglio. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto verde chiaro. Resiste alla lima. Pesa grammi 235. Probabil- mente è un eufotide a smaragdite. Dego (Tav. IV, fig. 4). . (N.° 246 della R.P.) Accetta di pietra di color verde; struttura cristallino- scistosa. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta difficilmente dalla lima. Pesa grammi 292. Tra Piana e Dego, valle della Bormida. (N.° 247 della R.P.) Accetta di pietra di color verde carico con macchie di verde meno intenso; struttura cristallino-scistosa. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Facilmente scalfitta dalla lima. Pesa grammi 228. Camerana (Tav. VI, fig. 5). . (N.° 248 della R. P.) Accetta di pietra verde; struttura cristallino-compatta con molte piccole piriti e forse anche granati disseminati nella massa. 124 N.° 38. 41. vs =t ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool. Resiste alla lima. Pesa grammi 287. Squaneto-Spigno (Tav.III, fig. 4). (N.° 249 della R.P.) Accetta di pietra di color verde scuro vaiuolata di verde più chiaro; struttura cristallina con tendenza alla scistosa. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool. Scalfitta dalla lima. Pesa grammi 212,5. Dn=3,422 a 14°C. Calizzano (Tav. III, fig. 2). (N° 250 della R. P.) Accetta di pietra verde a struttura cristallino-scistosa con strati di color verde giallo alternanti con altri di verde scuro; dis- seminate piccole piriti e macchie bianche, talune con punto verde nel centro, altre a forma regolare di cristalli. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool. Resiste alla lima. Pesa grammi 230. Piana (Tav. III, fig. 5). (N.° 251 della R. P.) Accetta di pietra di color verde scuro con macchiette bianche a siruttura compatta. Fonde alla semplice fiamma della lam- pada ad alcool in smalto chiaro. Scalfitta dalla lima. Pesa grammi 76. Dn=3,213 a 14° C. Cosseria (Tav. V, fig. 3). (N.° 252 della R. P.) Accetta di pietra verde a struttura compatta (roccia simile alla precedente). Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool. Difficilmente scalfitta dalla lima. Pesa grammi 4181, 68. Dn=3,423 a 17° 5 C. Tra Piana e Dego, valle della Bormida. (N.° 253 della R. P.) Accetta di pietra verde vaiuolata di verde più chiaro. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta dalla lima. Pesa grammi 53,7. Dn=3, 202 a 17° C. Dego: (N. 254 della R. P.) Accetta di pietra verde vaiwolata di bianco; struttura compatta. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Sealfitta dalla lima. Pesa grammi 117,7. Dn=3, 387 a 17° C. Dego. (N.° 255 della R. P.) Accetta di pietra di color nero all’esterno e di un bel verde sulle facce di fresca frattura. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Pesa grammi 97. Dn=3,498 a 17° €. Cosseria. (N.° 256 della R. P.) Accetta di pietra verde a struttura ‘un po’ scistosa con disseminati piccoli granati e piriti? Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto chiaro. Difficilmente scalfitta dalla lima. Pesa grammi 145. Dn=3,305 a 17° C. Dogliani. (N.° 257 della R. P.) Accetta di pietra di color verde; struttura compatta. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool. Scalfitta dalla lima. Pesa grammi 134. Dn=3, 310 a 17°C. Piana. (N.° 258 della R. P.) Accetta di pietra di color verde a struttura compatta con macchie di limonite provenienti da piriti . decomposte. Fonde facil- mente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta dalla lima. Pesa grammi 138,8. Da=3, 468 a 17° C. Dego US Ss (SA. (DA j Ol 8. d PER B. GASTALDI. 125 (N° 259 della R. P.) Accetta di pietra di color nero all’esterno e di un bel verde pallido per trasparenza nelle scheggie sottili. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto di tinta chiara. Resiste alla lima. Pesa grammi 129,9. Dn=3,346 a 17°C. Dego. (N.° 260 della R. P.) Accetta di pietra di color nero all’esterno; di color verde per trasparenza nelle scheggie sottili; struttura cristallino-granosa, formata di due minerali, uno trasparente e l’altro opaco. Fonde facilmente alla fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Hesiste alla lima. Pesa grammi 84,7. Dn=3,402 a 17° C. Cairo. . (N° 262 della R. P.) Accetta di pietra di color verde scuro all’esterno, di verde chiaro sulle faccie di fresca frattura; struttura granosa. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Difficilmente scalfitta dalla lima. Pesagrammi79. Dn = 3,388 a 16° C. Dego. (N.° 263 della R. P.) Accetta di pietra perfettamente nera, a struttura compatta, a frattura quasi concoide; le scheggie sono perfettamente opache e nere. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto giallastro. Difficilmente scalfitta dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 66,6. Dn=2,762 a 15°, 5 C. (Il signor Dawour la classificò per afanite). Dego. (N° 264 della R. P.) Accetta di pietra di color nero all’esterno, verde per trasparenza nelle scheggie sottili; struttura granosa, frattura irregolare; molte piriti disseminate nella massa. Fonde facilmente alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 230. Dn= 3,424 a 14°, 5 C. Dego. (N.° 265 della R. P.) Accetta di pietra di color nero all’esterno, verdo- gnola sulla faccia di fresea frattura. Struttura granosa. Fonde difficilmente alla semplice fiamma della lampada ad aleool in smalto chiaro. Scalfitta dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 164 Dn =3, 260. Dego (Tav. 1V, fig. 2). . (N° 266 della R. P.) Accetta di pietra perfettamente nera all’esterno; diafana nelle scheggie sottili e di color verde pallido per trasparenza. Struttura granosa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto giallo scuro. Difficilmente scalfitta dalla lima, polvere grigia. Pesa grammi 25,7. Dn=3,390 a 45°, 5 €. Dego (Tav. III, fig. 3). (N° 267 della R. P.) Accetta di pietra di color verde pallido con macchie bianche. Diafana sugli spigoli delle seheggie sottili. Struttura granosa; molte piriti disseminate nella massa. Fonde alla semplice fiamma della lampada ad alcool in smalto nero. Scalfitta dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 138. Dn=3, 404 a 13° 5 C. Rocchetta Cengio. (N° 268 della R. P.) Accetta di pietra di color verde pallido. Diafana nelle scheggie sottili. Struttura granosa. Fonde alla semplice fiamma ad alcool in smalto nero, Sealfitta dalla lima; polvere grigia. Pesa grammi 157. Dn=3, 227 a 14°,5 C. Rocchetta Cengio. 126 ICONOGRAFIA DI ALCUNI OGGETTI DI REMOTA ANTICHITÀ ECC. QUADRO RIASSUNTIVO DELLE DENSITÀ —_—us©e-_ N.° d’ordine del Quadro precedente Densità RA SR Pietra nera Afaniîte...... Dn=2,762 FIN Rot no Gadeter tie Dn=3, 333 Cloromelanite ed altre pietre verdi. N.° d’ordine N.° d’ordine del Quadro precedente Densità del Quadro precedente Densità DAI PIENA (o EIA Dn=3,405 DR RE Ri) Dn=3,413 RR N So Dn=3,417 DI a RS D'ni 55 DO IE INZONA DISTA Dn=3,318 CS a Dn= 2,902 BARRE RIEN RINO N Dn=3,483 SLA A te dei Dn=3, 248 CIRIE et Dn=3,323 BR, CRICETI NI Da=3,477 MS RI RA RE Dn=3, 248 BIOS A At Dn=3, 422 QRRLLORE AIA. IRON Dn=3,560 LORI, NONO ARTE Dn=3,213 LE a SI Dn=3,302 ATTRA Leo Dn=3,423 AO Ie af Dn=3,386 COLARE Gio iO Dn=3,202 ANSEDERAZE, ITA TO A Dn=3, 454 DESTRI RESI RT Dn=3,387 A APNEA ZZZ A ARR, Noa Dn= 3,373 SES DL RROREOSni Dn=3, 498 NARO, Sr e I Dn=3,432 DAR SERA. SI SERRE, Dn=3, 305 TO Inn Dn=3,409 IO o e Dn=3,310 UR A ISTANTE Dn=3,412 RE AS Dn=3,468 AO APNEA A Dn=3,434 CAS PAGICA OOO if Dn=3,346 NOE MENTA Dn=3,437 ROL SRO OANE, PEPNDAI Dn=3,402 Di O VR IEEALEL ROL Dn=3,409 E AA RES I Dn=3,388 QIAE ola ANI CURTIS Dn=3,437 LYN SAI RNA co ..Dn=3,421 DIE I I GERORI: Dn=3, 362 BIRRE E RE MEMBRA Dn= 3,260 QUAI SATA Dn=3, 568 BUE OR ro Dn=3, 390 PR i SE Dn=3,496 ee ee Dn=3,404 DARE Dn=3, 389 BOTT ATI Dn=3, 227 Fig. 2. 3. 43. » SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA | Strumenti litici dell’Imolese (Museo Civico di Imola). 14. — Cuspidi di selce piromaca, tipo ABBEVILLE. 4. 7. 8. 9. 10. 44. - CGuspidi di selce piromaca. A. 5. — Martelli di afanite ? 6.12. - Accette di pietra levigata. e Matematiche - Sori IV Pol. XXVZ. - RHasse dv Scienze Fidi LO'AVLO io, da eSciemze remi Reale delle Accad Iav 1 Lvino LF Doyen Ficcone Lt 5 sp ’ - r i Ù pi A “A ARP RISAIE € f D=WII5N0L “Re DARE atri9y sal td IRR TE MeanotoT SOT Conv nai bad Ae Aide Manozolt) sorti a 0187 li en ovvi n) s SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA II Fig. 4. - Accetta di pietra verde. S. Germano di Pinerolo. » 2. — Accetta di pietra verde. Nizza al mare (Museo di Genova). » 3. — Accetta di pietra verde (variolite). Nizza al mare (Museo di Genova). » 4-8.- Accette di pietra verde. Giletta, Torretta-Revest, Todone e Pietra- fuoco, tra il Varo e l'Esteron (Museo Civico di Torino). Tav. I. PA. XAVI MO ACQ d. e Mat. Se fi lasso di OOUVIVLO - di ec Accad ile delle Zorinio TibF® Doyen. Ficcone lt bio dmtoià ID € RAI Cat di | SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA IH Accetta di pietra Accetta di pietra Accetta di pietra Accetta di pietra Accelta di pietra verde. verde. verde. verde. verde. Carcare. Collezione Ienina. Calizzano (Museo Civico di Torino). Dego (Museo Civico di Torino). Souaneto Spino (Museo Civico di Torino). Piana (Museo Civico di Torino). Lav Ill A. XXV. So (6 ar 9) d. e Var Serre L Sc; TG lasso, d IVO U Do L Aecad. Adele Sc.d (dit: ERE Loi Doyer . Torino Li Hicone Lit RRFIMSIAON y 14 ARIE cd o, feat Cra 1x9) I SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA IV Accetta di pietra verde. Neive, Alba (Museo Civico di Torino). Accelta di pietra verde. Dego (Museo Civico di Torino ). Accetta di pietra verde. Briga, presso Borgomanero. Collezione del sig. Conte Luigi Lronarpi. Accetta di pietra verde. Dego (Museo Civico di Torino). VENIIA L. XXVI. So X A oo volere asse di SE. Sile Ss Borno -O A Aocsd AE delle Sd Zik.F® Doyer. lorino Io, Pircone let SALTI TANTA Rn AT Ri i I URRA (HONA, ) NT Mo Ò RL: Ni î il SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA V Fig. A. — Cuspide di giavellotto in selce piromaca. Vercelli (Museo Civico di Torino). » 2. — Accetta di pietra verde. Caresana presso Vercelli (Museo Civico di Torino ). » 3. — Accetta di pietra verde. Cosseria (Museo Civico di Torino ). < lai Ì Accetta di pietra verde. Monforte d'Alba (Museo Civico di Torino). » 5. — Accetta di pietra verde. Dogliani (Museo Civico di Torino). D I » Accetta di pietra verde. Garessio (Museo Civico di Torino). go )(L I fe 7 SI GYOSIIN TO. n OANCAIRNENI Sdi Todo CWasse dv Se Fid. Mat See 291 XXVZ Tav. V. Li i DIN DSS Pircone bt Tirino bit El Dogen. (IF RAI bitoky 300) DE ODIVIO 00M) dcr) or evig R bios pit DTA do oi buek Ha fr k A LL) iù Gio SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA VI —__ Fig. 4. — Accetta di pietra verde. Torbiera di Borgo-Ticino (Museo Civico di Torino). » 2. — Accelta di pietra verde. Torbiera di S. Giovanni del Bosco (Museo Civico di Torino). i » 3. -— Accetta di pietra verde. Ascoli (Museo Civico di Torino). » 4. — Accetta di pietra verde (saussurite?). Clavesana (Museo Civico di Torino ). » 5. — Accetta di pietra verde. Camerana (Museo Civico di Torino). » 6-8. — Cuspidi di freccia di selce piromaca. Agro-romano (Collezione NicoLucci). » 9-40. Cuspidi di freccia di selce piromaca. Torbiera di Mercurago (Museo Civico di Torino). » 44. Cuspide di freccia di selce piromaca. Torbiera di S. Giovanni del Bosco (Museo Civico di Torino). » 42. — Cuspide di selce piromaca. Casalvieri (Collezione NicoLuccer). Tav VI. 2 = de Mat. Sa So Ti - (Co e ài Mo è ANeccd REM Se. diva Pil Doyer. Ibrino Li Tiecone Ul ib nesY = 0-3 ‘pvt i 84)0996 î) ib dagy ib 0% ont ib sn 4 "Ari lotgtonT fa SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA VI Fig. 4. 2 e 413. — Vasi e frammenti di vasi di pietra (cloritescisto grana- tifero) lavorati al torno. Valle d’Aosta (Collezione Gar). » 4-9. — Vaso di terra lavorato al torno; cuspide di lancia in ferro, accetta di ferro; frammento di armatura in ferro cui andava in- serto il bottone N.° 9; frammento di vaso di cloritescisto grana- tifero lavorato al torno; bottone di ferro, rame ed oro. Caluso (Museo Civico di Torino). » 40. — Bottone di ferro, rame ed oro. Troffarello (Museo Egizio e di An- tichità di Torino). » 44. - Vaso di terra lavorato senza il sussidio del torno. Incisa (Museo Civico di Torino). » 42. — Vaso di terra lavorato senza il sussidio del torno. Farigliano (Museo Civico di Torino). Tav. VIL. Vol. XXVI i i, re 2 de Mat. der Sc. Ti uù l'asse Ò -C TANLO Aecad ile delle Se di Do BE I sim Iorino Lit Fl Doypen stenti Ve toy Uob Piccone lil si Diana p) Di "ita “i gi Siae! i 2 SEI sini ui 7 plana È) cana ha pra asvaton salde ib stpgoiise io IA spit uu PI LiNiadi binati infor al pisvon it ‘ptiad te vo lt A pa ja ina Revit VRALIRS! * BholoT canlae: n} attoltevita ib obigiod « a di Brnse, darord: bui ig di vale. o N NO a linee (A i \ MA ri O du > W 19 —- —» > SS 9 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA VDI . = Daga di bronzo. Torbiera di Piverone (Ivrea) (Museo Civico di Torino). — Daga di bronzo. Torbiera di Oleggio-Castello (Museo Civico di Torino). - Daga di bronzo. Torino. Sig. Barone Casana. - Rotella di terra cotta. Nizza al mare (Museo di Genova). — Spillone di bronzo. Torbiera di Mercurago (Museo Civico di Torino). — Accetta di pietra verde. Rocchetta-Cengio (Museo Civico di Torino). — Accetta di pietra verde. Rocchetta-Cengio (Museo Civico di Torino). . - Accetta di pietra verde. Rocchetta-Cengio (Museo Civico di Torino). . — Fibula di bronzo. Scaldasole (Museo Civico di Torino). . — Cote? di arenaria. Nizza al mare (Museo di Genova). . — Vaso di terra cotta fabbricato senza il sussidio del torno. Torbiera di Mercurago (Museo Civico di Torino). 43. — Vasi di terra cotta lavorati al torno. Scaldasole (Pavia) (Museo Civico di Torino). Cuspide di lancia in bronzo. Torbiera di Oleggio-Castello (Museo Civico di Torino). - Paalstab di bronzo. Torbiera di Trana (Torino) (Museo Civico di Torino ). . — Scheggia di selce piromaca. Nizza al mare (Museo di Genova). . — Osso (fibula) tagliato ad uso ago Nizza al mare (Museo di Genova). — Utensile di osso. Tortona (Museo Civico di Torino). . — Accetta di pietra verde. Ascoli (Museo Civico di Torino ). . — Cuspide di giavellotto in selce. Telese (Museo di Napoli). . — Cuspide di freccia in selce piromaca. Ascoli (Museo Civico di Torino). . — Vaso di terra cotta lavorato senza il sussidio del torno. Torbiera di San Giovanni del Bosco (Museo Civico di Torino). . — Coltello di selce piromaca. Puglie (Museo di Napoli). .— Cuspide di lancia in selce piromaca. Telese (Museo di Napoli). Spillone di bronzo. Torbiera di Mercurago (Museo Civico di Torino). I Tav. VIE. Accademia! Reale delle! Scienze div Woruro-| Classe di Scienze) Fisiche @ Nate — ro cen — È maticho. Seuo 2900, XXVI. Torino Ut F® Doyen Picone tit MEA Maig ib &Uoo RO joy sd id ppollig® — .0 (omisoT ib Lo9 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA IX Fig. 4. — Cuspide di selce piromaca. Territorio di Alatri (Collezione Derossi in Roma). CO I Acceita di pietra verde. Colla-lunga. Valle della Tinea (Museo Civico di Torino). » \ 3. — Accetta di pietra verde. Fra le terme di Vinadio e le Pianche (Museo Civico di Torine). » 4. — Fallus di bronzo. Torbiera di S. Giovanni del Bosco (Ivrea) (Museo Civico di Torino). Sb | Accetta di pietra verde (giadeite). Piana (Museo Civico di Torino). » 6. — Spillone di bronzo. Torbiera di S. Giovanni del Bosco (Museo Civico di Torino). » 7. 8. - Remi (raffigurati alla scala di '/,,) trovati nella piroga N° 9. Torbiere di S. Giovanni del Bosco (Museo Civico di Torino). » 9.40. - Piroghe (raffigurate alla scala di '/,, circa). Torbiere di S. Gio- vanni del Bosco (Museo Civico di Torino). 7 JX Lay Pol. XXVI 307 Svie D) 50 Nat L SF. / DE mo-lasso di x Accad All delle Se. di Vo Til F2: Doyer. (RITA Liecone Ut n \ È i È n Sia e IE È i MR un: x ‘n X si vé i ) È ) i No i 1 \ i pis A gi ll sot glo dui PULA ble ioatrora ib 1) si. - 84 FI HA NESS PINA (Moni ib ouivi -anggl a allora Py 00 Le irc bi Ri, PERC IOTTONETZIA] tai blsyzia dat, LR o Dr }, REA (Co ieb olio) vorei) "1: na 8 PIRA RUE AR a ‘Dersti data comin seggio ni ii ti n (di 4 nia si 4 FORIO PIO, TRS TN n) II IT na; A sic Ca iù; alli sn Mia i SHIA A dp Mniditt fa SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA X — Fig. 4-3. — Daga di bronzo. Sulla sponda destra della Sesia tra Gattinara e Serravalle (Museo Civico di Torino). » 5. — Tomba scavata nel vivo sasso. Santuario di S. Chiaffredo, territorio di Crissolo (valle del Po). » 4. 6. 7. 9. 10. — Bronzi trovati su uno scheletro presso Crissolo (Museo Civico di Torino). » 8. -— Rotella di pietra. Garisio presso Santhià (Museo Civico di Torino). » 4. - Bastoncello di legno acuminato alle due estremità (scala di ’/). Torbiera di Alice (Ivrea) (Museo Civico di Torino). Torino Li FLDoyen Precone lit. (o TRAE 127 UN RICORDO BOTANICO DEL PROFESSORE IMG KE PO, DEE RU MIRIE RI OSSIA CENNO INTORNO ALLE PIANTE NATE DAI SEMI DA ESSO RACCOLTI IN PERSIA E NELLA CHINA PER G. B. DELPONTE Approvato nell'adunanza del 7 marzo 1869 Ben m’accorgo, Onorevoli Soci, che ‘all’udire solo il titolo di questo mio scritto, solo il nome del De Fitrpri, i vostri sguardi si rivolgono al seggio che Egli ha lasciato deserto in questo Consesso! Vogliate condonarmi il dolore che io non posso a meno di procurarvi. La morte è sempre la più dura, la massima delle sventure umane. Ma pur troppo i suoi colpi non riescono mai tanto acerbi ed inconsolabili, come quando mietono vite fatte per dar lustro al paese nel meglio del loro fiorire. Egli è allora che anche la morte, anche questa eterna riparatrice delle ingiurie degli uomini e della fortuna, si taccia d’ingiusta, d’iniqua! E tale fu appunto col De Ficippi, avendolo colto nel momento in cui stava per tornare fra noi, ed arricchire la scienza di cognizioni e scoperte importanti. Ecco il pensiero più doloroso che ebbe a contristarlo negli ultimi suoi momenti, quello di doversi allontanare per sempre dal santuario 128 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI della scienza senza deporvi il carico del materiale scientifico, causa per lui di tante inquietudini, privazioni e fatiche. Premesse a modo di preambolo queste poche parole di dolore, mi rivolgo alle piante nate dai semi da esso raccolti nelle sue peregrinazioni ed affidati al terreno nell’Orto Botanico di questa Regia Università degli Studi, dove per molti anni ricorderanno il suo nome ai Botanici na- zionali ed esteri. Tutte hanno fatto buona riuscita, ad eccettuarne una sola che vive tuttora, sebbene non abbia mai condotto il frutto a maturità. Io ebbi cura di esaminarle e di constatarne l'abito ed i caratteri diagnostici almeno per due volte sulla pianta in corso di vegetazione; e quindi confido che questo mio scritto, oltre al fare omaggio al nome del Dr Firiepi, non sarà per tornare affatto inutile ai cultori della scienza. Il momento di darne lettura a questo dotto Consesso, che il De FrLirPi ha tanto illustrato, ben parmi opportuno di questi giorni, in cui sta per essere scoperto al pubblico il marmo destinato a perpetuarne il sem- biante fra noi, quel sembiante su cui vedevasi balenare mai sempre irrequieta la brama del sapere che gli ardeva nel cuore, e che servirà ad accenderla sempre più nell’animo degli alunni, i quali sono quelli che hanno promosso l’eseguimento d’un’opera che torna pure di tanto onore al paese. Quanto più gli uomini grandemente benemeriti della Patria hanno avuto contraria la fortuna, tanto più stretto, più sacro incumbe ai contemporanei il dovere di segnalarne le virtù pubbliche e private. E però dal mio canto, lieto di soddisfare ancora all’obbligo che mi corre di dar conto delle sementi affidatemi dal Ministero dell’Istruzione pub- blica e dal Direttore del Museo Zoologico, il Cav. Lessona, non potendo altro di meglio, m’affretto di deporre questo povero serto di fiori sulla pietra del suo recente sepolcro. Debbo avvertire che i semi raccolti in Persia mi furono rimessi direttamente dal De Ficiprr qualche giorno dopo il suo ritorno in pa- tria, e che per le piante originarie di quella contrada ebbi una guida sicura nell’applaudito lavoro pubblicato in questi ultimi anni, sotto il titolo di Diagnoses plantarum Orientalium per cura di uno dei Botanici più benemeriti dell’età nostra Edmondo Boissier. Oltrecciò la determi- nazione delle specie è stata confermata da un giudice sommamente competente, dal chiarissimo Autore della Nuova Flora Italiana disposta PER G. B. DELPONTE. 129 secondo gli ordini del metodo naturale, il Cav. Filippo Parrarore. Egli ebbe la cortesia di riscontrare gli esemplari coltivati nell’Orto di Torino cogli autografi che si custodiscono nell’ Erbario centrale italiano, e però mi corre obbligo di fargliene qui i più vivi ringraziamenti. Duolmi di non potere affermare altrettanto per le specie della China, i cui semi mi sono stati ricapitati, come dissi or dianzi, parte dalla Di- rezione di questo Museo Zoologico » parte dal Ministero dell'Istruzione pubblica, da cui ebbi ancora un involto di semi di piante economiche, pure della China, accompagnate da un elenco dei nomi in lingua del paese che metto sott'occhio dei Membri dell’Accademia nel caso che si credesse di qualche vantaggio il procurarne l’interpretazione. Volendo ora passare in rivista le piante, mi contenterò di farne tre soli groppi o sezioni. Collocherò nella prima le poche forme che mi parvero meritare il titolo di specie nuove; nella seconda parlerò delle forme rare, essenziali ed avventizie, ossia specie e varietà, pel lato ornamentale, o se non altro per quello della loro distribuzione geo- grafica; nella terza poi passerò in rassegna le altre dal lato economico, parendomi questa la ripartizione che meglio si addice all’indole di questo scritto, e delle piante che ne formano il soggetto. Serie II. Tom. XXVI. R 130 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI I PIANTE NUOVE N. 1. — Cynaxchum De Fiuippir N. chinense, Cat. Sem. Hort. Bot. Taur. 1868 (non R. Br.). C. calyce quinquelobo , lobis ovato-lanceolatis, brevissimis. Corolla quinquepartita, laciniis lanceolato-linearibus acutis, lobis calycinis triplo- quadruplo longioribus. Corona staminea cyathiformi quinqueloba, lobis brevissimis acutis; laciniis linearibus biseriatis , exterioribus longissimis, apice undulato contortis, obtusis : interioribus rectiusculis, subulatis , subduplo brevioribus. Staminibus quinque, e totidem retinaculis callosis atropurpureis, et massis pollinicis decem per paria approximatis et ferme coalitis: nempe cruribus brevissimis, vel nullis. Ovario (gynostemio) oblongo turbinato, ima basi calycis tubo cum corolla adnato ; stylo nullo, seu melius in discum epigynum expanso cum papillis stygmaticis duabus pellucidis minimis e medio erumpentibus. Folliculis solitariis unilocularibus, teretibus, acuminatis, breviter pedunculatis, puberulis, qua parte sutura discurrit, placentario lineari, demum secedente, instructis. Seminibus orbiculatis, convexo-planis mar- ginatis: podospermate sericeo, pappiformi. Descrizione. Fusto erbaceo volubile, leggermente striato. Foglie membranose, opposte, peziolate, di un verde più Palli al di sotto, coperte di un tomento corto e fitto, che si allunga in peli morbidi e cotonosi sopra il peziolo e le sue principali diramazioni. Fiori disposti a cima ombrelliforme, coll’asse primario o peduncolo più lungo del peziolo delle foglie, diviso e suddiviso in rami. ; PER G. B. DELPONTE. I3I Calice spartito fino alla base in cinque lobi ovato-lanceolati, d'un bel verde. Corolla profondamente divisa in lacinie lineari acute, tre o quattro volte più lunghe dei lobi del calice. Corona staminea cupuliforme, quinquelobata, coi lobi triangolari ed acuti, accompagnati da un doppio ordine di lacinie lineari; le esterne da quattro a cinque volte più lunghe del tubo, contorte ed ottuse alla sommità; le altre appuntate, lesiniformi, pressochè della metà più corte. Stami in numero di cinque, coi filamenti allargati attorno al pistillo in una sorta di guaina (ginestemio), che porta le antere di forma ovale, arrotondata, quasi sessili, ossia munite di gambetti assai corti, appiccati al pistillo per mezzo di due bitorzoletti o calli (retinacolo), di colore porporino scuro, e terminate da due appendici membranose cuoriformi, astate; le quali appendici si fanno conniventi e nascondono affatto la sommità del pistillo. Follicoli solitari, cilindrici, lungamente appuntati, glabri, colla pla- centa ingrossata, aderente ai due margini della foglia carpellare. . Semi convesso-piani marginati, attaccati ad un podospermo che alla loro maturazione si sfibra, e dà origine ad un fascio di peli lunghi morbidissimi lucenti setacei. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. Osservazione. — Specie di piena terra, perenne, robusta, d'un fogliame fitto, elegante, accomodata alla copertura dei pergolati. Tutte in generale le piante di questa famiglia vanno segnalate per una com- binazione di organi riproduttori, tanto intricati e sovente ancora sì mi- nimi, che si pena a vederli distintamente ad occhio armato, anche nella pianta viva, qual è precisamente il caso della nostra specie. Affine al C. abyssinicum DC. e al C. chinense R. Br. Differisce dal primo: 1.° per le foglie cuoriformi, non ovali appuntate; 2.° per i peduncoli dei fiori ordinariamente più lunghi del peziolo delle foglie; 3.° per la conformazione della corona staminea. Difatto il tubo della corona del Cyrnanchum abyssinicum non offre già dei lobi sor- montati da una punticella acuta, bensì dei tubercoli distinti, arrotondati, e congiunti due per due; oltrecciò nella nostra specie le lacinie in- terne, invece di pareggiare presso a poco le esterne, si danno a vedere quasi della metà più corte. S'aggiugne che l’appendice delle antere nel 192 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI C. abyssinicum si mostra di forma presso a poco semilunare, ossia due volte più larga che lunga, mentre all’opposto nel Cynanchum Defilippii è fatta a maniera di cuore e ad un tempo più lunga che larga. Soggiugnerò che le foglie provvedute di lanugine, il peduncolo abitualmente più lungo del peziolo delle foglie e la conformazione particolare dello stilo e dello stimma, sono ancora più che bastanti per distinguere la specie in discorso dal Cynanchum chinense. N. 2. — Cuscura Grass N. Floribus glomeratis subumbellato-racemosis , ternis, quaternis , plu- ribusve, plerumque nudis. Calyce quinquelobo, lobis inaequalibus ovatis obtusis. Corolla tubulosa, limbo 4-5-fido, lobis linearibus obtusis, sub anthesi erectis, deinde complanatis reflexisque, fauce fornicata, fornicibus obovatis aut oblongo-cuneiformibus, margine fimbriatis. Staminibus quinque, antheris didymis obcordatis e latere dehiscentibus. Ovario subrotundo , stylis duobus rectis, inclusis, saepe inaequalibus x stygmate discoideo citrino terminatis. Capsula membranacea subtetragona calyce marcescente obducta, bilo- culari, loculis dispermis aut monospermis; seminibus globosis vel tri- quetris, luteolis, sub lente valida punctato-rugulosis. Fusti capillari d’un bel giallo di zafferano, qua e là provveduti di papille fungose con cui si attaccano ai fusti della pianta estranea. Fiori agglomerati assieme in gran copia, talvolta disposti a grappolo ombrelliforme, e quasi tutti fertili. Calice di quattro o cinque foglioline ovato-orbicolari talvolta accom- pagnato alla base da una o più squame. Corolla tubulosa col lembo piano diviso in quattro o in cinque la- cinie lineari ottuse, e la fauce socchiusa da membranette petaloidee , bislunghe, ovali, frastagliate al margine. Stami da 4 a 5 inseriti sulla corolla, colle antere cuoriformi a ro- vescio, terminate da una punticella verdastra. Ovario globoso a due stili divergenti, più corti degli stami e del tubo della corolla. PER G. B. DELPONTE. 133 Cassula arrotondata un po’ compressa, prossimamente tetragona, strettamente avviluppata dagli invogli fiorali, affraliti e rompentisi alla maturità presso alla base, ma non deiscente regolarmente a maniera di pisside. Semi in numero di due per ciascuna loggia, uno dei quali soggelto ad abortire, nel qual caso il superstite diventa più grosso e di formtna globosa. i Osservazione. — Fu trovata dal De Fiuippi nei dintorni di Hong- Kong appiccata ad una specie di Atriplex, volgarmente Bietolone. Nell’Orto botanico ne fu deposto il seme al piede di alcuni individui di Balsamina, a cui s’appigliarono tosto i fusti nascenti continuando a vegetare prosperamente fino alla perfetta maturazione dei semi. È dun- que una delle specie indifferenti nella scelta del nutrimento, e che perciò possono vivere anche su piante di diverso ordine. S’accosta alla specie descritta da Roberto Brown sotto il nome di Cuscuta chinensis; ma se ne discosta 1.° per le antere terminate da un tubercoletto verde; 2.° per la fauce della corolla. chiusa da squame membranose petaloidee bislunghe ovali, sbrandellate al margine ;.3.° per gli stili inclusi, carattere capitale che unitamente agli altri accenna ad un tipo proprio, per cui mi risolvo di farne omaggio ad un amico in cui la scienza e le lettere si trovano congiunte alle più belle doti del cuore, all’Avv. Augusto Gras, Bibliotecario di questa Regia Accademia delle Scienze, benemerito della Flora Pedemontana. 134 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI II SPECIE SPONTANEE N.° 3. — IsatIs GLAUCA AucH. Boiss. Fl. orient. Vol. I, pag. 378. Foliis glaucescentibus lineari-oblongis obtusis, radicalibus longe pe- tiolatis, caulinis sessilibus obtusis, in petiolum breviter attenuatis, semi- amplexicaulibus, subauriculatis, nempe auriculis minimis, adpressis, mar- gine et nervo mediano parce ciliatis; bracteis lineari-setaceis; floribus racemosis, racemis in paniculam subrotundam dispositis ; sepalis oblongis, reflexis: siliquis obovato-ellipticis, glabriusculis, integerrimis, pedunculo superne incrassato plerumque duplo longioribus. Radice annua. Fusto alto da 75 a 80 cent., diritto, striato, macchiato di pagonazzo, ramoso oltre il mezzo, coi rami molto aperti, quasi orizzontali, per lo più bifidi o trifidi, accompagnati da una brattea lineare minuta. Foglie glauche: le radicali lineari bislunghe, lanciuolate, ottuse, ciliate al margine, e gradatamente ristrette verso la base. Fiori disposti a grappolo alla sommità dei ramoscelli. Calice di 4 sepali bislunghi, ottusi, rovesciati in basso. Corolla di 4 petali spatolati. - Silicola obovato-ellitica intiera, o pochissimo smarginata , vestita di una lanugine brevissima. Cresce nelle regioni montuose della Persia. Osservazione. — La specie tipo, secondo Boissier, ha il fusto alto da 3 a 4 piedi. Gl’individui coltivati nell’Orto non s’alzarono più di 60 centimetri e mostrarono le siliquette a primo aspetto glabre, ma in fatto rivestite di lanugine cortissima, appena sensibile al tatto. PER G. B. DELPONTE. 135 N. 4. — SILENE PEDUNCULARIS Bo1ss. Diagn. PI. orient. nov. Fasc. I, pag. 3o. Foliis radicalibus oblongo-linearibus in petiolum longe altenuatis a- cutis, glabris, uninerviis, caulinis lineari-setaceis. Ramis virgatis, unifloris vel bi-trifurcatis, pedunculis sub anthesi flore longioribus. Calyce clavato cylindraceo, nitido, striato, quinquedentato , interdum subrufo, dentibus ovato-triangularibus acutiusculis, margine membranaceis ; petalorum lamina paulo ultra medium bipartita, laciniis obtusis subrotundatis ; squama ad basim bidentata glaberrima; ovario cylindrico, carpophoro paulo breviori. Capsula clavata calyce marcescente obvoluta. Radice perenne poco più grossa della canna di una penna di colombo a più fusti fruticolosi , altri perennanti, altri fertili, terminati da una rosetta di foglie, di mezzo alle quali escono degli steli alti da 3 a 4 deci- metri, coi nodi molto rilevati, talvolta semplici, talvolta spartiti in due o tre rami ordinariamente ad un solo fiore, sorretti da un gambo sempre più lungo. Foglie bislunghe lineari, glauche, amplessicauli , intiere e d’ordinario più lunghe degli internodi. Fiori solitari; calice clavato cilindrico, glabro, sovente macchiato di rosso, a cinque denti. Corolla di cinque petali bianchi al disopra, macchiati di verde al disotto, profondamente spartiti in due lobi ottusi e muniti di una squama cuoriforme coll’unghia lineare nascosta nel tubo del calice. Stami in numero di dieci, cinque dei quali fertili , opposti ai petali ; gli altri (staminodi) trasformati in laminette petaloidee lineari, un poco allargate alla sommità. Ovario sorretto da un ginoforo clavato e sormontato da una specie di corona callosa a cinque lobi da cui s'alzano tre stili filiformi a stimma clavato; ricurvo, coperto di papille e di peli. Cassula cilindrica (per l’affralimento dei tramezzi), uniloculare, dei- scente per mezzo di denti alla sommità. Pianta gracile, delicata, che non giunse a condurre a maturazione i semi. Cresce in Persia nei luoghi incolti e sassosi. 136 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI N.° 5. — ALTHAEA SULPHUREA Boiss. Diagn. PI. orient. nov. N.° 8, pag. 108. B. var. sublanata. Foliis cordato-lobatis, superioribus (nempe floralibus) ovato-oblongis aut ovato-triangularibus; mediis cordato-trilobis, inferioribus cordato- quinquelobis, subduplicato-serratis; stipulis lanceolato-linearibus, acumi- natis, caducis; floribus solitariis breviter pedunculatis. Involucro tomen- toso (calyculo) plerumque sexfido, raro quinquefido, interdum septemfido vel octofido, lobis oblongo-linearibus, acutis, tomentosis; calyce quinque- fido, lobis ovato-triangulatis. Corolla quinquepartita, laciniis cordato- cuneiformibus, calyce duplo et ultra longioribus, basi calloso-puberulis, venis purpurascentibus exaratis. Carpidiis trochleaeformibus, dorso ex- cavatis, utraque facie striato-scrobiculatis. Radice ingrossata a più fusti cilindrici, diritti, non ramosi, alti un piede e mezzo, 0 poco più. Foglie per la più parte cordato-lobate, le superiori a tre , le inferiori a cinque lobi poco profondi, d’un verde più pallido al disotto, col gambo d’una lunghezza pari a quella del lembo o poco più lungo. Stipole triangolari obliquamente acuminate, caduche. Fiori solitari nell’ascella delle foglie, sorretti da un peduncolo molte volte più corto del peziolo. Calicolo per lo più di sei lobi triangolari acuti, talvolta irregolari , vale a dire congiunti due per due. Calice quinquefido colle divisioni lanceolate striato-solcate dalla faccia interna. Corolla poco prima della fecondazione d’un bianco argentino, quasi diafana, e spartita in cinque lacinie cuneiformi, largamente smarginate e attraversate per lungo da vene sottilissime, ad unghia tinta di giallo e rivestita di peli sericei. Carpelli orbicolati un po’ prominenti dalle due facce, ricinti da una zona bianca, reticolati rugosi col dorso incavato a maniera di carrucola. Cresce nei dintorni di Teheran presso il fiume Dschad-schaud. PER G. B. DELPONTE. L99 Osservazione. — Differisce dall’ Athaea sulphurea del Boissier per rispetto ai fiori più bianchi che gialli, per le foglioline del calice e del calicolo coperte non di vera lanugine, bensì di un tomento corto e fitto a maniera di velluto, ed infine pel calicolo talvolta di sette o di otto lobi invece di sei. A questi caratteri diagnostici il chiarissimo autore della Flora italiana, il sig. Prof. ParLATORE, si compiacque di apporre la nota seguente: Ab Althaea sulphurea Boiss. pl. Korscx. differt tomenti densi defectu, foliis 3-5-lobis (in specimine Kotschiano folia inferiora desunt) involucri foliis 8 (an constanter ?) carpidiis dorso profundius sulcatis. Probabiliter Althacae sulphureae warietas e cultura orta, nisi foliolarum involucri numerus sit constans. Mi rimetto di buon grado al giudizio sommamente autorevole del Professore di Firenze, tanto più che nel secondo anno di coltura i fiori comparvero leggermente sfumati di giallo, e negli anni successivi avendo avuto sott'occhio un maggior numero d’individui, mi accadde di trovare nella più parte dei fiori i lobi del calicolo in numero di sei. Intanto poichè finora il calicolo ed il calice non si diedero a vedere coperti di vera lanugine, mi valgo di quest’accidente per contrassegnare la forma in discorso col nome di Afthaea sulphurea sublanata. i È pianta bisannuale che merita di partecipare agli onori del giar- dino, e può vivere anche più di tre e di quattro anni, tutte le volte che qualche ramoscello sorto dal ceppo giunge a tenersi vivo durante la stagione invernale. N. 6. — Cucursita PERENNIS As. Gray. Radice perenni, carnosa, fusiformi. Surculis ex una radice pluribus, scandentibus, late ramosis, non sulcatis. Foliis eximie cordatis, nervosis, rigidis, asperrimis, margine denticulatis, glaucis, fere pulverulentis. Floribus masculis sulphureis, solitariis, pedunculo a basi ad apicem incrassato. Calyce obconico, quinquelobo, lobis lineari-subulatis. Corollae tubo inflato, ad faucem aliquantulum constricto, margine quinquelobo ; peponide sphaerica, parvi pomi aurantii circiter magnitudine: pulpa fi- brosa, exsucca, amara. Serie II. Tom. XXVI. s So P UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI Descrizione. Radice fusiforme carnosa, grossa come il braccio, dal cui vertice escono molti fusti rigogliosi, che s’allargano in rami da tutte le parti, ad inter- nodi alquanto rimossi l'uno dall'altro, provveduti di viticchi robusti e ramificati. Foglie della base ovato-lanceolate, coi nervi molto sporgenti, bian- castre, in grazia dei peli callosi e pungenti, di cui vanno sparse in grande quantità , quelle della base bislunghe-cuoriformi, le superiori di forma ovale, tutte più o meno denticolate al margine. Fiori maschi, in gran copia precoci e provveduti di una corolla me- diocre, rigonfia nel tubo, un po’ ristretta alla fauce, e spartita al lembo in cinque lobi arrotondati ed increspati. Fiori femminei, tardivi al punto che gli ovari non hanno più il tempo di condurre i semi a maturità. Frutti grossi a un dipresso come quelli della Coloquintide, d'una polpa fibrosa asciutta ed amara coi semi piccoli ed ellittici. La grande abbondanza dei rami, e la distanza dei fiori maschi dai femminei, sembra essere la causa per cui talvolta i frutti abortiscono; gl'individui dell'Orto, sterili nel primo anno, diedero frutti maturi, e semi ben condizionati nel secondo, in cui venne operata la fecondazione artificiale. Specie molto singolare, quasi la sola che rappresenti questo genere di piante nelle contrade temperate del Nuovo Mondo, dal quale paiono sbandite le nostre forme a frutto mangereccio probabilmente tutte ori- ginarie dell'Asia. Cresce naturalmente nel Texas e nella California. Dall'Orto botanico di Rio Janeiro. Osservazione. — Specie coltivata da più anni nell’ Orto botanico, ed io mi sono indotto a darne la descrizione e il disegno compiuto, paren- domi che facciano tuttora difetto nelle opere degli Autori; è una specie molto singolare dal lato morfologico, imperciocchè, sotto ad un tipo iden- tico a quello delle specie asiatiche, per rispetto agli organi del fiore e del frutto, se ne discosta affatto per la radice perenne, ed inoltre per le qualità del frutto, non mai più grosso di quello della Coloquintide, PER G. B. DELPONTE. 139 e di polpa fibrosa ed amara. Un altro accidente; che vuol essere notato, si è la sua attitudine a sopportare l’inverno del nostro clima; e di fatto sono due anni che nell’Orto botanico di Torino vive nell’aria libera; ma per altro, allorchè non si rientra nell’ aranciera al termine della bella stagione, nell’anno successivo non fruttifica o non conduce i frutti a maturità. N° 7. — Lurra EcHINATA Rox8. f. obtusangula N. Foliis cordato-septemlobatis, glabris, denticulatis; floribus luteis; ma- sculis in racemum circiter spithameum laxe congestis, foemineis plerumque geminis altero fere semper effoeto, pedunculis elongatis, fere ut in masculis. Calyce tubuloso campanulato quinquefido, laciniis ovato-lanceolatis, acutiusculis: corolla magna quinquefida, lobis subquinquenerviis, ob- longo-ovatis, obtusis. Ovario lineari; fructu (Peponide) oblongo eylin- draceo, superne aliquantulum attenuato, inferne subrotundato, obtuso ecostato, imo angulis deiectis fere sulcato: operculo nullo : seminibus albidis aut atris. Accedit ad Luffam echinatam, a qua differre videtur potis- simum: 1.° Peponide fere duplo breviori, ima base subrotundata , non utr'inque attenuata; 2.° Corolla in floribus foemineis semper minori quam in masculis. Descrizione. Fusto gracile profondamente solcato, munito di viticchi peduncolati per lo più trifidi, filiformi, sottilissimi. Foglie cordato-lobate glabre denticolate al margine. Fiori maschi lassamente disposti a grappolo lungo da 25 a 30 cen- timetri. Calice profondamente spartito in cinque lobi lanciuolati glabri. Corolla a cinque divisioni ovate ottuse, con cinque o sette nervi distinti, sparsi di bitorzoletti e di peli. Fiori feminei per lo più solitari, sorretti da un gambo sempre più lungo del peziolo delle foglie. Corolla più piccola di quella dei fiori maschi, del resto conforme. Peponide bislunga cilindrica, arrotondata ottusa ai due capi, al- quanto più grossa dalla parte dello stilo, senza costole, senza opercolo, senza spine. 140 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI Semi a tegumento leggermente fungoso, recinti da un orlo angusto, talvolta bianchi, talvolta neri. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. Osservazione. — Affine alla Luffa echinata Roxs., da cui differisce pel frutto di forma intermedia tra la clavata e la cilindrica, ottuso, non appuntato ai due capi, cogli angoli appianati; e parimente per i grappoli dei fiori maschi più lunghi, più diradati, colla corolla più grande di quella dei fiori feminei. Vi sarebbe materia bastante per coniarne una specie nuova; ma trattandosi di un genere, anzi di una famiglia som- mamente polimorfa,, m'appiglio al partito più sicuro, che è quello di stabilirne semplicemente una varietà. N.° 8. — PuÙiaropappus AucgERI Boiss., Diagn. pl. Orient., N.° 5, p. 124. Tomanthaea Aucheri DC. Prodr. VI, p. 564. Involucri squamis superioribus oblongo-linearibus apice cucullatis subiniegris; reliquis, potissimum intermediis, ovato-oblongis, adpressis, coriaceis , nitidis, superne in appendicem productis; appendice ampla suborbiculata ; medio plerumque fusca, margine cartilagineo subdiaphana, profunde pectinato-ciliata, cum spina terminali subulata, laminam totam aequante vel paullo superante; receptaculo dense fimbrillifero ; corollis purpureis quinquefidis, laciniis linearibus acutis; staminum filamentis papillis minimis undequaque refertis; antheris ecaudatis, loculis superne in tubum callosum coloratum, apice quinquefidum, productis; stylo fili- formi; stigmate clavato, cylindraceo, vix exserto. Acheniis (?) glabris ovato-oblongis, obsolete pentagonis; pappo e fibris linearibus indivisis, exterioribus candidis, sensim, prout intus procedunt, longioribus, ru- fescentibusque. Fusto diritto semplice, poco più alto d’un palmo, vestito alla base di squame fibrose provenienti dai gambi delle foglie affralite. Foglie polimorfe, altre lineari bislunghe, intiere; altre pennato-spartite coi lobi radamente bifidi o dentati, altre pennato-lirate col lobo termi- nale molto più lungo e più largo degli altri. Fiore solitario terminale, accompagnato da una brattea o fogliolina PER G. B. DELPONTE. 140 bislunga, lineare; antodio di squame embriciate coriacee lucenti, allargate verso il mezzo in una sorta di piastra cartilaginea, prossima- mente orbicolare, macchiata di scuro nel centro, frastagliata al margine in lacinie lineari, parallele, e terminata da una spina acutissima che pareggia o supera di poco tutta la lamina. Ricettacolo affollatissimo di fibrille. Calice aderente, supero, colle divisioni del lembo sfibrate e ridotte in setole o fibrille. Corolla porporina, spartita in cinque lacinie rigide, lineari, acute. Stami coi filamenti sparsi di papille e le antere riunite in un tubo coriaceo leggermente tinto di rosso, e sormontate da cinque denti acutissimi, callosi, cartilaginei, un po saldati alla base, eguali o più lunghi del tubo. Stilo filiforme a stimmi interamente congiunti in un cilindro sporgente appena dalla faccia della corolla. Acheni (per quanto è lecito giudicarne dal loro stato di sviluppo) glabri, ovato-bislunghi, prismatici; pappo di setole indivise, le più esterne candide e cortissime; le altre di mano in mano che si adden- trano più lunghe, e sfumate di pagonazzo. i Osservazione. — È senza fallo la più importante delle specie rac- colte dal De Fiippi in Persia ed è la sola che andò a rischio di man- care nell’atto del germogliamento. A questo proposito noterò prima di tutto che non vi hanno semi più malagevoli ad essere raccolti in buon punto di maturazione di quelli delle Composte o Sinanteree, perchè soggetti ad essere guasti dagli insetti, in grazia della polpa del ricettacolo a cui stanno attaccati, ed ancora per un’altra circostanza, cioè pei movimenti igroscopici delle squame coriacee del calice comune, da cui si trovano protetti, destinate ad aprirsi di giorno e a chiudersi di motte, finchè tutti non siano giunti a perfetta maturità; e quindi a staccarli dal talamo, e a lasciarli andare dispersi dal vento, a cui dà presa il fiocco di setole o fibrille distinte col nome di pappo. E però, ancorchè it pacco che mi venne rimesso dal De Fruippi fosse uno dei meglio forniti, non si trovarono che pochi granelli intatti, accompagnati da un gran numero di ovari abortivi. Da questi semi, e per dir meglio frutti, affidati al terreno in vaso, uscirono tre soli individui, uno dei quali giunse a levarsi im fiore nel ‘corso della state; ma non ha potuto condurre ad abbonimento i frutti, perchè 142 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI nel meglio della sua vegetazione venne colto e malconcio da un rovescio d’acqua e di grandine, al punto che il fiore cessò di vegetare ad un tratto, e poco dopo venne a mancare anche il fusto e tutto l’individuo; ed è quello che ho disseccato, e che sono lieto di presentare all’Ac- cademia, accompagnato dagli organi del fiore e del frutto preparati a parte, per dare a conoscere il punto di sviluppo in cui furono sopraf- fatti dal contrattempo. Gli altri due individui vivono ancora al giorno d’oggi; ma per quante cure abbia posto in opera il Custode dell'Orto Botanico sig. Gio. Battista Cmuso, finora non è stato possibile di ri- cavarne mai altro che foglie. Intanto, nell’esaminare per minuto gli organi del fiore e del frutto, mi sono accorto di una disposizione di parti abnormi, contraria alle leggi di simmetria. Di fatto è noto che in tutti i fiori composti gli stami si saldano a vicenda per mezzo delle antere in una sorta di guaina o tubo membranoso per cui passa lo stilo. Nella specie in questione succede qualche cosa di più. Il tubo acquista uno spessore ed una consistenza straordinaria, che costituisce uno dei caratteri del genere, come vedremo. Ciò posto, dirò che in una gran parte dei fiorellini, Jo stilo invece di entrare direttamente nella guaina, si fece strada fino alla fauce della corolla, trascorrendo tra i filamenti e il tubo di quest’ultima. Ciò posto, cotesto perturbamento di organi sarà egli un effetto di qualche disagio sofferto dalla pianta nel periodo della fioritura? o sarà piuttosto una conseguenza della conformazione deltubo anterifero, non membranoso morbido come al solito, ma calloso cartilagineo? Propendo per quest’ultima opinione, perchè non mi venne dato di scorgere alcun segno di languore nella pianta, ed anche perchè farebbe ragione della tendenza degli ovari ad abortire per mancanza di fecondazione. Del resto è un argomento intorno al quale non si può dir nulla, senza l’appoggio di molti esemplari. Da queste osservazioni di spettanza della Teratologia, passerò ad altre relative alla Botanica sistematica, non parendomi bene allogata la specie nè sotto all’antico genere Z'omanthea, nè sotto a quello di Phaeopappus. Specimine fallaci (scrive a questo proposito il BorssieR) in errorem inductus cl. CanpoLLEus nostrum Phacopappum, pro novo genere, sub Tomantheae nomine descripserat, ob corollas post anthesim ad apicem PER G. B. DELPONTE. 145 secedentes. Sed hic est minime character organographicus, sed lusus merus in speciminibus exsiccatis Cynarearum omnium in herbariis fre- quenter occurrens. Borss., l. c., pag. 123. È verissimo che lo spezzarsi della corolla alla sommità del tubo è un accidente che suol accadere in tutti i fiori composti essiccati ad uso di erbario; ma non è men vero che le specie del gruppo di cui fa parte la pianta, ne hanno l’attitudine dalla natura, in grazia del tessuto cal- loso quasi corneo del tubo anterifero e delle appendici. E non occorre di provare che dove un organo cangia di consistenza, ogni soluzione di continuità deve succedere e farsi abituale più che in un tessuto morbido e pieghevole in ogni sua parte. E pertanto il nome di 7°o- manthaea, che suona letteralmente fiore avente attitudine a spezzarsi, fino ad un certo punto viene ad essere giustificato anche dal lato or- ganografico. Del resto, non volendo far conto di questo carattere, bisogna esclu- dere o ridurre al suo giusto valore quello della tinta abituale dei fiori , che il Boissier accenna come essenziale, al punto di escludere dai Feo- pappi l’Amberboa xanthocephala, perchè provveduta di fiori porporini e non gialli, quae floribus roseis nec flavis gaudet, ut cl. CanporLeUSs crediderat. Il colore dei fiori può ben essere considerato come carattere di sezione ma non di genere, sapendosi, che nello stesso genere sono frequenti le specie a fior rosso e a fior giallo, specialmente nei Cirsii e nelle Centauree. Anzi a dir vero non so intendere come l’insigne Botanico di Ginevra siasi indotto a farne un carattere di genere, riflet- tendo che i fiori nel genere Tomanthaea non sono gialli, quali avrebbero ad essere (flores flavi) ma porporescenti come afferma il De Canpotte, che aveva sott'occhio l'esemplare autografo di Auc®er-ELov. E si noti che l’avverbio pallide vuol essere inteso per rispetto alla data dell’esem- plare già molto antica, stantechè nell’individuo dell'Orto Botanico so di averli trovati d’un bel rosso porporino. In questo stato di cose, o correggere la frase diagnostica dell’uno o dell’altro genere, o stabilirne un terzo sacro alla memoria del De Firippi. M'appiglierei di buon grado a quest’ultimo. partito secondo la consue- tudine invalsa a’ dì nostri. Ma sopprimere due generi stabiliti da sommi Botanici coll’appoggio d’un solo esemplare, senza nemmeno una figura, un esemplare autografo delle specie, che ne hanno a far parte, sarebbe 144 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI andare troppo oltre. E però ne lascio ad altri l’incarico, pago di avere chiamato su questo punto l’attenzione dei Fitografi (1). (1) Colgo quest’occasione per sottoporre all’esame dei Botanici le osservazioni da me fatte intorno alla seguente specie, in cui non sarei lontano dal ravvisare un genere nuovo. AMARYLLEA INSIGNIS (am novum genus? ), Flores in summo caule, nempe scapo, congesto-fasciculati , alternis annis cum foliis e bulbo erum- pentes, breviter pedunculati, pedunculis vix uncialibus. Bulbus tunicatus, nucis avellanae circiter ma- gnitudine. Perianthium hexaphylum, foliolis obovato-oblongis, acutiusculis, striatis. Stamina tria cum antherarum loculis circinato-sagittatis, nempe altera parte ab invicem deductis, altera in acumen cir- cinatim retrorsum contortis. Ovarium inferum, turbinatum. Styli tres, stygmata tria pennicillata. Capsula? Bacca? Osservazione. — È una specie non dirò nuova, ma sicuramente rara, e ben degna di chiamare a sè l’attenzione dei cultori della scienza, su cui mi riservo di tornare altra volta. Ha fiorito solamente una volta, ma non giunse a condurre il frutto a maturità. Negli organi della nutrizione s’accosta senza fallo all’ordine degli Ari e delle Aspidistre, ma non ha più che fare con loro per rispetto a quelli della riproduzione; alza lo scapo nel mese di maggio e si rifà d’un nuovo cesto di foglie nel mese di agosto. Foglie tutte radicali, ossia prodotte ad anni alterni col gambo fiorifero da un bulbo tonacato grosso come una noce, i cui gambi fistulosi, incapellati gli uni dentro agli altri, danno origine ad un cilindro sodo che sembra un fusto e che trovasi rivestito alla base di altre lacinie mem- branose elegantemente marezzate di violetto scuro, le quali sono ancor esse foglie abortive. Le foglie propriamente dette hanno il lembo assai grande cioè lungo 22 centimetri e. largo 12, e spuntano d’ordinario in agosto. Bulbo fatto di squame poco carnose, incastrate le une dentro alle altre, come le guaine da cui sono rappresentate; ed appiccate ad un disco, il quale si copre al disotto di fibre grosse come la canna d’una penna di pollo, e largamente ramificate. , i Fiori disposti a fascetto su d’uno scapo grosso come il pollice e lungo un decimetro coi pedi- celli presso a poco della lunghezza dei fiori, ossia di due centimetri circa. Perianzio di sei foglioline d’un bel giallo dorato, bislunghe ovali, brevemente appuntate con vene più scure. Stami in numero di tre inseriti su di un disco epigino colle antere circinato-saettiformi ossia colle logge da una parte ingrossate e un po’ rimosse, quasi bilobe, e dall’altra assottigliate ed arrovesciate in un giro di spira. S Stili pure in numero di tre, alquanto più lunghi degli stami, e terminati da un fiocchetto di peli. Ovario globoso internamente diviso in tre logge ..... Cassula? Bacca? Semi? Pianta originaria del Brasile. Il nome di Amaryllea ricorda quello delle Amarillidi, con cui ha senza fallo dei tratti di affinità apparente e reale. E se fosse veramente una pianta non ancora conosciuta, mi piacerebbe di cangiarlo in quello di Defiippia, ancorchè non sia stata portata dal DE FILIPPI. PER G. B. DELPONTE. 149 N. 9. — PWÙargitis Ni Cnors. in DC. Prodr. IX, pag. 348. Convolvulus Nil et C. hederaceus L. ex parte; Diur. H. Elth. Tab. 83, fig. g6. Tab. 80, fig. gr. Osservazione. — Specie affine alla Pharbitis hederacea Cuois. (Ipo- moea hederacea L.), da cui differisce soprattutto pei peduncoli dei fiori robusti, lunghi almeno quanto il peziolo delle foglie nelle parti medie del fusto e dei rami, e terminati quasi sempre da tre fiori; per le lacinie del calice distese diritte, non torte, non ripiegate in basso. Specie elegante a fiori più grandi che nell’/pomea a foglie d’edera e ben degna di par- tecipare agli onori del giardino. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. Nell’Erbario di questo R. Orto botanico si trovano parecchi esemplari raccolti dal BerreRo in America, a Santa Marta, nelle siepi, i quali si accordano assai bene con quelli nati dai semi del De Firippi, ma colla lana delle lacinie del calice più densa e tinta di giallo dorato. A proposito delle foglie, osserva il DiLren che non offrono niente di stabile nella loro conformazione: Nunc enim , dice egli, nonnisi sub- rotunda et cordata, nunc et cordata et angulata, hederacea nempe et subrotunda in cadem planta, observantur. Ciò posto, è credibile che alla Pharbitis Nil, dovrà essere riunita come una semplice forma accidentale la Pharbitis medians Cnorsy, la quale non ne differisce che per il lobo medio delle foglie ristretto e come strangolato alla base. Oltrecciò bisogna escludere fin d’ora dalla specie predetta il Conyo/- vulus coeruleus maior folio hederaceo del Diren, H. Elth. Tav. 81, fig. 93, il quale se ne discosta, come osserva lo stesso DiLLEN, per tutt'altra con- formazione di foglie e di fiori. 4 Conyolvulo Nil arabum, cui proxime accedit, distinguitur quod illius folia omnino angulata sunt; huius vero folia superiora, et subinde quaedam ex inferioribus non angulata obser- vantur, sed praecipue floribus qui in hac specie ampliores sunt. Flores autem e foliorum alis nascuntur solitari pediculis perbrevibus insidentes, ampli et elegantissime coerulei. Serie II. Tom. XXVI. T 146 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI N° 10. — Caccinia sTRIGOSA Boiss. Diagn. PI. orient. nov. Fasc. II, pag. 132. Foliis sessilibus, oblongo-ellipticis, subdecurrentibus, integerrimis. Floribus racemoso-paniculatis; panicula scilicet e racemis scorpioideis alternis, basi foliosis composita. Calyce oblongo turbinato, subcostato, costulis quinque validioribus alternis, e sepalorum marginibus exterius veluti in alam replicatis, omnibus strigoso-ciliatis. Ovario valde com- presso e loculis quatuor cruciatim coalitis, in totidem nuculas (una aut altera tantum fertili) demun secedentibus. Nuculis orbiculato-oblongis subreniformibus, qua parte receptaculo adhaerent rostro marginali obtuso instructis, margine argute serratis. Semine anatropo , cotyledonibus plunis foliaceis, perispermate nullo, radicula infera. Tota planta pilis rigidis aspera, praesertim secus nervum medianum, et margines foliorum. Radice perenne, per lo più divisa in rami che s’alzano in fusti grossi come il pollice, ed alti più di un metro. Foglie ovali ellittiche, intiere, carnose, glauche, tempestate di tubercoli che servono di base ad altrettanti peli rigidi e pungenti, colla costola appianata e scorrente per un tratto sul fusto. Fiori disposti a pannocchia alla sommità del fusto e dei rami. Calice rigonfio turbinato, crescente dopo la fecondazione fino a farsi del doppio più largo e più lungo, col fondo ingrossato da un disco cupuliforme. Corolla stellata a tubo leggermente ristretto dal basso in alto, lungo una volta più del calice, a lembo diviso in cinque lacinie ovato-lanceolate ottuse, dentro alla boccia porporine, poi cilestri, alquanto più corte del tubo, colla fauce chiusa da cinque tubercoli fungosi scolorati, alterni coi filamenti degli stami. Stami in numero di cinque inseriti sulla fauce della corolla, con una delle antere saettiforme, lunga il doppio delle altre, ed anche più, ossia di quattro a cinque millimetri. Talvolta le antere più lunghe sono in numero di due, ma sempre havvene una predominante. Stilo gradatamente appuntato, un po’ curvo alla sommità, terminato da uno slimma minuto tinto di nero. PER G. B. DELPONTE. 157 Frutto di quattro nucule bislunghe, reniformi, convesso-piane, ru- goso-reticolate, e dentate al margine, di cui due quasi sempre abortive. Seme ad ovolo rovesciato, coll’embrione a cotiledoni piani, fogliacei , e la radichetta rivolta all’ombellico. Cresce in Persia al piede del monte Demawend. Osservazioni. — Fra tutte le Borraginee esotiche, atte a vivere nel nostro clima a cielo scoperto, non credo avervene alcuna, che per vigore di vegetazione, e per bellezza di fiori, possa competere colla presente, per la prima volta introdotta fra noi dal De Fruppr. Non tarderemo a vederla moltiplicata nei giardini privati e pubblici, specialmente in grazia della bellissima tinta azzurra delle sue corolle, a cui dà risalto il bianco argentino delle foglie. Soggiungerò, che non ha bisogno di essere protetta da siepe, o da altro, imperciocchè, a difenderla dai guasti dei ragazzi, bastano le punte spinose di cui venne armata dalla natura in ogni sua parte, e specialmente lungo i rami della pannocchia. N.° 11. — Amarantus BLituM L. Engl. Bot., Tab. 2212 - Reic®. Cent. 5, Tab. 474, fig. 667. - Blitum rubrum minus J. Bavu. Hist. II, pag. 967. Osservazione. — Specie anche questa delle più comuni fra noi in vicinanza dei muri, e quindi probabilmente disseminata dall'uomo per tutte le regioni della terra. Fra gli individui ottenuti dai semi del De Ficipri havvene alcuni con tutte le foglie intiere alla sommità, ed altri colle foglie parte intiere, parte smarginate o fesse, e sono per lo più quelle che hanno il lembo più grande, e spettano ad individui più vigorosi. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. N. 12. — Rumex oLvympicus Boss. Diagn. PI. orient. nov. Fasc. V, pag. 45. Floribus in summo caule racemoso-paniculatis, vacemis nudis. Pe- rigonio duplici, utroque trifoliolato; exteriore e foliolis ovato-ellipticis, concavis, albo-marginatis, sub vitro valido pube stellata vestitis. Interiore 143 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI e foliolis duplo grandioribus, ovato-orbicwlatis, margine petaloideis , disco reticulato, staminibus quinque, sex, omnibus fertilibus ; antheris linearibus , filamento longioribus; ovario trigono ; stylis primum erectis, deinde in stigma inclinatis. Stigmatis partitionibus fasciculatis, margine ciliatis. Fructu trigono; valvis calycinis intimis ovato-orbiculatis, una tantum granifera. Descrizione. Radice a fitone grossa come il pollice, o poco più, assai provveduta di barbe. Fusto angoloso, alto un metro e mezzo circa, ramificato poco al disopra del livello del suolo. Foglie bislunghe ovali, lunghe da 35 a 4o centimetri, larghe da 13 a 15, tutte d’un bel verde, liscie ed intiere, più o meno allargate alla base in una sorta di guaina membranosa attorno al fusto; le radicali bis- lunghe ellittiche, un poco ondulate al margine, sorrette da un gambo della metà più corto del lembo: le cauline ovato-lanceolate, non ondulate, le ultime lanceolato-lineari, sessili o quasi sessili. Fiori disposti a pamnocchia coi rami muniti di tre a cinque ramo- scelli, gradatamente più corti, allorchè vanno in frutto ravvicinati ed affollati per modo da coprire quasi tutto l’asse che li porta. Perianzio doppio; l'esterno di tre foglioline bislunghe lineari, ottuse; l'interno di tre, grandi il doppio, appena più lunghe che larghe, persi- stenti e crescenti dopo la fecondazione: queste e quelle alquanto scolorate al margine e come orlate di bianco, ad una sola nervatura. Frutto trigono avvolto dalle foglioline del perianzio mterno, delle quali una sola granifera, o almeno col granello più grosso che nelle altre. Osservazione. — Qualunque Botanico si vegga dinanzi questa specie, la prende senz'altro pel Romice lapazio (Rumex Patientia L.); ma guar- dandola per minuto, ben tosto s'avvede che ne differisce per molti rispetti, e soprattutto per l’acheno della metà più piccolo, ed anche a colpo d’oc- chio, stante che nel Romice lapazio tutti gl’internodi della pannocchia vanno provveduti d'una fogliolina o brattea, mentre nel Romice dell'Olimpo gl'internodi mancano di foglioline, ad eccettuarne soltanto quello della base. Cresce in Persia, PER G. B. DELPONTE. 149 N° 415. — ParpantHUS sINENSIS Ker. Moraea sinensis Tuus. Pianta conosciuta da lungo tempo nei giardini, provveduta d'un rizoma strisciante, da cui s'alza un caule più volte dicotomo coi rami terminati da uno o più fiori, d'un giallo di zafferano, strisciati di rosso porporino. Foglie lineari-lanceolate guainanti per mezzo dei lati, ossia coi lati contigui incastrati l’uno dentro all’altro. Gl’individui sorti dai semi del De Fiuipri hanno fatto il fusto più alto di quelli già proprii dell'Orto coi petali d’un giallo più pallido, macchiato d’un rosso più vivo. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. N.° 14. — Panicum Crus-caLti L. Hosr. Gram. austr. II, Tab. 20. Specie tutt'altro che rara presso di noi, sommamente variabile per il fusto, che talvolta non s'alza più d'un mezzo metro, e talvolta pareggia quello dell’Ho/cus halepensis, solito ad averne più di due, variabile an- cora per rispetto alla spica, ora nuda, ora barbata, ossia colle glume fornite di una resta lunga da due a tre centimetri. Gli individui raccolti dal De Ficippr appartengono alla varietà di fusto procero e barbato. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. N. 15. — DiitaRIA ciLiARIS Witxp. Panicum ciliare Rerz., Trim. Ie. Fasc. XII, Tab. 144. Così chiamata dalle glume irte di peli rigidi e molto aperti; ho per altro osservato che le spiche molto giovani prima della fecondazione ne mancano. Ì Cresce nei dintorni di Hong-Kong. 150 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI N.° 16. — GvyrmvxoTtRIXx JAPONICA KuntH. Agrost. Synop. I, pag. 158. - Cenchrus purpurascens Tuuns. in Act. Soc. Linn. Lond. 2, 329. - Pennisetum japonicum Tris., Ic. Fasc. II, Tab. 19. Spica cylindracea, palmari, nutante, purpurascente ; spiculis bifloris ; flore altero alterum obvestiente, et ideo spicis prima fronte unifloris. Flore superiore hermaphrodito , inferiore neutro. Gluma bivalvi, valva superiore oblongo-lanceolata, florem aequante, inferiore oblongo-ovata minima. - Glumellae valvis subaeque longis, acutis, inferiore trinervia, exteriore quinque-septemnervia. Stylo indiviso : stigmatibus binis erectis. Caryopside ovata, angulosa, viridula, ima basi oblique truncata. Fusto alto da un metro a un metro e mezzo, leggermente compresso, pubescente al disotto della spiga, vigoroso, cespicante alla base per mezzo di gemme, parte delle quali s'immergono nella terra e si coprono di barbe, e parte s’alzano in culmi senza traccia distinta di rizoma. Fusti ad internodi ravvicinati nella parte inferiore e muniti d’una foglia, la cui guaina ne comprende ordinariamente due, a lembo largo da 10 ad rr millimetri, e lungo poco meno di un metro, sottilmente seghettate al margine, attraversate da una costola robusta con tendenza ad accartocciarsi nella pianta inaridita, a ligola cortissima troncata, ri- cinta di peli lanuginosi e morbidi. Spiga cilindrica diritta, lunga 25 centimetri circa, tinta di rosso, a rachide nascosta dalle spighette dopo la fecondazione. Spighette, prima della fecondazione, molto aperte, quasi orizzontali, a due fiori incappellati l’uno dentro all’altro; l’uno sterile, l’altro ermafrodito. Gluma a due valve, di cui una superiore bislunga lanceolata, a cinque o a sette nervi, l’altra uninervia ovale, da tre a quattro volte più corta. Glumella pure di due valve bislunghe lanceolate, l'esterna a cinque nervi, l’interna solamente a tre. Stilo indiviso a due stimmi diritti. Cariosside ovale verdastra a ma- turazione perfetta, obliquamente troncata alla base, ossia munita di una impressione circolare a foggia di cicatrice. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. PER G. B. DELPONTE. none Osservazione. — È una bellissima graminacea perenne, robusta, capace di sopportare il nostro inverno a cielo scoperto. I suoi culmi vestiti di foglie rigide d’un verde, che persiste a sta- gione innoltrata, formano dei massi fitti ed alti poco meno d'un metro, da cui s’alzano delle spighe o dirò meglio dei pennacchi d'una tinta por- porina, lunghi un palmo, e d’un effetto stupendo nella piena terra dei giardini e nei parchi, dove già coltivasi una specie di questo genere cioè il Pennisetum longistylum Hocus®. Ma siccome originaria delle re- gioni più calde dell’Africa, oltre all’essere più umile di fusto, più scarsa di foglie, e fornita di una spiga piccola scolorata, ha il difetto di non reggere al clima dei paesi temperati; e però noi la vedremo ben tosto surrogata dagli eleganti e vigorosi individui della specie introdotta in Europa dal De Fiuppr. N 17. — Curoris Barpata Sw. Andropogon barbatum L. - Lamx. Encycl. Barbon crételé. - Rueen., Hort. Malabar., Vol. XII, pag. 99, Tav. 51. - Jacquin, Eglog. bot. 1, Tab. 8. Spicis digitato-linearibus sex decem; altera solitaria plus minus re- mota. Rachide dentata non articulata, facie extima florifera, floribus alterne biseriatis, spiculis subtrifloris; flore altero sessili hermaphrodito, altero neutro, et interdum altero effoeto. Flores hermaphroditi, valva superiore aristata, inferiore acuminata mutica duplo breviori. Glumellac valvis difformibus : altera dorso puberula , trinervia, obovato-emarginata, nervo medio in aristam producto, triplo quadruplo longiorem; altera acuminata mutica. Flore neutro ex una tantum valva brevius aristata, cum tertii floris rudimento saepe nullo. Semine nudo cylindraceo, lu- tescente, fere diaphano, utrinque acutiusculo. Radice di fibre rigide biancastre, scarse di barpe. Culmo alto da 50 a 60 centimetri, nodoso, ramificato presso alla base; foglie lineari sottilmente e lungamente appuntate, larghe da sei a sette millimetri, colla guaina slargata molto più corta del lembo, e fornita di lunghi peli al margine e attorno alia ligola cortissima troncata. Spighe in numero di sei a dieci nei culmi secchi mandati dal De FiLippr, e di dieci a quindici negli individui coltivati nell’Orto. 152 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI Spighette a due fiori: l’inferiore sessile ed ermafrodito. Gluma di due valve membranacee trasparenti, che restano attaccate ai denti della rachide nel cadere dei fiori; la superiore lunga il doppio, ad una sola nervatura, l’inferiore a tre. Glumella di due valve; l’esterna glabra a tre nervature, col nervo di mezzo prolungato in una resta da 3 a 5 volte più lunga della valva; l’in- terna bislunga appuntata mutica, a due sole nervature marginali e tutta coperta di peli. Fiore sterile, formato unicamente della valva esterna e terminata da una resta un po’ più corta di quella propria del fiore ermafrodito, e non contenente altro che il pedicello di un secondo fiore abortivo scavato a foggia di cupola. Cariosside bislunga lineare, cilindrica, nuda, trasparente. Nei dintorni di Hong-Kong, lungo il margine delle strade. N° 18. — ELeusine INDICA Gaertn. - Lamx. Ill. Tab. 48, fig. 3. - Trim. Te. Fasc. VI, Tab. 71. Radice di fibre nerastre che partono dagli ultimi internodi del fusto riunite in un fascio. Culmo diritto, fortemente compresso, solcato, nodoso. Foglie lassamente guainanti, avvolte l’una dentro all’altra, senza traccia di nervatura mediana, coi margini della guaina rivestiti di peli lunghi e radi. Spighe digitate verticillate in numero di cinque o di sei, da 5 a 10 centimetri di lunghezza con sempre una spiga solitaria nuda, nascente al disotto dell’ombrella, Spighette per lo più di cinque fiori, lanceolate-lineari. Cresce nei dintorni di Hong-Kong. N.° 19. — EracrostIs VULGARIS var. microstachya Coss. et GeRm. — Poa Eragrostis L. Hosr. Gram. Austr. Tav. 69. - Rerc®. Ic. ed. 2. I. Tav. 164, fig. 427. È la forma piccola della specie, contrassegnata dalle spighette di forma lanceolata-lineare , pressochè egualmente grosse alla base .e alla sommità, PER G. B. DELPONTE. 153 non bislunghe lanceolate, precisamente come si accenna dagli autori della Flora di Parigi, che furono i primi a rilevare e a mettere in vista queste due forme della specie linneana. Osservazione. — È pianta sicuramente coltivata nell'Impero Celeste per alimento del bestiame, ed io lo argomento dalla quantità straordinaria di seme mandata dal De Ficipri. Non mancai di provarla nell’ Orto economico della Crocetta, e ben posso affermare che somministra un fo- raggio eccellente, ricco di parenchima, e scarso di parte fibrosa e di materia silicea, ma richiede un terreno fresco e smosso, non soggetto all’arsura; quest'è la ragione per cui, essendo stata trasportata sui colli di Torino e nelle terre del Monferrato, nacque sì rada e profittò sì poco da lasciare il terreno in gran parte scoperto nel corso della state. Ecco le poche note, che mi venne fatto di raccogliere intorno alle specie nate dai semi del Professore De Firippr, parecchie delle quali al giorno d’oggi, per mezzo del Catologo dei Semi dell'Orto di Torino, già sono state disseminate per gli Orti botanici d’ Europa, segnatamente il Cynanchum Defilippii, la Caccinia strigosa, la Gymnotrix japonica , l’Isatis glauca, \'Althaca sulphurea var. sublanata ed altre. Tutte poi sono di qualche importanza, anche le poche, assai comuni fra noi, non fosse altro, come dissi da principio, sotto il rispetto della loro distri- buzione geografica. “ Serie II. Tom. XXVI U 154 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI III. PIANTE ECONOMICHE N. 20. — RAPHANUS SATIVUS. 6. caudatus N. Raphanus caudatus L. Mant. 95; Linn. Fil. dec. I, T. 10. È noto che Linneo è stato il primo a stabilire questa specie di Ra- fano colla frase siliquis depressis acuminatis decumbentibus planta tota longioribus. Un carattere tanto evidente e di spettanza d’un organo di tanta importanza era più che bastante ad assicurare il titolo di specie a questa sorta di Rafano, accolta in appresso da tutti i Botanici, e segnatamente dal De Canporre, prima nel Systema naturae, vol. II, pag. 665, e poscia nel Prodromus I, pag. 228, ed io non esitai punto a conside- rarla come essenziale, vedendola sorgere nell’Orto dai semi mandati dalla China dal De Fiuiepr. Il Dr Canpocre, oltre alle silique più lunghe di tutta la pianta, gli attribuisce altri caratteri e sono specialmente: fusto alto un piede e mezzo circa, grosso come la canna d'una penna d’oca, pressochè terete, debole, glaberrimo, da principio diritto, e poscia prostrato e tinto in gran parte di rosso, e come velato di polvere d’un bianco azzurro. Foglie patentissime peziolate, le inferiori più grandi, pressochè lirate, le superiori lanciuolate dentato-seghettate al margine. Fiori lassamente disposti a grappolo terminale, coi pedicelli lunghi tre linee, filiformi e crescenti dopo la fecondazione. Silique più lunghe di tutta la pianta (anzi di quattro e di cinque piedi, secondo il De CaAnpoLLe). Vuolsi originario di Giava dove coltivasi pure per mangiarne i frutti in erba, come si fa dei piselli, e dei fagiuoli. Egli è appunto dalla lunghezza straordinaria del frutto che la pianta - PER G. B. DELPONTE. 15! trasse il nome specifico di Rafano a coda, e il nome volgare di Rafano serpente negli orti e nei giardini, dove venne introdotta come oggetto di curiosità e d’ornamento in grazia dei frutti, i quali, oltre all’essere straordinariamente lunghi e tortuosi, pigliano ancora la tinta d’un rosso porporine vivace, che passa al pagonazzo, per cui rassomigliano, fino ad un certo punto, ad altrettanti serpentelli. I semi affidati al terreno in vaso, diedero origine ad individui che non tardarono a levarsi in fiore ed in frutto. I quali individui esami- nati di confronto ad altri di spettanza del Rafano comune, non mi hanno offerto niente di particolare, tranne i fiori alquanto più grandi, e le silique d’una lunghezza veramente smodata ossia di 50 a 6o centimetri. Il qual fatto, unito alla tendenza dei semi ad abortire per la massima parte (essendo difficile che se ne possa raccogliere quel tanto che è necessario ad operarne la riproduzione), mi diede qualche sospetto in- torno al valore dei caratteri, che servono di fondamento alla specie. Intanto debbo soggiugnere che l’Orto botanico di Torino ebbe a ricevere semi di questa medesima forma di Rafano dall’Orto di Lipsia; i quali furono deposti dal sig. Gio. Battista Caruso, Custode dell'Orto, parte in vaso e parte in piena terra. Gl’individui coltivati in vaso hanno fatto i fiori alquanto più grandi e le silique lunghissime, come al solito; ma per contro gl’individui cresciuti in piena terra, diedero a vedere i fiori grandi e le silique lunghe nè più nè meno di quelli del Rafano ordinario (Raphanus sativus L.). E si noti che le piante in vaso e quelle di piena terra nacquero da semi.dello stesso pacco. Allora non mi restò più dubbio, e ritenni come un fatto sicuro, che il Raphanus caudatus non è che una forma avventizia del Raphanus sativus, e lo diedi a conoscere in una Nota pubblicata dello stesso anno nell’Economia rurale. Il caso di cui ebbi a far parola è sicuramente uno di quelli non soliti a mostrarsi che di rado ed in circostanze affatto straordinarie; e perciò tanto più meritevoli di essere messi in vista, siccome di tutta importanza dal lato morfologico della specie; ed io mi sono indotto a darne conto tanto più volentieri, in quanto che negli anni addietro ebbe a cadermi sott'occhio un articolo della Revue Horticole, nel quale si leggono queste parole: Tout cela est fort éloigné du Raphanus caudatus, qui nous parait une plante bien distincte, avec de grandes chances pour étre une bonne espèce botaniquement parlant. V. Revue Horticole 1866, pag. 471. 156 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI N.° 21. — Brassica Rapa L. B. Rapa flavescens DC. Syst., pag. Sor. Se ne conoscono due variazioni o sotto-varietà contrassegnate dal color della pelle, e della polpa di color giallo-dorato, ossia del legno del Bosso, duxea secondo l’espressione di TourneForT, e che diffe- riscono per rispetto alla forma, avendovene una arrotondata, e l’altra conica subitamente assottigliata in punta da una base piuttosto larga. La prima suol essere preferita. E di fatto ha una polpa morbidissima che non sente per nulla il forte caratteristico delle Crocifere, sovente soverchio nella rapa comune a carne bianca, e pare che s’adatti meglio ad ogni sorta di terreno. Ma colui che intendesse di giovarsene ad alimento del bestiame, farebbe senza dubbio meglio a provvedersi della forma conica, perchè più rustica e più produttiva. Coltivata negli orti presso Hong-Kong. N° 22. — Ppasrorus crrrinus Savi, Mem. IV, fig. D. Fagiolo del Nepal. Foliis primordialibus cordato-oblongis acutiusculis , reliquis pinnato- uniiugis, foliolis lateralibus oblique ovatis, breviter acuminatis, integris, aut latere exteriore unidentatis, terminali quandoque subtrilobo; lobis rotundatis vel acutis. Floribus luteo- viridibus, plerumque racemosis; racemis foliorum pe- tiolo brevioribus , bifloris, raro quadrifloris. Leguminibus solitariis vel geminis, rufescentibus, torulosis, rostro conico rectiusculo terminatis : seminibus octo-decem, raro pluribus, nitidis fulvis aut rufescentibus; hilo lineari oblongo, scilicet qua parte micropilo obvertitur sensim latiore : glandula basilari oblonga sulcata. Tota planta, si demas flores atque fructus, pilis retrorsis lutescentibus vestita; variat seminibus fulvis aut purpurascentibus. i Che tutte in generale le specie del genere Phaseolus andassero sog- gette a mutarsi di abito nell’atto della riproduzione, a farsi cioè di fusto umile e diritto, e a prendere coloramenti diversi nella buccia del seme e nella tinta dei fiori, è cosa di cui non mi restava alcun dubbio; ma che il seme potesse ancora passare dalla forma tonda alla cilindrica PER G. B. DELPONTE. 157 è cosa che non avrei creduto così facilmente, se non ne avessi avuto la prova nella specie in discorso; chè nel passare dagli Orti della China alle aiuole dell’Orto sperimentale di Torino, in cui venne coltivata, ha fatto i semi non solamente porporini, ma ancora di forma cilindrica, notevolmente più lunghi che larghi; cosicchè si hanno attualmente quattro forme contrassegnate dal fusto talvolta umile, talvolta rigoglioso scandente, e dal seme talvolta di forma tonda bianco-sudicio, talvolta bislungo- cilindrico, e diversamente colorato, da potersene stabilire le seguenti forme o varietà. (@) Phaseolus citrinus, caule humili, semine subrotondo subalbido. Fagiolo nepalino di fusto umile, di seme arrotondato, bianco-sudicio. (8) Phaseolus citrinus, caule procero volubili, semine subrotundo purpureo. Fagiolo nepalino di fusto rigoglioso scandente, di seme arrotondato porporino. (7) Phaseolus citrinus, caule procero, semine oblongo subalbido. Fagiolo nepalino di fusto rigoglioso, di seme bislungo, bianco-sudicio, leggermente intinto di verde. (0) Phaseolus citrinus, caule procero , semine oblongo purpureo. Fagiolo nepalino di fusto rigoglioso, di seme cilindrico porporino. I fagioli del NepAL sono di polpa cottoia farinosa, di buon sapore ed acconci per la preparazione delle salse, e delle minestre così dette passate, in grazia della pelle tanto sottile, che sotto alla cottura si scre- pola e scompare. Sono in una parola legumi di lusso per la mensa dei ricchi, imperciocchè per quella del povero ogni altra specie o razza col- tivata ne’ campi vale sicuramente molto di più. Radice premorsa di fibre rigide tortuose. Fusto umile, ramificato poco sopra il livello del suolo, ginocchiato, cogli internodi brevissimi. Foglie lungamente peziolate, uniiughe, colle foglioline ovali, più lunghe dal lato esterno, brevemente appuntate: la terminale ovato— deltoidea, talvolta prossimamente triloba, ossia con. due grossi denti, uno per parte; stipole ‘ovali, appuntate, sciolte alla base. 158 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI. Brattee in numero di tre: l’inferiore grande navicolare, due volte più lunga del calice, trifida alla sommità : le due altre lanciuolate lineari, alquanto più corte. Calice cortissimo campanulato col labbro superiore intiero arroton- dato : l’inferiore trifido a denti ottusi e ciliati. Corolla giallo-dorata in tutte le sue parti. Vessillo leggermente smar- ginato, molto più largo che lungo. Carena falcata, tinta di verde alla sommità, ali bislunghe ricurve ad unghia bifida. Stilo due volte piegato ad arco, a stimma verdastro globoso, irto di peli, dalla faccia interna accresciuto d’un tubercolo trasparente appuntato dal basso in alto. Legume cilindrico, toruloso, lungo da sei a sette centimetri, largo quattro millimetri circa. Seme arrotondato bislungo, liscio, d’un bianco di selce, talvolta d'un bel rosso porporino coll’aiuola dell’ombellico can- dida, lineare, gradatamente più larga dalla parte del micropilo; ghiandola basilare bislunga, solcata. Coltivato nei dintorni di Hong-Kong. N° 23. — Cucursita Maxima Ducn.; LAmk. Dict. Encyc. II, pag. 316. DC. Prodr. III, pag. 316. - Serince FI. des Jard. II, pag. 533. - C. Pepo var. « Linn. sp. 1435. - NaAupin in Ann. Sc. nat. ser. 4, Tom. VI, pag. 17. Nel passare a questo genere di piante eminentemente polimorfe devo premettere che le varietà sorte dai semi mandati dalla China dal De FiLiepi non sono che due, appartenenti al primo ed al secondo dei tipi stabiliti ultimamente dal Naupin (Ann. Sc. nat. 1. c.); e poichè io ebbi a coltivare per più di 12 anni di seguito non poche varietà dell’uno e dell'altro, credo a proposito di darne un cenno sotto al tipo di cui fanno parte, accompagnandole di qualche nota non affatto priva d’im- portanza dal lato economico o scientifico, cominciando dalla frase dia- gnostica, e dalle forme della Cucurbdita maxima. C.: Foliis cordato-reniformibus margine denticulatis subintegris. Pe- dunculo in floribus masculis cylindrico, neutiquam sulcato, laciniis ca- Iycinis petaloideis, a basi ad apicem capillaribus,:conferte pilosis, fere PER G. B. DELPONTE. 159 ciliatis, tubo eximie cupuliformi duplo longioribus. Peponide subrotunda, intus cavernosa, calycis tubo integro vel dimidiato tecta, stylo crasso persistente, vel callo stigmatico rimoso, plerumque trifido , coronata. (a) C. maxima subrotunda. Fusto procero, oltremodo robusto, ad internodi distanti un palmo e più, muniti di viticchi 3-fidi, 4-fidi, 5-fidi. Foglie cordato-reniformi , denticolate al margine coi lobi poco distinti o scancellati affatto, quasi vellutati, ossia coperti di peli notevolmente più corti e non rigidi, pungenti come nelle razze di spettanza della C. Pepo. Fiori grandi, principalmente i maschi, col gambo fistoloso d’un giallo puro, d’un odore gradevole che sente quello dei fiori d’arancio, coi lobi della corolla increspati e molto ottusi. Frutto sempre di gran mole, talvolta enorme, cavernoso a matura- zione perfetta, a costole poco rilevate o senza, ora tondo ora depresso, ed anche un po’ concavo alla base ed alla sommità; per lo più d'un giallo sbiadato misto di verde-scuro, o vergato di bianco; talvolta d’un verde-scuro macchiato di rosso, e talvolta tutto cinerino grigiastro o tutto verde. Polpa biancastra, carnicina o ranciata. Gambo talvolta an- goloso, talvolta cilindrico, rigonfio nel suo punto d’attacco, e terminato da una cicatrice piana che non suol avere più di 10 millimetri di dia- metro, ovvero da una sorta di piuolo o mucrone grosso come il dito mignolo e lungo da uno a due centimetri e più, proveniente dallo stilo ingrossato ed indurito. È la varietà più coltivata fra noi per essere mangiata nell'autunno avanzato, e nel principio dell'inverno. (6) C. maxima oblonga. Potiron ou courge de l’Ohio. Naup. l. c., pag. 26. - Wim, Cat. Gr. potag. 1851. Frutto abitualmente più piccolo, di forma tonda, prominente ai due capi, d'un giallo laterizio o ranciato pallido, coi solchi appena distinti e colla polpa più soda, più grossolana, ordinariamente distinta in quattro strati di una tinta diversa; l’esterno d’un rosso miniato, il secondo 160 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI biancastro o d’un giallo paglierino, il terzo verdastro, il quarto ed ul- timo d'uno spessore che è più del doppio degli altri assieme, d’un giallo di zafferano. Del resto la Zucca dell'Ohio non differisce per nulla dalla Zucca da inverno tonda or dianzi accennata. (c) C. maxima dimidiata. C. Melopepo L. Courge patisson Ser. Fl. des Jard., pag. 536. - Potirons couronnés ou Turbans. Naup. l. c., pag. 20. - Zucca a turbante, Zucca berretto turco. Fusto scandente rigoglioso più debole che nella specie, meno atto a crescere in lungo e a trascorrere per i tetti e sui pergolati, lungo ordinariamente da tre a quattro metri. Foglie cordato-reniformi denticolate al margine, come nella specie, ma sempre più piccole. Fiori maschi sorretti da un gambo fistoloso cilindrico, niente solcato, col tubo del calice molto allargato dal basso in alto a foggia d’imbuto, e terminato da cinque lobi o piuttosto lacinie lineari filiformi, due volte più lunghe del tubo, rivestite di peli morbidi ed orizzontali; frutto arrotondato-cupuliforme, col tubo del calice di- mezzato per modo da lasciare scoperta la metà dei carpelli sporgenti dal fondo sotto forma di quattro o cinque grossi bernoccoli, e termi- nato da uno stilo crasso persistente o da una cicatrice callosa ed ir- regolare. Egli è ancora un carattere di questa varietà quello di avere la polpa scarsa e fibrosa poco atta agli usi economici, motivo per cui non suolsi coltivare che come oggetto di curiosità. Vi hanno per altro delle variazioni a frutto grosso, molto più largo che lungo e ben fornito di polpa di buona qualità. Osservazione. — Con tutta ragione il Naupin ha riferito la forma predetta, ossia la Cucurbita Melopepo di Linneo al tipo della Cucurbita masima. Ed io soggiugnerò che l’identità specifica delle tre forme anzi- dette colla prima, in dodici anni di non ‘interrotta riproduzione, mi venne confermata da frutti dell’una e dell’altra ‘prodotti dallo stesso piede di pianta, o da individui venuti da seme maturato‘ da una pianta mede- sima, cioè da frutti ora di grossa mole ed intieri, quali sogliono essere PER G. B. DELPONTE. I6I nella Cucurbita maxima propriamente detta, ora dimezzati e più pic- coli, come nella Cucurbita Melopepo, con tutti i degradamenti o passaggi intermedii del calice dimezzato poco sopra del peduncolo fino al suo totale rialzamento a contatto dello stilo, in guisa da lasciare i carpelli per la più parte scoperti, o di darne a vedere soltanto la sommità © di nasconderli affatto. I caratteri, che ben possono dirsi specifici, sono quelli tratti dal tubo e dalle lacinie del calice, e dal lembo delle foglie d’una certa morbidezza di parenchima non solita a trovarsi nelle altre specie, ruvide ed irte di peli spinosi; caratteri che non ho mai veduto mancare negli individui coltivati nell’ Orto sperimentale e nell’ Orto botanico. Non si può dire altrettanto del fusto tanto più grosso quanto più raccorciato; nel qual caso i viticchi si fanno più radi, e qualche volta scompaiono. Ancora più instabili e fallaci hanno a ritenersi i contrassegni tratti dalla forma e dal colore dei frutti. Un'altra prova segnalata della massima tendenza del pericarpio a scostarsi dalle leggi di simmetria tutta propria di questa razza o varietà, si è quella offertami da certi individui coltivati nell’Orto sperimentale dal giardiniere Giuseppe Rivorepa a frutto di forma tonda coronati delle foglioline del calice coi carpelli intieramente abortivi, e però costituiti da niente altro che dal tubo del calice fatto carnoso, senza nemmeno la traccia di placente e di semi. Egli è un caso di sviluppo eminente- mente abnorme, di cui ci danno esempio qualche rara volta anche gli alberi da frutto, ad esempio la Pera, descritta dal Duvat nel vol. IV della Revue Horticole pag. 55, a proposito della quale l’autore conchiude: Cette poire extraordinaire n’était donc entièrement composée que d'une pulpe blanche excellente. N.° 24. — Cucursita Pepo L. var. C. polymorpha et C. pyxidaris Duca. - C. verrucosa et C. ovifera L. - C. verrucosa et aurantia W. - C. Melopepo Roem. - Cucurbita Pepo Naup. l. c., pag. 29. Foliis cordato-reniformibus denticulatis, omnibus ad medium, raro ultra medium trifidis: lobo medio ovato-triangulato , obtusiusculo; la- teralibus emarginatis subbilobis. Pedunculo in floribus masculis subsulcato Serie II. Tom. XXVI. v 162 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI obsolete pentagono , laciniis calycinis herbaceis, teretibus, acutis,. apice recurvis, tubo subcampanulato cylindrico paulo Ilongioribus. Ovario calycis tubo adnato, primo sensim expanso , deinde fauce ad verticem subito constricta, clavato-piriformi; laciniis minimis obsoletis. Foglie cuoriformi denticolate al margine, tutte spartite in cinque lobi più o meno profondi e denticolati al margine. Fiori maschi sorretti da un gambo fistoloso a solchi poco distinti, colle lacinie del calice erbacee, lineari, un poco più lunghe del tubo cilindrico campanulato. Corolla più piccola di quella dei fiori femminei, coi lobi di forma ovale terminati da una punta verde. Ovario nel suo primo periodo di sviluppo gradata- mente ingrossato dal basso in alto, poi ristretto ad un tratto col tubo del calice terminato da un lembo cupuliforme tutto verde o tutto giallo, o dimezzato dell'una tinta e dell’altra fin dal suo primo mostrarsi al disotto della corolla, di forma ora bislunga ed ovata a rovescio, piriforme o clavata, ora tondo, ora liscio, ora bernoccoluto nel frutto giunto a per- fetta maturità. Fusto solcato, di poco più d'un centimetro di diametro presso alla base, molto rigoglioso ed allargato in rami, ad internodi distanti da 12 a 16 centimetri, muniti di viticchi 3-4-bfidi. Foglie cordato-reniformi, dentellate al margine, d’un verde piuttosto scuro, qualche volta chiazzate di bianco col gambo lungo 3 decimetri circa ed il lembo largo fino a 30 centimetri e lungo 24 circa in quelle che spuntano in vicinanza del suolo. Frutto di mole , di forma e colo- ramento sommamente variabile, come danno a vedere le forme seguenti ottenute nell’Orto sperimentale , che passerò brevemente in rivista, divi- dendole in tre sezioni contrassegnate dalla forma del frutto. i SEZIONE I. — Frutto bislungo. (a) Cucurbita Pepo pirifera N. - Cucurbita ovifera L. - Ser. Fl. des Jard. Tom. II, pag. 537. - Coloquinelles, Cougourdettes. - C. ovifera pyxidaris et piriformis Naupin l. c. pag. 45. - Zucca mezza verde e mezza gialla. - Zucca di due facce. - Zucca pera. Frutto sempre più lungo che largo, talvolta assottigliato e un po’ contorto dalla parte del gambo a forma di clava, col vertice promi- nente, talvolta bislungo ed ovato a rovescio, d'una mole variabile sui PER G. B. DELPONTE. 163 rami d’uno stesso individuo, da 4 a 12 centimetri di diametro e da 8 a 20 di lunghezza, tutto d’un verde scuro, o tutto d’un bel giallo dorato, o colla parte superiore gialla e l’inferiore d’un verde talvolta uniforme, talvolta vergato, colle striscie prolungate sulla parte gialla fino a contatto del gambo. S'incontrano pure dei frutti gialli attraversati da una fascia verde nel ventre o nel collo, o viceversa verdi e fasciati di giallo in alto od in basso, compresa una piccola parte del gambo, che sempre partecipa della tinta propria della base del frutto: gambo solcato da tre a cinque centimetri di lunghezza, provveduto di un orlo sporgente nel suo punto d’attacco, dove lascia una cicatrice liscia che non ha mai più d’un cen- timetro di diametro, coll’aiuola dello stilo dalla parte opposta di 5 mil- limetri al più. Osservazione. — Razza tollerante del freddo, produttiva e rustica tanto, che prova bene anche ne’ terreni più magri ed asciutti, e non cessa di compiere la maturazione dei frutti in ottobre avanzato quando le altre già si mostrano affralite dal freddo delle notti; i fruiti abboniscono in tanta copia che non è punto un caso straordinario il contarsene più di 70 sopra un solo individuo: ma per essere di poca mole e di poca polpa, quasi non bastano per meritare a questa specie un posto nel novero delle piante economiche, e d’ordinario non si coltiva che ad ornamento delle siepi e dei pergolati, su cui si arrampica e trascorre per la mostra graziosa gni internodio. Mentre la buccia esterna ogni dì più s'indura, la polpa si prosciuga che vi fanno i frutti pendenti quasi da o e si restringe a segno da potersi tutta cavare da un foro aperto nel- l’aiuola del gambo; ond’è che i frutti di questa varietà, siccome quelli delle Zagenarie propriamente dette, possono servire ad uso di botticelle per riporvi dentro liquidi o meglio oggetti solidi e minuti, come polvere da caccia, sementi ed altro. Un altro accidente a notarsi nella specie in discorso si è, che quando la pianta viene a trovarsi in terreno pro- fondo e sostanzioso non monta in alto, i frutti si fanno più scarsi ma molto più grossi fino ad avere 20 centimetri di lunghezza e 12 di dia- metro con uno strato di carne di due centimetri di spessore all'incirca, e la buccia tutta d’un verde scuro che passa radamente al giallo, o vergata regolarmente per lungo, non più dimezzata trasversalmente di verde e di giallo. Ogni volta che il frutto ingiallisce, molto facilmente può essere 164 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI scambiato con quelli della Z. statereccia bislunga di piccola dimensione; ne danno per altro indizio la forma bislunga, sempre un po’ contratta alla base, la tinta verde che mai non ismarrisce del tutto dalla parte del gambo, ed infine la carne molto più soda e la buccia più dura. Egli è in grazia della compattezza e solidità dello strato esterno, talvolta bernoccoluto, che i frulti di questa varietà possono conservarsi per lungo tempo freschi ed intatti. (b) Cucurbita Pepo subcostata. Zucca pera costolata. Zucchettina scanellata. Frutto ordinariamente più grosso e più lungo che nella varietà pre- cedente, d'un giallo di zolfo da poco oltre il mezzo infino alla base, o leggermente intinto di verde, con dieci solchi piuttosto larghi nel ventre, corrispondenti ad altrettante incavature nell’estremità inferiore a contatto del gambo, talvolta d’un giallo uniforme, debolissimo, pressochè scolorato. (c) C. Pepo ovifera - Coloquinelle oviforme NaupIN l. c., pag. 45. - Zucchettina gialla vergata; zucchettina a forma d’uovo; zucchettina dal collo. Tutta più piccola nelle sue parti. Frutto più contratto sotto al gambo somigliante ad una pera più che ad un uovo, da prima tutto verde, poi d'un giallo paglierino a striscie longitudinali fatte di punteggiamenti d’un verde più scuro, e talvolta ancora dimezzato di giallo e di verde. Egli è principalmente in questa varietà che la buccia, unitamente ad una parte del sarcocarpo s'indura ed acquista una consistenza più che le- gnosa, diventando impermeabile come nella Zucca dal collo, propriamente detta Zagenaria vulgaris, donde il nome volgare di Z. botticella. SEZIONE II. — Frutto tondo. (a) Cucurbita Pepo aurantia N. - C. aurantia Wir. - Serince FI. des Jard. II, pag. 538. - Orangin ou Courge orangine Naup. I. c. pag. 43. - Zucca arancina. Frutto rotondo, liscio, a 10 solchi, appena distinti alla base e nel ventre, della forma e grossezza di quelli del così detto mandarino, o PER G. B. DELPONTE. 165 d’un'arancia ordinaria, colla buccia d’un giallo paglierino o ranciato, e la carne bianca. I frutti della varietà piccola, allorchè sono giovani, si mangiano crudi , tagliati in fette sottili con olio e sale, alla maniera dei ramolaccini. (b) Cucurbita Pepo verrucosa N. - C. verrucosa L. - Serince FI. des Jard. II, pag. 538. - Barbarine, Barbaresque. - €. verrucosa et subverrucosa NaAupin I. c. pag. 44. - Zucca bernoccoluta. Differisce dalla forma precedente nell'avere la parete del frutto ro- busta, più soda, piena di calli e bernoccoli accavalciati e per lo più cir- coscritti dagli spicchi o da linee corrispondenti ai tramezzi membranosi che dividono in logge l’interna cavità. I bernoccoli sono talvolta in tanta copia, e così mostruosi che sor- passano quasi la mole del frutto propriamente detto. SEZIONE III. — Frutto lobato o stellato. (a) Cucurbita Pepo lobata. - C. clypeiformis. - C. stellata J. Baun. Hist. II, pag. 225. Patisson proprement dit, ou Artichaut d’Espagne. - Bonnet d’électeur, et Arbouse d’Astrakan, Naupin l. c. pag. 4r. - Zucca merlata, Pasticcione; Zucca a berlingozzo; Z. a corona. Frutto d’una tinta paglierina rossiccia di 8 centimetri di altezza e 12 di larghezza, distinto in due parti: l’inferiore più larga e circoscritta da un margine spartito in 10 lobi arrotondati e ripiegati all’indentro ; la superiore un po’ appianata ed ombellicata colla cicatrice del vertice attorniata da una zona bianca. Carne soda, di odor grave, colle logge poco fornite di polpa e di semi. (b) Cucurbita Pepo pyramidata. - Zucca a berlingozzo piramidale. Frutto d’un bel giallo dorato, grosso come nella varietà precedente, ma più lungo che largo, ossia gradatamente rialzato in una sorta di piramide, spartito presso alla base in lobi poco sporgenti e rivolti all’in- fuori, colla cicatrice del vertice mancante di zona. A proposito di queste due ultime varietà, soggiugnerò d’avere avuto 166 UN RICORDO BOTANICO DEL PROF. F. DE FILIPPI sott'occhio dei frutti ottenuti da semi maturati da uno stesso individuo, gli uni di forma conica, altri schiacciati da ambe le parti, ed altri schiac- ciati dalla parte dello stimma e rilevati da quella del gambo, per lo più di una tinta uniforme giallo-dorata con bernoccoli o senza; forme, le quali si danno a scorgere talvolta sullo stesso piede di pianta, e mo- strano, all’evidenza, non essere altro che accidenti di una stessa forma essenziale. N. 25. — Cucumis Meco L. Il De Fiuppi, nell’affidarmi il seme di una delle varietà coltivate in Persia, appena tornato dal suo viaggio, non sapeva trovare parole suffi- cienti per darmene a conoscere il valore superlativo. Oh i Meloni di Persia, diceva egli, fanno dimenticare le migliori razze che abbiamo nei nostri orti: sono eccellenti! sono incomparabili! A dir vero, riflettendo che gli autori s’'accordano nel considerare le Cucurbitacee siccome originarie tutte o quasi tutte dell’Asia, e che il Melone, propriamente detto, più non si trova da nessuna parte allo stato selvatico; che si conosce per altro una specie di Cucumis affine al Melone originaria della Persia (Cucumis Dudaim L.), mi pareva di avere qualche buona ragione per credere non esagerate le parole del De Fiuippi. Intanto i semi affidati al terreno germogliarono, e tostochè le piante furono un poco adulte, il Professore De Frcrpri volle recarsi meco a vederle sul posto ;.e tornò a vederle quando i frutti erano già molto avanzati, affrettando col pensiero il momento di vederli condotti a ma- turità: e questo momento venne, sebbene alcuni giorni più tardi del consueto, Ed è ciò che suole accadere in generale delle razze che si traspor- tano da paesi più caldi. A parte questa circostanza, quello che importa si è che i Meloni tanto eccellenti, che l’insigne naturalista aveva gustato in Persia, nell’Orto sperimentale della Crocetta diventarono appena mediocri! Tanto è vero che le razze e le varietà sono prodotti accidentali del terreno e del clima, e lo aveva già detto il nostro divino poeta in quei versi memorandi dal lato poetico e dal lato scientifico: Guarda il calor del Sol che si fa vino Giunto all’umor che della vite cola. PER G. B. DELPONTE. 167 N 26. — Soranum MeLONGENA L. cYrLINDROCARPUM? - Melanzana lunga cilindrica. Razza notevole contrassegnata da un abito suo proprio e da forme particolari bastanti a stabilirne una specie, se non fosse che qui pure trattasi di un genere polimorfo, le cui forme hanno bisogno di essere esplorate a lungo, e in diverse condizioni di terreno e di temperatura. Il carattere principale, per cui si distingue da tutte le altre, sta nella forma del frutto scolorato cilindrico ed alquanto ricurvo a maniera di corno. E ciò che mi persuade ancor meglio d’un tipo diverso dell’ordi- nario, si è l’averla trovata più tarda a levarsi in fiore, per cui non le bastò più il tempo di condurre a maturazione i frutti. 1 (Fendì chi delle Ise di “odo, Oleuo div Sc Fis, UVA, Sere Dad To UL, XXVI. lav Lapo do { i } | 9) Ù ; \ si Y | ) | A. da h Meli @ dd 9 L Conti des e lit Lit: Flé Doyen Torino , CA Seflippi Deb Aecad. ope delle Sv dv Corvino, Lasse di ef. Fio. 7 Na, Sta IA Or JO VI Lav. LL. L (anti dis e lt Torino bt. FF Doyen Acad RE delle Sc dv Voino HassodvSo Fis. Wat, Svre 2 Com, XXVI Tix AI. L Cantù dis.e bt. : ; Torino lieFlDoyen. Sile me pediunculario Boss. ecaò. Re della Se di Coùmno, Classe dv de Ta e MNOALRSTO Di oa >0.0./2 7 Tav SV L. Cantù dis e Li Trino LF Doyer AUlthaca Ad ulp fhiuica Bois Aecad PID Sc Dan tasse du eSe. Go e Mat. Serre DA Conv È Tan a A LCanti dire Le Torino LF Doge (A) . . ° D ì Caccimi (0) Ala 0a Boirss. AUccad. RL delle Se. dormo, Classe di So. Fio. Moat, Serie) 22Tom. AIVI.. VEE VATZZIENIAA Torino Lit. EDoyen. Caewebita) pereritto As. Gray. IUIITOO 5 TOT SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL'AGO CALAMITATO SOTTO L'AZIONE DELLA CORRENTE ELETTRICA DEL PROFESSORE GIUSEPPE BASSO _— ———_ Approvata nell’adunanza del 30 gennaio 1870 84. Nello studio dell’azione esercitata da una corrente elettrica sopra una calamita posta nelle sue vicinanze, è necessario tener conto di parecchi elementi. L'intensità della corrente, la forma del circuito elettrico, la forma e le dimensioni della calamita, l'intensità del magnetismo ed il modo di sua distribuzione nella calamita stessa, la posizione rispettiva del circuito e della calamita, sono tutte condizioni da cui dipende l’azione mutua della corrente e del magnete. Le questioni che si possono proporre a tale riguardo si potrebbero risolvere coi soli procedimenti analitici, quando si sapesse con quali leggi varia la : forza, che agisce fra un elemento di corrente ed un elemento magnetico, col variare della distanza e della direzione dell’uno per rapporto a quella dell'altro. Se si vogliono seguire le teorie degli antichi fisici, nelle quali 1 fenomeni elettrici ed i magnetici si fanno dipendere da cagioni diverse e distinte, nulla v'ha che ci possa guidare alla conoscenza di queste leggi. Fortunatamente la scoperta fatta da Ampere delle azioni meccaniche che si svegliano fra conduttori vicini, quando sono percorsi da correnti elettriche, condusse lo stesso scienziato alla costruzione di certi sistemi di correnti, detti so/eroidi, i quali, come ognun sa, presentano colle calamite le più strette analogie. Serie II. Tom. XXVI. x 170 SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL'AGO CALAMITATO ECC. Ora l’azione reciproca fra due elementi di corrente è regolata da leggi che, mercè i lavori di AmpèRE stesso, sono pienamente conosciute; quindi l’azione che due correnti esercitano l'una sull’altra si può trovare ricor- rendo al solo calcolo, e la sua determinazione non presenta altre diffi- coltà, se non quelle derivanti dai procedimenti matematici, che si debbon seguire. È adunque naturale che, per istudiare teoricamente i fenomeni delle calamite in presenza delle correnti, si prenda per guida l'esame dell’azione esercitata dalle correnti sui solenoidi. Trovate col calcolo le condizioni in cui quest’azione si compie, sarà facile riconoscere in seguito coll’espe- rienza, se esse hanno pur luogo per le calamite sostituite ai solenoidi; in tal modo si potrà fare la teoria de’ fenomeni magnetici già conosciuti, e fors' anco trovare le traccie di altri fenomeni non ancora svelati dall’os- servazione diretta. Esiste appunto un fatto, relativo all’azione delle correnti sui magneti, al quale finora i fisici hanno badato poco o punto; e siccome l’oggetto del presente scritto è precisamente lo studio teorico e sperimentale di questo fatto, così è d’uopo ch'io incominci dalla sua esposizione. Quando un ago calamitato orizzontale, liberamente sospeso sopra un perno verticale, si trova in presenza d’una corrente indefinita orizzontale, esso subisce per parte di questa un'azione complessa, la quale si può. ridurre a due forze applicate ai due poli dell’ago e dirette in piani verticali distinti. Intendendo ciascuna di queste forze scomposta in due, verticale e orizzontale, le due componenti verticali tendono a far muovere l’ago nel piano che le contiene; le due componenti orizzontali tendono a col- locarlo in un piano verticale, normale a quello che passa per la corrente. Se il piano verticale della corrente passa pel punto di sospensione dell’ago diventano eguali le forze verticali; diventano pure eguali le due forze orizzontali, le quali costituiscono allora una coppia. Supponiamo che la corrente elettrica orizzontale venga disposta nel meridiano magnetico, cioè nel piano verticale, in cui l'ago starebbe in equilibrio sotto l’azione tel- lurica; in tal caso per l’azione della corrente l'ago devia dallo stesso me- ridiano fino a che, per ciascuno de suoi poli, la forza esercitata dalla corrente equilibri la forza magnetica direttrice della terra. Ciò posto, l’esperienza prova che l'angolo di deviazione varia col variare della distanza della corrente dall’ago, e si è sempre supposto che lo stesso angolo cresca di continuo col diminuire di tale distanza. Per esempio, nel pregevole DEL PROF. G. BASSO. 17! Cours de Physique del Prof. Jawix (vol. IN, pag. 4) si legge: Sî collochi una corrente nel meridiano magnetico al di sopra d’un ago mobile sopra un perno. Se questa corrente è intensa e vicinissima all’ago, la deviazione è uguale a 90°; se essa decresce o si allontana progressivamente, la de- viazione diminuisce. In realtà la cosa non procede punto a questo modo. Facendo l'espe- rienza con qualche attenzione, si scorge subito che, se la corrente è vi- cinissima all’ago, quasi in modo da toccarlo, la deviazione ha un certo valore, il quale va crescendo coll’allontanare la corrente dall’ago. Poi si raggiunge una certa distanza, superata la quale, la deviazione comincia a diminuire, e diventa sensibilmente nulla quando la corrente è lonta- nissima dall’ago. i Esiste dunque, per una certa distanza della corrente dall’ago, un valore massimo di deviazione nell’ago. L'esistenza di questa massima deviazione fu avvertita recentemente e, ch'io sappia, per la prima volta dal signor DerAuriER, il quale ne fece parola in una Nota presentata all'Accademia delle Scienze di Parigi nella seduta del 30 agosto 1869. Sottoponendo un ago calamitato, avente la lunghezza di 12 centimetri, all’azione d'una corrente elettrica parallela ad esso, il sig. DeLAvRIER trovò che produ- cevasi una deviazione massima di 45° corrispondente alla distanza di tre centimetri. Avvicinando maggiormente la corrente all’ago, la deviazione decresceva di valore, e diventava di 30° quando la corrente era quasi a contatto dell’ago. Lo stesso sperimentatore suppone che il fatto da lui osservato sia, fino ad un certo punto, in disaccordo colla teoria delle azioni magneto-elettriche fondata sui lavori di Bror e Savart. Mi parve che il fatto in discorso fosse meritevole di minuto esame, sia per l’importanza che può avere in certe applicazioni, sia perchè esso fornisce un nuovo mezzo di controllo della teoria in cui, dietro le orme di AmPÈRE, si spiegano i fenomeni elettro-magnetici. Nel presente scritto comincierò a trattare la questione dal lato teorico, determinando l’azione esercitata da una corrente rettilinea, indefinita, distesa orizzontalmente nel meridiano magnetico sopra un solenoide rettilineo, orizzontale, girevole intorno ad un asse verticale passante pel suo punto di mezzo. Troverò così la relazione che collega insieme l’angolo di deviazione del solenoide, la distanza di questo dalla corrente, l'intensità della stessa corrente e ciò che si potrebbe chiamare il momento magnetico del solenoide. Discutendo tale relazione, ricaverò da essa le leggi che regolano il fenomeno. 172 SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL'AGO CALAMITATO ECC. Ciò fatto, passerò a considerare il fenomeno stesso dal punto di vista sperimentale, sostituendo però al solenoide un ago calamitato. Determinerò direttamente le condizioni, in cui ha luogo la deviazione massima dell’ago, misurando per ogni sperienza il valore di questo massimo e la distanza della corrente che gli corrisponde. Infine sarà facile, mediante il confronto de’ risultati sperimentati con quelli trovati a priori col calcolo, riconoscere se, e fino a qual punto, le leggi teoriche relative al solenoide si verifichino eziandio per l’ago calamitato. Se, come vedremo avvenire, tale coincidenza avrà luogo, ne potremo trarre una nuova conferma della Teoria di Ampìre. 9 2. Col nome di solenoide elementare [ed ve, rettilineo designo un sistema di cor- renti, che attraversano nella stessa © direzione dei conduttori circolari di raggio infinitesimo, aventi i loro cen- tri sopra una retta normale ai loro piani. L'azione esercitata da un ele- mento qualunque di corrente sopra A un solenoide elementare è la risul- tante di tutte le azioni esercitate dallo stesso elemento sulle singole correnti circolari, che compongono il solenoide; si sa che tale azione si riduce a due forze, applicate alle estremità del solenoide elementare. Inoltre la forza applicata a ciascuna di queste estremità del solenoide è determinata dalle condizioni seguenti: 1.° Essa è diretta normalmente al piano che contiene il suo punto d'applicazione e l'elemento di corrente; 2.° La sua intensità è proporzionale all’intensità della corrente, cui appartiene l’elemento considerato, e ad una certa quantità costante per ciascun solenoide, dipendendo essa soltanto dal raggio delle correnti cir- colari, dalla loro intensità e dalle distanze dei loro centri; 3.° La sua intensità è proporzionale alla lunghezza dell'elemento di corrente e al seno dell'angolo che tale elemento fa colla retta congiun- gente l'elemento stesso coll’estremità del solenoide; DEL PROF. G. BASSO, 173 4.° La sua intensità è in ragione inversa del quadrato della distanza dell'elemento di corrente dall’estremità del solenoide a cui la forza è applicata. Queste leggi, che Ampère e SAvaRY trovarono coi loro lavori analitici verso il 1823 (Memorie dell’Accademia delle Scienze di Parigi, vol. 4°) si possono applicare alla risoluzione della questione seguente. Sia x0z il piano del meridiano magnetico; O il punto di mezzo d'un solenoide elementare rettilineo, che può girare liberamente nel piano oriz- zontale xy, cioè intorno all'asse verticale 0z; si conduca per O la oriz- zontale Oy perpendicolare a Ox. Nel piano x2 si trovi una corrente rettilinea 45, orizzontale ed indefinita. Il solenoide, che starebbe nella posizione Ox in virtù dell'influenza magnetica della terra, prende un’altra direzione OP quando a tale influenza si aggiunge quella della corrente AB; sia Punestremità del solenoide, e quindi sia O Pla sua semi lunghezza. Giova anzitutto avvertire che le due estremità del solenoide si trovano in condizioni identiche, per ciò che riguarda l'intensità dell’azione eser- citata su di esse tanto dal magnetismo terrestre, quanto dalla corrente A 8. Basterà perciò esaminare soltanto le forze applicate ad una sua estremità, pres valla Si chiamino: (| la distanza 40 della corrente dal solenoide; i l'intensità della corrente stessa: suna lunghezza qualunque 4% misurata, a. partire da 4, sulla direzione della corrente, e ds la lunghezza MM', d’un ele- mento di corrente; 2 la semi lunghezza OP del solencide; 4 l’angolo «OP di deviazione del solenoide; e la distanza MP d'un elemento di corrente dall’estremità 2 del solenoide ; l'angolo BMP che la corrente fa colla retta MP; m una funzione dei soli elementi del solenoide, epperciò costante "6 per ciascun solenoide; f l'intensità della forza esercitata dalla corrente sopra 2, e df quella esercitata da un elemento ds di corrente; tanto la forza f, come ciascuna df, hanno il loro punto d'applicazione in P, e sono dirette normalmente al piano PM A. 1794 SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL'AGO CALAMITATO ECC. In virtù delle leggi esposte precedentemente, si può scrivere subito la relazione: mi sen Ai ds Mi Il piano AMP incontra il piano xy secondo la CP parallela ad Ox, ed incontra il piano yz secondo la AC. Conducendo per M la MD parallela ad AC, si ha dal triangolo rettangolo MPD MD=psenp . Per altra parte si osservi che CO vale /sena, e si avrà dal triangolo rettangolo 40C: AC=)2+Fsen"a . Ora, siccome MD e AC sono eguali, si potrà scrivere: pisento VaR sci OE (I La lunghezza 4M d’una porzione qualunque di corrente è uguale a CD, ossia a CP—DP, e si noti che: CP=lcosa e DP=pcosg : Si avrà dunque: s=lcosa—pcosg (00 Fra le equazioni (2) e (3) potendosi eliminare la variabile p, si potrà considerare s come funzione della sola @. Differenziando l’espressione di s rispetto a ©, si ottiene: ine curi ds=)z"+0 sen’ Le sen p Sostituendo infine nella relazione (1) quest’espressione di ds, e l’espres- sione di p ricavata dalla (2) si ha: dae df= a seno dog . VE + /* sen'« È facile ora determinare la forza f esercitata sul solenoidé da tutta la corrente, ed applicata in P, perchè le azioni esercitate dai singoli ele- menti della corrente hanno tutte la stessa direzione. Per raccogliere tutte DEL PROF. G. BASSO. 179 queste azioni elementari, basta integrare l’espressione ottenuta di df, prendendo l'integrale fra i limiti corrispondenti a g=0 e o=%. Si ha dunque : mi È ami fae—=—=== > sudore O BIOrON (4) - Vz +2 sen & Va +/ sen & (0) Il solenoide potendosi muovere soltanto nel piano xy, la componente della arallela a 0z non ha effetto, e basta tener conto della compo- P > p nente 4 diretta nel piano xy. Se per C nel piano yz si conduce la CI perpendicolare ad 4C, questa CZ sarà anche perpendicolare al piano AM P, e per conseguenza la sua direzione sarà quella della forza f. Quindi fcosEFCy sarà la componente 4 diretta nel piano xy. 5 S , 5 x sena Ora l'angolo FCy è uguale all'angolo CAO, la cui tangente è —— . Perciò: re SARNO pra ie J Vz + sen « Il punto O di mezzo del solenoide essendo fisso, la componente della £ diretta secondo 02 non può produrre movimento, e basterà considerare la componente della 4 perpendicolare ad O P, la cui intensità è hcosa. Dunque la forza esercitata dalla corrente su 2, e libera di fz cosa Va + sen'a agire, ha un'intensità k=hcosa= Mettendo in quest’espressione il valore di f dato dalla (4) si ha: -_ zcosa k=2mi ===" z+4+/ sen a Sull’estremità 2 del solenoide, oltre alla forza & ora trovata, agisce anche la forza esercitata dal sistema delle correnti telluriche, ossia dal magnetismo terrestre. Se chiamiamo M il momento magnetico del solenoide, + sarà la forza orizzontale esercitata dal magnetismo terrestre sul punto 7, Z M ipso Au e qsena la componente di tale forza normale alla direzione OP. 176 SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL'AGO CALAMITATO ECC. E poichè il solenoide è in equilibrio in questa direzione, le forze M LIA, opposte & e 750% sono eguali; quindi l’equazione : . 2C0S& M DEE ENI z>+ senza | Su: ; RISI Poniamo, per maggiore semplicità: ami MI La quantità g è sempre la stessa, finchè s’adopera lo stesso solenoide e non si cangia l'intensità della corrente. Ecco per ciò trovata la relazione, che passa fra l’angolo « di deviazione del solenoide e la distanza z di questo dalla corrente: tale relazione si può scrivere sotto la forma: glenge(s@ Asa) ai cà (6) . Ora si può cercare, se esiste un maximum di deviazione corrispon- dente ad una certa distanza della corrente dal solenoide. Basta per ciò ottenere la derivata dell’espressione di « rispetto a z, e uguagliarla a zero. Differenziando l’equazione (6) si ottiene : da __cosa(gl—2ztanga) dz z°+Fsen'a(1-4+-2c05°@) Vedesi che se la deviazione non può essere maggiore di 90°), ma eziandio quando si ha: N TONDI pegrsi è nullo, non solo quando: «=- (il che indica che 2 ULIANO ie odi (OE Esiste adunque una deviazione massima pel solenoide; ed i valori di 4 e di 3 che le corrispondono si possono subito avere in funzione di g, ricorrendo alle equazioni (6) e (7). Se fra queste equazioni, che determinano la deviazione massima, si elimina la quantità g si ottiene: sena= SIù A- D _ cioè : il seno della deviazione massima è uguale al rapporto della distanza corrispondente fra il solenoide e la corrente alla semilunghezza dello stesso solenoide. DEL PROF. G. BASSO. 177 $ 3. Vogliasi sottoporre all’azione della corrente elettrica, non più un sole- noide elementare, ma un ago calamitato. Esisterà pure per quest’ultimo una massima deviazione? E se esiste, avrà essa luogo nelle stesse condi- zioni quantitative che si riscontrano pel solenoide? La questione debb’essere risolta colla sperienza; ed ora descriverò brevemente le operazioni che ho fatte a tale riguardo ed i risultati ai quali son giunto. L Nel centro d’un cerchio guaduato orizzontale disposi un perno verticale d’acciaio. Un ago calamitato, con cappelletto d’agata, poteva esser collocato sopra tale perno, e girare liberamente distando dal piano del cerchio di qualche millimetro. Nella vicinanza del cerchio quadrato disposi una colonna verticale d’ottone, lungo la quale potevo far scorrere e fermare a piacimento, mediante una vite di pressione, una traversa orizzontale, pure d’ottone. Attaccai fissamente all'estremità libera di questa traversa un lungo cannello di vetro, dentro cui stava un filo rettilineo di rame; le estremità di questo filo sporgevano fuori dai capi del cannello e potevano venir messe in comunicazione coi poli d'una pila. In tal modo ero in grado di avere una corrente orizzontale, rettilinea e, per rispetto alla sua azione sull’ago , indefinita; di più tale corrente poteva venire innalzata ed abbassata comodamente, conservandosi sempre orizzontale. Era però necessario che, nei suoi movimenti, la corrente orizzontale si mantenesse sempre nello stesso piano verticale passante pel centro dell’ago calamitato. A questo fine io disposi nel meridiano magnetico (fornitomi dall’ago sottoposto alla sola azione terrestre) un’altra colonna verticale fissa, ed assoggettai il cannello che portava la corrente a scorrere lungo questa colonna, senza staccarsi mai da essa. Così stando le cose, ecco come si procede. Al principie d’ogni espe- rienza, prima di far passare la corrente nel filo conduttore, si fa discendere il cannello, per mezzo della traversa orizzontale che lo porta, fino a toccar quasi il cappelletto dell’ago; così si può accertarsi se il suo asse sia parallelo all’asse dell’ago e giaccia esattamente nel meridiano magnetico. Lanciasi allora la corrente nel filo interno del cannello; subito l’ago sottoposto viene bruscamente deviato, e, dopo molte oscillazioni, si ferma Serie II Tom. XXVI. Y 178 SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL'AGO CALAMITA'TO ECC. in una nuova posizione d’equilibrio. Questa raggiunta, s'incomincia ad innalzare a poco a poco la corrente, e vedesi che l'ago si allontana ancor di più dal meridiano magnetico, cicè la deviazione aumenta. Giunta la corrente ad una certa altezza dall’ago, quest'ultimo sì arresta e rimane sensibilmente stazionario, anche mentre si va spostando la corrente di qualche millimetro; ben presto però elevando ancor più la corrente, l’ago riprende a muoversi in senso contrario al precedente e d’allora in poi la deviazione diminuisce. Procedendo in tal guisa, non solo si può riconoscere la esistenza della deviazione massima, ma è facile eziandio di misurare, per ogni sperienza, il valore dell’angolo massimo e la distanza fra la corrente e l'ago, che gli corrisponde. Sperimentai sopra aghi di varia lunghezza e forma; e per ciascuno di essi ebbi cura di far una serie d’esperienze diverse, nelle quali andava variando l’intensità della corrente; ricorreva per ciò a pile di diversa forza elettromotrice, ovvero modificava la resistenza del circuito. Siccome le osservazioni fatte sui diversi aghi mi condussero a risultati press’a poco identici, basterà che io, a guisa d’esempio, esponga i risultati ottenuti con uno solo di essi. Nel paragrafo precedente trovai la relazione: | ta senaZ_ in cui « è l'angolo massimo di deviazione per un solenoide elementare; z la distanza corrispondente della corrente dal solenoide ; 7 la semi lunghezza dello stesso solenoide. Devesi cercare se la stessa relazione sussiste ancora per le deviazioni massime d’un ago calamitato; a tal fine ricorsi ai valori di tali deviazioni misurati in ciascuna esperienza, e, mediante la formola precedente, calcolai per ciascuno la distanza 2 corri- spondente; così potei istituire il confronto fra i valori di z calcolati dietro la teoria e quelli trovati direttamente coll’esperienza. Avvertasi però, che la quantità 7 rappresentante, nella formola, la semilunghezza del solenoide , non può esattamente tenere il posto della semilunghezza dell'ago. Perchè fosse legittima questa sostituzione completa dell’ago al solenoide elementare, bisognerebbe che le estremità del primo coincidessero coi poli. Ma in realtà i poli d’una calamita sono sempre più o meno discosti da’ suoi capi; la coincidenza fra gli uni e gli altri non potendosi ammettere, se non quando la calamita si riduce ad un filo di sezione infinitamente piccola. Il sig. BecquereL (Annales de Chimie et Physique, Serie 2°, DEL PROF. G. BASSO. 179 Tom. 22) studiò, col metodo di torsione di Couroms, la distribuzione del magnetismo in fili finissimi d’acciaio calamitati a saturazione. Uno di questi fili, ottenuto col procedimento di WoLrasron, aveva il suo diametro eguale a un otiantesimo di millimetro; malgrado tale sottigliezza, i suoi poli magnetici trovavansi alla distanza di mm. 8,5 dalle estremità. La teoria stessa di Ampère dà ragione di tale circostanza; in fatti ogni calamita di sezione finita è un fascio di molti solenoidi elementari, in cui le correnti circolari hanno tutte la stessa direzione. Ma le correnti che appartengono a due solenoidi vicini hanno, nei loro punti che si guardano, direzioni contrarie; per ciò si respingono mutuamente e, in causa di tale repulsione, i piani delle correnti circolari non possono più essere tutti normali all’asse della calamita. In altri termini, nasce nei singoli solenoidi componenti il fascio una tendenza ad inflettersi divergendo gli uni dagli altri; e quindi le loro estremità non coincidono più colle estremità della calamita. Uno degli aghi che servirono alle mie sperienze consiste in una sottile lastra d'acciaio, avente la forma di un rombo allungatissimo; il suo asse, cioè la diagonale maggiore del rombo, è lungo 120 millimetri, mentre la diagonale minore giunge appena al mezzo centimetro. Se il fenomeno Z della deviazione massima soddisfa alla relazione sene=7, il rapporto z:senz deve conservarsi sensibilmente lo stesso in tutte le sperienze, qualunque sia l'intensità della corrente adoperata: inoltre tale rapporto deve rappresentare la distanza (2) del polo dal punto di mezzo dell’ago. Si potrebbe osservare che, quando la corrente cambia posizione rispetto all’ago, la posizione del polo di quest’ultimo può non mantenersi assolu- tamente la stessa; credo però che le variazioni, prodotte da tale cagione . nel valore di /, siano trascurabili, finchè l’ago è sottilissimo e la corrente non gli è troppo vicina. Per determinare il valore di / riguardo all’ago, che ho preso come esempio, mi servii di due sperienze fatte con correnti elettriche d’intensità assai diversa. Colla corrente più debole ho trovato che la deviazione massima era di 23°, e si otteneva quando la distanza (2) della corrente dall'ago era di 21 mm. Colla corrente più intensa ebbi per massimo di deviazione l'angolo di 48°, corrispondentemente alla distanza di 4o mm. Ì LIT o ; ; Ora il valore di ——-, come quello di SA è prossimamente 53; sen 23 sen 48 perciò ritengo che la distanza (2) del polo dal centro sia di 53 mm. 180 SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL’AGO CALAMITATO ECC. Mediante questo valore di , calcolo, colla formola 2=/sen«, i valori di 3, che corrispondono alle diverse deviazioni massime ottenute con correnti di varia intensità ; i valori così calcolati si possono poi confrontare con quelli dati dall'esperienza. Ecco raccolti in una tavola i risultati ottenuti per l’ago avente la lunghezza di 120 millimetri. I—-53mm. DISTANZA (2) IN MILUINETRI eseonienze | PEMAZIONE | — 27] free MASSIMA (4) GALCOLATA OSSERVATA 9)” 15 20° 18 Le divergenze fra i valori di 2 forniti dall'esperienza e quelli dati dalla teoria sono così piccole, che la formola: z=/sene mi pare pienamente verificata. L'importanza delle divergenze incontrate apparisce ancora più lieve, se si considera che, nelle vicinanze del massimo, uno spostamento di qualche millimetro nella corrente non produceva più nelle mie sperienze movimento sensibile nell’ago. Per conseguenza, mentre si può fissare il valore della massima deviazione con sufficiente precisione, nel deter- minare la distanza 2 corrispondente, s'incontra sempre qualche piccola incertezza. DEL PROF. G. BASSO. 191 64. Nel fare le ricerche esposte precedentemente, come già dissi, mi sono proposto un duplice scopo. 1.° La teoria di Ampère, che così felicemente collega i fenomeni magnetici cogli elettrici, trova nel fatto della massima deviazione dell'ago una nuova conferma; la quale deriva da un procedimento d'ordine di- verso da quello tenuto da Bior e Savart. Questi due fisici studiarono sperimentalmente l’azione delle correnti elettriche sopra le magneti, fa- cendo oscillare una cortissima sbarra d'acciaio calamitato sotto l’azione d'una corrente, disposta in un piano normale alla sbarra e passante pel suo centro. Le leggi sperimentali da essi trovate sono identiche a quelle che regolano, secondo la teoria d'AmpÈrE, l’azione d’una corrente sopra un solenoide. Ora, poichè l'integrale definito, esprimente l’azione della corrente sopra un polo magnetico, si conserva lo stesso quando a quest'ul- timo si sostituisce l'estremità d’un solenoide, si può supporre che siano pure identiche le espressioni differenziali dell’azione esercitata da un e/e- mento di corrente, sia sopra un polo di calamita, sia su d’un capo di solenoide. Ma, perchè tale supposizione sia ammissibile, è necessario che la sostituzione d’una magnete ad un solenoide si possa fare legittimamente, non in qualche caso soltanto, ma in tutti quelli che si possono presentare. Gli è in questo senso, che il fatto di massima deviazione, studiato pre- cedentemente, costituisce per la teoria di AwPERE una notevole conferma. 2.° L'esistenza d'una massima deviazione nell’ago, regolata da leggi ben conosciute, può essere feconda di utili applicazioni. Mi limiterò ad accennarne due, che sono: la determinazione de’ poli in un ago calami- tato e la misura dell'intensità delle correnti elettriche. Poli magnetici. I lavori di Courowm8, di Bror e di altri circa la posizione de poli d'una magnete furono condotti, seguendo una definizione di questi poli, che è utile quì ricordare. La distribuzione della forza magnetica lungo una sbarra calamitata si può rappresentare colla curva delle inten- sità magnetiche, cioè con una linea avente ordinate proporzionali aile intensità del magnetismo ne’ punti successivi della sbarra. Ora, se si de- termina il centro di gravità della superficie contenuta fra questa linea e le sue ordinate estreme, la proiezione di tale centro sull’asse della calamita - si chiama polo magnetico. Così inteso, il polo è il centro delle forze 152 SULLA DEVIAZIONE MASSIMA DELL'AGO CALAMITATO ECC. magnetiche parallele , esercitate dai singoli elementi della calamita sopra un punto posto all'infinito. Ma se prendiamo per guida la teoria di AmpirE, si può concepire il polo magnetico sotto un altro aspetto. Poichè una calamita è paragona- bile ad un fascio di solencidi elementari, press'a poco paralleli al suo asse, l’estremità di ciascuno di questi solenoidi è come un polo elementare della calamita. Se in presenza di quest'ultima trovasi, p. e., una corrente elettrica, l’azione esercitata da tale corrente è un sistema di forze ap- plicate ai singoli capi dei solenoidi suddetti. Quando la calamita è una sbarra di sezione molto piccola, questi punti d'applicazione delle forze sono vicinissimi gli uni agli altri, e radunati presso l'estremità della sbarra stessa. Purchè la corrente elettrica non passi troppo vicino a quest’estre- mità, essa si può ritenere come disposta in modo identico rispetto a tutti quei punti d’applicazione; epperciò le forze che li sollecitano saranno sensibilmente parallele. Si è il centro di tali forze parallele che costituisce il polo magnetico. Da ciò si vede che i poli d'una calamita non si possono riguardare come fissi di posizione, se non sotto le condizioni ora indicate. La de- terminazione sperimentale de’ poli d'una sottile sbarra calamitata, si può fare con comodità, ricorrendo al fatto della deviazione massima, studiato precedentemente. Posta la sbarra sopra un perno verticale, si faccia passare una corrente elettrica piuttosto intensa al disopra di essa, in guisa che la stessa corrente sia sempre orizzontale e posta nel meridiano magnetico passante pel centro della sbarra. Si muova poi la corrente stessa nel suo piano, avvicinandola o allontanandola dalla calamita, finchè quest ultima abbia raggiunta la sua massima deviazione. Misurato il valore @ di SUE È o 5 N tale deviazione e la distanza 2 della corrente della calamita , n sarà na la distanza di ciascun polo dal centro di questa. È quasi inutile lo ag- giungere che, per diminuire le cause d'errore che provengono specialmente dall’incertezza nel fissare il valore preciso di z, conviene ripetere l’espe- rienza più volte, adoperando correnti di intensità differenti. Bussola reomelrica a deviazione massima. Fra le due equazioni (6) e (7) del paragrafo 2.°, le quali determinano il massimo di deviazione del so- lenoide o dell'ago, si può eliminare la distanza z. Si ottiene allora: dI senatanga=-— 5 2 DEL PROF. G. BASSO. 155 Ricordando che e che la quantità si conserva costante per ciascun solenoide od ago m M magnetico, si ha la proposizione seguente: l'intensità della corrente che agisce sopra un ago calamitato è proporzionale al prodotto del seno per la tangente dell'angolo massimo di deviazione subita dall'ago stesso. Da ciò emerge un modo nuovo di misurare l'intensità delle cor- renti elettriche. Si abbia una bussola, consistente in un ago calamitato sottile, girevole al disopra d’un cerchio graduato; nel piano verticale, che passa pel centro dell’ago ed è diretto secondo il meridiano magnetico, sia disposto un lungo conduttore orizzontale, che si possa innalzare od abbassare a volontà, in modo però da conservarsi costantemente parallelo a se stesso e nel medesimo piano. Questo conduttore, a guisa del mol. tiplicatore de’ galvanometri o delle bussole reometriche ordinarie, potrà venir intercalato in qualunque circuito percorso dalla corrente di cui vuolsi misurare l’intensità. Ecco, nelle sue parti essenziali, uno stromento , che si può chiamare bussola reometrica a deviazione massima. S'intende subito come, per avere l'intensità d'una corrente, basti lanciare questa nel conduttore della bussola, e poscia far muovere a poco a poco quest’ul- timo, finchè si sia raggiunta la massima deviazione dell'ago. Letto l'angolo fatto così dall’ago col meridiano magnetico, il prodotto del seno per la tangente di tale angolo esprimerà l'intensità della corrente. ll procedimento ora indicato non gode solo d’una semplicità singolare; ma, a parer mio, è anche suscettibile d’un grado di precisione e di squisitezza, a cui la bnssola de’ seni o quella delle tangenti non potrebbe arrivare. È noto che la misura sperimentale d’una quantità si fa con la maggiore esattezza, quando il valore da misurarsi è il massimo od il minimo fra quelli che la stessa quantità è capace di assumere. È fondata su questo principio, p. es., la determinazione degli indici di rifrazione, quando si misura la deviazione minima subita dalla luce che attraversa un prisma. Gli è specialmente per questa considerazione, che, per la misura dell’intensità delle correnti elettriche, ritengo degno d’essere rac- comandato l’uso della bussola a massima deviazione. ATL, . dl VO N DAR LE RANUNCULACRE DEL PIEMONTE SAGGIO TASSONOMICO DI AUGUSTO GRAS ——@#6 Approvata nell'adunanza del 30 gennaio 1870 st _ Nel breve lavoro che mi pregio sottoporre all'esame dell’Accademia îo toccherò d’un punto di massimo rilievo, del quale sogliono soltanto con esitazione e con prudente riguardo trattare i più dotti e maturi studiosi della scienza. È massima da tutti consentita che le vere affinità dei vegetali fra loro, a scoprir le quali, più che ad altro qualunque fine, tende la gentile scienza dei fiori, stien riposte nei segreti dell’orga- nogenia; per la qual cosa, nell’accostarmi ai difficilissimi problemi, i quali ci sono per quella parte presentati dalla botanica, io procurerò di muovere per cinerem dolosum così cautamente il piede, che da nessuno venirmi possa il rimprovero di loquace e visionario spositore di novità. Fra le varie Famiglie di piante fanerogame che vestono di vago splendore questo suolo prediletto dalla natura, non ve n'è forse un’altra che al par di quella, cui è capo e denominatore il Ranuncolo, ne presenti maggior ricchezza e varietà di tipi. E se l'occhio del naturalista novizio più sulle Ranunculacee che sulle altre piante pare goda fermarsi con mal celato compiacimento, egli è senza dubbio perchè, atteso la costante simmetria delle loro parti florali, e il numero sempre copioso degli organi essenziali e più apparenti, che mostransi in esse con bella evi- denza disposti in regolare assestamento quinario, e talvolta ternario, Serie II. Tom, XXVI. z 186 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE o multiplo d’entrambi, si ha per quelle più facilmente idea di quanto nel regno vegetale fu creato di più semplice, e nello stesso tempo di più compiuto e di più perfetto. Vinto da quel complesso di ragguardevoli caratteri il Dr CanpoLLe in quel suo ben divisato arrovesciamento del metodo naturale, per cui, distolte dagli occhi del principiante le difficoltà veramente troppo serie che s'incontrerebbero nel procedere dal più semplice al più composto, volle i primi studi saviamente avviati in pratica dal più composto al più semplice, a capo di tutte le sue Famiglie, qual tipo di perfezione, trascelse appunto le Ranunculacee, le quali, fra gli ordini proposti e classificati nell’'immoriale opera del Jussieu Genera plantarum (1789), costituivano il numero sessagesimo primo, e così trovavansi appena oltre i sei decimi in sulla serie dei cent’ordini di quella felicissima fra tutte le classificazioni (pag. rxxm). Tuttavia, è pur uopo confessarlo , questa vantata perfezione delle ranunculacee è molto più apparente che reale, e stiamo per dire, che, se non ci trattenesse la presenza di alcuni caratteri d’un rilievo veramente maggiore, quali sono, a mo’ d'esempio, la perfetta indipendenza delle parti florali, inserte sopra un organo speciale che sì ben le seconda a mantenersi divise, la scioltezza, o, come suol dirsi, libertà de’ carpelli, ri- sultante dalla inserzione ipogina degli stami, e il privilegio di cui gode l’ac- cennata disposizione di rafligurare sull'asse florale, meno imperfeitamente che ogni altra, l'ordine spirale con cui le foglie vanno spuntando lungo il caule, noi vorremmo le Ranunculacee veder collocate in luogo ben più lontano, là dove la lor vanità cessasse affatto dal parer persona. Non mancarono autori di bella fama, i quali scorgendo nei nostri generi organi per sè distintissimi apparentemente confusi, e talvolta dege- neranti in modo da lasciar dubbio se ancor sieno ciò che da prima esser dovettero, o già si trovino quel che Natura li spingeva a diventare, sen- tironsi assai mal disposti contro la Famiglia intiera, e vollero, piuttosto che qual modello di perfezione organica, considerarla come molto inferiore di struttura, e quale un semplice complesso di tipi impoveriti e attenuati, in cui soglia ad ogni passo, per un repentino interrompimento di trasfor- mazione, svanir la distinzione capitale fra gli organi florali e quelli della mera vegetazione. i Tn fatti Natura scherza capricciosamente nell’organizzazione di quelle piante, e par voglia sfidar la pazienza dei classificatori intenti e affannati SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 187 a trovare il bandolo in quella sì svariata disseminazione di caratteri; in alcune ella abbozza e si ferma in sul meglio, qui profonde oltrepassando la meta, colà niega, oppur dona e poi ritrae, e così, mentre in tutte promette lungo, in tutte quasi la si vede attender corto. Per queste più che plausibili ragioni già il vincolo che connette i diversi tipi della Famiglia era sfuggito , pel loro maggior numero, te investigazioni degli antichi autori di SER0O Troppo lungi ne trar- rebbe l’indicare in queste pagine in quali ordini disparati e discosti vi si trovino disjectae membra familiae. Sol quando, coi progressi della scienza, i botanici cominciarono a discernere i primi albori del metodo e a scostarsi così dalle fallacie dei sistemi artificiali, si potè giugnere, segregandole dalle piante apparentemente rassomiglianti, ad aggrupparle in ordine naturale, e Jussreu nipote, che sulle Ranunculacee appunto fece le sue prime e così splendide prove, pensava nel 1773 esservi seria induzione da trarre in favore di tale loro naturalità (se pur mi lice adoprar vocabolo di conio così ardito) nel consenso di tre autori di ‘prim'ordine, Bernardo Jussieu, Apanson, ed anzi tutti Linneo, i quali, principi nella scienza, erano stati concordi nel riunirle , e solo s'erano l’un dall’altro scostati alquanto nell’assegnare a ciascun genere, in seno alla Famiglia, quel posto che loro parve essergli più acconciamente destinato. Fin dall'anno 1738, nel trattato storico che pubblicò col titolo di Classes plantarum, Linneo fu primo a far cenno di un ordinamento muovo, da ricavarsi ben lungi dagli artifizi dei sistemi; e l’abbozzo della sua classificazione egli espose in quella parte del libro, in cui, dopo aver a lungo narrati gli scompartimenti dai predecessori immaginati, vuole egli pure a sua volta riferire le proprie idee sul grave soggetto nei così detti Fragmenta methodi naturalis, brano rilevantissimo in ‘cui troviamo i veri incunabuli del Metodo, e il cui valore storico è sgrazialamente sfuggito al maggior numero degli storici. In quel prezioso volume, alla pagina 498, l'ordine XXHI racchiude dodici degli attuali nostri generi, e con nota di dubbio il tredicesimo ch'è la Paeonia, e solo lascia nell’or- dine XXX, dopo la serie delle Papaveracee, la misconosciuta e fin allora vagabonda Aetaea. Quest’ordine stesso, eccettuata sempre l’Actaea, venne poi dall’autore in tutti gli altri suoi generi spartito, e col nome di Multisiliquae (tolto senza scrupulo dall'ordine XVIII del sistema di Giovanni Rav) ripubblicato nella edizione pus (1751) della Philosophia botanica (pag. 30). 188 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE Nell’anno 1799 Bernardo Jussieu, nella celebre classificazione dei Vegetali del Real Orto di Trianon (Genera Plantarum, pag. Lxvm), in difetto d’altro nome più opportuno, qual potè darsi alle Famiglie più naturali, chiama quello stesso ordine di Linneo col nome di Ranuneudi, ingegnosamente tratto da quel genere che pareva il miglior tipo della Famiglia stessa, e tulti pure annovera i nostri generi attuali, di fonda- zione linneana, con a capo l'ormai compresa e bene affissa Actaea. Finalmente nel 1763, nell'opera che tanto sudore e sì erculea fatica gli era in vano costata, e a cui, traendo giusto partito (come già ideato lo aveva il Macnor) dalla gentile metafora della consanguinità, diede il felice titolo di Mamilles des Plantes, lApAnsow traduce semplicemente il titolo del Jussieu, e chiama la sua famiglia LV? Zes Reronewles (vol. II, pag. 451), oltre alla quale più non annovera che tre ultime Famiglie comprendenti auei generi disparati che un po’ sforzatamente ei va rac- chiudendo entro i titoli di Ari, di Pinî e di Muschi. La Garidella e la Nigella sole son da lui riposte nella Famiglia che precede i Ranuncoli, la quale prende nome dai Cisti; e ciò probabilmente avvenne perchè l'ordinario difetto di disgiunzione che soffrono i follicoli nei due generi or citati, glieli fe’ considerare come muniti di un solo ovario terminato da più stili: che se egli si fosse mai accinto a separare i detti stili, e a distaccare con essi l’un dall’altro colla massima facilità i follicoli; e se non gli fossero rimaste ignote quelle specie in cui monstransi questi naturalmente alquanto dissaldati, ei per certo non st sarebbe lasciato così bonariamente ingannare dall’apparenza. Quale adunque i sommi maestri ce la tramandarono, e quale si mostra oggidì ne’ suoi caratteri costituita, la Famiglia delie Ranunculacee, sebbene di assai difficile esposizione, può tuttavia ancora annoverarsi fra le naturali. Egli è bensì vero che i suoi generi mai non convergono verso un centro comune, che sia norma e legge evidente agli occhi stessi ‘meno esperti; come accade, a mo’ d'esempio, nelle Crocifere, nelle Pa- piglionacee; nelle Ombrellate, nelle Labbiate, nelle Gramigne: ma essi vanno in vece seguendosi l'un l’altro con caratteri di così facile e naturale transizione, e formano una serie, o meglio, una catena non interrotta di tipi variamente, e quasi direi a grado a grado e per addentellamento rassomiglianti fra loro con note così poco dubbiose, che la loro evidenza fu per certo cagione dell'unanimità dei botanici metodisti nel definirli e classificarli. SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 189 Còmpito mio veramente non è il rintracciare a qual più vero posto nella serie delle Famiglie possano per avventura essere chiamate le Ranunculacee. Quest’è lavoro di ben maggior lena, il quale, supponendo lunghi e minuti studi comparativi colle Famiglie dalle ricerche dei dotti già maggiormente a questa ravvicinate, mi trarrebbe fuor di sentiero, e mal risponderebbe all’esiguità del titolo che a questi umili studi mi piacque di preporre. Più limitato viaggio è quello che intrapresi, e saranno pienamente paghi i miei voti, se dall'esposizione sommaria dei principali caratteri generici, particolarmente desunti dagli organi florali, io varrò a dedurre, e con essa a dimostrare tal serie di argomenti che possa far comparire non troppo lontana dal vero la nuova classificazione dei generi in grembo a questa regina fra le Famiglie. Secondo il debole nostro giudizio mal si apposero i botanici descrittori, quando, trascelto il metodo raffazzonato dal De Canporre, essi ne diedero quella disposizione di generi che nelle principali nostre Flore è proposta agli studiosi. A noi pare che vi fu nel loro procedimento una troppo grave inavvertenza, perchè ci possiamo stupire che già non sia stata prima d'ora additata e corretta nella compilazione delle opere descrittive. E vaglia il vero, se nell’ordinamento del De Canporte, inversi, per così dire, gli estremi del metodo naturale, per facilità di pratica applicazione si procede nello assestamento delle Famiglie dal cento verso l'uno, ben può chiedersi ai botanici classificatori, qual ragione li spinse poi, nell’assegnare il relativo posto a ciascun genere in seno alle singole Famiglie, a sconvolgere i termini, e procedere dall’uno verso il centa. E che ciò sia avvenuto nella distribuzione dei generi nelle Ranunculacee, a primo aspetto ben lo scorge chi si faccia anche sommariamente a con- siderare come da fiori incompiuti, quali sono le C/ematis, tetrameri soltanto e con frutto monospermo, si proceda a passo a passo per le Ranunculacee tipicamente pentamere, od anche polimere, e con frutto polispermo, fino alla Paeonia. Un assoluto arrovesciamento dei generi ne parrebbe adunque il solo spediente logico di sciogliere questo assai intricato problema di tassonomia; poichè non sappiamo in vero come in ogni sua parte possa parer razionale una classificazione che proclami un principio di cui, nel più, s'invochi la rigorosa applicazione, ed a cui poi, nel meno, si voglia surrogata l'applicazione d’un principio affatto opposto. 190 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE Nella seguente enumerazione, ristretta alle Ranunculacee del Piemonte, che mi fo carico d’offrire all'esame de’ miei giudici, io mi sono con ogni miglior mezzo studiato di regolare di genere in genere per tal modo le transizioni, che tutto parer possa scorrevole e sciolto, per quanto la dilicata materia me lo potesse concedere. E dovendo dalla Paeonia ini- ziare il lavoro di ordinazione, dirò brevemente per quali ragioni io creda doversi quel genere appunto porre a capo e vessillifero dell’intiera coorte dei generi, di cui la Famiglia si appalesa, nella Flora pedemontana, assai doviziosamente composta. i 1. PAEONIA. Un carattere organico, di non lieve importanza, da tutte le altre Ranunculacee ne par disgiugnere ricisamente l'elegante genere Paeonia, in quanto che gli invogli florali e gli stami relativamente ai pistilli non vi si manifestano già nettamente ipogini, come accade nelle altre tutte, ma ben piuttosto (almeno per l'apparenza) debbono come perigini con- siderarvisi. D’onde poi sia prodotto un sì diverso aspetto d’inserzione, l'osservatore a primo sguardo lo scorge nell’ingrandimento del ricettacolo, il quale, a vece di allungarsi, come negli altri generi ranunculacei costan- temente avviene, si svolge piuttosto in maggiore o minore allargamento. Questo modo di accrescenza, che porta i margini del ricettacolo a farsi in certa qual guisa circolarmente rigonfi, produce nel mezzo un assai notevole avvallamento, in seno al quale sono inserti i carpelli, mentre più alto, in sui margini stessi del ricettacolo, sono infissi il doppio in- voglio florale e i numerosi stami. Questa distinzione caratteristica, di cui crediamo fosse il primo a far menzione il Barron, sarebbe certamente stata dagli autori già da gran tempo additata agli studiosi, se più evidente ne fosse riuscito il ricono- scimento ; ma per essere più inaspettato. e più recondito , il fatto, alquanto per sè anomalo, nulla può perdere, nè dell’assoluto, nè del relativo suo valore, e deve pur avere un qualche peso sulla bilancia in cui si librano le sorti di una razionale classificazione. Se non che, l'inserzione anche solo apparentemente perigina, in vece di spingere a capo della Famiglia le piante che se ne mostrano insignite, dovrebbe anzi relegarle all’imo fondo, e non molto discoste da quelle SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. IQI in cui, fatta sempre astrazione del più genuino inserimento degli organi florali, altra differenza organica, rispetto alle Peonie, non si saprebbe scoprire, fuorchè l’assoluta mancanza di albume nel germe, come puossi in alcune Rosacee con facilità verificare. Checchè sia di tale obbiezione, noi pensiamo invece che questa appa- rente periginità della Paueoria sia effetto di tal maggiore cagione, che indichi realmente, piuttosto che una retrocedente semplicità, una vera- mente progressiva ed assai innoltrata complicazione. Già tutti sanno i fitografi come in nessuna altra delle piante ranun- culacee siasi mai potuto scoprir traccia di vero arillo; e per quante ricerche ed osservazioni venisse pure a noi stessi concesso di condurre a buon fine, sempre e lo spermopodio, e con esso il seme, s'erano pre- sentati alle nostre lenti scevri e spogliati di qualunque apparenza di speciale invoglio. L'unica Paeonia può dunque vantar finora, fra tutti i generi della Famiglia, il rilevante onore di un arillo ; il quale, benchè lieve e di non ampio svolgimento, pur ne adorna in bel modo e ne veste in parte il seme, e così da tutti i semi ranunculacei essenzialmente lo contraddistingue. Ogni invoglio, di qualunque natura egli sia, è tale un organo che sempre fortifica e protegge; e perciò pensiamo che nell’ap- prezzamento dei caratteri, di questo pure si debba ognora far quel conto che si potrà maggiore. Quale conseguenza, o meglio, quale corrispondenza dell’arillo nel seme, noi consideriamo ora nel fiore l’accrescimento del ricettacolo; in questo senso cioè, che là, dove nella Paeonia papaveracea Anpers., si vede il disco ghiandoloso del ricettacolo cresciuto in singolar modo a foggia d’orciuolo attorno ai follicoli, ergersi a stringerli e sorreggerli, finchè questi, divergendo maturi, e arrovesciandosi all'infuori, lacerano la sottile ed elegante membrana, un tal fenomeno in preciso modo altro appunto non ne ricordi, se non quanto nel seme già era accaduto, il quale del peculiare suo invoglio era stato, come per benefizio di supplemento, ad esclusione degli altri generi arricchito. Patrocinata in tal modo, e per me già meco medesimo vinta la causa della Paeonia, genere per sè distintissimo, e che a rigor di termini, non potendo ragionevolmente essere in calce rinviato, mi par debba di neces- sità esser collocato in prima fila, m’accingerò ora ad esporre alcuni bre- vissimi ragguagli intorno ad una particolare struttura del tipo generico, che in questi studi tassonomici non mi sembrano indegni di essere ricordati. 192 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE Che l’unica specie del genere Paeonia, la quale si svolge spontaneamente nel nostro clima, abbia un calice pentamero, come il possiede il genere tipico della Famiglia, a primo aspetto ben lo si potrebbe asserire, poichè le appendici fogliacee, che in numero per lo più di cinque, attorniano i petali, han per l'occhio meno esperto vera apparenza di sepali. Ma se attentamente il botanico si porrà ad esaminarle, scorgerà tosto in esse tali segni di differenza, che lo faranno avvertito esservi nella nostra pianta un apparato sepaloideo affatto speciale, di cui non può vedersi il simile nei fiori muniti di genuino invoglio calicinale. In fatti, posti quali si trovano in diverso piano d'inserzione, ed atteso l’ineguale svolgimento delle foglie che li costituiscono, i sepali della Paeonia han figura di organi colti e improvvisamente fermati nel diverso progresso di loro trasformazione, per tal modo che i tre sepali più interni, per la forma e per la struttura manifestano verso i petali somma tendenza di meta- morfosi, e i più esterni in vece ritengono della loro essenza di foglia alcun che di troppo, che colle brattee potrebbe ancora farli facilmente confusi. Un simil fatto ne viene assai frequentemente confermato negli esemplari più ovvii, in cui miriamo talvolta un sepalo, e talvolta due, ora soltanto più ampiamente svolti, ora fessi in lacinie o lobi, che ri- cordano in modo evidente le divisioni delle foglie cauline. E questo varrà a dare una prima conferma a quanto più sopra ne venne fatto di accennare, che, cioè, non v'è forse altra Famiglia di piante, in cui, più che in questa, Natura abbia voluto mostrarsi seria maestra di regolare teoria, e nello stesso tempo scherzosa applicatrice di severi principii. Il complesso poi di tutti questi fenomeni morfologici gioverà a dimostrarne sempre più con quali ingegnosi mezzi il pensiero che regolò le forme del creato sia riuscito a conservare in tale e tanta varietà di eccezioni quel prezioso carattere di unità, da cui si mostra cotanto ingegnosamente contraddistinta questa simpatica Famiglia, la quale, destramente combinando la doppia armonia di squisita semplicità e di pomposa eleganza, ne presenta forse, come dicemmo, il più com- piuto e perfetto dei nostri tipi vegetali. Un'ultima avvertenza umilmente soggiugnerò, rammentando ai botanici descrittori come il carattere tratto dalla deiscenza introrsa delle antere, per cui da taluni già si volle dar alla Zaeonia vanto di formar sezione nel genere, e quasi, sto per dire, Famiglia nella Classe, sia per sè carattere essenzialmente fallace, come quello che non solo in altri generi, d lu. SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 10 od in alcune specie d'altri generi, visibilmente si manifesti in seno alle Ranunculacee, ma nelle stesse diverse specie della Paeonia si appalesi ora più ora meno genuino e pronunciato. Staccandomi in questo punto dal primo genere, io m'avvierò senza altro per la più lunga serie delle Ranunculacee veramente ipogine , notando come il ricettacolo nei generi che seguiranno acquistar debba per diverso grado in lunghezza ciò che nella Pueonia esso acquistava in allargamento. 2. AQUILEGIA. Primo fra queste Ranunculacee di frutto follicolare polispermo e di fior regolare, ci si presenta l’Aquilegia, e quell’onor di precedenza meritamente le appartiene per la compiuta e ben combinata disposizione del suo apparato florale. Cinque sepali che hanno aspetto di petali, cinque petali d’insolita forma e nondimeno assai vaga, cinque carpelli follicolari, ogni organo con discreta probabilità definito, fanno di questo genere spiccatissimo un fior modello nell’accennata divisione della Famiglia. Dell’Aquilegia io mi limiterò a ricordare come quelle parti che oggidì quali petali vi si considerano, e che veri petali sono, perchè nei fiori indoppiati si trasformano in petali regolari, Linneo considerasse come nettarii, mentre quelli organi che per noi son sepali, costituivano per lui la vera corolla. Il VarLant già riconosciuto aveva pel primo, nel fior di questo genere, il vero officio di ciascuna parte florale, e il tempo fe’ piena ragione al suo modo d’interpretazione, nonostante la critica del Linneo che quella prova stessa del raro suo acume gli volge a colpa, alla pagina 73 della Philosophia botanica (1751). Assai nette e precise ne paion qui le intenzioni della natura, che dar volle all’Aquilegia e petali e nettari, e, more solito per rispetto alla Famiglia, fonde in un organo solo, o meglio, in un solo combina i due organi alla medesima destinati. Egli è perciò che l’interna parete del petalo imbutiforme, là dove il tubo si stringe a foggia di sprone, si va coprendo (siccome accade nel tubo di ben molte piante monopetale) di quel tessuto ghiandoloso, per cui, come nei vari nettarii, trasuda l’umor zuccherino d’onde gli venne il bel nome. E se qui ancor ne lice più oltre avventurarci nei segreti dell’orgamz- zazione, e sulle funzioni degli organi apparentemente inutili e sovrab- bondanti concepire ombra di conghiettura, ben diremo come all’organo Serie II. Tom. XXVI. AI 194 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE femineo Natura qui pur volesse usati i più dilicati riguardi, avendo di- sposto che dalla base del gineceo s’ergesse un'ultima serie di stami sterili, rappresentante intorno all'apparato femminile un invoglio protettore, for- mato di dieci laminette, le quali, sciolte fra loro, vanno stringendosi e modellandosi sull’ovario, e che mal note ancora all’ illustre autore del Genera plantarum, son da esso chiamate col pittoresco nome di pagliette. 3. ISOPYRUM. A capo delle Nigelle e degli Ellebori, e non già come a mediatore di naturale transizione fra i due generi, qual taluno lo vuole, crediamo debba esser posto il piccol genere /sopyrum, di cui una sola specie vive sotto il nostro cielo, pianticella dilicata e gentile, la quale ha pur dessa grandi sepali petaloidei, con piccoli petali alternanti, bilamellati, foggiati a lamine aperte e quasi piane, tubolosi e nettariferi alla base, ed ivi ristretti a guisa di pedicello. Nella forma speciale de’ petali, e, se pur vuolsi, nella scioltezza dei follicoli (ora intieramente saldati insieme, ora non mai affatto disgiunti nelle Nigelle e negli Ellebori), sta riposto pell’ Zsopyrz tutto il valore del carattere generico, valore che aggiunto al particolare abito e porta- mento della pianta, fa sì che nell’arbitrario apprezzamento di quei tipi sintetici i quali si chiaman generi, sia lecito anche ai botanici più sempli- ficatori il far buon viso a questo tipo sufficientemente distinto, e già, sopra tanti altri, onorato dall'adozione del principe dei classificatori, Linneo. ( Garidella ). Noverar mi converrebbe, dopo l’/sopyrum, il vago genere Garidella, siccome quello, fra le Nigelle, la cui unica specie rascitur, secondo l’ALLioni, in agris nicaeensibus; e spinto dalla carità del luogo natio m'indurrei volentieri a farne parola, sebbene un troppo celebre avve- nimento politico, che suol chiamarsi, nella storia de’nostri dì, rettifica- zione di confini, abbia staccato dal suolo italiano quel gentilissimo fior di paese ch'è la contea di Nizza, e la Garidella abbia così cessato dall’esser gemma della Flora italiana; se non che, da quel fiorentissimo suolo, d'onde senza alcun dubbio fu in quei giorni inviata al gran botanico piemontese, la Garidella scomparve affatto, e strinse di tanto l’area già così limitata SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 190 della propria vegetazione. Rintracciata quindi per ogni dove, nelle vigne e negli oliveti del contado Nicese, dai botanici moderni, e da me stesso sul patrio terreno con ogni più minuta industria ed affettuosa sollecitu- dine ricercata, mai non soffrì, la gentil pianta, a sollevarne coll’aspetto suo dai travagli e dal disinganno delle faticose erborazioni. li. NIGELLA, Alla vera Nigella adunque la Garidella, di cui m'è forza tacere, ne segna naturalmente il passo, perchè con essa è tanta l’organica sua ras- somiglianza, che vi fu chi non esitò punto a fondere in un solo i due generi già separati da Linneo. Accade nelle Nigelle un fatto morfologico, che, se non unico, certa- mente più che rarissimo deve considerarsi nell’assestamento delle parti in sull'asse florale. Ben si sa come una legge costantissima regoli la ‘ disposizione delle foglie, per la quale, in due verticilli l’uno all’altro sovrapposti, le parti dell'uno sono con quelle dell’altro rigorosamente alternanti. Alla qual legge non solo ubbidiscono le vere foglie che si vanno lungo il fusto svolgendo, ma quelle pur anco, che ristrette nello spazio, e modificate nella forma e nella sostanza, son chiamate a costi- tuire i diversi verticilli del fiore. Ond’ è che l'opposizione delle singole parti" di due successivi verticilli allora soltanto può aver luogo, quando un verticillo intermedio si supponga soppresso. Ben con ragione fu dunque ripreso il De Canporte, allorchè, volendo spiegare la natura dubbia ed apparentemente doppia del perianzio delle Monoclamidee, lo disse formato di due lamine, luna petalina, l'altra calicinale, fra loro opposte; chè una simile opposizione elevata agli onori di teoria morfologica, costituirebbe un fatto anormale, inconcepibile, e quasi diremmo assurdo, dalla natura stessa, per generale principio, costante- mente disdetto. Ora le Nigelle ne presentano un verticillo calicinale composto di cinque sepali affatto petaloidei; quindi, opposti ai sepali, veggonsi spun- tare, in numero di otto, quelli organi che volgarmente si voglion chiamar petali, bilabbiati, tubulosi, nettariferi alla base, con poro ricoperto da squametta, carattere che in apparenza d’un sì bel tratto li ravvicinerebbe al veri petali dei Ranuncoli. Un tal numero poi, senza nuocere alla vera simmetria delle parti, è mero effetto dello indoppiamento normale di tre 196, LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE fra quei petali, i quali così si collocano a paio a paio dinnanzi al sepalo che loro si presenta opposto. A noi sembra che Natura nel suo modo di procedere in tutte queste piante, abbisogni di larga ed ardita interpretazione. Epperciò direbbe ognuno, il quale della Famiglia intiera avesse fatto quello studio più coscienzioso e compiuto che per lui si potè, essere stata intenzione del pensiero ordinatore il dare, se non a tutti, almeno al maggior numero di questi generi, non solo calice e corolla, ma come un per di più, anco un organo nettarifero. Stabilito poi quel piano regolatore, e posti in pronto gli organi particolari adatti a ciascuna funzione, da una mente ancor novizia nel difficile studio delle forme ben si potrebbe aver sospetto che Natura si fosse, come spesso accadde al buon Omero, di lieve sonno addormentata, in conseguenza del che ne sia poi nata sì apparente con- fusione, che ancor si disputa oggidì sull’ indole e sulle attitudini di tali organi, 1 quali son per certo fra gl’ importanti da noverarsi. L'opposizione adunque de’ sepali ai così detti petali delle Nigelle, al- trimenti non concepiamo, che come fatto risultante dal totale abortimento del verticillo petalico; e perciò, sebbene i nettarii, probabili emanazioni dei petali, quando manchi l'organo peculiare sogliano nei petali veri più generalmente formarsi, pure in questa Famiglia (se ne lice il dirlo) così leggiadramente rivoluzionaria è da credersi il nettario sia quì riescito, senza troppo grave alterazione delle leggi della morfologia, a stabilirsi alla base di filamenti petaloidei, non ancora muniti di antere; tanto più che due fatti concorrono invincibilmente a darne prova del caso, lo sviluppo cioè sempre successivo, e non mai contemporaneo di quei falsi petali, colla disposizione in ordine visibilmente spirale, come avviene appunto negli stami, non che gli esempi narrati di stami di Garide/la, in cui non s'è ancora intieramente compita la radicale trasformazione del petalo in stame, ma traccia evidente nell’organo è rimasta dell’antico stato di petalo. Che se una tale interpretazione non paresse a tutti ammessibile, sa- rebbe pur uopo confessare che Natura volesse in quel fiore trarre a solenne prova di pazienza e di fede la mente de’ fitografi, e quasi farsi giuoco della teoria scientifica, presentando ai loro studi, come narrasi facessero certi discepoli scherzosi ad un immortale maestro, un fiore fittizio, con- traddittorio, foggiato a cenno di puro capriccio. SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 197 5. HELLEBORUS, Il tipo pentamero, con un solo invoglio florale, è carattere che scosta dal seguente Eranthis i veri Ellebori, una specie dei quali merita negli annali della botanica una menzione d'onore, siccome quella che, esaminata dall’ immortale autore del Zazsto, suggerì alla splendida fan- tasia di lui l’idea prima della più feconda delle teorie moderne, la trasformazione degli organi. Una successiva serie di petali nettaroidei, per lo più in numero di cinque ed alterni coi sepali, si svolge a capo degli stami; ma che veri petali essi debbano chiamarsi, esiteremmo ad asserirlo, conciossiachè non sempre compaiono alternanti coi sepali; e, come avviene poi nella Nigella, alcuni di essi sogliono in tal guisa in- doppiarsi, che il loro complesso può parimente crescere fino al numero di otto. Se dunque staminodi, piuttosto che petali veri li considerammo nella NigeZla, ragion vorrebbe che qui pure esser dovessero qualificati e tenuti per staminodi. Soggiugnerò , è vero, che nella Nigella l’aborti- mento della corolla ne parve sempre più netto, più preciso, e ricisa- mente comprovato dalla fallita alternanza degli organi in discorso, mentre nell’Helleborus quella mancanza del secondo verticillo florale tende tal- volta ad essere ingegnosamente celata, prendendo allora i supposti petali, senza cessar dall'essere spirali e successivamente svolti al pari dei veri stami, il posto della corolla, che, secondo noi, realmente vi difetta. Ora, veda ognuno in simile fatto una prova novella delle singolari irre- golarità di cui è colpita questa più vaga delle Famiglie, a cagion delle quali certi organi si credono naturalmente chiamati a surrogare gli or- gani assenti: e qui vi scorgi ad evidenza foglie involucrali che tendono a farsi calice, e ad ogni tratto vi miri sepali che la fanno da petali, e perfino (caso rarissimo di spontanea e tipica retrocedenza) stami che miseramente si steriliscono, e direi quasi si evirano, per vestire forma petaloidea, riempiendo di nettare la tubolosa loro base. 6. ERANTHIS. Staccato dagli Ellebori, in mezzo ai quali era stato da Linneo clas- sificato, l’Eranthis è genere dotato di sì caratteristica organizzazione, che 198 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE nettamente si distingue dai generi circonvicini. L’invoglio suo florale é composto di due verticilli, per lo più trimeri, o per semplice cagione d'’ in- doppiamento polimeri, petaloidei, e fra loro esattamente alternanti come accade nella maggior parte dei fiori monoclamidei. Manca in esso la vera corolla, e come nella Nigella e negli Ellebori che precedono, crediamo per le medesime ragioni di svolgimento spirale e d’imperfetta alternanza, sieno gli stami più esterni quelli che assumono nel fiore forma e funzione di organi nettariferi. Come poi se questo doppio invoglio non bastasse a riparare le parti più centrali del sistema, l'apparato florale mostrasi in bella guisa attorniato da un involucro composto di tre fo- glioline, in cui, se pel ravvicinamento delle parti e la perfetta alternanza colle divisioni esterne del perianzio si vuol supporre un calice, per la forma in vece delle foglioline stesse così poco modificata che in chiaro modo ancor ricorda le infime foglie dello scapo, altro non può vedervisi che un fallito intendimento di tale organica trasformazione. La ragione adunque che domina in questo genere, quale la rivedremo nella Ficaria e nell’Mepatica, è la ragion ternaria; e dacchè quel tipo ternario si manifesterà costante, anzi abituale in una pianta, crederemo ingenuamente alla perfetta e legittima originalità d’una tal forma. Che se talvolta in fiori di tipo abitualmente ternario dovessero additarsi più o men gravi deviazioni da quel sistema, quasi oseremmo dire che, salvi sempre i dommi più elevati della filosofia morfologica, in una simile straordinaria modificazione mirar si dovrebbe dal pratico classificatore una fortuita eccezione al tipo genuino ; piuttosto che un vero ritorno al presunto modello preesistente. L'abito del vegetale e il consueto suo por- tamento, dipendente da quei caratteri che più facilmente si scuoprono a primo sguardo anche da chi si mostri meno pratico di simili distinzioni, per tutte le Famiglie formate da concatenazioni di forme così diverse, pare a noi sia quello appunto, in grazia di cui debba il genere essere costituito. E chi d'altronde, senza tema di dar nell’avventato o nell’as- surdo, si accingerebbe mai a sostenere che una pianta esser possa dalla natura tipicamente modellata in costante forma di eccezione? La natura non si lascia per certo stringere fra i confini regolatori delle nostre scienze; e però col principio unificatore che si volesse in tutti i casi pratici inesorabilmente applicare, si andrebbe: per certo molto più in là di quel che si vorrebbe, e col supporre in caratteri altrimenti abituali altre deviazioni da un tipo sempre superiore, quanti generi non verrebbero SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 199 mai distrutti, e sotto il titolo di mere eccezioni più o meno accidentali a quel primitivo tipo ricondotti! Allorchè adunque una specie, od una serie di specie, han tipo e fi- sionomia loro propria, facilmente discernibile dalle specie propinque, crediamo sia un crescere gratuitamente il pericolo, o tutt'almeno la dif- ficoltà al principiante quando, a fargli trovare il vero posto del vegetale in seno alla particolare classificazione della Famiglia, lo si voglia porre in dovere di sacrificare nel pensier suo l'aspetto che Natura gli pone abitualmente distinto sotto gli occhi, per ricondur poi la sua mente a rintracciar condizioni di essenza consimile molto più recondite, od anche solo meno apparenti. In quel caso appunto (poichè sì bella dose d’ar- bitrio, come giù ricordammo, entrar suole nell’apprezzamento di quella convenzionale riunione di forme rassomiglianti che si chiama genere), fra un sintetico maestro della scienza diletta, il quale semplificar voglia concretando , ed un analitico, che separando moltiplichi, l’accorto classificatore, cui scopo e movente è l’appianar la strada agli incipienti, grande cautela adoprerà nello scegliere la sua via, e ben sovente, ren- dendo al primo la dovuta ragione, batterà risolutamente i passi del secondo. Possano queste spassionate considerazioni caldeggiar sì efficacemente la causa dell'Erarzhis, che questo bel genere, così gentilmente nominato «perchè /loribus tempestate inclementi amabilibus, non ostante la pertinace opposizione che gli van movendo alcuni inesorabili riduttori di generi, trovi d'ora innanzi un posto men contestato nelle Flore d'ogni paese. Prima che staccarmi dal singolare Elleboro linneano, di cui tenni or ora discorso, mi scosterò per brevi linee dalle osservazioni tassono- miche, di cui mi fo legge con umilissimo riguardo ragionare, per ram- mentare un caso di sinonimia che mi parve, non so come, ignoto al maggior numero dei descrittori delle Flore, o da essi dimenticato. Generalmente si attribuisce al SaLissurY il merito di aver saputo ricono- scere pel primo (1807) in quella specie distintissima l’importanza di un vero genere; ma ben molto tempo prima di lui, fin dal 1763, l’Apanson già operato aveva la ragionevole separazione; se non che, nelle cose sue più serie recando sempre alcun che di quella originale stranezza, di cui s'improntava essenzialmente il suo carattere, egli avea chiamato il nuovo genere col nome di He/leboroides, nome la cui desinenza, fin dagli anni stessi che precedettero il fausto risorgimento della scienza era stata 200 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE colpita, nella nomenclatura botanica, d’ inesorabile ostracismo. Altri adunque fuorchè se stesso non incolpi il capriccioso autore se gli sfuggì la preda letteraria, nè gli riuscì di poter vantare sul nuovo genere il lusinghiero diritto di paternità. 7. TROLLIUS. Il genere ZYrollius a cui ne conduce la più naturale delle transizioni, è pianta di struttura sì poco diversa dagli Ellebori, che a primo aspetto dubitar si può s'ei debba in vero meritarsi quell’onore di genere, il quale da Linneo gli venne con sì facile arrendevolezza consentito. Esso in fatti tutte annovera quelle parti che degli Ellebori sono proprie e costituenti, un unico invoglio florale pentamero, o per diverso indoppiamento del sistema quinario diversamente polimero, un numero vario di organi net- taroidei (sian essi petali o staminodi), stami e follicoli in bella quantità su più ordini spiralmente disposti. Vedasi adunque in che possa il 77'odZius distinguersi dai generi che lo precedono, e se per caso non si debba aver sospetto che soltanto pietate qguadam verso quanto fu operato dalla veneranda autorità di quel vero principe della botanica che fu Linneo, fosse egli stato fin qui tollerato nelle Flore dei due mondi. Non ostante una sì perfetta convenienza, qual cogli Ellebori venne or ora notata, v ha pur sempre nel Z7'o/livs, affrettiamoci a confessarlo, un carattere recondito che da quelli lo disgiunge, carattere che, sebbene assai lieve in sè, non può dirsi, relativamente, da meno di tanti altri, per cagion de’ quali diverse specie già s' ebbero il vanto d'essere assunte nell’olimpo de’ generi. Quest'è la forma appunto degli accennati organi nettaroidei, i quali più non mostransi in esso foggiati a mo’ di tubo o di cornetto, ma bensì spiegati, spatolati, leggermente solcati in sulla pa- gina anteriore, coll’unghia ristretta, scavata, e, nella scavatura, sempre spalmata di quell’umor zuccherino, che tante altre Ranunculacee in quel loro particolare organo di secrezione van producendo. Pel Zrollius principalmente ne par si debba ricordare quanto ne in- segna Linneo, che, cioè, character non fucit genus, sed genus characterem; la difficoltà maggiore è in ciò riposta, che si possa nettamente definire dai botanici descrittori in quali note consista quella particolare impronta più discernibile, di cui vuol accennare nelle memorabili sue parole l’im- mortale maestro. Che questa impronta poi realmente esista, e che per SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 201 credere alla verità del nostro tipo generico non ne sia uopo ricorrere allo strano paradosso di Cristiano Kwaur, il quale generi altrettanti ammetteva quante sono le specie ben separate ed evidenti, è cosa che ne par da mettere fuor di dubbio, se badar si voglia che un tal carattere ci è svelato dal portamento proprio della specie nostrana, e dal parti- colare ed elegantissimo aspetto che la distingue nella splendida corona de'suoi sepali, d’onde le venne in vernacolo il bel nome di Rosa abboz- zolata, per modo che chiunque meno esperto delle specificazioni descrit- tive, il quale si faccia cogli occhi propri ad ammirare questa vera gemma della nostra vegetazione alpina, ricisamente affermerà che il Z'o/lis non è un ZMelleborus, e rafforzerà così nel giudizio nostro il valore dell’ unico carattere, per cui ne pare che dagli Ellebori appunto ei vada generi- camente distinto. 8. CALTHA. Se dagli Ellebori tentammo fin qui salvare il ZYo/Zis, dal ZYrollius stesso è pur ora dover nostro sciorre libera la Caltha, che dai più re- centi classificatori è con esso in un medesimo genere vincolata. Ultimo tipo delle Ranunculacee follicolari, di fior regolare, la Caltha dal genere vicino si disgiugne per difetto assoluto di organi nettaroidei, e per la persistenza dei sepali, che nel Zr'o/Zius son sempre più o meno caduchi. E se a questi più visibili caratteri s'aggiunga l’appendice arillare, di cui per l’ingrossamento straordinario degli esterni integumenti si copre parte del suo seme, noi terremo per distintissimo quel genere, che, in questa divisione della Famiglia, rappresenta ciò che la C/ematis, sprov- vista com’essa di corolla e di poro nettarifero, è per le Ranunculacee achenoidee, generi entrambi più degli altri impoveriti ed orbati di quelli organi che a raffigurar si richieggono il fior compiuto, quale nella or- dinazione della Famiglia ei trovasi tipicamente delineato. 9. ACONITUM. Fiori sì capricciosamente congegnati, quali si dimostrano nei due gani florali si svol- gono con sì perfetta regolarità, ne presentano in: vero una inconcepibile generi seguenti, in una Famiglia in cui tutti gli or anomalia; e siccome (fatta astrazione della forma degli invogli florali) tutti in ambidue concorrono i caratteri, che sono costituenti della Serie II. Tom. XXVI, B? 202 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE Famiglia stessa, non possiamo trattenerci dal considerare quel fatto come un ultimo ed ingegnoso ripiego, con cui Natura volle mostrare nell’unità di un tipo preconcetto quante più poteva sfoggiare varietà di aspetto e di struttura. & Una gravissima irregolarità sforma in guisa affatto strana il posteriore fra i cinque sepali dell’Acoritum, e diventa in tal modo il movente del disordine, che, senza troppo alterare le leggi della simmetria, sconvolge cionondimeno assai profondamente tutte le parti del suo fiore. Foggiato a modo di celata o di cappuccio, esso è l'organo che, tendendo a coprire in avanti quante più parti può raggiugnere dei due invogli, trovasi natu- ralmente meno discosto dall’asse, e a sè raccosta, e nella sua cavità imprigiona i due petali maggiori, i quali così ad esso si fanno sovrapposti. Questi due organi che da tutti si voglion chiamar petali, han forma affatto particolare, e, portati sopra un unghia più o meno lunga, ter- minano in un cappuccetto speronato e nettarifero, di aspetto assai vago. I sei petali minori, quando non abortiscono, si mostrano colpiti d’atrofia, in forme di ligulette o bastoncini, che raffigurano un semplice principio dell'unghia petalica. Questi petali, posti a capo delle spire degli stami, e, come anche accade nelle Nigelle, in numero di otto per effetto di parziale indoppiamento, mostransi pure contrapposti ai quattro sepali rimanenti, i quali, di forma fra loro un po’ diversa, pur sono simme- iricamente disposti in due piani a riparo degli organi riproduttori. Tale è la struttura più apparente di un genere, in cui un ingegnoso scrittore altro mirar non credevasi che una MigeZla dal fiore irregolare; ma in seno al quale la sovrapposizione delle singole parti dei due invogli florali potrebbe pur essere un prossimo effetto del turbamento, che, come vedrem pur ora nel genere De/phinium, l'irregolarità di forma del primo verticillo produce nell’intiero apparato. 10. DELPHINIUM. Agli Aconiti è prossimo, ma tuttavia distinto ne par si debba rimanere il genere De/phinium, genere che per un diverso svolgimento di alcune fra le sue parti florali offre al botanico descrittore non pochi esempi di assai ragguardevoli variazioni. I petali, normalmente in numero di cinque, sono qui pure posti a capo delle serie staminali, ed ai sepali si trovano parimente contrapposti. SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 203 Il calice è pentasepalo, e il sepalo posteriore ha forma, non già di ce- lata, ma di sprone cavo, in cui corre ad intromettersi e a foggiarsi un altro sprone minore, petaloideo, la cui parete interna è tutta sparsa di quelle ghiandole particolari da cui trapela il solito umor zuccherino prodotto dai veri nettarii. I petali, come nell’Aconitum, si fan qui mi- nori, o svaniscono affatto, a mano a mano che si scostano dall’asse; ma, diversamente da quelli dell’altro genere, mai non perdono la natura loro membranosa, nè la forma appiattita dei veri petali. Preghiamo ora che qui ne sia lecito, a titolo di semplice conghiettura , esporre una breve ipotesi, la quale ci parve avvalorata da qualche pro- babilità, e ne venne suggerita da un lungo ed attento esame fatto su questi fiori di così difficile spfegazione. Tanto nell’Aconitum quanto nel Delphinium può con discreta vero- simiglianza accadere, che, per la speciale disposizione del fiore in sull’asse, l'azione vegetativa straordinariamente spinta verso il sepalo posteriore ampiamente svolto, attragga pur anco, per così dire, verso quel sepalo i due petali più prossimi, allo stesso laterali, i quali, senza quella attra- zione, sarebbero senza dubbio rimasti alterni; ed un tal fatto ne pare guisa da 5 renderli opposti al detto sepalo, debba pur anco, per quella forza stessa, in tal guisa doversi compiere, che, rinchiusi i due petali in spostarsi sul ricettacolo, dai singoli punti d’inserzione, la serie degli altri petali. Questi poi, risalendo verso la parte superiore del sistema, dovran pur essi rendersi opposti ai sepali superiori, per tal modo che i petali più lontani o di fatto abortiscano, se il materiale fu tutto attratto od assorbito; oppure, se ancor materia rimase, si faccian molto minori. Il che precisamente avviene nelle diverse specie dei due generi. Ora, lo squilibrio dell’ordinamento florale per quella attrazione particolare operata verso l’asse centrale, e il conseguente fatto della sovrapposizione delle parti, ne parrebbero in tal modo sufficientemente spiegati, e come nell’Aconitum si vedono nella celata compresi due petali disgiunti, due petali pure saldati in uno, ne parrebbe similmente più giusto considerare rinchiusi nello sprone del genere De/phinium. Che se la nostra supposizione fosse sgraziatamente per non cogliere nel vero, veggasi quale suprema anomalia nella sovrapposizione anti- naturale dei due invogli florali ci converrebbe in questi generi menar buona; e di più, quanto diversa spiegazione in seno alle leggi delia morfologia dovrebbesi a due fatti consimili ricercare. Nell’Aconitum son 204 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE due i petali sovrapposti e rinchiusi nel sepalo posteriore, mentre celato nello sprone del genere De/phinium, non ostante la quasi totale separazione che in alcune specie s'incontra degli organi in questione, non più due, ma un petalo solo dagli autori più recenti si vorrebbe aver da ritrovare; il qual fatto, oltre all’assurdo di ridurre a quattro, con calice pentamero, il numero dei petali prefissi ai Delfinii, c'indurrebbe ancora a supporre semplice dapprima quel petalo, quindi indoppiato pel volume in modo che Ia totale disgiunzione delle parti fosse quasi naturale conseguenza dello indoppiamento, e per terza modificazione morfologica in ambe le sue parti più o meno ricongiunto; complicazione gratuita, anzi sforzata alquanto e più che strana, da cui per certo si deve considerar natura come affatto aborrente. " Una semplice avvertenza io soggiugnerò per regola de’ principianti, affinchè in quella specie di De/phinium in cui l'intiera corolla per l’abi- tuale abortimento di tre petali, sà trova ridotta ai due superiori, alquanto amplificati, e per buon tratto congiunti, non si lascino trarre in inganno dalle apparenze, e stien essi ben lungi dal considerare quell’apparato così impoverito, come una vera corolla gamopetala; avvegnachè le corolle di tal fatta, per un canone della scienza che non ammette eccezione, mai non possono addirsi nè ad un calice dialisepalo, nè ad un numero inde- finito di stami, caratteri entrambi essenziali nelle piante ranunculacee. Ed ora che furono rilevate le gravi differenze che i due generi Aconitum e Delphinium presentano nella forma dei due invogli florali, ritenuto che quelle note differenziali sono ampiamente sufficienti, secondo le massime sancite nella scienza e gli esempi senza numero delle classi- ficazioni, a diventar caratteri generici, non lieve inconseguenza ne sembra quella del chiarissimo Barron, d'aver tenuto il 7ro/lius distinto ( quasi non sa perchè) dall’e/Zeborus, mentre or qui di tutti i Delfini pre- tenderebbe fare altrettanti Aconiti. Egli è bensi vero che, lasciata da banda la forma del sepalo maggiore, vediamo i due petali posteriori del genere 4conitum in ciò solo differire dai due petali posteriori del genere Delphinium, che i primi hanno unghia lunghissima e sprone breve, mentre i secondi hanno brevissima l'unghia e lo sprone molto allungato. Ma quan- tunque in così poche e semplici parole la differenza generica possa enunciarsi, l’occhio protesterà sempre contro la fusione dei due generi, e per la diversità di congegno che sì visibilmente nei loro organi spicca, non sarà mai che in un sol genere un descrittore accurato voglia ammetterli riuniti. SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 205 Che se mai si chiedesse qual possa essere la cagione di quel sì straor- dinario variare che si mira nella coppia di generi or ora discussi, ben ne sarà lecito rispondere, coi principi più severi della scienza, come essa cagione stia riposta nella perfetta ed assoluta indipendenza delle singole parti florali. Dal che facil cosa è dedurre che, quanto saran maggiori la relazione, il vincolo e la dipendenza che passano tra i diversi caratteri costituenti un sistema qualunque di fiore, tanto minore sarà il numero degli organi che variar si vedranno in detto sistema; e tutti quelli svia- menti dalle sue regole meno fondamentali di cui Natura qua e colà suol parerne colpevole, ne diverranno tanto meno gravi e frequenti, quanto saran maggiori l’importanza, il numero e la complicazione delle leggi, a cui si vorrebbe colle eccezioni derogare. 11. ACTABA. Dalle Ranunculacee follicolari alle achenoidee il genere Actaea oflre a sua volta ai nostri passi.un vero ponte di transito, essendochè ciascun fiore chiude i suoi semi in un solo follicolo, e questo poi, quasi a meglio ingannar l'occhio, prende lontana forma di bacca o di drupa ovoidea. Dal suo nascere al maturare, il pericarpio membranoso si circonda di una sostanza carnosa, che presta al frutto apparenza e condizione tem- poraria d’indeiscente; ma, venuto al suo giusto termine il periodo della gestazione , l'involto carnoso svanisce, e s’apre il frutto per la sutura interna, da vero follicolo, quale essenzialmente lo fe’ natura, e quale in fatti non cessò dall’esser mai, non ostante lo straordinario sussidio, del quale, a ben difendere e maturare la semenza, lo volle eccezionalmente munito la particolare organizzazione del genere. La storia dell’Aezaea ne ricorda com'ella fosse ognora di sede alquanto incerta, e vario apprezzamento ottenesse negli ordini de’ classificatori. Meglio riconosciuta la natura del suo frutto, non che la disposizione delle sue parti florali, essa riterrà, giova sperarlo, il dovuto posto tra le Ranunculacee, mostrandovisi assai povera d’organi e di bellezze, fornita di quattro a sei sepali petaloidei, e di una susseguente serie di lamine spatolate, petaloidee pur esse, le quali nascono più o meno alternanti coi sepali, e segnando il principio delle spire staminali, quai semplici staminodi sono qui pure realmente da considerarsi. 206 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE 12, CALLIANTHEMUM. I generi che ormai ci rimangono ad esaminare sono Ranunculacee monosperme, e perciò di più semplice e regolare organizzazione; fra le quali spicca e per forma, e per raro pregio di bellezza, quel genere di pianta alpina, che fu accortamente separato dai Ranuncoli di Linneo, e in grazia del quale l’illustre Carlo Antonio Meyer foggiò poeticamente il leggiadro titolo di Callianthemum. Munito di calice pentasepalo, il vago fiore ha tale corolla, che nei cinque suoi petali presenta costantemente, in maggiore o minor grado, il fenomeno di un semplice od anche ripetuto indoppiamento; per la qual cosa dai sei ai quindici petali gli vengono generalmente assegnati dai descrittori delle nostre Flore. Tuttavia non è già dalla corolla che quel genere ripeter deve lo speciale carattere della sua costituzione, ma bensì dalla particolare struttura del suo frutto che ricisamente lo contraddistingue. La tendenza che i frutti delle Ranunculacee hanno tutti ad esser polispermi, è un fatto innegabile e talmente manifesto, che a nessuno può sfuggire, il quale si faccia a studiare pel minuto la carpologia dei singoli tipi della Famiglia. Nel Callianthemum, primo genere fra le nostre achenoidee, che ha l’ovario biovulato, un ovolo solo è destinato ad esser fatto fecondo, ed appena compiuto l’atto di tale fecondazione, l’ovolo prescelto s'impone all’altro, e svolgendosi a spese del medesimo, fa sì ch’esso perisca prima d'aver avuto scintilla di vita. Ma vha di più. La posizione dell’ovolo fecondo è in questo e nel seguente genere singolarmente caratteristica , in quanto che, mentre nelle achene dei veri Ranuncoli l’ovolo si trova diritto, qui presentasi arrovesciato, ed in tale unica guisa arrovesciato, che il micro- pilo, il quale in semi di tal fatta, per legge costante, suole esser posto all’interna parte, nel Ca/lianthemum si dimostri in vece eccezionalmente esterno. Tacer non possiamo, prima di separarci dal presente genere, del bene svolto organo nettaroideo, di cui è fornita l’unghia de’ suoi petali. Il semplice poro nettarifero delle Nigelle e dei Ranuncoli è qui vinto d’assai ; chè la squametta sciolta, da cui sì spesso in quei generi l’accennato poro è ricoperto, ne parve qui sempre omogeneamente saldata col petalo, in modo da far sì che l'organo nettarifero prenda in esso forma di vera fossetta. SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 207 13. MYOSURUS, Seme arrovesciato, ma col micropilo regolarmente posto alla parte interna, ha pure il genere Myosurus, di tipo ordinariamente pentamero ne suoi tre verticilli di sepali, petali e stami, ed in cui pochi scrittori sintetici di chiaro nome non vollero pur veder altro che una specie di Ranunculus. Se non che, fatta anche astrazione di quel caratteristico arrovesciamento del seme, di cui dicemmo, la forma dei sepali e dei petali ne pare in esso così particolare ed originale, che in verità crediamo non esser lecito che di quella nessun conto s’abbia da fare nelle classi- ficazioni dei generi. Il sepalo del Myosurus, che il Dirrenio, nello stabilire il genere, paragona lepidamente ad un perigonio di Aristolochia , consiste in una laminetta membranosa, petaloidea, che si svolge a foggia di ligula in tutta la parte superiore, e dal punto d'inserzione si stringe quindi nell’inferiore a guisa di uno spronetto cavo. I petali son laminette più ristrette anch'essi, terminate alla base in unghia tubulosa, ed hanno il lembo alquanto scavato nella parte mediana, e tutta la superficie spalmata del solito umore zuccherino. Non dirò del ricettacolo allungatissimo a guisa di ramo esile, d'onde fu tratto il pittoresco nome che gli diè Gareno, e gli restituì Linneo; nè della serie apparentemente costante degli stami, i quali non sogliono oltrepassare il numero di cinque. Un tal numero, che in questo caso esser non può conseguenza di sistema, è bensì puro efletto del caso; poichè fra i caratteri essenziali della Famiglia evvi pur quello di avere stami in quantità indefinita; e solo a tal riguardo avvertiamo come ne paia accidente fra i singolari da noverarsi, che il minor numero d’organi paterni offertoci dai varii generi della Famiglia, quello sia appunto cui tocchi di procreare quella maggiore quantità di prole, che in sullo smisurato ed affollatissimo ricettacolo in bell’ordine spirale si va svolgendo. 14. RANUNCULUS. Giunti al tipo genuino della Famiglia, ch'è il genere Ranunewlus, brevi parole gli consacreremo, ricordando anzi tutto come pel primo lo proclamasse tale quel Bernardo Jussieu, che con sì ammirabile intuizione scoprì in esso quasi il centro del sistema generico, o per dirla con più 208 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE adequate espressioni, come la sintesi media dei diversi caratteri della Famiglia, per modo che le altre forme caratteristiche nella Famiglia stessa così diverse e copiose, tutte fossero considerate quali equi e semplici accrescimenti o diminuzioni de’ suoi propri caratteri. Fiore normalmente regolare, il Ranuncwus ne presenta ognor pen- tameri i due invogli florali ; poro nettarifero alla base de’ petali congegnato in tal modo, che, soppresso il lembo del petalo, l'unghia nettaroidea ricordi più o meno esattamente gli organi consimili dell’/sopyrzm, della Nigella, degli Ellebori e del Zro/lius; indefiniti per ambo i sessi gli organi riproduttori, e seme diritto nell’achena. Di un'unica anomalia ci toccherà qui far menzione, la quale a fronte delle frèquenti e gravi irregolarità che il maggior numero degli altri generi ne suol presentare, non varrà mai nè a togliere nè a scemare al genere Ranunculus; già il più sparso e il più copioso della Famiglia , il vanto d’essere ancora il genere meglio ordinato nella disposizione delle sue parti florali, e nello stesso tempo il più tenace della genuina sua forma. Una specie, presso néi non comune, il Ranwneulus auricomus L., talvolta ne presenta l'inaspettato caso di parziale od intiero aborto della corolla, la quale allora è supplita dallo straordinario svolgimento dei sepali che si fanno petaloidei. I fitografi vollero naturalmente di tal fenomeno inconsueto dare le giuste spiegazioni; e fra quelle ci arrise ognora il supposto che ciò avvenga per esuberanza di forza vegetativa, di cui ridonda, a cagione del ferace suolo, il primo verticillo del fiore a spese del secondo. Ed in vero una chiara prova di tanto ci si presentò più volte in una classica località di quel Ranuneulus, là dov'esso ingemma, nel contado torinese, l’ameno parco di Villastellone. Ivi raccolta ne’ luoghi umidi ed erbosi entro il recinto, la pianta costantemente ci si offrì, sguernita bensì di petali, ma in ricco stato di vegetazione e di fioritura, mentre impoverita di statura e d’apparenza, ma coi petali più o meno perfettamente svolti, la raccogliemmo a breve distanza, lungo gli aridi e pietrosi rialzi di terra, su cui corre la via ferrata. Di modo che, nè la stagione diversa della fioritura, nè la diversa qualità geognostica del terreno su cui vive la pianta, ci paiono cagioni sufficienti a produrre quel fatto d'’irregolarità nel genere che già dicemmo il più regolare fra tutte le Ranunculacee. Sol ci rimane or da sapere perchè in questa sola, più che in qua- lunque altra fra le così numerose specie del genere, poste in simili condizioni SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 2009 u i vegetazion in quell’organo piuttosto che in ogni altro, e coll’ar- d t e, ed ell’org i ricchire una parte, sì stranamente impoverendo la parte vicina, un tal fenomeno si vada sotto gli occhi nostri compiendo; del che, se non sarà giudicata vana ed eccessiva curiosità la nostra, ci farà forse un giorno soddisfatti quel felice che potrà meglio di noi rerum cognoscere causas. 15. FICARIA. Come l’Eranthis fra gli Ellebori, così la Ficaria fra i Ranuncoli, porta seco quel tipo ternario che Natura predilige nelle piante monoco- tiledonee, e che pure, a vece del quinario, non poche volte adopera nel disporre i fiori di quelle piante, le quali nascono munite di due cotiledoni. Il suo calice è normalmente composto di tre sepali, e la corolla, fatta di un doppio ordine di tre petali alternanti, s'indoppia, per così dire, in ordini ulteriori, in cui più l'ordine si fa interno, e più di petali si va scemando. Che il primo invoglio florale della Ficaria sia vero calice piuttosto che involucro (come alcuni opinarono che fosse), ne pare in assai chiaro modo comprovato dalla forma stessa delle foglie perfettamente in sepali trasformate, dal posto che i sepali occupano sull’asse florale relativamente al secondo verticillo, non che dalla loro assai facile caducità ; stante che, se fossero soltanto involucrali, oltre al nascere più o meno discoste dal verticillo petalico, quelle foglie, di forma certamente alquanto meno modificata, aderirebbero in vero più saldamente al peduncolo, essendo assai più normale l’interrompimento, o, per così dire, la disarticolazione delle fibre alla base di un sepalo, che rappresenta un organo in cui già tutta si consumò la prestabilita metamorfosi, di quel che lo si vorrebbe supporre in un involucro, il quale per lo più raffigura tali organi che ancor non raggiunsero la compiuta loro trasformazione. Egli è bensì vero che chi negherà il calice a questo genere cotanto combattuto dai classificatori, si varrà dell'esempio d'altri due generi ranunculacei, l'Eranthis, cioè, di cui già dicemmo più sopra, e l’Mepatica che tenteremo fra non molto di spiegare, rappresentando come Natura questi due generi di genuino tipo ternario abbia provvisti d’involucro , e come sia più probabile che quest’organo medesimo, più che un vero calice, abbia pur voluto riserbare alla Ficaria, genere anch'esso di ternario tipo nella Famiglia. Ma difficile non riuscirà la risposta ad una cotale Serie II Tom. XXVI. e 210 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE obbiezione (se pur non la si deve chiamar sottigliezza), quando si voglia considerare, che l’Eranthis e l’Hepatica appartengono a tribù ben dispa- rate; e, generi d’assai complicata dimostrazione, furono staccati da altri generi in cui manca il calice vero, e il primo verticillo florale è perciò normalmente petaloideo, mentre la Fiîcaria, di tribù più nettamente ca- ratteristica, tocca prossimamente un genere più assoluto, in cui i petali non mancano mai, e quindi il primo invoglio florale è calice, nè i sepali vestono in alcun tempo, se non per rarissima eccezione, la vaga sem- bianza di corolla. Or, tutti sanno come i singoli caratteri, non in assoluto, ma in relativo senso, anche in grembo ad una medesima Famiglia, deb- bano pur sempre essere valutati. Chi perciò s’ accingesse a dare alla botanica una vera teoria della dipendenza, concatenazione e relativa ne- cessità de’ caratteri, non riescirebbe certamente da meno di colui che ne fe il bel dono della classica loro subordinazione, e nello stato attuale della scienza senza dubbio le procaccerebbe il migliore de’ progressi. Quelli autori che della Ficaria altro far non vogliono che un Pu- nunculus, su ciò fondano il loro avviso, che l’addotto carattere di sistema ternario dir non si possa generalmente costante, ed al tipo che regola 5 i Ranuncoli genuini questa pure talvolta, più o meno spontaneamente, si riconduca. Non può negarsi in vero che, per la facilità d’ indoppiamento, la quale negli organi florali di questo, come del maggior numero degli altri generi della Famiglia, si ammira, possa incontrarsi calice di Zîcaria tetramero, od anche, più fatalmente, pentamero. Sarà quello un disgraziato caso, che tuttavia non potrà illudere se non l'occhio più inesperto. Per altra parte, sappiamo pur troppo che il dar per base allo stabilimento d’un genere o d’una specie qualunque un carattere incostante, sarebbe improvido consiglio, indegno affatto di mente sana. Quando in fatti in tale ipotesi fallisse improvviso il carattere in discorso, nessuna altra nota più non varrebbe a sufficientemente distinguere il genere o la specie che per esso si volevano distinti. Ma questo pericolo, la Dio mercè, non par che sovrasti al caso nostro della îcaria; in falti, ra- rissima cosa è, che un carattere veramente grave, qual è per se stesso il tipo ternario, per lo più di grande evidenza, e, checchè se ne dica, di più che difficile alterazione, non si trovi inoltre nel genere o nella specie da talun altro argomento così bene accompagnato (fors’anco di solo particolare abito o portamento), che quella diagnosi, la quale pic- carsi voglia di precisione maggiore, non sappia senz'altro trarne tutto SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 2II il maggior partito che le conviene. E così pel fatto nostro eccezionale, il numero e la forma de'petali, la condizione sessile dello stimma sull’achena, lo speciale aspetto del fiore, ed anche diremo della pianta intiera, saranno pur sempre prove sufficienti a convalidare quella che noi crediamo retta e meritata distinzione generica. Riferendoci adunque in questo punto a quanto sul tipo normalmente ternario dicemmo nel genere Eranzhis, noi crederemmo opportuno che, pel vantaggio di più facile classificazione da offrirsi agli studi de’ prin- cipianti, senza che per noi si voglia menomamente ledere le allissime leggi della morfologia, il genere Ficaria potesse egli pure essere con- servato. E colla speranza che, nelle Flore destinate al tirocinio della scienza descrittiva, esso mantenga o riprenda il legittimo suo posto, un breve ragguaglio di sinonimia mi permetterò frattanto di qui sog- giugnere, che forma un lieve episodio, poco noto, per quanto io mi sappia, nella biografia letteraria del nostro vegetale. I botanici descrittori citano fra i sinonimi il nome di Scotanum che dicono dato dall’Apanson al genere di cui si ragiona. L'ApAnson, è vero, alla pagina 459 del suo Volume II, adduce in primo ordine quel nome appunto, tolto a prestanza dal Cesarpino, ed aggiugne a sinonimo il nome Ficaria ch’'ei fa, da storico fedele, risalire al BrunreLsio. Ma quello fu grossolano errore del botanico francese; stante che il CesALPINO mai non sognò d’indicar la Ficaria col nome di Scotanum, e solo favellare intese 5 del Rhus Cotinus L., che in Italia or Cotino, ed ora Scotano si va no- minando. Lo sbaglio era grave assai, ma tale, nello stesso tempo, che ben facilmente poteva essere avvertito; per modo che l’ApAnson mede- simo, prima che altri si accorgesse dell’ errore, lo corresse felicemente da sè, nella pagina 508 del medesimo Volume II, fra i suci Addenda et Emendanda, ed ivi chiamò Ficaria (dal BrunreLsio) il genere che in quel punto ei si vergognò per certo di aver poc'anzi chiamato Scotanzm. Nessun descrittore di Flore, ch'io mi conosca, rese mai quella piccola giustizia all’ApAnson, di ricordare come ei si fosse in tempo utile e così opportunamente ravveduto, ed io mi trovo in particolar modo lieto e sod- disfatto di poter quì rendere alla memoria di lui questo lievissimo servizio. Ma la Zicaria del Brunresio nella sua legittima qualità di genere nel senso in cui, col fausto rinnovamento della scienza, il vocabolo genere si volle definito, vanta una nobiltà molto più antica di quella che le darebbe il famoso libro dell’Apanson, e deve equamente risalire fino 212 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE all’anno 1719, in cui Gian Giacomo Ditrento la pubblicò, con buon nu- mero d’altri generi, in appendice alla ben concepita sua Flora di Giessen. Nella nomenclatura binaria poi, quando l Apanson ce la ricondusse nell’anno 1763, essa già fatto aveva da un anno il solenne suo ingresso colla prima edizione della Flora anglica dell’ Hupson, in cui le viene accollato lo specifico nome di verra, ben più facile ed opportuno di quel brutto ed ibrido vocabolo ranuneuloides, che il Roru nel 1789, e non il MoencH nel 1794 (come tutti lun dall'altro copiano i descrittori), fu primo ad introdurre nella sinonimia della specie. 16. ADONIS. Negli ultimi generi verso i quali vanno affrettandosi questi sommarii studi, più non si presenteranno che piante sfornite di quell’organo par- ticolare, in cui per le altre Ranunculacee era rappresentato un abbozzo di nettario; nè quel difetto di nettarea secrezione è quì fatto nuovo per x b] già quell’organo ac- noi, che nella Paeonia, nella Caltha, nell’Actaea, cennammo assente. Il genere che primo incontriamo nel porre il piede in sul distretto delle Anemonee, è l’elegante Adonis del DirLeNnIio , genere in cui colla seguente Aremone tanta si appalesa l'affinità, che vi fu chi coraggiosa- mente in un sol genere volle entrambi combinarli. L’avviso nostro su tal punto di tassonomia, per quel poco che può sempre valere una co- scienziosa opinione, ci porterebbe sempre a largheggiare di generi in seno a quella Famiglia, per cui, meno che per le altre, par meritato il titolo di naturale ; onde il principio opposto facilmente per noi si deduce, che, cioè, nelle Famiglie più naturali il numero dei generi debba, quanto più si può, fra giusti limiti confinarsi. Dicemmo più addietro, e ridiremo forse fra breve, le ragioni di questo nostro sentire, le quali pur ora c' inducono a mantener distinto questo bel tipo, già ratificato da Linneo, e che, se non manifesta in sè gravi note caratteristiche, ha pur tali segni evidenti e costanti, che valgono mirabilmente a favorirne, per così dire, la distinta personalità. I due invogli fiorali dell’Adonis, consistenti, nello stato normale, in cinque sepali e cinque petali, i quali s’ hanno, come in tanti altri generi, il privilegio di crescere o scemar di numero, non basterebbero forse a consigliar la costituzione del genere, quand’anche si volesse ammettere, SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 213 come veramente lo è, che le foglioline del primo invoglio abbiano quì, meglio che nell’Aremone, forma, aspetto e struttura di veri sepali. E se di più si mira a quanto accade nel carpello, in cui, di cinque ovoli da natura concessi, un solo inesorabilmente è chiamato a fecondazione, ogni differenza fra i due generi dovrebbe pur anco dirsi affatto svanita. Se non che, un decisivo carattere ne somministra il frutto; conciossiachè nell’età primiera le achene dell’/donis si mostrano rivestite d’una so- stanza carnosa, la quale, tosto svanendo, fa sì che l’epicarpo in particolar modo si raggrinzi ed arrughi, e ne additi, relativamente alle achene dell’Aremone, una ben comprovata diversità di struttura. Cogliendo questa opportunissima occasione, or io dirò come da lungo tempo nutrissi pensiero di fare intorno al vocabolo Adonis un’ osserva- zione grammaticale, la quale, fin dagli anni primi de’ miei studi, mi parve sempre di qualche importanza per quegli spiriti gentili, che vogliono della scienza diletta tutelati per ogni parte gl’interessi, anche per quanto concerne la forma letteraria della sua nomenclatura. Ognun sa come l’Adonis, nella mitologia scientifica, sia sacro alla memoria di quel mi- serando giovinetto, che, da Venere amato, cadde vittima della feroce ge- losia di Marte. Ora, se la sua condizione d'uomo fu quella appunto che fece al misero Adone tingere il mondo di sanguigno, non pare a tutti una puerile ed irrisoria sconcordanza, che il nome suo, nel latino de’ bo- tanici, s'abbia a subire il genere femminile? E per qual più onesto pri- vilegio, se non per quel solo di una fortuita più caratteristica termi- nazione, il Crocus, e il Narcissus, e l’Hyacinthus, dovrannosi mai godere, ad esclusione di lui, gli onori del mascolino? Notisi poi che gli autori già erano vincolati a quest’ultimo genere grammaticale da un bell’emi- stichio di Ausonio, là dove nel suo Idillio VI, narrando di una condanna di crocifissione inflitta negli Elisii ad Amore, il leggiadro poeta novera i nomi di coloro, i quali dolenti o morti per cagion sua, voglion quì farla da crocifissori. . ... Et murice pictus Adonis, cantò quivi Ausonio, e a nessuno ancora de’ nostri autori nacque l’idea di quella più che giusta ed innocente rettificazione. Tuttavia male affermai quando dissi nessuno ; chè già fuvvi a cui arrise, e fra tutti sarà stato primo il Dottore Paolo AscHerson, zelante, ingegnoso ed erudito pro- pagatore di ragionate novità, autore di una egregia Flora del Brandeborgo, e oggidì Custode del Reale Erbario di Berlino. 21 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE pos 17. ANEMONE. Tipo dubbioso, fugace, incostante è il fior dell’Anemone, il cui pe- rianzio, che sì spesso abbonda di staminodi, è formato di due verticilli pentameri per tipo normale, trimeri per eccezione, e non di rado polimeri per indoppiamento. Tra sepali e petali distinzione alcuna non appare né di forma, nè d'aspetto, nè di struttura; e nella cerchia dei limiti che ci siamo imposti alla ricerca dei caratteri generici, altra nota di qualche valore non rinveniamo, fuorchè l’abituale involucro, che (nei veri Anemoni sempre discosto dal fiore) nelle specie nostrane si compone costantemente di tre foglie. x Un merito particolare, sebben d’assai lieve importanza tassonomica, quì parrebbe che potesse a quell’involucro essere attribuito, in quanto che, trovandosi le foglie degli Anemoni coadunate tutte alla base del caule, l’apparato involucrale è certamente chiamato , per la parte ornamentale , a vestire d’un qualche lieto aspetto il povero e nudo stelo, e per la parte organica, a tener attive lungo lo scapo le complicate funzioni che per mezzo delle foglie si compiono. Che se un nonnulla di artificiale rimpro- verar si volesse ad un cotale carattere, siccome a quello che tutto me- ramente spetta al sistema di fogliazione, ci sarebbe pur giuocoforza il ricordare come il genere, benchè concetto essenzialmente naturale, altro non sia egli stesso, nel campo pratico, fuorchè un solenne artifizio, di cui più o meno opportunamente ci prevaliamo ad interpretare un im- maginario intendimento di Natura, intendimento che forse non sempre esiste nella forza ordinatrice delle forme, ma che in essa con savio con- siglio presupposto, efficace alta ne può porgere ad una meno intricata classificazione delle specie. Quelle foglie involucrali, di cui nella seguente Mepazica ben tosto pure accenneremo, si ebbero da diversi autori spiegazioni diverse; e se in certi casi furono esse considerate quali foglie che mirano a tramutarsi in calice, in certi altri si vollero avere per calice che tende a ricam- biarsi in foglie. Celar non possiamo come quest’ultimo supposto, in or- gani ancora così poco trasformati, ci paia saper alquanto d’avventato nel linguaggio della morfologia; stante che, nell’incessante progresso per cui i singoli organi sono spinti a raggiugnere la prefissa dalla Natura e sempre agognata perfezione, senza difficoltà si comprende com’ essi SAGGIO TASSONGMICO DI A. GRAS. 215 procedano sempre in avanti; ma che in vece ei retrocedano, non lo si potrà mai così agevolmente concepire. Checchè sia realmente di un simil fatto, quell’ apparato d’ involucro che per la distanza in cui è posto dal primo invoglio florale (distanza affatto insolita negli altri generi della Famiglia) e per la nulla o appena iniziata trasformazione delle foglie in sepali, non può come vero calice considerarsi, sta nel genere qual nota particolare, spiccante e affatto caratteristica; e supplendo nella miglior maniera che può agli organi de- ficienti, ristabilisce in modo più o men lontano, quel giusto equilibrio, che in una sì bella Famiglia di fiori Natura non poteva rompere in guisa troppo ricisa e frequente agli occhi de’ suoi studiosi ammiratori. 18. HEPATICA. Disvelta dagli Anemoni di Linneo, l'epatica del DiLtenio per altro non si distingue che pel sistema tipicamente ternario, e per l'involucro così ravvicinato ai verticilli petaloidei del fiore, che non mancò chi volle scambiarlo per un vero calice. Questo ravvicinamento fa sì, che ogni fiore vi si mostri sempre cinto dal proprio involucro, mentre in alcuni fra i veri Anemoni avviene che, dall’ascella delle distanti foglie involucrali si veggan sorgere peduncoli coronati di nuovo fiore. Quei peduncoli mostrano con nuovo ed evidente argomento quanto un simile apparato di foglie sia lontano dall’esser calice, carattere generale della Famiglia essendo che nei singoli calici un fiore solo debba contenersi. Che però l'involucro dell'Iepatica non sia calice neppur esso , oltre al fatto della distanza, per quanto si voglia minima, che dal primo in- voglio florale la disgiunge, a ben chiari caratteri ne lo dimostra la forma schietta delle foglioline sepaloidee, le quali sono persistenti, brevi, spie- gate, piane, e in nessun modo accennano di secondare la leggera con- cavità delle diverse parti quasi ad esse contigue del perianzio. Epperciò se, strmgendo la discussione, saper si voglia su quali serii caratteri dir si possa fondato quel genere, altri in vero l'apparato florale non ce ne mostrerà fuorchè l'involucro più che negli altri Anemoni caliciforme, e il tipo fermamente ternario, formato d’un verticillo calicinale e di due verticilli petalici, colle parti però soggette anch'esse al fenomeno dello indoppiamento. Ben si potrebbe chiedere a questo punto che cosa mai rappresenti, 210 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE nei fiori di questa Famiglia essenzialmente pentamera, quel sistema ter- nario, che Natura nelle Ranunculacee del nostro clima saggiamente ri- strinse ad un picciol numero di tipi. Se per caso le piacque di raffigurarvi entrambi gli invogli, non è manifesta la ragione per cui l’opera sua si valesse della riunione d’organi dotati di forme tanto fra loro consimili ; se in vece un solo de due invogli essa volle concedere, mai non sapremo in vero, se quello il calice sia, o s'esser voglia la corolla. La soluzione di sì curioso problema di morfologia ne vien resa più che mai difficile da quella fatale tendenza all'indoppiamento che un tal sistema pare che agevoli e quasi provochi nel fiore. Ma non andiamo più in là, sul ter- reno delle ipotesi, di quel che cel permetta una fredda e pacata ragione, e limitiamoci a ricordare, come nel tipo ternario delle Ranunculacee, ovunque, per la figura petaloidea del primo verticillo, non v'era appa- renza di vero calice, Natura abbia voluto supplirlo con involucro ravvi- cinato e caliciforme, per tema forse d'essere fraintesa, e perchè il sospetto non nascesse ch'ella avesse voluto realmente negare ai fiori trimeri delle dicotiledonee il corredo di tutti quegli organi riparatori, che agli altri tutti in diverso modo polimeri, liberalmente aveva conceduto. Prima di allontanarmi da questo falso Anemone, mi stringe il dovere di sciogliere un lieve dubbio, in cui, fatta astrazione del carattere dell’in- volucro, un occhio meno esperto potrà lasciarsi indurre, nel porre accanto all’Hepatica un esemplare trimero di alcuni veri Anemoni, e fra gli altri della comunissima specie Anemone nemorosa L. Nessuna differenza es- senziale si scoprirà fra i paragonati esemplari; l'abito solo che nettamente manifesta la regola o l'eccezione, dovrà in tal caso dall’Anemone far separare l’HMepatica; nè questo pericolo di confusione sarà per noi suffi- ciente argomento della poca entità di un tipo che teniamo in vece per sì ben distinto e definito. I fiori così svariati e diversi, or nella semplice forma, ora nella più intima loro organizzazione, procedono tutti, come ognuno facilmente lo presuppone, da pochi tipi più perfetti, dei quali essi presentano più o men gravi modificazioni in conseguenza di quel fatto, che in qualsiasi modo può pur sempre averli alterati; pronti poi a ricondursi ai genuini loro tipi, quando cessata si supponga la cagion prima di loro alterazione. Così possono con facilità tenersi per esistenti gli organi abortiti, per compiuti i colpiti d’atrofia, per semplici gl’ indoppiati, per sciolti i con- giunti, per eguali e regolari nel loro sviluppo quelli che d’ineguaglianza SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. Dig) peccano o d’irregolarità, e così più avanti, se altri più s’offrono di simili fenomeni. Ma una tale ipotesi di risalimento verso il fiore tipico agevol- mente noi intendiamo, quando la variazione, che colpì gli occhi nostri, è, non già la regola, consueta, permanente, e schiettamente naturale, ma una semplice, passeggera ed accidentale eccezione. Quando però i termini sono inversi, quando il variare d’un fiore è la regola e non l'eccezione, crediamo in vece, che nel caso pratico e pel miglior vantaggio delle clas- sificazioni, la differenza meriti maggior riguardo. Noi lo teniamo allora per un benigno soccorso che Natura ci vuol prestato, perchè più spediti e più sicuri riuscir possiamo allo scopo di concatenar fra loro le difle- renze tipiche dei vegetali, _e pensiamo che in quel mutamento fisso ed evidente, il quale per noi costituirà un genere assoluto, ella ne presenti un facile indizio della schietta sua intenzione di ritener normalmente di- stinta dalle altre la forma che le piacque in tal guisa modificare. Egli è pur uopo che per accrescere facilità agli esordienti la pratica sappia alcun poco affrancarsi dalla teoria, e che, abbandonata la troppo spinosa sintesi, le cose, per mezzo di una prudente e ben ragionata analisi, si vedano talvolta e si rappresentino un po’ come semplicemente elleno sono. Il cercar di conoscere quali esser dovrebbero, è per certo nobilis- simo studio che solo può sollevare agli occhi nostri il più bel lembo del pensiero creatore; ma un cotal metodo d'’induzioni necessarie, che quasi diremmo metafisico, è, per la pratica applicazione dei principii scientifici, da ritenersi fra i più stretti termini confinato, se non vuolsi che, troppo assorbito nell’idea dell’unità, si turbi, si corrompa e quindi si perda il concetto della giusta e sana varietà delle forme. 19. THALICTRUM. Accanto a questi generi un po’ vacillanti delle Anemonee, i quali, più per soccorso di studiati congegni van sostenendosi, che per gravità ca- ratteristica di struttura, sta come torre salda il genere 7’Ralictrum, il quale inaspettatamente s’impronta di quello straordinario tipo quater- nario, di cui testè vedemmo un primo esempio nella disposizione florale dell’Actaca. Un solo invoglio florale, soggetto a parco indoppiamento, ma nor- malmente composto di quattro sepali, or più or meno petaloidei, e di tale estrema caducità che quasi s'avrebbe da noverare fra gli essenziali Serie II Tom. XXVI. DÈ 218 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE caratteri del genere, si schiude intorno a numerose serie di stami; e quindi le achene vi si mostrano percorse da nervi, coste od ale, che danno loro una fisionomia rettamente distinta e tutta loro propria. Secondo le leggi della morfologia egregiamente definì i Zhalictrum colui che li disse non improbabili specie del genere Clematis, dalle foglie alterne e dal bocciamento a tegolato. La scienza delle forme sarà paga di un tal verdetto, e pienamente soddisfatta di poter far sì che cotanta e sì naturale affinità riesca in così bel modo a spiccare. Ma il botanico classificatore troverà senza dubbio in quel lavorio sintetico una non lieve difficoltà da superare, e un grave intoppo al suo già troppo rallentato procedere, in quanto che del genere Clematis, oltre tali confini allargato, ei vedrà il pericolo che si cancelli il concetto tipico nella mente degli studiosi, e potrà probabilmente convincersi che, secondo l’avvertimento oraziano, di chi oltre ogni misura vuol farsi semplice e breve, l’opera riesce sempre più laboriosa ed oscura. Clematidee. L'ultimo passo finalmente ne conduce alle Clematidee, tribù che, se pel numero degli ovoli ne’ singoli carpelli è in pari condizioni colle vicine Anemonee, per l’apparato florale e pel sistema di fogliazione noi teniamo per più semplice e più elementare. E per addurre di tale avviso un opportuno argomento, noi ricorde- remo soltanto come i bocciamenti valvare e rientrante, proprii dei fiori di questa tribù, sieno una mera semplificazione di quello a tegolato; con- ciossiachè la parte florale che solo pel margine tocca la parte vicina, o pei margini sovra se stessa leggermente si ripiega, offre senza complica- zione alcuna, e da sola, un fenomeno di ben più facile e naturale rego- larità, di quel che il facciano le parti disposte a tegolato, le quali, con un certo ordine prestabilito devono l’una all'altra sovrapporsi, e, per oltre i margini accavallarsi, onde collo spettacolo di loro reciproca dipendenza manifestino il definito sistema che le governa. Per quanto poi si spetta alla fogliazione, l'opposizione delle foglie, per mezzo della quale si opera, nei due lati del fusto o del ramo, un simultaneo ripiegarsi delle fibre destinate a costituire gli organi fogliacei, con fillotassi di metà men complicata va compiendosi, e facilmente supera, senza evitarle, per quella maggiore semplicità di ordinamento, le più gravi SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 219 difficoltà del rigoroso sistema di alternanza. Tuttavia, non è possibile il negarlo, quel carattere non è sempre costante, fin anco sopra una me- desima pianta, e se più basso si scende, come accade nei due Crisosplenii nostrani, esso sarebbe appena sufficiente a distinguere la specie. Ma se nel senso morfologico l'opposizione delle foglie non ha un gran valore, nel senso pratico essa si merita sinceri riguardi per parte del bo- tanico classificatore e descrittore, che trova in quella disposizione uno de’ più visibili caratteri di cui possa disporre a far rettamente conoscere le piante di cui ragiona. Nelle Clematidee poi, quel semplicissimo sistema ne par che possegga una più ragguardevole importanza, siccome quello che intimamente si rappicca al tipo tetramero del loro fiore. In fatti, il perianzio di quei nostri generi è nettamente formato anch'esso di quattro foglie opposte, e per la minore trasformazione d’organi che in quel felice assestamento si compie, esso manifesta alcun che di più forte e di più ruvido nella consistenza de’ suoi sepali petaloidei. 20. ATHRAGENE (°A0p275n, THEOPHR., Mist. Plant., lib. V, cap. 10). 21, CLEMATIS. Ed ora che della tribù dicemmo, proseguendo nella distinzione dei generi, noteremo anzi tutto come le Clematidee sieno, nel suolo nostro, rappresentate da due generi, l’Athragene e la Clematis, procedenti en- trambi dalla suprema autorità di Linneo. Tuttavia, che fra quei due tipi siavi sufficiente omogeneità da poterli considerare come costituenti un genere solo, primo a pensarlo, da quel ch'io mi so, fu tra i botanici dello scorso secolo l'inglese Filippo Miner, e l'avviso suo da una bella schiera di descrittori venne quindi raccolto e consentito. Persuasi che, quando i caratteri diversi sono palesi e costanti, una ragionata disgiunzione possa più efficacemente giovare alla intelligenza e spiegazione delle vere e false affinità, noi crediamo si debba mantener salda la separazione dei due generi, già, come dicemmo, operata da Linneo; ed a confortarci in tal sentimento Natura ne offre due prove di non comune rilievo, che qui stiamo per sottoporre allo spassionato esame degli scrupolosi classificatori. La posizione delle foglie seminali nel germe de’ due generi ne presenta la prima nota caratteristica di loro separazione; conciossiachè sempre esattamente ravvicinate vi si mirino nell’Athragene, e nella Clematis in 220 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE vece l’una dall’altra vi si scorga da discreta distanza separata. E che gravissimo esser dovesse un carattere desunto da un organo così rile- vante, ben lo si dedurrebbe da ciò, che i padri della scienza nostra il germe dei vegetali magnificarono sopra ogni altra parte nella organiz- zazione, e suolevano paragonarlo a quell'altro organo che negli animali è il cuore. Che se pur non ci si volesse menar buona quella recondita distinzione, la quale (pur troppo è vero) più oltre non manifesta in sulla pianta alcun segno che aver si possa qual necessario effetto di sua esistenza in quella principalissima parte del vegetale, alla seconda nota ci atterremmo, si- gnificando come numerosi staminodi costantemente si svolgano nel fiore dell’Athragene, e nessuno stame nella Clematis mai si sorprenda nella stessa guisa isterilito e petaloideo. Nè si dirà che, come degli stami tras- formati mai non si volle tener conto negli Anemoni, i quali di tali organi in alcune specie si mostrano più che ricchi, così non se ne debba neppure nell’Athragene discorrere; imperciocchè, se negli Anemoni or citati la suddetta trasformazione è in modo facilissimo prodotta dalle cause più o meno occulte che operano sul vegetale, essa mai non si compiè, per cagioni di ventura, nei due generi clematidei; per guisa che nessuna estranea influenza potrà mai far sì che l’Athragene, per quanto la si voglia dimagrata e impoverita, mostri il suo perianzio sguer- nito di staminodi; nè cagione alcuna di esuberante vegetazione farà mai che la Clematis in organi nettamente petaloidei trasformi i suoi stami. Ed ecco finalmente la ragione per cui, dalla Paeoria più di tutti gli altri generi lontano, il genere Clematis tetramero, sprovvisto di petali, di net- tarii, di staminodi, rappresentar debba, nella classificazione della Famiglia, la più schietta, la più modesta, e nello stesso tempo la più semplice di tutte quelle splendide figure di Ranunculacee, di cui fino a questo punto, nel miglior modo che seppi e potei, son venuto discorrendo. Giunto al termine dell’esposizione dei generi, altro oficio non men rigoroso mi spetterebbe ancora, di ragionar, cioè, delle singole specie, che in sì gran copia, e in sì perfetta ordinanza nei sovradescritti generi piacque a Natura di disporre. Ma una tale rassegna appartiene ad un ben altro genere di scrittura che questo non è; essa spetta alla Flora SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. 221 descrittiva del Piemonte, lavoro immenso nelle attuali condizioni della scienza, e che per sè richiede un’assoluta ed intiera esistenza. Con un degnissimo amico, il quale occupa un glorioso seggio in questa illustre Accademia, da poco men di vent'anni ad una sì grave impresa ci sobbar- cammo; ed oggi vediam giunto finalmente il giorno in cui ci sarà con- cesso di poter consegnare alle mani dei naturalisti subalpini quel coscien- zioso frutto dei nostri studi, per sì lungo tratto di tempo maturato colle continue ricerche e colle assidue fatiche sopportate nel penoso e inter- minabil lavoro del descrivere, del paragonare e del definire. Possa frattanto quel po” di bene che delle immense bellezze de’ fiori mi toccò di esporre in questo saggio di preludio, eccitar verso di essi negli animi gentili un pensiero di vera simpatia, dando loro novella prova che la botanica non è scienza nuda, asciutta, nutrita di sterili nomi e d’aride citazioni; ma che essa ha in vece, come la poesia il suo sentimento, « come la chimica le sue affinità, come la geometria i suoi problemi ». 222 LE RANUNCULACEE DEL PIEMONTE, SAGGIO TASSONOMICO DI A. GRAS. RANUNGULACEAE Ricettacolo Ricettacolo convesso; leggermente concavo; Inserzione degli invogli florali Inserzione e degli stami degli invogli florali epigina e degli stami apparentemente perigina | DI I. Frutti follicolari Frutto deg Frutti achenoidei PAEONIEAE | | I | TrIBù II. TrIBÙ II. rana Î 1. Paeonia L. HELLEBOREAE ACTAEINEAE Bocciamento Bocciamento | | a tegolato; valvare urne nata 11. Actaca L. Foglie alterne o rientrante; Fiori regolari Fiori irregolari DI RERSAE poche DO poste 2. agita L. 9. id L. | TRIBÙ VI 3. Isopyrum L. 10. Delphinium L. Real OLI Rai Ae) SA di poro o sprovvisti | 4. Nigella L. nettarifero di poro 20. Athragene L. 5. Helleborus L.ex p. | nettarifero 21. Clematis L. 6. Eranthis Salisb. Ì | ©. Trollius L. TRIBÙ IV. TRIBÙ V. 8 RANUNCULEAE ANEMONEAE . Caltha L. | | 12. Callianthemum —16. Adonis L. C. A. Mey. 13. Myosurus L. 17. Anemone L. ex p. 18. Hepatica Dill. 14. RanunculusL.ex p. p 19, Thalictrum L. 15. Ficariîa DIIl. SRO Te CATALOGO delle 654 Stelle principali visibili alla latitudine media di 45°, colle coordinate delle loro posizioni medie per l’anno 1880; ed AtLanTE di dodici Carte, contenenti le dette Stelle proiettate stercograficamente sull’orizzonte, di due in due ore siderali, coi circoli e paralleli di declinazione , di 10 in 10 gradi PRESENTATI ALLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO DAL DIRETTORE DELL'’OSSERVATOREO Letta nell'adunanza del 29 Maggio 41870 Dopo che l’illustre Astronomo di Brera suppose e dimostrò l’origine cometaria delle stelle cadenti, venne data all’osservazione di tali stelle ogni dì maggiore importanza. Ed invero non havvi altro studio più sublime di questo, che si fonda sulla conoscenza che noi siamo, per le stelle cadenti, in iscambio permanente di comunicazioni cogli infiniti sistemi stellari che ne circondano; donde un numero stermi- nato di correnti meteoriche, aventi origine negli spazii immensi che corrono fra stella e stella, arrivano a noi, da tutte le parti del fir- mamento senza distinzione, e riempiono gli spazii planetarii, intrec- ciandosi ed intersecandosi in ogni possibile maniera; siccome è provato dall’apparizione continua di stelle cadenti, formate dalla materia cos- mica delle correnti suddette che, penetrando con una grandissima velocità nell’atmosfera terrestre, si accende nella traversata per effetto 224 R. OSSERVATORIO DI TORINO. della condensazione dell’aria, descrivendo traiettorie dalle quali già risultò, per varii radianti, essere le orbite delle correnti rispettive identiche a quelle ben note di certe comete. Le stelle cadenti, considerate sotto varii aspetti, sono un arduo soggetto di investigazioni per l’astronomo, pel fisico e pel chimico. Ma per osservarne l’apparizione basta avere l’ora locale esatta, e buone carte celesti pel luogo d'osservazione. ll porgere questi mezzi al paese spetta, per dovere e per diritto, al suo Osservatorio, che anela di avere una vita attiva in questa Accademia. Nella prossima adunanza, se l’Accademia mi potrà ascoltare, mo- strerò che possiamo dare l’ora locale esatta. Adesso presento un atlante di dodici carte celesti, sulle quali sono state proiettate ste- reograficamente sull’orizzonte, di due in due ore siderali, le posizioni medie, per l’anno 1880, delle 634 stelle principali, visibili alla lati- tudine media di 45°, che è quella delle nostre regioni ; ed il relativo catalogo appositamente calcolato, in cui, oltre ad altri dati, dei quali e fatto parola negli annessi Schiarimenti sul catalogo, sono registrate l’ascensione retta di ciascuna stella in tempo, stata calcolata a meno di un mezzo secondo, e l’ascensione retta e la declinazione di ciascuna stella in arco, state calcolate a meno di un mezzo minuto in arco. — Le mutazioni, che si manifestano nelle posizioni delle stelle, segna- tamente per la precessione, non saranno sensibili nelle nostre carte, che verso la fine del corrente secolo. Le proiezioni delle stelle sulle carte sono in numero di 4500 circa, e per metterle a posto vennero determinati i circoli orarii ed i paralleli di declinazione, di grado in grado (siccome risulta dagli Schiarimenti sulla costruzione delle carte, che produco), e de- scritti di due in due gradi colla massima cura. Per la chiarezza del disegno, tali circoli sono poi stati conservati solamente di dieci in dieci gradi, e vi si aggiunse l’eclittica e la via lattea, le quali danno un’idea del moto apparente della sfera celeste sulle carte, guar- dando queste successivamente secondo il loro ordine progressivo. CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 225 Per correggere gli errori, che nel lungo lavoro si fossero commessi, vennero sottoposti i disegni a varii controlli, dei quali è fatto parola negli Schiarimenti suddetti. La proiezione che adottai è la stessa delle quattro carte che l’As- sociazione scientifica di Francia pubblicò l’anno passato per l’osser- vazione dello sciame di stelle del 12 al 44 novembre. L’esperienza mi ha provato che essa è la proiezione migliore per tal genere di osservazioni. — Le quattro carte dell’Associazione, fatte per la lati- tudine di Marsiglia, si possono usare anche fra noi; ma paiono un po’ scorrette nel disegno, e servono per una sola parte dell’anno. Si suole usare, e si consiglia per l’osservazione delle stelle ca- denti, l’atlante celeste di ARGELANDER; però la posizione delle stelle fisse in questo essendo per l’anno 1842, è necessaria una correzione. Inoltre nell’atlante suddetto, avente uno scopo più generale che non sia l'osservazione delle stelle cadenti, il piano variabile di proiezione adottato non è il più conveniente per sì fatte osservazioni; nè è facile e spedito il farne, come importa, delle riduzioni esatte sul- l’orizzonte. Nelle carte che presento, le dimensioni lineari adottate, sufficienti allo scopo, sono i due terzi all’incirca di quelle dell’Associazione francese. — Per tentare di veder una carta celeste all’oscuro colla sola luce diffusa della notte, cosa desiderabile, occorrerebbe un di- segno assai più grande delle stesse carte francesi su mentovate; e se si vorrà tentarlo, è facile tirare, dalle nostre carte, dei disegni in iscala assai maggiore colla fotografia. Ma con dimensioni più grandi di quelle adottate da noi, si avrebbe un atlante d’un uso incomodo, mentre potrà anche servire, come è, nelle scuole ed appo le famiglie, non meno di un globo celeste, a trovare in ogni stagione ed ora le stelle principali, ed a riconoscere le varie costellazioni. Questo lavoro, che io non ho fatto guari più che ideare e pro- muovere, venne eseguito dall’Ingegnere Alessandro RoveRE e dall’As- sistente per le osservazioni astronomiche Prof. Giuseppe Mazzora. — Il primo, il quale non ha altro legame con l’Osservatorio che l’amicizia Serie II. Tom. XXVI. E 226 R. OSSERVATORIO DI TORINO. che meco lo unisce, ed altro compenso che la soddisfazione di far una cosa utile, eseguì i disegni ed i calcoli relativi al sistema di proiezione adottato. Il secondo fece il catalogo ed i calcoli delle posizioni medie delle stelle. L’intiero lavoro è stato condotto coll’attenzione necessaria perchè riuscisse preciso ed utile. Se l’Accademia ne ordinerà la stampa, e facendo incidere le carte, ne renderà, colla conservazione dei rami, possibile lo smercio ad un prezzo tenue, diverrà opportuno e facile lo inserire, ad epoche fisse, nei giornali le nozioni necessarie per facilitare la ricerca degli astri, come si suole fare lodevolmente in Germania per l’istruzione popolare. Il Direttore ALESSANDRO DORNA. IVB. La Reale Accademia delle Scienze di Torino ordinò, per i suoi Volumi, la stampa di ciò che è accennato in questa relazione, e l’incisione delle 12 carte, delle quali conserverà i rami per concederne in vendita degli esemplari secondo la domanda. La distribuzione di fogli separati si farà, incominciando dal primo di agosto dell’anno corrente, di mano in mano che se ne ese- guiranno le incisioni e le stampe. SISSI SINSIAISSSNILMASLISN IDA CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 9/27 SCHIARIMENTI SUL CATALOGO Ordinamento del catalogo. Il presente catalogo contiene 634 stelle visibili ad occhio nudo da quei luoghi la cui latitudine è di 45°. Le costellazioni sono disposte in ordine alfabetico. La prima colonna contiene semplicemente un numero d'ordine pro- gressivo dal principio al fine del catalogo; nella seconda si trovano le lettere di Bayer, ed, in mancanza di queste, i numeri di FramstEED; la terza colonna dà le grandezze delle stelle; la quarta le ascensioni rette in tempo; la quinta le ascensioni rette in arco; la sesta le declinazioni distinte in boreali (5) ed australi (4). Quando una stella è situata nello stesso emisfero di quella che la precede, l'indicazione relativa (5 od «) è sottintesa. Nell'ultima colonna sono registrati i nomi particolari di alcune stelle; i gradi di grandezza per cui variano alcune di esse; le stelle omesse nelle carte perchè troppo vicine ad altre maggiori, o rappresen- tate con un solo segno perchè vicine e poco differenti. Nel distribuire le stelle per costellazioni si è seguito il Catalogo dell’Associazione britannica (Londra 1845); però si è abbandonata la distinzione delle stelle appartenenti alle varie parti della costellazione Nave Argo, cioè: nave, poppa, carena, vele, albero, ecc., e si sono aggiunte alcune lettere prese dall’Argelander o dall’Ass. Sc. de France. I nomi particolari di alcune stelle, non trovandosi nel Catalogo dell'As- sociazione britannica, sono stati ricavati da altri cataloghi anche accre- ditati ed in ciò tutti concordi. Grado di precisione del catalogo. Le coordinate delle stelle (ascension retta e declinazione) sono state calcolate secondo i dati del Catalogo dell’ Associazione britannica, e rife- rite all’anno 1880, colle formole annesse al catalogo medesimo. I valori dell’ascension retta in tempo sono stati calcolati a meno di un mezzo 228 R. OSSERVATORIO DI TORINO. secondo; quelli dell’ascension retta in arco e della declinazione, a meno di un mezzo minuto primo. In alcuni luoghi s'incontrano due stelle talmente vicine, che all’occhio nudo appaiono come una sola. In tal caso, quando le due componenti avevano grandezza poco differente, si sono calcolate ed inserite nel. catalogo le coordinate del punto di mezzo; quando invece l’una superava notevolmente l’altra, si sono calcolate le coordinate della maggiore. Grandezze delle stelle. Le grandezze delle stelle parve sufficiente che fossero classificate per numeri interi. Come si sono presi dal Catalogo dell’Associazione britan- nica tutti gli altri dati numerici, così si intendeva da principio di fare anche per le grandezze: ma le anomalie che parvero trovarsi a questo riguardo fecero abbandonare tale idea. Per citarne alcune, la stella @ d'’Andromeda vi è notata (forse per errore di stampa) di 1° grandezza e di 3° la e della Grand Orsa. Ora basta una semplice osservazione, fatta ad occhio, di queste due stelle, in circostanze uguali, per riconoscere che la seconda non cede in splendore alla prima: che anzi trovò SeIpEL, colle sue misure fotometriche, che e della Grand’ Orsa supera di gran lunga « dî Andromeda. La stessa e della Grand Orsa, è posposta alla « dei Cani da caccia, alla quale ultima è assegnata la grandezza 2 '/,, mentre in realtà la luce di quest'ultima arriva appena ad un terzo di quella della e, e la vicinanza delle due stelle rende evidentissima in questo caso la differenza. Un altro caso ovvio di inversione di numeri si ha per le due stelle vicinissime Castore e Polluce: mentre la seconda è più splen- dente della prima, il catalogo assegna la grandezza 2 alla seconda ed 1 ‘/, alla prima. i Queste ed altre simili anomalie consigliarono l’esame di altri cataloghi, ma non se ne potè trovare alcuno che non si scostasse in qualche caso dai risultati d’impressioni, producenti colla loro ripetizione e coll’accordo costante verificato in diversi individui, una persuasione prossima alla certezza. Pertanto l'Assistente Mazzora e l’Ingegnere RoveRE, allo scopo di ottenere una classificazione verosimile, per quanto fosse in loro potere, presero il partito di esaminare direttamente una ad una le stelle; ma per non dare risultati privi di autorità, paragonarono i risultati del loro esame con due cataloghi, invece di un solo; cioè con quello preso per CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 229 base di questo lavoro e con quello di ArceLANDER (Uranometria nova, Berlino 1843), ed ebbero la fortuna di trovare nella maggior parte dei casi, nei quali i loro giudizii erano in disaccordo col primo catalogo, che essi si accordavano col secondo. In parecchi altri casi di accordo col primo catalogo, riscontravano numeri diversi presso ARGELANDER. Accadde qualche volta che il giudizio dei due osservatori discordasse da entrambi i cataloghi, i quali inoltre in qualche caso discordavano tra loro. Per esempio la stella 0 dei Gemelli appariva decisamente di quarta grandezza; ma è notata di 5° nel Cazalogo dell’ Associazione britannica e di 3° nelle carte di ArceLanper. La stella d dell’Ariete è notata di 4° grandezza in entrambi i luoghi, e sembra così debole da non uscire dalla 5° ecc. Questi fatti indussero i due osservatori ad unire nel con- fronto ai due precedenti anche il catalogo di Bone, ed ogni qualvolta trovarono in uno dei tre cataloghi un numero conforme alla loro esti- mazione, lo adottarono; in caso diverso presero quel numero che fosse riferito in tutti tre od almeno in due dei cataloghi. Scelta delle stelle. Il presente catalogo essendo specialmente destinato all'osservazione delle stelle cadenti, si reputò inutile di comprendervi le stelle di 6° gran- dezza, le quali ordinariamente non si vedono abbastanza bene. Nè si tenne anche conto di tutte le stelle di quinta grandezza; perchè sebbene in circostanze favorévoli esse sieno abbastanza appariscenti, tuttavia quando una stella cadente passa vicino ad una stella di quinta grandezza, se questa è poco lontana da un’altra di grandezza superiore, la quale per- tanto produca nell’occhio dell'osservatore un'impressione notevolmente più forte, sembra più conveniente di riferire la traiettoria osservata alla stella più lucente, sebbene alquanto più lontana da tal linea. Per questa ragione invece di tener conto di tutte le stelle di quinta grandezza, si sono scelte quelle sole situate a distanza notevole da altre stelle di maggiore gran- dezza, e, nei luoghi dove esse abbondavano, quelle che sembrassero più distinte o per visibilità o per disposizione rispetto ad altre. Dalla quarta grandezza poi salendo alla prima non se ne omise alcuna. Gruppi binarii di stelle atti a sperimentare la bontà della vista. A queste norme che risguardano lo scopo dell’ osservazione delle stelle cadenti, si son fatte le seguenti poche eccezioni. Il gruppo delle 230 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Pleiadi è sembrato abbastanza interessante, per registrare nel catalogo anche le tre stelle che sebbene riputate di qguinza grandezza, e vicinis- sime ad altre maggiori, sono però visibili non meno di altre notate di quarta. Si è aggiunta ancora una stella di quinta grandezza , vicinissima alla £ della Grand’Orsa ed una di sesta ancora più vicina alla e di Orione. Le due stelle ultimamente accennate appartengono a gruppi binarii interessanti, perchè sono i più compatti fra quelli dei quali si distinguono le componenti ad occhio nudo. L'osservazione di questi gruppi porge il mezzo di paragonare le viste di varii individui, e di acquistare nozioni sulle piccole distanze angolari. I principali gruppi di tal fatta sono quattro, cioè i due testè accennati; uno formato dalle due stelle «' e &® del Capri- corno, ed uno da 0' e 6 del Toro. Ecco alcuni cenni intorno a questi quattro gruppi. < della Grand'Orsa ed Alcor. $ è di 2° grandezza, Alcor di 5°; la distanza fra le due stelle minuti 12. Basta una vista alquanto buona per discernere 4/cor, ed è notevole come, in grazia della sua vicinanza all’altra stella molto splendente, che rende facile il suo ritrovamento, si scorga anche nei crepuscoli, quando sfuggono alla vista le stelle isolate di quarta grandezza ed anche talune di terza. e' e @ del Capricorno. Si dà la prima come di 4* grandezza e la seconda di 3°, ma sono assai poco differenti. Distano fra loro per minuti 6 '/,. Si distinguono anche queste due stelle senza difficoltà, quando però sono abbastanza elevate sopra l’orizzonte e specialmente in vicinanza del meridiano. 6' e 6 del Toro. Entrambe di quarta grandezza; distanza minuti 5 ‘/,. Questa distanza supera di poco il limite, sotto cui due stelle di quarta grandezza cesserebbero di potersi distinguere ad occhio nudo. Un gruppo analogo si ha nella costellazione della lira: vicino a Zega si scorge una stella che alle viste buone sembra allungata, ed è indicata nel presente catalogo colla lettera e (n° 378): ebbene in realtà non è questa una stella sola, ma un gruppo di due stelle distanti l’una dall’altra 3' 27”, e questa distanza è troppo piccola. perchè una vista buona possa distinguerle. $i citano solo alcuni esempi rari di persone che lo poterono e fra le altre G. HerscneL e BesseL nella loro prima giovinezza. Sembra che il limite sopra accennato sia di 5' o poco meno. t di Orione e la stella vicina. « è di 3° grandezza e la vicina di 6°, la distanza 8'. Sebbene questa distanza superi notevolmente il limite ora CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 231 detto, tuttavia la piccolezza della seconda stella rende assai difficile il vederla; chi la scorge nettamente ha senza dubbio una vista buona. Per acquistare nozioni relative alle piccole distanze angolari gioverà il seguente quadro, dove sono riassunte le distanze fra le due componenti di ciascuno dei quattro gruppi binarii ora considerati, e quelle che se- parano la stella principale delle Pleiadi da ciascuna delle altre cinque. Toros urna Giudei iii GA Do Capricorno: 7a o. Ger Bho 6,3 ‘Orione ....... Re) ee MIGIMO) diego Ligorio 8,0 G. Orsa ...... Gua, ATCortna tnt 12,0 Toro ALI IVECO Tr ot 35,7 Dapraseni,. Giiet DI; So dar TOR 39,8 Dazio: pdtatonita: DOGANA ZU pvt ber rertnac ica DEA SNO II INE 18,4 DIANCIIASZE DI LR DIL OMO sca 23,0 232 R. OSSERVATORIO DI TORINO. SCHIARIMENTI SULLA COSTRUZIONE DELLE CARTE Finchè la scienza non abbia trovato metodi più esatti per la deter- minazione delle traiettorie apparenti delle stelle cadenti, si è costretti a desumerle riferendo ad occhio queste ultime alle stelle fisse fra le quali esse trascorrono. Ma siccome, durante il tempo generalmente brevissimo dell’apparizione, l'osservatore deve anche por mente alla grandezza, al colore non che ad altre particolarità, che valgano a caratterizzare ed individuare ciascuna stella cadente, così è assai facile che, attesa la contemporanea molteplicità delle osservazioni, sfuggano certi particolari importanti; egli è quindi necessario di valersi di quei mezzi, che si giu- dicano meglio atti per poter tosto registrare con sufliciente verità le impressioni ricevute, prima che queste si cancellino dalla mente. Per quanto riguarda le traiettorie giova molto il metodo messo in campo dall’ Associazione scientifica di Francia, consistente nel segnare tosto dette traiettorie sopra apposita carta, rappresentante in proiezione sull’orizzonte le principali stelle fisse, visibili nel tempo dell’osservazione; infatti finchè è ancora viva nella mente l’immagine del cammino delle stelle cadenti sulla volta celeste, è più agevole, colla scorta di tal carta, di segnarne l'andamento con sufficiente approssimazione, ad ottenere la quale contribuisce molto l'esatta rappresentazione in disegno delle stelle fisse sopraindicate; onde la convenienza di eliminare le costruzioni gra- fiche e di attenersi preferibilmente ai numeri. Tale procedimento venne adottato nella formazione delle carte che l'Osservatorio ha compilate, nello scopo che le medesime abbiano a servire principalmente per l'osservazione delle stelle cadenti, e se- condariamente anche per l'istruzione popolare. Vennero perciò calco- lati preventivamente, nel caso particolare della proiezione stereografica CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. DOS) sull’orizzonte alla latitudine di 45° e nel raggio di m. 0, 14, gli elementi tutti necessari per l'esatto tracciamento in disegno delle coordinate in ascension retta e declinazione, che servono a collocare a loro luogo le proiezioni delle stelle. Tracciamento delle coordinate. Il collocamento in disegno delle stelle si sarebbe potuto eseguire, valen- dosi unicamente della proiezione dei circoli di declinazione e dei paralleli all'equatore di dieci in dieci gradi, quali si vollero segnati sulle carte; ma operando in tal modo, difficilmente si sarebbe ottenuta tutta l'esattezza desiderabile in tal genere di lavoro. Infatti nelle proiezioni stereografiche l'ampiezza dei gradi, tanto in ascension retta che in declinazione, va gradatamente crescendo dal centro al margine del disegno, od in altri termini dal punto rappresentante il zenit al circolo esteriore rappresen- tante l’orizzonte (4); cosicchè l’interpolazione di punti fra linee un po’ distanti fra loro, non può che riuscire malagevole e suscettibile di errori, attesa la variabilità della scala da un punto all’altro del disegno. Tornava quindi utile di moltiplicare il numero delle coordinate, e si è perciò preso il partito di tracciare accuratamente in disegno le proiezioni dei circoli di declinazione e dei paralleli all’equatore di due in due gradi, delineando in inchiostro quelle di dieci in dieci gradi, e semplicemente in matita le intermedie, onde poterle cancellare tosto compiuta la proiezione. A tal fine sonosi calcolate apposite tavole contenenti tutti gli elementi occorrenti, vale a dire le ascisse dei centri dei circoli, i raggi di questi ed i principali punti d’incontro, tanto colla retta rappresentante il circolo di declinazione normale al piano di proiezione, quanto col circolo este- riore. Nella perfetta correlazione e coincidenza di tutti questi punti si ebbe una sicura prova dell’ esatto tracciamento delle coordinate. Le proiezioni dei circoli di declinazione prossimi a quello normale al piano di proiezione avendo più metri di raggio, riesciva troppo inco- modo e complicato il tracciarle direttamente, e vennero in conseguenza (1) Questa proprietà rende vantaggiosa la proiezione adottata anche per ciò che le deformazioni del disegno si accordano con quelle che appariscono all'occhio, il quale abituato a guardare più orizzontalmente che in senso verticale, attribuisce alle configurazioni, che sono all’orizzonte, dimensioni maggiori che non alle stesse configurazioni quando sono più vicine al zenit. Serie IL Tom. XXVI. F° 294 R. OSSERVATORIO DI TORINO. costruite per punti, calcolandone preventivamente le ascisse ed ordinate; simile cosa venne fatta per le proiezioni dei paralleli all'equatore prossimi a — 45°. Limite d’approssimazione. Con tale sistema di linee si venne a scomporre la superficie del disegno in tanti quadrilateri a lati curvilinei misuranti ciascuno due gradi ed aventi una lunghezza al zenit di circa millimetri 2,40 nel senso della declinazione, e di circa millimetri 4,80 all’orizzonte; ora nell’in- terpolazione di punti fra linee così vicine potendosi apprezzare agevol- mente il quinto di millimetro, ne consegue che il limite di approssima- zione per la declinazione viene ad essere di dieci minuti primi per le stelle collocate al zenit e di cinque per quelle prossime all’ orizzonte. Per l’ascension retta invece l’approssimazione varia da sette a cinque minuti primi per le stelle prossime all’orizzonte, e va gradatamente dimi- nuendo a misura che si va avvicinando al polo. Riscontro delle carte. Eseguita la proiezione delle stelle se ne operò la verifica facendo leggere nell’elenco le coordinate di ciascuna di esse, non che le rispettive lettere e grandezze, ed osservando se tali indicazioni corrispondevano a quelle del disegno. Siccome però è assai facile, nella moltiplicità delle linee, di spostare di due ed anche di dieci gradi una stella, o di proiet- tarla nell’emisfero australe mentre doveva essere collocata in quello boreale e viceversa, e che. tali errori si riproducano nel riscontro, così si operò un altro genere di controllo nell’effettuare con punteggiate l'unione fra loro delle stelle appartenenti ad una stessa costellazione; giacchè adot- tando per tutte le carte lo stesso sistema di aggruppamento, si possono facilmente riconoscere a colpo d'occhio i sopraindicati spostamenti, come se n’ebbero diffatti a riscontrare alcuni. Un tal fatto indusse, nel tinteggiare le stelle, ad un terzo consimile riscontro, al quale, malgrado che abbia dato buoni risultati, se ne fece seguire un quarto, colla scorta del catalogo, che riuscì soddisfacentissimo. Si ha quindi ragione di credere che le carte sieno immuni da errori. CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 235 Formule per la proiezione dei circoli di declinazione e dei paralleli all’equatore. Rappresentino nella figura 1.° qui contro OYBD il circolo di declinazione normale all’orizzonte. 4B il piano di proiezione; PP' l’asse del mondo; EE' l’equatore; DD' un parallelo alla declinazione di è gradi; Y il centro di proiezione. Tirando le visuali VP, V/', queste incontre- ranno il piano di proiezione nei punti p e p', che saranno le proiezioni dei poli del mondo P, P'. Dai triangoli poi C VYp, CVp', avuto ri- guardo che il centro di proiezione Y dista di 45° dall'equatore e che il raggio della proiezione è di metri o, 14, si ricavano le relazioni Cp = 0,14 tang 22° 30' Cpi—to:Wcora29306 le quali servono a determinare la posizione dei punti p e p' sul disegno. Per questi punti p e p' devono necessariamente passare le proiezioni di tutti i circoli di declinazione, cosicchè la retta pp' viene ad essere una corda comune a tutte le suddette proiezioni, le quali, per la nota proprietà che ogni circolo della sfera viene, in proiezione stereografica, rappresentato da un altro circolo, saranno pure altrettanti circoli, i cui centri avranno per luogo geometrico la perpendicolare elevata nel punto di mezzo O della retta pp' e nel piano stesso della proiezione. Detta per- pendicolare, nel caso particolare che si considera, viene ancora ad essere tangente al circolo esteriore della proiezione rappresentante l'orizzonte. Il luogo geometrico poi dei centri dei circoli rappresentanti le. proie- zioni dei paralleli all’equatore sarà la linea d’intersezione del piano di proiezione col piano del circolo di declinazione normale al medesimo. 236 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Il Dal centro di proiezione V (fig. 1.*) conducendo le visuali VD, VD', queste determineranno sulla linea d’intersezione 08 del piano di proiezione col piano del circolo di declinazione verticale una retta dd', la quale altro non è che il diametro del circolo rappresentante la proiezione del parallelo DD'; cosicchè chiamando X,, X, le ascisse Cd, Cd' dei punti estremi di detto diametro, il raggio R del circolo rispettivo sarà dato dall’espressione e l'ascissa X del centro di detto circolo sarà espressa da _X,+X, 9 X Dai triangoli rettangoli CV4, C Vd' facilmente si deduce il seguente valore numerico delle ascisse X,, X, abb X,=0, 14 tang 1 (— 45°) ; I o (DI X,= 0,14, cot 3(0+ 45 )PO cosicchè il raggio del circolo ricercato sarà rappresentato da ra R=0,07 } cot- (d+-45°)— tang2(è—45) 3 e l’ascissa del centro da (I) o cc X= 0,07 cot 1 (d+45)+tang 2 (0—45) | Con queste formule vennero calcolati i numeri della tavola I, facendo variare di grado in grado il valore di è da + 90° sino a —45°. CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 237 III. Nella proiezione stereografica l'angolo d’intersezione delle proiezioni di due circoli massimi essendo eguale all'angolo, sotto cui detti circoli massimi si tagliano sulla sfera, ne risulta, avuto riguardo a quanto venne superiormente esposto ; 1.° Che le perpendicolari Pr, P2, P3, ecc. (fig. 2.°) elevate sulle tangenti nel punto 2 alle proiezioni dei singoli circoli di declinazione, fanno fra loro angoli rispettivamente eguali a quelli, che fanno fra loro i corrispondenti circoli di declinazione. 2.° Che i centri delle proiezioni dei singoli circoli di declinazione si trovano determinati dai punti d'incontro 1, 2, 3, ecc. delle perpen- dicolari Pr, P2, P3, ecc., colla retta OR normale nel punto O alla retta 05. Ciò posto le rette Or, 02, 03, ecc. rappresenteranno le ascisse dei centri delle proiezioni dei circoli di declinazione, e le corrispondenti per- pendicolari Pr, P2, P3 i rispettivi raggi. Ma tali ascisse e tali raggi non sono altro che le tangenti e le secanti nel circolo di raggio O. degli angoli, che i raggi fanno colla linea OP, od in altri termini le cotangenti e le cosecanti degli angoli che i rispettivi circoli di declina- zione fanno con quello normale al piano della proiezione; onde detto « uno di questi angoli, l’ascissa x dei centri delle proiezioni dei circoli di declinazione sarà rappresentata da (ya x=0,14(1+tang 22° 30') cot 2, ed i rispettivi raggi da (© 66 r=0,14(1+tang 22° 30') cosec «. Con queste formule vennero calcolati i numeri delle colonne seconda e terza della tavola IL 238 R. OSSERVATORIO DI TORINO. IV. Per aver un riscontro circa l’esatto tracciamento in proiezione dei circoli di declinazione, ma più ancora per poter segnare in margine del disegno la scala delle ascensioni rette, è ne- cessario che venga determinata la traccia del piano di quei circoli col piano della proiezione. Perciò consideratone uno qualsiasi MPN, ne risulterà fra l'orizzonte OMBLN, il circolo di declinazione considerato e quello verticale OP B, il triangolo sferico OPM, rettangolo in O, dal quale si ha la relazione cotP= cotpsenm . Ora l'angolo P è eguale all'angolo oràrio od all’inclinazione del circolo di declinazione MN sopra quello 08, ed il lato m è eguale a go° più il complemento della declinazione del centro della proiezione Y, cosicchè nel caso che si considera sarà MSUZI I onde dalla relazione precedente si desumono tosto, per la determina- zione dell'angolo che le traccie ricercate fanno con quella 08 del cir- colo verticale di declinazione, le due formule sen 45° . (7) odio fo tangp= 0,14 — pr è cot P (ORE SO gii colle quali vennero calcolate le colonne quarta e quinta della tavola II, servendosi della prima per gli angoli maggiori di 55 gradi e della seconda per gli angoli minori. CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 239 Mi Le proiezioni dei circoli di declinazione prossimi a quello normale al piano di proiezione, non che quelle dei paralleli all'equatore prossimi a —495°, hanno raggi assai grandi, e riesce quindi troppo incomodo il tracciarle direttamente; ond’ è che, a vece di valersi dei dati calcolati colle formule precedentemente stabilite, si è preferito di costruire per punti quelle proiezioni i cui raggi superavano la lunghezza di un metro, servendosi delle tavole trigonometriche di Giulio GAunIn compilate espres- samente per simili operazioni. In tutti i calcoli surriferiti si è spinta l’approssimazione sino alla quarta cifra decimale, essendochè il decimo di millimetro è la misura minima di cui si possa tener conto in disegno. DANIANDIIIINIDNIDPDNIDILLDDINDIIDNIINDIINTN D de mi CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 4° TAVOLA PER LA PROIEZIONE STEREOGRAFICA DEI PARALLELI ALL’EQUATORE. Ascisse X Raggi dei centri Ascisse Ascisse X, 36, Decli- nazione Osservazioni Le ascisse sì contano a parlire dal centro del circolo della proiezio- |} ne della sfera celeste, e sono considerate co- me positive quelle che vanno verso il polo. + 90°| + 0,0580 |+0,0580 |+ 0,0580 | 0,0000 so] o0.0566| 0,0594| 0,0580] 0, 0014 ss] o,0551| 0,0609] 0,0580 | 0,0029 s7| 0,0537f 0,0623| 0,0580|0,0043 86 | 0,0523| 0,0638| 0,0581| 00057 ss | o,osi0f 0,0653| 0,0584| 00072 8£| 0,0496| 0,0668| 0,0582 | 00086 s3| 0,042] 0,0683| 0,0582|0 0100 sa| 0,046] 0,0698|] 0,0583|0 0115 si] 0,045] 0,0713] 0,0584|0 0129 so] o,0441| 0,0729) 0,0585/0,0144 79] 0,0428| o,0744| 0,0586 | 0,0158 78] 0,045] o,0760| 0,0587|'0.0173 77] o,oct00| o0,0776|] 0,0589 | 0,0187 76 0,038] 0,0792| 0,0590| 0 0202 75 0,0375| 0,08081 0,0592|0,0217 74| 0,0362| 0,0823| 0,0593 | 00231 73] 0,0349| 0,0841| 0,0598| 0 ozzo 72] 0,0336| 0,0858| 0,0597| 00961 71 | 0,0323| 0,0875| 0,0599|0 0276 7o| 0,0310|] 0,0892f 0,0601 | 0,0291 69 | 0,0298| 0,0909|] 0,0603 | 0,0306 68] 0,0285| 0,0927| 00606 | 00321 67] 0,022] 0,0944| 00608 | 00336 Serie II. Tom. XXVI. CA 242 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Ascisse X agi Osservazioni dei centri Ascisse Ascisse i nazione Xe xa {+ 66°]+0,0259 [+ 0,0962 | + 0,0611 | 0,0351 |te ascisse si contano a || partire dal centro del |} 65 0, 0247 0,0980 0, 0644 0, 0367 circolo della proiezio- || ne della sfera celeste, |l 64 0,0234 0, 0999 0,0616 | 0,0382 E 0, 0229 0,1017 0,0619 | 0,0398 | vanno verso il polo. 0, 0209 0,1036 0,0623 | 0,0413 0, 0197 0,1055 0,0626 | 0, 0429 0, 0184 0,1074 0,0629 | 0,0445 0, 0172 0,1094 0,0633 | 0, 0461 0,0160 0,4114 0,0637 | 0,0477 0, 0447 0,1134 0,0640 | 0, 0493 0,0135 0,1154 0,0644 | 0,0510 0,0122 0,1175 0,0649 | 0, 0526 0,0110 0,1196 0,0653 | 0, 0543 0, 0098 0,1217 0,0657 | 0, 0560 0, 0086 0,1239 0,0662 | 0,0577 0,0073 0, 1261 0,0667 | 0, 0594 0, 0061 0,1283 0,0672 | 0, 0611 0, 0049 0,1306 0,0677 | 0, 0628 0, 0037 0, 1329 0,0683 | 0, 0646 0, 0024 0,1352 0,0688 | 0, 0664 0,0012 0, 1376 0,0694 | 0,0682 0, 0000 0,1400 0,0700 | 0,0700 0, 0012 0,1425 0,0706 | 0,0718 0, 0024 0,1450 0,0713 | 0, 0737 0, 0037 0,1475 0,0719 | 0, 0756 0, 0049 0,1501 0,0726 | 0,0775 0, 0061 0,1528 0,0733 | 0,0794 0, 0073 0,1555 0,0741 | 0,0814 Decli- nazione CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 245 Ascisse Ascisse xo, Ascisse X dei centri il +38°| — 0,0086 | +-0,1582 {+ 0,0748 37 36 35 34 33 32 31 30 0, 0098 0, 0110 0, 0122 0, 0135 0, 0147 0, 0160 0,0172 0, 0184 0, 0197 0, 0209 0, 0222 0, 0234 0, 0247 0, 0259 0, 0272 0, 0285 0, 0298 0,0310 0, 0323 0, 0336 0, 0349 0, 0362 0,0375 0, 0388 0, 0401 0, 0415 0, 0428 0, 1611 0, 1639 0, 1668 0, 1698 0, 1729 0, 1760 0, 1792 0, 1825 0, 1858 0, 1892 0, 1927 0,1963 0, 1999 0, 2037 0, 2076 0, 2415 0, 2156 0, 2198 0, 2240 0, 2285 0, 2330 0, 2377 0, 2425 0, 2475 0, 2526 0, 2579 0, 2633 0, 0756 0, 0765 0, 0773 0, 0782 0, 0791 0, 0800 0, 0810 0, 0820 0, 0831 0, 0841 0, 0853 0, 0864 0, 0876 0, 0889 0, 0902 0, 0915 0, 0929 0, 0944 0, 0959 0, 0974 0, 0991 0, 1007 0,1025 0,1043 0,1062 0,1082 0,1103 Raggi 0, 0834 0, 0854 0, 0875 0, 0895 0, 0917 0, 0938 0, 0960 0, 0982 0,1004 0,1027 0, 4051 0, 1074 0,1099 0,1123 0,4148 O ANTA 0,1200 0,1227 0,1254 0,1282 0,1310 0,1340 0, 1369 0,1400 0, 1434 0,1463 0,1497 0,1531 Osservazioni Le ascisse si contano a || partire dal centro del circolo della proiezio- |} ne della sfera celeste, e sono considerate co- me positive quelle che vanno verso il polo. |É 244 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Ascisse Xx Raggi Osservazioni dei centri | Decli- Ascisse Ascisse nazione X, DA °}— 0, 0441 | + 0,2689 [+ 0,1124 | 0,1565 [Le ascissesi contano a | i partire dal centro del 0,0455 | 0,2748 | 0,4446 | 0,1604 | circolo detta proiezio- ne della sfera celeste, 0,0468 0, 2808 0,1170 | 0,1638 a I 0, 0482 0, 2870 0,119% | 0,166 | vanno verso il polo. 0, 0496 0, 2935 0,1220 | 0,1716 0, 0510 0, 3002 0,1246 | 0,1756 0, 0523 0, 3072 0,1274 | 0,1798 0, 0537 0,3144 0,1304 | 0, 1841 0, 0551 0,3220 0,1334 | 0,1886 0, 0566 0, 3298 0,1366 | 0,1932 0, 0580 0, 3380 0, 1400 | 0,1980 0, 0594 0, 3465 0,1439 | 0, 2026 0, 0609 0,3554 0,1473 | 0, 2081 0, 0623 0, 3647 0,1512 | 0,2135 0, 0638 0,3745 0,1553 | 0,2192 0, 0653 0, 3847 0,1597 | 0,2250 0, 0668 0, 3953 0,1643 | 0,2311 0, 0683 0, 4066 0,1692 | 0, 2374 0, 0698 0, 4184 0,1743 | 0, 2441 0, 0713 0, 4309 0,1798 | 0,2511 0, 0729 0, 4440 0,1856 | 0, 2585 0, 0744 0, 4579 0,1918 | 0, 2662 2 0, 0760 0, 4726 0,1983 | 0,2743 0, 0776 0, 4882 0,2053 | 0, 2829 0, 0792 0, 5048 0,2128 | 0,2920 0,0808 |) 0,5225f 0,2208 | 0,3017 0, 0825 0,5413 0,2294 | 0,3119 0, 0841 0,5615 0,2387 | 0,3228 —_ d => O O o ll O WU - WV MS > So SNO wu -- a So ea D O Ss 9) Si SSD T_ ao o a — 18 19 O 19 19 10 o a 9 DO) DI a DD DOW do 0 WOW I 0 W ri 19 19 o o x + O UU - VW N > So VO o +4 4A > o_O Ot E 0 1 Decli- nazione CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 245 Ascisse X, Ascisse Xa Ascisse X dei centri — 0,0858 | +-0,5835 | + 0, 2487 0,0875 0, 0892 0, 0909 0, 0927 0, 0944 0, 0962 0, 0980 0,0999 0,1047 0,1036 0,1055 0,1074 0,1094 0,4414 0,1134. 0, 1154 0,1175 0,1196 0,1217 0,1239 0, 1261 0,1283 0,1306 © 0, 1329 0,1353 0,1376 0,1400 0, 6064 0,6315 0, 6587 0, 6881 0, 7202 0, 7554 0, 7940 0, 8366 0, 8839 0, 9368 0, 9962 1,0634 1,1402 1, 2288 1,3320 1,4540 1, 6002 1,789 2,0021 2,2890 2,6714 3, 2065 4,0000 5,3464 8, 0206 16, 0426 (© e) 0, 2694 0,2712 0, 2839 0, 2977 0,3129 0, 3296 0,3480 0, 3684 0, 3911 0, 4166 0, 4453 0, 4780 0,5154 0, 5587 0, 6093 0, 6693 0, 7414 0, 8297 0, 9402 1, 0826 1, 2727 A,,5391 1, 9396 2, 6068 3, 9427 1,9524 (© ©) Raggi 0,3345 0, 3469 0, 3603 0, 3748 0, 3904 0, 4073 0, 4258 0, 4460 0, 4682 0, 4928 0, 5202 0, 5508 0, 5854 0, 6248 0, 6701 0, 7227 0, 7847 0, 8588 0, 9492 1,0619 1, 2064 1,3987 1, 6674 2, 0602 2,77396 4, 0179 8,0900 (0.0) Osservazioni Le ascisse si contano a |j partire dal centro del circolo della proiezio- ne della sfera celeste, |l e sono considerate co- || me positive quelle che }} vanno verso il polo. 246 R. OSSERVATORIO DI TORINO. 2° TAVOLA PER LA PROIEZIONE STEREOGRAFICA DEI CIRCOLI DI DECLINAZIONE T LORO TRACCIE COL PIANO DI PROTEZIONE. © RR Traccie dei circoli Angolo Asse ) Raggi EE ene Osservazioni tà dei centri lang p col p O NI co | 0,000] > (tace 1 | 11,3428 | 11,3445| 0,0017 ) RA ro maliede Ir j traccia del Med iano ne 2 | (5,6677)|/05,6731 (070035 » ale dI ui: e prc a ; i È locate Sme frico nente 4 2,831 4 2, 8383 0, 0069 » MINA. ‘ng] vonseete guila 1 roie- |f 5) 2, 2663 2.717 0.0087 » FOA dui Dik Dr ’ compresi fra 3060 olo 6 | 1,8838| 1,s951| o, 010% » LR a presente tavola, per avere 7 | 1,6125| 4,6246| 0,0122|] » col compresi fa i e 270% e) 1,4088 1, 4226 0, 0139 » 9 1, 2504 1, 2656 0,0157 » 10 1,1229| 41,4402| 0,0175 » ti 1,0186| 41,0376| 0,0192 » 12 0, 9315 0, 9523 0,0210 » 13 0, 8576 0, 8801 0, 0229 » 14 0, 7941 0, 8184 0, 0247 » 15 0, 7389 0, 7650 0, 0265 ) 16 0,6905 | 0,7183| 0,028% 5 7 0,6476 0, 6772 0, 0303 » 48 0, 6094 0, 6407 0, 0322 ) 19 0,5750 0, 6081 0, 0341 ) 20 0, 5440 0, 5789 0, 0360 » n 21 0, 5158 0, 5525 0, 0380 » 22 0, 4900 0, 5285 0,0400 D) 23 0,4664 | 0,5067 0, 0420 » Angolo (04 Ascisse dei centri 0, 4447 0, 4246" 0, 4059 0, 3886 0,3724 0,3572 0, 3429 0, 3295 0,3169 0, 3049 0, 2935 0, 2828 0, 2725 0, 2627 0, 2534 0, 2445 0, 2360 0, 2278 0, 2199 0, 2123 0, 2050 0, 1980 0,1912 0, 1846 0,1783 0,4721 0, 1661 0,1603 0, 4868 0, 4685 0, 4516 0, 4361 0, 4217 0, 4084 0, 3960 0, 3844 0, 3736 0, 3635 0, 3541 0, 3452 0, 3368 0, 3290 0, 3216 0,3146 0,3080 0, 3018 0, 2959 0, 2903 0, 2850 0, 2800 0, 2752 0, 2707 0, 2664 0, 2623 0, 2585 0, 2548 Traccie dei circoli DI DECLINAZIONE lang p 0, 0441 0, 0462 0, 0483 0, 0504 0, 0526 0,0549 0, 0572 0, 0595 0, 0619 0, 0643 0, 0668 0, 0693 0,0719 0, 0746 0, 0773 0, 0802 0, 0831 0, 0861 0, 0891 0, 0923 0, 0956 0, 0990 0,1025 0, 1062 0,1099 0, 1139 0,1181 0,1222 col p Osservazioni 248 R. OSSERVATORIO DI TORINO. | Traccie dei circoli Angolo Ascisse pe ga ARGO Di & dei centri lang p col p 52 0,1547 | 0,2513 | 0,1267 > ER 53 | 0,1492| 0,2479| 0,1314 » (colla nornalmente ala | 54 || 10, 14384] (0, 2447] 20011363 NO: 838 eo a 55 | 0,4386 | 0,2417| O,4&14 | 0,1386 | ‘ictinione esendo co |} 56 | 0,1335| 0,2388 » IRE che, eseguita la proie- | 57 0,1286 0, 2361 D 0,1286 Foro O 588 | 0,1237| 0,2335 ù VOCI ERA presente tavola, per avere |j 39 0,1190 | 0,230 D 0, 1190 | e iconintesifra 0° 2270». | 60 0,1143 | 0,2286 » 0,1143 61 0,1097 | 0,2264 » 0,1097 62 0,1053 | 0,2242 » 0,1053 63 0,1009| 0,2222 » 0,1009 64 0,0966 | 0,2203 S 0, 0966 65 0,0923 | 0,2185 » 0, 0923 66 0,0882 | 0,2167 » 0, 0882 67 0,0840 | 0,2451 » 0, 0840 68 0,0800 | 0,2135 » 0, 0800 69 0,0760 | 0,2121 » 0, 0760 70 0,0724 | 0,2107 » 0, 0721 71 0,0682 | 0,2094 » 0, 0682 12 0,0643 | 0,2082 » 0, 0643 13 0,0605 | 0,2070 » 0, 0605 14 0,0568 | 0,2060 » 0, 0568 15 0,0531 | 0,2050 » 0, 0531 16 0,0494 | 0,2041 » 0, 0494 50 0,0457 | 0,2032 » 0, 0457 78 0,0421 | 0,2024 » 0, 0421 19 0,0385 | 0,2017 » 0, 0385 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 249 Angolo Ascisse n dei centri Raggi 80 0,0349 0, 2010 8/ 0,0314 0, 2005 82 0, 0278 0,1999 83 0, 0243 0,1995 84 0, 0208 0,1991 85 0, 0173 0,1987 86 0, 0138 0,1985 87 0,0104 0,1983 88 0, 0069 0,1981 89 0, 0035 0,1980 0,0000 | 01980 Serie II Tom. XXVI. Traccie dei circoli DI DECLINAZIONE tang p | cot p 0, 0349 0, 031% 0, 0278 0, 0243 0, 0208 0, 0173 0, 0138 0, 0104 0, 0069 0, 0035 0, 0000 Osservazioni dig ir ata 4) ’ Trapani i h È i ts Ut, Dl y CATALOGO CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 253 Asc. R. Asc. kh. in tempo in arco Declinazione Osservazioni Grandezza Andromeda 225624 | 344° 6'| 4A° ha 5 23 31 42 | 352 55 | 45 49 » 15 | 3539 4 | 42 36 » 30 | 353 43 40 0 41 0 28 26 tl 33 4 28 40 30 12 23 37 40 25 37 5A 46 36 Aquario 20% 442445] 310° 48'| 9°56' 4 » 4A 24 | 310 21 5 28 25 15 | 321 419 6 6 59 37 | 329 Di 0 54 59 57 | 329 59 | 14 27 10 30 | 332 38 8 23° i 30 31 {32 Lettera Grandezza || 4 4 4 4 3 4 W_ W PT >» W È PP & W W wW Aa R. OSSERVATORIO DI TORINO. Ase. R. in tempo DO 285 22 39 29 44 46 21 48 17 3 3 Asc. R. in arco 333° 52° 335 40 337 18 341 35 342 4 -345 46 Aquila 18° 549445| 283° 33' | 14° 54'5 » 55 16 | 283 49] 5 54 a » 59 53 | 284 58 5 4 » 59 54 | 284 58 | 13 41 dI 19 19 27 | 289 52 | (2 53 » 28 14929299 38 » 30, 26| 292,37 | 24 48 all » 30 31 | 292 38 i 33 » 40 33 | 295 8 | 10 19 5 » 44 56 | 296 14| 8 33 » 46 22 | 296 35| 0 42 » 49 25. | 297 24 6 6 20 5 7|301 17] 1 41a Ariete AL4L6MEI"| 26° 44 | 18° 42 6 » 48 A 27 0|20 13 2 025) 30 6]| 22 54 Declinazione 1° 59 a 0 38 0 44 8 13 16 27 21 49 Altair. Osservazioni CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 5 È ì ba Lio de Li Declinazione 5 |S|E| in tempo in arco 46 4 OO MOSS ONTO LI |4A| 4 » 42 55 4£0 44 | 26 46 48|e | 4 » 52 21 43 5 | 20 52 49 {È |L 3 4 146 46 12 | 19 16 50 {G| 4 DNS £7 0] 20 34 Auriga 51 | | 3 LR LQmAASI 2° A8"| 32° 585 SO le 4 » 5322 713 20 | 43 39 OBRIG I » 54 6 73 31 | 40 54 ok |un| » 58 6 7413241 4 99 | 4 |A 5 7 50 76 57 | 45 53 56 |0 | 4 » 49 39 87 25 | 54 16 O Gr2 » 50 44 87 41 | 44 56 98/93 » 61 32 87 53 | 37 12 DO. e E 6 7 44 ONOR 29032 Balena GORN2, Corner 3598 Sisto 04.8 NE 0 13 19 3 20 ‘9, 29 620/82 » 37 34 9 23 | 18 39 63{7]|3 1 2 33 15 38 | 10 49 64|09|3 DICI SIAT 19 34 8 18 CO E LE » 38 30 QU 37 | 16 34 OG 8 » Lo 32 26 23 | 10 56 GUAI » D4 21 28 35 | 21 40 Osservazioni (5) 256 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Asc. R. Ase. KR. spa le alia i ; Declinazione Osservazioni in tempo in arco Grandezza |l O LNZIANE 3° 31’ 4 | * Grandezza variabile da 2 a 10. | » 21 447 Hola » 33 20 11 a » 33 4G 23 DIRO 44 b » 38 25 22 a » 56 0 i 31 b 13% 43" 44° » 48 58 14 10 A1 Arturo. »_ 11 » 21 » 26 DZ » 35 » 35 » 39 » 39 » 45 » 57 15 10 » 19 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. Asc. R. Asc. R. in tempo in arco | Lettera |È | Grandezza Cancro 88102 41°| 122° 30" » 36 24 | 129 5 » 37 52 | 129 28 » 39 26 | 129 52 » 54 55 | 132 59 Gran Cane Goo 98056: » 17 25 94 21 17 44 94 26 23 95 56 99 58 101 20 102 17 102 42 103 29 104 30 104 35 105 53 » 19 109 50 3 3 4 4 A 4 4 4 2 3 4 2 3 Piccole Cane 108/8|3]| 720739) 110°40' 109/e|4 » 33 1 | 4113 415 Serie II. Tom. XXVI. Declinazione 8° 32" d o 32 Osservazioni Sirio. Procione. 258 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Asc. R. Asc. R. in tempo in arco Declinazione] ——Osservazioni Lettera Grandezza Cani da caccia [ino] B| 4|42h28© 20 187° 4°) 42° 45 fatil2|2]| » 50 25 | 192 36 | 38 58 \112/20|5|13 12 40| 198 2| 41 42 Capricorno 113| a'| 4 | 20°44” 0°| 302° 45'| 12°53' a Toe on a ae 115|1£|3 » 14 16 | 303 34 | 15 10 116|W| 4 » 39 0 | 309 45 | 25 42 1147] | 5 » 44 40 | 341 10 | 27 22 118|0|5 » 59 12 | 344 48 | 17 42 (149] < | 5| 21 15 34 | 318 54| 417 21 1120] S | 4 » 19 49 | 319 57 | 22 56 (121|y|4| » 33 27|323 22| 4712 422| 0 | 3 » 40 25 | 325 ©6 || 16 40 Cassiopea 123|e|2| o amm) 0°42|58°298 124|x| 4 » 26 11 6 33 | 62 16 4125) G | 4 » 30 18 7 34 | 53 14 126|2|*| » 33 43 8 96. | 55053 | Grandezza variabile da 223. 197|m| » 4A 40 10 25 | 57 11 128] y|2| » 4928] 1222/60 4 [iz] w|5]| 41 a1728]| 192267 30 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 259 Ase. R. Asc. R. in tempo in arco Declinazione Osservazioni Grandezza 117050] MA0301 ASIA 131 | e » 45 46 26 27 | 63 6 132] 50 » 53 13 28 18 | 71 50 2 1941 34 48 | 66 52 * Argelander. Piccolo Cavallo QRS) Silos (80 1985398 5 135 » 8 38 | 317 10 136| «| 4 pi 501 MZ (

_»_o è è uu a O Cigno 162|/x|4| 199149205) 288°35' | 53° 9 è {163| B|3| » 25 53 | 29 28 | 27 43 iis] |A} » 26 41 | 291 40 | BA 28 ise5|0|5| » 33 13 | 293 18 | 49 57 liee]o|3| » 41 13 295 18 | 44 50 167|n|5| 49 541 49 | 297 57 | 34 46 |168| °| 4| 20 9 54 | 302 28 | 46 23 il 169/33] 4| » 10 36 | 302 39 | 56 12 170/32] 4| » 41 46 | 302 56 | 47 21 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 5 E S Ase. R. Asc. Ri. ALA oa E E E no Hic; Declinazione Osservazioni Zi = |S i171|]y|3]|20%17"55°| 304°29 | 39°52 è |az2/41| 4| » 24 29] 306 7] 29 58 l173]2|41]| » 3720) 309 20 | 44 51 Deneb. 174/83] » 41 24 | 310 20 | 33 31 {175/v|4| » 52 42] 343 10 | 40 42 |ize|z|4|21 034/345 9] 43 27 inizia 30] biso) Sten one lamsl-|4| » 10 0|347 30) 3732 179 o | 4 » 192 42 | 318 11 | 38 54 liasolu|4&| »1259|318415|34 24 [181 p|4| »2928|322 22/45 4 182| =! 4| » 37 50 | 324 28 | 50 39 Colomba 183|e | 4| 58126"57°) 81°44'| 35°34 & 184|a|2| » 35 19| 83 50|34 8 185| B|3| » 46 44) 86 41 | 35 49 186| y|4| » 53 47) 88 49 | 35 48 187/x|4}| 642417) 93 4/35 6 Corona Boreale 188 4 | 159 22"535| 230°43' | 29° 31! 5 189 4| » 28 8232 4A | 34 46 190|a|2 N93 60] 29228 07004, Gemma. 194] y|4| » 37 42) 234 26 | 26 HI 192|d | 4| » 44 34| 236 8 | 26 26 193|e |4| » 52 37| 238 9/27 14 262 R. OSSERVATORIO DI TORINO. 5 |E|S| AsR. | AsR. | pedivazi R$ Ei. ; eclinazione Osservazioni £ SE in tempo in arco Corvo 195] a | 4 | 492% Quad] 480%93" | 244 a 195| e | 3 » 3 58 | 180 59 | 21 57 196:y | 2 » 9 38 | 182 25 | 16 53 JO O | » 23 40 | 185 55 | 15 51 198|an|4 » 25 53 | 186 28 | 15 32 10.01 02: » 28. 5 MST Ed A22 04 Delfino 200] | 4 | 20° 27229") 306°52"| 10° 54' 5 {201/8|3| » 34 55 | 307 59 | 4441 1202/|&| 4 » 34 4 | 308 341 | 15 29 l203| è|4| » 375230928 | 14 39 204|/y| 3 » 44 6 | 3410 16 | 15 42 Dragone 205 Ò 919949! 139° 37’ | 84° 541’ d 206 IU T2 6) AMARA 7000 2017) x 3 429288210 MIST 7027 208| a |3|A1%4 41 8] 2410 17 | 64 57 209]: | 3 | 15 22 16 | 230 34 | 59 23 |zio|o|4| » 5939] 239 55 | 58 53 2141|n|3]|/16 22 23 | 245 36 | 641 47 QAR 827 0705 213|8|3 » 27 43 | 261 56 | 52 23 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. © 263 Ase. R. Asc. R. i ] Declinazione Osservazioni in tempo in arco Grandezza An 29m 592° | 262° 28"| 55° 16/8 » 5A 27] 267 52) 56 53 49 | 268 27 | 51 30 29 | 275 37 13 | 275 48 32 | 288 8 52 | 289 28 34 | 297 9 16 | 300 34 Ta CT: Wa Rs 10 WwW Ercole NOA S0e NON MEZZI D 416 4 251 415 | 45 15 16 Qi (2 | 46 36 16 254 9 | 19 26 19 Q44 58 | 14 19 25 246 16 | 24 45 241 34 | 42 LI 249) 41934 249 42 | 39 253 55 | 31 257 48 | A& * Grandezza variabile da 3 a 4. || 251 32 | 24 257 43 | 36 OS SIZIBA N53 2009 261 28 | 26 4 4 4 b) 5) 2 4 UO Ce ou «4 264 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Ase. R. Asc. R. Grandezza |É | BE D Eos DI 3) IZ. = IPO i LI Declinazione Osservazioni |239|< | 4| 17°36" 6°| 264° d°| 46° 42 240] u|3]| » 44 46 | 265 26 | 27 48 |241|0|4| »52 8|268 2) 3716 (lo42|z|4| » 53 6|268 17] 29 16 [243/0|4|18 252]|270 43 | 28 45 Eridano la4ali | 4| 235"56:| 38°59| 400224 [245|=|4}| »3930| 395319 5 [246| | 4| » 4536] 4124) 21 30 247) n|3| » 50 34| 4238| 9 23 248 3| » 53 43) 4326 | 40 47 (249|#|4| » 57 6| 44471|24 6 laso|1a| 3] 3 659| 46 45 | 29 28 \zsilz|4| »i0 o0| 4730) 9 16 \esal | 4} »agi0] 4833 | 0212 |253] |4a| » 15 6 48 46 | 43 32 I2s4|az|4| » 2440) 51 10) 5 29 255|e|3|] » 2747] 51 49| 9 52 {1 256|2| 4 » 28 29 SOI NOOO, 257|3|3| » 3730) 54234010 258] | 4| » 44 41) 5525 23 36 [259 #|4| »4837| s7 9|24 58 |260|y|3]| »5226| 58 13 51 |261|w|4| » 5649) 584224621 |e6a|e|4| 4 6 o| 6130] 709 [263/|4| » 946) 6227| 750 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 265 Asc. R. Ase. R. o È Declinazione Osservazioni in tempo in arco Grandezza KR" 19 32 28 48 20 593 4A 12 30 08 20724* 5° 5 » 23 10 20 48 Gemelli 276 QUI 278 279 280 281 282 283 284 285 6° 7238°| (191%55' | 2239 15 42| 93 22 34 30 47 97 16 36 99 29 38 99 13 44 34 97 20 14 12 16 12 58 22 18 417 28 RES QI ee a ae ds 0 DO WV_a Serie II. Tom. XXVI. KÉ 206 R. OSSERVATORIO DI TORINO. 2 E S Asc. R. Asc. R. Declinazi iii S | Sn i eclinazione Osservazioni lE E in tempo in arco | |286| |A nm 26”57°| 114° 44 | 32° 9 d | Castore. | 287/01 | 4 » 28 32 | 1412 8 | 27 10 288|x| 4 » 37 412 | 4144 18 | 24 44 289| B n » 37 58 | 114 30 | 28 19 Polluce. Giraffa :' 290 | e4| 5 31 199929°| 49° 50'| 59° 31' 3 | * Ass. se. de France. {291/|5 » 2020] 50 58/5898 |- rm [age ,|4} » a740| 5425 | 70 58 [293] <|4| 442 8| 703266 8 loss g|4| » 5245) 73 41 | 6016 i 295 Ò CIAO NOT 91 2% | 69 22 (1 296|42| 5 » 38 26 99 36 | 67 42 11297] 0*| 4 75 45 | 106 26 | 82 38 ss Idem. lo98| 7|3]| 21*46"4o:| 32640 | 37°56@ 299| è*| 4 | 22/22 G| 33534 | 44 5 Idra iisco| è | 4| 831m4s:| 127050") 6° 6 isonlo|5| » 3229) 128 7) 3 46 302|n|5| » 36 57| 12944) 3 50 Isole || » 40 26/8086 | #6 62 306/e|3| » 49 313216) 624 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 267 Ase. R. Asec. R. i Declinazione Osservazioni in tempo in arco Grandezza Co ea FOTO » 21 41 | 140 25 88 a | Alfard. » 44 | 143 26 | 0 36 10 45 | 454 441 | 14 46 » 07 | 155 4 | 46.413 492, | 160 56 | 15 3% 34 | 164 53 | 26 39 {774/47 | 34 19 176 43 | 33 A14 1195 39 | 22 29 198 6 200 47 Variabile. 209 53 gUo4m52:| 141°413'| 23° 30' d 25 29 | 141 22 | 14 50 34 45 | 143 41 | 10 26 144 46 146 29 148 28 150 412 150 30 152 30 153 20 156 37 164 42 O i I W > 0 S_SO W So E — DIE 208 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Asc. R. Asc. R. in tempo in arco Declinazione Osservazioni Numero Grandezza ANR 7944 | 466 56 | 21°14'5 57 | 166 59 | 16 5 57 | 168 44 6 4A 40 | 169 25 | 14 14 170 27 3 31 48 | 172 42 0104 48 | 175 27 | 20 53 5 96 | 175 44 | 15 15 DO 19 Po Po Cl as dv Piccolo Leone 10° 0%24°| 150° 5'| 35° 50' 5 » 19 2 | 154 46 | 34 24 » 20 57 | 155 14 | 37 19 » 31 58 | 158 0 36 » 46 36 | 161 39 | 34 52 Lepre 0"23* 5, 22° 32" a 1 32 16 21 LA 13 6 1L 3 13 418 23 6 20 27 26 47 39 28 22 441 34 14 46 10 20 50 57 14 EE SW 9 a o VS CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINGIPALI ECC. 269 Di S Ase. KR. Asc. R. POGGIA TI E È Declinazione Osservazioni £ | in tempo in arco = Libra A4L 4A] 224° 4 | 15°33' a » 54 34 | 223 38 82 » 57 3] 224 16 | 24 49 15 5 23 | 226 24 | 19 20 » 10 33 | 227 38 8 56 » 27 37 | 231 54 9839 28 49 | 232 42 | 14 23 » 29 45 | 232 26 | 27 44 DIA 232069029423 » 35 2 | 233 46 | 19 417 DIA ON 23646 | M623 » 54 28 | 237 52 | 13 56 DRAG 2390047 MIR? (d6) (ox (o) sl mm a o = a U IO UU 9 I CERO MOZZI 5980305 51 54 SIAT 4023 933% » 52 51 | 133 13 | 42 45 » 58 54 | 134 44 | 38 56 37 19 » 13 45 | 138 26 | 34 54 366| 2 367 | 27 368 | 34 369 370 371 | 38 372 > I e a —IE (Sui o) LO) (er) _ _ (Jo) (Oi Ss = o i To) —_ i do È. RO) — DO) E 1) cò Grandezza R. OSSERVATORIO DI TORINO. Ase. R. in tempo Liocorno 62.923" 0° | 95045! 7 5 44 | 106 26 » 35 34 | 113 53 A8A5"A0? | 273° 55° 32 278 13 40 È 280 6 40 280 10 45 281 50 232 54 283 NONA2N1/27 0258 Luceerta I 22° 18°50*| 334° 43' » 26 24 | 336 35 Ì Lupo ALP 509445 222° 40' 15 10 32 | 227 38 » 13 30 | 228 22 » 14 32 | 228 38 142° 39' a 29 42 40 13 44 15 Osservazioni * Grandezza variabile da 3 a 4. CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 2ITI Ase. R. Ase. R. in tempo in arco Declinazione Osservazioni Grandezza |È 152279 95! 231° 47") 40° 46' a 43 20 | 235 50 | 33 16 49 14 | 237 18 | 33 37 52 10 | 238 3]|38 3 58 43 | 239 41 | 36 28 Macchina Pneumatica 4 | 1/08 242 40° | 455° 25" | 30°27! a Nave Argo CRE MOSSA 12 5 108 14 25 1414 1413 116 119 120 129 131 135 141 152 Ofiuco |4os| è | 3| 16° 8” tel 242° 1| 3°23'a {409|e|3] oo 4 dai o| 424 432 433 Grandezza Re LE o n VV DD È @ VW @ a-— G@ DT umu_as W a Asc. R. Asc. R. in tempo in arco 16224217" | 246° 4 | 16°24 4 » 24 52 | 246 13 QMSTE » 30 33 | 247 38 | 10 19 a » 48 20 | 252 5 | 10 22 d » 52 0 | 253 0 934 » 54 44 | 253 dI 4 2a 17 3 30 | 255 52 | 15 34 PS 2570000026825 » 10 28 | 257 37 0 18 » 13 49 | 258 27 | 20 59 » 14 39 | 258 40 | 24 53 » 19 41 | 259 55 | 29 45 » 20 34 | 260 8 4L 15 6 » 29 22 | 262 20 | 12 39 » 37 34 | 264 23 4 37 » 41 53 | 265 28 | 2 45 » 52 26 | 268 7 945 a » 54 39 | 268 40 2 56 d » 55 40 | 268 55 A 49 » 59 23 | 269 dI 2 32 148 4 40 | 270 25| 9 33 Orione 4° 13220°| 70° 50'| 6° 45' 5 » 4h » 48 5 8 R. OSSERVATORIO DI TORINO. Declinazione O REA A 2 SE 0 (2000205 46 | 77412) 820 Osservazioni 449 450 451 452 453 454 455 456 457 458 459 Serie II Tom. XXVI. a Spe SS Grandezza DO IO LI 09 Gi 9 de o 0 c_ > WÙNÙ eaE N Sao Wa E P»- NN Po CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 273 Asc. R. Asc. R. ; Declinazione Osservazioni in tempo in arco SPAM] I° 57| 6059 a » 18 27 79 37 31 » 18 42 79 40 14 5 » 25 53 81 28 23 a 51 d 55 da 29 » 28 32 828 » 29 28 | 82 22 » 29 26 | 82 22 » 29 34 | 82 23 » 29 16 82 19 5 Omessa nelle carte. Visibile a » 30 8| 82 32 17 mo » 32 43 83 A1 40 » 34 42 83 4A 0 » 42 85 31 43 » 48 4A 87 10 23 5 | Beteigeuze. pe si O 1 MM > O 0 UU - O S Sìò N (SL e) 6 0 43 90 14 OS 47 Grand’ Orsa 8° 2094] 425° 4 | 61° d » 50 58 | 132 45 | 48 31 » 55 26 | 133 51 | 47 38 922 3 | 440 31 | 63 35 » 24 49 | ALA 12 | 52 13 » 42 27 | 145 37 | 59 36 10 9 52] 452 28 | 43 31 » 15 141 | 153 48 | 42 6 » 54 36 | 163 39 | 57 2 » 96 19 | 164 5 | 62 24 274 R. OSSERVATORIO DI TORINO. - È È "a È Ase- Ti. | Declinazione Osservazioni = ME in tempo in arco 4£60| p|3| 14° 2055 165° 44’ | 45° 9' d 4601|E| » 411 48 | 167 57 | 32 42 462/|v|4| » 42 0|468 0] 33 45 163 |X | 4 » 39 43 | 474 56 | 48 27 464 y|2 » 47 34 {176 53 | 54 22 K65 10; 3 |A 19 29 VIBO 24 de 466/ | 2 » 48 45 | 192 Ma (| 56 BY K69T G | 2) 13 49.6) 4199 46 || 55 88 468|g|5]| » 20 25 | 200 6 | 55 37 Alcor. i69l/ n |2| » 42182052] Gos5 | MSG Gol) Piccola Orsa 4170) 2| 5 03527995: 182094) (8528900 4A 2 1A4 45 | 418 41 | 88 40 Stella polare. 472: 5 5 | 414 27 47 216 57 | 76 A4 473 B| 2] » 54 4| 222 46 | 74 39 474 y|3|415 20 56 | 230 14 | 72 16 LI5| C | 4} 15 48 23 | 237 6| 78 410 476|7|5]|416 241 3|245 416 | 76 2 4TT| e | 4]| » 58 16 | 254 34 | 82 14 L18| è | 4| 4811 3] 272 46 | 86 37 Pegaso 419|1 21° 16"32°| 319° 8'| 419° 18'd 480 | 2] » 38 18 | 324 34 | (9 20 481|9|4 » 38 50 | 324 43 | 16 48 ° Lu © E 5 (ei SÌ (2) DO ve 483 484 485 486 487 488 489 490 491 4992 493 494 495 496 497 498 499 500 501 502 503 504 505 506 Lettera bs Grandezza DD E CW IS DI A Re wo Vv E BS _ WV È *X_ > W_as_P w= SV DD CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 27 Asc. R. Asc. R. in tempo in arco 212 39"13"| 32448" 22 1 26 | 330 21 i 9 302 » 4 4A | 331 10 » 15 37 | 333 54 » 35 29 | 338 52 » 37 23 | 339 21 » 40 45 | 340 dd » 44 13 | 344 3 » 57 57 | 344 29 » 58 47 | 344 42 23 14 42 | 348 UA » 19 24 | 349 SI OMIENZE 1 46 Perseo DT GIRA] ES ONTO] » 41 57 40 29 » 45 45 4A 26 ‘56.001 44 2 Dei QI 44 22 Bb) 22 45 5 » 024 L5 6 » 15 46 48 56 » 34 23 03 36 » 36 47 54 12 DG La) 54 16 Declinazione 25° 24 5) 32 11 10 48° Osservazioni 6' 5 46 36 39 36 419 pei 36 Algol. * Grandezza variabile da 2 a 4. Numero vv Grandezza SO R. OSSERVATORIO DI TORINO. Asc. R. Asc. R. in tempo in arco 3° 46"36°| 56°39' » 49 48| 57 27 » BA 41 57 48 » 57 39| 59 » 59 57| 59 59 4 6 5| 64 31 Pesce Australe —_— 24837048 | 324° 27 40 42 | 325 40 21 44 | 336 10 34 4)|338 30 54 4342 45 Pesci 23% 10"57°| 347° 44 » 33 353 27 » 53 358 17 55 358 37 49 10 37 56 AL AA 18 13 23° 20 58 25 21 85 BI | 28 58 Declinazione Osservazioni 34° 39 35 50 4" 48 33° 31 32 27 30 9° 32' a 40 27 A 23 6 3L'a IT 08 40 15 Fomalhaut. 38' 5 59 12 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. Asc. R. Asc. R. in tempo in arco Declinazione Osservazioni Numero Letlera Grandezza 528| | 4 | 1923444] 293° dl'| 417° 44 b 529 B| 4 » 35 40 | 293. 550] 47 42 530| 0 | 4 » 42 3 | 295 31 | 18 414 531|y| 4 » 5325 | 298 24 | 49 10 Sagittario 632 | y*|3 | 172458" 6°] 269°32'| 30° 25 a Soli EAST 635 27/0 399/1215 584| n | 4 PI ORS0N 2720238 M360£8 15)19 0 CONAI MG) Dagli ho 6273208 029053 536 | e | 3 DIR UORANN27/0034 030226 937|)|3 » 20 34 | 275 9) 25 29 938/04 DAS 0200320) 007 939/|c | 2 » 47 50 | 284 57 | 26 27 540| &| 4 » 50 34 | 282 39 | 21 16 SA ER83 » 54 59 | 283 45 | 30 3 542|o0 | 4 » 57 29 | 284 22 | 24 55 |543|t|4 » 59 27 | 284 52 | 2751 544 |x|3|4/19 2 38 | 285 39 | 21 18 545 | B'| 3 » 14 0 | 288 30 | 44 di 546 | 8°| 4 » 14 33 | 288 38 | 45 2 s4l|a| » 15 35 | 288 54 | 40 49 548 | 42] 5 ». 29) 241] 299 24/25 9 549|c | 5 » 59 17] 298 £9 | 28 3 DIO R. OSSERVATORIO DI TORINO. Ase. R. Asc. R. in tempo in arco Declinazione Osservazioni Grandezza Scorpione MR I 36 | 237 54 14 | 238 19 239 239 Una sola nelle carte. Antares. * Ass. se, de France. Una sola nelle carte. Una sola nelle carte. MES CO CO TO VO Ou COMO * Ass. sc. de France. CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. © 3 2 © |=|S Ase. R. Asc. R. gt, Her S| SAlt | i Declinazione Osservazioni 5.|o | in tempo In arco Li il CS) ee e E e Serpente 573|0 15°290 5°| 232° 46'| 10° 57! d 3 STIRIA 38) 226 8 4 |. £0' 38) | 235 £9 (07 406 3 | » 40 39 | 235 40 | 15 48 4| » 43 24 | 235 50 | 18 31 SRISA ei SN 430228) POSSO 0 SR STEENS0Ì 23601804450) 4| » 50 55 | 237 44 | 16 3 SR Ano 25 SE3N0 NT 582/54} » 30 43 | 262 41 | 13 19 383|0|5| » 34 40 | 263 40 | 12 49 584/ax|4| 48415 6]|273 47)| 2 56 585|9|4| » 5015 | 28234 | 4 35 Tazza 586| a | 4 | 10° 53"56°| 163°29' | 47° 40' 4 587/B|A4|41 5 46 | 166 26 | 22 10 588/0|4| » 13 24 | 168 20 | 14 8 589/y|4| » 18 53|16943| 471 990/09 | 4 » 30 36 | 172 39 OM DIG | & » 38 441 | 474 40 | 17 di Toro 992| 0 | 4 SS ori NAVA E50 s 6) 5 993| E | 4 » 20 40 50 10 SUO 280 R. OSSERVATORIO DI TORINO. 2 È È sc È: A Se- R- | Declinazione Osservazioni È E E; in tempo in arco BOL i Mishorens: MIS Mate 595/410] 4 » 30 45 52 LA 04 596/17] 4 » 37 45 54 26 | 23 4 Omessa nelle carte 597/19] 5 » 38° 4 SA 26 Id. 598/20] 5 » 38 4A 54 40 | 24 0 14. am Plejadi. 599|23| 5 DI 92 54 48 | 23 34 Id. 600| n | 3 » 40 21 sà 5 | 23 44 601|27| 4 » 42 2 55 30 | 23 41 Id. 602|) | £ » DI 2 5830 | 1219 603/y | 4 4 12 58 63 14 | 15 20 604| 0 | 4 » 16 1 CURNON IZIZZEZI(6. 605 | e | 4 DZ 65 24 | 18 55 606] G'"| 4 » 21 43 65 26 | 15 42 dati IL 607|06| 4 » 21 49 65 27 | 15 36 608|a |A DIO OR MIMGITAZI(61 BEIGIZIIG Aldebaran. 609] 7 | 4 » 35 3 68 46 | 22 44 610/18 | 2 5 18 43 | 79 41 | 28 30 611|t|3 | n 30129 2087 2A Triangolo 612| a | 4 AR4GMAS:I 260348" | 29° 0! 5 613|18|3 > 995 30 36 | 34 25 6014/|y| 4 » 10 14 32 33 | 33 18 Vergine 615] v | 4| 11%39742| 474°55"| 7°12/8 616] 8|3| » 4427|4176 7| 226 CATALOGO DELLE 634 STELLE PRINCIPALI ECC. 281 Ase. R. Asc. R. ì Declinazione Osservazioni in tempo in arco Grandezza AM 59r 63] AMORI OA 12 413 183 26| 0 0 35 35 | 188 54 | 0 192 23 194 3 195 56 198 199 202 208. 241 44 | 212 37 | 213 44 | 249 11 | 220 4 3 3 3 3 4 5 1 3 4 4 4 4 4 4 (©) Volpetta 4 | 19923743] 290° 56 | 24° 25' 5 633|23| 5 | 20 10 48 | 302 42 | 27 27 » 47 0] 341 45 | 26 39 Serie II. Tom. XXVI. n° Its AI CPRRCI i NAZ { ti 4 4 È pi Î fi no) K | { i I VATI i NA Li N 7 } si p8%, PLAUTO ni \ i \ i hi 3 }, Ù n Ou) i SIOW TI AMIN \ L Meipa ro si na sin sissi edo là \ x | no ut den D DI (S°) NUOVA BUSSOLA REOMETRICA NOTA DEL PROFESSORE GIUSEPPE BASSO Approvata nell'adunanza del 15 Gennaio 1874 In una mia Memoria, che l'Accademia delle Scienze volle approvare nella sua seduta del 30 Gennaio scorso , io aveva intrapreso l’esame dell’azione esercitata sopra un ago calamitato da una corrente rettilinea, indefinita e diretta orizzontalmente nel meridiano magnetico. Ho trovato la relazione che collega insieme i varii elementi del fenomeno, cioè: la intensità della corrente, il momento magnetico dell’ago, la distanza che corre fra un suo polo e l’altro, la distanza della corrente dall’ago stesso e la deviazione di quest'ultimo, ossia l’angolo che fa il suo asse col meridiano magnetico quando l’azione della corrente e quella direttrice della terra si fanno equilibrio. Riconobbi nello stesso lavoro che, essendo l’ago girevole in un piano orizzontale, ed il piano verticale in cui giace la corrente passando pel suo asse di rotazione, esiste per ogni intensità di corrente, e per ogni ago, una deviazione massima, la quale corrisponde ad una certa distanza fra la corrente e l’ago. Chiamando / la distanza di ciascun polo dell’ago dal suo asse di rotazione; « l'angolo di deviazione massima; 3 la distanza corrispon- dente a questo massimo, fra la corrente e l’ago; 9g una quantità che è funzione del momento magnetico dell’ago ed è anche proporzionale alla intensità della corrente, le due formole che si riferiscono alla devia- zione massima sono: ZA: 1S CINICA: qg=2 senz fang« 234 NUOVA BUSSOLA REOMETRICA La seconda di queste formole mi suggerì un procedimento nuovo per la misura dell’ intensità delle correnti elettriche. Chiamo dussola reome- trica a massima deviazione lo strumento che ho immaginato a quest'uopo e che, per certi riguardi, mi pare preferibile alle bussole comunemente usate, dette dei seni o delle tangenti. Essa consiste essenzialmente in un ago calamitato sottile, sospeso al disopra d’un eerchio graduato orizzon- tale e girevole intorno ad un asse verticale. Nel piano verticale, che passa per il centro dell'ago e coincide col meridiano magnetico, è disposto un lungo conduttore rettilineo ed orizzontale, il quale si può innalzare od abbassare a volontà, in modo però da conservarsi sempre nel medesimo piano verticale e parallelo a se stesso. Questo conduttore, a guisa dei fili moltiplicatori dei galvanometri e delle bussole ordinarie, può essere intercalato in un circuito qualunque percorso da una corrente elettrica, di cui si voglia misurare l’intensità. Quando una corrente elettrica attra- versa il conduttore dello strumento, l’ago sottoposto devia dal meridiano magnetico; allora tutta l'operazione si riduce a spostare lentamente il conduttore stesso, fino a che si vegga che l’ago è giunto alla sua massima deviazione. In virtù della seconda formola citata precedentemente l'intensità della corrente può essere rappresentata dal prodotto del sero per la tan- gente della massima deviazione trovata. La causa principale d'errore, che incontrasi nel seguire il procedi- mento ora indicato, consiste nel supporre che sull’ago della bussola agisca una corrente di lunghezza indefinita, mentre in realtà l’azione è ristretta alla lunghezza del conduttore che è annesso all’apparecchio. Può quindi nascere il dubbio, che il sostituire una porzione limitata di corrente a quella corrente indefinita che s'immagina in teoria, alteri in modo grave l'azione deviatrice sopportata dall’ago, e che per questa ragione l’uso della bussola a deviazione massima, sebbene conveniente per altri riguardi, non soddisfaccia abbastanza alle condizioni di comodità e di esattezza. Perciò mi sono proposto in questa Nota di studiare l’azione esercitata sull'ago calamitato girevole in un piano orizzontale da una corrente ret- tilinea di lunghezza finita, facendo le supposizioni seguenti: 1.° la corrente è diretta orizzontalmente nel meridiano magnetico; 2.° il punto di mezzo della corrente si trova sul prolungamento dell'asse verticale di rotazione dell'ago; 3.° la lunghezza della corrente è molto considerevole per rispetto alla lunghezza dell’ago. NOTA DI G. BASSO. 285 Siano x Oz il piano del meri- diano magnetico; O il punto di mezzo d'un ago calamitato gire- vole intorno all’asse verticale 02; xOy il piano orizzontale in cui può girare l'ago; 48 la direzione d’una corrente elettrica orizzontale, giacente nel piano x 0z e di cui A sia il punto di mezzo; OP la direzione dell’ago calamitato quando trovasi in equilibrio sotto l’azione della corrente 48 e quella direttrice della terra; 2 uno dei due. poli dello stesso ago. Si chiamino: z la distanza 40 della corrente dall’ago; i l’intensità della stessa corrente; 2c la lunghezza totale della corrente, e s una porzione 4M qua- lunque di essa, presa a partire da 4; 2 la distanza OP d'un polo dell’ago dal suo centro; a l’angolo «OP di deviazione dell’ago; e la distanza MP d'un elemento MM' di corrente dal polo P; o l'angolo BMP della corrente con MP; mn una quantità costante per ogni ago, e che dipende dalla di- stribuzione della forza magnetica ne’ varii suoi punti; f Vintensità della forza esercitata dalla corrente sul polo P; e df quella esercitata da un elemento ds di corrente. Le forze elementari df, e quindi anche la loro risultante /, sono applicate in P, e dirette normalmente al piano 2.48, ossia parallela- giace nel mente alla retta C/, la quale è perpendicolare ad 4C e g piano 20Oy. L'equazione fondamentale df= E 02 ag, la quale fu trovata da Ampère riguardo all’azione d'una corrente sopra un solenoide, si può trasformare pel caso nostro nella seguente: mi WS odo 3 2° + /* sen* o dUsy 286 NUOVA BUSSOLA REOMETRICA questa trasformazione feci già nella Memoria che citai in principio, ri- correndo alle relazioni: eseng = +1 sen « ; s=lcosa—gcosg , le quali si deducono facilmente dall’ispezione della figura. I valori @,, ,, che assume l’angolo corrispondentemente ai punti estremi della corrente che si studia, sono dati dalle relazioni; lcosau— Cc coso = r========*=*# ; Ve'+z'+l’—2c1 cose oe ZIcosa+ e oo = i Vo'+3°+1+201cosa Quindi si avrà subito, con una semplice integrazione: . la mi C+ cosa E ‘c—lcosa | V=+Psen'a|Vc+#+F+2c1cosa Ve+z+1—2clcosa Si può svolgere ciascuno dei due termini compresi entro parentesi in Pi . » . î ;j o . 4 e, forma di serie ordinata secondo le potenze ascendenti di — e di —. Il i c E primo di questi rapporti è, per ipotesi, una parte molto piccola dell'unità; tale sarà pure il secondo rapporto =, perchè, quando la distanza z cor- c risponde, alla massima deviazione dell’ago, si sa già che z è prossima- mente eguale a /sen&. Per conseguenza, i termini della serie che con- tengono le potenze superiori dei due detti rapporti, a cominciare dalla terza, si possono senza: grave errore trascurare. Dietro quest’avvertenza si trova: c+ cosa ° c—lcosu z'+ sen 4 ZI Ve+z+l+2clcosa Vc4-z+1f—201c084 z 2C E quindi: 1 f= DUDI 2°+0° sen’ ani da alci ) ; La forza f essendo perpendicolare al piano P 48, cioè parallela alla retta CY, è facile il vedere che la sua componente diretta nel piano xy e perpendicolare alla direzione dell’ago, trovasi espressa da: NOTA DI G. BASSO. 287 2MmiZ COS 3-+/* sen a 2° +/? sen? & 2C° ; Quando l’ago è in equilibrio, la componente ora indicata è uguale ed opposta alla componente seno della forza orizzontale esercitata dal magnetismo terrestre, designando con M il momento magnetico dell'ago stesso. Perciò si ha l'equazione fondamentale seguente, in cui ami Me 3 SERA DI si è posto per brevità zz4/? sen? 7) } qal= —— — (2e°tanga+9z/) Fas (A) Devesi ora avvertire che, nel caso della deviazione massima, la de- rivata dell'angolo « rispetto alla distanza 2 è nulla; differenziando adunque l'equazione (A) e tenendo conto della condizione ora detta, si trova l’e- quazione seguente: a ,À 25 tanga + 2 (3241 sen' a) =g/ BR TISM(do) Se si elimina la quantità 9g fra le equazioni (A) e (B) e si fanno le opportune riduzioni, si ottiene : VA DIA 3 DIL TÀ) — + I+-—senx)= senza —— sen'x . c* E E Gai c' Quest'equazione si può risolvere rispetto a z, e per maggiore sem- plicità si possono, anche in questo caso, trascurare i termini che sil spa contengono le potenze di — e di superiori alla seconda. Fatte le c Stu operazioni, sl trova: 2 z=lsen a(i— sen a) c E se finalmente questo valore di 2 si sostituisce nell’equazione (B), tralasciando sempre i termini che nella nostra questione non hanno in- fluenza notevole, se ne potrà ricavare l’espressione di g, e si avrà: q=2sen2tanga(1+Zsen'2) dio. (©) L'intensità della corrente elettrica, la quale, agendo sull’ago, produce 288 NUOVA ‘BUSSOLA REOMETRICA in esso la massima deviazione «, è proporzionale alla quantità g e può quindi venir rappresentata in ogni caso dal valore numerico di 10) Se, 2 nella bussola a massima deviazione, fosse possibile impiegare un condut- tore di lunghezza infinita, l'intensità della corrente vi sarebbe misurata dall’espressione sen &tang «; invece, dovendo ricorrere ad un conduttore finito, la cui lunghezza sia m volte quella dell’ago, l'intensità della cor- sen? x rente viene espressa prossimamente da sena tang x ( I = m ) , come dimostra l'equazione (C). E quest’espressione sarà tanto più vicina alla vera, quanto più grande sarà il valore di m. Ho voluto riconoscere, in molti casi particolari, l'influenza esercitata dalla maggiore o minore lunghezza del conduttore, per avere una norma nello stabilire la lunghezza medesima, trattandosi di costrurre realmente la bussola reometrica a massima deviazione. Perciò ho calcolato le varie intensità che avrebbero tre correnti elettriche, le quali producessero nell’ago egual deviazione massima «, ma in condizioni differenti; supposi cioè che la prima corrente passasse per un conduttore di lunghezza in- ; gl: ; finita (= o) ; la seconda per un conduttore decuplo in lunghezza del- I ò 9 l’aco {-= 0,1}: e la terza per un conduttore quintuplo in lunghezza © m 3 2 © DEVIAZIONE MASSIMA INTENSITÀ DELLE CORRENTI per (04 o, 03065 o, 1250 o, 2916 0, 9494 0, 9349 1,546 2,676 5, S10 NOTA DI G. BASSO. 289 Come si vede, la sostituzione di un conduttore di lunghezza decupla, od anche solo quintupla della lunghezza dell’ago al conduttore di lun- ghezza infinita nella bussola di cui si tratta, non nuoce considerevolmente all’esattezza delle misure, ogniqualvolta le correnti su cui si sperimenta non producono deviazioni di molti gradi. La necessità d'impiegare con- duttori lunghissimi, e quindi incomodi, si fa sentire soltanto quando si debbono misurar correnti di grande intensità. Ma ognun sa che, in tali casi, l'impiego delle bussole ordinarie (dei seni o delle tangenti) oflre pure inconvenienti assai gravi, e bisogna allora ricorrere ad artifizii spe- ciali per diminuire in una proporzione nota l'energia delle correnti, che si sottopongono alla misura. ERRATA-CORRIGE Nella Memoria dello stesso Autore, inserita nel Tom. XXVI, Serie II, pag. 169, la quale ha per titolo: Sulla deviazione massima dell’ago calamitato sotto l’azione della corrente elettrica, a pag. 176, linea 17, invece delle parole — la deviazione non può essere maggiore di 90° — si legga: — la deviazione è sempre minore di 90°. Serie II. Tom. XXVI. NÉ ga è DIbag ” wr i Ho 3 | i; f S Dee E 291 TRASMISSIONE PNEUMATICA DELLA FORZA A VEICOLO STANTUFFO SENZA VARIAZIONE DELL'ARIA CIRCGOLANTE DEL PROFESSORE GIGVANNI COeHBAZZA — ce Letta nell'adunanza del 12 Marzo 1871 — Soc Se si concepisca un veicolo munito d’uno stantuffo e posto entro un tubo, le cui estremità siano in comunicazione con una macchina soffiante a doppio effetto, di aspirazione e di compressione, o rispettivamente con due camere, dall’una delle quali si aspiri e nell’altra si comprima l'aria; è chiaro che, venendo così a rarefarsi nel tubo l’aria dalla parte ante- riore allo stantuffo ed a comprimersi posteriormente, si determinerà una differenza di pressione capace di produrre il moto del veicolo nel tubo sempre nello stesso verso. Una propulsione di tal natura costituisce il sistema di posta pneumatica perfezionato dal sig. Siemens. Non è qui il caso di entrare nella descrizione dei dettagli pratici per collocare o togliere i dispacci che il veicolo porta seco, senza che co- munichi l’interno del tubo coll’aria esterna. Parecchi diedero la teoria della propulsione pneumatica pei diversi modi in cui fu praticamente effettuata; ma tutti questi modi si riducevano all’estrazione dell’aria dal tubo anteriormente allo stantuffo, od alla com- pressione posteriormente ad esso, lasciando l’altra parte di tubo in co- municazione coll’aria esterna. 2092 TRASMISSIONE PNEUMATICA DELLA FORZA, ECC. Nel modo di propulsione che si considera è sempre la stessa massa d’aria che alternativamente si rarefà in una parte della circolazione e si comprime nell'altra. Quando si voglia fare il servizio da una stazione cen- trale a parecchie stazioni successive, conviene il tubo continuo e la cir- colazione del veicolo sempre nello stesso verso, adottata da Sremens. Ma se occorra la trasmissione fra due sole stazioni, può riescire più eco- nomico il congiungerle con un solo tubo, le cui estremità comunichino colla macchina soffiante , o colle camere di rarefazione e di compressione, mediante tubi di aggiunta, che potrebbero essere di materia e di costru- zione meno costosa del tubo in cui avviene la propulsione. Il moto del veicolo deve in tal caso essere invertibile, ed una valvola di distribuzione permetterà d’invertire la circolazione dell’aria. È chiaro, che la circo- lazione continua non è che un caso particolare della invertibile. Perciò reputo conveniente l’esporre la teoria della propulsione pneumatica a circolazione invertibile, come quella che comprende anche l’altro caso, e che rende più completamente ragione del fenomeno. Devono per la circolazione invertibile considerarsi due fasi affatto distinte e soggette a condizioni dinamiche diverse. La prima fase è limitata a quel periodo di tempo in cui, prima che cominci il moto del veicolo, si costituisce la differenza fra la pressione anteriore e la pressione posteriore allo stantuffo, la quale produce lo sforzo motore: nell'altra fase avviene il moto del veicolo. È facile determinare il lavoro esterno occorrente a produrre lo sforzo motore per differenza di pressione. Se si volesse invece determinare la scala reale delle variazioni di pressione nelle due parti di circolazione e la velocità attuale del veicolo, durante la seconda fase, si andrebbe in- contro ad una analisi difficilissima che condurrebbe a formole di nessun uso pratico. Ove però si avverta che ciò che la pratica dimanda alla teoria si può formulare nel modo seguente: per date condizioni del tubo e del veicolo e per un dato lavoro motore disponibile, determinare la durata della corsa; o reciprocamente per una voluta durata della corsa, determinare il lavoro motore necessario; è chiaro che non interessano più le velocità attuali, ma solo la velocità media. Con questa limitazione la teoria con- duce a formole d’un uso pratico immediato. (S) Lo) DI DI G. CODAZZA, Denominazioni. Dirassi diretta la corsa per cui il veicolo si allontana dalla stazione in cui esiste la macchina soffiante, retrograda quella per cui ritorna a quella stazione; e, ritenendo uniforme la sezione del tubo in tutte le parti della circolazione, si rappresenterà con A Varea di essa sezione ; D il diametro ; a la distanza dalla luce di efflusso della macchina soffiante alla sezione del tubo da cui parte il veicolo nella corsa diretta; 2 la lunghezza di questa corsa ; 2" Ja lunghezza della rimanente porzione di circolazione ; L la lunghezza a+l'+/; w, v, v, V rispettivamente i volumi 4a, 42, Al', AL; x la distanza variabile dello stantuffo dalla sezione di partenza nella corsa diretta ; 6 la pressione naturale nella circolazione, espressa in chilogrammi per metro quadrato ; b+p(x); 6—q(x) le pressioni nelle due parti di circolazione, compressa l’una rarefatta l’altra, quando lo stantuffo è alla distanza x dalla sezione di partenza nella corsa diretta ; b+p'(x), 6—q'(x) le pressioni analoghe quando lo stantuffo è alla di- stanza x dalla sezione di arrivo nella corsa retrograda ; d, il peso di un metro cubico d’aria alla temperatura zero ed alla pres- sione d ; $f Jo sforzo necessario a produrre il lavoro motore, che si riterrà co- stante, ed espresso pure in chilogrammi per metro quadrato ; z. la velocità media del veicolo nella sua corsa ; Pil peso del veicolo; % l'inclinazione all'orizzonte della direzione della corsa. Legge della variazione delle pressioni. Non volendosi conoscere che la velocità media, e considerando per ciò uniforme il moto del veicolo, si avranno le condizioni seguenti : D {o} tr TRASMISSIONE PNEUMATICA DELLA FORZA, ECC. Nella corsa diretta. (v+x 4) (564+p (2))+(0'+(—2)4) (6-9 (2) =\/0 S=b+p—(b—q)=p+g ans da cui (x) pn 9(4) spense UO) Nella corsa retrograda. (04 ((-2)4)(b+p'(2))+(0+x4)(0-9/(2))=V8 i 3) 00. S=p(£)+9'(x) eZ ii x) A PI) fra (Se dik (0) Risulta dalle (4) che per uno stesso valore di x, ossia per una stessa posizione del veicolo nella corsa diretta e nella corsa retrograda, è p'(a)=g(x) ; — p(a)=9(2) , ossia, passando dalla corsa diretta alla corsa retrograda, le differenze fra la pressione attuale e la pressione naturale, per ciascuna posizione dello stantuffo, st invertono esattamente. Le (2), (4) ci avvertono che col progredire della corsa diretta, ossia col crescere di x, la p diminuisce e la g aumenta; similmente col pro- gredire della corsa retrograda, ossia diminuendo x, diminuisce p' ed au- menta g'. Lavoro necessario alla produzione dello sforzo motore. Lo sforzo motore si è supposto costante, considerandosi costanti le resistenze al moto nel movimento medio del veicolo. È facile il concepire come per la continuazione del lavoro motore, possa essere spinto il veicolo in un tubo di aggiunta all'estremo della corsa, che termini a fondo chiuso e che venga separato dalla circolazione mediante valvola conveniente. Potrebbe servire lo stesso apparecchio di Siemens in cui il pezzo di tubo, destinato a ricevere il veicolo al suo arrivo, termini a fondo chiuso. È in questa posizione che aprendosi questa parte di tubo si può fare l'immissione e DI G.. CODAZZA. 205 & l'estrazione dei dispacci. Ma prima di tale apertura è obbligato il veicolo a comprimere l’aria dinnanzi a sè, consumando in questo lavoro la propria forza viva. Rimesso il veicolo collo stantuffo nella sezione di partenza per la corsa che deve fare, si dovranno produrre le pressioni 6+p (0), 6+9(0) poste- riormente ed anteriormente allo stantuffo nell’una corsa e 5+p'(2), 6—g (2) nell'altra. In questa fase iniziale adunque è necessario un lavoro utile esterno capace in ciascuna corsa di ridurre un volume V, da una pressione 2, ad una pressione P, sotto un volume Y,, e ciò senza trasmissione di calore e quindi con variazione di temperatura. Rappresentando con Y e 2 il volume e la pressione nello stato va- riabile, con Z il lavoro esterno suddetto e con 7 il rapporto fra le calorie di temperatura dell’aria (calore specifico ) a pressione costante e quelle a volume costante, si hanno le note relazioni dalle quali si ottiene Nell’aspirazione è noto il volume Y, e nella compressione. è noto. il volume Y,; in ambidue i casi sono note 2,, P,. Combinando le prece- denti e rappresentando con Z,, Z. i lavori di aspirazione e di com- pressione , sarà P,V, (P.\* P.\ L= Tr— (= : TOESMA\IZ JP. Nella corsa diretta si ha per la parte in cui si fa l'aspirazione VE PREGI —5—g(0))} 296 TRASMISSIONE PNEUMATICA DELLA FORZA, ECC. e per quella in cui si fa la compressione VE= 005 PP _0Ep(0) Nella corsa retrograda , per la parte di circolazione in cui si fa la aspirazione, è Viper WD ba P,=b—-q'(1) DI e per la parte in cui si fa la compressione \E=4R5 (PZIO A P,=b+-p'(1) e Sostituendo opportunamente si avrà Corsa diretta. _ N09) n (0+0')d i n = 2 n_-1 1) d+o0 D +0 ni nie wb TI V 9) W ZA E i) ge IT ) Corsa retrograda. pes BESCE 7 __ (0+w)d hi UT SE DES 6 Y w+0o\” V+w n ‘b b Her b+f 7 L= n= ; è p=1 db b Ricordando che n=1,403 per cui 20,712, ——_=2,68, ed n_1 All = =0,29, € ponendo f=rd, si potrà dare a queste espressioni la forma seguente : DI G. CODAZZA. 297 L,=2,48(0+0')d ) i L=2,68wb(1+ ant) di f\ 0,2 L'j=2,48(0+w)bl 1— 22%) o) v4+w\ mr V+ w\n39 L,=2,484/6(1+7 ) I-(1+r V V I lavori totali occorrenti nelle due corse diretta e retrograda, essendo i lavori parziali di segno contrario, saranno L,—L. 3 L',- L', Si vede che questi lavori non sono eguali fra loro, e quindi se il lavoro della macchina soffiante sia costante, le due ssi iniziali alle due corse, diretta e retrograda, avranno RCA diverse. Fase di moto del veicolo. Comincerò a dimostrare che le formole (2) e (4) soddisfano alla con- dizione che qualunque sia la posizione dello stantuffo, sì nella corsa diretta che nella corsa retrograda, il peso d’aria estratto dalla parte di circoluzione in cui si fa la rarefazione, è eguale al peso di aria introdotta nell'altra parte in cui si fa la compressione. Difatti rappresentando con d,, d(x), d,(x), d'(x), d',(x) i pesi di un metro cubo d’aria sotto le pressioni dè, 5+p(x), 6—g(x), b+p'(x), b—gq (x), saranno rispettivamente (w+42x)(d(a)-d); (/+A401-2)(4-4()) ...(6) i pesi d’aria introdotta da una parte ed estratta dall’altra durante la corsa diretta, e i (/+A4(1-2))(d'(x)-d,) ; (w+42)(4-d'.()) ...(7) gli analoghi pesi durante la corsa retrograda. Ma manifestamente è : Serie II. Tom. XXVI. o° 298 TRASMISSIONE PNEUMATICA DELLA FORZA, ECC. d(x) -d= = +4 0-2) È did (a)= Lg @)=T LS w+-42) 5 d'a) -d= Lp @=IL +42) , d, d,, d,—d'.(x)= pI(A)= i Sostituendo questi valori, si verifica l'eguaglianza fra i pesi assegnati dalle espressioni (6) e dalle espressioni (7) per qualsivoglia valore di x, e quindi anche per x=o nella corsa diretta, e per x=/ nella corsa retro- grada, ossia nelle fasi iniziali alle due corse. Essendo f lo sforzo motore, sarà fw il lavoro motore durante un’in- tera corsa. Mentre si compie questo lavoro si produce la variazione +v di volume nella parte di circolazione in cui si fa la compressione e la variazione —v nell’altra parte. La massa d’aria messa in moto dallo stantuffo sarà rappresentata nella no (fiera fina) nella corsa retrograda da m=4((0)d2+ (4/0) da), corsa diretta da ponendo per 4d(x), d,(x); d'(x) d/(x) i loro valori in funzione di d,, si ottiene = i SLA CI 25 dl = LA d, =Lfo, e quindi m=m'. La massa d’aria messa in moto dal veicolo stantuffo è la stessa, sì nella corsa diretta che nella retrograda, ed è eguale alla massa di un volume 9 di aria con densità media Di d,, che per il caso b di f=b si riduce a d,. DI G. CODAZZA. . 299 La forza viva di questa massa d’aria in moto, con velocità media z, sarà dofo n agb La resistenza delle pareti al moto di un gaz può essere rappresentata da una espressione della forma OoSLBu Sr a Ger 0) o Co) in cui d è il peso di un metro cubico di gaz, S il perimetro della sezione trasversale del condotto, Z la lunghezza di esso, £ un coefficente nu- merico che per condotti metallici Morin determinò in 0,0032. Questo numero, sebbene determinato in circostanze diverse da quella che si considera e per condotte brevi, può applicarsi anche al caso attuale in denti cui l’aria si move sotto debole pressione. Ponendo Fi in luogo di è: 3,1416 D in luogo di S; 0,0032 in luogo di {, sarà: dSf DLi bg il lavoro resistente prodotto dall’attrito dell’aria contro la superficie dei tubi in ciascuna corsa. Se si rappresenta con % il coefficente di resistenza alla trazione del veicolo, saranno Ri IRi(10) la forza viva del veicolo, e P(sen a +9cos @)L se) il lavoro resistente durante la corsa. Per l'equilibrio dinamico dovrà essere fo=3 Seo, or DLL i+ P+EPI dog (0) 86 in cul NARO dh Da questa equazione si deducono il valore di u assegnato f ed i dati pratici, ed il valore di f ove sia assegnata la u. Si ha perciò: Si 2gb(fv—EPI) 1 «=| ra e 300 TRASMISSIONE PNEUMATICA DELLA FORZA, ECC. va Pb(u+é2g1) — 2agbo—d,u°(v+0,02DL1) «+» (14) Osservo che alla (13) si può dare la forma seguente sl PA RIA UT dt (4+0, 02 DL) + si d'i=3 DSL 4 P Quando P sia piccolo ed Z grande si potrà trascurare la frazione vai In tal caso, poste le altre circostanze eguali, se suppongasi introdotto nella circolazione un gaz diverso dall’aria, rappresentando con w', d', valori per questo gaz, analoghi a quelli indicati con w, d, per l’aria, sarà Wii Gr, dla de Confronto coi sistemi a tubo aperto. Se ora si consideri un tubo aperto alla stazione lontana dalla macchina soffiante, la differenza di pressione sarà sempre d—(b—f) nel caso dell’a- spirazione, e (b+f)—d nel caso della compressione, in cui f costante. In questo caso pure si crea un volume v dallo stantuffo posteriormente a sè e sì distrugge un egual volume anteriormente. La massa d’aria messa in moto durante la corsa sarà perciò nella corsa per aspirazione nd lo) 2 (ab pl) ? nella corsa per compressione m=4(a? Po dai=® Lo% (2b4f) ò Si vede che le masse d’aria messe in moto nei due casi non sono eguali. Nella prima corsa essa equivale ad un volume v di aria con densità 2b— pen media d, 5 S , e nella seconda allo stesso volume g di aria, ma con SA : 2b+ è ; densità media d, SA . L’eccesso della massa d’aria messa in moto DI G. CODAZZA. 3oi nella corsa per compressione su quella messa in moto nella corsa per DEI aspirazione, corrisponde ad un volume v di aria con densità media po Si otterrà l'equazione dell’equilibrio dinamico per queste due corse. sostituendo 24 #=f in luogo di f nei primi due termini del secondo membro della (12), dove il segno superiore vale per la corsa per compressione e l’inferiore per quella per aspirazione. Fatta la sostituzione e risolta la risultante rispetto ad f, e rappresen- tando con f; il valore che si ottiene, si ha : ._ 20bd,(0+0,02DL1)+Pb(w +E.2g1) Lui 2gbvad,°(0+0,02DL1) SITO): Anche qui il segno superiore vale per la corsa per compressione e l’inferiore per la corsa per aspirazione. Risulta dall'esame della (16) che la propulsione pneumatica in tubo aperto richiede uno sforzo e quindi un lavoro motore maggiore, quando si faccia per compressione anzichè per aspirazione. Se con £' si rappresenti la semi-somma dei valori di f, corrispondenti al doppio segno nel denominatore e si ponga per semplicità di scrittura n=Pb(w-+E2g1), r=2ghv, s=d,u(0+0,02DLl), si avrà I 2bs+n __2bs+n __r(2bs+n) DE EE Reso e F= , che rappresenta lo sforzo motore medio nella corsa di andata e di ritorno. Paragonando questo allo sforzo f dato dalla (14) e che può scriversi sotto la forma ; n Viani) (PG x si avrà la diseguaglianza ri r(2bs+n) Tess RZ ossia da cui, riducendo 302 TRASMISSIONE PNEUMATICA DELLA FORZA, ECC. sarà quindi F=f secondo che sia 2b6rZn, ossia LgbyP=(u+82g1) Per determinare /a lunghezza I, del tubo d’aggiunta, perchè il lavoro resistente nella compressione dell’aria valga a spegnere la forza viva del veicolo, non portando la pressione oltre un limite p, designato, si avrà l'equazione 28 Nn-1 Pu 0A co (4) in cui n è sempre il rapporto fra le calorie di temperatura dell’aria a pressione costante, e quelle a volume costante. SCIENZE MORALI STORICHE E FILOLOGICHE USI à DU, Ca MEMORIE DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO _ —_- SERIE IL — TOM. XXVI _-- SCIENZE MORALI STORICHE E FILOLOGICHE TORINO STAMPERIA REALE MDCCCLKXXI. LORENZO COSTER NOTIZIA INTORNO ALLA SUA VITA E ALLA INVENZIONE DELLA TIPOGRAFIA IN OLANDA DOMENICO CARUTTI ee ——_& Approvata nell'adunanza del 3 maggio 1868 E. Sette città negli antichi tempi disputaronsi l’onore di aver dati i natali ad Omero, e una ventina si contesero il vanto della invenzione della tipografia. Erasmo a proposito di siffatte gare diceva: mihi non admodum referre videtur quo quisquam sit loco natus; et inanem quamdam gloriam arbitror , si civitas aut natio se iactavit quod unum aliquem genuerit, qui suis studiis, non patriae praesidiis magnus ac celebris evaserit. Tuttavia non sembra illodevole il sentimento da cui muove lo zelo dei nipoti nel rivendicare il patrimonio delle glorie avite, essendo questa la sola ripa- razione che la posterità possa dare alle ingiustizie dei contemporanei. Quanto poi alla invenzione della tipografia, la massima importanza del fatto scusa per fermo la caldezza delle pretensioni. Queste oggimai restringonsi agli Olandesi e ai Tedeschi, e la lite, per indeclinabile evidenza di prove, pende solamente fra Lorenzo Coster di Haarlem e Giovanni Guttemberg di Magonza; giacchè, quand’anche la critica sagace menasse buoni i richiami degli Italiani in favore di Panfilo Castaldi, il giureconsulto e poeta di Feltre, potrebbe, a rigor Serie II. Tom. XXVI. I 2 NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC. di logica, aspirare solamente al vanto di aver contribuito in parte al discoprimento magontino , e non già di essere venuto in aiuto di Lorenzo Coster (1). La Germania, unanime nell’attribuire a Guttemberg il merito della in- venzione e nel perdonare le usurpazioni e le ingratitudini di Giovanni Fust e di Pietro Schoeffer, scindesi nel determinare il tempo e il luogo del ritrovamento. Gli uni affermano che Guttemberg, sbandito da Magonza, sua patria, concepì la prima idea dei caratteri mobili nella città di Strasborgo, dove erasi rifuggito ; quivi aver faticato per metterla in pratica, ed esservi pervenuto nel 1439, quantunque, per ragioni non ben chiare, non abbia per allora impressa cosa alcuna. Altri poi, e sono i Magontini, affermano che se pure fosse vero che la intuizione dei caratteri mobili balenò alla mente di Guttemberg durante la sua dimora a Strasborgo, solamente dopo il ritorno suo a Magonza nel 1445 e dopo nuovi studi ed esperimenti egli risolse le difficoltà della esecuzione, cioè tradusse l’idea in fatto. Nel 145o si associò col banchiere Giovanni Fust, intraprese la fondita dei caratteri e cominciò la stampa della celebre Bibbia detta delle 42 linee; nel 1454 pubblicò per prima cosa due edizioni delle Zettere d’indulgenze, e nel 1455 terminò la Bibbia incominciata cinque anni innanzi. Le Lettere d'indulgenze del 1454 e la Bibbia del 1455 sono i due primi monumenti tipografici; Guttemberg è quindi il padre della nuova arte. L'Olanda non si preoccupa troppo della controversia che divide la Germania, perchè le date del 1436 e del 1439, del 1450, del 1454 e del 1455 hanno per lei importanza secondaria; può accettarle o rigettarle secondochè le giudica più o meno fondate; ma o le ammetta o le respinga, non rimane punto infermato il suo diritto alla priorità della scoperta, o per meglio dire alla scoperta vera. Secondo gli Olandesi l’idea delle lettere mobili in metallo fuso sorse ad Haarlem tra il 1423 e il 1425, e l’arte dello imprimere fu esercitata in quella città, e per la prima volta, verso il 1430; l'inventore fu Lorenzo Coster. Il 1423, cioè l’idea precede di tredici o quattordici anni la mal provata intuizione di Strasborgo del 1436 o 1437; l’anno 1430 precede di venti o ventitré anni l’ese- cuzione di Magonza. Guttemberg merita la lode di perfezionatore e (1) Vedi la Note sur Panfilo Castaldi da me inserita negli Atti dell’Accademia delle Scienze di Amsterdam, 1867. “n DI DOMENICO CARUTTI. DO) propagatore del trovato; ma in nessuna ipotesi gli appartiene quella di scopritore di un’arte, venti e più anni innanzi a lui praticata in Olanda. I titoli di Giovanni Guttemberg sono noti; quelli di Lorenzo Coster non lo sono del pari, arzi per lungo spazio vennero messi in deriso come favola, cui i buoni Olandesi naturalmente ostinavansi a prestar fede (1). Oggi le tenebre cominciano a dissiparsi. La dotta opera di Gerardo Meerman, pubblicata nel 1765, pose gli uomini savi in sospetto che la leggenda contenesse per avventura qualche particella di vero; i dubbi generarono più veementi le polemiche che provocarono nuove ricerche, e di presente , mercè gli scritti dell’inglese Otley , degli olandesi Koning e Vries, dei francesi Delaborde, Bernard e Berjeau, le proba- bilità acquistarono tanto peso che paiono quasi certezza all’indagatore imparziale. Io mi propongo di qui riassumere con discreta brevità e senza preoccupazioni nazionali che spesso fanno velo al giudizio, i fatti e le ragioni esposte dagli Scrittori ora mentovati, narrando il poco che: ci è noto intorno alla vita di Lorenzo Coster. II. Lorenzo di Giovanni (Lowrens Tanszoon), di cognome Coster, nacque ad Haarlem verso il 1370. Fin d'allora la libertà, futura madre della grandezza delle Provincie Unite, era fortemente radicata nelle istituzioni municipali delle città olandesi, le quali arricchite dal commercio e dall’in- dustria formavano una specie di federazione di piccole repubbliche, sotto l’alta sovranità dei Conti d'Olanda. Nella seconda metà del secolo XIV 1 popoli cominciarono a straziarsi miseramente fra di loro per la suc- cessione di Guglielmo IV (1355), ultimo discendente della seconda dinastia di quei loro Principi. Per centocinquant’anni le fazioni degli Hoeks (gli ami con cui prendonsi i pesci) e dei Kadbe/jauws (i merluzzi) durarono negli odii e nelle stragi, essendo le due parti olandesi, al paro (1) Il nostro dotto Vernazza non era di questa opinione. Nella sua Lezione sopra la stampa (Cagliari 1778) egli scriveva: « Memorabili sono a dir vero e di applausi degnissimi gli esperimenti che fino dal 1430 se ne fecero in Haarlem. » Sembra per altro che egli fosse indotto in errore dalla autorità di Gerardo Meerman e riputasse le stampe di Haarlem fatte in caratteri mobili di legno, errore divulgato nello scorso secolo. ; PF) i NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC. delle italiane dei Guelfi e dei Ghibellini, sopravvissute alle origimarie cagioni dei dissidi, ed avendo figliate altre sette minori che pigliavano nomi diversi nelle varie città. Nel 1417 la corona comitale pervenne a Giacomina di Baviera, le cui dolenti vicende d'amore e di regno esercitarono la vena dei poeti e dei romanzieri. Filippo il Buono, duca di Borgogna, suo cugino, dopo lunga contesa e fortuna d'armi, in cui era sostenuto dal partito degli Hoeks, la spogliò del paterno retaggio, e l'Olanda passò sotto la Gasa di Buiccra (1428 e 1436). Giovanni Coster, padre di Lorenzo, e Lorenzo stesso appartenevano alla fazione degli Hoeks. Da una lettera di grazia del duca Alberto di Baviera del 17 febbraio 1380 raccogliesi che Giovanni e i suoi consorti erano stati dal partito avversario prevalente condannati all’ammenda di 400 lire d’argento. Altra lettera del 26 maggio 1408 c'insegna che suo figlio Lorenzo fu multato in dugento nobili inglesi per aver preso parte ad una sommossa nel 1405. Lettera posteriore (26 settembre dello stesso anno) ci fa conoscere che la multa venne ridotta a sessanta nobili. Il cognome di Coster non leggesi in alcuno dei documenti contem- poranei che riguardano Giovanni o Lorenzo. Nelle lettere citate, nei registri della città e della chiesa di Haarlem, e in quella specie di obi- tuario che citeremo fra poco, Lorenzo è continuamente ricordato col nome di Zourens Ianszoon (Lorenzo di Giovanni). Nel secolo XIV e XV l’uso dei cognomi non era ancora generale in Olanda, salvo per le famiglie feudali e di alta nobiltà, così che i cittadini di più modesto lignaggio e anche i patrizi distinguevansi aggiungendo il nome paterno al loro proprio. La ‘notizia del cognome o piuttosto del soprannome di Coster ci fu conservata dallo storico Iunius, di cui parleremo in = PpiCSo il quale ne spiega anche l’origine e Petiaologia. Esso derivava dalla carica di sacrestano (Coster secondo l’antica, Koster secondo la moderna ortografia), di cui un antenato della famiglia era stato investito ‘a titolo ereditario. Ai più diligenti cercatori delle memorie costeriane non è per altro riuscito sinora di scoprire quale fosse la sacrestania posseduta dalla famiglia di Lorenzo. Questa carica , allora onorifica e lucrosa (1), di rado sostenevasi (1) ‘La sacrestania di Zeyst gettava ‘30;000:-fiorini. ‘Era ‘cortamente ‘un’eccezione e perciò l’Arci- vescovo di Utrecht se ne riservava i proventi. : DI DOMENICO CARUTTI. 5 personalmente dai titolari. I Conti di Olanda ritenevano qua e colà il diritto di nomina ad alcuni uffici municipali ed ecclesiastici, e li confe- rivano ai loro favoriti, che ne fruivano i proventi, delegando le funzioni effettive a persona da essi retribuita. Le sacrestanie numeravansi fra cotali uffici, e le investiture di esse date dal Principe abbondano nel secolo XIV e nel XV e trovansene ancora in principio del XVI Nel 1491 Massimiliano, re dei Romani, in qualità di tutore di suo figlio minore Filippo di Borgogna, conte di Olanda, concedeva al suo segretario Giacomo van Barey la sacrestania di Boverwyk. Nel 1514 un Antonio Brederode possedeva quella di Scheveningen (1). I Brederode, discen- denti dagli antichi Gonti d'Olanda, erano di sangue veramente nobi- lissimo, tantochè nel paese, per testimonianza del nostro Lodovico Guicciardini, soleasi dir per proverbio: i Wassenaer essere la casa più antica, gli Egmont la più ricca, i Brederode la più nobile (2). L'essere sacrestano in tal foggia non indica adunque nè volgare stato, nè volgari occupazioni; il che era necessario notare, perchè in Germania e in Francia si è fatto un gran ridere idel sacrestano Coster che tra una suonata di campane per vespro e un’altra per mattutino inventava la tipografia. Se non che egli non fu neppure il vero titolare di questa sinecura, come erasi erroneamente creduto , sopra tutto dopo l’opera del Meerman, che, non badando attentamente alle parole dello storico Iunius, disse Lorenzo aedituus custosve della parrocchia di S. Bavone di Haarlem. Tunius narra che la famiglia Coster, non Lorenzo, era investita della carica, e non nomina nè Haarlem, nè S. Bavone (3); ed in fatti nella serie \dei titolari di questa chiesa non è compreso il nome di alcuno dei Goster. Il diligentissimo Koning cadde nello stesso errore, quantunque il semplice riflesso che Lorenzo fu per molti anni amministratore di S. Bavone avesse dovuto scaltrirlo della incompatibilità dei due uffici (4). (1) Eclaircissemenis sur l'histoire de Vinvention de limprimerie par A. de Vries, traduit de lUhol- landais par M. Noordzick. La Haye 1848. (2) Descrittione di M. Lodovico Guicciardini, gentiluomo fiorentino, di tutli i Paesi Bassi. Anversa, 1567. (3) Ecco-le parole di Iunius: Laurentius Ioannes, cogromento aedituus custosve (traduzione latina del Coster Olandese) quod tune opimum et honorificum munus familia eo momine clara haereditario jure possidebat. : (4) Dissertation sur l’origine, l’invention et le perfectionnement de l’imprimerie par Jacques;Koning, traduit du hollandais. Amsterdam 1819. 6 NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER , ECC. I documenti del tempo chiariscono Lorenzo quale ricco ed autorevole cittadino. Nei conti della Tesoreria municipale tra gli anni 1420 e 1440 vedesi tassato coi maggiori contribuenti. Nel 1417 era uffiziale della Guardia borghese. Negli anni seguenti trovasi ascritto fra i membri del Consiglio generale che gli affidò parecchie commissioni; fu scabino, poi scabino presidente, e finalmente tesoriere della città. Il suo nome compare altresì fra gli amministratori della parrocchiale di S. Bavone, dignità ambita dalla grassa cittadinanza (1). Sposò una Catterina figlia di Andrea; e sembra che, rimasto vedovo, passasse ad altre nozze con una Imma (2). Nella seconda metà del 1439 un morbo contagioso infierì ad Haarlem. Lorenzo Coster morì in quell’anno, forse mietuto dalla malattia domi- nante. Nei Registri degli amministratori della grande Chiesa (S.Bavone) leggesi la nota della spesa fatta pel suono delle campane alla sua tumu- lazione. Quei registri, che servono quasi di obituario, sono annui; in- dicano perciò l'annata, ma non segnano il giorno e neppure il mese in cui era trapassata la persona di cui pagavansi gli onori funebri; manca perciò la data precisa della morte di Lorenzo. Tuttavia desumesi dalla comparazione dei decessi nei varii anni col numero della pagina dove è scritto il nome di Coster (tenuto. conto .della epidemia) che questi morì verosimilmente nel novembre o nel dicembre (3). Lorenzo abitava una bella e spaziosa casa sulla piazza della chiesa di S. Bavone, che crollò nel 1818, e sulla cui area ne fu edificata un’altra. In faccia ad essa sorge ora la statua di Coster, erettagli nel 1856, opera dovuta allo scultore Royer di Malines. Lasciò una sola figlia, Lucietta, sposata a Tommaso di Pietro (Thomas Pieterszoon), morto nel 1492 scabino della città. Tommaso fu padre di quattro figli, Wonter, Picter, Andries e Thomas; tutti, secondo il costume del tempo, portarono al loro nome l’aggiunto di Thomasz e (1) Ricavasi dai registri di S. Bavone che Lorenzo ricevette in ‘dono parecchie misure di vino dalla Chiesa, giusta l’usanza di quei tempi allorchè volevasi onorare una persona e riconoscerne i servigi, ovvero quando tenevansi adunanze degli amministratori per negozi della parrocchia. Il Meerman, male interpretando quelle indicazioni, le addusse come prova che Coster era veramente sacrestano di S. Bavone. Vedi a questo proposito gli schiarimenti minuti del sig. Vries nella citata sua opera, da pag. 100 a pag. 107. Alcuni scrittori tedeschi poi (strano a dirsi) dalla menzione di quel vino trassero la conseguenza che Lorenzo teneva osteria od era per lo meno mercante di vino. (2) Koning, loc. cit. (3) Vries, Eclaircissements, etc. DI DOMENICO CARUTTI. 7 Thomaszen (figlio di Tommaso), che diventò cognome della famiglia. Wonter fu. segretario della-città e morì giovane; gli altri tre sostennero parecchie volte la dignità di borgomastri: Picter e Andries perirono nella sollevazione dei contadini detta del Kaas en broodsvolk (cacio e pane), che impadronitisi nel 1492 di Haarlem, la contaminarono di sacco e di sangue. Gerardo Thomaszen, pronipote di Picter, fu consi- gliere amministratore della Chiesa e tesoriere degli edifizi pubblici; viveva ancora nel 1558. Tommaso Thomaszen fu dieci volte borgomastro tra il 1583 e il 1599. Il casato si estinse nel 1724 (1). La discendenza di Lorenzo Coster per via di femmine è dunque nota;.non così l’ascendenza oltre il padre. Nel secolo XIV fioriva in Olanda ed in Haarlem un nobile casato dei Coster, a cui taluni credono appartenga il nostro Lorenzo. Parecchi membri di questa famiglia furono sepolti nella Badia di Egmont, ultima dimora della primaria nobiltà di Haarlem e della pro- vincia. Il Necrologium egmundanum ne registrò il nome coll’aggiunta : detto Coster (2). Fu scoperta negli Archivi di Haarlem una lettera d’ufficio sotto- scritta da Lorenzo in qualità di scabino nel 1422, a cui appose il proprio sigillo. Questo rappresenta un leone rampante col lambello sul petto ed una trasversale obliqua da diritta a sinistra; arma che rassomiglia a quella dei Brederode. Parecchi Scrittori argomentano da ciò che tanto Lorenzo quanto i Coster predetti discendessero da quella principesca Casa (3). (1) V. Meerman, Origines Typographicae, Tom. p., pag. 54. HE (2) Il sig. Bernard nella veramente accurata sua opera (De l’origine et-des debuts de l’imprimerie en Europe, Parigi 1853, due vol.) dice che l’illustre famiglia di questi Coster ze peut avoîr aucun rapport avec la famille (di Lorenzo) surnommee Coster, tout court. To pendo anche verso quest’opi- nione, ma la ragione con cui il sig. Bernard la conforta, non ha buon fondamento. Il Mecrologium Egmundanum non scrive Guglielmo Coster, ma Guglielmo DETTO Coster, senza più, tout court. Ecco in prova tre registrazioni: /71/lem, dit Coster, mort le 1.er février 1302; Iacob Willemsz, dit Costersz, mort le 24 octobre 1359; Gertrude femme de Willem, dit Costersa, mort le 2 décembre ..... L’obbiezione del sig. Bernard si ritorce adunque contro la sua tesi. (3) Il Meerman, ingannato da quella sbarra che considera come segno di bastardigia, sostiene che Lorenzo non apparteneva ai Coster sovra citati, ma bensì alla nobile famiglia dei Van der Duyn che ha per stipite un Teodorico, figlio illegittimo di Aferdo nono signore di Brederode. Esaminate le armi dei Van der Duyn, fu riconosciuto che non portavano sbarra nè a destra nè a sinistra. L'albero mermaniano che al pari di tanti altri alberi genealogici non reggeva di per se stesso alla critica documentata, rimase così privo dell’unica sua radice. 8 NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC. Quantunque io mi sappia che male si ponno trattare da penne fo- restiere certi punti di storia domestica, mi farò tuttavia lecito di ‘osser- vare di passata, che se con ragione affermasi essere quasi impossibile il sospettare che a quei tempi un cittadino facesse pubblico uso di armi a cui non avea diritto, non ne conseguita strettamente che l’uso di un’arma sia di per sè solo una irrefragabile prova di parentela. Ol- trechè sarebbe giocoforza supporre, in tale ipotesi, che lo storico lunius, il quale scriveva viventi i discendenti di Lorenzo (i Thomaszen), ignorasse quell’alta origine. Il diligente annalista, così sollecito di farci conoscere che l’inventore della tipografia apparteneva ad una famiglia honesta et ingenua, haud servili; l’amico di Gerardo Thomaszen, quem scrive egli, honoris caussa nomino, non avrebbe potuto ignorare che i Coster erano un ramo dei Brederode e che il lor sangue derivava dagli antichi sovrani dell'Olanda. E.sapendolo non l'avrebbe certissimamente taciuto, egli che consacra un lungo capitolo del suo libro (1) ad illustrare le nobili Case batave, quas aut priscis saeculis extitisse comperimus aut superior aetas et avita memoria cognovit, aut praesens quoque sustinet. Invece di ado- perare tre o quattro aggettivi che sembrano eletti per isgomberare dalla mente dei lettori le false conseguenze della sacrestania, Iunius, amatore di brevità studiata (2), non avrebbe scritto od avrebbe cancellato quell’Razd servili, e ricordandosi di Mecenate avrebbe, parlando di Lorenzo, sela- mato con Orazio: Atavis edite regibus. La quale considerazione mi fa eziandio argomentare che Lorenzo di Giovanni non appartenga per avventura al casato dei Coster premen- tovati, ove questi fossero veramente nobili, come pare; imperocchè lo storico se non ne avesse potuto collocare il legnaggio fra gli w/lustriores nobilioresque gentis batavicae, l'avrebbe senza fallo qualificato quale stirps, progenies, domus extra controversiam cum antiquitate coniunctam habens nobilitatem (3). (1) Gap. xIx. De zobilitate batarica. (2) Zx scribendo Suctonium, cui familiare fuit amare brevitatem, sequi malui, dichiara egli nella dedica della Batavia. j (3) Parole di cui Iunius si serve discorrendo di altre Case nobili olandesi. Un’altra ragione fa dubitare della identità delle due famiglie. Giovanni e Lorenzo, come sì è detto; sono sempre in- dicati nei documenti contemporanei col nome battesimale e il: patronimico; per contrario gli altri Coster sono designati negli atti pubblici col semplice lor cognome e nel Necrologium col sopra- DI DOMENICO CARUTTI. (9; Checchè ne sia, le disquisizioni intorno alla origine del cittadino alermitano non debbono avere altro intento fuorchè quello di stabilire che la condizione patrimoniale di Lorenzo lo abilitava a volger l’animo ed a consacrare il tempo all’eseguimento di una invenzione che ricercava coltura di mente e qualche capitale alla mano. Ora le patrie magistrature. sostenute dal cittadino di Haarlem, la sua partecipazione ai pubblici negozi, le ricchezze, la vasta dimora e le armi sue gentilizie sono prova sufficiente di comodo stato, e del non essergli difettati i mezzi di con- durre ad effetto la sua scoperta. In un paese dove la stampa silografica era in fiore, in. un paese d’industria e di mercatura, un tal uomo sapea pure che il tempo e la moneta impiegati nell'impresa non sarebbero gittati. Più avventuroso di Guttemberg che, nelle strettezze del bisogno, dovette ricorrere ad un ingordo e sleale banchiere e rivelargli il segreto disegno in cui si travagliava, per averne poco danaro a crudele usura, Lorenzo Coster era in grado di bastare di per sè solo alle spese dei primi esperimenti, delle lunghe incertezze e dei mal riusciti saggi. Padrone del segreto e di un’arte che sostituiva la tipografia alla si- lografia e al manoscritto, fu solamente sollecito della fedeltà e della discrezione degli operai ai quali in processo di tempo dovette far ricorso. Le notizie fin qui esposte sono le sole e le scarse che i documenti contemporanei ci somministrano intorno alla persona di Lorenzo. Niuna carta, cronaca o testimonianza dell’età sua addita o fa sospettare che egli fosse o uomo di lettere, o amator di libri, o negoziante di manoscritti, o maestro di orificeria o lavorator di metalli. Naturalmente non avvi cenno del suo trovato, perchè il Coster dovea custodirne gelosamente il segreto al pari di Guttemberg. Solamente dopo la morte sua, e vero- similmente quando l’arte nuova esercitata in Magonza e di là diffusa in Europa levò altissimo grido, conobbesi in Haarlem che Lorenzo Coster ne era stato l'inventore e che molti anni prima dei Magontini avea im- pressi parecchi libri in caratteri mobili. Riteniamo ora le date cronologiche, occhio della storia: Lorenzo nome: detti Coster. Questa diversità di denominazione arguisce diversità di famiglia, tanto più che Lorenzo visse e morì dopo gli antichi Coster. Le spiegazioni del sig. de Vries non mi sembrano soddisfacenti, perchè un cognome illustre non si perde nella memoria dei cittadini, quando chi lo porta ne mantiene l’onoranza, come il nostro Lorenzo; e chi lo porta non lo tace e nasconde negli atti pubblici che sottoscrive egli stesso. Del resto il cognome Coster non era allora e non è adesso raro in Olanda. Serie II. Tom. XXVI, a IO NOTIZIA INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC. Coster morì nel novembre o nel dicembre del 1439, undici anni prima della società stipulata dal Guttemberg con Giovanni Fust, e quattordici anni prima delle Zettere d’indulgenze del 1454. Le edizioni costeriane uscirono conseguentemente prima del 1439, e la prima di esse prece- dette probabilmente di una ventina d’anni almeno le prime opere #ipo- grafiche di Guttemberg. Accostiamoci alle testimonianze coetanee del fatto, prima di chiedere agli Storici posteriori più abbondanti memorie intorno all’inventore. HI. Il più antico storico o cronista che faccia menzione della scoperta della tipografia, è la cronaca anonima di Colonia, stampata in questa città nel 1499; col titolo di Cronica van der Hilliger stat van Coellen. L'autore consacra un capitolo alla invenzione della nuova arte ed in esso leggesi: « Item, quest'arte degnissima fu primieramente inventata » in Alemagna a Magonza sul Reno. E torna ad insigne onore della » nazione tedesca il trovarsi in essa uomini cotanto ingegnosi. E ciò » intervenne verso l’anno di nostro Signore 1440. E dopo questo tempo » sino all'anno 50, quest'arte e tuttociò che vi si riferisce, fu per- » fezionata. E nell’anno del Signore 1450 che fu un anno d’oro (l’anno » del giubileo) si cominciò ad imprimere, e il primo libro che si stampò, » fu la Bibbia in latino, e venne impressa con i grossi caratteri che » oggidì usansi nella stampa dei messali. » Item, quantunque quest'arte sia stata trovata a Magonza, come » abbiam detto, nella maniera in uso, tuttavia, i! primo abbozzo di » essa fi inventato in Olanda coi DONATI, che sono stati stampati » in quel paese prima di quel tempo, e da questi DONATI e per mezzo » di essi data il cominciamento di detta arte. È l’arte presente è molto » più prestante e sottile che non era quella prima maniera, e col tempo » si fece più perfetta ... » Il primo inventore della stampa fu un borghese di Magonza che » era nativo di Strasburgo e che si chiamava messer Giovanni Gu- » denburg (Guiemberg:). » Item, da Magonza quest'arte fu portata prima a Colonia, poi a » Strasburgo, in seguito a Venezia. L’origine e i progressi della detta DI DOMENICO CARUTTI. 1I » arle mz sono stati raccontati dall'onorevole uomo maestro Ulrico Zell » di Hanau attualmente ancora stampatore a Colonia in quest'anno 1499 » e da cui quest'arte fu portata a Colonia. » Il cronista è tedesco, e stampava in Alemagna l’opera sua, nella quale pure ascrivendo a Magonza e alla nazione germanica la gloria della nuova arte, ci fa conoscere che i primi saggi, ossia l'invenzione erano dovuti all’Olanda, e che dai Dorati colà impressi prima del 1440 prende data la scoperta. Lo scrittore per dare autorevolezza alle sue parole, c'informa quindi che le notizie da lui riferite le ha ricevute dalla propria bocca di Ulrico Zell, di Hanau, tipografo tuttora vivente a Colonia stessa. Siffatta testimonianza è la più preziosa che si possa desiderare. Ulrico Zell era contemporaneo di Guttemberg ed avea imparato l’arte sotto di lui a Magonza, donde dopo il 1462 si trasferì a Colonia e vi aprì officina. Egli non avea motivo alcuno di tradire la verità, perchè “le polemiche e le gare nazionali non erano ancora sorte al tempo suo fra la Germania e l'Olanda; egli narrava il vero colla semplicità di un testimonio oculare; nè perciò veniva meno la sua ammirazione verso il maestro da cui avea senza fallo udito il racconto del fatto. Nè questa sarà la minor lode dovuta a Giovanni Guttemberg, perchè, come è certo che egli nei libri da lui impressi o in altri documenti mai non si proclamò inventore primo, così rimarrebbe dimostrato eziandio che di- chiarava candidamente a’ suoi allievi donde avesse attinta l'idea dell’arte di cui fu secondo padre. Che fra i primi stampatori tedeschi a Magonza fosse conosciuta la derivazione dell’arte da Haarlem, raccogliesi da altri riscontri. È. noto che i primi libri a stampa usciti in Italia furono impressi nel Monastero dei Benedettini di Subiaco, per opera di Corrado Sweynheym e Arnoldo Ponnartz, chiamativi di Germania da quei religiosi, ed usciti ambidue dalla scuola di Guttemberg. Al paragrafo della cronaca del Monastero che registra questo fatto, il P. Cherubino Mirtius, nativo di Treveri e vivente nel chiostro italiano, notava in margine all’anno 1453 che l'in- venzione era stata fatta « in civitate Hollandiae Harlem per Ioannem Cutenbergum, quae tandem ars postea Maguntiae per dicti inyentoris famulum in meliorem redacta fuit excudendi formam. » La confusione del nome di Guttemberg con quello di Coster pro- viene da un errore che invalse più tardi, ma dalle parole del Benedettino 12 NOTIZIA INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC. s'inferisce che durava a Subiaco la tradizione della scoperta fatta ad Haarlem, tradizione che è lecito far risalire a Corrado e Arnoldo, al pari dello Zell, allievi di Guttemberg. Nella Bibliotheca Vaticana di Angelo Rocca trovasi pure che Ma- riangelo Accursio, un nostro dotto napoletano, vissuto lungamente in Allemagna nella prima metà del secolo xvi, scrisse la seguente anno- tazione sulla prima pagina di un Donato, posseduto da Aldo il giovane. « Giovanni Fust, cittadino di Magonza, avo materno di Giovanni » Schoeffer, primo ideò l’arte d’imprimere con tipi di rame, e poi in- » ventò quelli di piombo, e molte cose a perfezionare l’arte n’aggiunse » Pietro Schoeffer. Questo Dorato poi, e i Confessionalia furono prima » d’ogni altra cosa impressi nel 1450. Certo egli fu instruito dal Donato » d’Olanda prima impresso in tavole fisse (1). » Riccardo Atkins, in un libro pubblicato nel 1664 sopra l’origine della tipografia e la sua introduzione nella Gran Bretagna, espone che in un manoscritto conservato a’ suoi tempi a Lambeth-House (palazzo dell’ar- civescovo di Cantorbery a Londra) leggevasi come a gran fatica il re Enrico VI pervenne a corrompere con danaro ed a condurre in Inghil- terra un operaio di Haarlem dove Giovanni Guttemberg avea nuovamente inventata l’arte e l’esercitava occultamente, dalla quale città di Haarlem fu poi trasportata a Magonza che male chiama sè stessa artis typogra- phicae inventricem primam. Il racconto di Atkins fu impugnato ne’ suoi particolari, anzi taluni lo credono una favola da lui congegnata; tuttavia il cenno intorno ad Haarlem conferma la tradizione antica in favore del- l'Olanda (2). Pare che nel secolo seguente siasi cominciato a disputare fra Olan- desi e Tedeschi del vanto della scoperta o in carteggi fra letterati come usavasi generalmente allora, ovvero in qualche opuscolo che non giunse sino a noi. Infatti il più antico scrittore olandese conosciuto che alluda al Coster, allude in pari tempo alla controversia magontina. Questi è Giovanni van Zuyren, giureconsulto di Haarlem, il quale tra il 1549 e il 1561 compose un dialogo intitolato : Zurenus Zunior sive de prima et inaudita hactenus et veriore tamen artis typographicae inventione. Disgraziatamente questo dialogo, che avrebbe risparmiate (4) I Donati olandesi di Haarlem sono impressi in caratterì mobili, come ora tutti ammettono. (®) Paeile, Essai historique et critique sur l'invention de l’imprimerie, già citato, 9 DI DOMENICO CARUTTI. 13 agli antiquari e ai bibliofili tante faticose ricerche e biliose polemiche, era già perduto nel principio del seicento e se ne conservavano solo alcuni frammenti che Pietro Scriverio inserì nella sua Corona d'alloro (1). « Qui nacque (scrive lo Zuyren) e vide la luce (sia detto con pace dei Magontini) la tipografia, e formaronsi le sue membra in guisa che poi potesse crescere; lungo tempo per fermo, a guisa di fanciulli dianzi nati, fu allevata e per così dire modellata ; durante lunghi anni qui stette fra private pareti, ora spogliate ed orbate miseramente di parto così glorioso ... Qui, qui veramente essa ricevette gran tempo tenue e parco nutrimento, e troppo rimase celata, finchè, quasi dispregiando le angustie e le povertà del domestico focolare, si diede in braccio ad uno straniero; lasciate le patrie rozzezze, trovate am- plissime sostanze, in ultimo si rese di pubblica ragione a Magonza ecc. » Diderico Coornhert, pensionario di Haarlem, nella dedica della sua traduzione de Officiis di Cicerone, stampata nel 1563, mostrasi più esplicito ancora: « Soventi volte (egli scrive) da specchiatissimi e pru- » » » » » dentissimi personaggi mi fu in buona fede narrato che l’arte utilissima della tipografia fu dapprima scoperta in questa città di Haarlem, quantunque in forma assai rozza; imperocchè l’emendare le cose in- ventate e condurle a maggior grado di perfezione, riesce più facile che inventar cose nuove. Di poi un perfido servitore trafugò quest'arte a Magonza, resela colà più perfetta; e procurò a quella città il grido della invenzione, quando la scoperta fu divulgata; tantochè i nostri concittadini, appena presso i pochissimi ottengono fede, allorchè ascrivono quest’onore al vero inventore. Ma perchè la verità, quan- tunque a pochi sia nota, rimane tuttavia sempre la verità, perciò io credo fermamente le cose sopranarrate, convinto dal testimonio di personaggi gravi per età ed autorità, che spesso mi ragguagliarono non solo intorno alla famiglia dell’inventore alermitano, ma eziandio del suo nome e cognome, anzi mi descrissero i primi più rozzi modi della stampa, e mostravanmi a dito la casa del primo tipografo (2). » Più precisi ragguagli, nell’ordine del tempo, ci sono dati da un nostro italiano, Lodovico Guicciardini, nipote del grande Francesco, vissuto la miglior parte della sua età in Anversa, ed autore della (1) Schrijver, Laurecrans von Laurens Coster. Harlem, 1628. (2) Ho tradotto questo passo della traduzione latina del Meerman, vol. II, pag. 193 e seg. NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER ECC. -— r x Descrizione dei Paesi-Bassi. Nel proemio dell’opera egli nota che « attri- » buiscesi gloria particolare alla Belgia di essere stata inventrice di più » cose memorabili, e prima ella avere trovato nella città di Magonza, » benchè alcuni voglino (come più avanti si dice) fosse nella città di » Haarlem la stampa, cioè il modo di stampare i libri o altro in carta; » invenzione tanto divina che se li nostri più antichi l’avessero ritrovata, » il tempo nè la barbarie degli uomini non ci potevan privare di in- » numerevoli libri o d’altre memorie venerande in tutte le scienze, » composte da uomini egregi. » Poi nel capitolo consacrato ad Haarlem, così scrive: « In questa terra non solo per voce pubblica, ma ancora » per alcuni scrittori e per altre memorie si trova che fu primieramente » inventata l’arte dello imprimere e stampar lettere e caratteri in foglio » al modo d'oggi; imperò venendo l’autore a morte innanzi che l’arte » fosse in perfezione e considerazione, il servidore suo (secondo dicono) » andò a dimorare a Magonza, ove dando lumi di quella scienza, fu » raccolto allegramente e quivi dato opera con ogni diligenza a tanto » negotio, ne vennero all’intiera notizia e total perfezione, onde è poi » volata e inveterata la fama che di quella città sia uscita Varte e la » scienza della stampa: quel che ne sia della verità, non posso né » voglio giudicare, bastandomi di averne tocco un motto per non pre- » giudicare quella terra e regione. » L’opera del Guicciardini, tre volte stampata in Anversa (1), tradotta in latino, francese, olandese, inglese e tedesco, divulgò le pretensioni di Haarlem, e gli scrittori che in progresso ragionarono di quella città e della scoperta della tipografia, seguirono per lo più la sua narrazione. Così fecero Abramo Ortelius nel Zheatrum orbis terrarum, stampato in Anversa nel 1574, Michele Actingerius nel Zeo Be/gicus, tradotto da lui stesso in tedesco ed uscito a Colonia nel 1584, e Giorgio Bruin nelle sue Civitates orbis terrarum, impresse tra il 1570 e il 1588 a Colonia. Alla stessa sorgente attinse il nostro Natale Conti nella sua (1) Descrizione di M. Lodovico Guicciardini, patrizio fiorentino, di tulti i Paesi-Bassi, altri- menti delti Germania inferiore. In Anversa MDLXvII appresso Guglielmo Silvio, in 4°. La data della dedica al re Filippo II di Spagna è del 20 ottobre 1566. Descrizione di M. Lodovico Guicciardini ecc. Riveduta di nuovo ed ampliala per tutto più che la metà dal medesimo autore. In Anversa apresso Christofano Plantino MDLXXxXI. Descrittione di M. Lodovico Guicciardini ecc. Riveduta di nuovo ed ampliata per tutto la terza volta dal medesimo autore. In Anversa, apresso Christofano Plantino MPDLXXXvHI. Î DI DOMENICO CARUTTI. 9) Universalis historia sui temporis, pubblicata a Venezia nel 1572, ma con parole, e concetti che arguiscono altre autorità da lui pure con- sultate. Dopo aver detto che Haarlem è cospicua a cagione della in- venzione della tipografia , parlando dell’inventore, soggiunge: Qui cum rudem quandam rationem prius invenisset uti sunt res prope omnes recens ortae, habuit famulum satis callidum et artis domini observantem. Famulus, mortuo magistro, ubi Maguntiacum adisset, artem ad me- liorem rationem perduxit, atque inde ditita est fama quod eius urbis fuit inventa. Non sarà sfuggito al lettore che niuno di questi autori, a qualunque nazione appartengano, nomina l’inventore. Il nome di Lorenzo Coster e i particolari della sua scoperta leggonsi per la prima volta nella Bazavia di Adriano Tunius, stampata ad Anversa nel 1588. In Italia sarà lecito domandare chi sia Adriano Iunius, quando nel 1836 Pietro Scheltema, olandese, scriveva nella patria sua: Qui autem fuerit Iunius, quantaque eius sint merita literaria, paucissimi quidem hodie tenent (1). Eppure egli fu a’ suoi tempi chiarissimo filosofo, poeta, medico e storico, e venne qualificato dai coetanei per un secondo Erasmo. Ora è ricordato ancora in grazia delle memorie che ci lasciò intorno a Lorenzo Coster. IV. Adriano di Zorge, in latino Zunius, nacque ad Hoorn nel 1511, studiò ad Haarlem ed a Lovanio. Passò in Germania ed in Italia a perfezionarsi negli studi. A Bologna fu accolto in casa dei conti Pepoli, e il 18 di marzo 1540 fu ricevuto Dottore in quell’Università nella guisa stessa che Erasmo lo era stato in quella di Torino. Esercitò l'arte medica in In- ghilterra e in Danimarca; nel 1564 rimpatriò, ed Haarlem lo deputò Medico della città e Direttore delle scuole latine. L’anno seguente gli Stati d’ Olanda gli affidarono il carico di scrivere la storia della patria. La dettò in latino, come tutte le altre sue opere, facendo studio di stringata brevità, e dichiarando di voler imitare Svetonio nello stile. (1) Diatribe in Hadriani Iunii vitam, ingerium, familiam, merita literaria. Scripsit P. Scheltema. Amstelodami 1836. 16 NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DE LORENZO COSTER, ECC. Nel i570 avea terminato il primo volume, e nel marzo presentavalo agli Stati colla dedica portante la data del 7 gennaio. Ma la rivoluzione dei Paesi Bassi contro la Spagna, che allora incominciava, ne impedì la stampa. Tunius ritoccò il suo lavoro, cambiò la data della dedica e della prefazione, ma non ebbe il compiacimento di vederlo pubblicato. Morì il 16 di giugno 1575, e la Batavia vide la luce solamente nel 1588 per cura di Pietro di Ionge suo figlio (1). Ecco ora le memorie conservateci dallo storico. Dopo aver proemiato dicendo che ad Haarlem spetta la gloria della inventata tipografia, e non a Magonza, Iunius informa il lettore che ha attinte le sue notizie da uomini gravissimi, amministratori della repub- blica e di grande età, che affermavano di averle ricevute dai loro mag- giori. Narra quindi che Lorenzo, passeggiando un dopo pranzo nel bosco di Haarlem, prese per diletto a scolpire le lettere dell’alfabeto in alcuni pezzi di corteccia di faggio, e che ponendo questi tipi alla rovescia e imprimendoli lun dopo l’altro su di un pezzo di carta, compose alcuni versetti per insegnare a leggere a’ suoi piccoli nipoti. Come Galileo con- templando per caso il movimento ondulatorio della lampada nel duomo di Pisa, e Newton vedendo cadere un pomo nel suo podere di Woolstropp, pervennero , da somiglianti fortuiti accidenti, a discoprire, il primo le leggi del pendolo, l’altro le leggi della gravitazione universale; così Lorenzo Coster, incidendo per passatempo alcune lettere nella corteccia di un albero, concepì l’idea dei caratteri mobili (2). Se ne aprì con Tommaso di Pietro suo genero, il quale compose un inchiostro più glutinoso e tenace di quello che usavasi nella silografia e nello scrivere a penna; poi cambiò i caratteri di legno in altri di piombo fuso, e più tardi di stagno (faginas formas plumbeis mutavit, has deinceps stanneas fecit). Stampò allora lo Speculum humanae salva tionis, tradotto in olandese e ornato d’incisioni in legno. Lo Speculum, chiamato da Iunius operarum rudimentum, fu perciò il primo libro stampato alla moderna. Lo storico nota che dopo la morte di Lorenzo gli eredi suoi fecero fondere i rimasugli di quei caratteri per formarne (1) Hadriani Junii, hornani, Medici. Batavia, ex officina plantiniana apud Franciscum Ruphelengium; CIO. IO LAXXVIII. Un vol. in-4° piccolo. 11 Catalogo delle opere di Iunius leggesi nel p. Niceron, Mémoires des Hommes illustres, e più compiuto, nella dissertazione del sig. Scheltema sovra citata. (2) Essai historique et critique sur l’invention de l’imprimerie, par Ch. Paeile. Paris et Lille, 1859. DI DOMENICO CARUTTI. 17 bocce da vino che nel 1567 vedevansi ancora nella casa del Coster, abitata in ultimo da Gerardo Thomazen suo pronipote (1). L'esperimento essendo riuscito a bene, e lo spaccio dei libri cre- scendo, Lorenzo chiamò operai stranieri alla famiglia nella sua officina. Uno di questi avea nome Cornelio, che esercitò poscia il mestiere di legatore di libri e di libraio, l’altro era detto Giovanni. Tutti doveano promettere con giuramento di non rivelare il segreto. L’operaio Giovanni, iniziato in tutti i misteri del trovato (iurgendorum characterum fusilium iyporum) nella notte del Natale del 1439, cioè poco dopo la morte di Lorenzo Coster, involò alcuni tipi ed altri istromenti, fuggì ad Amsterdam, poi a Colonia, indi a Magonza, dove aprì tipografia, e nel 1442 con quegli stessi tipi trasportati da Haarlem pubblicò il Doctrinale di Ales- sandro Gallo, e i Zrattati di Pietro di Spagna. Iunius scrive che sospettavasi (fert suspicio ) che l'infedele Giovanni fosse il famoso Giovanni Fust di Magonza, ma soggiunge che poco im- portava a lui l’ appurare la verità di questo fatto, cioè di ricercare se Giovanni Fust o un altro Giovanni fosse l’autore del furto, quod si- lentum umbras inquietare nolim, contagione conscientiae quondam, dum viverent, tactas. Dopo aver ripetuto che ha raccolti tutti questi particolari da uomini di fede degnissimi, qui tradita de manu in manum quasi ardentem tedam in decursum acceperant, cita Nicolao Galio suo percettore, e Quintino Talesio, l’amico di Erasmo, il generoso borgomastro di Haarlem, mi- seramente ucciso dagli Spagnuoli nel celebre assedio del 1573. L'uno e l’altro, essendo giovanetti, aveanli uditi dalla bocca del vecchio le- gatore Cornelio, il quale, al ricordo del furto e della gloria furata al vecchio suo padrone, piangeva tuttavia di sdegno e malediceva le notti passate nello stesso letto del ladro, a cui dicevasi pronto a farla da gran giustiziere se l'avesse fra le mani (2). (1) Le incisioni în legno, di cui sono ornate le edizioni dello Speculum, passarono poscia nella oflicina di Valdenner a Calembourg, che nel 1483 fece due edizioni più complele dell’opera stessa. (2) L'esistenza di questo Cornelio fu recentemente comprovata dalla scoperta di tre documenti: 1° nei conti della fabbriceria di S. Bavone del 1474 trovansi registrati sei fiorini del Reno pagati a Cornelio il legatore; 2° su di‘un esemplare dell’opera di Bartolomeo di Glanville de proprietatibus rerum, tradotta in olandese e stampata ad Haarlem nel 1483, leggesi questa nota: comperato ad Haarlem, via della Croce, presso Cornelio il legatore, nell’anno 1492; 3° dai registri di S. Bavone risulta che egli morì nel 1522 più che centenario. Serie II. Tom. XXVI. 3 15 NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC. Dalla narrazione di Adriano Tunius risultano adunque tre fatti capitali intorno a cui aggiransi tutte le discussioni sulla origine della tipografia, cioè 1° che per antica e non interrotta tradizione la città di Haarlem attribuivasi il merito della scoperta; 2° che l'inventore ne fu Lorenzo Coster, il quale stampò parecchie opere che ci rimangono; 3° che dopo la morte del Coster la nuova arte fu da un operaio sleale trasportata a Magonza, e colà esercitata cogli stessi tipi costeriani. Tunius era uomo di vasta dottrina, non un oscuro raccoglitore di volgari dicerie; dettava il suo libro e lo presentava agli Stati d'Olanda, mentre vivevano i discendenti di Coster, principali nella città; parlava ad uomini versati nelle cose patrie e che asseveravano le cose da lui nar- rate; mostrava a dito le case laurenziane e i vasi fabbricati coi primi caratteri tipografici; finalmente citava i monumenti tipografici di Lorenzo e quelli dell’operaio rifuggitosi a Magonza. L'autorità di Adriano Tunius non potrebbe di per se stessa impugnarsi leggermente, perchè le presunzioni stanno in suo favore, ed a chi la contesta , incombe l'obbligo di dare le prove in contrario.. ‘ Reca quindi maraviglia che nel 1852 un uomo benemerito dell’arte tipografica, Ambrogio Firmino Didot, abbia potuto scrivere: 72 faut desormais releguer au vaste amas d’erreurs et méme de mensonges que l'invention de l’imprimerie a suscites de toute part, le récit fabuleux de Iunius..... L'existence méme de cet imprimeur (Coster) me parait plus qu'incertaine ; je n'y vois qu'une de ces fraudes pieuses semblables à tant d'autres qu’ont fait naître soit l'amour national, soit l'orgueil per- sonnel (1). AI lettore discreto il giudicare il giudizio del sig. Didot. A- compimento della narrazione gioverà notare che del Doctrinale di Alessandro Gallo non aveasi altra notizia sino a questo secolo, se non quella data da Iunius. Poteasi creder favola l’esistenza di quella stampa. Ora venne ritrovata, e ciò conferma l'esattezza dello storico. Inoltre lo stesso aneddoto dell’operaio del Coster riscontrasi con un fatto di grande importanza, di cui ci lasciarono memoria gli Scrittori tedeschi. Giacomo Wimfeling (1449-1528), che avea probabilmente cono- (1) Essai sur la typographie. Paris, 1852. DI DOMENICO CARUTTI. 19 sciuto Guttemberg di persona, nel suo Epitome rerum germanicarum scrive che questi primus artem impressoriam, quam latiniores excusoriam vocant, in urbe Argentinensi invenit; inde Magunciam veniens eandem feliciter complevit. Poi nell'altra sua opera, Catalogus Episcoporum Ar- gentinensium , soggiunge : Nobilis ars impressoria inventa fuit a quodam Argentinensi , licet incompleta ; sed cum is Magunciam descenderet Ap ALIOS IN HAC ARTE LABORANTES. .....4 ars completa et consummata est. A Magonza adunque altri stavasi adoperando in opere di stampa prima di Guttemberg ; il che concorda a capello con quanto assevera Iunius dello stampatore del Doztrizale e dei Trattati di Pietro di Spagna. Ma c'è di più: la testimonianza del Wimfeling è posta in sodo dalle famose Zettere d'indulgenze del 1454 e 1455, due edizioni delle quali appartengono a Guttemberg, e due altre ad un tipografo ignoto. Se impertanto è certo che a Magonza, prima della Bibbia delle 42 linee, e contemporaneamente all'impressione di questa, eranvi officine tipo- grafiche, il cenno intorno all’operaio di Coster non parrà più una fola da romanzo (1). V. Le opere generalmente attribuite a Lorenzo Coster sono le seguenti : Lo Speculum; quattro edizioni ; I Donati; parecchie edizioni ; Catonis disticha ; Laurentiù Valensis Facetiae morales, a cui fa seguito Francisci Petrarchae de salibus virorum illustrium ac facetiis tractatus (2); Ludovici de Roma singularia in causis criminalibus ; Horarium ; Alexandri Galli Doctrinale (di Giovanni operaio del Coster). Al pari dei libri silografici, nessuna di queste opere porta nome d'autore, o data, o indicazione di città. Lo Speculum per altro reca seco la prova della sua origine olandese. (1) Vedi Bernard, op. cit., première partie, chap. IV, pag. 171. (2) Parecchi bibliofili, fra cui il sig. Bernard, notano il Valla e il Petrarca come due stampe diverse. Invece formano un solo volume, e il Petrarca comincia alla metà della pagina in cui finisce il Valla. 20 NOTIZIA INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC. Delle quattro edizioni due sono in lingua latina e due in olandese. L'una delle iatine in carattere gotico contiene venti pagine silografiche, e cinquantadue in caratteri mobili di metallo fusi nella sabbia (1), come opinano i più recenti bibliofili. Le edizioni latine e le olandesi escono dalla stessa officina, come lo provano le stesse incisioni in.legno che le accompagnano tutte; laonde, siccome la traduzione olandese non potè essere stampata fuorchè in Olanda, conseguita che tutte e quattro furono impresse nello stesso paese. Il che non essendo dai bibliofili contraddetto, occorre appena accennare a materiale riprova che la fila- grana della carta rappresenta le armi di: Borgogna. Disputasi bensì quale sia l’ordine cronologico delle varie edizioni, e può dirsi che adhuc sub iudice lis est. I più valenti illustratori dello Speculum, Otley, Holtrop, Berjeau sostengono opposte sentenze (2): ma la divergenza delle opinioni a questo riguardo non si attiene alla que- stione dello scoprimento della stampa. Qualunque conclusione si adotti, la critica trovasi sempre di fronte a questo dilemma: o conviene ammet- tere che in Olanda si è stampato alla moderna molti anni prima del Guttemberg, ovvero dimostrare che i libri di Haarlem sono posteriori al Coster e alle prime edizioni magontine. Nessuno ha potuto sinora somministrare le prove che io Specu/um e i Donati siano opere di altro stampatore conosciuto e posteriore al 1440: per la qual cosa, se si elimina Lorenzo Coster, lo SpecwZum rimane un’ incognita nella storia. Abbiamo già accennato perchè l’Alermitano, di suo vivente, non abbia lasciata memoria della sua invenzione. Anzichè divulgare, egli volea tenere occultissimo il trovato per averne il monopolio, imitato in ciò esattamente dal Guttemberg, come è noto. Nè il Magontino stesso stampò il suo nome sotto alcun libro, e se il processo di Magonza non togliesse 1 dubbi, contenderebbesi forse oggidì se la famosa Bibbia delle 42 linee sia opera sua. (1) Gerardo Menman avea creduto che lo Speculum fosse impresso in caratteri mobili di legno; il suo errore è oggi da tulti riconosciuto. (2) An Inquiry in to the origin and carly History of Engrawing. London, 1816. - Monuments typographiques des Pays-Bas au 45me sitele, par M. G. Holtrop. La Haye. - Speculum humanae salvationis; le plus ancien monument de la Xylographie et de la Typographie réunies, ete., par I. Ph. Berjeau. Londres, C. I. Stewart, 1861. DI DOMENICO CARUTTI,. 21 VI. Allorchè disputasi di un falto antico e grandemente controverso, l’arte critica insegna quattro canoni a chi voglia saggiarne la credibilità, e sono la testimonianza oculare o contemporanea, la tradizione orale e costante, la storia scritta e infine i monumenti. Per fermo non tutti questi quattro elementi di prova sono necessari a mettere in sodo la verità storica, e chi tutti li desiderasse nelle narrazioni antiche e talvolta nelle moderne, condannerebbe se stesso ad uno scetticismo quasi uni- versale. Se non che quando la maggior parte concorrono in una stessa conclusione, e gli uni servono agli altri di commento e di conferma, le disdegnose negazioni non sono più lecite a chi senza tesi preconcetta e nel puro interesse delle scienze interroga gli eventi del passato. Ora riscontrando le cose fin qui dette al lume di questi principii, noi vediamo: 1.° che vi sono testimoni oculari del fatto e in Olanda e in Germania (Cornelius e Ulrico Zoell; 2.° che la tradizione si mantenne costante in Haarlem e in varie parti d'Europa; 3.° che gli storici del XVI secolo assegnano ad Haarlem e a Coster il merito della prima esecuzione tipografica; 4-.° che i monumenti detti costeriani non si possono attribuire ad alcuno stampatore conosciuto, ove disdicansi a Lorenzo Coster, vissuto nella prima metà del XV secolo e morto nel 1439. Perchè il fatto acquisti il carattere della evidenza, e il campo delle discussioni rimanga chiuso, yorrebbesi la presentazione di un documento contemporaneo che registri l’anno della impressione dei libri di Haarlem. Questo documento non si scoprirà forse mai per le ragioni già esposte. Ma in cambio della data certa ricavata da un documento contemporaneo abbiamo una testimonianza che per indiretto ci fornisce una prova pres- sochè equipollente. Nei Memoriaux di Giovanni Le Robert abate di S. Aubert di Cambrai, manoscritto originale conservato negli archivi del Dipartimento del Nord a Lille, leggonsi le due annotazioni seguenti: « Item, per un Dottrinale stampato che ho mandato a ricercare a » Bruges da Marquet, che è uno scritturale di Valenciennes, nel mese » di gennaio 1445, per Iacquet, venti soldi tornesi. Il piccolo Alessandro » ne ebbe uno simile che la Chiesa pagò. » Ù 22 NOTIZIE INTORNO ALLA VITA DI LORENZO COSTER, ECC, DI DOMENICO CARUTTI. « Item, per un Dottrinale per l'istruzione di Don Gerard, il quale » fu comperato a Valenciennes, ed era stampato (estoit jettez en molle), » e costò ventiquattro grossi. Mi rimandò il detto Dottrinale il giorno » di Ognissanti 1451, dicendo che non valeva nulla, ed era difettoso. » Ne avea comperato un altro in carta dieci petardi » (antica moneta di Fiandra). Questo ricordo dell'abate Giovanni Robert ci insegna che nove anni prima che la scuola di Magonza pubblicasse le prime sue opere, nella Fiandra si vendevano libri stampati tipograficamente. Se nel 1445 ven- devansi libri stampati in tal forma, i quali non poteano uscire dalle officine di Magonza perchè quest’esse non esistevano ancora, gli Olandesi potreb- bero non senza diritto domandare la data certa e contemporanea delle stampe costeriane a chi nega quella che loro viene assegnata dagli storici nazionali. La bibliografia, che di tante scoperte si arricchì in questi ultimi anni, troverà ella una data certa ai libri del Coster? E questa data confer- merà ella la narrazione di Iunius, ovvero rovescierà da capo a fondo il sistema di Haarlem, e ritornerà fra le mitologiche finzioni il nome di Lorenzo Coster? La prudenza vieta di nulla affermare temerariamente. Ma, nello stato presente della questione, ripetiamo che la priorità dei libri costeriani sopra i magontini sarà vittoriosamente impugnata soltanto col produrre qualche documento che assegni loro una data posteriore al 1455. Quando ciò avvenisse, e lo Speculum fosse riconosciuto poste- riore alle Zettere d’indulgenze e alla Bibbia delle 42 linee, staranno pur tuttavia in favore dell’ Olanda le parole di Ulrico Zoell e i frammenti dei tanti Donati olandesi; cosicchè l'origine della stampa, al pari degli altri maggiori trovati dell’ ingegno umano, rimarrà forse per sempre avvolta in una misteriosa tenebrìa, rotta da pochi e scarsi baleni di luce fuggitiva. 23 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO E AD UNA NUOVA EDIZIONE DELLA CINZIA PER DOMENICO CARUTTI Multa sunt quae criticum acumen subterfugerunt post immensas commentariorum moles. Dan. HeinsITI AD Hon. —ee—__ Memoria letta ed approvata nell'adunanza del 17 Maggio 1868. PROEMIO hi testo dei classici, più o meno viziato nei manoscritti, trovasi oggidì restituito a miglior lezione, mercè le cure che vi posero gl’ Italiani del secolo XV e XVI, gli Olandesi del XVII e XVIII, ed i Tedeschi degli ultimi cento anni. Pure chi ha qualche pratica in questo genere di studi, sa che rimane ancora alcun che da spigolare, nè si maraviglia vedendo annunziare nuove edizioni di greci e romani scrittori, destinate a purgar le volgate. Properzio, forse più d’ogni altro poeta latino, fu oltraggiato dal tempo e dagli amanuensi; quindi le sue elegie sono più lodate che lette, e più ammirate per fama che assaporate dalla pluralità dei lettori. Postomi per diletto a studiare in questo poeta, m’invaghii, come accade, dell'argomento , e primieramente mi proposi di dare alle elegie della Cinzia, divise in tre libri, l’ordine con cui verosimilmente furono pubblicate dall'autore; 2.° volli reintegrar le elegie di ciascun libro, con- giungendo i frammenti dispersi ma appartenenti ad un componimento stesso, e separando quegli altri che incontransi intercalati in elegie da cui sono del tutto distinti; 3° attesi ad emendare il testo in quei luoghi 24 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. dove i codici e le volgate recano lezioni manifestamente guaste e ne tolsi i versi interpolati; 4.° cercai di provare che le elegie del Quarto Libro non debbono ritenersi come opera di Properzio. Terminato il mio lavoro, stetti in dubbio se fosse o no conveniente di stamparlo. L’amor proprio diceami da un lato che esso non sarebbe per avventura del tutto inutile; per altra parte trattenevami la consa- pevolezza dello scarso mio sapere, a compensare il quale non basta il sincero amor delle lettere. Per ultimo dissi a me stesso, che la pubbli- cazione non recherebbe danno ad alcuno, e che perciò non mi sarebbe ascritto a grave colpa l’innocuo volume; oltrechè, dicea meco medesimo, tanto piccolo si è fatto oggidì in Italia il numero di coloro, che esercitano l'ingegno in questa parte delle letterarie discipline, che qualche indul- genza può augurarsi chi tenta il solitario calle. Checchè ne sia, non saprò mai dolermi del non piccolo tempo speso in codeste ricerche: perocchè nei più dolorosi momenti della mia vita vi trovai tale sollievo insperato, che non saprei dire a parole. Conobbi per esperienza quanta verità contengano le lodi che la magniloquente bocca di Cicerone tributava agli studi liberali: adversis perfugium ac solatium praebent. Vita di Properzio. Le poche notizie che hannosi intorno a Sesto Aurelio Properzio rac- colgonsi da’ suoi versi; ed essendo vaghe e generiche, come suole il linguaggio poetico, vanno soggette a controversia fra i dotti. Io poi, ricavandole dalla sola Cinzia, e scartando quelle che traggonsi dagli apocrifi del Quarto libro pseudo-properziano, mieto anche più scarsa la messe. 0 I biografi discordano nel segnare l’anno dei natali di Properzio. Tutti hanno l’occhio ad un passo dell’elegia apocrifa del Quarto, dove l'Astrologo così parla al poeta, che reputasi Sesto Aurelio : Ossaque legisti, non illa aetate legenda , Patris, et în tenues cogeris ipse Lares. Nam tua cum multi versarent rura iuvenci, Abstulit excultas pertica tristis opes. DI DOMENICO CARUTTI. 259 Mox, ubi bulla rudi demissa est aurea collo, Matris et ante deos libera sumpta toga; Tum tibi pauca suo de carmine dictat Apollo, etc. A detta dei commentatori, pertica tristis significa la famosa legge che nell’A. di R. 713 attribuì ai veterani i beni dei Perugini; il poeta, che depose la pretesta poco dopo quel fatto , nacque perciò tra il 697 e il 713; quindi, secondo il proprio talento, chi lo fa nascere nel 697, chi nel 702, chi nel 706 e chi nel 708. Tutte queste date hanno certa loro verosimiglianza, e potrebbero in qualche guisa menarsi buone, se l’elegia dell’Astrologo fosse opera di Properzio; ma essendo, per mio avviso, fattura di altro poeta, nessuna prova ne possiamo ricavare. Se non che per buona ventura Sesto Aurelio ci somministra egli stesso la data vera de’suoi natali in un luogo al quale nessuno, ch'io mi sappia, pose fin qui mente. Nell'ultima del Primo, egli scrive : Si Perusina tibi patriae sunt nota sepultae Italiae duris funera temporibus ; Cum Romana suos egit discordia cives ..... Proxima supposito contingens Umbria campo Me genuit, terris fertilis uberibus. Con questi versi il poeta indica l’anno in cui nacque, cioè il 714 di Roma, funesto all’Italia per la guerra e le stragi di Perugia. Ovidio nella stessa forma significò l’anno suo natale: Editus hinc ego sum, nec non ut tempora noris, Cum cecidit fato Consul uterque suo; vale a dire nel 711, durante la guerra di Modena, nella quale caddero 1 due consoli Irzio e Pansa. Un luogo dello stesso Ovidio male interpretato trasse in errore i biografi, inducendoli a credere che Properzio gli fosse maggiore di età. Nella ro del IV delle 7ristezze egli dice : Virgilium vidi tantum: nec avara Tibullo Tempus amicitiae fata dedere meae. Successor fuit hic tibi, Galle; Propertius illi: Quartus ab his serie temporis ipse fui. Serie IL Tom. XXVI, SS 26 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. I Commentatori intendono serie temporis per età naturale dei due poeti; quindi Properzio dovrebbe essere nato prima del 711. Ma chi meglio consideri, vedrà che Ovidio parla di successione poetica e della cronologia dei canti amorosi. Gallo si uccide nel 728; gli succede Tibullo, che muore nel 735, ed ha per successore Properzio, che tra- passa nel 739 o 740. Ovidio per serie di tempo viene quarto dopo costoro. Ed in vero nella grande elegia che forma tutto il Secondo libro delle Zristezze, dopo nominati gli altri poeti suoi predecessori, fra i quali Tibullo e Properzio, egli soggiunge pure: Mis ego successi (v. 467). Sesto Aurelio, nato nel 714, morto nel 739 0 740, non visse adunque guari più di venticinque anni, e i tre libri della Cinzia furono scritti tra il diciottesimo e il vigesimo quarto o vigesimo quinto anno della sua età, tra il 731 e il 738. Precocità d’ingegno senza dubbio non or- dinaria, ma che trova riscontri ed esempi in Ovidio, Lucano, Persio, Dante, Tasso, Leopardi ed altri poeti. La tanta gioventù di lui spiega il verso di Marziale Cynthia facundi carmen iuvenile Properti ; e ci dà ragione del perchè non lo si vegga ricordato da alcuno dei contemporanei. Per i provetti altro ancor non era fuorchè un giovane di belle speranze. Sesto Aurelio allude a questa ingiustizia, e se ne consola, lib. III, 1: At mihi, quod vivo detraxerit invida turba, Post obitum duplici fenore reddet honos (1). Vero è che Antonio Volpi credette avere Orazio nel famoso Importuno della Satira 9 del I tratteggiato Properzio, e nella ro averlo voluto pungerlo col verso Nil praeter Calvum et doctus cantare Catullum; (1) I biografi, trascurando la data contenuta nell’elegia a Tuiîlo, si abbandonarono a congetture arbitrarie nel segnare l’anno natale di Properzio; ma niuno di essi varia intorno all’età giovanile in cui fu scritta la Cizzia. Barth fa masccre Properzio nel 702, ed assegna la pubblicazione del primo libro al 724; Lachman pone i natali nel 706 o 707, e la pubblicazione nel 725 o 726; Hertzberg dice nato nel 708 il poeta, edito il primo libro nel 727. Secondo il computo di Barth, Properzio aveva ventidue anni, secondo i due altri diciannove. Il solo Volpi, contraddicendo ai testi coll’assegnare alla nascita il 697, darebbe ventisette o ventott’anni al poeta quando pubblicò i primi suoì versi. DI DOMENICO CARUTTI» 257 Ma queste due supposizioni non hanno buon fondamento, perchè il Primo Libro dei Sermoni Oraziani fu pubblicato nel 719 quando Pro- perzio era bambino, e non avea scritto nulla (1). Properzio nei versi citati disse di essere nato nell’Umbria, e tace il nome della terra natale. Quindi le congetture e la contesa di sette città che se ne disputarono l’onore: Mevania, Spello, Assisi, Perugia, Ameria, Montefalco, Trebbia Stellatina. La lite fu creduta definita quando nel 1722 si discoprì a Spello una lapide sepolcrale che porta scolpito il nome della patria del poeta; ma rivissero le incertezze, allorchè i fautori di Mevania risposero che l'iscrizione era falsificata nella parte che riguarda Sesto Aurelio (2). Plinio in una sua lettera che recheremo più innanzi dice che il poeta Passennio Paolo era discendente e mriceps Propertit. Notava quindi il Volpi, che la questione sarebbe risolta quando ci venisse fatto di conoscere la patria di Passennio; ma Plinio lo chiama solamente sp/en- didus eques romanus, nè da altri se ne sa altro. L'essersi ad Assisi trovate parecchie lapidi riguardanti i Properzi e i Passennii porgerebbe autorevole argomento a chi vuole che la patria di Properzio sia quella di S. Francesco (3), se il conzingens proxima (1) Egli ravvisa pure Properzio nei versi della seconda epistola del secondo libro: Discedo Alcaeus puncto illius: ille meo quis? Quis nisi Callimachus? Si plus adposcere visus, Fit Mimnernus, et oplivo cognomine crescit. (2) La lapide di Spello presenta una testa che sembra di Apollo. Nella parte superiore leggesi: L. COMINIVS L. F. LEM. nella inferiore : SEX. AVREL PROPERT. SEX. F. LEM. La villa in cui fu scoperta, detta tradizionalmente /a villa del poeta, avrebbe appartenuto a Properzio; venuta in.pussesso di L. Cominio, questi avrebbe fatto incidere anche il proprio nome nella tavola marmorea. Ma, secondo Fabio Alberto ed altri, la lapide era conosciuta prima del 1722, ed era già stata descritta da Lodovico Iacobilio, il quale riporta l’iscrizione di L. Cominio e non quella, molto più importante, di Properzio. Dal fuc-simzile del marmo datoci da Burman sembre- rebbe per altro che l’iscrizione properziana non debba essere stata aggiunta da un falsario, perchè occupa un troppo grande spazio che non potea rimanere vuoto; mentre invece l'iscrizione di L. Cominio consta di una sola linea. (3) Le iscrizioni d’Assisi sono recate dal Gammurrino nella Storia gerealogica delle famiglie nobili della Toscana e dell'Umbria. Firenze, 1668. Dobbiamo qui soggiungere, che i fautori di Assisi 28 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. supposito campo non levasse la voce in senso contrario; poichè supposito campo non potendo significar altro che pianura, non accenna ad Assisi, anzi esclude le terre poste in /oco edito. Di che trionfa Mevania, della quale dirà nativo il nostro poeta, chi per lo migliore non si contenterà di saperlo nato nell'Umbria. La gente Aurelia, plebea ma antichissima, dividevasi nelle tre famiglie dei Cotta, degli Oresti e degli Scauri; Properzio per altro non appar- teneva ad alcuna di queste tre. La sua non era cospicua nè per nomi illustri, nè per grande ricchezza, come egli stesso dichiara : Aspice me, cui parva domi fortuna relicta est, Nullus et antiquo Marte triumphus avi. (36, II) Certus eras heu heu, quamvis nec sanguine avito Nobilis, et quamvis haud ita dives eras. (11,1). Più significativa è la domanda di Tullo, che lo interrogava qualis et unde genus et qui penates. Il nobile romano non avrebbe avuta | im- pertinenza di fare quell’interrogazione a chi possedesse avito nome; nè Properzio rispondendo avrebbe parlato dell’anno e della provincia in cui nacque, e taciuto del lignaggio. Ciò nulladimeno il Volpi: Coniectura esse videtur, maiores eius non claro solum, sed, si diis placet, regum Etruscorum sanguine generatos, perchè Servio in Virgilio nomina un re etrusco, che avea nome Properzio ! Del padre suo nulla ci consta, nulla pure della madre: salvochè il avvalorano la loro tesi col distico dell’elegia dell’Astrologo nel Quarto libro: Scandentisque arcis consurgit vortice murus Murus ab ingenio motior ille tuo. Ora i Codici Gron. e Nap. leggono Scardentisgue asis in luogo di arcis, emendato dai critici: Astîs interpretano per Assisi, e cessa così ogni dubbio sulla patria properziana. Siccome io giudico apocrifa l’elegia dell’Astrologo, non ammetto il valore dello Scandertisgue asis dei Codici; ma anche senza di ciò, ritengo che debba leggersi Scandertisgue arcis. Il distico citato, come già notò Markland, non è che una specie di parodia dell’altro, in cui il poeta dicea di sè: Scandentes si quis cernet de vallibus arces, Ingenio muros aestimet ille meo. L’Asirologo ripete ironicamente e per modo di canzonatura le parole stesse del poeta; perciò arces nel primo, ed arcis nel secondo, e non l’errato asis. DI DOMENICO CARUTTI. 29 primo era già morto quando il poeta dettava il Primo della Cinzia , e che la madre morì innanzi che fosse finito. Nella 16 del Primo (11 delle volg.) egli scrive all’amante : Nam mihi non maior carae custodia matris; e nella 26 (19 della volg.) Ossa tibi iuro per matris et ossa parentis : Si fallo, cinis heu sit mihi uterque gravis. Durante la guerra perugina perdette un suo congiunto, che ricorda cot nome di Gallo, e qualifica propinquum. Fu supposto che fosse il padre suo; ma la ragion della prosodia non richiedeva l’uso di quel vocabolo ambiguo e poco accettabile in tal senso, e l’elegia di Gallo elimina l'ipotesi. Gallo moribondo prega il commilitone : Sic te servato possint gaudere parentes, Haec soror Acta tuis sentiat e lacrimis. Il padre di Properzio avrebbe mandato questo messaggio alla moglie e non alla sorella sua, alla madre e non alla zia di Sesto Aurelio. Non sappiamo sotto quali maestri abbia imparato, nè di che età sia venuto a Roma. Era sottile della persona, pallido il volto; abitava nelle Esquilie, e risulta che, pur non essendo ricco, vivea del suo; non volle esercitare il mestiere delle armi, nè intraprendere civili uffizi. Nei manoscritti e nelle antiche edizioni è detto nauta, perchè nel già citato verso della XI, invece di haud ita dives eras, un malaugurato copista scrisse navita dives eras. Così il poeta che scriveva At tu, saeve Aquilo, nunquam mea vela videbis e lagnavasi del tenue censo domestico, diventò uomo di mare e ricco per giunta. L'errore fu corretto dal Pontano e da F. Beroaldo. Studiò fervorosamente nei Greci, proponendosi a modelli Callimaco, Fileta e Mimnerno; fra i Latini ricorda Tibullo in più d'un luogo, e talvolta, se non erro, Catullo ed Orazio ; della poesia epica, dei voluminosi poemi non faceva gran conto. Cercava di piacere alle donne e alla gio- ventù , da cui ambiva di essere chiamato Ardoris nostri magne poéta. Fra i contemporanei fu stretto di amicizia con Ovidio, Basso e Pontico ; rivolse alcuni dei versi suoi a Basso e a Pontico , e ad un autore di 30 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. tragedie, che con finto nome chiama Linceo; non mentova alcun altro vivente, neppure Ovidio che stava già scrivendo gli Amori e le Eroidi; non Orazio, non Tibullo, non Virgilio, poichè sono spurii i versi che parlano di lui. Lodò bensì gli estinti, Catullo, Calvo e Cornelio Gallo. Fu amicissimo di un Gallo e di un Tullo. Il primo non ci è punto conosciuto; Properzio dice soltanto che era di gran sangue Nec tibi nobilitas poterit sucurrere amanti: Nescit amor priscis cedere imaginibus. Tullo era nipote di Lucio Volcazio Tullo stato Console con Ottavio nel 721. Andando in Asia con militare comando , invitò il poeta a seguirlo. Properzio non imitò i cantori di Lesbia e di Neera, che aveano accompagnato Memmio e Messala; ricusò dicendo: Multi longinquo periere in amore libenter, In quorum numero me quoque terra tegat. Non ego sum laudi, non natus idoneus armis: Hanc me militiam fata subire volunt. Niun avvenimento notevole della sua vita riferisce nelle sue poesie, salvochè nel primo libro parla di un grave pericolo che gli sovrastava : Adspice me quanto rapiat fortuna periclo senza indicar quale fosse. Volendola rompere con Cinzia, proponesi di visitare Atene, sperando dimenticare fra gli studi i suoi dolori e i suoi furori; s' imbarca, è sovraggiunto dalla tempesta , ritorna a Roma. Non fece perciò neppure il viaggio di Grecia. Dopo la pubblicazione delle prime elegie fu accolto benevolmente da Mecenate. Non ardirei affermare che sia stato presentato ad Augusto, sebbene ne canti le lodi in due componimenti, e spesso esalti il nome e le imprese del Signore di Roma. Mecenate lo consigliava a trattare più gravi temi che non erano i versi d'amore; Properzio rispondeva non esser lui da tanto, ed anche colle piccole opere ottenersi grande gloria. Correa dietro ai piaceri, alle donne, ai conviti, vivea fra le allegre brigate, leggeva i suoi versi agli amici, e fra questi eravi Ovidio che nell’esiglio di Tomi rammemorava i tempi felici quando Saepe suos ‘solitus recitare Propertius ignes, Iure sodalitii qui mihi'iunctus erat. DI DOMENICO CARUTTI. SI Spesso gli venia rimproverata la dissipazione e la voluttuosa sua indo- lenza, ed egli di rimando: Ista senes licet accusent convivia duri: Nos modo propositum, vita, teramus iter. IMlorum antiquis onerentur legibus aures..... Una contentum pudeat me vivere amica? Hoc si crimen erit, crimen Amoris erit. Tutti i suoi versi sono ispirati da Ostia, pronipote del poeta Ostio, autore di un poema sulla guerra illirica; la servì per cinque anni e celebrò sotto il nome di Cinzia, giusta il costume dei poeti romani che dissimulavano il vero nome delle lor donne. Se deesi prestar fede all’autore dell’elegia apocrifa in morte di Cinzia, ella era di Tivoli: Tiburtina jacet hac aurea Cynthia terra. Da Properzio sappiamo che villeggiava colà: Nox media, et dominae mihi venit cpistola nostrae Tibure, quae missa iussit adesse mora. Cinzia era ornata di tutti quegli attraimenti del corpo e dell’ ingegno che vincono gli animi caldi ed appassionati, ed hanno potenza di tenerli soggetti: cantava, suonava, ballava e poetava egregiamente. Il Volpi avendo dato a Properzio un re per proavo, Veichert non volle essere meno generoso verso Ostia, e la fece discendere dal re Tullo Ostilio. Brukusio proclamavala poetessa, e dolente che i suoi versi non fossero insino a noi pervenuti, chiedea che almeno il nome suo andasse in ischiera con quelli di Corinna, Saffo, Sulpizia. Chi foss’ella, non è difficile conoscere. Plinio il vecchio nella Storia naturale, lib. 33, 11, descrive certi braccialetti d’oro, detti virize o viriolae, e narra che portavansi non solamente alle braccia, ma anche ai piedi da quel ceto femminile anfibio, che inter stolam plebemque...... medium feminarum equestrem ordinem fecit. Cinzia apparteneva all'ordine equestre delle meretrici. Nuptae chiamavanle ad onore quando stavano in servigio di un noto protettore, e wir dicevasi costui. Ai giorni nostri il ceto equestre di coteste romane prese altro nome, e non richiede qui maggiori spiega- zioni. L'amore del lusso, dei piaceri, di un’eleganza più appariscente che delicata erano i distintivi loro, e lo sono tuttodì. I vizi dei vecchi, 32 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. l'inesperienza dei giovani, la vanità degli spensierati, la noia dei ricchi, hanno sempre dato loro un largo campo da mietere, ed esse il mietono senza pietà. Una certa differenza correva fra le antiche e le moderne. Le prime abbellivansi di una coltura intellettuale raffinata, oggi divenuta inutile. Properzio giovane, spiritoso, allegro, fu amato per se stesso; non potendo dare gemme, diede versi; Quamvis magna daret, quamvis maiora daturus, Non tamen illa meos fugit avara sinus. Hanc ego non auro, non Indis flectere gemmis Sed potui blandi carminis obsequio (I, 7). Nec mihi muneribus nox ulla est empta beatis; Quidquid eram, hoc animi gratia magna tui (I, 22). Non, si Cambysae redeant et flumina Craesi, Dicat: de nostro surge, poéta , toro. Anche i buoni versi aveano valore, perchè rendevano più famosa e desiderata la bellezza predatrice. Properzio l’amò dai primi anni, sebbene non fosse questa la prima fiamma. Nel Terzo egli dice: Ut mihi praetextae pudor est velatus amicus Et data libertas noscere Amoris iter, IUla rudes animos per noctes conscia primas Imbuit, heu nullis capta Lycinna datis. Tertius haud multo minus est cum ducitur annus: Vix memini nobis verba coisse decem. Cuncta tuus sepelivit amor. ’ Properzio adunque appena deposta la pretesta incappa nelle reti di Licinna, e se ne sbriga soltanto per ricader in quelle di Cinzia sul diciassettesimo o diciottesimo anno. L’elegia a Licinna ci fa sapere ‘che da quasi tre anni non avea più scambiate dieci parole con lei, e che durante quei tre ‘anni conviveva colla nipote di Ostio. Siccome l’elegia a Licinna appartiene al terzo libro, e fu perciò scritta dopo la DI DOMENICO CARUTTI. 33 pubblicazione dei due primi, conseguita che questi furono composti in meno di tre anni. Nell’ultima elegia poi del Terzo il poeta dando l’ultimo addio alla bella infedele e superba le dice : Quinque tibi potui servire fideliter annos. Il Terzo libro fu adunque composto nello spazio di circa due anni. Se non che il quinquennio fu interrotto da un anno di bisticci e di separazione: Peccaram semel et totum sum pulsus in annum. Ecco due periodi negli amori. Alcuni vogliono che i dodici mesi di separazione non siano computati nei cinque anni di fedele servitù. Altri vanno oltre, e non che dedurre l’anno, contendono doversi sottrarre anche il tempo che precedette la rottura, cosicchè il commercio amoroso sarebbe durato circa nove anni. Gli amanti non sommano e non sot- traggono secondo le regole severe dell’aritmetica, e non so quindi per- suadermi che il poeta abbia esclusi i dodici mesi nei quali discoleggiò, e non servi fedelmente, ma durante i quali soffrì nondimeno e pianse senza poter trarre dalle sue carni l’acuto dardo che lo straziava. Quanto all’escludere il biennio o triennio anteriore, la buona critica e la verità psicologica il divietano. Cinque anni non sono otto o nove, e chi voglia che cinque significhi otto, non sciupi il tempo torturando i testi; val meglio affermare ricisamente, piuttostochè addensar tenebre dove non vi sono ombre. Del resto l'amante che al momento di abbandonare la donna da cui venne offeso, le rinfaccia la lunga sua servitù, potrà esagerarne la durata, non diminuirla. Properzio visse abbastanza per mandar fuori l’ultimo libro; dopo il quale un solo componimento possiamo attribuirgli, l’epicedio in morte di Cornelia scritto nell’anno 738. Nulla indica che abbia vissuto oltre quell’anno. Morì egli in così giovane età, e il presentimento della morte vicina che traspare dai suoi versi e più intenso manifestasi nella 21 del Terzo non fu egli fallace? Che non abbia vissuto molti anni dopo il 738, il possiamo argomentare dai versi di Ovidio, il quale parla di lui spesso e sempre come di persona da buon tempo mancata ai vivi. Sappiamo per altro da Plinio Secondo che la famiglia di Properzio non si estinse con lui, e che il poeta Passieno o meglio Passennio Paolo era del sangue suo. Serie II. Tom. XXVI. 5 34 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. Passienus Paullus, splendidus eques romanus, et in primis eruditus, scribit elegos. Gentilicium hoc illi; est enim municeps Propertii, atque etiam inter maiores suos Propertium numerat (Epist. VI, 15). E più esplicitamente ancora nella 22 del IX: în Ziteris veteres aemulatur, exprimit, reddit: Propertium in primis, a quo genus duxit, vera soboles, eoque simillima illi, in quo ille praecipuus. Le parole vera soboles, duxit genus a Pro- pertio significano discendenza diretta, come osserva Guglielmo Hertzberg. Quanto al cambiamento del nome dei Properzi in quello dei Passennii, il fatto dovrebbe spiegarsi mercè l’adozione di un discendente di Pro- perzio nella famiglia dei Passennii. Secondo lo stesso Hertzberg, che fonda la sua argomentazione sopra un'antica iscrizione, un Properzio Bleso , forse il lodato amico di Plinio, sarebbe stato adottato da un €. Paolo Passennio (1). Ciò posio, convien credere che Sesto Aurelio, dopo abbandonata Cinzia, condusse moglie, procreò figliuoli, e poco presso morì. Del che non abbiamo altra notizia, se non questa indiretta che ricavasi dal luogo di Plinio. IL Cronologia dei tre libri della Cinzia. Dalle cose dette esce la cronologia dei tre libri properziani. Il primo termina colla partenza di Properzio da Roma dopo la prima rottura; il secondo si riferisce a questa separazione e alla riconciliazione. Sola- mente per congettura può assegnarsi un determinato spazio di tempo alla durata del primo periodo; inclino a crederlo di poco più di un anno. Pubblicato il Primo libro, quando l’esclusione dalla casa di Cinzia getiava il poeta fra le dissolutezze di cui mena vanto, e fra cui non trova pace, già scriveva il Secondo, ragionando seco stesso: Vix unum potes, infelix, requiescere mensem Et turpis de te iam liber alter erit. (1) Ecco l’iscrizione già pubblicata dal Muratori e dal Burman, la quale corregge il Passienus di Plinio in Passenzius: GC. PASSENNIO C. F. SERG. PAVLLO PROPERTIO BLAESO. DI DOMENICO CARUTTI. 35 Il Terzo libro ci chiarisce che, mentre lo dettava, da quasi tre anni era intrinseco di Cinzia. Il Primo uscì perciò verso il fine del 732, il Secondo nel 734, il Terzo, scritto tra il 734 e il 736 fu pubblicato probabilmente o sul finire di quest'anno, o nel 737. L'ultima a Cinzia e il verso Quinque tibi potui servire fideliter annos ci danno il 736; ma la prima elegia sarà stata composta posteriormente non solo perchè serve di proemio ad opera già finita, ma perchè il distico Fortunata, meo si qua est celebrata libello! Carmina erunt formae tot monumenta tuae non è più rivolto a Cinzia ma a persona non definita, ad una nuova amante piuttosto invocata che ritrovata o già presente. La Cornelia viene ultima per tempo. La figlia degli Scipioni, la figliastra di Augusto morì nel 738 quando il fratel suo Cornelio Scipione fu fatto console. Negli antichi codici il Primo libro è intitolato Monobiblos, e si disputò se questo titolo debba apporsi a quel solo libro, ovvero se signi- fichi che i tre formano un tutto di cui Cinzia è l’unico argomento. G. Lipsio credette che Morobiblos sia il titolo del Quarto libro attribuito a Properzio, e che malamente sia stato trasportato in principio della Cinzia. Beroaldo opinava che non fosse scritto da Properzio, ma aggiunto da mano ignota alla raccolta delle sue elegie, perchè nessuno scrittore antico il ricorda. Siffatte questioni non hanno importanza, e non occorre spendervi tempo sopra. Tuttavia dirò, che può credersi avere Properzio dato quel titolo al Primo libro, perchè pubblicandolo, era persuaso di averla finita per sempre con Cinzia e di non cantare più il suo nome. Così meglio spiegasi il verso già citato iam liber alter erit. I biografi che errarono facendo nascere Properzio molti anni prima del 714, per non variare l’età in cui il poeta scrisse il Primo e il Secondo libro, dovettero affermarli composti e pubblicati l'uno nel 725 o 726, l’altro poco appresso, e sempre prima del 730. Ora nel secondo libro, Eleg. 15 (6 di Burman, 7 di Lachman), Properzio scrive a Cinzia Gavisa est certe sublatam, Cynthia, legem, Qua quondam edicta flemus uterque diu, 36 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. alludendo alla legge sui matrimoni promulgata da Cesare nel 726. Ma come mai uno o due anni dopo la promulgazione può una legge chia- marsi quondam edicta ? Lachman poi asserisce che nel terzo libro non incontrasi cenno sto- rico che indichi un tempo posteriore al 731. Ciò non costituirebbe prova sufficiente per conchiudere che non fu composto dopo quell’anno, giacchè le reminiscenze e le allusioni storiche non abbondano in esso. Per altro l’elegia sui trionfi di Augusto (che io colloco nel Secondo libro) ci richiama al 733, e forse anche al principio del 734; il distico Seres et Ausoniis venient provincia virgis Adsuescent Latio Partha tropaea Iovi mira alla guerra che Augusto nel 733 stava per aprire contro i Parti, e che non ebbe luogo, perchè Fraate nel 734 restituì le insegne di Crasso. Ma il vero è che le elegie della Cinzia non sono disposte per ordine di tempi, e leggonsi distribuite a capriccio non dall’autore, ma dagli amanuensi, specialmente quanto al primo e al secondo libro. La Cinzia e l’elegia su Cornelia sono le sole opere che si possono attribuire autenticamente a Properzio. Ovidio, amico del poeta, dichiara che Cinzia fu l’unico suo lavoro (Rem. Am.): Carmina quis tuto potuit legisse Tibullo ? Vel tua, cuius opus Cynthia sola fuit? Marziale, vissuto non molto tempo dopo, lo conferma (Lib. XIV, ep. 189) Cynthia, facundi carmen juvenile Properti, Accepit fumam, nec minus ipsa dedit. Properzio stesso confessa in più luoghi che non era abile se non a trattare argomenti d'amore (II, 18) Hic mihi conteritur vitae modus, haec mea fama est: Hinc cupio nomen carminis ire mei. Nè Plinio, nè Quintiliano che toccarono di lui, accennano ad altri com- ponimenti. L’immatura morte in età giovanile non diedegli facoltà di scrivere di più. i; Alcune elegie della Cinzia non pervennero a noi intiere; il secondo libro ci è dato dai codici monco e guasto. A due distici manca il DI DOMENICO CARUTTI. 37 pentametro. Il grammatico Fulgenzio sotto la voce dividia reca come properziano il seguente verso: Dividias mentis conficit omnis amor, e sotto il verbo cazillare: Catillata geris vadimonia, publicum postribulum. Ma universalmente questi due passi sono giudicati di Petronio. O Ful- genzio stesso o i copisti scrissero Properzio , perchè il suo nome era più famigliare di quello dell’Arbitro delle eleganze. Servio al Primo delle Georgiche nota, parlando dell’ inventore del- l’aratro: alii Triptolemum, alii Osirim volunt, quod magis verum est, ut dicit Propertius vel Tibullus. Il commentatore di Virgilio cita di memoria, non sicuro se Properzio o Tibullo abbia detto ciò. Con buona pace di Lachman, non iniuria ma iure la citazione si riferisce a Tibullo, il quale nella elegia pel giorno natalizio di Messala, lib. I, 7, scrisse: Primus aratra manu solerti fecit Osiris, Et teneram ferro sollicitavit humum. Lo stesso Servio all’egloga V dà come properziano il seguente emistichio: Testes sunt sidera nobis. Properzio aveva detto Sidera sunt testes et matutina pruina. La memoria ingannò il citatore; il che accade sovente ai grammatici e ai dotti. Ovidio Tris. II, 461, parlando di Tibullo e di Properzio, dice: Multaque dat talis facti praecepta, docetque (Tibullo) Qua nuptae possint fallere ab arte viros. Nec fuit hoc illi fraudi, legiturque Tibullus, Et placet et iam te principe (Augusto) notus erat. Invenies eadem blandi praecepta Properti, Distructus minima nec tamen ille nota est. Lachman esclama: Ubinam, quaeso, inveniemus, cum eiusmodi prae- cepta nulla hodie in Propertii carminibus leguntur? E quasi insinua che il giovane Umbro fu anch'esso autore di una specie di Artis amatoriae. Ma niuno meglio del dottissimo tedesco sapeva che nell’ apologia del 38 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. Secondo delle Tristezze l’esule tomitano sostiene la tesi che tutti i poeti sono colpevoli di amorosi lenocinii, e che egli solo, l’autore dell’Arze, fu punito. Non risparmia nè l’Eneide, nè l’Iiade , nè l’Odissea , nè i tragici greci. Quanto a Properzio, più di ogni altro potea chiamarlo in giudizio , perchè la maggior parte delle sue poesie sono incitamento a seguire le insegne di Venere a preferenza di quelle di Marte, ed egli stesso e agli amici suoi e ai lettori porge consiglio intorno al modo di espugnare le ritrosìe femminili. Cynthia me docuit, egli dice, e Possum ego diversos iterum coniungere amantes, Et dominae tardas possum aperire fores. Raccogliamo da’ suoi scritti che egli ebbe in mente di cantare le lorie di Roma ad imitazione di Ennio: 5 Unde pater sitiens Ennius ante bibit @, HI). Ma Febo gli disse: Quid tibi cum tali, demens, est flumine? Quis te Carminis heroi tangere iussit opus? ..... Alter remus aquas, alter tibi radat arenas; e l'idea del poema, se mai fu accarezzata davvero, si dileguò. Eppure abbiamo un Quarto libro di elegie attribuito a Sesto Aurelio, nel quale contengonsi, oltre la Cornelia, 1.° quattro elegie amorose; 2.° sei carmi che giudicansi frammenti di un poema dei Giorni; 3. Velegia dell’Astrologo; 4. l’epistola di Aretusa a Licota, imitazione delle Eroidi di Ovidio. I dotti notarono con ragione che alcune di queste poesie sono minori dell'ingegno di Properzio, e che altre, sebbene vigorose e talvolta splendide, discostansi dalla eleganza originale e dalla finitezza della Cinzia. F. G. Barth opinava che, scritte in diversi tempi, e perciò alcune nella prima giovinezza del poeta, fossero state, dopo la morte sua , raccolte e pubblicate da mano amica. Lachman soggiunse: plura huius libri carmina non ab ipso poèta elaborata, sed ab eius amicis, ita ut în cera temere coniecta, rudia quidem illa et indigesta . . ... invenerant, edita esse cognoveris. i .Il Quarto libro non pare nè rude, nè indigesto, e scorgesi. anzi in molta parte di esso somma cura e studio. Ciò che giudicasi non corretto e non limato, non è per lo più che effetto di minore potenza DI DOMENICO CARUTTI. 39 poetica, la quale non permette talvolta all'autore di esprimere altamente e semplicemente i suoi concetti. Il numero, il ritmo, l’elocuzione ram- mentano la maniera properziana, ma questa non è più genuina; altra armonia, altri numeri governano quei versi, e diversa è la natura della forma poetica. Allontanandomi perciò dall’opinione ricevuta, io ritengo apocrife le quattro elegie amorose del Quarto libro, e i frammenti del poema; l’Astrologo e l’Aretusa giudico pure di altra mano che la properziana. Ma checchè ne sia, il merito di Properzio dobbiamo pre- giarlo dalla sola Cinzia e dalla Cornelia; il Quarto libro, quando pur fosse suo, non lo vantaggia dinanzi al tribunale della critica. BE scriveva di sè (1, IM): Primus ego ingredior puro de fonte sacerdos Itala per Graios orgia ferre choros..... ... me fama levat terra sublimis, et a me Nata coronatis musa triumphat equis. Se con questi versi egli volle significare che primo introdusse l’elegia d’amore nelle lettere latine, Catullo, Gallo e Tibullo gli contendono a giusto diritto il vanto non meritato: Tibullo sovra tutto, perchè poche di numero sono le elegie catulliane, e di Gallo nulla ci rimane. Se per contro volle dire che alla elegia latina diede nuove forme, derivandola dai Greci, niuno il contraddirà forse. La sua poesia è nuova, originale, nata da lui, nè ha riscontro con Catullo e Tibullo, quantunque abbia evidentemente studiato il secondo. Per lui l’elegia ebbe gli aculei ed i frizzi della satira, l'andamento del dramma; più spesso la forza e gli impeti lirici della passione, e talvoita gli ardimenti della vera lirica. Ardens, concitatus et interdum supra elegiacum stilum grandiloquus; in affectibus vero amatoriis explicandis facile praecipuus, scriveva Filippo Beroaldo; se avesse vissuto men breve età, il genio ‘suo l’ avrebbe condotto da Callimaco e Fileta a Pindaro ed Alceo: e forse Orazio non rimarrebbe unico nella letteratura romana. Prima di lui le greche ‘e le latine lettere non aveano un libro di poesie che descrivessero il prin- cipio, il mezzo e il fine di un’ardente passione, ritraessero giorno per giorno i tumulti del cuore e le ebbrezze dell’ immaginazione, serbando nella più libera varietà delle forme l’unità del soggetto. La sola lette- ratura italiana potè molti secoli dopo poapporre il Canzoniere . del Petrarca alla Cinzia. 40 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. Riassumo la cronologia della vita e delle opere di Properzio: 714. Nasce nell’Umbria. 729. Entra nel sedicesimo anno dell'età sua, e poco dopo s’in- vaghisce di Licinna. 731. Conosce Cinzia, abbandona Licinna. Compone i primi versi, e fra questi l’elegia in morte di Marcello. 732. Dissapori con Cinzia, gelosie, il pretore Illirico a Roma, partenza per la Grecia. Pubblicazione del Primo libro delle elegie nel diciannovesimo anno di sua età. 733. Ha già incominciato il Secondo libro; fu accolto da Me- cenate ed incoraggiato. Canta Augusto e i futuri trionfi di lui sopra i Parti. Riconciliazione con Cinzia dopo un anno di separazione. È invitato da Tullo ad accompagnarlo a Cizico, ma ricusa. 734. Termina e pubblica il Secondo libro. 736. Abbandona Cinzia dopo cinque anni di amore. 737: Pubblica il Terzo libro. Età sua circa ventiquattro anni. 738. Scrive l’elegia in morte di Cornelia. Dopo il 738 non avvi più memoria di lui. III Delle norme seguite nella nuova edizione della Cinzia. Abbiamo veduto che vi furono tre periodi distinti negli amori di Properzio. Gonosciuta Cinzia, abbandonò Licinna, e nessun'altra donna ebbe più potere sopra di lui: Cuncta tuus sepelivit amor, nec femina post te Ulla dedit collo dulcia vincla meo. Durò per alcun tempo il vicendevole affetto; ma a poco a poco Cinzia o stancatasi del poeta che i suoi scrigni avea forniti più di versi che d’altro, od offesa da qualche infedeltà dell'amico, cominciò a porgere orecchio alle blandizie dei più beati. Properzio, trattato duramente e con alterigia, allontanasi da Roma e ritirasi in una solitaria campagna; tosto si pente, ritorna im città, chiede mercè, ma indarno. Cinzia è in braccio di altri; un Pretore che ella era stata già sul punto di seguire. in Iliria, reduce anch'esso in Roma, nunc sua regna tenet. Forsen- nato, giura di uccidere sè e la femmina traditrice; poi fatto più savio DI DOMENICO CARUTTI. 4I consiglio s' imbarca per la Grecia; ma la tempesta il sorprende; ritorna a Roma, cerca di dimenticare l'amor suo in altri amori più volgari, e pubblica il Primo libro della Cinzia, che ottiene plauso e corre per le mani di tutti. Una riconciliazione, di cui Properzio non avea forse mai disperato in cuor suo, e di cui la cresciuta fama del giovane poeta non sarà stata ultima cagione, ristringe gli antichi nodi. Il Secondo libro contiene i canti della febbricitante immaginazione del poeta durante la rottura, le gioie della riconciliazione, e di nuovo le gelosie e i turbamenti, ai quali davano alimento l'indole e la professione di Cinzia. In esso il vediamo, già cliente di Mecenate e celebratore di Augusto, protestare di voler quine innanzi dare a’ suoi versi più grave subbietto. Nel Terzo libro l'amore, durato tre anni, non è più tumultuoso e fremente; Cinzia non è più l’unico tema de’ suoi poemi, benchè appunto in questo libro disdica il proposito fatto di cantar argomenti eroici, e dichiari espressamente a Mecenate, che Non sunt apta meae grandia vela rati; e Calliope gli dica : Contentus niveis semper vectebere cycnis, Nec te fortis equi ducet ad arma sonus. Infine sopraggiungono altri dissapori con Cinzia, che inducono Pro- perzio ad abbandonarla. Nell’ultima elegia le dice : Quinque tibi potui servire fideliter annos: Ungue meam morso saepe querere fidem ... At te celatis aetas gravis urgeat annis, Et veniat forma ruga sinistra tuae .... Has tibi fatales cecinit mea pagina diras : Eventum formae disce timere tuae. Seguendo il filo che ci danno questi avvenimenti abbiamo la vera divisione dei tre libri della Cinzia, corrispondenti ai tre periodi degli amori, e la serie delle elegie schierasi naturalmente nell’ordine dei tempi, in cui furono scritte, mentre nei codici e in tutte le edizioni, cozzando cronologicamente fra di loro, le scene del dramma non hanno connessione l’una coll’altra. Questo disordine vela ed offusca la bellezza Serie II. Tom. XXVI, 6 42 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. delle parti, turba l'armonia e rompe l’unità del poema che esprime con verità e varietà mirabile gl’impeti e le moltiformi vicissitudini della pas- sione. Ciò non isfuggì del tutto all’acume dei critici; e taluni supposero che Properzio stesso sia stato autore della strana distribuzione. La ragion poetica rende improbabile l’asserto ; tuttavia il potremmo credere, ove i tre libri fossero stati pubblicati in una sola volta; ma siccome furono editi separatamente, diventa assurda l'ipotesi che, per esempio, le elegie del terzo periodo degli amori siano stati dall’autore collocate nel Primo libro. Del resto la viziosa e non properziana collocazione dei componimenti appare evidente, e per così dire tangibile per altre ragioni. Così, in un’elegia che leggesi nel Secondo, Properzio parlando della vicina sua morte, ordina che i tre libri amorosi adornino i suoi funerali. Niun dubbio che questa elegia apparteneva primitivamente al Terzo. Carlo Lachman, per uscir d’impaccio, divise i tre libri in quattro, e incastrò la ribelle nel nuovo libro creato. La sua divisione fu approvata in Germania, ed ora le edizioni economiche della biblioteca Teubner la rendono popolare, sebbene essa non solamente sia arbitraria, ma ripugni alle varie fasi degli amori di cui la Cinzia fa ritratto. Lachman avrebbe dovuto riordinare le elegie, non accrescere il numero dei libri, dandoci quel suo Secondo così misero e spolpato. Questo è il lavoro che io cercai di compiere. Siccome poggia sopra la base sicura ed incontrovertibile dei fatti, mi affido che nel suo complesso non rompa in obbiezioni efficaci; cosicchè gli appunti riguarderanno i particolari, cioè il collo- camento dell’una o dell’altra elegia nello stesso libro, non il suo collo- camento in un altro libro. Chi volesse ora indagare per quali accidenti la vera edizione pro- perziana, quella che leggevasi da Ovidio, Marziale, Plinio e Quintiliano abbia patito il rimescolamento che lamentiamo, se ne renderà capace pensando ai gravi inconvenienti cui andava soggetta la riproduzione degli scritti per opera degli amanuensi prima della invenzione della stampa, inconvenienti che Cicerone e Seneca già deploravano fin dai loro tempi; ne comprenderà le cause sovra tutto, chi ricordi la barbarie dei secoli che precedettero il risorgimento delle lettere. L'ordinamento attuale, fatto durante il medio evo, fu probabilmente condotto sopra laceri e non numerati fogli di un antico codice della Cinzia. Non è ma- raviglia perciò se nel silenzio dei buoni studi, nella mancanza di quegli DI DOMENICO CARUTTI. 43 aiuti letterari che a noi abbondano oggidì, l’anonimo che raccolse disiecta membra poétae, abbia pensato piuttosto a conservare Properzio, che all'ordinamento ed all’armonia delle varie sue parti. In quale secolo abbia avuto luogo questo lavoro non consta; certo è che il più antico codice properziano che ci rimanga (il Napoletano) fu scritto nel secolo XIV, più di mille e trecent'anni dopo Properzio; nè è codice tipo, ma tirato sopra altro esemplare, del quale alcune volte l’amanuense non riesce a dicifrare la scrittura. Il lettore vegga perciò che noi non portiamo la mano temeraria sopra un monumento dei buoni secoli della latinità, ma sopra una copia fatta in tempi a noi vicini assai più che a Properzio e agli anni di Roma imperiale. Se non che la divisione dei libri che vediamo nei manoscritti poste- riori e nelle stampe, non è neppure quella del codice Napoletano. I più moderni hanno aggravato il male. Nel Napoletano il fine e il principio dei libri sono segnati mercè uno spazio lasciato in bianco; non così le elegie, le quali non sono separate da alcun maggiore spazio bianco tra l’una e l’altra; soltanto al principio di ciascuna vi è apposta la lettera con cui incomincia, senza aggiunta di numero. Ora tutte le stampe ter- minano il Primo libro colla breve elegia a Tullo; ebbene il Napoletano non lascia dopo di essa quello spazio bianco che serve di segno di divisione; ma lascialo bensì alla elegia X del Secondo delle volgate : Iste quod est, ego saepe fui, che è la nostra XXXI del Primo. Nel codice di Groninga, che è il secondo per antichità, riscontrasi lo stesso fatto. Lo spazio bianco divide i libri; e la divisione del Primo dal Secondo cade pure alla X: Zste quod est, ego saepe fui. Ma poste- riormente, e da altra mano, dopo l’elegia a Tullo fu tirata una linea rossa, e scritte queste parole: Finis primi libri prop. nau. in. Secundus. Ecco l’autore della divisione del primo libro colto in flagrante; essa venne operata sul codice Groningano, posteriore al Napoletano di circa cencinquant’anni; fu fatta nel secolo XV o da un letterato o da un libraio, e suggeritagli dal verso Et turpi de te jam liber alter erit, che leggesi nella VII del nostro Secondo e nella II delle volgate: Qui nullam tibi dicebas. L'autore vide la contraddizione di quel verso colla divisione del codice in cui studiava, e la emendò ingegnosamente. Avrà pure scorta quella della XII del Secondo: Sat mea, sat magna 44 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. est, si tres sint pompa libelli; ma il correggerla non riusciva agevole 7) del pari, non avendo osato, come Lachman osò ai giorni nostri, far quattro libri dei tre. L’incognito ordinatore della Cinzia, di cui noi ragioniamo per divi- nazione, lavorando sopra fogli staccati e laceri, nel distribuire, come potè meglio, le elegie dei tre libri, avea talvolta sotto gli occhi brani di composizioni che unì insieme formandone elegie compiute. Ora in questa non facile impresa non di rado egli errò, ponendo insieme cose che mal si accordavano, e talvolta erano fra di loro discordanti. Inoltre avendo trovati alcuni frammenti che or non aveano il principio, or non aveano il fine, perchè i foglietti che li contenevano eransi smarriti, il compilatore li trascrisse per lo più l'uno dopo l’altro, cosicchè per numero di versi formassero una giusta elegia, non troppo sollecito se il senso corresse spedito, contento se pur non eravi controsenso evidente. I ciechi ammiratori dei classici mal potendo dissimulare l’incoerenza di alcune elegie properziane, spiegarono ogni cosa mettendola in conto della viva fantasia del poeta, che saltava di oggetto in oggetto, e com- miserarono chi non ammirasse quella turbinosa divagazione, quasichè i più audaci voli dei lirici non siano, chi ben guardi, moderati da intima e conoscibile parentela d'idee. Giuseppe Scaligero nel XVI secolo riconobbe e sentì la confusione properziana, e arditamente cercò di venirvi al riparo. L'opera sua fu accolta con grande favore ed accettata universalmente per quasi due secoli. Ma egli pur troppo avea sbagliata la via, e di niuno forse più che di lui dee dolersi l'ombra di Sesto Aurelio. Saggiamente fece imper- tanto Antonio Volpi rel passato secolo ritornando il testo all’ordinamento dei codici e delle antiche edizioni. E più benemeritò Carlo Lachman, quando nel 1816 non solo pose cura alla correzione del testo, ma notò molte volte dove esso presentava lacune e disordine. Nulladimeno se lo Scaligero sbagliò nell’eseguimento, gli si dee lode per avere additata la via di restituire Properzio, e reca maraviglia che niuno dopo di lui abbiala con altri intendimenti tentata; anzi per effetto di reazione (cieca come le altre reazioni) siasi in questi ultimi tempi ristorata l’idolatria dei manoscritti. Il culto dei codici degenera in su- perstizione, quando non sia guidato dalla face della. critica. Mantenere e predicare inviolabile ciò che si riconusce vizioso ed assurdo, non parmi lodevole in letteratura, come non lo è nè in politica nè in religione. DI DOMENICO CARUTTI. 45 L'errore fondamentale di Scaligero fu di credere che tutt i versi di Properzio appartenessero ad elegie che ci rimanessero intiere, e che fosse perciò da ricercare dove e come tutti i distici dispersi ed erranti si dovessero ricollocare. Giò lo condusse a formare nel Secondo libro elegie lunghissime, contrariamente all’uso di Properzio, che sta sempre fra i trenta ed i cinquanta versi, e non eccede questa misura se non tre volte nel Terzo libro. Il vero è, che alcune elegie dallo Scaligero non tocche doveano essere reintegrate; che parecchie ve n’hanno composte di parti etero- genee, le quali debbonsi le une dalle altre separare; che infine vi sono brani di elegie perdute e che questi conviene lasciarli così come sono. Cotesto faticoso ed intricato lavoro io condussi: dei risultamenti i discreti lettori siano giudici. In questa parte trovai poco soccorso presso i critici; ma l’ebbi copioso quanto alla correzione del testo propriamente detto, imperocchè numerosa è la falange dei dotti ed ingegnosi uomini che da Domizio Calderini e Filippo Beroaldo insino a Federico Jacob e Guglielmo Herztberg vi faticarono con felici successi. Gli errori più grossolani dei manoscritti furono già ben pria d'ora emendati in buon dato; alcuni perpetuansi nel testo, benchè le correzioni e varianti trovinsi nelle note dei critici. Queste trasferi nel mio testo, e non ne proposi di mie proprie se non quando le anteriori non mi sembravano raggiungere il loro fine, ovvero quando altri non avea esaminato il passo che io giu- dicava doversi sanare. La norma generale a cui mi attenni fu questa : emendai tutti i luoghi dove la lezione manoscritta rendeva controsenso od un senso così strano che nè Properzio nè altro purgato scrittore accetterebbe per suo: non toccai i passi dove il senso è limpido , sebbene taluni vi desiderino o maggiore eleganza di frase o armonia di numero più piacevole. Ad ogni correzione o congettura contrapposi la lezione del codice Groningano e del Napoletano e la volgata; nei luoghi di più disperato racconciamento indicai le varianti di altri codici e le opinioni dei dotti. Quanto ai versi spurii che abbondaniemente furono interpolati nella Cinzia, del pari che in altri classici, li eliminai dal testo, stampandoli in nota. Non avendo intrapreso un commento di Properzio, non illustrai 1 passi oscuri o difficili che s'incontrano; feci solamente eccezione in alcuni pochi luoghi, ai quali mi parve doversi dare interpretazione diversa da quella che suolsi dalla maggior parte dei commentatori proporre. 46 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. L’interpunzione che non è regolata nei manoscritti, ed è corrottis- sima nelle edizioni anteriori a questo secolo, ordinai a mio senno, seguendo l’edizione di Lachman del 1816, quella di Federico Jacob e l’ultima di Enrico Keil. Posi in avvertenza i lettori allorquando il mio punteggiare modificava od alterava il senso delle lezioni volgate. IV. Del quarto libro attribuito a Properzio. Ho detto che la sola Cinzia e la Cornelia si debbono ascrivere a Properzio. Prima di addurne le ragioni farò un'osservazione intorno alla Cornelia stessa con ‘cui ha termine il Quarto libro. Questa elegia che fu detta la regina delle properziane, è veramente uno dei più affettuosi e pietosi canti della musa latina. Se non portasse seco la data dell’anno in cui venne composta , cioè il 738, e se in quell’anno avesse fiorito un altro poeta capace di scrivere quei versi (Ovidio viveva e componeva, ma non ne è l’autore), io mi periterei forse di attribuirla a Properzio, perchè l'armonia del verso, segnatamente del pentametro, non è soventi volte quella che governa le elegie dei tre libri, e perchè il componimento chiudesi con uno di quegli spedienti amati dai retori e da cui fu alieno il genio di Sesto Aurelio. Ma di questa menda giudico che non l’autore ma altri sia da chiamarsi in colpa, e che scompaia del tutto, o si attenui in singolar modo, riordinando i distici del testo. Laonde in cospetto di un solo dubbio, che fondasi piuttosto sopra il sentimento poetico che sopra alcun’ altra valevole ragione , non potrebbesi, secondo le norme della critica eziandio rigidissima, disputarne la paternità a Properzio. Oltrechè la differenza sovranotata può essere segno di progresso nell’ar- tificio del versificare properziano. i Vengo ora alle poesie amorose. Esse sono quattro: De Dracone Lanuviî, Cynthiae rixa, In lenam, Umbra Cynthiae. — Il Dragone di Lanuvio non è che il principio di un componimento non finito; che nei codici e nelle volgate leggesi malamente collegato colla. Rixa. Non se ne può per conseguenza recare giudicio , sebbene le oscurità e la ineleganza dell’elocuzione ci conducano ad asserire, che o Properzio non ne è l’autore, ovvero che gli amici suoi ebbero grave torto di dare in luce questi versi incominciati e abbandonati dal poeta. — La DI DOMENICO CARUTTI. 47 Rissa non discostasi dai genere properziano, benchè la scena a cui ci fa assistere, non si addica alla Cinzia da noi conosciuta, la quale, per cagion d'esempio, non vogliam credere che, anche perdonando all'amico colpevole, sarebbe tuttavia entrata in quel letto stesso che stava preparato per ricevere due pubbliche prostitute. Ma la spuria origine del componimento rivelasi a segni manifesti là dove Ligdamo fa da coppiere nel convito: Zygdamus ad cyatos. Ligdamo era servo di Cinzia, come sappiamo dall’elegia Ad Lygdamum del Terzo. In qual modo e per quale ragione sarebbe egli ora qui fatto ministro dei piaceri di Properzio? Chi ha scritto l’elegia ricordava il nome del servo, ma dimenticò che questo servo apparteneva a Cinzia, non a Properzio. Dimenticava pure che Sesto Aurelio era plebeo, e che perciò Cinzia, ponendo le condizioni della pace, e prescrivendo il contegno che dovea serbare in teatro, non potea dirgli : Colla (cave) inflectas ad summum obliqua theatrum. I cavalieri soltanto poteano inflectere collum ad summum theatrum per ragion del posto che loro competeva, mentre i plebei stavano in alto, là dove la falsa Cinzia non volea che il falso Properzio volgesse gli occhi. — L’elegia /r Zenam imita e starei per dire copia l'ottava del primo degli Amori di Ovidio. Chi fu l’imitatore? Non Ovidio, perchè gli Amori furono in gran parte composti e pubblicati prima della morte di Sesto Aurelio; non Properzio, crediamo, il quale non avrebbe poste disonestamente le mani nell’allora piccolo bagaglio del giovane suo amico. Notisi poi che in tutto il componimento non compare il nome di Cinzia. La riterrà apocrifa chi rifletta che Cinzia, regina fra le donne della schiera equestre, non avea bisogno del ministero della sozza vecchia , e che il poeta, durante le maggiori sue ire contro la nipote di Ostio, non la descrisse mai nè discesa, nè capace di scendere così basso. Vengo alla lodata elegia in morte di Cinzia. I concetti posti in bocca all'ombra di lei, e i fatti che ella rammenta sono così contrari ai sen- timenti di affetto che Properzio aveale portato in vita, e mostrano una indifferenza, una durezza di cuore tanto indegna di animo gentile che non è lecito crederla scritta dal poeta sopra le ceneri ancor calde della donna amata. Non solo costui non la visitò nell’ultima malattia, non solo non onorò di lagrime le sue esequie, ma già tiene in casa una volgare femmina, la quale fa fondere la cornice del ritratto 48 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. -dell’estinta per cavarne l’oro; e l'amante lo tollera. Questa Cinzia non ha nè parenti nè amici, mentre sappiamo che la vera Cinzia avea madre e sorella; se e l'una e l’altra fossero premorte, non l’avrebbero accen- nato o il poeta o l’ombra della defunta? Finalmente Cinzia che calasi dalla finestra, che mescolasi fra le sozzure della Suburra, che non ver- gognasi di dire : Saepe Venus trivio commissa et pectore mixto Fecerunt tepidas pallia nostra vias; non è la elegante se non casta donna celebrata da Sesto Aurelio. Taccio delle acque stigie, per cui passano separatamente le anime dei buoni . e quelle dei tristi: invenzione che non conciliasi nè colle notizie né colle massime fondamentali della mitologia infernale, da cui il dotto Properzio non sarebbesi dipartito. Noterò per altro che in questa e nella precedente elegia trovasi ripetuto cenno di maliarde , d’erbe incantate e filtri amorosi, a cui poco ci avea preparati la lettura di Properzio. Dove accennò a queste superstiziose fole, il fece con fina ironia; per esempio nella prima del Primo: At vos, deductae quibus est fallacia Lunae Et labor in magicis sacra piare focis ; En agedum dominae mentem convertite nostrae , Et facite illa meo palleat ore magis. Tunc ego crediderim vobis et sidera et amnes Posse Cytaeacis ducere carminibus. Le quattro elegie amorose sono dunque spurie. Riconosco in esse non poche bellezze, che mostrano nel poeta ingegno eletto e grande studio in Properzio; ma non so attribuirle al poeta dell’ Umbria, nè trovo sufficienti indizi a sospettare il vero autore. Le sei elegie: Roma, Vertumnus, Tarpeia, Mors Herculis, Juppiter Pheretrius, Pugna Actiaca, doveano far parte senza fallo di un poema in cui lo scrittore proponevasi di cantare i Fasti celebrando la religione dei popoli latini, e intrecciandola colla storia di Roma. Quale fosse il disegno, quale l’ordine dell’opera non possiamo arguire se non per congettura ; probabilmente batteva la stessa via seguita da Ovidio, ed avrebbe resa la marrazione non meno svariata, ma più dilettevole, e vorrei dire più drammatica. Così stando la cosa, noi domandiamo: se DI DOMENICO CARUTTI. 49 Properzio avesse posto mano a così vasto tema, sacra diesque canam, l'avrebbe egli taciuto agli amici? E se dopo la morte sua gli amici raccolsero e pubblicarono quel poco che ne avea scritto, come mai Ovidio avrebbe osato scrivere che Cinzia era stata l’unica opera di Sesto Aurelio? E perchè nei Fasti avrebbe passato in silenzio che prima di lui -Properzio avea scelto lo stesso argomento interrottogli dalla morte? Perchè avrebbe frodato l’amico della prima idea di cui gli era debitore, egli che a parecchie riprese lo cita con onore, egli che liberalmente lodò e i viventi e gli estinti, e ci serbò il nome di poeti che nessun altro scrittore ha registrato? Infine se per ingenerosa invidia di let- terato avesse taciuto il vero e alteratolo, come mai, fra coloro che mentovarono Properzio, nessuno avrebbegli restituito il dovuto onore? Ma c’è di più. Properzio avea divisato di cantare te origini e le glorie di Roma; nella quinta del Terzo gli compare Apollo e ne lo dissuade. Zisus eram, egli dice, Reges, Alba, tuos et regum facta tuorum Tantum operis nervis hiscere posse meis; Parvaque tam magnis admoram fontibus ora, Unde pater sitiens Ennius ante bibit, Et cecinit Curios fratres etc. Tale era la proposizione del poema properziano. Quale per contro è quella del poema dei Giorni ? Roma, fave, tibi surgit opus: date candida, cives, Omina, et inceptis dextera cantet avis. Sacra, diesque canam et cognomina prisca locorum. Sacra, dies, cognomina locorum non sono la storia romana cantata da Ennio, che Properzio volea scegliere per tema alla sua volta; e tutti i frammenti pseudoproperziani sono non istorici, ma mitologici e reli giosi, non esclusa la battaglia di Azzio. Queste obbiezioni preliminari, a cui non è facile rispondere, si avva- lorano esaminando la natura intrinseca dei componimenti. Essi, al pari degli amorosi, chiariscono fantasia vivace, poetica maestria, e portano l'impronta del secolo di Augusto; ma nello stile, se talvolta accostansi al properziano , non ne conservano più intiero lo stampo. La maniera del ritrarre gli avvenimenti nel Giove Feretrio e nella Morte di Ercole Serie II. Tom. XXVI. q 50 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. non è di Properzio neppur essa. Sesto Aurelio ama trasportarci nel bel mezzo del soggetto, coglierne i punti culminanti, porli in risalto, come vedesi nella Cleopatra e nell’Antiope del terzo libro; qui invece il poeta espone i fatti l'uno dopo l’altro con ordine storico e, starei per dire, cronologico. Più calda, più drammatica è la Zarpeia; frizzante e briosa la descrizione di Zertunno; ma in questi due frammenti sovra tutto non sentiamo più l’armonia del verso della Cinzia; il numero ovidiano ci sussurra più dolcemente nell'orecchio. Incomparabilmente superiori e belle di lirico impeto sono la Pugna azziaca e la Città di Roma; se non che l’autore toglie a man salva da’ suoi coetanei i colori, le imma- gini, le frasi, gli emistichi. Vegga il lettore: Pseudo Prop. ....Dicam: Troia cades, et Troica Roma resurges. Ovidio Fast. I..... Victa lamen vinces, eversaque Troia resurges. Pseudo Prop. ....Et maris et terrae longa pericla canam Prop. II, 28.... Et maris et lerrae caeca pericla viae. Pseudo Prop.....Nec sinuosa cavo pendebant vela theatro. Ovidio Art. am.l....Tunc neque marmoreo pendebant vela theatro. Pseudo Prop..... Pulpita solemnes non oluere crocos. Ovidio Art. am.I... Nec fuerant liquido pulpita rubra croco. Pseudo Prop.... Vesta coronatis pauper gaudebat asellis Ovidio Fast. 6...Ecce coronatis Panis dependet asellis. Pseudo Prop.... Curia praeterio qua nunc nîtet alta senatu, Pellitos habuîit rustica corda patres. Ovidio Art. an.IIl.. Curia, concilio quae nunc dignissima tanto est, De stipula, Tatio regna tenente, fuit. Pseudo Prop. .... Quattuor hine albis Romulus egit equos. Ovidio Art.an.I.... Quattuor in niveis aureus ibis equis. Pseudo Prop.....Quippe suburbanae parva minus urbe Bovillae. Ovidio Fast. 3....Orla suburbanis quaedam fuit Anna Bovillis. Pseudo Prop..... Has meus ad metas sudet oportet equus. Ovidio Fast. II .... Inque suo noster pulvere currat equus. Pseudo Prop..... Hoc, quodeumque vides, hospes, qua maxima Roma est, Ante Phrygem Aenean collis ct herba fuit. - Atque ubî Navali stant sacra palatia Phaebo, Evandri profugae concubuere boves. DI DOMENICO CARUTTI. 5I Fictilibus crevere Deis haec aurea templa Nec fuit opprobrio facta sine arte casa; Tarpeiusque pater nuda de rupe tonabat, Et Tiberis nostris advena bubus erat ..... Ovidio fast. L..... Dum casa Martigenum capiebat parva Quirinum, Et dabat exiguum fluminis ulva torum, Iuppiter angusta vix totus stabat in aede Inque Iovis dextra fictile fulmen erat. .... Hic ubi nunc Roma est, incaedua silva virebat, Tantaque res paucis pascua bubus erat. _ Arx mea collis erat..... Ide cavo .- Hic, ubi nunc Roma est orbis caput, arbor et herbae, Et paucae pecudes, et casa rara fuit. Tai o beso Qua petit aequoreas advena Tibris aquas. Td. Art. am.3....Quae nunc sub Phoebo, ducibusque palatia fulgent, Quid nisi araturis pascua bubus erant? Pseudo Prop. .... Vertite equum Danai! male vincitis: Ilia tellus Vivet et huic cineri Iuppiter arma dabit. Ovidio fast. |..... Urite victrices Neplunia pergama flammae: Num minus hic toto est altior orbe cinis. Questi raffronti sono tratti dalla sola elegia di Roma, che consta di soli settanta versi, ed è il più notabile dei frammenti. Nelle note al testo il lettore vedrà che lo stesso lavoro di mosaico scorgesi nella maggior parte. Alcune altre avvertenze, sebbene di minor momento, fanno altresì dubitare della loro autenticità. Properzio era dottissimo nelle favole greche, e sfoggiava la sua dottrina talvolta a scapito della poetica tem- peranza che si può chiamar buon gusto; niuno meno di lui dovea correre il rischio di errare nel citarle, e di confonder le une colle altre. Nella VIT del Secondo (la XII del Primo delle volgate) ricorda Ercole che muore sul monte Oeta, e viene assunto in cielo fra le braccia di Ebe. Nei frammenti invece egli muore nel Lazio, e la greca leggenda cede il luogo alla latina. — Narrano i mitologi che vi furono due Scille; la figlia di Niso che tagliò al padre il purpureo capello per amor di Minosse, e fu da questo gittata in mare, quindi trasformata in uccello; l’altra, figlia di Forco, dal cui ventre, per gelosia di Circe, nacquero i famosi cani latranti. Ovidio ed anche Virgilio (se non avvi menda di amanuense nel Scillam Nisi della VI egloga, v. 74, 75) confusero le due Scille: non Properzio che nella XVII del Terzo scriveva della figlia di Niso : 55 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. Tuque, o Minoa, venumdata Scylla figura, Tondens purpurea regna paterna coma. Hanc iîgitur dotem virgo desponderat hosti: Nise, tuas portas fraude reclusit Amor. At vos, innuptae, felicius urite taedas; Pendet Cretea tracta puella rate. Ora l’autore dei frammenti confonde le due Scille , e attribuisce alla figlia di Niso i cani latranti alle anguinaie (v. Zarpeia): Quid mirum in patrios ScyIlam saevisse capillos ? Candidaque in saevos inguina versa eanes? Niuno ignora la favola di Caco Aventinae timor atque infamia silvae: l’autore gli dà tre teste come a Gerione che avea nominato poco prima (v. Mors Herculis): Macnalio iacuit pulsus tria tempora ramo. Dalle cose dette vuolsi impertanto conchiudere che i brani del poema dei Giorni sono opera di un ingegno colto e poetico, ma non insigne pel merito dell’originalità, il quale non derivò dai soli Greci le ispirazioni de’ suoi canti, ma imitò Ovidio assai più che il vero Properzio. Il medesimo ripetasi dell’epistola di Aretusa. L'idea di questo com- ponimento, imitazione delle Eroidi di Ovidio, appare cavata dalla XIII del Terzo di Properzio, nella quale il poeta rimprovera a Postumo l’ab- bandono di Elia Galla. Le Eroidi furono per la più parte composte e pubblicate prima della morte di Sesto Aurelio. Questi, dove avesse voluto provarsi in siffatta maniera di poetare, avrebbe cercato di darle una forma sua propria, nè avrebbe calcate modestamente le orme dell’in- ventore senza nulla aggiungervi di proprio. Inoltre nel primo ed unico saggio di questa maniera non sarebbesi dato a divedere così povero d’invenzione da dover trattare due volte il medesimo soggetto. Resta l’elegia dell’Astrologo. Il frammento su Roma termina la pro- posizione del poema dei Giorni con questi due versi: Sacra, diesque canam et cognomina prisca locorum: Has meus ad metas sudet oportet equus. ti Ai quali vengono dietro senza più i seguenti: DI DOMENICO CARUTTI. 53 Quo ruis imprudens, vage, dicere fata, Properti? Non sunt ah dextro condita fila colo. Aversis Musis cantas, aversus Apollo: Poscitur invità verba pigenda lyrd. È incontanente compare FAstrologo. Questi, tessuta la propria genealogia, va narrando aneddoti a procurar fede alla veridicità del suo spirito profetico, espone per sommi capi la vita del poeta a cui parla, e finisce tirando l’ oroscopo e predicendogli la ventura. I commentatori hanno spiegato i quattro versi surriferiti come un’intimazione dell’Astrologo allo scrittore di tralasciare l’opera dei Giorni incominciata, senza badare che non avvi logica connessione fra il supposto divieto e la genealogia di Oro, e che l’esametro At tu finge elegos, fallax opus; haec tua castra, che leggesi sessanta versi dopo, non contiene la proibizione di atten- dere al poema, ma bensì il consiglio e l’eccitamento di coltivar le Muse a preferenza degli studi forensi, e si riferisce al verso antecedente: Et vetat insano verba tonare foro. I quattro versi sono una pretta e non ingegnosa interpolatura, che pugna con ciò che precede e con ciò che consegue. L’interpolatore, trovando nel suo esemplare congiunte le due elegie Roma e l’Astrologo, e parendogli che lo sbalzo fra l’una e l’altra fosse veramente troppo pindarico, fabbricò due distici che servissero quasi di ponte, e volle che Oro parlasse nominativamente a Properzio, perchè, stando al codice che avea dinanzi, teneva Properzio per autore del Quarto libro. L’elegia V del Terzo della Cinzia gli porgeva il concetto e i colori: Apollo avea ammonito Sesto Aurelio: Non hic ulla tibi speranda .est fama, Properti, Non est ingenii cymba gravanda tui. Ovidio l’aiutò anch'esso (Fast. 7 ) Aversis utinam tetigissem carmina Musis. L'identità della natia provincia di Properzio e del poeta a cui l’in- dovino volge il discorso, alcuni particolari che a prima giunta sembrano poterglisi riferire, fecero credere in seguito che Oro raccontasse proprio * 54 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. la vita di lui. Ma chi più accuratamente disamini la cosa, conchiuderà in altro senso. L'astrologo sa il passato e l'avvenire, e per primo saggio dell’arcana sua dottrina dice al poeta: Umbria te notis antiqua Penatibus edit : Mentior? an patriae tangitur ora tuae? Properzio che avea scritto nell’ultima del Primo: Proxima supposito contingens Umbria campo Me genuit, terris fertilis uberibus, Properzio avrebbe sorriso della ingenuità dell’ indovino che facea una scoperta nota a tutta Roma dopo la pubblicazione del Primo della Cinzia. L'astrologo continua: i Mox , ubi bulla rudi demissa est aurea collo, Matris et ante Deos libera sumpta toga: . La bolla aurea che pendea dal collo dei giovanetti era un distintivo dell’ordine equestre; Properzio non era cavaliere, e quando parlò dei sedici anni suoi, disse di aver deposta la pretesta, non già l’aurea bolla. Né ciò basta: Sesto Aurelio confessava di non vantare alcun antenato illustre (Eleg. ultima del Secondo). Nullus et antiquo Marte triumphus avi: il poeta dell’astrologo invece gloriasi di rotis penatibus. L'astrologo dice: Tum tibi pauca suo de carmine dictat Apollo, Et vetat insano verba tonare foro. Ma Properzio nega d’essersi consacrato alle cure del foro, anzi dichiara che coltivò le Muse dalla prima gioventù: nè Apollo, che il garriva di voler dar fiato alla epica tromba, ebbe occasione di rimproverargli alcuna infedeltà per cagione di Temi, Non basta ancora; l’astrologo prosegue: Nam tibi victrices, quascumque labore parasti , Eludet palmas una puella tuas. Questo poeta avea dunque sostenuti uffici pubblici; avea o militato od ottenuta lode in qualche civile disciplina; e l’avea ottenuta sudando e faticando. Properzio non perorò. nel foro, non fu soldato, non coprì DI DOMENICO CARUTTI. 55 alcuna magistratura, non fece nulla, e non vergognavasi di essere stato sempre na contentum vivere amica. Finalmente l’indovino dà al poeta l’ammonimento finale : Octipedis Cancri terga sinistra time; cioè guardati dall’avarizia della donna che ami, come spiegano i com- mentatori. Ma se Properzio, sdegnato contro il pretore illirico, accusò Cinzia di ponderare amatorum sinus, non si lagnò mai di essere stato vittima della cupidità di lei; per contro proclama del continuo di essere stato amato, sebbene nor ita dives, di essere stato preferito ai ricchi e ai nobili; e nei maggiori impeti delle sue collere gelose ci assicura che Cinzia non gli domandava altro che Quae nitent sacrà vilia dona via. Properzio, richiesto dall'amico Tullo di qual sangue e di qual paese fosse, avea risposto col breve componimento con cui termina il primo libro. Ora nell’elegia su Roma e in quella dell’astrologo ripete di nuovo che è nato nell’ Umbria. A chi non parranno soverchie tre ripetizioni? Ma pochi badarono alla contraddizione dei due luoghi: Properzio disse: Proxima supposito contingens Umbria campo me genuit; cioè in un luogo basso, piano, e non sopra un colle, in luogo alto. Per contro il poeta dell’elegia in discorso ci fa sapere che la sua terra è posta sulla vetta di un poggio: Scandentisque arcis consurgit vertice murus. Inoltre non fu abbastanza notato che la descrizione del Quarto libro è imitata da Ovidio. Nell’ultima degli Amori Nasone scriveva : Atque aliquis spectans hospes Sulmonis aquosi Moenia, qua campi iugera pauca tenent, Quae tantum, dicet, potuisti ferre poètam, Quantulacumque estis, vos ego magna voco. E il Pseudo-properzio: Scandentes si quis cernet de vallibus arces, Ingenio muros aestimet ille meos. Qua nebulosa cavo rorat Mevania campo Et lacus aestivis intepet Umber aquis, etc. E la interrogazione dell’astrologo : Mentior? an patriae tangitur ora tuae? 56 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. non è consanguineo dell’ovidiano : Fallor? an in dextra myrtea virga fuit? Per ultimo il distico: Ut nostris tumefacta superbiat Umbria libris, Umbria, Romani patria Callimachi sta ottimamente in bocca di un ammiratore di Properzio, ma in bocca di Properzio stesso riesce illodevole. Se Orazio avesse davvero voluto nelle Satire mordere il giovane Umbro, non avrebbe potuto aguzzar meglio la punta de’suoi dardi, che copiando il tronfio pentametro. Riassumiamo: Properzio non avea antenati illustri, non era cavaliere, non si travagliò nel foro, non ideò un poema sui Giorni sacri, non fu vittima dell’ avarizia di Cinzia, non dovea temere le sinistre terga del Cancro. Benchè non sentisse rimessamente. di se stesso, e tenesse nel debito conto i propri» versi, non sarebbesi battezzato per Callimaco Romano anche pensandolo. L’astrologo ha consultato il pianeta di un altro poeta. Nè sarà difficile l’indovinare come abbia preso nascimento l’equi- voco. Le poesie del Quarto libro trovavansi per avventura trascritte in calce del codice stesso che conteneva la Cinzia. Nelle amorose Cinzia è citata a nome; come dubitare che fossero properziane? Alcune affinità di stile, l'essere ambidue i poeti nati nella stessa provincia, Callimaco dall’uno e dall'altro propostosi ad esemplare provarono ampiamente all'’amanuense ed a chi gli commetteva la copia, che i brani del poema erano di Sesto Aurelio. L’idea dell’epistola di Aretusa tratta dalla elegia a Postumo, era indizio bastevole per farla attribuire allo stesso autore. Sopraggiunse l’interpolatore dell’infelice verso Quo rus imprudens, e la dimostrazione fu compiuta, e il tempo la consacrò. Nè io so quale con- cetto i lettori si faranno di me, che primo oso inscrivermi contro. Ma Tibullo anch'esso per lungo tempo fu ritenuto autore di tutto il Quarto libro, ed ora niuno più ardirebbe affermare, che il panegirico di Messala, ed altre elegie che ivi ‘si leggono, siano opera sua. La critica dovrà contentarsi a disdire a Sesto Aurelio il Quarto libro, e non darà qualche lume intorno al legittimo autore? Delle quattro elegie amorose, non altro oso affermare, se non che non sono di Pro- perzio; non così delle rimanenti. DI DOMENICO CARUTTI. D7 V. Dell’autore del poema dei Giorni, dell’epistola di Aretusa e dell’elegia dell’ 4strologo. - Ovidio nell’ultima ex Ponto passa in rassegna la più parte dei poeti suoi coetanei, nomina Marso, Rabirio, Macero, Pedone, Caro, Severo, Prisco, Montano: Et qui Penelopae rescribere iussit. Ulyxem Errantem saevo per duo lustra mari; Quique suam Troezena imperfectumque Dierum Deseruit celeri morte Sabinus opus. Jo penso che a questo Sabino, scrittore di epistole ad imitazione delle Eroidi, e autore di un poema dei Giorni, interrotto da morte immatura, debbansi restituire i frammenti del poema attribuito a Properzio e l’epi- stola di Aretusa. Nella stessa guisa che le Eroidi aveano suggerita a Sabino l’idea delle risposte, così i asti gli somministrarono il disegno dei Giorni. Il che ci rende eziandio ragione delle perpetue reminiscenze ovidiane notate in quei componimenti. Credo altresì che a Sabino ap- partenga l’elegia dell’AstroZogo. Abbiamo da Seneca il Retore, citato da Pietro Crinito, che primum tempus suae aetatis in causis atque decla- mationibus collocavit; quindi chiari i due distici : Tum tibi pauca suo de carmine dictat Apollo Et vetat insano verba tonare foro ..... Nam tibi victrices, quascumque labore parasti, Eludet palmas una puella tuas. Ovidio nella 18 del Secondo degli Amori scrive pure : Quam celer e toto rediit meus orbe Sabinus, Scriptaque diversis retulit ille locis! Candida Penelope signum cognovit Ulyxis; Legit ab Hyppolito scripta noverca suo. Iam prius Aeneas miserae rescripsit Elisae; , Quidque legat Phyllis, si modo vivit, habet. Serie I. Tom. XXVI. $ 58 SAGGIO CRITICO. INTORNO A PROPERZIO , ECC. Tristis ad Hyssipylen ab Iasone litera venit: Det votam Phaebo Lesbis amata lyram. Scorgiamo da questi versi, che nel 739, anno in cui credonsi pubblicati gli Amori, Sabino avea composte sei lettere in risposta alle Ovidiane. Probabilmente ogni epistola ebbe la sua replica (1). Eccoci impertanto memoria di tre libri di Sabino: le Epistole} i Giorni e la Trezena. Di questa nulla sappiamo di certo. I codici al verso di Ovidio Quique suam Troezena variano maravigliosamente nella lezione. Gli uni recano Zraezon, Trisene, Crozimon, Trisam, Timeson ecc.; altri Troien, Troadem, Troisem ecc. Laonde alcuni interpreti dissero che il libro di Sabino trattasse delle imprese da Teseo fatte presso Trezene, città del Pello- poneso, su cui regnò Pitteo suo avo materno. ‘Futtavia i più opinano, che Trezena sia il finto nome della donna amata e cantata dal poeta; perciò il verso di Ovidio indicherebbe le poesie amorose di Sabino. L'elegia dell’Astrologo ci fa conoscere che egli nacque nell’ Umbria Romani patria Callimachi, cioè di Properzio. I noti Penati, e il verso Mox ubi bulla rudi demissa est aurea collo, chiariscono che la sua famiglia era antica e cospicua, ed apparteneva all'ordine equestre. Nè l’anno della nascita, nè quello della morte ci sono noti. Coetaneo di Ovidio ,, morì prima che questi esulasse da Roma, perciò prima del 762. L’Astrologo ci narra, che perdette il padre in tenera età, e buona parte delle avite sostanze, verosimilmente al tempo della distribuzione delle terre ai veterani di Cesare; che si applicò dapprima all’oratoria, ed abbandonò il foro per le Muse e gli amori, dai quali non seppe mai strigarsi: Et bene cum fixum mento discusseris uncum Nil erit hoc: rostro te premet ansa suo. Il verso poi Octipedis Cancri terga sinistra time ci fa argomentare quale si fosse la sua Trezena, e mette sospetto che l’elegia rn Zenam si riferisca a lei. Chi poi badasse all’ indole (1) Questa è pure l’opinione di G. C. Jahn: De P. Ovidi? Nasonis et A. Sabini epistolis disputatio. Lipsia, 1826. Procul -dubio, egli dice, Sabinus omnibus epistolis, quas Ovidius tune scripsit, respondit. DI DOMENICO CARUTTI. 59 dell’ ingegno di Sabino, che toglieva da altri a prestanza le invenzioni, e facilmente imitava l'altrui maniera, pur conservando non so quale fisonomia sua propria, potrebbe supporre che egli sia pure l’autore della elegia in morte di Cinzia, della Rissa e del Dragone di Lanuvio. I moderni chiamano Aulo il nostro Sabino; Seneca invece lo disse C. Clodio (1). L’errore in cui caddero i moderni venne riconosciuto non è gran tempo, grazie alle indagini d’un dotto tedesco, e qui cade in acconcio di additarne la origine. Leggonsi in calce alle Eroidi, ovvero in fine delle opere di Ovidio tre epistole responsive di Penelope ad Ulisse, di Demofoonte a Fille, di Paride ad Enone, impresse per la prima volta nella edizione prin- cipe delle Eroidi fatta in Venezia del 1486. Gli editori le dissero opera di A. Sabino, e vi aggiunsero queste parole: A. Sabinus, eques romanus celeberrimus, vatesque, Nasonis temporibus floruit. Qui has omnes res- ponsorias et alias edidit, quae non reperiuntur. Ma poco appresso co- minciò a dubitarsi della loro autenticità, ed Aldo Manuzio scriveva : Tres quae habentur, mihi non modo non videntur Sabini, sed ne excel- lentis quidem cuiusquam poètae. E Daniele Einsio: ita languent, ut ne hac aetate quidem scriptas ferre possem. Per contro Scaligero e Nicolò Einsio le credevano veramente opera dell’amico di Nasone; e così pure fra 1 più recenti Lennep e J. C. Jahn. L'ultimo dei quali stampò anzi nel 1826 una dissertazione per provare appunto che non erano indegne nè di buon poeta, nè del secolo augusteo. Nel 1837 un altro Jahn (Otto) avvertì che erano opera di Angelo Quirino Sabino, letterato romano, vissuto nel secolo XV, ed autore di parecchi lavori critici sopra i classici antichi. Nelle Parudoxa in Juvenali egli diceva: Cum per aèris intem- periem ab urbe Roma in Sabinos Cures me recepissem, heroidibusque Nasonis poétae inclyti heroas respondentes facerem, venit etc. Sono le Epistole da lui dettate, che gli editori di Venezia stamparono come opera dell’antico Sabino. AI quale per altro apparterranno probabilmente le tre responsive di Elena a Paride, di Ero a Leandro e di Cidippo ad Aconzio. Ovidio ci (1) Orazio Ep. 5, i: Butram tibi, Septitumque Et nisi cena prior, potiorque puella Sabinun: Detinet, adsumam. Alcuni commentatori opinano che si tratti del poeta Sabino. 60 SAGGIO CRITICO INTORNO A PROPERZIO, ECC. fece noto, che Sabino avea assunto il tema delle risposte; ora se il maestro avesse voluto correre l’arringo del discepolo, .parmi che non l'avrebbe taciuto, nè sarebbesi ristretto a calcare strettamente le vestigia delle missive, ma avrebbe trovati nuovi colori, muovi concetti, nuovi episodi. Aggiungasi che l’epistola ‘di Elena a Paride, la migliore delle tre, nel codice Palatino s'intitola: Sadini poétae epistola qua Alexandro Helena respondet. i Ove i dotti uomini col loro consentimento venissero confortando le ragioni che ci conducono a restituire a Sabino le elegie pseùdoproperziane e le Eroidi pseudovidiane, noi avremmo riacquistata una parte delle opere del poeta che Ovidio celebrò con sì larga vena d'affetto, e di cui nulla conoscevamo (1), perchè i tre componimenti che corrono (1) Era già scritto questo discorso, quando ebbi notizia delle Novae Quaestiores Propertianae di C. Heimreich, pubblicate in quest'anno (1867) a Lipsia, in cui assegnasi pure ad altro poeta la paternità del Quarto Libro, eccettuandone la Cornelia; e sono lieto di non irovarmi più solo nella mia opinione; se non che egli ne sospetta autore Passennio Paolo, di cui sì è parlato a suo luogo. Quesia ipotesi, non essendo confortata da alcuna testimonianza contemporanea, nè da alcuna induzione storica, non porge materia ad un lungo esame analilico. Ecco le parole di Plinio: « In latinis literis veteres aemulatur, ewprimit, reddit; Propertium in primis, a quo genus ducît, vera soboles, coque simillima illi, in quo ille praccipuus. St elegos eius in manum sumpseris, leges opus tersum, molle, jucundum et plane în Propertii domo scriptum. Nuper ad lyrica deflerit, in quibus ita Horatium ut in illis illum alterum effingit. Putes, si quid in siudiis cognatio valet, et huius propinguum. Magna varietas, magna mobilitas. Amat ut qui verissime, dolet ut qui impatientissime, laudat ut qui benignis- sime, ludit ut qui facetissime. Omnia denique tamquam singula absolvit. » L’elogio non può deside- rarsi più liberale. Passennio Paolo fu dunque egregio poeta. Invece Heimreich assevera con ingiusta severità, che dei carmi del Quarto Libro, alcuni sono assurdissimi e rozzissimi, altri inelegantissimi e sporcissimi, e che tutti puerilem sapiunt et scholasticum pottam crassaque Minerva; non portar quindi il pregio di occuparsene: sed satîs de absurdi pottae inetiis. Se ciò fosse vero, sarebbe giuoco- forza cavarne una di queste due conseguenze: o Plinio, lodatore sì generoso di Passennio, non avea fiato di buone lettere e di buon gusto, ovvero il Quarto Libro non può essere fattura del discendente di Properzio. Sapere da ottimo giudice che un poeta de’suoi tempi emulava negli scritti , suoi le bellezze degli antichi, e porre gratuitamente il nome di quel poeta sotto versi tristissimi, è- un controsenso. Inoltre Plinio, mentre ricorda le poesie amorose e le liriche di Passennio, non fa menzione alcuna del poema dei Giorni e delle Epistole eroiche. L’ ipotesi che egli ne sia l’autore, trovasi quindi implicitamente infermata se non contraddetta dal silenzio del panegirista di Trajano, che non avrebbe taciuto che l’amico suo, non contento di calcar le orme di Properzio e di Orazio, cimen- tavasi altresì con Ovidio, e cantava i Fastì romani. Il critico tedesco reca questi versi della Pugra Actiaca: Hic referat sero confessum foedere Parthum: Reddat signa Remi, mox dabit ipse sua. Sive aliquid pharetris Augustus parcet Evis, Differat in pueros ista tropaea suos. DI DOMENICO CARUTTI. 61 sotto il suo nome appartengono ad un suo omonimo vissuto mille quattrocent’anni dopo di lui. Gaude, Crasse, nigras si quid sapis inter arenas , Ire per Euphratem ad tua busta licet; ed argomenta che siavi cenno della spedizione di Caio Cesare, figlio di Agrippa e di Giulia, nipote e figlio adottivo di Augusto. La spedizione avendo avuto luogo nel 754, Properzio, morto verso il 789, non potea parlare d’una impresa compiutasi una quindicina di anni dopo; dunque l’elegia non è properziana. Credo anch’io che in quei versi il poeta alluda alla spedizione di Caio Cesare, e che abbia imitato Ovidio (I De Arte amardî ); ma non debbo dissimulare che essi possono spiegarsi senza detrimento della cronologia da chi li ascrive a Properzio. Infatti, diferat in pueros può benissimo riferirsi ai giovani Tiberio e Druso, viventi nel 738, e che poco appresso acquistarono fama nelle guerre delle Alpi e della Germania, come sanno tutti coloro che leggono Orazio. Pro- perzio perciò sarebbe stato in condizione di affermare che Augusto serbava ad essi la gloria di vincere l’ultimo Oriente; quindi non credo che si possa cavare valido argomento in pro di una tesi contraria. Tuttavia, ripeto, penso io pure che il poeta avesse l’occhio alla spedizione che preparavasi verso il 752, e che terminò nel 754 colla morte di Caio Cesare per ferita ricevuta in battaglia. Ma, se ben veggo, quei versi doveltero appunto perciò essere scritti prima del 754, perchè, dopo il luttuoso fato del giovane principe romano, niuno avrebbe celebrata anticipatamente come vittoria l’infausta impresa, e niuno avrebbe pensato a ciò fare sotto Trajano. Passennio Paolo non è dunque |’ autore dei Frammenti. Heimreich opina che il Quarto Libro non porti l’impronta del secolo augusteo, senza per altro addurne prova di sorta alcuna. Per me credo, che chi esamini quelle elegie risconirandole coi fatti storici a cui sovente si riferiscono, e ne consideri l’artificio dello stile, non dubiterà, e per lo stile e pei fatti a cui si collegano di continuo, che non appartengano all’età aurea: Lucano e Seneca non hanno preceduto colui che le dettava. Ho errato nel dire che il critico si contenti ad una semplice affermazione: al verso Gaude, Crasse, nigras sr quid sapis inter arenas notò; omnes aureae aelatis poùtae in casibus obliquis longam esse voluerunt primam syllabam verbi niger; corripuit hoc uno loco pseudo Propertius. Scrivendo ciò, egli non ricordavasi di questo verso: Et pulsata nigri regia caeca Det. Ovidio (Hero:d. 2) faceva breve zigri; corripuit anch'esso. DR cr "© sana RI È i 1 Osmate AR i aaa i ben Sgoikienna si atgi 40 | pn ini è pa Dt, o el agro VINI 3 Aotione de apr: Tar. (NI sla MONETE DELLE ZECCHE MESSERANO E CREVACUORE DEI FIESCHI E FERRERO MEMORIA DI DOMENICO PROMIS Memoria letta nell’ adunanza del 31 Gennaio 41869 N ella prefazione alla Memoria sulla zecca di Desana pubblicata nel 1863 dissi essere mia intenzione di farla seguire ancora da due altre per completare la serie di quelle minori esistenti già nelle nostre antiche provincie, cioè da quelle di Saluzzo e di Messerano, perchè quantunque îl Muletti (1) avesse riportato un buon numero di disegni di monete della prima, neppure una parola aveva detto delle officine de’ suoî marchesi, ed in quanto alla seconda il Litta @®) soltanto come monumento ‘ad illustra- zione delle tavole genealogiche della famiglia Ferrero di Biella, e senza far motto delle loro zecche, fece incidere le monete che di essi io gli aveva comunicate. Avendo poi riconosciuta l'impossibilità di rinvenire alcun documento concernente la zecca marchionale dei Saluzzesi, ed avendo scoperto appena due 0 tre monete inedite di essi, abbandonar il pensiero di illustrarla ed esclusivamente attesi a racco- gliere quanto mi riuscisse di trovare relativamente a quella di Messerano, e tanto (1) Memorie storico-diplomatiche appartenenti alla città ed ai. marchesi di Saluzzo. Ivi 1829-1833, volumi 6. (2) Famiglie celebri italiane. Milano 1841, fascicolo 50. 64 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE più volontieri ciò feci che il genealogista milanese, come estranee al suo scopo, con quelle dei Ferrero non aveva inserto le più antiche dei Fieschi, dai quali essi avevano ereditato tale feudo, e che dopo la sua pubblicazione ebbi la fortuna di accrescere di molto il numero deî pezzi inediti ed ho potuto servirmi delle memorie raccolte dal cardinale Vittorio Ferrero della Marmora, che gentilmente mi furono comunicate dall'attuale principe Tommaso suo pronipote, e nelle quali trovai quanto relativamente alla loro zecca conservavasi ancora sul finire dello scorso secolo nel- l’archivio del ramo primogenito ora estinto. Con tali materiali m'accinsi a stendere questa memoria sopra le officine e monete sia di Messerano che di Crevacuore, la quale sebbene interrottamente, però contem- poraneamente alla prima lavorò come spettante agli stessi signori. Divisi poi il mio scritto in due parti, cominciando la prima dall'epoca in cui i Fieschi furono investiti nel secolo XIV di questi feudi nel Piemonte e terminandola ai primi lustri del xVI allorchè essi passarono nei Ferrero, e la seconda da Filiberto, che fu il primo del suo casato a possederlì per adozione fatta di esso nel ASA" da Ludovico II Fieschi, sino al finire del XVII, allorchè cessarono le dette zecche di battere quando il principe Carlo Besso andò al servizio di Filippo V re di Spagna. Noterò poi che î disegni delle monete, per la massima parte tratti da esemplari conservati nel medagliere di S. M. in Torino e mel famigliare dei Ferrero della Marmora, oltre alcuni favoritimi da amici o copiati in antiche tariffe, tutti furono incisi su pietra dall'intelligente disegnatore signor Carlo Kunz di Venezia, il quale unisce all'arte importanti cognizioni numismatiche. DI DOMENICO PROMIS. 65 FIESCHI. Tra le più illustri famiglie di Genova annoverasi quella dei Fieschi sin dall’x1 secolo conti di Lavagna nella riviera di Levante. Da essa sul principiar del secolo xiv nacque un Giovanni pro- mosso da papa Clemente VI nel 1348 al vescovato di Vercelli, il più antico ed illustre del Piemonte. Siccome per donazione degli imperatori carolingi dalla sua mensa nel temporale molte terre dipendevano , e queste continuamente dai confinanti feudatari laici essendo molestate ed a Giovanni difficile riuscendo il difenderle colle sole sue forze, ebbe egli ricorso al fratello Nicolò ricco cittadino di Genova e signore di molti feudi in quelle parti, il quale potè rendergli grandi servigi e con- servargli quanto la chiesa vercellese possedeva nella vasta sua diocesi. Volendo egli perciò compensarlo delle gravi spese alle quali per questo aveva dovuto soggiacere, circa il 1370 diedegli in feudo Messerano e Crevacuore (*) terre semoventi dalla sua mensa, ed essendo mancato ai vivi Nicolò che in esse aveva trasferto la sua residenza, i due suoi figliuoli Ludovico, indi pure vescovo di Vercelli nel 1334, ed Antonio laico chiesero ed ottennero nel 1394 da papa Bonifacio IX (!) che ne fosse approvata l’ottenuta vescovile investitura. Da Ludovico, figliuolo d’Antonio, nacquero Innocenzo (**) e Pietro Luca I ambidue signori per ugual parte di dette terre, e padri il primo di altro Ludovico ed il secondo di Giovanni Giorgio (?). (*) Oltre queste due i Fieschi ebbero anche dalla chiesa di Vercelli, Moncrivello, Brusnengo, Curino, Flecchia, Rivo e Villa, ma che tralascio di nominare, di esse non avendo alcuna occasione di parlare in questo lavoro. (1) FepERici. Della famiglia Fieschi. Genova 16 .., pag. 193. (**)In bolla di Leone X delli 10 novembre 1517 (Aggiunta al sommario ecc., Torino 1834, pag. 151) è questi chiamato Timoteo, ma nel libro Zrstrumenta conventionum inter dominos de Flisco ac communitatem Messerani ( Varalli 1692) a pag. 3 Ludovico co? suoi fratelli e Gio. Giorgio, confermando li 22 maggio 1492 alla medesima i suoi privilegi, dice cum ita sit, guod his prorime elapsis diebus mortuus sit magnificus et potens vir D. Innocentius de Flisco condominus Messerani relictis post se Lodovico et eius filiis, onde credetti dovermi a preferenza attenere al nome che trovasi in questo atto contemporaneo che all’altro, abbenchè ambidue egli portasse. y () Sulla spettanza del feudo di Messerano sentenza della R. Camera dei conti delli ‘47 aprile 1843. Torino idem Tavola genealogica annessavi. Serie II Tom. XXVI. 9 66 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Prima però di parlare di essi credo necessario di far notare che i Fieschi sin dal 1249 avevano ottenuto da Guglielmo re dei Romani un diploma, confermato indi da vari suoi successori, col quale concedevasi al più anziano del casato il diritto di batter moneta con queste parole (1): Ad haec etiam vos et domum vestram ac haeredes vestros in perpetuum cupientes specialibus honoribus et insigniis decorare, vobis huiusmodi concedimus potestatem ut cuicumque de domo praedicia nunc est et in perpetuum fuerit pro tempore maior natu, cudendi monetas novas sub nomine imperatoris in terra vestra et ubicumque per Italiam cuiuscum- que speciei vel generis sub imagine et superscriptione regis vel Caesaris habeat facultatem, eaedemque imperiales nuncupentur pecuniae, et ubi- cumque sicut monetae legitimae comuniter expendantur. i Il Carli Rubbi (, seguìto da altri, avendo veduto sopra le monete di Ludovico HI e Pier Luca II Fieschi sempre messo come primo fra i loro titoli quello di comes Lavaniae , credette averle tale illustre famiglia fatte lavorare in questa terra, ma cadde in errore perchè -sin dal 1166 e più ampiamente nel 1198, cioè una cinquantina d’anni almeno prima che tal privilegio loro fosse stato concesso, avevano ceduto Lavagna al comune di Genova (, il quale, potente come già era e giustamente geloso degli interessi de’ suoi cittadini, non avrebbe tollerato che suoi dipendenti, tali essendo divenuti dopo il 1166 questi conti, in luogo sì vicino battessero monete, le quali colle proprie confondendosi avrebbero potuto essere cagion di danno al suo commercio; e che così fosse una prova indiretta l'abbiamo in una carta del 1253 (A, pella quale avendo Giacomo, figliuolo di Opizzone Fieschi signore di Savignone nei monti liguri, promesso a Runfredo da Siena di ottenere da suo padre mediante cento lire genovesi che potesse lavorare in detta terra, miliarenses boni et iusti ponderis eo modo et pondere quomodo fuerit în civitate Ianuae , e quantunque tale castello fosse feudo imperiale epperciò da Genova indipendente, tuttavia credette dover inserire nell’atto la clausola che il (1) FEDERICI pag. 95, e LuniG. Corpus Italiae diplomaticus. T. IT, Francfurti, 1726, col. 1459 (2) Delle monete e della instituzione delle zecche d’Italia. Mantova 1754, pag. 209. Da quest’autore vengono collocate tra le zecche d’origine incerta quelle di Lavagna e Messerano dei Fieschi, ma se avesse veduto il Federici ed il Lunig non sarebbe caduto in tale errore. (3) Historiae patriae monumenta. Liber iurium reipublicae Genuensis. T. II, Taurini 1854, col. 222 FEDERICI, pag. d. i (4) Archivio di Genova. Pandette Richeriane. Indice fogliazzi 1 e 2, fol. 355. DI DOMENICO PROMIS. 67 Runfredo da questo Comune prima ne avesse ad ottenere la licenza, senza la quale dichiarossi come non avvenuta la convenzione. Che poi Genova abbia o no ciò permesso per nulla consta, però per la ragione sopra addotta probabilmente tal domanda deve essergli stata negata, e veramente pare impossibile con tanti raccoglitori solerti ed intelligenti che conta la nostra penisola, e dopo sei secoli dacchè questo casato possiede il diritto della zecca, che qualora nelle sue terre dell’Appennino ligure ne avesse usato, a nessuno fosse mai stato dato di scoprire qualche moneta che plausibilmente potesse credersi battuta da esso in alcuno dei tanti feudi che in quelle parti possedeva, e con qualche segno che ne indicasse l’autore, tanto più che nel secolo xnr universale era quest’uso. Non constando adunque in alcun modo che a quell’epoca nelle loro terre i Fieschi abbiano avuto alcun’officina monetaria, devesi procurare di vedere se altrove monete coniassero. Troviamo bensì che nella valle del Taro il principe Sinibaldo come capo del suo casato battè testoni, ma su di essi mise solamente il titolo di Princeps vallis Tari per indi- care che questo era lo stato da lui posseduto, e poi non cominciò a batterne che dopo d’averne ottenuto l’investitura da Carlo V nel 1524 (!), quando in Piemonte già da qualche lustro avevano zecca gli altri Fieschi, e se di tal privilegio egli usò, ciò fece in seguito alla concessione di Guglielmo specialmente confermata a Gian Luigi suo padre dall’impe- ratore Massimiliano I nel 1496 (® unicamente per ciò che riguardava i feudi che teneva vicini alla repubblica di Genova. Altri ugualmente ne possedeva questa famiglia in Lombardia e nel regno di Napoli, ma ivi regalie non aveva, onde i soli, ad eccezione di Borgotaro, nei quali consta aver essa aperto zecca, ed ancora soltanto tra il finir del xv ed il principiar del xvi secolo, sono quelli del Vercellese, ed ora contempora- neamente ora alternativamente in Messerano e Crevacuore, però sempre abusivamente, poichè questi feudi dipendevano esclusivamente dalla Chiesa e nessun simile privilegio era ad essi stato concesso dai Sommi Pontefici come scorgesi dalle investiture loro date da Bonifacio IX nel 1394 e da’ suoi successori sino a quella di Paolo II, delli 29 no- vembre 1538, concessa sulle istanze del cardinale Bonifacio Ferrero, (1) PicoRINI. Memorie storico-numismatiche di Borgotaro, Bardi e Compiano. Parma, 1863, Tav. I, N° 1. (2) FEDERICI, pag. ili. 65 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE allora di grande autorità nella corte di Roma, a favore di Filiberto suo nipote succeduto per adozione ai Fieschi, nella quale è detto che: pro parte tua (di Filiberto) nobis nuper exhibita petitio continebat, quod licet iamdudum domini in temporalibus castri Messerani vercellensis dioecesis tam ex diversis concessionibus sedis apostolicae , cuius feudatarii R. E. ipsius castri existebant, quam ex privilegio sacri imperii fuerant in possessione cudendi seu cudi faciendi monetas aureas et argenteas, illasque aliquando cum insigniis imperialibus et aliguando sine illis cudi fecerini, extetque adhuc privilegium eiusdem imperii super idem con- fectum, et in vim illius monetae huiusmodi ad praesens cudentur, nihilo- minus cum concessiones antiquae dictae sedis propterea quod arx ipsius castri a decem annis citra a militibus hispanis ter dirupta fuit , non inveniantur , et tu modernus ipsius castri in comitatum postmodum erecti comes cupias monetas praedictas nostris et a qua castrum praedictum in feudum recognoscis eiusmodi sedis auspiciis cudi , pro parte tui asserentis te venerabilis fratris Bonifatii episcopi Portuensis cardinalis Ipporegiarum nuncupati ex fratre nepotem existere, nobis fuit humiliter supplicatum quatenus tibi et tuis in dicto castro successoribus in eodem vel illius arce praedicta, qualescumque monetas aureas et argenteas cudendi et cudi fa- ciendi facultatem concedere .....de benignitate apostolica dignaremur. Nos igitur ..... huiusmodi suplicationibus inclinati ..... in eodem castro vel illius arce praedicta quascumque monetas aureas et argenteas iuxta antiquam consuetudinem in praedicto castro hactenus observatam, cuiusvis licentia desuper minime requisitam, cudi et cudi facere libere et licite valeas apostolica auctoritate tenore praesentium concedimus et indul- gemus (1). Ora dal complesso di questo curioso documento evidentemente appare che moneta battevasi solamente appoggiati al già citato diploma imperiale, e che il papa cedendo alle preghiere del cardinale Bonifacio , e tacitamente approvando quanto sin allora senza alcun diritto erasi fatto , concesse a Filiberto ed a’ suoi discendenti di continuare ad usare di tal privilegio, ma prescrissegli che ciò si avesse a fare sotto gli auspici pon- tifici, e se allora Paolo II volle tener come buone le frivole ragioni addotte per provare che si era perduto il privilegio papale, dell'uso illegittimo della zecca fatto dai Fieschi seppe trar partito come di cosa (#) Memorie relative alla zecca e monete di Messerano e Crevacuore battute dai Fieschi e dai Ferrero - Fieschi raccolte dal cardinale Vittorio Ferrero della Marmora. MS. presso i Principe di Messerano Tommaso Ferrero della Marmora, fol. 83 retro. DI DOMENICO PROMIS. 69 molto grave quando nel 1548 () dichiarò decaduto e spogliato dei detti feudi Pier Luca Il che ne era signore in ugual parte con Ludovico II, dicendo nella bolla quod in loco sibi non concesso et sub imagine aliena tam auream quam argenieam monetam non sufficientis caracteris et etiam falsam fabricari facere, cioè perchè esso batteva monete dove non ne aveva il diritto, vi contraffaceva delle estere alterandone la bontà ed anche emettevane delle false. ANONIME. Avendo veduto come questo ramo dei Fieschi, senza averne ottenuto il diritto dal sovrano dei feudi che possedeva nel Vercellese, per non trovare opposizione impunemente vi aveva aperto zecca, rimane a cer- carsi quando ciò avvenisse e quali ne fossero gli individui che primi moneta vi coniarono. Le più antiche che se ne conoscano pel tipo e forma de’ caratteri indubitatamente appartengono agli ultimi anni del xv od al più ai primi del susseguente secolo, in conseguenza devono essere state battute da Innocenzo, mancato ai vivi nel 1492, in compagnia di Giovanni Giorgio suo nipote ugualmente consignore di Messerano, come appare da bolla d’investitura di papa Pio II (?), oppure da quest’ultimo co’ suoi cugini Ludovico II, Deifebo, Annibale, Giuseppe e Tristano figli d’Innocenzo, e dei quali i quattro ultimi erano già trapassati nel 1517 quando Ludovico adottò Filiberto Ferrero, o forse da Giovanni Giorgio col detto Ludovico però avanti il 1521, tra il qual anno ed il 1518 il primo aveva cessato di vivere (3) Le monete poi che vennero fatte battere in comune da questi Fieschi, e che tutte sono contraffazioni di estere, provano che non osavano ancora apertamente valersi in Messerano di un privilegio che non avevano, ed è appunto a notarsi che sovente le segnarono dell’aquila imperiale secondo il prescritto dal privilegio del re Guglielmo, ma che (1) Sommario nella causa tra il marchese Ferrero della Marmora e la marchesa Rafelis di Saint-Sauveur nata Ferrero Fieschi di Masserano. Torino 1834, pag. 88. (2) FepERICI, pag. 85. (3) Ragionamentio terzo per la marchesa RAFELIS pi ST-SAUVEUR. Torino, 1836. pag. 9. 70 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE nessuna tiene alcun contrassegno della sovranità ecclesiastica dalla quale tal feudo esclusivamente dipendeva. Di esse la più antica, che per la forma dei caratteri sente ancora il xv secolo (T. I, Anonime, N.° 1), ha da una parte un'aquila ad una testa coronata e coll’ali aperte, con attorno -- MONETA . NOVA, e dall’altra una croce doppia e tale che le quattro braccia della maggiore si estendono all’orlo del pezzo e che la minore tocca appena alla leg- genda così intersecata dalla prima MONE - TACR - EPAC-ORII, nome della terra in cui fu lavorata. Dal suo impronto vedesi essere un tirolino, ossia di quei grossi che si coniavano nel Tirolo a Merano, ed è del peso di grani 19 ed alla bontà forse di denari 4 (©), epperciò ai sudetti un po’ inferiore. A questo pezzo è contemporaneo un ducato d’oro contraffatto a quella specie detta orgaro perchè battuta da principio in Ungheria colla Ma- donna e S. Ladislao dal re di questo nome che vi regnò dal 1490 al 1516. Ha perciò il nostro (T. I, N° 2) da un lato la figura della Vergine Maria coronata, sedente sulla mezza luna, col bambino Gesù in braccio e tenente ‘colla destra un bastone gigliato; sotto di essa poi evvi uno scudetto coll’aquila ad un sol capo e l’ali aperte, ed in giro SANTA . MA.0.PRO. NO. cioè Santa Maria ora pro nobis, dall’altro una figura d'uomo in piedi vestito a ferro, in abito reale e portante nella destra una scure a lunga asta e colla sinistra un globo crociato con attorno SANTVS . TEONES ., cioè Santus Teonestus protettore principale di questo ramo dei Fieschi e titolare dell'antica chiesa parrochiale di Messerano. Pesa denari 2.17 e pare superiore ai caratti 23. Il suo im- pronto è anche riportato in tariffa da Carlo III, duca di Savoia, pub- blicata a Torino nel settembre del 1529 (i), nella quale è detto valere tale ongaro fiorini 5 di Piemonte, cioè cinque grossi meno dei ducati buoni ed essere a caratti 23. 12, ed in altra di Germania del 1597 (£), che lo mette fra i ducati d'Ungheria, e lo tassa 105 creutzer. (*) Ho creduto di poter conservare il peso duodecimale perchè sino al ‘finir del secolo xvn era il solo riconosciuto in queste provincie, e del quale il marco composto di otto oncie corrisponde a grammi 245, 896 1|3, ed in quanto al titolo caratti 24 pell’oro equivalevano a millesimi 1000, che pell’argento corrispondevano a denari 12 di fine. (1) IL suo titolo è il seguente: Qua sotto è depinto et descripto singularmente il valore delle ‘monete quale non è licito expenderle, ma suono reducte a biglione. (2) BERG ApAM. New Miintz Bilech Munchen, 1597, fol. 2. DI DOMENICO PROMIS yib' Della stessa epoca si ha una monetina di bassa lega (T. I, N.° 3), la quale tiene nel diritto uno scudetto colla stessa aquila del sopra de- scritto pezzo e con attorno MONETA. LAV....., leggenda che ripetesi nel rovescio, ma mancante allo stesso punto da ambe le parti per essere ivi alquanto liscia; da questo lato poi evvi nel campo una croce fiorita e simile a quella che vedesi sopra una moneta d’ugual grandezza di Aimone di Monfalcone, vescovo di Losanna circa il 1490 (!), il quale siccome inquartava anche l’aquila ad una testa mi fece nascere dubbio che ad esso potesse appartenere, tanto più che in altra sua leggesi Moneta Lausanie; avendo però attentamente esaminato le monete che si conoscono da esso coniate, riconobbi che la forma dell’aquila è «diversa affatto dalla nostra e che è sempre inquartata cogli armellini , onde mi persuasi essere la mostra una contraffazione di questo forte lausannese, e la leggenda doversi completare così Moneta Lavan, oppure Lav. Co., titolo che allora esclusivamente ancora usavano questi nostri vassalli. Seguono indi alcuni pezzi che per la maggior perfezione nella forma delle lettere appaiono spettare già ai primi lustri del secolo xvi, ed a capo di essi parmi siasi a collocare un so/dino uguale affatto nel tipo a quelli battuti in Carmagnola da Ludovico Il, marchese di Saluzzo dal 1475 al 1504, il che mi fa sospettare che questi e quelli siano opera dello stesso ignoto zecchiere. Ha adunque (FT. I, N.° 4) da una parte uno scudo liscio, dove i Saluzzesi hanno il campo bianco col capo d’azzurro, e sormontato da aquila nascente coronata con MONETA . FLIS . MA . per Masserani, cioè battuta a Messerano, e dall'altra le parole SANTVS. TEONESTVS . MA . per Martir, precedute da una testina attorno ad una croce fiorita. Una sua varietà nel diritto ha solamente MONETA . FLISC . Questi soldini dovevano corrispondere ai quarti del grosso di Savoia, come i seziri, che indi descriverò, sembra ne fossero la dodi- cesima parte, ed a Torino chiamati dianchetti, quando in Lombardia sezini dicevansi perchè equivalenti al sesto d’un soldo. All’anzidetta specie di monete deve pure appartenere una (T. I, N.° 5), nel cui diritto vedesi un’aquila bicipite coronata, colle ali aperte e con attorno CARVACOR . MONETA, dal che scorgesi esser uscita (1) Brancner. Memoire sur les monnaies des pays voisins du lac Leman. PI. IV, N.° 11. Mémoires de la société d’histoire de la Suisse Romande. Tome XII. 72 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE dall’officina di Crevacuore, e nel rovescio una croce ornata e filettata con in giro AVE. CRVX . SANTA . ET . Benedicta. Una varietà dello stesso tipo (T. I, N.° 6) varia nella leggenda del diritto avendo CA . ARG . MONETA . FLI ., ossia Carvacorii argentea moneta Fliscorum. Una terza (T. I, N.° 7) ha MONETA. FLISCA . AR . M.. iniziale di Masserani, eppérciò spettante a questa zecca; ed in un'ultima manca la lettera M . , ma siccome nel restante è affatto uguale alla precedente, ometto di darne il disegno. Questi quarti di grosso simili nel tipo a quelli lavorati in Desana da Giovanni Bartolomeo Tizzone (i), pesano da grani 21 a 23 ed al più paiono a denari 3, onde ai sudetti inferiori, e sembrano opera dello stesso zecchiere Ferrero, essendone i conii identici a quelli da esso usati. Abbiamo parimente di quest'epoca una zerlina, simile ad altra di Milano dell’imperatore Carlo V (T.I, N.° 8) con una grande K, sormon- tata da corona chiusa ed accostata da due punti con attorno CHRISTVS . IMPerat fra due rosette nel diritto, e nel rovescio una croce fogliata con in giro dopo una rosetta SANCTA . ET. Benedicta AVE. CRVX.., leggenda che chiaramente indica alle nostre zecche appartenere tal pezzo, veden- dosi in esse solamente usata. Ad esso poi forse può alludere una lettera del governatore di Milano all'imperatore, della quale in seguito si parlerà. La più bassa di questa serie , e che ancora oggidì negli antichi feudi vercellesi dei Fieschi trovandosi numerosi prova essere stata in gran copia battuta, è un sezizo imitato da quelli coniati nel 1522 da Francesco Il Sforza, duca di Milano, e di essi sonvi tre varietà. Nel campo del diritto della prima (T. I, N.° 9) vedonsi sormontate da corona aperta le lettere FLI per /isca oppure Fliscorum, ma in tal modo legate la L colla I da parere il numero II romano, e ciò affine di con- fonderli cogli Sforzeschi che hanno appunto FII, per Franciscus II: attorno leggesi MONETA . CARVACORI, precedute tali parole da una crocetta e nel rovescio attorno ad una croce fogliata come vedesi nel n.° 8 dopo una crocetta leggesi CRVX . SANCTA . ET . BEnedicta. La seconda è uguale nel tipo alla prima, ma le leggende precedute da una rosa sono nel diritto (T. I, N.° 10) MONETA . ARGENTEA e nel rovescio SANCTA . ET. B. AV. CRVX. (1) PRomrs. Monete della zecca di Dezana. Torino, 1863, Tav. II, N.° 12. DI DOMENICO PROMIS. 73 Nell'ultima (T.I, N.° 11) le tre lettere FLI sono ben distinte ed alle ggende uguali alle precedenti sono premesse piccole croci. Pesano tutti e tre da grammi rr a 12, e paiono al più a denari 2. Oltre tali monete delle quali abbiamo l’impronto, in questi anni 1 nostri Fieschi batterono anche scudi d’oro, essendo essi descritti in una tariffa dal Laurrec® pubblicata in Parma li 14 agosto r51g (!) le e coll’aquila imperiale, ma che probabilmente dall’altro lato avevano una croce come alcuni di Monferrato e Saluzzo, e detto essere a pezzi 68 2/3 per marco (*) ed a caratti 20.6, e tassati a L. 4. 7. Nella medesima tariffa trovansi pure tassati testoni, detti in essa grossoni da soldi 19, a pezzi 24 ed un grano per marco ed alla bontà di denari 7. 4- Più grossi da soldi 8 a 4o per marco ed a denari 5.5, ed altri da soldi 5 al taglio di 64 pezzi per marco ed a denari 4. 17. Queste specie di monete, delle quali non conosco l’impronto, ma che non possono a meno, stante la data della tariffa, che essere di quest'epoca, ad eccezione dello scudo, furono allora ridotte la prima a soldi 17, la seconda a 7.6 e la terza a 4.3, indi li 22 ottobre dello stesso anno a soldi 16.3, 7.3 e 4. Nel medagliere di S. M. conservasi un pezzo contraffatto ai grossi da sei soldi di Milano battuti in Musso da Gian Giacomo Trivulzio (2), ed imitati da Gio. Bartolomeo Tizzone in Desana, chiamandoli cavallott, ossia pezzi da grossi tre di Savoia @). Esso venne già pubblicato dallo Chalon che lo credette coniato in Lavagna (4) per aver nello stemma le bande come usavano i Fieschi, ed ha nel diritto uno scudo a testa di cavallo con attorno IN. MANIBVS. LINGVE . MORS . ET . VIa, e nel rovescio un santo guerriero in piedi tenente colla sinistra una rotella e nell'atto di uccidere colla lancia un drago che gli sta sotto i piedi, con in giro SANCTVS . (4) ZameTTI. Nuova raccolta delle zecche e monete d’Italia. T. V, Bologna, 1789, pag. 121 e seg. (*) Per conoscere qual fosse la diversità che esisteva tra il marco di Parma e quello di Troyes, basta notare che lo scudo d’oro nella sudetta tariffa è detto dover pesare secondo quello denari 2.19, e secondo questo solamente denari 2.14. (2) Rosmini. Dell’istoria intorno alle militari imprese e alla vita di Gian Jacopo Trivulzio. Vol. 2.9, Milano, 1815. Tav. IT, N.° 38. Ù (3) ProMIs. Monete della zecca di Dezana, pag. 20, Tav. II, N° 13. (4) Revue numismatique belge, 4/° série. T. INI, PI. IH, No 19. Serie II. Tom. XXVI, 10 74 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE AGAPITus ©. Ora nessun segno , ad eccezione delle bande dello stemma, vi si vede per poter attribuire questo pezzo ai Fieschi, signori di Messerano , non trovandosi da alcuno di essi usato il sudetto motto biblico, e mai il nome di S. Agapito, ma bensì sempre quello di S. Teonesto leggendosi sopra le loro monete, oltrechè le bande, per non esserne segnati i colori, cosa che allora non praticavasi non cono- scendosi ancora quei segni convenzionali adesso adoperati per indicarli sopra i metalli ed i marmi, non già i nostri che sono alternati d’argento - e d’azzurro, ma potrebbero anche essere di rosso e d’oro o di altri colori da vari signori usati, epperciò non credo che debba spettare a questo ramo, ma sospetto piuttosto sia stata: tale moneta battuta da Simibaldo Fieschi in Borgotaro, o da qualcheduno de’ suoi fratelli nei feudi impe- riali che in quelle parti possedevano, o forse in qualche altra officina nella quale volendosi contraffare il grosso trivulziano senza lasciar indizio del luogo dove si lavorò o della persona che la coniò, siansi messe sul medesimo le bande in luogo dei pali. LUDOVICO II E PIER LUCA II. Si è detto sopra che Antonio Fieschi aveva due figliuoli Innocenzo e Pier Luca I, tra i quali vennero divisi i feudi del Vercellese in modo che ognuno di essi restava in possesso della metà di ciascheduno. Essendo mancato ai vivi Innocenzo, per convenzione passata tra i suoi figliuoli , a favore dei quali in bolla di investitura di papa Giulio Il delli 27 no- vembre 1506 (1) Messerano era stato eretto in contado, al primogenito Ludovico si cedè il governo e l’amministrazione della parte di queste terre che loro spettava, col patto che alla sua morte passassero al fratello Annibale, indi al suo primogenito e suoi discendenti maschi, ed all’estinzione di questi ai superstiti degli altri; nel caso poi che tutti venissero a mancare senza discendenza maschile si convenne che tali feudi (*) Nella decade terza delle notizie di numismatica e d’archeologia dello ScuwEITZER, stampata a Trieste nel 1856, a pag. 99 leggesi tra i nomi dei santi che l’autore dice nominati sulle monete dei Marchesi di Saluzzo anche S. Agapito, ma ignoro donde abbia tratto tale notizia, chè sopra tutte quelle di essi sinora conosciute e puossi dire sopra tutte esclusivamente leggesi S. Corstantius protettore del loro Stato. (1) DeLLa MarMoRA. Memorie relative alla zecca ecc., pag. 18. DI DOMENICO PROMIS. 79 avessero a trasferirsi nel primogenito più prossimo di questo ramo dei Fieschi, che allora appunto trovavasi essere Giovanni Giorgio. Qualche anno dopo vedendo questi che senza prole maschile veni- vano meno i fratelli di Ludovico , e che esso come chierico e proto- notario apostolico naturalmente era nubile, per dieci mila scudi d’oro pagabili nel termine di dieci anni ad essi vendè la sua metà di Messerano, Crevacuore, Curino, Brusinengo, Flecchia e Rivo nella speranza che in breve nella loro totalità gli dovessero tornare. Invece Ludovico trovandosi nel 1517 in età avanzata e solo dei tanti suoi fratelli, senza tener conto della passata convenzione, come unico e naturale loro erede credette di poter lasciare la sua successione ad un nipote del suo fratello Giuseppe, unico che avesse condotto moglie nella persona di Margherita, figlia del ricco e potente patrizio biellese Sebastiano Ferrero ,. signore di Gaglianico e di varie altre terre, generale delle finanze di Savoia e indi di Milano per Ludovico XII e Francesco I re di Francia. Intesosi adunque con questo, Ludovico con atto solenne delli 7 aprile 1517 (!) ne adottò il nipote Filiberto , figliuolo di Besso premorto al padre Sebastiano sudetto e chiamato il conte di Candelo, coll’obbligo di aggiungere al nome del suo casato ed al proprio stemma quello dei Fieschi, e di sposare una delle due figlie dello zio Giuseppe, ovvero di dotarle entrambe. Ludovico, come dissi, trovavasi in possesso della metà dei feudi spei- tanti a Giovanni Giorgio, ma non ne aveva effettuato il convenuto paga- mento, onde questi che allora abitava in Genova ed era irritatissimo per l'adozione del Ferrero, pella quale vedeva uscire di casa sua i feudi dal cugino tenuti, colto tal pretesto, nel 1518 gli intento una lite avanti la curia romana chiedendo la restituzione della metà delle avanti nomi nate terre e l'annullamento dell’atto di adozione. Non visse però tanto da veder l’esito del processo, essendo egli trapassato avanti che l’auditore di Ruota Simonetta, a ciò specialmente delegato da papa Leone X (®), pro- nunciasse le due sentenze delli 27 gennaio e 2 marzo 1521, colla prima delle quali condannavasi Ludovico alla restituzione della metà dei feudi sudetti a Pietro Luca II , Ottaviano, Gerolamo ed Alessandro figli ed eredi di Giovanni Giorgio, e colla seconda dichiaravasi valido l’atto di adozione. (1) Sommario ece., come sopra, pag. 17. (2) Ragionamento terzo ecc., pag. 9. 76 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Dopo questo ed in seguito a convenzione, della quale ignorasi la data, Pier Luca cedè a’ suoi fratelli quanto possedeva nella Liguria in cambio dei loro diritti sui feudi del Vercellese, onde della loro metà rimase egli solo signore, indi per altro atto passato con Ludovico li 5 marzo 1528 (1) questi gli fece cessione della sua metà di Crevacuore in cambio di quella di Messerano, e così rimanendo Pier Luca nell’intero possesso di quella terra ivi fissò la propria residenza. Ora volendo passare alla descrizione delle monete battute a nome dei due cugini, si ha prima a stabilire in quali anni essi in comune delle dette due terre hanno goduto il possesso. Si è veduto che Giovanni Giorgio mancò ai vivi tra l’ottebre del 1518 ed il 1521, e siccome per essere ancora indivisi nel gennaio di questo ultimo anno i suoi figli nessuno esclusivamente dagli altri poteva mettere il proprio nome sulle monete, ne segue che quelle coi nomi dei due cugini devono essere state emesse subito dopo la convenzione passatasi tra Pier Luca ed i suoi fratelli in seguito alle sentenze del 1521 e prima dell’altra con Ludovico nel 1528, pella quale rimase solo signore di Crevacuore. Quelle adunque che ho potuto conoscere spettanti a questi anni sono poche e tutte d’argento, quantunque anche delle piccole e basse debbasi essere lavorato pei minuti bisogni dei sudditi, ma di queste sinora non mi è riuscito di aver notizia alcuna. Di questa serie il maggiore pezzo è un estone da grossi 8 collo stesso impronto che vedesi usato a quest'epoca nelle altre zecche del Piemonte, come Casale, Carmagnola, Desana e Montanaro ©). Nel suo diritto (T. II, Ludovico II e Pier Luca IT, N 1) ha una grande aquila ad una sola testa, coronata e colle ali aperte, ed in giro LVD.T.P. LVCAS . FLISC . LAVA . CO.M.D., ossia Zudovicus et Petrus Lucas Fliscus Lavaniae comites Messerani domini, e nel rovescio un santo guerriero a cavallo colla bandiera della croce ed attorno -- SANTVS. TEONESTVS . MARtir. Pesa denari 7.6 ed è a denari 7 incirca d’ar- gento fine. (1) DELLA MaRMmoRA. Memorie ecc., pag. 56. (*) La stessa serie di tipi che si usava in tutte le zecche secondarie del Piemonte nella prima metà del secolo xvi trovasi anche introdotta in alcuna di quelle della Svizzera che più erano in relazione con questa provincia, come in Bellinzona, Sion e Losanna, dove appunto il vescovo Sebastiano di Monfalcone avendo nel 1521 nominato a suo zecchiere un Virgilio Forgerio di Chieri ( Blanchet, pag. 80), questi dei nostri ponzoni si servì per coniarvi testoni e cornabò. DI DOMENICO PROMIS. 79) Un altro (T. II, N.° 2) ha da un lato la stessa aquilu e leggenda del precedente, ma dall’altro un santo guerriero in piedi tenente colla destra la bandiera della croce, la sinistra appoggiata sulla spada e pure col nome di S. Teonesto. L’esemplare che ne tengo è di soli denari 6. 21 e pare allo stesso titolo del N.° 1. indi abbiamo un cornabdò, o pezzo da grossi 5, di quella specie che nella citata tariffa del 1519 è detta spendersi in Parma per soldi 8, e (T. H, N. 3) da una parte tiene uno scudo liscio inclinato , sor- montato da elmo chiuso con lambrecchini e sopra una corona dalla quale nasce un'aquila pure coronata con in giro la stessa leggenda dei testoni, de’ quali pure è quella del rovescio, in cui vedesi un santo guerriero a cavallo colla bandiera della eroce e sotto nel campo un anello. È di denari 4.6 e pare non inferiore a denari 6 come quelli che si lavora- vano in Torino. L'ultimo è un ro/abasso, o pezzo da grossi 2 nella succitata tariffa tassato prima a soldi 5, indi a soldi 4.3 e poi ridotto a soldi 4, ed ha da un lato (T. II, n.° 4) un'aquila ad una sola testa coronata, colle ali aperte e tenente in petto uno scudo liscio, dal che vedesi per questo pezzo come pel cornabò essersi il zecchiere servito di ponzoni aventi prima lo stemma di Monferrato ed ora lisciato affine di poterli usare anche per un’altra zecca; la leggenda continua ad esser la stessa delle precedenti. Dall’altro lato evvi una croce patente gigliata con attorno + XPS : REX : VENIT : PACE : ET : HOMO : FACT : EST :. Pesa denari 2. 6 e pari a denari 4, onde inferiore a quelli di Savoia. LUDOVICO Il. Sopra si è veduto come Ludovico unitamente a’ suoi fratelli convenne col cugino Gio. Giorgio per l'acquisto della metà a questo spettante dei feudi del Vercellese, che presone possesso li tenne sino al 1521, quando per non averne ancora effettuato il pagamento, ne fu condannato alla restituzione per sentenza della Ruota romana, e come nel 1528 con Pier Luca pattuì la cessione della parte sua di Crevacuore per aver intiera la terra di Messerano. Quattro anni dopo, cioè nel 1532, il pro- tonotario passò all'altra vita, lasciando erede dei feudi che possedeva Filiberto Ferrero. 78 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE In conseguenza due distinte devono essere le serie delle monete da esso coniate, la prima che comprende quelle battute dall'epoca in cui acquistò coi fratelli la parte di Gio. Giorgio, allorchè, convenutosi con essi, solo figurò signore di tutti i feudi, dei quali perciò prese il titolo signorile, ed ebbe fine nel 1528, allorchè, cedendo la sua metà di Crevacuore, rimase totalmente signore di Messerano, dalla quale sola terra indi .s’intitolò , e nella seconda serie si hanno a collocare quelle emesse da quest anno sino alla sua morte. A capo di quelle della prima epoca, per vedersi di tipo e forma de’ caratteri anteriore alle altre monete e simile affatto alla prima di questi Fieschi, colloco un zirolino (T. II, Ludovico II, N.° 1) avente al solito da un lato laquila ad una testa coll’ali aperte ed attorno + LVDOVICVS FLISCVS, e dall'altro una grande croce estendentesi all’orlo del pezzo colla leggenda da essa intersecata MONE - TACR - EPAC - ORIS, indi una X e nel campo interno un’altra croce più ristretta. Pesa grani 20 e pare alla stessa bontà del primo. Quasi ad essi contemporanei si hanno alcuni altri pezzi, i quali però stante la varietà nei titoli che in essi leggonsi appaiono impressi in diversi anni, in conseguenza da classificarsi secondo sembrano più o meno antichi. Il primo, in oro, è un doppio ducato (T. Il, N.° 2), sul quale vi è nel diritto il suo busto a capo scoperto e collo nudo con attorno > LVDOVIC . FLISC . LAVANIE . < . C. DO, cioè et Crepacorii Dominus, e nel rovescio sopra un monticello un cavallo sfrenato e ritto sulle zampe posteriori, che probabilmente doveva essere la sua impresa, col motto >-% DEVS . FORTITVDO . MEA. , indi una piccola aquila colle ali aperte. Il suo peso è di denari 5. 8 secondo un’antica tariffa di Gand (!), ed a tenore di altra d’Anversa (2) al titolo di caratti 23. 12. Segue un ducato (T. I, N.° 3) colla stessa testa e leggenda del doppio da una parte, e dall’altra un santo seduto in cattedra col capo. scoperto, in abito pontificale, nell'atto di benedire colla destra, tenente nella sinistra una palma e nell’esergo una piccola aquila , con attorno il tutto SANTVS . THEONESTVS . MARTIR +-. Pesa la metà del pre- cedente ed è alla stessa bontà. (1) Der Looplieden Handbouxkin. Gand 1546. (2) Ordonnances et instruction, etc. Anvers 1633, pag. 37. Notisi che in tutte Je antiche tariffe le monete dei signori di Messerano, quando portano vl titolo di comzes Lavarie, sono sempre classificate come spettanti a questa terra, DI DOMENICO PROMIS. 7 7C Testone, ossia pezzo da grossi 8 (T. II, N.° 4), col busto vestito ed a capo scoperto di Ludovico, e colla leggenda + LVDOVIC . FLISC . LAVANIE . © . C. DO. da un lato, e dall’altro la stessa figura di santo ed aquiletta che vedesi nel ducato, ma con in giro S. THEONEST . MARTIRI +, forse per dire Effigies sancti Theonesti martiris. È di denari 7.9 e pare al titolo di denari 8, però venne considerato come inferiore a quelli allora correnti, essendo stato solamente come pasta nella tariffa di Savoia del 1529 (!) valutato a grossi 10 e quarti 1 di Piemonte, ed in altra di Tolosa ® specificato del peso di denari 7. 12 ed alla bontà di denari 7. 4. In seguito alle sudette monete colloco quelle che ad esse paiono alcun poco posteriori pel loro tipo e le leggende, sulle quali venne omesso il titolo di conte di Lavagna e sostituito quello di signore di Messerano e Crevacuore, e quasi sempre posto lo stemma gentilizio che sino allora sulle monete non veniva usato. Di queste la prima, che però è priva dello scudo dei Fieschi (T. Il, N.° 5), è un festone uguale in tutto al precedente, fuorchè nel diritto leggesi -- LVDOVICVS . FLISC. M.%.C.DO., cioè Messerani et Crepacorii Dominus. Esso è riportato nelle tariffe d’Anversa del 1580 (9) e del 1633 (9, e detto valere al marco fiorini 13, patacchi 3 e miti 4, ed essere a denari 6. 20. Un altro testone (T. II, N.° 6), nel diritto affatto uguale al prece- dente, ha nel rovescio uno scudo inclinato colle bande dei Fieschi, sor- montato da elmo con lambrecchini, e sopra l’aquila dell'impero a due teste colle ali aperte, con corona chiusa ed attorno al campo IHS . AVTEM . TRAN . P. MED. ILL . IB., ossia Jhesus autem transiens per medium illorum ibat. Cavallotto , ossia pezzo da grossi 3 (T. III, N.° 7), avente da una parte lo scudo inclinato dei Fieschi con elmo ornato di lambrecchini e sormontato da corona fiorita, dalla quale nasce un'aquila coronata e posta di fianco, con in giro . LVDOVIC . FL (indi aquiletta come nella pre- cedente) ISC. M.C.C.DO., e dall’altra la leggenda stessa e la 2 (1) Grida impressa in Torino nel settembre 1529. (2) Sensuit la forme el manière de cognoistre, etc. Tolose 1558. (3) Het thresoor, ecc. Tantwerpen 1580, pag. 400, (4) Ordonnances, ete. Anvers 1633, pag. 206. do MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE figura di santo dei testoni, solamente che non vi fu messa la piccola aquila per esservi già nel diritto. Pesa denari 2. 15 e pare a denari 5. Altro cavallotto (T. NI, N.° 8) collo stesso impronto nel diritto del precedente, e nel rovescio un santo guerriero a cavallo portante la ban- diera della croce con un anello nel campo, ed attorno +- DEVS . FORTITVDO . MEA, motto probabilmente usato da questo conte. Tale moneta mal disegnata in tariffa di Germania (!) vi fu tassata due batzen. Rolabasso, o pezzo da grossi 2 di Piemonte (T. III, N.° 9), con una grande croce patente e finiente in quattro gigli, ed in giro prece- duta da un'aquiletta la leggenda LVDOVIC . FLISC.M.T.C.DO. da un lato, e dall’altro il solito santo seduto col suo nome in giro come nel N° 7. Avendo di tal moneta avuto soltanto il disegno non ho potuto riscontrarne il peso e la bontà, che però essendo nella proporzione delle precedenti, dovrebbe essere inferiore a quelli di Monferrato , che sono di denari 2. 13 e a denari 3. 18, come vennero specificati nella grida del: 1529/09) Nelle monete della seconda epoca comprendo quelle nelle quali, quan- tunque alle volte sia ripreso il titolo di conte di Lavagna, è però sempre omesso quello di Crevacuore, che perciò devono essere state battute tra LATO Pete dro Di queste la principale è uno scudo d'oro (T. IN, N. 10) uguale nel tipo a quelli di Monferrato, Saluzzo e Desana, cioè con una grande aquila bicipite sormontata da corona imperiale; colle ali aperte, scudo dei Fieschi in peito, ed attorno LVD . FLISC . LAVANIE. MESERANI. DO ., come per dire che era dei Fieschi di Lavagna ma signore di Messerano; nel rovescio poi esso ha una gran croce filettata e gigliata con in giro *- AVE . CRUX . SANTA . ET . BENEDICTA. Questo scudo del peso di denari 2. 14 è riportato nelle tariffe stampate in Anversa ed in altra più antica di Gand ®), ed in esse vi è stato letto per errore MEDIOLA per MESERA , e fu nell'ultima detto essere di denari 2. 16 ed a caratti 21, ossia caratto 1 meno dei buoni. Testone (T. IMI, N. rr) col busto volto a destra e vestito di Ludovico, con berretta in capo e colla leggenda +- LV . FLISC . (1) BERG ApAM, ut supra, fol. 39 retro. (2) Promis. Monete dei Reali di Savoia. Torino 1841, T.0 2.40, pag. 5 (3) Der Looplieden Handbouxkin. Ghend 1546, pag. 106. Ordonnances, etc. Anvers 1633, pag. 66. DI DOMENICO PROMIS. Si LAVANIE. MESERANI . DO . da una parte, e dall’altra lo stesso im- pronto del N.° 6; nella tariffa di Tolosa (1) è detto essere di denari PEA e di soli denari 3. 18 di fine, il qual titolo indica che per trarne un grosso utile ne fu esageratamente diminuito l’intrinseco. Cornabò, ossia pezzo dà grossi 5 di Piemonte (T. III, N.° 12), avente nel diritto lo scudo di questo casato con elmo coronato ed ornato di lambrecchini, e per cimiero un'aquila nascente pure coronata, con attorno il tutto LVDOVIC . FLISC . MESERANI . DO ., e nel rovescio il solito santo guerriero a cavallo colla bandiera della croce e sotto nel campo un anello, con in giro SANTVS. THEONESTVS . MAR. Nel peso e bontà è uguale a quello col N.° 3 di Ludovico e Pier Luca. Cavallotto, o pezzo da grossi 3 (T. II, N. 13), che nel diritto ‘ha lo stesso impronto del testone sopradescritto col N.° 11, e nel rovescio un santo guerriero a cavallo colla bandiera con croce, ed in giro dopo una piccola aquila DEVS . FORTITVDO . MEA . Pesa denari 2. 20 e pare a denari 6. Rolabasso da grossi 2 (T. III, N° 14) coll’aquila bicipite coronata, colle «ali aperte e portante lo stemma dei Fieschi in petto con }- LVDOVIC . FLISC . LAVANIE . MESERANT.. DO . da un lato, e dall’altro la solita ‘croce patente e gigliata, con attorno }- AVE. CRVX . SANTA . ET. BENEDICTA . Pesa denari 2. 12 e pare almeno a denari 4, e così sem- brerebbe uguale a quelli che battevansi nella zecca di Torino. Colloco dopo questa serie un testone (T. III, N.° 15), il quale tiene da un lato un’ aquila ad una testa coronata colle ali aperte, ed avente in giro LVDVICVS . FLISCVS. MESERANI . C., ossia Comes, titolo che in questo pezzo solo sinora ho trovato, ed ignoro perchè nelle altre monete non abbia usato, quantunque dal 1506 ne avesse il privilegio per ‘concessione papale , cioè del sovrano del feudo. Dall’altro lato poi ha un santo guerriero in piedi, tenente la bandiera della croce, e che deve avere la sinistra appoggiata sull’elsa della spada quantunque per essere il pezzo liscio non discernasi, con attorno SANCTVS . TEONESTVS . M..; nella bontà pare inferiore ai precedenti non oltrepassando il titolo di denari 6. Quantunque Ludovico debba certamente aver battuto monete minute, tuttavia sinora non mi venne fatto di conoscerne altra che un mezzo grosso (T. IN, N.° 16), il quale colloco dopo tutte le altre per spettare alla {1) Sensuit la forme et manière, etc. Tolose 1558. Serie II. Tom. XXVI. II Sa MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE serie di quelle che portano il suo stemma, avendo esso nel diritto tale scudo sormontato da aquila bicipite coronata e coll’ali aperte, con attorno per la ristrettezza del campo solamente LVDOVIC . FLISCVS, e nel rovescio una croce filettata e fogliata con -- AVE. MARIA. GRATIA . Essendo quest’esemplare alquanto corroso per soli grani 15, e pare a denari 2 di fine, poco presso come quelli di Torino. PIETRO LUCA II. Pietro Luca, come avanti si è detto, co’ suoi fratelli Ottaviano , Gerolamo ed Alessandro successe nei diritti del padre Gio. Giorgio tra il 1518 ed il 1521, cioè alcun tempo dopo che questi ebbe mossa lite a Ludovico per ottenere la restituzione della metà dei feudi che tenevano in comune dalla chiesa di Vercelli, ed avendo avuto favorevole sentenza venne con essi ad una transazione, pella quale i medesimi rinunziarono a quanto loro spettava sopra quelle terre, e ricevettero in compenso ciò che Pietro .Luca possedeva nella Liguria, e dopo tal epoca dei sudetti non trovasi più menzione nelle nostre parti, così dal suo testamento non. consta che egli altri feudi o stabili tenesse fuori del Piemonte. In seguito a tal atto trovossi egli libero per poter addivenire nel 1528 col cugino alla permuta della sua metà di Messerano contro Crevacuore, dove fissò la sua residenza. Ivi per vendicarsi di Ludovico adottò nel 154o (!) Gio. Stefano figlio di Gio. Giorgio Ferrero nipote per parte di fratello del già nominato Sebastiano e marito di Orianna sua figlia, dalla quale discendono gli attuali marchesi della Marmora, col patto espresso che, aggiungendo al suo nome quello dei Fieschi, ne inquariasse lo stemma, e che qualora venisse ad alienare alcuno dei feudi che alla morte gli avrebbe lasciato , s' intendeva annullata l'adozione, la quale però, a cagione delle forti rimostranze dei fratelli, non ebbe alcun effetto, che anzi nel 1554 vendè Crevacuore al duca di Savoia col patto espresso che non l'avrebbe mai ceduto ad alcuno dei Ferrero e colla riserva di goderne ‘il possesso sua vita naturale durante, ed infatti in quel castello passò all'altra vita sua moglie Battistina Imperiali nel 1553, egli testò li 29 novembre 1558 e morì nel gennaio del 1561. (1) DELLA MarmORA, Memorie, ecc., pag. 49, DI DOMENICO PROMIS. 83 Quantunque solamente dal 1528 l’intiera proprietà avesse Luca della terra di Crevacuore, tuttavia dalle monete che ne abbiamo scorgesi che dopo averne battuto per alcun tempo unitamente a Ludovico , e indi ciascheduno separatamente ed a proprio nome, tuttavia ne coniò conser- vando sino al sudetto anno, e forse ancora ben dopo sulle medesime il titolo di signore e poscia di conte di Messerano, quantunque di quest'ul- timo non avesse mai avuto diritto d’'insignirsi, e due soli sono i pezzi che conosco sui quali abbia preso solamente quello di signore di Crevacuore, dove tenne aperta la zecca probabilmente soltanto sino al 1548, quando papa Paolo III con sua bolla delli 28 gennaio (i) lo dichiarò decaduto da questi feudi, adducendo tra gli altri delitti quello di batter moneta in loco sibi non concesso, cioè perchè usava di un privilegio avuto dal- l’imperatore in un feudo che da esso non dipendeva, ma bensì dalla chiesa, dalla quale tal diritto punto non teneva. Una prova poi in appoggio di detta mia opinione si è che nel suo testamento del 1558 (?) specificò che lasciava al pretore di Crevacuore la casa udi alias fiebant monetae , le quali parole indicherebbero che da gran tempo più non trovavasi in attività questa zecca, oltrechè, ad eccezione di due testoni (N. 1 e 4), opera di eccellente artista certamente estraneo alle nostre provincie, tutte le altre monete hanno il tipo caratteristico di quelle uscite dalle zecche del Piemonte soltanto nella prima metà del se- colo xvi. Ora quello che pare sia stato cagione che papa Paolo emettesse l'anzi- detta bolla fu il seguente fatto. Pier Luca, pensionato dalla Francia, era stato uno dei principali eccitatori del famoso Luigi Fieschi contro Andrea Doria ed il partito imperiale, come appare dalla corrispondenza tenutasi allora tra Genova e Spagna 09). Siccome i ministri di Carlo V cercavano se qualche mezzo esisteva per procedere contro di esso , il governatore di Milano scrisse li 6 marzo 1547 a Cesare (4) che teneva convincenti prove che Pietro Luca nella sua zecca aveva battuto monete cattive e sotto altri nomi che il suo, ed avevale sparse nel commercio con grave danno dello stato di Milano, ende chiamava istruzioni per procedergli contro. A tal lettera da Madrid (1) Sommario nella causa, come sopra. Torino 1834, pag. 87. (2) Idem, pag. 88. (3) Atti della Società ligure di storia patria. Vol. VIII. Genova 1868. (4) Idem, pag. 132, (0) 84 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE venne li 15 aprile risposto che s’informasse se era feudatario dell'impero», dove aveva lavorate tali false monete, qual pensione teneva da Francia e se procedendosi si sarebbe potuto provare che turbava la pace, e: desse di tutto avviso. Il governatore Ferrante Gonzaga con scritto del susseguente maggio fece osservare che i suoi feudi non dipendevano. dall’impero , ma che potevaglisi ritirare il privilegio, che non è accennato quale fosse, però si comprende intendersi quello di battere moneta, di cui sopra si è detto. Temendo Pier Luca, in seguito alla morte dei Fieschi, l’ira del- l’imperatore, offrì di rinunziare alla pensione di Francia, di giurargli fedeltà e di servirlo lealmente, il che con lettera del 22 novembre venne gradito (!). Così ebbe termine questa corrispondenza, prova aver egli adempiuto quanto aveva per paura promesso, ma stantechè il suo feudo era ecclesiastico, ciò deve aver provocata la sovracitata bolla, nella quale appunto è specificato che pel sudetto feudo non aveva chiesto nè avuto la debita investitura. Venendo ora alle monete a suo nome coniate, nessun ordine di battitura sinora mi riuscì di conoscere da esso emanato, così altro suo: zecchiere non trovo che un Giovanni Pietro de Frottis di Milano maestro in Crevacuore, menzionato in atto notarile dell’archivio di Vercelli delli 26 settembre 1538. In quanto alle diverse specie di monete, che furono da esso coniate, nessuna d’oro sinora si conosce, ma solamente d’argento, e tra esse la maggiore è un estone (T. IV, Pier Luca II, N.° 1), che, quantunque siavi il titolo di signore di C©revacuore e non di Messerano, crédo appartenere ai primi anni nei quali battè moneta col solo suo nome, perchè il conio che servì pel suo rovescio, nel quale, non vi è leggenda, e vedesi nel campo orlato di perle un cavaliere col braccio sinistro disteso orizzontalmente in segno di comando, e che col destro tiene la briglia, perfetta imitazione delle antiche statue equestri romane, come quella di Marc Aurelio, riconobbi essere quello del rovescio di un testone di Ercole I duca di Ferrara dal 1471 al 150ò, che conservasi inedito, nel. medagliere di S. M., e pare lavoro di qualcheduno dei migliori artisti di quell’epoca. Il diritto poi del nostro pezzo ha un busto col capo scoperto e mento un po’ barbuto come d'uomo di un trent'anni, ed {1) Atti della Società ligure di storia patria. Vol. VIII. Genova 1868, pag. 220. 8 P Pa5 DI DOMENICO PROMIS. 85 attorno P . LVCAS . F. LEVA. CO. ET. DO. G. La bellezza della testa superiore a quella del duca Ercole e l’errore nella parola Leva per Lava, mi fa credere esser dessa pure opera dello stesso intagliatore. Si ha quindi del tipo solito delle piccole zecche del Piemonte un altro testone (T. IV, N.° 2) uguale affatto nell’impronto a quello di Ludoyico II col N.° 5, soltanto che Pietro Luca è figurato più giovane e la leggenda è -- P. LVCAS, FLISCVS. LAVANIE. CO.M.D., ossia Zavanie comes Messerani dominus. Pesa denari 7. 6 e pare alla bontà di denari 8 incirca. | : Altro testone (T. III, N° 3) ha lo stesso diritto, ma nel rovescio mostra un santo guerriero a cavallo colla bandiera della croce ed attorno -- SANTVS . TEONESTV$ . MAR . come in quello col N.° 1 avente i nomi di Ludovico e Pier Luca. Pare alla stessa legge del precedente. Nei due sudetti pezzi il titolo è Meserani dominus, ma nei susse- guenti vediamo che ad imitazione del cugino prese quello di comes, e di questi il principale è pure un zestore (T. IV, N.° 4) che vedesi lavoro, di intagliatore di assai maggior merito di quelli che lavoravano per le nostre zecche: ha da una parte volto a sinistra il suo busto colla figura barbuta ed in giro, preceduta da piccola aquila bicipite, la leg- genda PETRVS. ÈVCAS . FLISCVS . LA . M . C. per ZLavanie Meserani comes., e dall’altra nel campo solamente un cavallo senza freno al passo, che deve essere la sua impresa in opposto a quella del cugino che lo usò focoso. Lo riscontrai di denari 7. 3 e parmi al titolo di denari 11. 8 come quelli di Savoia. Segue un altro zestore (T. IV, N.° 5) ma del tipo solito degli ante- cedenti ed uguale a quello col N.° 1 di Ludovico e Pier Luca, cioè colla grande aquila e col santo guerriero a cavallo, ma colla leggenda nel diritto PETRVS . LVCAS . FLISCVS . LA . M. C. Pesa denari 7. 4 e nella bontà è certamente uguale a quelli coi N 1 e 2. L'ultimo di questi sestoniî (T. IV, N.° 6) è simile nel tipo da ambi 1 lati e nella leggenda del rovescio a quello di Ludovico col N.° 15, ma nel diritto leggesi PETRVS . LVCAS . FLISCVS . LA.M.C. In quanto alla legge è la stessa del precedente. Cornabò (T. IV, N. 7) in tutto simile ad altro col N° 12 di Ludovico, ad eccezione della leggenda dal lato dello stemma che è PETRVS . LVCAS . FLISC . L.C.M. È di denari 4 nel peso, ed a denari 5 incirca nella bontà. 86 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Altro cornabò (T. IV, N.° 8) dello stesso tipo del precedente, sola- mente che lo scudo è liscio e che nella leggenda da questo lato dopo la L. iniziale di Zavanie vi è subito la M . e la C.è in ultimo. In un altro uguale in tutto a questo è omessa la L e solamente leggesi M . C. per Meserani comes. Nell'ultimo cornabò (T. IV, N.° 9) lo scudo invece dello stemma dei Fieschi tiene l’aleramico di Monferrato o Saluzzo, dal che si conosce che i ponzoni di uno di questi servì anche pel nostro, il quale nel restante è uguale ai precedenti, compresa la mancanza della L per Zavanie. Pesa denari 4. 4 e pare della stessa lega degli altri. La più piccola moneta che abbiasi di Pier Luca è un so/dino (T. IV, N. 10) contraffatto a quelli di Saluzzo, avendo come essi da una parte lo scudo aleramico coronato con sopra un’aquila nascente ad una testa pure con corona aperta, ed in giro PETRVS. LVC. FLIS.L.CO. C.D., donde appare essere stato questo pezzo battuto dopochè per la convenzione del 1528 rimase solamente signore di Crevacuore. Nel rovescio evvi una croce fiorita con attorno }- SANTVS . TEONESTVS . MAR. Con questo pezzo ha termine la descrizione delle monete che mi riuscì di conoscere di quel ramo dell’illustre casato dei Fieschi che pos- sedè feudi nel Vercellese, ed al quale succede ora l’altro pure chiaro dei Ferrero di Biella. DI DOMENICO PROMIS. to) SJ FERRERO FIESCHI 4 FILIBERTO. Del nobile casato dei Ferrero dopo quanto scrisse il Litta (!) quasi nulla di nuovo rimane a dire, in conseguenza mi restringerò a narrare le azioni degli individui del ramo primogenito, che reputo necessarie a conoscersi pell'illustrazione e classificazione delle monete da essi coniate. L'origine sua non risale al di là del secolo xm, ed il nome pro- viene certamente dall'arte che da principio esercitarono i suoi membri, dalla quale erano detti Ferrarius o de Ferrariis, come un Guglielmo console di Biella nel 1291 ® ed un Giacomo nel secolo susseguente. Un nostro critico raccoglitore di memorie patrie, che eccellenti estratti fece dagli archivi sia di questa città che di Vercelli (), trovò che solamente dalla metà del 1/00 cominciossi questa famiglia a chiamare Ferrerius ed italianamente Ferrero. Ora tra le varie persone ad essa appartenenti che ressero la prima magistratura del comune di Biella nel secolo xv nessuno si conosce al quale con certezza si possa attaccare il ramo di Besso consignore di Boriana e Beatino, morto nel 1474 e padre di Sebastiano e Giovanni Enrico, dai quali discendono i principi di Messerano ed i marchesi della Marmora. Omettendo di parlare di questi ultimi perchè estranei al mio scopo, mi restringo ai discendenti di Sebastiano stato tesoriere generale delle finanze (*) dei re di Francia in Italia, e che oltre la metà dei due sudetti feudi ereditati dal padre, ebbe per acquisto fattone quelli di Gaglianico, (1) Famiglie celebri italiane. Fascicolo L. (2) Della Chiesa Francesco Agostino. Memorie gencalogiche di famiglie nobili del Piemonte. Tomo 3.°, pag. 54. M.S. N.° 375 della biblioteca del Re in Torino. (3) Torelli. Memorie diverse del Vercellese, Biellese, Canavese ecc. M.S. N.° 948 come sopra. {") Questo litolo corrispondeva poco presso a quello attuale di ministro delle finanze, 88 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Benna, Candelo, Mongrande, Sandigliano, Verrone, Birolo, Romano, Zumaglia , Castelletto, Montecavallo, Quaregna, Serravalle, Borgnate , Vintebbio, Lozzolo, Loceno, Castelbroglio di Cossato, Casalvallone , Villata, Ponzano e l'isola di Brisago sul Lago Maggiore. Aveva egli sposato Tomena Avogadro di Cerrione, e de’ vari figli che da essa ebbe il primo fu Besso marito di Ludovica di Challant, la quale lo fece padre d’un solo maschio chiamato Filiberto, che dopo la morte del genitore avvenuta nel 1515, in seguito a convenzione tra l’avolo Sebastiano e Ludovico II Fieschi, della quale già sopra ho detto, li 7 aprile 1517 venne da questo adottato coll’obbligo di aggiungere al suo nome e stemma quelli dei Fieschi, e di sposare una delle due figlie di Giuseppe fratello di Ludovico, oppure di dotarle entrambe. Preferendo egli questo ultimo partito, prese in moglie invece nel 1522, cioè tre anni dopo il decesso dell’avo, Bartolomea figlia di Giacomo Fieschi consignore di Savignone, dalla quale ebbe Besso che gli successe nei suoi numerosi feudi. Tale adozione, quantunque confermata da Leone X con bolla delli ro no- vembre 1517, fu causa d’inimicizia tra Pietro Luca e Ludovico, la quale continuò contro Filiberto, che tuttavia li 3 maggio 1532 potè con esso venire ad una transazione pella quale gli cedè Flecchia, Curino e Villa per Roasio, del quale feudo, come dipendente dal duca di Savoia, rice- vette da esso investitura li 5 gennaio 1534; intanto aveva già ottenuto li 7 aprile dell'anno precedente dall'imperatore Carlo V la conferma per sè e suoi discendenti dei privilegi stati concessi dagli altri Cesari ai Fieschi e specialmente a quelli di Messerano. Alcuni anni dopo, cioè li.6 agosto 1547 a suo favore Paolo II eresse Messerano in marchesato, e lì 5 pure agosto dell’anno susseguente avendo detto pontefice per delitti dichiarato decaduto Pier Luca da tutti i feudi che teneva dalla chiesa di Vercelli, ne investì Filiberto, ciò che però non ebbe alcun effetto diretto. Intanto il suo stato per le continue guerre tra francesi ed imperiali che desolavano queste provincie trovandosi affatto rovinato , fu egli costretto ad abbandonarlo, e ritiratosi nel castello di Foglizzo, terra del Canavese spettante a Bartolomeo di San Giorgio suo genero, vi morì probabilmente li 7 novembre 1559, pochi giorni dopo la pace di Cateau Cambresis. Come Ludovico Fieschi continuò Filiberto a far lavorare la zecca di Messerano, quantunque nessun suo ordine per battitura di monete ci DI DOMENICO PROMIS. $g ‘sia rimasto e non si conosca il nome di alcun suo zecchiere, dei quali però dubito uno dei primi sia un Andrea Ferrero di Carmagnola, stato nel 1532 maestro in Desana per Bartolomeo Tizzone (!) e probabilmente anche in Casale pel marchese Bonifacio II di Monferrato (*),, trovando ripetuta nella moneta di Filiberto col. N.° 1 la stessa contraffazione già veduta in quelle due zecche, cioè col N.° 11 in quelle della prima e nella seconda col N.° 50, e che probabilmente anche resse in patria quella dei marchesi di Saluzzo trovando in Messerano pezzi simili affatto al soldino del marchese Ludovico II. Ora in queste monete ed in altre che a nome di Filiberto si lavorarono dal 1532, epoca della morte di Ludovico, al 1938 quando, come sì è avanti veduto , ottenne pella sua discendenza da papa Paolo III il privilegio della zecca, è a notarsi che vi si con- servò l’aquila imperiale abbandonata in quell’anno perchè cominciò a battere per diritto acquistato dal legittimo sovrano del suo feudo senza dipendenza alcuna dall'impero. Tra le monete coniate nella prima epoca, quantunque debbano esservi di essa scudi d’oro e testoni come sotto il suo predecessore, tuttavia solamente ne vennero a mia conoscenza alcune di bassa lega e minute, e fra esse la migliore è appunto la contraffa- zione succitata di un diken di Soletta, cantone della Svizzera (T. V, Filiberto N° 1), nel cui diritto, accostato dalle lettere C-M per «comes Meserani e sormontato da aquila bicipite colle ali aperte, evvi lo stemma di quella città con attorno MONETA . PH. FE. FLI.M.C., ossia Moneta Philiberti Ferreri Flisci Meserani comitis, e nel rovescio una grande croce filettata e bipartita con quattro fiori agli angoli ed in giro + SVB. TVVM. PRESIDIVM . coi caratteri in ambe le leg- gende di forma antica. Soldino (T. V, N.° 2), che, come sopra ho detto, è un’imitazione nell’impronto e nella legge di quello di Ludovico II marchese di Saluzzo, avendo da un lato uno scudo però affatto liscio affinchè non comparisse lo stemma aleramico, con sopra una corona fiorita dalla quale nasce un'aquila ad una testa coronata; colla leggenda MONETA . FI . FE. FLIS.M .C., e dall’altro una croce fiorita con attorno 4 SANCTVS . TEONESTVS . MAR. (1) Monete della zecca di Dezana, pag. 19. (*) A questo proposito noterò che per un errore materiale, descrivendo nel Supplemento alle monete del Piemonte alla pag. 37 una contraffazione fatta di moneta svizzera da questo Bonifacio ‘ed uguale alla prima di Filiberto, ho scritto Guglielmo I. Serie II. Tom. XXVI. 12 90 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Quarto (T. V, N.° 3) uguale all’anonimo dei Fieschi col N.° 5, avente perciò da un lato l’aquila imperiale bicipite colte ali aperte e coronata, ma con in giro FIL . FER . FLI. COMES. MESE.., e dall’altro una croce filettata e fiorita con AVE . CRVX . SANCTA . ET . B., ed è dello stesso peso e bontà dell’anzidetto. Forte (T. V, N.° 4) imitante alcuni di Milano, onde ha nel diritto fra due punti una grande F, iniziale di AWibertus, sormontata da corona con tre perle ed attorno dopo una rosetta FER . FLI . COMES . MES ., e nel rovescio una croce filettata e fogliata con in giro pure dopo una rosetta IN. HOC . SIGNO . VINC . Pesa grani 16 e pare essere a grani 12 a 18 al più di fine. Altro Forte (T. V, N.° 5) variante dal sudetto in ciò che accanto alla F_mancano i due punti, e che da questa parte leggesi FER. FL. COMES . MESER ., e così la leggenda attorno alla croce è INOG. SIGNO . VINCES . Del resto sia questo che il susseguente sono alla legge del primo. Un terzo (T. V, N.° 6) ha la grande F senza corona ma accostata da due piccole rose con in giro + FER . FLISCI . COM . MESI . nel . diritto, e nel rovescio è uguale al precedente, dal che si conosce che ogniqualvolta venivano a rompersi i conii rifacendoli non badavasi se veniva alterato il tipo e la leggenda. In un quarto (T. V, N.° 7) la F è sola nel campo del diritto e la leggenda varia così + FER . FLISCVS . COM . MES . : nel rovescio poi colle parole stesse del precedente la croce è più semplice e quasi trifogliata. Un quinto (T. V, N.° 8), che dal tipo scorgesi appartenere alla stessa serie degli anzidetti, ha da una parte per leggenda dopò una rosetta MONETA . ARGENTI e nel campo la solita F, e dall’altra attorno alla croce filettata e fogliata precedute da una piccola rosa le parole SANCTA . ET.B.CRX. In seguito a questi pezzi ne colloco alcuni altri che per non avere più alcun simbolo della dipendenza dall'impero appaiono coniati dopo il 1538, o perchè portando in essi Filiberto il titolo di marchese sono posteriori alla bolla del 1547, oppure per essere imitazioni di altre monete emesse circa la metà di questo secolo. Di questa serie la maggiore (T. V, N. 9g) è un cavallotto co- niato ad imitazione di uno della zecca di Casale battuto a nome di DI DOMENICO PROMIS. QI Margherita Paleologa marchesana del Monferrato col suo figliuolo Guglielmo Gonzaga (4). In esso da una parte sormontato da corona appuntata evvi un grande scudo accartocciato e da una croce patente partito in quattro quarti, cioè nel 1.° e 4.° di aquila ad una sola testa colle ali aperte , nel 2.° e 3.° di leone rampante, stemma dei Ferrero che è d’azzurro in campo argento, e sopra il tutto uno scudetto dei Fieschi, con attorno FILIBERTVS . FER . FLIS.M.CO., onde da queste ultime parole parrebbe spettare ad epoca anteriore al 1547, ma di fatto è posteriore al 1550 appartenendo a quest'anno quello che si volle imitare; dall’altra parte poi vedesi uno scudo sormontato da corona simile a quella del diritto, inquartato e controinquartato 1 e 4 dell’aquila bicipite, 2 e 3 del leone rampante con sopra il tutto ripetuto lo stemma dei Fieschi, ed in giro le parole NON . ALIENA . SED . MEA . TANzwr alludendo essere gli stemmi rappresentati tutti suoi propri. È del peso di denari 2. 17, onde pare alla stessa legge dei morferrini. A questo pezzo fa seguito una contraffazione del Carolus o moneta da due bianchi della città di Besanzone (T. V, N.° ro), il quale ugual- mente che questo (® ha da un lato il busto coronato dell’imperatore Carlo V rivolto a sinistra con attorno >- CAROLI . V . IMP, GRATIA . messo da Filiberto per alludere ai privilegi che da esso col diploma delli 7 aprile 1533 aveva ottenuto, e dall’altro in uno scudo con sopra segnato l’anno 1543 ha un’aquila ad una testa colle ali aperte e tenente cogli artigli perpendicolarmente due colonne, stemma dell’anzidetta città con in giro }- MONETA . NOVA . MESSERA . Quarto (T. V, N. ir) contraffatto a quelli da Carlo INI duca di Savoia battuti al di là dei monti (8), però inferiore ad essi nella bontà. Ha da una parte nel campo fra due doppie linee orizzontali FERR . ed in giro --- MAR . MESSERANI, onde coniato dopo il 1547 quando Messerano fu eretto in marchesato, e dall’altra attorno alla croce trifo- gliata di S. Morizio -- NON . NOBIS . DOMINE . Quantunque questo pezzo non presenti il nome del marchese, non vi può essere dubbio che appartenga a Filiberto apparendo essersi fatto battere appositamente (4) Ordonnance du Roy sur la descry des monnoyes de billons étrangères. Lyon 1578, pag. 17, N.° 3. (2) Ordonnance ecc. Lyon 1578, pag. 19, N.° 3. Poey d’Avani. Monnaies feéodales de France. Tome III. Paris 1862, pag. 140, N° 5388, «e Tav. CXXII, N.° 13. (3) Monete dei Reali di Savoia. Tomo 1.°, pag. 461, e Tomo 1I,° Tav. XVI, N.° 17. q2 - MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE affinchè con facilità si confondesse coi savoìni che in questi anni emet tevansi e che in gran numero correvano negli stati di quel duca. Forte (T. V, N.° 12) imitante quelli della zecca di Torino sotto lo stesso‘ duca Carlo INI (1), solamente che da una parte nel campo sonvi le lettere FERR ed in giro -- PHILIBERTVS . FLI . MAR. M. per marchio Messerani, dal che scorgesi essere posteriore al 1547, e dall’altra attorno alla croce trifogliata di S. Morizio leggesi -- DRGE . DOMINE . GRESSVS.M., ossia Dirige Domine gressus meos. Pesa come quelli di Torino, però loro pare inferiore nella bontà. In ultimo evvi una contraffazione di moneta genovese coniata nella prima metà del secolo xvi, ma di lega bassa e del solo peso di denari 2. 17. Ha (T. V, N.° 13) da un lato in giro -- LVX. ET. GRACIA . TVA . BENIGNA e nel campo un monogramma fatto ad imi- tazione del castello o porta che vedesi su tutte quelle di Genova, e for- mato delle lettere FIL iniziali di FiZibertus, e dall’altro una gran croce patente con attorno + XPVS . REX . VENIT . IN. PACE.ET.O. Queste sono le poche monete che ho potuto raccogliere ‘di Filiberto, e che con poco onore di chi le fece lavorare tutte sono contraffazioni di altre estere, e ciò collo scopo di ricavarne un grosso guadagno spar- gendole negli Stati dei quali s'imitavano i tipi con grave danno del loro commercio, la qual cosa fu causa che quanto emettevasi dalle zecche di questi marchesi subito nelle vicine provincie si ricevesse con sospetto di falsificazione, e spesso venivano tali monete dai finitimi principi proibite come abbiamo già veduto ciò esser avvenuto per quelle dei Fieschi nel 1529 nello Stato di Savoia, ed ora li 28 gennaio 1536 (®) le vediamo bandite colle cattive di Desana, Losanna, Musocco e Montanaro dalla duchessa Margherita, vietandosene persino il transito nel Monferrato. BESSO. Da Filiberto e Bartolomea Fieschi dei signori di Savignone nacque, come ho detto, Besso nel 1528, e contava appena sei anni quando come secondogenito fu destinato allo stato ecclesiastico e provveduto della ricca (1) Monete dei Reali di Savoia. Tomo I.°, pag. 461, e Tomo II.0, Tav. XVII, N.° 33. (2) Archivio di Stato in Torino. — Monferrato. Grida di Alvaro de Luna governatore ivi per Carlo V. DI DOMENICO PROMIS. 93 abazia di S. Benigno di Fruttuaria di patronato della sua famiglia, alla quale però rinunziò nel 1544 a favore del fratello Sebastiano che avevagli ceduto la primogenitura. Succeduto nel 1559 al padre, ‘abbandonò le parti di Francia per avvicinarsi al vittorioso Emanuele Filiberto duca di Savoia, il quale per la battaglia di S. Quintino aveva ricuperato lo stato paterno, e seco lui venne li 11 settembre 1576 ad una transazione, pella quale aggiunse ai suoi feudi la terra di Crevacuore stata qualche tempo prima eretta in contado a favore di Filippo d'Este, cui fu dato in cambio il marchesato di Lanzo, ed in compenso di tale acquisto, mediante il quale veniva Besso a riavere quasi tutto quello che posse- devano i Fieschi nel-Piemonte, cedè al duca il patronato dell’abazia di S. Benigno. Qualche tempo dopo, cioè nel 1579, venne ad un compo- nimento cogli uomini di Messerano irritati per causa delle gravi tasse che su di essi pesavano (4, e indi a quattro anni ne pubblicò le costituzioni. Sposò nel 1546 Camilla Sforza di Santa Fiora, la quale essendo mancata di vita nel 1569 lasciandogli solamente quattro figlie, passò in seconde nozze con Claudia di Savoia Racconigi, che nel 1576 lo fece padre di un maschio chiamato nel battesimo Francesco Filiberto, il quale al suo trapasso avvenuto li 6 ottobre 1584, gli successe sotto la tutela della madre e del cardinale Guido Ferrero suo cugino. Appartiene a questo marchese il primo atto che si conosca riflettente la zecca di Messerano, ed è un appalto datone li 7 agosto 1566 (2) a Luchino Reale di Chieri per anni cinque mediante il pagamento di cinque grossi per ogni marco d’oro e quattro quarti per caduno di argento che avesse battuto, coll’obbligo di non usare che quei conii che da Besso gli sarebbero stati rimessi, e che le monete fossero lavorate alla stessa legge di quelle di Savoia. Questo maestro, eran tre anni dacchè teneva tale zecca, quando chiese ed ottenne li 25 aprile 1569 (8 di rimetterla coi patti medesimi ad un Battista Visconti di Milano abi- tante in Messerano, che li 27 gennaio dell’anno susseguente prestò giu- ramento di fedelmente eseguire il convenuto col suo predecessore. (4) Instrumenta conventionum sequuta inter illustrissimos dominos de Flisco dominos Messerani ac communitatem et homines eiusdem. Vercelli 1692, pag. 46. (2) DeLLA MARMORA, Memorie ecc., pag. 96, (3) Idem, pag. 101. 94 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Il Visconti poi risulta, da un nuovo accordo fatto li rg dicembre 157 col marchese (!), che si era aggiunto un socio nella persona di Tommaso del fu Gio. Antonio Campagnano di Musso, terra della diocesi di Como. Fu in quest'atto specificato che nessuna emissione di monete si potesse fare senza che dopo eseguitone il saggio fosse verificata dalla guardia, la quale per ciò un pezzo ne avesse a prendere da rimanere nelle mani del saggiatore. Il marchese poi pel suo diritto volle un bianco da grossi sette per ogni marco di monete d’argento emesse, qualunque ne fosse la specie. Due anni dopo i sudetti due zecchieri avevano già cessato dal loro esercizio trovando che li 9g giugno 1573 @®) fu nominato a maestro ed intagliatore dei conii il nobile Giovanni Francesco Porro della città di Casale, figliuolo di Nicolò che lavorava pure di detta arte pella zecca di Monferrato , e fratello di Luigi e Gio. Battista che nella sudetta città attendevano anch'essi all’incisione di conii. Pochissimo durò questo zecchiere nella nostra officina, poichè li 25 settembre 1573 () venne essa appaltata per tre anni al nobile Luigi Ferraris di Vercelli, lo stesso che nel 1562 era guardia in quella di Torino (4), e questo è l’ultimo atto riguardante la zecca di Messerano che conosciamo di Besso, se si eccettuano i privilegi concessi ai suoi operai e monetari li 15 settembre 1579 ©, i quali sono gli stessi che usavasi accordare ai lavoranti nelle altre officine di questa parte d'Italia. Prima di passare alla descrizione delle singole monete coniate da questo marchese, devo notare che senza conoscersene l’epoca certa, seb- bene non creda di errare dicendo essere ciò avvenuto quando si allogò la zecca di Messerano al Reali nel 1566, si abbandonò l’antico sistema monetario dei grossi, quarti e forti per adottare il nuovo introdotto nel 1561 dal duca Emanuele Filiberto nel suo Stato, cioè la lira divisa in venti soldi e caduno di questi in dodici danari. Non consta se subito sì ritirasse 0 si lasciasse in corso la vecchia moneta in Messerano, ma in Crevacuore essa conservossi come appare dalla tariffa del 1577 pei (1) DeLLA MARMORA. Memorie ecc., pag. 102. (2) Idem, pag. 105. (3) Idem, pag. 108.. (4) Monete dei Reali di Savoia. Tomo I, pag. 26. (5) DeLLa MARMORA. Memorie ecc., pag. 1193. DI DOMENICO PROMIS. 95 daciti ed emolumenti dei tribunali di detta terra (i); però, se non allora, qualche anno dopo la nuova lira si adottò per gli atti pubblici in tutto lo Stato come compare dalle costituzioni del marchesato (@). Ora mancando negli ordini di battitura la descrizione dell’impronto che dovevano avere le varie specie di queste monete, credo doverle classificare secondo la data della stampa quando vi è segnata , sempre però stando al loro valore nominale ed anteponendo, perchè certamente anteriori, quelle estranee al nuovo sistema e che vedonsi contraffatte sopra alcune di altre officine. Comincio in conseguenza da un tirolino imitato da quelli dei Fieschi, per il che lo crederei coniato nei primi anni della signoria di Besso e prima dell’appalto del 1566. Come i sudetti (T. VI, Besso, N.° 1) ha da un lato un’aquila ad una testa coronata, colle ali aperte ed attorno BESSVS . F. FL. MAR. M., e dall'altro diviso da una grande croce, intersecata da altra più piccola, il motto SOLI - DEO - GLO - RIA. Della stessa epoca non dubito sia una monetina imitante alcuni crewtzer coniati in Germania nei primi lustri del xvi secolo, la quale (T. VI, N.° 2) tiene nel campo del diritto disposti in triangolo e con- vergenti al centro tre scudetti, uno col leone dei Ferrero , il secondo colla banda dei Fieschi ed il terzo coll’aquila ad una testa, con attorno al tutto + BESSVS..... L. MAR. M,, e nel rovescio una croce bifor- cata toccante l'orlo del pezzo col motto come sopra da essa diviso SOLI - DEO - GLO - RIA. È di soli grani 18 e di titolo piuttosto basso, epperciò potrebbe essere stato emesso per un quarto. Mezzo kreutzer consimile al sudetto (T. VI, N.° 3) per avere da un lato gli stessi scudetti e la medesima leggenda che però finisce con MESSE ., e dall’altro le stesse doppie croci e motto del N.° 1. Pesando soli grani 10 e parendo al titolo del precedente lo classificai come sua metà, Agli stessi anni attribuisco un pezzo contraffatto a certo difken di Lucerna in Svizzera, dall’Haller collocato prima di quelli portanti data, cioè anteriori al xvi secolo ma pel loro tipo posteriori alla prima metà dell’antecedente (8). (1) DeLLa MARMORA. Memorie ecc., pag. 111. (2) Constitutiones civiles et criminales, decreta, edicta et statuta nova et antiqua reformata et condita ab illustrissimo et excellenlissimo D. D. Besso Ferrerio Flisco Messerani marchione etc, Taurini 1583. (3) Schweizerisches munz und medaillen kabinet. Erster theil. Bern 1780, pag. 421. 96 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE In esso (T. VI, N.° 4) evvi da una parte in una cornice formata di quattro frazioni di circolo, sormontato da un'aquila coll’ali aperte ed accostato dalle lettere L-V iniziali di Zucerna ©) uno scudo colle armi del cantone che è partito di argento e d’azzurro, ed attorno al tutto il motto -- E TENEBRIS . LVCET .: nell'altra vedesi un santo vescovo in piedi con mitra, tenendo una tinivella nella mano destra ed il pastorale nella sinistra, con in giro S TEONEST . PROtector. L’esemplare di questa falsificazione che tengo sotto gli occhi è di puro rame. Ancora due monete credo coniate prima che nell’agosto del 1566 la convenzione col Reali avesse effetto, e certamente posteriore al marzo di detto anno quando Besso ottenne da papa Pio V l'investitura del suo stato. La prima (T. VI, N.° 5), imitazione di un giulio di Bologna, ha da un lato un leone rampante (che spetta tanto ai Ferrero che a questa città) tenente colle zanne una bandiera colle chiavi decussate ed attorno BESSVS . F. FL. MAR . MESSERANI ., e dall’altro offre il busto con piviale del sudetto pontefice ed in giro A . PIO . III . PONT . MAX . alludendo ai privilegi ottenuti da esso. Il suo peso e bontà sono uguali ai buoni di Bologna. La seconda di bassa lega è imitazione di una collo stemma dello stesso papa e battuta in ignota città dello stato ecclesiastico, se forse anche il pezzo descritto dal Cinagli (4), che per essere alquanto liscio manca di parte della leggenda, non è una contraffazione uscita da qualche piccola zecca del Mantovano. Nel nostro adunque (T. VI, N.° 6) vedesi da un lato uno scudo ovale accartocciato colle bande dei Fieschi, sormontato da corona aperta e fiorita e sopra due grandi chiavi decus- sate; della leggenda non rimane che la sola parola EGCLESIE appunto come sopra quella del Cinagli; nell’altro lato poi un santo seduto nell’atto di benedire colla destra e con una palma nella sinistra ha attorno SU ITS e MESSERANI. Quantunque per esservi in essa il solo stemma dei Fieschi e la figura del santo come sui loro testoni abbiamo veduta rappresentata, si potesse supporre che ad uno di essi questa monetuccia appartenga, tuttavia non esito a collocarla fra quelle di (*) Non posso concorrere nell’opinione del dotto amico signor Morel Fatio che scrisse nel N.° 4.° del 1862 dell’Indicateur d’histoire ct d’antiquités suisses di Zurigo le due lettere L-V indicare il nome di Ludovico Fieschi, poichè questa moneta appare per il suo tipo e motto alla sua epoca certamente posteriore. (1) Le monete dei Papi descritte in tavole sinottiche. Fermo 1848, pag. 135, N.° 66. DI DOMENICO PROMIS. 97 Besso perchè imitazione di una collo stemma di Pio V e di quest'epoca, e per avere le chiavi, distintivo di privilegio pontificio, che i primi non possedendolo non usarono, come a suo luogo si è veduto. Venendo ora alle monete lavorate secondo il nuovo sistema, ho a descrivere tre scudi d'oro, i quali vedonsi essere opera dello stesso artista che fece i conii di quelle d’argento, epperciò sono ad esse con- temporanee, siccome però mancano della data, li colloco in capo a questa serie, rappresentando essi il valore di tre lire caduno. Di essi uno (T. VI, N.° 7) ha nel diritto, accartocciato e sormontato da corona perlata, uno scudo ovale inquartato 1 e 4 di leone rampante, 2 e 3 di tre bande e sopra il tutto ripetuto lo stemma dei Fieschi in uno scudetto, con attorno BESSVS . FER . FL. MAR . MESSERANI ., e nel rovescio una croce ornata e fogliata col motto SOLI . DEO . HONOR . ET . GLORIA, indi una rosetta. Un altro (T. VI, N. 8) è nell’impronto simile al sudetto, però con alcune piccole variazioni sia nei cartocci attorno lo scudo, che nella forma della croce e nell’avere una crocetta a capo della leggenda del rovescio. Il terzo (T. VI, N.° 9) nel diritto colla stessa corona, quarti e leg- genda del primo ha lo scudo tagliato sopra orizzontalmente e variatamente ornato di cartocci, e nel rovescio la grande croce diversamente lavorata. Pesano uno sull’altro da denari 2. 14 a 2.15 e paiono un poco inferiori nella bontà a quelli che in questi anni battevansi a Torino cioè a caratti 21. 20. Di Besso non ho trovato alcun indizio dell’esistenza dei pezzi da una lira, ed è probabile che non ne abbia lavorati, perchè dovendo essi essere d’argento ad alto titolo non avrebbero prodotto alcun utile ma soltanto cagionato una spesa, la quale cosa non era certamente nell’inten- zione nè del marchese nè di alcuno de’ suoi zecchieri, quando battendo monete di biglione ossia di bassa lega il lucro poteva riuscire impor- tante, ed appunto per questo credo che, lasciate a parte le lire, mezze e quarti, le quali in Piemonte lavoravansi a denari ro. 18 (4), se ne coniarono soltanto le minori frazioni assai inferiori nella bontà. Di queste la maggiore è il bianco, o pezzo da soldi quattro , del ‘quale esistono esemplari emessi dal Reali negli anni 1566, 1567 e 1568 (4) Monete dei Reali di Savoia. Tomo I, pag. 466. Serie TI. Tom. XXVI. 13 98 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE (T. VI, N. ro), ed hanno da un lato uno scudo semplice sormontato da corona perlata, cogli stessi quarti degli scudi d’oro e colla leggenda BESSVS . FER . FLI . MAR . MESSE ., e dall’altro una grande croce goffamente ornata con quattro fiori negli angoli ed in giro -- IN . DEO . SPES . MEA .., indi la data (©). Vari esemplari pesati si trovarono in comune di denari 3. 12 caduno, epperciò di tre grani meno di quelli di Savoia, ma nel titolo mi sembrarono ad essi uguali. Il suo successore Visconti continuò ad emetterne, però alcun poco variandoli nei fregi, e di esso se ne hanno cogli anni 1570, 1571 e 1572. In questi bianchi (T. VI, N.° 11) nel diritto evvi lo scudo acco- stato da due rose ed intiero il nome del feudo, e nel rovescio il motto diviso da rosette e la croce diversamente ornata; essi non paiono variare dai precedenti nella legge. Di questo maestro sono comuni i soldi cogli anni anzidetti, ed aventi (T. VI, N.° 12) da una parte in minor diametro lo stesso impronto e leggenda dei bianchi, e dall’altra una croce barocca ma senza i fiori negli angoli e preceduta da una rosetta la leggenda BENE . AGENDO . NE . TIMEAS . Li riscontrai in comune di denari 2. 12, ma al più al titolo di denari 2, onde inferiori ai buoni di Savoia. Col seguente pezzo abbiamo completa la serie delle monete di biglione dal Visconti emesse, e questo è il quarzo di soldo (T. VII, N. 13), sul quale da un lato è uno scudo semplice inquartato 1 e 4 del leone dei Ferrero e 2 e 3 delle bande dei Fieschi, con in giro + BESSVS . FER . FLISCIS (sic), e dall’altro una croce fiorita, ornata di tre per- lette in caduno degli angoli ed attorno }- MAR . MESSERANI . , indi l’anno 71. Pesa il mio esemplare grani 17 e pare a denari 1. 12, epperciò sarebbe uguale a quelli di Torino. Nell’anno susseguente per imitare quelli di Savoia, nei quali eranvi le iniziali di Emanuele Filiberto e la croce di S. Morizio , si variò il diritto del quarto di soldo , ossia pezzo da denari tre mettendosi nel campo in luogo dello stemma (T. VII, N.° 14) le due iniziali B.F., per 5essus Ferrerius, sormontate da corona perlata ed aventi sotto una rosetta, con MAR. MESSERANI . , ed attorno alla croce del rovescio (*) Questo diazco venne contraffatto da Giulio Cesare Gonzaga marchese di Pomponesco, che ne battè colla data del 1583 (Zanetti. Tomo III, Tav. VIII, N.° 1), e dai Mazzetti signori di Frinco; unitamente ai soldi (Morete di essi. Torino 1860. Tav. I, Ni 2 e 3). DI DOMENICO PROMIS. ‘99 leggendosi DEO . GLORIA . 1572. Nel peso però e bontà sono questi pezzi ed i susseguenti uguali al precedente. Di Alvigi Ferraris si conoscono bianchi e soldi uguali a quelli battuti dal Visconti, e solamente distinguonsi per le loro date che sono il 1573 e 1574. In quanto ai quarti di soldo (T. VII, N.° 15) variano dagli ultimi in questo che sopra le iniziali B. F . la corona è a punte e che la croce è fogliata ma senza ornati nel campo. Non consta quanto tempo abbia durato la condotta del sudetto, così ignorasi chi tenesse indi le zecche di Besso, chè dopo il 1574 vedonsi variati alcun poco i conii delle tre anzidette specie, e cominciando dal bianco, uno se ne ha dell’anno 1578 (T. VII, N.° 16) con uno scudo accartocciato e coi soliti stemmi e corona, ma per leggenda BESSVS . F . FL. MAR. MES. ET. CREPACO. Il rovescio poi è uguale a quello del pezzo N. 11. Nello stesso anno si batterono pure quarti di soldo (T. VII, N° 17) uguali nel tipo agli ultimi, ma aventi come il bianco nel diritto MAR . MESER . ET. CREPACOR . e nel rovescio dopo la data la lettera S ini- ziale del nuovo ignoto zecchiere ; ora sia questo pezzo che l’antecedente, stante il titolo di signore di Crevacuore che per la prima volta vedo segnato sulle monete dei Ferrero, credo spettino alla zecca nuovamente aperta in questa terra dopo l’acquisto che Besso ne fece dal duca di Savoia. Sino all'anno 1581 non rinvenni più alcuna moneta di Besso, e la prima (T. VII, N. 18) è un diarco che ha un lato collo stemma affatio uguale al N.° 11, e quello opposto pure colla croce barocca, però con alcune varietà dall’anzidetta. Dello stesso anno, ma di altro maestro evvi un so/do (T. VII, N.° 19) simile nel diritto al N.° 12, fuorchè la corona sullo scudo è fiorita, ed ha nel rovescio la croce fra otto frazioni di circolo e dopo l’anno 81 l'iniziale G. i A compimento di quelle colla data del 1581 evvi un soldo di conio variato (T. VII, N.° 20) avendo da una parte lo scudo semplice col solito stemma, ma sormontato da corona fiorita ed accostato da due rosette con in giro BESSVS . FER . FL. MAR. MESS.., e dall’altra una croce trifogliata consimile a quella detta di S. Morizio di Savoia ed attorno >- BENE . AGENDO . NE . TIMEAS .., indi il N.° 1 indicante l'anno 1581, al quale seguono le iniziali M . G . spettanti ad ignoto maestro. 100 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Il quarto di soldo dello stesso. zecchiere (T. VII, N.° 21) colle lettere B. F.. coronate e BESSVS . FERRERIVS . FL . nel diritto, ha nel rovescio la solita croce trifogliata ed in giro +- LAVS . DEO . 1581 .M.G. Un altro (T. VII, N.° 22) varia soltanto dal precedente nella leg- genda del rovescio, mancandovi le iniziali sudette ed essendovi -- MAR. MESERANI . 1581 . il quale titolo in alcuni esemplari è così ripetuto nel diritto -- BESSVS . FER . FL. MAR. MES. Dell’anno susseguente si ha un pezzo da due scudi d’oro, ossia una doppia, uguale nella legge a quelle dette d’Italia (T. VII, N° 23), e nel cui diritto vedesi il busto del marchese armato di corazza con sotto 1582 ed attorno BESSVS . F . FL . MAR . MESSERANI ., e nel rovescio il solito stemma in uno scudo un po’ accartocciato e sor- montato da corona fiorita con in giro -- NON . NOBIS . DNE . SED . NOM . TVO . DA . GLO. Dopo le monete battute durante la vita di Besso devo collocarne una perchè è ugualmente segnata del suo nome, quantunque per avere la data del 1585 appaia essere stata battuta nel primo anno della tutela del suo figlio Francesco Filiberto, e questo è un soldo (T. VII, N° 24), nel quale da un lato evvi il solito scudo sormontato da corona perlata e grottescamente ornato con in giro BESSVS . F . FL. MAR. MES. CREPA ., e dall’altro la stessa croce e motto dei primi, ma colla data del 1585, quando cioè da un anno era esso mancato ai vivi. Il cardinale Della Marmora (pag. 127) dice aver estratto da una memoria conservatasi nella sua casa che da questo marchese, o forse dal suo successore, si coniò una moneta col motto spagnuolo nel diritto antes muerto que mutado , ossia prima morto che cangiato , attorno alla sua persona rappresentata a cavallo, e nel rovescio lo scudo inquar- tato dei Ferrero e Fieschi col motto Non nobis Domine etc., ma sinora non avendone rinvenuto alcun disegno, sopra questa semplice indicazione non mi è possibile darne l’impronto. Nei piccoli Stati che numerosi esistevano in questo e nel susseguente secolo nell’Alta Italia era comunissima cosa il contraffare le monete dei maggiori principi dalle quali speravasi di ricavare un cospicuo lucro, ed in questo sì indelicato procedere non si dimostrarono i marchesi di Messerano da meno degli altri signorotti della loro epoca. Così abbiamo veduto che Besso cominciò dal falsificare monete di Bologna, Germania DI DOMENICO PROMIS, TOI e Svizzera, ma poi pare che abbandonasse tale infame mestiere quando nel 1966 adottò per la sua zecca il sistema duodecimale usato in quelle di Savoia, siccome però dalla battitura delle lire nulla avrebbe ricavato di utile, fece solamente lavorare degli spezzati a bassa legge e questi per alcun tempo conservaronsi buoni, ma poi anche essi andaronsi taci- tamente peggiorando, il che presto scopertosi scapitarono nel minuto commercio e vennero proibiti nei limitrofi Stati nei quali ampiamente si spargevano. Come il più prossimo, il primo a soffrirne il danno fu naturalmente il Piemonte, onde il duca Emanuele Filiberto, dopo essersi nella zecca di Torino col saggio constatato che sia i bianchi che i soldi ed i quarti marchesani si erano nella bontà alterati, con editto delli 22 maggio 1574 (4) ne proibì nelle sue provincie al di quà dei monti il corso, e quest'ordine venne confermato dal suo successore li 28 gennaio 1581 e 12 dicembre 1583. Nel ducato di Milano poi, dove tali monete di biglione non erano ricevute , essendosi riconosciuto che gli scudi d’oro di Messerano erano inferiori nel titolo ai buoni li 16 novembre 1583 (®) vennero proibiti, come lo erano stato nell’anno precedente nel Monferrato. FRANCESCO FILIBERTO. Nato in Messerano li 6 giugno del 1576, contava appena otto anni quando venne orbato del padre rimanendo sotto la tutela della madre sino al 1597, allorchè compì i 21 anni. Nel 1598 dopo avergli il sommo pontefice Clemente VIII accordato li 26 giugno l'investitura degli aviti Stati e confermato i privilegi già a’ suoi predecessori concessi, con bolla delli 13 agosto resse il marchesato di Messerano in principato ed il contado di Crevacuore in marchesato. Il suo cugino e contutore monsignor Giovanni Stefano Ferrero essendo andato nel 1604 nunzio del papa a Vienna, ebbe da Filiberto l'incarico di ottenere dall’imperatore Rodolfo II la conferma dei privilegi già ottenuti da’ suoi antenati, la dignità di conte palatino , la facoltà (1) Dusoin. Raccolta delle leggi, editti ecc. della Real Casa di Savoia. Vol. xx1. Torino, 1852. BoreLLI. Edilti antichi e nuovi della R. Casa di Savoia. Torino, 1681. (2) ZanerTI. Tom. II, pag. 34. 102 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE di batter moneta col nome ed armi di Cesare, invece del titolo di conte quello di principe di Lavagna e del S. R. Impero e la facoltà d’inquartare nel suo scudo l’aquila imperiale e lo stemma della Casa d’Austria, e tutto questo senza pregiudizio della dipendenza in cui era dalla Santa Sede. Queste domande però non ebbero alcun seguito per non aver egli voluto pagare alla Camera cesarea l’enorme diritto che si pretendeva per tali privilegi, e se sopra alcune monete, come ongari e talleri, vediamo aver egli messo l’aquila imperiale, ciò fece abusivamente e quasi sempre venne essa accompagnata da leggenda allusiva alla concessione del 1533 di Carlo V. Rottasi nel 1612 la guerra tra il duca di Savoia e quello di Mantova, il Ferrero abbracciò il partito del Gonzaga e convenne cogli Spagnuoli suoi alleati di ricevere una loro guarnigione nelle sue terre, per la qual cosa ebbe molto a soffrire dai Savoini che quasi tutte gliele occuparono, onde quando alcuni anni dopo sopravvenne una nuova guerra per l’occu- pazione della Valtellina, meglio consigliato decise di rimaner neutrale. A ciò venne anche indotto dalla triste posizione in cui trovavasi, essendochè da’ suoi sudditi stessi, che gli si erano ribellati ed ucciso avevano il suo figlio primogenito, fu accusato alla Corte di Roma d’ogni sorta d’infamie, e siccome riconosceva Crevacuore dal duca di Savoia, dal senato di Torino fu cominciato contro di lui un processo criminale per stupri, omicidi ed altri molti delitti de’ quali era accusato, tra i quali quello pure di aver battuto monete false (1), onde per salvare la vita dovette fuggire dal proprio Stato e ricoverarsi a Fontaneto sul Milanese presso un suo cugino di casa Visconti, che sovente gli era stato compagno nelle orgie, ed ivi morì li 15 settembre 1629 lasciando una pessima memoria di sè, e con esso ebbe principio quella serie di violenze che resero i suoi discendenti talmente intollerabili ai propri sudditi, che dovettero in fine abbandonare la residenza di Messerano e vendere lo Stato nel susseguente secolo al re di Sardegna. Sopra si è detto che il duca di Savoia aveva nel Piemonte proibito il corso delle monete dei Ferrero, ma appena morto il marchese Besso, la sua vedova come tutrice di Francesco Filiberto fece interporre i buoni (1) Sommario dei delitti che vengono ascritti al signor Francesco Filiberto Ferrero Fieschi, principe di Messerano, sì per delitti da esso comessi che fatti comettere, pei quali si deve formar processura. M.S. della biblioteca del Rein Torino. Miscellanea, vol. INI. Questo processo fu preparato tra il 1620 e il 1625. pre DI DOMENICO PROMIS. 103 uffici del cardinale Guido presso Carlo Emanuele I affine d’ottenere che esse venissero tollerate almeno nel Vercellese e Biellese, stanteché per causa di tale proibizione non potevasi più trovare chi volesse appal- tare la zecca di Messerano. Il cardinale sebbene con difficoltà , tuttavia ottenne questo favore, e di esso non ancora contento si rivolse al duca di Mantova affinchè permettesse che nel Monferrato fossero ricevute almeno quelle d’oro e d'argento fine, ciò che non consta se siagli stato concesso, invece in seguito alle calde istanze dei parenti del nuovo marchese, il duca di Savoia nel 1586 (!) permise che tutte le sue monete liberamente cor- ressero nel Piemonte purchè lavorate alla legge di quelle della zecca di Torino. Intanto la madre era riuscita a rimettere in attività l’officina di Messerano, e quantunque, come sopra si è veduto , de’ soldi venissero ancora battuti col nome del padre , tuttavia ben presto fatti eseguire nuovi conii coll’effigie del giovinetto marchese, vi si lavorarono soldi (T. VII Francesco Filiberto, N° 1), nei quali è da una parte il suo busto con attorno FRAN . FIL. FER . FL. MAR. ME . II., cioè terzo marchese di Messerano , e dall’altra lo scudo con corona uguale a quello dell’ultimo soldo di Besso, ma con in giro BENE . AGENDO . NE. TIMEAS. 1585 ., detto che disgraziatamente non conservò presente alla memoria nella sua condotta. Tale pezzo venne battuto alla legge dei precedenti. Due anni dopo troviamo che era maestro in Messerano un tale Gabriele forse ebreo, il quale aveva trattato per associarsi una Secondina Roglia di Torino, probabilmente vedova di quel Tommaso che fu zec- chiere di Desana (®), ma della sua gestione non si ha alcuna notizia, e certamente non lavorava più in quest’officina nel 1590, vedendosi che alli 15 gennaio di quest'anno ‘) la marchesana Claudia a nome di suo figlio la allogò a Gio. Angelo Ansaldo genovese per tre anni da comin- ciare col primo febbraio mediante il pagamento annuo di scudi trecento d’argento da fiorini nove, restandogli l'utile a ricavarsi dalle tolleranze in meno sul peso e la bontà legale delle monete da emettersi ed inoltre (1) DeLLA MarmoRA. Memorie ecc., pag. 131. (2) Monete della zecca di Desana, pag. 40. (3) DuBoIN, come sopra, Tomo xxI, pag. 392. 104 MONETE DELLE ZECCHE. DI MESSERANO E CREVACUORE la terza parte delle multe pagabili da particolari al fisco per causa di monete; e con tali patti gli fu concesso di lavorare scudi e doppi scudi d’oro, ducatoni, mezzi e quarti, testoni, lire e mezze lire alla stessa legge di quelli che dal duca di Savoia battevansi, coll’ effigie, nome e stemma del marchese, assicurandolo che così avrebbero avuto libero corso in Piemonte. Quantunque fossero scorsi i tre anni dell'appalto, continuò l'Ansaldo a lavorare in questa zecca trovandovisi ancora li 18 agosto 1597 (i), quando ebbe alcune contestazioni per causa di interesse con due operai della medesima, cioè i giugali Trevisani, i quali offrirono al marchese di prendere essi quest’appalto, purchè riducesse il diritto di signoraggio dal 4 al 2 per cento, obbligandosi per contro a dargli la metà dell’utile che avrebbero ricavato sulla battitura delle monete d’oltremonze e altre ; dalle quali parole appare che già vi si falsificavano monete di zecche estere , la quale proposizione non consta che sia stata gradita, però com- parendo dai registri delle rendite camerali che l'officina a quest'epoca fruttava più di 2500 scudi annui, tacitamente dovette il marchese se non da essi da altri accettare una simile offerta, essendo impossibile colla battitura delle suindicate monete ricavare tale somma. Questo zecchiere poi venne nominato maestro generale , ossia sopraintendente delle officine monetarie marchionali , ed in tale qualità nel 1621 (?) fece un’attestazione segnata pure dalla guardia Gian Giacomo Gualla e controguardia Carlo Clauseto sul modo di procedere nella ricognizione e saggio delle monete prima di emetterle, dalla quale scorgesi che egli con tale magnifico titolo continuava nel posto primitivo, e che le monete di argento e special mente i ducatoni alligavansi secondo il prezzo corrente dell'argento. Di quelle che constano lavorate dall’ Ansaldo, la più antica e di maggior valore è una doppia o doppio scudo d’oro (T. VIN, N° 2), nel cui diritto evvi il busto del marchese corazzato e volto a sinistra con FRAN . FIL. FER. FLI. MAR . MES ., e nel rovescio uno scudo ornato di fregi barocchi, sormontato da corona fiorita ed inquartato 1 e 4 del leone rampante dei Ferrero, 2 e 3 delle bande dei Fieschi, con sopra due altri scudetti, dei quali il superiore ha l'aquila ad una testa e l’inferiore una croce per Savoia, stemma che Francesco Filiberto adottò (1) DELLA MarMoRA. Memorie ece., pag. 140. (2) Ivi, pag. 157. DI DOMENICO PROMIS. 105 in seguito alla convenzione di matrimonio stipulato nel 1977 con Beatrice figlia naturale del duca, pel quale atto (!) questi la autorizzava a portare lo scudo della croce senza sbarra, il quale venne messo anche nel sigillo del marito e dipinto sull’organo della chiesa collegiata di Messerano l), 5 ma che nei primi anni del secolo seguente essendo egli stato creato cavaliere dell'Annunziata tolse e mise: l'aquila bicipite in campo d’argento, che prima era ad una sola testa ed in campo d’oro. Attorno poi al sudetto grande scudo leggesi NON . NOBIS . DOMINE . 1594. Questo pezzo uguale nel peso alle doppie di Savoia è di denari 5.6 e pare allo stesso titolo di esse cioè a caratti 21.21. Di due anni posteriore si ha un ducato d'oro consimile a quelli d'Ungheria, onde detto orgaro (T. VIII, N.° 3), nel quale da un lato vedesi un’aquila bicipite colle ali aperte, sormontata da corona imperiale e tenente in petto uno scudo coronato e partito dei Ferrero e dei Fieschi, con in giro CARO . V .. IMP. GRAT . F.F.MAR. ME. 1596 ., cioè Caroli quinti imperatoris gratia Franciscus Filibertus marchio Messerani, sempre alludendo alla concessione del 1533. Dal- l’altro lato evvi un guerriero in piedi vestito a ferro, colla corona impe- riale in capo, lo scettro nella destra, il globo nella sinistra, e nel campo da una parte lo scudo coronato del leone rampante e dall'altra quello delle bande con attorno NON . NOB . DNE . SE - giglio - NOM. TV. DA . G . per Non nobis Domine sed nomini tuo da gloriam. Pesa de- nari 2. 14 e pare a caratti 21 incirca, come sono molti di Germania dei quali è una pretta imitazione. Alla stessa epoca appartiene una contraffazione della parpaglizola di Milano pure falsificata in questi anni dai Radicati in Passerano 6), e nella quale (T. VII, N.° 4) da una parte vedesi sormontato da corona fiorita uno scudo inquartato dei Ferrero e dei Fieschi con FRAN . FIL . FER. FLI, MAR. MES., e dall’altro la figura simbolica di una donna in piedi nell'atto di versare colla destra da un vaso acqua in un altro maggiore che trovasi a’ suoi piedi con attorno TEMPERANTIA. È di denari 1.20 e pare alla bontà di denari 2, onde sarebbe inferiore a quelle di Milano. (1) GuicHENON. Histoire géngalogique de la maison royale de :Savoye. Lyon, 1660, pag. 706. (2) DELLA MARMORA. Memorie ecc., pag. 146. (3) Monete dei Radicati e Mazzetti. Torino, 1860. Tav. I; N° 10. Serie II. Tom. XXVI I ES 106 MONETE DELLE ZECCHE :DI MESSERANO E CREVACUORE Dopo l’assunzione al trono pontificio di Clemente VII nel 1592, e prima che gli venisse da esso concesso il titolo di principe, si ha di questo marchese un paolo ossia giulio contraffatto a quelli di Bologna (T. VIII, N. 5), avente perciò da un lato un leone rampante e tenente colle zanne una bandiera colle chiavi decussate, ed in giro dove nel legittimo leggesi Bononia mater studiorum , nel nostro evvi BON . OE . À . DEO . ossia Bonum omne a Deo, indi FRA . FI. FE. FL. MAR. MES .; così dall’altro è il busto di detto papa con attorno CLEMEN . VII . PONT. MAX. AVSP . Questo pezzo, che nel peso e bontà pare essere uguale a quello di Besso col N.° 5, deve essere stato emesso prima del finire del 1596, poichè li 22 maggio dell’anno susseguente lo troviamo già tassato dalla camera ducale di Torino (1) a grossi 16 di Piemonte. Notisi poi che in alcuni esemplari mancano sulla bandiera le due chiavi ed invece vi è una croce, la quale varietà lascia credere che uno dei due sia battuto in Messerano e l'altro in Crevacuore da Agostino Costa maestro nominatovi quando vi si aperse nuovamente la zecca nella casa posseduta da un Gio. Battista Visconti (8). Circa la stessa epoca, come succedeva nella zecca di Frinco ®), ivi pure si contraffecero certi sesini di Venezia dal doge Marino Grimani battuti negli ultimi anni dello stesso secolo, dei quali però non dovette uscirne una gran quantità non conescendosi per questo alcun richiamo per parte del senato veneto come abbiamo per Frinco, però una prova scritta si trova nel citato sommario al paragrafo settimo, nel quale leggesi che un testimonio depose qualmente Francesco Filiberto faceva fabbricare quattrini (che così in Piemonte chiamavansi tali sesini) e zecchini ad imitazione di Venezia, ed in una lettera delli 6 maggio 1597 del suo auditore Bianco (4), in cui questi scrive all’ auditore generale d’aver assistito in Milano all’esame di due operai della zecca di Messerano ivi ditenuti in prigione, e che vi si va dicendo che se il mar- chese nella cui ceccha si son fabbricate quelle monete che sono sesini ed altre da sei quattrini haverà privilegio dalla signoria di Venezia di far tali monete che non li si farà altro....V. S. faccia sopra questo (1) BORELLI. Edilti ecc., pag. 324. (2) Sommario dei delitti ecc. (3) Monete dei Radicati e Mazzetti. Tav. III, N.° 10, 12, 13, 14, 15. (4) DeLLa MARMORA Memorie ecc., pag. 138. DI DOMENICO PROMIS. 107 fatto la sua consideratione, e pensi quello ne vuol succedere che tanto da principio ne giudicai ecc., dal che appare il Bianco aver conosciuto a qual pericolo il suo signore andava incontro falsificando tali monete, delle quali però sinora altre non conosconsi che i sesini, dei quali si hanno di puro rame due varietà di conio che conosconsi appartenere ai Ferrero, a cagione specialmente delle leggende le quali trovansi sopra le loro monete di quest'epoca ed in nessun'altra di queste falsi- ficazioni. La prima pubblicata dal signor Kunz (!), e forse la stessa edita dal signor Morel Fatio (2), ha da una parte (T. VII, N.° 6) una croce pisana pomata con quattro globetti agli angoli ed attorno ...... BIS DOMINE S..., e dall’altra un leone in soldo che in luogo del libro dei vangeli tiene uno scudetto caricato delle tre bande dei Fieschi CONGAISÀ INÎ TVO DA GLOR....., leggende che completate dicono Non nobis Domine sed nomini tuo da gloriam. La seconda varietà (T. VIII, N.° 7), che già ho attribuito ai Mazzetti 18) per non aver allora alcun indizio onde crederla d'altra zecca, tanto più che ad eccezione di quelli di Frinco nessuno di tali pezzi mi risultava essere stato tra noi battuto, è uguale alla precedente, meno che il leone tiene un libro e la leggenda è completa essendo ! esemplare ben conservato. Si è detto di sopra che Francesco Filiberto li 13 agosto 1598 aveva ottenuto dal Sommo Pontefice l'erezione di Messerano in principato e di Crevacuore in marchesato; ora appena fugli concessa tale dignità volle che fosse segnata sulle monete, e siccome allora lavoravansi nella prima sua zecca parpagliuole contraffatte a quelle di Milano, il titolo di prin- cipe fuvvi inserto così (T. VIII, N° 8) F.F.F.F.PR.MESSERA., conservando del resto intatto l’impronto delle precedenti. La proposta fatta nel 1597 dai Trevisani di battere monete estere, venne ripetuta nel 1603 da un mercante ignoto , e allora pare che il principe la gradisse e fosse incaricato di questo Giovanni Andrea Capra stato nominato zecchiere li 13 agosto dello stesso anno (4), il quale poi estendendo di troppo la sua industria, non senza sospetto della tacita (1) Miscellanea numismatica. Venezia, 1867. Tav. unica, N.0 10. (2) Revue numismatique. N. S. Tome X, 1865. Tav. VI, Frinco, N.0 26. (3) Monete dei Radicati e Mazzetti. Tav. MII, N.° 16, (4) DELLA MarMoRA. Memorie, ecc., pag. 142. 108 MONETE DELLE ZECCHE. DI MESSERANO E CREVACUORE connivenza di Francesco Filiberto, che da queste emissioni di monete false ricavava un grosso luero come si è detto di sopra, venne nel maggio del 1607 pubblicamente accusato di lavorare in società di un Antonio Ferreri ducati ed ongari d’argento dorato (*) ed altre specie, onde dovette fuggire e si ricoverò in Albano terra dello stato di Savoia, dove con- tinuò a batterne delle così basse che, quantunque in causa d’un forte imbianchimento apparissero d’oro ed i ducatoni di buon argento, tuttavia d’intrinseco non contenevano più di venti soldi marchionali, in conse- guenza da non confondersi con quelli che prima faceva in Messerano; tanto poi era lo scredito che in tale materia erasi il principe acquistato, che quando i sudetti vennero arrestati e processati credette doversi giu- stificare presso i diversi sovrani d'Ttalia, e persino presso i cardinali a Roma (!). Il Capra però con tutto questo è probabile che qualche. tempo dopo sia stato rimesso in libertà, avendo in Torino deposto contro il suo signore appunto per tale oggetto. Un'altra prova di queste falsificazioni Pabbiamo nelle monete battute dal Capra nello stesso anno in cui prese in appalto l’officina di Messerano, ed ecco come. Il duca di Savoia nel 1587 aveva ordinato la coniatura di mezzi grossi col suo stemma , cimiero .e la croce trifogliata di S. Morizio (®); ora il principe avendo scoperto che contraffacendoli ne avrebbe ricavato un non mediocre guadagno, volle nel 1603 che se ne lavorassero dei simili in Crevacuore, variando solamente lo stemma e le leggende, cioè mettendo nel suo diritto (T. VIII, N.° 9g) nello scudo invece della croce le bande dei Fieschi con attorno FRAN . FIL.... FLI ., e nel rovescio in giro PRING. MESSERANE Altri esemplari (T. VIII, N.° 10) ne variano soltanto in questo, che dal lato dello stemma hanno MESSERANI senza il nome del principe. In quanto alla loro legge si mota che i mezzi grossi buoni erano di grani 9g in peso ed a denari 3. 1, e questi sono nemmeno a grani 12 di fine. Per ciò gli vennero fatti severi rimproveri dal duca Carlo Emanuele I, presso il quale cercò di scusarsi con lettera delli 19 di-. cembre dett’anno (3), dicendo che tale croce era già stata usata da’ suoi (*) L’espressione d’uso in zecca di argerio dorato non significa che la moneta o la verga sia total- mente d’argento e soltanto dorata alla superficie, ma che contiene ordinariamente più argento che oro (1) DeLLa MARMORA. Memorie, ecc., pag. 149 e 150. (2) Monete dei Reali di Savoia. Vol. II. Tav. XXXI, N.° 27. (3) DeLLa MarMoRA. Memorie, ecc., pag. 142. a DI DOMENICO PROMIS. 109 antenati, che lo stemma era il suo, e che ne aveva fatto lavorare ad. istanza de’ suoi sudditi pel loro proprio uso e solamente per ducento scudi da fiorini nove, la quale scusa non pare essergli stata tenuta buona, poichè un mese dopo il suo parente Bernardino di Savoia Racconigi gli scrisse avergliene il duca parlato, ma che farebbe bene a non dare più retta a’ suoi zecchieri che per un poco di guadagno non badano di metterlo in gravi imbrogli. Nel timore di rendersi inimico Carlo Emanuele, del quale conosceva il carattere risoluto , e che nessuna difficoltà avrebbe messo ad impa- dronirsi del suo piccolo stato circondato dal Piemonte, tralasciò di con- traffarne le monete, ed invece adottando altre proposte fece coniare talleri simili ad alcuni di Germania, che poi da mercanti vi si impor- tavano spendendoli come i legittimi; siccome però tale specie di moneta tedesca era legalmente ricevuta nello stato di Savoia, il duca con editto delli 27 agosto 1604 (!) della messeranese subito proibì il corso in Piemonte. Questi #allerî (T. IX, N.° 11), secondo la tariffa d’ Anversa del 1633 (pag. 189) a soli denari 8. 12, epperciò inferiori ai buoni, e che dal saggio fattone in Torino si riconobbero valere solamente fiorini 8. 3 ‘/,, quando invece facevansi correre tra il popolo per duca- toni, i quali spendevansi per fiorini rr. 6, hanno nel diritto il busto del principe vestito a ferro ma col capo scoperto, tenente una mazza d'armi colla destra e la sinistra appoggiata sull’elsa della spada, con attorno FRANCIS . FILIB .S. R.S . PRIN. MESSERANI . , e nel rovescio fra due rami con foglie disposti quasi in forma di ghirlanda e sormontato da corona fiorita ed aperta, il solito scudo inquartato 1 e 4 di leone rampante, 2 e 3 di tre bande, e sopra il tutto uno scudetto col- l’aquila ad una testa ed ali aperte, con in giro MARCHIO . CREPACORI . COM . LAVANI. In questo pezzo sono a notarsi nella leggenda del diritto le tre lettere S.R.S. avanti il Princeps, le quali al primo aspetto paiono un errore e messe invece di S. R.I1. per Sacri Romani Imperii, che avrebbero ottimamente legato colle parole susseguenti, ma devono . interpretarsi per Sanctae Romanae Sedis. Alcun tempo dopo compare da un bando di Savoia delli 12 set- tembre 1607 @ che vi fu coniato un altro tallero di bassa lega, onde (1) BoRELLI. Editti, ecc., pag. 327. (2) Idem, pag. 329. TIO MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE subito proibito. Questo (dl IX, N. 12) ha come il precedente da una parte il busto corazzato ma con sciarpa, la destra appoggiata al fianco e colla sinistra tenente l'impugnatura della spada, con in giro FRAN . FIL . FER. FLI . PRINCE . MESSERA ., e dall’altra, come in diversi scudi di Germania, una grande aquila bicipite colle ali aperte, con corona imperiale ed avente in petto uno scudetto ovale partito de' soliti leone e bande, con attorno CAROLI . QVINTI . IMPERATOR . GRA ., divisa la leggenda da un cartello con F . VIM., cioè fiorini otto , valore nominale dato al pezzo, che infatti non ne valeva sette. Dopo il Capra dai libri di zecca non consta chi la tenesse in Messerano , però dal sunto sopracitato del processo instituito contro il principe sembra ne fosse maestro un Antonio Garino, che pare vi abbia lavorato sino al finire del 1615, quando l’appaltarono i fratelli Costa. Ora in questi anni devono essere stati coniati due pezzi d’oro, il cui ro- vescio crederei intagliato appositamente in memoria dell’avere Francesco Filiberto avuto dal duca di Savoia li 18 marzo 1608, in occasione del matrimonio delle infanti Isabella e Margherita sue figlie, il collare del- l'ordine della Santissima Nunziata, la quale nella medaglia da esso pendente è fisurata, e ciò in ricordo di un onore allora sommamente ambito. Il primo del valore di due doppie (T. IX, N.° 13) ha da un lato il suo busto corazzato con attorno FRANC . FIL. FERR . FLI . PRINC. MESS ., e dall’altro l’annunziazione della Vergine Maria con in giro VITAM . DATAM . PER . VIRGINEM . Pesa denari ro. 7 ed è al titolo di caratti 21, e così uguale alle altre d’Italia. ; Il secondo, cioè la doppia, ossia doppio scudo d’oro (T. IX, N° 14), è uguale al primo nell’impronto, solamente che, per esserne la metà, ben più ristretto ne è il diametro. Alla stessa epoca, vedendosi in esso per la prima ed unica volta il collare di Savoia, non dubito di attribuire un ducatone nella citata tariffa d’Anversa del 1633 (pag. 189) detto a denari 8. 12 come l’ante- cedente col N.° 11. Esso (T. IX, N.° 15) presenta nel diritto il busto del principe volto a sinistra, con corazza e medaglia dell'Annunziata pendente dal collo , ed attorno FRAN . FIL. FERR. FLIS . PRINC . MESSERA ., e nel rovescio, sormontato da corona fiorita e circondato dalla sudetta collana, uno scudo inquartato del leone rampante e delle tre bande collo scudetto nel centro con aquila bicipite, ed in giro la DI DOMENICO PROMIS. III solita leggenda NON . NOBIS . DNE . SED . NOM . TVO. DA. GLORIA . divisa a metà dal numero XII indicante valere fiorini dodici. Non consta se in questi anni altre specie di monete si lavorassero in Messerano, e probabilmente continuossi a battere talleri, però riducen- done la bontà intrinseca, come risulta da un calcolo fattosi li 5 febbraio 1613 nella stessa zecca (!) affine di conoscere quanto costasse il ridurre crosazzi in questa specie di scudi. Vi è adunque detto che da un marco milanese di crosazzi a denari rr. 11 e del costo di fiorini 16. 6 caduno si ricavavano talleri 8. del peso ognuno di denari 22. 14, al titolo di denari 7. 17 e correnti per fiorini 8. 6, dal che risultava che si pote- eni marco ricavare d’utile due lire marchionali. 5 Ritornando all’officina di Crevacuore, troviamo che li 20 novembre vano sopra 0 1615 (2) essa venne data in condotta ai fratelli Giovanni e Giovanni Andrea Campo, ivi abitanti, per tre anni a cominciare col gennaio del 1616 da continuare anche per tutto il tempo che avrebbero tenuto quella di Casale nella quale essi ugualmente lavoravano, permettendosi loro di battere doppie da due e da quattro della bontà di quelle di Clemente VIII, che erano a caratti 22 e di denari 5. 4. l’una, ongari pure a caratti 22 e del peso di quelli di Savoia, epperciò di denari 2. 14, ducatoni, mezzi e quarti uguali nel peso a quelli di Mantova e Venezia ed al titolo di Roma, onde a denari 11, pezzi da fiorini 2, 4 e 8 dello stesso titolo e peso in proporzione di quelli da tre bianchi coll’aggiunta di tre grossi, più pezzi da soldi tre (lo stesso che grossi 21, ossia bianchi 3) coll’aquila da una parte e dall’altra il suo stemma colle parole Non nobis Domine sed nomini tuo da gloriam, ed uguali nell’intrinseco a quelli sino allora emessi, però colla diminuzione nel titolo di un denaro da compensarsi col maggior peso, ed infine fu permessa la battitura di tutta quella quantità di talleri da fiorini 7 ossia bianchi 12, che venisse ai zecchieri richiesta da mercanti. Fu poi convenuto che sopra tutte queste monete, le quali dovevano portare il nome, lo stemma ed il motto del principe, a lui sarebbonsi da essi dati scudi 5,000 d’argento annui da fiorini nove, ed inoltre sugli ongari l'uno per cento e sulle monete d’argento l’uno e mezzo, e qualora intendessero emettere monete basse la metà dell'utile ad esso rimanesse, dal che comprendesi (1) DeLLa MARMORA. Memorie, ecc., pag. 160. (2) Idem, pag. 156. 112 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE che per ricavare una sì vistosa somma non potevasi a meno di falsificare le monete che apparentemente si voleva avessero a lavorarsi buone. Secondo questa convenzione i Campo, che tennero tale zecca sino al 1629, cioè sino alla morte di Francesco Filiberto, batterono doppie (T. X, N. 16) col busto del principe da una parte ed in giro FRAN . PRINCEPS . PRIM.M . ET.M., le quali ultime lettere dicono Messerani et marchio omesso il Crepacori non più capiendovi tale parola, e dall'altra sormontato da una corona fiorita, uno scudo partito in due, e nella prima partitura inquartato nel primo di tre bande, nel secondo e terzo di aquila ad una testa colle ali aperte, e nel quarto del leone rampante, e nel primo quarto della seconda partitura del leone, nel secondo e terzo dell’aquila e nel quarto delle tre bande, con sopra il tutto uno scudetto pure con esse, ed attorno il motto EX. VTROQOVE.. ROBVR ., allusivo all’unione delle famiglie Ferrero e Fieschi delle quali sonvi gli stemmi. Servendosi essi dei conii del tallero di Messerano , del quale do l'impronto al N.° 12, ne batterono altri (T. X, N.° 17), sostituendo però alla leggenda del rovescio il motto dall’ ordine di battitura prescritto, cioè NON . NOBIS. DNE . SED. NOM. TVO . DA . GLORIAM., diviso a metà da un piccolo cartello sul quale è scritto il valore nominale della moneta, ossia B . 12 per dianchi dodici, epperciò uguale a fiorini sette, valendo un bianco grossi sette, e dodici di questi facendo un fiorino. Nel citato Sommario de’ delitti è detto che appunto dai Campo furono battuti questi scudi, e siccome vennero subito riconosciuti dai saggiatori della zecca di Bologna nel valore intrinseco assai inferiori al nominale, furono proibiti da quel Legato li 17 ottobre 1616 (!). Nell’atto d’appalto si è veduto che si permetteva la battitura delle metà e dei quarti di quest talleri, ma sinora di questi ultimi solamente si ha conoscenza, ed essi (T. X, N.° 18) segnano lo stesso tipo degli intieri, eccettochè sono di modulo inferiore, e nel rovescio, dove quelli hanno B. 12, in questi evvi G. 21, cioè grossi 21, quarta parte degli 84 formanti il nostro scudo, e tali quarti corrispondono ai pezzi da soldi tre citati nel sudetto ordine. Oltre le sopradescritte monete tre ancora se ne hanno che a Creva- cuore dovrebbero spettare per essere nella figura e nello stemma uguali (i) ZAnETTI/ Tomo III, pag. 45. 2 DI DOMENICO PROMIS. TIÒ alla doppia col N.° 16, e di esse una è il gerzo di tallero, ossia pezzo da bianchi quattro , ed ha nel diritto (T. X, N.° 19) attorno alla testa -- FRAN. PRIN . PRIMVS .M.ET.M.B.IIIH (bianchi quattro ), e nel rovescio lo stemma accostato da due leoni rampanti coronati e risguardantisi , ed in giro }- MONETA . NOVA . ARGENTEA . Pesa denari 5. 18 per essere quest’esemplare un po’ logoro, e pare a denari. 10. La seconda è pure un pezzo da quattro bianchi, come risulta anche dal suo peso di denari 6. 2 e dalla bontà uguale al precedente, ed in esso (T. X, N° 20), la testa e leggenda del diritto sono le stesse dell’antecedente , ama nel rovescio si usò il conio del pezzo da due fiorini, in conseguenza attorno allo scudo simile al N.° 19 leggesi EX . VTROQVE . ROBVR . F. II per fiorini due. La terza, di diameiro maggiore della doppia, le è affatto uguale nel tipo e nelle leggende, ma dopo quella del rovescio evvi F . IF, indicanti, come si è detto di sopra, il suo valore (T. X, N.° 21). Pesa denari ‘7, ed è simile nel titolo agli antecedenti pezzi. Ho creduto di dover collocare in seguito a queste alcune altre monete le quali nessun dato offrono per conoscere se siano state battute in Messerano od in Crevacuore, ma che furono lavorate anche quasi tutte secondo l'ordine del 1615. Di queste la maggiore è un zallero del valore del sopra descritto e che ha da un lato lo stesso busto del principe (T. X., N.° 22) ma attorno PRINC . PRIMVS . MESSERANI . ET. MAR. , e nel rovescio una grande aquila a due teste colle ali aperte, corona imperiale e portante in petto uno scudetto con fascia, stemma della Casa d’Austria, ed in giro il motto STABILITAS . ALTA . PETIT ., e dopo il suo valore F . VII. Questa specie di scudi, contraffatta tra noi anche in Desana (!), nell’in- trinseco era inferiore d’assai a tal valore vedendosi nella più volte citata tariffa d’Anversa del 1633 (pag. 217) detto essere a soli denari 5. 8. Dello stesso tipo esiste un pezzo da un ;fiorino e mezzo (T. XI, N. 23), che quantunque dal lato della testa abbia la stessa leggenda , da quello dell’aquila porta il motto VIRTVTIS . CESA . PRAE .G. XVII, cioè Zirtutis cesareae praesidio. Grossi diciotto. Di esso non conosco il peso, e nell’anzidetta tariffa è detto (pag. 224) essere al titolo di denari 4. 16. li (1) Monete della zecca di Desana. Tav. V. Art. M. Tizzone, N0 2. Serie II. Tom. XXVI. I (Sk tri MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Evvi ancora un’altra moneta (T. XI, N.° 24) simile a certi pezzi coniati da Vincenzo Gonzaga duca di Mantova in Casale di Monferrato e da Filippo Spinola conte di Tassarolo (!), che l’Olivieri credè un quarto di scudo, ciò che è impossibile pesando il pezzo che ora descrivo soli denari 4. 13 ed essendo inferiore a denari 5, onde dovrebbe essere un fiorino. Ha esso il tipo del N.° 23, però ne è di diametro minore, tiene le stesse leggende e solamente vi manca l'indicazione del valore. Oltre questo fiorino alcuni altri se ne batterono contraffatti a quelli del Brabante ed in parte figurati nella surriferita tariffa d’Anversa, e nella medesima detti soldi perchè 12 grossi in tale città facevano un soldo di banco, e fra noi si chiamarono fiorini. Questi pezzi poi furono riconosciuti a denari 4.2 e meno ancora. Di essi uno (T. XI, N.° 25) da una parte ha un grande scudo sor- montato da corona fiorita, con due bastoni nodosi accollati dietro in forma di croce di s. Andrea, segno dell’ordine del Tosone d’oro, ed inquartato e controinquartato nel primo e quarto (1 e 4 di tre bande, 2e 3 di leone rampante, nel secondo e terzo 1 e 4 di tre caprioli, 2 e 3 d’aquila ad una sola testa, ed attorno al tutto FRAN . FIL. FER. FLI . PRIN.M.G.XI_., ossia Grossi dodici, valore nominale del pezzo. Dall'altra parte evvi un'aquila bicipite, colle ali aperte e corona fiorita ed in giro EXPECTANS . EXPI. FID. SER .IN. RELIO . , cioè il motto biblico Expectuns expectavi fidelem servum in reliquis. Altro (T. XI, N. 26) nel diritto colla corona e bastoni simili al precedente, ha il primo e quarto quarto dello scudo inquartato 1 e 4 dell’aquila ad una testa, 2 e 3 di leone rampante , ed il sécondo e. terzo partito di un'aquila pure ad un capo e di tre bande, con attorno al tutto MONETA . ARGENT . PRI. PR.M. ET.M.C., ossia Moneta argentea primi principis Messerani et marchionis Crepacorii. Nel rovescio evvi, come nel primo, l’aquila a due teste colle ali aperte con corona imperiale, accostata al basso da F . I per fiorini uno, ed attorno il solito motto di famiglia NON . NOBIS . DNE . SED . NOM. TVO . DA . GLO. Il terzo (T. XI, N.° 27) è composto del diritto del fiorino N.° 26, ma nella partitura del quarto secondo e terzo invece dell’aquila evvi qualche cosa che rassomiglia piuttosto ad una scopa, e dal rovescio di quello col N.° 25, però colla corona imperiale alla grande aquila. (1) Monete e medaglie degli Spinola. Genova 1860. Tav. TV_N.° tv »- DI DOMENICO PROMIS. 115 Nel diritto del quarto (T. XI, N. 28) lo scudo è sormontato da ‘corona fiorita, addossato alla solita croce di s. Andrea come negli ante- cedenti pezzi, ed inquartato nel primo e quarto controinquartato 1 e 4 di tre bande, 2 e 3 di una croce, e nel secondo e terzo di un leone rampante colla leggenda attorno al tutto MONETA . ARGENT . FRAN. PR.M.ET.GC.: nel rovescio evvi un’aquila bicipite con corona fiorita , con croce sorgente fra le due teste, colle ali aperte e nel cuore un circolo entro cui il numero 12 indicante il suo valore, ossia dodici grossi; in giro poi vi è il motto PRAESIDIO . SECVRA . TVO . allusivo alla protezione dell’impero. Nell'ultimo di questi fiorini (T. XI, N.° 29) vedesi da una parte lo stesso scudo del precedente, ad eccezione che dove in un quarto quello ha la croce, questo tiene la solita aquila, e che in fine della leggenda dopo l'iniziale C vi è un A prime lettere di Carvacorii; dall'altra parte ‘aquila ha in petto il globo imperiale e dopo la leggenda, uguale a quella del pezzo anzidetto, vedesi il suo valore segnato col numero 12. Tutte queste cinque varietà di fiorini sono del peso caduno tra i denari 3. 12 e 3. 14, ed in quanto alla loro bontà nella tariffa d’Anversa sono detti essere a denari 4. 2, però da un Ambrogio Strada saggiatore nella zecca di Casale furono li 22 aprile 1619 riconosciuti a denari 4.8 d’argento fine e di denari 3. 20. A complemento della serie delle contraffazioni fattesi sotto questo principe nelle officine di Messerano e Crevacuore abbiamo ancora due altre monete, cioè un mezzo datz imitante alcuni di Svizzera ed in buon numero battuto per conto di certi mercanti che subito li importavano in quello Stato, e che nel citato sommario senatoriale è chiamato queer. Ha esso (T. XI, N.° 30) da un lato sopra uno scudetto col leone ram- pante dei Ferrero , un’aquila bicipite colle ali aperte e colla corona imperiale , ed in giro FRAN . FI. FE. FL. PRIN.ME., e dall’altro un busto di santo vescovo con mitra tenente colla destra un succhiello e colla sinistra il pastorale con attorno SANCTVS . THEODOR. Pesa l'esemplare della collezione reale grani 18, e pare assai inferiore nel titolo ai buoni. L'altro pezzo (T. XI, N.° 31) è uno da sei denari contraffatto a quelli di Lorena del duca Carlo III (i), onde da una parte fu messo uno (1) SauLcy. Recherches sur les monnaies des ducs héréditaires de Lorraine. Metz 1841, Tav. XVIII, INA, 116 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE scudo sormontato da corona fiorita e partito di una banda caricata di tre anelli ovali per imitare i tre alerioni che vedonsi su quelli di Nancy e di un'aquila colle ali aperte, ed attorno precedute dalla croce lorenese le parole CAR. V . IMPER . GRATIA, le quali abbiamo già trovate sopra altri pezzi di Francesco Filiberto; dall’altra poi evvi una spada nuda posta perpendicolarmente nel campo ed in giro dopo l’anzidetta croce MONETA . FACTA . MESS. È di grani 15 e forse a denari 1 di fine. Prima di porre termine alla descrizione delle monete di Francesco Filiberto che conosco effettive, devo notare nella sovracitata dichiara- zione del saggiatore Ambrogio Strada essersene descritta una la quale sinora non mi riuscì di vedere, e detta aver da una parte una mezza figura di s. Leoderico colla mitra e dall’altra un'aquila imperiale a due teste, ed essere dei peso di denari 5. 16 ed alla bontà di denari 5. 12; dalla data poi di quell’atto e dalla descrizione di essa si conosce essere contraffatta ad un testone di Lucerna nella Svizzera (1) e battuta ante- riormente al 1612, mandandone in quel Cantone la totale emissione. Questa lunga serie di falsificazioni fattesi dal principe coll’unico scopo di ricavare grosse somme di danaro che servissero ad alimentare i suoi vizi, ebbe per risultato di togliere affatto il credito a tutte le monete, comprese anche le buone, che uscivano dalle sue zecche, e come par- zialmente già si è veduto ora ripetutamente dal duca Carlo Emanuele I, al cui stato esse arrecavano il maggior danno essendochè in questo soprattutto diffondevansi, con editti delli 18 febbraio 1620 (?) e 22 di- cembre 1628 vennero totalmente proibite sotto gravi pene. PAOLO BESSO. Nato nel 1608 da Francesco Filiberto e da Francesca Grillet di S. Trivier , sin dall'infanzia venne destinato allo stato ecclesiastico. Attendeva in Parma allo studio della teologia, quando il fratello pri- mogenito Carlo Filiberto a cagione della perversa sua condotta, nel- l’agosto del 1624 essendo stato trucidato dai Messeranesi sollevatisi contro (4) Ordonnance et instructioni etc. Anvers 1633, pag. 177. (2) Borelli, pag. 333. DI DOMENICO PROMIS. 117 il crudele governo del genitore, egli abbandonati gli studi sacri, intra- prese la carriera militare e nel 1629 successe al padre nel principato. Accomodatosi col nuovo duca di Savoia Vittorio Amedeo I li 15 feb- braio 1631 (4, alcuni mesi dopo venne da esso decorato del collare dell'Annunziata, e frattanto per interposizione di monsignor Cordelia, a ciò espressamente mandato da Roma, fece la pace coi propri sudditi, ma per i suoi modi fieri e vendicativi in breve tempo venne da essi talmente detestato, che nessuna occasione tralasciarono di opporgli una passiva resistenza , e quando a cagione del suo pessimo governo si seppe che dal sommo pontefice inviavasi nel 1657 un abate Laurenti a prendere l’amministrazione dello-Stato con ordine di abbattere le fortezze di Messerano e Crevacuore, immantinente si sollevarono e col fuoco la prima di esse distrussero. Minacciato di perdere non solamente il principato, ma anche la vita, col mezzo di monsignor Villani espressamente venuto da Roma nuova- mente coi sudditi trattò d’un accomodamento, pel quale messi in obblio gli antichi rancori, Paolo, che da vari anni non osava più risiedere in Messerano, potè ritornarvi, e per esperienza avendo veduto essere miglior partito il condurre una vita pacifica e leale, tranquillamente indi resse lo Stato sino alli 2 gennaio 1667, giorno in cui passò all'altra vita. Aveva egli sposato nel 1634 Margherita figlia di Filiberto del Carretto marchese di Bagnasco, maresciallo di Savoia, e da essa ebbe due maschi, Francesco Filiberto che gli premorì nel 1650, e Francesco Lodovico il quale gli successe. Mancata la moglie ai vivi li 8 febbraio 1638, Paolo abbracciò nuovamente lo stato ecclesiastico che da giovane aveva abban- donato, ma che, come dissi, non gli servì, almeno per allora, a fargli adottare costumi più miti. Il continuo emettere monete false, come aveva fatto Francesco Filiberto, fu causa per parte della Camera dei conti di Torino della proibizione anche delle buone da esso battute come sopra si è veduto, e tal ordine venne ripetuto li 28 ottobre 1631 (®. Per questo non tro- vando l’attuale principe chi volesse appaltare le sue zecche, dalle quali l’anno 1632 erano partiti per lavorare in quella di Torino i fratelli Campo , scrisse al suo cugino Sebastiano Ferrero della Marmora affine (1) Della Marmora. Memorie ecc. pag. 164. (2) Borelli, pag. 342. TIÒ MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE di ottenere dal duca di Savoia che nuovamente permettesse che le sue monete avessero corso legale nel Piemonte. Non consta qual esito abbia avuto tale istanza; devé però l'esecuzione dell’ultimo ordine essere stata tacitamente sospesa , vedendo che nell’anno susseguente già era in attività l'officina di Messerano o forse di Crevacuore, nessun indizio avendo per discernere da quale delle due nel 1633 uscissero gli scudi d’argento o talleri (T. XII, Paolo Besso, N° 1) uguali a quelli battuti in Casale nei primi anni di quel secolo da Vincenzo I duca di Mantova , ed aventi nel diritto il busto corazzato del principe con attorno P.. FER . MES . P. ET. MAR. CREP . IX. M. XXXIII, e sotto di esso L.I.: così nel rovescio un san Giorgio a cavallo armato di tutto punto nell’atto di uccidere colla lancia un drago con in giro PROTECTOR . NOSTER. ASPICE ., e nell’esergo S. G. CAS DI : nelle quali leggende alcune cose sono a notarsi, e primieramente nel diritto l’indicazione errata di terzo marchese di Crevacuore quando ne era il secondo , nella data l’omissione del numero romano C dopo il D per indicare l’anno MDCXXXIH e nell’esergo le lettere L .I, che significano lira una, invece che pel loro peso di denari 24 incirca ne parrebbero ben superiori, quantunque per non essere di maggior bontà che di denari 6 dovessero avere tal valore allorchè la lira effettiva di Savoia ragguagliavasi a fiorini ro (!). Nel rovescio poi le parole sotto il santo guerriero vedonsi messe per imitare gli scudi del Monferrato, onde dove questi hanno CASAL . fu scritto S. G. immancabilmente iniziali del nome del santo raffigurato, cioè Sanctus Georgius, indi CASLN, forse per Casalvalloni, terra della quale egli aveva portato il titolo di marchese ‘prima di succedere al padre. Di tali talleri i mezzi (T. XII, N° 2) hanno lo stesso impronto degli intieri, però sono inferiori nel diametro, in conseguenza dopo la leggenda manca in essi la data, ma vi è S. XII., cioè soldi dodici, valore un po’ superiore a quello segnato sull’intero , chè forse questo pezzo venne emesso quando già lo scudo correva per soldi 24; così la stessa è la leggenda del rovescio e lo scritto dell’esergo. L’esemplare che descrivo fu riconosciuto di denari 12. 8 e della bontà stessa del- l’intero. (1) Monete dei Reali di Savoia. Vol. II, pag. 108 e 109 DI DOMENICO PROMIS. 119 Battuto nel suddetto anno alla medesima legge ed emesso per lo stesso valore è un altro #allero (T. XII, N. 3) avente nel diritto il busto con corazza del principe, nel taglio del braccio L . I. per lira una ed in giro P.. FER. MES. P. ET. MAR. CREP., INI. MDCXXXIII : nel rovescio poi vedesi il sole nel segno della Vergine con attorno varie stelle e sotto una parte sola del globo terracqueo con attorno il tutto il motto allusivo NVN . QVAM . RETRO . CVRSVM . VERTO . L.I., onde ripetuto il suo valore. i Di questo un altro esemplare , coll’anno MDCXXXV, nel diritto manca del numero IM dopo il Mar. Crep. e delle lettere L . I. sotto il busto. Evvi pure di quesl’epoca un altro fa/lero (T. XII, N.° 4) col diritto uguale a quello col N° 1, soltanto ehe la data è MDCXXXV, nel rovescio poi ha un sole che coi raggi tiene tutto il campo attorno al quale leggesi NON . MVTABO . LVCEM . L.I. indi fra due ornati la lettera B probabilmente iniziale del nome dello zecchiere, che potrebbe essere il Borgatti, il quale sul principiare del secolo lavorava nelle officine di Mantova e Casale. Questo scudo, contraffatto a quelli di Mantova di Ferdinando Gonzaga, pesa denari 24 e pare a denari 8, in conseguenza migliore dei precedenti. Della stessa epoca, e probabilmente della zecca di Crevacuore, della quale mi paiono i due precedenti, è un terzo tallero (T. XHI, N.° 5) nel cui diritto si contraffece un ducatone da Carlo I duca di Mantova comin- ciatosi a battere nel 1632, essendovisi figurato il suo busto con sotto L.I., valore del pezzo, ed attorno CAROLVS .I. MDCVX . MA . P.ET.MAR.CRE., confondendo così due leggende, cioè comin- ciando con Carolus primus nome del duca mantovano, indi invece del MDCXXXV messovi la falsa data MDCVX, indi i titoli di Paolo, vale a dire Maserani princeps et marchio Crepacorii. In questi anni per parte del duca di Savoia (!) venne fatta istanza al principe per l’arresto ed estradizione di vari operai delle sue zecche accusati di far monete false ad imitazione specialmente di quelle del Piemonte, ma quantunque egli li facesse carcerare tuttavia , in prova della segreta sua connivenza con essi, ora per una ragione ora per un’altra seppe schermirsi dal consegnarli, nè risulta che abbiano ricevuto (1) Della Marmora. Memorie ecc., pag. 177 e 178. 120 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE alcun castigo; egli poi, per salvare un’apparenza d’onestà, quantunque da un secolo quasi altro nelle sue officine non si facesse che contraffare le monete buone estere, pubblicando li 27 aprile 1636 (i) un regola- mento pel buon servizio delle medesime , nel preambolo disse che avendo resoluto di continuare î buoni riti e stili osservati per l'addietro nella zecca dei nostri predecessori. ....... .., ma quali fossero le norme da ‘essi seguite lo abbiamo a sufficienza appreso. Come poi intendesse il principe di adottare un più onesto proce- dere lo provò il giorno stesso che seguì quello di tale pubblicazione, convenendo in esso per la batutura di altre nuove contraffazioni nel- l’appaltare la zecca di Messerano al nobile Giuseppe Danese di Biella, a Bertolino Vercellotto, Leonardo Viale , Francesco Landriano e Gio. ‘Giacomo Romagnano tutti di Chieri (2, cioè loro concedendo di emettere 100 marchi di soldi e 100 di quarti di lira con questi impronti, cioè che si mettesse nei soldi da un lato l’arme del principe con 2. £. Fer. FI. Pri. Mes. II, e dall'altro una croce col motto 44 maiorem Dei gloriam, e nei quarti di lira da una parte il suo stemma ed attorno P. Bes. Fer. Flis. P. Mes. II, e dall’altra la figura in piedi d'un santo tenente uno scudo sul quale si leggesse 8. Andreas ed in giro on nobis Dom. sed nom. tuo da glor., e coll’obbligo di lavorare ambedue le sudette specie superiori d’un grano nel titolo a quelle di Savoia, e nel peso i quarti a pezzi 43 per marco, ed i soldi a pezzi 131, e così inferiori ai sudetti i primi d’un quinto di pezzo ed i secondi di uno, risultando in conseguenza quelli di denari 4. ro a denari 5. 1 e questi di denari 1. ro ed al titolo di denari 3. 1. In quanto alla spesa fu stabilito che ciascuno dei soci avesse a sopportarne la quinta parte. e l'utile risultante nella stessa proporzione si dovesse dividere fra essi. È poi a notarsi che il principe sopra tale battitura, sulla quale non potevasi a meno di ricavare un ragguardevole utile, nulla riservossi pel suo signoraggio, il che significherebbe questo essere stato segretamente convenuto non osando trattarlo pubblicamente stantechè doveva essere troppo ingente, come si può arguire da una lettera da esso scritta al conte Della Marmora a Torino, nella quale, caldamente raccomandandosi affinchè ottenesse dal duca il libero transito pe’ suoi Stati dei metalli (1) Della Marmora. Memorie ecc., pag. 179. (2) Idem, pag. 180. 5 DI DOMENICO PROMIS. 121 necessari alla zecca per farne monete, soggiunse che se ciò non ottiene t zecchieri si ritirano, e lui è disperato perdendo mille ducatoni al mese d'entrata (1). In seguito a tal convenzione subito questi zecchieri misero mano a batter pezzi da soldi cinque (T. XIII, N.° 6) ad imitazione di alcuni del Duca Vittorio Amedeo I (2), avendo da un lato, sormontato da una corona fiorita, ed invece del collare dell'Annunziata ornato di cartocci e mascheroni uno scudo ovale partito, e nel primo inquartato 1 e 4 di un leone rampante, 2 e 3 di tre bande, e sopra il tutto un'aquila ad una testa, nel secondo spaccato di aquila bicipite coronata e di triangolo rovesciato avente agli angoli altrettante palle pendenti da anelli , stemma quest’ultimo che ignoro se appartenga a qualche loro castello e forse a Casalvallone, terra della quale portavano il titolo marchionale i primogeniti di questo casato: attorno al detto scudo evvi come era stato prescritto P. BES . FER . FLIS . PRIN . MESS . IT . Dall'altro lato poi dove su quelli di Torino è rappresentato il beato Amedeo, vedesi una figura in piedi col capo radiato, in abito reale tenente colla destra lo scettro e colla sinistra appoggiata ad uno scudo accartocciato , sul quale leggesi B. ANDREAS . , ed in giro NON. NOB. DOM. SED. NOM . TVO . DA . GLO . Così il sofdo è contraffatto a quello del sudetto duca ®), onde da una parte (T. XII, N.° 7) ha uno scudo poco ornato ed inquartato 1 del- l'aquila imperiale, 2 partito di tre sbarre e due fascie, 3 pure partito di aquila bicipite e di cavallo rampante (nei soldi di Savoia messo per Sassonia antica), e 4 di leone pure rampante, ed essendo l'esemplare che descrivo assai liscio appena vi leggo attorno ..... I. MESSE; dall’altra parte fra quattro ornati simili a teste di angeli evvi la croce trifogliata di S. Morizio, e della leggenda appena rimane la parola ..... GLORIA . Vedendo gli appaltatori che queste monete facilmente confondendosi con quelle di Savoia prontamente esitavansi, li 19 giugno susseguente ottennero di potere lavorare altri marchi 800 di soldi ostensibilmente alla sudetta legge ( ma in realtà alterandone il titolo, non essendo superiori a quello di denari uno gli esemplari che ho potuto esaminare. (1) DELLA MARMORA. Memorie, ecc., pag. 182. (2) Monete dei Reali di Savoia. Tav. XXXX, N.° 6. (3) Idem. Tav. XXXIX, N.0 2. (4) DeLra MarmoRA. Memorie, ecc., pag. 184. Serie II. Tom. XXVI. 16 122 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Incirca un mese dopo pare che questa società già fosse sciolta, tro- vando che li 19 luglio al solo Bertolino Vercellotto in seguito a sua domanda fu concesso, mediante il pagamento di sette soldi per marco, di battere per due mesi soldi e quarti di lira, ed indi alli 13 di agosto (!) di lavorare tutta quella quantità che gli fosse piaciuto col signoraggio di cinque soldi per marco pezzi da quattro soldi identici nell’impronto ai quarti, mettendo però sotto la figura del santo il numero romano IMI, varietà insensibile e che non impediva che anch’ essi con facilità si potessero spendere fra il volgo per soldi cinque, essendo quasi impossi- bile il venir distinti da quelli che ignoravano come fosse la convenzione collo zecchiere. Da una richiesta fatta al principe li 29 settembre pure del 1636 si conosce che il Vercellotto aveva nuovamente a socio il Viale, in compagnia del quale domandò ed ottenne li 29 gennaio 1638 (®) l’auto- rizzazione di battere pezzi da soldi 4 */, a denari 4. 12, che li 19 novembre 1639 (8) vennero sotto gravi multe banditi negli stati di Savoia, ed inoltre ducatoni a denari 11.10 coll’effigie, nome e stemma del principe e solito motto Nor nobis Domine, ecc., della quale troppo buona specie però non risulta che siasi lavorato, invece in questi anni dalle sue zecche si emise una quantità di scudi d’argento col nome di ducatoni, ma tutti di bassa lega e simili nei tipi alle sopra descritte contraffazioni di quelli di Mantova. Di questi ta/Zerî uno (T. XIN, N. 8) ha nel diritto il solito busto corazzato con FER. MA. P. ET. MAR.CRE.II.P., iniziale del nome del principe ignorantemente messa in fine della leg- genda : nel rovescio S. Giorgio a cavallo consimile a quello del N.° 1, ed in giro PROTECTOR . NOSTER. ASPICE . DOVXII ., e nell’esergo S.G.CASL., lettere che già si è detto cosa possano significare. Questa data così scomposta deve essere quella del MDCXXXVIII, poichè essendo esso stato proibito in Piemonte li 19 novembre 1639, ne viene che non guari prima dovette essere stato emesso (4). Un altro pure a quest'epoca spettante (T. XII, N.° 9g) ha da un lato un busto consimile al precedente ma con attorno P. FER. MA. CRE .EC.D.S.P.B.F.MDCVXVIII .P., come trassi dal Borelli (1) DELLA MARMORA. Memorie, ecc., pag. 184. (2) ldem, pag. 185 e 186. (3) BORELLI, pag. 350. (4) Idem, pag. 354. DI DOMENICO PROMIS. 123 (pag. 355), parole che danno Paulus Ferrerius marchio Crepacorii, etc., onde appare esser uscito da questa zecca, e le susseguenti lettere forse indicano Dominus Sandiliani, Ponzani, Borianae, Flecchiae suoi feudi, la data MDCXXXVIII, e la lettera P che vedesi infine proba- bilmente per Princeps. Il lato opposto è uguale nell’impronto a quello dello scudo col N.° 3, ma varia la leggenda essendovi NVNOVAM . RETRORSVM . VERTO , e sotto per segno evvi una stella. In quanto ai pezzi da soldi 4'/, dei quali si è detto permessa la battitura sul principiare del 1638 ma senza indicarsene l’impronto, dubito siano quei tali che da un lato (T. XIV, N.° 10) hanno, sormontato da corona fiorita ed accartocciato, uno scudo inquartato 1 e 4 dei Ferrero, 2 e 3 dell’aquila dell’impero, e sopra il tutto lo scudetto dei Fieschi, con in giro P. FER. FLISC. PRINC. MES.., e dall'altro la figura di S. Paolo colla spada nella destra, una stella accanto al capo, e fra i piedi una G forse segno dello zecchiere con attorno PROTECTOR . NOSTER., essendo il suo patronimo. Siccome poi nel Piemonte non correva una moneta da soldi 4 '/,, vedesi essa essere stata coniata per mandarsi nei piccoli stati dei vari rami dei Gonzaga, dove pezzi di simile tipo si coniavano. Oltre l'ordine per battitura di pezzi da soldi quattro coll’impronto di S. Andrea, che effettivi sinora non mi venne fatto di vedere, altro deve esistere per la stampa di tali specie di monete ma coll’impronto simile a quello dei pezzi da soldi quattro battuti in Torino sul finire del 1639 dai principi zii del pupillo duca di Savoia (!), ed appunto nel diritto del nostro pezzo (T. XIV, N.° 11) vedesi della stessa forma dei ducali la corona fiorita e lo scudo, che però è inquartato 1 e 4 dei Fieschi, 2 e 3 dell’aquila imperiale, e sopra il tutto uno scudetto dei Ferrero, con in giro PAVLVS . FERRERIVS . P. MA ., e nel rovescio una grande croce di S. Morizio accantonata da quattro rosette fra alcuni fregi, ed attorno -- MONETA . NOVA . DA . SOL 4. Il suo peso di denari 3. 12 corrisponderebbe incirca a quello dei battuti in Torino, ma il titolo che dovrebbe essere di denari 3. 12 ne è inferiore d’assai. I summentovati maestri Vercellotto e Viale probabilmente per cor- teggiare il principe, come nelle altre zecche d’Italia a propria ostentazione usavasi, batterono grossi pezzi d’oro da cinque doppie (T. XIV, N.° 12) (1) Monete dei Reali di Savoia. Vol. II. Tav. XXXXIII, N.° 4. 124 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE aventi nel diritto il suo busto rivolto a sinistra con corazza, ed attorno PAVLVS . BESSVS . FERRERIVS . FLISCVS . 1638 . , e nel rovescio, con in giro PRINC . MESSERANI . MARCHIO . CREPAC. LAV.C., uno scudo accartocciato, sormontato da corona fiorita, circondato dal collare dell'Annunziata, del quale era stato insignito nel 1630, ed inquar- tato, come indi sempre lo usarono i suoi discendenti, 1 e 4 di leone rampante, 2 e 3 d’aquila bicipite coronata, e sopra il tutto caricato di ‘scudetto con tre bande. Sul finire del 1638 o sul principio del 1639 appaltò la zecca di Messerano, poichè pare l’altra di Crevacuore ora si lasciasse chiusa dal principe Paolo Besso, un Giovanni Giacomino in società di alcuni anonimi, il quale ottenne li 14 gennaio (!) di lavorare soldi a denari 3 compresa la tolleranza di grani 2 ed a pezzi 136 per marco al tipo stesso dei precedenti, e indi il primo febbraio monete d’oro a caratti 19, 20 e 22 compresa la tolleranza d’un grano sul peso di cadun pezzo. Quale tipo dovessero avere queste monete non è detto, ma essendosi prescritto un tale titolo scorgesi essere state o scudi d’oro od ongari come quelli di Germania. Degli scudi d'oro, e forse secondo la sudetta prescrizione, se ne ha uno (T. XIV, N.° 13), però colla data del 1640 , avente da una parte il busto corazzato del principe ed attorno P. FER . MA .P. ET. MAR . CREP . MDCXL ., e dall’ altra uno scudo accartocciato con corona fiorita, col collare dell’ Annunziata, cogli stessi quarti del pre- cedente pezzo e colle parole attorno MON . NOR . DO. RA .... SO. LVI.D.FLOR ., che non miè riescito di comprendere e che forse si potrebbero spiegare per Moneta Nuova ORdinaria D'Oro Ragionata a SOldi 56 Di FLORini, la quale quantità sarebbe proporzionata allo scudo d’argento da lire una, ma che non trovo avere rapporto alcuno colla moneta di Savoia. Agli ongari di questi anni credo possa appartenere uno (T. XIV, N.° 14), nel quale da un lato in un cartello quadrato ed accartocciato leggesi su cinque linee MONETA NOVA AVREA CO .LA . , cioè Comitis La- vaniae, e dall'altro un'aquila imperiale a due teste coronata, con in petto uno scudo con corona fiorita e colle bande dei Fieschi, tutto ciò affine di mascherare il contraffattore, ed in giro SVB.. VMBRA . ALARVM . (1) DeLLA MarMORA. Memorie, ecc., pag. 186. DI DOMENICO PROMIS. 125 TVARVM . , motto sovente da questi principi usato per alludere alla protezione di Cesare quasi fossero suoi vassalli, quando invece , quan- tunque dipendenti dalla Chiesa, una sola volta e solamente sopra una loro monetuccia abbiamo veduto le chiavi papali. Dell’anno anzidetto, ossia dal 1640, si ha un curioso documento, cioè un rapporto fatto al principe Tommaso di Savoia da un tal Pellegrini suo agente (1), nel quale questi credendo che il principe di Messerano avesse diritto di coniare monete uguali a quelle di Roma, propose a quell’Altezza , affine di poter sopperire alle spese della guerra che soste- neva contro la cognata duchessa Maria Cristina a motivo del pretender egli la tutela del pupillo nipote Carlo Emanuele H, che facesse battere in quella zecca pezzi da quattro soldi e mezzo allo stesso tipo ed alla legge di quelli d’Avignone collo stemma papale e la figura di S. Pietro, stante che correvano per soldi cinque in Francia, in Milano per soldi dieci e nelle altre parti d’ltalia sempre ad un valore maggiore che in Piemonte, dimostrandogli che il guadagno di tre lire per marco che se ne sarebbe ricavato ascenderebbe complessivamente in un anno a cento mila ducatoni. Questo progetto però non consta che abbia avuto alcun esito , forse per essersi riconosciuto che tal diritto Paolo Besso non aveva; del resto esso, quantunque poco delicato nel contraffare l’altrui moneta, probabilmente non avrebbe osato agli altri delitti, pei quali era minacciato di vedersi da Roma spogliato dello stato, aggiungere quello di falsificare in sì fatto modo la moneta del sovrano del suo feudo, cosa che certamente avrebbe recato il colmo alle accuse già troppo gravi esistenti contro la sua persona. Sino al 1644 non si ha più alcuna memoria di quest’officina, quando li 6 maggio (® venne data in appalto a Bernardino Garimondo torinese per venti mesi a cominciare dalli 15 del sudetto e coll’obbligo di servirsi degli operai sia di essa che di quella di Crevacuore, prova che questa tenevasi ora chiusa. In quanto al signoraggio, fu stabilito in ducatoni effettivi 2,400 annui pagabili da tre in tre mesi, ma al termine dell’affit- tamento, non avendo egli dato che 1,800 ducatoni, venne messo in carcere, indi però rilasciato per essere suddito di Savoia. Quale poi fosse la cagione del non fatto pagamento pare trovarsi in un ricorso dato da (1) M.S. nella Biblioteca di S. M. in Torino. (2) DELLA MARMORA. Memorie, ecc., pag. 188. Ù 126 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Paolo Besso al duca Carlo Emanuele II, dal quale risulta che dopo un abboccamento da esso avuto col presidente di Milano Arese fece chiudere la zecca, per il quale fatto non potè certamente il Garimondo continuare nel suo esercizio, e quantunque indi il principe nominasse a soprainten- dente delle sue zecche un Francesco Bozino di Messerano, tuttavia , come appare dai libri delle sue entrate, con grave suo scapito trovavansi ambedue ancora inoperose nel 1650. Nell'anno susseguente però una venne nuovamente aperta, poichè vediamo i suoi lavoranti, senza nomi- nare quale essa fosse, chiamare li 15 ottobre 1651 la conferma dei loro antichi privilegi, il che tredici mesi dopo venne loro concesso. Consta poi esser questa la zecca di Messerano trovandosi una concessione a favore di quel maestro Giorgio Ganda delli 26 ottobre 1652 (1) per la battitura di monete in rame al taglio di pezzi 160 al marco, onde caduno di circa denari 1.4, all’effigie, coi titoli e collo stemma del principe, ma tale stampa prima di quel mese doveva essere probabil- mente stata a voce convenuta, poichè trovo che nello stesso giorno se ne emisero per 100 marchi, e prima che l’anno avesse termine per altri marchi 1,066. Dall’indicazione del tipo e peso cui dovevano essere tali pezzi, credo fossero certi quattrini di puro rame contraffatti ad alcuni di Milano del re Filippo III, ma di essi non mi venne fatto di avere che qualche esemplare così mal tagliato e battuto che poche parole ed inconcludenti vi potei scorgere, ad eccezione d’una prova sulla quale, sebbene doppiata e fatta su un tondino assai largo (T. XIV, N.° 15), tuttavia si può distinguere nel diritto il busto di Paolo Besso ed attorno ..... MESERANI, e nel rovescio il campo inquartato 1 e 4 di leone rampante, 2 e 3 dell’aquila imperiale, ed in giro alcune lettere dalle quali appare esservisi scritto MARCHIO CREPACORI. Questi quattrini pel loro impronto facilmente possono confondersi con quelli ugualmente contraffatti da Tacopo Mandelli nella sua zecca di Maccagno (2), nei quali però l'aquila colle ali aperte ha una testa sola. Appena erasi terminata questa battitura , affine di far fruttare l’offi- cina monetaria , li 27 gennaio 1653 (3) fu permesso al Ganda di emettere (1) DELLA MARMORA. Memorie, ecc., pag. 192. (2) Kunz nella Rivista della numismatica antica e moderna. Vol. I, Asti 1864. Tav. IV, N.° 4. (3) DELLA MarRMORA. Memorie ecc. , pag. 195. DI DOMENICO PROMIS. 127 tre mila marchi di mezzi soldi al taglio di pezzi 180 al marco con due di tolleranza, ed al titolo di 15 grani, e se così si fossero lavorati sarebbero stati superiori a quelli che si emettevano contemporaneamente nelle zecche dei vicini stati. Il loro tipo fu detto dover essere da un lato delle armi inquartate del principe col suo nome, e dall'altro d’una croce colle parole Salus mundi, ma di questa specie alcun esemplare sinora non mì riuscì di vedere. Dei sopradescritti quattrini, però bonificandoli nel peso, essendo stati ridotti a pezzi 120 e indi a 126 con due di tolleranza (1), fu a questo maestro concesso li 15 maggio susseguente di batterne una sì grande quantità, che, quando ebbe condotto a termine il suo appalto li 15 luglio 1654, si riconobbe ascendere a marchi 15,038, e siccome queste emis- sioni al principe immensamente fruttavano, perciò permise al successore del Ganda, che fu il già nominato capitano Francesco Bertolino , di continuarne la stampa, la quale col marzo del r660 sommò all’enorme quantità di marchi 89,737 '/ @. Tale infame speculazione di Paolo, pella quale inondava i confinanti stati di falsa moneta con grave danno delle loro popolazioni come già altre volte si è veduto, fu causa che dai duchi di Savoia e di Mantova, e dal governatore di Milano venissero nuovamente pubblicati bandi contro tutte quelle che Paolo aveva fatto lavorare senza distinzione alcuna di specie, ed in uno di questi ordini di Carlo Emanuele II delli 6 maggio 1656 (3) è specificato un ducatone senza data ma affatto simile al dop- pione d’oro riportato sopra col N.° 12. Non contento il principe di avere sparso nelle finitime provincie una sì gran quantità de’ suoi quattrini, il primo dicembre 1660 autorizzò il Bertolino a battere un’ altra moneta anche di puro rame a pezzi 252 per marco, che perciò devono essere quarti di soldo, e dei quali non conosco l’impronto, quantunque col maggio del 1661 se ne siano emessi marchi 1,588. Vedendo lo zecchiere che in seguito alle misure prese nei confinanti stati rimaneva troppo difficile l’introdurvi le sopradette specie di monete, pensò di progettare la battitura di altre nuove contraffazioni , al che trovò (1) DeLLa MARMORA. Memorie, ecc., pag. 197. (2) Idem, pag. 199 a 203. (3) BORELLI, pag. 365: 128 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE il principe facilmente disposto sempre abbisognando di danaro per sod- disfare all’esagerato suo lusso ed alimentare i suoi vizi, per cui erano insufficienti le entrate ordinarie del suo piccolo stato. Di queste nuove monete permesse li 6 luglio 1662 (4), la prima che trovo specificata nell’ordine è un orgaro, il quale è detto dover essere simile a quelli dell’imperatore Mattia od a fiorini d’oro d’ugual tipo e peso, ma alla bontà di caratti 19, ed avere da un lato la figura in piedi di Paolo tenente un mazzo di freccie col suo nome abbreviato, e dall’altro un cartello con dentro lo scritto Non timebo mala quia tu Domine mecum es. Tale fiorino, di cui non conosco alcun effettivo, dalla detta descrizione appare uguale nel diritto ad uno di Agostino Spinola conte di Tassarolo (2) e nel rovescio ad altro di Carlo Giuseppe Tizzone corite di Desana 8), ambidue vissuti nella prima metà del xv secolo. La seconda è un dianchetto del valore di sei soldi, dettovi dover essere a denari 6 di fine ed a pezzi 194 per ogni 12 crosazzi, ossia di denari 1. 14 caduno, epperciò contraffazione del sedicesimo del crosazzo di Genova; ha esso da una parte (T. XIV, N.° 16) una croce accanto- nata da quattro stelle ed attorno +- PRIN . MES. MAR . CREP . CO. L. dove nell'originale genovese vi è Dux et gubernator reipublicae Genuensis, e dall’altra fra le nuvole un busto della madonna tenente lo scettro colla destra, ed in braccio dal lato sinistro il bambino Gesù con in giro PROTECT . NOSTRA . 1662 . La terza, cioè il mezzo soldo, del quale non tengo disegno alcuno, è ordinato doversi lavorare alla bontà di quelli di Savoia, onde a grani 12, ‘ed avere da un lato l’effigie, nome e titoli del principe, e dall’altro una croce col motto /n te confido. La quarta simile ai quattrini di Monferrato nella legge, ma colla figura di S. Petronio e suo nome da una parte e dall’altra quello del principe e quattro aquile negli angoli d’ una croce come usavano i Gonzaghi, mi è pure sconosciuta non avendone mai veduto l’impronto. La quinta è in rame ed a pezzi 18 per oncia, colla testa ed il nome suo nel diritto e nel rovescio, come certi sesini di Milano, cioè il campo è inquar- tato di due aquile e di due biscie non coronate, moneta che giammai vidi. (1) DeLLA MARMORA. Memorie, ecc. , pag. 204. (2) Ordonnance du Roy, ecc., Paris 1615, pag. 57, N.° 1. (3) Monete della zecca di Desana. Tav. VIII. Carlo Giuseppe Tizzone , N.° 2. DI DOMENICO PROMIS. 124 La sesta ugualmente in rame ha da un lato (T. XIV, N.° 17) il busto del principe, ed attorno P. FE. FL.Il.P. MEN... per Messerani, e dall’altro Ja biscia milanese coronata ed in giro MARCHI . CREP . ET. C., e così è affatto simile ai sesini del re Filippo IV. La settima, della quale neppure tengo l’impronto, è specificata essere senza leggenda ma soltanto dover avere da una parte una mezza luna e dall’altra una stella in un circolo, e questa dubito possa essere il denaro, ossia il dodicesimo del soldo. L’ultima, alla stessa legge e somigliante nel tipo dei fiorini di Mon- ferrato, onde a pezzi 62 per libbra, e detto presentare la mezza figura d'una Madonna con rose ed il suo nome da una parte, e dall'altra in un gran cartello accompagnato da due palme il nome ed i titoli di Paolo: nemmeno di questa ho potuto conoscere alcun esemplare. Siccome ragguardevole era il guadagno che da queste battiture rica- vava il Bertolino , così subito si offerse al principe da un Giacomo Mazzia di lavorare ad uguali patti im Crevacuore delle sudette specie , il che colla massima facilità questi ottenne e nell’agosto del 1662 cominciò a batterne ; trovo poi che fra i due maestri nello spazio di due anni incirca si emisero 563 ongari, 800 bianchetti, marchi 138 di mezzi soldi, 580 di quattrini, 933 di lunetti e 178 di sesini. Nel settembre del 1662 il Mazzia fece un’emissione di certi quattrini della beretta e del dirone (!) che non conosco, e indi compare, succeduto al Bertolino nel novembre del 1662 un Diego Moia, il quale col mezzo del sopraintendente Davide Cassandra ottenne di lavorare quattrini simili a quelli di Milano di Filippo IV, ma a pezzi 122 al marco con due di tolleranza, ed inoltre altra specie di moneta a grani 12 ed a pezzi 212 per marco con due pure di tolleranza e del valore di un terzo di soldo. Questi ultimi è detto dover aver nel campo da un lato le lettere F_. M.. I sormontate da una corona; e dall'altra uno scudo inquartato di due aquile e due biscie con attorno il nome del principe abbreviato, onde scorgesi essere anche contraffazione di altra milanese battutasi dai re di Spagna. Di questa specie il Moia ne lavorò a tutto il 1663 marchi gir. Oltre questi quattrini altri se ne stamparono in quest'anno dal Moia bensì col nome del principe, ma col gruppo di Savoia, la croce ed i segni di quelli di Torino (2), che in conseguenza li 16 novembre vennero in Piemonte proibiti. (1) DELLA MARMORA. Memorie ecc., pag. 206. (2) BORELLI, pag. 368. Serie II. Tom. XXVI. 17 130 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Sul principiare del 1664 essendo di nuovo il Bertolino maestro nella zecca di Messerano, ottenne li 2 febbraio (1) di lavorare pezzi da due denari in rame al taglio di rgo la libbra con due di rimedio coll’impronto distinto od abbreviato di S. E. conforme potranno capire le sudette monete, senz’altra indicazione , dal che lasciasi sospettare trattarsi d’altra falsifi- cazione, e di esse consta averne battuto per marchi 4,112. Fugli anche permesso di lavorare ongari alla bontà di quelli del- l'imperatore Mattia, ma di fatto a soli caratti 19 come i precedenti. Essi credo siano quelli (T. XIV, N. 18) nel tipo simili a due di Carlo Giuseppe Tizzone (2), epperciò da un lato aventi un guerriero in piedi col capo scoperto, la destra appoggiata al fianco e la sinistra sull’elsa della spada, con in giro P. FER. MES . PRIN . M. CREP. MO. AVR. D . INI, e dall’altro in un cartello ornato di cartocci PAV . FER. MAS. PRE. MAR . CRP . MON. AVR.. DA . INI. In questa leggenda dirò di non sapere che significhino le parole Moneta aurea da quattro, non potendosi sottintendere Zire, chè in questi anni gli ongari correvano per lire otto incirca, e non trovo di quale altra specie abbisognassero quattro pezzi per un ongaro. Prima di trattare delle monete del figliuolo di Paolo Besso, non tralascierò di notare che nelle convenzioni per battitura di una nuova moneta raramente trovasi indicato quale fosse sovra di essa il diritto di gnoraggio preteso dal principe , e sovente vedesi specificato nell'atto che in quanto ad esso a parte erasi convenuto, e questo doveva essere appositamente fatto affinchè rimanesse ignorato l’ingente guadagno che ricavavasi sulla stampa di queste monete quasi sempre false. SI FRANCESCO LUDOVICO. Da Paolo Besso e Filiberta Del Carretto nacque li 24 febbraio 1638 in Messerano Francesco Ludovico, che ebbe subito il titolo di marchese di Casalvallone, cangiatogli per la morte del fratello Francesco Filiberto avvenuta li 30 agosto 1650 in quello di marchese di Crevacuore, che ora prendeva il primogenito. (1) DeLLA Marmora. Memorie ecc., pag. 209. (2) Monete di Desana. Tav. VIII, N.° 1 e 2. DI DOMENICO PROMIS. 131 Come la maggior parte de’ suoi antenati datosi subito al mestiere delle armi, giovinetto entrò al servizio del duca di Parma che lo nominò capitano della sua guardia, e passato nel 1676 a quello di Savoia, da Vittorio Amedeo II venne promosso a maestro di campo generale e li 24 marzo 1678 fu decorato dell’ordine dell'Annunziata. Sino dalli 2 gennaio 1667 era succeduto al padre nel principato , ma a cagione della pessima condotta sia di esso che dell’avo trovò malissimo disposti verso la sua persona i propri sudditi, dai quali dopo qualche tempo venne accusato alla corte pontificia di vari omicidi, per il che credette doversi recare a Roma affine di giustificarsi, nella quale cosa probabilmente riuscì avendo ottenuto nel 1676 da Clemente X di for- mare per propria sicurezza una guardia di venticinque svizzeri; siccome però li mise a carico degli abitanti vieppiù s'inasprirono , onde non credendosi più sicuro in Messerano venne a risiedere in Torino, dove nel 1660 aveva condotta in moglie Cristina di Simiana, figlia di Carlo Emanuele marchese di Pianezza, la quale lo fece padre di numerosa prole. Continuamente in apprensione contro i suoi sudditi, ai quali oltre il restringere i privilegi andava sempre aumentando i carichi, per timore che si sollevassero chiamò in Messerano alcune truppe savoine facendole spesare dai terrazzani, i quali trovandosi straordinariamente oppressi ebbero ricorso al pontefice Innocenzo XI, che li 14 aprile 1685 con- dannò il principe a pagare loro quattordici mila scudi pei danni sofferti , ma prima che questa sentenza potesse aver esecuzione già egli era li g sus- seguente giugno passato all’altra vita. Negli ultimi anni del principato di Paolo Besso abbiamo veduto zec- chiere in Messerano il Bertone, ora questi come appare da ordine di battitura del settembre 1667 continuò nel suo esercizio sotto il nuovo principe, e la prima moneta che dovette battere, quantunque non se ne trovi menzione nei libri di zecca, è una doppia che pare a caratti 20 ed è del peso di denari 5. 4 come le altre d'Italia; essa (T. XV Francesco Ludovico, N.° 1) ha nel diritto il busto di Ludovico con lunga capigliatura ed attorno FRANN . LVD . FER. FL. PRI . MESS., e nel rovescio sormontato da corona fiorita, e sopra la data 1667, uno scudo inquartato 1 e 4 di aquila bicipite colle ali aperte, 2 e 3 di leone rampante e sopra il tutto uno scudetto colle solite bande con in giro MARH . CREP , COM . LAVA. 132 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE Oltre questa doppia fu concesso li 26 settembre 1667 (1) al Bertone di battere ongari a caratti 20 e del peso di mezza doppia di Spagna, mezzi soldi a grani 11 ed a pezzi 240 al marco, epperciò un poco inferiori a quelli di Savoia, e quattrini di rame col suo nome ed effigie. Tra queste specie di monete ignoro quale sia l’impronto della prima, della quale trovo essere stati emessi solamente pezzi 103, ma della seconda, stante il peso di grani 24 che mi dà un esemplare del regio medagliere ed il tipo uguale ad un mezzo soldo di Milano, non credo di errare dicendo essere quello sul quale (T. XV, N.° 2), sebbene assai male impressa , si vede nel diritto la figura d’un giovinotto con lunga capigliatura ed atiorno le parole FRAN....... ;, e nel rovescio una eroce fiorita ed ornata negli angoli di quattro punte con in giro MAR . CREPES Alla terza specie, della quale si batterono marchi 425, spetta certa- mente, stante il genere di capigliatura usata in questi anni ed il profilo della figura simile alle prime grosse monete di questo principe, un quattrino (T. XV, N° 3) contraffatto a quelli di Carlo Emanuele II 0), nel quale quantunque riuscito nella stampa assai mancante leggesi ancora dal lato della testa ..... RIN. MESER ....... , e dall’altro attorno alla croce trifogliata di S. Morizio MARCH ..... , le quali parole com- piute dovrebbero dire Franciscus Ludovicus princeps Meseruni marchio Crepacori. Nell’anno susseguente si scoprì che vari lavoranti della zecca di Messerano attendevano a battere monete false d’oro e d’argento al tipo di quelle di Savoia, delle mezze doppie e dei mezzi crosazzi di Genova, de’ sesini di Milano e delle lire di Modena, e nel processo che loro si fece venne pure compreso l’intagliatore delle stampe Giacomo Brandi, il quale aveva pure fatto i conii per le monete degli Spinola di Tassarolo, ma che dovette riuscire a scolparsi dall'accusa di monetario falso trovando che li 3 settembre 1669 era maestro della zecca del principe (8) ed aveva ottenuto di battervi monete di rame da pezzi 200 al marco con una grande L coronata ed accostata da due rose nel campo da una parte, e dall’altra una corona fiorita con sotto in un cartello le lettere L. I. BR ., (1) DeLLA MARMORA. Memorie ecc., pag. 217. (2) Monete dei Reali di Savoia. Tomo II. Tav. XXXXVII, N.° 12. (3) DELLA Marmora. Memorie ecc., pag. 220. DI DOMENICO PROMIS. 133 le quali altrimenti non saprei interpretare che come iniziali di Ludovico Iacopo BRandi, ed attorno il tutto fra ambe le parti il nome e titoli del signore. Il diritto di signoraggio fu convenuto di due doppie per ogni roo marchi che se ne sarebbero emessi, onde sopra i 1,300 usciti dal- l'officina spettarono al principe 36 doppie, come appare dall'approvazione fattane dal sovraintendente delle zecche Diego Moia. Sulla metà del gennaio 1671 essendosi ritirato il Brandi prese il suo posto nuovamente il Bertone, che con tutto il maggio continuò a stampare delle anzidette monete di rame per la quantità di marchi 2,392 ‘/,, indi battè scudi bianchi, ossia d’argento , e secondo l'uso dell’epoca cogli stessi conii in questo e nel susseguente anno lavorò un numero di pezzi d’oro del titolo delle doppie e del peso di cinque di esse chiamandoli carlini ad imitazione di quelli del duca Carlo Emanuele IL Hanno essi (T. XV, N° 4) da un lato il busto panneggiato del principe con lunga capigliatura ed in giro FRA . LVD . F. F. PRIN. MESSERANI, e dall’altro disposti in forma di croce con quattro gigli negli angoli quattro scudi sormontati da corona fiorita ed alternativamente due col leone dei Ferrero e due coll’aquila bicipite, e toccanti colla loro estremità un anello nel quale è lo scudo dei Fieschi; attorno poi leggesi MARC . CREP . COME . LAVA ., parole alternate da uno dei numeri arabici formanti la data 1672. Questo bello scudo, certamente lavoro del De Fontaine eccellente intagliatore de’ conii della zecca di Torino, alcuni anni dopo dallo stesso artista venne imitato per altro di Giacomo Dalpozzo principe della Cisterna 01). Colla stessa data ma d'ignota battitura esiste del principe una monetina di bassa lega e del peso di denari 1. 10 (T. XV, N.° 5) avente nel diritto simile a quella dello scudo la sua effigie con sotto 1672 ed attorno FRA . LVD . F. F. PRIN . MES., e nel rovescio una croce patente con MARC . CREP . COME . LAVA. Contemporaneamente venne pure contraffatto in Messerano, ad imita- zione delle piccole zecche di questa parte d'Italia, il pezzo d’argento da cinque soldi tornesi di Anna Maria di Borbone principessa di Dombes, detto luigino, da Luigi XIV re di Francia che il primo ne aveva battuti e che era molto ricercato nel commercio del Levante. Questa moneta, ad imitazione delle altre sue simili, porta (T. XV, N.° 6) da una parte il (I) Monete inedite del Piemonte. Supplemento. Torino, 1866. Tav. IV, N.° 33. 134 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE busto d’una giovane donna ed attorno MARIA. CRISTINA . SIMIANA ., moglie come si è detto di Francesco Ludovico, e dall’altra sormontato da corona fiorita con sopra l’anno 1672 uno scudo con due gigli in capo ed una torre in punta, parte dello stemma del suo casato , che era di gigli e torri azzurre seminate in campo d’oro, ed attorno PRINCIPESA . MESSERANI. Si hanno ancora del nostro principe due monete delle quali non evvi menzione alcuna nei registri mancando essi dal 1672 al 1685, e solamente trovasi nel 1676 notato il pagamento di una quantità di rame provvisto per la zecca. Di esse una di bassa lega, quantunque molto mancante nella leggenda scorgesi però spettare a quest’ epoca essendo la contraffazione del so/do di Milano battutovi dal re Carlo II salito al trono nel 1675, ed ha (T. XV, N.° 7) nel diritto uno scudo con corona fiorita ed inquartato 1 e 4 di aquila ad una testa coll’ali aperte e 2 e 3 di leone rampante, ma attorno appena leggesi MONETA ....., e nel rovescio in giro ad una croce accartocciata .....SSERANO. L'ultima in rame, simile affatto al quaztrino già contraffatto dal padre e col N.° 17, ha (I. XV, N° 8) da una parte il busto dell principe già invecchiato ed attorno FRAN . LVD . FE ....., e dall’altra la biscia di Milano coronata con MA ..... COM. LAV. C. Abbenchè, come sopra ho detto, manchino le memorie delle diverse baititure fattesi dopo il 1672, tuttavia da un processo che ebbe luogo in Milano contro alcuni falsari di monete nel 1674 appare che in tal anno era zecchiere in Messerano un francese chiamato Laby ‘, e che ivi battevansi soldi falsi cioè contraffatti ai milanesi, i quali credo siano gli avanti descritti, tanto più che troviamo avere un Antonio Mazza pagato al principe li 27 luglio 1676 lire 39,460 per diciannove carichi di monete di rame che esportava dalla sua zecca. Come già sopra si è veduto, quantunque i Ferrero sovente avessero avuto gravi dispiaceri a cagione delle monete false che nelle loro zecche battevansi, tuttavia allettati dall’utile che ne ricavavano non potevano decidersi ad abbandonare questa infame industria, e siccome lo stato che di ciò maggiormente veniva a soffrire era sempre quello di Savoia per essere da esso il loro intieramente circondato, questi duchi per impedire (1) DeLLa MarmoRA. Memorie ece., pag. 224. DI DOMENICO PROMIS. 135 un tanto danno ai loro sudditi spesso pubblicavano severi bandi contro il corso nel Piemonte di tutte le monete messeranesi, ed appunto vivendo Francesco Ludovico questi provvedimenti li vediamo ripetuti nel 1668, 1671 e 1673 dal duca Carlo Emanuele Il (4) e indi nel 1677 e 1678 ® dalla duchessa reggente Maria Giovanna Battista. CARLO BESSO. Nacque questo principe in Biella li 6 marzo del 1663, e non contava ancora vent'anni quando dal padre venne mandato a Parigi per trattare col re di Francia della permuta dello stato, ma accortisene i Messeranesi affine di ciò impedire s’indirizzarono alla corte di Roma, ed avendo il papa fatta una formale opposizione a qualunque cambio, l’affare cadde da sè. Essendo poi nel giugno succeduto al genitore ed a stento avendo potuto ottenere dai sudditi il giuramento di fedeltà, subito trattò con Savoia allo scopo di ottenere altri feudi contro quelli che ora possedeva, e nei quali a cagione della mala condotta de’ suoi predecessori vedeva gli animi degli abitanti affatto alienati dalla sua persona e casato, ma essendo la cosa venuta a cognizione del pontefice Innocenzo XI, venne anche questa volta impedita la conclusione di tal trattato , ed allora fu che trovandosi Carlo in Torino vi sposò li 25 febbraio 1687 Cristina Maria Ippolita di Savoia figlia naturale di Carlo Emanuele IL Presto nel principato cominciarongli i guai, primieramente per la morte data in carcere e senza legale condanna ad un Antonio Maria Moia accusato come monetario falso e indi per l'arresto del Gualla uno dei ventiquattro consoli di Messerano, pel quale fatto sollevatisi i terrazzani diedero l'assalto al castello coll’intenzione di dar la morte a Carlo Besso, che fuggendo potè a stento salvar la vita. Ritornatovi accompagnato da truppe savoiarde fu talmente mal ricevuto che finì per trovarsi costretto ad abbandonare lo stato, deciso di mai più riporvi i piedi. Essendo sorta sul principiare del secolo xvm la guerra per la suc- cessione al trono di Spagna, e vedendosi il principe odiato dai propri sudditi, inoltre in sospetto presso il duca di Savoia ed il papa, appena (1) BORELLI, pag. 371 e 374. (2) Id., pag. 380 e 382. percio — \SÉ 136 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE venne in Lombardia il nuovo re Filippo V, gli si presentò e mise al suo servizio il primogenito Vittorio Amedeo; indi sempre seguitando la fortuna del Borbone, che l’aveva creato grande di Spagna, si stabilì colla famiglia in Madrid, donde essendo vari anni dopo ritornato in Piemonte affine di rivedere l’avito stato, giunto nel castello di Gaglianico, ammalatovisi passò all’altra vita li ro maggio 1720 lasciando una triste eredità al suo successore. Pochi giorni dopo che Carlo Besso ebbe preso possesso del princi- pato, pubblicò un editto contro i monetari falsi ed i loro manutengoli, fra i quali era appunto quel Mazzia, del quale sopra si è detto, e che essendo zecchiere in Messerano nel 1688, chiamò testimoniali per i ferri, ordigni ed attrezzi da esso provvisti pel servizio dell’officina che nel 1683 era stata intieramente svaligiata. Durante la vita di Carlo Besso non si ha alcuna memoria concernente la battitura di monete abbenchè se ne continuasse a lavorare, però o fosse effetto della propria onestà o dei tempi nei quali non si tollerava più che un piccolo signore osasse impunemente contraflare quelle degli stati maggiori, non troviamo più che siasi fatta alcuna emissione di tal genere di monete, anzi imitando il sistema adottato dalla zecca di Torino, egli fece battere dal Mazza solamente doppie, scudi d’argento, testoni e lire allo stesso peso di quelle del Piemonte, ma alterandene la bontà affine di sopperire alle spese che cagionava la stampa di tali specie, delle quali emise però soltanto una piccola quantità; tuttavia ciò bastò perchè anche di queste li 23 giugno 1691 (i) venisse dal duca di Savoia severamente proibito il corso ne’ suoi Stati. I conii per le sudette monete furono certamente eseguiti dallo stesso De Fontaine che si è veduto averne già lavorato altri nel suo prede- cessore, e che in essi imitò la forma degli stemmi che vedesi in quelle uscite dall’officina di Torino, e di queste la prima battuta fu lo scudo bianco (T. XVI Carlo Besso, N.° 1), nel cui diritto evvi il suo busto ben panneggiato colla testa ornata di lunga capigliatura ed attorno CAR. BESS . PRIN . MESSERANI . , e nel rovescio sormontato da corona aperta e fiorita, con sopra la data 1686 , lo scudo sempre inquartato 1 e 4 del leone rampante dei Ferrero, 2 e 3 dell'aquila imperiale bicipite, e nel (1) DELLA MarMoRA. Memorie ecc. , pag. 241. DI DOMENICO PROMIS. 137 centro caricato delle bande dei Fieschi, con in giro MARCHIO . GREP . COM . LAVAN., ed è a notarsi che in tutta questa serie è omesso il nome del casato. Il peso è di denari 21. 8 come quelli di Torino, ma il titolo è alquanto più basso di denari ir al quale i sudetti si lavoravano. Dello stesso anno si ha il festore 0 pezzi da soldi 30 (T. XVI, N.° 3), il quale abbenchè di minor diametro, tolte alcune varietà nel panneggia- mento del busto, è uguale allo scudo. È di denari 7.4; ma pare soltanto alla bontà di denari 10. Tre anni dopo si battè la doppia (T. XVI, N. 3) collo stesso impronto e leggende dei due precedenti pezzi e del diametro di quelle di Savoia, e ad imitazione di esse colla testa del principe a gran capi- gliatura e col collo nudo. La data sopra la corona è il 1689, ed il peso di denari 5.5, al titolo forse di caratti 20. La lira (T. XVI, N. 4) di conio più ristretto del testone gli è affatto simile nel tipo e nelle leggende, ma ne varia nella data che è il 1690. Pesa denari 4. 19 e probabilmente è a denari ro di fine. Questa pare essere l’ultima moneta battuta dal nostro principe che dopo tal emissione deve aver definitivamente chiusa la zecca di Messerano, la quale non solamente non poteva più procurargli alcun utile, ma anzi a cagione del nuovo sistema introdottovi restavagli a carico. Essendo egli indi passato in Ispagna ed ivi avendo fissato la sua residenza veniva meno il suo attaccamento ai feudi che teneva in Piemonte dove continuarono le contestazioni tra i sudditi ed i suoi rappresentanti, sino a che pel concordato segnatosi nel 1741 tra papa Benedetto XIV e Carlo Emanuele III re di Sardegna , essendo questi stato dichiarato vicario pontificio sopra tutti i feudi ecclesiastici esistenti nel suo regno, subito ordinò che i magistrati del principato avessero a dipendere dal senato di Torino, ed essendo il principe Vittorio Amedeo mancato ai vivi nel 1743, il suo successore Vittorio Filippo vedendo che i tempi non correvano più propizi all’antico feudalismo , li 20 marzo 1767 vendè per lire quattrocento mila di Piemonte il principato di Messerano e marchesato di Crevacuore con tutte le annesse regalie, compresa la zecca, alla Real Casa di Savoia riservandosi unicamente i titoli e privilegi puramente onorifici. Stabilitosi poi il suo figliuolo Carlo Sebastiano sul principio del cor- rente secolo in Parigi, ed ivi avendo preso moglie, ebbe da essa un Serie II. Tom. XXVI. 18 138 MONETE DELLE ZECCHE DI MESSERANO E CREVACUORE solo maschio di nome Carlo Ludovico e due femmine, e questi essendo mancato ai vivi nubile li 6 marzo 1833, lasciò alle sorelle la sua suc- cessione, ad eccezione però del castello di Messerano , che coi titoli ed onori annessi al principato volle passasse al suo agnato Carlo Emanuele Ferrero marchese della Marmora, discendente da Giovanni Enrico fra- tello del generale Sebastiano avolo del primo conte di Messerano di questo casato, la quale donazione, dopo una lite intentata dalle dette sorelle al marchese, venne pienamente confermata dalla Camera dei conti di Torino con sentenza delli 17 agosto 1843. IL FIESCHI ANONIME ES Ni Ng È, SONICA EOBUVI TI. LODOVICO II. E PIETRO LUCA Il. LODOVICO Il. T.II. ' i —_29% ZIA Dr —} 4/ ZS Lr TIVE PIETRO LUCA Il. (0) 7 J) 19) È Lì Has DÌ v < \ S ((@) (05) ts V\ d1 FERRERO-FIESCHI FILIBERTO sù SII 3; I) #3 ERRE i 49 T.VI BESSO FERRERO I T.VII. NA a) Mii AA) T.VII. FERRERO FRANCESCO FILIBERTO MII À iN SITA TI. PISTA Ep DÒ VI 9 XE e CRE TM. PAOLO BESSO FERRERO T. XIL DR SIAMO pose (A Rox T.XII. TTVADI, DOLCO; ce N 0° )\ Ad ( T.XIV. n 7 7 ? Ul ’ i ; 4 x ) Ù h ; I I ì x Ì RI VIRA È MITRA Yi DATATI FRANCESCO LODOVICO FERRERO T. XV. TUXVI. CARLO BESSO FERRERO i Di ZIA (a La Ca 5 Sl (( a ca n ® (LS a Fo 3 139 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON Letta ed approvata nella seduta del 28 febbraio 1869. $ 1. La Prima Tavola di Eraclea trovata nel 1732. Suoi illustratori. Suo argomento. Tipo del podere di Bacco. Speranze di migliore illustrazione. uando nell’anno 1732 nell'alveo del torrente Acalandra presso Eraclea della Lucania furono trovate due Tavole di rame ricche di due greche inscrizioni, che numeravano meglio di 290 lunghe linee, una grande aspettazione si elevò fra i dotti antiquari... Alessio Simmaco Mazochi fu il primo, che procacciò di soddisfarla, pubblicando negli anni 1754 e 1750 in Napoli i suoi Commentaria in R. Herculanensis Musei aeneas Tabulas Heracleenses. Se noi facciamo ragione del tempo e della con- dizione, nella quale allora si trovavano i greci studii nell’Italia, dob- biamo all’autore dar lode di illustre filologo italiano. Dopo di lui molti o filologi o critici 0 storici nuovamente pubblicarono o citarono le due Tavole. Ma furono tutti superati da Gioanni Franz, il quale, dovendo inserirle nel Corpus /nscriptionum Graecarum tom. III, pag. 693-712, le corredò con note brevi ma degne del continuatore del sommo Augusto Boeckh. Io limitai i miei studii alla sola Prima Tavola, perchè essendo intera mi offriva il quadro compiuto di una locazione d’un sacro fondo, mentre la Seconda mutila in fine mi dava il solo elenco, neppur intero, di beni da affittarsi. La Tavola da me prescelta contiene l’istromento notarile, col quale i magistrati di Eraclea concedevano in emfiteusi perpetua un fondo rustico sacro a Bacco. Per tal fine avevano delegato cinque Agrimensori, 140 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA i quali lo misurassero e dividessero in quattro porzioni [sides] affit- tabili, piantandovi i termini divisorii. I delegati, compiuto il loro man- dato, ne distesero la loro Relazione, e quindi le condizioni dell’emfiteusi. Pubblicato il bando, e ricevute le offerte degli aspiranti, furono deli- berati dal popolo i quattro conduttori. Allora il Tpappareds. segretario della città rogò l’atto dell’emfiteusi perpetua. In esso premise il testo della Relazione degli Agrimensori, le soggiunse la ZuvSrixa Convenzione contenente le condizioni dell’emfiteusi, poi dichiarò i nomi dei quattro deliberatarii, e quelli dei quattro fideiussori approvati, unitamente all’annuo canone convenuto con ciascuno. Da ultimo sottoscrisse il suo nome, e si sottoserisse pure il Taperpes geometra capo del Collegio degli Agrimensori. Ciò fatto, l’atto pubblico fu inciso sulla Tavola di rame, che si conserva nel R. Museo di Napoli. Tal è l'argomento e l’analisi della Tavola, che io prendo ad illu- strare. Nell’addossarmi tal carico ben conosco che io succedo ai for- midabili dotti della Germania, tuttavia io spero di aggiungere nuovi lumi all’insigne documento, e di ricavarne nuove verità per la filologia, per la storia e per l'economia politica. Infatti per l'intelligenza della Tavola ben disse il Franz che in de- finitione locorum omnia fere nos lateant necesse est, quippe notitia ac- curata destitutos (1). Tuttavia la minuta Relazione degli Agrimensori, ed i varii cenni della Convenzione mi parvero bastanti per formare tal tipo, il quale, offrendo delineate tutte le condizioni locali enunciate nella Tavola, agevolasse l'intelligenza del fondo rustico considerato in sè solo. Formai il tipo, e non trovando nel testo cenno alcuno pei due poli, stabili a tramontana la linea principale lungo gli Erodii, dalla quale gli Agrimensori diedero cominciamento alla misura; epperò col- locai a mezzodì il fiume Aciri. La strada Pandosia era determinata sic- come quella che si stendeva rasente la porzione prima; ma la città di Pandosia e quella di Eraclea rimanevano indeterminate se più a set- tentrione o ad austro, ovvero a ponente collocare si dovessero, ma ciò era indifferente per il podere di Bacco. Così seguendo passo passo il testo della Tavola io aveva delineato il mio tipo, quando intesi che l’illustre Kirchhoff ne aveva pubblicato un suo (2). Lo consultai e vidi (1) Corpus Inscr. Graec. Tom. II, pag. 706, (2) Kirchhoff, Umbrisehen Sprach-denkmiler. Berlin 1849. Ln li n Gi ET n— eg PR ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. I4I che egli lo aveva orientato secondo il sistema Romano, donde avvenne che il mio settentrione è il suo mezzodì, e viceversa. Ma il dotto Germano non osservò, che la prima orientazione fu fatta verso l’anno 441 av. Cr. quando la colonia Eracleese, consecrando il podere a Bacco, ne piantò il principale termine, e formò il suo catasto; gli Agrimensori della Tavola, cercando e meglio ristabilendo il termine antico interrato nei rivoli, altro non fecero circa l’anno 380 av. Cr. che riconoscere ed accettare l'antica e principale linea di orientazione. In questi due tempi Eraclea, oltrechè non aveva relazione con Roma, era cordialmente greca, nè avrebbe preso cosa alcuna dai romani che stimava barbari; ne fa fede il suo sistema semplicissimo di oper, di &vropor e di peocopo:, il quale nulla ha che fare con quello intricatissimo di ottanta e più termini romani registrati dal Goesio. Eraclea, divenuta poi romana verso l’anno 280, allora solo potè col tempo adottare usi romani. Se non che si capovolga il mio tipo, ed andrà d'accordo con quello del- l’illustre Kirchhoff. Nelle linee principali era impossibile il dissenso, ma dissentiamo in quelle minori, fralle quali cito il solo @vtopos, il cui valore sinora controverso io dichiarerò appunto in grazia del tipo. Questo mi insegnò pure il significato del vocabolo rAevpres, e m'indusse a cer- care il valore metrico dello cyoîvos, epperò del piede Eracleese. Ma sopra tutto io rivolsi le mie cure a riempire una lacuna, che i precedenti illustratori mi lasciarono intatta, voglio dire l'economia | politica professata da Eraclea. Questa colonia come mai si costituì ? Quali provvisioni fece ella per rendere fertile la contrada? Come formò i suoi Perieci? La locazione della tenuta di Bacco fu un’emfiteusi per- petua, come mai gli Eracleesi intesero quella perpetuità, che applicata alle cose contingenti è, per così dire, un assurdo? Qual fu il procedi mento amministrativo per concedere l’emfiteusi? Queste ed altre simili questioni erano in gran parte connesse fra loro, e dipendevano dalla storia della colonia, la storia poi si connetteva coll’età delle due Ta- vole. Per le quali cose io mi determinai di risolvere codesti problemi riunendoli sotto l’unità della storia di Eraclea. Ma Eraclea era colonia di Taranto, epperò io feci camminare di pari passo le vicende della colonia con quelle della sua metropoli. Riservai per le note quelle altre indagini indirette, le quali per la loro lunghezza avrebbero interrotto il corso della storia; nelle note eziandio trattai i minuti punti di filo- logia. Ma quanto al severo dorismo della Tavola nulla dirò, perchè tutto 142 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA fu preoccupato dal diligente e sagace Ludolfo Ahrens nel suo trattato de Dialecto Dorica. Che se mi avviene di correggere l'illustre Franz in alcuni punti, ciò deriva dalla natura della mia monografia. Il degno continua- tore del sommo Boeckh illustrò la Tavola Eracleese come una fralle molte migliaia di inscrizioni che gli stavano davanti, nè potè entrare nelle minute indagini, alle quali è obbligato chi ne fa argomento di speciale monografia. i Ma omai entro nel mio argomento. $ 2. Carattere delle colonie della M. Grecia. La Sirite deserta. Una greca colonia occupa la Sibarite, e vi fonda Turio. Una colonia Turio-Tarantina occupa la Sirite e vi fonda Eraclea. Fonti dei vrimordii della sua storia. La Magna Grecia fu così denominata, perchè popolata di colonie in massima parte doriche, le quali dalla Grecia partirono per occuparla. Esse colla lingua e coi costumi vi portarono pure quella gelosa invidia, quell’intolleranza di municipii ambiziosi e quell’astio, che nella classica Grecia armava gli uni contra gli altri i congeneri fratelli. Principio ori- ginum, scrisse Giustino, XX, 2, Metapontini cum Sybaritanis et Croto- niensibus pellere ceteros graecos Italia statwerunt. Cominciando dalla Sirite, nella quale sorse di poi Eraclea, questi tre Stati espugnarono la città di Siri, e nella strage che fecero dei cittadini non risparmiarono cinquanta ‘giovani ristrettisi attorno al simulacro di Minerva ; la Sirite così rimase deserta. I vincitori essendo poi venuti a contesa fra loro, Crotone diede tal rotta ai Sibariti, per la quale agguagliò al suolo Sibari, nè a cio contenta disviò il vicino fiume per annegare i ruderi di lei, quindi nel contado prese a far caccia degli abitanti come di belve (1). Imperocchè alle colonie vincitrici non bastava di farsi suddite le colonie congeneri, ma l’odio fraterno le spingeva a spegnerne ogni umana genera- zione. Ciascuna statuerat ceteros graecos Italia pellere, e voleva esistere sola come in un'oasi circondata da deserti. Frattanto la Sirite durava sel- vaggia. Infatti Temistocle nello stretto di Salamina ‘minacciava Euribiade che avrebbe sulle sue navi trasportato Atene colle donne, coi ragazzi e coi servi nella Sirite (2). Al deserto di questa contrada si aggiunse (1) Strabone, VI, 263. Diodoro, XII, 10. (2) Erodoto, VIII, 62. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 143 il deserto della Sibarite, e la potente città di Taranto, dopo aver proba- bilmente trattato colla stessa rabbia la vicina Metaponto, dominava colla sua flotta il golfo Tarantino, e godeva di vederne spopolato il litorale d’occidente sino ai confini di Crotone. Se non che i discendenti dei pochi Sibariti, che scampati dalla strage vivevano qua e là dispersi, si rannodarono e rientrati nella loro contrada procacciavano di ristaurarla; ma non bastando contro ai molti ostacoli che incontravano, ricorsero alla Grecia, e protetti da Atene ottennero che una colonia venisse in loro aiuto. Questa, sessanta anni dopo l’eccidio di Sibari, partì numerosa e mista d’ogni generazione di Greci, Pericle la accomodò di dieci navi, e venuta fondò la città di Turio in sito poco distante dalla rovinata Sibari. Ma guari non andò che i nuovi coloni, vedendosi trattati come sudditi dagli altieri Sibariti, insorsero, ne amazza- rono una parte, e dell’altra raminga si spense persino il nome (1). La storia della Magna Grecia, non meno che quella della Grecia, è una solenne protestazione contra quelli Arcadici idillii, che cantano gli amori, gli amplessi ed i connubii dei rami congeneri d'una stessa nazione e lingua. I nuovi coloni, liberatisi dai prepotenti fratelli, fecero invito ai vicini ed ai lontani di aggregarsi allo Stato nascente, ed aumentarono la popolazione. Questa vedendo disabitata la vicina Sirite, cominciò ad oltrepassare i confini ed occuparla. Sorse allora la gelosa Taranto , ed opponendosi alla sorella diede principio ad una guerra di scontri e di avvisaglie su terra e su mare insino a che si venne a giornata campale. Cleandrida spartano, esule dalla patria per essere stato dagli efori con- dannato a morte, comandava ai Turii, e, prima di venire alle mani, si accontò col capitano dei Tarantini; amendue convennero che una colonia mista egualmente di Turii e di Tarantini occuperebbe con eguali diritti la Sirite, ma a Taranto spetterebbe l’onore e l’autorità di fondatrice (2). La condiscendenza di Taranto a far tal accordo dimostra che, quanto Turio sorgeva con belle speranze a potenza, altrettanto Taranto di già scadeva dalla potenza antica. La colonia Turio-Tarantina prese possesso della Sirite, e circa l’anno quarto dell’olimpiade rxxx1v [441 ann. av. Cr.] fondò la città di Eraclea tre miglia distante dall’antica Siri, della quale (1) Plutarco, Pericles, 11. Diodoro, XII, 10 sg. (2) Antioco presso Strabone, VI, 264. Diodoro XII, 23. 36. 144 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA si valse come di arsenale marittimo (1). Quindi Eraclea fu sempre dagli antichi scrittori chiamata colonia dei Tarantini, ma era mista di Turii. La storia, dopo averci narrata la fondazione di Eraclea, non ci tra- mandò più alcuna notizia di lei sino ai tempi di Alessandro il Molosso. Per potere probabilmente congetturare le vicende di essa durante il primo suo secolo io mi fonderò sulle sue monete, sui riscontri della nostra Tavola, sulla natura della colonia, e principalmente sulta storia di Taranto sua metropoli. Io mi servirò eziandio della Tavola Seconda eracleese. Essa contiene la Relazione di tre agrimensori, nella quale come deputati dalla città di Eraclea rendono conto della misura, della divisione e dell’affitta- mento da essi eseguito dei terreni sacri a Minerva Poliade. I tre agrimen- sori sono gli stessi, che con altri due colleghi misurarono la tenuta di Bacco; ma perchè diverso è il nome dell’eforo, diremo che le due Tavole sono prossime di età, ma non dello stesso anno. La Tavola mutila in fine riferisce l'affittamento di sole undici porzioni del tenere di Minerva, notando per ciascuna i limiti, la quantità e la qualità degli scheni, ed il fitto convenuto in medimni. Il restante delle porzioni manca, e mancano pure i patti dell’affittamento. Con questi sussidi 10 procaccierò d'’illustrare la storia del primo secolo della colonia eracleese, e così gettare un fon- damento positivo per far congettura dell’età delle due Tavole. 8 3. Eraclea colonia professante il dorismo Argivo. Divide i terreni. Invita stranieri. I privati dissodano le terre loro assegnate. Lo Stato dee prendere un diverso partito. La colonia di Eraclea era dorica, perchè tali erano pure i Turii ed i Tarantini, che la componevano; quindi dorico ne fu il dialetto, e dorico il titolo di eforo, onde si onorava il supremo suo Magistrato. Ma nelle instituzioni politiche, come nel dialetto, due specie di dorismi si debbono distinguere; quello severo di Sparta che rimase proprio di lei sola, e quello liberale che nello stesso Peloponneso regnava in Argo, e sotto varie forme si estese in tutte le colonie doriche. Citerò un solo esempio, che si attiene al mio argomento. Sparta non ammise mai alla cittadinanza i suoi Perieci, e per tal pertinacia nell’escluderli ella a (1) Strabone, cit. l. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 145 Leuctra non contava più che settecento Spartani, ed andò sempre più decadendo. Laddove le colonie doriche, perchè miste di varii popoli, se vollero sussistere, non tardarono di aggregare a sè gli uni dei Perieci, e di concedere agli altri qualche parte nel governo. Ma in tutte, anche mentre declinavano alla democrazia, i Dori conservarono sempre l’albagia insita nella loro razza di credersi i soli chiamati a dominare negli Stati, disdegnando i volgari uffizii. Questo dorismo, che chiamerò argivo dal nome della nemica e rivale di Sparta, fu quello di Eraclea. I magistrati eracleesi nel prendere possesso della Sirite la divisero nelle solite tre parti, dedicandone una agli Dei, ritenendone la seconda come patrimonio pubblico, e distribuendo la terza per sorte ai coloni. Allora fu piantato quel termine citato dalla Tavola lin. 53-59, che consecrava il podere a Bacco, ed ai tempi dell’eforo Aristione più non compariva alla vista, perchè interrato nel limo e nei sassi dei rivoli che là correvano. I Dori fondatori si domiciliarono nella città, che tosto sorse dalle fondamenta, pronti a servirla coi loro consigli in pace, e colle armi in guerra; ma la massima parte del contado rimaneva spopolata ed incolta, perchè non vi avevano trovato indigeni da ridurre alla condizione di servi. Era sommo il bisogno di aumentare la popolazione sì per resistere ad assalitori, e sì per rompere i duri terreni a fine di avere il pane quo- tidiano. Epperò io non dubito che i Magistrati di Eraclea, imitando gli esempi di altre colonie, e quello recente di Turio (1), abbiano tosto mandato inviti nei vicini paesi ed anche nella Grecia, affinchè nuovi coloni venissero ad aggregarsi al nascente Stato. Tali inviti erano accet- tati non solamente dalla plebe aspirante a far fortuna, ma erano ancora coadiuvati dai reggitori degli Stati. Così Pericle, giudicando di dovere alleggerire Atene da una turba di gente inoperosa ed incomoda, man- dava volentieri migliaia di cittadini nel Chersoneso, in Nasso, in Andro, nella Tracia come coloni, ed alla fondazione di Turio cooperò aggre- gandovi molti Ateniesi sotto la condotta di Lampone e di Senocrito , somministrando anche dieci navi pel tragitto (2). Giungevano pertanto ad Eraclea nuovi coloni stranieri in massima parte plebei, ricchi di (1) Diodoro, XII, 11. (2) Plutarco, Pericles, 11. Diodoro, XII, 10. Serie II. Tom. XXVI. 19 146 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA nerborute braccia, ma poveri di pecunia. Le famiglie, che o per la massima dorica o per agiatezza di fortuna non trattavano la vanga, prendevano a gara al loro servizio i nuovi accorrenti come dissodatori e coltivatori dei terreni che avevano ricevuti per sorte, e somministravano loro il necessario per istabilire una prima masseria, e per sostentarsi nel primo anno di dissodamento. Ma la città, volendo provvedere ai terreni pubblici e sacri, non poteva imitare i privati, siccome quella che nè possedeva danaro pubblico per anticipare le spese occorrenti per tali vasti fondi, nè doveva porsi a capo di tali imprese. A qual partito si appigliò ella mai? Lo dirò più sotto. $ 4. Eraclea indipendente per nome ubbidiva a Taranto. Aspirò tanto più a libertà quanto più Taranto abusava di lei. Che Eraclea sia stata nel primo suo secolo indipendente per nome lo attestano le sue monete, che il Sambon diligentemente descrisse e sagacemente giudicò (1). Poche toccano al secolo quinto avanti Cristo, la maggior parte appartiene al secolo quarto, e col loro peso, che andò via via scemando, mostrano che furono battute in varii tempi lungo tutto il secolo. I nomi Zwotftos, Aprotodapos, Di) e Dedo improntati su parecchie fanno fede che la colonia aveva il suo eforo eponimo. I tipi sono proprii, e l'Ercole frequentissimo sulle monete di lei si differenzia dall’Ercole raro su quelle di Taranto. Ma Eraclea indipendente per nome lo era forse anche in realtà? Di- stinguiamo i tempi. Taranto aveva per lungo tempo contrastato acciocchè niuno occupasse la Sirite, ed ultimamente ancora ne contrastò l’occupa- zione alla colonia dei Turii, insino a che, non potendo più reggere a questi, venne a patti ed acconsentì che Turii e Tarantini con egual diritto vi si stanziassero , ma l’onore e i diritti di metropoli apparte- nessero a sè. Ella, riserbandosi la supremazia, evidentemente mirava a servirsi poi della sua colonia come di suddita, che le fosse alleata in guerra, e per la sua positura geografica le stesse valido antemurale contro ai Lucani. Nei primi lustri di sua fondazione non si può dubitare che il concepito disegno le sia riuscito a versi. Ma Eraclea, quando giunse (1) Sambon, Recherches sur les anciennes monnaies de l’Italie Meridionale. Naples, 1863. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 147 a discreta potenza per popolazione e per ogni modo di forze, tanto più aspirava ad indipendenza assoluta, quanto più i Tarantini abusavano di lei, e volgevano a decadimento incapaci di difendere gli altri e sè stessi. Di queste ultime mie parole io non posso altrimenti rendere ragione, fuorchè entrando nella storia di Taranto, siccome fece il Mazochi. Ma perchè io dissento da lui in un punto principale, che trasse poi in inganno altri critici, io esporrò non solo i fatti di Taranto ma ancora le loro cause, e l'indole di quella repubblica, anzi l'indole universale degli Stati greci dell’Italia meridionale. $ 5. Vicende di Taranto. Chiamava stranieri a difenderla. Decadeva. Come nella Grecia classica l'egemonia ambita da Sparta, da Atene e da Tebe vi stabilì permanente lo stato di guerra, così nella Grecia italiana la suerra si esercitò continua e distruttiva tra Greci e Greci per l’ambi- 5 zione di primato dominatore. Principio originum, nuovamente ripeto il passo di Giustino , XX, 2, Metapontini cum Sybaritanis et Crotoniensibus pellere ceteros Graecos Italia statuerunt. Ed infatti questi popoli con guerre devastatrici e micidiali si erano elevati a predominante potenza; ma tutti poi nella seconda parte del loro ciclo storico andarono decadendo vinti dalla prosperità stessa confederata col clima. L'ubertà del terreno, la ridente e lussureggiante natura, la clemenza del cielo, e gli stessi co- centi raggi estivi, tutto invitava gli abitatori all’ozio, ai godimenti ed alla lussuria , talchè gli animi cadevano vinti dai blandimenti di quell’eden terrestre. La bellica virtù cartaginese capitanata da Annibale fu prostrata da Capua; le delizie dell’Italia meridionale sconfissero l’originaria severità delle doriche colonie. Anche Taranto, dopo esser giunta a tal potenza da avere una numerosa marineria ed un esercito di 50 mila uomini e di tremila cavalli (1) andò via via decadendo insino a che per eccessi di effeminata mollezza, di turpe lussuria e di vita sensuale raggiunse la fama di Si- bari (2). Ella stessa ne menava vanto dicendo: Miseri coloro, che colla (1) Strabone, VI, 280. (2) Glearco presso Ateneo, XII, 522. Strabone, cit. 1. Orazio chiamava Taranto molle, imbelle, ed il suo clima voluttuoso. Satir. II. 4-33. Epist. 1. 7-45 e 16-11. 145 LÀ PRIMA TAVOLA DI ERACLEA fatica è coll'industria vanno preparandosi una vita nell’avvenire! Noi pel nostro genere di vita compagnevole e gaudente sin d'ora viviamo (1). Come prova e conseguenza di tal decadimento Strabone cita Za cattiva massima di governo [gaD).oy rolirevpa], per la quale i Tarantini chiamavano stranieri a difenderli. Chiamarono, egli dice, Alessandro Molosso, e già prima avevano chiamato Archidamo figlio di Agesilao, poî Cleonimo ed Agatocle, ultimamente Pirro (2). Io ristabilirò l'ordine cronologico. Nell’olimpiade GX [340 av. Cr.] Taranto mandò per ambasciadori chiedendo agli Spartani, come congeneri, soccorso contro ai Lucani; ed il re Archidamo vi andò con truppe di terra e di mare, ma due o tre anni dopo morì in battaglia, ed i suoi soldati furono trucidati dai Lucani (3). Sul finire dell’olimpiade cx1 ricorse ad Alessandro il Molosso. Egli venne, come scrive Tito Livio, VIII, 24, accitus ab Tarentinis in Italiam ..... Quum saepe Bruttias Lucanasque legiones fudisset, Hera- cleam Tarentinorum coloniam, Consentiam ex Lucanis Sipontumque , Bruttiorum Terinam, alias inde Messapiorum ac Lucanorum cepit urbes, ac trecentas familias illustres in Epirum, quas obsidum numero haberet, misit. $ 6. Eraclea scuote la dipendenza da Taranto. È punita da Alessandro il Molosso. Sua politica. Mi soffermo. Il Mazochi perfidiò scrivendo che Eraclea si mantenne sempre fedelissima a Taranto , il che fu ripetuto dai critici posteriori. Eppure Livio attesta che Alessandro, venuto in soccorso dei Tarantini, espugnò Cosenza, Siponto, Terina, e prima di tutte Eraclea colonia dei Tarantini, il che non si può intendere salvo che dicendo che essa si era precedentemente scostata dall’imperiosa sua fondatrice. Tale spezie di ribellione è probabilissima. Taranto, che, infiacchitasi nella sua molle vita, aveva stabilito la massima di farsi salvare da altri, si sarà nella prima metà del secolo servito degli Eracleesi suoi alleati menandoli a guerre contra i suoi nemici, ed avrà esposto la Sirite alle solite deva- stazioni. Ella così andava a grado a grado alienando da sè gli animi della nuova colonia intenta a dissodare e coltivare i terreni, che aveva (I) Teopompo presso Ateneo, IV. 166. (2) Strabone, l. c. (3) Diodoro, XVI, 62, 63. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 1409 ricevuto incolti. Gli Eracleesi obbligati ad un frequente servizio di guerra, ed a ristorare i danni sofferti, cioè a rifare i lavori agricoli già iniziati, non potevano a meno di mormorare contro alla metropoli. Inoltre la colonia si componeva egualmente di Tarantini e di Turii. Se la parte Tarantina si contentava di lamenti, la parte Turia spingeva a fatti; ed in tutti cresceva quell’acceso amore di indipendenza, che spinge e spingerà sempre le adulte colonie ad emanciparsi dalle loro metropoli. Eraclea, seppur non si unì coi nemici di Taranto, non la serviva più come prima, ed era riputata ribelle. Ella, se quando venne Alessandro in aiuto dei Tarantini, si manteneva fedele ad essi, gli avrebbe come ad amico spa- lancato le porte, ma le chiuse perchè lo credeva suo nemico, e sapeva di essere stimata ribelle; il re poi la trattò come tale espugnandola. A tal ribellione probabilmente alludeva Papirio, quando pochi anni dopo chia- mava Taranto swarzum impotens rerum pro domesticis seditionibus discor- diisque (1). Epperò Alessandro primi assalì gli Eracleesi e li sottomise. Il Mazochi, non potendo negare l’autorità di Livio, ricorse a Strabone, il quale riferisce che il re Molosso, avendo sperimentato che i Tarantini sconoscenti ed indocili poco cooperavano alla guerra, li prese in odio, e per odio spogliò Eraclea del privilegio di essere la sede del congresso delle greche città, ordinando che più giù presso il fiume Acalandro si costruisse un luogo forte per tenervi i futuri congressi (2). Fondato su questo odio il dotto Napolitano, pag. 107, spiega che il re prese Eraclea volendo così tum Tarentinos, quibus Heraclea parebat, molestia afficere, tum et Heracleensibus gratificari. Ma l’osteggiare una città che si man- teneva fedele ai Tarantini era più che una molestia, equivaleva ad una aperta denunzia di guerra a Taranto. Il voler poi Heracleensibus gratificari è un singolar modo di gratificarsi altrui quello di spogliarlo di un ono- revole privilegio. i Ristabiliamo la verità. Alessandro invitato dai Tarantini venne in Italia per salvarli, ma in effetto mirava a formarsi un regno. A prima giunta conquistò Eraclea perchè vicina e ribelle, poi le altre città nemiche enumerate da Livio. Frattanto , avendo a prova conosciuta l’infingardaggine, l’arroganza e l’ingratitudine dei Tarantini, li prese in (1) Livio, IX, 14. (2) Strabone, VI, 280. 150 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA odio, ma lo dissimulò proseguendo a far conquiste che a suo tempo sarebbero sue. In Eraclea si radunava il congresso delle greche città, cioè vi stava il centro, epperò la forza di quelle moleculari repubbliche, che egli abolirebbe per concentrarle in sè ; lo annullò col pretesto di punire Eraclea ribelle, ma dicendo di trasferirlo in un luogo forte presso l’Acalandro. Questa era una scaltra lustra. La fortezza, che egli ordinava si costruisse presso quel fiume, sarebbe poi stata la città forte capitale del suo regno e de’ suoi Molossi, giacchè egli non si fidava di prendere stanza in Taranto od in altre città malcontente di lui, e corruttrici de’ suoi sol- dati. Alessandro, secondo il Mazochi, sarebbe stato un ambizioso sciocca- mente corrivo, il quale colla presa di Eraclea avrebbe tosto rivelato a tutti il suo disegno di conquistare per sè; secondo me, egli giunto in Italia fece le viste di soccorrere Taranto espugnando le città a lei ne- miche, ma sotto varii pretesti le puniva, e le riteneva co’ suoi presidii, aspettando il tempo per abbattere Taranto e dichiarare il suo regno. Egli insomma praticò quelle massime, che sarebbero poi state raccolte e pubblicate dal Segretario fiorentino. Ma i disegni del Molosso furono nel terzo anno della sua passata in Italia troncati dalla morte; egli cadde in battaglia presso Pandosia (1). $ 7. Morto Alessandro, le città conquistate ritornano a libertà. Taranto prosegue a farsi salvare da Agatocle, da Cleomene. Tenta di ingannare Papirio, che la sprezza. Chiama Pirro, che la sottomette a sè. Eraclea si collega coi Romani. Caduto lui nell’olimpiade CXII, 2, le città conquistate tornarono a libertà, e rinnovarono le ostilità contra Taranto tanto più vigorose, quanto più ella fu che aveva invitato Alessandro. Leggo in Strabone che i Taran- tini rpòs Meccartovs énchéunoav mepi “Hpax)etas, Eyovtes cuvepyods tov te tOv Aguviav nat tov tòv IHevxertav Baxcrdéa (2). Le scarne parole del geografo lasciano incerto l’anno di questa alleanza, ed incerto lo scopo se mirasse a difendere ovvero ad offendere Eraclea; solamente ci ragguagliano che i Tarantini, dovendo far oste per causa di Eraclea, non bastarono soli, ma ricorsero a due vicini re. Per le guerre suscitate in grazia della passata di Alessandro, Taranto (1) Giustino, XII, 2. (2) Strabone, VI, 281. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. I5I assoldò come mercenario quell’Agatocle , che divenne poi tiranno di Siracusa (1). Abbandonata poi da questo capitano di ventura mandò per oratori a Sparta pregando il re Cleonimo di venire in sua difesa contro ai Lucani ed ai Romani. Egli accetta l'invito, e col danaro di Taranto raccozza meglio di venti mila fanti e due mila cavalli; poi giunto sulle navi di lei in Italia costringe i Lucani ad arrendersi, entra come amico in Metaponto, ma la smunge di seicento talenti di argento, e prende come statiche duecento ragazze, maltratta Taranto pentita di averlo chiamato; è sconfitto dai Romani; come corsaro si spinge sino ai Veneti predando e saccheggiando; da ultimo avendo toccato gravi perdite ritorna in Grecia vix quinta parte navium incolumi, nulla regione maris Hadriatici prospere adita, come scrisse Livio, X, 2. E Diodoro, XX, 104, aggiunge che Cleonimo, deposta la veste Laconica, si era abbandonato ad ogni maniera di godimenti, e trattava come servi quanti alla sua fede si commettevano, poi conchiude: Egli con un numeroso esercito nulla operò che fosse degno di Sparta. In questa stessa olimpiade CXIX si iniziava la guerra di ‘Taranto contro ai Romani, i quali dal Samnio ogni anno più si avvicinavano ai confini della Magna Grecia. I Tarantini, per tenere lontane da sè le legioni Romane, avevano già prima adoperati quei mezzi che non disa- giassero la loro vita beata. Avevano incoraggiati i Samniti a resistere da forti, dando anche voce che li avrebbero soccorsi. Epperò Palepoli stretta di assedio durava aspettando gli aiuti, questi non giungevano, disperata si arrese; ed i Tarantini, scrive Livio, velut destituti, ac non qui ipsi destituissent, increpabant Palaepolitanos (2). Poi ricorsero al seguente mezzo, che gli odierni chiamano morale. Pagarono disonesti giovani, i quali in un foro della Lucania presentatisi coi corpi nudi e sanguinenti, perchè flagellati, come dicevano, dai Romani, eseguirono un colpo sce- nico, che indusse i Lucani e gli Apuli a disdire la fede poc'anzi giurata a Roma (3); ma la frode, essendo stata prontamente svelata, non ebbe altro sèguito che l’onta e il danno dei due popoli corrivi. Tornato vano il drama plateale, Taranto si elevò al gran genere di arrogante diplomazia. Mandò per oratori ad intimare ai Samniti ed ai Romani di cessare dalle (1) Diodoro, XIX, 4. Strabone, VI, 280, (2) Livio, VIII, 27. (3) Livio, cit. 1. 152 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA armi, denunziando guerra a quello dei due popoli che non desistesse. Papirio Cursore loro rispose, che ne avrebbe conferito col collega, ne conferì infatti ordinandogli di tutto preparare per dar battaglia. Ritorna- rono gli oratori per aver risposta, e Papirio signa ferri iussit, et copias eduxit vanissimam increpans gentem , quae, suarum impotens rerum prae domesticis seditionibus discordiisque, aliis modum pacis ac belli facere aequum censeret (1). Disperata allora d'ogni altro mezzo la città iteratatamente ricorreva a Pirro pregando venisse co’ suoi Epiroti a capitanare l’esercito che faceva sommare a 350 mila fanti ed a 20 mila cavalli (2). Pirro cupido di regno accorre colle sue truppe e co’ suoi elefanti, ma, invece delle trentasette miriadi di soldati, trova cittadini che scioperati nei bagni, nei simposii e nei ritrovi la facevano a ciance da sommi capitani. A tal vista, rico- noscendo verace quella fama opprobriosa che di Taranto suonava, risoluto ordinò che si chiudessero i ginnasii e le loggie, inibì le beverie, i festini, i sollazzi, ed inesorabile chiamò tutti alle armi, prendendo ad eserci- tarli (3). Entrò in guerra, vinse, e dopo una corsa in Sicilia ritornò a Taranto, ma vinto dai Romani lasciò l’Italia. Questo periodo di tempo fu da Livio, XXHI, 7, chiamato colle lapidarie parole Pyrrhi superba dominatio , miserabilisque Tarentinorum servitus. Ed Eraclea? Come dopo la morte di Alessandro tutte le città da lui soggiogate tornarono a libertà, e facendo le loro vendette contra Taranto la obbligarono ad assoldare Agatocle, poi a chiamare in aiuto Cleonimo e Pirro, così Eraclea avrà partecipato or vinta or vincitrice a queste guerre devastatrici. Pirro diceva: Per giudicare se un territorio sia romano o greco mi basta gettarvi uno sguardo. Nelle terre romane io vedo alberi, viti ed ogni maniera di coltura; le greche sono talmente disertate, che pare non sieno mai state abitate da persona viva (4). Pirro era venuto in Italia nel primo anno dell’olimpiade CXXV (5), e nell’anno seguente Eraclea consigliandosi da sè sola, indipendentemente da Taranto, strinse con Roma un prope singulare foedus Pyrrhi temporibus, consule Fabricio (6). (1) Livio, IX, 14. (2) Plutarco, Pyrràus, 13. (3) Plutarco , cit.l. (4) Dione, Excerpta Vaticana, n.0 L. (5) Clinton, Fasti Hellenici, pag. 196, edit. Lips. (6) Cicerone, pro Balbo, 22. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 153 $ 8. Storia dell’amministrazione interna di Eraclea. -Ella dee provvedere al dis- sodamento delle terre sacre e pubbliche. Il partito che prese si ricava dalle due Tavole. Per affittare tali terre deputò Agrimensori che la misurassero e scompartissero. La colonia Turio-Tarantina, quando entrò nella Sirite, la trovò de- serta da gran tempo, e vuota d’abitatori e di abitazioni; soli rimanevano i ruderi dell’antica Siri. Tosto prese ad edificare Eraclea, fondandola pochi stadii distante dal mare, e da Siri, che le servì di porto e di arsenale marittimo (1). Quindi, come al solito delle colonie, divise il territorio in tre parti; dedicandone una agli Dei, ritenendo la seconda come agro pubblico, e distribuendo la terza per sorte ai coloni. Allora per dichiarare che il podere era sacro a Bacco, vi piantarono due termini [lin. 55-59]. Ma il territorio così diviso era tutto selvaggio e vergine, i coloni fondatori stavano raccolti nella città, e, massimamente se Dori, rifuggivano dall’agricoltura e dalle arti; bisognava provvedere a render fertili le sode terre. Epperò io non dubito che Eraclea, ad esempio di Turio (2) e di altre colonie, abbia con bandi invitato i vicini ed i lon- tani a venir ad aggregarsi al nuovo Stato, dove troverebbero oneste condizioni e lavoro per campar la vita. Accorrevano gli stranieri in massima parte plebei, ricchi di nerborute braccia, ma poveri di pecunia. Questi facilmente si allogavano come contadini presso quei privati cit- tadini, che o per massima dorica, o per condizione di vita, ricusavano di trattar la vanga, anzi di sobbarcarsi ai duri lavori di dissodamento di quelle terre che loro erano toccate in sorte; dai padroni probabil- mente ricevevano la prima semente d’orzo, e qualche sussidio per vivere almeno nel primo anno. Ma la città, volendo provvedere ai terreni sacri , e forse anche ai pubblici, non poteva imitare i privati, siccome quella, che nè possedeva danaro pubblico per anticipare alcune spese, nè poteva invigilare turbe di stranieri sconosciuti. A qual partito si appigliò ella mai? Lo ricaverò per induzione dalle due Tavole Eracleesi. Quando la città, forse quaranta anni dopo la sua fondazione, deliberò di dare per la prima volta in affittanza i due poderi di Bacco e di (1) Strabone. (2) Diodoro XII, 11. Serie II. Tom. XXVI. 20 154 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA Minerva, deputò alcuni Agrimensori che li misurassero e dividessero in varie porzioni. Compiuto che ebbero il loro mandato, ne distesero le loro Relazioni, il cui testo fu inserito dallo Scriba nelle due Tavole di affittamento. Nella prima riferiscono, che per riconoscere il podere di Bacco si diedero anzi tutto a cercare i termini principali che lo con- secrassero al Dio, persuasi che gli antichi Magistrati piantati li avevano. Le due pietre non comparivano più alla vista, ma scavando qua e là le trovarono interrate fra i sassi ed il limo dei piccoli rivi che là cor- revano [lin. 57]. Allora facendo capo da queste, misurarono l’area in- tera del podere collo stesso metodo, che noi usiamo nel misurare un poligono irregolare; noi diciamo trapeziare un terreno, ed essi dicevano ovppetpetv [lin. 11 sg.]. Così riconobbero che alla tenuta mancavano scheni 738 : [ettare 17, 20]; donde si ricava che gli antichi Magistrati, oltre al piantare i termini principali, avevano ancora provveduto alla misura del fondo, e la città possedeva un catasto. Tosto citarono in giudizio di trenta giorni, che noi chiamiamo sommario, gli usurpatori del fondo, i quali furono condannati [lin. 48]. La stessa usurpazione fu pure riconosciuta nel tenimento di Minerva, e nello stesso modo rivendicata [Tav. II, 19). i Ottenuta che ebbero la misura generale del podere, dovevano scom- partirlo in porzioni, ma queste erano già determinate. Imperocchè nella parte di terraferma stavano domiciliate quattro famiglie di agricoltori, ed altre due nell’isola annessa, le quali si erano fra loro spartite le terre, avevano tagliate le necessarie strade, e stavano da tempo coltivando le terre le più promettenti. Gli Agrimensori, accettando le cose come sta- vano, piantarono i termini, i contro-termini ed i mezzi termini, che separassero la possessione di Bacco da quelle dei privati confinanti, e segnassero i limiti di ciascuna delle porzioni da affittarsi [lin. 14 sg. lin. 53 sg.]. Inoltre, distinguendo il terreno nelle quattro categorie di colto, di vergine, di selvoso e di schiroso [chiamavansi cripor le mac- chie di sterpi, di arboscelli e simili, per lo più arsi dal sole, utili a far fascine]; misurarono gli scheni di terra colta, distinguendoli dagli altri tre. Imperocchéè le selve e gli schiri erano riserbati per la città, le terre vergini non fruttavano, ed i fitti cadevano sui soli scheni colti. Del fondo di Minerva noi non conosciamo che le sole dodici porzioni descritte nel frammento della Tavola seconda. In esse gli Agrimensori trovarono stan- ziate altrettante famiglie di agricoltori, che, essendosi divisa fra loro ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 155 un’area di sole ettare 14, 45, coltivavano porzioni piccole sì ma ferti- lissime. Imperocchè due sole erano le categorie del terreno, altro era x i , 5 APNIN gs nuda pianura lavorativa, altro @ura@pyixòs vitifero, che separata- mente sorgeva forse sopra un monticello. Gli Agrimensori scompartirono questo per modo da assegnare a ciascuna porzione di nudi campi poche are vitifere. Poi a traverso del fondo intero condussero una strada, che desse libero accesso a singole le porzioni. $ 9. Gli Agrimensori nei poderi di Bacco e di Minerva trovarono diciotto famiglie di agricoltori, che già li coltivavano ed usufruivano, perchè gli antichi Ma- gistrati avevano bandito ciò esser lecito a chiunque, e duraturo insino a che la città rivocasse a sè il dominio utile. Saviezza di tal bando. Saviezza della rivocazione. Nei due poderi gli Agrimensori avevano trovato diciotto famiglie stanziate. Queste chi erano mai? Evidentemente erano usurpatrici dei terreni altrui, anzi sacrileghe, e secondo il diritto pubblico dei Greci meritavano la morte senza sepoltura; eppure gli Agrimensori rimasero contenti ad intimar loro che sgombrassero. Alcune, siccome narrano le due Relazioni [ Tav. 1. 48 sg. II, 26 sg.], dopo avere altercato a parole, ubbidirono, ma altre renitenti furono dagli Agrimensori chiamate in giu- dizio di trenta giorni, ossia sommario, e vennero condannate senza che loro fosse imposta multa o pena alcuna. Così il Tribunale negò loro quel dominio di padronanza che si arrogavano, ma riconobbe legittima la prima loro occupazione dei terreni, e legittimo l’usufrutto sino allora goduto. Tutte poi furono dagli Agrimensori ammesse a far partito per l’affittanza, e tre nel tenere di Bacco vennero accettate come condut- trici; ed è probabilissimo che altrettanto sia avvenuto nel fondo di Mi- nerva. La benigna condotta degli Agrimensori, e l'autorevole sentenza del Tribunale, non si possono altrimenti spiegare, fuorchè dicendo che la città sin dai primordii della colonia aveva bandito esser lecito a chiunque di prendere a dissodare e coltivare i sacri terreni, e forse anche i pubblici, vacanti, raccogliendone i frutti, insino a che lo Stato giudicasse equo di rivocare a sè il dominio utile. A questa savia provvisione amministrativa alludeva probabilmente Aristotele, quando nella Politica VI, 3, 5 lodava i Tarantini di essersi procacciato l’affetto del popolo xowa rotodvies ta utipata toîs armgpors int 156 LÀ PRIMA TAVOLA DI ERACLEA tiv ypiow rendendo comuni ai poveri le possessioni per loro uso. Con queste parole di troppo ampio significato Aristotele certamente non intendeva lodare il pretto comunismo, mentre egli in questo stesso capo riprevava l’usanza di scompartire annualmente fra i poveri il sopravanzo dell’usufrutto dei beni pubblici. Per restringere il valore di queste troppo larghe parole il Muller nei Dorier lib. III, g, 14 cita un esempio di Roma, che mi pare più ingegnoso che vero. Io per me dico che alle parole int 7iv ypficw per loro uso manchi l’epiteto di temporario, e si alluda alla comunella temporaria praticata da Eraclea colonia dei Ta- rantini. Quando nell’orbe Romano abbondavano gli agri vacanti o dere- litti, anche gli Imperatori ne concedevano ai privati l’usufrutto gratuito, ma per soli due o tre anni, e dopo previa domanda (1). Di tal prudente concessione di Eraclea si erano giovato le diciotto famiglie, che gli Agrimensori trovarono domiciliate nei due sacri poderi. Esse vi erano entrate in varii tempi, ed avendo scelto le porzioni di terra più promettenti vi avevano innalzato capanne, si erano nel tenere di Bacco indentrate nella selva, e tagliate le vie necessarie , dette &vropo:, e con gli anni avevano nei due poderi spinta la coltivazione a tal grado, che ogni ettara si poteva meritare un fitto da 38 medimni a 278. Mediante l’usufrutto gratuito la città aveva renduto fruttiferi i terreni selvaggi, aveva popolato la colonia di liberi agricoltori, poveri li aveva fatti capaci di rendersi affittavoli, e quindi possidenti mediante la tenuità dei fitti : ma, quel che più monta, aveva creato la classe dei Perieci, la quale alimenterebbe la classe dei cittadini. Era tempo omai che ella ritirasse a sè il dominio utile; ciò era pure richiesto dal progresso dell’agricol- tura. Imperocchè le famiglie, ben prevedendo che l’uso gratuito cesse- rebbe quando che fosse, tutte, tranne una sola, niun edifizio rustico avevano costrutto per sè, per buoi e per li bisogni agrarii, niuna pian- tagione rilevante di viti, di olivi, od altra simile avevano intrapresa; conoscendosi instabili si ricoveravano sotto capanne, volevano frutti tostani con poca fatica e spesa. Epperò tutte con un sarchiello si die- dero a seminare orzo esastico, che dopo il giro di tre mesi raccoglie- vano in quantità almeno decupla, e bastava scuoterne i manipoli per farne cadere spontanei i granelli. Inoltre le tre prime famiglie di Bacco, (1) Cod. Iustin. lib, XI, tit. LVII, L1 e 7. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 157 professando la massima Quod satis est cui contigit, hic nihil amplius optet, avevano con tal benignità scalfitto il terreno da meritarsi appena un fitto di otto medimni; ragion voleva che queste fossero surrogate da altre procaccianti. Se fu savio il primo partito della gratuità, non fu inferiore quello dell’affittanza; la città guadagnò un’annua entrata di 5 6447 medimni d’orzo tra i due poderi, poi, imponendo ai conduttori l'obbligo di edifizii rustici e di piantagioni di viti e di olivi, promosse l'agricoltura. $ 10. Varie specie di locazioni di fondi rustici, più o meno tendenti alla perpetuità. Condizioni dell’emfiteusi perpetua trasmissibile alla prole ed anche ad altri. Le locazioni erano di due generi. Una delle porzioni della Tavola Seconda fu affittata dagli Agrimensori dp tav apatav nevractnpida per il primo quinquennio , senza che vi citino il nome del conduttore [lin. 35] e la Tavola Prima [lin. rti] parla di una sublocazione ndp névre in 72 rpGra. Perchè il quinquennio era pure presso i Romani la volgare du- rata d’un affittamento di fondi rustici, niuno creda che gli Eracleesi lo abbiano preso da Roma; oltrechè niuna relazione a quel tempo passava tra i due Stati, l'orgoglio greco ricusava di imitare i barbari. Del se- condo genere di locazioni abbiamo esempio nella Tavola Prima [lin. 50], dove gli Agrimensori narrano di aver dato in affitto xar& fit « vita dei conduttori due porzioni dell’isola di Bacco, senza che ne dichiarino i nomi; donde ricaviamo che gli Agrimensori avevano in alcuni casi fa- coltà di conchiudere tali locazioni senza proporle all’asta pubblica. La stessa prima Tavola nella linea gg della XvvSvize concede 4 vita dei conduttori le quattro porzioni di Bacco poste in terraferma. Ma quando più sotto nella linea 105 concede ai conduttori la facoltà di vendere ad altri la loro locazione, e sopra tutto nella linea 151 dichiara implici- tamente che ogni conduttore tramanda anche ab intestato la sua emfi- teusi alla prole, e può per testamento farne erede chiunque voglia, nasce il dubbio che della locazione a vita due sieno le specie. L'una a vita del conduttore, e forse anche della prole; e l’altra coll’ aggiunta della facoltà di vendere il contratto e di trasmetterlo per testamento a chiunque voglia. La prima, siccome quella che era naturale e suggerita dai bisogni d’una colonia che occupasse un territorio incolto, poteva essere convenuta e stipulata dai soli Agrimensori; per la seconda, che 158 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA dava al conduttore privo di prole il mezzo di fraudare con un testa- mento il ritorno dell’usufrutto alla città, e di perennare così la locazione indefinitamente, si richiedevano le formalità solenni osservate nell’affit- tanza del tenere di Bacco. Comunque sia, Eraclea in amendue i casi si trovava a fronte di una perpetuità più o meno lunga; e la perpetuità applicata alle cose con- tingenti pugna con esse, quasi dissi è un assurdo. Noi conosciamo l’em- fiteusi dell'Imperatore Zenone, stata poi ampliata e prodigata nel medio evo per modo che la perpetuità emulasse l'eternità, e noi ne sperimen- tammo i danni sofferti dal progresso dell’agricoltura e del commercio. Nelle controversie filosofiche Platone e Cicerone interrogavano l’antichità siccome più prossima agli Dei. Nell’economia politica indaghiamo l’ori- gine delle instituzioni, quando nascevano spontanee dettate da quel buon senso, che nelie tarde età suole sdegnato, come Astrea, volare al cielo. To esporrò il sistema emfiteutico di Eraclea, anteriore di quattro secoli all’éra Cristiana, ravvicinando fra loro i varii articoli della ZvvSqze ad esso relativi. i « La città ed i Polianòmi danno in affitto a vita i beni di Bacco. » Z conduttori godranno l’usufrutto di essi per il tempo successivo sin- » tanto che presenteranno fideiussori, e pagheranno il fitto ogni anno » nella prima decade del mese di Pànemo [lin. 95 sg.]. Z conduttori » potranno vendere il loro usufrutto, e sublocarlo per un tempo defi- » nito. In amendue i casi i subentranti dovranno presentare i loro fi » deiussori alle stesse condizioni del primo conduttore, e pagare il fitto » convenuto nella prima scrittura. Chi non presenti fideiussore e non » paghi il primo fitto, costui pagherà doppiamente il fitto, e sarà mul- » tato secondo che verrà decretato , e tuiti î miglioramenti fatti o per » piantagioni o per edifizii apparterranno alla città [lin. 105 sg.] Se un » conduttore muoia senza prole e senza testamento l'usufrutto si devolverà » alla città (lin. 51. Donde si intende che l'usufruttuario, anche mo- » rendo ab intestato , tramandava alla prole l’emfiteusi, e con testamento » la tramandava a chi volesse |]. / conduttori presenteranno in ogni quin- » quennio î loro fideiussori ai Polianòmi, i quali li accetteranno o no » secondo che giudicheranno [lin. 104, 105]. » I fideiussori, che via via si succederanno nei quinquennii, saranno » mallevadori dei fitti, delle multe, delle rivendite, e delle condanne. » Ze malleveranno sì colle loro persone |soffrendo il carcere], e sì coi ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 159 » beni che avranno professati. Non ricorreranno nè a negazioni, nè a » revisioni di giudizio, nè in qualunque altro modo daranno molestia » alla città ed agli agenti della città ; altrimenti la cosa sarà nulla » [lin. 155 sg.]. » / Polianòmi e con esso loro altri cittadini non meno di dieci presi » fra’! popolo invigileranno se î conduttori abbiano eseguite le pianta- » gioni prescritte dalla Convenzione. Scriveranno în un registro i pian- » tatori e quanto abbiano piantato. Se alcuni non abbiano piantato » secondo la Convenzione, li scriveranno, ed intimeranno loro le multe » stabilite [lin. 124 sg.]. » Di tutto ciò che il conduttore non eseguirà secondo la Conven- » zione, oppure non nei tempi prescritti, egli ne renderà conto ai Po- » lianomi ed ai Ricevidori del grano [lin. 176] ». Tali sono gli articoli della Convenzione relativi alla durata dell’emfiteusi. $ 11. Le due condizioni primarie dell’emfiteusi perpetua. Facilità di rompere la perpetuità, e di ridurla ad una locazione rinnovabile da cinque in cinque anni. Due sono le condizioni primarie, pagare il fitto nella prima decade di Pànemo, e presentare ogni quinquennio un fideiussore. Da questa seconda condizione derivava implicitamente l’obbligo pel conduttore di rendere, di saldare e di fare approvare al termine dei cinque anni i suoi conti. Il mallevadore voleva essere liberato dalla data fede, e la città non lo liberava se il conduttore non si fosse prima sdebitato d’ogni suo dovere, inoltre niuno sarebbe subentrato fideiussore se non a conti terminati ed approvati. Epperò al termine di ogni quinquennio sì rimet- teva in quistione se la perpetuità durerebbe o no. All’emfiteuta desi- deroso di romperla bastava l' astenersi dal produrre un mallevadore. Ma il caso più probabile e frequente doveva esser quello dei Polianòmi, i quali dopo più quinquennii facevano disegno di innovare il primo con- tratto, qua cacciando un conduttore neghittoso , lì imponendo nuovi obblighi di miglioramenti, e forse intendevano di aumentare ad alcuni il tenue primo canone. Allora nella resa dei conti il sindacato diveniva più minuto, donde nasceva un conflitto facile ad imaginarsi, e dopo il conflitto si poteva temere una lite. Sì nella contesa e sì nel fòro l’agricoltore illetterato 160 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA e rozzo si trovava a fronte dei Polianòmi, degli Ispettori e dei Ricevidori periti nel controvertere, e davanti Giudici propensi a favorire la città. Egli abbisognava di un tutore, e questi a buona ragione sarebbe stato il fideiussore, il quale temer doveva che sopra lui fossero per ricadere gli effetti d’una condanna. Ma ad intervenire in aiuto del suo naturale cliente si opponevano le ricise parole della XvvSrixa, le quali gli vieta- vano sotto pena di nullità di ricorrere a negazioni, a revisioni di giu- dizio, e di dare in qualunque altro modo [parole di somma elasticità] molestia alla città ed agli uffiziali di lei. Così per l’una parte il mal- levadore era ridotto ad essere una mera cassa pagante, e per l’altra il contadino stava solo a contendere co’ suoi accusatori e Giudici. La sen- tenza non poteva essere dubbia. Se non che, ove i Polianòmi si fossero per pudore astenuti dal pronunziare una condanna, avrebbero per altra via ottenuto il loro intento. Imperocchè, dopo il pericolo occorso di multa, riusciva difficile all’emfiteuta di procacciarsi un nuovo fideiussore, ed, avendolo trovato, i Polianòmi potevano ricusarlo. La città, che prov- vida aveva sminuzzate le porzioni di terreni per renderle accessibili al volgo degli agricoltori, temeva le migliaia di liti, che nascer potevano dal patrocinio dei fideiussori, cittadini di qualche sèguito nel foro, periti di cavilli, e forse trafficanti di malleverie. Ma, lasciando stare anche la prevalenza dei Polianòmi nel troncare le emfiteusi, io dico che in un secolo intero cangiandosi le generazioni, l'economia, la ricchezza e la moralità di una stessa famiglia, era quasi impossibile che nei venti ren- diconti del secolo non occorressero gravi motivi per condannare un em- fiteuta meno gradito ai Magistrati, e così avesse termine la perpetuità. Due delle diverse locazioni erano a vita, l’altra colle parole per li cinque primi anni lasciava l’addentellato e la speranza di altri quinquennii, cosicchè tutte e tre erano emfiteusi con perpetuità o stipulata o sperata ; perchè nei primordii della colonia niuno si sarebbe sobbarcato ai duri lavori di dissodare vergini terreni, se non avesse sperato che egli ed 1 figli ne avrebbero col tempo goduto i lontani frutti. Ma la perpetuità pugna colla contingenza delle cose, nuoce al commercio, ed il tenue primo canone od anneghittisce l’emfiteuta con danno dell’agricoltura , ovvero lo straricchisce con danno dell’erario; epperò Eraclea saviamente stabilì che tutte le sperate o stipulate emfiteusi fossero nulla più, che contratti da rinnovarsi ogni quinquennio secondo la condotta dell’emfi- teuta, il progresso dell’ agricoltura e gli interessi dell’ erario. Giudici ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 161 principali delle caducità sedevano i Polianòmi eletti annualmente dal po- polo; erano i boni homines del medio evo. $ 12. Spirito di tal sistema contrario a quello del medio evo. Lo spirito del sistema emfiteutico era evidentemente quello di pro- muovere a tutto potere l’agricoltura. Infatti l’emfiteusi si indirizzava immediatamente al contadino, che trattava la vanga, sudava sui campi, e lavorava per sè e per la cara famiglia; mal agiato di beni di fortuna, ma libero, abbisognava di un fideiussore; il trovarlo in ogni quinquennio dipendeva dalla sua condotta e dalla sua riputazione di probità; Vam- piezza del fondo emfiteutico corrispondeva alle forze di una famiglia; gli obblighi ed i fitti imposti nelle locazioni erano discretissimi, cioè permettevano al conduttore procacciante di fare un onesto lucro, e quindi un peculio per elevarsi a possedere un campicello; le caducità promosse dai Polianòmi riuscivano opportune per rincarare gli obblighi dei nuovi conduttori, e far progredire la coltivazione. Così Eraclea sulla base tetragona dell’agricoltura fondava la ricchezza pubblica, le arti ed il commercio, beni materiali; ma esigendo ogni quinquennio un fideius- sore imponeva al conduttore, come un dovere, l’esattezza, la probità e la buona riputazione, puniva i neghittosi, premiava i diligenti, e creava ad un tempo la classe dei Perieci e l’aristocrazia del lavoro. Ma quando nel medio evo io vedo che l’emfiteusi perpetua si indi- rizzava immediatamente ad un corpo morale qual era od un casato il- lustre, la cui estinzione non prevedibile era un caso fortuito, ovvero un municipio od un vescovato, la cui vita durerebbe al paro della stessa città : quando io vedo che a codesti si concedevano in perpetuo terri- torii ampiissimi, i quali poi venivano divisi in miriadi e poi suddivisi in migliaia di ettare concedute ad altri casati meno illustri: ed in fine di tutta quella gaudente gerarchia sempre io scorgo ultimo ed estremo l'agricoltore più o meno immedesimato colla gleba, sudante non per sè, ma per chi gli gettava in premio una crosta di pane inferrigno; allora io riconosco siccome uno Stato per la necessità dei tempi, dirò meglio, per le colpe de’ suoi predecessori e per le sue sia man mano condotto a sistemi rovinosi e privi di buon senso. Serie II. Tom. XXVI. 21 162 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA $ 13. Età delle due Tavole. Dopo avere premessa la storia politica ed amministrativa di Eraclea, ed avere esposto lo stato dei due poderi quando furono affittati, io propongo la mia congettura sull’età delle due Tavole. Dalla fondazione di Eraclea nell’anno 441 av. Cr. sino all’anno 279; nel quale la città si aderì a Roma, passarono anni 162. Che gli efori solleciti a dedicare a Bacco un podere, ed a piantarvi i principali termini, abbiano tardato cotanto a darsi pensiero delle sacre terre, e che queste solamente dopo anni 162 sieno state affittabili, ciò è incredibile; epperò io escludo l’opinione di coloro che ritardano sino ai secoli Romani le due locazioni. Secondo che io osservai più sopra, i privati abitatori della città furono i primi a rendere fruttiferi i x\fper loro assegnati, ultimi vennero i fondi sacri agli Dei che si pascevano d’ambrosia nell’olimpo. Le terre sacre più promettenti furono Je prime ad essere invase dalla plebe, così fu del tenimento di Minerva, che il popolo tagliuzzò in piccole porzioni. Le terre infelici, perchè piene di schiri e di selve riserbate alla città vennero occupate le ultime; e tal fu del tenere di Bacco. Prima di darle in affittanza lo Stato doveva alle famiglie occupatrici concedere qualche lustro, insino a che il fondo avesse ricompensato le loro fatiche, ed allettasse altri agricoltori; questo, tempo non poteva a meno di essere vario. Se non che a tali locazioni molto contribuiva la quiete dello Stato, per la quale i Magistrati potevano ‘occuparsi di sì minuti negozii, ed i privati potevano sperare di andar esenti dalle solite guerre desolatrici, che si movevano annualmente nella primavera per tagliar le messi del nemico. Ma Eraclea non divenne padrona di sè e della sua quiete, se non dopo che, scossa la servitù di Taranto, si emancipò circa l’anno 380 av. Cr. Negli anni anteriori la plebe aveva bensì cominciato ad occupare terreni vergini, ma l'occupazione crebbe vieppiù, ed anche crebbero maggiormente le locazioni, dopo che per l'emancipazione i tempi divennero più tranquilli. In questo periodo di tempo, che trascorse dall'anno 380 all'anno 334, nel quale Alessandro il Molosso venne in Italia, io colloco gli affittamenti delle due Tavole. Venne il Molosso, espugnò e punì Eraclea, questa dopo la morte di lui si riebbe; ma Taranto non tardò a chiamare in suo aiuto Agatocle, Cleonimo ed ultimo Pirro, talchè lo stato di guerra divenne permanente. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 163 Bensì io congetturo che per tali guerre assidue le due locazioni delle Tavole andarono rotte, ed Eraclea avrà al tempo Romano con nuove affittanze provveduto ai due poderi; ma in questo caso gli Agri- mensori avrebbero trovato di già eseguite tutte le misure, le divisioni ed operazioni descritte dagli Agrimensori dell’eforato di Aristione. Il Mazochi stabilì l’età delle Tavole negli anni posteriori alla passata di Alessandro il Molosso, perchè, siccome dimostrai più sopra, errò nella storia. Io non dubito di stabilire l’età di esse negli anni che trascorsero tra l'emancipazione di Eraclea e. la venuta del Molosso; e formo la se- guente tavola cronologica : RondazionesdibEraelca gate ae anno) 441 avo Cr. Consecrazione dei due poderi agli Dei, e piantamento del termine principale interrato nel podere di BACCORIA e ia SA e DI ORA La plebe prende ad occupare i terreni sacri, non trovando più ad allogarsi presso i privati ..... DAR TOM Emancipazione di Eraclea. Maggiore occupazione dei ienrcpivacanitizà. iaia boo serba Ppalialo oe Affittamenti dei poderi di Bacco e di Minerva, ossia etaidellenduefTavolernelli.y.:ianicr. smatsor tane intervallo Venuta in Italia di Alessandro il Molosso ....,... matri A 164 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA TESTO GRECO DELLA TAVOLA PRIMA DI ERAGLEA (Le lettere inchiuse fra parentesi riempiono le lacune dell'originale ) 1 ‘"Egopes “Apiotapyos [H]paxdetda, pis ‘Are))aîos. di nohis xal tot cprotat Fe rpinovs Prwvunos Zurupiora, ne zupobrerov “Aroà)wvos ‘HpaxXriza, 5 at meta AaCipos Topfo, xv Spivag Protas Totelo, pe émotbàioy ‘Hpox\eidas Zonipw. Atovsao. 'Avéypupav tot Gpiotat tol aipeSévtes Éri tòs yopus tds ta[ads] tas 16 Atovvoo, [Povo]: Zorvpiozo, Aro\Ieivios "HoaxXritw, Adbipos Hippa, Datas Totieto, 10 ‘H[pa]jmetdas Zonipo, add [aor]Eav at erelo]u[eé]ev xat [ovveuttpnoev] xol epuépi- [gay t6]v ‘Hpandetov dia|y portar év narazdito da. [ovv]eueroni[oap]es [dè apE|cu[e- vot] - > > LI LI 3 , ld > , n aropov aypr És [motanov, xat Eyevovto perpi]op[evar] év tavta t& [t]- , 23 e , , 3 , - - , NI pela Sagayetas pe] [Franatia:] efdeprinovia tpîs oyoîvar ontpo di not apiinto nat Oppo nevtanatia oyoîvot. tav dî tpitav pepida evpos @nÒ tO avtouo TÒ mpatw [tO] meo tev tpi- anovteredov Gyov[tos Ert tòv @v|rowov tòv desrepor [anò tas tera] xovtaréida puda[og de amò tav aro]po@v &ypi Ès rotauòv, al èyi- vovto perpispevae [év tosta ta] pepeia éponyelas per rprjexaria. dexa dio oyoivor rfiuioyomwor, ocriow [de] xat codiuto at dovluò rnevrz- x x 2? P Î \ Gi ) natia tpranovia ente Yipioyowav. te[v de] rercprav pepiò[« eJbpos arò ci avtouo T6 devtipa amò ts tpranfovta]rédo Ent [ton Gvr]omov còv >_/a , CI \ x r \ / - - dc LISCA) -_ È) -_ opisovta tav te iapav x[al t]av Fidtav yav, paxos dî anò t[av cro]podv digor Ès motauov, nat Eyév[ovto] perpro[pevor év tovta ta pepeta è]ppn- qelas pv tprana[ri]et dxtò oyoîvor viicyomwovr, onipw dé sat aefjixzo ua dopu nevtanatiar terponovta [ia] rito yowoy. Kei )ù fa 29 59) , 4 i) > LÀ x CLAS O - /, spada nera éagnyetas yiuar évelvizo|ve[a réjpre [oyoîvor], cxt- 165 00 di ua appruia mal dprpò droyidiar Oraneion Fiuati nevte [pio yowov]. \ n x \ DE) - tàv di vaoov tav mottjeyevmpévav e tuv aggaztov yav [cuvepe]- toioapes. anò tabtas tas yîs amo)aàn Éagnyelzs per cpranatiai tpîs oyoîvor “ipioyorvov, caiow dì xal aifizto zal dovpé terpa- [ata tpranovia mévte ayoîvor, iu per ci noata [p])epeta td rd TÒ ‘H side E UICIPIRIRIOA \ e de ,, De va TRA p ta ‘Hpoowdera eppayetas pev éBdeprizovia È ayoîvor, cx- po dì nat appruta nat dpvpò énuròv Gydorzavia névie oyot- Ea , n \ e \ vot. Èv de TA teropra pepeta T% map tà Devtia Epgnyetas priv LS a , GSS X A” e L , I V LO RU dranatiae Finati nta oyoivor Yiutoyavor, oxipo de rat agdr- n pai \ zto at dovpò diaxatiae mevmizovta oyoîvar. Kevada ma- cus Yis ds nate[oo]azues t[d] Atovdon intanatiae tpra- Ù = MI - r zovta O[xtoò] oyoîvor riuirgomvav. taltav te yav natecw[ca] - \ \ x ues éfdmatap[e]por dixas t[pi]exo[o]ratas toîs tav tapav yav [Fc] rav motdviaociv. alta éuicisàn [cs tysu] zara Bio [co dv [4] pès narcosoapes, tpimnatiov pediuveav tò Feros Exaotov. di dì naoo Yi di 16 Atovboa terpanatiov dixa pediuvor xad- diyos tò Féros Euuotov. fotdtoapes di nat Gprs. Ért pev tas , > e x EA | ZU , ” \ U m)evprados Gv Éva pév Éni t6 avtiuo to nap Iavdoctay 2 A NONE , 3.1 , ‘ \ - x \ / to map tà “Hpodea té cpisovtos tav te iapav yav nat tav Fidi, avyopizavtes amò tav dnopo@v ès tov Fidizv yàv, dis ph xaralv- puoroiis dOniwdetn nadòs toi funpoada Gpor. dXxov dî Ent t6 av- , pa \ \ Y tipa cò map ta Pivtia Gypovtos fotaoopes noao tav Bufiiav nat 60 65 70 75 80 166 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA Tày drspvya dvfopitavtes soabtos és tav Fidlav Yav. d- ws di avtopws tovtors fotudoaues, Ent tas auabità tas Ùa to ya- padeos &yoacas tds Tap tòv Apujòv, tas pév otaias È Tav iapay qav, tos dî avropws és tav Fidiav yav natalimavies Finatimedov avtopov. Eotuouues dì nat pecoipos, lo pév Ent tas 006 tds ayooas în te noltos nat Ex Iavdocias dia TOI iapov yopwv, dle ds Év taîs aupooripiars. toltws mavtas av edSvwpetav Guo)d- pas diatdos, tws pev és tò iupòv mioyos tò aviiua Entye- qpappévos tupòàs Atoybaw yopav, tas di ev t& Fidia ya éri- qeypappévas cvtipns. doaltos di at Ent tò aviiuo cò nop ta Divria Gyovtos Éotudoaues peoodpws, do piv Ént tds Gm tas én moltos nat Ex Mavdootas dyooas dd t6v fap yopwv, do di Ent TAV dupornipiàv UCI tas cvpelus. toltws mavtas Cpoidyos av edSvapelav toîs Ent tas cdò ds dia t5 yapddeos &ysous ndo tòv dpvpòv, tòs piv é tò iupòv n)dyos Ervpejpappévas lapòs Atovioo yopav, Tòs de és tav Fiò:- av av Envjejpappévos avtipas, anéyovtas an’ dIiatiav ds fi pev Fruatizedov @vtopov. Ent di T&S tprunovtanida TGS dia tov i apòv yopav ayo©oas Ent mev tas mievorados &vw dio areyovtas an @ì- far XP yWTAS 122 S (o Ss XV S QI \x)mv torcuovta nodas. Us de avtipwg tovtors Endeaues mdp x ENI X \ x \ »” , Deer) dg d , mov GÒ6v tav ndo tòv dovpòv Kyocav dio dnéyovtas Ur° cXXaXwy mpidsoviu modus. èv de péoow Tò yopo Ent tas tpranovtanido té- DEN II , Ka \ , , i \ topas unéyovtas an a\\a\mv d pev tprcnovia modas & dì Fixa- 2_\_ qi SI ) n x x , , DASND DITIBRTORI TI. ENI dE TO AVTO[LG) TO TAP TAV TPLAROVTATEDOV do UTENOVTAS am Xh- XaXmy Fiuazi modas, nat AXMws ERI TÒ Cevtéow dvrouo dnéyovtas DIM lO. , , , Ù , È) n DOT un c\Natiav Fixuti nidas, tovtas avis AVERIYPORDS Opisovtas tds pepetas tds not di\aiws toîs pelo dmpévors tos lapòs yo- pus. tòs di mavtus ydpas tòs tò Atovbom teppafovit toi te @vropot 6 te nap ta ‘Hpoodea ayav nat è map tà Divtia dnÒ tav anopoîv ava- Sa aypi és motapuòv tov “Axtpev. aprdpòs opwv Tov Eotcoaues TV pv \ - 2 , ” DI Ne: I € \ x DSi I) - , ni To avtouo to mao tà ‘Howdera ente oÙv TO Ent tas Tievpiados, è dî tas tpranovtunedo OUTO GÙV TO Terpwpm, Ent di TO avtouw al a st \ n > , , >” DI e 2) È) \ \ ” TO Te ndo Tav Toranovtamedov nat tò Eyopévo Oo Ép° enatepw, Ent de 16 ndo tà Divtia EntR av T6 mao tav fufiivav pacyadav nat mao tav di T d°) T CASETTE , L t5 pl X f WpvYx. 100 110 115 ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 167 FuvIrixa Atovica yopov. “Ent éoopa ’Apiotiavos, pavòs ‘Areìaiw. è molis nal tol molavepot ds Borovs Tiop- zos Nexcvos, Fe avScpov ’AroxAesvtos "Atollo, xat tot oprotat Fe tpimovs Didevv- pos Zarvpioro, ne rapluetor ’Aro\Aevtos “Hpax}itw, ai nédza AaGios Hoop, x) dpivab Delstas ‘Totila, pe ertotbàiov ‘Hpaxdeldas Zoripa, puodovie tòs i- \ I e \ ” A , DI. e LA Di \ , 5 Si N Wo, CS) Ò 1 apds yopws tds to Arovbaw Eyovtas cs Egovii zara io, naSa toi ‘Hpardeîor dit , E) , U quov. toi de pioSwodpevor ruprevodvia: Tov del ypovov, cs xa TIWYJÙWS TOTAYtv- iL x > 9 ti, xa tò piodopo anodidovie map Firos del Mavapo puvòs mpotepela, natk sumoocìa > , 7 , 3 \ LU G x a J, - s DS atodivavi. anaEgvit és tòv dajidorov poyov, al nappetpaodvie toîs ortayiotats toîs DEN n z LI , x I N CI ci Si 7? 0A ent tv Fertov tò dapooto yol pueotws TOS yods upidds nodapàs doxtipas, oias xa d JR , 1 \ U 9) , PEMIOI TIN UOCM _ , 9/ Ù pépr. rotabcvit de mpaoyybwas toîs TolLavapots toîs det énl tv Feréov ivtaonI» map e , © e / x ’ , \ D7, J ” revtactnpida, ws xa ESelovtes tot moltevopor dermviai. nat al TIVE ua @Ìo napdavi tav yav, dv na abtol peaiocravia:, A «prboavit Î arodovtar tav è- \ ( y ita > rimapriav, av’ ada ta napétovtar Tpayjias oi TapàoBevtes, i cis x aprion n ol mp , x > , 2/R 00) {aj v e > > - , e ’ Y opevor Toy enimapriav, dv’ È nal è EE apyàs pepirdmpevos. Gotis de xa pù Li LA ROTA Ya Tpoyyi- DI \ LI / 2 - \ , LI , 2 - ws, Ù pu tò piodopa anodido natta yeypaupéva, to te pioSapa dimdeî anotercei tò ént 6 Fe Teos, nat tò auro)npa toîs te moltavopars nat toîs oltayeprars toîs cel Eni Tò Féteos, G07m na ” \ \ DS pelovos aupuodoSi map mevte Fitn to npara, 6 ti xo teléin daprader Gua TAV TO mpdTÒO \ _ DAI \ = uirdopat: nat ta Èv TA Y% meputevpeva vat cinodeunpeva mavta tas mo.Los eogevtat. Eoyatov- È DI n 7 \ Ù tar dî nattade. È piv tv mpatov yopav pucdocduevos Tòv map Tov Gvtomoy LI e \ , tov Unep Iavdoct- 20 ; 4 x \ ‘H 50 DITA pa 3 29 > 2) 5 NY LE I as Gyovta tiv nap ta ‘Hpod[er]a aypi tas tpranovtanido, apne)oy pev outevoei pa peiov N dexo , LI -_ x AE) n I \ - e , \ n DI , È) \ cyotvas, EXarav de guta Epfalet Es tav oyoîvov éndotav pa astov A terapa és Tav -_ - NI ici duvatay yav élalas Eyev. at dé na pn opavti to pepuodopévor duvatav Viper flalag è- 120 130 168 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA \ Ù x DI N - F , d \ tJÀ , DI x ysY, Tot moàtavopor tot wet Eno Toy Ferewv evtes, nat at civas na Gdws tot notavopor Todé- N DIN _N/ È) ’ PEA Ni1de9. , È) 2a / , x devrat amò To) daro, opuoaavtes doxunaEovii al avavyertovtt Èv alla, Suoduevor tav n \ ” _ q@v noTt4v TOY ERiYopiov. empenooviai di not tiv Vrapyoviav devdpiav, ai de TIVA XU i INESRA A do , CA Da > o) € dn _ di , ? € da yiipa È dvéum Ennérwvit, aùtot sEovri. talta dé muvta rnegutevpéva nupétovi xul Evds- n O e È - tà r E) - , 1 , , PIA dimugra, Goou îv ta cuvInna yeypubatar, év tò néunto nat denutw Ferer anò to noteyeî Fe \ » }} E) 4 2 N/ \ 14 N y, NI. teos n Aprotioy epopedet. al de xa pù TeputebaWavTI RATTA Yeypappeva ratedinaodev ndo per Tav LIS , N/ , > I} ai \ \ e hi XY a) 3 ,1 , - éluluv dina Vous Gpqupia ndo tò putov Enuotov, ndp de tas aurédws dbo uvas E) î) \ dopuoio map Tav CS € / a\ I Ù \ DIA DS , + E) x oyoîvov Éndotav. tas de molravonas tws ent ta Fercos noSelopévas per avtòs alto and TO » , x o DI 1) I Li , I , , Y Oguo pù peiov n dena Uvdpas auototasda: na neovtebnwvii nuvta nATTAY CUVINRAYV, x \ , > , > , > I nio Li nat Twòs meputevnotas avyoopar és doypna, avypupev dì Gooa na mepurebacvie: > \ uv ada de Ta \ > , NV I \ I E) , \ E) I ua el TIVES NA PIÙ MEDUTELUDVTI NATTAV CUVvINRAV Avypapavto nat eneidodo ; o ta énibapi- x ’, Di »” , > \ , > DS DS , DI , sE a tà Yejpappeva notò di)w puodopati. at de tig xa emi n venn n vepn ti TOV Év TA lapa yÈ n TGV devdpewv te xonma di Ipadn i mp i Ko tr civatat, è peutodapevos ejdenatti- , pa \ , - tar cs [a|moXtotwy, nat 6 ti na dan adtòs cbeî. tac de tpagas tas dia tov popav pedoas nat TOS fows od natacnapavie oUde drucnapavie tO VOatt, oUdé EwepEavrt to Jdwp odò’ apepeov- E) , x \ \ pa ti, Gunodaplovii dî Gocunis xa desmvtar Td Tao Ta aÙtov Yyopia peovta. odde a \ x T4S Cbs tas ano- ederyimevas apucevii odde cuvepEovii ovde uwdvoovit nopeverdui. 6 ti de xa TOUTWYV TI moi- \ \ , x U \ IV DELA Da , 3 , WyTI Tap TAV cuvSnizav, tot modravap.or tot ces Ent to Fercos ermmataBa[àt ]ovti nat Caprmeoyti bn 7 7 , x a. >» DI x Si , DENSI Gypi © na agoporsiavie nattàv cvvSrinav. od novel dé tiv devdpewv odde Spavoti oddi nprwo:i 140 150 ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 169 La pa - , odde Ns addi Ev addi &Aos tivo, odde yavas Ino ndp tòs Undpyovtas oddî cappevoei O) ore, > 970. = STE Ia D) o DENSI DÒ >, al pù coca ua Év alta ta ya « pepiodotar otzodopiitar, odde tooròvas Év tà lapà y& nomoei, _ - \ n obdi KAov éarei. ai di più, Unddoyos Éociitar cis tav iapav yav dini». otuodo- puotitar de nat ot- uiav Év Toîs yospors tovtors, Bova, puyòv, cybprov. tov név fodva tò pev paros Fixari xal dvov To- ” 3 n > n _ dev, tò di edpos durò nat dexa modo, tov de aybpiov pi peîov TÒ pev pros onto nat déxa modav, tod pei D pa TÒ de edpos névte nat dena modav, tov de puyòv névte not dina nodav navta. tuta de mapebovit ctxo- 7 Y Ù i , > LS y, È) v x \ , dopnpéva nat atejgueva nai tedupapeva év Toîs ypovos év os nat ta devdpea dei neputevafiper. at de ui dinaciev mao uev tov Bodova EE uvas doyvote X0 dî TOv Kyvoto e più, xatedinaodev map pev tov Boova EE pvas dpupio, napo dî tòv ayupiov titopas puvds appupto, \ \ I \ - DI RI , n NI »I/ n 3 ” N DO 291 map dì tòv puyòv tpis pvas apyupio. tòv de Eliav tiv év toîs Opupoîs ovd: TAV Év toîs ozipors où nwian- covti ovdi xopovit odde eumpnogvie oddi @\ov éacivit. al de pù, Und)oyo ÉogovtaI naTttAS fnitpas Li Y , > \ \ > y, lp) Pa, > Y È) \ ” ual NRTTAv ovvInizav. È de ta Emotmia ypnodviai El)ots ÉG TAV otmodofuav cls xa driumvtar nat Èg tds i > S ti 9 , © DISC SUIDINOZ > / pa \ , apréiws, ov de Enpov novévii dara adtoîs Tot otuiav és ypetav, toîs de oxtpors nat toîs dpupuoîs yon- , r , DI N )_- , (LÀ (LÀ , CI Li , covtat tot puodmcguevor av tav alto pepida Enuotos. dogai dé no tav Runé)av n tv devdpéav aro- prpdowvit, dnonatactaggvit tot nuprifopevor cis Ypev tòv icov aprSpov det. ody Unoypabovie DÈ TOS Yopos tolros ci pucdocdevor ovdi tia cicovii alte tov Yopav odte tas Eriommodo- fed > LI \ e y > Pei x eJ, 9 NY , Ca , pas, ai de pù, Urodoyos Eociitar nattàs pritpas. al de tis na tv naprifopevor Utenvos Uywvos dno- Favn, TS molvos naoav tav inmagniav “iper. ai dî Y nò noléua &yFalnStovt vate pù eEfiuev Lì pe al a Tòs pepuodopevos napredendar, aviGodar tav pirSmowv, nadd na tot ‘HpaxAeic: drayvavit, zat pù mifpev Urolcjas pate adtbs prite TOS TpwyfÙws T6v Év TA cuvINZ@ YEYpanpevo». tòs de p@oyyd- Serie II. Tom. XXVI. 22 155 160 170 170 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA 0$ TÒs del yevopévos Renporyyvevafipev TGV Te pucdopatov nat tv eribapo patto nat T6v ap - - \ nwdapator val tav natadindv nai adtòs xal ta ypripata & na émuaprvpicavie, nat pù viper pote ap- now pure nalwdiniav pudî nat &ov padi Éva tporov tà node npaypara 7 mapéyev pndî tois U- \ n Ù Ù E) XY \ 2 \ co U e \ \ I nép T&S molios mpaocovtacet. i de pù, atedes vipuev. Aebtepos. 6 di ov Febtepov yGpov fuoSwoduevos D -_ Da \ Da naprevofitar an) tas tpranovtanéda tas dia tov TETpopwv ayooas Èrt tòv Uvtopov Tùv mpatov 6o- AA \ o ’ x , deva Ù È) - VINSE, x cos n el nat mpabei mavta nattav cuvInnav, nal Uno)gyos Éoofita nat autòs ual tot Tpwypuor 6 Ti xa \ Io x , }} e \ v , _ 7 pa modena narràv cvvSrxav. Tpitos. ò dî tèv tpitov y6bpov pioSwoxpuevos naprevofita: Andò Tò dv- Tousw TÒ avatepov TAS Tpianovtareda Tottov @vtopov Tov deltepov amò tags Tprarovianida nat LS I x , € € y 3 CS \ bj \ \\ \ , npabeî navta nattdv GUvINIRAY, al Umodoyos Eoofitut nat abtos nat to npowyyuot OT xa pia no E \ CHE Tér va UNI \ 2 o ” 9 , 2 , n nattav cuvInnav. Terapros. 6 dè tOv Téraptov yépov pucdwocuevos nop te TO Toltavo- Ca TANO / > , \ LS > - x N - , n puoy tév Ent “Apiotimvos Epgpw nat TGV Gprotàv nat map tiv moltavoumwv TOV ent ‘Aptotdpyo t6 ‘Hpa- melda Eoopa ‘a dvicua Divizia to Divino ‘a eufolos ‘HpaxMetda tò Tipoxpdtios, noprev- & TA IS , pa) , DU A ) , IV x > x ofiTat anò ti) avtola To Tpito Umò tas tpranovtameda Enl tÙv @vtopov tv opisovta tos te tò Ato- LU td \ N )) e , - e NEO?) 3 ” x vicw yopos nat ta Duvrtas è Kparivao napowyeti. è di ave)duevos épyabtitar ta pev UAN AATTAY y, \ \I \ \ , N À) 3 L \ e I ovvInizar, xadòs nat tos Momos yeypantar, tas de aurélos tas Unapyosoas > - © , Epyabfitar ds fperte- ota. Gora: di xa @uri)cav anopnpaoravit motigutevosi dote del Uncpyev toy (ov dprdpòv tav oyoivav tv viv Unapyovta Finati teropas ayoivas. at de pù, nponaddedineodo Òlo. pas dpqupio \ \ - Qu \ qa y \ \ , \ suor ) ndo tav oyoîvov Endotav. tas dî Elalas nat tds cvatas nat td Aia devdpea td Mipepa ta Ùncpyov- Yi 2 -_ LÀ I - v DÌ v , \ »” , ta navta év ta pepidi talta mepronatpeî vat meprnopei te deoueva, nat al tiva A PINETA È A na Apa 175 180 ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 17 via Esnitavii aronatuotacet pui, pelo TOv aprduòv tòv Unapyovtav, morigutevTeÌ dî xa fiala dv tà Wiz iuoldyas nolwv toîs Imaoyiviacir devdotors, nat tòv doruòv tòv X LA CHIAGYDOS TO S PX PEotsi, piSip. igov, nadms nat Èv ta > n./ , @ , \ Ito, CIMEOA en), È \ io cia cuvInna yeypanta. 6 ti de ua pu mpasn 6 ave)cuevos AUKTTAV GUVINZOV î pù év tols ypo- Vors Tois yeypappevors Unddofos Éoofitar tois moltavopors vat toîis artayeptats toîs ént cò [F]eteos, a\ e 55; SR I , D È) , Y , NUR VARIA N uados nel ev Ta «ia cuvInna yeypantat. at de xa tot roliovapot tol del Ent toy Fertov Evtes un moa- , x , IPASVI: È) , \ , , x Eoyti navta nartav cvvIninav, aùtot Uncdoyor Eocevtor nattav cvvInixav. “Ent todtors éuuoSo)oav- to tav piv rputav pioSmciv anò tv tò ‘Hphda pe nitro Bogprewv Drdolta nevtinovia nta pedt- pvwv xdddizos, nporyjvos to copatos pe aiotiov Apuas Dilota. tav de devtépav piodmcv d »” , ati , , r ” , epfoXos Adpapyos Diavipa terpoauovia pediuvav, Tpwypvos Tò odpares . . . Oecdwpos Oe- odaipw. tav de tpitav picd@cv Fe quiov INeotas Acoviiozo tpixovia névre pediuvav, Tpesyyvos » 4 = n >, , \ N , , i TÒ cuwpatos xv oparpatipes ’Apiotoda.os . .. .. Tàv de teraptav piodawcw «A \mTAproy Dilerros Diinmo dianatior éBdeprinovia onto pediluvov, Tpoyyvos tò coparos ne napiuetov "Arodavios ‘HpaxXito. Tpappateds Fe quiov ’Apiotodamos Zvppayo. Tapérpas Xaupéas Acpovos Nearo)tas. 10 15 20 172 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA TRADUZIONE Essendo Eforo Aristarco figlio di Eraclide mese Apelleo La Città e gli Agrimensori: Fe Zripode. Filonimo di Zopirisco, né Caduceo. Apollonio di Eraclito, or Pelta. Dazimo di Pirro, xv Tridente. Filota di Istieo, pe Epistilio. Eraclide di Zopiro. A Bacco. Gli Agrimensori Filonimo di Zopirisco, Apollonio di Eraclito, Dazimo di Pirro, Filota di Istieo, Eraclide di Zopiro, stati eletti per li sacri terreni proprii di Bacco, fecero Relazione qualmente essi piantarono i termini ed i limiti, e misurarono il corpo della tenuta, e la divisero in porzioni. Gli Eracleesi ne fecero deliberazione in una adunanza straordinaria. [ Relazione | Noi misurammo il corpo della tenuta cominciando dall’antomo che conduce sopra Pandosia e divide î sacri terreni dalla terra privata, sino all’antomo che limita î sacri terreni [separandoli ] da quello che possede Conea di Dione. Dividemmo la tenuta in quattro porzioni. La prima porzione dall’antomo, che conduce lungo gli Erodii. Lar- ghezza verso la Trentapeda, che conduce a traverso i sacri terreni. Lun- ghezza superiormente dai rivoli sino al fiume Aciri. In questa porzione furono misurati di terra coltivata scheni 201, di terra schirosa, non dis- sodata, e selvosa scheni 646 %. La seconda porzione. Larghezza dalla Trentapeda sino all’antomo primo. Lunghezza dai rivoli sino al fiume. In questa porzione furono misurati di terra coltivata scheni 273, di terra schirosa, non dissodata e selvosa scheni 500. 25 30 35 40 45 50 60 ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 173 La terza porzione. Larghezzza dall’antomo primo che [posto] lungo la [porzione] Zrentapeda conduce all’antomo secondo [partendo] dalla [strada] Trentapeda. Lunghezza dai rivoli sino al fiume. In questa porzione furono misurati di terra coltivata scheni 312 ‘/,, di terra schirosa, non dissodata e selvosa scheni 537 4. La quarta porzione. Larghezza dall’antomo secondo [partendo] dalla [strada] Zrentapeda sino all’antomo che limita la sacra terra [separandola] dalla privata. Lunghezza dai rivoli sino al fiume. In questa parte furono misurati di terra coltivata scheni 308, di terra schirosa, non dissodata e selvosa scheni 541 %. Somma di tutta la terra coltivata 1095 scheni, di terra schirosa, non dissodata e selvosa scheni 2225 %. Misurammo poi in un solo corpo l'isola adiacente alla terra non dissodata. Di tal terra si erano perduti di terra coltivata scheni 303%, di terra schirosa, non dissodata e selvosa scheni 435. Nella prima parte, che si stende lungo gli Erodii, di terra coltivata scheni 76, di terra schirosa, non dissodata e selvosa scheni 185. Nella quarta parte, che sî stende lungo î Finzii, di terra coltivata scheni 227 , di terra schirosa, non dissodata e selvosa scheni 250. Somma di tutta la terra che riacqui- stammo a Bacco scheni 738 /. Noi riacquistammo questa terra avendo fatto condannare davanti ai giudici, che conoscono delle cause entro trenta giorni, coloro che avevano renduta privata la terra sacra. Questa nel suo stato attuale fu affittata a vita da coloro, dai quali la ricupe- rammo, per 300 medimni cadun anno. L'intera terra propria di Bacco [fu data in affitto] per 410 medimni ed un caddico annualmente. Stabilimmo poi altresì ori [ossia termini]. Sulla costiera superiore uno nell'antomo, che va lungo la [strada] Pandosia e lungo gli Erodii, il quale limita la terra sacra dalla privata; ma dai rivoli noi rinculammo verso la terra privata, affinchè [V'oro ossia termine] interrato nella sabbia e nelle pietre non iscomparisse alla vista, come avvenne agli ori prece- denti. Un altro [oro] nell’antomo, che va lungo i Finzii, lo stabilimmo lungo la Biblia ed il fossato, rinculando parimente verso la terra privata. Altri antori [controtermini] corrispondenti a questi noi stabilimmo sulla strada carreggiata, che per l'arena mista a ghiaia e sassi conduce lungo la selva. [ Ponemmo] Ze stele [volte] verso la terra sacra, e gli antori [volti] verso la terra privata, lasciando un intervallo raso di venti piedi. 65 70 75 80 85 90 174 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA Stabilimmo poi anche messori [termini medii]. Due sulla strada, che dalla città [di Eraclea] e da Pandosia conduce a traverso i sacri terreni; e due sulle cime degli schiri. Tutti questi in linea retta , corrispondentisi fra loro. Quelli [volti] verso il sacro lato dell’antomo sono inscritti = Sacri dei terreni di Bacco =; e quelli [posti] nella terra privata sono inscritti = Antori =. Similmente anche nell’antomo che conduce lungo i Finzii stabilimmo messori. Due sulla strada, che dalla città [di Eraclea] e da Pandosia conduce a traverso î sacri terreni; e due sulle cime degli schiri lungo le formaggiere. Tutti questi corrispondenti in linea retta a quelli posti sulla strada, che per l'arena mista a ghiaia e sassi conduce lungo la selva; quelli [volti] verso il sacro lato sono inscritti = Sacri dei terreni di Bacco, quelli [volti] verso la terra privata sono inscritti= Antori=; sono distanti fra loro così da esservi un intervallo raso di piedi venti. Quanto alla Trentapeda, che conduce a traverso i sacri terreni, ne [piantammo] suZla costiera superiore due distanti l'uno dall'altro piedi trenta, e stabilimmo altri antori [corrispondenti] a questi lungo la strada che conduce lungo la selva [cioè] due distanti l'uno dall'altro piedi trenta. Nel mezzo poi di [questa] parte, sulla [strada] Zrentapeda ne [stabilimmo] quattro distanti fra loro dove piedi trenta e dove piedi venti. Sull’antomo, che [si stende] lungo [la parte] Zrentapeda ne [stabi- limmo] due distanti fra loro venti piedi, ed altri sul secondo antomo distanti fra loro venti piedi, tutti questi privi di inscrizione, siccome quelli che limitano fra loro le parti assegnate ai conduttori dei sacri terreni. Tutti poi i terreni sacri a Bacco sono limitati dagli antomi, sì da quello che conduce lungo gli Erodii, e sì da quello [che conduce] lungo i Finzii, [amendue] dui rivoli che stanno superiormente sino al fiume Aciri. Il numero dei termini che piantammo [è il seguente]. Sull’antomo che conduce lungo gli Erodii sono sette, compreso quello sulla costiera. Sulla Trentapeda otto, compresi i quatiro. Sull’antomo [che si stende] lungo [la parte] Zrentapeda, e sul seguente, due per ciascuno. Sull'antomo [che conduce] lugo i Finzii sette, compreso quello che sta lungo il biforcamento Biblino ed il fossato. 95 100 105 110 ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 175 Convenzione dei terreni di Bacco. Essendo Eforo Aristione, nel mese Apelleo, la Città ed i Polianomi: as Grappolo. Timarco di Nicone, Fî Fiore. Apollonio di Apollonio, e gli Agrimensori: Fe Zripode. Filonimo di Zopirisco, ne Caduceo. Apollonio di Eraclito, a Pelta. Dazimo di Pirro, xv Tridente. Filota di Istieo, pe Epistilio. Eraclide di Zopiro danno in affittamento i sacri terreni di Bacco nello stato in cui sono, a vita secondo che gli Eracleesi giudicarono. I conduttori godranno dell’usufrutto per il tempo successivo sin che presenteranno fideiussori, e pagheranno il fitto ciascun anno nella prima decade del mese di Panamo, ed anche se prima abbiano mietuto. Condurranno [il fitto] al pubblico Granaio, e ai Ricevidori del grano, che saranno successivamente în uffizio, misureranno col congio pubblico congii pieni d’orzo puro, di buona qualità, quale la terra produce. Presenteranno ogni quinquennio ai Polianomi, che saranno via via annualmente in wffizio, fideiussori, che sieno a giudizio dei Polianomi accettati. Che se a qualsiasi altro tramandino la terra, che essi avranno affittata, ossia artinandola [af&ittandola per a tempo], ossia vendendone l'usufrutto [perpetuo], è subentranti, o sieno artini, o sieno compratori dell’usufrutto, presenteranno fideiussori alle stesse condizioni del primo conduttore. Quello [dei subentranti], i quale non presenti fideiussori, e non paghi il fitto secondo la scrittura, costui ai Polianomi ed ai Ricevidori del grano attualmente in uffizio doppiamente pagherà il fitto annuo [imposto nella scrittura] e la rivendita per quanto di meno [il podere] sarà stato riaffittato per li primi cinque anni, il che verrà determinato per pubblica deliberazione, in un col primo fitto; e tutto ciò che sarà stato nella terra piantato ed edificato cederà alla città. [I terreni] saranno coltivati come segue: Quegli che affittò il primo terreno, che [si stende] lungo l’antomo 115 120 125 130 135 176 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA conducente sopra Pandosia e lungo gli Erodii sino alla Trentapeda pianterà di viti non meno che dieci scheni. In ogni scheno porrà non meno di quattro piante di olive nella terra confacente agli olivi. Che se dicano che i beni affittati non sono conducenti a ricevere olivi, i Polianomi che saranno nell’annuale uffizio, e quelli altri che dai Polianomi saranno scelti fral popolo, dopo avere prestato giuramento, esamineranno la cosa, e ne riferiranno alla pubblica adunanza, facendo confronto della terra con quella dei vicini. Avranno anche cura degli alberi domestici esistenti; che se alcuni cadano o per vecchiezza o per vento, saranno proprii dei conduttori. Tutte queste piante, e quante verranno scritte nella convenzione , i conduttori le daranno piantate ed esposte al sole nell’anno decimoquinto successivo all’ eforato di Aristione. Se poi non avranno piantato secondo la [presente] scrittura, sieno essi condannati quanto agli olivi a dieci monete d’argento per ogni pianta, quanto alle viti a due mine d’argento per ogni scheno. I Polianomi eletti ogni anno, e con esso loro cittadini presi fral popolo non meno di dieci invigilino se abbiano piantato il tutto secondo la convenzione, scrivano nel registro î piantatori, e scrivano quanto abbiano piantato. Similmente se alcuni non abbiano piantato secondo la convenzione li scrivano, ed intimino loro le ammende prescritte, oltre al fitto. Se alcuno invada, o coltivi, od esporti alcun che nella sacra terra, oppure tagli, o ferisca, o seghi alcuna parte degli alberi domestici, ovvero cagioni altro menomo danno, il conduttore ne prenda vendetta come da ladroni, e quanto prenderà sarà suo. Quanto ai canali che corrono per li terreni, ed ai corsi d'acque, non li scaveranno nè profondamente nè di traverso all'acqua, neppure devieranno o rinserreranno l’acqua, ma purgheranno quante volte faccia di bisogno i corpi di acque che passano per li loro terreni. Le strade aperte al pubblico non le danneggeranno, nè restringeranno, nè impediranno il passare per esse. Qualunque di tali contravvenzioni commettano i conduttori, i Polia- nomi annuali cadano loro addosso, li multino insino a che si sieno uni- formati alla convenzione. Degli alberi domestici nè il conduttore nè altri per lui taglierà neppur un ramo, nè li ferirà, nè li segherà. Non farà alzate di terra oltre le esistenti, non scaverà sabbia se non per quanto gli occorra nel fabbricare 140 145 150 160 ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 177 nella terra da lui affittata. Nella sacra terra non farà cavità alcuna entro il tufo, nè lo permetterà ad altri; altrimenti ne renderà ragione come violatore della sacra terra. Fabbricherà eziandio una casa in questi terreni, un bovile, una rimessa ed un pagliaio. Il bovile sarà lungo 22 piedi, largo 18; il pagliaio non meno di 18 piedi in lunghezza ed in larghezza piedi 15; la rimessa piedi 15 per ogni lato. Daranno ciò fabbricato, coperto e munito di porte allo stesso tempo che gli alberi domestici debbono essere piantati. Altri- menti sieno multati in sei mine d’argento per il bovile, in quattro mine d’argento per il pagliaio, in tre mine d’argento per la rimessa. Degli alberi che sono nelle selve e di quelli che stanno negli schiri non venderanno, nè taglieranno, nè brucieranno alcuno, e non lo per- metteranno ad altri. Altrimenti ne renderanno conto secondo le pubbliche leggi e la convenzione. Per le capanne si serviranno nel costrurle di legni che dichiareranno, come pure per le viti. Dei legni secchi taglieranno quanto loro occorre per il bisogno di casa. Degli schiri e delle selve si serviranno ciascuno nella porzione a lui spettante. Quante viti e quanti alberi domestici invecchino, gli usufruttuarii li rinnoveranno così che sempre ne sia eguale il numero. I conduttori non sottoporranno ad ipoteca questi terreni, nè soppor- teranno multa alcuna che colpisca i terreni o le fabbriche; altrimenti ne renderanno ragione secondo le pubbliche leggi. Se alcuno degli usufruttuarii muoia senza prole e ab intestato, l’intero usufrutto spetterà alla città. Se poi per guerra sieno cacciati così che non possano fruire dei beni affittati, sarà l'affittamento rescisso secondo che gli Eracleesi deli- bereranno, e nè essi nè i fideiussori dovranno render conto degli obblighi prescritti nella convenzione. I fideiussori, che via via si succederanno, saranno mallevadori dei fitti, delle multe, delle rivendite, e delle condanne, [le malleveranno] sè colle loro persone e sì coi loro beni che avranno professati; non ricor- reranno nè a negazioni, nè a revisioni di giudizio, nè in qualunque altro modo daranno molestia alla città, ed agli agenti della città. Altrimenti la cosa sarà nulla. Secondo conduttore. Quegli, che affittò il secondo terreno usufruirà, dalla Trentapeda, che conduce a traverso i quattro termini sino all'antomo primo, di esso qual è, ed eseguirà tutti gli obblighi secondo la convenzione. Serie II. Tom. XXVI. 23 165 170 175 178 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA Sì esso e sì î fideiussori dovranno rispondere di quanto non avrà fatto secondo la convenzione. Terzo conduttore. Quegli, che affittò il terzo terreno, usufruirà dal- l’antomo che sta più su dalla Trentapeda sino all’antomo secondo dalla Trentapeda. Egli eseguirà quanto sta prescritto dalla convenzione, e sì esso come i fideiussori dovranno rispondere di quanto non avrà fatto secondo la covenzione. Quarto conduttore. Quegli, che affittò il quarto terreno, sì dai Polia- nomi nell’eforato di Aristione, e sì dagli Agrimensori e dai Polianomi nell’eforato di Aristarco figlio di Eraclide, [i quali erano] « Fiore, Filo- nimo di Filonimo,‘& Chiavistello, Eraclide di Timocrate, usufruirà dal- l’antomo secondo dalla Trentapeda sino all'antomo, che limita i terreni di Bacco e quelli che possede Fintia di Cratino. Quegli che l'ha intra- preso eseguirà gli altri obblighi secondo la convenzione, siccome stanno scritti per gli altri, ma [inoltre] coltiverà le viti esistenti con somma diligenza. A quante viti invecchino ne sostituirà altre, cosicchè l'attuale numero degli scheni si mantenga sempre uguale a scheni ventiquattro ; altrimenti sia condannato a due mine di argento per ogni scheno. Gli olivi, le ficaie, e gli altri alberi domestici e tutti ora esistenti in questa porzione egli li scalzerà e li rimonderà convenientemente; e, se alcuni cadano per vecchiezza o per vento, li ristabilirà nel numero non minore dei presenti. Pianterà anche olivi nella terra nuda, e li terrà conforme agli attuali alberi domestici, e nel numero uguale a quello che altrove sta scritto în questa convenzione [sta scritto in altro articolo di questa cenvenzione]. Di tutto ciò che l intraprenditore non farà secondo lu convenzione, oppure non nei tempi prescritti, ne renderà conto ai Polianomi ed ai Ricevidori del grano annuali come sta scritto altrove [in altro articolo] in questa convenzione. Se i Polianomi che via via si succederanno ogni anno non eseguiranno ogni cosa secondo la convenzione, essi ne renderanno conto secondo la convenzione. A questi patti presero in affitto: 180 il primo affittamento [cominciante] dai beni di Erode pe Cassetta. Bormione di Filota per cinquantasette medimni ed un caddico. Suo fideiussore del corpo ue Cassetta. Arcade di Filota; ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 179 il secondo affittamento ‘« Chiavistello. Damarco di Filonimo per quaranta medimni. Suo fideiussore del corpo ....... Teodoro di Teodoro; il terzo affittamento F: Membro. Pisia di Leontisco per trentacingne medimni. Suo fideiussore del corpo xv Cintolini. Aristodamo .....; il quarto affittamento 185 a), Bagnuolo. Filippo di Filippo per ducento settantotto medimni. Suo fideiussore del corpo ne Caduceo. Apollonio di Eraclito. Scriba Fe Membro Aristodamo di Simmaco. Geometra Cherea di Damone Napolitano. 180 LÀ PRIMA TAVOLA DI ERACLEA NOTE Linea 1. "Eqopos “Aptotapyos. Come in tutte le colonie spartane, così in Eraclea, il supremo Magistrato portava il titolo di Eforo. Dopo lui venivano due Polianòmi suoi ministri, che ai tempi di Platone [Epistola XIII ] troviamo pure nella dorica Siracusa. Tutti e tre erano annuali, e l’Eforo dava il nome all’anno. Il Mazochi, leggendo in capo della Tavola il nome dell’Eforo Aristarco, e poi più sotto lin. 95 trovando in capo della Zvv3x« il nome dell’Eforo Aristione, stabili che Aristarco ‘avesse nell’eforato preceduto Aristione; mentre la cosa sta appunto al contrario. Infatti la linea 165 attesta che Filippo di Filippo, aspirando all’affittamento, si presentò sì aî Polianòmi dell’ Eforo Aristione, e sì a quelli dell’ Eforo Aristarco, dando così la precedenza di tempo ad Aristione. Se l’anteriorità dell’uno sull’altro fosse un argomento di mera curiosità erudita, io starei contento ad aver citato il testo della Tavola; ma, siccome il dotto Napolitano, venendo a spiegar questo testo, enunciò tal sistema, che turba tutto l’ordine del procedi- mento sì amministrativo della città nel dare l’affittamento, e sì notarile del Tpappareds nel comporre l’instromento finale, io credo di dover rintegrare la giusta verità. Il procedimento amministrativo della città fu il seguente semplicissimo. Aristione sin dai primi mesi del suo eforato aveva nominato cinque Agrimensori, affinchè procedessero alla misura dei terreni di Bacco, ed alla loro divisione in quattro parti più facili ad affittarsi che non l’intero podere. Gli Agrimensori non solamente, come mercenarii, trattavano la canna misuratrice, ma ancora formavano un ragguardevole collegio pre- sieduto dal loro capo detto Taperpes lin. 187, il quale con essi sedeva giudice nelle cause di limiti e simili. Essi però compilarono due scritture, la relazione e la ZvvSvixa. Nella prima riferirono la misura della tenuta di Bacco da ssi eseguita, enumerando anche i termini che piantarono ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 181 sì per separarla dai fondi altrui, e sì per dividerla in quattro lotti. Nella seconda, intitolata ZvvSrixa patto, convenzione, proposero le condizioni dell’affittamento , ossia gli obblighi dei conduttori. I Polianòmi, come ebbero ricevute e rivedute le due scritture, le sottoposero alla sanzione del popolo, che le approvò in una adunanza straordinaria del mese Apelleo [lin. 11, 95, 98]; anzi, come io avviso, ne' primi giorni di tal mese. La pubblica sanzione equivaleva alla pubblicazione dell’emfiteusi, e Filippo di Filippo presentò sollecito ai Polianòmi la sua offerta come conduttore della quarta porzione; fu gradito ed ottenne parola di essere come tale proposto al popolo. Aristione co’ suoi Polianòmi aveva sino a questo punto condotto il negozio da lui iniziato, quando, siccome io congetturo, nello stesso mese volgente verso il fine scadeva il suo anno di supremo Magistrato, e gli succedeva Aristarco co’ suoi Polianòmi Filonimo ed Eraclide [lin. 166]. Tosto ad essi si rappresenta Filippo rimostrando di aver già dai loro predecessori ottenuta l'approvazione di quarto conduttore, e questa gli viene confermata. Accorsero pure Bormione, Damarco e Pisia [lin. 180 sg.] offrendosi conduttori delle altre tre porzioni, e vennero graditi. Ma le accettazioni dei Poliandmi dovevano essere sottoposte al voto popolare; epperò essi deferirono alla pubblica assemblea i nomi dei quattro con- duttori, quelli dei quattro loro fideiussori, ed i quattro fitti convenuti. Il popolo approvò. Rimaneva che Aristodamo Tpapparevs, Notaio della città, convertisse in pubblico istromento la finale deliberazione. Questa supponeva, come sua base, le precedenti due deliberazioni preparatorie, dico la relazione degli Agrimensori e la XvvSx2 ossia le condizioni dell’emfiteusi; il Notaio doveva inserire amendue gli atti, e li inserì. Stando egli per dar principio alla sua scrittura ne premise il titolo, scrivendo: Eforo Aristarco figliuolo di Eraclide. Mese Apelleo. La Città e gli Agrimensori [seguono i cinque loro nomi] 4 Bacco. Il nome di Aristarco Eforo nota l’anno e l’autorità dell’instromento. Apelleo segna il mese, manca il giorno, che, per mio avviso, apparteneva alla sua seconda metà. Il vocabolo Za Città annunzia una deliberazione del po- polo. Gli Agrimensori dichiarano il dicastero al quale spettava la speciale cognizione del negozio. Tutti questi nomi sono nel caso nominativo, sottintendendosi loro il verbo essere. Il dativo a Bacco qualifica la cate- goria sacra dell’instrumento. 182 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA Premesso questo titolo, il Notaio narra che i cinque eletti Agrimensori, dopo aver compiuto il loro mandato, ne fecero relazione, che fu approvata dal popolo. E senza più il Notaio la trascrive cominciando dalle parole [lin. 11] Noi misurammo il corpo della tenuta, e prosegue dividemmo .... Riacquistammo .... Stabilimmo, ecc., e così sino al fine lin. 93, cioè inserì il testo medesimo della relazione degli Agrimensori. Colla linea 94 immediatamente il Notaio prosegue a trascrivere la se- conda preparatoria deliberazione del popolo, intitolata XvyS1xe, contenente le condizioni dell’affittanza, la quale comincia, lin. 95: Essendo Eforo Ari- stione nel mese Apelleo, la Città ed i Polianòmi....e gli Agrimensori.... danno in affitto i sacri terreni di Bacco .... secondo che gli Eracleesi giudicarono. Le condizioni dell’affittanza furono certamente dettate dagli Agrimensori, i quali conoscevano per minuto quei terreni, ed i loro bisogni per essere ridotti a migliore coltura; rivedute poi dai Polianòmi furono da essi e dagli Agrimensori proposte al voto dell’assemblea. Come vennero approvate, allora solamente il Notaio poteva scrivere che la Città unitamente ai mominati uffiziali dava in affitto con approvazione del popolo i sacri terreni. Premesso questo preambolo del Notaio, segue l’enumerazione dei patti dell'emfitensi sino alla linea 179. Fra i patti manca e mancar doveva l’annuo fitto, che ciascuno pagare dovesse. La 2vySNzxx invitava soltanto i cittadini ad offerire i loro partiti ai Polianòmi, i quali li avrebbero esaminati, e giudicandoli convenienti li avrebbero sottoposti all’approvazione del popolo. Finalmente nella stessa linea 179 il Tpappateds enuncia ed autentica la definitiva deliberazione del popolo, scrivendo: A questi patti presero in affitto, e registra i nomi dei quattro conduttori, quelli dei loro fideiussori, ed i fitti convenuti. L'atto è sottoscritto da Aristodamo Scriba, e da Cherea Geometra come Preside del collegio degli Agrimensori. Esso adunque è un instro- mento debitamente rogato. Ma ogni instromento comincia dall’anno nel quale si stipula. Epperò le prime parole della Tavola Eforo Aristarco, mese Apelleo, annunziano la data dell’atto notarile. Se poi alla linea 95 in capo della XvvSvxz si incontra il nome dell'Eforo Aristione, così esser doveva, perchè tal atto era anteriore all’instromento finale. Tal fu il procedimento amministrativo della Città, e quello del Notaio, semplici amendue ed esatti. Si fu appunto nel formare l’analisi della Tavola, che io m’avvidi dell'errore del Mazochi. Egli, leggendo citato due volte il mese Apelleo, ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 183 primieramente sotto Aristarco, poi sotto Aristione, giudicò che tal mese appartenesse a due anni diversi. Io risolvo la difficoltà congetturando che verso la metà di tal mese scadesse l’anno civile dell’eforato. Ciò non poteva a meno di accadere in quelle città, nelle quali l’anno astro- nomico era lunare con intercalazione d’un mese, ed all’anno civile, epperciò all’eforato, dava fine e principio uno degli equinozii o solstizii, come generalmente in tutta la Grecia. Ora il mese Apelleo de’ Macedoni, che corrisponde al nostro dicembre, ed un'iscrizione di Delfo, che qualifica l’Apelleo come il primo mese del primo semestre, già ci avvertono che in tale mese il Sole entrava in uno dei quattro punti cardinali (1). Ma un'iscrizione di Taormina (2) più precisamente ci insegna che Apelleo era il terzo mese dell’anno, e siccome la stessa iscrizione cita l’Apelleo primo e l’Apelleo secondo, ci insegna pure che esso dava anche il nome al mese che si intercalava ogni triennio. Dalla Sicilia trasportiamo in Eraclea della Magna Grecia tal calendario coll’intercalazione triennale, ed intenderemo siccome il principio dell’anno civile e dell’eforato dovesse essere vagante nel decorso di Apelleo. Agli argomenti di probabilità io aggiungo quello, che deriva dai gravi sconcerti, quasi dissi assurdità, inerenti al sistema dell’erudito Mazochi. Secondo lui, Aristarco nel suo mese Apelleo avrebbe proposta al popolo la misura dei terreni, ed ottenutane l’approvazione, poi avrebbe accettata l’offerta del sollecito Filippo. Ciò fatto, il negozio dell’affitta- mento avrebbe dormito il lungo sonno di undici mesi, insino a che Aristione, Eforo successore, lo ridestò appunto nel suo mese Apelleo, cominciando a proporre la Zvv3vize all'assemblea. Ma questa non era forse una scrittura degli stessi Agrimensori, e connessa così colla misura da essere presentata in una sola adunanza? Reca meraviglia un sì lungo intervallo di undici mesi, e così precisa coincidenza nel mese. Se non che la meraviglia cresce sino a raggiungere l’incredulità, quando ci si narra che, appena approvata sotto Aristarco la misura dei terreni, Filippo si presentò ai Poliandmi come conduttore e fu accettato da essi. A quali condizioni? Alle condizioni che furono poi undici mesi dopo compilate, proposte ed approvate sotto Aristione. Se sotto la cappa del cielo esistesse tal dissennato, che si sobbarcasse ad un'impresa senza conoscerne i patti, (1) Corpus Inscr. Graec. vol. I, pag. 814. (2) Ivi, vol. III, pag. 641. St 184 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA il Magistrato almeno non lo avrebbe accettato, ma Filippo fu accettato. Da ultimo Aristodamo scriba della città, quando scrisse che Filippo si rappresentò sì ai Polianòmi di Aristione e sì a quelli di Aristarco, avrebbe errato nella precedenza di tal tempo, nel quale egli viveva e compilava verbali, instromenti ed atti di ogni sorta. La mia congettura acquista probabilità anche per l'assurdità del sistema Napolitano. Linea 3. Fi tpirovs. I nomi dei cinque Agrimensori, come quelli infra citati dei Polianòmi , lin. 95, 166, degli affittuali e loro conduttori, lin. 180 sg., come quello dello Scriba, lin. 187, sono tutti preceduti da sigle varie Fe, xî, aî, xD, ecc., alle quali succede un vocabolo di cosa materiale, come tripode, caduceo, pelta e simili. Si crede che la sigla fosse l’ini- ziale della tribù, la cosa materiale fosse l'emblema della gente, alla quale apparteneva la famiglia della persona nominata. Così un cittadino era distinto per il padre, per la gente e per la tribù. All Eforo bastava il solo nome del padre. Linea 10. "Qpigav. Persuaso che gli Agrimensori avranno in questa loro relazione adoperati i vocaboli della loro arte, io li riunisco in questa nota per ispiegarli comparativamente. lo considero la tenuta di Bacco come un quadrilatero o come un poligono irregolare, il cui lato superiore si sten- deva dagli Erodii ai Fintii, e l’inferiore era bagnato dal fiume Aciri; chiamo poi laterali i due lati che dal superiore scendevano al fiume. Merptadv, lin. 18, 22, 28, 33, ecc., vale misurare con accuratezza il podere nelle sue varie parti interne. Zvpperpsiv, nella linea 38, e nella Tavola seconda lin. 8, 10, vale evidentemente misurare un podere come un iuito insieme, senza curare le parti onde si compone. Questa fu la prima operazione eseguita dagli Agrimensori di Bacco e di Minerva per riconoscere se le cose erano uadòs to apyaîiov yejevnpeva [Tav. II, lin. 19] nello stato primitivo ed antico, e tosto quelli di Minerva soggiungono la quantità di terra che mancava, dicendo che l’avevano ristabilita xart& «gyzîa [lin. 23]. Anche quelli di Bacco dicono [lin. 38] misurammo l'isola nella sua totalità, ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 185 mancavano scheni 303 ‘, ece., che salvammo a Bacco. Dunque la Città, quando consacrò agli Dei le due tenute, oltre al piantarne i termini principali, le aveva eziandio misurate, e ne conservava la misura in un catasto. Per eseguire tal misura del corpo intero, gli Agrimensori di Bacco qui dicono di aver cominciato dall’antomo primo, e condotto una linea sino a quello [certamente il quarto] che separava le terre di Bacco da quelle di Conea. La linea tirata, se fosse stata latitudinale , avrebbe rag- giunto i Finzi, se longitudinale avrebbe toccato l’Aciri; epperò rimane che fosse diagonale; tal essere doveva. Imperciocchè anche noi, dovendo misurare un poligono irregolare, tiriamo primieramente dentro esso una diagonale tra i due angoli opposti i più distanti fra loro, e la prendiamo come base; poi dai singoli gli altri angoli abbassiamo su questa base perpendicolari, che convertono l’area del poligono dove in triangoli ret- tangoli e dove in trapezii. Eseguita la misura di questi, la somma di tutti ci dà l’area del poligono. Noi chiamiamo ciò trapeziare un podere, gli Eracleesi lo chiamavano cvpperpev, dove il oùv nota l'insieme. Tepp.eSew, lin. 10, vale determinare gli estremi limiti del podere, ossia i lati del quadrilatero. Il vocabolo zéppe, che significherebbe il termine che rasenta il podere altrui, non si incontra nella Tavola, perchè lra la tenuta di Bacco, ed i poderi altrui stava sempre interposto un terreno largo venti piedi raso e neutrale, detto antomo, quando in sua vece non corressero o rivi, o strade pubbliche, o simili. Quindi a ragione gli Agrimensori scrissero, lin. 86, che i due antomi laterali repuaGovr limitavano la tenuta di Bacco, cioè facevano le veci di tipuera. All’in- contro nella iscrizione di Alesa della Sicilia [Boeckh. Corp. Inscr. III, pag. 612, sg.] invece di dpos sta sempre usata la voce 7égpov, che dpibet l’un terreno dall'altro. Secondo i paesi la terminologia variava. “Opos, che doricamente vuole lo spirito tenue, vale termine, limite. Era una lastra di pietra; quella delle due sue faccie, che era dirozzata e fatta acconcia per ricevere un'iscrizione, chiamavasi ot4)n, lin. 61. To conserverò il vocabolo oro. Nel piantar gli ori gli Agrimensori cominciarono dalla linea principale, che dagli Erodii correva ai Fintii. Essa corrispondeva a quella che i Romani chiamavano decimana, dacchè, secondo la disciplina ricevuta dagli aruspici di Etruria (1), orientavano i terreni. Ma nulla di tale orientazione io (1) Hyginus, De lirzitibus, presso Goesio, Rei Agr. Script. pag. 150. Serie II. Tom. XXVI. 24 186 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA incontrai nella Tavola, e credo che la linea principale era indicata dalle circostanze locali del podere. La tenuta era stata ab antico consecrata a Bacco, e gli Agrimensori, persuasi che allora la Città vi avesse pian- tato un oro indicante la proprietà del Dio, lo andavano invano cercando, insino a che lo trovarono interrato nella sabbia e nel limo dei rivoli che vi correvano. Lo ristabilirono in capo alla linea principale, collo- candolo fuori del corso dei rivi, lin. 55, 57. Poi in fine della stessa linea piantarono un altro oro limitrofo colla stessa precauzione, lin. 57, 5g. Verso la metà dei due lati longitudinali stabilirono pure due termini per ciascun lato, detti peoropo:, lin. 63, perchè segnavano la metà del- l'altezza del quadrilatero. Su tutti questi limitrofi stava incisa l’iscrizione Sacri dei terreni di Bacco, lin. 67, 74. Al di là di questi ori stabiliti sulle linee estreme correva il vacuo antomo neutrale, divisorio, largo piedi 20. I due possessori, che quinci e quindi confinavano con esso, dovevano a vicenda provvedere che l’altro allargandosi non usurpasse qualche parte dell’antomo intermedio; epperò ciascuno, dopo aver piantato l’oro sul limite del terreno proprio, piantava un @&vtopos, contro-termine, sul limite del terreno altrui. Tali sono gli antori delle lin. Go, 62, 68, 75, 78. La tenuta di Bacco si doveva dividere in quattro parti. La prima stava rinserrata tra la strada Pandosia e la Trentapeda, la seconda cominciava dalla Trentapeda, ma per separare la terza dalla seconda, e la quarta dalla terza, gli Agrimensori piantarono due ori sull’antomo di ciascheduna, lin. 82, 83, e ne stabilirono pure a metà della Trentapeda; ma questi privi sì d’iscrizioni, lin. 84, e sì di antori, siccome quelli che erano interni e per servizio privato. Gli antori distavano 20 piedi dagli ori, ed il terreno intermedio doveva essere sgombro, cosicchè fossero a vicenda visibili l'uno dall’altro, lin. 62, 76. Nel far la somma dei termini piantati, lin. 88, gli Agrimensori compresero sotto il vocabolo orz anche i messori e gli antori. ’OpiGetv vale limitare, dividere, separare per mezzo di un oro, e si adopera sia per li termini limitrofi, lin. 13, 32, 55, 167, e sia per li interni, lin. 84. Linea 12. Il vocabolo &vroos, doricamente per avatopos, fu da Esichio inter- pretato ozo)ot, palo, significato che quindi trapassò nei volgari nostri ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 187 lessici. Il Mazochi, dopo aver dimostrato che non era un palo, nè un fosso, nè uno steccato, conchiuse che era un Zimes agrarius. Poco diversamente il Kirchhoff, pag. 87, spiega grénrain; ed il Franz, pag. 706, accetta tal significato, soggiungendo modo putetur simul via esse. Tal definizione di limite agrario generalissima comprende tutti i modi pos- sibili per segnare un confine. Quando nella nostra Tavola gli Agrimen- sori scrissero, lin. 53 e seg., éot@o@ues Gpov èrt td avréuo, per certo non intesero dire di avere stabilito un Zimite sopra il limite agrario, ma evidentemente distinsero l’épos limite, dall’@vropos sul quale è pian- tato. Rimane però che io ne indaghi il vero significato. L'6pos termine allora si piantava, come di poi si proseguì a piantare, dentro terra, ed infatti uno di questi piantato dentro i rivoli rimase talmente interrato da non comparir più visibile, lin. 56, 57. Epperò 6 &vtopos, tagliato, sottintendendo yòpos, oppure 7oros, segna un terreno tagliato, ossia sgombro da ogni piantagione o coltura, sul quale pian- tavasi 1’ 4005, affinchè fosse visibile. Usato sostantivamente è uno spazio tagliato. Questo significato spicca evidentemente in due luoghi della Tavola, lin. 62 e 75, nei quali si incontra un Fixarimedos &vropuos. Nella nota precedente io dissi che gli Agrimensori sugli estremi limiti del sacro podere stabilivano un 3p0s termine, poi sul confine del podere vicino piantavano un @ytopos contro-termine, avvertendo nella loro Relazione per ben cinque volte, lin. 77, 79, 81, 33, 84, che il termine ed il contro- termine erano dréyovtes dn calar Fixati nodas distanti fra loro piedi venti. Per non ripetere la sesta e la settima volta queste stesse parole, gli Agrimensori nella linea 62 scrissero di aver piantati due 6po:, ai quali fecero corrispondere i loro &vropot, soggiungendo xatelimovtes Fraatimedov Gyropov, avendo noi lasciato un ferreno, ossia uno spazio di terreno tagliato, ossia sgombro, di venti piedi. Più chiaramente nella linea 79 scrissero aréyovtes dn datiav ds “iper Finatinedov &yropov, distanti fra loro così da esservi no spazio di terreno tagliato di venti piedi. Venendo ora agli antomi citati nelle linee 12, 13, 27, 54, 58, ecc., osservo che l'@vromos dateuve ed cpiSe taglia e limita i terreni di Bacco, ossia separandoli dai poderi di altri padroni, ossia scompartendo i sacri terreni in quattro parti. Li taglia realmente per mezzo dello spazio sgombro interposto, e li limita coll’6p05 che su questo spazio si pianta. Altre volte l’antomo &yer rort, ért, ndo conduce a, verso, lungo qualche luogo. Sarà egli dunque una strada? Grammaticamente non lo può essere, 188 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA perchè il suo genere sarebbe stato femminino, x &vrop.os, sottintendendo 6des. Ma come taglio, che apre un adito e quindi una via tagliata dentro la selva, può implicitamente comprendere la strada stessa; per certo il Fixatiredos avtopos delle linee 62 e 75 non era una strada. Gli Agri- mensori nella loro Relazione parlano di questi antomi come di aperture divisorie che essi avevano trovate già esistenti; giacchè ognuna delle quattro famiglie si era per uso suo tagliato l’adito e la via al terreno interno che coltivava. Essi solamente sull’antomo piantarono due termini distanti fra loro piedi venti [lin. 83, 84]. Ma ogni dubbio dee cessare a fronte del seguente passo della Tavola seconda. Gli Agrimensori ave- vano scompartito in tredici e più porzioni affittabili la tenuta sacra a Minerva Poliade, e, dovendo dare un libero accesso a ciascuna porzione, citano nella linea 65, t6v &vropov t6v diatauvovta tòs yopos, tòv érdpones în th Finatideteo é5 rorapuov, novòv not ypiicdar toîs TOS Lapos yOpos pepuod®- pévots, l’antomo che taglia i terreni separandoli, e fu da noi tagliato [partendo] dal Fixaridetov sino al fiume, affinchè comune serva a tutti gli affittavoli dei sacri terreni. Era un terreno, che il padrone tagliava ne’ suoi beni per servire di sua strada privata, lo tagliarono ad. uso degli affiittavoli perchè non esisteva. Quando le quattro famiglie andarono in varii tempi ad occupare i terreni di Bacco, vi arrivarono dalla strada Pandosia, ed entrando su quel margine dei rivoli, che divenne poi la carreggiata, penetrarono nella selva, dove ciascuna scelse un terreno più promettente. Ma altresì ciascuna non tardò a tagliarsi dentro la selva una strada, che dalla carreggiata mettesse al terreno trascelto. Questo taglio è l’&vropos, un terreno tagliato, che può essere o lungo di soli venli piedi, od assai più, e servir di strada. L’antomo dava adito sì per entrare e condursi nell'interno di ciascuna porzione, e sì per uscirne e recarsi lungo gli Erodii o sulla strada Pandosia, lin. 12, 14, 54. Non potendo io deter- minare la giusta direzione ed il prolungamento di ciascun antomo, nel tipo io li condussi tutti in linea retta sino all’Aciri. Stessa linea. Ioydootas. La città di Pandosia, nei Brutii, vicina all’odierna Cosenza, è celebre nella storia per la morte di Alessandro re dell'Epiro; essa fu illustrata da Luigi Greco nella sua Nwova analisi dei documenti rispetto ILLUSTRATA DA AMEDEO ‘PEYRON. 189 al sito della Bruzia Pandosia, inserita negli Atti dell’Accademia Cosen- tina, vol. V. Ma un'altra Pandosia sorgeva nella Lucania citata da Plutarco Pyrrhus 16, dicendo che il console Levino guerreggiando contra Pirro pose gli alloggiamenti év 76 peratò media Mavdoctas nidews nat ‘Hpax.elas, dove il Cluverio con mirabile ardire correggeva edi “Anipros nat midens ‘Hpax)ets. Il Mazochi, p. 104, crede che questa Pandosia fosse la odierna Anglona, posta sopra un poggio, poco distante dal mare. Vedi anche il Bullettino dell’Instituto di Corrisp. Archeol., n.° 2, febbraio 1830. Ma, siccome ‘Apfpaxta [Etymol. M. 81.2] dà il nome alla città ed alla contrada, così qui Iaydocta, sottintendendo édés, è anche nome di strada. Linea 14. Kovéas. Gli Agrimensori, volendo cvpperosiv la sacra tenuta, citano i due soli punti, l’antomo di Pandosia e quello di Conea. Nella nota alla linea ro dimostrai che questi nel poligono irregolare erano i due angoli opposti i più distanti fra loro. I Dori e gli Italioti sopra tutti usavano il verbo raoua: possedere, donde 7&1z possessione, tapòyos possessore, e mapayéo possedere, vedi Ahrens De Dial. Dorica, pag. 108. Linea 15. To aviouo to ndo tè ‘Hpwde2. Questo antomo dee riunire le qualità seguenti. 1.° Meritare di essere il primo, dal quale si cominci la mi- sura. 2.° Trovarsi stabilito sul lato superiore del poligono, lin. 53, 54. 3. Gondurre sulla strada Pandosia, lin. 15, 113, e stendersi lungo di essa, lin. 54. 4.° Stendersi lungo gli Erodii, lin. 15, 113. 5.° Tagliare i sacri terreni separandoli dai privati, lin. 12, 59. Quello, che segnai nel mio tipo al vertice di un angolo, soddisfa a tali condizioni. Gli Erodii erano i fondi rustici di un cittadino per nome Erode, siccome 74 Dytix [lin. 44, 58] erano i fondi posseduti da Fintia, lin. 168. Linea 16. Tav Tpranovtanedo». La prima porzione si estendeva dall’antomo lungo i Erodii sino alla Trentapeda, che qui si definisce strada che conduce li Erod Ila Trentapeda, che q defi trada ch d 190 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA a traverso i sacri terreni. La porzione seconda si distendeva dalla Tren- tapeda strada sino all’antomo primo. Venendo alla terza porzione, gli Agrimensori avrebbero potuto dire, che essa si protendeva dall’antomo primo al secondo, ma in sua vece scrissero, lin. 25: dall’antomo primo che lungo la Trentapeda conduce all’antomo secondo dalla Trentapeda. Questo imbroglio di parole deriva dal doppio significato del vocabolo tprazovtaredos secondochè gli si sottintende od é0dos o pes, e vale ora la strada ed ora la porzione Trentapedana. Nella mia traduzione intro- dussi l'uno e l’altro supplemento necessario. Parimente gli Agrimensori, volendo indicare la stessa porzione terza, scrissero, lin. 82, rell’antomo che è lungo la Trentapeda, dove nuovamente si dee sottintendere la porzione. La denominazione antonomastica di Trentapeda accenna che essa superava in larghezza le altre strade. Ed infatti dagli ori, che si pian- tavano tutti distanti fra loro piedi venti, intendiamo che tal era l’ampiezza delle strade di Pandosia, di Eraclea, della carreggiata e degli antomi. La Trentapeda bastava sola per separare la prima porzione dalla seconda, ed infatti gli Agrimensori non piantarono sopra essa gli ori; così non ebbero più motivo alcuno di nominare un antomo, che corresse internamente nella seconda porzione. Ma questo doveva esistere come nelle altre parti, affinchè i coltivatori potessero dalla carreggiata entrare nella loro parte e recarsi ai loro lavori nel centro. Anche la prima porzione rasentava una strada pubblica, tuttavia quei contadini non si valsero di essa, ma si tagliarono un antomo privato, il quale fu poi citato dagli Agrimensori perchè su esso stabilirono gli ori; così credo che i coltivatori della seconda fecero altrettanto, ma l’antomo non fu nella Relazione nominato, perchè niun oro vi fu piantato, ed io nel mio tipo lo ammisi col solo nome di antomo. Linee 1 7-20. Tav aropoav. Le aropozi erano fili d’acqua, scoli, rivoli, che scorre- vano lungo la linea principale della tenuta e la separavano dalle terre private. Siccome il termine piantato sulla rAwpds, lin. 54, 62, distava venti piedi dal suo contro-termine stabilito sulla carreggiata, ed appunto in questo intervallo scorrevano i rivoli, lin. 53, 63; però il letto di questi era largo piedi venti. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. IQI Xyoîvos, giunco, e corda di giunco. Con essa si misuravano i terreni, e con tal vocabolo si denominava quella superficie di terreno, che noi chiamiamo giornata, ettara. Nella nota alla linea 19 dimostrerò che cor- risponde a metri 15. 288. Zxipos. Fralle varie qualità di terreni gli Agrimensori annoverano gli oxipo:, donde poi le «xposxipize, lin. 65. Secondo Esichio oxsîoa sono yopia Vin Eyovta edIetobrav cis cpiyava. Il Mazochi, pag. 232, avendo interpretato ep0yava per virgulta, giudicò che oxsipa fossero saltus sil- vestres, e così pure il Franz. Amendue non avvertirono che, secondo lo stesso Esichio, gp0yavov vale Um Menti xat Enpa, aridi virgulti, ramoscelli secchi, verghe, minute legne, che secondo Senofonte, Arab. IV, 3, 11, sono atte ad accendere il fuoco, e, secondo Erodoto, IV. 62, atte a formar fascine. Inoltre ox{gia è yi Xevxai dorep yivos [ Suida ad »v., e Scoliaste di Aristofane Zesp., 921, Bekker Anecd. Graeca, 304, 2], epperò le oxpiz. sono terre bianchicce, perchè arse dal sole, atte a produrre soli virgulti e ramoscelli, che facilmente diseccati sono materie per fascine. Quindi la Zvv3iza nel proibire agli affittuali di far legna non solo nelle selve, ma ancora év toîs CxI9068, distingue così la diversa loro produzione di legne, dicendo: Nelle selve, lin. 144, cò xopovr, negli oxigor poi add: éprorcova siccome verghe aride e facili ad infiammarsi. Queste terre erano molte nel podere di Bacco, e rasentavano la strada di Eraclea e Pandosia, epperò i termini furono collocati év @xpocxiplas, lin 65, sulle cime dei poggi bianchicci, affinchè non fossero tolti alla vista dagli aridi cespugli. Per evitare ogni lungaggine nella mia traduzione conservai il voca- bolo schiro. Linea 19. Il piede, l'oregma, lo scheno, misure agrarie di Eraclea, loro valore in metri — Il medimno eracleese, suo valore in litri — I fitti — L’orzo esastico — Fertilità della Sirite. 1. Sycivot. Lo cycîvos era la misura agraria corrispondente al jugerum dei latini ed alla nostra ettara; esso si divideva, siccome evidentemente si ricava dalla Tavola seconda (1), in 30 oregmi ed in 120 piedi. Niuno (4) Corpus Inser. Graec. Tom. III, pag. 706. 192 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA sinora si attentò di illustrarlo; eppure dal conoscerne il valore dipende l'apprezzamento di gran parte della Tavola. Io spero di ricavare con molta precisione la lunghezza del piede eracleese e quindi dello scheno, derivandola dalle dimensioni del bovile prescritte dalla ZvvIvza, lin. 139. 2. Il bovile, vi si ordina, doveva essere lungo piedi 22 e largo piedi 18. Consultando gli autori romani leggo in Vitruvio: Bubilium debent esse latitudines nec minores pedum denum, nec maiores quindenum ; longitudo ut singula iuga ne minus pedes occupent septenos (1). Trovo in Palladio: Octo pedes ad spatium standi singulis boum paribus abun- dant, et in porrectione quindecim (2). Columella prescrive: Lata dubilia esse oportebit pedes decem vel minime novem; quae mensura et ad procumbendum pecori, et iugario ad circumeundum laxa ministeria prae- beat (3). I critici già avvertirono che dei tre autori l’uno chiama lun- ghezza quello spazio, che l’altro chiama larghezza. Tale scambio non può produrre oscurità, se si osservi che lo spazio richiesto da due buoi bisognosi di giacersi in terra è certamente maggiore della lunghezza del corpo d’un bue ritto in piedi. Quindi nei citati autori il numero maggiore nota la lunghezza del bovile, cioè lo spazio da concedersi a due buoi sdraiati in terra; ed il numero minore segna la larghezza del bovile, cioè lo spazio che corre dal muro della greppia a quello parallelo del- l’entrata. Posta questa dichiarazione dei due vocaboli, che io conserverò perchè conformi al testo della Tavola, io dico: Vitruvio esige in lunghezza non meno di 10, al più 15 piedi, in larghezza 7; Palladio esige in lunghezza piedi 15, in larghezza 8; Columella prescrive in lunghezza piedi ro od almeno 9; La Tavola eracleese ordina che la lunghezza sia di piedi eracleesi 22, e la larghezza di 18. 3. Sulla lunghezza gli autori romani dissentono dai 9g ai 15 piedi, ciò dipende dalla maggior ampiezza, che volevano concedere agli animali affinchè più consolatamente godessero la vita stesi in terra. Io ricuso questo elemento, perchè il divario di piedi sei darebbe troppa latitudine all'ultimo risultato. Quanto alla larghezza Vitruvio la stabilisce z0r. minore di piedi sette, e Palladio stima che otto piedi abbondano. La differenza (1) Vitrurio, De Archit, lib. VI, 6. (2) Palladius, De re rustica, lib. I, cap. 21. (3) Columella, De Re Rustica, VI, 5. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 193 è d'un piede solo, ed io ubbidisco ad amendue collo stabilirla in piedi sette e mezzo. Columella non parla della larghezza, supponendola costante, cognita ed in uso presso tutti; ben a ragione. Imperocchè essa dipende dalla lunghezza del corpo di un bue ritto, e da qualehe palmo di corsia da concedersi al bovaro per governare gli animali. H corpo poi d’un bue nella sua lunghezza può variare per la diversità di razza, ma i ci- tati autori parlavano della sola e medesima razza diffusa nella Romagna e nell'Italia meridionale , epperò anche di quella di Eraclea. Poste queste considerazioni, io accetto la larghezza di piedi romani 7 /, come ele- mento certo, fondato sulla concorde autorità degli antichi scrittori. Inoltre io accetto dagli odierni illustratori della metrologia romana il valore del piede romano pari a metri o. 296. Ciò premesso, il ragionamento è semplicissimo. Per la larghezza del bovile la Tavola eracleese prescriveva piedi eracleesi 18, per la stessa i Romani esigevano 7 % piedi loro volgari. Dunque piedi romani 7 %, pari a metri 2. 220, sono uguali a piedi eracleesi 18; ed, eseguita la divisione, si avrà il piede eracleese uguale a metri o. 1233, ossia a dodici centimetri. Se io invece di 7 / avessi scelto il numero 8, avrei ottenuto metri o. 1315. Ora tra i due numeri o. r233 e 1315 prendendo la media avrò metri o. 1274, ossia quasi tredici centimetri, che stabili- sco come il più probabile valore del piede eracleese. 4. A prima giunta questo valore, che non raggiunge la lunghezza del piede d’un bambino trienne, reca meraviglia; lo confermerò con due argomenti. Le leggi delle dodici tavole prescrivevano che le strade pubbliche romane fossero i porrectum larghe piedi 8, pari a metri 2. 37 (1). Nella Tavola le strade di Eraclea, di Pandosia, la carreggiata e le divisorie tra le porzioni affittate [tranne la Trentapeda] io le trovai tutte larghe piedi 20, ossia metri 2.55. Dunque le eracleesi superavano di o. 18 le romane. Inoltre il bovile di Eraclea corrispondeva alle nostre volgari stalle, salvo le necessarie eccezioni. Vaglia il vero. Gli odierni ingegneri, nei loro così detti Manuali, dopo aver distinto la stalla per buoi grassi e e per vacche dalle altre affini, vogliono, che in uma lunga stalla si as- segni per ogni paio di buoi da tiro lo spazio di metri 2. 70 in larghezza, (1) Ne’ miei calcoli io sovente ammisi la terza cifra decimale, annunziando poi il risultato coni due sole cifre centimetre, aggiunsi un’unità alla seconda sempre che la terza eccedeva il 5. Serie II. Tom. XXVI. 25 194 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA e la Tavola prescrive piedi eracleesi. 22, pari a metri 2. 80. L’eccedenza eracleese di 10 centimetri deriva dal bovile, che essendo costrutto per un solo paio vuol essere lateralmente chiuso da muri. Gli stessi ingegneri assegnano alla stalla in larghezza metri 2. 50, e la Tavola piedi 18 ossia metri 2. 29. La nostra eccedenza di centimetri 21 deriva dalla corsia, che nelle nostre latitudini settentrionali si dee concedere più larga af- finchè nei lunghi e rigidi inverni serva di caldo e stabile domicilio alla rustica famiglia; il che non occorre nel clima meridionale di Eraclea. Fatte queste due eccezioni, il bovile eracleese concorda col nostro. Conforme al bovile era il pagliaio una stanza dell’area di metri 4. 37, e la rimessa di metri 3.64. Amendue, se invece di piedi eracleesi 15 in larghezza ne avessero avuto 18, avrebbero col bovile formato un giusto parallelogramma lungo piedi 55 ed alto 18; ma per fare sparagno di soli 3 piedi, ossia di soli centimetri 38 di fabbrica, avvenne che una delle due più lunghe linee del quadrilatero presentava un aggetto di di centimetri 38. Quanta povertà! Stabilito il valore del piede, noi conosceremo quello dello cyoîvos, ossia dell’ettara eracleese. Imperocchè nella seconda Tavola, dovendo gli Agrimensori fare addizioni di più oyoîvor susseguiti dalle loro frazioni, ci insegnarono che lo scheno si componeva di 30 6péquara, e l’opeypa di 4 no0es, epperò che 120 piedi davano uno scheno. Posto il piede pari a metri 0. 1274, lo scheno lineare equivaleva a metri lineari 19. 288, e lo scheno quadrato pari ad are quadrate 233. 72, ossia ad ettare 0. 023372, e più brevemente a o. 0233. 5. Venendo ora ad applicare questo valore agli scheni delle quattro porzioni descritte nella Tavola, offro il seguente QUADRO DELLA SACRA TENUTA DI BAGGO Scheni di terra colta. ............-.. 201 Ettare 4.697 Prima Id. schirosa, ecc. ......... 646. 1/, » 15.109 porzione TOTALE ... 847.14, Ettare 19. 806 Fitto medimni 57, caddico 1. Scheni di terra colta ............+% 279 Ettare 6.380 Seconda Id. schirosa, ecc. ........ 500 » 11.686 porzione TOTALE ... 773 Ettare 18. 066 Fitto medimni 40. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 195 Scheni di terra colta........-.....%. 912,1/, Ettare 7.303 Terza Ia. schirosa, ecc. ........- 537.14 » 12.562 porzione TOTALE... 890 Ettare 19. 865 Fitto medimni 35. Scheni di terra colta........0...6++. 308. 1, Ettare 7.210 Quarta Id. schirosa, ecc... .......- EVA IZA » 412.656 porzione ToTALE ... 850 Ettare 19. 866 Fitto medimni 278. i Scheni di terra colta........+-...++- 1095 Ettare 25. 590 RE Td. schirosa, ecc... .+.... 22925 » 52.044 quattro TOTALE ... 3320 Ettare 77. 604 porzioni —= Fitto medimni 440, caddico 4. ( A 1.8 parte 76 : 1.776 Lol Scheni di terra colta ....... 42 parte 227. 1308 /, Ettare 3.317 7.093 4. 324 ? | 4.a parte 185 Id. schirosa, ecc. 5.843 adiacente l 4a parte 250 Fitto medimni 300. 1135 Ettare | 10.167 Il vocabolo oyoîvos, che vale propriamente giunco, e passò a notare la canna di giunco per misurare, e quindi la giornata di terreno, ossia l’ettara, è schiettamente greco. i 6. Da questo differisce lo oyoîvos, che adoperato primieramente da Erodoto come voce egiziana fu poi usato da altri scrittori, massimamente geografi, per denominare le più alte misure geografiche di altre contrade. Il D'Anville ne fece argomento d'una sua dissertazione (1), io spero di porlo in miglior luce. Erodoto, lib. IT, 6, così scrisse: Goo . . . . yewreivat sio avIporov Gpyvinor peperpinaci tiv yopav: doo dì fiogov yeoneiva: otadiotor: cî dì roXNiv Eyovot tapacdyynau cî di pSovov Nav oyotvota. Abvatar di è piv napacdyyas Tpummovia otadia*» 6 dì oyoîvos Enaotos, pérocv idv Aiyintiov, éerinovta atadia. Coloro, che sono poveri di terra, misurano il paese colle orgie, i meno poveri lo misurano cogli stadii, i ricchi di molta terra lo misurano colle (1) Sur la mesure du schène égyptien, nelle Memoires de VAcad. des Inscript., vol:XXVI, pag. 82. 196 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA parasanghe, e quelli che ne hanno somma abbondanza lo misurano con gti scheni. La parasanga vale trenta stadiî, ed ogni scheno, che è mi- sura egiziana, vale stadii sessanta. Così Erodoto attesta che i popoli avevano nelle loro lingue un vocabolo proprio per denominare quella più alta misura geografica, colla quale enunciavano l'ampiezza del loro paese. I Greci la esprimevano col vocabolo stadio , i Persiani colla para- sanga [il genuino vocabolo era farsen4] equivalente a trenta stadii, e gli Egiziani colla voce oycîvos. Con queste lettere del greco alfabeto Erodoto volle esprimere il suono di quella parola egiziana, che egli udiva ripe- tersi quando, viaggiatore in Egitto, interrogava quali distanze passassero fra città e provincie lontanissime. La voce egiziana era yemnog da me registrata nel mio Lessico copto, pag. 298, e si incontra in Sofonia II, 5, 7, dove corrisponde alla greca oyotveoua dei LXX interpreti, ed alla ebraica San, che valgono corda misuratrice, porzione di terra misurata, lungo tratto di terra o di mare. Il vocabolo wennog, composto da we [in memfitico wi] fi nog, vale appunto misura di corda. La consonante tw, che suona come il nostro sc, il tedesco sch e lo © degli Ebrei, non avendo nel greco alfabeto il riscontro di una pari lettera, fu da Erodoto necessariamente espressa col cy. Questa identità era già stata avvertita da Ignazio Rossi Etymologiae Agyptiacae, pag. 261. Erodoto, il quale scriveva la sua storia in Turio sua patria adottiva, distante pochi chi- lometri da Eraclea, conosceva certamente lo oyoîvos eracleese, e forse anche Turiese, lungo pochi metri; ma per tradurre in lettere greche il suono yenmog dovette usare lo stesso vocabolo cysîvos di Eraclea, ma avvertì che mm questo caso speciale era vocabolo egiziano, pétpov é@v AlyUrtiov. Per l’autorità di Erodoto questa parola egiziana fu poi adoperata dai greci scrittori, ma con qualche differenza nel suo valore. Teofane ed Eratostene facevano lo scheno equivalente a 4o stadii. Artemidoro lo diceva pari a 30, ed altri scrittori lo giudicavano uguale a 32 (1); anche Diodoro Siculo differiva da Erodoto. Per conciliare questi due ultimi scrittori il D'Anville si travagliò nella sua citata dissertazione, ma invano; imperocchè nel riferire il testo di Diodoro egli si attenne all’infedele traduzione latina del Rodomano. Tale sbaglio, e l’ errore (1) Strabone, XI, 530, XVII, 804. Plinio, XII, 30. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. T97 aritmetico che ne conseguitava, fu notato dal Larcher (1), il quale procacciò di ravvicinare i due storici col distinguere lo stadio olimpico dall’aristotelico. 7. Io per me miattengo a Strabone, il quale, ben conoscendo queste discrepanze e volendone dire la causa, così scrisse: xiptîv 7Agovam «ot dA® pérpo yospuevor T6v cyolvav anedidonav ta diactiiuata, Bore nai tertaponovia otadiovs, rat #rr pelCovs nata tamovs Gpoloyetoda: map adtov. Kat decti rapà toîs Alyurttos Gotarev ÉoTtL tÒ Ts oyolvov perpov abtis ‘Aprepidapos Indoî. Quando noi navigavamo {nell Egitto, gli Egiziani] servendosi or di una or di altra misura ci davano le distanze degli scheni, così che confes- savano che presso di loro secondo i luoghi gli scheni erano di quaranta stadii ed anche più. E che presso gli Egiziani la misura dello scheno è incostante lo dichiara lo stesso Artemidoro. Adunque lo scheno era la più alta unità di misura, colla quale gli Egiziani esprimevano la distanza tra due punti lontani. Ma, come il miglio era vario in Europa, così pure lo scheno in Egitto variava secondo le diverse provincie. In- fatti Erodoto lo faceva pari a stadii 60, ossia a chilometri 11. 05 [posto che lo stadio sia uguale a metri 184. 26]; altri lo dissero equivalente a stadii 40, od anche 30, ossia a chilometri 7.37 od a 5. 52. Posta questa diversità, per cui lo scheno, secondo le varie provincie, variava da chilometri rt a soli 5. 50, parmi inutile la somma cura, colla quale alcuni moderni si travagliarono per conciliare le dissidenze degli autori antichi sopra una distanza di due stessi punti enunciata da loro con gran divario di scheni. Termino avvertendo che lo scheno di Erodoto e degli altri scrittori greci è di genere mascolino é oyoîvos, e che lo scheno, misura di Eraclea, è di genere femminino x cyoîvos. Parlando io di questo, doveva io dire la scheno? Io lo ritenni mascolino, siccome in caso eguale noi non scriviamo /a sinodo, la metodo, la gesso, la asfalto , la cedro. 8. Per l'affinità della materia vengo ora a parlare del medimno, che misurava l’orzo, dell’orzo che si misurava, dei fitti che si pagavano in medimni e della fertilità della Sirite. La tavola precedente ci offre il rapporto che passava tra lo scheno seminato con orzo ed il fitto che per ogni scheno si pagava in medimni (1) Histoire d'Herodote traduite du grec. nella nota 14 al lib. II, 6. 198 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA d’orzo. Ma ossia per l'ampiezza del podere che si componeva di ettare 77 e per la diversa qualità del terreno selvoso, schiroso, vergine e colto, ossia perchè le porzioni fossero state occupate in tempi molto distanti fra loro, e con diversa cura coltivati, i fitti sono troppo disparati l’uno dall'altro per poterne ricavare una ragionevole media. Al contrario il podere di Minerva descritto nella Tavola seconda sta ristretto in sole ettare 14. 45, attigue fra loro, tutte ya campestri, atte a seminarvi orzo, coll’aggiunta di poche are vitifere. Undici sono i fitti [il duode- cimo manca nella Tavola mutila], dei quali sette non sono gran fatto distanti tra loro. Epperò essendomi levato a speranza di poterne racco- ‘gliere utili osservazioni sull’orzo, sui medimni, sulla fertilità del terreno, sui fitti, e sulla discreta economia degli Eracleesi, mi formai il seguente Quadro. Nella prima colonna sta il numero d’ordine degli affittamenti. Nella seconda cito la linea del testo della Tavola che parla di tale af- fittamento. Nella terza registro il numero degli scheni, epperò [come sarò per dimostrare] dei medimni seminati. Nella quarta noto il fitto da pagarsi in medimni. La quinta offre il grado di coltura di ogni porzione, il quale si desume dal numero del fitto diviso per quello degli scheni, cioè dal numero dei medimni da pagarsi per fitto diviso pel numero dei medimni seminati. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 199 QUADRO degli undici affittamenti della Tavola seconda ARFITTA-| CITAZIONE SCHENI FITTI GRADI MENTI | della Tonale e medimni seminati in medimni di coltura 1 Ines oregmi sia 0. 26 1 coo ida 9299 2 39 139 695 5. » 3 47 59. a ERA, 7.49 i 23 oregmi SO 1/4 di Y Si È # oregmi 1. 1/15 caddici A cenci 2 Sei 6 70 dn ce ;; 630 7.53 î 76 68 "a ORI 12.49 3 si ; de caddici to 2, forse 1/a do 9 89 70 N 4.37 10 x 94 2a caddici 15 tane la sa TT 104 1) 580 */a 8.14 oregmi 7, piedi 2, ossia */, ro. L’orzo, che si seminava e si pagava come fitto, era certamente quello detto Rexasticum dai latini scrittori di agricoltura, la cui spica avea sei ordini di granelli. Di esso così parla Columella, De re rustica; IL 9, 14: Hordeum hexasticum .... omnia animalia quae ruri sunt, melius quam triticum et hominem salubrius, quam malum triticum pascit. Nec aliud in egenis rebus magis inopiam defendit. Seritur soluta siccaque 200 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA terra, et vel praevalida vel exili, quia constat arva segetibus eius mace- scere; propter quod pinguissimo agro, cuius nimiis viribus noceri non possit, aut macro cui nihil aliud comnittitur. Quindi venendo a parlare della semente dice: ivgerum quinque modii occupabunt; ma nel libro XI, 2, 75 scrive: iugerum agri recipit . . . . hordei modios quinque vel sex. Varrone, De re rustica, 1, 44, distinguendo l'orzo dal frumento riferisce: Seruntur tritici modii quinque, hordeî sex. Anche Cicerone attesta che nella Sicilia agri Leontini decumae venierunt tritici medimnum XXXVI, hoc est, tritici modium CCXVI; dividendo 216 per 36 si hanno medii 6 per formare un medimno. Lo stesso (1) poco sotto soggiunge: ir iugera Leontini agri medimnun fere tritici seritur. Epperò io stabilisco che i Romani seminavano modii sei nel iugero, che il medimno equivaleva a modii sei, siccome tutti sapevamo, e che modii sei, medimno, e quan- tità di semente erano sinonimi. Dacchè Roma e la Sicilia consentivano nella semente di modii sei, non possiamo dubitare che Eraclea spargesse nel suo scheno altrettanta semente quanta i Romani nel iugero. Quindi sapendo che il modio corrispondeva a litri 8. 67 (2), il iugero ad are 2528 e lo scheno ad are 2333, io instituisco la proporzione: se i Romani seminavano 6 modii, cioè litri 52.02 nel iugero, cioè in are 2528, quanti litri Eraclea avrà seminato nel suo scheno, cioè in are 2333? Eseguita la proporzione 5202 : 2528 = «x : 2333, io avrò litri 48, valore del medimno eracleese, che poco si scosta dal medimno attico, pari a litri 50, ovvero 52 secondo altri. Possiamo pertanto osservare che il vocabolo péduvos passò da Atene alla Sicilia ed all'Italia meri- dionale, ma non passarono egualmente le sue divisioni. L’Attico si divideva in 6 éxreîs, 48 yovmes, oppure 192 xervàat; 1’ Eracleese in udddygor, ydes e yotvies. i L’orzo si seminava verso l'equinozio di primavera (3) e bastava un sarchiello per commetterlo alla terra, quindi a sette giorni nasceva (4); e dopo tre mesi si raccoglieva in giugno la messe, la quale terminar si doveva antequam grana, arefactis spicis lapsa, decurrant, quia nullis (1) Cicerone in Zerrem, act. HM, lib. IMI, 46, 47. (2), Per il confronto del iugero e del modio colle nostre misure metriche mi valgo delle tavole del Dureau de la Malle, Ecorzomie des Romains, tom. 1.°, pag. 438 sg. (3) Columella, II, 9, 15. (4) Plinio, XVIII', 4, 2. Varrone, I, 16,1. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 20I folliculis vestiuntur (1), ossia come dice Columella, II, g, 15, nulla vestitum palea granum eius celeriter decidit; bastava scuoterne legger- mente i manipoli per raccoglierne i granelli. Se alla poca fatica richiesta ed al pronto ricolto sperato si aggiunga la fecondità delle sementi, sì intenderà perchè l’orzo fosse il cereale prediletto di poveri ed instabili agricoltori. 11. Circa alla fecondità sono classiche le seguenti linee di Varrone, De re rustica, 1, 44. Seruntur modii sex hordei . . . . ex eodem semine aliubi cum decimo redit, aliubi cum quintodecimo, ut in Hetruria et locis aliquot in Italia. In Sybaritano dicunt etiam cum centesimo redire solitum. Per giudicare della fecondità del fondo di Minerva io collocai nella quinta colonna il grado di coltura di ciascuna porzione affittata. Esso è desunto dal numero dei medimni imposti come canone, diviso pel numero degli scheni ossia dei medimni seminati; così rappresenta quella fecondità del medesimo seminato, che era necessaria per pagare il solo fitto. Ma il conduttore, che vivere doveva colla famiglia, prov- vedere la semente dell’anno venturo, sottostare ad obblighi di edifizii rustici e di piantagioni, e fare un onesto lucro, quando offrì il suo partito, aveva certamente calcolato di raccogliere almeno il doppio del canone, e probabilmente il triplo. Ora, se noi moltiplichiamo per tre i gradi di coltura degli affittamenti 3, 4, 5, 6, 8, 11, riconosceremo che i sei conduttori si promettevano di raccogliere la 20.° ed anche la 26.° semente. Il settimo conduttore poi faceva assegnamento sulla 37.° semente. Tali erano le speranze dei conduttori nel primo affittamento. Se la pre- cedente coltivazione di contadini, che sforniti di case, di bestiame, e di molti strumenti, riputavano se stessi temporanei ed instabili, aveva sollevato terre vergini sino al grado di promettere la 26.° ed anche la 7. semente, che non dovremo augurare della fecondità di terre, che favorite dalla natura fossero state dal loro padrone coltivate per gran tempo, con lungo amore, e con tutti i convenienti sussidi? La cente- sima semente dell'Agro Sibaritano fu da Varrone citata come un caso straordinario. La piccola Sirite confinava immediatamente coll’angusto contado di Sibari, il cielo e la terra non variavano gran fatto, epperò non si può dubitare che anche Eraclea potesse vantare qualche caso consimile. (1) Palladio. Iunius 2. Serie II. Tom. XXVI. 26 202 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA : Linea 36. KegaXx. La somma viene giusta. Infatti nella 1,° porzione terra colta scheni 201 schirosa 646 / totale 847% 2. id. id. SINO) 273 id. 500 id. 773 Si id. id. ) Stra Radio 37t ad N850 A id. id. Diode MAO Scheni 1095 2225 3320 Linea 38. L’estremità, secondo il mio tipo, meridionale del podere di Bacco era ancora [lin. 38] &géuxros ya, non dissodata, e confinava col fiume Aciri, entro il quale sorgeva un'isola appartenente pure al Dio. Gli Agrimensori misurarono l’isola come un solo corpo [il valore di ovpps- tpsîv qui è evidente], ma nella Relazione ne tacquero la misura. Misu- randola vi trovarono due famiglie stanziate, l’una nella prima parte, l’altra nella quarta, cioè nelle due parti, che perpendicolarmente corrispon- devano alla prima ed alla quarta porzione del superiore podere di terra ferma. Le congedarono, renitenti le chiamarono in giudizio , il tribunale le condannò. Quindi gli Agrimensori, prendendo possesso del terreno ricuperato, lo misurarono, e vi trovarono di terra colta scheni 303 %, di terra schirosa, ecc. 435 [totale 738 %], cioè nella prima parte scheni di terra colta 76, di terra schirosa, ecc. 185, e nella quarta parte scheni di terra colta 227 %, di terra schirosa, ecc. 250, ed appunto 76 + 185 + 227 4 + 250 = 738 7. Affittarono amendue le parti medimni 300, ossia poco oltre 17 medimni per ettara. Nella Relazione non parlano della seconda e della terza porzione intermedie dell’isola, perchè certamente ancor vergini, neppur riferiscono di aver piantato alcun termine nell’isola, così lasciarono le due famiglie conduttrici pa- drone di occupare le due parti vacanti; scadendo la prima affittanza, avrebbero rinnovata la misura, ed aumentato all'uopo il fitto. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 203 Linea 49. Come avvertì il Franz, le dixe: eraxootata: chiamavansi le liti da essere giudicate entro trenta giorni, che in Atene dicevansi éuumve, e da noi in via sommaria. Linea 52. ‘A de ndo y&. Nella linea 180 e seguenti si riferisce che la prima porzione fu affittata medimni 57 ed 1 caddico la seconda id id. » 4o la terza id. id. » 35 la quarta id. id. » 278 Medimni 410 ed 1 caddico. Siccome questa somma non poteva essere conosciuta se non dopo approvato l’affittamento, bisogna dire che il Notaio la inserì nella Re- lazione degli Agrimensori con approvazione di essi che la sottoscrissero. Linea 53. Gli Agrimensori qui narrano di aver piantato il termine sulla costiera, cioè sulla terra altrui, ed il contro-termine sulla carreggiata propria di Bacco; e, lin. 57, riferiscono di aver fatto altrettanto verso i Finzii. Ma, per correggere tale irregolarità [vedi la nota alla linea 10], nella linea 61 avvertono di aver voltato 745 ot4)ag degli ori werso la terra sacra , e gli antori verso la terra privata. Inoltre, lin. 66, riferiscono che gli ori volti verso 7ò iapòv r)&Y05 il lato sacro portavano l'iscrizione ‘Ixpot Atoysoo yopav, e che gli antori piantati su//a terra privata erano inscritti "Avtopet. Quindi noi intendiamo che gli ori e gli antori erano lastre di pietra a due faccie. L’ una stata dirozzata e faita acconcia a ricevere un'iscrizione si chiamava 07442, la otiàn del dialetto comune. La stele dell’oro portava inscritto il nome del padrone del podere. Sulla stele dell’antoro stava il solo vocabolo “Avropos, giacchè non si aspettava agli Agrimensori di Bacco di determinare i nomi dei proprietari vicini, e questi potevano, quando che fosse, variare. Sugli épec, anzi sulle otide di essi, solevano i Greci, anche prima dei tempi di Solone, fare inscrivere 204 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA le ipoteche, che colpivano quel fondo immobile, vedi Boeckh, Écon. polit., lib. I, cap. 22. Linea 54. IMevpe4dos. Come noi da costa formammo costiera, ed i Francesi cotiére da cote, così i Greci da r)evp& derivarono r)eps, costiera. L'aggiunta &vo nota il margine superiore dei rivoli, che per essere ele- vato formava una costiera, che apparteneva alla terra privata. Linea 58. Tav BuBMav. Da Ateneo, l. 24, sappiamo che {Bz si denominava una qualità di vite, che dava lo squisito vino {t{BX:vos. Epperò il Franz congettura che qui fvBXx e, lin. 92, fufa pacyada si riferiscano ad una vigna dei Fintii, posta in un angolo rientrante, ricca di uva biblina. Linea 60. Xapadeos. Questo vocabolo ignoto ai lessici fu dal Mazochi giudicato equivalente a yapedpe, ma qui un burrone non poteva aver luogo. L’Ahrens De dialecto dorica, pag. 118, acutamente vide che il dorico yapados corrispondeva al comune yepàs yspados per la frequente permutazione dell'e in «. Presso Omero, Iliad. o 319 yepds è quell’arena mista a ghiaia, sassi, sterpi e simili, che i rivi ed i fiumi traboccando depongono sui loro margini; tal è pure il nostro y4pades. Quanto più il margine degli Erodii era una costiera elevata, come dissi nella nota alla linea 54, tanto più i rivoli nella loro escrescenza si dilagavano estesamente sul margine sacro più basso, e vi deponevano le trasportate materie. Le più pesanti tosto posandosi su terra diedero sodo principio ad una car- reggiata, che correva rasente i rivoli; le più leggiere posandosi più lontane, gravide di semi d’erbe e di piante, iniziarono una selva che correva lungo tutta la carreggiata. Quindi dagli Erodii ai Finzii noi vediamo correre su tre linee parallele i rivoli, la carreggiata e la selva. Linea 63. Ent tas 606. Una strada da Eraclea veniva ad immettersi in quella ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 205 di Pandosia, e traversava l’intera tenuta riuscendo ai Finzii, lin. 64, 70. Il punto d’intersecazione è incerto, ma perchè i loro messori ed antori non distavano fra loro che piedi venti, lin. 75, ne inferisco che amendue queste strade erano larghe venti piedi. La sola, nella quale si unirono, non poteva a meno di traversare la Trentapeda, ed, incontrandola verso la metà, furono nel crocicchio piantati quattro ori, due distanti 30 piedi in grazia della Trentapeda, e due distanti piedi 20 in grazia della strada Eracleo-Pandosia, lin. 80, sg. Linea 82. ‘Ert dî 76 avrouo. L'antomo, ché si stende lungo la parte Trentapeda appartiene e dà cominciamento alla terza porzione. E l’antomo secondo citato nella linea seguente appartiene e dà cominciamento alla porzione quarta. Linea 89. ‘Ent&. Gli Agrimensori nel ricapitolare il numero dei termini che sta- bilirono, compresero sotto il nome di dope anche gli &vropet ed i péocopor. Ma dei sette, che essi dicono di aver piantato sì nel primo e sì nel- l’ultimo antomo, io non seppi dalla loro Relazione, lin. 53, 75, rica- varne che sei. Nella nota alla linea ro, illustrando il vocabolo ovppetpetv, dissi che gli Agrimensori avevano tirato una diagonale dall’antico termine dell’ antomo primo sino a Conea; epperò sospetto che quivi stesse piantato ab antico il termine della diagonale, e questo sarebbe il settimo dell’antomo ultimo, Ma il settimo dell’antomo primo mi è ignoto. Linea 105. Circa ai fideiussori, ed alle conseguenze che derivavano da questo sistema, vedi il Proemio, $ 7. 206 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA Linea 106. GLI ARTINI e 1. It significato del verbo aprivev voluto dal contesto, 2. Gli apriva: di Argo e di Epidauro. 3. Gli Argivi per ripopolare la città vi trasportano scelti Perieci coi diritti di cittadinanza e di connubio. 4. Gli scelti e la loro prole formarono una classe intermedia tra i Dori ed i Perieci. 5 e 6. Questa fu denominata Orneati, citati da Erodoto, VIII, 73. 7. Gli Artini in Argo erano la terza classe, ossia i Perieci. 8. IL nome di Artini passò da Argo ad Eraclea. o. Dagli apriva, che in origine furono contadini che coltivavano per a tempo i poderi altrui sublocandoli, si formò il verbo &prbvev, commettere ad un Artino un podere. I. ‘Aprioavi. Il verbo &priew, e doricamente «prive, sin da Omero vale preparare una qualche cosa, come nozze, insidie, uccisioni ed altro, donde si venne ad &proua ed &prvos condimento, salsa', manica- retto preparato dal cuoco. Quindi il nostro agrivev rav y&v tivi sarebbe preparare la terra ad alcuno, che il Mazochi ed il Frank oltre modo estesero traducendo colere, exercere terram, rimanendo inutile il dativo tw, eppure questo 7/5 era obbligato, siccome vedremo, a dare un fideiussore. Ma il contesto esige ben altro significato. Imperocchè il testo dice così: Se i conduttori perpetui rapdévrt tav yav cl dn tramandino ad un qualche altro la terra che avranno presa in affitto. Al che succedono due # ossia dichiarativi di due modi di tramandare la terra ad altri, i quali però sono detti rap)\xPovtss riceventi il trasmesso dominio. L’un modo è quello di arodecda. tav erimapriav vendere l’usufrutto, ed i ri- ceventi sono detti rp:&pevor tov Ermmapriav compratori dell’usufrutto; ciò avverrebbe se il conduttore, vendendo il suo contratto d’usufrutto xa fio per la vita, trasmettesse in perpetuo la terra ad un compratore. L'altro modo è quello di «pròvew tav 79v tf, ed il ricevente è detto © x apivon quello a cui [il conduttore |] avesse artinato la terra. Il contesto ed il volgar senso comandano che si spieghi avesse dato in affitto temporaneo la terra, ossia avesse sublocato per a tempo la terra. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 207 Imperocchè due sono i soliti modi di trasferire il dominio utile, o venderlo in perpetuo, o sublocarlo per a tempo. Questo significato è confermato dal contesto. Poco infra, lin. rr1, colui al quale il conduttore artinò la terra, è designato come quegli, al quale la terra apupicdoSi map mnévre Firm td npodra fu riaffittata per li primi cinque anni. Ad esprimere questo significato non si può con niun ingegno tirare il classico &privew preparare. lo propongo di condurvelo derivandolo dalla voce dorica apriva, che prendo ad illustrare. 2. Gli Artini si incontrano due sole volte nominati nei classici greci. Tucidide, V, 47, riferisce il testo del trattato di alleanza tra Atene ed Argo, nel quale è detto che lo giureranno év "Apye « fovàù, rat ci 6y- dorinovia nat ci aprivar in Argo il Senato e gli Ottanta e gli Artini; dunque in Argo gli Artini erano il terzo magistrato o classe che rappresentava lo Stato. Plutarco nella prima delle sue Quaestiones graecae interroga: tives év “Entdaspo vovirodes xot apriva; Chi in Epidauro erano i così detti Conipodi ed Artini? Risponde: Ot pv 70 noire pa Gydornovia nai énatòv &vdpes fcav, fx ds tovtwv ripodvto Bovdevids, ds apròvas enodovy. Tod di drpov to micîotov év &ypò drerpiBev® Enadotvio de novimodes, ds ovufiadeîv Estiv, anò TAV nodbv yvopisopevor verovimeviwv otote vateNIorev cis tiv mov. L'Alexander ab Alexandro, lib. IV, cap. 10, così spiegò questo testo: Apud Epi- daurios centum octoginta rempublicam administrant ex quibus nobilis- simos popularium deligebant Senatores, quos Artinos vocabant et Coni- podes. To osservo che il vocabolo f}evdevrat del testo vale bensì Serazores, ma siccome l’ autorevolissimo trattato d’Argo distingue la {cv dagli Artini, io, prendendo tal vocabolo nel suo significato primario e più largo di Consiglieri, traduco: Yn Epidauro il Governo si componeva di cento ottanta persone, fralle quali sceglievano consiglieri che denomi- navano Artini. La massima parte del popolo viveva nel contado; essi furono soprannominati zovinades, siccome si può congetturare, perchè si riconoscevano dai piedi polverosi quando venivano nella città. Che Epidauro avesse come Argo un Magistrato o classe denominata Artini non deve recar meraviglia, se si riflette che Epidauro, città confinante e suddita per gran tempo di Argo, ne aveva ricevuto gli ordini civili, i magistrati e le classi colle loro denominazioni; epperò io considero gli Artini di Epidauro pari a quelli di Argo. Volendo pertanto illustrare gli Artini Argivi io enirerò nella storia di Argo esponendone un brano di somma importanza, al quale i critici e storici moderni non badarono. 208 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA 3. Girca l’olimpiade LXVII (1) Cleomene re di Sparta diede tale sconfitta agli Argivi, che ne caddero in battaglia meglio di sei mila, o come altri dicono 7777 (2). Gli schiavi allora sollevatisi contro ai pochi Dori superstiti si impadronironro facilmente della città e dello Stato. Ma i figli degli estinti essendo cresciuti in età assalirono gli usurpatori, li cacciarono, ricuperarono il governo, ed in esso si mantennero sebbene tribolati dai servi (3). A tal narrazione di Erodoto aggiungono altri sto- rici che i figli degli estinti, volendo ripopolare la città, deliberarono di napadebaciar tiv meprotaov tiwas accogliere in città alcuni dei Perieci (4), e per tal fine trasportarono in Argo gli abitanti dei borghi di Tirinto, di Isie, di Ornea, di Micene, di Midea, e di altri che distrussero (5). Questa tras- lazione e distruzione vuol essere largamente intesa, giacchè non metteva conto ad Argo che molti borghi rimanessero affatto disabitati, ed incolto il territorio. Anche della Confederazione Arcadica si narra che trasportò quaranta borghi in Megalopoli per popolarla, ma la plebe non tardò a sbiettare ritornando agli abbandonati campi (6). Meglio di tutti Plutarco nell’opuscolo De wirtutibus mulierum scrisse, che i Magistrati argivi enavopSobpevor Thv irpavdpiav cò . ... toîs doblo, dA)a té6v meprotaor, nomadpevoi molltus, toùs dalotovs ovvsRiTaD T&S yuvaîtas volendo sovvenire alla scarsità della popolazione, non già . . . . coi servi maritarono le mogli [vedove], ma con quelli fra i Perieci che giudicarono ottimi, e dichiararono cittadini. La scelta, che i Magistrati fecero degli ottimi fra i Perieci, era tanto più necessaria, quanto più le vedove e le ragazze argive, siccome Plutarco segue a narrare, ricusavano di unirsi in matri- monio coi Perieci; ma la loro dorica alterigia fu vinta dalla prudenza dei Magistrati. Fra gli storici antichi Plutarco è il solo che ci abbia tramandato la particolare circostanza del connubio; i moderni critici non ne tennero conto. Ed appunto sul connubio, come sopra un fatto fecondo di im- portanti conseguenze, io fondo il mio supplemento alla storia di Argo, e la mia spiegazione di un passo controverso di Erodoto. (1) Clinton, Fasti Hellen. cum notis. Kruegeri, pag. 432. (2) Erodoto, VII, 148. Plutarco, De virtutibus mulierum. - (3) Erodoto, VI, 78-83. (4) Aristotele, Polit., V, 2, 8. (5) Pausania, VIII, 27, 1. (6) Vedi la mia Lezione Deî Governi federativi della Grecia, parte II, n.° 8, ristampata come appendice XI del mio Tucidide. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 209 4. Il connubio dei Perieci argivi colle donne doriche di Argo mise al mondo una prole ibrida, nè al tutto dorica nè affatto perieca, ma che tramezzava le due specie. L’albagia dei Dori puro sangue, mentre ricusava di aggregare a sè i nuovi mariti e la loro prole, ricusava egual- mente di lasciarli confusi coi Perieci. Quindi i Magistrati equi e giusti prendendo la via del mezzo, crearono una terza classe di cittadini in- termedia alle solite due di Dori e di Perieci. Ciascuna delle tre classi, come avrà avuto una determinata parte nel governo dello Stato, così avrà ricevuto un proprio nome. Qual sarà stato questo? Non possiamo dubitarne. Atene, quando volle che Argo giurasse l'osservanza del trat- tato di alleanza, prescrisse che lo giurerebbero zî fiov)d, rat oi dydonzovta, nat ci apriva il Senato, gli Ottanta e gli Artini (1). In queste parole io riconosco i tre stati; nella {e}: vedo i Dori puro sangue, negli Ottanta la nuova classe intermedia, e negli Artini i Perieci. La nuova classe era bensì rappresentata da ottanta, ma io affermo che il nome generale di tutta essa era quello di Orneati. Per dimostrarlo, entro a spiegare un passo di Erodoto. 5. Erodoto nel libro VIII, 73 scrive che i Cinurii, sebbene fossero di stirpe ionica, tuttavia édedaprevvia Uro te ’Apyelav apyipevor, nat tod ypovov fovtes ’Opyefitar x) mepiomar, io spiego: si doricizzarono sì perchè sudditi degli Argivi, e sì perchè col tempo divenuti Orneati e Perieci. Il Larcher, non trovando alcun senso in queste ultime parole, trascura il xet, e, supplendo davanti ‘'Opvefiza: la particella vs, traslata avec Ze temps ils sont devenus Doriens sous la domination des Argiens, ainsi que les Ornéates et leurs voisins. Il Borheck unisce ad &pyépevo: le parole xa t0d ypovov, così che il senso verrebbe ad essere: î Cinurii si dori- cizzarono perchè dominati dagli Argivi e dal tempo, essendo Orneati e Perieci. Ma, oltrechè il dominio del tempo sarebbe poetico, il genitivo toò ypovcv è usato avverbialmente dalla grecità e da Erodoto stesso III, 134, per dire col tempo, e va unito con éoytes, così che il xe domini l’éovzes come il te dominava l'apyopevot. 6. Stabilito così il testo ed il suo valore, dico che i critici consen- tono nel riconoscere negli Orneati gli abitanti del borgo di Ornee dell’Argolide, e suddito di Argo. Il Miiller nell’Aeginetica, pag. 48, (1) Tucidide, V, 47. Serie II. Tom. XXVI 27 210 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA ravvisò negli Orneati una specie di servi simile ai Penesti della Tessalia, poi nei Dorier, III, 4, 2, ricisamente pronunziò che Orneati e Perieci erano vocaboli sinonimi. Niuno dei critici accettò tale sinonimia. Lo Schòmann opina che post devictos Orneates, horum nomen, si non in omnes, tamen in multos ceterorum quoque mepiotrov, qui simili cum illis conditione essent, transferri coepit, et fuit fortasse non una omnium conditio (1). A tal opinione più o meno si accostarono il Curtius e l’Hermann citati dal Baehr nelle sue Herodoti Musae nella nota a q.1. To osservo che, posta questa condizione di servi, Erodoto direbbe che Argo essendosi impadronita dei Cinurii li fece col tempo servi e Perieci; col tempo bensì li elevò al grado di Perieci, ma, dacchè se ne rese padrona, ne divennero issofatto servi. Erodoto evidentemente annunzia qualche grado di cittadinanza argiva, distinto dai Perieci, che fu col tempo conceduto ai Cinurii; esso ponendoli in frequenti ed intime re- lazioni colla città facilmente li doricizzò. Ciò appunto si verifica, se la seconda classe argiva, che somministrava gli Ottanta al Consiglio dello Stato, si denominava degli Orneati , perchè probabilmente al tempo della creazione Ornee avrà dato il maggior numero dei Perieci prescelti. Così i Cinurii divennero sudditi e servi di Argo quando furono da essa conquistati, ma perchè col tempo vennero dichiarati Perieci, anzi Or- neati, si doricizzarono. Come Orneati abitavano in Argo, erano uniti di parentado coi Dori, partecipavano al Consiglio di Stato; come Perieci mandavano allo stesso Consiglio i loro deputati, e si denomi- navano Artini. 7. E qui dopo un lungo giro rientro nell'argomento di questa mia nota. Da Tucidide V, 47 sappiamo che gli Artini in Argo erano la terza ed ultima classe rappresentante lo Stato. Plutarco ci insegna che essi eraro popolo domiciliato nel contado, ossia veri Perieci, che stati col tempo ammessi al governo della repubblica venivano in città coi piedi polverosi. Nel loro soprannome di xovrodes io ravviso la dorica aristocrazia, la quale, costretta dalla crescente democrazia ad ammettere i contadini come colleghi nel Consiglio , foggiò per consolarsi lo sprez- zante vocabolo xovirodes. Nel contado gli uni attendevano all’agricoltura dei terreni che possedessero, ma i più come liberi agricoltori coltivavano (i) Schomann, Artiquit. iuris publ. Graccorum, pag. 107 in nota. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 2I1 i fondi dei Dori abitatori della città, disdegnosi di farsi contadini. Tali erano gli Artini di Argo e di Epidauro. Trasportiamo in Eraclea il nome degli Artini. Dico il solo nome, giacchè, quanto al loro uffizio originario di plebe agricola, non ne possiamo dubitare. 8. Il trasporto è probabilissimo. Imperciocchè l’Italia meridionale fu denominata Magna Grecia appunto perchè popolata da greche co- lonie in gran parte doriche. Queste, anche partite da Sparta, ben ri- conoscevano che le severe ed esclusive instituzioni di Licurgo contra- stavano ai primi bisogni d’una colonia, epperò adottarono il liberale dorismo di Argo, invitarono e quindi ammisero nel loro seno i Perieci, e piegando verso la democrazia non tardarono ad accettarla. Inoltre i condottieri delle colonie erano sovente Spartani bensì, ma malcontenti della patria. Tali furono i Partenie che vedendosi sprezzati dai concit- tadini partirono esuli e fondarono Taranto; anche Cleandrida, condannato a morte dagli Efori, fuggì esule per fondare Turio. La colonia di Turio, come sappiamo da Diodoro, si compose dapprima di un mistìo di Dori del Peloponneso, Pericle, mortale avversario di Sparta, la pa- trocind accomodandola di navi; ad essa si unì il democratico Erodoto fuggendo le vendette degli aristocratici di Alicarnasso; le si unì pure l’oratore Lisia ancor quindecenne col suo fratello (1). I Magistrati poichè ebbero assegnato ai primi coloni le porzioni di terra, vedendo che molto terreno fertile sopravanzava, mandarono nella Grecia ad invitare nuova gente. Molti accorsero da varie città, talchè, quando si venne «a formare le tribù, i Magistrati, affrancandosi dalla solita triplice di- visione dei Dori, crearono alla maniera Ateniese dieci tribù, alle quali imposero nomi che ricordassero le loro patrie, stabilirono un governo popolare distinto in classi (2). Con qual nome avranno essi chiamato la classe popolare del contado? Forse con quello di Perieci? Questo vocabolo fu proprio e speciale di Sparta, ed in grazia del suo valore etimologico riuscì comodo ai Greci scrittori per designare indistinta- mente la classe contadina di tutti gli Stati Dorici, ma ciascuno di questi la denominava con un vocabolo speciale, siccome alla classe de’ suoi (1) Vitae decem oratorum. (2) Diodoro XII, 10, 11. Plutarco Perzcles 11. 212 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA servi dava pure uno speciale nome. Con qual nome mai Turio avrà chiamato i suoi Perieci? Io conghietturo che li abbia chiamato Artini, perchè in tal classe contadina molti erano veri Artini venuti da Argo, da Epidauro, e da altri Stati dominati dagli Argivi. Poco di poi i Turii, venendo ad occupare coi Tarantini la Sirite ed a fondare Eraclea, vi condussero senza dubbio una parte dei loro Artini, e questa denomi- nazione necessariamente passò nello Stato Eracleese. g. Posta questa mia congettura, ne deriva spontaneo quel valore del verbo aprivev, che io al principio di questa Nota dimostrai essere comandato dal buon senso e dal contesto della scrittura. La ‘Favola volendo esprimere il caso di un enfiteuta, il quale abbia per a tempo sublocato ad altri il suo usufrutto perpetuo, si serve della frase &privew tev y&v «wi artinare la terra ad uno, ossia dare la terra ad un Artino, dove il solo vocabolo Artino basta per esprimere l’affittanza temporanea; giacchè tale in origine fu V'uffizio degli Artini presso i Dori, i quali non volevano nè vendere i loro terreni, nè alienarne in perpetuo l’usu- frutto, ma solamente li commettevano per definito tempo ad Artini per essere coltivati. Gli Artini in Argo ed in Epidauro si elevarono col tempo dalla bassa loro condizione a rappresentare lo Stato ed a sedere nei Consigli; lo stesso avvenne in tutta la Grecia, tranne Sparta, e sarà pure avvenuto in Eraclea. Ma durò il verbo &g70vev anche quando tal classe si innalzò a possedere proprii fondi ed agli onori dello Stato; tal vocabolo umiliante corrispondeva all’Argolico soprannome di xovirodes. Esso non appartiene alla lingua comune della Grecia, ma è una y}6cca da registrarsi fra i vocaboli speciali e municipali di Eraclea. 10. Conchiudo. Il significato di prive sublocare, dare in affittanza temporanea è indubitato, ma non si può attribuire all’aprivev della lingua Omerica e comune. Io ho proposto di derivarlo dagli prova. An me lusit amabilis insania? Altri proponga migliore derivazione. Ma l’insania, che mi indusse ad errare per li classici boschi ora illustrando la classe degli Argolici Artini, ora aggiungendo una nuova pagina alla storia di Argo, e spiegando un passo di Erodoto, la mia insania sarà, io spero, giudicata amabile, perchè utile. Linea 107. Mapegovra: mpayjias. Se Tizio subloca a Caio, il fideiussore di Tizio non rimane più fideiussore di Caio se non presta il suo consenso; così ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 213 pure giudicavano i Romani giurisprudenti (Digest. locat. cond. l. 13, $ 11). Caio nel presentare il suo mallevadore non poteva a meno di esibire il suo contratto , ed i Polianòmi coll’accettare o col respingere il mallevadore davano o ricusavano il loro assenso alla sublocazione. L’aprdon è retto dal soggetto 6 «privav sottinteso, vedi Matthià Gramm. Greca, N° 294, 1. Linea 109. Le parole diràsî &rorerosî interposte tra 70 te piodono e le seguenti tò în 16 Féreos dovrebbero tradursi pagherà doppiamente il fitto annuo, ma tal multa sarebbe stata enorme, e vana per la sua enormità. Io però tradussi come se l’autore avesse scritto der)ef drotetosì 76 te piodapa ... \ LI pi I nat Ti AuTa\AIZ. Linea 110. ’Aproàipa è la rivendita, ossia la differenza di fitto, che pud' essere in più od in meno da quello del primo affittamento; le parole seguenti 6or% xa petovos Ja determinano in meno. Il conduttore, se avesse ven- duto con benefizio il suo contratto, si sarebbe ritenuto il guadagno anzichè pagare la differenza, vedi la nota alla linea 112. Linea 111. Anche presso i Romani si conveniva ut, sî non ex lege fundus coleretur, relocare eum liceret, et quo ininus locaretur hoc domino praestaretur. Digest. locati 1. 51. Linea 112. Illustrerò con un esempio la mente di questo articolo, il quale suppone che il primo conduttore abbia sublocato la sua porzione ad un prezzo inferiore a quello della sua locazione. Tizio primo conduttore si riconosce obbligato a dare entro quindici anni piantati dieci scheni di viti, più quattro olivi in ogni scheno, e costrutti varii fabbricati (lin. 139, sg.). Desideroso di anticiparsi i frutti 214 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA delle piantagioni e gli avvantaggi degli edifizii subloca a Caio la sua porzione per pochi anni, obbligandolo di dargli entro tal tempo ese- guite le piantagioni e le fabbriche prescritte; in ricambio gli impone un fitto minore di quello pattuito nella sua locazione. Ma il sublocatore Caio non presenta alcun fideiussore. Venuto il tempo del saldo dei conti Caio intende di pagare il solo fitto minore stipulato nel suo con- tratto che produce. I Polianòmi lo accusano di non avere presentato fideiussore alcuno, e lo condannano a fare due pagamenti, 1.° a pagare il fitto annuo imposto al conduttore; 2.° a pagare la rivendita, ossia il minor fitto da lui convenuto col conduttore, in quella somma che verrà per pubblica deliberazione determinata, giacchè questa somma poteva essere o maggiore o minore secondo i varii articoli della sua sublocazione, ed i lavori da lui eseguiti. Questi lavori di piantagioni e di fabbriche da lui anticipatamente eseguiti cederanno alla città. Linea 119. Il vocabolo dévdpea è sempre usato nella Tavola lin. 129, 135, 142, 175 per notare a/beri domestici ; per maggior dichiarazione nella linea 172 sono detti devdpea te Apepa. I selvaggi sono chiamati &0, lin.144-146. Linea 120. Il Franz dà al verbo évd:oîv il significato di omni cultu exstruere. Parmi assai più naturale quello di essere esposto a mezzodì, siccome conviene agli alberi fruttiferi. Linea 121. La forma yeypedera: non corrisponde ad alcuno dei tempi o passivi o medii. Il Bast nelle sue note a Gregorio Corinzio, pag. 484 correggeva Jeyodgara:, dubitando che il Mazochi avesse scambiato il g in w; ma la Tavola offre uno schietto g. L’Ahrens [pag. 333] mantenne il yeypaparee senza specificare a qual tempo e numero appartenga questa forma. Non posso ammettere il yeypegata: del Bast, perchè forma ionica della terza persona plurale del perfetto passivo, mentre qui l’écca neutro plurale richiede la terza persona singolare, ed un futuro anzichè un perfetto; ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 215 epperò io non dubito di correggere yeypdberar quotquot arbores mox scriptae erunt. Quanto ai paullo post futura, vedi la pregevole nota del Coray al suo Eliodoro, pag. 67. Il roteysi per npoceyei è avverbio come dre. Linea 123. Suida, Polluce, Fozio ed un Lessicografo presso Bekker Anecd. Graeca, pag. 109, si accordano nel dire che il vouos usato dai Greci Sicelioti ed Italioti era il rus dei latini. Il suo valore è incerto. Linea 124. Assiungasi la congiunzione ros te ént tò Fereos. Quanto al pronome ovtavtod vedi l’Ahrens, pag. 275. Linea 130. Il testo dava @ero)torav, il Franz supplì l'a e formò l'aggettivo aro)sotos inudito, e lo interpretò qual sinonimo di &rois circumforaneus, ma a tal genitivo manca il reggente. Io non dubito di correggere cs anò )nictov come da predatori, da ladroni; V’èydz4Sa si costruisce ap- punto coll’aro. Linea 136. Il vocabolo y%eòv, simile al nostro ya:òves, si incontra nella Dorica inscrizione 5594 del Corpus Inscr. Graec. Tom. II, pag. 619, dove si parla d'un postdtov giov ava pérov tòv yussvav ruscelletto che scorre in mezzo dei yastves; il Franz interpreta co/les, sepes terrae. Esichio ha SZappos, copòs yis ... Go vappov, donde cagpere è arenam effodere. Linea 137. ® Nei roqisves il Mazochi ravvisò il tophum dei latini, e così pure il Franz. 216 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA Linea 143. Le due Tavole non mi somministrano alcun lume per determinare il valore della mina d’argento di Eraclea. Dalla multa di sei mine, supe- riore alle altre due ed alla casa stessa, si intende che il bovile si sti- mava il più importante. Linea 150. Il Mazochi ed il Franz spiegano il tiuapa pretium pro fundo oppi- gnerato acceptum; ma, dacchè si vietava al conduttore di dare in pegno i terreni, riusciva affatto inutile il vietargli di ricevere il prezzo del pegno. Io prendo il zipaue nel suo significato volgarissimo, non riceve- ranno una multa dei beni, che cada sui beni affittati. Linea 164. Micdacapevos map te x. t. ). Circa all’essersi il quarto conduttore presentato ai Polianòmi di Aristione, poi a quelli di Aristarco, vedi la nota alla linea 1. Linea 165. Egli è evidente che questo inciso relativo ad Aristarco fu inserito dal notaio, come egli nella linea 52 [vedi la mia nota | inserì l’ammon- tare dei fitti delle quattro porzioni. Il notaio nell’istromento finale tra- piantò bensì la relazione degli Agrimensori, e la proposta dell’affittamento pubblicata da Aristione per invitare gli accorrenti; ma in amendue inserì quelle variazioni ed aggiunte, che nate nel corso del procedimento e dell'asta giudicò definitive epperò necessarie nell’atto finale. Linea 167. Siccome avvertì il Franz lo sbaglio è evidente. Invece di azò tò , . 3_V LI , tpita leggi amò tò CevtEpeo. ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 217 Linea 169. Tos Aormòs sottintendi épyaGew. Linea 172. ‘E\ixs. Filippo, oltre alle viti accennate nella lin. 169, aveva anche piantato olivi, ficaie ed alberi domestici; ma non avrebbe potuto ma- nipolare i frutti per far vino ed olio, e neppur conservarli, se prima non possedeva gli arnesi necessarit e quel rustico casamento costrutto, coperto e munito di porte, che la convenzione, lin. 142, esigeva da coloro che avrebbero piantato viti, olivi ed alberi domestici. Linea 187. Tapérpas. Vedi la nota alla lin. 1. Sea Serie II. Tom. XXVI. 28 218 LA PRIMA TAVOLA DI ERACLEA SPIEGAZIONE DEL TIPO Le lettere A A A segnano la terra privata confinante col podere di Bacco. i La linea B B segna la Mevpras costiera, ripa alta dei rivoli inferiori. Questi nell’escrescenza delle acque trasportavano con sè il yepes [che sembra di genere neutro], il y:pes di Omero, cioè sassi, ghiaia ed ogni specie di impurità, nè potendo superare la costiera troppo alta si dila- gavano sopra il margine inferiore più basso, e vi deponevano il yap4s, cioè le pietre, la ghiaia, gli sterpi e simili impurità, che valsero a formare il fondo sodo della strada carreggiabile detta auaérros. I rivoli occupavano un letto largo piedi venti [metri 2. 55 ], e ser- vivano di terreno neutrale e vacuo, che separava la terra sacra dalla privata. L'auagros strada carreggiabile apparteneva a Bacco, e dava accesso alle quattro porzioni. Correva lungo la selva, che le era inferiore, lin. 61. Il podere anticamente era tutto selva, schiri e terra vergine, lin. 38. Le quattro famiglie in varii tempi vi si indentrarono dalla carreggiata, e ne occuparono quattro diverse liste, che si stendevano sino al fiume Aciri, lin. 17, 22, 27, 32, dove tutte terminavano in @$guxtos y& terra vergine, lin. 38. Le famiglie sceglierono le vergini terre più promettenti, che nel tipo sono lasciate in bianco, le coltivarono riparandosi sotto capanne, indicate nel tipo per mezzo di cerchietti; nella quarta porzione, oltre ai cerchietti, sta con un "IT segnata una casa che vi sorgeva; vedi la mia nota alla linea 172. Il terreno oscuro, che nel tipo si mostra ingombro di bizzarre macchie circolari, è o selvoso, o schiroso, od anche vergine non coltivato. In Eraclea, affinchè una possessione fosse distinta dalle confinanti, si doveva lasciare tra quella e queste vacuo un terreno intermedio di piedi 20, detto &vropos, il quale serviva pure di strada privata per ciascun possessore; le strade pubbliche non potevano servire di antomo. Epperò ciascuna delle quattro famiglie, come ebbe scelta la sua porzione, vi tagliò il privato antomo, che dalla carreggiata scendeva al fiume Aciri. Dall’antomo poi perpendicolare al fiume si spiccava la via, che Erre ILLUSTRATA DA AMEDEO PEYRON. 219 metteva alle capanne abitate dal contadino ed al terreno colto. Quindi quattro sono gli antomi privati delle quattro famiglie usufruenti del podere ; il quinto, che nella linea 87 è qualificato come conducente lungo î Finzii, è l’interstizio, che si lasciava vacuo tra il podere di Bacco, e quelli dei Fintii e di Conea, lin. 31, 32. Tutti gli antomi, come anche le strade pubbliche , erano tutte larghe piedi 20 [metri 2. 55], siccome evidentemente si raccoglie dalle distanze che passavano tra un oro e l’altro, e tra gli ori ed i loro antori, La sola Trentapeda era larga piedi 30 [metri 3. 82]. Nel tipo io segnai, come infra, con numeri arabici gli ori, antori e messori piantati dagli Agrimensori. i N.° 1. Oro sulla costiera, lin. 53, 54. » 2. Suo antoro sulla carreggiata, lin. Go. » 3, 4, 5, 6. Quattro messori sull’intersecazione delle due strade, lin. 63-65, gr. » 7,8. Due ori sulla costiera, lin. 78, 79. » 9; 10. Loro antori sulla carreggiata, ivi. » 11, 12, 13, 14. Quattro ori sull’intersecazione delle due strade, lin. 81. » 15, 16. Due ori sull’antomo primo, lin. 82. » 17, 18. Due ori sull’antomo secondo, lin. 83. » 19. Oro sulla costiera, lin. 57. Nel tipo occorse un errore; l’oro doveva esser posto sulla costiera. » 20. Suo antoro sulla carreggiata, lin. 60. » 2I, 22, 23, 24. Quattro messori sull’intersecazione delle due strade, lin. 68. Gli Agrimensori, facendo nelle linee 88 e seg. la ricapitolazione dei termini da essi piantati, dissero di aver piantati sette ori nel primo antomo ed altrettanti nel quarto. Io seguendo passo passo la loro rela- zione non ne trovai che sei. Nella nota alla lin. 10 illustrando il vocabolo ovppetpeîv dissi che gli Agrimensori avevano tirato una linea diagonale dal termine antico dell’antomo primo sino a Conea, epperò sospetto, che in capo ed in fine di questa importante diagonale abbiano pure piantato termini, i quali darebbero il settimo oro nella prima e nella quarta porzione. " : Old ROIO NHasse di Sc Mou, Store Fill. Serio W Wow, XXVI. î T a |° [Porzione Il |. Por ione II PENA. | Porzione 1° È n Irentapeda Trentap eda dalla dalla LE RIONE ZE IA primo secondo Pandosta (27) 2 - 0 dara) 0 rn È -—a Anton SI È NE Ò NE N ia o) Torino Lit FE Doyen ; ua, bi 7dAa dorico per otnàn.. DO ULETIE MI RIOR SON Zyoîyos i misura di Eraclea misura di Erodoto CRACIMGLECIAR A Tepudifety RO PLOVERINALIA PATITI CLIO TIA TINTA AI MIL PAGSI DOGE e ilo INDICE DEGLI AUTORI ILLUSTRATI Aristotele, Politica, VI,3,0. Pac. 155 ETOAOLO ARL OR » NIE SR a » 195 209 sg. 223 191.194 186 209 sg. 185 139 ivi 204 180 19115198 215 154. 191 185. 203 134 191.195 195 sg. 185 215 191 204 Plutarco, Quest. Grace... PAG. 207 DUCIMAeRVA AZ o. Varrone, De re rust., I, 44 » » ivi 201 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE NEL TERRITORIO VILLA DI CHIESA (IGLESIAS) IN SARDIGNA NEI PRIMI TEMPI DELLA DOMINAZIONE ARAGONESE DEL CONTE CARLO BAUDI DI VESME Memoria letta ed approvata nell'adunanza del 13 giugno 1869. —_—___—— CAPITOLO I. Coltivazione delle miniere in Sardigna ”, e nominatamente nel territorio di Villa di Chiesa, fino alla caduta della dominazione Pisana. A. Fra le sorgenti di ricchezza di alcuni fra i communi italiani nel medio evo, non ultima fu l'industria delle miniere; la quale tuttavia passò quasi inavvertita, nè «finora da alcuno vennero prese ad accurato esame nè esposte le leggi e le consuetudini che reggevano questa in- dustria, nè il modo o l’importanza dei lavori. Di questo silenzio fu cagione sopratutto la scarsità dei documenti, e la loro oscurità, la quale non potevano dileguare le persone che li trassero in luce, per lo più $ 1. +) Pernon commettere un anacronismo, meno grave ma pur simile di quello di chi chiamasse Francia V’antica Gallia, Zrghilterra la Britannia, o Lombardia la Gallia Cisalpina, diciamo, con tutti li scrittori del secolo XIV, SARDIGNA e non SARDEGNA, quando parliamo di quest'isola prima che la dominazione Aragonese ne avesse mutato perfino il nome. Serie II Tom. XXVI. 29 226 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE inesperte della materia. Ora a me, non al tutto estraneo a tale industria, e che accuratamente ho visitato alcuni di quegli antichi lavori, aban- donati fino dagli ultimi anni del secolo decimoquarto, perciò rapre- sentanti appieno l’antica loro forma e condizione, essendo avvenuto di scoprire un importante documento che sparge ampia luce sull’oscuro argomento, voglio dire il Breve o Statuto di Villa di Chiesa (l’odierno Iglesias ), quale, sulle tracce degli anteriori Brevi Pisani, venne rifor- mato al tempo della conquista Aragonese: ho fatto oggetto di diligenti studi, e qui esporrò con quella maggiore esattezza e perspicuità che mi sarà possibile, colla scorta di questo e di altri documenti, gli ordi- namenti e le consuetudini che in quelle parti nella prima metà del secolo decimoquarto reggevano l’arte dell’ argentiera. Lo studio poi di queste leggi e consuetudini sarà , spero, di tanto maggiore utilità , in quanto non pure sono al tutto diverse da quelle che nella maggior parte d'Europa reggono l'industria mineraria ai nostri giorni, ma inoltre hanno questo proprio e particolar pregio, che per esse Villa di Chiesa, sorta da meno di un secolo, divenne per popolazione e per ricchezza uno dei luoghi principali di Sardigna; e alcune parti di quelle institu- zioni, e più ch’altro il principio medesimo di assoluta libertà che le reggeva, potrebbero utilmente, sotto forma alquanto mutata pei mutati metodi di coltivazione, passare nella legislazione mineraria dei nostri giorni. — Crediamo tuttavia necessario, a meglio dimostrare le cause e gli effetti delle instituzioni che stiamo per descrivere, prendere la cosa da’ suoi principii, e raccogliere dapprima le scarse notizie che ci riman- gono intorno alla coltivazione delle miniere in quelle parti fino dalle età più remote. 2. Siccome anche in Sardigna si trovano tracce dell'età della pietra”, non sembra che agli antichissimi abitatori di quell’isola fosse conosciuto l’uso dei metalli. Fra i colonizzatori posteriori, primi, secondo la testimonianza probabilmente esatta degli scrittori Sardi , vi coltivarono le miniere i Fenici; e già ai tempi di Sardo Patre le miniere di ferro, di rame, di piombo e di argento vi erano in pieno esercizio ?). ‘Tale $ 2. 1) Spano, Memoria sopra alcuni Idoletti di bronzo; Cagliari, 1866, pag. 34; e Memoria sopra una lapide terminale; Cagliari, 1869, pag. 27-28. 2) « Et vos primum, o Finices, Qui imbenistis insulam, ...Qui metalla effodistis, Montium » divilias. » Ritmo di Deletone, vers. 32-35, presso MARTINI, Pergamene d’ Arborea, pag. 96bis e 98. — Veggasi anche Severini Vita dal codice Garneriano, fol. 57) e 582, presso MARTINI, Appendice alla Raccolta delle Pergamene d'Arborea, pag. 42. IN VILLA DI CHIESA 227 asserzione degli Scrittori Sardi viene confermata dall’autorità di Diodoro Siculo, secondo il quale i Fenici fondarono colonie in Sardigna appunto dopo essersi arricchiti per la coltura delle miniere in Ispagna, in tanto, che non bastando le navi a portare il molto argento, ne posero, rife- risce Diodoro , invece di piombo ad accrescere il peso delle ancore ©. Non troviamo menzione delle miniere in Sardigna durante la signoria dei Cartaginesi; ma supplisce in parte al difetto ciò che Diodoro ed altri scrittori narrano di quelle della Spagna; poichè molti argomenti dimostrano, che sotto questo aspetto fu simile la condizione delle due provincie soggette alla medesima dominazione. Dice Diodoro, che tutte le miniere che si coltivavano a’ suoi tempi nelle Spagne, già vi erano state aperte e lavorate dai Cartaginesi #; al tempo dei quali esse erano del primo occupante ®?, ed i possessori ne avevano tratto immensi benefizi. 3. Prima di farci a raccogliere ed esaminare le notizie che ci riman- gono intorno alle miniere di quest'isola dopo la conquista dei Romani, è necessario toccare la questione già da molti agitata, da quali leggi sotto la costoro dominazione fosse retta la presente materia. A. parer nostro, le non rare avvegnachè indirette testimonianze che troviamo negli storici e presso i giureconsulti non lasciano dubio, che ai tempi della republica e nei primi tre secoli dell'impero Roma non ebbe legis- lazione mineraria. Le miniere e le cave appartenevano al padrone del terreno, e seguivano la sorte delle altre proprietà stabili; ma nei paesi conquistati, molte miniere, ossia tutte quelle che vi erano del principe o dello stato, e molte fra quelle dei privati, divennero, ai tempi della republica, publiche del popolo Romano, e si solevano dare in appalto dai cepsori, che prescrivevano le condizioni (Zex) dell'appalto !. Ai tempi dell’ impero molte fra le miniere rimaste ai privati passarono al principe per mezzo delle confische ©, le quali erano conseguenza legale 2 3) DroporI SicuLi Lib. V, cap. xxxV. 4) « Tav parad)ovpyeioy oddey mpboputav Èyer tiv ùpynv, mavta de drò ts Rapyndoviwy piapyupias UvemySn, n09° Gy s0pdy T7S enpias èrexpitovy. » Ibid., Lib. V, cap. XXXVIII. 5) « Oî qiyovrzs mov idoriv mpocssapispovo toîs perdò.)os. » Id., Lib. V, cap. xxXVI. $ 3. 1) Questa è la significazione della parola nel celebre passo di Plinio (Mist. rat., XXIII, xXI ), dove riferisce , aversi la /ex cersoria delle cave d’oro degli Ittimuli nel Vercellese, colla quale si proibiva ai publicani d’impiegare nel lavoro più di 5/m operaj. In simile significazione la voce lex è spesso adoperata da Catone, dove espone i patti soliti apporsi nei contralti agrarii. 2) Ne abbiamo un esempio in Tacito, Annal., VI, xxv (xx). — In questo passo, che 228 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE di ogni condanna a pena capitale, ossia per la quale si perdesse la cittadinanza, la libertà o la vita ©. Da un passo del giureconsulto Paolo sappiamo, che vi erano miniere, che ai privati non era lecito di pos- sedere 9; onde sospettiamo, che in alcune province la coltivazione delle miniere d’oro, e forse talora di quelle d’argento, fosse interdetta ai privati: trovando difatti che tale proibizione per le miniere d’oro ebbe luogo in Macedonia 5); e vedendo inoltre, che in tempi posteriori in alcune province fu proibito ai privati il lavoro delle miniere, affinchè più agevole riescisse la coltura di quelle dello stato ®. 4. Le miniere publiche si coltivavano per mezzo degli schiavi pu- blici, e per mezzo delle persone che erano condannate in metalla ovvero in opus metalli, che ambedue erano fra ‘le pene dei delitti capitali ?, e corrispondevano, salvo la maggiore durezza , alla pena ai nostri giorni dei lavori forzati a vita. Troviamo anzi che al duro lavoro delle miniere, del pari che alle altre opere pubbliche, si costringevano spesso i provinciali ®. — Le miniere dei privati sì coltivavano per mezzo di schiavi, che giorno e notte erano tenuti al cupo, ed astretti al lavoro colle percosse; sì che in folla vi perivano, e i più robusti e toleranti vi conducevano vita peggiore della morte È. 5. Dal cadere del terzo secolo in poi sembra che pel numero degli schiavi immensamente scemato, e per altre cagioni, che qui non è luogo di ricercare, fosse a mano a mano in gran parte abandonata la coltura delle miniere publiche, sia di quelle date in allogagione, come di quelle secondo il codice Fiorentino si legge nel seguente modo : « ac ne dubium haberetur, magnitu- » dinem pecuniae malo vertisse, aurariasque ejus, quamquam publicarentur, sibimet Tiberius » seposuit; » o prima o più veramente dopo la voce aurarzas deve evidentemente supplirsi argentarias. 3) « Rei capitalis damnatum sic accipere debemus, ex qua causa damnato vel mors, vel » etiam civitatis amissio, vel servitus contingit. » Wlpianus, Lib. 48 ad Edicium ; dig. 2 de poenis (48, 19). 4) Dig. 4 de rebus eorum qui sub tutela (27, 9). 5) Livi ZHist., Lib. XLV, xxrx, 11. 6) « Privatorum manus ab exercendo quolibet marmoreo metallo probiberi praecipimus, ut v fiscalibus instantia locis liberior relaxetur. » Corst. 73. €. Th. de metallis et metallariis (40, 19). S 4. 1) Ulpianus, lib. 9 de officio proconsulis; dig. 8, $ 4 de poenis (48, 19). 2) Tacito, nell’orazione di Galgaco ai. Britanni (Agricola, cap. xxxI, xxxI1): « Novi nos » et viles, in excidium petimur; neque enim arva nobis aut metalla aut portus sunt, quibus » exercendis reservemur ...... ibi tributa et metalla, et ceterae servientium poenae, quas in » aeternum perferre aut statim ulcisci, in hoc campo est. » 3) Diopori Sicuri Lib. V, cap. xxvul. n IN VILLA DI CHIESA 2209 coltivate direttamente per cura dello stato. Crediamo doversi da ciò principalmente ripetere la facoltà da Costantino in poi generalmente concessa per legge ai privati, di coltivare le miniere; facoltà che, sebbene in quelle leggi non sia espressamente dichiarato , si estendeva senza fallo non alle sole miniere private, ma anche alle miniere publiche abandonate, e a quelle delle quali, certo almeno in alcune province, era proibita la coltivazione ai privati ®. E ciò appare viepiù evidente dalla legge di Valente dell’anno 365, data al Conte dei Metalli, colla quale permette a tutti la coltivazione delle miniere d’oro, a benefizio loro e dello stato, mediante un canone sul prodotto, e l’obligazione di vendere l’oro ritrattone al fisco, dal quale dovevano riceverne il giusto prezzo ?. Ma più importante ancora deve dirsi, a parer nostro, una costituzione dell’imperatore Teodosio dell’anno 332, colla quale s’intro- dusse un principio al tutto nuovo nella legislazione Romana, separando la proprietà della miniera da quella del suolo, mediante la facoltà fatta ai privati di coltivare miniere poste anche in terreno altrui, pagando un decimo del prodotto al padrone del suolo, e un decimo al fisco ?). Si cercò inoltre d'impedire l’abandono delle miniere, particolarmente senza fallo di quelle apartenenti od allo stato od al principe; e ciò sia col vietare il passaggio dei metallari (così si dicevano ) dall’ una all’altra provincia #, sia coll’estendere ai metallarii il vincolo di origi- nalità , ossia la proibizione di abandonare la propria professione, e la necessità di seguire la professione paterna ®: vincolo che negli ultimi tempi dell’impero legava quasi ogni condizione di persone, dai decurioni ai coloni, ai porcari, e perfino ai comedianti. 6. Da queste considerazioni generali intorno alla legislazione mineraria al tempo dei Romani passando ora ad esporre le scarse notizie che ci rimangono di quest’ industria in Sardigna durante la loro dominazione, noteremo, come appena si può dubitare, che alle miniere di quell’isola nei primi tempi dopo la conquista toccasse la medesima sorte che a quelle delle Spagne. Di queste narra Diodoro, che tosto dopo occupate $ 5. 1) C.4 C. Th. de metallis et metallariis (10,19). — Veggasi anclic la Nota aggiunta in fine del presente Capitolo. 2) C. 8 C. Th. eod. 3) C. 40 C. Th. eod. — Vedi anche c. 11. 4) C. 6,7, 9 cod. D) 095 76450 e0dì 230 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE le Spagne dai Romani una folla di Italiani si fece sopra alle argentiere, e comperando copia di schiavi, e dandoli alle persone che dirigevano li scavi, ne traevano immense ricchezze '). Appare quindi che la coltura delle miniere era libera in Ispagna ai tempi della republica; ma che gran parte dalle mani degl’indigeni o dei Cartaginesi erano passate in quelle dei Romani, e alcune probabilmente nelle mani di quelli fra gl’indigeni, che aveano seguito le parti dei nuovi signori. Dalle miniere poi il publico erario traeva ampii proventi per mezzo del diritto (ve- ctigal), che senza fallo era di una parte del prodotto, la quale parte poscia soleva tassarsi dai magistrati provinciali ad un prezzo arbitrario. E di questo provento che la republica traeva dalle miniere fa cenno Livio dove narra, che avendo Catone vinte e pacate le Spagne, v'im- pose magna wvectigalia sulle cave di ferro e d’argento ?). 7. La condizione sotto molti aspetti simile delle Spagne e della Sar- digna, passate ambedue dalla dominazione dei Cartaginesi a quella dei Romani, già per sè sola sarebbe grave argomento a far credere simile la sorte toccata per la conquista alle miniere in ambedue le province nei primi tempi della dominazione Romana. Ma di un tale stato di cose una testimonianza diretta ne viene inoltre conservata in un estratto della Storia di Severino, scrittore Sardo di Cornus, che fioriva verso la metà del settimo secolo di Roma; estratto conservatoci dall’anonimo autore della Vita di quello storico ”. Dice adunque Severino, che la Sardigna era ricca in metalli, ossia in argento, rame, ferro e piombo ; e particolarmente le montagne di Metalla e d’Antas, dove si scavava gran copia d'argento. Il sito di Antas è noto, nelle montagne a tra- montana d’Iglesias ; all'incontro è al tutto incerto il sito dove fu Metalla ?. Soggiunge adungue Severino, ch'egli aveva un fratello, di nome Serpio, il quale sposò una ricca donzella di Metalla, che, fra le altre possessioni $ 6. +) Dropori Sicuri Lib. V, cap. xXxvI. 2) Livir Histor. Lib. XXXIV, xxI, 7. $ 7. +) Presso MarTINI, Appendice alla Raccolta delle Pergamene d’ Arborea, pag. 41-45. 2) Inclino a credere che fosse a Corongius, circa 10 chilometri a mezzogiorno d’Iglesias, quasi sulla strada da Villamassargia a Sant’Anlioco, dove sì trovano rovine antiche più che in altro luogo di quei contorni, e che non discorda dalle indicazioni fornite dall’Itinerario d’An- tonino e da Tolomeo. Siccome poi non ne troviamo menzione nelle numerose memorie che ci rimangono del secolo XIV, non può dubitarsi che era stata distrutta o nelle invasioni dei Sara- ceni, o forse già durante la guerra vandalica. I | | sù IN VILLA DI CHIESA 231 ereditate dal padre, aveva un monte nei confini di quella città, stato dato a suo padre in compenso di grandi servizi resi alla republica. Avendovi Serpio scoperto una vena di piombo argentifero, e poscia un’altra viepiù ricca d’argento, le fece coltivare dai metallarit; ma, soggiunge Severino, quantunque ne traesse grandi prodotti, poco o niun benefizio glie ne restava, per la gravità del vettigale da pagarsi alla republica, e per le estorsioni e le angarie degli esattori. — Siccome non ci rimane la storia medesima di Severino, ma soltanto un estratto di molti secoli posteriore, si potrebbe sospettare della sincerità del racconto; ma esso è talmente conforme a ciò che Diodoro e Tito Livio ne scrivono delle miniere di Spagna, che anche intorno al racconto di Severino, nella parte sua essenziale, cessa ogni sospetto. Notisi tra le altre cose, l’essere stato dato quel monte a Serpio dai Romani; il che concorda con quanto sappiamo del modo come i Romani solevano disporre delle terre e delle cose dei provinciali. Aggiungasi la libertà della ricerca e della coltura, col pagamento di un vettigale ; e l'enorme gravità di questo, resa anche maggiore dalle arbitrarie estorsioni dei magistrati mandati da Roma nelle province. Questo vettigale , secondo Severino, era mediae et tertiae partis utilis, ossia probabilmente ia metà per l’oro e l'argento, per gli altri metalli il terzo ?. 8. Della ricchezza e della continuata coltivazione delle miniere in Sardigna negli ultimi tempi della republica abbiamo una testimonianza notabile in quanto, sebbene conservataci da uno scrittore che sembra non anteriore al terzo secolo dell’era volgare, teniamo per fermo essere tratta da quel Sallustio, che dall'età seguente fu detto Romana primus in historia. Due antichi scrittori, Solino '” ed Isidoro ?), ci conservarono alcune notizie sulla Sardigna , tratte da un fonte commune ; ma, secondo l'indole della loro opera, Isidoro conservò particolarmente quelle relative alle trasmigrazioni dei popoli e alle colonie condotte nell'isola ; Solino trattò più diffusamente delle cose rare e maravigliose che si dicevano 3) Alla voce tercie fu dalla stessa mano che scrisse il codice sostituito duarun terciarum. Ma in quel codice quasi lulte le mutazioni falle dallo scrittore soro manifeste interpolazioni; e la lezione tercie viene confermata dal singolare partis non corretto, e dall’essere un tributo duarum tertiarum troppo enorme cosa anche per Romani. È già il MARTINI ((. c., pag. 103, zot.), dietro mio consiglio, accellò questa interpretazione. $ 8. 1) Soini Collectanea seu Polyhistor, cap. 1v. 2) IsiporI Originum Lib. XIV, cap. vi. 232 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE trovarsi in Sardigna. Che poi il fonte commune dei due scrittori sia Sallustio, ce lo dice manifestamente lo stile e la lingua di buona parte di quel loro racconto, nel quale la forma inimitabile di quel grande scrittore appare evidente *; ed è confermato dall’ autorità di Prisciano e di altri antichi, i quali citano come di Sallustio parecchi tratti del racconto, che, in parte colle medesime parole, troviamo presso Solino ed Isidoro. Che più? Fino dal principio della sua esposizione sulla Sardigna Solino cita come suo autore appunto Crispo, ossia Sallustio. — Abbiamo creduto dovere in prima dimostrare che il fonte di Solino in quanto dice intorno alla Sardigna fu Sallustio, per così definire a quale età appartenga il suo racconto, e quale ne sia l'autorità. Fra le cose adunque che riferiscono Solino ed Isidoro vi ha, che in Sardigna si trovava un animaletto maraviglioso, detto solifuga, di cui Solino sog- giunge che dé. metallis argenteis plurima est; nam solum id argenti dives est. Non ci fermeremo a discorrere della solifuga; chè nulla di simile si trova, e possiamo dire che nulla si trovò mai nelle argentiere anche più cupe di Sardigna. Ma in una cosa che non poteva trarre dalle greche favole, ma della quale ai suoi tempi abondavano i testimonii in Roma stessa, la sua parola fa piena fede; ossia in ciò che asserisce del numero e della ricchezza delle argentiere in quell’isola. 9. Di queste miniere nei primi secoli dell’impero non fa menzione alcuno degli antichi scrittori che ci rimangono; ma un prezioso docu- mento se ne scoprì or fa pochi anni, ossia un pane di piombo, intero, portante in rilievo dalla fondita l'iscrizione IMP(erazoris) CAES(aris) HADR(iani) AVG(usti). Esso fu trovato in Carcinadas, nel territorio di Fluminimaggiore, sopra il porto detto di San Nicolò ; ed ora, per dono dello scopritore signor Serpieri, si conserva nel museo di Cagliari ”. Non crediamo che da ciò si possa dedurre, che tutte le argentiere di Sardigna appartenessero al principe, ed a suo nome fossero coltivate ; 3) Per la stessa cagione non dubito di ascrivere a Sallustio anche il seguente passo di Solino, relativo esso pure alla Sardigna (cap.1, 61): « Hic Iphicles Jolaum creat; qui Sardiniam » ingressus, palantes incolarum animos ad concordiam eblanditus, Olbiam atque alia graeca oppida » extruxit. » E come di Sallustio, ma nelle ultime parole guasto da Solino, tengo anche quel che segue: « Jolenses ab eo dicti, sepulchro ejus templum addiderunt, quod, imitatus virtutem » patrui, malis plurimis Sardiniam liberasset. » ) 9. +) Bullettino Archeologico Sardo, diretto dal Canonico Commendatore Gio. SPANO; Anno Gltavo (1862); pag. 129-132; ed Anno Nono (1863), pag. 75-78. IN VILLA DI CHIESA 233 ma vi ravvisiamo soltanto un esempio di quelle, delle quali più sopra abbiamo tenuto parola, che a vario titolo, e particolarmente per mezzo delle confische , nelle varie parti dell'impero erano passate al fisco, ossia al patrimonio privato del principe. Anche altri pani di piombo, alcuni interi, parecchi spezzati, ma tutti anepigrafi, e parecchi pezzi di litargirio, furono trovati, unitamente a molte monete Romane, fra le scorie delle antiche fonderie nella provincia d’Iglesias. 10. E tanto più non possiamo indurci a credere, che tutte o la maggior parte delle argentiere di Sardigna fossero dai privati passate al patrimonio del principe, in quanto, se così fosse, certo nel Codice Teodosiano troveremmo vestigio dei provedimenti presi affinchè non se ne rallentasse la coltura, e i metallarii non le abandonassero ; come troviamo per altre miniere, quelle, per esempio, d’oro nella Macedonia. Per la Sardigna troviamo invece una disposizione al tutto contraria , ossia essersi da Valentiniano I (anno 369) proibito sotto gravi pene, che alcuno trasportasse metallari in Sardigna !; divieto che dal suo figliuolo e successore Graziano fu dapprima abolito, poscia riconfermato ?). Appare da una tale prescrizione, che la Sardigna aveva miniere esercitate dall'industria privata; e probabilmente le difficoltà del clima e della distanza erano state cagione, che più ancora in Sardigna che non nelle altre provincie la nuova legislazione mineraria introdotta da Costantino e da’ suoi successori avesse per benefica conseguenza il passaggio ai privati anche delle miniere, che dapprima appartenevano al principe od allo stato. E tanto più dobbiamo considerare tale passaggio come pro- babile e quasi certo, in quanto a quei tempi anche i fondi rustici ed altre proprietà publiche di vario genere solevano concedersi in enfiteusi perpetua all’ industria privata sottoponendole ad un annuo canone, secondo la norma che abbiamo veduto essersi stabilita circa quel tempo medesimo per le miniere. E convien dire, che queste dessero in Sardigna ai coltivatori benefizii considerevoli; poichè allettatine i minatori degli altri paesi, e probabilmente senza fallo quelli che coltivavano le miniere 6 10. +) C. 6 C. Th. de metallis et metallariis (10, 19). 2) C. 9 cod. — Quelli che nella legge precedente sono chiamati metallari, qui sono detti aurileguli ; nè perciò possiamo credere che qui si parli di diverse persone, ma comprendersi solto ambidue questi nomi i minatori, ossia gli escavatori di qualsiasi metallo; tanto più che nessuna sicura o probabile testimonianza abbiamo di miniere d’oro in Sardigna. Serie II. Tom. XXVI, 30 234 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE che nella vicina Spagna ° od altrove appartenevano al principe od allo stato, le abandonavano, per recarsi a coltivare quelle di Sardigna ; il che si volle colle leggi pur ora citate impedire. E che questo fosse lo scopo di simili divieti, appare anche dal confronto di altre simili leggi, e nominatamente di quella dell'imperatore Teodosio, riguardante un’incerta provincia dell'Oriente #: « Proibiamo che i privati lavorino qualsiasi » vena metallica , affinchè più libera ne sia la coltivazione nei luoghi » che appartengono al fisco. » Di questa ricchezza della Sardigna in argento fanno menzione Rutilio Numanziano nell’Itinerario 9, e, circa il tempo appunto che quell’isola cadde sotto la dominazione dei Vandali, Sidonio Apollinare nel Panegirico a Maggiorano . 11. Da quel tempo fino alla caduta della dominazione vandalica, nè durante la signoria dei Greci, nè sotto quella di Gialeto che l’anno 687 fece l’isola indipendente dall'impero, o sotto quella dei re suoi succes- sori, non troviamo memoria alcuna delle miniere di Sardigna o della loro coltura. Al tempo del re Bono, nella prima metà del secolo decimo, i quattro giudicati, nei quali già sotto il governo dei Greci, e poi sotto i re, l’isola era divisa, si fecero indipendenti da Cagliari; ed in tutto l’intervallo, sia dapprima sotto i re, e vieppiù poscia sotto i giudici, la Sardigna fu combattuta e in gran parte conquistata dai Saraceni ; e dopo l’ultima cacciata di questi cadde quasi intera sotto la dipendenza dei Genovesi o dei Pisani. — Durante la signoria dei re prima, e poscia quella dei giudici, ora indipendenti ora vassalli di Pisa, non troviamo memoria delle miniere di Sardigna; salvo che una carta di Comita d’Arborea, contenente alcune largizioni alla chiesa di San Lorenzo e al commune 5) Già Gotofredo aveva fatto notare, senza tuttavia indicarne o comprenderne il motivo, che la legge di Graziano, colla quale rivocava la facoltà da lui nuovamente data ai metallarii di recarsi in Sardigna, è diretta appunto al Prefetto al pretorio delle Gallie. La ragione sta in ciò, che appunto a quello erano sottoposte le Spagne. 4) C. 13 C. Th. de metallis et metallariis (40, 19). 5) Rutilii Numantiani Ilinerarium, vers. 351-356: e Occurrit chalybum memorabilis Ilva metallis, » Qua nihil uberius Norica gleba tulit; » Non Biturix largo potior structura camino, » Nec quae Sardoo cespite massa fluit. » Plus confert populis ferri foecunda creatrix » Quam Tartessiaci glarea fulva Tagi. » 6) Sidonii Apollinaris Carmen V, vers. 49: « Sardinia argentum, naves Hispania defert. » 7? IN VILLA DI CHIESA 235 di Genova (anno 1131), fra i luoghi compresi nella donazione annovera la metà dei monti nei quali si trova vena d’argento in tutto quel Regno, e la quarta parte dei monti nei quali si trova vena d’argento in tutto il Regno Turritano . Non pare che tale donazione abbia realmente avuto effetto; ma essa dimostra tuttavia, che a quel tempo nel giu- dicato d’Arborea e in quello di Torres si coltivavano le argentiere. 12. Circa la metà del secolo decimoterzo la potenza dei Genovesi, che già era grande in alcuni luoghi della parte settentrionale della Sardigna, minacciava di estendersi anche su Cagliari, coll’ajuto di quei Giudici, che ve li chiamavano onde difendersi dai Pisani, i quali con ‘ogni studio cercavano di rafforzare e di estendere in quelle parti la loro potenza. I Pisani, ciò volendo impedire ad ogni costo, nè, per difetto principalmente di denaro, trovandosi in grado di armare forze sufficienti, invitarono ad assumersi l'impresa alcuni ricchi e potenti loro cittadini, con promessa di lasciare ad essi le terre che occupassero, sì che le tenessero come in feudo sotto la sovranità di Pisa. I conti di Capraja, e quelli di Donoratico ossia della Gherardesca, si accinsero all’ impresa; i primi riescirono ad occupare il giudicato d’ Arborea, e poscia, col concorso dei conti di Donoratico, cercavano di ottenere la signoria di Cagliari. Ottenutala poco dopo la morte dell’ultimo giudice Guglielmo II, avvenuta l’anno 1258, il giudicato di Cagliari, oltre alcune terre che passarono al giudicato di Gallura, fu diviso in tre parti, delle quali una ceduta ai conti di Capraja e aggiunta al giudicato di Arborea, l’altra con Cagliari, dopo varie vicende e contrasti, restò sotto la signoria diretta di Pisa; la terza, corrispondente a un di presso a ciò che oggi forma la provincia o vogliam dire circondario d’Iglesias, passò ai conti di Donoratico, che perciò s'intitolarono Signori della terza parte del Regno di Cagliari; e similmente quando questo loro dominio si trovò diviso tra due rami della famiglia, caduno prese nome di Signore della sesta parte del Regno di Cagliari. Poco dopo quel tempo si estinsero anche il giudicato di Torres e quello di Gallura, che pas- sarono a brani sotto la signoria dei Pisani o dei Genovesi, o di alcuna potente famiglia dell'una delle due città. $ 11 *) Liber Jurium reipublicae Genuensis, Tomus I, Doc. XXIX e XXX, pag. 37-39. Ambidue questi Documenti si leggono ripublicati nel Codex Diplomaticus Sardiniae del ToLA, Tom. I, pag. 207 e 208. 236 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE 13. I conti di Donoratico, appena ottenuto il possesso di quell’ampia e ricca contrada, si adoperarono a trarne quei maggiori vantaggi che permettevano la natura del luogo e le consuetudini del paese. Sebbene sia probabile, che la coltura delle ricche miniere di quel territorio non fosse mai stata al tutto abandonata, è indubitato che lo straordinario sviluppo, che vediamo ch’essa aveva in principio del secolo decimoquarto sotto la dominazione del commune di Pisa, ebbe principio ai tempi della signoria dei conti di Donoratico ; come ad essi è dovuta forse la fondazione di Villa di Chiesa, e certo il grande e subito suo aumento in popolazione e in ricchezza, in tanto che laddove prima della metà del secolo decimoterzo non ne incontriamo neppure il nome, cinquant'anni dopo già era divenuta dopo Castello di Castro il luogo di gran lunga più importante dell’antico giudicato di Cagliari. 14. Scarsi documenti ci rimangono di quanto riguarda le miniere di Villa di Chiesa durante il mezzo secolo che vi durò la signoria dei conti di Donoratico. Possiamo tuttavia giudicare della loro importanza dal- l'incremento istesso che in quel tempo prese Villa di Chiesa, e dalla circostanza , che la regione stessa, ossia il territorio dove erano le miniere, non solo aveva preso nome di Argentiera, ma in quella i conti di Donoratico «costituivano un Podestà. Gosì nell’anno 1282 vediamo Bonifazio e Rainerio del fu Gherardo, conti di Donoratico, nominare a Podestà dell’Argentiera loro in Sardigna Bartolommeo detto Bacciameo del fu Gherardo Guinizelli, della casa dei Sismondi ®; e l’anno 1284 troviamo Guidone da Sentate Podestà dell’Argentiera, di Villa di Chiesa e di Domusnovas, e della sesta parte del regno di Cagliari, pel magnifico e potente Signore conte Ugolino da Donoratico *. Ma il principale e più incontrastabile documento della estensione ed importanza dell’ industria delle miniere nel territorio di Villa di Chiesa fino dai tempi della signoria dei conti di Donoratico si ha nel Breve stesso di Villa di Chiesa, e nelle prescrizioni in esso contenute relativamente alle argentiere ; poichè seb- bene del Breve non ci rimanga che la riforma fattane incontanente dopo la conquista Aragonese, in questa si trova menzione non solo del Breve prossimo anteriore, quale fu corretto e riformato dagli eletti degli Anziani quando Villa di Chiesa passò stabilmente sotto la domi- $ 14. +) Cod. Dipl. Ecol., XII, 1, 1-9; 49-55. 2) Cod. Dipl. Eccl., XII, n. IN VILLA DI CHIESA 237 nazione diretta di Pisa ®; ma vi si accenna espressamente l’esistenza di Brevi anteriori ‘, e perciò necessariamente del tempo della signoria dei conti di Donoratico. Certissima ed indubitabile prova del progresso di quell’industria in Villa di Chiesa nella seconda metà del secolo decimo- terzo si ha inoltre nella estensione che aveva già nel principio del secolo seguente, nel quale troviamo che formava -la principale e quasi unica occupazione di quella oramai numerosa, attiva, e sempre crescente popolazione. 15. Non pochi sono i documenti che ci rimangono delle grandi quantità d’argento, che i Pisani, già fino dalla seconda metà del secolo decimoterzo, traevano dalla Sardigna. Nelle perpetue loro guerre contro i Genovesi, poco prima della famosa rotta della Meloria i Pisani due volte avanzatisi colle navi loro fin sotto Genova, saettarono a dileggio nella nemica città frecce colla punta d’argento. Similmente in quelle guerre, ed in quel continuo darsi la caccia, e predare o distruggere le navi l'una dell’altra città, troviamo più volte menzione che i Genovesi predarono e trassero alla loro città navi Pisane cariche d’argento Sardesco, come lo chiama il Villani; una volta la quantità d’argento predato, oltre le altre mercatanzie, ascese secondo alcuni storici a 20000, secondo altri a 28000 marchi, dei quali una parte fu dal Commune di Genova im- piegata nella costruzione della Darsena ‘. A motivo parimente dell’argento che traevano da quelle miniere, i Pisani stabilirono in Villa di Chiesa una zecca, la quale per la stessa cagione ? vi durò lungo tempo anche sotto la dominazione Aragonese; ma di questa zecca, e delle monete che vi si batterono, tratteremo ampiamente in luogo più oportuno. 3) Br. 37b 25-382 3; Cod. Dipl. Eccl., XIV, 1. 4) « Se alcuna lite et questione fusse mota ......, et lo contraclo fosse facto 72 tempo » d’alcuno Breve vecchio facto per li tempi passati in de la dicta Villa, quello Breve vecchio et » li suoi Capituli in quella cotale lite si possa allegare et usare, et per forma del dicto Breve » vecchio el li suoi Capiluli la dicta lite si possa et debbia sentenciare, non ostante questo Breve » nuovo; ecepto che in usura e in bislante , intra li quale si debbia observare questo presente » Breve, et non lì Brevi vecchi. » Br. 7% 20-30. Vedi anche Cod. Dipl. Eccl., XIV, 1, dove, dopo la conquista Pisana, si provede super corrigendo Breve Ville Ecclesie. $ 15. +) Carraro e Conlinuatori, presso MurATORI, R. /. S., T. VI, p. 380, 381; Fragmenta Historiae Pisanae, presso MuraTtoRI, R. /. S., T. XXIV, p. 690; VILLANI GIOVANNI, Cronica, Lib. VII, cap. 84, 90, 92; RoncionI, Istorie Pisane, pag. 598 e 605. 2) « In Joco Ville Ecclesie ..., tamquam ad hoc propter minierarum vicinitatem magis » idoneo. » Cod. Dipl. Eccl., XIV, L. 238 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE 16. Quanto estesa ed universale fosse l'industria delle miniere nel ter- ritorio di Villa di Chiesa sotto la dominazione Pisana è provato anche con più diretta testimonianza. L'anno 1318 essendo carestia di grani in Pisa, ser Urbano da Cingolo, allora officialis pro comuni Pisarum super blada * in Castello di Castro, ordinò che in quella città si por- tasse ogni grano di Sardigna, e di là a Pisa, vietando qualsiasi altra vendita, e facendo processi contro l'Università (così dicevano in Sardigna ciò che nel resto d’Italia dicevasi il Commune ®) di Villa di Chiesa, e contro i suoi officiali e parecchi borghesi che avevano comperato, e contro i Sardi delle ville del giudicato di Cagliari che avevano venduto frumento ed orzo contro il suo divieto, e fattone magazzino ; sì che, per timore di ser Urbano e delle pene che minacciava, nessuno più ardiva di portare grani a Villa di Chiesa. Im tali strettezze, i Rettori e l’Università di questa mandarono loro ambasciatore a Pisa Bacciameo Buglune de’ Putignanesi , il quale espose agli Anziani il divieto di ser Urbano; soggiungendo, trovarsi perciò quel luogo nella massima penuria di grano e d'orzo; « con ciò sia cosa che (diceva) gli uomini » e le persone ivi attendono più ai lavori dell’argentiera che non alla » coltura del grano e dell’orzo, in tanto che della loro ricolta non » avrebbero onde vivere per quindici giorni, se d'altronde loro non » si portasse biada. » Supplicava perciò, che il Commune di Pisa, per pietà, e affinchè Villa di Chiesa e la sua argentiera non venissero de- ‘serte per diffalta di viveri, ben volesse concedere a quella e alle persone ivi abitanti di comperare frumento ed orzo nelle ville di Cagliari, e alle persone di queste ville di venderne, e portarne in Villa di Chiesa ; e a questa fosse fatta facoltà di comperarne fuori di Sardigna, e, sbar- catolo a Porto Palmas nel Sulcis o alla Lappola di Cagliari, portarlo in Villa. Gli Anziani del Popolo Pisano accondiscesero alla domanda, annullarono i processi per ciò fatti da ser Urbano, e nel caso di grani comperati fuori di Sardigna acconsentirono che fossero sbarcati alla Lappola di Cagliari, e non altrove ?. — Di simili compre di grani abbiamo un altro notevole esempio dei tempi che Villa di Chiesa $ 16. +) Cod. Dipl. Eccl., XIV, x, 19-20. 2) Spesso nei documenti Pisani, ma non mai nei documenti Sardi, è usata anche per le ville e città di Sardigna la denominazione di Commune; vedi Cod. Dipl. Eccl., XIV, v, 11-12; XI passim; xVII, 7-33. 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, x1. IN VILLA DI CHIESA 239 apparteneva tuttora ai Conti di Donoratico ; ossia una procura passata l’anno 1295 da Guglielmo Sardano e Muccio da San Gemignano a due loro compagni, Ferrario da Queralto e Guglielmo de Terres, Catalani, per esigere il prezzo di 1700 moggia di frumento venduto a Guelfo e Lotto Conti di Donoratico e Signori della terza parte del Regno ‘di Cagliari, il prezzo di altre moggia 1526 dalla Università di Villa di Chiesa e dal suo Camerlingo , e il prezzo di moggia 609 da Pietro Yserni da Narbona ?. Degna di nota crediamo l’ampia parte presa dai Conti di Donoratico nella spesa per fornire di grani le terre loro dipendenti. 17. Un altro argomento della estensione che l’industria delle miniere aveva preso in Villa di Chiesa, sì che ad essa facevano capo gl’interessi e l'industria di quasi intera quella popolazione, l'abbiamo in ciò, che delle quattro persone, cui sotto nome di Brevajuoli all'uso Pisano era commessa la cura della correzione del Breve di Villa, tre erano tratti da quest’'industria e da quelle da essa dipendenti ”. 18. L’operosità e la ricchezza che derivava agli abitanti dall’ eser- cizio delle miniere davano vita necessariamente a una folla di altre industrie, e ad un sempre crescente concorso di gente in cerca di guadagni , sì dalle altre parti della Sardigna, come anche dalla Terra- ferma. Di questo sorgere e crescere di tali industrie in Villa di Chiesa abbiamo un esempio in una convenzione stipulata il dì 8 d'aprile del- l’anno 1315 in Castello di Castro, colla quale alcuni cittadini di Pisa ed alcuni borghesi di Villa di Chiesa fanno compagnia per un anno, per vendere mercanzie nella casa e per cura di uno di essi, un tal Baldino Vanni da Signa; al quale tuttavia, probabilmente affinchè nel suo commercio non fosse distratto da altre cure, s' imponeva l’obligazione di non avere parte durante quel tempo in argentiera ’. 19. Questo convenire d'ogni parte in Villa di Chiesa era grandemente favorito da alcune leggi, tanto più notevoli, in quanto ad esse in gran parte si deve se non forse la fondazione di Villa di Chiesa, secondo l'opinione al tutto probabile di alcuni riferita e combattuta dall’ Aleo nella sua Storia manoscritta della Sardegna ”, per certo almeno il grande 4) Cod. Dipl. Eccl., XIII, 1v, 23-64. $ 17. +) Br. 22b 32-4. 6 18. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, 1x. 6 19. 1) P. F. lorpe ALEO: Successos generales de la Isla y Reyno de Sardena : Tomo II, cap. LXII, num. III. 240 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE e subito incremento che prese verso la metà del secolo decimoterzo ; sicchè, se anche prima esisteva, potè dirsi, come Roma al tempo di Ro- molo, per simile modo sebbene con troppo diversa fortuna, a quel tempo fondata. Riferiremo l’una di siffatte leggi colle parole medesime colle quali è sancita nel Breve ? : « Ordiniamo, che tucti l’argentieri et habi- » tatori di Villa di Chiesa et dell’argentiera, et tucti quiunqua virrà in » della nostra Villa et argentiera, così strayneri come habitatori, siano » sani et salvi in aviri et in persona, andando, vennendo et stando » in de la nostra Villa ed argentiera, non obstante alcuno sbandimento » contra di lui dato, fuore della nostra Villa et argentiera: salvo che » sbandito ....... di micidio , tradimento , furto , falsità, buggerone , 9; li quali tucti stari non ci possano nè » pattarino, o per astistino » debbiano ...... Et qualunqua persona offendesse de li suprascripti » sbanditi, a li quali è conceduto in Villa di Chiesa et sua argentiera » potere stare per forma di questo Capitolo di Breve, paghi quella pena » che pagasse s’avesse offeso alcuno, lo quale non fusse sbandito. » Anche più tardi (anno 1331) essendosi da Re Alfonso dati ordini per la consegna vicendevole dei malfattori in qualsiasi parte della Sardigna, si dichiara formalmente , ciò doversi intendere, salvi i privilegi di Villa di Chiesa ®. — Ma più ancora che questa prescrizione, per la quale si faceva di Villa di Chiesa un convegno ed un asilo pe rei di minori delitti, doveva trarvi gran numero di gente un altro privilegio, in forza del quale nessuna persona per debito fatto o per condannagione subìta fuori di Villa di Chiesa non poteva per alcuna cagione o ragione esservi preso nè sostenuto in prigione; nè a questo privilegio era lecito rinun- ziare, e la rinunciagione che si facesse era dichiarata cassa e di nullo valore, sotto pena di grave multa al Rettore o Giudice, che consentisse che alcuna persona fosse presa contro la forma di questo Capitolo di Breve ?. 20. Se al tempo della dominazione Pisana oltre le numerose argen- tiere che si coltivavano dai privati, alcuna in Sardigna se ne coltivasse 2) Br. 58b 31-41; 592 13-18. 3) Astistino o assissino (onde assassino) in questo Breve, come in tutti gli scrittori del buon secolo, è detto, secondo l’originale e vera significazione “Gel vocabolo, colui che uccide o ferisce per prezzo (vedi Br. 49» 13-24); denominazione derivata dalla nota istoria del Veglio della Montagna. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xLVI. 5) Br. 88b 36-892 12. IN VILLA DI CHIESA 241 per conto dello stato, e col lavoro dei condannati per delitti, non oseremmo con certezza definire. Nasce in noi il dubio pel seguente passo del Commento del notajo Andrea Lancia Fiorentino alla Divina Commedia, dove a quelle parole del Poeta: « Che me rilega nell’eterno esilio, » nel seguente modo si fa a descrivere i varii generi delle pene: « Esilio, » cacciamento dalla patria; e questo è in due modi : che l’esilio è per » modo di relegazione, come dice qui il testo, o per via di diporta- » zione; il rilegato è quelli che perde con l'esilio li suoi beni, il diportato » no. Ed è proscritto quando manifestamente si sbandisce ; ed è dannato » a cavare metallo alcuno che si mandava in Sardigna alla argentiera. » Servitudine è quando alcuno perde la libertade etc. » ®. Il Commen- tatore cita qui Isidoro, dal quale difatti è tratto e compendiato questo passo ?; ma Isidoro nè qui? nè altrove non fa cenno delle argentiere di Sardigna ; e il Lancia suole alla sua compilazione aggiungere notizie de’ suoi tempi, che meritarono a quel Commento il nome di Ottimo, e lo rendono prezioso sopra ogni altro anche più antico. Ciò nulla ostante incliniamo maggiormente a credere, che tal genere di pena non fosse in uso; non trovandosene vestigio in alcun documento Pisano di quella età, e particolarmente sia nei Brevi Pisani come in quello di Villa di Chiesa, dove si tratta dei malefici e delle pene. 21. Sebbene il nome di miniera non solo sia frequente nei documenti del secolo decimoquarto !, ma si trovi negli scrittori Italiani già fino dal secolo decimoterzo, a significare le cave anche di altri metalli ?, $ 20. +) Ottimo Commento, Purgatorio, XXI, 18. Abbiamo corretto il passo che citiamo, e supplitone una lacuna, confrontando, oltre il codice Laurenziano, Plut. XL, 19, dal quale è tratta l'edizione, i codici Riccardiano 1004, e Magliabecchiano, Palch I, 31. — Il cod. Magliabecchiano invece di alla argentiera o all’argentiera (come il Laurenziano e il Riccardiano), ha all’argentiere. 2) Isipori Originum, Lib. V (il Commentatore cita falsamente Libro ZI), cap. xxvi. 3) « Metallum est ubi exules deputantur ad eruendam venam, marmoraque secanda in crustis. » $ 21. 1) Per esempio in una carta di Pietro Re d’Aragona del 1338: « Et licet dicte monete cuditio (degli alfonsini minuti) ab ejus irîlio citra in loco Ville Ecclesie insule Sardinie, et tamquam ad hoc PROPTER MINIERARUM VICINITATEM magis idoneo, continuata fuerit et continue etiam per- agatur. » Cod. Dipl. Eccl., XIV, L, 20-24. 2) « Amore in cor gentil prende rivera » Per suo consimil loco, » Com diamante del ferro in la minera. » Guo GuinicELLI, nella celebre Canzone Al cor gentil ripara sempre Amore. — Similmente nel Serie II. Tom. XXVI. di 242 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE quantunque etimologicamente denoti le sole miniere di piombo È; pur tuttavia nei più antichi documenti sia di Pisa come di Sardigna queste di Villa di Chiesa. mai non sono designate con altro nome che di ar- gentiere. Questa voce medesima poi nei documenti di quella età trovasi usata in diverse analoghe significazioni. Spesso corrisponde appunto al nome odierno di miniera di piombo, sia esso più o meno argentifero ‘; ed in questo senso troviamo frequentemente la denominazione di fossa d'argentiera . Alcuna volta con tale voce è designata l’arte od industria di tali miniere; onde il modo di dire arte d’argentiera 9, lavoro d’argen= tiera ?; ed in simile senso dicevansi argenzieri non, come oggidì, gli orafi, ma i lavoratori in qualsiasi modo in quest'arte, con significazione assai più ampia che non abbia l’odierna voce di minatori ®. Spesso poi il nome di argentiera si prende in senso collettivo, e significa la vastità del territorio dove sono le argentiere 9; ed in tale senso troviamo no- minati gli abitatori dell’argentiera di Villa di Chiesa ’®, e similmente i monti d’ argentiera *, ovvero anche monti ed argentiera ‘*. Ed in questa medesima significazione è adoperata la voce nel passo sopra riferito, relativo alle immunità degli abitatori di Villa di Chiesa e dell’argentiera, e dove riferimmo di alcuni Podestà dell’ Argentiera sotto alcuni fra i Conti di Donoratico; e con simile forma sotto i Re d'Aragona troviamo 15), l’Argentiera del Signore Re ‘9. 22. Dal nome di Sigerro col quale distinguevasi Villa di Chiesa, anche detto l’Argentiera nostra la sua argentiera nomavasi /’Argentiera di Sigerro ”. Essa comprendeva non il solo territorio di Villa di Chiesa e delle ville soggette alla sua secolo seguente il PASSAVANTI, Specchio di Penitenza, Trattato della Scienza: « le miniere dell’oro, » dell’argento e degli altri metalli. » 3) Dal minio, che è un ossido di piombo. 4) Br. 52b 4-5. 5) Br. 13b 15; 30? 41. 6) Br. 202 25; 1042 8. 7) Br. 1152 31; 115b 26-27; 1162 27-28; 1172 10. 8) Br. 8a 21-31; 25b 26-27; 35-36; 31b 24; 59b 36; 117b 36-37. 9) Br. 142 21-24; 25° 5-6; 77b 21-23; 572 16. 10) Br. 57, 24-25; 1112 7-8. 11) Br. 62 21; 642 17; 21-22. 12) Br. 14b 28; 64° 31. 15) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LIx. 14) Br. 52 10-17; 232 31-32; 642 22; 65D 3-4; 117b 33. $ 22. 1) Br. 5° 10-11; 17-18; 1352 22. IN VILLA DI CHIESA 243 rettoria, ossia Baratoli, Bangiargia, Bareca, Conesa, Sigulis, Antasa e Ghiandili ?, ma anche i territorii di Villamassargia, di Villa di Prato (l'odierno Musei), e di Domusnovas, sebbene probabilmente anche le due prime, ma certo la terza di queste ville, fossero indipendenti dalla sua giurisdizione , anzi Domusnovas avesse proprio Breve, e un proprio Rettore o Vicario 5. Appare adunque, che l’argentiera di Villa di Chiesa, limitata a settentrione dai dominii del Giudice d’Arborea, comprendeva a un di presso gli odierni territorii d'Iglesias, di Domusnovas, di Villa- massargia , di Musei, di Gonnesa, e dei communi recentemente creati nel Sulcis. — In Villa di Chiesa doveva portarsi tutta la vena che si estraeva dall’argentiera 9 e tenervisi i conti e le scritture relative alle fosse poste sui territorii delle anzidette ville; come parimente i Capitoli del Breve di Villa di Chiesa relativi all’arte del colare dovevano osservarsi anche in Domusnovas ?; e il Rettore di Villa di Chiesa aveva balia e libera potestà sulle persone poste nei territori di Domusnovas, Villa- massargia e Villa di Prato, che stornassero l’acqua onde abbisognassero i forni da colar vena °. 2) Br. 6% 5-17; 1112 5-32; 114». Vedi anche Cod. Dipl. Eccl., XIV, xvi, 12-13. — Tutte queste ville in breve perirono durante la dominazione Spagnuola; la sola Gonnesa fu riedificata l’anno 1774; di alcune la regione dove furono conserva il nome. 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, 11, A, 2, 13-14; 42-43; 3, 265; xvi, 68-69. 4) Br. 111a 5-32; 144b 27-40. 5) Br. 1342 17-23. 6) Br. 1352 1-135> 6. 244 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE NOTA al Capitolo I, $ 5. 23. In molte fra le costituzioni del Codice Teodosiano poste sotto il Titolo De metallis et metallariis (Lib. X, Tit. x1x) troviamo nominati SaXA, cautes, marmora, saxorum vena, marmorum vena, marmoreun metallum: onde molti opinarono ®, che quelle leggi riguardassero non le miniere propriamente dette ossia le cave di minerali, ma le sole cave di marmo. Un attento esame di quelle costituzioni porrà in chiaro, non ne dubitiamo, che vi si tratta difatti delle miniere, e che colle deno- minazioni che abbiamo enumerato vi si designa /a roccia metallifera , la vena, il minerale. 24. La prima e più antica delle anzidette costituzioni è di Costantino, dell’anno 320, diretta a Massimo, Razionale d'Africa. E qui giova pre- mettere, che se ebbero fama presso gli antichi i marmi Getulico e Numidico, i Romani in Africa coltivarono anche ricche miniere d’argento, di alcune delle quali fu ripresa la coltivazione a’ nostri giorni. Le parole della legge sono le seguenti: « Secandorum marmorum ex quibuscumque metallis volentibus tribuimus facultatem; ita ut qui caedere metallum atque ex eo facere quodcumque decreverint, etiam distrahendi habeant liberam potestatem. » Ora chi potrà interpretare marmora ex quibus- cumque metallis altrimenti che pietra, roccia di qualunque minerale ? 1) Vedi per esempio EnRIco PoGci, Discorso storico-giuridico sopra la legislazione delle miniere; Capitolo IT, Della condizione giuridica dei minerali e delle miniere dopo la divisione del- l'impero fatta da Diocleziano. IN VILLA DI CHIESA 245 O chi potrà riferire ai marmi le parole che seguono qui caedere me- tallum ...... decreverint? La libera facoltà poi di vendere, data con quella legge, qual senso o portata potrebbe avere se si trattasse di marmi, i quali evidentemente si scavano appunto per essere liberamente venduti? Onde anche nella legge seguente di Giuliano, la quale tratta dei marmi, è detto che l’amore della sontuosità ne aveva fatto crescere i prezzi oltre misura. Laddove riferita ai minerali questa concessione di libera facoltà di vendita è una deroga alla restrizione che, nell’interesse della monetazione e del fisco, forse con legge generale, ma certo almeno in alcune province, erasi portata al commercio dei metalli nobili. 25. Ai minerali piuttosto che ai marmi inclino a riferire anche la legge 8, colla quale, senza indicazione di marmo o di metallo, è con- fermata la facoltà concessa con altra legge ora perduta, erwendi vel exsecandi de privatis lapidicinis, e ciò nella Macedonia e nell'Illirico, province celebri per la ricchezza appunto delle loro miniere. E così opiniamo principalmente perchè ci pare poco probabile, che pei marmi, e non pei ricchi metalli, sia stata concessa quella facoltà , cotanto con- traria ai principii del diritto Romano, di trarne dalle cave private di altrui proprietà; nè può dirsi che sotto nome di privatae lapidicinae debbano intendersi le cave di marmo proprie di chi le coltivava, poichè per queste certo non era necessaria una speciale concessione legislativa. 26. Ci confermano in questa interpretazione le costituzioni 10 e 11 dello stesso Titolo. Colla prima (passata anche nel Codice Giustinianeo) si prescrive : « Cuncti qui per privatorum loca saxorum venam labo- riosis effossionibus persequuntur, decimas fisco , decimas etiam domino repraesentent ; cetero modo suis desideriis vindicando. » Che il saxorum vena qui s'intenda dei minerali e non dei marmi appare dapprima dalle accennatevi Zaboriosae effossiones, che assolutamente non si possono riferire ai tagli delle masse marmoree, ma sì alle fosse e ai cunicoli per l'estrazione delle vene metalliche. Inoltre la costituzione 11, colla quale si spiega maggiormente e si conferma l’anzidetta costituzione 10, se per una parte invece di saxorum vena dice marmorum vena , per altra parte soggiunge che la ricchezza di ‘questa marmorum vena eccitava ad exercenda metalla; onde appare che il marmorum vena significa la vena, come anticamente dicevasi, ovvero, come ora più comunemente diciamo, il filone, del minerale. Poichè chi potrà asserire, che colle parole ad exercenda metalla s'intenda lo scavo dei marmi, anzi di questi 246 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE soli, ad esclusione dei minerali? Noteremo ancora, che se si trattasse di marmi e non di minerali, assai meschino e pressochè inutile com- penso sarebbe quello da pagarsi ai privati padroni del suolo, di un decimo del marmo scavato ; e a un di presso la medesima cosa: si dica dell’altro decimo, da pagarsi al fisco. 27. Anche la costituzione 13, colla quale (probabilmente soltanto in alcune province) si proibisce ai privati di coltivare quodlibet marmoreum metallum, per renderne più agevole la coltura nei luoghi appartenenti al fisco, deve senza fallo ‘intendersi della roccia metallica ossia del metallo tuttora in roccia, come dimostra lo stesso nome di marmorewm metallum, e non dei marmi; ed i lavori clandestini che si facessero in frode di questa legge, e che sono puniti colla confisca, quanto sono possibili ed agevoli per le sotterranee ricerche dei minerali, tanto dif- ficili e pressochè impossibili devono dirsi per la coltivazione, che si fa a cielo scoperto, delle cave di marmo. 28. Resta ad esaminare la costituzione 14 del medesimo Titolo, della quale è questo il tenore: « Quosdam operta humo esse saxa dicentes, id agere cognovimus, ut, defossis in altum cuniculis , alienarum aedium fundamenta labefactent. Qua de re, si quando hujusmodi marmora sub aedificiis latere dicantur, perquirendi eadem copia denegetur ; ne, dum cautium ementita nobilitas cum aedificiorum qualitate taxatur, et pre- tium domus, ne diruatur, offertur, non tam publicae rei studium, quam privati causa videatur fuisse dispendii. » Come nella costituzione 10 sono usati promiscuamente saxorum vena e marmorum vena, così qui marmora e saxa. Se di frequente può avvenire, che una casa si trovi sovraposta a un filone o giacimento di minerale, non è all’ incontro gran fatto probabile, che sotto le fondamenta delle case si vadano a cercare marmi. Ma sopratutto, al modo stesso che le Zaboriosae effos- siones della costituzione 10 di questo Titolo indicano manifestamente la coltivazione delle miniere, non quella, al tutto diversa, delle cave di marmo : così, e a più forte ragione, ciò dobbiamo dire dei curiculi, dei quali si fa menzione in questa legge. Notiamo poi inoltre, che nella interpretazione Visigotica , fatta in un tempo che il senso e la portata della presente costituzione , che era tuttora in vigore, dovevano essere pienamente conosciuti, le parole Quosdam operta humo esse saxa di- centes sono interpretate Quicumque METALLUM dicentes latere sub alienis aedifictis. IN VILLA DI CHIESA 247 29. Commune argomento poi per tutte le leggi sopra esaminate si è, che se al tutto improbabile deve dirsi che, perfino in tempi nei quali la ricerca dei marmi, per l’universale miseria, per le invasioni barbariche, e la cadente condizione dell'impero, doveva essere assai ristretta , siasi voluto stabilire un diritto speciale in favore della loro escavazione: ben si comprende come ciò si facesse pei minerali, pei quali soli poteva parere, ed a nostro avviso è, utile e pressochè necessario, e richiesto da gravi motivi di pubblica utilità, e dalla natura medesima e dai bisogni di quest industria. 248 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE CAPITOLO II. Communi ossia Compagnie di fosse. Bistanti. 30. La formazione delle compagnie per la coltivazione delle miniere nei tempi dei quali trattiamo già era conosciuta per parecchi documenti che ne fanno menzione; fra i quali per importanza tiene il primo luogo la Quarta Distinzione del Costituto di Massa, che il Professore Bonaini publicava nel 1850 ”. Ed è notevole, che mentre il Breve di Villa di Chiesa e i documenti Toscani ci rapresentano , sotto gli stessi nomi, instituzioni a un di presso conformi, altri nomi ed assai diverse insti- tuzioni troviamo invece nei documenti relativi alle miniere nell’Ttalia superiore. Una importante diversità corre tuttavia anche tra le institu- zioni minerarie dei communi di Toscana e quelle di Villa di Chiesa , diversità della quale avremo a trattare altrove più ampiamente: che in Toscana cioè, come nell'Italia superiore, le miniere formavano regalia, la quale per concessione imperiale nel Trentino passò al vescovo, altrove ai communi, i quali perciò vi conservarono un diritto di signoria sulle miniere : laddove in Villa di Chiesa non si trova traccia alcuna anche remota di regalia. Ivi la legge non sì frammette in dare ad una più che ad altra persona le miniere, nè stabilisce norme per la loro coltura, $ 30, ») Nell’ Archivio. Storico Italiano, Appendice, Tomo VIII (Firenze, 1850), pag. 631 e seguenti; e indi ristampata nel Repertorio delle miniere, Serie 22, Volume 1°; Leggi, Decreti, Regolamenti, Circolari, Atti diversi concernenti le sostanze minerarie; Torino, 1861, pag. 415-486; ed ora da me diligentemente, coll’ ajuto anche dello stesso sig. BONAINI, e poscia del sig. GHE- RARDI impiegato all’Archivio di Firenze, riscontrata sul manoscritto originale, fu ristampata in Appendice al Breve di Villa di Chiesa. IN VILLA DI CHIESA 249 nè per la vendita dei minerali o dei metalli; ma si restringe a procu- rare d’impedire le lotte che naturalmente erano facili a sorgere fra i privati e nominatamente fra i vicini, e ad altre simili prescrizioni destinate a definire i mutui diritti delle persone occupate in questa industria. 31. Non ostante una tale differenza, vi ha nella maggior parte dei casi siffatta similitudine tra le instituzioni minerarie di Villa di Chiesa e quelle di Toscana, che ad illustrare quelle addurremo spesso anche l'esempio di queste; talvolta anche esporremo quale diversità corra tra le due instituzioni, e ne indicheremo la cagione e le origini. 32. Le fosse d’argentiera in Sardigna, quelle d’argentiera o di ramiera nel territorio di Massa, talora bensì appartenevano a una sola persona ‘, ma più frequentemente si coltivavano da compagnie, 0, come più gene- ralmente si dicevano, communi, appellazione che più volte s'incontra nel Costituto di Massa ?, e che, dalla menzione che troviamo di par- titura communale (S 57), appare essere stata in uso anche in Villa di Chiesa; ora per lo più le diciamo società, con voce non toscana, ma fino dal secolo decimoquarto per mezzo dei volgarizzatori passata dal latino nella lingua italiana. Trovasi anche usata la voce fossa ad indicare il commune della fossa, ossia la compagnia che ne aveva assunto la coltura 5. 33. Le parti nelle quali si divideva la compagnia, che ora diciamo communemerte azioni, erano dette rente *; ed il numero non ne era vario a piacimento di quelli che formavano la compagnia, ma caduna compagnia o commune di fossa era composto di xxx trente ?. Ogni trenta era divisibile a piacimento in qualsivoglia numero di frazioni ; onde spesso nei documenti è fatto cenno delle parti di trenta ©, e similmente troviamo menzionati quarti di trenta e mezze trente ‘. 34. Quale sia l’origine della voce zrente, non oserei con certezza definire. Opinarono alcuni, che questo nome derivasse dall’essere la $ 32. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 112-115. 2) M. v, 78; va, 19; x, 18. 3) Br. 122% 25-26; 31-32; 146b 7-10. $ 33. 1) M. xxx1, 14; 1, 18; Br. 82 22-23; 1422 12-20; Cod. Dipl, Eccl., XIV, xxxv, 110 135; xXXIX, 26-37. 2) Br. 79b 15-30; 138b 13-23. 3) Br. 9a 28-29; 722 40-45; 86? 51. 4) Cod Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 112; 118-119; 131; xxx1x, 31; 35; 73. Seme II. Tom. XXVI. 32 250 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE compagnia divisa appunto in trentesimi '; ma le trente erano trentadue, nè v’ ha indizio che mai sieno state sole trenta, nè di una tale variazione di numero si saprebbe render ragione. Io maggiormente inclino a cre- dere, che questa voce derivi dal tedesco trennen, dividere, e significhi semplicemente parte, divisione. Ed a ciò m'induce sì il nome di partiariî o parzonavili dato ai possessori di trente ($ 37), come anche la consi- derazione, che, quantunque meno che non nel Trentino e generalmente nell’ Italia superiore , tuttavia anche in Toscana ed in Villa di Chiesa nelle cose riguardanti l'industria delle miniere molte sono le denomi- nazioni di origine evidentemente tedesca. 35. Se nel formarsi una compagnia per lavoro d’argeutiera fosse ad alcuno promessa trenta o parte di trenta, doveva domandarla infra uno mese dal primo ragionamento (S$ 67); che se si trattasse di lavori che già stessero a ragione (S 64), il mese correva dal dì della promessa : e la domanda: o richiamo che se ne facesse doveva apparire scritta negli atti della Corte ”. Il possesso d'una trenta o parte di trenta dava, come ora il possesso di un'azione, diritto a una parte proporzionale del benefizio; ma il carico ch’essa imponeva consisteva non, come per l’ordinario ai nostri tempi, nella obligazione di conferire una somma determinata , in quanto venga richiesta pei bisogni della impresa, ma in quella di concorrere alle spese qualunque fossero, nella propor- zione che caduno partecipava ai benefizii. Il prezzo o valore venale delle trente era per conseguenza determinato soltanto dalle spese che importava il loro esercizio, e dalla quantità e qualità dei prodotti. Tro- viamo difatti accennate fosse, i prodotti delle quali non bastavano a francare le spese ?; troviamo fosse, che davano di benefizio. caduna settimana corbello 1 o meno © alla trenta; ne troviamo che davano fino a corbelli Lxm ?; e per simil modo il corbello della vena variava di pregio secondo la maggiore ricchezza della vena in piombo, e sopratutto $ 34. +) Mitanesi, nel Glossario al Costituto di Massa, \.c., pag.709; ove tuttavia nel definire la trenta si mostra incerlo se significhi, come significa difatti, carato, azione di società, ovvero ì trertesimi nei quali si dividesse ciascun’ azione. $ 35. 1) Br. 113bD 25-38. 2) Br. 129b 20-22. 3) Br.29% 23; 130b 22-25. 4) Br.131% 11-43. IN VILLA DI CHIESA 251 in argento ®. Nè solo era diverso il valore delle trente delle diverse fosse, ma cresceva o scemava anche il prezzo delle trente di una mede- sima fossa; « perchè le trente alcuna volta in brevi tempo sono buone, » et quando rie. » ° 36. Nel testamento di un ricco Toscano, Barone da Samminiato, che aveva ampie possessioni anche in Villa di Chiesa e nelle ville vicine, troviamo detto, che il testatore aveva presso di sè dieci trente e mezza delle fosse la Comunata e di Santa Picaldebito nell’argentiera di Conesa, appartenenti ad altra persona, che presso di lui le aveva lasciate in accomandigia, ed al quale perciò si dovevano restituire ®; onde appare che le trente erano rapresentate da carte che si potevano depositare , dare in pegno, in somma consegnare materialmente, come sogliono ai nostri tempi le azioni. Non ostante che tale fosse la forma e la natura delle trente, esse erano considerate non come beni mobili, ma come stabili al pari delle fosse medesime; e i trapassi di proprietà di trente o parti di trente dovevano farsi nella medesima forma e colle medesime solennità, ch'erano stabilite generalmente per gl’immobili ?). Degna di nota poi era la forma prescritta in Villa di Chiesa per le alienazioni di stabili. Qualunque persona vendesse, donasse, cambiasse, o desse in dote o in pagamento, o in altro modo alienasse alcuna pos- sessione , cioè casa, orto, vigna, terre, o forni, o trente, doveva farne mettere bando a voce per lo messo della Corte nelle piazze e luoghi usati di Villa di Chiesa; il quale bando doveva correre giorni venti, e per cura del messo essere scritto negli atti della Corte dal notaro della Corte infra il terzo dì poi che il bando fosse messo; che se non fosse scritto, pena marco uno d’argento, ferma tuttavia rimanendo la vendita. Questo bando doveva scriversi in presenza e di consenso delle parti; altrimente l’alienazione era nulla e di niun effetto. Chi avesse ad opporre o contradire, doveva mostrare le sue ragioni fra i soprascritti dì venti; passati i quali ogni opposizione che si facesse era cassa e di nullo valore. Per le trente, a. modo di eccezione e per dritto speciale, era stabilito, che questo termine valesse anche contro i pupilli e per le 5) Br.131? 15-40. 6) Br.86? 20 22. $ 36. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 131-135. 2) Br.90° 57; 14-17. 252 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE ragioni di dote. Passati i dì venti e corso il bando, il Capitano o Rettore o Giudice doveva, fra ’l termine che gli paresse convenevole, costringere il venditore a fare la carta di vendita coi patti convenuti, e darla al compratore; ed astringere questo a pagare il prezzo, ovvero, se vi fu opposizione al bando, a deporre il denaro presso idonea persona ?). Al compratore era aperta l’azione dinanzi al Giudice se la vendita non fosse fatta bene e lealmente, o non pel giusto prezzo *. Inoltre il trapasso di proprietà della trenta o parte di trenta doveva scriversi nel libro della fossa, come esporremo a suo luogo; e questo, negl’ incanti che si facessero di trente, doveva farsi fra un mese dopo trascorso il termine dell’incanto, e ciò perchè spesso le trente, come sopra nota- vamo, in breve tempo crescevano o scemavano di valore; se fra un mese non fosse scritto l'incanto nel libro della fossa, e il compratore non avesse preso possessione della trenta, l'incanto era casso e di nullo valore e come se non fosse fatto; ma poteva rifarsi da capo. Tali prescrizioni relative alle trente valevano anche contro il fisco, ed in cose di doti e di pupilli ®. Come le trente si potevano vendere, così potevano darsi in pegno al pari degli altri beni mobili ed immobili ®. Spesso anche si davano in allogagione ?; buona e commoda usanza, cessata ai nostri giorni, e che aveva principale stimolo nel diritto dei parzonavili, e per essi degli allogatori, di far computare il proprio lavoro in francare le trente ($ 39). 37. Parzonavili si dicevano i possessori di trente, aventi parte per tal modo al dominio della fossa ”, quelli insomma che nel volgare odierno sono detti azionisti, e nei documenti latini di Toscana par- tiarii ® ; in un documento di Massa in lingua volgare, dell’anno 1298, parzonaoli ? ; mel Breve di Villa di Chiesa, dove, secondo l’uso del dialetto pisano, alla 2 è sostituita la s, abbiamo per l’ordinario parso- 3) Br.89b 44-91b 37. 4) Br. 92% 11-12. 5) Br.86° 2-86b 2. 6) Br. 87b 3-40. 7) Br.92°% 35-36. $ 37. +) « Ordiniamo, che se alcuna persona avesse parte in alcuna fossa, ..... s'elli, cioè lo » parsonavile, vuole andare ecc. » Br. 1i9> 30-120% 2. — @rdiniamo che li parsonavili overo » parsonavile .... che avessino la maggiore parte delle trente. » Br. 142 12-15. 2) M. xxx; xxxv, 16-23; xL, 125-130; ed altrove spesso. Br., 4pperd. II, 77, 3) Br., Append. IV, 29, IN VILLA DI CHIESA 253 navili, e talvolta parsonavoli o parsonaveli ; noi, riducendo ad ortografia italiana la forma maggiormente in uso, li chiameremo parzonavilt. — Se della voce trenta è incerta l'etimologia, e non troviamo esempio fuorchè in quanto riguarda le miniere, non così di parzonavile, che, leggermente in varia forma modificato in quanto all’ortografia, conservò la primitiva sua significazione di partecipe; ed anche nel più ristretto senso di azionista è tuttora in uso nelle cose maritime, e negl interessi dipendenti dalla navigazione . 38. I diritti e i doveri dei parzonavili erano, ma con importanti dif- ferenze, quelli che hanno gli azionisti nelle Società dei nostri giorni. Ma le compagnie non avevano allora quello che ai nostri tempi è con- siderato come indispensabile centro d’azione e rapresentanza d’ogni Società, ed è non di rado la sua rovina: voglio dire il Consiglio d’Amministrazione. Il reggimento a commune, col quale si governavano le città, a più forte ragione e nella sua pienezza aveva luogo nelle libere associazioni private; chè i comproprietarii, ossia i parzonavili , di una miniera o di altra intrapresa industriale o commerciale mal avrebbero saputo indursi a rinunziare in capo ad alcuni, ancorchè da essi eletti, il giudizio intorno ai loro interessi o l'esercizio dei loro diritti. Il parzonavile o i parzonavili che avessero la maggior parte delle trente ordinavano i lavori da farsi, e provedevano la fossa di maestro, di scrivano e di bistante; se i parzonavili fossero più di due, il voto di uno solo, ancorchè avesse le più trente, cedeva a quello degli altri parzonavili. Inoltre non avevano voce quelli, che avessero trente anche in fossa vicina, colla quale vi fosse gara ”. Gli accordi colle fosse vicine si facevano dal maestro della fossa, colla volontà dei parzonavili che avessero la maggior parte delle trente ?); ma se si trattasse di accom- munare insieme due fosse, conveniva che quelli che a ciò consentivano avessero almeno ventotto trente 5. — Così in Villa di Chiesa; a Massa invece sì esigeva, che in tutte le deliberazioni che si prendessero con- sentissero i possessori di tre quarti almeno delle trente *; prescrizione 4) CARLO MILANESI, nel Glossario al Costituto di Massa: Archivio Storico Italiano, Tom. VIII, (1850), pag. 706. $ 38. 1) Br.132° 10-35; 119% 35-37. 2) Br.136b 35-43. 3) Br.138b 13-23. 4) MD. xXx. 254 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE che doveva necessariamente essere origine di lentezze e di danni gra- vissimi. 39. Un altro ed assai importante diritto avevano a quel tempo i parzonavili, tale che ad esso si dovette senza fallo in gran parte la for- mazione di molte compagnie, e l'utile partecipazione a tali compagnie anche di persone abili bensì al lavoro, ma che non avevano capitali da conferire all’impresa: il diritto voglio dire di lavorare essi medesimi alla fossa, o di mandarvi un lavoratore sufficiente a lavorare in loro vece; ed al parzonavile che ciò facesse doveva tenersi conto del prezzo del suo lavoro in compenso del debito che avesse verso il commune della fossa come parzonavile ". Che se in un commune o compagnia di fossa vi fossero parzonavili di Villa non lavoratori, e parzonavoli di Monte lavoratori, era stabilito che a provedere la fossa di maestro e di scrivano dovessero trovarsi degli uni e degli altri, sì che i parzonavili di Villa che francavano non potessero essere ingannati ?). Simile diritto di lavorare alla fossa si concedeva ai parzonavili anche in Massa; ma ivi se gli altri parzonavili si opponessero, la questione era commessa all’arbitrio dei Maestri del Monte È. 40. Già abbiamo fatto cenno parlando delle trente ($ 35, 38), che nel modo e nella misura del sopportare le spese le compagnie delle quali trattiamo differivano grandemente dagli usi dei nostri giorni. Non si conoscevano le compagnie anonime a capitale fisso ; inoltre era obligata la persona medesima del parzonavile, e non come ora la trenta od azione : ma all'incontro ogni parzonavile era libero di abandonare le sue trente, e così liberarsi da nuovi spendii; abandono tuttavia che non lo liberava dalla francatura delle spese, per le quali già prima fosse stato richiesto. Inoltre la compagnia o commune non era verso i creditori come una persona la quale fosse tenuta in solido; ma, sebbene i contratti si faces- sero a nome commune della compagnia dal maestro della fossa, o da altra persona a ciò destinata dai parzonavili, questi erano tenuti ciascheduno per la sua parte, in avere e in persona, pei debiti della fossa, come per qualsiasi altro debito; ma non erano tenuti in solido, e l’obligazione era personale, nè la parte che non si pagasse dall'uno $ 39. 1) Br.fi9b 28-120? 8. 2) Br.142° 29-35. 3) M. xVI. IN VILLA DI CHIESA 255 cresceva a carico degli altri parzonavili ®. Le spese della fossa si paga- vano settimanalmente ® per cura del maestro della fossa, in prima col prodotto della vena venduta, nè alcun parzonavile poteva essere obligato al pagamento della parte di spesa che si potesse pagare colla vena; se questa non bastasse, si domandava il denaro ai parzonavili, caduno dei quali era tenuto al pagamento in proporzione delle trente da lui possedute ?. 44. Il pagare il debito che si aveva in ragione di trente si diceva francare le irente o le parti ®, o anche semplicemente francare ®, e il pagamento francatura ® ; ora per simile modo dicesi Ziberare le azioni, e liberate si chiamano le azioni che o hanno pagato interamente la somma dovuta, o per privilegio e per patto sono immuni dal pagamento. La francatura domandavasi ai parzonavili settimana per settimana, cioè il sabbato ‘). La richiesta della francatura facevasi al parzonavile per lo messo della Corte. Se il parzonavile non francasse, poteva essergli preso pegno, e se non gli si trovasse pegno, doveva essere richiesto in persona, se fosse in Villa di Chiesa ; se non vi fosse, doveva essere richiesto tre volte alla casa di sua abitazione, e alla piazza di Santa Chiara, e alla piazza della Corte, e correre la richiesta dì quindici; fra i quali se non francasse, perdeva le trente o parti di trenta che avesse nella fossa, e cedevano a colui che lo avesse fatto richiedere; ma non le trente che avesse in alcuna piazza da lavar vena. Che se la fossa avesse vena, con questa dapprima doveva farsi il pagamento ; sì veramente che, se il parzonavile fra dì tre passati li dì quindici facendo stimare la vena, ove questa non valesse quanto vera a pagare di francatura, fra detti tre dì pagasse quanto gli rimanesse a dare per la francatura oltre la sua parte della vena, ricuperava le trente o parti di trenta perdute ®. Da questa obli- gazione di francare venne espressamente dichiarato che non erano libere le trente appartenenti al Re; poichè nè le trente si potevano lavorare 4 40. 1) Br.121b 30-32. 2) Br.131b 34-38. 3) Br.121D 30-122° 7; 129? 37-129b 92. $ 41. +) Br.121b 29; 33; 139b 9-10; 26. 2) Br.139 16; 142° 34. 3) Br.121b 41; 129 95. 4) Br.123? 15-17. 5) Br.121b 37-39; 129 8-30. 256 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE senza francare, ed avveniva che nessuno più ardiva coltivare le fosse dove il Re aveva parte. Era tuttavia libero al Camerlingo a nome del Re, come agli altri parzonavili, di non francare, abandonando le trente ”. Ove si trattasse di trente promesse per compagnia nuova, non poteva chiedersene la francatura se non fossero nel termine di un mese scritte nel libro della fossa a colui cui furono promesse ®. 42. Spesso anche le fosse, anzi talvolta, come abbiamo detto più sopra (S 36), da alcun parzonavile soltanto le proprie trente, si davano in allogagione ", ossia, come ora diciamo, in affitto. L’allogagione talora si faceva mediante cessione di una parte del prodotto fatta al conduttore ®, restando l’altra all’ a/logatore ®; e questo dicevasi dare a parte ©. Ne abbiamo un esempio nel territorio di Massa, dove i parzonavili della fossa « le Meloni » danno a parte la fossa co’ suoi attrezzi o fornimento a Ganterino da Cugnano e alla sua compagnia, che la lavorassero, rite- nendo per sè i due quinti, e dando gli altri tre quinti a dividersi fra i parzonavili ®©. — Ma più frequentemente l’allogagione era a prezzo fisso, 0, come dicevasi, a parte franca ®; e ce ne rimangono esempii in documenti relativi appunto a Villa di Chiesa: l’uno dell’anno 1317, col quale l'Ospedale Nuovo della Misericordia di Pisa dà in allogagione, con facoltà di estrarne la vena d’argento, per anni due, e pel prezzo di fiorini 50 d’oro all'anno, a Giacomo cognominato Puccio del fu Bon- insegna la terza parte, più o meno, appartenente all’ Ospedale, della fossa detta « la Giumentaria » in Monte Barlao ? ; l’altro dell’anno 1335, col quale, a nome dello stesso Ospedale, è data quietanza a Gaddo del fu Cerio Patroculo, familiare di Bonifazio conte di Donoratico, per fiorini dodici e mezzo, metà prezzo d’allogagione di due trente della medesima fossa la Giumentaria in Monte Barlao 5. 5) Br.139% 40-139b 42. 6) Br. 113b 39-114° 5. $ 42. 1) Br. 92° 34-92 2. 2) Br. 92° 40; 92» 4; 20; 26; 125° 36; 125b 11; 19. 3) Br. 92° 39-40; 92 4; 7; 12. 4) M. IV, 25; Br.125b 13-17. 5) M. IV. 6) Br.79? 31; 125% 33; 35; 125b 27-28; 126° 4. 7) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 9 marzo 1317. In altro documento dei 15 marzo 1319 è data a nome dello Spedale quietanza allo stesso Puccio per fiorini 50, pel prezzo di un anno di detta allogagione. 8) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 3 aprile 1335. IN VILLA DI CHIESA 257 43. L’allogagione delle fosse o delle trente doveva essere scritta sul libro della fossa, e notarvisi, il nome dei parzonavili che diedero a parte franca, il numero delle trente allogate, e il nome dei conduttori ’. In Villa di Chiesa era stabilito, che se alcuno avesse condotto a parte franca la maggior parte delle trente, potesse essere costretto di pren- dere al medesimo prezzo e alle medesime condizioni le rimanenti, purchè ne fosse richiesto fra quindici giorni dopo l’allogagione della detta maggior parte ?). Con provido consiglio era inoltre stabilito , che nessuno che fosse stato maestro d’alcuna fossa potesse prenderla a parte franca infine a capo d'un anno che fie escito della maestria, e ciò sotto pena di venticinque libre d’alfonsini minuti ; e l’allogagione era cassa ipso jure, se così piacesse alla maggior parte dei parzonavili ®. — Tali erano le norme per le allogagioni in Villa di Chiesa, dove, salvo rare eccezioni e fondate su ragioni di giustizia o di evidente utilità, la legge lasciava alle contrattazioni dei privati la massima libertà. In Massa non era lecito fare allogagioni parziali, ma soltanto allogare la fossa per intero, con- sentendovi i parzonavili rapresenianti almeno i tre quarti delle trente . 44. Per ben comprendere la natura delle allogagioni di fosse o di trente, ed in generale tutta la legislazione e gli usi che reggevano questa materia, conviene avvertire, che i lavori di fossa a quel tempo non erano, come per l’ordinario le miniere ai nostri giorni, grandi sta- bilimenti, estendentisi caduno con molta spesa su vasto territorio. Ogni compagnia lavorava allora una fossa, più raramente due o tre fra loro vicine ; ogni fossa non lavorata era del primo occupante; e così alla distanza di pochi passi da una fossa lavorata, poteva chiunque, come vedremo, porsi a coltivare un’altra fossa. Quindi non solo il lavoro di caduna fossa era per l’ordinario cosa di poca spesa, e facilmente com- pensata dai benefizii per la ricchezza del minerale che se ne estraeva, andando gli antichi in traccia quasi del solo argento nè curando il piombo; ma, come abbiamo veduto, avveniva di frequente che i parzonavili francas- sero la loro parte col proprio lavoro. Su tale stato di cose erano in gran partie fondate le allogagioni di trente ; facendosi assai spesso a povera S 43. 1) Br.1925% 34-125Db 8. 2) Br.125b 24-126* 2. 3) Br.137b 39-138? 2. 4) M. xxx, 3-21. Serie II. Tom. XXVI, 33 258 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE gente, che lavoravano essi medesimi alla fossa come avrebbero potuto fare e spesso facevano i parzonavili ®, e così col frutto del loro lavoro pagavano la mercede convenuta. Onde anche era espressamente stabilito, che il diritto che avevano i parzonavili di lavorare essi medesimi alla fossa, o di mandarvi in loro vece un lavoratore sufficiente, si esten- desse anche a coloro che avessero la fossa a parte franca ?). 45. Del resto non solo per le fosse e le trente, ma per le case, terre, piazze da lavare, o forni da colare, e per qualsiasi altro oggetto, era amplissimo il privilegio dell’allogatore , pari a quello dei crediti più privilegiati. Quindi il credito per la pigione andava inanzi al credito per bistantaria ($ 48), e agli altri crediti anche privilegiati ; e per esso si potevano stazzire anche panni di dosso e di letto e armi e cavalli, che generalmente non si potevano stazzire per gli altri crediti. Poteva pari- mente, ciò che era generalmente proibito fuorchè per alcuni debiti più privilegiati, l’allogatore fare stazzire al conduttore lo mezzo prezzo, ossia la metà della mercede per l'opera che in alcun luogo prestasse come lavoratore. Se alcuno avesse a far valere ragione contro la cosa allogata, non poteva tuttavia molestare il conduttore per lo spazio di un anno dalla mossa lite, purchè per detto spazio avesse pagato la pigione; se questa fosse pagata per più di un anno, oltre l’anno non noceva al cre- ditore dell’'allogatore ; e passato l'anno poteva il creditore fare stazzire la cosa allogata, non ostante che secondo i patti l’allogagione dovesse durare più tempo ”. 46. I parzonavili che avessero dato trente in allogagione avevano diritto di entrare nella fossa allogata, quando e quante volte a cia- scuno piacesse, senza alcuna contradizione. Era inoltre fatta loro facoltà di tenere, alli spendi del conduttore, una guardia a custodia della vena; e se fosse lite della mercede della guardia, doveva starsi alla pro- vigione che ne facessero due persone dell’ argentiera a ciò elette dal Capitano o dal Giudice. Il conduttore al termine dell’allogagione doveva rendere la fossa o le trente all’allogatore ; se non facesse, e la fossa si perdesse per sua colpa o negligenza, poteva esserne preso e sostenuto in prigione infino a tanto che restituisse la fossa o la trenta, o la valuta, $ 44. +) Br.142° 31-33. 2) Br.120° 2 6. $ 45. 1) Br.92° 34-92» 44. Vedi anche 84° 4-14. IN VILLA DI CHIESA 259 a stimo di quattro persone che si chiamassero sopra di ciò dal Capitano © dal Giudice , ed inoltre doveva pagare di multa infine in libre venticinque d’alfonsini minuti; sì veramente, che se compiuto il termine dell’ alloga- gione la fossa si perdesse per colpa non del conduttore ma dell'allogatore, il conduttore non fosse nè tenuto nè obligato ”. 47. Queste erano le norme per le fosse che non avevano bistante ; nelle fosse che avessero bistante, a questo, e non al parzonavile o al- l’allogatore, spettava il fornire settimana per settimana al maestro della fossa le somme che bisognassero per le spese. I distanti, dei quali non si trova menzione, ch'io sappia, fuorchè in Villa di Chiesa e per lavori di fossa (chè simili, ma pur diversi 'nelle parti più essenziali, sono 1 portitori (S 56), dei quali nei documenti di Massa), sono una istituzione sotto molti aspetti assai notabile, che ci sforzeremo di esporre nella sua indole e negli effetti, con quella maggiore chiarezza che ne permette l’oscurità del solo documento dove ne sia fatta menzione , ossia il Breve di Villa di Chiesa. Tale oscurità poi proviene principalmente dalia circo- stanza, che in quello Statuto le obligazioni e i diritti dei bistanti, e le condizioni solite reggere i loro contratti, vi sono piuttosto accennate che non esposte; per trattarvisi di cosa a quei tempi notissima, e che, come ivi stesso è detto di quanto riguarda tutta l'industria delle argentiere, si reggeva più per consuetudine che non per legge. Fra le instituzioni ana- loghe dei nostri giorni possiamo paragonarla a quella dei Sanchieri, dai quali tuttavia i bistanti in molte parti ed essenzialmente differivano. È di quanta estensione ed importanza fosse tale instituzione in Villa di Chiesa appare anche da questo: che dei quattro Brevajuoli da eleggersi, secondo le usanze di Pisa, per la formazione e la correzione del Breve di Villa, uno doveva essere bistante ‘. 48. La professione del bistante consisteva in fornire, mediante un premio od usura, il denaro necessario ai lavoratori di fosse; la profes- sione medesima , e l’obligazione nascente dal contratto tra i parzonavili e il bistante, dicevasi bistantaria "). Quelli che avevano le più trente , come fornivano la fossa di maestro e di scrivano, così sceglievano il $ 46. 1) Br.125D 8-126? 23. $ 47. +) Br. 22b 38-23? 4. G 48. 1) Br.8? 23; 127b 6; 128b 12; 18; 27 260 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE bistante ?); questi poteva essere scelto, e teniamo fosse il più delle volte, fra i parzonavili. Il bistante, con una scrittura detta scritto di distante ®, ed anche la distante ©, si obligava al pagamento delle spese della fossa fino ad una certa somma, settimana per settimana ®. Lo scritto di bistante doveva essere sottoscritto dallo scrivano di Villa, ed il nome del bistante essere annotato nel libro della fossa ®. La bistante restava al commune della fossa fino a compito il termine pel quale il bistante si era obligato ; ma doveva renderglisi prima, se la fossa chiudesse i conti e partisse i prodotti avanti il termine ?. Se lo scritto fosse reso al bistante, e non stesse bene e fosse bisogno di racconciarlo così per lo bistante come per li parzonavili, a petizione del bistante o dei -parzonavili o della persona da essi incaricata si doveva e poteva racconciare per lo scrivano dei libri, infra due mesi poichè lo scritto fosse renduto, e prodotto in Corte; da indi inanzi, non vi si poteva mutare, aggiungere nè togliere alcuna cosa ©. In Massa la promessa si faceva o sul libro della fossa, o con publico instrumento 9. La somma promessa doveva darsi settimanalmente , il sabbato ; se il bistante non la desse, poteva esserne sostenuto in per- sona, e inoltre doveva pagare di multa un marco d’argento; ma contro sua volontà non poteva essere costretto a dare somma maggiore di quella per la quale si fosse obligato !°. In questo caso tuttavia il maestro della fossa o altra persona per li parzonavili doveva far richiedere il bistante per lo messo della Corte, s’egli volesse dare più somma, ed essere più bistante ; e la richiesta doveva scriversi negli atti della Corte, e durare tre dì e non più: trascorsi i quali se non desse la somma, il maestro della fossa e li parzonavili potevano accordarsi con altro bistante; sì vera- mente, che la vena e il minuto che fossero fatti al tempo del primo bistante avessero a porsi dal maestro della fossa divisi dalla vena tratta posteriormente , e tenersene conto al primo bistante. Che se quella me- 2) Br.142° 12-20; Append. II, 74-76. 3) Br.79% 11-12; 79b 12-13; 125° 23; 128? 13-14. 4) Br.128b 8-9; 22; 30. 5) Br 125% 11-18; M. xL, 72-77. 6) Br. 128% 11-16. 7) Br.79% 11-12; 125° 23-31. 5) Br.127b 4i-il. 9) IM. xL, 73-74. 10) Br. 125° 11-18; 2. x1, 72-77. IN VILLA DI CHIESA 261 «desima vena di prima richiedesse nuova spesa per recarla a fine, e il primo bistante vi si rifiutasse , il secondo bistante, col denaro del quale fosse recata a fine, era pagato innanti che lo primo bistante, e ciò sì su quella vena di prima che su quella di poscia !”. 49. Le somme che il bistante pagasse secondo la sua convenzione dovevano, per cura del maestro della fossa, ogni lunedì prima che andasse a monte scriversi sul libro della fossa dallo scrivano dei libri, notan- dovisi gli anni e i giorni, nè mai ponendosi datale anteriore al giorno nel quale si facesse la scrittura !. L'intera somma data dal bistante do- veva corrispondere alla spesa, quale appariva dal libro della fossa; se il. bistante desse maggiore somma, per quella non era inteso a ragione. Similmente se alcun parzonavile desse al maestro o scrivano somma maggiore di quella che costasse la trenta, settimana per settimana, secondo apparisse dal libro della fossa, questo non noceva al bistante , il quale perciò non era tenuto al rimborso di quella maggiore somma al parzonavile ?). 50. Come in mano dei parzonavili, così parimente restava una carta in mano al bistante, dalla quale apparisse la somma che dai parzonavili gli fosse dovuta per bistantaria !), ossia in rimborso delle somme pagate e per suo premio ?); e questa chiamavasi carta di bistante ©. Non tro- viamo memoria, quanto fosse il premio od usura che soleva pagarsi per bistantaria. In principio del Breve di Villa di Chiesa, dove si contengono le norme generali per l'osservanza di questo Breve, e si stabilisce che debba aver forza soltanto pei contratti posteriori, e che i contratti anteriori si abbiano a giudicare secondo il Breve vecchio, troviamo una eccezione sola e notevole: che cioè in cose di usura e di bistante anche per contratti anteriori s'abbia ad osservare il Breve nuovo, e non li Brevi vecchi *. Ma poi, qual che ne sia la cagione, nelle disposizioni relative ai bistanti non si fa cenno alcuno del premio od usura loro spettante ; la quale perciò sembra fosse libera , secondo gli accordi tra il bistante 11) Br. 128% 34-128b 16. $ 49. 1) Br.125% 18-23; 80° 39-48; 146? 20-23. 2) Br.121® 28-121D 4. $ 50. +) Br.126b 26-28; 127% 41-47; 127b 6-9; 128b 17-27. 2) Br.26-33; 126b; 1282 24-29. 3) Br.79b 12; 126b 27. 4) Br.72 20-30. 262 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE e la fossa; accordi che naturalmente dovevano variare secondo la gravità della somma della quale dal bistante si prometteva |’ anticipazione, e sopratutto secondo la maggiore o minore sicurezza del rimborso. L’usura consueta, e diremmo quasi l’usura minima e legale, in Villa di Chiesa era di denari due per libra al mese ° ), che è quanto dire del 10 per 100 all'anno. In una prestanza imposta in nome del Commune di Pisa in Villa di Chiesa circa il tempo dell'assedio postole dagli Aragonesi, troviamo l’usura o Zucro di quella prestanza stabilito in ragione di denari 4 per libra al mese ®, che corrispondono al 20 per 100 all’anno. Partendo da tali norme, a questa seconda usura crediamo corrispondesse quella che soleva pagarsi ai bistanti; ossia che, siccome i pagamenti per bistantaria solevano farsi settimanalmente, e perciò senza fallo anche l'usura era settimanale, fosse a un di presso di un denaro per libra la settimana, corrispondente ad alquanto meno del 22 per 100 all’anno. 51. Se alcuna persona avesse per bistantaria a dare al bistante, ed a questo il guelco ($ 189) avesse fatto alcun pagamento sul prezzo di vena vendutagli dal debitore del bistante o da altri per lui, e di ciò fosse lite, faceva fede la testimonianza del quaderno o libro del guelco ”). Tutti i pagamenti che il bistante ricevesse d’alcuno dei parzonavili, o di vena o per altro modo, dovevano per cura del bistante medesimo notarsi a piè dello scritto di credito, ossia della carta di bistante, sotto pena infine di libre venticinque d’alfonsini minuti, ad arbitrio del Capi- tano; e nondimeno doveva farveli scrivere. Ed inoltre i notari della Corte dovevano far giurare il bistante o il suo fattore, dal quale fosse prodotto lo scritto, se veramente egli aveva ad avere i denari che apparivano dallo scritto; sotto pena alli notari che nol facessero giurare, di soldi cento per ogni volta ?). 59. Sulla vena prodotta dovevano settimana per settimana pagarsi dapprima i lavoratori; e non solo, fra certi termini, il loro privilegio precedeva quello del bistante ®, ma anzi il pagamento dei lavoratori era appunto lo scopo principale del contratto che si faceva col bistante. — Come da quello dei lavoratori, il privilegio del bistante era preceduto 5) Br.96?, 32-38. 6) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xx1x, 14-17. $ bi. +) Br.135. 30-45. 2) Br.128° 16-31. Veggasi anche M. xL, 51-66. $ 52. 1) Br.128b; 36-3. IN VILLA DI CHIESA 263 anche da quello dell’allogatore, se si trattasse di fossa o di trenta allo- gata 2). Se alcuno vendesse o asportasse vena sulla quale fosse debitore per bistantaria , o ne ricevesse il prezzo, senza volontà del bistante, era tenuto in proprio di sodisfare al bistante di quanto valesse la vena, sotto pena di dieci libre d’alfonsini minuti di multa; ed era sostenuto in prigione finchè non avesse sodisfatto al bistante di quanto questi avesse a ricevere su quella vena ?. A tutti gli altri crediti anche privilegiati, eccettuati, come dicemmo, soltanto quello dei lavoratori alla fossa e quello dell’allogatore, andava inanzi il credito del bistante. Che se com- piuto il termine convenuto nella bistante, e fatta la partitura, il bistante non fosse pagato di tutto ciò che avesse a ricevere, questi, presentata alla Corte la carta del suo credito, e fattolo scrivere negli atti, poteva incantare non solo la vena, se vi fosse, ma le trente o parti di trente dei parzonavili che fossero debitori, ed ogni altra cosa loro fino ad intero pagamento; salvo che per questo come per qualsiasi altro credito era proibito incantare panni di letto e di dosso, nè armi e cavalli, nè servi ed ancille Sardi ‘ ; se il debitore fosse albergatore, gli si potevano incantare tutti i letti, salvo il suo proprio. Se tuttavia colui, dal quale il bistante avesse a ricevere per bistantaria, avesse altro debito anteriore, e per questo debito il creditore, già prima che si facesse la carta di bistantaria, avesse incominciato ad incantare alcun bene del debitore che avesse preso in /erere (ossia in pegno cd in ipoteca), quel debito su quel bene era pagato prima del debito al bistante. Del resto, il bistante poteva far incantare i beni del debitore senza bisogno di pigliarli prima in tenere come praticavasi per gli altri incanti ®. 53. E qui conviene avvertire, come nelle antiche leggi statutarie di Pisa, e per conseguenza nel Breve di Villa di Chiesa, che ne’ suoi ordi- namenti vuolsi considerare come uno statuto Pisano, incantare significava cosa assai diversa da quella, che con tal voce indichiamo ai nostri giorni. Quando un creditore faceva incantare alcun bene mobile od immobile del debitore, non s’intendeva che quel bene fosse posto in vendita e dato a quello che ne offerisse prezzo maggiore, sì che col prezzo così avuto 2) Br.92b 28-32. 3) Br. 127° 18-30. 4) Br.126b 23-43. Per Massa si veda M.xL; 125-134, 5) Br.126b 9-127b 4. 264 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE si pagasse il creditore della somma dovutagli, colle spese. L’incantare con- sisteva in far annunziare publicamente nei luoghi soliti della città (in Villa di Chiesa facevasi nella piazza della Corte), il numero di volte e nelle forme prescritte, che il tale per tale credito aveva occupato la tale possessione di tale persona; che se alcuno avesse ad opporre, dovesse farlo nel termine stabilito dal Breve, altrimente perdeva le sue ragioni. Se nessuno facesse opposizione, la possessione così incantata si faceva estimare dai publici estimatori, che quattro erano in Villa di Chiesa, eletti dal Consiglio, due dei quali dovevano essere argentieri #; e il creditore si pagava ritenendosi la cosa incantata, non al prezzo dello stimo, ma in ragione di 3 denari ogni denari 5 che la cosa fosse esti- mata ; sì che veniva bensì costretto a ricevere non in denaro la somma dovutagli, ma in compenso lucrava i 2/5 del prezzo della cosa che gli restava in pagamento ?. — Così in Villa di Chiesa; in Massa non solo non v'ha traccia di simile usanza; ma vi troviamo all’incontro espressa- mente stabilito, che il portitore doveva essere pagato d’ogni suo avere o in denaro o in argento ‘). 54. Nell’incanto che facesse doveva il bistante dare le voci, come per gli altri incanti, nella piazza della Corte, in tre giorni nei quali si tenesse Corte (tenevasi in Villa di Chiesa il venerdì e il sabbato ); e l’ incanto doveva correre un mese e tre dì, dopo i quali il debitore veniva richiesto alla casa della sua abitazione, ovvero, se non fosse in Villa, con publi- cazioni alla Chiesa di Santa Chiara e alla Piazza di Corte, che pagasse il suo debito a denari o a stimo nella forma anzidetta. Se fra tre dì opponesse che la cosa incantata valesse più che non fosse il suo debito, e dichiarasse di voler pagare a stimo, la cosa incantata si faceva stimare, e passava al bistante soltanto per la parte necessaria a compensarlo del suo credito; computando tuttavia, ben inteso, denari cinque d’estimo in pagamento di denari tre di debito in contanti. Che se dal debitore non fosse fatta opposizione, l'incanto era dichiarato « liquido del bistante, e » le cose incantate, senza alcuno stimo quinde fare. » Che se alcun altro creditore contradicesse prima che fosse corso l'incanto, e volesse pagare il bistante di quanto gli fosse dovuto, pagando lui il bistante, questi era $ 53. 1) Br. 25b 23-43. 2) Br.Lib. II, cap. xriv, ossia 84% 35-87° 3. 3) M.xL, 66-72. IN VILLA DI CHIESA 265 tenuto cedergli le sue ragioni contro il commune debitore ”. Se alcuna persona si obligasse al bistante e promettesse per alcun parzonavile, sì questo come il promettitore erano tenuti in solido ; che se il promettitore pagasse, il bistante doveva cedergli le sue ragioni contro il parzonavile ?). Le azioni per bistantaria dovevano farsi valere fra sei mesi dopo scaduto il termine dello scritto del bistante ; ossia dentro i sei mesi lo scritto del bistante doveva essere inscritto negli atti della Corte, e fatto l'incanto contra al debitore, e fatta a questo la richiesta : dopo ciò, il bistante s' intendeva avere usato le sue ragioni, nè più gli correva termine ‘. Questa prescrizione di termine riguardava il solo bistante ; a chi avesse pagato il bistante per alcun parzonavile non correva termine, ed in ogni tempo poteva far valere le sue ragioni contro il parzonavile ®. 55. Non si trova menzione di bistante che per lavori di fossa ; neppure pei forni e nell’arte del colare non sembra si prendesse denaro per forma di bistantaria. E ciò si comprende ; poichè, in ragione principalmente del diritto che i parzonavili avevano di lavorare essi medesimi alla fossa , ai lavori d’argentiera si ponevano alla ventura molte persone che non posse- devano nulla, nè avrebbero, per poco che tardassero i benefizii, potuto darsi a tale industria se alcuno non li ajutasse de’ suoi denari : laddove chi aveva forni era a credere per ciò stesso persona benestante ; e quand’ anche avvenisse che per alcuna cagione non fosse in grado di esercitare esso medesimo l’arte, poteva dare i suoi forni, e vediamo che infatti si davano, in allogagione. Trovasi bensì menzione anche di prestiti fatti per l’arte del colare; ma vi si accennano in termini tali, che escludono che fossero fatti per contratto di bistantaria ”; poichè vi è sta- bilito, che se alcuno prestasse denaro per le spese necessarie a colare vena o a trarre l'argento (dicevasi prestare inanzi piazza di forno), quello che ricevesse la prestanza, tratto a fine l'argento , avesse a darlo al creditore , e questi con quell’'argento pagasse dapprima quanto restasse dovuto ai lavoratori che avessero tratto a fine quell’argento o colato quella vena; e che al fonditore non fosse lecito accattare altra prestanza finchè S 54. 1) Br.126b 9-127b 4. 2) Br.129% 6-17. 3) Br.127b 8-35; M.xL, 3-51. 4) Br.127b 38-41. $ 55. 1) « Ordiniamo, che qualanqua persona prestasse innansi piassa di forno in dell’argentiera » in dell’ arte del colare ». Br. 133. 6-8. Serie II. Tom. XXVI. 34 266 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE non fosse pagato il primo creditore. Ma se la somma prestata non bastasse, e il creditore non volesse prestare maggiore somma , era lecito accattare prestito da altra persona, e questa era pagata inanzi al primo creditore ; sì veramente, che dal secondo non si accattasse più di quanto fosse la spesa necessaria per condurre l’argento a fine ?). Similmente sui prodotti del forno, cioè sul piombo e sull’ argento, avevano privilegio, quantunque dopo il prestatore inanzi piazza di forno, coloro che avessero fornito al forno vena, ‘ carboni, legna, o altre cose d’argentiera appartenenti all'arte del colare ©. 36. Nella precedente esposizione abbiamo talora esposte insieme le norme colle quali si reggeva l'istituzione dei bistanti in Villa di Chiesa, e quelle relative ai portitori in Massa; ma pure grande differenza correva in questa parte tra le instituzioni e gli usi dei due paesi. In Massa il portitore era quasi un officiale della fossa, in tanto che sotto questo aspetto viene posto a paro col ricoglitore '), anzi quasi anche col maestro e collo scrivano, officii della fossa dei quali fra breve ragioneremo (S 60-64); dicendovisi, per esempio, che la sincerità del libro della fossa doveva essere confer- mata con giuramento dello scrivano, del maestro e del portitore ; e se la fossa non avesse portitore , bastasse il giuramento degli altri due; se finalmente non avesse nè maestro nè portitore, bastasse il giuramento dello scrivano ?). Che anzi quello che nel Costituto di Massa è costantemente chiamato porzitore, in un documento parimente di Massa deil’anno 1297 vien detto porzitore ossia futtore (Petebat namque predicius Chele , quod dictus Uglinus solveret eidem , tamquam olim PoRTITORI È fovee dicte « Reine, » sive tamquam FAcTORI suprascripte fovee vel partiariorum dicte fovee Reine); e difatti vediamo che dal Chele, portitore o fattore della fossa predetta, erano state pagate le spese della fossa medesima ((omnes expensas solutas per dictum Chelem .....det et solvat dicto Cheli ex- pensas supra petitas); e che dal portitore si vendeva la vena della fossa, al modo stesso che dal ricoglitore di somma 9. — Nulla di simile aveva 2) Br.133b 4-26. 3) Br. 123% 31-133b 3. $ 56. +) M.xL, 3-24; 44; 51-53. 2) M.xL, 113-125. 3) Nella prima edizione di questo documento (Archivio Storico Italiano, Append., Tomo VIII, Firenze, 1850, pag. 690-692) si legge partitori; abbiamo corretto portitori (-Append. II, 72-76), come ha la pergamena originale. 4) « Eo modo quo venditur vena et coffarum illius fovee, de qua esset portitor vel recol- » lector. » M. xL, 133-139. IN VILLA DI CHIESA 207 luogo pei bistanti in Villa di Chiesa ; essi non avevano parte alcuna nel- l’amministrazione della fossa; non da loro si facevano le spese, ma dal maestro e dallo scrivano ; nè vendevano la vena, ma soltanto avevano su essa privilegio, in forza del quale ciò che sopravanzasse alla paga dei lavo- ratori non poteva , finchè il bistante non fosse soddisfatto d'ogni suo avere, esportarsi o vendersi senza il suo consenso °. A Massa i portitori erano più ch’ altro uno dei parzonavili, che mediante un premio amministrava la fossa, e fra certi limiti ne anticipava le spese ©: in Villa di Chiesa all’ incontro, sebbene senza fallo i bistanti bene spesso fossero anche, e certo potessero essere , parzonavili, mai non erano amministratori della fossa; ed in ogni caso la qualità di bistante era al tutto disgiunta e in- dipendente da quella di parzonavile. Essi erano e si mantennero secondo la legge semplici prestatori, che, mediante le garanzie stabilite per legge e per consuetudine , a quelle i e a quel benefizio che fossero definiti nella convenzione, fornivano settimana per settimana, non al com- mune della fossa, ma a’ suoi parzonavili, o anche soltanto ad alcuni di essi che volendo pride lavoro di fossa dal quale si sperasse bene- fizio mancasse dei mezzi di far fronte alle spese, il denaro necessario al lavoro della fossa, durante un termine e per una somma prestabilita. Una medesima persona poteva essere, ed era spesso certamente, bistante per diverse fosse ad un tempo ed a parzonavili di diverse compagnie. Essi erano veri mercanti di denaro, che per mezzo di quel commercio, e col favore delle circostanze, avevano acquistato grande autorità e ric- chezza in Villa di Chiesa, ore appunto per quell’ industria, alla quale essi fornivano i capitali. 57. La divisione dei benefizii fra i parzonavili, ovvero fra le persone che per allogagione succedessero ai loro diritti, dicevasi partitura ”, ovvero partitura communale ® ; e quando questa si faceva, dicevasi che la fossa partiva ©. Tale partitura si faceva in forma al tutto diversa da quella, colla quale ai nostri giorni dalle Società si distribuiscono i divi dendi. Al modo stesso cioè, che la francatura delle spese della fossa si faceva per l’ordinario direttamente dai parzonavili in proporzione delle 5) Br.127? 18-30. 6) « Portitoris vel recollectoris vel alterius partiarii dicte fovee, qui pretium expensarum » factarum in dicta fovea solvisset. » M. xL, 127-129. $ 57. 1) Br. 292 1-3; 1222 30. 2) Br.122° 28. 3) Br. 1252 26; 126b 10-11. 268 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE loro trente, così anche la vena che sopravanzava dopo pagati i lavoratori e il bistante non si vendeva dal commune della fossa per dividerne fra i parzonavili il prezzo, ma la vena medesima si partiva, spesso settimana per settimana, fra i parzonavili. Questa partitura si faceva per cura del maestro della fossa e dello scrivano; nè prima della partitura potevano torre di quella vena senza licenza dei parzonavili o della maggior parte di loro, salvo infine in libre dieci per farne saggi o mostra *). Sia poi che il maestro e lo scrivano della fossa vendessero la vena, o ne facessero la partitura, dovevano fare scrivere nel libro della fossa allo scrivano di Villa la quantità della vena partita o venduta, o netta o lorda, ed il prezzo, ed a cui fosse data o venduta; sotto pena di libre cinque di alfonsini minuti per ogni volta che contra facessero. Se la vena che si partisse fosse da due corbelli in su alla trenta, il maestro della fossa doveva menare lo scrivano di Villa a monte ovvero in quell'altro luogo dove fosse la vena, e là fare scrivere la partitura; avendo lo scrivano di Villa per salario della gita soldi cinque d’ alfonsini minuti. È il maestro doveva far mettere bando per lo messo della Corte, e fare scrivere il bando negli atti della Corte : che chiunque fosse parzonavile di tale fossa avesse ad andare a monte o lì dove fosse la vena, per prenderne la sua parte. E se della vena si perdesse, e il maestro della fossa non avesse fatto mettere il bando, mendi la vena ai parzonavili quello che valesse ; ma di ciò non possa essere accusato fuorchè dai parzonavili della fossa, o da alcuno di loro ?). 53. In Massa non era prescritta questa convocazione dei parzonavili ; ma semplicemente che il maestro della fossa avesse ad eseguire la par- titura della vena bene e lealmente, e far custodire il tutto con diligenza ; e dopo fatta la partitura porre sopra la parte di ciascheduno una polizza in carta pecorina, col nome di colui al quale appartenesse quella vena. Le quantità partite dovevano scriversi sul libro della fossa dallo scri- vano della fossa medesima; e notarsi l’anno, l’indizione e il giorno della partitura ?). 4) Br. 129° 27-38. 5) Br. 122 1-25. $ 58. +) Il testo lalino del Costituto apodissam; e da questa voce, derivata dal greco &rddes, parrebbe essere la vera climologia dell’ italiano polizza, che i più, un po? dalla lunga, derivano da polyptycum. 2) M.xuu, 1-13; xL, 105-ii1. IN VILLA DI CHIESA 269 CAPITOLO II. Maestro e scrivano della fossa. Ricoglitore di somma. Ragionatura nei libri di Villa di Chiesa. 59. Abbiamo notato ($ 38), come nei communi o compagnie di fosse a quel tempo non fosse Consiglio d’Amministrazione. Ma siccome anche nell’ arte delle fosse, come in ogni industria , spesso era pur necessario che una persona rapresentasse in certo modo l’intera compagnia, dirigesse i lavori, e tenesse i conti delle spese e dei prodotti; questo si faceva per mezzo di persone elette dai parzonavili; le quali persone così elette non avevano tuttavia propria autorità, ma in tutto dovevano eseguire ciò che fosse loro prescritto dai parzonavili medesimi, dei quali erano semplici officiali ®, 0, come ora direbbesi, impiegati. Essi venivano eletti dai parzonavili che avevano le più trente, con le eccezioni che sopra (S 38) abbiamo esposto ?); e per simile modo dai parzonavili potevano essere rimossi *). 60. Siccome numerosissimi erano i lavori d’argentiera, ma ciascheduno per l’ordinario non di grande estensione nè di molta spesa, così pochi in caduna fossa erano gli officiali. Il principale era il maestro ; e siccome i lavori di miniera trovansi frequentemente designati col nome generale di lavori di fossa, così anche il maestro communemente si chiamava maestro di fossa; rare volte troviamo con nome speciale menzionato P) il maestro di bottino ©. L’officio del maestro dicevasi maestria ®, o mace- $ 59. 1) Br.1202 20-22. 2) Br. 1422 11-35. 3) Br.124b 13-17: « quale maestro fusse in alcuna (fossa), vi debbia e possa stare... . » in tucto a volontà de la magiore parte de le trente ». $ 60. 1) Br. 120? 22. 2) Br.112 20; 114? Al. 3) Br.137b 42; 1212 6; 1242 12; 13. 250 DELL INDUSTRIA DELLE MINIERE 4 stratico * ; l’esercitare tale officio, maistrare la fossa. Il maestro cor- rispondeva quasi appieno all’Zrngegnere Direttore delle miniere dei nostri tempi; e siccome allora non v'era scuola dell’arte mineraria, e questa s imprendeva soltanto coll’esercizio o vogliam dire per pratica, era sta- bilito, che nessuno potesse accettare maestria di fossa se non avesse servito l’arte dell’argentiera anni cinque o più; e chi altrimente accettasse l’officio, doveva pagare di pena libre dieci d’alfonsini minuti, ed essere dimesso della maestria; salvo se il maestro eletto fosse esso medesimo parzonavile in quella fossa ©: chè in questo caso lo studio che il maestro porrebbe in far valere la cosa propria veniva considerato, e non a torto, dover supplire almeno in parte l’uso dell’arte che gli mancava. Nessun maestro di fossa o d'altro lavoro d’argentiera poteva accettare maestria di più d’una fossa ad un tratto , sotto pena di un marco d’argento ; ma di ciò non poteva essere accusato se non da alcuno de’ suoi parzonavili. Similmente il maestro, finchè non avesse rinunziato al suo uffizio in una fossa, non poteva accettare altro maestratico : nè gli era lecito lasciare l’officio prima del termine convenuto coi parzonavili ?. Al maestro spettava dirigere i lavori della fossa, ma conformandosi alla volontà espressa dai parzonavili ®; esso accordava, dirigeva e pagava i lavoratori 9; esso vendeva la vena occorrente per pagarli, ed all'uopo chiedeva ai parzo- navili la francatura delle trente, onde pagare le spese della fossa !°; e da lui si convocavano i parzonavili alla partitura communale ($ 57) Il maestro doveva restare alla fossa dal mezzedì del lunedì al mezzodì del venerdì *); il mattino del lunedì e il pomeriggio del venerdì si cal- colavano per l'andata e la venuta da Villa di Chiesa a monte ; il sabbato era destinato alla ragionatura sui libri di Villa, della quale tratteremo fra breve, e ad esigere la francatura dai parzonavili, e pagare i lavo- ratori !). 4) Br.121° 2-3. 5) Br.139® 32. 6) Br.1212 1-9. 7) Br.124b 3-14. 8) Br.142° 12-17. 9) Br.119b 33-35. 10) Br. 123% 15-24; 142° 1-7. 11) Br. 128? 15-24. 12) Br.120b 37-42. IN VILLA DI CHIESA 27! 61. Nella legislazione relativa ai maestri di fossa in Villa di Chiesa troviamo una prescrizione al tutto remota da quella pienissima libertà, che generalmente in quanto riguarda l'industria delle argentiere vi era lasciata alle transazioni private. Vi si prescrive cioè , che nullo maestro di fossa debba avere nè domandare parte di vena per suo maestratico, se la fossa non parte corbelli due alla trenta o più; e i due corbelli doversi intendere di vena netta: e se meno partisse, non debbia avere lo maestro nulla. E che la mercede del maestro, o dei maestri se due n'avesse la fossa, producendo questa, come dicemmo, due corbelli alla trenta o più, non potesse essere più di un corbello, intendendosi il valore del corbello infine in libre otto d’alfonsini minuti e non più: sì che se valesse di più , avesse libre otto in denaro; se valesse di meno, avesse il corbello della vena ”. Una tale prescrizione, se presa strettamente , ci pare talmente enorme ed ingiusta, che crediamo doversi intendere del solo caso, che non fosse tra le parti altramente convenuto ; ovvero, ciò che ci pare più probabile, non ostante quelle parole generali, e ripetute due volte quasi nella stessa forma ron abbia lo maestro nulla, siamo d’av- viso che ciò debba intendersi soltanto della parte che il maestro soleva pro- babilmente avere nella vena prodotta dalia fossa, quale stimolo a curarne ed accrescerne la produzione; ma che oltre questa egli avesse in qua- lunque caso, come suole praticarsi anche ai nostri tempi, una mercede fissa convenuta in denaro: non potendo supporsi che nel caso di poco o niun prodotto (cosa frequentissima nei lavori d’argentiera , e della quale fa più volte menzione il Breve stesso di Villa di Chiesa) i lavoratori avessero bensì dai parzonavili la mercede della loro opera, e il solo maestro dovesse prestare il suo tempo e il suo lavoro indarno. Se così fosse stato, gran numero di lavori d’argentiera , anzi quasi tutti durante l'incertezza dei loro principii, non avrebbero trovato a fornirsi di maestro. 62. Abbiamo visto pur ora accennato il caso, che la fossa avesse due maestri; il che forse deve intendersi di un maestro e di un sozto- maestro. Ma convien dire che questo caso fosse assai raro, poichè il passo sopra citato è il solo luogo dove si fa cenno di fossa che avesse più d'un maestro; e parimente una volta sola ci avvenne di trovare menzione di sottomaestro nel Breve di Villa di Chiesa ”. 6 61. 1) Br.199b 26-123? 5. $ 62. 1) Br. 121b 14-15. 272 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE 63. Prima di passare a parlare dello scrivano della fossa, e poscia ad enumerare le obligazioni communi al maestro e allo scrivano, non vogliamo por termine a questa esposizione delle scarse notizie che ci rimangono intorno ai maestri delle fosse in Villa di Chiesa, senza notare, che in un documento dell’anno 1324 troviamo, che poco prima un tal Gomito (Comita) Barbalata era maestro della fossa detta « la Comunata » in Monte Paone (Monteponi) ”. 64. Oltre il maestro, ogni fossa aveva uno scrivano *, corrispondente a quello che ora communemente chiamiamo segretario ; il suo officio era detto scrivania ©. Quali fossero le parti dello scrivano nel governo della fossa appare dal nome stesso del suo officio , ch'egli d’altronde esercitava sotto la direzione del maestro della fossa; onde anche pressochè tutte le prescrizioni che troviamo intorno allo scrivano sono communi anche al maestro. Ambedue dovevano dare fidejussori, 0, come dicevasi, pagatori ®, in garanzia del pagamento delle multe in che venissero condannati, o delle somme delle quali restassero in debito ; ad ambedue, sotto pena di un marco d’argento e di essere dimessi, era prescritto di non accettare l’officio, ancorchè vi fossero chiamati dalla maggior parte delle trente, se avessero nimistà publica contro alcuno dei parzo- navili ©; ad ambedue parimente era proibito, fino a indi un mese poi che fossero esciti dalla maestria o dalla scrivania, di porre per conto proprio segno per fossa o altro lavoro d’argentiera sopra la fossa onde erano officiali, o che le fosse vicina, o che con lei communicasse , e ciò sotto pena infine in libre venticinque d’alfonsini minuti per ogni volta ?; all’uno e all’altro era commune la proibizione che abbiamo riferito, di non cavare vena dalla partitura per alcuna cagione infine che la fossa non partisse communemente, e ciò sotto pena di libre cin- quanta d’alfopsini minuti per ogni volta ®. 65. Rare volte nel Breve di Villa di Chiesa, più frequentemente nel Costituto di Massa ”, oltre il maestro e lo scrivano trovasi menzionato $ 63. +) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 119-122. $ 64. +) Br.119b 7-8; 120% 20-34; 121% 10-10. 2) Br.1202 31. 3) Br.121b 3-4. 4) Br. 129» 40-130% 5. 5) Br.120% 20-34. 6) Br. 122% 27-38. $ 65. 1) M. cap. xL passim. IN VILLA DI CHIESA 27 7 il ricoglitore, ovvero ricoglitore di somma, corrispondente a un di presso al cassiere delle odierne società. A lui toccava raccogliere le somme dovute dai parzonavili, a lui pagare la spesa sì dei lavoratori come le altre tutte, e rendere di ogni cosa esatto conto ?). Sembra tuttavia che la maggior parte delle fosse in Villa di Chiesa non avesse ricoglitore , ma ne tenesse le veci o il maestro o lo scrivano È. 66. Oltre le obligazioni che abbiamo esposte, il maestro, lo scrivano e il ricoglitore di somma , o l’uno di essi, erano strettamente incaricati di curare la piena e leale tenuta dei conti, o ragionatura ; così, con voce perita oggi nell’uso Toscano ’, ma conservatasi in Lombardia , dicevasi la tenuta dei conti o libri delle fosse. Questa ragionatura poi differiva interamente per la sua forma e per gli effetti da quanto praticasi generalmente ai nostri giorni, e dagli usi stessi di Toscana a quel tempo; ed era divenuta in Villa di Chiesa una instituzione importante e sotto molti aspetti notabile, della quale perciò descriveremo quanto per noi si potrà accuratamente ogni parte, in guisa da farne comprendere la natura, la forma e lo scopo. 67. Abbiamo detto, che questa tenuta dei libri dicevasi ragionatura "; il tenerla, chiamavasi ragionare; e, con varia significazione , dicevasi promiscuamente, o che il maestro e lo scrivano dovevano ragionare gli spendii che facevano ®; o che tutte le fosse erano tenute a ragionare ai libri di Villa di Chiesa #; ovvero che si ragionavano le fosse ®; © ancora che queste stavano a ragione”, o stavano a ragionare ©. La ragionatura si faceva non in libri tenuti a piacimento dalla compagnia © commune di caduna fossa, nè direttamente dal maestro o scrivano di 2) Br.79b 6; 1292 37-41; 139b 30-32; 1362 10-15; 30-31. 3) Br.129* 37-38: « se lo maestro o altro ricoglitore di somma. » — Br. 136% 8-12: « ogni maestro di fossa..... o scrivano che recoglisse somma. » $ 66. 1) Ma vi era in uso a que’ tempi, come appare da un istrumento stipulato l’anno 1315 in Castello di Castro, in gran parte fra cittadini Pisani, per una compagnia di commercio che doveva aver luogo fra loro in Villa di Chiesa, nel quale si legge: « et quod ipse Baldinus faciet » de creditis et dalis et acceplis unum qualernum sive RASCIOSCINIUM, scriplure cujus quaterni » sive RAScIOSCINI eredatur et plena fides detur etc. » Cod. Dipl. Eccl., XIV, ix, 48-51. $ 67. +) Br.78b 30; 79b 19. 2) Br.136% 10-13. 3) Br.144b 27-38. 4) Br. 64° 24-26. 5) Br.117b 13-18. 6) Br.1{0b 18-20. Serie II. Tom. XXVI. 35 274 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE questa, ma per loro cura in Villa di Chiesa, da publici scrivani; e ciò non solo per le argentiere poste nel suo territorio, ma anche per quelle delle ville vicine, che erano state al tempo dei Pisani ?, ed in parte erano tuttora nei primi tempi della dominazione Aragonese , soggette a Villa di Chiesa ®, ossia Domusnovas, Ghiandili, Sigulis, Antasa, Bareca, Baratoli e Bangiargia, ed in tutti i loro confini sì antichi come novelli ; e il Governatore Generale, o altro officiale che fosse pel Re in Sardigna, era tenuto di far ciò osservare in dette ville, a pena di libre venticinque d'alfonsini minuti 9. 68. Doppio era lo scopo di questa ragionatura, instituita ai tempi della dominazione del commune di Pisa, anzi probabilmente già durante la signoria dei conti di Donoratico, e alcun tempo mantenutasi anche dopo la conquista Aragonese : il primo, di impedire le frodi che potessero aver luogo nelle alienazioni di trente , nelle vendite di vena, nella paga dei lavoratori , e nell’ assegnare esattamente a catuno dei parzonavili la, sua parte di spesa o di partitura ; il secondo e principale, di accertarsi che nessuno potesse nella dovuta misura sottrarsi ai publici pesi, ai quali sotto varie forme andavano soggette le argentiere : e, convien dirlo, tale metodo, senza recare troppo aggravio o disturbo a questa industria, corrispondeva pienamente al doppio scopo. Villa di Chiesa inoltre ne otteneva due par- ticolari vantaggi: l'uno, di farsi centro di quella industria, nè soltanto sul proprio ma anche sul territorio dei communi vicini; Valtro, di fare di questa ragionatura o tenuta di libri un ramo di provento od entrata publica a Villa di Chiesa. Difatti l’officio e il diritto dei libri delle fosse vi si dava in allogagione, 0, come dicevano con meno esatta locuzione , si vendeva, dal Capitano o Rettore col Consiglio, a benefizio della Uni- versità di Villa di Chiesa, a quel prezzo e per quel tempo che giudicas- sero conveniente. Il comperatore doveva tenere almeno sei scrivani, ma egli poteva esercitare l’officio in persona ed essere computato come uno de sei: ed un notajo della Corte doveva, sotto pena di libre tre o più ad arbitrio del Capitano, recarsi ogni sabbato, giorno della ragionatura, alla bottega dove gli scrivani tenevano i libri delle fosse; e se alcuno mancasse, punirlo con multa di soldi dieci per ogni volta. Li scrivani :) Cod. Dipl. Eccl.,, XIV, Lxv, 177-180; Br. 1112 10-12. 8) Br.6a 14-17. 9) Br.1113 7-19; 27-32. IN VILLA DI CHIESA 279) scelti dal compratore del diritto dovevano essere approvati dal Capitano per buoni e leali; ed inoltre dare ciascuno due idonei pagatori di fare l'officio loro bene e lealmente. Quello fra gli scrivani che fosse trovato in fraude, doveva essere privato dell’officio per anni dieci, oltre la multa di libre cinquanta d’alfonsini minuti, alla quale erano tenuti in solido lo scrivano e i pagatori”. Questi scrivani non potevano far carta fuorchè in materia d’argentiera, e se la facessero d'altro argomento, non teneva ed era di niun valore ??; ma all'incontro in tutto ciò che riguardava l'arte delle fosse, come mutamenti di trente, carte di bistanti, scritti di bistanti, libri delle fosse, e ragionatura, ogni loro scrittura valeva e faceva fede come carta di publico notajo °°; e come tale doveva essere dai detti scrivani guardata e custodita . Essi dovevano tenere i libri dell’argentiera e fare ogni loro scrittura bene. e lealmente senza fraude, a pena di libre dieci d’alfonsini minuti per ogni volta che contra facessero ; e nelle scritture notare i datali, e il nome dello scrivano che facesse la serit- tura, nè mai scrivere datale di tempo passato, ma sì sempre del proprio giorno nel quale si facessero le scritture; e sopratutto dovevano esatta- mente notare il dì nel quale si dessero denari per alcuno bistante o per alcuna francatura. Ed era loro commesso di curare la piena osservanza di tutte le prescrizioni relative ai libri delle fosse e alla ragionatura, alla soprascritta pena ”. 69. La mercede di questi scrivani era stabilita dal Breve in un soldo per ogni ragionatura ; per ogni polizza infine al valore di soldi cinque, un denaro; e per maggior valore, due denari. Per ogni mostratura di quaderno di Corte, un soldo '®; e per mostratura di alcun quaderno vecchio, denari due pel quaderno di cadun anno. Che se alcuna fossa volesse fare libro nuovo, lo scrivano era tenuto di esemplare, ossia trascrivere, la parte occorrente del. libro vecchio, senza per ciò nulla ricevere. Di caduna trenta, o di più trente ad un tratto, che si seri vessero ad alcuna persona, denari quattro ; di cadun mutamento di trenta $ 68. 1) Br 782 38-78b 26. 2) Br.792 9-11. 3) Br.78b 27-29; 799 11-15. 4) Br.79% 37-39. 5) Br. 1462 4-98. $ 69. 1) Parmi enorme somma, e non in proporzione colle prossime tassazioni precedenti e susseguenti; e perciò sospetto doversi qui leggere derari 7 invece di soldi 7. 276 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE o trente con vendita, denari sei; di carta di pegno di trenta, o di alcuno tenere o comandamento fatto da messo, denari quattro ; di catuna carta di bistante, soldi due; e di rivedere lo scritto al bistante, soldi tre ?. 70. Tutte le fosse erano tenute a ragionare presso il comperatore del diritto de’ libri e per mezzo de’ suoi scrivani, e i pagamenti dovevano farsi in Villa di Chiesa, non alle fosse; anzi a tutti era proibito il fer- marsi alla montagna dal sabbato a terza fino al lunedì, eccettuate le persone addette a lavori che senza danno non si potevano interrompere, come il cavare bottino o canale (S 938-100), o lo scionfare acqua (S 117), lavori perciò , i quali era permesso continuare anche in dì bandoreggiati. Erano inoltre eccettuati da questa obligazione di ritornare in Villa quelli che lavorassero in Monte d’Olivo, in Monte di Malva, e in Monte di Pietra Carfita ”, evidentemente perchè erano questi i più lontani fra i monti d'argentiera dipendenti da Villa di Chiesa; ma sì le loro fosse, come quelle di Monte Nuovo (se pure questo. non era una medesima cosa che Monte d’Olivo ($ 89) ), erano tuttavia tenute di stare a ragione in Villa di Chiesa ?. L’obligo di stare a ragione aveva principio, e doveva farsi il primo ragionamento ®, tostochè la fossa tra dentro e fuori avesse lavorato corbelli trentadue di vena netta, ossia un corbello alla trenta ©; che se ciò avvenisse nel corso della settimana, potevano continuare a lavorare fino a settimana compita, ossia fino al sabbato a mezzodì: ed allora, recandosi in Villa, dovevano renderne conto ai Maestri del Monte, che si recassero senza indugio alla montagna a visitare i lavori ; e da quel punto la fossa era tenuta di stare a ragione ?. Nel libro della fossa dovevano accuratamente notarsi tutti i parzonavili delle trentadue trente, dalle tre ragionature inanzi; e lo scrivano dei libri, overo il maestro o scrivano di fossa o il ricoglitore di somma che contra facesse, era punito in marco uno d’argento : e poteva esserne accusato da ogni persona che avesse a ricevere dalli parzonavili o dal 2) Br.78b 29-79? 12. $ 70. 1) Br. 612 32-61b 8. 2) Br. 144b 27-40. 3) Br.113b 30-31. 4) Br.117b 13-18. 5) Br.110b 18-1112 4. IN VILLA DI CHIESA 277 maestro; e l’accusatore aveva la metà del bando, e doveva tenerglisi credenza 9. Se poi la fossa o alcuna trenta fosse data a parte franca, il conduttore doveva fare scrivere sul libro della fossa il proprio nome, e quali fossero le trente o parti di trenta che avesse preso a parte franca; indicando i nomi dei parzonavili partitamente , quali erano scritti nel libro della fossa ?. Se alcun maestro o scrivano o ricoglitore di somma non ragionasse nei libri di Villa, il comperatore del diritto dei libri poteva domandare ed avere da quello che avesse omesso di ragionare , tutto ciò che avrebbe avuto se si fosse ragionato secondo la forma del Breve ; e di ciò che il comperatore del diritto asserisse con giuramento di avere per ciò a ricevere dai soprascritti maestri, scrivani, o ricoglitori di somma, eragli creduto e data piena fede infine in soldi venti per ogni settimana che non si fosse ragionato ; e nondimeno il maestro, scrivano o ricoglitore era tenuto di ragionare. Che se il compratore del diritto avesse ad avere alcuna cosa per cagione del diritto dei libri, a sua peti- zione il Capitano o Rettore di Villa ed il Giudice dovevano per alcuno delli messi della Corte far comandare al debitore, che fra otto dì da quello del fatto comandamento dovesse pagare; che se avesse ad opporre alla domanda, venivagli prefisso un termine; oltrepassato il quale, era 5. Il maestro poi, o sostenuto in prigione fino ad intero pagamento scrivano, o ricoglitore di somma, che omettesse di ragionare i lavoratori, e il prezzo che servito avessero, doveva pagare di multa soldi dieci 9; se omettesse di ragionare li utensili da lavoro, libre tre ‘°; se la vena partita tra i parzonavili o venduta, libre cinque *); se finalmente omet- tesse di ragionare qualsiasi somma avuta da parzonavile o da bistante, la multa era infine in marco uno d’argento *. Il maestro, scrivano © ricoglitore di somma se non avesse ragionato bene e lealmente, e fosse trovato in fraude nella ragionatura, e legitimamente gli fosse provato, doveva essere condannato infine in libre venticinque d’alfonsini minuti per ogni volta, e a restituire il mal tolto; e se non avesse di che 6) Br.79b 15-30. 7) Br.125° 34-125b 8. 8) Br.79b 40-80° 38. 9) Br. 129 32-37. 10) Br.130? 8-13. 11) Br.122b 3-9. 12) Br.123° 8-14. 278 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE restituire ai parzonavili, stesse in prigione infin che non sodisfacesse ; che se fra dieci giorni non potesse pagare la condennagione, fosse scopato per tutto Villa di Chiesa. Ma non potesse essere accusato che da’ suoi parzo- navili; ed a chi accusasse e non provasse, pena marco uno d’argento '9). 71. Per meglio assicurare l'esattezza della ragionatura era stabilito, che non dovesse aver luogo fuorchè in presenza di due maggiori parzo- navili, fra quelli che stessero in Villa senza lavorare a monte; la ragio- natura altrimente fatta « non vaglia nè tegna », e chi la fece sia condannato in marco uno d’argento ”. Oltre le pene che abbiamo riferito contro i maestri, scrivani o ricoglitori di somma che non ragionassero bene e lealmente, era particolarmente stabilito, che chi ragionasse alcun suo lavorante più che lavorato avesse , ossia che notasse la mercede maggiore del vero, fosse punito in soldi cinque per ogni volta ?? : che se esigessero soprasomma , ossia somma maggiore della dovuta, o se al bistante dessero somma maggiore di quella che gli spettava, o, ricevuta la somma, lascias- sero di pagare li lavoratori, o gli utensili, o altri debiti della fossa : chi ciò facesse poteva essere sostenuto in prigione, esso e i suoi paga- tori, infino a intero pagamento del debito; bene inteso, che a tale paga- mento erano per tale forma tenuti nel solo caso, che ne avessero difatti ricevuto la somma dai parzonavili o dal bistante ®. 72. Ogni fossa, 0 fosse riunite, aveva il proprio libro ®; ed ogni anno facevasi libro nuovo. Dal comperatore del diritto dovevano tuttavia custo- dirsi anche i libri degli anni precedenti, poichè in essi trovavansi neces- sariamente notate molte ragioni degli uomini di Villa di Chiesa relative ai tempi posteriori; e spesso inoltre era necessario comparare i nuovi coi libri vecchi. Ed i libri antichi che si trovavano presso i notari della Corte, dovevano in luogo apposito nel palazzo della Corte porsi in un armadio a camere, ossia a compartimenti, dove i detti libri si custodissero in camerelle con chiave dispartitamente per anni; il che fu stabilito perchè avveniva prima, che, per la meschianza de’ libri pel molto ricer- care, più non si potevano rinvenire ?). 13) Br.1362 8-31. 4 71. +) Br.121° 10-20. 2) Br.124b 19-91. 5) Br.1212 20-121b 11; 123° 24-27; 1302 14-27. 2. 1) Br.78b 46-4; Append. INI, 94-95. 2) Br.80b 2-20. Da = 19 IN VILLA DI CHIESA 279 73. In Massa le norme per la tenuta dei libri delle fosse erano bensì in parte conformi a quelle che erano in uso in Villa di Chiesa, ma i libri non si tenevano da scrivani publici, ma dallo scrivano di caduna fossa; onde anche laddove in Villa di Chiesa pare avvenisse, che alcuna fossa non avesse scrivano ma il solo maestro, in Massa troviamo invece menzione di fosse che non avevano maestro, ma il solo scrivano ?). Ogni fossa ivi pure aveva il proprio libro; ed era espressamente stabilito, che, ad evitare le frodi, lo scrivano dovesse ragionare in un libro o quaderno, e non in fogli staccati ?; questi libri facevano fede in giudizio, purchè fossero tenuti da scrivano giurato . Una medesima persona non poteva 9. I parzonavili avevano essere portitore o scrivano di più d'una fossa libera facoltà di esaminare il libro ®; e in esso lo scrivano doveva accu- ratamente notare le somme esatte o dai parzonavili, o dal portitore, od altrimente, e tutte le spese, e le quantità di vena o d'altro prodotto della fossa che fossero date ad alcun parzonavile; ad ogni cosa notando l’anno, l’indizione ed il giorno ?. La ragionatura si teneva il sabbato e la domenica per tutte le spese di caduna settimana *. Anche in Massa tuttavia doveva, in un libro da custodirsi dai Maestri del Monte, tenersi nota dei nomi dei parzonavili di ogni fossa, del numero delle loro trente, e della quantità di minerale di ogni genere che fosse partita fra i parzo- navili; e ad investigare la fedeltà di questo libro si deputavano persone se- crete 9). Prescrizioni evidentemente dirette ad impedire, che si potesse frodare il commune di Massa dei diritti imposli su questa industria. $ 73. 1) M. xL, 84-123. 2) M. xL, 121-125. 3) M. xL, 84-87. 4) M. xL, 77-84; 113-125; Appena. IMI, 52-60; 78-83; 107-109. 5) M. xL, 112-113. 6) M. xx, 92-99. 7) M. xu, 51-60; 77-84; 88-92; 99-1il. 3) M. xL, 88-99. 9) M. x1bu. 280 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE CAPITOLO 1V. Occupazione , abandono, e ripigliatura delle fosse. Nome di alcuni monti d’argentiera. 74. In Italia durante tutto il medio evo, e in parte fino al cadere dello scorso secolo, il nome e l'autorità dell’ Impero, effetto della memoria della grandezza Romana, furono sì potenti, che non vha quasi instituzione publica e fors’'anche privata, che più o meno, o in fatto o almeno per forma e in apparenza, non si credesse dipendere dall’autorità imperiale. Ma rare volte avveniva, che gl’ imperatori, estranei all'Italia e che non vi avevano vero dominio nè patrimonio, dessero del proprio le cose o i diritti dei quali vediamo le concessioni nei diplomi imperiali; quasi sempre erano i possessori medesimi, fossero essi i communi, o i signori feudali, o talora i principi, che si facevano concedere dagl’imperatori ciò che già possedevano, ovvero ciò che, posseduto da altri, intendevano di occupare; poichè la riverenza dell'autorità imperiale rendeva quasi legitime le usurpazioni, alle quali, convalidate da un diploma imperiale, spesso più non ardivano opporsi quelli medesimi, che per esse erano spogliati dei loro averi o dei loro diritti. Gl’imperatori poi di buon grado concedevano tali privilegi, sì perchè quasi sempre si davano a prezzo, come perch’ essi così assicuravano ed estendevano la loro autorità anche su cose e su diritti che non avevano, e che, mentre pur li con- cedevano ad altri, mai non avrebbero potuto arrogare a sè medesimi ; dando forse il solo esempio di eccezione al noto proverbio, che Nessuno dà ciò che non ha; ciò facendo col consenso e col concorso di quelli appunto sopra i quali tale autorità doveva esercitarsi, e contro i quali tale concessione spesso si rivolgeva : sostenendo gl’imperatori, nè dissen- tendo gl’Italiani, che chi dava aveva in certi casi il diritto di togliere. 75. Tale fu in Italia Vorigine del diritto regio o di regalìa, che negli scorsi secoli tutti gli stati italiani pretendevano sulle miniere; sebbene IN VILLA DI CHIESA 281 tale diritto regio nè abbia alcun fondamento nella giurisprudenza romana, nè vi sia ragione che distingua, in quanto riguarda i diritti di dominio, je miniere dalle altre proprietà private. Non vha dubio che da simili con- cessioni imperiali (probabilmente dapprima degli Ottoni) debba ripetersi il diritto sulle miniere, che già nel secolo duodecimo troviamo esercitato dai vescovi signori di Trento ”. Per simil modo in Toscana con diplomi di Enrico VI (anno 1193) e di Federico II (anno 1220) vennero concesse e confermate al commune di Pisa le argenti fodinae et omnes venae metal- lorum, che si trovavano nei dominii di quella città . E senza dubio simile fu l’origine del diritto, che in principio del secolo decimoterzo il capitolo e il vescovo di Massa esercitavano sulle miniere poste nella loro diocesi È, ma che già sul finire dello stesso secolo era passato al Commune. Ed a questo diritto di regalia deve attribuirsi la prescrizione che troviamo nel Costituto di Massa, che le fosse a coloro che ne intraprendessero la coltura dovessero concedersi dal Capitano o dal Giudice o da altro pu- blico officiale; sebbene non potessero concederle fuorchè a coloro che ne avessero intrapreso la coltura nel modo e nel tempo prescritto dalla legge, e la concessione che venisse fatta ad altra persona fosse dichiarata irrita e di niun valore #. E da simile principio della signoria sulle miniere appartenente allo stato sono rette le prescrizioni, che su tale argomento si leggono nello Statuto di Siena ®. Che anzi in forza di tale diritto di $ 75. +) Copex Wancianus: Urkurdenbuch des Hochstiftes Trient, begonnen unter FRIEDRICH von Wancen, Bischofe von Trient .... forigesetat von scinen Nachfolgern. Herausgegeben von RUDOLF Kung. Wien, 18592, S. 430-454. — PoGcI EnRIcO, Discorsi economici, storici e giuridici. Firenze, Lemonnier, 1861, pag. 492-506. 2) Leggi, Decreti, Regolamenti, Circolari, Atti diversi concernenti le sostanze minerali. Torino, 1861, pag. 514 e 519. 3) « Nos Vicedomini Massani, » (seguono i nomi) « consensu et licentia et parabola | » d. Alberti, Dei gratia Massani Episcopi, data cum consensu et consilio fratrum suorum Massani » Capituli, ...... absolvimus et liberamus omnes et singulos homines cives Massanos a fidelitate » et juramentis fidelitatum, ..... .. et tradimus ....... tibi .... recipienti ..... ( pro comuni » Massano) omne jus et aclionem .... quod et quam habemus sive jure fendi, sive jure emplhi- » teolico, sive libellario ...... De predictis omnibus et singulis excipimus, et reservamus nobis, » ... omnes terras cultas et incultas, agresles el non, locatas, casalina, domos, plateas, silvas, » et res quae et quas habemus ad manus nostras; ET JUS ET CONSUETUDINEM QUOD ET QUAM » HABEMUS IN ARGENTIFODINIS, ET 1PSAS ARGENTIFODINAS NOSTRAS. » Da un diploma inedito dei 31 luglio 1225, esistente nel R. Archivio di Stato in Siena: Serie del Diplomatico; Istrumenti ed Atti del Commune di Massa, Filza I, che dobbiamo alla cortesia del Direttore di quell’ Archivio, sig. Luciano BANCHI. 4) DM. x. 5) Br. App. V. Serie II. Tom. XXVI. 36 282 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE sovranità troviamo esservisi talvolta poste restrizioni alla libera coltivazione delle miniere. Così in un bando dell’anno 1262 vediamo proibito a qual- siasi cittadino Massano di aver parte a fossa nel distretto di Cugnano ; bando notabile anche in quanto vi troviamo accennato, che già prima di quell’anno nel Costituto ed Ordinamento di Cugnano si contenevano regolamenti relativi all'industria delle miniere ®. 76. Di nessun tale diritto di regalìa troviamo vestigio in Villa di Chiesa. O sia che ogni siffatto vincolo vi fosse stato abolito al tempo della domina- zione dei conti di Donoratico, ovvero che, come maggiormente crediamo, in tutta Sardigna (dove l’autorità degl’ imperatori Germanici non si estese che assai tardi, e più di nome che di fatto, e soltanto in cose di di- ritto publico) fosse appieno sconosciuto il principio della demanialità delle miniere: questo è certo ed indubitato, che il principio col quale reggevasi nel territorio di Villa di Chiesa la coltivazione delle argentiere era quello della più piena ed assoluta libertà, sì che nessuno anche lontano indizio vi si trova di diritto di regalìa, o altro qualsiasi, che vi eserci- tassero o lo stato od il commune. A chiunque era lecito, senza bisogno di ottenerne facoltà da alcuno, sia l’aprire nuove fosse, sia ripigliare le fosse da altri abandonate; anzi laddove le leggi romane del tempo de- gl'imperatori cristiani, passate anche nel codice Giustinianeo e quindi nei Basilici ®, e state perciò lungo tempo in vigore in Sardigna, impo- nevano al coltivatore delle miniere il canone di un decimo in favore del proprietario dej suolo (S$ 5, 26), ed a Massa ?, come generalmente in Italia, si dovevano compensare al proprietario del terreno i danni a giudizio di esperti: nel Breve di Villa di Chiesa mai non si trova fatto pur cenno dei proprietarii del terreno e dei loro diritti, sebbene in al- cuni luoghi, se indennità doveva darsi, il contesto avrebbe espressamente ‘ richiesto se ne facesse menzione. Così, nel caso di ripigliatura di fossa abandonata vediamo stabilito, doversi rimborsare agli antichi parzonavili il prezzo della capanna che vi avessero costrutto, ma non vi si fa parola del rimborso del valore del terreno . Il motivo di tale silenzio appare evidente, ove si consideri, che le argentiere nel territorio formante ora 6) Br. Append. I. $ 76. +») C.140 C. Th. de metallis et metallariis (40, 19); c.3 C.J. eod. (11, 7); Basilic. Lib. LVI, Tit, xII, cap. 5 (ed. Heimbach). 2) M. 1L 3) Br. 118>. IN VILLA DI CHIESA 2853 il circondario d Igiesias sono pressochè tutte in terreni privi quasi di ogni valore ed utilità; e molto più ciò doveva essere vero allora in Villa di Chiesa, dove, secondo appare da un prezioso documento già da noi altrove citato (S 16), quella popolazione, tutta intenta al lavoro delle argentiere, punto non curava la coltura delle terre °, e vi si coltivavano soltanto quelle in luoghi piani, come le ubertose terre del Sulcis, ov- vero gli orti e le vigne nei luoghi più agevoli ed oportuni in vicinanza di Villa ?. Che anzi anche ai nostri giorni quasi il solo benefizio che dai loro diritti sul terreno nei luoghi dove sono le miniere ritraggano i possessori, si è di servirsene a taglieggiare di continuo e sotto ogni forma i coltivatori delle miniere, ricusando spesso di vendere le terre anche a più doppi del loro valore, per non ispogliarsi del più ampio e spesso rinnovantesi benefizio sotto nome di compenso di danni che non ricevono. — Tuttavia, non ostante questo silenzio del Breve, siamo d’av- viso che anche a quei tempi in Villa di Chiesa, se fosse avvenuto che alcun lavoro d’argentiera recasse nocumento ad alcuna proprietà di privati, si dovesse a questi il compenso dei danni o il prezzo del terreno, se- condo l'equità naturale e i principii del diritto commune: ed il silenzio del Breve se dimostra la rarità del caso, non prova che in tali casi non si desse indennità; trovandovisi espressamente dichiarato, che l’argentiera di Villa di Chiesa era stata allevata e si governava per buona usanza e per consuetudine, e non per legge scritta ©. 77. Non solo era lecito a chiunque aprire fossa nuova, ma se alcuno ciò facesse in montagna nuova, ossia se alcuno mettesse bottino, canale o fossa in montagna, nella quale non fosse stato prima aperto lavoro d’argentiera, ed arrivasse, e facesse vena, cioè grossame, da un corbello in su alla trenta, e fosse netto, e valesse il corbello della vena da libre cinque in su: il Camerlingo pel Re in Villa di Chiesa, doveva dargli libre dieci d’alfonsini minuti per una robba; ed inoltre quella cotale persona che aprisse montagna nuova era franca d’ogni data e prestanza per anni cinque ”). 78. Al lavoro nuovo o messo dal die opponevasi il lavoro ripreso ”. 4) Cod. Dipl. Ecel., XIV, x1, 11-15. 5) Vedi per esempio Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxx1x, 91-96. 6) Br.1a 26-1b 10. 6 77. +) Br.135b 7-27. $ 78. +) Br.1142 4-5. 284 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Dicevasi riprendere ® o ripigliare ® il prendere a coltivare una fossa stata da altri abandonata; l’atto di ripigliare una fossa era detto ripigliatura®. L'occupazione ossia la presa di possesso, o si trattasse di lavoro nuovo o ripreso, si faceva segnando il luogo con una croce ?. Il luogo segnato doveva lavorarsi fra lo spazio di tre giorni; ma il segno poteva rinfre- scarsi, e la rinfrescatura correva altri dì tre, sì che, insieme computati la segnatura e il rinfrescamento, si aveva termine a cominciare i lavori dì sei. Per non perdere il tempo della segnatura e della rinfrescatura era lecito lavorare anche in dì festivi, salvo nei dì dandoreggiati, ossia nelle maggiori solennità, le quali si bandoreggiavano dai Maestri del Monte; durante questi dì bandoreggiati non correva termine ®. Trascorsi i giorni sopradetti senza che si fosse lavorato alla fossa, il segno era morto ?, e chiunque volesse poteva segnare e ripigliare a sua posta la fossa, colle medesime obligazioni; e se gli fosse Zizata ® da quello che avesse lasciato di lavorarvi, pena marco uno d’argento al Zitazore ®. La ripigliatura della fossa doveva farsi scrivere nei libri di Villa dallo scrivano dei Maestri del Monte '°. Il lavoro di una fossa ripresa doveva durare mesi tre al- meno senza interruzione; se alcuno, prima che fossero trascorsi i tre mesi, cessasse dal lavoro per tre dì, la fossa poteva da altri essere ri- presa come segno morto "). 79. Quando la fossa o bottino da chi vi lavorava già fosse profondata un passo, non si perdeva nè poteva essere ripresa da altri, se non vi si già avesse tratto 5 al die corbelli due o più di vena, non si perdeva se non si lasciasse cessasse di lavorare per giorni quindici ®; se poi la fossa di lavorarvi per giorni trentatre. Chi ripigliasse la fossa per tal modo abandonata, doveva lavorarla almeno una settimana, ossia almeno sei 2) Dobbiamo notare, che il verbo riprendere nel Breve di Villa di Chiesa mai non si trova usato in questo senso fuorchè nel participio ripreso (Br.113b 27-28; 1142 4-5); per le altre forme facendosi sempre uso del verbo r:pigliare. 3) Br.112b 21-33; 113b 13-18; 31-32; 115D 10-12; 118b 15-119° 4. 4) Br.113b 18; 115D 17-18. 5) Br. 112 1-5; 14-21; M. 1, 2-9. 6) Br.112b 1-21. 7) Br.113% 25-57; 113. 16; 115> 21. 8) Br.112> 30; 1132 28-30; 115? 18; 20. 9) Br.112b 33. 10) Br. 113b 16-18. 11) Br. 112b 21-1132 2. $ 79. +) Br.113b 8-18. = = IN VILLA DI CHIESA 285 di, e ragionarla bene e lealmente; ed in venerdì o in sabbato, che erano i giorni nei quali si teneva corte in Villa di Chiesa ?, farvi met- tere bando, come quella cotale fossa era ripresa, e da chi. Ciò fatto, non perciò diveniva pieno ed assoluto padrone della fossa; ma, fra dì otto dopo quel bando doveva far richiedere per lo messo della Corte catuno dei parzonavili vecchi di prima, di francare le parti loro infra dì 8 fatta la detta richiesta; li quali bandi e richieste si scrivessero negli atti della Corte. La richiesta doveva farsi personalmente, se gli antichi parzonavili fossero in Villa di Chiesa, ovvero in Domusnovas, in Villamassargia, o Baratoli, o Bagniargia, o Conesa, o Bareca, o Sigulis, 0 Antasa, o Ghiandili; se non si trovassero in alcuna delle soprascritte ville, ma vi avessero abitazione, la richiesta doveva farsi alla casa della sua abitazione; se finalmente nè vi si trovassero in persona nè vi avessero abitazione, bastava che fossero richiesti in Villa di Chiesa alla Piazza di Santa Chiara e alla Piazza della Corte, per tre dì consecutivi (« per tre dì allato allato »). Fra dì otto dopo la richiesta quelli fra gli antichi par- zonavili che volessero francare, avevano la metà delle loro trente; l’altra metà rimaneva al ripigliatore: se non francassero nell’anzidetto termine, perdevano intere le parti loro, e queste passavano a colui che avesse ripreso la fossa ). Se la fossa così ripresa fosse lavorata e ragionata per mesi due, e la ragionatura apparisse scritta dagli scrivani di Villa, e du- rante questo termine non fosse da alcuno litata, nè fosse mossa questione al ripigliatore: questi non poteva più essere litato nè molestato dagli antichi parzonavili che non avessero francato le parti loro, quand’ anche fossero pupilli o persone altrimente privilegiate, e quantunque il ripi- gliatore non avesse adempito le soprascritte formalità #, Se tuttavia quegli che avesse ripreso la fossa era maestro, scrivano o parzonavile di quella medesima fossa, non bastava che provasse di aver lavorato o fatto lavorare alla fossa od altro lavoro ripreso, ma doveva mostrare scritta nel libro dello scrivano delli Maestri del Monte la ripigliatura che ne avesse fatta in proprio nome. Ai parzonavili era sempre lecito, passati quindici giorni che non vi si lavorasse, ripigliare la fossa abandonata 2) Br. 69» 32-33. 3) Br.113b 18-22; 114b 5-115a 14. 4) Br. 115° 14-29. 5) Br.115a 29-37. 286 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE dalla loro compagnia, ma dovevano fare le soprascritte formalità; e se gli altri parzonavili francassero le trente infra dì otto, erano loro come di prima; se non francassero, perdevano le loro parti a profitto del ri- pigliatore ®. Che se finalmente la fossa era abandonata da mesi quattro, diveniva di chi la ripigliasse, senza bisogno di adempiere le solennità soprascritte nè di richiedere gli antichi parzonavili; ma se il ripigliatore non avesse dato il diritto fra giorni quindici dopo la ripigliatura, la ri- perdeva, quantunque si trattasse di parzonavile che avesse già prima dato diritto : e chiunque volesse poteva occupare la fossa come segno morto ?. 80. Nella perdita della fossa che dai parzonavili si facesse per abandono non era compresa la capanna o tettoja che fosse eretta alla bocca della fossa; ma doveva farsi stimare per li Maestri del Monte, e pagarsene il valore agli antichi parzonavili ; e chi contra facesse, punivasi colla multa di libre dieci d’alfonsini minuti, e doveva restituire il legname che ne avesse levato o venduto !. Parimente appartenevano agli antichi parzo- navili gli utensili o fornimento della fossa, e la vena netta che fosse al die, ossia tratta fuori della fossa; anzi il ripigliatore doveva ammonire gli antichi parzonavili, che venissero a pigliarla: che se, ammoniti, non la levassero infra un mese, diveniva propria del ripigliatore ®. Questo per la vena netta; per la vena non lavorata che fosse al die il ripigliatore non era tenuto di dare avviso agli antichi parzonavili; ma non poteva nettarla nè toglierla fuorchè tre mesi dopo ripresa e lavorata continua- mente la fossa, e se la nettasse avanti quel termine, doveva rendere ai parzonavili di prima la vena netta che ne avesse ritratto, e pagare la pena anzidetta di libre dieci d’ alfonsini minuti; passati i detti tre mesi poteva lavorarla, e disporne a piacimento ?. Se alcuno o nell’aprire fossa nuova, o nel ripigliare fossa abandonata, si trovasse dinanzi ed avesse ad attraversare monte lavorato, ossia gettaticci utili appartenenti ad altra fossa, doveva metterli in disparte infine a tanto che giungesse al sodo; e la fossa alla quale quel gettaticcio appartenesse poteva riaverlo, com- pensando alla fossa vicina la spesa fatta nello scavare a traverso quel gettaticcio ed infino al sodo, se il lavoro della fossa nuova o ripresa 6) Br.115? 38-115b 9. 7 Br.115b 10-22. $ 80. 1) Br.118b 17-21; 25-31. 2) Br.115b 9-10; 118b 32-119a 4. 3) Br.118b 17-25; 98-32. IN VILLA DI CHIESA 287 fosse continuato mesi tre almeno; altrimente, la fossa alla quale appar- tenesse il gettaticcio non era tenuta ad indennità o compenso ‘. 81. Abbiamo detto più volte, che le fosse sì perdevano se non fossero lavorate. Tale obligazione del lavorare doveva prendersi nello stretto senso; e perciò al modo stesso che per occupare una fossa non bastava una occupazione fittizia per mezzo di formalità legali, ma conveniva prenderne il reale possesso ”, così affinchè una fossa si dicesse lavorata non bastava che ragionasse nei libri di Villa, ossia che su questi si scrivessero spese e lavori, se difatti non avessero luogo. E se ne fosse lite, i parzonavili erano tenuti di provare la verità dei lavori eseguiti colla testimonianza o dei lavoratori medesimi, o di vicini; nè bastava che si dimostrasse essere entrati ed esciti lavoratori della fossa, ma avervi fatto lavoratura *); e di ciò doveva darsi fede al loro giuramento ?. 82. Il nuovo segno doveva essere discosto dalle fosse circonvicine al- meno selte passi di braccia tre! di sodo; se alcuno ponesse segno più presso, perdeva il segno, e ciò che lavorato avesse, ossia la vena trattane ; e il segno era morto. Ma se infra un mese poi che fu posto il segno, non fosse litato, stava fermo, come se fosse a misura di passi sette , purchè la distanza non fosse minore di passi sei. Se fosse minore, poteva litarsi infra due mesi; trascorsi i quali senza che fosse litato il segno stava fermo, come se fosse a misura; sì veramente, che in nessun caso la distanza potesse essere minore di passi cinque. Ed i Maestri del Monte erano tenuti d'intendere e giudicare tutte le liti e questioni che di ciò fossero, e fare ciò osservare; andando perciò a monte tante volte quante ne fossero richiesti ©. La distanza tra le fosse deveva misurarsi 4 dritto passo #, ovvero, come più chiaramente il Costituto di Massa, a dritto passo ....misurando in piano ed a piombo 4) Br.117° 8-24. $ 81. +) Br. 112b 22-24. 2) Br.115D 41-42. 3) Br.115b 25-116a 4. S 82. 1) Lasciamo agl’illustratori delle cose Pisane (chè non può essere argomento di questo scritto) il definire la corrispondenza dei pesi e delle misure che si trovano accennati nel Breve di Villa di Chiesa e negli altri documenti Pisani di quella età, coi pesi e colle misure dei nostri giorni. 2) Br.113% 20-113b 6. 3) Br.113a 23. 288 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE a detto passo *: ossia, che la distanza debba misurarsi non seguendo il declivio del monte, ma in piano ossia a livello tra la perpendicolare o più veramente la verticale dei due punti, e così orizontalmente e in | planimetria. — Affinchè alcuna fossa potesse opporre che il nuovo segno non fosse a distanza, era naturalmente necessario ch’ essa medesima fosse fossa viva. Secondo il Costituto di Massa se alcuno sotterra s’ im- battesse in lavori di fossa abandonata, poteva in ogni tempo occu- parli ®. Non così in Villa di Chiesa, dove le lavoriere morte nelle quali altra fossa venisse a ferire non si acquistavano per tal modo se non fossero abandonate da due anni o più; passati i due anni, se alcuna fossa vi ferisse « erano sue liquide », nè gli antichi parzonavili più po- tevano farvi valere diritto, nè altri occuparle quasi lavoriere morte ®. Secondo il Costituto di Massa, i limiti che la fossa ripresa avesse avuto con le fosse circonvicine prima dell’abandono tornavano in pieno vigore dopo la ripigliatura ?; in ogni altra cosa una fossa ripresa era consi- derata come fossa nuova, nè poteva pretendere alcuno dei diritti, che prima di venire abandonata potesse avere avuto o per accordo colle fosse vicine, od altrimente ®. Nè punto dubitiamo che così si osservasse relativamente alle fosse riprese anche in Villa di Chiesa, sebbene non ne troviamo espressa menzione nel Breve. i 83. È notabile una prescrizione del Breve di Villa di Chiesa, desti- nata evidentemente ad agevolare la ripigliatura e la coltivazione delle fosse quando venissero dagli antichi parzonavili abandonate. Era cioè proibito il riempiere le fosse dal die , ossia il gettarvi dentro materiali già estrattine; e ciò sotto pena di libre venticinque d’alfonsini minuti , metà dei quali in premio al delatore, cui doveva zerersi credenza, ossia mantenersi il secreto. Da tale obligazione si eccettuava il caso, che per alcun bisogno della fossa, per esempio pel pericolo di frana, si riem- pissero con consentimento dei Maestri del Monte, ed apparisse scritto in sul libro loro dallo scrivano dei detti Maestri ”. 4) M.1, 30-35: « ad rectum passum ..... mensurando ad planum et arhipendolum al » dictum passum. » 5) M. x, 9-16. 6) Br. 120° 11-19. 7) M. x, 1-9: 16-20. 8) M. xur. $ 83. ») Br.138% 5-15. IN VILLA DI CHIESA 289 84. Da quanto abbiamo esposto appare, che a quel tempo ciascuna escavazione di argentiera, ossia ciascuna fossa, era indipendente dalle altre, e vi si doveva lavorare, o si perdeva e poteva da altri ripigliarsi. Appare inoltre, che le varie fosse erano spesso tra loro vicinissime, e che cadun lavoro non soleva comprendere un’ampia superficie di terreno, ma quasi sempre soltanto una striscia, che in lungo si estendeva finchè la vena non si trovava intercetta da un tratto sterile, e talora anche meno, se l'avanzamento nella vena già si trovava intercetto dai lavori di altra fossa; ai fianchi poi era circoscritta dalle pareti o incassamento fra le quali è racchiusa la vena; deviando talora ed estendendosi verso le fosse laterali, quando anche in tale direzione si trovava la vena. Tale infatti è la forma e la disposizione consueta dei numerosi scavi, che per tutto quel territorio rimangono di quella e delle età anteriori. Dove il filone è ricco e manifesto su di un lungo tratto, le fosse le bocche delle quali sono su di una medesima linea o filone communicano sotterra fra di loro, e formano una sola talora assai vasta escavazione, sebbene appartenesse a varii communi di fosse: i limiti dei diritti di caduno erano determinati dai Maestri del Monte, come esporremo a suo luogo. Ma nel caso che la vena anche sullo stesso filone si presentasse maggior- mente a colonne, non continuando senza interruzione per un tratto aba- stanza lungo perchè potesse aprirvisi più di una fossa, ma avendo un tratto intermedio sodo e di difficile escavazione: in tale caso ogni colonna formava un lavoro distinto, e l'uno dall’altro indipendente, sì che quella colonna nella quale da alcuno fosse abandonato il lavoro poteva da altri ripigliarsi. Così parimente, sebbene la legge consentisse che più fosse- vicine si accommunassero insieme e spettassero ad una medesima com- pagnia: nè pare essere stato frequente il caso; e caduna di esse doveva lavorarsi, e se alcuna si lasciasse, diveniva lavoriera morta, e cedeva al primo occupante. Chi apriva fossa nuova o ripigliava una fossa aban- donata, non aveva per ciò bisogno del consenso dei publici officiali ; nè il lavoro, o fosse nuovo o ripreso, si perdeva finchè non fosse abandonato, ed ancorchè non si fosse arrivato alla vena. Siccome poi per quei piccoli lavori, e particolarmente finchè le fosse erano poco profonde, non abbisognavano gravi spese, ed inoltre, come abbiamo notato a suo luogo ($ 39), ai parzonavili era fatta facoltà di mettere in conto della loro parte di francatura la propria loro opera: si com- prende come fosse aperto campo amplissimo e pressochè illimitato alla Serie II. Tom. XXVI. 937 290 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE operosità e ai guadagni delle persone di Villa di Chiesa, e di quelli in gran numero che d'ogni parte vi accorrevano ; e ci rendiamo ragione degli innumerevoli scavi che coprono quelle montagne, scavi tanto fre- quenti, che in molti luoghi tra l’uno e l’altro il passo riesce malagevole e pericoloso. 85. Tale modo di coltivazione ci spiega, come si potesse allora trarre benefizio da lavori, che ora l’industria moderna, che pure possiede mezzi tanto più potenti, ma che d’ogni parte soggiace a maggiori spese, e che oltreciò è inceppata da improvide disposizioni legislative, non potè finora ripigliare con profitto ; e per esso parimente si comprende , perchè quegli scavi numerosissimi siano generalmente poco profondi, fuorchè dove la quantità e sopratutto la qualità della vena compensavano la spesa dei lavori e dell’ estrazione anche a grandi profondità. Siccome a quel tempo erano scarsi gli usi del piombo, con quelle escavazioni si andava principalmente in traccia dell’argento ; anche dove Ja vena di piombo era abondante, ma poco argentifera, troviamo che gli scavi, tranne dove la vena era non solo abondante ma anche di facile estra- zione, non discendono molto oltre, ed in ogni caso mai non sono spinti a quella profondità direi quasi prodigiosa, se si tenga conto dei mezzi di escavazione adoperati in quella età, alla quale vediamo condotte le fosse dove la vena, quand’anche meno copiosa e meno bella, è tuttavia ricca in argento. In tale caso non infrequenti sono le fosse cupe cento metri; alcune discendono fino ai ducento ; ed in molti luoghi i lavori non poterono finora essere spinti tant’ oltre, da accertare se non si trovino scavi antichi a maggiore profondità. Possiamo tuttavia stabilire come regola generale, che può anche servire di norma alle numerose persone che ai nostri tempi vanno in traccia dei luoghi dove con mag- giore vantaggio possano esercitare l'industria mineraria in quelle parti : che ovunque si trovano fosse, 0, come ora communemente si chiamano, pozzi, condotti a grande profondità, sono scavati in vena ricca d’argento. 86. Fra le innumerevoli argentiere aperte nel territorio di Villa di Chiesa e delle ville da essa dipendenti, poche sono delle quali nei do- cumenti superstiti di quella età ci sia stato conservato il nome e la memoria. Quattro soli monti d’argentiera sono nominati nel Breve di Villa di Chiesa: Monte di Malva, Monte di Pietra Carfita, Monte Nuovo e Monte d’Olivo ; fors’ anche questi due ultimi nomi designano un me- desimo luogo. Dalle prescrizioni del Breve relative a questi monti appare, SITI IN VILLA DI CHIESA 29I che erano i più lontani da Villa di Chiesa ; poichè vi si prescrive, che fossero bensì tenuti a ragionare in Villa di Chiesa, ma che i loro lavo- ratori fossero esenti dall’obligo di recarvisi la domenica per ricevere ivi i loro salari, e non sul luogo delle stesse argentiere !. Nel ricercare poi quali fossero i monti anzidetti, dobbiamo por mente, che l’argen- tiera di Sigerro, o vogliam dire di Villa di Chiesa, se si protendeva di assai oltre i confini di questa e comprendeva anche il territorio delle ville vicine, non s’estendeva tuttavia su tutta la superficie dell’ odierno circondario d’ Iglesias : tutta la parte settentrionale del quale non dipen- deva a quel tempo nè da Villa di Chiesa nè dai Re d'Aragona, ma era soggetta ai Giudici d’'Arborea : il che, unito alla enumerazione che abbiamo fatta altrove secondo il Breve delle ville sopra le quali sotto questo aspetto si estendeva la giurisdizione di Villa di Chiesa ($ 22), esclude che possiamo estendere le nostre indagini o alla bella miniera di Montevecchio, o alle numerose ed importanti miniere che si trovano oltre i confini di Antas nei dintorni di Flumini Maggiore. 87. Nel ricercare quale sia il Moxre pr MALva, oltre l’indizio del nome, conservatosi in più d’un luogo sotto la forma sarda di Monte Narba, abbiamo relativamente a questo monte la prescrizione fatta nel Breve : che non fosse lecito cavarvi alcuno rigagno, nè piazza da lavar vena, nè porvisi machina da estrarre acqua, onde potesse recarsi danno al lavoro della montagna ; e che perciò tali lavori non vi si facessero fuorchè a provedimento di quattro buoni uomini eletti dal Consiglio di Villa ”. Indizio tanto più notevole, in quanto sono rarissimi in quelle parti i monti d’argentiera, che abbiano siffatta molestia d’acqua, o dove si gni. Un Monte Narba trovasi nei limiti della conces- 5 sione di Masua, nel quale e nei dintorni sono numerose fosse antiche; possano cavare riga ed in una d'esse, più vicina invero a Masua che non a Monte Narba, l’acqua è sì copiosa, che coi mezzi ordinarii d’estrazione non si pervenne ad abassarne il livello. Forse questo è il Monte Narba menzionato nel Breve ®; fors' anche va cercato assai più lungi e in altra parte, per esempio, se pure sì lungi si estendeva l’argentiera di Villa di Chiesa, in Monte Zipiri, posseduto ora dalla Gonnesa Mining Company (limited), S 86. 1) Br.61b 4-8; 144b 27-40. $ 87. 1) Br.137b 32-36; 144 32-34. Vedi anche Br. 61b 4-8. 2) Così congettura il sig. Ingegnere FERRUA, alla cui cortesia devo l’anzidetta indicazione. 292 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE che è all'estremo limite a levante dell’antica argentiera di Sigerro, presso il salto detto ora dell’Acquacotta, seguendo la strada da Vallermosa a Villacidro. 88. Nessun indizio di somiglianza di nome o altro qualsiasi ci venne fatto di rinvenire, per riconoscere quale fosse il Monte DI Pietra CarriTA ". 89. Di Monte Novo " invece teniamo per fermo essere quello, che tuttora ritiene il nome di Monte Nou o Monte No’ nei salti detti di San Benedetto e dello Spirito Santo a settentrione d’Iglesias, dove sono immensi lavori di fossa antichi ®. Fors' anche Monte Novo è lo stesso che altrove è detto Monte D'OLIvo, poichè, unitamente al Monte di Pietra Carfita, nel primo luogo, dove appunto è menzionato il Monte d’ Olivo, non si fa cenno di Monte Novo ?, e nel secondo luogo si nomina il Monte Novo, e non il Monte d’Olivo; quantunque in ambidue i luoghi si contengano disposizioni conformi, e che perciò dovevano riferirsi ai medesimi monti d’argentiera ‘. 90. Ma oltre quelle più lontane accennate nel Breve, di alcune argentiere più vicine a Villa di Chiesa troviamo menzione in altri antichi documenti. Nel testamento e nell’ inventario dei beni, da noi già altrove citato, di Barone da Samminiato, morto in Cagliari sul finire dell’anno 1324 o in sul principio del seguente, leggiamo, ch'egli possedeva due trente e tre quarti della fossa detta « la Comunata » in Monte Paone, che non può du- bitarsi essere l'odierno Monteponi '. In documenti del secolo decimosettimo quel medesimo monte trovasi denominato Monte de Ponis o Montebony. 91. Lo stesso Barone da Samminiato nel suo testamento dice che aveva in Monte Barrao venlitre trente e tre quarti nella fossa detta « Nasella $ 88. 1) Br. 61b 4-8; 144b 27-40. $ 89. +) Br. 144b 27-40. 2) Di questa e di parecchie altre utili notizie pel presente qualsiasi lavoro sono debitore alla cortesia dell’Ingegnere Cav. Leone Goun, che inoltre ci fornì i disegni degli antichi forni, e di parecchi utensili da lavoro trovati in antiche fosse. 3) Br. G1b 4-8 4) E meno sorprenderà questa varietà di denominazione ove si ponga mente, che il Quarto Libro del Breve, dove col Monte di Pietra Carfita troviamo nominato il Monte Novo, è evidente- menle redatto da persona diversa da quella che compose i Libri precedenti; onde anche per altri oggetti troviamo fra le due parti del Breve diversità di denominazione. Così quello che in pìù d’un luogo dei primi Libri è detto dellitrame (512 18; 652 7-8), nol Quarto è detto invece bellifanza (132> 20; 133. 9-10). $ 90. ») Cod. Dipl. Eccel., XIV, sxxv, 117-121; xxxix, 77-79. IN VILLA DI CHIESA 293 e Fiore »; e tutta propria la fossa « la Castellana », a traverso la quale si estraeva la vena dell’anzidetta fossa « Nasella e Fiore »; e trente ventinove nella fossa detta già « Galassa », ed allora « Guardaroba e Bambola » !. Nello stesso Monte Barlao troviamo menzione della fossa detta « Giumentaria », della quale un terzo circa apparteneva all’ Ospe- dale Nuovo della Misericordia di Pisa ?. — A conoscere quale sia questo Monte Barlao noteremo in prima, che una delle porte di Villa di Chiesa era detta appunto « di Monte Barlao » ; ed è a credere che fosse non lontana da porta Sant’ Antonio, poichè le troviamo ambedue affidate al medesimo portinajo *. D'altronde è conosciuto il nome e il sito delle altre due porte di Villa di Chiesa, ambedue dal lato opposto della città; porta Castello, e porta Maestra, verso la Chiesa detta di Santa Maria di Valverde, ora conosciuta sotto il nome di Chiesa dei Cappuccini . Inoltre conviene notare, che trovasi fatta menzione anche del Rio di Monte Barlao, dove in parte si lavava la vena che si traeva dalle fosse Galassa e Nasella nello stesso Monte, della quale tuttavia la vena, evidentemente perchè quel rio durante gran parte dell’anno si trovava a secco, si portava a lavare anche nelle acque di Canadonica *); $ 91. +) Così nel testamento (Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 111-119); nell’inventario invece dei beni fatto dai tutori (Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxIx, 26-34), e in una transazione dell’anno 1340 per una lite sorta fra Lamberto figliuolo ed erede del detto Barone, ed il figlinolo di uno de’ suoi tutori (Cod. Dipl. Eccl., Supplem., Doc. dei 24 genn. 1340), omessa ogni menzione separata della fossa « la Castellana » , sì dicono « trente ventitre e tre quarti della fossa Nasella e Castellana, e trente ventinove della fossa Galassa e Bambola. » 2) Cod. Dipl. Eccl., Supplem., Doc. dei 9 marzo 1317; altro dei 15 marzo 1319; altro dei 3 aprile 1335. 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xevi, 11-26. 4) FARA, Chorographia Sardiniae, Lib. I ( Augustae Taurinorum, 1835, pag. 86): « quatuor » portis ornata, nempe porta Magistra ad meridiem, versus ecclesiam Sanctae Mariae Vallis » Viridis ; porta Nova, ad occidentem; porta Sancti Artonii, ad aquilonem; et porta Castri, ad » orieniem sita, ubi Castrum Salvae-Terrae, alias Sancti Gantini appellatum, in monte edito, » natura loci et anliqua slructura salis munitum, tutam reddit urbem. » 5) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 123-125 (« et plateam Galasse et Naselle de la Rusa; quae » sunt in rivo Montis Barlau »); xxxIx, 30-37 (« el trentas viginti tres et quartos tres unius » alterius trente fovee dicte Naselle et Castellane, posite in Monte Barla. Et trentas viginti » tres et quarlos tres unius alterius trente, dicte fovee, posite in rio Montis Barla. Et trentas » viginti tres et quartos tres unius alterius trente, platee suprascripte fovee, posite in aquis » Cannadoniche »); Cod. Dipl. Ecel., Supplem., Doc. dei 24 genn. 1340: (« et alius pelii terre » cum platea ad lavandum venam, siti in aquis Canadonice, vocate « la piassa del forno », et occasione trentarum viginti trium et quartorum trium unius alterius trente fovee vocale Nasella et Castellana », site in supraseripto Monte Barlau »). 294 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE nè altro rio vi ha in quelle parti, fuorchè quello che scorre non lungi dal monte San Giorgio, passando indi a’ piedi del monte di San Giovanni; sul qual rio anche a’ nostri tempi è posta una laveria, appartenente alla So- cietà di Monteponi, ma che, come quella antica, trovasi priva d’acqua durante la stagione estiva. Una fossa d'argentiera in Monte Barlao, detta « la Barbaracina », colle sue piazze, diritti e dipendenze, faceva parte di una concessione in feudo a Don Alamanno di Monbuy, nella quale erano parimente comprese parecchie ville del Sulcis, e della estremità occiden- tale della curatoria di Sigerro; onde appare che questo monte si trovava probabilmente bensì, almeno in parte, nella curatoria di Sigerro, ma non lungi anche da quella del Sulcis, e che perciò apparteneva non ai monti a tramontana, ma a quelli posti a mezzogiorno della città ®. In Monte Barlao esisteva una cappella dedicata a San Giovanni, a ristorare la quale Barone da Samminiato fece un lascito con quel medesimo testa- mento ?. — Le quali indicazioni tutte considerate, e fra loro comparate, crediamo non potersi dubitare, che la porta di Monte Barlao fosse © quella medesima, o alquanto più a mezzogiorno ma non lungi da quella, che, chiusa probabilmente in occasione delle guerre e delle pestilenze in fine di quel secolo o in principio del seguente ®, e più tardi riaperta o in quel medesimo o in luogo non lontano, prese il nome, che già aveva ai tempi del Fara ® e che tuttora conserva, di Porta Nuova. Monte Barrao così sarebbe quello che ora è detto di San Giovanni, nome che già troviamo dalla prima metà del secolo decimosesto, dal qual tempo più non troviamo menzione di Monte Barlao; e si avrebbe un nuovo esempio del caso, frequentissimo in Sardegna, che il luogo prese nome dal Santo ivi venerato. Ma, considerato il numero comparativamente grande di fosse d’argentiera in Monte Barlao delle quali troviamo men- zione non ostante la scarsità dei documenti, e particolarmente tenuto conto del cenno espresso, che da alcuna di dette fosse si estraeva vera d’argento *, titolo che al tutto non si compete alla vena non ricca 6) Cod. Dipl. Eccl., XV, XXXVII, 3-22. 7) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 96-104. 8) Già più non si trova annoverata fra le porte di Villa di Chiesa in un documento del- l’anno 1419; Cod. Dipl. Eccl., XV, xv, 18-23. 9) Vedi il passo sopra citato del FARA. 10) Cod. Dipl. Eccl., Supplem., Doc. dei 9 marzo 1317. __ one IN VILLA DI CHIESA 295 d'argento che si estrae da quello che ora porta il nome di Monte San Gio- vanni: siamo d’avviso che i limiti di Monte Barlao fossero dal lato di levante assai più estesi che non quelli dell'odierno Monte San Giovanni, e sotto questo nome si comprendesse anche il monte contiguo ove sono le miniere ora dette di San Giorcio e Is Fossas, appartenenti alla Società Monteponi; le numerose e profondissime fosse di queste dando, quasi sole in quelle parti, vera e ricca vena d’argento. E tanto più dobbiamo necessariamente estendere fino a San Giorgio e Is Fossas i limiti di Monte Barlao, in quanto le sue fosse appajono esistenti sul territorio di Villa di Chiesa, laddove quelle del Monte che ora ha nome di San Giovanni sono in gran parte poste sul territorio di Gonnesa. 92. Finalmente in quel medesimo testamento troviamo riferito, che un tal Lapo Capizi aveva dieci trente e mezza in due fosse, che, a quanto pare, erano accommunate insieme, dette l'una « la Comunata », e l’altra « Sancte Ricaldebito », nell’ Argentiera di Gonnesa '. Non possiamo sotto nome di Argentiera di Gonnesa intendere il Monte San Giovanni, che già abbiamo detto avere avuto altro nome; oltrechè questo era in buona parte posto sul territorio di altre ville ora distrutte, ed allora dipendenti da Villa di Chiesa. Conviene adunque riferire tale notizia ad alcun’ altra fra le numerose argentiere che sono sul territorio di Gon- nesa; ma non abbiamo verun argomento od indizio per definire, anche solo con probabile congettura, quale di esse più particolarmente fosse designata con questo nome speciale di « Argentiera di Gonnesa ». $ 92. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 126-130. 296 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE CAPITOLO V. Nome e descrizione dei varti lavori di fossa. Modo e strumenti di lavoro. 93. Nell’esame che imprendiamo dei lavori di fossa in uso presso gli antichi ne troveremo talvolta, che più non sono usati ai nostri tempi ; molti poi, che oggi o non hanno presso di noi proprio nome corrispon- dente, ovvero che anche dagli autori italiani che trattano di questo argomento sono designati con denominazioni straniere, per forma e per suono al tutto aliene dall’indole della nostra lingua. — I lavori o scavi di miniera si chiamavano a quel tempo, sì in Toscana come in Sardigna; lavori di fossa, con appellazione appieno corrispondente alla significazione di quella voce. In questo senso in capo alla Quarta Distinzione del Costi- tuto di Massa è notato, contenervisi gli Ordinamenti sull'arte delle fosse della ramiera e dell'argentiera ®. In simile generale significazione il nome di fossa è frequentemente adoperato nel Breve di Villa di Chiesa ?; e quindi anche derivano le denominazioni che s'incontrano ad ogni tratto, di lavoro di fossa, e di maestro o scrivano di fossa. 94. Ma oltre questa più generale significazione la voce fossa era adoperata a significare uno speciale, ed anzi il più commune allora e frequente fra i lavori di scavo. — Non mai o assai di rado le vene o, come ora sono dette, i filoni del minerale discendono verticalmente al suolo ; essi sono più o meno inclinati; nè il minerale si trova egual- mente disposto su tutta la lunghezza del filone, ma talora si restringe, talora ha dei rigonfiamenti dove il minerale è più abondante, rigonfia- menti che nel filone hanno parimente una nuova propria inclinazione. $ 93. ») Vedi in principio della Quarta Distinzione nell’ edizione del Bon4INI; e nella mia edizione, col. 261, not. 1. 2) Br.8° 22; 9a 31; 13» 15 ( fossa d’argentiera ); 292 1; 1062 29. IN VILLA DI CHIESA 297 In questi rigonfiamenti di minerale, dove si mostravano alla superficie, gli antichi solevano cominciare i lavori, discendendo al basso seguendo l'inclinazione della colonna del minerale. Di tali scavi, che erano di gran lunga il modo più commune di coltivare le argentiere, molte mon- tagne nel territorio d’Iglesias sono coperte per modo, che appena tra l'uno e l’altro rimane piccolo spazio, e questo ingombro dagli avanzi delle materie anticamente estratte; la profondità degli scavi, come ab- biamo sopra notato ($ 85), è varia secondo il benefizio che in ciasche- duno dava la coltivazione. Quando v' ha parecchi di tali scavi a non grande distanza nello stesso filone, sotterra per l’ordinario communicano fra di loro. Questo genere di scavi per lavoro di argentiera (ora, per la molta spesa che cagionano, al tutto disusati, in tanto che non si riprendono neppure quelli abandonati dagli antichi) distinguevansi allora colla propria appellazione di fosse !‘; ora volgarmente sono detti pozzi, e con tal nome li designano anche gli autori sì italiani che stranieri, che trattarono di questi antichi lavori. 95. Il principio di un tale scavo, ossia l’entrata della fossa, dicevasi la bocca della fossa ® ; Vaprirla, abboccare ©, ed all’incontro il distrurla sboccare la fossa #; onde ad una bocca di fossa guasta e distrutta tro- viamo dato il nome di docca sboccata #. Quel tratto di terreno presso la bocca, dove si deponevano i materiali estratti, e dove si pestava e si nettava la vena, nomavasi la piazza della fossa ® ; oggi direbbesi il piazzale ® : trovasi anche detta piazza del die ?, forse per distinguerla da altre simili piazze che nell’interno della fossa senza fallo si facevano, e taluna difatti ci avvenne di trovarne negli scavi antichi, per una prima preparazione della vena onde agevolarne l’ estrazione. Presso la bocca $ 94. 1) Br. 65° 16-21; 112 33-7; 115. 26; 116% 6; 8; 18. $.95. 1) Br.116° 8; 18. 2)1M.1, 15-220. 3) Br. 119? 23-26; 32. 4) M.111, 4. 5) Br.112b 35; 113b 17. 9) Nell’indicare i nomi odierni corrispondenti agli antichi in Sardigna nell’arle delle fosse mi attengo di preferenza a quelli che sono in uso a Monteponi, sì perchè a me più noti, come per essere quella la prima stata ai nostri tempi collivata, e presentemente senza contrasto la principale, fra le miniere dei contorni d’ Iglesias; onde anche le denominazioni quivi in uso vennero per la maggior parte ricevute anche nelle altre miniere. 7) Br.118b 22; 34. > Serie II. Tom. XXVI. 38 298 DELL INDUSTRIA DELLE MINIERE della fossa soleva costruirsi una capanna S ©), dove albergarvi nel corso della settimana i lavoratori, e dove all'uopo si ricoverassero al coperto gli operaji che attendevano alla neltatura della vena, e a quegli altri lavori che occorresse fare fuori della fossa. A Massa erano concessi privilegi a chi sopra la fossa edificasse non soltanto una capanna, ma una casa 9). Nulla di simile in Villa di Chiesa, dove anzi pare che fosse proibita la costruzione di stabili abitazioni in monte, per costringere anche con questo mezzo i lavoratori a far capo ogni settimana in città. — Il vano o scavo della fossa, discendente verso lî cupi seguendo l’in- clinazione della vena, appellavasi il fusto della fossa !, e nei documenti latini di Toscana dugnum fovee ?. Troviamo anche dificare una fossa '?, il che corrispondeva a ciò che oggidì si dice armarla, ossia farvi so- stegni o di muro, o più frequentemente di legname, dove le pareti o il tetto ne sono franosi, o altrimente minacciano rovina; ed in senso con- trario troviamo isdifficiare ‘9. 96. Oltre le fosse che fin qui abbiamo descritto, un altro genere di antichi scavi, di gran lunga più infrequente, ma pure assai note- vole, troviamo in alcune argentiere della provincia d’Iglesias. Non vha memoria che tali scavi avessero proprio nome al tempo del quale de- scriviamo le istituzioni e gli usi; corrispondono a quelle che oggi si chiamano zrincere, ossia quando, invece di entrare, come più commune- mente si soleva, nella vena per mezzo di piccoli e frequenti fori, quali sono appunto le bocche delle fosse, sicchè soltanto sotterra lo scavo si allargava, in tanto che per l’ordinario communicavano fra di loro le varie fosse succedentisi nel medesimo filone, e talora anche quelle dei filoni vicini: si toglieva invece dal dì quanto si trovava fra le due pareti del filone, le quali per tal modo denudate, in aspetto assai imponente, e spesso anche minaccianti rovina, per lunghezza talora assai considerevole s'inalzavano dai due lati. Parecchi di tali scavi si vedono nel territorio d’Iglesias, sovratutto dove in mezzo alla calamina o minerale di zinco allora sconosciuto si cercavano le vene di piombo che sogliono esservi 8) Br.113% 2-10; 118b 21-28. 9) M.x1. 21-23. 10) Br.114% 8-12. 11) M.xvi, 28. 12) Br.113b 9. 15) Br. 119% 25-37. IN VILLA DI CHIESA 299 intermiste ; od anche dove fossero filoni, che su una considerevole lun- ghezza dimostravano grande e regolare potenza già alla superficie. Ma tal genere di scavi non poteva condursi a grande profondità senza pericolo di rovina dell’ uno dei margini; i filoni, e perciò le loro pa- reti, non essendo verticali, ma inclinati : onde anche troviamo tali scavi appunto nei luoghi, dove avviene che siffatta inclinazione sia minore, nè il consueto sistema di fosse era possibile per la natura molle del- l’ incassamento , per la quale sarebbe caduto disfatto per se medesimo il tratto sodo, che secondo il consueto. si fosse lasciato al di sopra dei lavori interni, e fra le varie bocche aperte nel filone. In tale condizione trovasi appunto uno di tali scavi, assai considerevole, anzi, per larghezza, lunghezza e profondità, il più considerevole fra quelli a me noti, che si vede a Monteponi nel gran filone detto di Carlalberto : sebbene ora in gran parte appena si scorga, perchè ricolmo per materiale cadu- tovi, e sopratutto per le strade e altri lavori recentemente eseguitivi a traverso. 97. Quando i lavori della fossa avevano raggiunto la vena, dicevasi che la fossa era waricata ®, ovvero, come ha nel suo barbaro latino il Costituto di Massa, varcata ®. Finchè si eseguivano nello sterile e non avevano raggiunto la vena, i lavori di fossa godevano di parecchi pri- vilegi, che esporremo descrivendo i varii generi di lavori preparatorii ; e nominatamente del privilegio di non essere tenuti di stare a ragione (S 70) come le fosse varicate : privilegio che cessava, e la fossa s’inten- deva varicata e perciò doveva stare a ragione come le altre fosse, tosto- chè, tra dentro e di fuora, avesse tratto fuora corbelli xxxm di vena netta, ossia in ragione di un corbello alla trenta. Quattro generi di siffatti lavori o scavi preparatorii vediamo nel Breve menzionati con proprio nome, i dottini, i canali, le cantine, e le dorgomene ?. 98. Che cosa siano i dottini, dei quali troviamo frequente menzione sia nel Breve di Villa di Chiesa * che nel Costituto di Massa ?, e una volta $ 97. 1) Br. 114% 9-10; 17; 1172 10; 117» 13-18. 2) M.1, 24; 1x, 3-8; 19-20; x1, 9-10. 3) Br.117b 13-18. Vedi anche 115 10-11. $ 98. 1) Br. 61% 35; 64° 18; 78b 46-47; 106% 16-23; 42; 112b 2; 35; 113% 2; 6; 16; 21; 113b 8-11; 1142 6-26; 27-42; 114b 5; 24; 115? 3 (Gocteno); 14;24; 115.9 11; 116b 22-1172 5; 1172 6-24; 117 11-13; 118% 24-118b 3; 1192 5-22; 1202 20-27; 121b 31. 2) M.1, 24; 1v, 1-21; x, 6; xxIx, 5; 9; um, 1-5. 300 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE in un documento di Massa dell’anno 1298 ?, non può esser dubio, sia per la corrispondenza della voce inglese tunnel nella medesima signifi- cazione, sia perchè vive tuttora la voce in parecchi luoghi di Toscana, e nominatamente nel territorio di Siena; ora vengono communemente chiamati, sì nell’ uso dell’ arte come dagli scrittori, col moderno e barbaro vocabolo di gallerie *. Come della fossa, così del bottino tro- viamo nominati, colla medesima significazione, la docca 9, il fusto ®, la piazza ?. Si aprivano come ora nella parte sterile del monte, nel luogo che giudicavasi più oportuno per raggiungere più presto e più agevolmente la vena, o filone, overo mons drictus, come è detto nel Costituto di Massa ®. E a questo fine, ed affinchè sotto tale pretesto non si invadesse il tratto già appartenente alle fosse vicine, prima e suprema regola pei bottini era che andassero diritti ?; e ciò dovevano osservare per modo, che la fune vi corresse dall’un capo all’altro senza tavole, sparrone o margola che le desse ajuto quando il bottino dai Maestri del Monte si scandagliasse ; altrimente doveva da questi essere dato per volta, e più non godeva dei privilegi di bottino '°. 99. I privilegi che per consuetudine d’'argentiera erano concessi ai bottini e ad altri simili lavori preparatorii avevano principale fondamento in ciò, che questi erano lavoro lento e di molta spesa, e per soprapiù spesso di esito al tutto incerto. Agli uomini che lavorassero ad. alcun bottino era concesso restare a monte e proseguire il lavoro la domenica, ma non nelle altre maggiori solennità !. Se il bottino, seguendo la sua via diritta, venisse a ferire nel fusto di alcun bottino o fossa varicata , e ciò avvenisse a venticinque passi o meno dalla bocca del bottino verso 3) Append., iv, 10. 4) Moderno e barbaro tanto, che anche nel Gran Vocabolario di Napoli Ga//erza in questo senso è portato senza esempii, e come sola Z’oce dell’uso. E perfino in assai diversa significazione, e più conforme all’etimologia, non solo mon se ne trova esempio anteriore al secolo XVI, ma il CELLINI, facendone uso come di voce francese nella sua Zita (Lib.1I, cap.xLI, ossia pag. 358 dell’ ediz. del Lemonnier), credette necessario soggiungerne la spiegazione: « nella sua bella » galleria (questo si era come noi diremmo in Toscana una loggia o sì veramente uno androne) ». 5) M.Lu, 1-8. 6) Br.1142 8-12; 24; 116b 33-39. 7) Br.113b 17. 8) M.1, 24; 1x, 3-8; x; 9-10. 9) Br. 1142 28-114b 11° 10) Br. 1062 14-18; 114° 27-38. 4 99. ») Br. 613 35; 119% 7-13. IN VILLA DI CHIESA 3o1 lo die, ossia verso l’aperto, non aveva diritto di aver via a traverso, ma doveva ricessare, ossia recedere, allontanarsi, di un passo almeno dal fusto di quella fossa; che se avvenisse a distanza maggiore di venticinque passi dalla bocca, doveva avere il passo, per vuoto e per pieno, anche a traverso la fossa altrui. Se fondorasse non nel fusto ma in altri scavi appartenenti a fossa o bottino varicato, a qualunque distanza dal die ciò fosse, aveva il passo in vuoto ed in piero ?), sì come ragione ed usanza dell’ argentiera. Che se ferisse in altro bottino, che parimente avesse ragione di bottino, l’uno non doveva aver via nel fusto dell’altro ®. Era espressamente vietato, che nessuno dovesse a malvagio fine ricidere alcun bottino altrui; che se non a malvagio lo ricidesse, ma estraendo vena dalla propria fossa, doveva riciderlo in modo da non far danno al bottino ; e intendevasi ricidere, scassando o facendo danno al fusto del bottino, e non per altro modo. E dacchè, anche per vena, alcuno avesse ferito in un bottino, da indi inanzi doveva tenersene lontano almeno un braccio se in monte sodo che si lavorasse a fuoco, e un terzo di più in monte tenero che si lavorasse a ferro ”. Se per giungere alla vena alcuno mettesse o segnasse bottino in luogo dove fosse capanna di altra fossa, era tenuto, a pena” di libre dieci d’alfonsini minuti, fare a questa fossa, nel luogo che i parzonavili richiedessero, un’ altra capanna, a stimo dei Maestri del Monte tanto buona, quanto quella che: era nel luogo dove si apriva il bottino; e ciò infra dì quindici o infra un mese, ad arbitrio dei Maestri del Monte ®. 100. Spesse volte, e per io più dove si tratta dei bottini, si trovano nel Breve di Villa di Chiesa nominati anche i canali ; non mai nel Costituto di Massa. Siccome sappiamo che erano lavoro preparatorio e che si faceva nel monte sterile ($ 97), ed inoltre che i canali al pari dei bottini dovevano andare diritti, sì che chi stesse in testa dal dì po- tesse vedervi il lume acceso all’altro estremo ?; e che il canale che fosse a coverta un passo, e il bottino che fosse sotto un passo almeno, -c———É—É———&—T—@@@@rttttt———tt—€———T——T—TT— rieti ene TIas 2) Così crediamo doversi interpretare le parole debbia andare sotto in voito et in picno. 3) Br.1142 6-26. 4) Br.116b 22-117? 5. 5) Br. 1132 2-15. ; $ 100. 1) Br.78b 46-47; 106° 14-17; 42; 119% 2; 113a 21; 113b 9-10; {172 27-117D.10; 117b 2-4; 8-10; 118b 9-10; 120° 24-27; 115b 26. 2) Br.117b 4-10. 302 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE poteva essere difeso dì quindici da’ suoi parzonavili ®; e che li Maestri del Monte come erano tenuti scandigliare i bottini se andassero diritti, così similmente i canali : siamo d’avviso, che sotto questo nome s’in- tendessero quelli che ora, con forse più acconcia denominazione, sono detti pozzi, ossia gli scavi verticali, destinati a raggiungere la vena a grandi profondità, o ad agevolare l'estrazione sì della vena che del get- taticcio. Parecchi di questi pozzi verticali, per l’ordinario non rotondi ma a quattro facce a un di presso eguali, generalmente assai stretti ma ben costrutti, si trovano nelle miniere del territorio d’ Iglesias. Talora anche il canale si faceva ad uso di scionfare acqua ($ 117); il che maggiormente conferma, che con questo nome si designassero gli scavi verticali, e perciò non seguendo la vena, la quale più o meno è sempre inclinata. Il canale che scionfasse acqua godeva franchigia; ogni altro canale doveva stare a ragione come bottino . Più oscuro è ciò che si prescrive, che la esta del canale fosse franca, e non potesse essere ricisa finchè il canale andasse diritto sì che il lume acceso stando in testa si vedesse dal die ; e ciò s’ intenda a piano diritto sì come si pone dal die; sì veramente, che nessun canale non si dovesse sili/are, nè rilivare, nè sticcare (altrove è detto rificare o rilivare) maliziosamente per avinghiare alcuno diritto; e se contra facesse, perda la ragione della testa, e possa essere riciso da ogni suo vicino ®. Non sappiamo comprendere che cosa sia questo siliffare, o rilivare, o sticcare, o rifi- care un canale per avvinghiare un vicino ; nelle altre parti non ci pare malagevole a comprendere questa prescrizione della esta franca, che avevano i canali: che cioè, finchè andassero diritti, non potessero es- sere recisi dai lavori di fossa varicata, sì che non si frapponesse im- pedimento fra la bocca e il fondo del canale; se cessassero di andare diritti, si trovavano in condizioni eguali ai lavori ordinarii di fossa, nè più aveva luogo questo loro privilegio. — Anche a quelli che lavorassero ai canali, come ai bottini, e per simile ragione, era lecito restare a monte le domeniche, ma non negli altri dì festivi ?. Se i Maestri del Monte 3) Br. 113» 8-12. 4) Br.1062 16-18. 5) Br. 1172 32-34. 0) Br. 117% 34-117b 4; 118b 9-14, 7) Br.119° 7-13. IN VILLA DI CHIESA 303 fossero richiesti di scandigliare alcun canale o bottino, dovevano ciò fare nei dì durante i quali, come vedremo ($ 118, 119), i lavoratori non erano alle fosse ® ; affinchè per la scandigliatura non venisse turbato od indugiato il lavoro. — Oltre i canalî, nel Breve di Villa di Chiesa si trovano alcuna volta menzionati i canaletti, in simile significazione ®. 101. A noi fino da principio nacque il dubio, e crebbe poi grande- mente per l’opinione di persona, il cui giudizio teniamo di massima autorità in questa materia ” : che i canali fossero quelli che oggi diciamo gallerie, e che invece sotto nome di bottino s’ intendessero i pozzi ver- ticali. Motivi di dubitare, e dei quali noi medesimi riconosciamo la gravità, sono i seguenti. Negli antichi documenti è frequente la menzione del bottino, comparativamente rara quella dei canali: laddove negli an- tichi scavi nei dintorni d’Iglesias sono non infrequenti i pozzi verticali, rare si rinvengono le gallerie. Inoltre in un passo del Breve si parla di « canale che fie a coverta uno passo, et lo boctino sia socto passo uno » lo meno » ?; ed essere a coverta pare più proprio delle gallerie, ed essere sotto forse più proprio dei pozzi. Finalmente in un documento di Massa dell’anno 1298 si pone fra il fornimento di una fossa « 1 tavola » al bottino che si trae » #; il che, se il bottino è un pozzo verticale, significherebbe una tavola posta sopra ed in traverso alla bocca, per la più agevole estrazione dei materiali scavati dal fondo. — Non ostante tali indizii non possiamo, accuratamente esaminata ogni cosa, indurci a mutare opinione. Ed in prima, la rarità delle gallerie nè è argomento sufficiente ; e d’altronde se essa è vera per le miniere più prossime ad Iglesias, parecchie invece ne sono conosciute nelle miniere alquanto più lontane #; e molte più per certo ne faranno conoscere le ricerche, le quali ai nostri tempi si vanno in ogni parte facendo. Nè il luogo del Breve dove si parla di « canale che fie a coverta uno passo », e di « boctino sia socto passo uno », è di tale chiarezza, che se ne possa 8) Br.118% 31-39; 1192 13-18. 9) Come appare dal confronto di Br.1172 34-38 con 118b 9-14. $ 101. +) L’Ingegnere cavaliere ApoLFO PELLEGRINI, Direttore delle Miniere di Monteponi. 2) Br.113b 9-11. 3) Append., 1V, 10. 4) Veggasi, per esempio, C. BaLDRACCO, Cenni sulla costituzione metallifera della Sardegna, Torino, Tipografia Marzorati, 1854, pag. 382-383 (Monterosas); 404 (Brabusi); 425-426 (Ma- toppa); 437 (Marganai). \ 304 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE trarre alcun certo argomento. Similmente il passo del documento di Massa si può agevolmente intendere di tavola che servisse di ponte ad alcuno scavo nella galleria. — All’ incontro, che il dottino sia difatti quello che ora diciamo francescamente galleria, appare dapprima, come notammo, dal nome, corrispondente a quello inglese di tunzel; laddove tale appel- lazione sarebbe tanto meno adatta a significare i pozzi verticali antichi, poichè la maggior parte (così tutti quelli che si trovano a Monteponi) sono di forma quadrata. Inoltre vive il nome di dozzizo in senso di gal- leria in alcune parti di Toscana ©: argomento tanto più grave, in quanto appunto di Toscana vennero queste voci in Sardigna; onde anche presso- che tutte le cose relative all’arte delle fosse sono indicate coi medesimi nomi nei documenti di Massa o di Siena, e in quelli di Villa di Chiesa. Si aggiunge, che nel Breve si fa cenno di canale destinato a scionfare acqua, al quale era lecito lavorare anche in domenica ; ora se le gal- lerie servono di frequente allo scolo naturale delle acque, la forma di scavo oportuna ad estrarla con artifizii (che ciò è senza dubio lo scion- fare (S 117)) non è la galleria, ma il pozzo verticale. Ma un altro più grave argomento c’ impedisce assolutamente d'intendere i pozzi ver- ticali sotto nome di bottini. È necessariamente impossibile , che due pozzi verticali vengano a ferire o fondorare (S 104) l’uno nel fusto dell’ altro. Or bene: nel Breve, non pei canali, ma sì pei Bottini, si prescrivono le regole, che sopra abbiamo esposto, se da lungi o da presso « alcuno » boctino vennisse o fondorasse in alcuno fusto di boctino »; « et che » nessuno boctino, lo quale avesse ragione di boctino » (cioè che andasse diritto) « possa avere via di boctino in fusto d’ alcuno altro boctino che » avesse ragione di boctino, nè l’uno in dell’altro » ®. Nè si dica, ciò doversi intendere dei pozzi non verticali ma inclinati; poichè è indu- bitato che questi, che erano il frequentissimo e consueto lavoro di scavo a quei tempi, venivano designati col nome di fossa ($ 94). 102. Trovasi parecchie volte menzionato anche un altro genere di lavoro, 5) Ecco come mi scrive in proposito il sig.r Luciano BANCHI, di Siena, Direttore di quel- PArchivio : « Bottino significò e significa in Siena galleria, e Bottiniere l'artefice addetto alla con- » servazione dei bottini. S’inganna cerlamente chi interpreta allrimente quella voce, che trovasi » usata con tal significato costantemente. Così abbiamo il Bottizo di Fontebrarda, il Bottino di » Fonte Gaja; cioè le gallerie o i condotti che menano le acque a quelle fonti. E sono praticabili, » e, pel tempo loro, molto pregevoli ». 6) Br.114% 8-9; 22-25. IN VILLA DI CHIESA 305 col nome di cantina ”, e per l’ ordinario unitamente ai bottini, ai 2 canali, e anche alle dorgomene, delle quali or ora parleremo; ma di questi due generi di scavo non troviamo che fossero, come i bottini e i canali, presi dal die, nè tenuti di andar diritti. Siccome dei bottini, dei canali e delle dorgomene sappiamo, degli uni con quasi certezza, degli altri con sufficiente probabilità, qual genere di lavoro di fossa significas- sero : resta che sotto nome di cantina s' intendano quegli scavi, talora bassi e a forma di bottino, spesso assai ampii, ma che hanno difatti l'aspetto quasi di cantine, pei quali erano legate fra loro le Zavoriere di una fossa, o anche di più fosse vicine. 103. Della voce dorgomena, della quale non trovasi esempio altrove che nel Breve di Villa di Chiesa ”, è difficile definire quale sia l'origine, che ad altri può parer greca, ad altri più veramente tedesca. Ma in quanto alla significazione, non par dubio che la dorgomena (forse dal tedesco durdgefen ) corrisponda a quello che nei documenti Trentini è detto dorslagum ®, e significhi quella che dagl’ Inglesi si chiama crosscutz, ed ora nelle miniere d’Iglesias communemente traversa, ossia via che tagli a traverso le vene del metallo, congiungendo così le varie fosse parallele. Ed alle dorgomene non meno che alle cantine, poichè ambedue erano lavoro preparatorio e di ricerca nello sterile ®?, ovvero destinato ad agevolare l'estrazione, si estendeva il privilegio di avere testa franca, che abbiamo esposto trattando dei canali ‘. 104. Il vuoto o vano formato dagli scavi di fossa dicevasi fondorato ” ; e il fare tale scavo fondorare, o fonderare, o far fondorato : modi di dire tuttavia questi ultimi, dei quali non troviamo esempio fuorchè ove si parla di fosse insieme fondorate *. Quali norme avessero a seguirsi in tal caso, ossia di fosse che ferissero ® luna nell’ altra e che fondoras- sero insieme, verrà esposto a suo luogo ($ 144-145). — Il pieno o sodo all’ incontro che divideva due fosse dicevasi mezzanule *; ed anche per $ 102. 1) Br. 112b 2; 113a 21; 113» 8-9; 115 25; 118b 11. $ 103. +) Br.113b 8; 115b 26; 118b 9-10. 2) Vedi FnRico PogGI, Discorsi economici, storici e politici. Firenze, 1861, pag. 494. 3) Br.117b 13-18. 4) Br.118b 10-14. $ 104. 1) Br.119p 15-95. 2) Br.119° 44-46; 120? 27-29; M.v, 4-18; xix; xxvi, 6-8; XXXVI, 3) Br.1202 11-19. 4) Br.122° 22-25 (mezalune); 137% 4; 11 (mezanule); 137° 7 (mizanule). Serie II. Tom. XXVI. 39 306 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE questo, se vi si trovasse vena, erano stabilite le norme pel suo partimento fra le due fosse vicine ($ 142). 105. Il pietrame e la terra estratti dalle fosse, che a’ nostri tempi in alcune parti d’Italia si dice marino, ed ora nelle miniere dei contorni d’ Iglesias più communemente materiale, era detto monte ®. Era proibito gettare monte per fondorato altrui, sotto pena di libre cinque d’alfonsini minuti per ogni volta; se alcuno ne avesse gettato, dovesse sgombrarlo alli suoi spendii, nè, finchè l'avesse sgombro, non potesse lavorare alla propria fossa fuorchè a passi quattro dalla fossa dove gettò il monte, o anche più da lunga a provedimento dei Maestri del Monte, a quella medesima pena ?. Quello che ora suole dirsi estrarre, dicevasi allora per simil modo traggere ®, o tirare ‘, o cavare vena o monte ”, o anche semplicemente cavare ® ; onde le fosse medesime in alcune parti d' Italia, e nominatamente in Toscana, ebbero nome di cave ?. 106. Nell’odierna lingua italiana la voce Zavoro designa sì l'atto del lavorare, come il prodotto della lavorazione : ai tempi dei quali parliamo le due significazioni si distinguevano con proprio vocabolo ; il prodotto del lavoro, ossia il luogo o la cosa lavorata, dicevasi Zavoriera ". Così leggiamo : che ogni fossa poteva difendere le sue /avoriere ®; che in certi casi le Zavoriere si perdevano, ed erano dichiarate lavoriere morte ®; e sono stabilite le norme da seguire, se alcuno ferisse nelle Zavoriere del vicino ®. 107. I passaggi o vie ” alle lavoriere o ad altri luoghi della fossa, nei documenti latini di quella età, solendosi latinizzare le voci volgari, ( 105. +) Br.116% 15; 116 38; 119b 14-27; 122? 22-27; M.1ur, 6. 2) Br. 119b 14-27. 3) Br.116% 14-15. © Br. 105. 23. 5) Br. 116% 34-36. 6) Br.6°% 13; Append. X, 14-15; 24. 7) Append.X, 18-28. $ 106. +) Br. 106° 19; 116» 3-10; 120° 9-16; 122° 17-18. Trovasi questa voce anche presso altri antichi; e l/avoriera crediamo doversi leggere presso l’antico Volgarizzatore d’ Esopo, dove il Vo- cabolario legge /avoreria, voce non confermata da altro esempio in volgare. Nel Costituto di Massa troviamo bensì in questo senso in latino laboreria: M.xxx, 2; 7; xxxV, 2; 559. 2) Br.120? 11-16, 3) Br.116b 3-10. 4) Br.120? 11-16. ) 107. 1») Br.106*% 18-19; 114° 11; 24; 116° 31-116D 7. IN VILLA DI CHIESA 307 vengono designati col barbaro vocabolo wviagium ®. Come degli altri lavori d’argentiera, così dicevasi via viva 5? quella per la quale era libero il passo; e via morta © quella per la quale il passo era proibito, quali erano quelle fatte per dar vento alla fossa, aprendole un varco ad alcuna fossa vicina. 108. Dar vento alle fosse dicevasi ciò che oggi, con voce moderna in questa significazione, suole dirsi, procurarvi la ventilazione !). È questo uno dei maggiori bisogni e delle più gravi difficoltà nei lavori di fossa ; e tanto più doveva essere a quei tempi, quando, non conoscendosi l’uso della polvere, in gran parte delle roccie non si poteva senza grandi dif- ficoltà allargare lo scavo oltre la colonna della vena; oltrechè , come vedremo fra breve, molti lavori vi si facevano a fuoco, il che rendeva anche maggiore il bisogno di un’ampia circolazione d’aria nelle fosse. Ad ottenerla, se alcuna fossa o altro lavoro d’argentiera abisognasse vento, aveva diritto di averlo dal più prossimo vicino, alli spendii di colui che adimandasse lo vento, e a provedimento dei Maestri del Monte. La vena che nell’ aprire a ciò la via si trovasse dal lato della fossa che porgeva il vento, apparteneva a questa, ma doveva cavarla al die, ossia estrarla, a sue spese la fossa che domandasse il vento; a questa appar- teneva la vena trovata facendo la via dal suo lato. Compiuto il lavoro, sia che si fosse avuto il vento o non avuto, la via aperta a quest’ uopo era morta, e similmente tutte le lavoriere che in quella si cavassero, nè più vi si poteva lavorare, sotto pena di marchi dieci d’argento ; e il lavoro che vi si facesse era morto ?. Nè solo per aver vento, ma ad ogni fossa era lecito avere una seconda bocca e spiraglio, sì che l'una bocca fosse fondorata con l’altra ed espedita in modo da potervisi pas- sare ; e ciò evidentemente affinchè servisse di escita e di scampo in caso di scoscendimento o di altro impedimento che chiudesse la bocca princi- pale. Del resto, non solo poichè si fosse avuto il vento non era lecito 2) M.1v, 19-20; Ln, 29. Onde appare, che anche in volgare era usato presso gli antichi viaggio per via, came coraggio per core. E forse in questo senso scrisse Dante : i « A te convien tenere altro viaggio, ..... » Se vuoi uscir d’ esto loco selvaggio. » 3) Br.116° 32, 4) Br.116b 3-7. $ 108. +) Manca la voce vertilazione in questo senso ai Vocabolarii; vi si trova, con esempio tratto dall’antico Zolgarizzamento della Città di Dio, per l'atto del ventilare. 2) Br.116° 26-21. 308 DELL INDUSTRIA DELLE MINIERE lavorare alla seconda bocca fatta a quest’ uopo, ma neppure servirsene come di passaggio per cavare vena o monte. Nè era lecito chiedere tale seconda bocca, fuorchè a passi tre e mezzo almeno lungi dalla bocca primitiva; salvo se la fossa fosse sola, ossia non avesse vicini, poteva avere bocca a piacimento. Tutto quanto riguardava queste bocche e spiragli doveva, per evitare contese e prepotenze, farsi di consenso e a provedimento dei Maestri del Monte, a pena di marco uno d'’ar- gento Î. 109. Troviamo parimente stabilito, che a catun bottino, da passi di- ciotto in giù, fosse lecito di poter avere anziguinda e gativiera, a vo- lontà del maestro del bottino; sì veramente che l’antiguinda avesse di spazio dal fondo del bottino passi tre o più !. Questa prescrizione assai oscura del Breve di Villa di Chiesa riceve qualche luce da due luoghi del Costituto di Massa; nell’uno dei quali si prescrive che nessuna fossa possa spingere i suoi lavori a più di due passi presso alcun bottino, o del guindo o dell’ antiguindo che il bottino mettesse ?; nel secondo si prescrive, che se alcuna fossa metta guindo od antiguindo, questo abbia lo stesso diritto che avrebbe un fornello ®. Dell’ antiguinda si fa anche menzione in un antico documento di Massa; ed ivi pure sembra esservi relazione tra l’antiguinda e il bottino *. — Comparati tutti questi luoghi fra loro, crediamo potersi dapprima stabilire, che il guindo o guinda del Costituto di Massa sia una medesima cosa che il gaziviera del Breve di Villa di Chiesa, voce questa della quale ci riesce impossibile d’ in- dicare, anche solo per congettura, l’origine. In secondo luogo, dissentiamo bensì dall’ opinione del Sig” Carlo Milanesi intorno alla significazione delle voci di guinda ed antiguinda, ch’ egli pone in relazione colla voce bindolo, ed interpreta argano, manganella; tra le altre ragioni perchè nel citato documento di Massa l’anziguinda non è, come necessaria- mente sarebbe stata, annoverata fra il fornimento della fossa, ma vi è accennata al pari del bottino come indicazione di luogo o lavoro di fossa, presso il quale si trovava alcuna parte del fornimento di quella fossa : 3) Br.1162 5-25. $ 109. 1) Br. {142 38-114b 2. 2) M.1v, 16-21. 3) M.1x, 16-20. 4) Nell’Inventario del fornimento della fossa le Meloni presso Massa, la quale si dava a partie; Apperd.IV, 10-19. IN VILLA DI CHIESA 309 « 1 taola al bottino che si trae; — i taole a l’antiguinda, l'una nuova » e l’atra vechia ». Consentiamo tuttavia con lui in derivare tali veci dal tedesco Wind, vento 5. Attesa poi l’ etimologia della voce, e consi- derato particolarmente il secondo dei citati due passi del Costituto di Massa, che stabilisce un analogia tra il fornello, e la guinda e l' anti- guinda : crediamo designarsi con tali vocaboli gli spiragli © destinati a dar vento ai bottini, che sono appunto fra i lavori di fossa che più ne abbisognano, sopratutto quando si lavorano a fuoco. 110. A chi esamini i lavori di fossa degli antichi, e nominatamente gl immensi scavi che sono nel distretto d’Iglesias, talora in quarzo od in altre rocce durissime, ed a profondità spaventose (essendosi, come abbiamo notato ($ 94), riconosciute fosse antiche aventi profondità di ducento e più metri dalla bocca, e bottini o vogliam dire gallerie di dimensioni e di forma quali si usano ai nostri giorni): farà maraviglia, come siffatti lavori siansi potuti eseguire senza l’ajuto della polvere da fuoco. La potenza del fuoco vi era tuttavia adoperata, ma sotto altra forma. Nel Costituto di-Massa si leggono ampie prescrizioni regolamen- tari su questa materia; poichè per la natura di quei monti pare vi fosse questo il modo più commune di coltivazione. Meno frequente era l’uso del fuoco nelle argentiere di Villa di Chiesa ; tuttavia anche per queste troviamo fatta distinzione tra monte tenero che si lavora a ferro, e monte sodo che si lavora a fuoco . L' artificio che adoperavasi a tale uopo dicevasi do/ga ? ; gli operai che con queste lavoravano ad affocare la roccia, do/gajuoli ®: e crediamo probabile, che da queste bolghe o bolge infocate nei cupi della terra, e delle quali troviamo menzione in Toscana appunto ai tempi di Dante *, il gran poeta abbia tratto il nome delle bolge del suo Inferno, nome del quale indarno finora i commentatori cercarono di dare una probabile spiegazione. 114. Pel fuoco delle bolghe nelle fosse facevasi uso non di carbone, 5) Archivio Storico Italiano, Appendice, Vomo VII (Firenze, 1850), pag. 700. E qui dob- biamo notare, che nel codice si legge anteguindum ed anteguinda, come ha la nostra edizione, non anneguindum ed anneguinda, come nell’edizione originale, e nella ristampa Torinese del 1861. 6) Br.116a 5-23. $ 110. +) Br. 116» 39-2; 118% 28-30; 119° 20-22. 2) Br.114% 29; Append.1V, 5. 4) Br.123b 17; 35; 1242 29; M.xxxvis. i 4) Nel Documento più volte citato dell’anno 1298, Apperd. IV, 5. 310 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE ma di legna !. I mo/entariî (ossia i guidatori d’asini, quasi asinarii, dalla voce sarda molente ®, cioè asino), che portassero legna da fuoco ad alcuna fossa, dovevano fornire il giusto peso di 350 libre alla statera grossa di Villa, e dare legne buone e sufficienti, quali avevano pro- messe al maestro della fossa ”. Quando alcuna fossa fondorava con altra vicina, non era lecito appiccar fuoco fuorchè al cessare dei lavori in fine di settimana, sì che il fumo avesse tempo a dileguarsi prima della ripresa dei lavori in principio della settimana seguente ©. Gli ultimi giorni della settimana dai bolgajuoli s’ impiegavano in preparare le legne, in porre ai luoghi loro le bolghe, disporvi la legna preparata, e infine porvi fuoco; ma non ci rimase notizia del modo di un siffatto lavoro, che senza dubio e sotto molti aspetti presentava gravissime difficoltà , ma che in alcune regioni, non sapremmo dire se in quella medesima o in diversa forma, è tuttora in uso ai nostri giorni. In principio della settimana seguente, appena sfumate 9 le fosse, si ponevano gli uomini a spezzare la roccia riscaldata, ed a tirare monte, ossia ad estrarre la roccia stata per tal modo spezzata, ed infine a preparare la legna pel lavoro seguente ; e perciò in queste fosse le rivedute che avessero a farvi i Maestri del Monte dovevano eseguirsi a mezzo la settimana, la mez- zedima, ossia il mercoledì ©, tra il lavoro di preparare la bolga in fine di settimana, e quello di spezzare e sgombrare in principio della setti- mana seguente. Se la fossa non avesse vicino, e perciò il fuoco non potesse recare altrui danno o molestia, ovvero se si facesse in concordia colle fosse vicine, era lecito mettere fuoco quante volte si volesse, ed in qualunque giorno della settimana ?. Se per fuoco messo in tempo e contro le norme prescritte venisse a morire alcuna persona, l’autore del fatto era punito nel capo come omicida *. — Con queste norme pel fuoco nelle fosse, che abbiamo esposto secondo il Breve di Villa di Chiesa, concordano a un di presso quelle che su simile argomento leg- SAil. +) Br.35° 13-15. 2) Br.51® 33; 1442 2. 3) Br.124» 34-41. Veggasi anche 35° 13-15; 105b 22-26; Append. II. 4) Br.1432 13-36. 5) Br.105b 24. Nei Vocabolarii manca esempio della voce sfumare nella sua vera e pri- mitiva significazione. 6) Br. 105b 22-24. 7) Br. 143? 25-32. 8) Dr.143% 13-21; M.v, 80-84; 91-100. IN VILLA DI CHIESA II giamo nel Costituto di Massa; ma secondo questo per mettere fuoco in fossa che fondorasse con altra era inoltre necessario il consenso per iscritto dei Maestri del Monte ?. 112. Affocata la roccia, sembra che per renderla col repentino raffred- damento maggiormente friabile vi si gettasse sopra acqua, e dove la roccia fosse più dura, aceto; ond’ è che fra gli utensili o fornimento di una fossa provista di bolghe troviamo annoverati darilî da acqua e barili da aceto *. E quest’ uso dell’aceto a spezzare le rocce reputiamo antichissimo ; nè oserei rigettare, come altri fece, quasi lontana dal vero la narrazione di Livio, che Annibale ne facesse uso nel passaggio delle Alpi: sebbene il suo racconto in questa parte non sia confermato dal- l'autorità di Polibio, storico non solo più vicino al tempo di quel pas- saggio, ma inoltre di troppo maggiore fede e discernimento che non Livio ?. Annibale veniva dalle Spagne, e aveva con sè numerosi mer- cenarii di quel paese, dove estesissima e fiorente era l’ industria delle miniere. 113. In monte tenero, come abbiamo detto ($ 102), si lavorava a ferro, e questo dai picconieri "; e le tracce degli strumenti dei quali a ciò si servivano, e che descriveremo tra breve, appajono tuttora fre- sche ed evidentissime sulle pareti degli antichi scavi che si vanno di mano in mano scoprendo. 114. Da quali lavoratori ed in che modo si #raesse al die o si tirasse il monte e la vena scavata, non è indicato negli antichi documenti; ma la forma di pressochè tutte quelle antiche fosse dimostra con certezza, che raramente si faceva per mezzo d’argani o di simili ingegni, ma passandosi i corbelli ripieni dall’uno all’altro lavoratore disposti lungo la salita della fossa, il che oggi in quelle parti si dice far catena ; che se il numero dei lavoratori non bastasse alla profondità della fossa, si alza dapprima il monte o la vena fino ad una certa altezza, dove è preparata una piazza a deporlo, e d’onde si rinnova la medesima ope- razione, e così quante volte occorra. finchè sieno tratte al die. Questo lento e costoso modo di estrazione credo fosse la principale cagione 9) M.v, 80-103; vI. ) 112. +) Append.IV, 5; 14-15. 2) Si paragoni Liv. XX, xxYz7, 2 con PoLyB. III, LV, 6-7. $ 113. +) Br.123b 16; 33; 1242 29; M.xxxvil, 6. 312 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE della poca profondità, alla quale troviamo coltivate le fosse anche ricche in piombo, dove la vena fosse povera d’argento. 115. Nelle miniere del territorio di Massa vediamo, che era frequente il bisogno di sciuttare od asciuttare le fosse, ossia di estrarne l’acqua ”. Questo estrarre l’acqua dalle fosse, ovvero derivarla e darle scolo, do- veva farvisi nel modo che fosse prescritto dai Maestri del Monte, sì che non si recasse danno alle fosse vicine ?). Era tuttavia nel territorio di Massa anche lecito, a provedimento dei Maestri del Monte, derivare l’acqua in modo che si scaricasse in altra fossa vicina, mediante intero compenso dei danni a questa seconda per parte della fossa che godesse del benefizio ; e coll’avvertenza inoltre, che mediante la via che si fosse dovuto aprire per lo scolo delle acque non si acquistasse diritto qualsiasi a pregiudizio della delimitazione fra le due fosse . Crediamo, che a questo medesimo bisogno di difendersi dalle acque nelle cave del terri- torio di Massa debba ascriversi la prescrizione, che, ogni qualvolta com- modamente si potesse, le fosse dovessero ricolmarsi, a cura de’ Maestri del Monte, ed alli spendii di coloro che di ciò ritraessero benefizio ‘. 116. Nel territorio d’ Iglesias alle profondità finora praticate è rarissimo il caso di miniere che soffrano impedimento d’acqua ; anzi generalmente ve n’ ha penuria tale, che nonchè all’ uopo della lavatura dei minerali, spesso non basta ai bisogni della vita per le persone addette ai lavori. Quindi non solo non aveva luogo in Villa di Chiesa la prescrizione che abbiamo riferito dal Costituto di Massa, del ricolmare le fosse; ma anzi troviamo la prescrizione contraria, essendovi proibito di ricolmarle, fuorchè a provedimento dei Maestri del Monte ed ove se ne dimostrasse il bisogno ”, se, per esempio, vi fosse pericolo di frana : della ‘quale proibizione evidente scopo era, di rendere più agevole la ripresa delle fosse abandonate. Convien dire che col tempo una tale proibizione an- dasse in disuso; dalle recenti ricerche essendo provato, che non vi ha forse fossa antica nel territorio d’Iglesias, della quale per grande tratto non si trovi ricolmo lo scavo. S 115. +) M.11, 4; LU, 1-8; 8; 13; 16; 28. 2) M.1I. 3) M.1r. 4) M.1uur, 5-8. $ 116. +) Br. 1382 5-15. IN VILLA DI CHIESA 315 147. Alcuni luoghi v' ha tuttavia anche in quelle parti, dove le fosse hanno d’uopo di essere sgombre dall’acqua; sul quale argomento una sola generale prescrizione troviamo nel Breve: che siffatto lavoro possa continuarsi senza interruzione anche nei dì festivi, dei quali si dava notizia per bando dei Maestri del Monte ”. Come luogo poi dove le fosse erano molestate dall’ acqua, nel Breve di Villa di Chiesa si fa speciale menzione, come altrove accennammo, di Monte di Malva ($ 87); e si prescrive che, a provedimento di quattro buoni uomini eletti dal Consiglio, non vi si possa cavare piazza da lavare nè rigagno, nè alcuna scionfa, onde possa derivar danno al lavoro della montagna ?. Scionfare è detto nel Breve di Villa di Chiesa l’estrarre acqua dalle fosse ?, con voce che non troviamo nè nel Costituto di Massa nè in altro antico documento, e della quale non sapremmo indicare l’origine nè la vera significazione. Forse designa alcun modo speciale di estrarre acqua; ma con quali machine ciò si facesse, non è indicato da alcun documento. Non dubitiamo tuttavia, che l’acqua nelle argentiere di Sardigna solesse estrarsi col medesimo artifizio, che secondo Diodoro era in uso a tal uopo in Ispagna, e del quale anche Vitruvio ci dà la descrizione : quello cioè che è communemente conosciuto sotto nome di vite d'Ar- chimede, perchè, secondo la tradizione, fu portato in Occidente dal Siracusano Archimede, in occasione del suo soggiorno in Egitto. E sic- come caduna di tali machine non solleva l’acqua a grande altezza, se ne disponevano parecchie per tutta l’inclinazione della fossa, tramandando l’acqua dall'una all'altra fino alla bocca *. — Considerando quanto l’uso della roria, detta in alcune parti d’ Italia dindolo, sia ai nostri tempi commune in Sardegna ad alzar l’acqua, e come sia artifizio semplice, di poca spesa, e di facilissima riparazione, non siamo alieni dal credere che anche di questa, ai tempi dei quali trattiamo, si facesse uso nelle argentiere, dove la forma della fossa lo permetteva, ossia dove lo scavo era verticale; ma per la natura di siffatti lavori, e la consueta inclina- zione dei giacimenti metalliferi, questo caso doveva essere assai infre- querte. Una cosa teniamo per fermo, che la noria non era conosciuta $ 117. 1) Br. 61a 36-38; 1182 8-9; 14-23. 2) Br.137b 32-36; 1442 32-34. 3) Br. 61% 37; 117% 17-34; 1182 8; 17. 4) DiopoRI SicuLI Histor. Lib. V, cap. XXXVII, 3,4; VirRuvir Architecht. Lib. X, cap. 1x. — Veggasi anche ATRENAEI Diprosophistae, V, XLIII; STRABONIS Geograph. XVII, p. 1160; e PmLO, de septem Spectac., pag. 3. ; Serie IL Tom. XXVI. 4o 314 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE dai Romani; poichè nè Vitruvio nè gli scrittori De re rustica ne fanno cenno dove enumerano i varii artifizi a sollevar I’ acqua; ed il nome stesso di zoria 9 indica che l’uso sì nelle Spagne, dove una se ne scoprì di recente in antichi scavi, come dalle Spagne in Sardigna, ne fu in- trodotto dagli Arabi. 118. I lavoratori alle argentiere si accordavano a settimana ; essi non potevano nel corso della settimana abandonare il lavoro, nè esserne congedati: e ciò sotto pena di una multa di soldi quaranta di alfonsini minuti '. La settimana di lavoro alle argentiere cominciava il lunedì a mezzodì ; al tempo dei Pisani continuava fino al sabbato a mezzodì ; il mattino del lunedì e il pomeriggio del sabbato servivano per l'andata e la venuta dei lavoratori da Villa di Chiesa all’ argentiera; nella do- menica si faceva la ragionatura (66-72 ), e si pagavano i lavoratori. Nel Breve riformato dopo la conquista Aragonese fu stabilito, che i lavoratori tornassero in Villa il venerdì, e si ragionassero e si pagas- sero il sabbato, come prima si faceva la domenica ®. Era inoltre proi- bito il lavoro nei dì dandoreggiati, ossia nelle maggiori solennità, delle quali i Maestri del Monte dovevaro mettere bando, e farlo scrivere in su li atti dal loro scrivano, a pena di marco uno d’argento ©. Se alcun lavoratore avesse ricevuto denari in presto dal maestro della fossa o da altra simile persona, ossia, come ora communemente si dice, se avesse ricevuto anticipazioni, e poscia mancasse al lavoro, doveva essere soste- nuto in prigione finchè non avesse restituito la somma ricevuta, e pagare inoltre una multa; e similmente il lavoratore che avesse ricevuto istru- menti od utensili da lavoro, e non li restituisse #* Era parimente proi- bito, sotto pena di venti soldi d’alfonsini minuti per ogni volta, prendere lavoratori che fossero allogati con altri ®; ed anche finito il tempo pel quale erasi obligato ad una fossa, il lavoratore non poteva, se non dopo lo spazio di giorni quindici, passare ad altra fossa vicina, che con quella prima avesse gara per confini tuttora indeterminati ®.. 5) Dall’ arabo MNa'dr e MNa'dra; e con nome più prossimo all’ etimologia anticamente in Ispagna si chiamava raora e alnagora (Da lettera del Sig.” Prof. MicHELE AMARI). S 118. 1) Br.1232 30-123b 6. 2) Br.120b 37-45; 1402 2-7. 3) Br.61° 36-38; 112» 1-16; 1182 8-23, 4) Br.123b 6-1242 6. 5) Br. 1242 9-14. 6) Br.124 25-33. IN VILLA DI CHIESA 315 119. I lavoratori dovevano pagarsi in Villa di Chiesa, dove erano te- nuti di recarsi, dapprima il sabbato, e poscia, come abbiamo notato, il venerdì dopo mezzogiorno ; ed era espressamente proibito eseguire i pa- gamenti altrove che in Villa di Chiesa : eccetto, a cagione probabilmente della grave distanza, in Monte di Pietra Carfita: in Monte di Malva, ed in Monte d’ Olivo ®. Nessun lavoratore poteva essere pagato senza po- lizza ®. Il pagamento, per le fosse che avevano bistante, si faceva dal maestro della fossa o dal ricoglitore di somma il sabbato, ragionata la fossa, e ricevuta la somma; se nol facesse, e richiamo ne fosse, doveva essere sostenuto in prigione infin che pagasse, e punito colla multa di soldi dieci. Che se la fossa non avesse bistante, il maestro o il ricoglitore di somma aveva termine dì otto; dopo i quali se non pagasse, e richiamo ne fosse, il Capitano od il Giudice gli poneva termine altri otto giorni ; trascorsi li quali doveva essere pignorato ne’ suoi beni, e dato il pegno al lavoratore pel valore del suo credito e delle spese, pegno che il lavoratore poteva a sua volta impegnare ad altri ; e tutto ciò doveva ap- parire scritto negli atti della Corte ©. Simile diritto di pegno aveva il maestro o il ricoglitore di somma verso il parzonavile che non francasse ‘). Il lavoratore a qualsiasi lavoro d’argentiera aveva diritto di essere pagato sul prezzo della vena; e per lo spazio di quindici dì questo privilegio primeggiava, come abbiamo riferito (S$ 52), anche quello del bistante ”. Il lavoratore, come qualunque altra persona che avesse a ricevere per lavori di fossa, perdeva ogni sua ragione ed azione se non l’usasse infra sei mesi; ciò fatto, e scritte le sue ragioni in sul libro della fossa, più non gli correva tempo . 120. Gli utensili o strumenti occorrenti al lavoro delle fosse, in un antico documento di Massa dell’anno 1298 già da noi più volte citato, sono detti il fornimento della fossa”; nel Breve di Villa di Chiesa, con voce che non troviamo altrove, e che reputiamo d'origine tedesca, da $ 119. +) Br. 612 32-61b 8. 2) Br.IV, cx. Vedi anche 78b 30-32; 792 13-18; 46-47; 130% 14-15. 3) Br.129% 31-129b 9; 30-32. 4) Br.129b 9-30. i 5) Br.128b 36-43. 6) Br. 127b 8-15; 22-27; M.xL, 3-14; 23-95. $ 220. +) Append. IV. 316 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Werfieug, strumento da lavoro ®, sono detti guscierno ?, ovvero guscierno di fossa . Per cura del maestro il guscierno di ogni fossa doveva essere scritto nel libro di Villa, e ragionarsi la somma, e la quantità, ed il prezzo, e da chi si pigliasse; e colui che lo forniva poteva pigliarne polizza come lavoratore, e pel prezzo godeva del medesimo privilegio ; e se il maestro o ricoglitore di somma avesse ricevuto il denaro dai parzonavili o dal bistante, e non pagasse il guscierno, erane sostenuto in persona infine che sodisfacesse, e ciò sì in dì feriati che non feriati. Colui che avesse dato il guscierno aveva tempo a fare la dimanda un anno e tre mesi dal di che avesse cominciato a dare il guscierno, e tale dimanda doveva apparire scritta negli atti della Corte: se ciò non facesse, dopo quel tempo non era inteso a ragione; che se nel tempo sopra- scritto avesse fatto il suo dimando, e fattolo scrivere negli atti della Corte, più non gli correva tempo. Pel prezzo del guscierno si credeva alla pa- rola di celui che lo avesse fornito, ed al suo quaderno, infine al valore di soldi dieci d’'alfonsini minuti °. Anche in dì festivo era lecito tenere bottega aperta per vendere guscierno di fossa o altra mercatanzia, e ciò perchè appunto nelle domeniche e altri dì festivi solevano accorrere in Villa i lavoratori dalle fosse ed altri forestieri a fornirsi di ciò che loro bisognasse ; doveva tuttavia in quei giorni tenersi soltanto un lato del- l uscio della bottega aperto, nè il guscierno tenersi in piazza, nè por- tarsi a vendere per la terra 9. Per impedire i furti, era proibito recare dalle fosse guscierno in Villa, salvo quando bisognasse per far conciare alcuna cosa. Nè inoltre era permesso dare guscierno in pegno o prestarvi sopra, nè tenerlo in casa, sotto pena di soldi venti; e ciascuno lo po- teva accusare ; salvo se si trattasse di lavoratori che andassero la mattina a lavorare a monte e ritornassero la sera, ai quali era lecito di portare, e tenere presso di sè, i loro ferri da lavoro, senza alcuna pena ?. 124. Intorno al fornimento delle fosse a quella età il più notevole 2) Non ci pare l'etimologia tratta troppo dalla lunga nè la voce troppo dissimile, ove sì consideri, che il w tedesco si converte per regola in gu in italiano, Così similmente da Wert si è fatto guerco, e poscia guelco. 3) Br.103% 7; 120b 43; 136% 14-15; 1450 14-15. 4) Br.30° 40-41; 102D 27. 5) Br.1302 8-130> 3. 6) Br.102b> 16-31; 1032 3-8. 7) Br.145 5-11; 20-29. IN VILLA DI CHIESA 317 documento che ci rimanga si è quello che già più volte abbiamo citato, nel territorio di Massa, dell’anno 1298, nel quale si contiene l' inven- tario di una fossa, le Meloni, che si dava a parte col suo fornimento a una compagnia di lavoratori *). Molti antichi istrumenti ad uso d’argen- tiera si dissotterrano inoltre di frequente nei lavori che d'ogni parte si ripigliano nel distretto d’ Iglesias; fra le quali scoperte faremo speziale menzione di una sotto molti aspetti assai notevole, avvenuta di re- cente a Planedda, miniera di Plan ’e Sartu, appartenente alla Società di Malfidano, in fondo di una fossa o pozzo anticamente scavato in traccia di piombo e forse segnendone una vena in una colonna di calamina; dove si scoprirono molti rozzi utensili in pietra : che tuttavia (ed in ciò ab- biamo consenzienti altre persone esperte in tale argomento) non crediamo doversi riferire a quella remotissima detta volgarmente appunto « l'età » della pietra », ma essere di tempi nei quali nonchè il rame fosse co- nosciuto anche l’uso del ferro; qualunque poi sia la cagione, per la quale in quelli scavi si fece uso di tali strumenti: probabilmente la penuria in che per caso alcuna compagnia si sia trovata di utensili migliori. Colla scorta degli utensili scoperti in questa ed in altre miniere , ed inoltre delle notizie rimasteci negli antichi documenti, procureremo di enumerare $ 121. 1) « Qest'è il furnimentto de le Meloni, il qale è a la fosa, sechondo che dirae qie » da piede per ordine: » xl Pichoni. » xi} Bolghe. » j Chanapo da chavalchare di Lv pasi. » dij Papaghalli. » ij Ascioni, » ij Pajouli, » j Taula al bottino che si trae. » ij Taole a l’antiguinda, l'una nuova e l’atra vechia. » ij Corbelli da partlire. » ij Barili da rechare achua. » 3 Barile da acetto. » xi} Chonielli. » j Paletta dì ferro. » j Marraschura. « ij Manttachi. » 3 Anchaudine. » + Martellì da la fabricha. » J Segha. » ij Pajo di tanagli. » iij Marttelle da pestare. » 318 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE e descrivere i principali oggetti, che formavano il guscierno o fornimento di una fossa. 1292. È evidente che la qualità , ed il numero, e la proporzione fra loro dei varii utensili, era necessariamente varia in caduna fossa, non solo secondo l'ampiezza ma anche secondo la natura dei lavori. Così nella fossa nel territorio di Massa, della quale ci fu serbato l’ inventario del fornimento, si avevano dodici dolghe ; le quali erano oggetto inutile dove la fossa si lavorasse soltanto a ferro e non a fuoco. Nessuna bolga si scoperse finora negli antichi scavi di miniere in Sardigna, e perciò non è noto quale ne fosse la forma. Sappiamo tuttavia, come sopra abbiamo notato, che vi si bruciava legna, e non carbone; e sembra perciò che avesse la forma di una graticola in ferro, talora a varii piani, su ciascuno dei quali si disponeva la legna da ardere, sì che questa si mantenesse vicina a tutti i punti della roccia che si volevano affocare, e l’aria su tutta l'altezza potesse avervi libero il passo. 123. Come accessorio e complemento delle bolghe dobbiamo, come fu notato più sopra (S 112), fra il guscierno delle fosse annoverare le dozti o barili sia da recare acqua, che da aceto ". Delle botti troviamo in Villa di Chiesa stabilito, che non fosse lecito portarle fuori dell’argentiera, nè sane nè rotte ?). i 124. Picconi, cunei, e simili strumenti di varia foggia si ritrovarono numerosi per mezzo dei recenti lavori nelle antiche fosse !, e di parecchi vivono tuttora in alcune parti di Toscana i nomi medesimi, coi quali sono designati negli antichi documenti ; onde non sarà difficile descrivere, almeno dei principali, l’uso e la forma. 125. Il principale e più commune fra gli strumenti destinati a spezzare sia la roccia tenera, come anche la roccia soda poichè col fuoco si era resa friabile, era il piccone !; dal quale anche trassero il loro nome i $ 123. +) Br.145» 5; Append. IV, 14-15. 2) « Nè sane nè fracte »: Br. 34b 40-42 $ 124. 1) Dei varii utensili da miniera tratti dagli antichi scavi dei quali diamo il disegno, quelli trovati a Monteponi si conservano tutti nel museo dello stabilimento ; se non in quanto dei lumicini di terra cotta, che si scopersero in gran numero, furono donati alcuni o al Museo di Cagliari (vedi Spano, Memoria sopra alcuni idoletti Sardi; Cagliari, 1866, pag. 38), o ad alcuni amatori di simili antichità. I disegni degli utensili trovati a Monteponi furono eseguiti dall’ In- gegnere applicato a quella miniera Francesco Stieglitz; dei disegni e delle notizie degli utensili trovati nelle altre miniere sono debitore alla squisita cortesia dell’ Ingegnere Cav. LEONE GOUIN. $ 125. 1) Append.IV, 4. int a IN VILLA DI CHIESA 319 picconieri, di cui abbiamo sopra ($ 113) fatto menzione. Parecchi di tali picconi si scopersero in varie miniere, poco diversi tra loro di forma e di misura, nè gran fatto dissimili da quelli che sono in uso a’ nostri giorni. Essi sono generalmente di ottimo ferro e ben lavorati, della lun- ghezza di circa 30 centimetri, diritti o leggermente ricurvi (Tav. I, fig. 1, 2 e 3). Sono rigonfii e forati in quadro oblungo al luogo del manico, di alcuno dei quali si trovarono ancora nel foro gli avanzi in legno di ginepro ; il lato più lungo del piccone va gradatamente restringendosi e termina in punta acciajata, l’altro lato più breve ha la forma di martello piano, e serve a sminuzzare percotendo *). Oltre questi troviamo due va- rietà di picconi, le quali forse avevano proprio nome che ignoriamo : alcuni cioè (Tav. II, fig. 5) dal lato opposto alla punta invece di termi- nare a martello piatto terminano in forma di scalpello od a taglio ® ; altri (Tav. II, fig. 6 e 7) mancano al tutto della parte a martello, ed hanno la sola parte terminante a punta ‘. 126. La marra (Tav. II, fig. 8) aveva appieno la forma, che in quelle contrade conserva tuttora ai nostri giorni ') ; serve principalmente a rac- cogliere a mucchio sia la terra e il petrajo negli scavi, sia anche la vena minuta. 227. Marrascure ' non ci venne fatto di trovare negli antichi scavi ; ma ne vive il nome e l’uso in Siena e nei dintorni; onde sappiamo che era, come indica il nome, uno strumento che dall’un lato termina a marra, dall’ altro a scure. 128. Anche l’ascione ” o ascia aveva la medesima forma che è in uso ai nostri giorni (Tav. III, fig. g): esso serviva a digrossare il legname, che frequentemente si adopera nei lavori delle fosse a dificarle, o vo- gliam dire ad armarle, nei luoghi franosi (S 95). 2) I picconi disegnati sotto i n.i 1 e 2 furono trovati a Masua, in lavori probabilmente del seoolo XIV, ossia degli ultimi tempi che quella miniera appare essere stata coltivata dagli antichi; il piccone n.° 3 a Monteponi, in lavori antichissimi. 3) Trovato in lavori comparativamente recenti a Monteponi. 5) Il n.° 6 trovato in lavori antichissimi a Monteponi; il n.° 7 a San Giovanni di Gonnesa. $ 126. ») Quella della quale diamo il disegno fu trovata a Monteponi. 6 127. 3) Append. IV, 18. $ 128. +) Append.1V, 8. Quello del quale diamo il disegno fu trovato a San Leone, miniera di ferro dei signori Pelin Godet, nei territori di Assemini e Capoterra presso Cagliari. Ne fu publicato il disegno gia dallo SPano, nel Bollettino Archeologico Sardo, 1862, pag. 181. 320 DELL INDUSTRIA DELLE MINIERE 1929. Dei cunei doveva necessariamente farsi grande uso, introducendoli a forza nei fori e nelle frequenti fessure delle roccie ; nè altro crediamo siano i xZI chonielli annoverati tra il fornimento della fossa « le Meloni » ”. Parecchi di tali cunei in ferro, di varia grossezza (Tav. III, fig. 10, 11, 12 e 13), si trovarono in diverse miniere ©, e ne appare la parte su- periore fiaccata dal percuotere della mazza; e ad uso di cunei senza fallo era adoperata gran parte delle pietre trovate a Planedda. Sono pietre naturali rotolate, scelte, in non piccol numero, di forma acconcia all’ uopo, ossia più sottili ad una estremità, più grosse ma meno larghe dall’altra (Tav. III, fig. 14 e 15); nulla avrebbe potuto far supporre che fos- sero destinate ad alcun uso speciale, e nominatamente a lavori di fossa, se l'uniformità loro ed il loro numero in fondo ad una fossa, e miste a pietre manifestamente lavorate ($ 131), non avessero dimostrato che. si trovavano colà non a caso, ma che tutte erano state raccolte ad uno scopo; tanto più, che tutte quelle pietre, di calcare assai duro, non. rassomigliano alla roccia di quei contorni, e sono portate d'altronde. La forma, come dicevamo, fu scelta di tutte a un di presso uniforme ; ma diversissima ne è la grossezza ed il peso; avendovene di alte soltanto da 10 centimetri ; altre da 20; ed una avendone misurato dell'altezza di 34, e dello spessore di 8 centimetri. Se ne faceva uso introducendone, come degli altri cunei, la parte più sottile nelle spaccature della roccia, e po- scia percotendole con mazze di legno, come quelli si percotevano con martelli o mazze di ferro. Fra queste pietre gregge in calcare ordmario una inoltre fu trovata in dolomite duro, non greggia questa ma rozza- mente lavorata, e che parimente crediamo essere stata destinata ad uso di cuneo, ma ridotta a minore spessore per poterla introdurre nelle fes- sure, nelle quali per ka loro grossezza le altre non potevano penetrare ; o forse ad uso quasi di picco a scavare, come comporta la natura in parte quasi terrosa del luogo dove si rinvennero questi utensili di pietra : ed in questo caso dovette nella sua parte più stretta essere stata forte- mente congiunta ad un manico di legno (Tav. III, fig. 16). 130. La paletta di ferro, che parimente troviamo tra ’1 fornimento $ 129. +) Append. IV, 16. 2) I cunei disegnati sotto i n. 10 e ii furono trovati a Munteponi ; quelli sotto i n.i 12 e 13 a San Giovanni di Gonnesa. Forse quello disegnato sotto il n.° 13 non è un cuneo, ma un frammento di piccone. IN VILLA DI CHIESA 321 della fossa le Meloni ", è senza dubio il medesimo strumento che la palu, che troviamo nominata nel Breve di Villa di Chiesa ©). Serviva, come oggidiì, a raccogliere dal suolo il petrajo, il monte e la vena, e a riporli nei recipienti destinati sia a misurarli, sia a trasportarli #). A ciò facevasi uso dei corbelli e dei mezzi corbelli, dei quali tratteremo dove avremo ad esporre il modo allora in uso per misurare la vena ($ 174). Non sappiamo se a ciò parimente servissero, o a vuotare le fosse dall’acqua, o ad altro uso, i pajuoli, che troviamo annoverati tra il fornimento della stessa fossa « le Meloni » *. 131. Del canape da cavalcare, al tutto disusato nelle miniere ai nostri tempi, si trova menzione e nel Breve di Villa di Chiesa ”, e nel Costi- tuto di Massa ?, e nel più volte citato inventario ©: Ed al canape da cavalcare crediamo appartenessero quei dischi in pietra forati (Tav. III, fig. 17, 18 e 19), che sono tra gli utensili trovati a Planedda. Nè cre- diamo che fossero invece picconi, e che nel loro foro s° introducesse il inanico : in prima, perchè un cuneo qualsiasi anche di legno, col quale si fosse tentato di fermare il manico nel foro, li avrebbe inevitabilmente spezzati; ma principalmente perchè il considerevole spessore di quei di- schi e la forma non tagliente (vedi fig. 17) escludono al tutto un siffatto uso. Ciò posto, l'esame di questi dischi, e le prescrizioni che leggiamo sì nel Breve di Villa di Chiesa come nel Costituto di Massa, ci pongono in grado di dare la descrizione di questo canape da cavalcare. Era un canape di lunghezza proporzionata alla profondità della fossa, un capo del quale fermavasi esternamente alla bocca della fossa; di distanza in distanza posava, probabilmente sopra un nodo fatto nel canape, una spezie di annello a larghe falde o vogliam dire un piattello forato, e tali sono i dischi trovati a Planedda ; su questo il lavoratore restava assiso a caval cioni del canape; ed, occorrendo, i successivi piattelli servivano inoltre quasi di scala ad entrare e ad escire della fossa. Per maggiore sicurezza era prescritto, che quelli che cavalcassero il canape dovessero cingersi la persona con una cinghia a fibbia o con una spartina fermata al canape ‘. $ 130. 1) Append. IV, 17. 2) Br. 108b 26-28. i 3) Veggasi Br.108b 26-28, e 1452 1-16. 4) Append. IV, 9. 6 131. +) Br. 142b 17-42; 145b 6. 2) M.xxxvt, 1-9. 3) Append. IV, 6. 4) Br.142b 17-27; M.xxxv, 1-9. Serie II. Tom. XXVI. 44 3232 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE 132. Fra gli oggetti di fornimento di fossa troviamo anche menzionate le tavole *, ossia assi di legno; esse evidentemente potevano servire o di ponte sopra uno scavo, o di riparo, o ad altri simili usi molteplici. 133. Zumi da miniera si ritrovano frequentemente nelle antiche esca- vazioni del territorio d’ Iglesias. Sono generalmente non in metallo né costosi quali si usano oggidi, ma in terra cotta, semplicissimi di forma ( veggasi Tav. IV, fig. 20 e 21) ®, e di quasi niun valore; uno solo ne fu di recente scoperto © in rame, di forma simile (Tav. IV, fig. 22) a quelli communi in terra cotta, ma di più diligente lavoro. Molti di questi lumi si trovarono tuttora ai luoghi loro, posati e fermati sopra uno sca- bello d'argilla sulle pareti della fossa; e si disponevano a non grande distanza l’uno dall’altro, in guisa che tutto il tratto della fossa dove si eseguiva il lavoro ne era ampiamente illuminato #. Dovendo a questo modo restar fissi, quei lumi non avevano manico ; se ne trovano tuttavia alcuni pochi con manico, ad uso probabilmente delle persone che per qualche necessità dovessero recarsi alle parti della fossa non rischiarate dai lumi fissi. Alcuni di questi sono semplicissimi, e simili nel resto a quelli communi senza manico (Tav. IV, fig. 23); altri più alti e di più com- moda forma (Tav. IV, fig. 24) ®. Per questi lumi non si faceva uso d'olio ma di sevo ®; ed al sevo destinato ai lumi per le fosse d’argen- tiera deve riferirsi il divieto del Breve, di struggere sevo in alcuna piazza publica, o in umbraco o casa presso a dette piazze fino a case dodici, sotto pena di un marco d’argento ?. Nella miniera di Monteponi fu tro- vato anche un orciolo a larga bocca, destinato, per quanto pare, a con- tenere la provista giornaliera di sevo per rifornire le candele nelle fosse (Tav. VI, fig. 29). — Trovansi anche lumi a olio, ma quelli che finora S 132. +) Append. IV, 10-12. $ 133. 1) Br. 144 6; 145b 6. 2) Quello rapresentato sotto il n.020 fu trovato a Is Fossas, miniera di Sangiorgio; pa- recchi altri simili di forma e di grossezza, e quello disegnato sotto il n.° 21, a Monteponiì. Vedi anche Spano, Bollettino Archeologico Sardo, 1862, pag. 129-131. 3) A Monteponi, 4) In questa forma si trovarono disposti in un antico bottino e scavi vicini, alla profon- dità di circa 90 metri, nel filone detto ora dei Pisani, in Montefola, miniera di Monteponi; e similmente negli scavi di Is Fossas, miniera di San Giorgio. 5) I n.i 23 e 24 vennero trovati a Monteponi. 6) Br. 144b 6. 7) Br.63° 4-13. IN VILLA DI CHIESA 325 si trovarono sono tutti con manico (chè lume a sevo piuttosto che a olio reputo quello ® del quale diamo il disegno, Tav. V, fig. 25); dal che appare, che questi lumi ad olio non erano destinati ad essere fermi alle pareti delle fosse ai luoghi oportuni: e siccome li troviamo essere tutti di forma alquanto più elegante (vedi Tav. V, fig. 27 e 28) %, ed alcuni anche ornati con figure in rilievo (Tav. V, fig. 26) '®, crediamo che, a differenza dei rozzi lumi a sevo con manico, questi a olio fossero destinati al maestro della fossa ed a simili persone incaricate della dire- zione dei lavori. Si trovarono parimente a Monteponi alcuni orcioli simili a quello che secondo noi era destinato a contenere il sevo pei lumi; ma questi, più piccoli e sopratutto di bocca assai stretta (Tav. VI, fig. 30), servivano probabilmente a simile uso per l'olio. 134. In Toscana le fosse avevano inoltre una piccola officina per ripa- rarvi gl’ instrumenti da lavoro; poichè tra il fornimento di una fossa vediamo annoverati mantici, martelli da fabro, tenaglie, papagalli (sono essi pure una spezie di fort tenaglie , ed il nome ne vive in Siena), sega ". Nulla di simile troviamo per le fosse d’argentiera in Villa di Chiesa, anzi nel Breve è fatta espressa menzione del guscierno che si porti a conciare in Villa ??; e siccome, laddove in Massa si concedevano privilegi a chi fabricasse casa alle fosse, alla bocca delle fosse dell’ ar- gentiera di Villa di Chiesa non si costruivano che capanne : crediamo che rarissimo vi fosse il caso, che alcuna fossa avesse officina di fabro, ma che in Villa di Chiesa si portassero a conciare gli utensili delle argen- tiere più vicine, e ivi talora parimente quelli delle argentiere più lontane, poichè in fine di settimana i lavoratori vi dovevano convenire per la ragionatura e per le paghe ; od in caso d’urgenza si conciassero in alcuna delle ville più vicine, come Conesa, Sigulis, Antas e Ghiandili. 135. Già sopra trattando delle bolghe, e del modo col quale si affo- cava e sì spezzava la roccia, abbiamo notato, come tra il fornimento di una fossa trovinsi anche annoverati barili da recare acqua (S 123). Potrebbe sospettarsi, che ivi si tratti dell’ acqua necessaria ai lavo- ratori; il che tuttavia non crediamo, poichè sì nel Costituto di Massa 8) Trovato a Monteponi. 9) Il n.° 27 trovato a San Giovanni di Gonnesa, il 28 a Monteponi. 10) Trovato a Montecani. Lo crediamo del tempo dei Romani. S 134. +) Append. IV, 19-23. a) Br.145b 5-11. 24 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE i come nel Breve di Villa di Chiesa ed in ogni altro documento di quella età è tenuto il più alto silenzio intorno alla importante questione , del modo col quale si provedesse al nutrimento degli operaji addetti ‘ai lavori delle fosse. Siccome tuttavia il Breve proibiva agli operaji delle argentiere di fermarvisi la domenica, e voleva che tutti si recassero in Villa di Chiesa, e nominatamente che ivi si facessero tutti i pagamenti : siamo d’avviso che appunto la domenica, ricevuto il denaro, i lavoratori si provedessero del vitto occorrente, che il lunedì portassero con sè a monte per tutta la settimana, come anche ora in simili circostanze so- gliono fare gli operaji in Sardigna. E difatti, dove nel Breve è data li- cenza di tenere in Villa di Chiesa le botteghe aperte la domenica, se ne allega appunto come ragione, che « li decti di domeniche et li dì de » le feste si forniseno li fosse et altri foristiere di ciò che bisogna loro » ”. Inoltre sembra che, come con pessimo consiglio in alcune miniere si pra- tica anche ai nostri tempi, gli officiali della fossa tenessero canova ad uso dei lavoratori alla fossa; trovandosi menzione di salario dovuto ad un ser Nicolao di Peldericcio per aver tenuto la scrivania e la canova della fossa Galassa e Bambola in Monte Barlao ?). 6135. *) Br. 102b 29-31. 2) Supplem., Doc. del 24 genn. 1340. (OS) (©) (Wii IN VILLA DI CHIESA CAPITOLO VI. Maestri del Monte, e loro scrivano. Rivedute, scandigliatura e partiti. Estimatori del Monte. Liti di trente e di fosse. 136. La suprema cura e giurisdizione su quanto riguardava l’arte delle fosse, e le persone in qualunque modo addette a quest’ industria, era com- messa ad un magistrato, detto i Maestri del Monte. Eleggevali il Con- siglio ordinato di Villa di Chiesa, dopo giurato l’officio, intervenendo alla elezione otto almeno dei dodici Consiglieri, ed in presenza del Ca- pitano e Rettore !. Non poteva eleggersi a Maestro del Monte chi non fosse stato borghese di Villa di Chiesa da anni cinque e non vi avesse fatti i servigi reali e personali, nè chi non avesse servita l’arte del- l’argentiera anni cinque almeno; se alcuno fosse eletto contro tale forma, ed accettasse, pena a chi lo eleggesse libre dieci d’alfonsini mi- nuti, ed altrettanto a chi fosse eletto, e perdeva l’officio ®. Erano otto, quattro dei quali dovevano possedere caduno di valsente da libre ducento in su; e questi quattro erano costretti di giurare, e non potevano ricu- sare l’officio; « con ciò sia cosa che », dice il Breve, « avendovene quatro » così buoni homini in dello facto d’argentiera, non si poterà legiermente » commectere alcuno dapno o inganno o vicio, ma maggiormente si fa- » ranno in dell’argentiera predicta le cose buone et utili per la Università » delli homini dell’ argentiera « ®. Catuno degli eletti doveva dare due pagatori buoni ed idonei, e prestare giuramento di fare l’officio bene e lealmente #. La durata dell’officio dei Maestri del Monte era di mesi tre, come quella dei Consiglieri e degli altri officiali; nè potevano essere $ 136. +) Br. 202 13-18; 104° 4-5; 9-11. 2) Br.20? 18-29; 104° 6-8; 22-27; 37-42. 3) Br.104° 11-22; 27-32. 4) Br 105° 12-16. 326 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE rieletti se non avessero vacato dall’officio mesi sei. L’officio dei Maestri del Monte dicevasi maestrato ® o maestratico . I primi che fossero eletti dopo la publicazione del Breve dovevano, alle loro spese, far trascrivere (assemplare ) il Quarto Libro del Breve, nel quale si tratta delle cose d’argentiera; questa copia doveva restare alla Corte dei Maestri del Monte, ai quali era fatta facolià di portarlo a monte quando bisognasse per fare ed usare il loro officio ®. E già dei quattro Brevajuoli, ai quali secondo l’antico uso 9 era affidata la correzione del Breve, uno doveva essere Maestro del Monte o altro sufficiente argentiere ; uno guelco, ossia fonditore (S$ 189); uno bistante ; il quarto sceglievasi borghese di Villa di Chiesa che non fosse nè argentiere, nè guelco, nè bistante '®. In Massa la riforma del Costituto, per quanto riguardava l’arte delle fosse, era commessa a tre Savii dell’ Arte ‘). È 137. Ai Maestri del Monte era aggiunto, per elezione parimente del Consiglio, uno scrivano, che fosse persona buona e leale, e stata bor- ghese ed abitatore di Villa di Chiesa da anni tre almeno; e se alcuno eletto accettasse non essendo stato borghese tre anni, perdeva l'officio, e doveva pagare di multa libre dieci d’alfonsini minuti ”. L’eletto aveva a dare due buoni ed idonei pagatori, e prestare giuramento di tenere la scrivania bene e lealmente ?), ossia di scrivere tutto ciò che all’ officio de’ Maestri del Monte s’ apparteneva, così delli piati come d'altre cose ; e doveva perciò avere un quaderno, nel quale scrivesse tutte le scritture che si facessero pel suo officio, ed era tenuto mostrarlo quando biso- gnasse ; e le sue scritture facevano piena fede come scrittura publica È. Entrava in officio al tempo medesimo che i Maestri del Monte, e com’ essi durava in carica mesi tre ‘. Nell’ escirne doveva dare e rinunziare al suo successore, nel termine di otto giorni, tutti li atti che fossero appo lui, 5) Br.30b 23-35; 107 34-35. 6) Br.104 39. 7) Br.120b 7. 8) Br. 105b 35-41. 9) Cod. Dipl. Eccl., XV, xL1, 11-15. 10) Br. 22b 32-232 4. 1) M.LIV; LIX, 3-9. $ 137. 1) Br.30b 23-50; 106b 29-30; 34-41. 2) Br.107% 12-14. 3) Br.106b 32-34; 107° 3-7. 4) Br.107° 7-9. IN VILLA DI CHIESA 327 sì quelli che avesse fatti nel tempo del suo officio, come quelli che avesse ricevuto dal suo antecessore; ed il Capitano o Rettore, per suo giuramento, era tenuto di fare ciò osservare, a pena di libre dieci d’al- fonsini minuti; e di questa restituzione degli atti da uno scrivano al- l’altro doveva farsi constare per carta publica di notaro. Se lo scrivano non restituisse le carte fra dì otto, pena marco uno d’argento; e non- 5. Le carte dello scrivano dove- dimeno fosse tenuto a dare le scritture vano custodirsi in una cassa a chiave ; la quale cassa dovevano comperare delli loro proprii denari li primi Maestri del Monte che fossero eletti dopo la publicazione del Breve, e consegnare cassa e chiave allo scri- vano; e doveva trasmettersi dall’ uno all’ altro scrivano, e tenersi nel Palazzo di Villa, nella bottega destinata per la Corte dei Maestri del Monte °. 138. I Maestri del Monte, o la maggior parte di loro, ossia cinque almeno degli otto !, dovevano zerer Corte due dì continui ogni setti- mana, il sabbato e la domenica, ovvero la domenica e il lunedì, a pena di un marco d’argento ; ed ogni dì che tenessero Corte dovevano farne mettere bando per alcuno delli messi della Corte publicamente, affinchè a tutti fosse manifesto ?. Inoltre dovevano andare ovunque fossero ri- chiesti per loro officio, di dì e di notte, a pena di libre dieci d’alfonsini minuti per ogni volta; sì veramente, che se alcuno di essi fosse richiesto di notte, e volesse compagnia almeno d’un uomo, gli si dovesse dare, a spese del richieritore ®. Era lecito ai Maestri del Monte portare arma in tutto il tempo del loro officio senza alcuna pena; e similmente al loro scrivano *. Essi avevano facoltà di entrare in ogni lavoro di fossa per fare il loro officio, e nessuno poteva vietare loro l’entrata: salvo se il Maestro del Monte fosse inimico proprio di quella persona che lo vie- tasse, o d’alcuno parzonavile della fossa; ovvero se quel Maestro avesse parte in alcuna fossa, bottino o canale, che fosse vicino a quella cotale fossa che lo vietasse; e ciò il Maestro era tenuto manifestare, e se fosse parente infino in terzo grado del maestro o d’alcun parzonavile di quella 5) Br.1072 18-29; 35-38. 6) Br.1072 29-33; 1072 38-107b 13. } 138. +) Br. 104b 6-7. 2) Br.1052 23-37. 3) Br. 104b 32-39. 4) Br.1052 21-23; 1065 31-32. 328 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE fossa vicina ”. Era lecito ai Maestri del Monte menare con sè aggiunti alle montagne, e da loro pigliare consiglio ®. Per cose riguardanti il loro officio, per esempio per l’annunzio dei di bandoreggiati (S$ 118), e per l’avviso alle fosse di tenere i canapi da cavalcare, o pel soc- corso a prestarsi alle persone impedite nelle fosse ($ 208), i Maestri del Monte facevano bandi e comandamenti, purchè non fossero contro la forma del Breve, e ne curavano l'osservanza, ed imponevano e levavano le pene ai trasgressori, fino in marco uno d’argento; e qual Maestro facesse bando o comandamento oltre la forma del Breve, pena infine in marchi dieci d’argento per ogni volta. Cotali bandi si mettevano per mezzo di alcuno dei dodici messi della Corte, che ogni anno si elegge- vano dal Consiglio di Villa di Chiesa ”, 139. Ma di tutti gli officii dei Maestri del Monte di gran lunga il più grave e il più importante si era, di mantenere la concordia fra le fosse vicine, di comporne le differenze, e di definire i limiti, i diritti e i do- veri di ciascheduna. Esponendo le leggi e le consuetudini che reggevano l'occupazione, l’abandono e la ripigliatura delle fosse abbiamo notato , come in qualunque luogo non da altri coltivato, e a distanza di pochi passi da altra fossa, era lecito aprire fossa nuova, o ripigliare fossa aban- donata. Sebbene anche nella direzione della vena (filone o mons drictus) le colonne del minerale non di rado siano separate da tratti assoluta- mente sterili, spesso tuttavia anche in quel tratto intermedio si trova, quantunque più scarso, il minerale; e perfino i varii filoni paralleli spesso communicano fra di loro sia per mezzo di rigonfiamenti, o di vene secondarie dipartentisi dalla vena principale, sia per essere quei primi filoni tagliati di traverso per mezzo di altri filoni, che sogliono perciò oggidì chiamarsi filoni incrociatori ((croiseurs ). Quindi ad ogni tratto avveniva, che i limiti di caduna fossa non fossero determinati in modo certo ed evidente dal monte sterile, che separasse luna fossa dall’ altra. 140. Le fosse vicine che fra loro non avevano limite certo e naturale per tratto di roccia indubitatamente sterile, si diceva che avevano gara ", 5) Br. 1382 33-138b 10. 6) Br. 106b 22-25. 7) Br. 1045 43-1053 12; 136b 24-32; 28b 36-46. $ 140. +) M.xxv, 6-7; Lx, 9; 10; 20. IN VILLA DI CHIESA 324 gareggiavano *), guerreggiarano * insieme. Se in tali questioni od in altra qualsiasi i maestri delle fosse si accordassero fra di loro con vo- lontà delli parzonavili aventi la maggior parte delle trente, tale accordo teneva, purchè fra dì otto fosse fatto scrivere per lo scrivano delli Mae- stri del Monte ‘). Se non seguiva accordo tra le fosse, quando alcuna di esse temeva pregiudizio dai lavori di una fossa vicina la faceva rivedere ” dai Maestri del Monte. Non era lecito far rivedere fossa fuorchè a pro- vedimento di due Maestri del Monte; e se questi nella domanda di rive- duta © conoscessero fraude o malizia, la fossa che avesse chiesta la riveduta doveva pagare di pena per ogni volta, considerata la qualità del fatto, da dieci in cinquanta libre d’alfonsini minuti. E se nascesse lite o questione da una fossa ad un’altra per cagione del rivedimento ? che l'una fossa facesse fare all’ altra, e quella fossa che fosse riveduta , e per essa il suo maestro, si lamentasse di quella fossa che la facesse rivedere, dicendo ch’ ella è riveduta maliziosamente : il Capitano overo Rettore doveva chiamare occultamente quattro buone persone a suo ar- bitrio, borghesi di Villa ed argentieri, che provedessero, e vedessero se quella fossa fa rivedere l’altra maliziosamente o ragionevolmente ; e ciò che quelle quattro persone dicessero, doveva stare fermo, sì come se fosse fatto da tutti i Maestri del Monte ®. Ogni fossa, finchè stava « riveduta ®, doveva sospendere i suoi lavori. E perciò se alcuna fossa avesse giusto impedimento di acqua, non poteva da alcun vicino essere soggetta a riveduta, e le era lecito scionfare acqua senza interruzione, per evitare il grave danno che alle fosse deriva dalla interruzione di tal lavoro !. Se la fossa che stesse a riveduta avesse altro luogo da lavo- rare che non impacciasse la gara ', ivi si poteva proseguire il lavoro liberamente '). Se fossa allogata guerreggiasse o potesse guerreggiare nel 2) Br.126° 30; M.xxu1,.5; 13; xxvI, 6-7; Lx, 8-9. 3) Br.126*% 25. 4) Br.136b 35-1372 3. 5) Br. 106% 1; 1065 5-8; 117b 22; 25; 38; 118% 7; 25; 30-31; 34; M.xxin, 14. 6) Br.105> 46; 106° 3; 106b 6; 1182 14; 37; M.xxnt, 5. 7) Br.117b 30. 8) Br.117b 20-41» 9) Br.105b 25; 118% 14. 10) Br.117b 41-118? 16. 11) Br.126b 1; M.xxm, 5. 12) Br.126% 38-126b 3. Serie II. Tom. XXVI. 42 330 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE termine dell’ allogagione, il conduttore era tenuto di ciò denunziare fra di otto ai parzonavili allogatori; i quali avevano diritto di mettervi alle spese del conduttore un maestro o più a maistrare la fossa, da quelle . gare soltanto, e la vena e il minuto che si facesse era del conduttore : che se il conduttore non volesse pagare la spesa del maestro, allora la. vena e il minuto indi estratti erano dell’ allogatore. Se altro luogo. vi fosse che non impacciasse la gara, ivi, come abbiamo détto del parzo- navile, anche il conduttore poteva lavorare a piacimento SARTI 3 141. Nelle fosse che mettevano fuoco i Maestri del Monte dovevano fare le rivedute la mezzedima (il mercoledì) a terza; se indugiassero a farle a sera, pena marchi due d’argento per ogni volta; poichè l’indugio avrebbe recato grave disturbo, dovendosi appunto negli ultimi restanti giorni della settimana mettere la legna, e preparare e porre a luogo le bolghe pel fuoco da accendersi il sabbato ". Nelle altre fosse se il Mae- stro del Monte fosse chiamato d'urgenza ad una riveduta, doveva recar- visi in qualunque dì senza indugio, sia di giorno che di notte ?. Che se non vi fosse urgenza, il giorno consueto delle rivedute era il lunedì. Per ricevere la riveduta ® il maestro della fossa doveva perciò essere alla sua fossa ogni lunedì a mezzodì : che se contra facesse, pena libre dieci di alfonsini per ogni volta, ed era tenuto a sodisfare il danno che ne ricevessero i parzonavili; e se non avesse di che pagare, doveva essere sostenuto in persona infin che sodisfacesse. I Maestri del Monte, se il maestro della fossa non fosse al lavoro il lunedì a mezzodì, dovevano dare parola (licenza, facoltà) alla controparte di lavorare a sua volontà ; se il Maestro del Monte omettesse di dare tale facoltà, pena libre dieci d'alfonsini minuti *. 142. Finchè non avveniva che l'una delle fosse che gareggiavano fe- risse nell’ altra, officio dei Maestri del Monte era di definire dove e quanto cadauna delle parti dovesse lavorare, determinando se il tratto che si doveva scavare appartenesse all’ una o all'altra fossa, o se potessero lavorarvi ambedue, e dove e quanto. Per meglio accertare lo stato delle cose, e se i lavori nelle fosse gareggianti seguivano la norma stata loro 13) Br.126% 23-126b 3. $ 141. +) Br. 105b 22-24, 2) Br.104b 32-39; M.xxvi, 9-14. 3) Br.121Ib 16. 4) Br.121b 14-17. IN VILLA DI CHIESA 331 prescritta, i Maestri del Monte dovevano fare, se richiesti, alle. fossè medesime una seconda riveduta, il che dicevasi rendere la riveduta " ; e questo soleva farsi o l'indomani mattina della prima riveduta, overo il lunedì a mezzodì, ossia al ricominciare dei lavori della settimana ?. Se la fossa o mentre stava a riveduta non cessasse dal lavoro, o poscia lavorasse contro quanto era stato prescritto nella riveduta dei Maestri del Monte o d’alcuno di loro, era reo di riveduta rotta È , e tutte le lavo- riere che si mettessero contro la riveduta erano morte, nè alcuna nuova lavoriera si poteva cavare da coteste lavoriere morte, ed ogni altra fossa che vi ferisse le poteva trattare # sì come le proprie lavoriere. Il col- pevole di riveduta rotta punivasi inoltre in marchi dieci d’argento, se accusato ne fosse dall’ altra parte; ma a tale pena sottoponevasi la per- sona sola che avesse commesso l’eccesso, e non la fossa, ossia il com- mune dei parzonavili. Se alcuno mettesse fuoco o se rinfrescasse segno contro riveduta, consideravasi come riveduta rotta, e doveva pagare la soprascritta pena, ed era fatto ristare, infino a tanto che l’altra parte fosse ristorata °. Se monte vecchio o mezzanule ($ 104) cadesse, i Mae- stri del Monte dovevano darne a caduna delle fosse la sua parte a loro provedimento, ponendo mente di darne la maggior parte a quella fossa che avesse lo capizzuolo © più inanzi ?. Che se alcun maestro di fossa volesse lavorare li mezzanuli, poteva sforzare l’altra parte di lavorarli a sua volta, ovvero di vendere la parte sua, a stimo di due Maestri del Monte ; e la fossa che non volesse lavorarli, era tenuta di prendere l’uno dei due partiti, a sua scelta ®. 143. Abbiamo notato, trattando dei bottini e dei canali (S 98, 101), che non poca oscurità, la quale non ci veniva fatto di dileguare, ha luogo tuttora in quanto riguarda questi due lavori di fossa; oscurità che troviamo principalmente appunto nelle prescrizioni relative alle rivedute e alla scandigliatura ©. Scandigliare alcuna cosa era verificarne 1’ esat- $ 142. 1) Br.106% 1-2; 106b 6-8; 118° 35-37. 2) Br. 106% 1-3; 106b 4-9. 3) Br.122% 18. 4) Br.111% 4; in documenti latini expletare, corrispondente al francese exploiter. 5) Br.110b 30-111% 4; 122% 17-26. 6) Br.136° 39, capizuolo; 137% 9, capissolo (secondo la scrittura Pisana). 7) Br.122° 22-26; 1372 4-9. 8) Br.1372 9-15. $ 143. +) Br.28° 20; 28b 19. 332 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE tezza: dicevasi delle misure, sia dei liquidi ? come dei solidi È; dicevasi dei pesi #, onde anche prendeva nome l'officio di scandigliatore delle statere ” ; trattandosi di un bottino o di un canale, scandigliarlo signifi- cava verificare se andava diritto. Abbiamo notato a suo luogo (S$ 98-99) alcuni dei privilegi del bottino finchè andava diritto e godeva diritto di bottino ; che se deviasse dal retto cammino, i Maestri del Monte dove- vano darlo per volta, e più non era doztino ®. Uno e principale di questi privilegi era, che per regola generale i bottini non erano tenuti a cessare dal lavoro mentre stavano a riveduta ?. Inoltre laddove, a pro- vedimento di due Maestri del Monte, potevasi far rivedere una fossa la quale fosse volta così da lunge come da presso ® » una fossa per una parte e un canale o bottino per l’altra, se il bottino o canale fosse in lavoro di tenero senza fuoco passi diciotto, o in lavoro di fuoco passi dodici, non potevano farsi rivedere l’ un l’altro se non fossero vicini a passi quattordici o meno. Quando poteva aver luogo la riveduta, il bot- tino, a provedimento dei Maestri del Monte o di due di loro, faceva ri-. vedere la fossa il venerdì a terza, e la riveduta si rendeva il lunedì a mezzodì ; la fossa faceva rivedere il bottino il sabbato, e rendevasi la riveduta la domenica a sera. Che se l'una parte dicesse che l’altra voleva farla rivedere maliziosamente, doveva starsi al giudizio di quattro buone persone, come per le fosse ®. Ed era lecito ad ogni fossa fare scandi- gliare il bottino, canale o altro lavoro d'argentiera che le fosse presso a passi diciotto almeno in monte tenero, o a passi dodici almeno in monte sodo, per conoscere se andasse diritto secondo la forma del Breve; e la scandigliatura doveva farsi dai Maestri del Monte il sabbato dopo che il bottino avesse lasciato l’opera, o in altro dì che il bottino non lavo- rasse ‘°°; non dovendo per la scandigliatura interrompersi il lavoro del bottino. 2) Br.592 27-29. 3) Br.39b 18-36; 134° 12-17. 4) Br. 15 19-24; 28° 14-17; 28b 14-19. 5) Br. Lib.I, cap xLI. : 6) Br. 114% 34-35. 7) « Ogni fossa che non sta a riveduta si possa lavorare sì come boctino ». Br. 118° 13-14. 3) Br.117b 20-23. 9) Br.118% 23-118b 8. 10) Br. 1192 13-48. IN VILLA DI CHIESA DDA) 144. Tali erano le norme finchè le fosse che gareggiavano tra loro non erano insieme fondorate (S 104); ma appena una fossa proseguendo i suoi lavori fondorasse con un’altra, se l'una delle parti vietasse che si continuassero i lavori, dovevano cessare incontanente, sotto pena di libre dieci d’alfonsini minuti. La prova si faceva per testimonii, che non fos- sero parzonavili della fossa che faceva l'accusa; e la parte accusatrice veniva, a provedimento dei Maestri del Monte, restituita del lavoro che . l’altra parte avesse fatto dopo ’1 vietamento, il quale doveva farsi dal maestro o dallo scrivano della fossa, o da guardie giurate . 145. Appena i Maestri del Monte erano avvertiti che due fosse fondo- ravano insieme, dovevano fra esse rizzare i partiti. Dicevansi partiti i limiti o termini ", che si piantavano o rizzavano (rizzare, o più vera- mente con iscrittura pisana r‘ssare, costantemente il Breve di Villa di Chiesa ; il Costituto di Massa partitum ponere) per dividere o partire ® le lavoriere apparteneuti a caduna delle fosse gareggianti ©. I partiti che dai Maestri del Monte, prima che accuratamente si fossero potute esa- minare le ragioni delle parti, si rizzavano al primo istante, affinchè in- tanto con danno vicendevole non restassero interrotti i lavori delle due fosse ‘, dicevansi partiti non stanziali ®©; e all'incontro partiti stan- ziali ®, o anche partiti finali, quelli, che si rizzavano affinchè fossero limite definitivo tra le due fosse. Quando avevano a rizzare un partito, i Maestri del Monte dovevano entrare nelle fosse, e vedere accuratamente luna e l’altra; ed era d’uopo che fossero due Maestri almeno, salvo che S 144. 1) Br. 119% 44-119> 13. S 145. :) Mancano le voci limite e termine in questo senso alla Crusca, ma la prima si legge nel Vocabolario del MANUZZI col seguente esempio tratto dal Borg. Orig. Fir. 85, col quale si confermano ambedue quesle voci: « Talchè trovandosi in una possessione ecc. limiti Graccani, » per usare la voce propria loro, che noi con un’ altra pur delle loro diciamo termini ecc. ». 2) « La sesta compagnia in due si parte ». — DANTE. 3) Nel Costituto di Massa trovasi anche a modo di spiegazione la denominazione di termini: « singula partita stantialia et termini stanliales, tam vetera quam de novo facta et fa- « cienda ..... . omnia partita stanlialia et termini stantiales que fecerint Magistri predicti, vel » alii offitiales Montis, vel arbitri et amici communes a parlibus electi ex forma Slatuli » ; ossia, secondo il precedente cap. xvi: « Qui sic elecli habeant plenum mandatum, parlita fam stan- » tialia quam non stanlialia ponere ». 5) « Ita quod laboratores laborent et non stent frustra; quousque partilum positum fuerit » in fondorato vel fondoratis, ut partes non graventur sumplibus et expensis ». M.v, 15-18. 5) Br.103b 44-46; 136% 34-35; M.xx1, 14; xxvMI, 24-25; Lv, 19. 6) Br.105b 46-47; 136° 35; M.xvur, 4; 2; xxn, 2; 3-5; xxvir, 3-6; xxvm, 26. I 3534 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE ambe le parti fossero in concordia di un Maestro, quel Maestro anche solo poteva rizzare il partito ?. Intorno ai partiti che si rizzavano per li Maestri del Monte troviamo nel Breve di Villa di Chiesa le seguenti prescrizioni, in parte assai oscure, e che cercheremo di rischiarare col confronto anche delle prescrizioni corrispondenti del Costituto di Massa. Nel Breve adunque è ordinato, che tutti i partiti che si rizzassero dai Maestri del Monte, salvo partiti stanziali, debbano giudicare ogni punta un passo, così d'asta come di puntello; nè alcuna punta di puntello nè d’asta non possa essere mossa se non avesse capizzuolo di mezzo braccio dinanzi al puntello, « cioè che abbia oltra lo pontello o l’asta overo al- » .cuno de li decti pontelli et asta a mezo bracio per traverso ». E quale fossa avesse passata alcuna delle dette punte braccio mezzo per traverso o più, quella cotale punta sia mossa; e li Maestri del Monte siano te- nuti, quando rizzeranno alcun partito, di dire alli maestri delle fosse , overo al loro lavoratore se il maestro non vi fosse, se di quel partito fosse mossa alcuna punta, e quale; e questo doveva dire palesemente a catuna delle parti prima di dipartirsi: e ciò sotto pena di libre dieci d’al- fonsini minuti ®. Appare da queste d'altronde assai oscure prescrizioni, che partito dicevasi anche tutta la linea di delimitazione o divisione fra le due fosse, ossia anche il tratto che correva dall’uno all’altro dei par- titi o termini rizzati dai Maestri del Monte; e che dei termini o partiti che si rizzavano nei luoghi opportuni per definire questa linea di divi- sione la parte ritta o di mezzo dicevasi l'asta, ed era sostenuta da pun- telli che la sorreggevano ai lati; il che è confermato anche da una prescrizione del Costituto di Massa, dove si stabilisce la pena di chi muti o guasti l'asta o il puntello di un partito tra due fosse . Tutto il contesto di quel passo del Breve sembra inoltre indicare, che da ambe le fosse i lavori dovevano tenersi lontani almeno mezzo passo sì dall’asta, come dal puntello, dove questo fosse, del partito. 146. Ma in quanto ai partiti tra le fosse la prescrizione più notevole è quella del Costituto di Massa, la quale per la sua importanza daremo qui per intero letteralmente tradotta : « Dei partiti posti e da porsi. » Parimente (ordiniamo), che tutti i partiti stanziali posti e da porsi 7) Br.136b 13-24. 8) Br. 1362 34-136b 13. 9 Moxx1, 4-8; 13-14. IN VILLA DI CHIESA 335 » tra le varie fosse, sia dai Maestri (del Monte), sia dagli arbitri e con- » ciliatori ed amici communi eletti dai parzonavili di volontà e concordia » delle parti ”, di poi che saranno fatti e posti debbiano essere calami- » tati e segnati colla calamita; e nello istrumento della sentenza si » scriva, a che vento guardino i partiti, affinchè se i detti partiti venis- » sero mutati, si possano rifare, e restituire nel pristino stato. La quale » calamita e l’artifizio col quale si calamiterà debba stare presso i Ca- » merlinghi del Commune nella Camera del Commune di Massa, per » prestarlo e somministrarlo quando e quante volte fosse necessario per » porre gli anzidetti partiti, e farli scrivere, e conoscere a che vento » partiscano » ?). Non può esser dubio, che qui si parla della calamita od ago ma- gnetico ; come dimostrano le parole 7a quale calamita e l’artifizio col quale si calamiterà : e più ancora il dirvisi, che per tal mezzo si deter- mina « a che vento guardino i partiti ». La prescrizione, che la calamita dovesse custodirsi dai Camerlinghi nella Camera, ossia nel Tesoro, del Commune, dimostra, che era artifizio raro tuttora e costoso. Nè alcun vestigio se ne trova nel Breve di Villa di Chiesa. Appare inoltre da questo passo, che non si facevano piani o tipi; poichè ivi si dice non di segnare i partiti e la loro direzione sul piano, ma semplicemente, che i Maestri del Monte avessero a scrivere nella loro sentenza, a qual vento i partiti fossero rivolti. A questo definire i partiti tra le fosse si rife- risce parimente senza dubio anche l’altra prescrizione del medesimo Co- stituto di Massa: che i preposti all’ arte della rameria dovessero far fare a loro spese tre squadre di ferro per cordeggiare i partiti quando oc- corresse, le quali parimente avessero a tenersi presso i Camerlinghi del Commune, che le prestassero a chi volesse cordeggiare partiti ?. 147. Le vie che conducevano ai partiti dovevano essere tenute libere e nette dal lato dell’una e dell’ altra fossa, affinchè i Maestri del Monte potessero andare e vedere i partiti ogni volta che occorresse ". Così nel. Costituto di Massa; dove è inoltre stabilito, che chi mutasse o guastasse un partito stanziale, pagasse di pena libre cento di denari per ogni volta, $ 146. 1) Secondo il prescritto di M.xxvir, 12-29. 2) M.xVuII. 3) M.xx. $ 147.3) M xx. 336 DELL'INDUSTRIA. DELLE MINIERE oltre l’emenda dei danni, a provedimento dei Maestri del Monte o di altre persone da eleggersi a tal fine, se nel definire la somma del danno le parti non venissero in concordia; che se alcuno mutasse o guastasse partito non stanziale, la pena era della metà minore, ossia di sole libre cinquanta, oltre il compenso dei danni ?. In Villa di Chiesa la pena di chi rompesse o facesse rompere i partiti rizzati dai Maestri del Monte, ossia che non osservasse detti partiti (chè come riveduta rotta (S$ 142), così dicevasi partito rotto quando da alcuno non si osservasse la riveduta o il partito), era di marchi dieci d’argento, se accusato ne fosse dall’ altra parte, e il lavoro fatto era morto ° ). In Massa la pena era di libre xxv di denari, e le cose dovevano ridursi all'antico stato, e compensarsi i danni ‘). 148. I Maestri del Monte avevano inoltre autorità giudiziaria in tutte le questioni di fosse, e potevano intendere e definire tutte le questioni che fossero alla montagna, sotterra o sopraterra, e dare sentenza ; e le sentenze che si dessero per li Maestri del Monte o la maggior parte di loro, sì che fossero cinque almeno, valevano e tenevano sì come fossero date per l'Assessore di Villa ". Dovevano intendere ragione in dì feriati e non feriati ??, in quel luogo del Palazzo di Villa che era destinato per la loro Corte; ma, se occorresse, erano tenuti rendere ragione anche d. La forma dei loro giudizii era questa. Venute le parti alla montagna dinanzi ai Maestri del Monte, dovevano produrre i loro testimonii e mostrare le loro ragioni e prove fra di quindici poi che la lite fosse incominciata , e queste dovevano apparire scritte nel libro dello scrivano dei detti Maestri; di po’ i dì quindici alcuna ragione o prova non si po- teva dare o produrre o mostrare da alcuna delle parti, e se mostrata fosse, non valeva nè teneva; salvo se le parti fossero in concordia, po- tevano prolungare il soprascritto termine a loro volontà. Le sentenze dei Maestri del Monte dovevano essere pronunciate fra giorni ventiquattro dacchè la. questione venne loro dinanzi, e ciò sotto bando e pena a cia- scuno di loro di libre dieci d’alfonsini minuti; sì veramente, che se le 2) M.xxt. 3) Br.1222 10-17. 4) M.v, 29-49. S 148. +) Br.1042 42-104b 7; 105» 17-20. 2) Br.70b 41-44. 3) Br.109b 34-110? 8. IN VILLA DI CHIESA 337 parti fossero in concordia di prolungare il tempo, fosse loro lecito ‘. È stabilito nel Breve, che i Maestri del Monte debbano sentenziare e dare ragione « per loro tanto, segondo la forma del Breve, sensa alcuno ad- » Juncto »; ma tosto si soggiunge, che se essi o la maggior parte voles- sero aggiunti in alcuna questione in Villa o in monte, per usare consiglio delle questioni che fossero dinanzi da loro, per meglio conoscere la ra- gione, che ne potessero avere tanti quanti loro piacesse, mon ostante alcuna contrarietà che in quel Capitolo di Breve fosse ?; onde appare, che i Maestri del Monte potevano bensì prendere aggiunti a consiglio, ma ch’essi soli dovevano proferire la sentenza. Se per lite che fosse stata fatta, o per rizzare od acconciare partito che fosse stato definito, in tempo di Maestri del Monte anteriori, avvenisse che i Maestri del Monte nuovi avessero bisogno del concorso dei Maestri vecchi, questi vi dove- vano andare ove ne fossero richiesti, e di ciò avevano salario soldi sei il di ®. Nel Costituto di Massa è stabilito, che se dinanzi dei Maestri del Monte fosse alcuna questione non regolata dal Constituto, questa avesse a definirsi a norma del Capitolo più simile ?. Nel Breve di Villa di Chiesa è posta dapprima invece la regola generale, che se alcuna lite fosse mota della quale nel Breve non fosse menzione, questa dovesse definirsi per forma del Costituto di Villa di Chiesa ®; e se ’1 Costituto non ne parlasse, dovesse sentenziarsi secondo la forma della ragione e di legge . Per le questioni di fosse poi si prescrive inoltre particolarmente, che se alcuna lite o questione fosse alle montagne, sotto terra o sopra terra, della quale non parlasse il Breve, i Maestri del Monte avessero facoltà di fare comandamento infine in un marco d'argento, ossia di con- dannare fino in un marco d’argento per ogni volta chi non osservasse i loro comandamenti ‘. Del resto, ove mancasse la legge, giudicavasi per consuetudine e buona usanza, nè era necessario che fosse approvata per legge; chè, dice il Breve, la terra ed argentiera di Villa di Chiesa era 4) Br.105% 37-105b 11; 104b 14-20. 5) Br.104b 3-14. 6) Br.120b 21-34. 7) M.v, 72-75. 8) Senza dubio era a un di presso conforme al Constitutum legis et usus di Pisa, che si publica dal BoNAINI, nel secondo Volume degli Statuti inediti di Pisa. 9) Br.7? 14-20. 10) Br.136. 25-32. Serie II. Tom. XXVI. 43 338 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE stata allevata per consuetudine d’usanza osservata nella detta terra, e non per legge. Tale consuetudine e buona usanza si provava colla testimo- nianza giurata di sei buoni uomini eletti per ciò dal Rettore, o dal Ca- pitano o dal Giudice !”. 149. In Villa di Chiesa era libero ad ognuno, sì borghese come fore- stiere, essere avvocato nelle liti altrui; salvo nobili o di paraggio , ai quali era proibito avvocare !®, ed essere procuratori altrui, sotto pena di libre venticinque d’alfonsini minuti ?. Ma inoltre ai Maestri del Monte, in tutto il tempo del loro maestratico e per un mese dopo esciti dal- l’officio, era proibito avvocare per qualunque questione che fosse davanti la Corte dei Maestri del Monte; salvo che caduno di essi poteva avvo- care per la fossa onde fosse maestro o parzonavile, purchè la lite non fosse contro fossa che durante il suo maestratico fosse stata a sua rive- duta ©. I salari degli avvocati, sì nelle altre liti come in quelle dinanzi la Corte dei Maestri del Monte, non potevano eccedere la somma stabilita dal Breve; ed era nominatamente proibito che in qualsiasi piato il quale dinanzi alla Corte di Villa o a quella dei Maestri del Monte si facesse di trente o d’alcuno lavoro d’argentiera, o d'altra cosa, non si desse per salario trenta o parte di trenta, quand’ anche ciò si facesse sotto nome di donagione o di compra ‘. 150. Ma le sole liti relative alla coltivazione delle fosse ‘e alle loro ragioni e ai confini fra le fosse vicine erano giudicate dai Maestri del Monte ; le liti relative alla proprietà medesima delle fosse , come pure tutte le liti di trente o di bistantaria, erano giudicate dai giudici ordi- narii . Nel Breve di Villa di Chiesa non è stabilito, come e da chi do- vesse decidersi la questione di competenza, se avvenisse che l’una parte dicesse appartenere la lite ai Maestri del Monte, l’altra parte volendola trarre ai giudici ordinarii. In Massa tale questione si commetteva al giu- dizio di sei uomini tratti dall'arte delle fosse, che si eleggevano dal Ca- pitano di Massa, e dai Priori dei Signori Nove ®; ed un esempio di tali 11) Br.5° 25-5b 10. 6149. 1) Br. dita 34-111b 6. 2) Br.72b 21-32. 3) Br.1112 36-111b 18. 4) Br.722 31-729 9. 6 150. 1) Br. 82 18-25; M.LvII, 30-47; 90-99. 2) M.Lvir, 84-89. IN VILLA DI CHIESA 339 giudizit ci venne conservato in un documento di Massa dell’ anno 1297 ’. Inoltre, laddove in Villa di Chiesa nelle altre liti, se alcuna delle parti richiedesse, doveva il Capitano od il Giudice usare consiglio di Savio in Castello di Castro o in altra parte di Sardigna, ossia di quel Savio che le parti volessero se di ciò fossero in concordia, altrimente di quello che paresse ad esso Giudice, e ciò alli spendii della parte che lo domandasse : in lite di fosse o di trente o di bistantaria non era lecito usare consiglio fuori di Villa di Chiesa; che se il Giudice o Rettore dubitasse , o non conoscesse la questione, eragli concesso di avere consiglio con quattro buoni argentieri o più, a sua scelta, e senza manifestarli ad alcuna delle parti; sì veramente, che non si prendesse consiglio da persona che non fosse di Villa di Chiesa, e che per questo usare consiglio non si prolun- gasse il termine del pronunciare della sentenza a più di otto dì oltre i cinquanta che erano stabiliti per la definizione delle questioni ordinarie ; infra li quali dì otto se non venisse il consiglio, dovesse giudicare come meglio a lui paresse di ragione *. E da questo medesimo proposito, d’im- pedire che la conoscenza delle liti di trente o di fosse non si traesse fuori di Villa di Chiesa, aveva origine la proibizione di appellare in sif- fatte liti ?; laddove nelle altre liti si aveva appellagione al Governatore nel Capo di Cagliari. 154. Per estimare i beni mobili ed immobili che fossero incantati, e che si assegnavano in pagamento al creditore ($ 53) si eleggevano ad ÉEsti- matori dal Consiglio di Villa di Chiesa in presenza del Rettore o Capi- tano quattro uomini, che avessero a stimare, quando ne fossero richiesti, tutti li beni mobili ed immobili che fossero incantati secondo la forma del Breve. Di questi quattro uomini due dovevano essere argentieri, e prendevano il nome speciale di Estimatori di Monte ”; da essi dove- vano estimarsi le fosse e le trente. Per quello non vacavano da altro officio; ed erano tenuti giurare di fare 1’ officio bene e lealmente. Avevano per salario un denaro per ogni libra che montasse il loro estimo ; ed inoltre se dovessero per ciò andare alla montagna, soldi sei per la via ?. 3) Append. III. 4) Br.8° 6-37. 5) Br.9? 30-33; 105» 20-21. $ 151. +) Br.30b 27. 2) Br.25b 24-43; 36b 27. 340 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE 152. I Maestri del Monte pigliavano salario dalle fosse, a benefizio delle quali esercitassero il loro officio. E così se rizzassero alcun par- tito fra due fosse, avevano da catuna delle parti per ogni partito stan- ziale soldi dieci, e per ogni partito non stanziale soldi cinque. Per ogni riveduta di fossa soldi dodici dalla parte che faceva rivedere ; e doveva ancora, se richiesto ne fosse, rendere il mattino seguente la riveduta fatta la sera. Il Breve soggiunge: « Et che per alcuna riveduta li » Maestri del Monte nè alcuno di loro possano nè possa ponere alcuno » stallo, se richiesto non ne fusse; et se richiesto ne fusse, debbia » avere soldi ni lo die, et non piò; et che per alcuna via che faces- » sino ad monte non possano ponere alcuno stallo, se richiesto non ne » fusse in prima ». Non so imaginare, che mai possa essere questo ponere stallo ; non se ne trova menzione altrove nel Breve. — Di catun comandamento che facesse, il Maestro del Monte aveva denari sei; di ogni scandigliatura di bottino o di canale se va diritto, soldi sei per catun Maestro che scandigliasse, da quello che fa scandigliare; di ca- tuna via che desse da alcun bottino in lavoriere d'altra fossa, per cia- scuna stonfa soldi due, cioè un soldo dal bottino e uno dalla fossa, sì veramente che non passi stonfî quattro ; e se più ne facesse, non abbia più di soldi otto tra le due parti. E qui parimente non comprendiamo che cosa sia stonfo o stonfa. — E se alcun Maestro fosse richiesto di stare tutta la settimana per alcuna fossa, gli spettavano per suo salario soldi trenta, nè poteva partirsi senza il consenso del maestro della fossa; essendo tenuti i Maestri del Monte di stare continuamente di dì e di notte per fare ed operare il loro officio quando fossero richiesti. Per le liti o piati e per le sentenze quali diritti si dovessero ai Maestri del Monte, non è detto, ma soltanto, che le spese ne erano a carico della parte perdente ". — Oltre gli anzidetti salarii si doveva ai Maestri del Monte l'indennità di via: ossia da Villa a monte soldi sei, compreso il cavallo; e da una fossa ad altra di una medesima montagna, sì vera- mente che entrasse nella fossa, soldi due ; e se da una ad un'altra imontagna, soldi quattro se fossero presso a miglia’ tre o meno, e se fossero più da lunga soldi sei, come se venisse di Villa. Pel pagamento del loro salario e indennità di via potevano far pegnorare a cui fosse fatto il servizio. Era poi espressamente vietato ai Maestri del Monte $ 152. +) Br. 115* 19-21. IN VILLA DI CHIESA 341 di porre ad alcuna fossa alcuno denajo per loro servizio se non l’aves- sero servito, pena per ogni volta libre dieci d'alfonsini minuti; e se lite ne fosse, dovevano mostrare la loro ragione bene e lealmente. Se abisognasse menare alcuno aggiunto alla montagna, gli si davano per salario soldi sei, e per suo séa//atico soldi due, e non più. Tutto il guadagno che facessero i Maestri del Monte o alcuno di loro (salvo le indennità di via, e il salario per restare tutta la settimana a monte, e e si trattasse di fossa che fosse messa in mano ossia della quale fosse stata affidata la direzione ad alcuno di loro) doveva essere commune a tutti i Maestri del Monte, e partirsi fra loro per testa ; e quale Maestro frodasse alcuna cosa del commune guadagno, pena per ogni volta libre dieci d’alfonsini minuti, e nondimeno fosse tenuto di re- stituire quello che avessero frodato ?. Lo scrivano poi dei Maestri del Monte aveva della esaminatura di catun testimonio denari quattro ; di catuna sentenza soldi due ; e di catun partito stanziale soldi dieci d’ambe le parti ’. Questo aggiunto, che se le parti volessero che si scrivessero le partite, lo scrivano fosse tenuto di scriverle se ne fusse richiesto ; e se non ne fosse richiesto non era tenuto, e nondimeno doveva essergli pagato il salario ordinato ‘. 153. Era vietato ai Maestri del Monte e al loro scrivano in tutto il tempo del loro officio e da inde a uno mese di porre o far porre segno sopra fossa che fosse stata a loro riveduta, nè comperare o dar con- siglio a comperare dette fosse, o alcuna fraude commettere. E nessun Maestro del Monte che avesse parte in alcuna fossa poteva durante l’of- ficio del maestratico entrare in tale fossa per rivederla, nè in fossa che stesse a riveduta con quella nella quale il Maestro del Monte avesse parte, salvo se entrasse con volontà delle parti che facessero rivedere insieme ; ed avendo in prima manifestato, sì com’ egli aveva parte in al- cuna delle soprascritte fosse. Che se il Maestro del Monte contro alcuna delle soprascritte cose facesse, pena infine in marchi dieci d’ argento per ogni volta ”. Se alcun Maestro del Monte o loro scrivano fosse trovato in fraude nell’ esercizio del suo officio, pena infine in libre cin- e e e ————TT—— T__r_r—rrPm--r--——_——_—_—_——_______m_—_—_—m_ 2) Br.105b 42-106b 22. 3) Br.106b 41-107? 3. 4) Br.107b 13-17. $ 153. 1) Br.120° 35-120 90. 342 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE quanta d’ alfonsini minuti, e perdeva l’ officio, nè più poteva essere Maestro del Monte o scrivano indi a dieci anni ?). Ed il Capitano overo Rettore doveva costringere alquante persone, in quel numero che a lui paresse, li quali fossero tenuti investigare segretamente , se li Maestri del Monte e li altri officiali nell’ argentiera servassero quello che erano tenuti per loro officio; e se fossero trovati in fallo, il Capitano doveva condannarli ad arbitrio, considerata la qualità del fatto e delle persone, sì veramente che non oltrepassasse la forma del Breve. E queste per- sone secrete erano tenute denunziare tutti i malefizii che non fossero puniti per li Maestri del Monte e li officiali delle fosse, e doveva loro essere tenuto credenza: pena al Capitano, se non osservasse le predette cose, libre cento d’alfonsini minuti *). 154. Simili ma pure in alcuna parte diverse da quelle di Villa di Chiesa erano le norme, che reggevano l’instituzione dei Maestri del Monte in Massa. E per cominciare dal nome, noteremo che in Villa di Chiesa sono costantemente detti Maestri del Monte; laddove in Massa sono detti promiscuamente, o talora con intero nome Muestri della Corte det Monte *, o per l’ordinario più brevemente sia Maestri della Corte ®, sia Maestri del Monte ®. Erano tre: del quale minor numero troviamo la ragione nella ristrettezza del territorio, e nell’ assai minore sviluppo di questa industria. Eleggevali a scrutinio secreto il Consi- glio Maggiore del Popolo di Massa. Il loro officio era a un di presso conforme a quello dei Maestri del Monte in Villa di Chiesa ®; ma lad- 2) Br.1252 16-19; 107% 12-17. 3) Br.21b 3-25. $ 154. +) Magistri Curiae Montis: M. xxxv, 24; Lv, 86. 2) Magistri Curiae : M.11, 16; v, 10; 28; 41; 60; 85; vi, 4-5; 30; vor, 10; xx, 10; x, 9; xxut, 9-10; xxvI, 4; xxxv, 28; Lv, 1; 8; 15-16; Lx, 1; 2; LXI, 17; Lxvui, 5; Append. III, 3-11. 3) Magistri Montis: M. vi, 20; xvi, 5; xxIv, 8; xxv, 11; xxvi, 57; xLMI, 8; XLVI, 5; 8; LI, 5; 6; Lr, 8; LI, 2; Lv, 1-3; LXI, 1; 6; LxI, 6; 14-15; 22-23; 26; Lxv, if; LxvII, 3. — Che poi queste tre denominazioni significhino una medesima cosa, appare da parecchi dei passi citati, dove esse sono adoperate promiscuamente. Così M. vi, 20-31: « quod Ma- » gistri Montis dicte civitatis possint concedere licentiam posse micti ingnis ....... supra- » scripti Magistri Curie possint concedere licentiam inmictendi ingnem ». E . xxxv, 24-28: « in Magistros Curie Montis ........ quod si aliquis dictorum Magistrorum Curie ». Similmente xxv, il e xxvI, 3-4: « Magistri Montis artis ramerie dicte civitatis ........ quod quilibet predi- » ctorum Magistrorum Curie ». Si confronti anche 27. LVII, 84-89 con Append. III, 3-11. 4) M.Lvi, 2-84, IN VILLA DI CHIESA 343 dove questi dovevano esercitare il loro officio per sè medesimi, e sol- tanto potevano prendere aggiunti per consiglio, in Massa talora dele- gavano taluna delle loro funzioni ad alcun maestro di fossa ”. Inoltre in Massa se i Maestri del Monte, i quali, come dicemmo, erano soli tre, si trovassero occupati in alcuna fossa, ed in altra intanto sorgesse gara: dal Consiglio Maggiore di Massa si eleggevano tre altri Maestri del Monte, l’officio dei quali si restringeva a terminare la gara per 9. Se nella stessa vena o filone (ad montem la quale erano nominati drictum ) due fosse fondorassero insieme, il Costituto di Massa, allon- tanandosi in ciò dai principii ond’ è informato in questa materia il Breve di Villa di Chiesa, dichiara che il rizzare fra esse partito non appartiene all’ officio dei Maestri del Monte ?, ma doversi eleggere dalle parti quattro arbitri, con piena facoltà di rizzare fra quelle fosse partiti sì stanziali che non stanziali, e di terminare le questioni ®. Quando inoltre sorgeva gara tra due fosse, il Capitano del popolo di Massa, se alcuno dei parzonavili glie lo domandasse, doveva far venire dinanzi a sè i parzonavili delle due fosse gareggianti, e far loro dichia- rare secretamente per giuramento, se bramassero di accordarsi; se in ciò consentissero i due terzi dei parzonavili di catuna delle due fosse, doveva costringere tutti li parzonavili, o li due terzi di loro almeno se non gli venisse fatto di tutti raccoglierli, a compromettere la questione o nei Maestri del Monte (sì veramente, che se ‘alcuno di essi fosse parzonavile di una delle due fosse se ne nominasse un altro in sua vece ), overo in altra persona a loro scelta. Le persone così elette, visti i luoghi e sentite le ragioni delle parti, dovevano sentenziare fra dì quindici; e il loro lodo obligava anche i parzonavili che non aves- sero acconsentito al compromesso 9). 155. Più notevole differenza fra le instituzioni dei due paesi si è quella che riguarda le appellagioni. Poichè, laddove in Villa di Chiesa, come abbiamo detto ($ 150), nelle liti di trente e di fosse non era lecito appellare, in Massa non solo non aveva luogo alcuna speciale 5) M.xxXVII 0) M.1x1. 7) « Quia ad eorum officium non pertinet ». 8) M.xxvi, 2-52. 9) M.xxxv. { 844 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE disposizione intorno alle liti di trente, che erano di giurisdizione dei tribunali ordinarii, ma era instituito un doppio apposito magistrato per le appellagioni dalle sentenze nelle controversie di fosse, che si giudi- cavano dai Maestri del Monte. Questo magistrato era detto 0, con intero nome, dei Maestri dell’Appellagione del Monte dell’arte della rameria *; o più brevemente Maestri dell’Appellagione dell’ arte della rameria * ; o anche semplicemente Maestri dell’ Appellagione ©. Essi venivano eletti nella medesima forma che gli altri Maestri del Monte #; i quali, in opposizione ai Maestri dell’ Appellagione, trovansi anche detti Maestri della prima Corte ©. Quelli ai quali si appellava dalle sentenze dei Mae- stri della prima Corte dicevansi Maestri di prima Appellagione ®, e dovevano proferire fra quattro giorni da quello della prima sentenza ”. Se la sentenza dei Maestri della prima Corte e di quelli di prima Ap- pellagione concordasse, diveniva definitiva; se discordasse, era lecito appellarne ai Maestri di seconda Appellagione ©, che a questo fine si eleggevano al modo stesso che i Maestri di prima Appellagione 9. Nè soltanto dalle sentenze dei Maestri del Monte, ma era lecito per tal modo appellare anche dai loro ordinamenti e decisioni qualsiasi '°. Non era lecito tuttavia appellare dalle sentenze che i Maestri del Monte avessero proferito non come giudici, ma come arbitri eletti ', secondo ciò che poco sopra abbiamo esposto. — Anche in Massa come in Villa di Chiesa era stabilito, che le spese della lite e il salario dei giudici dovessero per intero pagarsi dalla parte che soccombesse '. $ 155, +) Magistri Appellationis Montis artis rameriae: M.1vu, 14-15. 2) Magistri Appellationis artis rameriae: M.L1, 6; LxnI, 4-5. 3) Magistri Appellationis: M.xxxv, 25-29; Lxv, 8-9. 4) M.1vi, 6-15; Lx, 20-24; Lxv, 16-18. 5) Magistri primae Curiae: M.Lx1r, 11-16. 6) Magistri primae Appellationis. 7) M.111, 9; vir, 10-11; Lx, 3; LxI, 5-16. 8) Magistri secundae Appellationis. 9) M. Lv, 4-12; Lx, 3; Lx, 16; Lxv. 10) M.LXIV. 1) M.1xuI, 25-27. 12) MM. LXVII. IN VILLA DI CHIESA 345 CAPITOLO VI. Vena, e sue varie qualità. Pestatura. Lavatura. 156. Quello che ora più communemente chiamiamo minerale, a quel tempo dicevasi vera ", e le varie sue qualità trovansi distinte con di- versi nomi. — Siccome nel territorio di Villa di Chiesa sembra che nei tempi dei quali trattiamo non si coltivassero altre miniere che quelle di piombo più o meno argentifero, questo solo minerale riguardano le prescrizioni del Breve; una sola volta vi si fa cenno di altro metallo, dove si parla del diritto di un dodicesimo, che doveva pagarsi alla Corte « così d’argento chome di piombo, overo d’altro metallo, o di rame ® ». E così noi pure, che abbiamo preso a descrivere l'antica industria mi- neraria nel solo territorio di Villa di Chiesa, tratteremo soltanto delle varie qualità della vena di piombo, e dei modi allora in uso per pre- pararla. 157. Ed in prima, la vena della quale trattiamo distinguevasi, come si pratica anche oggidì, in vena di piombo e vena d'argento *, secondo che in essa primeggiava per valore il piombo o l’ argento. La forma più commune sotto la quale si presenta la vena di piombo e argento si è il solfuro di piombo, che già presso i Latini trovasi designato col nome tuttora in uso di galera ? ; nel Breve e negli altri documenti di quella età trovasi corrotto nelle varie forme di galanza ? (forma in uso ) 156. +) Br.6° 11; 155 32; 35; 51% 18; 775.28; 87» 5; 89? 35-45; ed altrove spesso. 2) Br.1392 6-7. $ 157. 1) Br.135* 10; Suppl., Doc. dei 9 marzo 1317. 2) PLIN. Hist. Nat, XXXI, XXXI: « vena plumbi: galenam vocant ». — AXAZTI, XLVII: « molybdaena, quam alio loco galenam vocavimus, vena argenti plumbique communis ». 3) Br.130b 25. Serie II. Tom. XXVI. 44 346 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE tuttavia ai nostri tempi in Sardigna), ghiletta ®, gliletta ®, chiletta ®, e nei documenti latini agwileta ?, aghilecta ®, aglecta ®, gileta *®, agecta ‘ ; noi, coll’ autorità di Plinio, e seguendo l’uso dei moderni autori, la chiameremo costantemente galera. Del resto sembra che a quel tempo sotto questo nome s'’ intendesse il solo solfuro di piombo puro, ossia quello che oggi più particolarmente in Francia viene detto alquifoux, ed in Italia da alcuni a/chifoglio ; se ne fa uso per la ver- niciatura della terraglia. 158. Alla galena troviamo opposta, e considerata come di minor va- lore, la vena grossa ; così la chiamiamo, quantunque nel Breve in più d’un luogo sia detta vera rossa ”. Non comprendevamo difatti, quale vena di piombo si designasse sotto questo nome ; nè sapevamo in- durci a riferirlo al minio nativo, che raramente ed in piccola quantità trovasi in quelle miniere; nè altra vena ci si offeriva, alla quale quel nome potesse convenire: quando infine in un luogo del Breve incon- trammo usati promiscuamente vera rossa e vena grossa ?; sì che avemmo a persuaderci, che erano due forme di un’ appellazione mede- sima, e che come in Toscana il popolo anche oggidì elide od assor- bisce la consonante iniziale, dicendo, per esempio, una razia per una crazia, così anche allora nella pronunzia pisana vena rossa era la me- desima cosa che vera grossa, sì che quella prima forma corrotta era semplicemente l’espressione di un idiotismo di pronunzia toscana. — 3 Troviamo anche in un luogo nominata vena cioè grossame ©, colla quale appellazione crediamo intendersi la medesima cosa che con quella 4) Br. "77b 32. 5) Br. 78? 1. 6) Br.77b 22. 7) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxx, 7; 8; 17; 19; 23; 24. 8) Cod. Dipl. Eccl., XIV, x, 17, 9) Cod. Dipl. Ecel., XIV, xn, 11. 1o) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxv. 11) Breve Pisani Communis, McecLxxXxVI, Lib. III, cap. xLIII. | 158. 1) Br.130b 22; 25; 137? 20, 2 _ _ - « Ordiniamo, che ogni venditore di vENA ROSSA o menuto, o di qualunqua alira vena, » possa et allui sia licito di vendere a qualunqua persona ..... . per qualunqua pregio et modo » si convirrà colloro comperare. Et che ciaschuno .... possa et allui sia licito comperare VENA » GROssA et menuto et qualunqua altra vena per qualunqua altro pregio et modo sì converrà » con lo venditore ». Br. 1372 20-28. ) 8) Br.135b 11-13 IN VILLA DI CHIESA 347 di vena grossa, ossia la vena in pezzi, quale suole essere quella, che oggi nelle miniere d’ Iglesias è detta minerale di prima qualità. 159. Alla vena grossa ®, o anche semplicemente alla vera ®, tro- viamo frequentemente opposto il minzio o menuto, che senza dubio in- dicava a un di presso quello, che ora nelle miniere d'’ Iglesias viene designato col nome di minerale di seconda qualità, il quale difatti, per maggiore facilità di purgarlo dalla roccia inutile, suole pestarsi assai minuto; che anzi oltre il minzio troviamo nel Breve fatta menzione anche del minutello ®. Che se la vena fosse non a pezzi ma in polvere, se già fosse rezta, ossia separata dalle materie estranee, quella alquanto più grossa e granulata prendeva il nome di grana #, quella finissima 5) dicevasi vera gentile ®; prima poi di essere nettata aveva nome di si Liffo ®, voce che trovasi anche nel Costituto di Massa ? e in altri do- cumenti 8) , e designava la vena trita e quasi in polvere, e frammista a terra e a minutissimi frantumi di roccia ; e dicevasi sì della vena di piombo che di altro metallo. Pare evidente, che con questa voce sili//0 siasi fatto italiano il vocabolo tedesco ©dlit, di simile significazione ; se non in quanto anticamente col nome di siliffo designavasi esclusiva- mente la vena in polvere bensì, ma finchè era tuttora terrosa e lorda, nè ancora per mezzo della lavatura, come vedremo fra breve, ne erano separate le parti inutili ®; laddove ora sotto nome di schZick s'intende promiscuamente tale vena sia prima della lavatura, come dopo ch’ è la- vata e nettata, ossia quella che allora, come notavamo, secondo la varia sua natura, dicevasi grana, o vena gentile. 160. Le varietà che abbiamo indicato tra le vene di piombo in parte provengono dalla diversa natura del minerale, in parte dai lavori e preparazione ai quali si sottopone per arricchirne il tenore metallico liberandola dalle materie estranee, ed accrescerne così il valore in $ 159. +) Br.1372 20-21; 26. 2) Br. 62 10-12. 3) Br. 142b 6-10. 4) Br.132b 19. 5) Br.130b 22-29, dove è opposta alla vera grossa e alla galena. 6) Br.117? 8-2; 118b 21-31; 137b 10-12. 7) M.xLvu, 108; LVII, 93. 8) Append. IV, 28; V, 51; 62. È 9) « Lo ligname restituisca, e la vera del siliffo che fatta avesse, a li suoi parsonavili » di prima ». Br.118b 30-32. la 348 | DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE commercio. — Tratta al die la vena nel modo sopra da noi esposto (S 114), essa si recava a fine ”, o vogliam dire si Zavorava ?, per renderla tale quale si destinava alla vendita e alla fusione. Prima di essere nettata dicevasi vena lorda ®, ed opponevasi per tal modo alla vena netta ‘; il rifiuto o scarto proveniente da questa nettatura dice- vasi albace o albagio ”. 161. Primo e principale dei lavori per nettare la vena era di pe- starla ©; il che si faceva non come ora in appositi cameroni, che con barbaro vocabolo chiamiamo ‘casserie, ma presso la bocca medesima ossia alla piazza della fossa ®, a cielo scoperto, sedendo a terra i pe- statori?, e pestando la vena con martelli * (di uno dei quali ® diamo il disegno, Tav. I, fig. 4) su pietre ivi a tal uso disposte, quali tuttora si vedono presso la bocca di molte antiche fosse; e per simil modo a nostra memoria si praticava a Monteponi, quando quella miniera era coltivata per conto della Regia Finanza. Troviamo poi rela- livamente ai pestatori della vena una prescrizione che non bene com- prendiamo : apparendo soltanto, che era diretta ad ottenere che i pe- statori, ai quali il lavoro probabilmente si pagava in ragione del numero di corbelli di vena pestata, facessero giusta misura. Era cioè stabilito, che tutti i pestatori che pestano vena o pestaticcio , quando verranno a misurare, debbano tenere in sul corbello una croce di legno levatoja allora che si misura; e che la misurazione debba farsi a pala piena, e non mettersi la pala dalla croce in giù, a pena di soldi qua- ranta d’alfonsini minuti per ogni volta; nè quelli che deve ricevere la vena la riceva in altro modo, a quella medesima pena; e di tutto ciò il Capitano debba far mettere bando ®. Se chi avesse prestato denaro sopra la vena trovasse che non fosse pestata a dovere, doveva pestarsi $ 160. +) Br.128b 10-14. 2) Br.118b 32-33. 3) Br.1232 1; 130b 28; 134b 42. 4) Br.123? 1; 130b 28. 5) Si confronti 123% 1 con 125° 42. $ 161, 1) Br. 142° 36-39; 142b 6-11. 2) Br.118b 32-34. 3) Br.142* 36-39; 142b 9. 4) Append. IV, 24: « marttelle da pestare ». 5) Trovato in antichissimi scavi a Monteponi. 6) Br. 142 58-6. IN VILLA DI CHIESA 349 di nuovo, senza che perciò il pestatore avesse diritto a nuovo paga- mento della sua opera ?. — Quella che oggi chiamiamo scarica o di- scarica, ossia il materiale inutile e il rifiuto che si getta a valle dopo separatane la vena, dicevasi geztaticcio ®. Trovasi menzionato anche il petrajo, e sempre congiuntamente al gettaticcio 9; crediamo significhi quelle grosse pietre impregnate qua e là di poca vena, che presente- mente nelle parti d’Iglesias, per la troppa spesa di pestarle e sceverarne la vena dalla roccia, o si gettano alla discarica come cosa inutile, od in alcune miniere si vendono direttamente alle fonderie vicine sotto nome di terza qualità. 162. Ma frequenti sono i casi nei quali la nettatura della vena, ossia la separazione più o meno perfetta della vena medesima dalle materie estranee, assolutamente non può farsi per mezzo della semplice pesta- tura e della cernita a mano, od essa riescirebbe almeno troppo imper- fetta, difficile e costosa. In questo caso in parecchie argentiere di Spagna si netta la vena scuotendola ed aggirandola destramente in un vaglio, sì che la roccia più leggiera e la terra resti al centro del vaglio, e la vena più pesante si raccolga alla circonferenza. Questo mezzo di netta- tura, che necessariamente dà molta perdita, non pare fosse in uso in Villa di Chiesa, poichè non ne troviamo pure il menomo cenno nel Breve; e dove non poteva aver luogo la cernita a mano, a separare il monte sterile dalla vena sembra che, come ora, si facesse uso soltanto della lavatura. Quando sul luogo stesso della cava o ivi presso vi ha copia d’acqua corrente, il lavare la vena è cosa quanto utile altrettanto agevole e di poco spendio; e perciò talvolta la medesima vena, sopra tutto se frammista a molto materiale estraneo ma ricca d’argento, ve- niva dagli antichi sottoposta a parecchie lavature consecutive, in tanto che presso Polibio troviamo menzione di vena d’argento scavata presso il letto d'un fiume, che si lavava fino a cinque volte ”. Non così in Sardigna, paese generalmente aridissimo, e dove in quasi tutte le argen- tiere nonchè esservi acqua abondante per la lavatura delle vene, essa fa difetto non di rado perfino pei bisogni della vita ; pressochè in ogni parte n] 7) Br. 142> 6-11. 8) Br.143b 42; 137 14; 143b 17; 42. 9) Br.1370 14; 143b 17; 42. 162. +) PoLyB. Mist., Lib. XXXIV, cap. 1x, 8-11 (Ex STRABONE). 7 350 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE di quel territorio i rivi o torrentelli sono rari, e per l’ordinario poveri d’acqua od anche interamente asciutti durante gran parte dell’ anno. 163. Questa mancanza d’acqua presso le argentiere faceva sì, che le vene e i silifi che si volessero lavare dovevano con grande spendio portarsi ai luoghi, spesso assai lontani, ove si trovassero corsi d’acqua. La vena di piombo male sopportava tale spesa; la sola vena d’argento poteva portarsi a lavare con benefizio anche a luoghi remoti. Ed erane tanto più il caso, in quanto avviene assai spesso, che la vena ricca in argento sia appunto più delle altre povera per tenore in piombo, e perciò abbia maggiore bisogno di lavatura, per portarla alla ricchezza più convenevole alla fusione. Quindi l’uso della lavatura assai più che non sia ai nostri giorni era estesissimo a quei tempi; del che ab- biamo anche una prova in ciò, che al pari degli argentieri, ossia dei lavoratori alle argentiere, le arti relative alla lavatura, ossia /avoratori di truogora, tulani e modulatori, avevano propria rapresentanza in Villa di Chiesa, ed essi pure dovevano fare proprio candelo ed offerirlo alla Chiesa di Santa Chiara alla festa di Santa Maria d'agosto, che, secondo l’uso di Pisa, era la festa principale e celebravasi con grande solennità ‘ in Villa di Chiesa ”. 164. Nell’ argentiera di Villa di Chiesa di due sole miniere troviamo memoria in antichi documenti, che sul luogo medesimo o ivi presso lavassero la loro vena: Monte Malva, dove tuttavia non era lecito cavare rigagno o piazza da lavare, fuorchè a provedimento di quattro buoni uomini eletti a ciò dal Consiglio di Villa di Chiesa, i quali accertassero che non poteva derivarne danno ai lavori della montagna ” ; e Monte Barlao, che, come abbiamo veduto altrove ($ gr), era probabilmente l'odierno Monte San Giovanni colla sua continuazione di San Giorgio e Is Fossas; nel qual monte la fossa Nasella, e quella detta Galassa, ave- vano caduna una piazza da lavare , e probabilmente per simil modo ne avevano altre fosse di quel monte, nel rivo che gli scorre a piedi in inverno e durante parte della primavera; ed è notevole che, appunto perchè durante gran parte dell’ anno quel torrente è a secco, quella me- desima fossa che aveva una piazza da lavare nel rio di Monte Barlao, $ 163. 1) Br.31b 36-322 7; 322 31-32, 3. $ 164. 1) Br.137b 32-36; 144% 32-34. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 112-119; 128-130; xxxrx, 24-29; 30-34. IN VILLA DI CHIESA 351 una ne aveva parimente nelle acque di Canadonica . — Con provido consiglio, per cessare furti di vena e risse, era proibito presso qualsiasi fossa lavare vena di altra fossa, sotto pena di libre dieci d’alfonsini minuti ; e il Capitano o Rettore, infra un mese all’ entrata del suo of- ficio, doveva di ciò far mettere bando; ed a chi li accusasse spettava la quarta parte del bando, e doveva tenerglisi credenza. Ed ogni mese una volta i Maestri del Monte erano tenuti rinunziare alla Corte di Villa tutti li siliffi che vi si lavorassero; ed il Capitano di Villa mandare per due parzonavili della fossa, e farli giurare se il siliffo fosse della fossa, o se fosse venduto ‘. Simile proibizione di non lavar vena alle fosse aveva luogo anche in Massa; e vi si deputavano persone secrete ‘che denunziassero le contravenzioni, e ne avessero la quarta parte del bando . 165. Era proibito /Zavare monte o vena in Villa, e fuori di essa oltre porta Sant’ Antonio fino all’abbeveratojo, ed oltre porta Castello o Porta Maestra fino al molino di Nino Laggio ® ed alla vigna di Guantino Bella, luoghi ambedue ora incerti, ma che si può presumere fossero discosti da Villa di Chiesa a un di presso quanto l’abbeveratojo; pena a chi contravenisse venticinque libre d’alfonsini, e ogni uomo ne li poteva accusare ?). Salve queste eccezioni, ad ognuno era lecito lavare o far lavare ovunque gli piacesse, senza alcuna contradizione ; ed anzi era lecito cavare a tal uso e deviare qualsiasi corso d’acqua, purchè con quella cavatura non s'impacciasse alcuna via di carri o di asini. Che se s' impacciasse colla fatta cavatura, questa doveva disfarsi, ovvero chi l’avesse fatta era tenuto far acconciare alle sue spese un’altra via, dove le carra e le bestie da soma potessero andare e venire convene- volmente ; se per non essersi racconcia la via ne venisse danno a cosa od a persona, quegli che non avesse racconcia la via doveva mendare il danno, a stimo di due persone che fossero elette dal Capitano e dal 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 126-127: « et etiam plateam furnium, sitam in Canna- » donica » ; xxXIx, 26-30; Suppl., Doc. dei 24 genn. 1340: « et alius pelii terre cum platea ad » lavandum venam, siti in aquis Chanadonice, vocate la piassa del forno ». 4) Br. 102% 31-102b 13; 137b 10-32. 5) M.xxxrx, 3-13. $ 165. 1) Questo medesimo Nino Laggio nominato nel Breve di Villa di Chiesa si trova men- zionato anche in un Documento Pisano dell’onno 1314; Cod. Dipl. Ecel., XIV, 1v, 16. 2) Br.144b 12-26. 359 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Giudice, o dall’ uno di loro, ed: inoltre essere condannato in un marco d’argento per ogni volta. E sotto la medesima pena non potevasi ca- ‘vare acqua, se per quella cavatura s’impacciasse alcuno vicino per l’acqua che ragionevolmente dovesse avere; ed anche pagata la pena, l’acqua restava a chi l'aveva di ragione ?. 166. Le piazze da lavare (che così si chiamavano *, od anche sem- plicemente piazze ®) erano una proprietà stabile come le case, le terre, e come le fosse d’argentiera ; ed, al modo stesso che le altre proprietà, si vendevano o si davano in allogagione ® . Nessuno poteva lavare o far lavare in alcuna piazza, senza il consentimento e licenza di quello del quale fosse la piazza . Talora anche le piazze da lavare non ap- partenevano ad una persona, ma ad un commune o compagnia come le fosse, e la loro proprietà si divideva a trente ; il che probabilmente avveniva sopratutto nel caso, che doveva essere assai frequente, e del quale anche troviamo esempio ? , che alcuna piazza da lavare fosse, direi quasi, annessa ad alcuna fossa, e destinata alla lavatura delle sue vene. 167. Il luogo nelle vicinanze di Villa di Chiesa dove sembra fosse il maggior numero di piazze da lavare si è il rio di Canadonica ”, il quale è il solo di quel territorio che abbia copia d’acqua perenne. Ed era anzi espressamente ordinato, che ad ognuno fosse lecito di lavare vena, o minuto, o gittaticcio, o albace, o tutto altro lavoro di argen- tiera, in tutta l’acqua di Canadonica launque volesse, senza alcuna pena ® ; sempre a patto, bene inteso, ivi pure, di non occupare piazza da lavare che fosse di altrui proprietà #. Troviamo anche menzionate le piazze da lavare nel Canale d’acqua sopra Ghiandili, che tutte ap- partenevano a Barone da Samminiato ; al quale parimente apparte- nevano (se pure non trattasi di una medesima proprietà, indicata 3) Br. 143 39-144% 32. $ 166. 1) Br. 83b 42-43; 932 41-42; 1442 39. 2) Br.922 36; 1442 3; 6; 14; 33. 3) Br. 83b 41-43; 92° 34-36; 93% 41-49. 4) Br. 1442 35-144b 2. 5) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxx1x, 26-38. $ 167. +) Br.6* 10-12; 58b 23-25; 1042 40; Cod. Dipl. Eccl., xxx1x, 29-30; 34-37. Br. 134b 39-44. : 4) Br. 144% 37-42. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 127-128. 2 >) l A RE na IN VILLA DI ‘(CHIESA 353 alquanto variamente e in diversa misura in due diversi documenti ) ventidue trente di una piazza nelle acque di Canale d'Acqua ?. 168. Scarse ed in parte assai oscure notizie ne rimangono intorno al modo, col quale a quei tempi si eseguisse la lavatura ; poichè trattan- dosi di cose allora a tutti note, vengono per l’ordinario accennate di volo e senz’ altra spiegazione, coi nomi allora in uso, di parecchi dei quali è oggi malagevole o forse impossibile accertare la vera significa- zione. Fortunatamente tuttavia non pochi di quei vocaboli o sono voci volgari italiane e di chiara e certa significazione ; o se alcuni sono bensì di origine straniera, durano con eguale o simile significazione in uso anche oggidì: se non in quanto nei documenti di quella età si trovano modificati a forma italiana; laddove ai nostri tempi, perdutasi al tutto la memoria dell’ antico esercizio dell’ arte mineraria in Italia e dei vo- caboli in uso presso i nostri antichi, soglionsi adoperare, anche negli scritti italiani, o le voci originali tedesche, o più communemente le francesi indi derivate. — Colla scorta di questi vocaboli di nota signi- ficazione, e del metodo di lavatura praticato in Sardegna ai nostri giorni, metodo che, nelle sue forme più semplici, e non tenuto conto dei nuovi e costosi mecanismi di recente introdotti, sembra sia a un di presso il medesimo che ivi era in uso dai tempi più remoti, pro- cureremo di spiegare le rimanenti voci tuttora oscure che si trovano nel Breve di Villa di Chiesa e nel Costituto di Massa relative alla pre- sente materia, e di far comprendere come si eseguisse a que’ tempi questo importante e principalissimo modo di nettatura delle vene. 169. Per la lavatura della vena grossa, del minuto e del petrajo è necessario pestare dapprima i pezzi più grossi, sì che tutta la quantità da lavare sia ridotta in pezzetti di grossezza non maggiore di una pic- cola noce; e poscia separare questi frantumi o pezzetti secondo le varie loro grossezze, o, come ora si dice, classificarli ; il che si ottiene fa- cendoli passare per una serie di crivelli, i fori dei quali vadano pro- gressivamente decrescendo. Ciò fatto, si lavano partitamente i pezzi che sono approssimativamente della medesima grossezza. La lavatura aveva luogo in recipienti, che a quel tempo dicevansi &ruogora ‘, ossia truoghi, e che oggidì con più moderno vocabolo sono communemente chiamati 5) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxrx, 37-38. $ 169. +) Br.31b 38; 83b 42; 123b 18; 35. Serie II. Tom. XXVI. MES (Ci 354 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE vasche; nelle quali, a due terzi ripiene d’acqua, scuotendosi con un sussulto d’alto in basso i crivelli nei quali è la vena o minuto che si vuol lavare, ne avviene che la vena, più pesante che la pietra d’eguale grossezza alla quale è frammista ,; scende al di sotto, e al di sopra viene il pietrajo ossia monte o materiale sterile, il quale indi si raccoglie e getta via. Coloro che attendono a questo lavoro, poco faticoso e al quale perciò si adoperano d’ ordinario persone di giovane età, sono detti nel Breve /avoratori di truogora ®, overo fancelli di truogora ®. Le truogora si davano anche in affitto ? ; onde appare che, almeno di frequente, non erano infisse al suolo ma mobili, e da potersi traspor- tare da un luogo all’altro, quali ci avvenne vederne in Sardegna anche ai mostri giorni, rotonde, ed a forma di botte mancante di uno dei due fondi. A questo modo di lavatura, ossia della vena in pezzetti, crediamo doversi riferire il vocabolo gottare, che troviamo nel Costituto di 5): ma non sapremmo indicarne l'esatta significazione. — È da 6) lo) Massa notare poi che dei crivelli, dei quali si fa uso oggidì e sappiamo da altre testimonianze che facevano uso anche gli antichi per la lavatura 9, non si trova cenno nel Breve di Villa di Chiesa o nel delle vene Costituto di Massa, nè in altro documento di quella età. 170. Unitamente ai lavoratori di truogora troviamo nel Breve di Villa di Chiesa menzionati anche i tulani e i modulatori *, ma senza qual- siasi indicazione che valga a farci conoscere la significazione di queste voci. Noi, siccome la lavatura della vena non può eseguirsi fuorchè previa la classificazione o ripartimento che abbiamo accennato ($ 169) della vena e materia frammista secondo la grossezza o modulo dei pezzi, crediamo che alle persone che attendevano a siffatto lavoro debba riferirsi il nome perfettamente adatto di modulatori. Viepiù incerto è chi fossero i éu/ani; in tanto che neppure a modo di congettura sa- premmo dire, se forse vengano indicati con questo nome i fabricatori di crivelli, o non piuttosto le persone che attendevano alla lavatura 2) Br.31b 38; vedi anche 32. 2. 3) Br.123b 18; 35. 4) Br. 83b 42. 5) M.xxxw, 1; 4; 9. 6) Kéoxwa sono detti da Polibio, dove tratta della lavatura delle vene d’argento nelle Spagne : Mistor. Lib. XXXIV, cap.Ix, 10. 6170. 1) Br.32° 1-2; 325 2, IN VILLA DI CHIESA 355 non della vena in pezzi o minuto, ma a quella del siliffo e delle scionfe, della quale ora faremo parola. 171. Il modo di lavatura che abbiamo descritto non può aver luogo che per la vena in pezzi; per la vena in polvere frammista a terra o a sabbia minuta conviene seguire altro modo. E dapprima notiamo, ciò che abbiamo anche sopra accennato ($ 149), che queste terre o sabbie ricche di minerale nei documenti di quella età sono designate col nome di siliffo; oggi tali terre si designano più communemente col nome di polverino. Questo siliffo o polverino poi, del pari che il minuto in pezzi destinato alla lavatura, si ottiene in parte naturalmente per mezzo dei lavori che abbiamo descritti per cavare e pestare la vena, non po- tendo la pestatura farsi senza che molte particelle della vena si disper- dano, e si confondano coi frantumi della roccia; nel quale caso troviamo il siliffo indicato anche col nome di monte lavorato, ed opposto al monte sodo *. Ma spesso anche il siliffo si ottiene ad arte, per mezzo di apposita pestatura. Ciò si fa quando la vena è in parti minutissime congiunta alla roccia per modo, che formano un medesimo macigno, nè se ne può staccare e separare fuorchè riducendo il tutto in polvere. Questo talvolta si ottiene per mezzo della pestatura a mano; poiché, più ancora che non ai nostri tempi, tale pestatura era destinata non solo a fornire il modo di cernere e gettar via la parte sterile già at- taccata alla vena, ma inoltre a renderne più agevole la lavatura. Ma spesso anche, sopratutto dove la proporzione della vena alla roccia è più scarsa, e le particelle della vena disperse nel vivo della roccia me- desima, la pestatura si fa in vasi ripieni d’acqua; e ciò sia perchè l’acqua ajuta a meglio disgiungere le parti e a fare che tutte vengano tritate egualmente, sia affinchè il vento e la scossa prodotti dalla pe- statura non facciano che la parte più fina della materia pestata ne vada perduta e dispersa. Questo genere di lavoro dicesi in tedesco Podwert, onde sono nate le voci francesi di bocard e bocarder, che og- gidi anche in Italia sono communemente adoperate. Questa è l’origine delle voci doccaticcio (forma più prossima alla sua origine) e dacca- ticcio, colle quali nel Costituto di Massa è designato il prodotto di tale pestatura ©; e di quelle daccare silifo, o più spesso semplicemente S ATI. +) Br. 1173 8-24. 2) M.xLIV, 23-24, 356 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE baccare, che a indicare quel genere di lavoro troviamo sì nel Costituto di Massa, come nel Breve di Villa di Chiesa ®. — Il siliffo poi non si lava scuotendolo nei crivelli, come il minuto, ma leggermente smuo- vendolo sovra un piano inclinato, sul quale si fa dolcemente scorrer l'acqua, che, lasciando sulla parte superiore del piano medesimo la vena come più grave e così più difficile ad essere trasportata, ne trae al basso, come più leggera, la minutiglia di roccia; trascinando inoltre con sè le parti finissime ed impalpabili e perciò più leggere sì della pietra come della vena ridotte in polvere. Quest’ ultima che diremmo quasi melma con minerale viene oggi chiamata ©dlamm, parimente con vocabolo tedesco; allora, forse perchè senza dubio una parte di tale melma si otteneva estraendo, o, come allora dicevasi, sciorfando ($ 117) acqua dai lavori delle fosse, dicevasi scionfa ). Essa si ottiene lasciando riposare in appositi bacini l’acqua che ne è carica, e poscia lavando il deposito che si ritrae da quei bacini al modo medesimo che si lava il siliffo; avendo cura bensì, che quanto più è fine e leggera la ma- teria che si lava, tanto più leggermente si smuova, e tanto più dolce sia la.corrente, e il piano sul quale scorre l’acqua meno inclinato. — Nel Breve, dove si tratta del baccare i siliff, e del lavare i siliffi e le scionfe, è adoperata la voce so/roctare , che altrove non si legge, e della quale il contesto non lascia comprendere la significazione. Forse denotava quel dolce fregare e smuovere dei siliffi e delle scionfe che si fa con un rastello di legno o con altro simile istrumento, per meglio staccare le parti della vena da quelle della roccia e della terra, sì che queste sole sieno trasportate nel suo corso dall’ acqua. | 2) M.xxxrx, 4; Br. 1180 21; 137 10-39. +) Br.137b 14. 5) Br. 137b 16. IN VILLA DI CHIESA DO NI CAPITOLO VHI. Trasporto, misura, pesatura, saggi e vendita della vena. 172. La scarsità e l’ incertezza dei prodotti nella maggior parte delle fosse d’argentiera, in tutte poi la mancanza di un corso d’acqua che vi servisse di forza motrice, e finalmente la forma della partitura in quelle compagnie, nelle quali soleva ripartirsi fra i parzonavili la vena stessa, ossia quella parte della vena che sopravanzava al pagamento delle spese della fossa: tutte queste ragioni facevano sì, che in Villa di Chiesa come in Massa la vena non si solesse fondere presso le fosse medesime, e che fossero al tutto disgiunte l'arte dell’ argentiere (mi- natore ), da quella sia del fondere o coZare la vena, come del trarre dal piombo l'argento. In ogni fossa la vena, dedottane la parte che si vendeva per francare le spese, si partiva, come abbiamo detto a suo luogo ($ 57), fra i parzonavili in ragione delle loro trente. Prima della partitura, e dopo questa finchè caduno avesse portato via la parte sua, la vena si custodiva nel /oghizo ", d'onde poscia caduno ritirava la sua porzione, disponendone a piacimento. 173. Il trasporto della vena dalle fosse si eseguiva dai mo/entarii ", e dai carratori ®. Ad evitare i furti era proibito caricare vena nè netta nè lorda di notte ?; ma di notte e di giorno indifferentemente era lecito trasportarla #. A Massa per maggiore, anzi soverchia, precauzione, e che doveva riescire di grave impedimento ai commerci, era proibito caricare o trasportare vena senza previa parola di due uomini eletti a $ 179. +) Br.127° 22; 140b 33. } 173. 1) Br.58b 20; 23; 123b 17; 34; 125° 3; 1322 20-22; 34-37; 1329 1-3. 2) Br.123b 34; 125° 3; 1323 20-22; 34-37; 139 1-3. 3) Br.125a 3-8. 4) Br. 562 1-4. 358 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE questo officio dai Signori Nove Governatori del Popolo . Nessun mo- lentaro o carratore poteva lavorare nè obligarsi ad altro servizio, finchè non avesse interamente compiti i trasporti promessi ad altra persona. La vena poi, e similmente i carboni ad uso dei forni, doveva traspor- tarsi in sacca buone e sufficienti, sì che non si perdesse o spargesse per la via ®. A quelli che portassero in Canadonica vena a lavare overo ai forni, era espressamente proibito di passare col carico in Villa ?. In qualsiasi montagna d’argentiera ove fossero da otto fosse in su non era lecito tenere o pascere alcun bestiame, cioè pecore, capre, buoi o vacche, sotto pena di soldi cinque per ogni capo di bestiame grosso, e di un soldo per ogni capo di bestiame minuto; « con ciò sea cosa » che quello pasco bisogna per li cavalli et asini che sono a servigio >» di quella montagna et argentiera » ; e di ciò ogni nuovo Capitano o < Rettore doveva mandare bando per Villa di Chiesa, infra uno mese dall’ entrata del suo officio ®. La quale prescrizione è notabile, in quanto maggiormente dimostra, come alla utilità delle argentiere, onde Villa di Chiesa prendeva vita e ricchezza, fossero allora interamente posposti i diritti e la cura sì dell’ agricoltura che della pastorizia. 174. Sebbene talora si trovi menzione del pesare la vena ”, sembra che più communemente al tempo del quale trattiamo si vendesse non a peso ma a misura. L'unità di misura era il corbdello; ed ogni anno una volta il Camerlingo, a pena di libre dieci d’ alfonsini sul suo feo, ossia sul suo salario, doveva scandigliare, e fare, occorrendo, acconciare tutti i mezzi corbelli e i corbelli sani (ossia i corbelli interi), coi quali si misuravano le vene tutte che si comperavano o si vendevano in ar- gentiera ; il quale scardiglio doveva prendersi « da la pila del mar- » moro, che sta dentro del chiostro della Corte del Capitano ». Col Camerlingo a conciare i detti mezzi corbelli e corbelli sani dovevano essere due uomini eletti dal Consiglio di Villa, uno dei quali argen- tiere e l’altro guelco ($ 189), sì che vi fossero rapresentati ed assicu- rassero l'esattezza dello scandiglio i contrarii interessi e le ragioni del 5) M.xLV. 6) Br.132b 20-33; 132b 1-9. 7) Br. 58b 20-29. 8) Br.64% 16-34. $ 174. 3) Br.77b 19-78? A. IN VILLA DI CHIESA 359 venditore e del compratore. Sì i mezzi corbelli che i corbelli sani do- vevano avere manichi , affinchè si potessero più facilmente portare e vuotare nel misurare la vena ; se i vecchi corbelli non si potessero con- ciare, doveva farsene di nuovi per lo detto modo : e tutto ciò a spese del Re, « con ciò sea cosa che quello diricto è tucto del Signore Re » ?. In Massa, nelle Addizioni dell’anno 1328 al Costituto, fu stabilito, che il corbello della vena, et cujuslibet alterius robbe ad faciendum rame, dovesse avere il peso di trecento settanta libre, nè più nè meno ?. Confessiamo di non comprendere la forza di una tale prescrizione, per la quale il corbello cesserebbe necessariamente di essere una misura definita di capacità ; poichè non ogni vena di rame, e molto meno agni altra robba ad faciendum rame, ha un peso specifico eguale, e perciò è impossibile che il corbello si riempia sempre col medesimo peso di vena o di altra materia da far rame. 175. La misura e la pesatura delle vene che si vendevano non era libera in Villa di Chiesa, ma doveva eseguirsi da persone a ciò depu- tate : e questo evidentemente sì a motivo del diritto che si pagava da chi facesse pesare o misurare la vena; ma sopratutto affinchè si conosces- sero esattamente le quantità di vena prodotte, sì che non potessero frodarsi i diritti imposti sui prodotti delle argentiere. I misuratori della vena si eleggevano dal Consiglio ad ogni nuova chiamata dei publici officiali di Villa; dovevano essere sei, e scegliersi buoni ed idonei, e che sapessero leggere e scrivere; chi accettasse I’ officio, e non sapesse leggere e scrivere, doveva essere dimesso, e pagare di pena soldi venti d’alfonsini minuti. Il loro officio durava tre mesi, come a quel tempo quello degli altri officiali di Villa di Chiesa; nè alcuno poteva essere costretto di ricevere l’officio della misuratura contro sua volontà. Du- rante i tre mesi non potevano assumere altro officio; ma qualsiasi persona poteva assumere l’officio della misuratura quando vi fosse eletto, non ostante che non avesse vacato da altro officio, nè da quello me- desimo. E catuno dei misuratori, all’ entrata del suo officio, doveva prestare giuramento di esercitarlo bene e lealmente, a buona fede e senza frode, e di non commettere in quello alcuna malizia; e di ciò do- veva dare alla Corte di Villa due buoni ed idonei pagatori "). 2) Br.39b 18-44; 109b 13-18. 3) M. Addit., xv, 1-8. $ 175. +) Br.107b 20-108? 18. 360 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE 176. Era anche prescritto il modo di misurare la vena : che il mezzo corbello dovesse empiersi con la pala, e non in altro modo; e la vena mettersi in mezzo, e non nei cantoni, sotto pena di soldi venti d’ alfon- sini minuti; chi contra facesse, ogni persona lo potesse accusare ”. Se invece fosse convenuto che la vena si pesasse, doveva dal misuratore essere pesata colla statera della Università di Villa, e non con altra; ed il misuratore era tenuto portare la statera al luogo dove fosse da pesare la vena, e riportarla in persona ®. Ai misuratori della vena era lecito soltanto pesare la vena e il piombo ; qualunque altra mercanzia doveva pesarsi da quello, presso il quale era il dritto delle statere ?. 177. I misuratori erano tenuti esercitare Il’ officio non in commune e partendo fra loro i benefizii, ma catuno per sè ed a proprio uopo ed utilità ; che se alcuno di loro accommunasse l’ officio o facesse a parte, e gli fosse provato, pena libre dieci d’alfonsini minuti; e di ciò ogni uomo lo potesse accusare '. Per suo salario o mercede spettava al mi- suratore, di ogni vena che misurasse in Villa di Chiesa denari sei e non più, di qualunque quantità fosse la vena; e se dovesse andare fuori di Villa, soldi cinque al dì; che se, poi che misurato avesse, fosse richiesto quel dì medesimo di andare a misurare altra vena, era tenuto andarvi, e di quella seconda misuratura poteva avere altri soldi cinque, se quella vena fosse di lunge dalla prima che misurata avesse più di mezzo miglio ; e se fosse presso alla prima vena mezzo miglio o meno, aveva per suo salario soldi due e non più ?. — Catuno dei misuratori, otto giorni prima di compiere i tre mesi, doveva pagare per pregio e salario del suo officio al Camerlingo di Villa di Chiesa soldi quaranta, e così in tutti e sei li misuratori libre dodici; e se per qua- lunque ragione fossero meno di sei misuratori, quelli che fossero erano tenuti pagare l’intera somma di libre dodici, dividendola fra loro pro rata; la quale somma di libre dodici non era devoluta alla Corte Regia, ma spettava all’ Università di Villa di Chiesa *). 178. Ciascheduno dei misuratori doveva tenere pel proprio officio un $ 176. 1) Br.108b 24-35. a) Br.109% 26-32. 3) Br. T7b 25-30. $ 177. 1) Br.108b 6-16. 2) Br.108b 14-24; 35-109? 2; 15-26. 3) Br. 108? 18-108b. IN VILLA DI CHIESA 361 quaderno, nel quale scrivessero il nome del venditore e del compratore della vena misurata, e la fossa ond’era la vena, e quanta fosse, e il datale della misura. Al peso o alla misura che per quel misuratore si facesse, il venditore e il compratore dovevano essere contenti, e alla scrittura di quel quaderno credersi del peso e della quantità della vena ”). Incontanente poi che avesse misurato, il misuratore doveva re- nunziare al Camerlingo del Re, ed a colui che avesse comperato il diritto delle statere, la vena misurata cadun giorno ?). Una volta ogni settimana doveva andare all’officiale che ogni tre mesi eleggevasi in Villa di Chiesa per vedervi e scandigliare le statere, e farle vedere e scan- digliare, se fossero diritte e leali; e detto officiale doveva scandigliarle, prendendone lo scandiglio ® dalli ruS0i che a tal fine si serbavano in una cassa del palazzo, della quale lo scandigliatore aveva la chiave ; la quale cassa custodivasi o presso la Corte, o presso il Camerlingo. Ogni settimana lo scandigliatore doveva cercare e rivedere tutte le statere con le quali si pesava la vena, e scandigliarle, e di tale scan- digliatura far fare carta da alcuno dei notari della Corte; altrimente il Camerlingo non doveva pagargli il suo salario, che era di soldi qua- ranta d’alfonsini minuti per la durata del suo officio. Se alcuna statera fosse sconcia, incontanente doveva racconciarsi, alle spese di colui che avesse comperato il diritto delle statere, o alle spese del Re, se presso di lui fosse il diritto. Se alcuno per suo richiaramento volesse fare scandigliare alcuna statera, lo scandigliatore ne aveva, oltre il salario, denari sei per ogni volta *). 179. La vendita della vena era al tutto libera in quanto riguarda le condizioni ed il prezzo ; essa potevasi a piacimento vendere ai guelchi, ossia ai fonditori ($ 189), e questo era il modo più frequente, o ad altra qualsiasi persona ”. Ma al modo stesso che tutte le argen- tiere, anche poste sul territorio delle ville vicine, dovevano ragionare in Villa di Chiesa, similmente la vena che da quelle argentiere si ri- traeva doveva vendersi ai guelchi di Villa di Chiesa e non ad altri guelchi; ed il Governatore o qual altro officiale fosse pel Re nel Regno $ 178. 1) Br.1092 2-15. 2) Br.1092 32-109> 1. 3) Br.39b 96. 4) Br.282 12-28b 30; 109b 1-13. $ 179. +) Br.1372 18-26; 150 31-34. Serie II. Tom. XXVI. 46 362 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE di Cagliari, era tenuto ciò osservare, a pena di libre venticinque d’ al- fonsini minuti 3. Era proibito ai venditori di fare « alcuna ressa o » cospirazione » contra i compratori affinchè non potessero comperare liberamente ; e similmente ai compratori contra i venditori: e ciò sotto pena da libre dieci infine in libre cinquanta d'alfonsini minuti; e cia- scuna persona poteva accusare chi contra facesse, e il Capitano era tenuto procedere contra di loro secondo la forma di ragione : che se in ciò fare commettesse vizio o negligenza, doveva essere condannato 5. Chi vendesse vena o per ogni volta in libre dieci d’alfonsini minuti minuto d’altri senza licenza del padrone, e ne ricevesse il prezzo e non lo restituisse al padrone, ovvero se, anche vendendo con licenza del padrone, non glie ne restituisse il prezzo che avesse esatto, doveva essere. sostenuto in prigione infino che avesse sodisfatto ; ed inoltre, se colui del quale fosse la vena lo volesse accusare, punivasi colla multa di un marco d’argento *. A. sua volta il comperatore doveva por mente, di non comperare che dal padrone o da legitima persona per lui; e se sapesse che alcuno cercasse di vendere vena, piombo, o altra simile cosa altrui, lo doveva manifestare a colui di cui quella cosa fosse, ovvero se non sapesse di cui fosse, denunziarlo alla Corte; e ciò sotto pena di libre venticinque d’alfonsini minuti %. 180. La vena soleva vendersi a corbelli ®. Il prezzo del corbello della vena naturalmente era vario secondo il saggio, o, come dicesi ora, ri fenore della vena sì in piombo che in argento ??; e a chi co- nosca quanto varia sia la ricchezza di queste vene, sì pel piombo; sì principalmente per l'argento, non farà maraviglia l’enorme differenza di prezzo della quale troviamo menzione tra vena e vena. Troviamo nomi- nata come vena povera e di piccola valuta quella della quale il corbello valesse libre tre e soldi dieci o meno È; come prezzo consueto e quasi direi normale viene accennato quello di libre cinque il corbello *, 2) Br.iila 14-32, 3) Br.1372 28-137b 7, 4) Br. 89° 35-89. 7. 5) Br.132b 18-34. Vedi anche Af. LVII. $ 180. 1) Br.39b 20-25. 2) Br.15b 34-35. 3) Br. 131% 35-40. 4) Br.135b 13-14; 131* 15-17. IN VILLA CHIESA 363 onde crediamo che fosse il prezzo del corbello della vena netta ma povera d’argento. 181. La ricchezza delle vene sì in argento come in piombo si cono- sceva per mezzo dei saggi. In Massa l’officio di saggiatore delle vene d’argento era officio publico, e due saggiatori ogni anno si eleggevano dai Signori Nove Governatori del Popolo di Massa; essi dovevano fare i saggi dei quali fossero richiesti sì da cittadini che da forestieri, esi- gendone condecente salario, che dal Costituto non è indicato ”. Con assai migliore consiglio in Villa di Chiesa anche I industria dei saggi era libera; i saggiatori tenevano bottega aperta per l’ esercizio dell’arte loro, ed ognuno aveva facoltà di scegliere quel saggiatore che più gli aggradisse. Chiunque volesse esercitare l’arte del saggiatore doveva tut- tavia prestare giuramento dinanzi alli notari della Corte, di fare li saggi bene e lealmente senza fraude, e di ciò era tenuto dare ciascuno due buoni ed idonei pagatori; se qualunque persona facesse saggi, e non avesse giurato e dato pagatori, pena marchi dieci d’argento, nè poteva mai più fare saggi. Se alcun saggiatore fosse trovato in fraude, punivasi infine in libre cinquanta d’alfonsini minuti per ogni volta che fosse trovato in falla, e maggiore pena d’avere e di persona, a volontà del Capitano e del Giudice, secondo la qualità del fatto e della persona; nè mai più poteva fare saggi in Villa di Chiesa. Il delitto di saggi falsi nel Breve trovasi annoverato con quello di carta falsa e cogli altri maggiori delitti ?. Nessuno poteva tenere bottega di saggiatore se fosse di età minore di diciotto anni; ma ciò s intendeva dei soli capi mae- stri delle botteghe, e non di coloro che sotto codesti capi stessero ad apparare l’arte; anche questi dovevano tuttavia prestare giuramento, ma non erano tenuti di dare pagatori. Se alcuna persona fucesse saggi in commune tra il venditore e il compratore, e non avesse diciotto anni, doveva essere condannato in marchi dieci d’argento, se ne fosse ac- cusato dal compratore o dal venditore; ma altra persona nol poteva accusare ‘). 182. I saggi sulla vena, ossia quelli destinati a conoscere la qualità e la quantità di metallo, cioè nel caso nostro la quantità di piombo e $ 181.1) M.Lxxv. 2) Br.46b 27-38. 3) Br.140b 12; 16; 139% 44-140° 10; 18-4I. 364 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE d'argento, si facevano su tre once di vena; ed il saggiatore doveva a tal fine avere il pesone (S 186) di tre once, corrispondente così alla detta quantità della vena sulla quale dovevasi fare il saggio ". La vena per fare i saggi, se le parti non si accordassero di altro modo, doveva levarsi con la pala e non altrimente ®; evidentemente affinchè si prendesse alla rinfusa, e per impedire che, prendendosi a mano, si scegliesse o si scartasse la parte più ricca o la più povera della vena. € nel prendere la vena colla pala dovevasi cessare di prenderne quando si fosse giunto presso a terra, acciocchè della terra non si prendesse saggio ®. La vena per tal modo tolta pei saggi si pestava; ed ogni set- timana i Maestri del Monte, o due di loro almeno, dovevano, a pena di libre dieci d’ alfonsini minuti, andare cercando tutte le pietre dei guelchi là ove e sulle quali si pestava la vena pei saggi, e vedere se fossero buone e sufficienti e di buona petrina per quel servigio fare; e se alcuna ne trovassero non buona, incontinente dovevano romperla o farla rompere, e comandare a quel guelco, che, sotto pena di un marco d’argento, fra dì otto dovesse averne altra buona e sufficiente *. Era specialmente prescritto, che il venditore non avesse a mettere acqua nella vena di poi che, separatane la quantità sulla quale si faceva il saggio, il rimanente era riposto nel Zoghino, ossia nel magazzino ; pena al contrafattore marco uno d'argento, e il compratore o il suo fattore nel potesse accusare ” ; nè il compratore fosse inoltre tenuto a prendere la vena, che dopo toltine i saggi fosse bagnata di pioggia ®. 183. Della vena che si levava per fare li saggi, oltre le tre once sulle quali si faceva il primo saggio, se ne poneva una porzione in un bossolo od in un dorsotto, che si suggellava col suggello del venditore e con quello del comperatore; questo bossolo o borsotto, al quale si appiccava una polizza col nome del comperatore e del venditore, si ac- comandava ad alcuna persona a piacimento, la quale non doveva ren- derlo, se non fossero insieme ambe le parti ”. Il Capitano di Villa era 6 182. 1) Br. 172 16-20. 2) Br.140b 22-29. 3) Br. 1452 7-9. 4) Br.138b 24-38. 5) Br. 1400 29-35. 6) Br. 145% 10-13. $ 183. +) Br 140b 39-14fa 11. IN VILLA DI CHIESA 365 tenuto chiamare ad officiale sopra i saggi intorno ai quali sorgesse lite tra il venditore e il compratore un uomo buono e leale, che durava in officio mesi tre e non più, ossia il tempo consueto allora in Villa di Chiesa pei publici officii. All’ officiale sopra i saggi il venditore e il compratore dovevano dare il bossolo o borsotto posto in serbo colla vena, ed all’officiale aggiungere un’ altra persona; e questi dovevano di quella vena fare uno o più saggi, nella bottega di uno o più saggiatori, secondo piacesse a quel primo buono uomo eletto dal Capitano. Nè dal comperatore nè dal venditore poteva rifiutarsi il saggiatore così scelto, purchè fosse saggiatore giurato, e che avesse dato pagatore ; salvo se di ciò le parti fossero in concordia, il saggio poteva farsi da chi e dove loro piacesse. Nessun saggiatore poteva ricusare di fare detto saggio, sia nella propria bottega, sia in quella di altro saggiatore, secondo fosse richiesto ; e quello nella bottega del quale doveva farsi il saggio, era tenuto prestarla, senza alcuna pigione indi togliere. L’officiale sopra i saggi e il suo aggiunto dovevano stare presenti mentre si eseguiva il nuovo saggio, dal cominciamento infine che il saggio fosse compito, sotto pena di un marco d’argento ; e, sotto la medesima pena, non do- veva esservi presente altra persona, salvo, se volessero, il compratore e il venditore. Se il venditore volesse che la vena del saggio del quale è lite fosse messa nel fegoloccio (ossia, senza fallo, nel crogiuolo ) « car- tuccia (?), la persona nominata dal Capitano a quest officio doveva così far fare; salvo che se tra ’l1 comperatore e il venditore fossero accordati in altro modo, quell’ accordo e li patti convenuti tra le parti si dovevano osservare, cioè del mettere a cartuccia li saggi nel tegoloccio o no. Se- condo questo nuovo saggio il compratore doveva pagare la vena al ven- ditore, e questi riceverne il prezzo; e se il saggio si fosse fatto da più saggiatori, dovevasi pagare secondo il maggiore saggio, ossia secondo il maggiore tenore ?). 184. Pel saggio sul piombo, che doveva farsi dopo il saggio sulla vena a fine di conoscere la quantità dell’ argento, non troviamo deter- minato, come per la vena, su che peso si dovesse fare il saggio; ma semplicemente, che il saggiatore dovesse domandare, ed il guelco, ossia il compratore, dare, tutto il piombo che fosse necessario per -li saggi; a) Br.1412 11-141b 6; 9-19; 24-38. 366 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE e che se ’l saggio andasse male, incontanente dovesse rinunziarlo al ven- ditore e al comperatore, sotto pena di marchi dieci d’argento ”. 185. Era definito il prezzo dei saggi, oltre il quale il saggiatore non potesse prendere. Per un saggio, soldi due e denari sei; e se il saggia- tore mettesse il piombo pel saggio, soldi tre !. Pe’ saggi fuori della pro- pria bottega, che alcun saggiatore facesse d’ ordine dell’ officiale sopra i saggi, pel primo saggio soldi cinque, pei seguenti soltanto soldi due e denari sei ?). L’officiale sopradetto poi e il suo compagno dovevano avere di ogni rischiaramento che facessero fare, soldi cinque e non più; e questi, e tutte le spese per detto rischiaramento, erano a carico di colui che avesse il torto È). 186. La pesatura dei saggi non si faceva dai saggiatori, ma da un publico pesatore, al quale il guelco, o suo fattore, doveva recare i saggi fatti, che fossero dati dal venditore al compratore, portandoli in un bos- solo coperchiato, nel quale doveva mettere i saggi, e per tal modo portarli in mano fuori palesemente, e così darli al publico pesatore pei saggi, a pena di marco uno d’argento per ciascuna volta !. Il pesatore dei saggi si eleggeva ad ogni chiamata nuova d'officiali dal Consiglio ordinato di Villa di Chiesa, in presenza del Capitano o Rettore; doveva essere per- sona buona e sufficiente, e che sapesse leggere e scrivere ; ed all’entrata del suo officio, che durava tre mesi come quello degli altri officiali della Università di Villa di Chiesa, era tenuto giurare di fare 1’ officio bene 5 e lealmente a buona fede e senza frode, e dare di ciò due buoni ed idonei pagatori. Se commettesse frode nell’ esercizio del suo officio, do- veva esserne condannato ad arbitrio del Capitano e del Giudice, con- siderata la condizione e l'essere del fatto, e la qualità della persona ?). Appena la persona così eletta aveva ricevuto l’ officio, gli si dovevano consegnare le saggiole o belancette, buone e leali, con le quali si pesano li saggi; e i pesoni (così chiamavansi i contrapesi ad uso delle bilance), ossia quello di un’oncia, pari a ventiquattro denari, quello del denaro pari a ventiquattro grana; e quelli di grana dodici; di grana sei; di 6 184. +) Br. 140° 41-1400 3; 141» 6-9. 6 185. 1) Br. 140» 10-18. 2) Br.1400 3-10. 3) Br.141b 20-24. $ 186. 1) Br. 141D 28-35. a) Br.16° 6-17; 172 8-12. E IN VILLA DI CHIESA 367 grana tre; di grana due; di grano uno; di mezzo grano; di un quarto di grano; di un ottavo di grano ; e di un sedicesimo di grano. E questi il pesatore, due volte durante il suo officio, una delle quali infra dì quindici all’ entrata del suo officio, doveva fare scandigliare coi pesoni autentici che si custodivano presso il Camerlingo ; la quale scandigliatura doveva farsi in presenza del Capitano, e di due buoni uomini chiamati sopra ciò dal Consiglio di Villa, probabilmente quelli medesimi, l’ uno argentiere e l’altro guelco, in presenza dei quali si dovevano conciare li corbelli della vena ($ 174); e se in alcuna cosa i pesoni che fossero presso il pesatore discordassero con quelli autentici , il pesatore doveva farli conciare a proprie spese. Similmente, se per lui si perdesse o si guastasse alcuno delli detti pesoni o le bilancette, dovevano rifarsi o racconciarsi alle sue spese ©. Con questi pesoni il detto officiale era te- nuto pesare li saggi della vena che si facevano tra il venditore e il com- pratore; e se alcuno dei soprascritti pesoni erzrasse e fosse nel peso de’ saggi, era tenuto mettervelo, e dell'intero peso e sincero render conto a coloro cui il saggio apartenesse. E doveva per lo suo officio tenere un quaderno, e scrivervi il nome e il sopranome del compratore della vena onde li saggi fossero fatti, e di quale fossa e luogo fosse la vena, e quale il peso dei saggi: e tutto ciò doveva scriversi distesa- mente e non per ambaco (ossia scrivendo i numeri in parole, e non in cifre numeriche), nè per altre abreviature: affinchè, se mai nascesse questione tra il venditore e il compratore del peso di quei saggi, si potesse conoscere il vero per mezzo del quaderno del pesatore, il quale quaderno in ciò faceva piena fede, come carta di notajo 4. Per suo sa- lario il pesatore poteva prendere per ogni saggio, della pesatura, e della scrittura che se ne doveva fare, denari tre e non più ”. 3) Br.16% 18-28; 16b 21-17a. 4) Br.16° 28-16. 13. 5) Br.16b 13-17. Poscia si soggiunge: « et di scandigliatura che per lui si facesse d’al- » cuno saggio che non sì pesasse, non debbia avere nè tollere alcuna cosa, et neentedemeno » sea tenuto di scandigliare ogni saggio ». Il quale passo non intendiamo; poichè se si possono fare saggi senza pesarli, ove cioè sì tratti di conoscere semplicemente la qualità, non la quan- tità, delle materie contenute nella vena o minuto che si sottopone al saggio: non comprendiamo come si possano scandigliare saggi senza pesarli. 368 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE CAPITOLO IX. Del colare e dello smirare. Guelchi. Vendita del piombo e dell’ argento. 187. A'tempi dei Pisani e nei primi anni della dominazione Arago- nese libero era a tutti in Villa di Chiesa il colare la vena; in tanto che perfino ai publici officiali che vi si mandassero d’Aragona o di Catalogna, ai quali era proibito esercitarvi mercatanzia od avervi parte in fossa, era lecito colare e far colare in qualunque parte dell’ argen- tiera ”. I forni da colare vena erano una libera proprietà, che come ogni altra poteva liberamente vendersi od allogarsi ?. Sebbene natural- mente avvenisse talora che alcun forno fosse posseduto in commune da diverse persone ©, pei forni tuttavia non si formavano communi o compagnie divise a trente, come per le fosse. 188. La riduzione della vena di piombo in metallo dividevasi neces- sariamente allora come ora in due parti successive ed essenzialmente distinte : la prima, di ridurre la vena a metallo, liberando questo dallo zolfo e dalle altre materie estranee, il che dicevasi allora colare la vena ”, e ora fondere il minerale; la seconda di separare dal piombo argentifero proveniente dalla fusione l'argento, il che allora dicevasi smirare il piombo ®, o semplicemente smirare *) ; ai nostri tempi dicesi coppellare. 189. Quelli che presiedevano ai forni da colar vena e ne dirigevano il lavoro, o vogliam dire i capi d'officina dei forni, chiamavansi $ 187. +) Br.13b 10-23. 2) Br.922 34-92b 3; 99b 47-90? 19. Sa 3) Cod. Dipl. Ecel., Suppl., Doc. dei 29 genn. 1321. $ 188. 1) Br. 13b 21-29. 3) Br.51a 18-30. 3) Br.134b 16; 5297; Breve Pisani Comunis, anni MCCLXXXVI, Lib. III, cap. XLIII, presso BonainI, Statuti inediti di Pisa, Vol. I, pag. 428, lin. 29. IN VILLA DI CHIESA 369 guelchi *. Non v ha dubio che la voce deriva dal tedesco Wat, opera, e indi per illazione operajo ; trovandosi la voce nel Costituto di Massa nella significazione della quale trattiamo scritta guerchus ®, e in docu- menti Trentini wwerchus ?. In Villa di Chiesa appare che era estinta ogni memoria della primitiva significazione di questa voce; in docu- menti Toscani trovasene tuttora esempio, qui pure tuttavia relativamente a lavori di scavo, pei quali ed allora e di poi per lungo tempo adope- ravansi per l’ordinario operaji Tedeschi . Del resto questa e le parecchie altre voci derivate dal tedesco che si trovano negli antichi documenti relativi all’ industria mineraria in Italia dimostrano ad evidenza, che nel medio evo e persone e nomi ed istituzioni relative a questa industria ci vennero di Alemagna. 190. La vena dagli argenzieri, ossia dai coltivatori delle argentiere (S 22), soleva vendersi ai guelchi !®, i quali a tal fine tenevano bot- tega overo umbraco ?). Dovevano i guelchi por mente di non comperare la vena che dal padrone, ossia o da chi avesse trenta o parte di trenta propria, overo l'avesse in allogagione od a parte . Se dal venditore della vena fosse dovuto denaro per francatura, il guelco poteva per essa fare pagamenti a conto del prezzo della vena, quantunque non ancora portatagli, nè misurata, nè fattine i saggi e pesati, purchè questo paga- mento fatto dal guelco apparisse scritto nel libro della fossa. In ogni altro caso, e negli stessi pagamenti fatti per francatura se a questo titolo il guelco pagasse più di quanto fosse dovuto dal parzonavile set- timana per settimana, i pagamenti fatti in anticipazione non pregiudica- $ 189. +) Br. 47b 4-8. 2) M. uxx1, 48-49; LxxvII, 2-4; LXxIx, 13-14: Lxxxv, 4. 3) Veggansi i documenti Trentini riporlali presso POGGI ENRICO, Discorsi Economici , Sto- rici e Giuridici; Firenze, 1861, pag. 495-506; e nel Conpex Wancianus, Urkuzdenbuch des Hochstiftes Trient, herausgegehen von RupoLe Rink; Wien, 1852, S. 430-451. 4) « Item lxxv lib., iiij sol. Francescho Albizzi et Arrigo Toderighi de Gerfalcho, et » Bindo del Tuccio de Travale, pro salario duodecim magistrorum sex dierum, quibus sleterunt » cum quadraginta picconeriis qui dicuntur GuERCHI ad faciendum cadi sive euergi » (eradi sive everli?) « turrim domini Ruftredi, et pro ipsis GUERCHIS ». Archivio delle Riformagioni di Siena, Libro di uscita di Biccherna, all'anno 1281, fol. 174b, presso MILANESI, nel Glossario al Costituto di Massa; Archivio Storico Italiano, Appendice, T. VIII; Firenze, 1850, pag. 704. Simile è l’ eti- mologia della voce gualchiera. $ 190. +) Br. 15b 30-36; fila 19-26; 131b 10-11. 2) Br. 48b 25-30. 3) Br.132b 18-34. Serie II. Tom. XXVI. 47 370 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE vano a qualsiasi altro creditore che avesse ragione nella vena venduta. Ma se la vena che dal guelco si pagasse gli fosse stata di fatto con- segnata, e fattone il saggio, qualsiasi creditore che avesse ragione su quella vena non poteva pretendere cosa alcuna dal guelco, purchè questi o con altre prove, ovvero con suo giuramento e colla scrittura del suo quaderno, al quale giuramento e scrittura si doveva credere e dare piena fede, mostrasse di avere fatto il pagamento ‘. Se alcuna persona avesse a ricevere dal guelco denaro per prezzo della vena vendutagli, e non lo domandasse fra due anni dal giorno che fu misurata, da indi inanzi non era inteso a ragione. Che se dal Capitano o dal Giudice fosse coman- dato ad alcun guelco di fare pagamenti ad alcun creditore di colui che gli avesse venduta la vena, se il guelco si credesse aggravato dal detto comandamento, doveva mostrare le sue ragioni fra dì otto; altrimente più non era inteso a ragione, e doveva pagare quello che comandato gli fosse, sì veramente che non oltrepassasse la valuta della vena ®. 191. Abbiamo fatto menzione del quaderno del guelco. Era il libro nel quale doveva notare la vena che comperasse, ossia la quantità, e in qual proporzione, secondo il saggio fattone, vi fossero il piombo e l'argento, cioè, come ora diciamo, quale ne fosse il tenore; e da chi fosse comperata, ed a qual prezzo. Tali quaderni o libri dei guelchi facevano fede come carta publica di notajo; ed era proibito ai guelchi o ad altra persona qualsiasi di portarli fuori di Villa di Chiesa; e se alcuno li esportasse, pena cinquanta libre di alfonsini minuti, e resti- tuisse li libri; « con ciò sia cosa che li decti libri sono besognevoli et » necessari alli homini di Villa di Chiesa a mostrare loro ragione » ”. 192. La cura suprema di quanto riguardava il colare della vena era esercitata dai guelchi personalmente, e perciò solevano essere due, in modo da potersi l’uno all’ altro succedere giorno e notte in dirigere il lavoro, e in custodire il piombo e l’argento che se ne ritraeva. A questi due guelchi era concesso di portare arme o/fendivile e difendivile ; sì veramente che esercitassero l’officio in persona, e che dal Capitano o dal Giudice fossero reputati persone tali, che potesse loro concedersi senza pericolo "). Sotto di sè avevano i mastri colatori (muîtres-fondeurs) 4) Br.131b 10 41. 5) Br.131b 492-132? 19. $ 191. 1) Br. 135b 45-136® 7. $ 192. 1) Br.47b 6 19. IN VILLA DI CHIESA 371 (nel Trentino i colaiori trovansi tuttora designati col nome tedesco di smellzer ©), e i loro fancelli. Sì i maestri, come anche i fancelli se avessero raggiunto l’età d'anni diciasette, dovevano prestare giuramento di esercitare l’arte bene e lealmente, e non commettere fraude nel co- lare; e se per loro colpa recassero danno, pena soldi trenta d’alfonsini minuti, ed inoltre erano tenuti mendare il danno al guelco, al giuramento del quale doveva prestarsi fede ?). 193. Sul modo col quale nell’ argentiera di Villa di Chiesa si colasse la vena del piombo abbiamo scarse notizie nel Breve; ma con sufficiente chiarezza veniamo a conoscerlo per alcuni antichi forni recentemente scoperti, e col confronto del trattamento di quel minerale in altre re- gioni poste in simili condizioni, e nominatamente nelle Spagne ”. La chimica presso gli antichi era bensì scienza al tutto ignota, nè si rende- vano ragione o di quali fossero i componenti della vena e in che questa differisse dal metallo, nè di alcuna delle reazioni e delle combinazioni che si formano per la fusione; ma per molti metalli conoscevano per pratica i metodi migliori, dei quali facevano uso senza comprenderli, e attribuendo semplicemente il tutto alla potenza del fuoco, il quale pur- gasse il metallo dalle terrosità frammistevi. Siccome qui non espo- niamo scientificamente nè praticamente l’arte della fusione, ma soltanto cerchiamo di far conoscere quale fosse anticamente lo stato di questa indu- stria pel piombo in Sardigna: del modo col quale dapprima si opera la fusione della vena, e poscia dal piombo si trae l argento, diremo solo quel tanto, che è necessario per far comprendere il processo del lavoro presso gli antichi. Non può adunque essere argomento di questo scritto descri- vere in qual modo si formi la fusione della vena; nè come collo sce- gliere l’uno o l’altro sistema di forni, od anche soltanto col variarne l'altezza o le altre dimensioni, overo col dare diversa forma al suolo o alle varie parti del forno, o coll’ accrescere, sminuire o diversamente dirigere la corrente d’aria, overo con altre simili mutazioni, si cerchi di 2) PoGGI ENRICO e CopEX WANGIANUS, loc. cit. 3) Br.132b 36-133? 16. $ 193. 1) Mi fu di grande ajuto in questo Capitolo «il seguente scritto: Exploitation et Traite- ment des Plombs dans le midi de ’Espagne: par M. PETITGAND, Ingenieur des mines; Paris et Liège, 1861 (Extrait de la Revue universelle des mines); e viepiù ulile mi sarebbe riescito, se vi si fos- sero descritti anche i forni a copellare, ed il lavoro per estrarre dal piombo l’argento, e per la rivivificaziore del litargirio. 372 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE ottenere migliori risultati, e rendere 1 forni più adatti alla natura del minerale di piombo che si deve trattare, o del combustibile che si ha a mano. Con queste mutazioni o si cerca di ottenere da una data quan- tità di minerale il maggior possibile prodotto in piombo, e ciò partico- larmente quando questo è di alto valore per la sua ricchezza in argento ; overo all’ incontro, anche con maggiore perdita di metallo, si procura di scemare la spesa della mano d’ opera e del combustibile. 194. Non computate le numerose modificazioni di forma o di propor- zioni, onde molti forni o dagl' inventori, o dal luogo ove sono in uso, presero diversi nomi, i forni da colare la vena di piombo si riducono “a due sole qualità o sistemi essenzialmente distinti, nei quali la fusione ha luogo dietro combinazioni chimiche al tutto diverse. L'una di queste due qualità è dei forni a riverbero: sono adatti sopratutto alla fondita dei minerali ricchi, trattando i quali si ha con questi forni un ricavo assai abondante in piombo, a segno che, se la fusione è ben condotta, la perdita si riduce a solo cinque per cento od anche meno. Non v ha dubio che i forni a riverbero erano conosciuti dagli antichi ; ed alcuno, appartenente ai tempi Romani, se ne ritrovò nella Estremadura nelle Spagne. Non avendone potuto avere l'esatto disegno, ne diamo tuttavia uno schizzo (Tav. VII, fig. 31), che approssimativamente ne dimostra la forma e le dimensioni. Avevano due aperture, l'una sul di- nanzi, la bocca, dalla quale s’ introduceva ‘sì il minerale che il combu- stibile ; ed una dalla parte opposta, per l’escita del fumo, e per la cor- rente d’aria necessaria alla combustione. L'altezza dal suolo del forno al colmo della volta o cupola riverberante il calore è di 65 centimetri ; la lunghezza del suolo, dall'una all’ altra delle sopradette aperture, ossia dalla bocca al fumajuolo, centimetri 70. Il suolo del forno è inclinato verso la bocca per lo scolo del piombo liquefatto, che indi colava in una conca formata nella parte esterna del forno fuori della bocca. In questi forni, che quasi colla medesima forma ma alquanto più grandi sono tuttora in uso nelle Spagne, dove sono conosciuti sotto il nome di bo- liches, ed in generale in tutti i forni a riverbero, si fa uso di legna minuta, o di altro combustibile legnoso che dia fiamma. — Non po- tremmo definire, se i forni a riverbero nei tempi dei quali trattiamo fossero in uso anche in Sardigna, non avendosene cenno nei documenti, nè fra le numerose rovine di forni antichi essendosene trovata alcuna, della quale si possa con verisimiglianza accertare che appartenesse a questo genere di forni. IN VILLA DI CHIESA 373 195. È certo invece che era communemente in uso l’altra qualità di forni, che, dal nome primitivo, come non dubitiamo, di forni a mantice, voce contrafatta anche negl’ idiomi parlati ®, vennero chiamati dai Fran- cesì fours à manche, e dagli Italiani sono detti ora communemente forni a manica: noi in questo lavoro li appelleremo costantemente col vero nome primitivo, che appieno corrisponde alla loro natura. Anche in molte parti della Spagna questi forni sono detti pavas, che in loro volgare significa appunto mantice. Diamo il disegno di due tali forni antichi (Tav. VII, fig. 2), ritrovati lungo la parte superiore del rio di Canadonica, secondo il disegno che ce ne forniva il Cav. Ingegnere Leone Gouin, al quale siamo debitori anche di molte altre importanti notizie su tutta questa materia. Scorgiamo da quel disegno, come pari- mente dalle dimensioni che abbiamo riferito dei forni a riverbero sco- perti in Ispagna, e da quelle degli antichi forni di calcinazione dei quali fra breve tratteremo, che i forni degli antichi solevano essere assai pic- coli, caduno di poca spesa e di non grande produzione ; ma invece erano numerosissimi, sì che quando già da lungo tempo era spenta l’ industria delle argentiere in Iglesias, a testimonianza dell’ antica floridezza tro- viamo citato appunto il gran numero di forni, dei quali tuttora si vede- vano le rovine ?. I forni a mantice si caricano riempiendoli alternamente con uno strato di carbone e uno di vena. Con uno o più mantici (e sotto questo nome comprendo qualsiasi machina e di qualsiasi forma che spinga il vento nel forno; gli antichi siamo d'avviso facessero uso dei mantici propriamente detti ) da fori inferiori praticati ai fianchi o di dietro nelle pareti, si spinge nel forno una corrente d’aria continua, de- slinata non solo ad attivare la fiamma, ma necessaria a fornire l'ossigeno richiesto alle combinazioni chimiche onde si ottiene la fusione in questo genere di forni. I mantici erano mossi dall'acqua, e rimangono numerosi ed anche ben costrutti canali di derivazione, ma riempiti delle scorie di ) 195. 1) Notisi, che in sardo il martice si dice appunto marcia; e udii più volle il diminutivo mancizedda a denotare i soffietti, dei quali si fa uso nei camini da camera. La vera ed: antica voce italiana o toscana è mdrtaco, che maggiormente si avvicina all’etimologia, ossia al greco pavîan, cuojo. 3 2) Cod. Dipl. Eccl., XVI, xxxv, 1254-1258 (dell’ anno 1553): « facilment se compren » ab la numerositat dels forns de colar, y allres consemblants antiquitats, que etiam huy en dia » alli se troben, segon Vostra Illustre Senoria, quant, Dea volent, se dignarà visitarles, porà » ocularment veure y reconeixer ». 374 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE tempi posteriori, nei quali pare che i mantici si muovessero a forza d'uomo o di cavallo. Non è noto, in qual modo l’acqua si adoperasse come forza motrice ; crediamo tuttavia che in quelle parti si facesse uso di ruote idrauliche orizontali, quali vi durarono in uso pei molini a grano. — A mano a mano che per la fusione discende nel forno la massa, vi sì aggiungono superiormente nuovi strati alterni di carbone e di vena. Il lavoro al forno cominciava il lunedì mattina, e durava fino al sabbato a mezzodì ". Se per colpa o frode dei maestri colatori o dei loro fancelli venisse danno al guelco, pena soldi trenta d’alfonsini minuti per ogni volta, oltre la restituzione del danno; e di questo si credeva al giuramento del guelco ‘. 196. Siccome nel territorio di Villa di Chiesa non v'ha corso d’acqua perenne fuorchè il rio di Canadonica fino al punto ove dalle gole dei monti esce al piano, dove durante la maggior parte dell’anno è a secco, nè questo piccolo corso d’acqua di gran lunga era sufficiente al bisogno, principalmente perchè, come abbiamo notato a suo luogo ($ 167), ser- viva anche alla lavatura della vena o minuto dei luoghi del territorio sprovisti d’acqua : ne avveniva, che, oltre i frequenti forni lungo la parte superiore di quel rio ®, altri numerosi se ne avesse nelle ville vicine dove fossero corsi d’acqua, e nominatamente a Villamassargia ® (onde appare che a quel tempo l'antico acquedotto Romano più non portava quell’ acqua a Cagliari), a Domusnovas 9, e a Villa di Prato (l'odierna Musei ?). Non era lecito fare orto a pertiche due presso gora rr ct AM AA 3) Br.133a 2-3: « debbiano colare dallo lunedì matina infine al sabbato a mezodì ». Poco diversamente nel Coslituto di Massa, Lxxnr, 5-9: « Teneantur et debeant bene et fideliter » laborare et colare a die lune usque ad diem sabbati proxime tune venturi in mane facto die, » et non rumpere furnum usque ad dictum mane facto die ». 4) Br.132b 36-42. $ 196. 1) Br. 58b 23-26; 77» 36; Cod. Dipl. Ecel., XIV, xxxv, 126-127; Suppl., Doc. dei 24 genn. 1340. 2) Br.135% 13; Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxx1x, 97-100. 3) Br. 77 36; 1342 17-23; 1352 1-135b 6. 4) Br.1352 1-136b 6; Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 29 genn. 1321; altro deì 24 genn. 1340. 5) Il documento più recente dove si trovi menzione di Villa di Prato è del 1340 (Cod. Dipl. Eccl., Suppl., 24 genn.); il più antico dove si trovi nominato Musey è del 1355 ( Cod. Dipl. Eccl. , XIV, Lxv, 172-173); onde appare che non ha fondamento 1” opinione volgare, che Musei avesse quel nome dai Gesuiti, sebbene crediamo che sia vera la sua etimologia dalla voce YESVM (così allora scrivevasi) letta a rovescio; e siamo d’avviso che avvenisse quando circa il 1352 fu confiscata dai Re d'Aragona, unitamente alle altre’ possessioni in Sardegna dei conti di IN VILLA DI CHIESA 375 di forno da colare, nè alcuno ortolano poteva levare acqua della gora senza il consenso del guelco ; ed al guelco durante tutto il tempo che. il forno colasse era lecito prendere e adoperare tutta l’acqua del fiume dove era posto il forno, non ostante che orto o vigna che fosse presso a quel fiume avesse bisogno di quell’ acqua. Tale prescrizione del Breve di Villa di Chiesa obligava anche le ville di Domusnovas, Villa di Prato e Villa Massargia, sebbene allora non dipendessero da Villa di Chiesa, ma fossero del Re, che circa quel tempo le concesse a varii de’ suoi in feudo ; e ciò era stabilito, perchè « grandissimo dapno è all’ argentiera » di Siggerro quando alcuno forno non può colare per deffecto d’acqua ». Se alcuna persona deviasse acqua da gora mentre il forno colasse , il giudicare di quelle cause e il condannare spettava al Capitano o Rettore di Villa di Chiesa, il quale in questo aveva piena balia e libera podestà non solo sulle persone di Villa di Chiesa, ma anche su quelle di Domus- novas, di Villamassargia e di Villa di Prato, e doveva procedere ed investigare contra di loro se derivassero l’acqua mentre il forno colasse ; e ciò non ostante alcuno Capitolo di Breve fatto o che si facesse in al- cuna di dette ville. Ed il Capitano o Rettore di Villa di Chiesa li con- dannava nelle multe prescritte ; e secondo la sua sentenza queste dovevano essere ricolte dal Camerlingo del Re, al quale era commessa l’ esazione in Villa di Chiesa o nelle ville predette ®. 197. I forni a mantice si sogliono adoperare particolarmente pei mi- nerali poveri, ossia nei quali sono in abondanza frammiste materie estranee, che renderebbero o assai costoso e soggetto a troppa perdita, O più spesso impossibile, trattare quei minerali nei forni a riverbero ”. Nei forni a mantice tali materie non impediscono la fusione ; alcune di esse anzi, come la pietra calcare e la vena di ferro, che suole essere frammista alla vena di piombo nelle argentiere del territorio d’ Iglesias, ne agevolano viemaggiormente la fusione. La vena assai ricca, ossia la Donoratico, accusati di fellonia. Che poi Villa di Prato non sia allra che Musei, appare da un documento dell’anno 1325 dove se ne indica la posizione, sul rio, nelle vicinanze di Villamas- sargia ( XIV, xxx1x, 96-100): « furnos duos a colando venam ....... positos in aquis et super » aquis Ville Massargie, cum omnibus suis pertinentiis ....., que sunt erga Villam de Prato ». 6) Br.135a 9-135> 6. $ 197. 1) M. L. E. Rivor: Prircipes généraux du traitement des minerais metalliques. Traité' de metallurgie théorique et pratique. Tome second: Métallurgie du plomb et de V’argent. Paris, Dalmond et Dunod editeurs, 1860; pag. 32-33, 47. 376 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE galena propriamente detta o l’alchifoglio (S 157), nei forni a mantice s impasta e cola a stento; che se si aumenti il calore, molta parte del piombo si volatilizza e va disperso. Ove non pertanto anche queste vene, a motivo della natura del combustibile che si ha a mano, o della mag- giore celerità del lavoro, o per altro motivo, si vogliano trattare nei forni a mantice, talora si rimedia all’ inconveniente aggiungendo a quelle vene ferro e pietra calcare, od a tali vene ricche mescendo in certa propor- zione altre vene più povere in piombo, ma che abondino di quelle ma- terie, che, appunto pel vantaggio che recano alla fusione, sono volgarmente chiamate fondenti. Talora invece si rendono tali vene più appropriate alla fusione nei forni a mantice torrefacendole, ossia sottoponendole prima in appositi forni ad una spezie di cottura, detta dai Francesi gri/lage, ‘e in Italia ora communemente ca/cinazione. Per questa cottura o torre- ‘ fazione la galena (solfuro di piombo) si riunisce in più grandi masse ; e si trasforma .in solfato e in ossido di piombo, crescendo di peso per l’ossigeno che assorbisce; se la cottura è ben condotta, da 100 chilo- grammi di galena si ottengono circa 66 chilogrammi di ossido, e 37 di solfato ?. Di tali forni non si trova memoria negli antichi documenti ; ma è certo che erano in uso, poichè due, in buono stato di conserva- zione, ne furono ritrovati. nella miniera di Gutturu Pala, nel luogo detto Pubusino, nel territorio di Flumini Maggiore, in vicinanza della bella sorgente onde nasce quel rio, e perciò fuori ma non lungi dei limiti dell’ argentiera di Villa di Chiesa. Diamo il disegno di uno di quei forni (Tav. VII, fig. 33), quale fu misurato e disegnato dall’ Ingegnere Leone Gouin. Essi distano l’uno dall’ altro metri 1,50; sono costrutti con schisti calcari e calcari silicosi, che dà il luogo medesimo; e sono adossati al monte, sì che tutti i lati, fuorchè quello dinanzi, ne sono coperti e come sotterrati. Eravi dentro tuttora la galena cotta, o vogliam dire calcinata, per essere passata ai forni a mantice. La loro forma è la stessa che in Sardegna è tuttora volgarmente in uso pei forni da calce, ma le dimensioni ne sono assai minori. Come si fa per la calce, così questi, si caricavano disponendo dapprima a modo di volta i pezzi mag- giori di galena, appoggiando tale volta sullo sporto od orlo per ciò la- sciato tutt intorno della parete ; il resto del forno si colmava con pezzi 2) MicneL Canen;,, Metallurgie du plomb (Meémvire couronné ); Paris et Liège, 1863; pag. 7 e 73 (Estratto dalla Revue Uriverselle des Mines). IN VILLA DI CHIESA 3 di galena gettativi alla rinfusa ; e senza dubio, come si pratica nei forni a calce, si mettevano in basso i pezzi più grossi, e i pezzi più minuti lo) intenso il calore. Sotto la volta si alimentava il fuoco dalla bocca con e perciò più facilmente calcinabili in cima del forno, dove giunge meno legna minuta come per la calce; e la vena così cotta si passava ai forni a mantice. 198. Durante la fusione il piombo liquefatto cola dai forni in una conca a tale uopo dinanzi la bocca del forno; dalla quale a mano a mano, e prima che si raffreddi, si toglie per versarla in forme, le quali presentemente si fanno di ferro fuso, a quei tempi probabilmente in terra cotta. In queste il piombo si raflredda in pezzi, che in Francia si di- cono saumons, in Italia si dicono, e sembra che già allora si dicessero, pani *. Dove abbiamo trattato dell’ industria delle miniere in Sardigna al tempo dei Romani ($ 9) abbiamo narrato, come uno di tali pani antichi di piombo, portante l’ iscrizione dell’ imperatore Adriano, fu trovato a Carcinadas presso Flumini, e si conserva ora nel museo di Cagliari. Esso pesa 34 chilogrammi; la sua lunghezza inferiore è approssimativamente di centimetri 37; la superiore, di centimetri 34; la larghezza inferiore, di centimetri 11; la superiore, di centimetri ro; e l'altezza di centi- metri 8. Ne ripetiamo il disegno (Tavola VII, fig. 34), quale si ha nel Bollettino Archeologico del Professore Canonico Spano, che primo lo publicò e lo descrisse. Altri simili pani si trovarono in varii luoghi, quali interi e quali mozzi, ma senza iscrizione, probabilmente perchè prove- nienti da forni privati, e non, come quello, da forno appartenente al principe. 199. Oltre il piombo, si hanno dalla fusione della vena parecchi altri prodotti, secondo la qualità e le proporzioni delle materie estranee che costituiscono la vena di piombo o vi si trovano frammiste, e secondo la natura dei forni, e il modo ond’è condotta la fusione. Tali prodotti possono ridursi a quattro : le scorie, delle quali non conosciamo il nome antico, ma che forse sono quelle, che nel Costituto di Massa sono dette loppe ; se pure con questo nome, che, con significazione non ben $ 198. 1) Poichè troviamo chiamati parelli (M. Lxx1, 69; 70; 74; 93; 98) o panettoli (M. LXx, 14; LxxI, 18-19; 51) quelli di minore grossezza, in che si colava il rame a Massa. 6 199. 1) 27. xLIv, 23, Ivi tuttavia nominandosi loppas leccosas de baccaticcio, 3° intende piuttosto la scionfa o schlamm; vedi sopra $ 171, e solto $ 211. Serie II. Tom. XXVI. 48 378 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE definita, vive tuttora in Toscana, non s'intende il secondo dei produtti residui della fusione, ossia quelle quasi schiume del minerale, che dai Francesi sono dette mattes. Dopo la fusione rimangono inoltre i depositi e direi quasi le sozzure del forno, dette similmente dagli Spagnuoli 4or- ruras, @ dai Francesi crasses, e che noi potremmo chiamare feccie. Tutti questi prodotti, o più veramente residui, della fusione, ai nostri tempi si sogliono sottoporre ad una nuova fusione con metodi acconci, per trarne almeno in parte il piombo che tuttora contengono; se ne teneva parimente qualche conto per la vena di rame in Massa; non sembra che fossero nuovamente trattati in Villa di Chiesa. Finalmente, nei forni a colare, il fumo, e nominatamente la forte corrente dei forni a mantice, trae con sè una non dispregevole quantità di minerale, che ora suole raccogliersi disponendo il fornello 0 camino in modo, che quel minerale quanto più sia possibile si condensi e depositi prima di essere trasportato all’ aperto ; pare certo che gli antichi non ne tenevano conto. — Le scorie, spesso ancora assai ricche in piombo e in argento, si tro- varono in grandissima quantità nei luoghi dove gli antichi trattarono vene di piombo. La loro ricchezza (parliamo di quelle soltanto del ter- ritorio che ora forma il circondario d’ Iglesias) è assai varia; e simil- mente la ricchezza in argento; ma questa in generale è considerevole, in tanto che appare che la maggior parte di quelle scorie provengono da vene assai più ricche in argento che non quelle che si lavorano ai nostri giorni. Conviene inoltre notare, che in generale le scorie recenti dell’ antica argentiera di Villa di Chiesa furono trovate meno ricche in piombo, ossia meglio lavorate, di quelle di Flumini della stessa età; e le antiche, appunto specialmente in Flumini, meno ricche che non le più recenti; onde appare che i Pisani e gli altri stranieri che d’ogni parte convenivano in Villa di Chiesa vi portarono qualche maggiore per- fezione in questa industria; ma che in generale l’arte metallurgica, in- trodotta dai Fenici in Sardigna, lungi dal progredirvi, andò nei tempi seguenti in decadenza. L'industria moderna, sottoponendo quelle scorie a nuova fondita coi migliori metodi che la scienza e l’arte insegnano, ne trasse considerevoti benefizi. — La perdita che, sotto varie forme, si ha nella fusione, è nel Breve di Villa di Chiesa, quantunque relativa- 3) M. xLIv, 20-26. IN VILLA DI CHIESA 379 mente ad altra materia, designata col nome di mancaiura o manca- mento 3. 200. Il piombo che cola dai forni contiene ancora l’ argento, che suole trovarsi nelle vene di piombo, quantunque in proporzioni somma- mente varie. Dicesi ai nostri tempi piombo d'opera; ai tempi dei quali trattiamo siccome il separare l argento dal piombo dicevasi smirare (S 188), chiamavasi piombo non smirato '). La separazione dell’ argento dal piombo ha luogo col metodo che ora è chiamato coppellazione : ed è fondato sul principio, che se si faccia lambire dalla fiamma il piombo liquefatto, passandovi sopra una corrente d’aria, o venzo, la superficie del piombo ne assorbe Il’ ossigeno, e si converte in li/argirio ; mentre l'argento non si ossida, e rimane inalterato. La coppellazione si fa in forni a riverbero di appropriata costruzione, e per l’ordinario ricoperti di cappello mobile. Il fondo o suolo del forno si forma in modo di conca per caduna coppellazione con argilla calcare ; quando questa conca è ben battuta e bene asciutta, vi si pone il piombo; indi il tutto si ricopre col cappello. Si fa liquefare il piombo con combustibile che dia fiamma, e da fori a tal uso praticati si soffia la fiamma sul piombo, sì che il litar- girio che comincia a formarsi appena compita la fusione, e che, come più leggero per l’ossigeno assorbito, sornuota, viene spinto verso la bocca dei forno, dove gli operaji posti a quel lavoro con una specie di rastello ne ajutano l’escita, facendolo colare fuori del forno per un canaletto scavato nell’orlo del suolo del forno, e che profondano a mano a mano che, pel litargirio escito, scema nel forno la massa del piombo liquefatto. Quando infine il litargirio che si forma e viene a galla è in sì piccola quantità, che la superficie dell’ argento fuso non ne è più ricoperta per intero, l’argento, riscaldato ad assai alta temperatura per I ossidazione del piombo, tramanda come un lampo, che dai Francesi è detto I’ eclair, e in Italia folgorazione. Dopo questa, la superficie dell’ argento tosto si offusca, perchè, cessata quasi interamente l'ossidazione del piombo, l’argento, al quale questa dava un eccesso di calore, scende quasi d’un tratto ad avere soltanto a un di presso il grado di calore del forno. Appena ha luogo la folgorazione, deve cessarsi il fuoco ; poichè continuandosi, l’ar- gento ne verrebbe liberato bensì dal poco ossido di piombo rimanente, 3) Br.33% 15; 19. $ 200. +) Br. 512 18-19. 380 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE il quale si porterebbe verso le pareti del suolo e ne verrebbe assorbito, ma ciò con grave perdita e svaporazione dell’ argento. Quando la cop- pellazione si lasciò continuare fino a questo grado, la superficie nuda e liscia dell’ argento diventa quasi uno specchio, nel quale si scorge riflessa la cupola o cappello del forno ?. 201. Alla descrizione che abbiamo dato del modo col quale si eseguisce la coppellazione, pienamente corrispondono le notizie e le prescrizioni, che intorno all’ arte dello smirare troviamo nel Breve di Villa di Chiesa. — Sotto il comando e la direzione dei guelchi, come al colare della vena presiedevano i mastri colatori ($ 192), così allo smirare presiede- vano i mastri smiratori *); sott essi erano gli ajutatori ®, detti anche smiratori ®, e i trattatori ©; e questi sono anche detti semplicemente lavoratori ®. Trovasi espressamente fatto cenno, che nei forni a smirare facevasi uso di pertiche o scaldatoje ®, e così di legna minuta. Il litar- girio, sì nel Breve di Villa di Chiesa come in altri documenti di quella età, è chiamato ceneraccio ?. Intorno al modo di smirare, e alla molta cura che richiede, è prescritto, che i maestri smiratori, ed i trattatori ed ajutatori, ed ogni altro uomo che s°’ allogasse a quel lavoro, poscia che avesse posto suso, ovvero dopo che, come altrove si dice, il forno « abbia lo difficio addosso » , ossia poichè il forno fu ricoperto del cappello mobile del quale abbiamo fatto cenno, debbano spianare /o ce- neraccio, ossia ajutare l’escita del ceneraccio passando leggermente sopra la superficie il rastello; nè possano indi partirsi finchè non è smirato e il ceneraccio recato a fine, e allora tosto debbano rinunciarlo al guelco o al suo fattore. Chi contra facesse, o fosse al ceneraccio e non fosse all’ argento guando si fa fine (qui evidentemente s’ indica l’ istante della folgorazione), pena libre cinque d’alfonsini minuti, e risarcisse il danno 2) Rivor, Principes genéraux du Traitement des minerais métalliques. Tome second: Metal lurgie du plomb et de l’argent; Paris, 1860, pag. 227-241. $ 201. 1) Br.134b 4; 6; 12; 26; 28; 35. 2) Br.134b 5; 13; 26; 28; 3à. 3) Br. 134b 6. 5) Br.134 5; 6; 29; 36. 5) Br.134b 12-13; 21. 6) Br.52b 7. 7) Br.134b 7-8; 22. Breve Pisani Communis, anni MECLXXXVI, Lib. II, cap.XLIII, presso Bonaini, Statuti inediti di Pisa, Vol. I, pag. 428, lin. 30. 8) Br. 47b 41-42. SL IN VILLA DI CHIESA - 381 al guelco; credendosi in ciò al giuramento del guelco medesimo. Se i maestri smiratori, gli ajutatori, i lavoratori, od alcuna delle persone che lavoravano al ceneraccio, non facessero l’arte bene e lealmente, e com- mettessero fraude, dovevano essere puniti in libre venticinque d’alfonsini minuti per ogni volta, oltre il risarcimento dei danni. Essi tutii dove- vano prestare giuramento, di osservare tutti e singoli i Capitoli del Breve appartenenti allo smiratore 9. — Non vogliamo porre termine a questi cenni intorno all’arte dello smirare presso gli antichi, senza notare, che pare smirassero con somma cura ; poichè non ostante la grande ricchezza in argento delle vene di piombo che coltivavano, ricchezza attestata anche dall’ esame delle scorie residuo dei loro forni, il pane di piombo di Adriano, ed in generale i pezzi di piombo trovati nelle antiche scorie, sono poverissimi d’ argento. 202. Finito di smirare, l’argento che rimaneva nel forno si riduceva in piastre o in barbe *. Da un passo del Costituto di Massa pare che piastre e pannelli fossero una cosa sola ?®; ma senza dubio le piastre o pannelli dell’ argento erano di assai minori dimensioni che non quelle del piomho o anche del rame. Quando l’argento era in troppo poca quantità perchè si potesse colare in piastre, crediamo che liquido si get- tasse nell’ acqua, dove nel subito raffreddamento si forma come in sottili rami contorti ed intrecciati, simili a radici o barbe, onde si rende age- vole lo staccarne la parte che si voglia, ciò che mal si potrebbe se si lasciasse indurare nel fondo cupo del forno; ed all’ argento sotto tale forma riferiamo appunto la denominazione di argento in darde. — La vendita non solo del piombo ma anche dell’ argento al tempo dei Pisani, e durante i primi anni della dominazione Aragonese, era affatto libera, come di ogni altra qualsiasi mercanzia. Il piombo, come ogni altra mer- canzia che si vendesse, doveva pesarsi alla statera grossa di Villa da quello che avesse comperato il dritto delle statere ; da questo obligo era escluso l’ argento, sul quale perciò non aveva luogo l’abbuono del quattro per cento in favore del compratore, come per le altre mer- canzie ? ($ 226). 203. Il ceneraccio o litargirio si vende in poca quantità per varii usi 9) Br.134b 4-38. ( 202. 1) Br. 1392 20-21. 2) M. LXX, 87-101. 3) Br.77b 18-78? 9; Cod. Dipl.Eccl., XIV, 25-53. 382 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE nelle arti; la maggior parte si riconverte in piombo, disossidandolo con una nuova fondita ; il che si dice oggi rivivificare. Il piombo spogliato così del suo argento si chiama oggi piombo mercantile (in francese plomb marchand); allora, con propria appellazione, dicevasi piombo smirato *. Siccome tuttavia gli antichi poco curavano il piombo, an- dando principalmente in traccia dell’ argento: nel territorio di Flumini (non in quello d’ Iglesias, nè di Domusnovas, di Musey e di Villamas- sargia) si trovarono pezzi considerevoli di litargirio abandonati fra le scorie come cosa inutile. 204. La coppellazione dapprima, e poscia la rivivificazione, portano non poca spesa, e sopratutto grande perdita o mancatura ($ 199 fin.) nelle varie fusioni. A questo danno ai nostri tempi pose rimedio una recente invenzione, detta communemente patinsonage, dal nome dell’in- ventore Patinson, che trovò modo di spogliare una parte del piombo quasi interamente del suo argento, concentrandolo in una piccola parte del piombo medesimo, che sola poi viene sottoposta alla coppellazione e alla rivivificazione. Tale concentrazione è fondata sul principio, che il piombo liquefatto si coagula e cristallizza assai prima e più facil- mente dell'argento ; onde gettando dell’acqua sulla superficie del piombo liquefatto a non grande calore, e così fattala subitamente raffreddare, se ne toglie a mano a mano con grandi cucchiari foracchiati la parte pel subito raffreddamento cristallizzatasi e granulata, la quale è più povera d’argento, che rimane nelle parti del piombo tuttora liquide ; la quale operazione si ripete più volte in bacini successivi, finchè il piombo che si estrae sia sufficientemente spoglio d’argento, e quello che si lascia, e che solo si passa poscia alla coppellazione, sia sufficiente- mente arricchito. A 205. Pare certo, che tale metodo non era conosciuto dagli antichi. Bene è vero, che in parecchi luoghi, sotto il nome di dellitrame ! o di dellifana ?, sembra manifestamente indicarsi il piombo arricchito d’argento ; e che non ogni piombo, ma soltanto la bellifana, si smirasse e se ne traesse l’argento. Rechiamo qui per disteso i varii passi del $ 203. 1) Come appare dalla contraria appellazione piombo zor smirato, che leggiamo Br. 512 18-19. $ 205. +) Br. 51% 18-31; 652 7-9. 2) Br.132b 20; 133. 9-10. e 7) IN VILLA DI CHIESA 383 Breve dove si fa menzione del bellitrame o della bellifana, onde non solo possa ognuno formarsi un più certo giudizio sulla vera significazione di questa voce, ma sopratutto sulla questione più importante, se dagli antichi fosse conosciuta l’arte di concentrare, ed in qual modo, l' ar- gento in una parte del piombo. « Ordiniamo, che cui facesse alcuno furto di vena, o d’ariento, o di ) BELLITRAME, 0 di piombo non smirato .... che sia impicchato per la » gola sì che moja ...... con ciò sia cosa che ’l diricto del Signore » Re da Ragona de l’ariento si po’ fraudare et involare in del decto » modo, et de li guelchi dell’argentiera similmenti ». Lib. II, cap. xv. « Ordiniamo, che alcuno Judeo possa nè debbia stare nè habitare per » alcuno modo in Villa di Chiesa nè in de le suoi confine, nè in tucta » l’argentiera del Signore Re di Ragona; ..... per cessari multi furti » d’ariento et de seLLatRAME, che per li suprascripti Judei si faceano » in della suprascripta argentiera ». Lib. II, cap. Lxv . « Ordiniamo, che nessuno guelcho nè altra persona possa nè debbia » comperare nè ricevere vene, grane, piombo, BELIFANNA, o altra cosa » d’alcuna piassa di forno, se non da la persona propria di cui è lo » forno o la piassa, o da quella persona che quello forno o piassa » avesse in titulo d’allogagioni overo a parte franca, overo da altra » legiptima persona per loro ». Lib. IV, cap. xvi ®. « Ordiniamo, che qualunqua persona prestasse innansi piassa di forno, » in dell’ argintiera, in dell’arte del colare : che quelli che ricevesse » la prestansa, tracto ad fine l’ ariento lo possa levare de la seLLIFANA » sensa paraula del creditore o del suo messo, et debbia dare lo decto » argento in mano del creditore ». Lib. IV, cap. Lxxm . 206. Per gli usi dell’argentiera era lecito trarre legna da tutti i boschi nel distretto dell’ argentiera, senza pagare alcun diritto. ”); ed anzi era lecito trarne da tutti i boschi e salti antichi o novelli in tutto il Regno Cagliaritano ®. La legna per le bolghe nelle fosse (S 111), il carbone e i ceppi pei forni da colare o da calcinare *, le pertiche e 3) Br.51? 1831. 4) Br. 652 7-9. 5) Br.132b 18-25. 6) Br.133b 6-12. 6 206. 1) Br. 1342 38-134b 3. a) Br.352 4-21. 3) Br.133b 38-42. 384 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE scaldatoje pei forni da smirare, si prendevano alle foreste e si portavano alle fosse od ai forni dai molentarii e dai carratori. Chi portava legna per uso d’argentiera, doveva portarla alla giusta misura, che era il peso di ccc libre alla statera grossa di Villa di Chiesa; e similmente il fo- cajuolo che portasse carboni ‘ doveva portarli alla piazza del forno, e quivi dare la giusta misura, che era la mezza doleggia, che perciò ogni guelco doveva tenere alla piazza del forno, buona e diritta, scandigliata con quella della Corte; e se il guelco la tenesse maggiore del giusto, pena libre dieci d’alfonsini minuti ®. I molentarii e carratori che por- tassero carbone alli guelchi dovevano portarlo bene e lealmente, e in sacca buone e sufficienti, sì che non si spargesse per via ®. Chi avesse promesso legna o carboni al guelco, doveva darli al termine convenuto, sotto pena di soldi quaranta, e credevasi al giuramento del guelco DD; nè, finchè non avesse data la quantità promessa, poteva lavorare ad altro servigio 9. Similmente il guelco non doveva comperare carbone d’alcun focajuolo che fosse allogato con altro guelco; e nel convenire con alcuno per carbone, doveva prima interrogarlo se non fosse allogato con altri, o se altri lo avesse fornito, ossia gli avesse dato denari in conto di carboni da ricevere . 207. Dei numerosi forni da colare che si trovavano nell’argentiera di Villa di Chiesa (S$ 195), di due soli rimane memoria nei documeuti di quella età : ossia i forni detti l'uno « Buonguadagno » e l'’ altro « Leone », sulle acque di Villamassargia verso Villa di Prato, su terra già appartenente ai conti di Donoratico. Questi due forni dapprima spettavano a Guidone di Ciolo Martello da Pisa, e a Mondino da Calci borghese di Castello di Castro e abitante in Villa di Chiesa; i quali, forse mancando del denaro necessario per l'esercizio di quei due forni, in data 18 ottobre 1319 vendettero pel prezzo di libre 3400 di aquilini minuti la metà degli anzidetti due forni al ricco borghese di Villa di Chiesa Barone di Berto da Samminiato, di cui già più volte ci occorse di fare menzione; e fecero inoltre con lui compagnia per l’ esercizio 4) Br.133b 16; 20; 1342 11. 5) Br.124b 35-38; 1343 11-17. 6) Br.1322a 22-26. 7) Br.133b 29-35. 8) Br. 1323 26-29. 9) Br.123% 19-30. IN VILLA DI CHIESA 385 dell’ arte de’ guelchi in que’ due forni, e per colarvi la vena d’argento e di piombo. L’anzidetto Guidone Martello pagò libre 300 per la quarta parte delle spese occorrenti per l’esercizio dei due forni; e fu lasciata facoltà a Mondino da Calci di partecipare per un altro quarto alla com- pagnia, pagando simili libre 300. Detta compagnia doveva durare mesi quattordici. Finito quel termine, il 29 gennajo 1321, Guidone Martello e Mondino da Calci dolendosi che Barone da Samminiato non avesse sodisfatto ai patti della compagnia, seguì una transazione, per la quale i detti Guidone e Mondino dichiararono d'aver ricevuto da Barone di Samminiato quanto questi o in denaro od altrimente doveva in ragione della compagnia ed erdica fra loro convenuta, e glie ne spedivano piena e finale quietanza. Non vi è indicato quale somma Barone, e per lui il suo procuratore, pagasse a tale titolo; nè pure vi si fa menzione della proprietà dell’ altra metà dei due forni ”; ma già nell’ inventaro dei beni d’esso Barone, fattosi poco dopo la sua morte, li 19 marzo 1325, i due forni sono notati come piena sua proprietà, con tutte le loro dipendenze, ferramenta e fornimenti, e come avuti per compra da Guidone Martello e da Mondino da Calci ?; onde convien dire che quando nel 1319 comperò da essi la metà di quei forni e fece compa- gmia per l’ esercizio, giù ne avesse comperato l’altra metà: ovvero che la comperasse poscia, forse appunto in occasione della fatta transazione per l'esercizio della compagnia. Da Barone questi forni col resto della sua eredità passarono al suo figliuvolo Lamberto ?; ma il figliolo di uno de’ suoi tutori, il notajo ser Nicolò di Peldericcio del fu Baldesi da Samminiato, occupò, non sappiamo a quale titolo, quanto il detto Barone già possedeva in Villa di Chiesa e nel suo territorio, e tra le altre cose anche quei due forni, che diede in allogagione a Nerio di Federico. Lamberto fatto maggiore mosse lite per ricuperare i suoi beni; e questa finiva con una transazione, per la quale ser Nicolò restituiva a Lam- berto i beni paterni, e tra questi i due forni, ma coll’obligo di mantenere pel termine convenuto l’allogagione fatta a Nerio di Federico ‘. $ 207. +) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 29 genn. 1321. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxx1x, 97-101. 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xxxv, 157-170. 4) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 24 genn. 1310. Serie II. Tom. XXVI. si (sol 386 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE CAPITOLO X. Ordinamenti di sicurezza publica. 208. Di doppio genere erano i pericoli che potevano nascere dai lavori delle fosse, ed ai quali gli ordinamenti di publica sicurezza do- vevano provedere : ossia i pericoli derivanti dalla natura medesima di questo genere di lavori, sotterra, e talora a grandissime profondità ; ed i pericoli che provenivano dalle persone, che la speranza di lucro e le immunità e i privilegi traevano d’ogni parte a Villa di Chiesa. 209. Pochi, ma tuttavia degni di nota, sono gli ordinamenti destinati a cessare i pericoli derivanti direttamente dalla natura di quest’ indu- stria. Già abbiamo altrove notato ($ 108), che ogni fossa aveva diritto, oltre la bocca propria, di avere, anche a traverso fossa altrui, un’altra bocca o spiraglio. — Se alcuno si trovasse impedito in alcuna mon- tagna, sotterra o sopraterra, i maestri delle altre fosse erano tenuti ad ajutarlo di tutto ciò che abisognasse, giusta loro potere, coi loro lavo- ratori; e se vi si trovassero i Maestri del Monte, dovevano essere a ciò, anzi espressamente erano tenuti andare a soccorrere gl’ impediti : e tutto ciò a pena di marco uno d’argento a chi contra facesse; e i Maestri del Monte potevano per la detta causa porre bandi e fare co- mandamenti, e condannare nella detta pena chi non obedisse ". Per maggiore sicurezza ai lavoratori nell’ entrare e nell’ escire, doveva ogni fossa avere il suo canape da cavalcare ($ 131) buono e sufficiente, colla cinghia o spartina fermata al canape, con la quale dovesse cin- gersi colui che cavalcasse. Il Capitano, fra un mese dall’ entrata in of- ficio, era tenuto di far mandare il bando, e i Maestri del Monte di comandare ed ammorire per bando in Villa per mezzo di dandiere 0 $ 200. 1) Br. 110* 32-110b {5. IN VILLA DI CHIESA 387 di messo, due volte nel tempo del loro officio, a tutti i maestri di fossa, che le soprascritte cose avessero ad osservare ; e siffatto bando ed ammonigione dovevano fare scrivere nel loro libro dal loro scrivano. Se alcuna delle soprascritte cose i Maestri del Monte o il loro scrivano non facessero, pena a ciascuno marco uno d’argento ?). 210. Se da taluno si isdificiasse la bocca di una fossa, o se essen- dosi aperta alcuna bocca di fossa presso a via publica là ove usi per- sona, quella fossa si lasciasse di lavorare, colui che isdificiasse la bocca o il maestro che abandonasse la fossa era tenuto, alle spese dei par- zonavili, prima che la lasciasse, di farvi intorno incontanente a modo di riparo un muro di pietre a secco, largo due palmi di canna, ed alto almeno palmi quattro, acciocchè alcuna persona o bestia non potesse cadervi entro; e li Maestri del Monte dovevano ciò fare osservare, a pena di libre cinque d’alfonsini minuti !). Chi mettesse fuoco in fossa maliziosamente per mal fare, doveva essere punito in libre cento d'al- fonsini minuti per ogni volta; che se per cagione di quel fuoco alcuna persona morisse, chi avesse messo il fuoco era punito nella vita ?). Similmente se alcuno mettesse asta o gettasse pietra od altra cosa per fondorato, se non percotesse nè ferisse persona, punivasi infine in libre cinque d’alfonsini minuti; se alcuna persona ne fosse percossà, e non n’escisse sangue, la pena era infine in libre dieci; che se n’ escisse sangue, ovvero se della percossione rimanesse segno nel volto, la pena era infine in libre venticinque, ad arbitrio del Capitano, considerata la qualità del fatto e della persona. Se il ferito ne morisse, il perco- litore doveva essere punito nel capo ®. In tutti questi e simili casi in Villa di Chiesa la pena doveva cadere sul solo colpevole, nè la fossa nè i suoi parzonavili non avevano a pagare alcuna cosa ‘. Diversi in ciò, e a parer nostro meno giusti e ragionevoli, erano gli ordinamenti del Commune di Massa ?. 244. Fra i provedimenti destinati ad impedire i danni che potessero direttamente provenire dall’ esercizio di quest’ industria deve annoverarsi 2) Br.142p 15-42; M, xxxvu, 1-9. $ 210. +) Br. 119% 37-42; 1382 15-30. 2) Br.143° 13-18. 3) Br. 1432 37-143b 13. 4) Br. 1222 25-26; 1432 18-21; 143. 8 10. 5) M.v, 75-80; vi, 3-9. 388 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE parimente la proibizione che abbiamo altrove accennata (S$ 165), di lavare vena in Villa o in orto; poichè tale proibizione dicesi fatta « per cessare molte infirmità, et rischio di fuocho » !®. Per simile mo- tivo, e per evitare la puzza e molestia che ai vicini derivava da quel lavoro, era proibito struggere sevo, che adoperavasi ad uso dei lumi nelle fosse, in alcuna piazza in Villa di Chiesa, od in alcuno umbraco o casa intorno nè presso a dette piazze a case dodici; e ciò a pena di un marco d’argento per ogni volta ?. Nel Breve del Commune di Pisa era espressamente proibito di affinare, smirare o fondere in città piombo, rame, o altro metallo qualsiasi, salvo oro, nè ceneraccio (litar- girio ), galena, o altro scotorario (forse le scorie) ©. Non troviamo simile proibizione in Villa di Chiesa; ma per le medesime ragioni che vi era proibito il fonder sevo e il lavare vena, a più forte ragione non vi poteva essere permesso il colare. Aggiungasi, che a quei tempi i forni solevano costrursi dove fossero corsi d’acqua per forza motrice ; soltanto in tempi assai più recenti troviamo menzione di forni a colare anche in Villa di Chiesa 9; menzione anzi la quale crediamo riferirsi soltanto al forno già annesso alla zecca. 212. Abbiamo veduto a suo luogo (S$ 19), come pei benefizii che si ottenevano dall’ industria delle argentiere, e pei privilegi e le immu- nità concesse in Villa di Chiesa alle persone che altrove avessero debiti o si fossero rese colpevoli di minori delitti, quasi ad asilo, ed in- sieme come a luogo di ricchi guadagni, vi conveniva gente d’ogni parte ; concorrendo questa sia di Sardigna, sia nominatamente di Cor- sica ”, sia dal continente. Da questo concorso di gente sempre nuova ed ignota, mossa dal solo desiderio di guadagno, diversa di nazione, non legata al luogo da antico domicilio, non da parentele, nè da avite possessioni, e che anzi la maggior parte non possedevano cosa alcuna, sì che almeno il pericolo della perdita dei loro averi li ritenesse da $ 211.1) Br. 144b 12-26. 2) Br. 632 4-13. 3) « Teneamur nos Potestales et Capilanei non pali neque permittere, quod affinalur » seu ismiralur » (meglio il Breve del 1303 affiretur seu ismiretur) « aut fundatur plumbum, » ramum, vel metallum aliquod excepto auro, cenneraccium, vel agecta, aut aliud scotoparium * in civitate Pisana ». Breve Pisarî Communis, an. MCCLXXXVI, Lib. II, cap. xLrIT (Bonaini, Statuti inediti di Pisa, Vol. I, pag. 428). 4) Cod. Dipl. Eccl., XV. S 2192, +) Br.522 10-16; 60b 39-49, IN VILLA DI CHIESA 389 mal fare: è evidente, che grave e continuo era il pericolo di turbolenze o di misfatti ; pericolo reso anche maggiore dalla natura dei lavori d’argentiera, nei quali i lavoratori si trovano per la maggior parte sot- terra, celati ad ogni sguardo, lontani dalle publiche autorità e dai giusdicenti in Villa di Chiesa, sparsi su di un vastissimo territorio, e che potevano inoltre passare da una ad altra fossa ad ogni settimana. Tuttavia non poteva venire in mente di impedire il concorso di tal gente ai lavori delle argentiere ; chè appunto alla loro operosa povertà, e alla sete di grandi e rapidi guadagni che li spingeva al lavoro, Villa di Chiesa doveva la floridezza maravigliosa alla quale in meno di un secolo erano salite le sue argentiere, e la ricchezza e la prosperità che queste le avevano procacciata. Restava adunque soltanto di dar opera con adatti ordinamenti d’impedire, per quanto fosse possibile, i misfatti ; e di provedere, se fossero commessi, che se ne scoprissero e se ne punissero gli autori. 213. Primo mezzo col quale si cercava in Villa di Chiesa d’ impedire gli omicidii e le percosse, si era la proibizione generale, con poche eccezioni, e severissima, di portare armi ©; alla quale proibizione ge- nerale si aggiungeva la prescrizione speciale, che nessuno in alcuna fossa, bottino o canale potesse portare arme qualsiasi o/fendivile o di- fendivile, sotto pena di libre dieci d’ alfonsini minuti per ogni volta ; e i maestri delle fosse fossero tenuti denunziarli, e il Capitano farne inquisizione ogni volta che fossero denunziati. Nel novero di tali armi proibite non era compresa la cervelliera ®?, la quale tenevasi piuttosto come riparo dalle facili cadute di pietre o di simili oggetti nelle fosse. Tuttavia i lavoratori di truogora, o di monte, o d'altro lavoro d’ar- gentiera, potevano portare armi andando o venendo da monte; ma giunti a Villa di Chiesa dovevano tenerle in mano legate con correggia o con altra legatura fino alla casa della loro abitazione ; e così, andando a monte, dalla casa fino fuori di Villa 9. 214. Ad evitare risse e ferite era parimente proibito di giocare alla montagna a gioco di dadi o a qualsiasi altro gioco ove denaro si vin- cesse o si perdesse; e li maestri e li scrivani delle fosse erano tenuti $ 213. +) Br. 47b 2-48? 36. 2) Br.143? 1-11. 3) Br. 482 6-18. 390 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE di ciò impedire : pena ai contrafacenti infine in soldi quaranta d’ alfonsini minuti; e ciascuno poteva accusarli, e all’ accusatore doveva essere te- nuto credenza. Ed i Maestri del Monte erano obligati per giuramento, a pena di un marco d’argento, di farne ricerca ogni settimana, e de- nunziare alla Corte e far condannare i contraventori ". Al medesimo motivo di evitare le risse crediamo debba attribuirsi la proibizione di vender vino alle montagne ?. Senza dubio inoltre la necessità di ac- certarsi se fra i lavoratori alle fosse si celassero malfattori fu una delle cagioni, per le quali fu prescritto che niuna persona potesse rimanere alle fosse dal sabbato a terza al lunedì, e che tutti li pagamenti aves- sero a farsi in Villa e non alle fosse. E a chi alcuna di queste cose contrafacesse, pena infine in libre dieci d’ alfonsini minuti per ogni volta, e ogni uomo lo potesse accusare, e avesse la metà del bando, e gli fosse tenuto credenza *). 215. Era severamente proibito il fare « ressa, jura overo conpagnia », nè per nazione, come Z'erramagnesi (continentali, di terraferma ; è voce di uso assai frequente nei documenti sardi di quella età), Corsi, Sardi, nè altrimente, e l'avere Consolo, Capitano o Gonfaloniere, od altro capo : pena nell’ avere e nella persona chi contrafacesse ; sì veramente, che se alcuno fosse perciò punito nel capo, l'avere e li beni rimanessero agli eredi. Al Capitano o Rettore che consentisse, o fosse negligente a punire i contrafacenti, pena libre cinquecento d’alfonsini minuti, e fosse cac- ciato dall’ officio. Non erano comprese in tale proibizione le compagnie usate ordinate ": quali erano appunto la compagnia di montagna ed ar- gentieri, e quella dei lavoratori di truogora, tulani e modulatori, le quali avevano propria rapresentanza e dovevano recare il proprio candelo per la festa di Santa Maria d’agosto ??; e la compagnia del forno, la quale parimente aveva proprio capo ‘). 216. Questi provedimenti tendevano principalmente al mantenimento della quiete publica, ed alla sicurezza delle persone. A rendere poi più $ 214. +) Br.612 29-32; 145. 35-1462 3. 2) Br.61% 29-32. 3) Br.612 29-30; 40-4î. Che queste tre prescrizioni derivino dal motivo da noì esposto appare anche da ciò, che si trovano adunate in un medesimo Capitolo del Breve (Lib. II, cap. xLIX), fra gli ordinamenti di materia criminale. 6 215. 1) Br. 52% 9-35. 2) Br.31b 22-29; 36-32? 7; 32° 36-37; 32b 1-2. 3) Br.48? 1-4. IN VILLA DI CHIESA 391 difficili i furti era vietato di caricare vena nè netta nè lorda di notte- tempo, sotto pena infine in libre venticinque d’alfonsini minuti #; ma di notte era lecito trasportare e con carri e cogli asini senza alcuna pena; chè altrimente ne sarebbe venuto troppo danno all’ argentiera ®. Per simile cagione era proibita la vendita dei lumi del sevo alle fosse, ed il portare da monte guscierno ($ 120) in Villa; salvo se occorresse per farlo conciare, o se si trattasse di lavoratori che, andando la mat- tina a monte e tornando la sera in Villa, portassero con sè in casa i loro ferri ®. Più notabile e singolare è un’altra prescrizione del Breve, che mal sapremmo dire se, come tuttavia ne pare più probabile, già esistesse nel Breve del tempo dei Pisani, o se sia stata aggiunta nella riforma fattane dopo la conquista Aragonese: che cioè nessun Giudeo non potesse stare nè abitare per verun modo in Villa di Chiesa o ne’ suoi confini nè in tutta l’argentiera, a pena di libre dieci d’ alfonsini minuti per ogni volta che alcuno di loro vi si trovasse: e ciò « per » cessari multi furti d’ariento et de bellatrame, che per li suprascripti 4 » Judei si faceano in della suprascripta argentiera » . oltre, per im- pedire sì i furti che gli altri maleficii, o discoprirne gli autori se si commettessero, si tenevano alle montagne guardie giurate, che non do- vevano dipartirsene nemmeno in domenica nè in altri dì bandoreggiati . 217. Che se si commettesse misfatto alla montagna, o andando o ve- nendo, i Maestri del Monte erano tenuti di prendere o far prendere il malfattore, e menarlo in forza del Capitano; e tutti i provedimenti che facessero per far prendere il malfattore dovevano essere osservati, an- corchè dati soltanto a voce e non per iscritto, e il Capitano doveva condennare coloro che non obedissero ; e credevasi alla parola dei Mae- stri del Monte '. Per le ferite e percosse fatte in piazza di forno o in argentiera, o andando o venendo, le pene erano più gravi che non per le percosse o ferite fatte altrove, da libre cinque infine in libre du- cento d’alfonsini minuti, secondo la qualità del fatto e la condizione delle persone; e se il colpevole non pagasse fra giorni quindici poichè $ 216. +) Br.124° 2-8. 2) Br 56b 1-4. 3) Br. 145b 5-11; 26-29; 144b 5-11, 4) Br. 65° 44 65h 9. 5) Br. 618 32-36, $ 217.1) Br. 150b 4-19, 392 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE gli fosse letta la condennagione, pena il taglio della mano ritta ?. La D; l'assassinio, ossia se alcuno pena dell’ omicidio era la decapitazione ferisse altrui per prezzo ($ 19, not. 3), se il ferito ne morisse, sì colui che avesse fatto la ferita come il mandante erano puniti nel capo; se il ferito non ne morisse, colui che avesse fatto la ferita per prezzo era tuttavia punito nel capo; e il mandante era condennato in pena doppia di quella alla quale sarebbe stato sottoposto se avesse fatto la ferita di propria mano *. Chi facesse furto di vena, o di piombo non smirato, o di bellitrame, o d’argento, doveva essere impiccato; e parimente i ricet- tatori del furto, o quelli che smirassero il piombo sapendo la cosa fur- tiva: e ciò perchè « ’1 diricto del Signore Re da Ragona de l'ariento » si po’ fraudare ed involare in del decto modo, et de li guelchi del- » l’argentiera similmenti ». Chi in qualunque luogo dell’ argentiera fa- cesse furto di cavalli, di giumenti o di buoi, punivasi nell’ avere e nella persona, secondo che paresse al Capitano, o al Rettore e Giudice, © alla maggior parte di loro; chi vi facesse furto in alcuna strada, do- veva essere impiccato. Tuttavia in quanto riguarda {tutte queste prescri- zioni contro i furi e i rubatori (ossia quelli che togliessero la cosa altrui con frode, o con violenza), era lasciato pieno arbitrio al Rettore o Capitano, ordine di ragione servato, come a loro piacesse 9. Chi fa- cesse furto in fossa, doveva per cura del maestro della fossa porsi in mano dei Maestri del Monte, che lo facessero condannare dal Capitano o dal Giudice. Se in una fossa alcuna cosa fosse involata o altrimente mancasse, il maestro era tenuto farla mendare alli suoi lavoratori, sì dai picconieri come dai bolgajuoli, quello che valesse e non più; e si- mile diritto di farsi mendare dai compagni le cose involate o smarrite avevano i lavoratori : « sì veramente, che chiunqua dicesse d’ avere » perduta alcuna cosa; provi, prima che mendata li fusse, con suo sa- » ramento e con due testimoni, che ve l’avesse aricata (recata), et » quanto vale; altramenti non li sia mendata : con ciò sia cosa che » molti lamenti ne sono facti sensa avere perduto » DA 3) Br. 53b 25-54% 10. 3) Br. 492 14-18. 4) Br.49b 13-24. 5) Br. bia 17-41. 6) Br.124% 15-124b 2, IN VILLA DI CHIESA 393 218. Per evitare facili abusi era proibito al Capitano o Rettore, al Camerlingo, e a qualsiasi altro publico officiale in Villa di Chiesa che vi fosse mandato di Catalogna o d'Aragona, il fare mercatanzia e il tenere parte in fossa d’argentiera durante il loro officio, e ciò sotto pena infine in libre cinquanta d'’alfonsini minuti; salvo se avessero parte in argentiera o traffico di mercatanzia, che esercitassero per mezzo de’ loro compagni e fattori, già prima che fossero eletti al detto officio. Inoltre anche ai publici officiali era lecito colare e far colare in qualunque parte dell’ argentiera, senza alcuna pena ”. 6 218. 1) Br. 13b 8-31. Seni Il Nom. XSGVIL 50 394 DELI. INDUSTRIA DELLE MINIERE CAPITOLO XI. Diritti sui prodotti delle miniere. Zecca e Monete. 219. Abbiamo notato a suo luogo, come in quanto riguarda le miniere nessuna traccia di regalia si trovi in Villa di Chiesa, e che l’acquisto o l'occupazione delle fosse, non meno che la vendita delle vene o dei me- talli, vi era affatto libera ($ 76, 179). Si è per mezzo d’imposte o contri- buzioni, o, come allora dicevansi, diritti, che il sovrano o lo stato ri- traeva un provento da questa industria. Riferite perciò le scarse memorie su questo argomento che ci rimangono del tempo dei Pisani, cercheremo definire quali fossero i diritti che sulle argentiere si pagavano nei primi anni della dominazione Aragonese, e quali mutazioni vi seguissero nei tempi seguenti, dopo la decadenza e la caduta quasi totale di quell’ in- dustria. Siccome poi già i Pisani avevano zecca in Villa di Chiesa, e dagli Aragonesi fu inoltre imposto l’obligo di vendere alla Regia Corte per gli usi appunto della zecca l’ argento ad un prezzo determinato, discorreremo, tolta quindi occasione, anche della zecca di Villa di Chiesa, delle varie monete che vi si batterono, e del loro valore; il che varrà anche a dimostrare più esattamente, quale fosse la gravità di alcuni di questi diritti, e quella delle multe e dei pagamenti di vario genere, dei quali avemmo più volte a fare menzione nel corso del pre- sente seritto. Colla scorta finalmente di una preziosa memoria relativa ai tempi dei quali trattiamo, quantunque essa medesima sia di oltre due secoli posteriore, cercheremo determinare quale fosse il provento, che nei primi tempi la Corte Regia ritraeva dalle argentiere, dalla zecca, e dalle altre regalie in Villa di Chiesa, e a quanto approssimativamente ascendesse il valore del prodotto annuo di quelle argentiere. 220. Delle scarsissime memorie che abbiamo di Villa di Chiesa al tempo della signoria dei Conti di Donoratico, nessuna riguarda special- IN VILLA DI CHIESA 395 mente i diritti che questi percepivano dall’ argentiera. Dei tempi della dominazione del Commune di Pisa abbiamo su questo argomento una sola memoria diretta, e che aggiunge assai scarso lume all’ oscura ma- teria. L’ Università di Villa di Chiesa per mezzo di un suo ambasciatore al Commune di Pisa si doleva, che ser Urbano da Cingolo, il quale già aveva avuto altri officii in Sardigna ed allora vi era Modulatore invece di Manente da Fuligno alcuni mesi prima defunto ", procedeva verso i guelchi dell’ argentiera contro la consuetudine dei precedenti Modula- tori, in occasione del diritto sul piombo e sulla galena appartenente al Commune di Pisa; ricercando nei libri del pesatore del porto di Castello di Castro, per conoscervi la quantità del piombo e della galena pesata durante tutto il tempo al quale si estendeva l’officio della modulazione a lui commessa, e se alcuna quantità vi si trovasse, della quale dai libri dei Camerlinghi di Pisa in Villa di Chiesa non apparisse pagato il diritto. L’ Università di Villa di Chiesa chiedeva, si provedesse, che i guelchi non avessero a soffrire danno e vergogna per l’ introduzione di nuove usanze. Ed i Savii statuivano, di sospendere ogni deliberazione, finchè ser Urbano al suo ritorno non avesse spiegato le ragioni del suo operato ?. Una cosa appare da questo documento : che buona parte della galena non si colava e del piombo non si smirava in Villa di Chiesa, ma si portava a Pisa; il che è anche confermato dalla prescrizione che sopra ($ 211) abbiamo riferito, per la quale era proibito fondere piombo o ceneraccio nè smirare in Pisa. 221. Il diritto non si pagava direttamente dai parzonavili, ossia da quelli che traevano o facevano trarre la vena dalle fosse e la vendevano, ma dai guelchi che la comperavano e la colavano ”. Questo diritto, se- condo il Breve, era di denari dodici l’uno, e d’argento, e di piombo, e di rame, o d’ogni altro metallo ?. Non si parla qui, nè altrove nel Breve, del diritto sulla vena, ma soltanto sui metalli. Eppure è certo, che sulla vena si pagava diritto; come appare sì da quanto dicevamo poco fa intorno ad Urbano da Cingolo, come da alcuni altri documenti del tempo posteriore, nei quali si fa espressa menzione del diritto $ 220. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, x e x. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, x. S 221.) Br.138b 39-41; 139? 1-10. 2) Br.1392 4-10. _ 396 DELL INDUSTRIA DELLE MINIERE sulla galena ®. Ma nessuno di tali documenti ci dimostra, se il diritto sulla vena, e quello sul piombo e sull’ argento, fossero due diritti cu- mulati sul medesimo prodotto, ossia se si pagasse alcun diritto dapprima sulla vena, e poscia nuovamente sul piombo e sull’ argento ritrattine ; overo se il diritto sulla vena si pagasse soltanto se questa non si colava sul territorio di Villa di Chiesa. Ma perciò appunto che avveniva tal- volta che la vena non si colasse sul territorio di Villa di Chiesa ma si vendesse e trasportasse in altre parti, sembra al tutto, che il diritto sulla vena si pagasse soltanto quando questa si vendeva fuori di Villa, sia per la verniciatura delle terraglie, sia anche per essere colata al- trove; caso non infrequente al tempo dei Pisani, ma divenuto al tutto insolito sotto la dominazione Aragonese. Del resto una simile questione ci si offrirà nuovamente per altri tempi, ossia dove tratteremo dei diritti che si pagavano per le miniere in Sardegna sul finire del secolo decimo- quinto, e nel secolo prossimo seguente. 222. Dai diritti sulle argentiere godeva franchezza, come altrove no- tammo (S 77), il canale e qualsiasi altro lavoro d’argentiera che si aprisse in montagna nuova ; la quale franchezza si dava a provedimento del Consiglio di Villa, e di dodici uomini dell’ arte i quali fossero eletti dalla maggior parte dei Maestri del Monte; e similmente ($ 1oo) il canale che scionfasse acqua !. — Negli anni che seguirono l’ incendio e la distruzione di Villa di Chiesa per opera delle popolazioni circon- vicine nella guerra contro Mariano Giudice d’ Arborea, e mentre si dava opera alla sua riedificazione, con Carta del Re Pietro del 1r.° febrajo 1355, a fine di ristorarvi anche l’ industria delle argentiere fu concessa per lo spazio di sei anni la riduzione alla sola metà dei diritti che si pagavano sulla galena, sul piombo e sull’argento ?. 223. Ad evitare che si frodasse il diritto Regio era proibito caricare o portar via piombo nè vena da alcuna piazza di forno senza polizza del Camerlingo, a pena di libre cento d’alfonsini minuti per ogni volta ”). 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lxv, 132-134: « tolius dirictus argenti, plumbi et gilecte in » dicta Villa per eos dari et solvi Nostre Curie assuelti ». — XIV, Lxvur, 118-120: « tolius » diriclus argenti, plumbi et guilete in dicta Villa dari et solvi Curie Regie actenus assueti ». — Vedi anche XIV, cxIx. $ 222. 1) Br. 1172 27-33. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, Lxv, 127-137: Lxvm, 110-122. $ 223. +) Br.1392 29-39. IN VILLA DI CHIESA 397 Ciascun guelco era tenuto di pesare e dirittare (pagare il diritto ) in mano del Camerlingo ch’ era ordinato sopra l’argento, così in barbe come in piastre, fra ventiquattro ore « poichè l’ argento fie facto fine »; salvo se lo tenesse più tempo con parola del Camerlingo, o che questi non fosse in Villa di Chiesa: a chi contrafacesse, pena marchi dieci d’argento, o più, a volontà del Capitano, secondo la qualità del fatto ; e fosse tenuto pagare doppio diritto ®. Due officiali erano stabiliti in Villa di Chiesa sopra vedere le vene 5; e sebbene, essendo perito in gran parte il Capitolo del Breve che li riguarda, non ci sia più esatta- mente noto quale fosse il loro officio, è probabile che per loro mezzo si cercasse appunto d’ impedire che alcuno frodasse il pagamento del diritto. Per simile motivo, ed inoltre per impedire i furti e le frodi, era proibito recare vena in Villa o ne’ suoi borghi, nè tenerne in al- cuna casa: pena a chi contrafacesse infine in libre cinquanta d’ alfon- sini minuti; ed ogni persona poteva accusarlo, ed in premio la vena era sua liquida. Tale proibizione non s’ intendeva pei guelchi; ma la vena doveva portarsi alla loro casa direttamente, senza scaricarsi ad altra casa. Inoltre a chi avesse vena propria, ossia di fossa propria, o nella quale avesse parte, o che tenesse in allogagione, era lecito recarla in Villa nella casa della sua abitazione, facendola scrivere in sugli atti della Corte; e a chi non la facesse scrivere, pena infine in libre cin- quanta d’ alfonsini minuti. Ad ogni persona tuttavia era lecito portare vena in casa da libre venti in giù, per fare suoi schiarimenti ‘. 224. Più tardi, dopo che Villa di Chiesa, stata, come dicevamo, per breve tempo occupata dai Sardi, era tornata sotto la dominazione dei Re d'Aragona, troviamo che i Camerlinghi esattori del diritto si sfor- zavano d’ introdurre nuove usanze a carico delle persone dalle quali doveva pagarsi il diritto, onde grave incaglio e grave danno derivava a quella già cadente industria. L’anno 1363 Francesco Geraldo, stato esso medesimo l’anno precedente Camerlingo in Villa di Chiesa, porse que- rela al Governatore Asberto Satrillas, asserendo, che il suo successore Pietro Bartolomei pretendeva far vendere per mezzo di persone a sua scelta il piombo e la galena, che fino a quel tempo esso Francesco 2) Br.139? 18-28. 3) Br. Lah. IV, cap. cxr. 4) Br. 145% 14-1455 2, 398 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Geraldo e certi guelchi solevano far vendere per mezzo di una persona qualsiasi; e che ciò tornava non solo a danno gravissimo dei guelchi medesimi, ma della stessa Corte Regia. Il Governatore aveva perciò di- visato di ordinare al Camerlingo Bartolomei, che indi in poi il piombo e la galena, sì quello che gli fosse dato pel diritto spettante alla Corte del Re, come parimente quello appartenente ai guelchi, dovesse ven- dersi per mezzo di una sola persona da scegliersi dagli stessi guelchi, ovvero nel modo praticatosi fino a quel tempo; sì veramente, che se dal mercatante da essi eletto il piombo e la galena non fossero tosta- mente venduti, i guelchi intanto, per supplire alle necessità dell’ erario, fossero tenuti anticipare al Camerlingo la somma che gli sarebbe spet- tata su quel piombo e su quella galena quando fosse stata venduta; e s ingiungeva al Bartolomei, che se contro tale prescrizione avesse ad opporre, dovesse farlo fra otto dì dacchè l’avesse ricevuta. Ma poi, qual che ne sia la cagione, e forse perchè il modo seguito dal Bartolomei parve più conforme agl’ interessi della Regia Corte, tale ordinanza del Gover- natore non ebbe effetto ®. — Da essa tuttavia possiamo trarre parecchie importanti notizie a schiarimento della forma e dei modi d’esazione di quel diritto. Ed in prima appare, che, come in simili casi suole avve- nire, l’esattore del diritto, talora per assicurare l’ esazione ed accrescerne il provento, talora fors’ anche per procurare a sè mezzo d' illeciti gua- dagni, cercasse imporre nuovi modi di pagamento e nuovi aggravii; contro i quali soleva trovarsi riparo e giustizia già presso il Commune di Pisa, ma vennero al tutto meno sotto la dura e rapace dominazione Aragonese. Veniamo inoltre a conoscere, che il diritto sul piombo e sulla galena più non si pagava in natura, ma in denaro, sul prezzo di vendita ; sì che, sotto pretesto di assicurarsi contro le frodi nel prezzo, i Camer- linghi pretendevano di eseguire essi medesimi, o di far eseguire da per- sone da essi deputate, la vendita; ed anche a fine di accelerare l’esazione, se i guelchi per alcuna ragione differissero di vendere alcuna partita di piombo o di galena. È evidente poi, di quanto danno a questa industria dovette essere tale forzata immistione degli officiali Regii nella vendita dei prodotti delle argentiere. 225. Oltre il dodicesimo del prodotto, alcuni altri diritti, ma quasi tutti assai leggeri, si pagavano alla Corte del Re. Per ogni forno che $ 224. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxx. tei IN VILLA DI CHIESA 399 coli, erano dovuti soldi sei d’alfonsini minuti al mese ". Pel diritto delle legne, le quali ognuno, come notammo ($ 195 ), per gli usi delle argentiere poteva prendere liberamente non solo sul territorio di Villa di Chiesa e delle ville dipendenti, ma in tutti i boschi dell’ antico Regno di Cagliari, dovevasi il diritto di soldi quindici, sotto nome di cereraccio ?); e per ciascun centenajo di doleggie (S 195) di carbone soldi venti, che si pagavano al Camerlingo dai guelchi, i quali poi li ritenevano nel pa- gare il prezzo del carbone ai focajuoli ®. 226. Fra i diritti che si pagavano alla Corte Regia per quest’ industria deve finalmente annoverarsi anche quello per la pesatura. In Villa di Chiesa l’ officio di pesatore era officio publico ; talora si faceva eserci- tare dal Camerlingo a nome del Re; più spesso si vendeva a tempo per un prezzo determinato ". Il pesatore che avesse comperato il diritto delle statee doveva dare due pagatori buoni ed idonei di fare l’ officio bene e lealmente, e di scrivere tutte le mercanzie che pesasse. Gli si avevano a pagare per ogni cenzenajo di cantaro ® di piombo o di galena che pesasse in Canadonica o in Domusnovas, e in tutti i forni che ap- partenessero ad argentiera, soldi tre; e se pesasse in Villa di Chiesa, un soldo : il pagamento doveva farsi dal guelco. Nelle vendite il diritto di pesatura era a carico per metà del venditore, per metà del compra- tore; ed il peso che facesse, di galena o di piombo, doveva per aperta scrittura (ossia designando le quantità non in cifre ma in parole) rinun- ziare al Camerlingo, sotto pena di marco uno d’argento ?). 227. Alcune contribuzioni, 0, come dicevansi, dirittî, per 1’ industria delle argentiere dovevano pagarsi anche a benefizio dell’ Università di Villa di Chiesa. Già abbiamo esposto, trattando della ragionatura, che $ 225. 1) Br.1392 17-18. 2) Br.352 6-21; 139° 10-13. 3) Br.139% 13-16. $ 226. 1) Br. 28% 32-33; 77b 19-25; 30-32. 2) Crediamo che significhi certo libre a peso di cantaro, secondo il quale, come era in uso ancora di recente in Sardegna prima della introduzione del sistema decimale, nelle vendite al- l’ingrosso si dayano 104 libre per 100 libre, e così con 4 per 100 di benefizio al compratore. E a questo agio in favore del compratore crediamo parimente doversi riferire ciò che si legge poco sotto nello stesso Capitolo del Breve: che ogni mercanzia che fosse da 50 libre in su, salvo argento, avesse a pesarsiì colla statea grossa; ossia, crediamo, dovesse considerarsi come vendita all’ingrosso, nella quale il compratore godeva del detto agio sul peso. 3) Br. 28% 32-33; 77b 19-78? 9. {00 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE l’officio e il diritto dei libri delle fosse si vendeva a benefizio dell’ Uni- versità di Villa (S 68, 69). Per simil modo abbiamo visto, come dai misuratori della vena si doveva pagare una certa somma al Camerlingo di Villa di Chiesa per li spendii ad essa necessarii ($ 177). — Più grave tributo, che tuttavia distinguevasi col nome non di diritto ma di. offerta, era dovuto all'opera della Chiesa di Santa Chiara : « con ciò » sia cosa che la decta ecclesia di Sancta Chiara sia principale et mag- » giore delle ecclesie de la dicta Villa di Chiesa, et sia constituta et » hedificata de la intrata de la decta opera per li buoni homini de la » decta terra »; il che, dall'iscrizione che tuttora vi si legge, sappiamo essere avvenuto l’anno 1284, durante la signoria del Conte Ugolino ”. Ogni fossa che partisse vena grossa corbello uno alla trenta, doveva dare a Santa Chiara un corbello ; se galena, mezzo corbello ; se vena gentile, e fossero due corbelli alla trenta o più, con albace netto, doveva dare mezzo corbello : il pagamento si faceva all’ operajo di Santa Chiara ?, da tutte le fosse che ragionavano in Villa di Chiesa, ancorchè poste in territorio di altra villa. Oltre questa offerta in vena, altra in denaro do- veva pagare all’ operajo di Santa Chiara il maestro della fossa pe’ suoi parzonavili : se la fossa partisse un corbello di vena gentile alla trenta, soldi trenta d’alfonsini minuti; se da un corbello infine in corbelli ses- santatre, per ogni corbello oltre il primo denari dodici, sicchè tuttavia la somma non montasse a più di tre libre; e fosse anzi minore, se il valore di quella vena non ascendesse a libre cinque il corbello. Se poi la vena che si partisse fosse meno di corbelli due alla trenta, e il cor- bello valesse sole libre tre e soldi dieci o meno, per ogni corbello si dovevano denari quattro e non più; poichè quella vena di così piccola valuta non avrebbe potuto sostenere maggiore offerta, e li trenta cor- belli di questa vena comparativamente al loro valore avrebbero pagato maggiore offerta, che non i corbelli sessantatre. A chi omettesse di pa- gare l'offerta o facesse frode nel pagamento, e al Capitano o al Giudice che le soprascritte cose non' facesse osservare, pena libre dieci d' alfon- sini minuti per ogni volta ?. La scarsità di documenti, e le imperfette notizie che in molte parti abbiamo delle instituzioni del medio evo, non $ 227. +) Cod. Dipl. Eccl., XIII, n. 2) Br. 25b 44-27a 16. 3) Br.138b> 20-131> 7. Non comprendiamo e perciò omettiamo le prescrizioni contenute a fol. 131% 15-20; altre ne omettemmo, perchè ci parvero di minore importanza. IN VILLA DI CHIESA 4oI 5 ci permettono di definire tutti gli usi, ai quali l’ opera di Santa Chiara e gli altri simili luoghi pii convertivano i loro ricchi proventi. 228. Fino dai primi tempi della dominazione diretta del Commune di Pisa su Villa di Chiesa vi troviamo menzione di un Ospedale sotto il titolo di Santa Lucia. Sembra che soltanto quando Villa di Chiesa venne sotto la dominazione diretta del Commune Pisano quest’ Ospedale sia passato sotto la dipendenza dell’ Ospedale Nuovo della Misericordia di Pisa, che indi in poi, e finchè durò la dominazione Pisana, vi pose a Rettore uno de’ suoi Frati ”. Poco dopo, forse come segno di tale di- pendenza, si tentò di mutare all’ Ospedale di Villa di Chiesa l’antico nome di Santa Lucia in quello di Santa Maria ?; ma la denominazione primitiva prevalse, e pochi anni dopo già più non si trova cenno del nuovo nome. La mutazione del nome invano tentata dimostra, che quel- l'Ospedale già da lungo tempo esisteva: forse fu edificato ai tempi della signoria del Conte Ugolino, ossia circa il medesimo tempo che la Chiesa di Santa Chiara. i 229. Abbiamo visto ($ 119), come nessun lavoratore poteva essere pagato senza polizza. Per caduna polizza, ossia per cadun lavoratore, li scrivani dei libri in occasione della ragionatura dovevano far pagare un denaro, nè solo in Villa di Chiesa e nelle ville da essa dipendenti, ma anche in Domusnovas; e similmente dovevano fare li scrivani dei forni. Dalli scrivani il denaro per tal modo raccolto si pagava e se ne faceva ragione ogni dì quindici allo Spedaliere di Santa Lucia, a pena di marco uno d'argento; sì che per tal modo i lavoratori delle argen- tiere conferivano al mantenimento dell’ Ospedale, che era appunto desti- nato principalmente a loro uopo e benefizio. Lo Spedaliere di Santa Lucia era tenuto di ricevere i frati Predicatori, e Minori, ed Eremitani, e dare loro mangiare e bere, e luogo da dormire, secondo la facoltà del detto Spedale ©. Siccome l’ Ospedale di Santa Lucia, per la sua dipendenza dall’ Ospedale Nuovo della Misericordia di Pisa, partecipava ai privilegi a questo concessi, il Rettore dell’ Ospedale di Santa Lucia aveva diritto, per se medesimo o. per mezzo de’ suoi sacerdoti, di amministrare i sa- cramenti alle persone appartenenti all’ Ospedale o in esso ricoverate, e 6 228. +) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 31 dic. 1302. 2) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 17 apr. 1304. 6 229. 1) Br.78b 29-40; 792 11-27; 79° 42-79 40. Serie II. Tom. XXVI. (Si = 402 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE di sepelirle nel cimitero proprio dell’ Ospedale ; poteva anche sepelirvi le persone estranee che ne avessero fatta richiesta, sì veramente che per queste si pagasse alla chiesa parochiale di Santa Chiara la metà dell’ offerta !. E poichè ci venne fatta menzione di questo Ospedale, soggiungeremo, che sotto la dominazione Aragonese continuò bensì nella dipendenza dell’ Ospedale Nuovo della Misericordia di Pisa, ma che questa dipendenza divenne più di nome che di fatto; che cessò di pa- gare all’ Ospedale di Pisa l’annuo canone consueto ?; e che in breve l Ospedale di Santa Lucia decadde in tanto, che già nel secolo seguente appena una volta ci avvenne di trovarne fugitiva menzione, in occasione della spesa di alcune riparazioni fattevi l’anno 1433 *. Esisteva tuttavia un Ospedale in Villa di Chiesa ancora l’anno 1593; poichè nel Parlamento tenutosi in quell’anno fu domandato dal sindaco, ossia dal rapresentante, d’ Iglesias, che delle somme decretate per parecchi servizii nell’ Isola si destinasse « una competente quantità per l’ Ospedale della Città d’ Igle- » sias, avuto riguardo alla povertà e miseria del detto Ospedale, la » quale è non solo grande ma anzi grandissima, nè per altra via se le » può porre riparo in modo conveniente ». Il Vicerè Don Gastone di Moncada marchese di Aytona decretò, che nel riparto si terrebbe conto della dimanda ®. Non ci venne fatto di trovare dopo quel tempo men- zione dell’ Ospedale d’ Iglesias ; esso perì, senza lasciare di sè traccia, nè memoria nella popolazione. Ora in varie parti del territorio d’Igle- sias e dei communi vicini sorgono ospedali per gl’ infermi dei varii sta- bilimenti metallurgici. Presso la Chiesa e dove era l’ Ospedale di Santa Lucia venne di recente edificata una casa privata, quella del cavaliere Corte in via Collegio, dove ora ha sede la Prefettura. 230. Colla cessazione totale della industria delle argentiere in Villa di Chiesa allorquando fu data in feudo al conte di Quirra (S$ 261), cessa- rono necessariamente tutti i diritti dei quali abbiamo finora fatto men- zione. Nè anche dopo il riscatto più troviamo vestigio nè dell’ offerta a Santa Chiara, nè del denajo all’ Ospedale, nè di alcun pagamento che per occasione delle argentiere solesse farsi all’ Università di Villa di Chiesa. 2) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. del dicembre 1314. 3) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 15 maggio 1345; altro dei 4 giugno 1346. 4) Cod. Dipl. Eccl., XV, 1. 5) Cod. Dipl. Eccl., XVI, XLVHI, cap. 21. IN VILLA DI CHIESA 403 Troviamo invece, trentatre anni dopo quel riscatto, annoverata fra i diritti Regii che si esigevano in Villa di Chiesa « l’undecima e la quin- » dicesima sulle miniere » ?. In parecchie concessioni posteriori di mi- niere nel territorio d’ Iglesias, in una per esempio dell’anno 1491 e in un’altra del 1507, vediamo stabilito, che colui al quale è fatta la con- cessione abbia a pagare alla Regia Corte « il diritto, ossia 1’ undecima » parte di ciò che si estrarrà da detta miniera, secondo è usato, e vo- » gliono le ordinanze Reali » ®. Similmente in un altro documento, dell’anno 1514, si concede ad un tale Carlo Martin di Francia di ri- cercare e lavorare tutte le miniere nelle montagne di Sulcis e di Sigerro, « mediante pagamento alla Regia Corte dell’ undecima parte di tutto » l’utile che troverà e trarrà, siccome da lunghi anni è ordinato e pra- » ticato » ?. Il confronto dei varii documenti sovracitati dimostra, cre- diamo, in modo incontrastabile, che la menzione dell'utile, che leggiamo nell’ ultimo dei citati documenti, non significa, doversi pagare soltanto l’undecima parte dell’ utile o benefizio netto che si avesse dalla coltiva- zione, ossia dedotte le spese; ma che ivi le parole « |’ undecima parte » di tutto l’utile che troverà e trarrà » significano, come in modo più chiaro e più esatto è detto nei due documenti più antichi, « l’undecima » parte di ciò che si estrarrà da detta miniera », ossia, come più sotto si legge nel medesimo documento « l’undecima parte di tutta la utilità » che si trarrà », che è quanto dire della materia utile, del minerale. Della quindicesima, menzionata fra i diritti Regii in Villa di Chiesa nel precitato documento del 1484, troviamo parecchi esempii circa la metà del secolo seguente : l’uno di 94 libre di piombo appartenenti alla Corte Regia « pel diritto spettante alla stessa Corte Regia sulle quattordici can- » tara e quindici libre di piombo state portate a Cagliari da Iglesias da » Don Giovanni Augei », le quali 94 libre di piombo furono vendute l’anno 1547 all’ incanto al prezzo al cantaro di lire due, soldi 13, e poco più di denari due di moneta cagliarese allora corrente . Altri esempii abbiamo dell’ anno 1550, di argento o prezzo d’argento pagato alla Regia Corte in Cagliari da un tale Maestro Pietro Gil, Spagnuolo, pel diritto della quindicesima sull’ argento « fuso ed estratto dalle mi- $ 230. +) « Onze e quinze de les menes ». Doc. dell’anno 1484; Cod. Dipl. Eccl., XV, cxx1x, 29. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, cu, 13-15; 26-28; XVI, 11, 21-29; 38-40. 3) Cod. Dipl. Eccl., XVI, xu, 8-10; 20-26. 4) Cod. Dipl. Eccl., XVI, xxx. 404 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE » niere della città d’ Iglesias » ® . Il prezzo dell'argento venduto alla zecca era di lire due, soldi due, denari sei cagliaresi l’oncia. Finalmente l’anno 1552 lo stesso Pietro Gil, colatore, portò a Cagliari quattro cantara e venticinque libre di litargirio, e un panettolo d’argento del peso di otto once: sulle quali, pel diritto di una quindicesima, pagò una lira, due soldi, e otto denari; non fu tenuto conto del litargirio ©. 23/1. A proposito di questa undecima e quindicesima sulle miniere, si presentano due questioni. Ed in prima è evidente, che si pagava l’un- decima parte del minerale, e la quindicesima del metallo ritrattone ; ma questi due diritti si cumulavano essi, ossia chi aveva pagato il di- ritto dell’ undecima del minerale, doveva egli ancora pagare la quindi- cesima del metallo che ritraesse dal minerale che gli restava dopo pagato il diritto? A noi pare impossibile una tale interpretazione ; e crediamo piuttosto, che al coltivatore della miniera si lasciasse la scelta di pagare o l undecima del minerale, ovvero, ciò che a un di presso vi corri- sponde, la quindicesima del metallo ritrattone. — La seconda questione si è, quando sia stato introdotto un tale diritto ; poichè, quantunque forse il nuovo diritto di una undecima sia in qualche relazione anche d'origine coll’ antico diritto che si pagava in Villa di Chiesa di denari dodici l’uno, vi ha pure differenza per la gravità alquanto maggiore del diritto sul minerale, mentre all’ incontro il nuovo diritto di una quin- dicesima sul metallo è minore dell’ antico. Dal modo col quale ne è fatta menzione nel documento dell’ anno 1484 si scorge, che era diritto che già da più anni si esigeva; e similmente negli altri documenti dove si fa parola di tale diritto dell’undecima si dice, che già da lunghi anni era prescritto dalle ordinanze Reali e praticato. Siamo perciò d’avviso, sia stato introdotto dall’ anno 1460 al 1470 o in quel torno; quando, dopo il riscatto di Villa di Chiesa, andati a male, come di ragione, i tentativi di riattivarvi la coltura delle miniere per cura e per conto della Corte Regia (S 263), si pensò con migliore consiglio di lasciarla nuova- mente ai privati che volessero tentarla a loro rischio e benefizio. Bene è vero, che anteriormente al citato documento del 1484 non abbiamo esempio di concessione fatta col carico della undecima del prodotto, e che anzi ancora nel 1472 troviamo una concessione di miniera, nella 5) Cod. Dipl. Eccl., XVI, xxViI; xxx. 6) Cod. Dipl. Eccl., XVI, xxxur. IN VILLA DI CHIESA 405 quale è imposto invece il diritto di un decimo ”, e un’altra del 1479 nella quale il diritto imposto è di un settimo ®. Converrà dire adunque, o che le ordinanze Reali che stabilirono il diritto di un undecimo, an- teriori certo al 1484, sono posteriori al 1479; ovvero, ciò che ne pare più probabile, che, non ostante tali ordinanze, talvolta nelle concessioni si imponeva un diritto più grave di quello stabilito per legge generale. — Dopo il 1552 poi più non troviamo cenno di questo diritto dell’ un- decima e della quindicesima; anzi dalle numerose concessioni di miniera che ci rimangono del secolo seguente appare che indi in poi, e fino ai nostri tempi, ossia fino alla publicazione della legge 30 giugno 1840, che sottoponeva le miniere al tributo del tre per cento del minerale scavato, nessuna norma generale durò a lungo in Sardegna pel canone o diritto sulla coltivazione delle miniere. Queste furono ogni giorno più considerate come cosa demaniale, nè mai vennero concesse fuorchè a tempo, ed a condizioni che variavano quasi ad ogni concessione : finchè nei tempi che immediatamente precedettero il risorgimento di questa in- dustria, nessuna miniera in Sardegna più era coltivata dall’ industria privata, ed una sola per conto delle Regie Finanze. 232. Ci rimane a parlare alquanto per disteso di un’ altra importante regalia che per occasione delle argentiere si esercitava in Villa di Chiesa, la zecca. Abbiamo veduto a suo luogo ($ 221), come il diritto che si pagava sulle argentiere fosse di un dodicesimo del prodotto, e come la vena e il piombo ritrattine si vendessero a cura del Camerlingo. L'’ ar- gento invece sì riduceva a moneta nella zecca di Villa di Chiesa. La prima e finora la sola notizia che in Villa di Chiesa fosse una zecca, ne venne da una rarissima moneta già posseduta ed illustrata dal conte Giorgio Viani, lo scritto del quale su quest’ argomento venne dopo la morte dell’ autore publicato l’anno 1817 da Sebastiano Ciampi ”. La moneta è d’argento, simile in peso a un di presso ai grossi Pisani; essa ha da un lato una croce in mezzo, e su due linee l’ iscrizione in giro FACTA IN VILLA ECLESIE PRO COMVNI PISANO; ed al rovescio l'aquila imperiale coronata, posta sopra un capitello corinzio, colla in- scrizione consueta delle monete Pisane FEDERICVS IMPERATOR. Quella $ 231. +) Cod. Dipl. Eccl., XV, civ e cv. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, xcII, XCIV e XCvI. $ 232. 1) Notizie della vita letteraria e degli scritti numismatici di Giorgio Viani. Firenze, presso Leonardo Ciardelti, 1817, pag. 55-57. Il disegno della moneta orna il frontispizio dell’ opera. 406 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE moneta dagli eredi del Viani fu poscia venduta a Bonomi Friedlaender di Berlino, e venne dal suo figliuolo ripublicata l’anno 1840 ?. Secondo ambedue gli editori sub aquilae rostro flosculus est. Noi siamo d’avviso, che i due chiarissimi editori abbiano tolto in iscambio per un fiore l’estremità superiore dell’ ala dell’ aquila ©; chè nè mai si trova tal fiore sotto il becco dell’aquila imperiale nelle monete Pisane ; nè lo ha un altro esemplare della moneta medesima, che solo è conosciuto oltre quello già posseduto dal Viani, e che si conserva presso la biblioteca dell’ Uni- . versità di Cagliari, del quale diamo qui il disegno accuratamente inciso : Questa moneta dovette necessariamente essere battuta tra l’anno 1302, che pare essere quello nel quale Villa di Chiesa dalla signoria dei Conti di Donoratico passò definitivamente sotto la dominazione di- retta del Commune di Pisa, e l’anno 1323, nel quale fu cinta d'assedio dagli Aragonesi, cui si arrese nel febrajo dell’anno seguente. Noi te- niamo per fermo, sia stata battuta circa l’anno 1302, ossia tosto dopo che i Pisani ebbero preso possesso di quel ricco e forte luogo. La ra- rità stessa di tale moneta £, ed il grande numero invece delle monete consuete Pisane che si discoprono nei dintorni d’ Iglesias, fanno fede, che indi in poi le monete che dai Pisani si batterono in Villa di Chiesa furono del tutto conformi a quelle che si battevano nella zecca di Pisa. 233. Non vi ha dubio, che la zecca fu stabilita in Villa di Chiesa 2) Numismata inedita commentariîs ac tabulis illustravit JuLIUS FRIEDLAENDER, Phil. Dr. ; Be- rolini, typis Academicis, 1840, pag. 27-29. 3) Un altro più grave errore dei due editori si è, di confondere colla zecca l’ argertiera di Villa di Chiesa, della quale il Viani aveva trovato menzione in un documento Pisano inedito dei 5 gennajo 1314. 4) È incerto se debba intendersi di questa moneta la menzione di « cent sexanta un » diners antichs de Vila de Sglesies », che, circa l’anno 1516, sì trovarono con altre monete in un’ urna in un’anlica casa rovinata nel Sulcis. Cod. Dipl. Eccl., XVI, 31v, 36-37. IN VILLA DI CHIESA 407 per la ragione addotta dal Re Pietro in una sua carta dell’ anno 1338, per essere cioè quel luogo a ciò adatto per la vicinanza delle miniere ”. Questo motivo, e il gran numero di monete Pisane che, come pur ora notavamo, si trovano in quelle parti, non ci lasciano dubitare, che anche il Commune di Pisa vi abbia stabilmente avuto zecca, sebbene altro certo monumento non rimanga di quella zecca al tempo dei Pisani, fuorchè la moneta sopra descritta. Più incerta è la questione pel tempo della signoria dei Conti di Donoratico. La favorevole occasione che la vicinanza delle argentiere porgeva, e l'essere quello pei dominanti il migliore modo e più agevole di trar partito dall’ argento che ritraevano sia dalle argentiere loro proprie, sia sopratutto dal diritto del dodice- simo che si pagava dai guelchi (S$ 221); e finalmente il titolo di Re, che assumevano come signori di una parte dell’ antico Regno Cagliari- tano ? : indurrebbero a credere, ch’ essi pure abbiano battuto moneta in Villa di Chiesa. Ma a tale supposizione si oppone, l’ essersi pur sempre Villa di Chiesa tenuta dai Conti di Donoratico quali feudatarii del Commune di Pisa; nè il diritto della moneta, stato sempre consi- derato quale regalia, competeva ai feudatarii. Non v ha difatti memoria di moneta battùta a nome dei Conti di Donoratico ; nè il Commune di Pisa avrebbe tolerato, che un suo cittadino e feudatario battesse per conto proprio moneta conforme a quella del Commune. 234. Allorquando nel 1324 dopo lungo assedio l’ Infante Alfonso ebbe avuta a patti Villa di Chiesa, non volendo che in quella zecca si con- tinuasse a battere moneta a nome del Commune di Pisa, e d’ altronde non potendo d'un tratto introdursi nei commerci la moneta Catalana pressochè sconosciuta nell’ Isola; ed essendo inoltre indispensabile man- tenere intanto in corso la moneta Pisana, necessità che si faceva tanto maggiore, in quanto i Pisani continuarono alcun tempo a tener Cagliari, e poscia per molti anni le Curatorie di Tregenda e di Ghippi: vi fè battere moneta, non già conforme alla Catalana, ma simile di peso e di valore agli aquilini di Pisa; e a questa nuova moneta diede il proprio nome, chiamandola a/fonsini. Nè v ha dubio, che questo sia avvenuto $ 233. 1) « In loco Ville Ecelesie insule Sardinee, et tamquam ad hoc propter minierarum vi- » cinilatem magis idoneo et propinquo ». Cod. Dipl. Eccl., XIV, L, 22-24. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, ur. 408 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE tosto dopo la presa di Villa di Chiesa; poichè di soli a/fonsini già si fa costantemente menzione nel Breve, stato approvato con carta appunto dell’ Infante Alfonso degli 8 giugno 1327", e corretto perciò negli anni prossimi precedenti, sul Breve Pisano del 1303, per la conferma stipulata tra l’ Infante Alfonso e Villa di Chiesa del Breve, statuti, ordinamenti, privilegi, libertà, immunità e consuetudini che aveva al tempo dei Pi- sani ?. Una carta del Re Pietro, dell’anno 1338, riferisce, che, tra le altre cose che suo padre Alfonso giudicò utili e necessarie al buon reg- gimento e alla difesa e prosperità del Regno di Sardegna pur allora conquistato e de’ suoi abitatori, provide che vi si battesse moneta d'ar- gento e moneta minuta, ad uso commune e speciale di quegli abitanti, e delle altre persone che quivi commerciassero * ; e che dal suo nome chiamò quella moneta alfonsini, la quale fino da principio erasi battuta e tuttora si batteva in Villa di Chiesa *. 235. Frequente menzione di quella zecca trovasi nei documenti degli anni prossimi seguenti. In un’ Ordinanza Generale di Re Alfonso degli ri marzo 1331 a Pietro di Libiano, Amministratore Generale delle Regie entrate in Sardegna, si stabilisce, che Guglielmo di Oliverio, Maestro della moneta che si batteva in Villa di Chiesa, avesse'per suo salario seimila soldi d’alfonsini minuti all’ anno ; lo Scrittore della moneta (che in un documento Catalano è detto scrivano della moneta *, e perciò evi- dentemente significa lo scrivano dei libri della moneta, ossia quello che teneva i conti dell’ entrata e dell’escita ) ottocento soldi; il Maestro Saggiatore, il Tagliatore e il Fonditore avessero i dritti consueti, che tra tutti tre, a detta del Maestro della moneta, potevano ascendere a soldi seimila cinquecento quaranta all’anno ?. Similmente in un’ Or- dinanza per determinazione di salarii ed altre spese, diretta dal Re Pietro a Lappo di Ginestar, Amministratore Generale delle entrate e diritti Regii in Sardegna, dei 14 gennajo 1337, il salario del Maestro $ 234. +) Cod. Dipl. Ecel., XIV, xLI. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LVII, 23-27. 3) « ...que dictorum incolarum et aliorum etiam ad partes ipsas convenientium usibus » cederet, et ea inibi comuniter et singulariter uterentur ». Cod. Dipl. Eccl., L, 14-17; vedi anche 30-32. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, L, 1-25. $ 235. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lxm, 82. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xLv, 52-64. IN VILLA DI CHIESA 409 della moneta Guglielmo Oliverio è stabilito nella medesima somma, ossia in libre trecento ; quello di Bartolommeo di Podio, Scrittore della moneta, in libre novanta (onde appare, che nell’ Ordinanza di Re Al- fonso, dove quello stipendio è stabilito in ottocento soldi, deve leggersi mille ottocento); al Saggiatore Michele di Collo parimente libre no- vanta ®. Il medesimo Guglielmo Oliverio, maestro della moneta, cittadino di Barcellona, e che probabilmente aveva appreso l’arte in quella ce- lebre zecca, fu più tardi dalla Università di Villa di Chiesa mandato suo sindico e procuratore presso il Re Pietro #. Il Governatore Gene- rale in Sardegna don Raimondo da Corbera faceva l’anno 1352 varie proposte di riduzioni di stipendii ed altre per l amministrazione delle cose dell’ Isola; e tra queste proponeva, che al Maestro della moneta (che era tuttora appunto l Oliverio) si dessero di salario sole cento cinquanta libre, che ben dovevano bastargli; allo scrivano trenta libre, e che l’officio fosse tenuto da colui medesimo che allora l’ occupava ; che la Corte pagasse sessanta libre a due uomini che tenessero l’officio degli ajutatori e dell’ imbianchitore ; che al fonditore si dessero trenta libre, e quei quattro denari che la Corte soleva pagare per beveraggio ad ogni fondita; e al Saggiatore libre 35. Re Pietro rispondeva a caduna di dette proposte, si facesse, se non vi si opponeva la forma della concessione dell’ officio, ossia se nella concessione dell’ officio, che, come della maggior parte degli altri officii publici, si faceva per prezzo, non era stata espressamente convenuta la somma del salario ®. 236. Proponeva inoltre il Corbera, che la zecca e tutti i suoi officiali da Villa di Chiesa si trasportassero nel Castello : chè vi eserciterebbero meglio l’officio, e ne sarebbe il Castello ben custodito e guardato, che allora non era : ciò potersi ottenere in molte guise, a vantaggio della Corte, e a salvamento del Castello. Il Re rispondeva, si continuasse se- condo l’usanza antica; che altrimente vi sarebbe pericolo, poichè il Castello si custodiva secondo la consuetudine di Spagna ”. Appare da questo documento, che la zecca era stabilita non nel Castello, ma nella Città. Con un atto del 1460, ossia un decennio dopo il riscatto di Villa 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xL1x, 23-28. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Li, 5-7; Lv, 6-8; LWII, 4. 5) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lx, 78-94. $ 236. +) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lx1, 131-139. : fi Serie II. Tom. XXVL 52 410 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE di Chiesa dal conte di Quirra, la Procurazione Reale in Sardegna diede in enfiteusi perpetua due botteghe contigue, pavimentate, l’una intera- mente e l’altra a mezzo coperta, site tra la chiesa di San Saturno, la via che da Porta Maestra tendeva a San Francesco, le mura della città, ed alcuni tratti di terra deserti; le quali botteghe già servivano a colar vena per conto della Regia Corte ®. Forse quelle botteghe e quel forno da colare formavano parte dell’ antica zecca, che allora si trovava da circa un mezzo secolo abandonata; che altrimente. mal ci sapremmo spiegare, come la Regia Corte, dalla quale il piombo e la vena ritratti dal diritto sulle argentiere si solevano vendere, non colare per proprio conto, avesse in sito così inopportuno un forno da colare dentro il re- cinto di Villa di Chiesa. 237. Ma già in sul finire dell’anno 1352 o in sul principio del se- guente scoppiava guerra tra gli Aragonesi, e Mariano Giudice d'Arborea ; il quale, occupata Villa di Chiesa, era costretto indi a poco ad aban- donarla ; e gli abitanti delle Curatorie del Sulcis e di Sigerro vi posero fuoco, onde fu quasi interamente distrutta !. Ricuperatala indi a poco Re Pietro d'Aragona, vi richiamava con bando gli abitatori dispersi ®; e poco dopo da Cagliari, con Carta del 1° febrajo 1355, dava nuovi provedi- menti per l'aumento della sua popolazione, per la ricostruzione delle case, e per farvi rifiorire l’ industria delle argentiere ®. Circa il medesimo tempo, concedendo esenzioni e privilegi ai monetarii, cercò riattivarvi il servizio della zecca ‘. Altri ordinamenti intorno alla moneta che si batteva in Villa di Chiesa, al benefizio della Corte Regia nella battitura, e agli uffiziali della zecca, furono stabiliti, per commissione di Olfo da Procida Governatore nel Capo di Cagliari e Gallura, da Francesco da Corallo, Amministratore delle entrate e diritti Regii in detto Capo, e da Nicolò da Ripafratta. Convien dire, che tra i privilegi concessi allora ai monetari fosse l’ esenzione dalle contribuzioni; poichè vediamo, essere indi a poco sorta questione, se l’esenzione si estendesse soltanto alle im- poste o come allora si dicevano ai diritti Regii, o anche a quelli da pagarsi all’ Università di Villa di Chiesa. Il Re commise la decisione della questione 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, xc, 9-27. Vedi anche XVI, xvi, 10-20. $ 237. +) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LXv, 7-22; 87-93; Lxvi, 7-20. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lxv, 52-67. 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, uxv. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LxxxI, 11-17. IN VILLA DI CHIESA 4II al giudizio del Governatore î. Un'altra Carta del Re Pietro, data il dì 30 gennajo 1359, stabilisce, che se mai, come udiva essere avvenuto, i monetarii, gli operaji, e gli altri officiali della zecca, pretendendo, a torto od a ragione, che fossero violati i loro diritti e privilegi, cessas- sero dal lavoro, ossia, come ora communemente si dice, si dessero allo scioperio , il Governatore avesse a costringerli colla forza, ed, occorrendo, porre altri in loro vece: pur facendo loro giustizia dei gravami onde si dolessero ®. Alcuni anni dopo troviamo, che essendo sorta questione re- lativamente ad alcune carte di concessione dell’officio di ajuzatori ed imbianchitori della zecca, il Governatore Asberto Satrillas commise l’esame delle loro ragioni ad Oliveto di Oliveto, giurisperito, Assessore del Capitano di Villa di Chiesa, ed al notajo Berengario di Astia;i quali giudicarono, tali officii doversi restituire agli antichi operai e monetarii ”. 238. Circa quel tempo avvenne parimente, che gli officiali Regii tol- sero di forza sotto varii pretesti, senza il consenso del vescovo, e fusero sei campane, due delle quali appartenevano alle chiese poste nel Castello di Salvaterra. Queste, luna delle quali appartenente alla Corte Regia e l’altra al vescovo, avendo poscia il Camerlingo Francesco Geraldi fatto rifare, colla spesa di libre diciotto d’alfonsini minuti, perchè erano colà poste per servizio Regio: il Governatore Asberto Satrillas ordinò, che la spesa fosse ammessa a discarico nei conti del Geraldi ”. Motivo poi delle tolte campane si fu senza fallo la mancanza di rame, sì per la lega delle monete d’argento, come per la battitura della moneta minuta o di biglione; poichè poco o nulla di questo metallo producono le miniere dei contorni d'Iglesias, nè vha memoria che a quei tempi fossero col- tivate le ricche miniere di rame dell’ Ogliastra. A questo medesimo spazio di tempo appartiene una Carta del Re Pietro, data da Barcellona li 15 agosto 1362, colla quale si nomina a Maestro della moneta in Villa di Chiesa Bernardo Corderes, cittadino di Barcellona ?. — Da quanto abbiamo esposto appare, essersi negli anni che seguirono l'incendio e la riedificazione di Villa di Chiesa ripresi, ed avervi continuato in piena aitività i lavori della zecca. 5) Cod. Dipl. Ecel., XIV, LXxx1I. 6) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LXxxI. 7) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxIv. $ 238. 1) Lettera di Torbeno Falliti a Mariano Giudice d’ Arborea, presso MARTINI, Pergamene ecc. d’ Arborea, pag. 179; Cod. Dipl. Eccl., XIV, ci. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xc, 36-42. 412 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE 239. Poco dopo era Maestro della moneta Raimondo Delorda; il quale quando Villa di Chiesa fu rioccupata dal Giudice d’Arborea essendo passato al suo servizio, il Re con Carta dei 3 settembre 1370 nominò in sua vece Arnaldo Moragues, che avesse ad esercitare l’ officio quando al Re venisse fatto di ricuperarla ”. Avendo cioè l’anno 1365 Mariano Giudice d’Ar- borea mosso nuovamente guerra agli Aragonesi, Ugone suo figliuolo, venuto coll’ esercito a Villa di Chiesa, ebbe la città dagli abitanti, e pose assedio al Castello; onde poscia partito per opporsi al conte Berengario Garroz che accorreva in ajuto, lo ruppe, e lo costrinse a ricoverarsi ferito nel forte castello d’Acquafredda presso Siliqua ?. Così venne Villa di Chiesa in mano dei Giudici d’Arborea, e vi rimase fin dopo la pace segnata nel gennajo del 1388 tra la Giudichessa Eleonora, e Re Giovanni d’ Aragona 5. Ma già meno di quattro anni dopo, nell'ottobre del 1391, il marito di Eleonora Brancaleone Doria essendosi presentato sotto Villa di Chiesa, gli abitanti glie ne apersero le porte, ed egli strinse d'assedio il Castello #. Non è noto quando e come questo pure cadesse in potere dei Sardi; ma è certo, che negli anni seguenti Villa di Chiesa continuò ad essere dei Giudici d’Arborea, finchè, dopo la rotta data da Re Martino di Sicilia al Visconte di Narbona li 26 giugno 1409, passò nuovamente agli Aragonesi ”). 240. Durante queste alterne occupazioni dal 1365 in poi non si trova menzione della zecca di Villa di Chiesa, nè durante la signoria dei Giudici d’Arborea, del qual tempo anzi manchiamo interamente di documenti re- lativi a Villa di Chiesa, nè in quei brevi anni che fu sotto la dominazione di Giovanni Re d’ Aragona; chè non possiamo considerare come prova della durata di quella zecca una Carta del Re Martino dell’anno 1398, colla quale il Maesiro della moneta e il Camerlingo in Villa di Chiesa sono an- noverati fra gli esclusi dalla facoltà che si concedeva ai Regii officiali in Sardegna, di rendere i loro conti non direttamente al Re, ma al Maestro Razionale nell’ Isola ®; poichè a quel tempo Villa di Chiesa già da più anni $ 239. +) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxv. 2) ToRBENO FALLITI, Poema in lode di Ugone V di Arborea, Canto II, st. 26-27, presso MartINnI, Pergamene ecc. d’ Arborea, pag. 358-359; Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxvi, 4-7; cxxvir, 18-19. 3) Tora, Codex Diplomaticus Sardiniae, Tomus I; Secolo XIV, Doc. CL; pag. 847 e segg.; Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxrx. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxx, 14-27. 5) Cod. Dipl. Eccl., XV, u. $ 240. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxx. IN VILLA DI CHIESA 413 non apparteneva di fatto ai Re d’ Aragona, sebbene continuassero a con- siderarsene come signori. Certo è che nel 1419, a motivo appunto delle lunghe guerre che avevano devastato la Sardegna, da assai tempo la zecca di Villa di Chiesa aveva cessato di essere in esercizio, ed era interamente in rovina ?). 241. Abbiamo veduto ($ 233), come la zecca fu stabilita appunto in Villa di Chiesa per la commodità che derivava dalla vicinanza delle ar- gentiere. L’argento che vi si monetava proveniva parte dal diritto che i forni pagavano di una dodicesima sull’argento, e parte da compra fat- tane ai guelchi. Al tempo dei Pisani è bensì probabile che oltre l’ ar- gento proveniente dal diritto della dodicesima si monetasse anche una parte dell’ argento appartenente ai privati; e forse di frequente non per compra, ma dandosi dai guelchi l’argento alla zecca per riaverlo monetato, mediante pagamento di un agio o diritto di zecca. È tuttavia certo, che al tempo dei conti di Donoratico e poscia anche durante la dominazione del Commune di Pisa non tutto l'argento vi si con- vertiva a moneta : come ne fanno fede le frequenti navi Pisane cariche d’argento sardesco, delle quali parlano gli annali Toscani e Genovesi (S 15). Sotto la dominazione Aragonese all'incontro, cessato ogni com- mercio, ed impedite d’ogni intorno le vie dalle angherie dei novelli feu- datarii, ai guelchi appena restava mezzo di vendere l’argento ad altri che alla zecca, sebbene questa lo pagasse ad un prezzo determinato al di sotto del giusto valore. Il valore reale del marco d’argento era di libre cinque e soldi dieci !; dalla Corte Regia per la zecca si pagava sole libre cinque e soldi due ?. Pare anzi, che tosto dopo la conquista Aragonese il commercio dell’argento, se non di diritto almeno di fatto, abbia cessato di essere pienamente libero; poichè un decreto di Re Al- fonso, dell’anno 1328, e perciò già dei primi anni dopo la conquista, concede, a richiesta dei Consiglieri e dell’ Università di Cagliari, che la metà dell'argento che si colava nei forni di Villa di Chiesa fosse portato a Cagliari, e vendutovi agli abitanti al prezzo che ne avrebbe avuto la DÌ E soovoì quia a multis temporibus citra cusio monete hujusmodi cessavit penitus et » nunc cessat, seccaque eadem propter diuturnas rebelliones et bella, que continue in Regno » Sardinie predicto gesta sunt, penitus est destructa ». Cod. Dipl. Eccl., XV, xiv, 24-30. $ 241. +) « xr mill marchs de argent, equivalent a xr mil Îliures ». Documento dell’anno 1334; vedi Cod. Dipl. Eccl., XIV, xLvir, a pag. 410, not. 3. ») Cod. Dipl. Eccl., XIV, uxv, 162-169. 414 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Corte Regia se fosse stato ridotto a moneta, dedotte le spese . Ognuno vede, come tale privilegio sarebbe stato pressochè inutile, se ai guelchi di Villa di Chiesa si fosse lasciata libera facoltà di vendere il loro ar- gento direttamente agli abitanti di Cagliari, restando a benefizio del com- pratore e del venditore l’agio che sul prezzo dell’argento aveva la Corte Regia. Un’obligazione formale tuttavia, e non solo di fatto ma anche di diritto, di vendere l’argento alla Corte Regia, sembra sia stata introdotta soltanto allorquando Re Pietro, l’anno 1354, fra i varii provedimenti per la ripopolazione di Villa di Chiesa e la riattivazione dei lavori delle argentiere, ordinò che, affinchè quelli che lavoravano alle argentiere po- tessero più agevolmente far fronte alle spese, considerato il prezzo dell’ar- gento, ed il benefizio che già si aveva in ridurlo a moneta, il prezzo da pagarsi ai guelchi si crescesse da libre cinque e soldi due a libre cinque e soldi cinque, e che per quel prezzo i venditori fossero tenuti venderlo alla Regia Corte . 242. Procureremo ora di definire almeno in parte i varii generi di moneta che si battevano in Villa di Chiesa, ed il loro valore; sebbene scarse ed oscure memorie di ciò rimangano nei documenti di quella età, né molta luce ne somministrino le rare monete che ci venne fatto di esaminare. Appena occupata Villa di Chiesa l’Infante Alfonso ordinava, come vedemmo ($ 335), che in quella zecca si battesse moneta sotto nome di aLronsini; ed anche poscia sì egli, come il suo figliuolo e suc- cessore Pietro, fecero parecchie provisioni intorno a quella zecca, ed ordi- narono vi si coniassero parecchi generi di moneta '. Perirono tali do- cumenti; ma rimane una Carta dello stesso Re Pietro, dell’anno 1338, colla quale stabilisce che, a similitudine degli alfonsini d’argento che si battevano in Villa di Chiesa, avesse a battersi in Cagliari, quando e finchè a lui paresse, moneta d’oro, col nome d’ ALFONSINI D'ORO; e ne prescrive la forma, il peso, il titolo e il valore. Sembra certo, che tale moneta 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xL1I. 4) « ........ et pro eo precio librarum quinque et solidorum quinque vendentes illud » Nostre Curie vendere teneantur ». Cod. Dipl. Eccl.; XIV, Lxv, 164-166. $ 242. 1) « Attendentes, dudum Serenissimum Dominum fregem Alfonsum, et successive Do- » minum Regem Petrum abavum, predecessores nostros clare memorie, pro utilitate reypublice » Regni Sardinie providisse et ordinasse, quod in seca Ville Ecclesiarum de Sigerro Regni pre- » dicti cuderentur diversa genera monetarum, prout in diversis provisionibus celare conslat ». Cod. Dipl. Ecel.. XV, x1v, 17-24. — Vedi anche Cod. Dipl. Eccl., XIV, 1, 1-20. IN VILLA DI CHIESA 415 non fu mai battuta; non essendosene trovato alcuna, nè avendosene cenno o memoria nei numerosi documenti di quella età : e ne fu cagione proba- bilmente, l’essersi, pochi anni dopo e d’ordine dello stesso Re Pietro, battuta ne’suoi stati di Spagna altra moneta d’oro, sotto nome di fiorini d'Aragona, di peso e di valore quali i fiorini di Firenze 2) ; moneta, della quale lo stesso Re Pietro diminuì poscia la bontà, pur prescrivendo che continuasse a riceversi pel medesimo prezzo ". Sebbene l’accennato do- cumento relativo agli alfonsini d'oro non riguardi Villa di Chiesa, sic- come tuttavia è l’unico che ci rimanga intorno alla monetazione in Sar- degna nel secolo decimoquarto, ed inoltre ci fornisce importanti notizie anche intorno alla moneta d’argento che si batteva in Villa di Chiesa, crediamo utile di riferirne qui sommariamente il contenuto. 243. Comincia adunque Re Pietro col riferire, come il suo padre Alfonso, al quale si doveva la conquista del Regno di Sardegna, tra le altre sue provisioni per l’utilità di quel Regno aveva stabilito, che vi si battesse moneta d’argento e minuta, per l’uso commune e speciale di quegli abitanti e delle altre persone che ivi convenissero: la quale moneta ei volle che dal suo nome fosse detta ALFonsini. Soggiunge, che sebbene fino da principio in Villa di Chiesa, come luogo a ciò più commodo e più adatto per la vicinanza delle miniere, si fosse battuta e tuttora si battesse di tale moneta, non ve n’avea soverchio, per la continua esportazione che se ne faceva, a motivo di lucro, e pel cambio colle monete d’oro d’altri paesi '; onde, per provedere al suo onore e all’utilità de’ suoi sudditi, i quali così più non fossero costretti a cercare monete straniere, avesse a battersi in Cagliari, capo e luogo principale del Regno di Sardegna, moneta d'oro, quando e per quanto tempo a lui piacesse, la quale fosse detta ALFONSINI D'oro: da una parte ‘avesse l’imagine del Re, tenente colla destra lo scettro e colla sinistra 2) « Don Pedro IV, hallindose en el monasterio de Poblet, ordenò en agosto del ano » 1346, que se labrasen en la fabrica de Perpinan florines de oro fino, y del mismo peso que los » de Florencia ». Descripcion general de las monedas Hispano-Christianas desde la invasion de los Arabes, por ALois Heiss: Madrid, 1867; Tomo segundo, pag. 24. 3) « Poco tiempo durò la fàbrica de los florines de Aragon de veintitres quilates y tres » cuartos, en las casas de moneda del rey Pedro IV, el cual, apurado por las gueras, mandò » que se labrasen de ley de diez y ocho quilates, y publicò ordenanzas para que corriesen » con el mismo valor que antes ». ALoîs HEIss, loc. cit. $ 243. +) Più vero motivo si era, che le ricchezze di Villa di Chiesa e di Sardegna andavano quasi per intero fuori dell’ Isola a benefizio della Corte Regia, e dei publici officiali e dei feu- -datarii, che tutti erano Catalani od Aragonesi. 416 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE un pomo colla croce, e intorno l’inscrizione FORTITVDO ET LAVS MEA DOMINVS ; dall’ altra uno scudo coll’ arme Reale, ed il nome del Re PETRUS ARAGON ET SARDIN REX. Importanti sono le prescrizioni che si aggiungono sul peso, titolo e valore di questi alfonsini d’oro: che di essi, come si faceva dei denari alfonsini d’argento, si tagliassero in ra- gione di settantadue denari per marco, sì d’oro come d’argento, alla legge e al peso di Barcellona e degli alfonsini d’argento; e che siccome la moneta d’argento di Barcellona si batteva ad undici denari e quattro grana d’argento fine, l’oro estimandosi invece a carati 2), | alfonsino d’oro fosse in ragione di ventidue carati e otto grana d’oro fine; il carato e le sedici grana rimanenti fossero di due terzi d’argento, ed un terzo di rame. Stabilisce finalmente, che il valore ne dovesse essere, e da tutti si dovesse ricevere, in ragione di quattordici denari d’ argento per un denaro d’oro. E siccome aveva detto, che il peso del denaro d’oro doveva essere eguale a quello del denaro d’argento, ne viene sta- bilita la proporzione del valore dell’oro all’argento da r a 14 ?. 244. Cessata la zecca di Villa di Chiesa, Alfonso V, con Carta del 12 febrajo 1419 volle provedere, che nell'Isola si battesse nuovamente mo- neta pei bisogni dell’interno commercio. In questa Carta di Re Alfonso non si fa cenno del luogo dove avesse a battersi la nuova moneta; anzi dal farvisi parola della cessazione della zecca di Villa di Chiesa, e della necessità di restaurarla *, parrebbe doversi dedurre, che anche la nuova moneta sia stata ivi battuta. È indubitato tuttavia, che si battè in Ca- gliari; poichè non solo nei numerosi documenti del tempo seguente non vha più menzione della zecca di Villa di Chiesa, ma anzi la nuova mo- neta (che fu battuta tosto dopo l’Ordinanza di Re Alfonso, trovandosene cenno come di moneta corrente in documenti appena di un anno po- steriori °°) viene promiscuamente designata coi nomi di moneta ora corrente ©, moneta d’alfonsini ora corrente ‘, moneta Cagliarese ®, mo- 2) « .... confrontatur cum moneta auri per quiratos ». 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, L. $ 244. +) « Quia a multis temporibus citra cusio monete hujusmodi cessavit penilus et nunch » cessat, seccaque eadem .... penitus est distructa, expedit imo valde mecessarium est, ut circa » reparacionem ejusmodi intendamus debite, prout decet ». Cod. Dipl. Ecel.,, XV, xiv, 26-32. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, xxXV, 8. 3) Cod. Dipl. Eccl., XV, 11, 7; Lv, 25; 3; LxxmB, 3. 4) Cod. Dipl. Ecel., XV, xxv, 8; LvI, 404; Lxx1C, 2-3; LxxmD, 2-3; rame, 2-3; Lxxxvi, 13-14; tvaxix, 13-14; xcv, 18-19; xcvir, 7-8. 5) Cod. Dipl. Eccl., XV, 1x1, 27; Lxx1, 71; 89; Lxxu, 82; 104-106; 197; Lxxni, 44-45; cxvi, 8; cxvu, 8-9; cxxI, 37; cxxxv, 43; CLVII, 39-40. IN VILLA DI CHIESA 417 neta corrente nel Capo di Cagliari °), moneta ora corrente in Cagliari ?, moneta di alfonsini ‘ora correnti in Cagliari ®; ed il valore ne era ap- punto, come vedremo stabilito nell'ordinanza di Re Alfonso, di due lire per ogni lira Barcellonese ®. 245. Sebbene la Carta di Re Alfonso dell’anno 1419 più non riguardi la moneta da battersi in Villa di Chiesa, non sarà inutile, a riscontro e schiarimento, riferire anche di questa sommariamente almeno quella parte, che riguarda le varie qualità, il taglio, la lega e il valore delle nuove monete. Rammentata adunque la cessazione e la totale rovina della zecca di Villa di Chiesa, e notata la necessità di ripararla per utilità del Regno di Sardegna, affinchè le popolazioni per l’abondanza della moneta potes- sero più agevolmente attendere ai fatti loro: ordina, che nel detto Regno si batta moneta d’argento, col nome d’arronsini D’ARGENTO, al taglio di settanta al marco di Barcellona, essendo questo marco commune alla Sardegna e al principato di Catalogna; e che la pezza corra in ragione di tre soldi di alfonsini minuti, o di un soldo e sei denari di Barcellona. Nel marco d’argento di legge di undici denari si dessero dal Maestro della zecca quattro lire, quindici soldi e quattro denari di Barcellona, ossia nove lire, dieci soldi, otto denari di alfonsini minuti; e così dalle settanta pezze, in ragione di tre soldi alfonsini la pezza, escirebbero dieci lire e dieci soldi; onde, dedotti i salarii del Maestro, di due guardie, dell’assaggiatore, dello scrivano, del maestro di bilancia, dell’ incisore dei ferri, e le spese minute, come carbone e simili, resterebbero di be- nefizio al Re quattro soldi e sei denari di Barcellona per marco, poco più o meno. Oltre la moneta anzidetta d’argento avesse poi a battersi moneta detta di ALronsimni minuti, che fosse alla legge di un denaro e dodici grana (e così di un ottavo d'argento e sette ottavi di lega), e al taglio di quaranta soldi il marco; i quali, in ragione di due soldi d’ al- fonsini per un soldo di Barcellona, varrebbero venti soldi di Barcellona il marco. Di questa moneta per la prima volta si avessero a battere da 6) Cod. Dipl. Eccl., XV, Lvi, 398; LvII, 374; 384. 7) Cod. Dipl. Eccl., XV, Lxx1, 143-144; rxxm, 71-72; Lxx0r A, 4-5; xxx, 11; cr, 105-106. 8) Cod. Dipl. Eccl., XV, LxxVI, 25-27; xc, 54-55; xcII, 24-25. 9) Cod. Dipl. Eccl., XV, cxx1, 32-37. Da altri documenti poi (Cod. Dipl. Eccl., XV, Lxx1I, 153-154; cxLviI, 11-12) scorgiamo, che parimente il ducato (buono e di giusto peso) corri- spondeva a due lire Cagliaresi; onde appare, che il ducato era eguale alla lira Barcellonese. Seme II. Tom. XXVI. 53 418 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE ottomila fino in diecimila marchi, e indi ogni anno da ottocento in mille marchi, e non più: la quale battitura annua fosse per supplire alla di- minuzione, che nella moneta minuta avvenisse per quella che ne fosse portata fuori dell'Isola; ma sì nel primo battimento di ottomila in dieci- mila marchi, come nei seguenti di ottocento in mille, non avesse ad ec- cedersi la quantità prescritta, affinchè, pel gran benefizio che si aveva in detta moneta ”, la zecca non si volgesse a battere di quella sola; dal che deriverebbe grave danno ai commerci, per la difficoltà dei pagamenti, che si farebbero in moneta minuta, per la troppa copia di questa, e la diffalta che ne seguirebbe della moneta grossa ?. 2146. Le diverse monete battute nei varii stati dei Re d'Aragona si discernono fra loro principalmente o colla indicazione della provincia alla quale appartengono aggiunta al titolo di Re d’ Aragona, ovvero, come quelle di Barcellona, coll’annotazione della città dove furono battute; utile indizio è anche la similitudine di conio con quelle conosciute di una medesima zecca. Così nel tempo del quale trattiamo debbono, per regola generale, dirsi battute in Sardegna, e perciò in Villa di Chiesa, le monete portanti l’inscrizione Re D'ARAGONA E pi SARDEGNA; ed esse vediamo difatti avere tutte similitudine d’impronto, diverso da quello delle altre zecche conosciute di quei Re. Con tali norme, e colla scorta delle nuove indicazioni contenute nelle sopracitate carte di Pietro IV e di Alfonso V, ci verrà anche fatto di correggere alcuni errori, nei quali relativamente alla età e alla zecca di alcune monete, caddero i precedenti editori. Sebbene poi nella citata Carta di Re Alfonso V si dica, che i suoi predecessori Alfonso IV e Pietro IV con varie loro provigioni ave- vano ordinato, che in Villa di Chiesa si battessero diversi generi di mo- neta, ed essersene ivi difatti battute per lunghi anni grandissime quantità ”: pur tuttavia, non curate fino ai nostri tempi, andarono in gran parte neglette e disperse, sì che poche oramai ci venne fatto vederne o presso persone private, o in publiche raccolte. La più abondante collezione di tali monete si è quella che forma parte della Raccolta Archeologica Sarda $ 245. 1) « E agò per tal, que, per lo gran guany que faria en lo baliment de la dita mo- » neda, nò giràs tot lo batiment a battre de la dita moneda menuda, de que s’ seguiria grand » abatiment de la mercaderia, per la difficultat dels pagaments, qui s’ farien de moneda mipuda, » per la multa abundancia de aquella, e gran minua de la moneda grossa ». 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, xIv, 17-85. $ 246. 1) Cod. Dipl. Eccl., XV, xiv, 17-26. IN VILLA DI CHIESA 419 del canonico Commendatore Giovanni Spano, da lui donata al Museo di Cagliari e illustrata con apposita publicazione ?; altre, esistenti o nella Biblioteca del Re a Torino od altrove, furono illustrate dall’ Hriss nella sua Descrizione Generale delle monete Ispano-Cristiane ®. Non conosco moneta alcuna battuta in Villa di Chiesa al tempo della dominazione Aragonese, che non sia fra quelle descritte o dallo Spano o dall’ Heiss: e perciò dalle loro publicazioni traggo il catalogo che qui soggiungo delle monete battute in quella zecca; avvertendo tuttavia, che quelle con- servate nel Museo di Cagliari e quelle di Torino furono per la presente descrizione prese a nuovo ed accurato esame. Di ogni moneta che de- scriveremo , noteremo ed il luogo dove si conservi, ed il peso; se di alcuna esistano varii esemplari, desumendolo da quello di migliore conservazione. 247. GIACOMO II. (1324-1327) Argento. 1. IACOBVS - ARAGON - ET - SARDIN - REX. Scudo d’ Aragona. FORTITVDO - ET - LAVS »- MEA : DOMIVS. Croce dentro un doppio cerchio a segmenti, con una rosetta in cadun compartimento. (Tavola VIII, fig. 1.) Peso grammi 3. Museo del Re in Torino. Herss, Descripcion general de las monedas Hispano-Christianas : Tomo segundo, pag. 418, n. 2. Biglione. 2. IACOBVS - ARAGON. Scudo d’Aragona. ET - SARDINIE - REX. Croce dentro un cerchio, con una rosetta in cadun compartimento. (Tavola VIII, fig. 2.) Peso grammi 0,61. 2) Catalogo della Raccolta Archeologica Sarda del Can. GiovANnnNI SPANO, da lui donata al R. Museo di Cagliari : Parte seconda, Monete e Medaglie. Cagliari, 1865, pag. 272-220. 3) Descripcion general de las monedas Hispano-Christianas desde la invasion de los Arabes, por ALois Hess: Madrid, 1867. Tomo segundo, pag. 417-421. 420 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Cagliari, Museo. Spano; Biblioteca Imperiale di Parigi; Museo di Monteponi. Spano, Museo Archeologico Sardo, Parte seconda, Monete e Medaglie; pag. 214, n. 15, 16; Hriss, 4. c., pag. 418, n. 1. 3. IACOBVS - DEI - GRA. Scudo d'Aragona. ARAGONVM - REX. Come il num. 2. (Tavola VIII, num. 3.) Peso grammi 0,5. Cagliari, Museo Spano. Quantunque in questa moneta Giacomo II non porti il titolo di Re di Sardegna, l'abbiamo annoverata fra le Sarde per la sua similitu- dine di conio con le altre di Villa di Chiesa. Spano, Z. c., pag. 214, num. 17. ALFONSO IV. (1327-1336) Argento. 4. ALFONSVS - ARAGON - ET - SARDIN - REX. Scudo d'Aragona dentro un doppio cerchio a segmenti, con cinque rosette attorno allo scudo. FORTITVDO < ET - LAVS - MEA - DOMIVS. Come al num. 1 di Giacomo II (Tavola VIII, fig. 4.) Peso grammi 2,98. Cagliari, Museo Spano; Museo del Re in Torino. Abbiamo restituito questa e la seguente moneta ad Alfonso IV, al quale dimostra che appartengono la similitudine di conio colle altre monete di Villa di Chiesa, sebbene questa dallo SpAno, la seguente dallo Spano e dall’Herss, sieno attribuite ad Alfonso V. All'incontro per l’op- posta ragione omettiamo, come appartenente ad Alfonso V ed alla zecca di Cagliari, la moneta dallo Spano ascritta ad Alfonso IV a pag. 215, n. 22. Spano, /. c., pag. 220, n. 63. Heiss, 2. c., pag. 419, n. 2. 2. ALFONSVS - ARAGON - ET - SARDIN - REX. Come il num. 1. FORTITVDO < ET - LAVS - MEA - DOMIVS. Come il num. 1. IN VILLA DI CHIESA 421 (Tavola VIII, fig. 5.) Peso grammi 1,5. Cagliari, Museo Spano. Spano, /. c., pag. 220, num. 64; Hriss, Z. c., pag. 421, sotto Alfonso V. Biglione. 3. ALFONSVS - ARAGON. Scudo d'Aragona. ET ‘ SARDINIE - REX. Come il num. 2 di Giacomo IL (Tavola VIII, fig. 6.) Peso grammi 0,68. Museo del Re in Torino. Herss, /. c., pag. 419, n. 1. PIETRO IV. (1336-1387) Argento. 4. PETRVS - ARAGONVM - ET - SARDINIE © REX. Come il num. r d’ Alfonso IV. FORTITVDO - ET - LAVS - MEA - DOMINVS. Come il num. 1 di Giacomo II. (Tavola VIII, fig. 7.) Peso grammi 3. Cagliari, Museo Spano; Luigi Heiss. Spano, /. c., pag. 216, n. 28-33; Herss, Z. c., pag. 419, n. 1. 2. PETRVS - ARAGONVM - ET - SARDIN - REX. Come il num. tr. FORTITVDO - ET - LAVS - MEA - DOMINVS. Come il num. 1. (Tavola VIII, fig. 8.) Peso grammi 3,12. Cagliari, Museo Spano. Spano, /. c., pag. 216, num. 28-33, e fig. 28. 3. PETRVS - ARAGON - ET - SARDIN - REX. Come il num. 1. FORTITVDO - ET - LAVS - MEA - DNS. Come il num. 1. (Tavola VIII, fig. 9.) Peso grammi 3. 422 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Luigi Heiss. 4 us» Heiss, Z. c., pag. 419, n. 2. 4. PETRVS - DEI - GRACIA - REX. Scudo. oe ARAGONVM - ET - SARDINIE. Croce con una corona in caduno dei quattro compartimenti. (Tavola VIII, fig. 10.) Isso grammi n: Museo del Re in Torino. | Hriss, 2. c., pag. 419, n. 3. 8. PETRVS - DEI + GRAACIA - REX. Scudo d'Aragona. ARAGONVM - ET - SARDINIE. Come al numero precedente. (Tavola VII, fig. 11. ) Varietà di conio della precedente. Peso: grammi 2,90. Presso di me, donata dui Commsalzno Giovanni Spano. Spano, Memoria sopra una moneta finora unica di Nicolò Doria,, e scoperte archeologiche fattesi nell'Isola in tutto l’anno 1867. Cugliari 1868, pag. 42. 6. PETRVS - ARAGONVM - ET : SARDINIE - REX. Come il num. 1. FORTITVDO - ET - LAVS - MEA - DOMINVS. Come il num. 1. (Tavola VIII, fig. 12.) Metà delle precedenti. Peso grammi 1,57. Museo del Re in Torino. Hreiss, Z. c., pag. 419,;n. 4. GIOVANNI I. (1387-1395) Nessuna moneta battuta in Villa di Chiesa conosciamo di questo Re,. che fu pochi anni signore di quella città (S 239); le frequenti monete- minute state a lui ascritte dovendo senza dubio auiaibminai a Giovanni II (a. 1458-1479), e alla zecca di Cagliari. IN VILLA DI CHIESA 423 MARTINO I. (1399-1410) Biglione. 4. MARTIN’ - ARAGONS. Scudo d'Aragona. ET * SARDINIE : REX. Croce con un punto nei compartimenti. (Tavola VIII, fig. 13.) Peso grammi 0,5. Museo del Re in Torino. Hrerss, Z. c., pag. 420. 248. Nel definire, colla scorta dei documenti e delle monete sopra descritte, quale fosse il nome e il valore delle varie monete che si bat- terono in Villa di Chiesa sotto la dominazione Aragonese, dovremo ne- cessariamente prendere per norma non i denari alfonsini minuti, che sono le minori fra le monete sopra enumerate, di biglione, del peso di circa 6 decigrammi; poichè il loro valore legale non corrispondeva in modo alcuno al valore reale, e per esse principalmente si otteneva benefizio dalla regalia della zecca. I denari alfonsini d’argento all'incontro erano d’argento fine, ossia, come vedemmo ($ 243), al titolo di undici denari e quattro grana d’argento, ed otto grana di lega. Se ne tagliavano set- tantadue al marco d’argento ($ 243); e siccome il marco d’argento corrispondeva a cinque lire e dieci soldi ($ 241), ossia a 1Io soldi, ovvero 1320 denari: dividendo questa somma pei 72 denari d’argento che si tagliavarîio nel marco, ogni denaro alfonsino d’argento si vedrà corrispondere a denari alfonsini minuti 18 '|;; ossia, non tenendo conto di quel terzo di denajo, a un soldo e mezzo. Il peso del denaro alfon- sino d’argento, sano e ben conservato, appare di grammi 3,30, del va- lore di lire italiane 0,66, calcolando l’argento monetato a lire 0,20 il gramma. Questo medesimo peso troviamo avere avuto i grossi di Pisa, e i denari d’argento di Barcellona; pei quali tale peso combina anche con ciò che leggiamo nella carta di Alfonso V dell’anno 1419: che il denaro d’argento di Barcellona corrispondeva a un soldo e sei denari di Alfonsini minuti ($ 245). Posto adunque il valore del denaro alfon- sino d’argento a lire 0,66: siccome uno di essi corrispondeva a 18 al- 424 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE fonsini minuti, il soldo di 12 alfonsini minuti corrispondeva a lire 0,40; il denaro alfonsino minuto, a centesimi 3 '/,; la medaglia, ossia mezzo denaro ”, a centesimi 1 */;. Per simile ragione la Zibra di alfonsini mi- nuti corrispondeva a odierne lire 8; ed il marco d’argento, equivalente a libre cinque e soldi dieci, ma che per l’ordinario sembra si calco- lasse soltanto in libre cinque e soldi otto, secondo quest’ultima ragione valeva lire odierne 40,32. Bene è vero, che per le pene e condennagioni in Villa di Chiesa e nell’argentiera fu stabilito per diritto speciale, che il marco si computasse in sole libre tre e soldi dieci d’alfonsini minuti ?). 249. I diritti che abbiamo enumerati e tutte le altre publiche entrate, come le multe e simili (chè imposte dirette sulle terre e sulle persone pare che, già dal tempo dei Giudici, non si pagassero in Sardigna), al tempo dei Pisani sì esigevano e si amministravano da un Camerlingo, che durava in carica un anno. Sotto gli Aragonesi furono nei primi tempi in Villa di Chiesa due Camerlinghi, ed altri ne aveva in parecchie delle ville circonvicine. Più tardi, già scemata la coltura delle argentiere e con essa le entrate della Corte Regia, vi fu nominato un sol Camerlingo, al quale inoltre si affidarono Villamassargia, Conesa e Domusnovas, che prima avevano caduna proprio Camerlingo; e questo, come la maggior parte dei publici uffizii in Villa di Chiesa, soleva darsi per prezzo, a lungo tempo, e talora anche a vita ”. Spesso anche in Sardegna i diritti Regii si davano in appalto, o, come allora dicevasi, si vendevano per un certo tempo; ma nel primo secolo della dominazione Aragonese e mentre tuttora fioriva la coltura delle argentiere, in Villa di Chiesa sembra sia stato caso rarissimo. Un solo esempio ne rimane, della venditaZcioè dei diritti sulle argentiere e sulla zecca, e delle altre entrate e diritti Regii in Villa di Chiesa, Villamassargia, Domusnovas e Conesa, per un triennio, dal primo di maggio 1332 a tutto aprile 1335, a Don Raimondo della Valle; non sappiamo per quale somma : ci è noto soltanto, che in conto del prezzo aveva annualmente a pagare mille marchi d’argento, pari a libre cinquemila cinquecento, per la metà del tributo di duemila marchi d’argento, che il Re d’Aragona doveva al Papa ogni anno nella festa $ 248. 1) Br. 30° 28-31; 100b 40-101° 3; 37» 22-23: « denaro nno per liura, cioè medaglia » una per parte per ciascuna liura ». 2) Br. 572 13-19. $ 249. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lx, 52-62. IN VILLA DI CHIESA 425 dei Santi Pietro e Paolo, per la concessione avutane del Regno di Sar- degna. Il contratto fu sciolto prima del suo termine d'accordo tra le parti; e così pel terzo anno, ossia dal maggio 1334, l’esazione e l’am- ministrazione delle entrate Regie in Villa di Chiesa tornò al Camerlingo ?). 250. Nessun documento contemporaneo ci fa conoscere, a quanto ascendessero ai tempi della dominazione Aragonese i proventi delle ar- gentiere, o i diritti che se ne esigevano; ma preziose notizie ci dà un documento, invero di età assai posteriore, ma che evidentemente le trasse da atti autentici, ora periti, che si conservavano nell'archivio della città d’ Iglesias. Nel Parlamento tenutosi l’anno 1553 dinanzi al Vicerè Don Hernandes de Heredia, il sindaco d'Iglesias, volendo dimostrare l’importanza della sua città, e la necessità di provedere alla riparazione delle sue mura in rovina, dopo esposte molte cose in commendazione di quella città, soggiunge : « della quale i detti invittissimi Re per lungo » tempo hanno avuto, non tenuto conto degli altri dazii, dai diritti del » piombo e dell’argento e altre regalie annue la somma di oltre quaranta » o cinquanta mila fiorini, come si scorge da alcuni atti antichi e nomi- » natamente dal detto Capitolo di Breve; e facilmente appare dal gran » numero dei forni da colare e da altre consimili antichità che si vedono » anche oggidì, come Vostra Illustre Signoria, quando, Dio volente, si » degnerà visitarle, potrà ocularmente vedere e riconoscere: ai quali di- » ritti ed entrate Reali nè maggiori nè per avventura eguali la Corte » Regia esigeva in tutto il presente Regno » ”. Nell'interpretazione di questo passo resta dubio in prima, quali siano i dazii dei quali è detto non essersi tenuto conto, oltre il prodotto di quaranta o cinquanta mila fiorini provenienti dal diritto del piombo e dell’argento, e dalle altre regalie annue. Pare probabile, che a formare questa somma, oltre il diritto sul piombo e sull’argento, siansi computati non solo gli altri mi- nori diritti che si pagavano per occasione delle argentiere, ma anche il provento o benefizio della zecca, come quello che direttamente si collega col diritto che pagavasi sull’argento; gli altri diritti che non sì tennero in computo sarebbero le multe e dazii, e altri simili pagamenti molteplici, onde allora, e poscia ancora per lungo tempo, si composero quasi esclu sivamente le entrate Regie in Sardegna. — Il fiorino d’ Aragona fu dap- 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xLv, 15-28; xLvil, 56-88. $ 250. 1) Cod. Dipl. Eccl., XVI, xxxv, 1245-1257. Serie II. Tom. XXVI. 54 426 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE prima ordinato in peso e bontà pari al fiorino di Firenze ($ 242); e perciò il suo peso era di grammi 3,57; e siccome il rapporto dell’oro all’argento era di 14 ad 1 ($ 243), perciò il fiorino d’ Aragona corri- spondeva a grammi 50 d’argento, ossia ad odierne lire ro. Quindi l’en- trata di quaranta in cinquanta mila fiorini menzionata nel citato documento equivaleva a lire quattrocento mila in cinquecento mila di moneta odierna, ossia in media lire quattrocento cinquanta mila. Se fosse possibile defi- nire, almeno per approssimazione, a quanto ascendesse il benefizio che si ritraeva dalla zecca: dedotto questo, siccome sappiamo che il diritto sul piombo e sull’argento era di un dodicesimo del prodotto, moltipli- cando il residuo per dodici conosceremmo il valore approssimativo della produzione delle argentiere di Villa di Chiesa nei primi tempi della do- minazione Aragonese. Se, per supposizione forse non lontana dal vero, calcoliamo il benefizio annuo della zecca in lire cinquanta mila, reste- ranno pel diritto sul piombo e sull’argento lire quattrocento mila ; onde il totale prodotto annuo delle argentiere risulterebbe in lire quattro mi- lioni ed ottocento mila: somma enorme, tanto più ove si tenga conto del molto maggior valore della moneta a quei tempi; e dalla quale sono lungi ancora le miniere di piombo argentifero coltivate in quelle parti al nostri giorni. IN VILLA DI CHIESA 427 CAPITOLO XII. Decadenza, caduta e risorgimento dell’indusiria mineraria nel territorio d° Iglesias. 25/1. La decadenza dell'industria delle miniere in Villa di Chiesa ebbe principio dalla occupazione stessa degli Aragonesi. Ai danni di un lungo assedio tennero dietro in modo più grave e durevole quelli di instituzioni e di una forma di governo al tutto contrarii alla libertà delle persone e alla sicurezza delle proprietà, senza la quale nessuna industria può aver vita. Villa di Chiesa restò bensì per patto espresso sotto la dipendenza diretta dei Re d’ Aragona, nè fu soggetta a feudatario ; ma tutte le ville che da presso la circondavano, e sul territorio delle quali si estendeva la sua argentiera, furono concesse in feudo ai principali fra quelli che d'Aragona, di Valenza e di Catalogna avevano seguito l’ Infante Alfonso alla conquista; ed essi taglieggiavano coloro che passavano pel loro territorio '; e con ogni mezzo cercavano d’impedire ai loro vassalli di abandonare il territorio feudale, di sottrarsi all’oppressione e alle rapine dei loro signori, e di recarsi a cercare maggiore libertà, e con essa lavoro e speranza di lucro, in Villa di Chiesa ®. Questa era circondata. e chiusa d’ogn’ intorno dalle vile finitime di Baratoli, Sibilesa, Villa di Prato (Musey), Corongio, Bagniargia, Sigulis, Antas e Gindili, le quali tutte al tempo dei Pisani erano soggette alla giurisdizione di Villa di Chiesa ®, e sul territorio delle quali era appunto la maggior parte delle argentiere ; e tutte queste ville furono a mano a mano dagli Ara- gonesi distribuite in feudo. Il danno della separazione di quei territorii 6 251. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Liv, 5-21. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LI, 3-26. aaa: que circumdant dictam Villam Ecclesie, et sunt eidem absque medio con- » vicine, el quoniam omnes erant Pisanorum tempore de jurisdiclione Ville Ecclesie supradicte ». Cod, Dipl. Eccl., XIV, Lxv, 172-178. 428 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE da Villa di Chiesa, e della loro soggezione ai feudatarii, era sì grave ed evidente, che quando dopo l'incendio di quella città il Re Pietro colla sua Carta del 1.° febrajo 1355 diede varii provvedimenti per ri- popolare quella città e farvi rifiorire l’ industria delle argentiere, tra le altre cose stabili, che se alcuna di quelle ville vacasse allora o fosse poscia per vacare per morte del feudatario od altrimente , dovesse nuova- mente essere riunita a Villa di Chiesa, « poichè nè questa nè le argen- » tiere senza di quelle potevano essere frequentate » . Non fu fatto; e già negli anni prossimi seguenti troviamo nuove concessioni di quelle ville ad altri feudatarii ?. 252. Il danno di tali infeudazioni riesciva tanto maggiore, in quanto le vessazioni feudali colpivano appunto direttamente e nelle parti sue più essenziali l'industria delle argentiere. Laddove fino a quel tempo erasi praticato, che i buoi e gli altri animali, che servissero ai trasporti di carbone, legna, vena o minuto alle argentiere od ai guelchi, potessero liberamente pascere nei salti e nei boschi lungo il loro viaggio : dopo la conquista Aragonese avveniva, che i feudatari e le altre persone alle quali appartenevano quei luoghi, per trar denaro dai carratori e dagli altri passaggeri li vessavano in varie guise, sequestrandone anche gli animali ed i carri ". Peggiore sorte toccava a coloro, che, a cercar lavoro e lucro, abandonavano le terre feudali e si recavano ad abitare Villa di Chiesa od a lavorare nelle argentiere ; ché, quand’ anche con- tinuassero a sodisfare nelle loro ville a tutti i dovuti servigi reali e personali, venivano dai feudatari spogliati delle loro sostanze. mobili ed immobili °°. L'Università di Villa di Chiesa non mancò di ricorrere contro siffatti abusi, e rapresentare al Re il danno che ne veniva e ad essa, e alla coltivazione delle argentiere. Con due rescritti, da lui poscia anche rinnovati e riconfermati, re Pietro stabiliva, che nè agli uffiziali regii nè ai feudatari o ad altra persona fosse lecito in verun modo vie- tare ai carratori o ad altri che si recasse a Villa di Chiesa o all’argen- tiera di sciogliere i buoi, i cavalli od altri animali, e pascerli nei boschi, salti o terreni che fossero per via, senza ostacolo o pagamento di sorta, 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lxv, 178-180. 5) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxvm, 105-107. $ 252. 1) Cod. Dipl. Eccl,, XIV, Lv, 5-21. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LI, 5-16. IN VILLA DI CHIESA 429 poichè così si praticava a tempo dei Pisani; sì veramente, che quei car- ratori o viandanti risarcissero i danni che recassero alle biade, alle vigne o ad altre colture ?. E similmente ordinava, che, come al tempo dei Pisani, potesse ognuno recarsi ad abitare in Villa di Chiesa od a lavorare all’argentiera, purchè continuasse a pagare i dritti consueti, nè fosse lecito ai feudatarii di spogliarli per tal fatto dei loro beni, « salvo che, » soggiunge il Re, « di ciò non sia fatta espressa facoltà da Noi o dai » Nostri predecessori nella concessione del feudo » . Questa pressochè incredibile eccezione basta a dimostrare, che cosa fosse il sistema feudale in Sardegna sotto la dominazione Aragonese, e a render ragione, come in meno di un secolo già vi si trovino annoverate fra le « ville spo- polate » più dei quattro quinti di quelle, che erano popolate e fiorenti al tempo della signoria di Pisa. Del resto I’ intera inefficacia di tali ordini o privilegi concessi dai re contro dei feudatarii appare manifesta anche dal fatto, che questi soli avevano la giurisdizione nei loro feudi ? ; onde nè l’ Università di Villa di Chiesa, nè gli ufficiali quivi del Re, potevano costringerli alla osservanza di quegli ordini e privilegi; nè Vera a quel tempo giudice alcuno a conoscere le cause tra i feudatarii, e le persone che si dicessero da essi lese nei loro diritti. 253. Una fra le principali cagioni della sempre crescente popolazione di Villa di Chiesa era, come altrove abbiamo riferito ($ 20), un pri- vilegio, al tutto alieno dai nostri costumi, ma a quei tempi frequenta- tissimo : ossia il dritto d’asilo e d’immunità concesso a’rei di minori delitti, e sopratutto il non potervi i suoi abitanti essere forzati a pagare i debiti altrove contratti. 1l diritto d'immunità e di asilo pe’ rei di minori delitti fu bensì alcun tempo conservato anche dagli Aragonesi " ; ma non così l’altro privilegio, di non poter essere alcuno forzato a pagare i de- biti contratti prima che si recasse ad abitare in Villa di Chiesa. Questo privilegio, che dagli antichi Brevi era passato anche in quello stato ap- 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LI e LI. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LIV e LXII. 5) « Cum omni juridictione alta et baxia, civili et criminali, et alia quacumque, » meroque el mixlo imperio, et exercicio eorumdem ». $ 253. 1) Un’? Ordinanza di Re Alfonso dell’anno 1331 prescrivente norme per l’arresto dei malfatlori in qualsiasi parle delia Sardegna, soggiunge: « Salvamus tamen cet retinemus, quod » propler statutum bujusmodi Brevi Ville Ecclesie prejudicium nullum fiat ». Cod. Dipl. Ecel., XIV, XLVI, 37-39. 430 DELL INDUSTRIA DELLE MINIERE provato l’anno 1327 dall’Infante Alfonso ?, già l’anno seguente dal medesimo Alfonso fu dichiarato doversi reputare più veramente rapina intolerabile che non consuetudine e privilegio; e, a richiesta dei Caglia- ritani, i quali si dolevano che ad ogni tratto i debitori sfuggissero loro di mano e si liberassero dal pagamento ricoverandosi in Villa di Chiesa, fu da lui ordinato, che tale privilegio venisse abolito, d'accordo col Ca- pitano e coi giurati e probi uomini di detta Villa ®. 254. A queste cagioni di decadimento della coltura delle argentiere si aggiunse, che, per l’impedito e quasi interamente cessato commercio, i guelchi a mala pena più trovavano a chi vendere i loro piombi. L’argento poi era bensì, come abbiamo veduto, comperato dalla Regia Corte per la zecca; ma tale era in ogni cosa il disordine e lo scialacquo, che, quan- tunque oltre l'argento così comperato la zecca avesse quello che pro- veniva dal diritto della dodicesima, pure avveniva, che i guelchi erano spesso costretti a dare il loro argento a credito, con grave rischio che sotto qualche pretesto poscia non venisse loro pagato ; oltrechè ne seguiva necessariamente, che i guelchi non pagati non potevano a loro volta pagare ai coltivatori delle fosse la vena, nè questi la mercede ai lavo- ratori e le altre spese della fossa. A questo gravissimo inconveniente, che si ebbe a sentire fino dai primi anni della dominazione Aragonese, si cercò porre rimedio ordinando, che ia Corte Regia, e per essa i Camerlinghi in Villa di Chiesa, dovessero sempre ritenere mille libre: d’alfonsini minuti pel pagamento del prezzo dell'argento, che dai guelchi si vendeva alla zecca ”; ma parecchie simili prescrizioni rinnovate gli anni seguenti dimostrano, che il male durava nella sua pienezza. Simil- mente avveniva, che la Corte Regia, o per confisca dei beni di nemici e di ribelli, o altrimente, avesse parte in alcuna fossa; ed anche allora gli uffiziali Regii, ogni qualvolta loro paresse, tralasciavano di francare (S 41), allegando, che la prescrizione, che chi non francasse le sue- parti le perdesse a benefizio degli altri parzonavili, non si estendeva alla Corte Regia, poichè in verun caso, dicevano, « lo Signore Re non » può perdere sua ragione »; onde avveniva, che nessuno più ardiva lavorare fossa dove il Re avesse parte, e tali fosse si abandonavano. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xL1; Br. 88% 36-89 12. 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xLIV, 5-26. $ 254. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lx, 5-15; 22-31. IN VILLA DI CHIESA 431 Ad instanza perciò degli uomini di Villa di Chiesa il Re approvava un Capitolo del Breve, col quale si ordinava, che anche la Corte Regia come ogni altro possessore di trente le perdesse se non francasse ; re- stando tuttavia sempre in arbitrio del Camerlingo, o di ritenerle fran- cando, o di abandonarle ?). 255. Ma questo ed ogni altro ordine di tal fatta non si eseguivano ; appena alcuna quantità di denaro era raccolta in potere del Camerlingo, L’avara povertà di Catalogna ”, la Corte Regia e i suoi ufficiali, assorbivano e disperdevano ogni cosa, e, come appare dalle rinnovate prescrizioni in proposito, continuava il doppio abuso, del non francarsi le trente, e del non pagarsi ai guelfi l'argento: abusi e prepotenze già bastanti per sè a distruggere in breve tempo l'industria delle argentiere. Che se i Consiglieri di Villa di Chiesa si dolevano di siffatti abusi e prepotenze, e cercavano mandare amba- sciatori a porgere querela presso il Re, come già presso il Commune di Pisa, ciò pure si cercava loro d’impedire, anche con la forza; e si giunse a tanto, di tenerli alcuna volta rinchiusi senza cibo e quasi pri- gioni, finchè loro malgrado non acconsentissero a fare quelle provigioni, che gli uffiziali del Re esigessero contro il bene e le immunità e i pri- vilegi di Villa di Chiesa ?. Aggiungasi, la libertà di commerci abolita o certo di fatto impedita non solo nei luoghi soggetti ai feudatarii, ma nelle stesse principali città ed in Villa di Chiesa; come appare non solo dall'ordinamento generale di quel governo in Sardegna, ma è dimostrato ad evidenza dalle parziali eccezioni ©), e nominatamente dalla clausola apposta in alcune concessioni di miniere dei secoli prossimi seguenti : che durante la concessione fosse lecito al coltivatore della miniera portare e vendere mercatanzia in Villa, pagando i dritti consueti ‘). 256. Non deve adunque far maraviglia, se già pochi anni dopo la conquista Aragonese la coltivazione delle argentiere non era invero ces- sata, poichè troviamo ancora in questi tempi memoria di locazioni e di 2) Br.1392 40-139» 49. $ 255. 1) DANTE, Paradiso, vu, 77. 2) Br.20b 39-21? 18. 3) Per esempio, Cod. Dipl. Eccl., XV, cxxvI. 4) Vedi, per esempio, Cod. Dipl. Eccl., XV, xciv, 54-62. 432 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE vendita di trente ”, e frequente memoria della coltivazione delle argen- tiere medesime, ma vi era scemata per modo, che Re Pietro, fino dal principio del suo regno, in una Ordinanza del 1° novembre 1334 ebbe a dichiarare, che Villa di Chiesa si trovava in grande necessità e deca- dimento, con grave danno della Regia Corte e di tutta l’isola di Sar- degna ?. Le stesse instituzioni più essenziali che governavano questa industria, o vennero abolite, od andavano in disuso; sì che, per esempio, già circa l’anno 1340 sembra che le fosse d’argentiera più non ragio- nassero nei libri di Villa ($ 67), ma che ogni fossa avesse privatamente il proprio libro #). Invece di togliere le cause del male, ciò che non era possibile, poichè erano conseguenza necessaria delle istituzioni e della forma stessa di quel reggimento, si cercò di porvi riparo con prestiti e sussidi in denaro ai guelchi e agli argentieri; e perciò con la citata Carta del 1° novembre 1334 Re Pietro ordinava, che il denaro che si ritraesse dal diritto di mezza tratta sul frumento e sull’orzo, stato im- posto in Cagliari pel riscatto degli alberghi dei Pisani in Castello di Castro, ora che quel riscatto era compito fosse destinato a fare prestiti ai guelchi e agli argentieri, nè potesse convertirsi in altri usi, quando anche venisse ordinato dal Governatore nel Capo di Cagliari o da altro Regio officiale ‘. È evidente che tali provvedimenti, che inoltre proba- bilmente per l’ ordinario non erano mandati ad esecuzione, erano rimedio inefficace al male, che derivava da ben altre cagioni, ed anzi servivano ad aggravarlo; poichè i forni e le fosse gravati di debito cadevano in mano della Regia Corte, dalla quale indi a poco venivano abandonati. 257. Soli trent'anni circa dopo la conquista Aragonese sopravenne la presa di Villa di Chiesa e il suo incendio, per opera principalmente degli abitanti del Sulcis e di Sigerro, sollevati contro la dominazione dei Re d’ Aragona, e sopratutto contro il giogo durissimo e le rapine dei feudatari. Quando, recuperata la città, Re Pietro con carta del 1° febrajo 1355 diede varii provedimenti perchè se ne riedificassero le mura, e la città si ripopolasse col ritorno dei dispersi abitatori, cercò ) 256. +) Cod. Dipl. Eccl., Suppl., Doc. dei 24 genn, 1340. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xLvir, 49-52: « per millorar lo loch de Vila de Iglesies, qui » es posat en gran necessitat e menyscabament ». 3) Cod. Dipl. Eccl., Suppl, Doc. dei 24 genn. 1340. 4) Cod. Dipl. Eccl., XIV, xLvI, 7-55. IN VILLA DI CHIESA 433 parimente di farvi rivivere l’industria delle argentiere ; e a tal fine pre- scriveva dapprima, che non le sole mille libre di alfonsini minuti già destinate a pagare il prezzo dell'argento ai guelchi, ma sempre dovessero dal Camerlingo tenersi in serbo libre duemila, pel pagamento delle spese occorrenti per l'esercizio delle argentiere, e per colare le vene di piombo o d'argento. Considerati poi i pesi e i gravami di ogni genere, coi quali, come sopra notavamo ($ 251), i feudatarii delle ville circostanti a Villa di Chiesa ne opprimevano gli abitatori ed impedivano il libero esercizio delle argentiere, dichiarò volere che cessassero al tutto, e prescriveva, che dette ville più non si dessero a feudo, ma si restituissero a Villa di Chiesa, alla cui giurisdizione appartenevano al tempo dei Pisani; e che se alcuna nuova infeudazione se ne facesse, dovesse considerarsi come irrita e nulla ". Ma tale decreto, come parimente notavamo, in questa parte non ebbe effetto, e durò, anzi negli anni seguenti ancora si accrebbe, questo gravissimo fra gli impedimenti dell’ industria delle argentiere. Re Pietro volle inoltre provedere al ristoramento di tale in- dustria aumentando il prezzo, al quale dalla Corte Regia si soleva pagare l'argento ai guelchi, portandolo cioè da cinque libre e due soldi a cinque libre e cinque soldi, ma prescrivendo che per tal prezzo i guelchi fos- sero tenuti venderlo alla Regia Corte ($ 241); e finalmente ei riduceva alla sola metà, per lo spazio di sei anni, tutti i diritti che si solevano pagare alla Regia Corte sull’argento, sul piombo o sulla galena ©. 258. Nel decennio fino al 1365, nel quale anno Villa di Chiesa fu rioccupata dai regoli d’ Arborea, in parecchi documenti troviamo menzione di lavori d’argentiera, i quali perciò scorgiamo che non erano al tutto dimessi. Tale è il decreto del Governatore Esimino Perez di Calatajubio, che, siccome dai lavori d'argentiera traevano incremento le entrate della Regia Corte, sì che del loro provento si pagavano tutti i salarii degli officiali di Villa di Chiesa, dovessero, a maggiore accrescimento di quei lavori, deputarsi ai bisogni delle argentiere e darsi in imprestito per la francatura dei lavori di fossa libre duemila sulle quattromila cinquecento state destinate a ristoro di coloro, che per la loro fedeltà al Re avevano ricevuto danno in occasione dell’incendio di Villa di Chiesa !. Tale è $ 257. +) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lxv, 138-148; 167-195; Lxvi, 123-133. 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, Lxv, 149-166; 125-137; vxvui, 133-150; 110-123. $ 258. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, LXxxVI, 134-162. Serie II. Tom. XXVI. 55 434 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE parimente il documento che abbiamo altrove citato intorno al modo tenuto dal Camerlingo Pietro di Bartolommeo in vendere il piombo e la galena (S 224); tale l’ordine del medesimo Governatore Asberto Satrillas al Camerlingo di Villa di Chiesa, che, avendo l’esperienza, come gli avevano fatto conoscere i Consiglieri di quella Università ($ 16), dimostrata l’insufficienza delle lire duemila di alfonsini state deputate dal Re pei bi- sogni dell’argentiera, avesse a riserbare a tale uopo tutte le somme che gli rimanessero dopo pagati i salarii dei publici officiali e fatte le altre spese necessarie, ed impiegarle nei bisogni dell’argentiera secondo le norme prescritte nella Carta Reale, e colle cautele ed obligazioni consuete ; tale infine un ordine del Governatore Asberto Satrillas ad alcuni debitori per prezzo di galena e di piombo, di non pagare ai creditori le 56 libre, 14 soldi e 3 denari per ciò dovuti, ma di pagarli alla Regia Corte, per essersi le persone alle quali era dovuto quel denaro fatte ree di ribellione 5. 259. L’anno 1362 la Sardegna fu afflitta di grande mortalità, alla quale in Villa di Chiesa si aggiunse una siccità gravissima, essendovi mancata l’acqua in tutte le fontane, e, dal tempo della distruzione di Villa di Chiesa nove anni prima, essendo in gran parte distrutto e quasi dimenticato l'acquedotto stato già costrutto dall’ Università di Villa di Chiesa, che conduceva ed oggi ancora conduce ottima acqua e perenne da una fonte posta presso la villa ora distrutta di Bangiargia ”. È facile comprendere, che di questo doppio flagello, della pestilenza e della siccità, dovettero sopra tutti soffrire i lavoratori delle argentiere, poste per la maggior parte in luoghi aridissimi, e destituti di abitazioni e di ogni cosa più necessaria alla vita. Non molto tempo dopo, riaccesasi, l’anno 1365, la guerra tra Mariano Giudice d’ Arborea e gli Aragonesi, Villa di Chiesa, presa, abandonata e poscia rioccupata dagli Arboresi, ebbe a soffrire i danni di un nuovo incendio, e fu ridotta a tale, che per alcun tempo presentava l'aspetto dello squallore e della solitudine ?. Durante i ventidue anni che Villa di Chiesa fu poscia governata dai 2) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cvn. 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxv. $ 259. 1) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxvu, 5-7; cx, 2-47; TorseNo FALLITI, Lettera al Giudice Mariano, presso MARTINI; Pergamene ecc., pag. 177-178. 2) Torseno FaLuti, Poema în lode di Ugone, Canto II, stanza 26; presso MARTINI, Pergamene ccc., pag. 359. IN VILLA DI CHIESA 435 Giudici d’ Arborea, Mariano, Ugone ed Eleonora, non vi ha dubio che crebbe nuovamente in popolazione e in prosperità sotto quel governo nazionale ; e se ne ha un documento nel numero de’ suoi cittadini sotto- segnati all’atto di pace del 1388 tra Re Giovanni d'Aragona e la Giudi- chessa Eleonora, numero maggiore di quello medesimo dei cittadini di Sassari sottosegnati allo stesso atto di pace, sebbene di questa vi fossero tutti i capi di casa, copiose taliter, quod non deficiebant nisi pastores bestiaminum, et quorum dificulter enumerari non poterant ®. Ma tutti i documenti che potrebbero provare la floridezza di Villa di Chiesa sotto la signoria dei Giudici d’ Arborea, tutti i privilegi da questi concessi a Sassari, a Villa di Chiesa e ad altri luoghi di Sardegna, tutte le loro disposizioni legislative, salvo la Carta de Logu, e tutte monete se vi furono, e i documenti di ogni genere della loro dominazione, vennero con somma cura aboliti e distrutti dai dominatori Aragonesi, che di quella signoria nazionale Sarda paventavano fin la memoria; appena ai nostri tempi avviene, che qua e lù si discoprano rari e preziosi documenti di quella età, la quale, non ostante alcune colpe e molti errori, è pur sempre fra le più gloriose nella storia della Sardegna *. 260. Nessuna memoria rimane di quanto riguarda le miniere di Villa di Chiesa durante i ventidue anni predetti; nessuna del breve inter- vallo ch’ essa fu nuovamente sotto la dominazione dei Re d'Aragona, nè da quando fu rioccupata da Brancaleone Doria, fino al tempo che, dopo la sconfitta del Visconte di Narbona, si arrese al Re Martino. In quest ultimo intervallo gravissime pestilenze devastarono la Sardegna; villaggi interi furono per esse deserti; ed a questi anni appunto crediamo doversi riferire il maggiore decadimento di quest’industria in Villa di Chiesa. È certo tuttavia, che non era perita interamente; chè in una provigione del Procuratore Regio Don Giovanni Siveller, dell’anno 1420, colla quale raccomanda agli officiali Regii in Villa di Chiesa un tale 3) Cod. Dipl. Eccl., XIV, cxxrx ; ToLA, Codex Sardiniae Diplomaticus, Tom. I, pag.833-835. 4) Oltre la Carta de Logu, e molti fra i documenti communemente conosciuti sotto il nome di CARTE D’ARBOREA, e pochi altri di minor conto, ci vennero conservati alcuni ordinamenti della Giudichessa Eleonora relativi alla città di Sassari, aggiunti in fine del II Libro del testo latino degli Statuti di quella città, publicati dal Tola; essendo tuttavia con cura in capo a quei Ca- pitoli stato raschiato il nome di quella Principessa, ed il datale stesso, che a fatica in alcuni si potè leggere, dell’ anno e del luogo in che furono dati quei documenti, scritti in lingua Sarda. Vedi ToLa, Codex Sardiniae Diplomaticus, Tom. I, pag. 623-628. 436 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Michele Coxo, Pisano, che intendeva lavorarvi alle miniere, ordina « di » non disturbarlo nè permettere che fosse disturbato nell’aprire e lavo- » rare quelle miniere e fosse, ed anzi lo trattassero come prescrivevano » i Capitoli Reali, e come fino a quel tempo erasi praticato » ®. Dell’anno seguente abbiamo un ordine dello stesso Siveller: col quale, avendo lui e il Procuratore Fiscale saputo, che Don Leonardo Zampolino da Pisa, e Andrea Meli Cagliaritano di Stampace, avevano tratto molto minerale dalle fosse e miniere di Villa di Chiesa, prescrive, ad istanza del Procuratore Fiscale, che « per certe ragioni » quei minerali fossero presi a mani della Regia Corte, e ritenuti fino ad ordine contrario ?. È ben vero che pochi di dopo, avendo il Zampolino dimostrato che la fossa onde aveva tratto il minerale era sua e de’ suoi da lungo tempo addietro, il Siveller, rivocato l’ordine dato, comandò che il Zampolino ed i suoi non fossero più molestati ©. Che se quel primo ordine del Siveller dimostra, da quali prepotenze ed arbitri fosse inceppata l'in- dustria delle miniere sotto la dominazione Aragonese: per altra parte il fatto del Zampolino, che provò come la fossa che coltivava era sua e de’ suoi da tempo antico, è certo argomento, che la coltura delle miniere nel territorio di Villa di Chiesa non era al tutto cessata. In altro documento dello stesso anno 1421, tra molte terre e ville di Sigerro e del Sulcis date in feudo a Don Alamanno di Monbuy, trovasi annoverato parimente un forno da colar vena, e una fossa detta « la Barbaracina » in Monte Barlao, colle sue piazze da lavare, dritti e dipendenze ‘. 261. L'anno 1436 Re Alfonso V, contro i patti convenuti con Villa di Chiesa da’ suoi predecessori, e da essi e da lui riconfermati e giurati, di mai non separarla dalla Corona nè sottoporla a feudatarii ”, vendeva la Città col suo Castello e col territorio alla Contessa di Quirra e al suo figliuolo Conte Don Giacomo, pel prezzo di fiorini d’ Aragona cin- quemila, corrispondenti a libre seimila settecento cinquanta. d’alfonsini di moneta di Cagliari allora in corso ®. Nel lunghissimo atto di vendita non si trova alcuna speciale menzione delle miniere; salvo che fra le cose secondo l’usanza eccettuate come non comprese nella infeudazione $ 260. 1) Cod. Dipl. Eccl., XV, xxtr. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, xxxv. 3) Cod. Dipl. Eccl., XV, xxxvI. 4) Cod. Dipl. Eccl., XV, xxxvI, 3-22. $ 261. +) Cod. Dipl. Eccl., XV, xxx, 55-64; xLIx, 31-49. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, LVI; LVII. IN VILLA DI CHIESA 437 si annoverano « tutti i campi di falconi e di astori, e le miniere di metalli, » di salnitri, di zolfo, di legname (!), e delle saline, e tutte le altre re- » galie » ?. Il Conte di Quirra, dopo lunga lotta cogli abitanti di Villa di Chiesa che ricusavano sottoporsi alla. sua signoria, fu l’anno 1450 costretto ad accettare dagli abitanti il rimborso del prezzo pagato per la concessione della città in feudo; e questa ritornò così sotto la dipen- denza diretta del Re, che le riconfermò la promessa di non sottoporla a feudatario sotto veruna forma o pretesto, facendole facoltà di opporsi anche colle armi, se nuovamente avvenisse °. 262. A questo tempo della soggezione feudale di Villa di Chiesa al Conte di Quirra deve riferirsi la cessazione totale dell'industria delle miniere su tutto quel territorio. Ma poichè la Corte Regia fu rientrata nel possesso diretto di Villa di Chiesa, e vi ebbe ricuperata la giurisdi- zione civile e criminale e il diritto di percepirne le entrate, cercò di dare a queste incremento riattivandovi la coltura delle miniere, la quale, dall’indole medesima dei provedimenti presi per ristorarla, appare che era spenta dal tutto. Ma prima di esporre tali provedimenti, ed affinchè meglio si comprenda perchè restassero quasi interamente privi di effetto, conviene osservare, che il loro scopo diretto e principale non fu mai nè poteva essere sotto il governo Aragonese in Sardegna di promuovere la ricchezza e la prosperità di quei popoli, nè si mirava ad ottenerne solo indirettamente, quantunque per necessaria conseguenza, aumento nelle Regie entrate; ma questo solo, direttamente, ed in ogni modo si aveva di mira ”. Quindi non solo non fu restituita la libertà di coltivazione già sancita dal Breve, e della quale colla lunga dominazione Aragonese e colla cessazione della coltivazione delle miniere pareva spenta fin la memoria, ma alcuna volta le miniere si coltivavano direttamente per conto della Regia Corte; quando poi si davano a privati, ciò si faceva a modo di favore e di concessione, alla quale si apponevano condizioni 3) Cod. Dipl. Eccl., XV, Lvi, 347-351; « retinemus ....... omnes agros falconum et astorum, ac minas metallorum, salnitrorum, sulfuris, lignaminis, salinarum, et omnes alias regalias ». Nella conferma di detta vendita (LVII, 323-325) si dice semplicemente: « Reti- di (x) B (] (7) pdgva omnes agros falconum et aztorum, ac omnes alias regalias ». 4) Cod. Dipl. Eccl., XV, LXxI, 150-184; 349-422. $ 262. 1) Vedi, per esempio, Cod. Dipl. Eccl., XIV, LxxxvI, 134-140: « Et quia propter exer- cicium argentarie dicte Ville Ecclesie jura Regia suscipiunt incrementum ....... ;, necessarie convenit, ul dictum exercicium quantum fieri potest frequentetur ». Vedi anche XV, xxuHI, 18-19; xcm, 13-16; civ, 12-14. 438 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE e pesi, quali veniva fatto di ottenere migliori a vantaggio della Corte pesi, q 5 55 Regia, aggiungendo ‘anche spesso in compenso diritti di privativa od altri simili a danno dei terzi. 263. Don Pietro Besala, giunto in Sardegna nel novembre del 1455, mandatovi da Re Alfonso a suo Luogotenente Generale nel Regno, come « uomo idoneo e capace a migliorare lo stato della Sardegna, che, per » la condizione dei tempi, abbisognava di non poche riforme » ”, ap- prodato appena a Terranova ordinò si publicasse per bando, volgariz- zata di latino in catalano, in tutta Sardegna una recente Carta del Re Alfonso (del 1° ottobre), colla quale a’ rei di qualsiasi anche grave de- litto, eccettuati il crimine di lesa maestà in primo grado, di moneta falsa, o di chi contro divieto avesse contrattato coi nemici del Re, o avesse usato frode ne’ cambii o in altre obligazioni mercantili, o se già prima alcuno avesse avuto ingiunzione di pagamento per debito ; per ogni altro crimine o debito non potevano essere molestati finchè fossero alla coltura delle miniere; pei crimini commessi alle miniere erano sottratti alle giu-- risdizioni ordinarie, e sottoposti a quella dello stesso Don Pietro Besala, e delle persone ch’esso avrebbe designate; a lui parimente era riservato il giudizio di tutte le liti riguardanti l'esercizio di dette miniere ”. In conformità di tale bando o Carta Reale troviamo indi a poco rei di omicidio essere stati liberati dal carcere, mediante giuramento di recarsi 3 a lavorare nelle miniere #. A tutte le persone in questo o in altro modo qualsiasi raccolte, fu ordinato che convenissero senza indugio in Villa di Chiesa ‘; e colà si diresse il Besora medesimo ®. Non troviamo me- moria diretta dell'esito di questi tentativi, ch'ebbero luogo in sul finire dell’anno 1455 e in sul principio del seguente ; sembra tuttavia che non riescissero ad alcun prò; poichè già in luglio del 1456 troviamo raccolti a Parlamento intorno al Luogotenente Generale 1’ Arcivescovo di Cagliari, e ventun’altre persone fra le principali di quella città, a deliberare, qual partito si dovesse prendere relativamente alle miniere; e fu unanime parere, doversi persistere nella prova, e chiedere intanto l'avviso del Re ©. $ 263. +) Vedi Piuito, Memorie tratte dal R. Archivio di Cagliari risguarQanti i Governatori e i Luogotenenti Generali dell’ Isola di Sardegna ; pag. 48. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, LXXVII 3) Cod. Dipl. Ecel., XV, LXXxI. 4) Cod. Dipl. Eccl., XV, Lxxx. 5) Cod. Dipl. Eccl., XV, Lxxvin, LXxIX 6) Cod. Dipl. Eccl., XV, LxxxXII. | | IN VILLA DI CHIESA 439 Due anni di poi, altro non rimaneva di tutto questo sforzo, che i debiti per ciò contratti ”. 264. Con meno infelice successo si tentò poscia e per lungo tempo altra via, ossia di affidare, col peso di un annuo canone o diritto, la coltura delle miniere all’ industria privata. Ma vi si opponeva in prima la gravissima difficoltà, che non si potevano utilmente concedere che le sole miniere vicine ad Iglesias; le montagne più lontane facevano parte di varie concessioni feudali, nè il Procuratore Regio poteva concedervi ad alcuno sia l’esenzione della giurisdizione feudale, sia la facoltà di far legna nei boschi, sia quella libertà di movimento e di commercio, che, in parte per diritto delle loro concessioni ‘, in parte per forza e contro diritto, i feudatarii avevano per ogni dove tolta ai loro vassalli. Quindi fu, che quasi tutte le concessioni di lavorare miniere durante la domi- nazione Aragonese o Spagnuola in Sardegna o riguardassero le sole mi- niere d'Iglesias, o se anche erano in termini più generali, avessero il loro effetto pressochè in quel solo territorio, od in altro luogo che al tempo della concessione si trovasse libero da feudatarii. 265. Nel giugno dell’anno 1472 troviamo una concessione fatta dal Procuratore Regio col consenso del Vicerè a maestro Michele Lireto della Maddalena, cittadino di Genova, e a Michele Schiavo di Finale: colla quale si faceva loro facoltà per lo spazio di dodici anni di trarre vena da tutte le miniere di Sardegna, di affinarla e di colarla, serven- dosi di tutte le legne e le acque occorrenti, sì e come avrebbe poluto la Regia Corte; e questa a sua volta si obligava di non coltivare nè permettere che altri coltivasse alcuna delle fosse alle quali essi coltivas- sero, e d’impedire che si vietassero ai coltivatori le acque o altra cosa necessaria all’esercizio delle miniere o alla fusione del minerale. E che queste miniere le quali s’intendeva di coltivare fossero appunto quelle di Villa di Chiesa, appare da un articolo della concessione, col quale sì permette agli anzidetti, che durante quei dodici anni possano portare e vendere mercatanzia in quella città, pagando i dritti consueti. Il canone imposto fu di un decimo del prodotto, in argento, piombo, od altro metallo . Nel gennajo del 1479 il Procuratore Regio raccomandava ai o_o 7) Cod. Dipl. Eccl., XV, Lxxxv. $ 264. +) Cod. Dipl. Eccel., XIV, LI. $ 265. 1) Cod. Dipl. Eccl., XV, xcmi, xciv. Veggasi anche Doc. xevi. 440 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE publici officiali in Villa di Chiesa un tale Giacomo Targa, che si re- cava a quelle parti a farvi esperienza della coltivazione delle miniere, nella quale arte si diceva molto esperto ?); e circa l'agosto tra il Targa medesimo e il Procuratore Regio si sottoscriveva una convenzione, simile in gran parte a quella segnata pochi anni prima col Lireto, ma dove il diritto da pagarsi era portato ad un settimo del prodotto, colla esenzione tuttavia pel primo anno, sì veramente che la coltivazione durasse almeno ancora un altr’ anno; ed inoltre era ingiunto al Targa, di offrire dap- prima in vendita alla Corte Regia i metalli che ottenesse, lasciando a questa termine ad accettarli per l’argento giorni otto, quattro pel piombo, e due per qualsiasi altro metallo. È notevole poi, e ben ritrae le insti- tuzioni di quel paese e il difetto di ogni libertà, l’articolo col quale si stabilisce che il Targa possa, in nome del Re, comandare a tutti i picconieri, minatori e altri lavoratori che si solevano comandare per le miniere e fucine Reali, che dovessero recarsi a lavorare pel Targa, mediante il consueto e giusto prezzo. Fu parimente stabilito, che i pri- vati che traessero vena da alcuna loro fossa fossero tenuti vendere la loro vena al Targa al prezzo consueto, ovvero come verrebbe estimata da due uomini da deputarsi dal Procuratore Regio, affinchè fosse colata alla fucina che detto Maestro Targa doveva costrurre È. 266. Ma più notevole al nostro argomento è un altro articolo della medesima convenzione, col quale la clausola posta già nella concessione a Sireto e Sclavo, che comprendesse tutte le fosse di miniera che la Corte Regia avrebbe potuto occupare ', è spiegata più chiaramente : non essere comprese nella concessione le fosse che appartenessero a privati ?. E che difatti anche dai privati non fosse interamente aban- donato ogni tentativo di coltivazione di miniera, appare da alcuni do- cumenti di questa medesima età, nei quali fra i diritti Regi che si per- cepivano in Villa di Chiesa troviamo il diritto sull’argento d, e il diritto dell’undecimo e del quindicesimo sulle miniere ®. Similmente in uno di quei documenti, contenente un bando d’appalto dei vari diritti Regii 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, civ. 3) Cod. Dipl. Eccl., XV, cv. $ 266. 1) Cod. Dipl. Eccl., XV, xciv, 35-40. 2) Cod. Dipl. Eccl., XV, cv, 2-28. 3) Cod. Dipl. Ecol., XV, cxxxv, 14-15. 4) Cod. Dipl. Eccl., XV, cxxIx, 14-15. IN VILLA DI CHIESA 441 che si esigevano in Villa di Chiesa, troviamo per la galena notato pei Genovesi o altri stranieri il diritto di due soldi al cantaro; pei Sardi sette denari per libra % : onde appare che anche a quei tempi v'era chi lavorava alle fosse, nè senza frutto. Bene è vero, che per le galene che si cavavano dai Sardi ciò appena può intendersi di una coltura di mi- miere propriamente detta, ma bensì di piccole quantità di galena che quà e là si traevano per l’inverniciatura delle terraglie ; e questa anche fu la cagione, che le galene estratte dai Sardi fossero sottoposte a un diritto diverso e maggiore. 267. I tentativi per rinnovare l’ industria delle miniere in Sardegna continuarono difatti ad essere opera quasi esclusivamente di persone estranee alla Sardegna. Appena crediamo necessario far cenno di una lettera di Re Ferdinando dell’anno 1491 al suo Luogotenente Generale in Sardegna Don Giovanni Dusai, dove parla della visita fatta dal Dusai ad alcuni lavori di fossa, e ad un forno ed altri apparecchi da colar vena nelle vicinanze d’Iglesias, lavori che si dicevano condotti con molta arte e discernimento da un canonico Veneziano ”. Nel 1507 un tale messer Giovanni Francesco Napoletano ottenne di coltivare le miniere volgarmente dette di Villa di Chiesa, e nominatamente una fossa di vena d’argento, che diceva avere scoperta nel luogo detto « Monte Fenugo ». La coltivazione di quella fossa gli venne concessa col carico di pagare « l’undecima parte del minerale che ne trarrebbe, secondo la consue- » tudine, e le Ordinanze Reali »; e che avesse a godere di tutti i diritti e favori che le Ordinanze Reali e i Capitoli di Breve accordavano ai coltivatori delle miniere ?). Ottenne inoltre dal Procuratore Regio in prestito lire quaranta (somma per que’ tempi non lieve), per ajutarlo in quei lavori, che sì sperava riescirebbero di vantaggio alla Regia Corte, pel diritto o dazio che se ne ritrarrebbe. Ed il Giovanni Francesco es- sendosi doluto presso la Procurazione Regia, che neppur col denaro, pel poco ajuto avuto dal Capitano d’Iglesias e dal suo Luogotenente, non aveva potuto ottenere le cose occorrenti, come carbone, e alcun carro per trasportare il minerale, ed anzi era stato gravemente molestato ed impedito nella coltivazione della miniera : il Reggente la Procurazione 5) Cod. Dipl. Bccl., XV, cxxxv. $ 267. 1) Cod. Dipl. Eccl., XV, cLvI. 2) Cod. Dipl. Eccl., XVI, n. Serie II. Tom. XXVI. 56 442 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Regia ordinò al suo Luogotenente in Iglesias, di efficacemente proteg- gere Giovanni Francesco in quei lavori, e di provedere che, mediante pagamento, non difettasse di viveri, carri, carbone, operaji, e di quanto insomma gli abisognasse sia pei lavori della miniera come per la fondita del minerale ; e ciò anche costringendo a nome della Regia Corte quelli che ricusassero il loro servizio * ). Similmente l’anno 1514 ad un tale Carlo Martin del Delfinato in Francia veniva permesso di lavorare in tutte le miniere del Sulcis e del Sigerro, « dando alla Regia Corte l’un- » decima parte del prodotto, come da lunghi anni era ordinato e sì pra- » ticava » 9. Nel 1550 troviamo menzione di miniere coltivate da Gia- como Martin e Pietro Gil ®; forse era una continuazione della concessione già fatta a Carlo Martin. Un esempio abbiamo anche a quei tempi di con- cessione fatta a Sardi, Giovanni Mexius, Nicolò Viana e Severo Gioapini, di lavorare nelle miniere dette volgarmente di Villa d’Iglesias, pagando, a tenore delle Ordinanze Reali, alla Regia Corte l’undecima parte di ciò che ne ritrarrebbono; licenza ch’essi tosto cedettero ad un Pietro de Roses, orafo in Stampace in Cagliari °. 268. Qualche incremento prese nella prima metà del secolo seguente l'industria delle miniere in Iglesias : rimanendoci parecchie prove ed esempii non solo della coltivazione fatta da coloro ai quali dalla Corte Regia si concedevano per certo numero d’anni grandi tratti od anche la privativa su tutte le miniere del territorio d’Iglesias o della Sardegna, ma anche trovandosi frequente menzione di galena estratta da privati da fosse di loro spettanza; quantunque anche per queste si tenesse come necessaria una concessione o licenza del Vicerè, o del Procuratore Regio. Essendosi nel 1603 per lo spazio di cinque mesi e nove giorni esatto in Iglesias un lieve diritto su varie marcatanzie od oggetti di consumo per pagare la spesa di due soldati che si posero a guardia nella torre e fortezza di Portoscuso, la galena fu sottoposta al diritto di otto denari cagliaresi il cantaro; e il totale esattone fu di lire 27, soldi g, e de- nari 3, in quindici partite, da sei diverse persone ". Troviamo inoltre menzione del diritto di un cagliarese, ossia due denari, al cantaro, che 3) Cod. Dipl. Eccl., XVI, nr. 4) Cod. Dipl. Eccl., XVI, x. 5) Cod. Dipl. Eccl., XVI, XXVUI, XXX, XXXI, XXXI, XXXII, XXXIV. 0) Cod. Dipl. Eccl., XV, cu. $ 268. +) Cod. Dipl. Eccl., XVII, r. IN VILLA DI CHIESA 443 soleva pagarsi al Camerlingo della dogana per la pesatura della galena ; e sembra che il benefizio che se ne ritraeva salisse a somma non dispre- gevole, poichè vediamo sorta tenzone tra varii officii, a chi spettasse un tale diritto ?. \ 269. Dai primi anni e fin oltre la metà del secolo decimosettimo ebbe luogo una serie non interrotta di concessioni generali delle miniere di Sardegna, od almeno delle principali e nominatamente di quelle d’ Iglesias; tutte a tempo, e con privativa, ma con esclusione di quelle sulle quali altri avesse diritto per concessioni anteriori. Prima ci si offre in ordine di tempo una concessione fatta, col consenso del Regio Consiglio Patri- moniale, dal Luogotenente e Capitano Generale nel Regno Don Onofrio Fabra al Dottore Pietro Giovanni Soler, Reggente la Real Cancelleria. La concessione fu deliberata per anni dieci, con esenzione di diritto pei primi cinque, e col diritto del dieci per cento pei cinque anni seguenti ; ed a patto che restassero alla Regia Corte senza pagamento o rimborso tutti gli edifizii che il Soler erigesse per l’esercizio di quell’industria. È incerto tuttavia se abbia avuto effetto tale concessione, che nel Registro non porta data, e dalla quale dissentiva l'Avvocato Fiscale, volendo fosse riservata alla decisione del Re, e che in ogni caso già dal primo anno il concessionario fosse tenuto pagare il diritto dovuto alla Regia Corte ”. Ebbe invece effetto un’altra concessione intorno alla quale non ci rima- sero documenti, a Cristoforo Agonduro ®; e dopo quella una ad un tale Martino Squirro di Cagliari. Essa fu fatta dapprima dal Vicerè, l’anno 1614, e comprendeva tutto il gruppo di montagne da Oristano a Teu- lada; fu poscia confermata ed ampliata dal Re; e dopo la morte del Martino Squirro passò al suo fratello Giacomo, il quale si associò un tale Filippo Duch. Il diritto impostogli fu del cinque per cento del pro- dotto; dalla concessione erano esclusi l’oro e l’argento, sebbene vi fosse compresa la galena; onde appare, come a quel tempo neppure più si conosceva la natura dei minerali che erano i più communi nell’ Isola, e per la coltivazione dei quali si faceva la concessione, ed ignoravasi come la galena fosse appunto, in maggiori o minori proporzioni, anche minerale d’argento ($ 157). Fecero magazzini, abitazioni per gli operaji, 2) Cod. Dipl. Eccl., XVII, 11, 1v. $ 269. 1) Cod. Dipl. Eccl., XVII, u. 2) Cod. Dipl. Eccl., XVII, v. 444 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE e forni a mantice ” ($ 195) per colare la vena, alla fossa di Nebida nella montagna di Malaropa *. Prima ancora che scadesse il termine di quella concessione, le miniere di « piombo, rame da caldaje, stagno, » pietra rossa ed azurra, e di altri simili metalli che si potessero rin- » venire e fino a quel tempo si fossero rinvenuti in Sardegna », furono concesse dal Re a Bernardino Tolo Pirella e a Nicolò Nurra, per lo spazio di venti anni, a cominciare dopo scaduta la concessione dello Squirro 9. 270. Durante questa, e nei primi anni anche della concessione ai Pirella e Nurra, s’intraprese parimente da parecchie persone in Iglesias la coltivazione di alcune fosse, oltre quelle già coltivate , e nominata- mente in Monte Luponi, in Nebida e in Monteponi !. Un registro ri- mastoci delle galene pesatesi cadun mese per conto della Regia Corte dall’anno 1630 al 1644 ci fa conoscere, come durante quei quindici anni la produzione della galena fu in grande e quasi regolare progresso ; in tanto che laddove nell’anno 1630 era di sole cantara sarde (corrispon- denti a circa 4o chilogrammi) 376, nel 1644 fu di cantara 3083. Il totale della galena pesatasi in quei quindici anni fu di cantara 16499 ?. Come sul prodotto delle concessioni allo Squirro e poscia al Nurra, così su quello delle minori coltivazioni, era imposto il diritto del cinque per cento del prodotto, il quale soleva darsi in appalto ?. Ma l’anno 1651 il Nurra più non volle tolerare l'altrui concorrenza, dicendola contraria al privilegio concessogli dal Re, e che per essa difettava di lavoratori alle sue miniere; ed inoltre asseriva, non dovere andar soggetto ad altro diritto sulla galena estratta, salvo il cinque per cento alla Corte Regia, e così non ai diritti che s’ imponevano dai Consiglieri d’Iglesias per le spese di quella città. Il Procuratore Regio decretava, si facesse secondo erasi supplicato; ovvero fra dì otto i Consiglieri d'Iglesias e gli interessati avessero ad opporre le loro ragioni in contrario ‘. Non ci è noto l'esito della controversia, se pur vi fu; questo sappiamo, che nel 3) « Forns ab las manjas »: Cod. Dipl. Ecel., XVII, rx. 4) Cod. Dipl. Eccl., XVII, v, VII, IX, XI, XIV, XXI. 5) Cod. Dipl. Eccl., XVII, xx. $ 270. 1) Cod. Dipl. Eccl., XVII, VII, x, XV, XVI, XVII, XVII, XIX, 2) Cod. Dipl. Eccl., XVII, xx. 3) Cod. Dipl. Eccl., XVII, xxIv. 4) Cod. Dipl. Eccl., XVII, xxvII. IN VILLA DI CHIESA 445. resto di quel secolo e ne’ primi anni del seguente decadde nuovamente e cessò quasi per intero la coltura delle miniere; più non appare essersi fatte vaste concessioni, ed appena più si trova vestigio anche di fosse coltivate dall'industria privata. È certo tuttavia, che alcuna galena con- tinuò ad estrarsi qua e là, ad uso principalmente dei verniciatori della terraglia, dai proprietarii dei terreni dove fossero fosse d’argentiera; ed invece del diritto che prima si pagava del cinque per cento del prodotto, in una tassazione dei diritti Regii publicata nel 1665 troviamo sulla galena imposto il diritto di lire sarde quindici per ogni centinajo di cantara. 271. Quando la Sardegna passò, l anno 1720, sotto la dominazione dei principi di Savoja, questi ne trovarono le miniere pressochè al tutto e da lungo tempo abandonate. Avendo adunque un tale Stefano Durante di Cagliari chiesto la facoltà con privativa di coltivare le miniere di Sardegna, gli venne concessa per venti anni, durante i quali ne ritrasse quantità considerevoli di galena, sopratutto dalla miniera di Monte- vecchio; poco da lui furono coltivate le miniere del territorio d’Iglesias, anzi fra queste quasi sola quella di Matopa. Il metodo che più commu- nemente seguiva, era, d’invitare le popolazioni a cavare galena o nomi- natamente in alcuna miniera, od anche dovunque caduno volesse, pa- gandola poscia loro ad un prezzo determinato. Una volta a Montevecchio diede anche la coltivazione in affitto alla vicina popolazione di Guspini; ed avendo voluto ritoglierla quando il minerale si mostrò in maggiore abon- danza, fu dai tribunali condannato a rilasciarla. Scaduto, l’anno 1740, il privilegio del Durante, fu concesso per simile modo ad uno Svedese, di nome Mandel, il quale parimente coltivò sopratutto la miniera di Montevecchio. Fece venire operaji di Germania, costrusse forni, e par- ticolarmente attivò la fonderia di Villacidro sul fiume Eleni, dove non solo fondeva la galena, ma dal piombo traeva l’argento. Prima tuttavia della scadenza della concessione il Mandel abandonò la Sardegna, lascian- dovi anche gli operaji non sodisfatti delle loro mercedi; e con sentenza della Reale Udienza venne dichiarato decaduto, per non aver sodisfatto agli oblighi imposti nella concessione. Dall'anno 1762 al 1782 la colti- vazione delle miniere, e sopratutto sempre di quella di Montevecchio, fu proseguita per conto della Regia Finanza ; se ne cavarono oltre cento- mila cantara di minerale, delle quali vennero passate alla fonderia di Villacidro cantara 75000, e diedero poco più di cantara 17400 di piombo 446 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE depurato (piombo smirato), e circa 2900 cantara di litargirio : onde- appare che o alla fonderia furono passati minerali assai poveri, od anche vi vennero trattati con somma negligenza ed imperizia; cantara 18000 di galena furono a mano a mano vendute in natura, probabilmente ad uso dei verniciatori di terraglie; rimasero alla fonderia da 7100 cantara di minudiglio. L’argento ritratto ascese a marchi 6566 ”. Poco dopo, aban- donate tutte le altre miniere, venne coltivata quasi sola quella di Monteponi; la maggior parte del tempo direttamente per conto della Regia Finanza, ma alcuna volta dandola in affitto. In ogni modo tut- tavia, e sebbene talora se ne siano tratte quantità di minerale non di- spregevoli, la spesa sorpassò sempre l’entrata, finchè la miniera non venne data per un trentennio in affitto alla Società che presentemente- già da presso venti anni la coltiva. — Dal tempo che cessò la concessione- del Mandel e cominciò la coltivazione per conto delle Regie Finanze, caddero quasi interamente le ricerche di galena e le piccole coltivazioni dei privati, le quali, spenta oramai ogni memoria delle antiche leggi e consuetudini, venivano considerate e punite come fatte in frode del prin- cipio, che si fece valere assai più che non dalla stessa dominazione Spa- gnuola, della demanialità delle miniere. 272. Negli anni che precedettero i grandi avvenimenti del 1848 erano da molti state fatte domande di miniere in Sardegna; e tra le altre era stata domandata in concessione la miniera di Montevecchio, ed in affitto quella di Monteponi. Il Ministero di Sardegna a quel tempo non ardiva assolutamente negare, per non caderne in mala voce e temendo la cre- scente potenza della publica opinione, ma non voleva concedere, all’in- dustria privata le miniere, credendo pericoloso il concorso di continentali, che tale industria avrebbe portato nell’Isola; le fatte domande si trae- vano in lungo sotto falsi pretesti, nè mai probabilmente avrebbero rag- giunto l'intento. Ma sopravennero i grandi avvenimenti degli ultimi mesi del 1847 e dei primi mesi del 1848, pei quali, caduto per sempre l’antico ordine di cose stato sì fatale alla Sardegna, e riunita questa e- aresgiata alle province continentali dello Stato Sardo, cominciò per essa paress p ? P un nuovo periodo di libertà, e quasi sotto ogni aspetto di progresso $ 271. ») Le precedenti notizie sono tratte da parecchie relazioni sulle miniere di Sardegna del BeLLY, che si conservano nella Biblioteca del Re a Torino, e nominatamente da una rela- . zione in dala 3 novembre 1783. IN VILLA DI CHIESA 447 rapido ed universale. Fino dall'anno 1848 fu publicata in Sardegna la legge dei 30 giugno 1840, che sopra assai larghe basi regolava la ma- teria delle miniere nelle province continentali dello Stato; legge alla quale successe poscia quella poco difforme dei 20 novembre 1859. Furono concesse all'industria privata la miniera di Monteponi in affitto, quella di Montevecchio e molte altre in proprietà; a mano a mano il buon esito di alcune trasse d’ ogni parte di Europa alla ricerca delle miniere vistosi capitali su tutta Sardegna, ma più che altrove sul circondario d’Iglesias; e, non bastando la popolazione al molteplice e crescente lavoro, accorsero a migliaja li operaji dalle province continentali. Nel solo circondario d’Iglesias il numero delle domande in corso per per- messo di ricerca ascese costantemente durante più anni a parecchie centinaja. Molti tentativi fallirono, talora per mala condotta, più spesso per l’incertezza e le gravissime difficoltà di questo genere d’ industria; ma il danno era di coloro soli che in tali imprese avevano posto i loro capitali : ed anche per questi la Sardegna cresceva in ricchezza, e i falliti tentativi dei primi preparavano la strada a tentativi più felici. Si aggiunse or fa pochi anni la scoperta del minerale di zinco, il quale se pel suo poco valore dà difficilmente luogo ad una proficua coltivazione , diede lavoro e portò capitali nell'Isola forse più che non la stessa coltivazione delle miniere di piombo. Chiunque visiti il territorio d’Iglesias e le nu- merose sue miniere, non può a meno di restare compreso di maraviglia per l'estensione e spesso per la grandezza dei lavori, per la quantità dei capitali impiegati, ed alcuna volta anche dei risultati ottenuti. 2713. La coltura delle miniere nel territorio d’Iglesias è tuttavia assai lungi ancora dall’aver preso l’estensione e lo sviluppo, e dal dare prodotti, quali si potrebbero ottenere, e col volgere degli anni senza dubio vi si otterranno. Altrove abbiamo notato ($ 85), come gli antichi poco cu- rassero il piombo, l’uso del quale era assai meno esteso che non ai nostri giorni, e come quasi solo andassero in traccia d’argento; al che si ag- giunge che i loro modi sì di spezzare la roccia, che di estrarre la vena e il monte, erano troppo più costosi, che non quelli praticati ai nostri tempi. Quindi avvenne, che le fosse che davano vena d'argento furono cavate dagli antichi a grandi profondità ed oggi tuttora ignote; laddove le fosse che davano vena di piombo (S 157) furono bentosto abandonate, poichè il lavoro a maggiore profondità più non vi francava la spesa. Ora avvenne, che di queste sole appunto su tutto il territorio del circondario 448 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE d’Iglesias fu ai nostri tempi ripresa la coltivazione; le fosse che danno vena d’argento, e che già vi formavano la principale ricchezza di questa coltivazione, giacciono tuttora pressochè abandonate. Ne è cagione non tanto l’avidità di pronti guadagni per parte dei ricercatori, quanto l’essere stata finora ignota la vera condizione delle cose e la vera cagione della varia profondità dei lavori nelle fosse; ma più ancora, alcuni gravi di- fetti della nostra legge sulle miniere. Dichiara questa decaduti i coltivatori, se fra tre anni dall’ottenuto permesso di ricerca non hanno raggiunto il minerale; ma tre anni sono al tutto insufficienti per eseguire utili e ben condotti lavori sino al fondo delle antiche escavazioni d’onde si estrasse ricca vena d’argento: onde avviene di necessità, che il ricercatore si astenga dall’intraprendere lavori, che sa o che teme di non poter com- piere, si che le spese da lui fatte e le sue fatiche frutteranno a chi, più felice, otterrà dopo lui un nuovo permesso di ricerca. Il solo giusto e legitimo termine per la decadenza deve essere, come era nell’antica legislazione di Villa di Chiesa, l’abandono dei lavori, nella forma e pel tempo da definirsi dalla legge. — La legge nostra inoltre fa gl’Ingegneri del Governo giudici di cosa, che deve al tutto lasciarsi a rischio di coloro che v'impiegano la loro industria e i capitali: se cioè di alcuna miniera sia possibile un’utile coltivazione; ove di ciò non consti, la mi- niera non viene dichiarata scoperta e concessibile. — Si esige parimente, che chi vuole una miniera, dimostri di avere i mezzi di coltivarla : di- mostrazione e necessariamente incerta, variando le spese necessarie quasi in ogni miniera, e al tutto inutile, posto il principio della decadenza per chiunque non intraprenda o tralasci la coltura. Anche dopo la di- chiarazione di scoperta (per cui la miniera, alla quale ora si acquista diritto di preferenza, dovrebbe invece divenire assoluta proprietà dello scopritore) nuove formalità si richiedono per la concessione ; atto che non ha ragione d'essere, fuorchè nel vieto principio feudale della dema- nialità delle miniere. Di tale opinione di feudalità, per la quale lo Stato non di rado tende a frammettersi ed è quasi sempre di grave impedi- mento nell’ industria mineraria , è necessario che non rimanga traccia in una legge, che alla coltivazione delle miniere apra la via ad estendersi e prosperare. L’officio dello Stato, in quanto riguarda quest’industria, deve restringersi agli opportuni regolamenti per tutelare la sicurezza delle persone in questo genere di lavori per loro natura assai pericolosi, e dove talora l’avidità ‘del guadagno fa che si ometiano le necessarie IN VILLA DI CHIESA 449 cautele. Inoltre la legge deve, in modo più chiaro ed ampio che non oggidì, rimuovere gli ostacoli, che, gravissimi e continui, a quest in- dustria, sopratutto in Sardegna, oppongono i proprietarii dei terreni ; ostacoli resi anche maggiori dallo sminuzzamento e dalla incertezza della proprietà in quell’ Isola, nella quale inoltre la maggior parte dei terreni dove sono le argentiere sono abandonati, incolti e di nessun valore. Una nuova legge mineraria commune a tutta Italia correggendo questi ed alcuni altri difetti della presente legge, che pure è fra le migliori che reggano la presente materia, dovrà mantenerne ed estenderne i principii fondamentali : essere le miniere una proprietà privata, sulla quale lo Stato impone tributi come su ogni altra proprietà, ma senza avervi di- ritto di regalia o altra ragione qualsiasi; questa proprietà essere al tutto disgiunta da quella del suolo, e da questa indipendente; potere il pro- prietario della miniera fare acquisto dei terreni privati (escluse, come per la servitù d’acquedotto e per le vie ferrate private, le case, ed i cortili, giardini ed aje ad esse attinenti) che siano utili per l'esercizio della sua industria, pagandone al proprietario un prezzo competente, almeno della metà superiore al prezzo d’ estimo; ed infine acquistarsi la proprietà delle miniere non per concessione dello Stato, ma colla occupazione e colla coltivazione, fra limiti di superficie definiti e suffi- cientemente ampii, ma assai minori di quelli stabiliti dalla odierna legge ; e perdersi per l’abandono della coltivazione, pel tempo e nel modo da definirsi per legge. Serie II. Tom. XXVI. 57 PATO TA à GLOSSARIO In Minuscole sono notate le denominazioni antiche, ora fuori d’uso; In MasuscoLeTTE le denominazioni antiche, le quali sono in uso anche oggidì; — Fra parentesi quadrate si pongono le varietà di pronunzia o di ortografia degli anzidetti vocaboli, proprie del dialetto pisano o di altri dialetti toscani, e non ricevute nella lingua italiana; In Minuscole corsige si notano le denominazioni moderne, e particolarmente quelle presentemente in uso nelle miniere d’Iglesias in Sardegna; In simile caraltere, ma fra parentesi quadrate, si pongono le denominazioni in lingua straniera. 452 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Abboccare una fossa, $ 95. Azione, S 33. Affitto, S 42. Azionista, $ 37. Ajutatore al forno, $ 201. Ajutatore alla moneta, $ 237. Baccare, S 171. Albace, Albagio, $ 160. Baccare siliffo, S 174. Alchifoglio, $S 151. Baccaticcio, $ 171. Allogagione, $ 42. Bandoreggiati (di), SS 78, 118. Alfonsini, SS 234, 243. Barbe (argento in), $ 202. Aifonsini d’argento, S$ 243, 248. BariLi da aceto, $S 112. Alfonsini d’oro, S 243. BariLi da acqua, $ 123. Alfonsini minuti, S 248. [Belancette], $ 186. Aliogatore, $ 42. [Belifanna], $ 205. Anticipazioni, S 118. | [Bellatrame], $ 205. Antiguinda, Antiguindo, S 109. Bellifana, $ 205. Aprire montagna o fossa nuova, $ 717. Bellitrame, $ 205. Argentiera, per Miniera di piom- BrancettE, S 186. bo argentifero, S 21. Bindolo, S$ 119. Argentiera, collettivo, SS 24, 22. Bistantaria, S 48. | Argentiera (arte d’), S 24. Bistante (il), S$ 47-55. Argentiere, per Minatore, S 21. Bistante (la), S 48. Argentiere, per Orafo, S 24. [Bocarder], S 171. Argento, SS 157, 188, 200-202. Bocca di fossa, boltino ecc., $$95, 98. Armare una fossa, SS 95, 128. Bocca sboccata, $ 95. Arrivare, S 77. [Boccaticcio], $ 171. Ascione, $ 128. Boleggia, S 225. AsciotTArE, S 115. Boleggia (mezza), $ 206. Asta di parlito, $ 145. Bolga, S$ 1410, 122. AvureEnTICI (pesoni), S 186. Bolgajuolo, S 110. { Avinghiare, $ 100. Borsotto, $ 183. IN VILLA DI CHIESA 453 Bossoro, S$ 183. Botte, $ 123. Bottino, SS 97, 98, 101, 443. [Bugnum fovee], S 95. CaLamita, S 146. Calamitare, $ 146. Calcinazione, S 197. Camino, $ 199. Canale, S$ 97, 100, 101. Canaletto, $ 100. Canape da cavalcare, $ 131. Canraro, S 226. Cantina, SS 97, 102. Capanna, $S 95. Capizzuolo, S$ 142, 145. Carato, S 243. CARRATORE, $ 173. Carta di bistante, $ 50. Cartuccia, $ 183. Casseria, S 161. Cassiere, S 65. Catena (fare), S AMA. Cava, $ 105. Cavalcare, vedi Canape da ca- valcare. Cavare, SS 105, 108. Cavare un corso d’acqua, $ 165. Cavatura, $ 165. Ceneraccio, per Litargirio,S 204. Ceneraccio, per Diritto sulla cenere, $ 225. Centenajo di cantaro, $ 226. [Chiletta], S 157. Classificare, S 169. Colare (attivo), S$ 172, 188. Colare (intransitivo), S 225. Colatore, $ 192. Colatore (Mastro), $ 4192. Communale (partitura),$$32,57. Commune, $ 32. Compagnia, SS 32, 40. ConcepERE, $ 75. Concessione, $ 273. Conduttore, $ 42. Conielli, S$ 129. Contribuzioni, S 219. Coppellare, $ 188. Coppellazione, S 200. Corbello, $ 174. Corbello (mezzo), $ 17%. Corbello sano, $ 174. Cordeggiare i partiti, $ 146. Crivelli, S 169. Crogiuolo, $ 183. Cunei, $ 129. Cupi (verso li), $ 95. Denaro, $ 243. Denaro alfonsino d’ argento , S$ 243, 248. Denaro alfonsino minuto, $ 248. Denaro d’oro, $ 243. Dichiarazione di scoperta ,, S 273. Die (al), SS 80, 114. — (piazza del), $ 95. — (riempiere le fosse dal), $83. — (vedersi dal), $ 100. — (verso lo), $ 99. Difendere, $ 100. Difficio, S 204. Dificare, SS 95, 128. Direttore, $ 60. 454 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Dirittare, $ 223. Diritto, S 219. Discarica, S 161. Dividendo, $ 571. Dorgomena, $$ 97, 4103. [Dorslagum], $ 103. Dritto (a) passo, $ 82. [Eclair], S 200. Entrare, detto di un pesone, $ 186. Estimatori del Monte, $ 1541. EsrraRRE, $ 105. Fancello, $ 192. Fancello di truogora, $ 169. Far fine (l’argento), $ 201. Feccie, S 199. Ferire in alcuna fossa, $ 104. Focajuolo, $ 206. Folgorazione, S 200. Fondenti, $ 197. [Fonderare], $ 104. Fondere, SS 172, 188. Fonditore nella zecca, $ 235. Fondorare, S$ 104, 1484. Fondorato (aggettivo), $ 104. Fondorato (sostantivo), $S 104. ForneLLO, $$ 109, 199. Fornimento della fossa, $ 120. Fornire, $ 206. Forno, $ 194. a manica, $ 195. —— A MANTICE, S$ 195, 269. —— a riverbero, $ 194. —— da colare, $ 187. -— di calcinazione, $ 197. Fossa per lavoro di miniera, $ 93. Fossa per pozzo, $ 94. Fossa perCommune di fossa, $.32. Fossa d’ argentiera, $$ 21, 93. Franca (a parte), $ 42. Franca (testa), $ 100. Francare, $ 441. Francatura, S 41. Franchezza, $ 222. Franco, $ 77. Fusto, S$ 95, 98. [Galanza], $ 157. GALENA, $S 157. Galleria, S 98. Gara, $ 140. Gara (avere), $ 140. Gareggiare, $ 140. Gativiera, S 109. Gentile (vena), $ 159. Gettaticcio, SS 80, 1641. [Ghiletta], S 157. [Gittaticcio], SS 80, 161. Giudicare, $ 145. [Gliletta], S 157. Gottare , S 169. Grane, $ 159. Grano, $ 243. [Grillage], S 197. Grossa (moneta), SS 245, 248. | Grossa (vena), $ 158. Grossame, $ 158. Guelco, $ 189. | [Guercus], $ 189. | Guerreggiare, $ 140. Guindo, $ 209. Guscierno, $ 120. Guscierno di fossa, $ 120. IN VILLA DI CHIESA 455 Imbianchitore della moneta , S 237. Impacciare la gara, 140. Impiegati, $ 59. Imposte, $ 219. Isdifficiare, $ 95. Lavare, S$ 162-165. Laveria, S 166. Lavorato (monte), $ 171. LavoraToRE, S$ 118-119. Lavoratore per trattatore, $ 201. ‘Lavoratore di truogora, $$ 163, 169. Lavoratura, $ 81. Lavoriera, $ 106. Liberare, $ 41. Libra di alfonsini S 248. Libro della fossa, S$ 68-72. del guelco, $ 191. Limiti, S 145. Litargirio, $ 200. Loghino, $$ 172, 182. Loppe, $ 199. Lorda (vena), $ 160. Lumi, $ 133. minuti , Maestratico, SS 60, 136. Maestrato, $ 136. Maestria, $ 60. Maestri della Corte, S$ 154. Maestri della Corte del Monte, S 154. Maestri dell’Appellagione, $ 155. Maestri della prima Corte, S 155. Maestri del Monte, $$ 136, 154. Maestri di prima Appellagione, $ 155. LI Maestri di seconda Appellagione, S 155. Maestro della Moneta, S$ 235, 238-240. Maestro di bottino, $ 60. di fossa, S 60. Maistrare, $ 60. Mancamento, S$ 199. Mancatura, $ 199. Mantice, $ 134. Marco d’argento, $ 24I. Margola, $ 98. Marino, $ 105. Marra, S 126. Marrascure, S 127. MarteLLO da fabro, S 134. da pestare, $ 161. Mastro colatore, $ 192. Mastro smiratore, S 201. Materiale, $ 105. Medaglia; S$ 248. Mendare, $ 217. Menuto, $ 159, Mercantile (piombo), $ 203. Messo dal die (lavoro), S 78. Mettere in mano di alcuno un lavoro, S 152. [Mezzalune], Mezzanule, S 104. Minatore, $ 21. Minerale, S 156. Minerale di prima qualità, S 158. ‘ di seconda qualità, S 159. 456 DELL'INDUSTRIA Minerale di terza qualità, S 161. Miniera, S 21. Minuta (moneta), S$ 245, 248. Minutello, $ 159. Minuto, $ 159. Misuratore della vena, $ 175. Misuratura (officio della), $ 175. Modulatore, $$ 163, 1770. Molentaro, $ 1773. MoLENTE, $ 111. Moneta grossa, $$ 245, 248. — minuta, $$ 245, 248. Mons drictus, $ 98. Monte, $ 105. Monte lavorato, $$ 80, 174. Monte sodo, $ 174. Monte vecchio, $ 142. Morto, $ 106, 107, 108, 147. Netta (vena), $ 159. Noria, $ MAT. Nuova (montagna), $ 77. Nuovo (lavoro), $ 78. Offerta, S 227. Officiali, S 59. Officio, SS 59, 60. Opera (piombo d’), $ 200. Pasuori, $ 130. Para, $ 130. PacetTA, S 130. Pane, $ 198. Panello, S$ 198, not. 1; 202. Panettolo, $ 198, not. 1. PapagaLLi, S 134. DELLE MINIERE [Parsonavele, Parsonavile, Par- sonavole], $ 37. Parte di trenta, $ 33. Parte (a), $ 42. Parte franca (a), S 42. Partiarii, $ 37. Partire, $ 57. Partito, $ 145. Partito finale, $ 145. Partito non stanziale, $ 145. Partito stanziale, $ 145. Partitura, $ 57. Partitura communale, $$ 32, 57. [Parzonaole], $ 37. Parzonavile, $ 37. [Patinsonage], $ 204. Permesso di ricerca, $ 213. Pertiche, $ 201. Pesatore delli saggi, S 186. Pesone, $$ 182, 186. Pesone autentico, $ 186. Pestare, $ 164. Pestaticcio, $ 161. Pestatore, $ 161. Petrajo, $ 161. Petrina, S 182. Piastre, $ 202. Piazza nelle fosse, S 144. Piazza per piazza da lavare, $166. Piazza da lavare, $ 166. Piazza del die, $ 95. Piazza della fossa o bottino, S$ 95, 98. Piazza di forno, SS 55, 206. Piazzale, $ 95. Piccone, $ 125. Picconiere, S$ 143, 4125. IN VILLA DI CHIESA 497 Pieno, $ 99. Pietre dei guelchi, $ 182. Piompo, S$ 156, 157, 188. Piombo d’opera, S 200. Piombo mercantile, $ 203. Piombo non smirato, $ 200. Piombo smirato, $ 203. Polverino, S ATA. Porre suso, $ 201. Portitore, $ 56. Pozzo, SS 9%, 100. Profondare, $ 79. Punta, $ 145. Puntello, $ 145. Quaderno del guelco, $ 4194. Qualità (Minerale di prima) | Qualità (Minerale \ Vedi Mine- di seconda) rale ecc. Qualità (Minerale di terza) Ragionamento, $ 70. Ragionare, $ 67. Ragionatura, $$ 66, 67. Ragione (stare a), $ 67. Recare a fine, $ 160. Rendere la riveduta, $ 142. Ricessare, $ 99. Ricevere la riveduta, $ 144. Richiaramento, $ 178. Richieritore, $ 138. Ricidere, SS 99, 100. Ricoglitore, $ 65. Ricoglitore di somma, $ 65. Rificare, $ 100. Serie II. Tom. XXVI. Rilivare, $ 100. Rinfrescamento, $ 78. Rinfrescare, $ 78. Rinfrescatura, $ 78. Ripigliare, $ 78. Ripigliatore, S 79. Ripigliatura, $ 78. Ripreso, $ 78. Rischiaramento, $ 185. [Rissare partiti], $ 145. Rivedere, $ 140. Rivedimento, $ 140. Riveduta, $ 140. Riveduta (stare a), S 140. Rivipificare, $ 203. Rizzare partiti, S 145. Rompere i partiti, S 147. [Rossa] (vena), S 158. Rotta (riveduta), $ 142. Rotto (partito), $ 147. Rubbi, $ 178. SAGGIATORE, $ 181. SacGiraTORE della moneta, S 235. Saggi (officiale sopra i), S 183. Saggio, $ 184. Saggio per tenore, SS 180, 183. Saggio in commune, $ 181. Saggiole, $ 186. Sano (corbello), $ 174. Sboccare, $ 95. Sboccata (fossa), S 95. Scaldatoja, $ 204. Scandigliare, $$ 143, 4174. Scandigliatore, $$ 143, 178. Scandigliatura, S$ 143, 178. Scandiglio, SS 174, 178. 58 458 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE Scarica, $ 161. Scassare, $ 100. Schiarimento, $ 223. [Schlamm], $ 1911. [ScAlick], S 159. Scionfa, S$ 117, 174. Scionfare acqua, $ 117. ScIUTTARE, S 115. Scotonario, $ 212. Scorie, SS 199, 241. Scritto di bistante, S 48. Scrivano dei libri di Villa, $ 68. dei Maestri del Monte, $ 137. —— della fossa, S 64. della moneta, S 235. Secco (muro A), $ 210. Sega, S 134. Segnare, S 78. Segnatura, S 78. Segno, $ 78. Segno morto, $ 78. Segretario, S 64. Sevo, $ 133. Sfumare, S T11. Siliffare, S 100. Siliffo, SS 159, 4174. Smirare, $ 188. Smirare il piombo, $ 188. Smirato (piombo), $ 203. Smirato (piombo non), $ 200. Smiratore, $ 201. Smiratore, (ajutatore), $ 204. Smiratore (maestro), $ 201. Società, 'S 32. Sodo, SS 80, 82. Sodo (monte), opposto a monte lavorato, S 171. Sodo (monte), opposto a monte tenero, $ 140. Soffroctare, S$ 171. Soldo di UrOnini minuti, $ 248. Soprasomma, S 71. Sottomaestro, $ 62. Spianare il ceneraccio, S 201. Sparrone, $ 198. Spiraglio, S$ 108. Stallo, $ 152. Stanziale (partito), S 145. Stanziale (partito non), S 145. Sticcare, $ 100. Stonfa, Stonfo, S 152. Tagliatore, $ 235. Tegoloccio, $ 183. TeNaAGLIE, S 134. Tenero (monte), $ 110. Tenore, SS 180, 183. Termine, S 145. Testa, $ 100. . Testa franca, $ 100. Tirare, SS 105, 1414, 114. Traggere, $ 105. Trarre al die, S 114. Trattare, S 134. Trattatore, $ 201. Traversa, S 103. Trenta, $$ 33-36. Trincera, $ 96. Truogora, S$ 163, 169. Tulano, SS 163, 170. Varicata (fossa), S$ 97. Vasche, S 169. Vena, $ 156. IN VILLA DI CHIESA 459 Vena d’argento, $ 157. Vento (dare) alle fosse, $ 108. Vena di piombo, S 157. Via, $ 107. Vena gentile, $ 159. Viaggio, $ 107. grossa, S 158.0 Vite d’ Archimede, S 117. ——— lorda, $ 160. Vivo, $ 107. —— netta, SS 159, 160. Volta, SS 98, 143. [rossa], $ 158. Vuoto, $ 99. Ventilazione, $ 108. Vento, S$ 108, 200. Zecca, $ 232. 460 DELL'INDUSTRIA DELLE MINIERE GLOSSARIO DI VOCI ESTRANBE ALL'ARTE D'ARGENTIGRA se —__ Allato allato, $ 79. Ambaco (per), S$ 186. Ammonigione, $ 209. Assassino, [assissino], [asti- stino], SS 19, 217. Assemplare, S 136. Avvocare, S 149. Bandiere, $ 209. Camere, $ 72. Camerelle, $ 72. Compagna, $ 215. Correre, $$ 36, 41, 54. Credenza (tenere), $ 83. Data, $ 77. Datale, $ 49. Diffendivile, SS 192, 213. Distesamente, $ 186. Esemplare, $ 69. Feo, $ 174. Furo, $ 217. Gualchiera, S 189, not. 4. Incantare, S$ 53-54. Incanto, S$ 53-54. Inteso (essere) a ragione, S 49. Jura, $ 215. Liquido, SS 82, 223. Litare, $ 98. Litatore, $ 98. Lucro per usura, $ 50. Malvagio (a), $ 99. Mendare, $ 217. Mezzedima, $ 144. Mezzo prezzo, $ 45. Mota lite, $ 148. Offendivile (arma), S$ 192, 243. Pagatore, $ 64. Parola per licenza, S 141. Polizza ( Etimologia della voce), S$ 58, not. 1. IN VILLA DI CHIESA Prestanza, $ 77. Ressa, S 215. Rubatore, S$ 217. Servito, $ 152. Sostenuto in prigione, $$ 46, 52. Spartina, $ 131. Stallatico, $ 152. Tenere per pegno, $ 52. Tenere Corte, $ 138. Terramagnese, $ 215. Umbraco, $ 190. Università, $ 16. Vendere, SS 68, 249. 46r 463 INDICE CAPITOLO I. Della coltivazione delle miniere in Sardigna, e no- minatamente nel territorio di Villa di Chiesa, fino alla caduia della dominazione Pisana .. Pag. 225 » IL Communi ossia Compagnie di fosse. Bistanti ..... » 248 » II Maestroescrivano della fossa. Ricoglitore di somma. Ragionatura nei libri di Vil'a di Chiesa ...... » 269 » IV. Occupazione, abandono e ripigliatura delle fosse. Nome di alcuni monti d° argentiera ........... » 280 » W. Nome e descrizione dei varti lavori di fossa. Modo CRSIGUIECIHIA CORALOLO SAI Sn » 296 » VI Maestri del Monte, e loro scrivano. Rivedute, scan- digliatura e partiti. Estimatori del Monte. Liti di CKENICRCR GO SOSSEN SANI SGTA NILO St » 325 » VII Vena e suc varie qualità. Pestatura. Lavatura ...» 345 » VIII Trasporto, misura, pesatura, saggi e vendita della VELIERO AO IRE OAINAE S » 357 » IX Del colare e dello smirare. Guelchi. Vendita del PLOMDORCISCMARGNO OLII. » 368 » X. Ordinamenti di sicurezza publica............... » 386 » XI. Diretti sur prodotti delle miniere. Zecca e Monete.» 394 » XII. Decadenza, caduta e risorgimento dell industria mineraria nel territorio d’Iglesias............. » 427 EGFOSSARIOi inno SAT dida » 45r SI 3 TIA gTOIONI it Ga 9 MSI PI) ADITO hi sa si aiar TE QTA i BIS SE DIT 1° amorntos 1a alporintznise Du dee 94%. paco psriigi; otto. ojubaa. aid B\g: € 14 BISI 098 È sa DIMMRM deri “AguissttonoO Hi Sassuertoa, dip anrasabgo9i fi Rot DIS sh ostaisoa a ontesoMi MI a 0% QÙE 01404, DIO. E sodi ose ari adioni. i EN vihai SUI oasi eo Ma I E O O iScuato. d gemovi ONOIN dai i ont ni 49 Aso) 1a voso a sero Siad saison sosti va Ò pc isot sw RI I Wale IRON oh solaio pai AA RI n Mr Nan ‘| ONG ti. ina Sede SI SO, (i SR “catalan BOE “ na a dIE da. RE vi. Rai di era $ goa. oe 2° rd 00 > Como NAVI. € dl dea Accad Rdelle Se di Tori I E x» da eni HA v x Serle Voyern. dA 7 larino LiL.L: Tomo NAVI. À, Lene) O) e TAL, .d Nasse du So È delle dd Vorimo, le Accad. LIV I. Svala 4 Torino LiEFL “Doy 272. Acad Redelle Score, asse dir bcMov Mov FA, Serie I° Tomo JIMI. ZWAI VAIO AUAZZZZZA Acad Redelle Se di Vorimo, Masse dvd Morton e FIA., Serie Como XII. Z4V.1N° | SA pa RE AIR Grandezza nubreale - loreno bit E Layer COMO I. Iarino LEFT Poyer Aecad. delle de di pan _ n. LR = i I LORI Const 4 IS i | i IATA o È Fat ;5 oo i prat ARIAL IA uil OI UM I A LITTA ERMES ROITE O DE BOND I a) \ | Ra tri Too Divieti gl erro e _.. I A de n 7 È \ —Ro-x@[IAN5:- = oo _IN» GESAT VIX.ANN.XXV STI .VI.EXERCI TVS. RAETICI PATERNVS H.F.C COMMILITONI CARISSIMO Catavigno figlio d’ Ivomago (ch'io credo Celta o Gallo de’ nostri monti) aveva militato sei anni nell'esercito della Rezia e nella Coorte III de’ Britanni sotto il centurione Gesato. Il titolo gli fu posto da un Pa- terno suo commilitone, da lui istituito erede. Che Celtica o Gallica, ovvero Brittone, fosse la schiatta di costui, puossi argomentare tanto dal nome paterno e dal suo, quanto dall’ es- sere stato soldato nella Coorte III de’ Britanni. È noto che le Coorti ed Ale ausiliarie, coscritte in una qualsivoglia provincia dell’ impero , portavan anzitutto il nome di quella nazione o provincia; ma perciò non era già che veramente ogni Ala o Coorte altri individui non con- tenesse, che quelli d’essa provincia nativi; che anzi parecchi e non (1) Noto che la G ricurva a questo modo trovasi già nell’ iscrizione di S. Gervais in Savoia dell’anno 75. Révon, Zrscriptions de la Haute Savoie (1870), n.° 44. Nella lapide Cuneese le lettere sono alte 45 e 63 millimetri. 468 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO pochi verano venuti da altri paesi. La militar prudenza, che tanta era ne’ Romani, e corroborata dall’ esperienza, dimostrò ben tosto come pieno fosse di pericoli il non ammettere ne’ corpi ausiliari che uomini nati in un solo e stesso paese. Valgan ad esempio le Coorti de’ Batavi, tutte prodezza ed orgoglio, e che, come alleate de’ Romani, formavansi solo d'uomini di lor sangue, comandate essendo dai principali della pa- tria loro, le quali ne quid truculentius auderent (!), dovette Vitellio inviarle in Germania, ma non sì che da noi passando, azzuffatisi colla legione XIV, non mandassero a fuoco ed a sangue la città nostra (®. Testificano infatti i diplomi militari, come lo Svizzero Ambirenus . Iuvenci . F. fosse soldato nella Coorte III de’ Galli ®), come il Pannone IJantumarus . Andedunis . F. ed il Boio Mogetissa. Comatulli. F. mili- tassero nella fanteria e cavalleria Ispanica (4), mentre un Reburrus Spa- gnuolo era nell’Ala I Tampiana de’ Pannoni 6), ed un /asus Pannone fu arruolato nella Coorte I de’ Lusitani (9), a non dir di moltissimi altri. Poi, quando in un paese poche eran le reclute, attribuivansi queste alle Coorti di popoli prossimi; così i Sardi, dando anzitutto marinai per la flotta 1”), epperciò mancando d'uomini per più coorti, ne furon unite le reclute a quelle de’ Liguri e de’ Corsì (8); dove la voce Cursorum la interpreto de’ Corsi e non mai de’ Cursori, come vorrebbe il Baille, l'isola essendo detta Kovporxa da Procopio, e anche al giorno d’oggi quegl’isolani da sè dicendosi Cursi. Così pure l'iscrizione Doniana ®), ch'egli adduce, mentovante la /. Cohors. Corsorum . Et . Civitatum . Barbariae . In. Sardinia, è giustamente sospetta (19) per aver I. COHOR- TIS anzichè COHORTIS .I, e per costituire un Evocato in prefetto di Coorte e di civitates ossiano popoli; potrebb’essere tuttavia, che codesti (4) Tacito, Mist., II, 27, 69; IV, 12. @) Ivi, II, 66. (3) Arneth, pag. 46. (4) Ivi, p. 28; Christ., Diploma di Weissenburg, p. 7. (3) Leggono Peburrus Cardinali (p. XXXI) e Gazzera (Diplomi, p. 41). Ma Reburrius, romanizzato, è nome di una gente spagnuola presso Hibner, Irscript. Hisp. Latinae, n.° 1876. (6) Arneth, p. 40, 4l. (7) Mommsen, I. R.N. passim; Diploma XI del Vernazza. (8) Baille, Diploma militare di Nerva, p. 14. Una coorte I di Sardi è però in Muratori 822, I, mapifestandone almeno una II. (9) Classe VI, n.° 39. (10) Orelli, n.0 153; Henzen, pag. 7. DI C. PROMIS. 469 Corsi, anzichè dell’isola da essi appellata, fosser di quelli abitanti i monti 2 2 di Sardegna, de’ quali parlano Plinio e Pausania (!. E poichè in questa Memoria è troppo ovvia l’intromissione di notizie sull'antico Piemonte, dirò che una simile mescolanza doveva aver luogo per le Coorti di Alpini, posto che quella de’ Montani fosse di Liguri d’oltre Varo così appellati (2); quanto agli Alpensi parlerò alquanto più a lungo, per dimostrare che non esistono fuorchè in virtù d’una mala lezione. Infatti, un diploma dell’anno 167 fu stampato dal Weszpremio e poi dal Vernazza al N.° XVII, che ambedue vi lessero IHALPENPED,; avvertirono l’errore Cavedoni e Cardinali che corressero quell’inciso in CHOors .I.ALPINorum . PEDemontanorun 8. Buona fu l'emendazione Alpinorum togliente quell’A/pensium, che non è voce latina e vuol p 5 > essere espulsa dal Lessico del Furlanetto, che ve l’intromise sulla fede del Vernazza; ma quei Pedemontani mai non esisterono nè poterono ; q p esistere a’ tempi antichi, non trovandosi il nome Pedemontium prima del XIII secolo; bene quindi avvertiva il Borghesi (4) che, in virtà di analogia, vi si deve leggere PEDitum. E poichè sono in que am irò ancora di un altro errore de E poich sto campo, dirò ancora d It del ardinali asserente che sei popoli d'’ Italia © sue iso ornivan Cardinali asserente che oli d’Italia e delle sue le £ oorti di ausiliari ran Montani ini, Liguri montani, Sardi Coorti d liari ed eran Montani, Alpini, Liguri, Pede tani, Sardi, Corsi ©). Ora neppur uno di questi popoli era Italico, cioè insignito del pien diritto; che se tali fossero stati, avrebbero militato nelle legioni, ma tali non essendo, andar dovevano nelle Coorti ausiliari, oppure, come isolani, servir nella flotta. I Montani infatti erano d’oltre Varo, cioè Liguri di Provenza (0); imminevan gli Alpini alla pianura Italica, ma eran di diritto assai inferiore, e pochissime valli godevano della Romana cittadinanza; le Coorti Liguri eran tutte di Transalpini, cioè di rovenzali o di Delfinati, anzi una lapide rammentante la patria di un p li o di Delfinati, lapide tante la patria d i essi, lo dice Voconzio cioè tra Die aison; de’ Pedemontani d » lo dice V (1), tra Die e V id (1) III, 13, 2; X, 17. (2) Plinio, III, 24,3. Lo conferma l’aver essì avute due Coortì, delle quali è mentovata soltanto la prima. Gioffredo, A/pî Marittime, p. 88. (3) Diploma di Vespasiano (1832), p. 19. Dipl Imper. (1835), p. 147, 239. (4) Opere, IV, p. 195. (5) Diplomi, pag. 208. (6) Tacito chiama Mortari, non Alpini gli abitanti le Alpi Marittime. (7) Lanciarez, Memorie storiche di Monaco (1756), MS. 470 CAPO 1. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO dicemmo che non furon mai, e poi le alture andanti da Nizza all’Adria- tico eran A/pes e non Montes; Sardi e Corsi (come pure i Siciliani ) non eran Italiani nè Italici, ma provinciali e retti da Presidi. Ma di qual paese erano codesti Alpini noveranti tre Coorti, l’ultima delle quali Equitata(!)? Fatta Romana e cittadina tutta la pianura Italica, vissero i valligiani dell’Alpi, che in esse s'immettono, in qualità di attri- buiti ai Municipii sottostanti, della qual cosa riparlerò a pagina 476. Cittadini non erano, epperciò le truppe da essi fornite militavan cogli ausiliari, andavan poi in Coorti, come tutti i popoli alpigiani, che di cavalli scarsi fossero o privi, tale essendo il caso degli Elvezi, de’ Galli quasi tutti e degl’'Ispani, nonchè de’ Brittoni. Nelle loro Coorti, come sempre accadeva ed accade, eranvi però uomini di patrie lontanissime; così nella Coorte I l’Eravo od Eravisco (@), cioè Pannone, Ulpio Biauscone figlio di Spumaro (8), e nella II l’Azalo Ursione figlio di Busturone (©), Pannone esso pure. Se poi, per compiere le Coorti di cittadini Romani Volontarii, vi si incorporavan uomini di condizion peregrina, non in mi- norità eventuale, ma in assoluta totalità stavano i Peregrini nelle Coorti Alpine. Infatti, se di Cittadini Romani di gius Italico, come abitanti in tutto l'impero, se ne formavano Coorti in ogni provincia, anzi in ogni Conventus, per compierle vi si arruolavan poi anche dei Peregrini; mentre questi soli costituivano integralmente le Coorti Alpine. E questa cosa è significata nel diploma di Domiziano, dell’anno 93, nel quale vien conferita la cittadinanza: Peditibus Et Equitibus Qui Militant In Cohorte III Alpinorum Et In FILI Voluntariorum Civium Romanorum, Qui Peregrinae Condicionis Probati Erant ©). L’inferior diritto sotto il quale vivevano quegli estrani, loro apriva però l’adito a diventar cittadini Romani quando coperto avessero ma- gistrature in patria, oppur compiuto il militar servizio, e tanto più se graduati. Venivan allora censiti nella Quirina, tribù inferiore, molto diffusa di quà e di là dall’alpi ed alla quale ascrivevansi pel solito (1) Henzen, 6707. Al foglio 94 della Notizia mentova il Panciroli la Coorte XII degli Alpini, ma è errore proveniente da mala lezione di una lapide. (2) Plinio III, 28, 2; Tacito, Germazia, 28. (3) Arneth, pag. 67. (4) Arneth, pag. 64. (5) Zaccaria, Marm. Salonitana, pag. XVII. DI C. PROMIS. 471 i Galli fatti Latini; talvolta lo erano anche alla Voltinia sparsa essa pure nelle stesse regioni. La città di Susa, non essendo Italica, viveva dopo i Cozzii sotto Prefetti o Presidi, non avendo Tribù; ora de’ suoi Decurioni Duumviri abbiamo, che erano della Quirinva (4) cui appartenevan quasi tutti i Latini dell’alpi dalla Svizzera al Mediterraneo; cosicchè io respinsi già da questa città un C. Memorius. C. F. Fla. Messor. Segus. (®) ponendolo fra i Segusiavi di Lione. Esempio di due veterani delle superiori alpi marittime, e censiti nella tribù Quirina, forse pel servizio militare, l’ab- biamo in queste due lapidi nostre. T. METTIVS VICTORIAE . Sac QVIR . VALENS .. VLATTIVS . QVIR VETER. AVG ADIVTOR. VETER. AVG. SIBI . ET TRE METTIAE . VERAE. FILIAE . SVAE Perduta e d’ignota origine è la prima, data dal Guichenon (8); vi corressi Mettus in Mettius, due soldati di questa gente avendosi in lapidi del Forum Vibii, ora Envie, allo sbocco di val di Po, nella quale è probabile che fosse domiciliato il nostro (4; fu portata l’altra all’Univer- sità da Demonte grossa terra in val di Stura di Cuneo (5). Notevole è l'una pel gentilizio Gallico romanizzato (per corrosione mancandovi il prenome); notevoli ambedue per dirsene gl’individui veterani d’Augusto e per spettar ad un tempo alla Tribù Quirina, cui nella pianura Pie- montese, cioè nel paese legale, non fu ascritta nessuna regione. Per essersi trovati probabilmente in una Coorte Ausiliare, questi due, di- cendosi veterani d’un imperatore, tacciono del corpo nel quale avevan servito, che non doveva essere una legione; imperciocchè, mentre nei loro marmi i soldati romani rammentan quasi sempre la legione in cui militarono, dagli ausiliari i rispettivi corpi non sono quasi mai ricordati. (1) St. di Torino, pag. 88, 233, 491. (2) St. dî Torino, pag. 88. (3) Pag. 73; St. di Torino, N.° 176. (4) Steiner, N.° 254, 499; Brambach, N.° 1182, 1339. (5) St. di Torino, N° 177. 472 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO A queste due, altra ne aggiungo della contermina e parallela val di Gesso, copiata dal Nallino sull’originale (1): iulio. ALLVGONI . QVIR. IVLIAE siii. parenti . DESIDERATISSIMO STATA OL Dove ho sospetto che quel IVLIAE fosse IVLIA. F. seguito dal co- gnome nella linea seguente; e poi vi manca almeno la prima linea col cognome e nome del personaggio. Il Gallico cognome ANugo fu dal Mey- ranesio trasformato nel gentilizio A//ugonius in ara votiva al Genio del luogo, che finse in Roccaforte di val d’Ellero nel prossimo Apennino (2). Sopra Cuneo, in val di Gesso, havvi Borgo S. Dalmazzo, che si crede succeduto all'antica Pedona di Cassiodoro (8) e dei documenti dei tempi bassi. Il solo marmo rammentante i cittadini suoi (oltre quello di Cavour) fu trovato a Roma (4, e ricorda un M. Statius. M. F. Quir. Adiutor. Pedone. Mit. Coh. X. Pr. postogli da un fratello, che dicen- dosene Commanipularis, dev'essere stato esso pure Pedonate, Pretoriano e. della tribù Quirina. Primeggia eziandio questa tribù ne’ Decurioni e Duumviri di Cemenelium, come dalle sue lapidi ©); intanto vediamo che se i Pedonati con tribù erano della Quirina, Pedona doveva essere ne’ monti od alle lor falde. | Sappiamo infine da Tacito e da Plinio che Nerone conferì nell’anno 63 alle nazioni dell’alpi marittime il diritto Latino ©; ma quell’alpi si estendevano da noi sino al confine Italico posto all’ultimo declivio; dun- que un suolo eguale fu tenuto dalla tribù Quirina, alla quale furono ascritti per favor imperiale, ed in grandissima parte, gli alpigiani. Però incontrandomi nell’ iscrizione di Clodius. Castus Vecati. F. Veteranus, che dopo militato ventisei anni sciolse un voto a Giove ad Usseglio (7) e vedendo che costui (assumente il gentilizio Clodius, largito (1) MS. nella bibliot. del Re; G. Fr. Muratori, Zscriz. de’ Vagienni. N.° 221, bis. (2) Durandi, Piem. Cispad., p. 167; Nallino, ZWero, p. 14. (3) Zariarum I, 36. (4) Zaccaria, St. letteraria, Vol. IX, p. 499; Guasco, Mus. Capitol. II, N.° 171. (5) Gioffredo, St. dell’Alpi Marittime, p. 102, 103; Henzen, 5100. (6) Annal. XV, 32; H. N. IM, 24, 3. (7) St. di Torino, N.° 175. DI C. PROMIS. 475 probabilmente da Claudio a’ valligiani suoi) ma essendo senza prenome, è figlio di Vecato, nome Gallico, e chiamasi Castus, appunto come il Gallo luogotenente di Spartaco (1), ne deduco che non sia stato mai legionario nè cittadino, ma forse soldato in una Coorte Alpina, seppure nol fu nella Secusina del re Cozzio (2), alla cui valle principale egli era contermino. Vi si legge però Militavit. Annis. XXVI. e questa lunga ferma incumbendo ai soldati della flotta, potrebb’essere che in essa fosse Casto arruolato, come nella Misenense era un soldato Besso, cioè dei monti sovra il Danubio (8); così quando v'era una patria Piemontese, gli artiglieri di marina erano tutti alpigiani. Ma leggendo ne’ Diplomi militari frequente la formola: Quinis Et Vicenis Pluribusve Stipendiis Emeritis, ne possiam anche argomentare che Casto servito avesse in una Coorte per maggior tempo che non i soliti venticinqu'anni. Data la piena cittadinanza alla pianura del Po, Roma non solo la negò alle valli dell’alpi, ma non la conferì neppure a tutte le valli dell’A- pennino, almeno a quelle avvicinantisi all’alpi Marittime; nel I secolo, per figura, i Liguri Vagienni, abitanti le sponde superiori del Tanaro, ma di sangue Gallico, ancor non avevano che il diritto latino (4), e la lapide delle Matrone, trovata a Rocchetta Ligure sulla Borbera influente dello Scrivia, indicherebbe che il maggior diritto ancor non fosse dato ai montigiani sopra Tortona (©). D'un titolo a Bene con Matr. e d'altro a Morozzo con Matronis, non parlo, incerto essendo il complemento della prima voce, parendomi fatta la seconda con quella data nella storia di Torino al N.° 242 (6). mATROnis divis. matrONIS . Sacr. SACRum c.semproNiVS.C.L L.PVBL.RAPaz 0) sissi. SERVS V.S.L.L.m (1) Plutarco in Crasso; Frontino, Stratag. II, 5. (2) Svetonio, Ti. 37. (3) Vernazza, N.° 1; Cardinali, N.° 1. (4) Plinio III, 24, 3. (5) Sanguineti, Zscr. Rom. della Liguria. Addit. 1°. (6) Nallino, Peso, p. 100; G. Fr. Muratori, Iscr. Rom. dei Vagienni, N.° 95. (7) Antichità del Piemonte, ms. p. 9. Il Matronis della seconda lapide doveva essere preceduto da Deabus o Divis, come in una Secusina di cui dirò più sotto. Serie II. Tom. XXVI. 60 474 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Altro argomento attestante in modo perentorio la Gallicità delle nostre valli, quella d’Aosta eccettuata, ricavasi dal culto in esse prestato alle Celtiche Matrone, delle quali nella Britannia, Gallia e Germania abbon- dano le memorie. Una sola se ne conosce della odierna Liguria, ed è l’anzidetta con qualcuna del contado di Nizza. Ma dove la val di Gesso sbocca nella pianura di Cuneo, due ve n'erano nel Borgo S. Dalmazzo di Pedona, da me poi cercate invano, e che riferisco dal Bartoli (1) es- sendo tuttora inedite. Siccome poi, da Borgo S. Dalmazzo sino a Cuneo ed al confluente del Gesso nella Stura; non v'è nessun limite naturale, così è forza dire che il legal confine d’Italia fosse posto sotto quel confluente, che nel suo erto settore forma il cuneo, dal quale prese nome la città. Infatti, Centallo primo borgo della pianura e da Cuneo distante soli undici chilometri, ne’ copiosi suoi marmi non ricorda mai le Matrone, perchè il loro culto nazionale e vivissimo nella terra Gallica, barbaro riputavasi e d'un tratto cessava nella terra Italica, eccettuandone sempre le me- morie ad esse poste negli oppidi o città Romane dai vicini montanari. Da val di Gesso risalendo le alpi contro ponente, se ne perde ogni traccia sino all’alpi Cozzie ed al Mongihevro dagl’indigeni già chiamato Mons Matrona, e semplicemente Matrona (®, come dagl Itinerari. Ma copiose sono in val di Susa e singolarmente a Foresto e ad Avigliana. DIVIS. Matronis MATRONIS T.VINDON:VS.ieranus V.S.L.L.M COMPTVM VETuState 08) SEX . IVLIVS CONLABSVM EX VOto SECVNDINVS , 9 RESTITVIT,L.L.M MATRONIS VOTVM C. IVLIVS. CATVRONIS SOLVIT L T. SANVCIVS. MARCELLVS APTVS [ICCIME M.V.S.L.M (1) Il Publius gentilizio non è raro. (2) Incostante doveva essere l’accentuazione nella penultima sillaba della voce Matrorae, breve facendola Ausonio (Mosella v. 462), lunga Sidonio Apollinare (Carmer V. v. 208). (3) Il Compitum mentovato nella prima lapide traeva nome dal fatto di esser collocato in un cerocicchio di strade campestri, dicendo Isidoro nelle Origini, (XV, 16), Competa, quia plures in ea competunt vice, quasi Triviae, Quadriviae. La sua forma era però quella di un Zegurium, cioè pa- rallelepipeda e con quattro colonne angolari, DI C. PROMIS. 475 Queste le copiai nel primo villaggio, ove furon trovate circa trent'anni fa; le restituzioni della prima (!) son tolte da apografo coevo alla scoperta, e le vidi riunite nella casa colonica dell'avvocato Genin; la prima e al terza son poste da ingenui, l’altre da liberti di que’ Giulii che discen- devan da chi ebbesi il gentilizio da Ottaviano. Nella seconda, dopo il I. manca il solito L. (Libertus). In val di Susa la terra Gallica finiva alla stazione di Ocelum, che sotto l'impero ebbe nome di Zines Z'errae Cottiî; era posta al Dru- biaglio, regione Malano, sinistra della Dora ed a paro con Avigliana ; devesi questa notizia alla scoperta delle lapidi di Pudente Soc (iorum ). Publ(ici). Quadragesimae. Ser(vas). Contra Scr(iba). Finib(us). Cottii, le quali troncarono ogni dissidio sulla giacitura di Ocelo (®. Nello stesso luogo e tempo furon pur rinvenuti due marmi alle Matrone, posto l’uno da un servo di Cesare, Villico della stazione Ad Fines, l’altro dal liberto Tiberio Giulio Aceste (9). Ma appena fuori del villaggio di 44 Fines, nelle tante lapidi trovate tra Pianezza e Collegno, poi nelle tantissime di Torino, delle Matrone non v'è più ricordo, nè vi potè essere, perchè da diciannove secoli questa è terra Italica. Non pochi titoli d'Aosta mentovan divinità Romane, ma in nessun di essi parlasi delle Matrone (£; e così dev'essere, imperciocchè avanti la conquista non si ponevan lapidi, e dopo di essa, stata essendo colo- nizzata da tre mila Pretoriani (5), la valle fu tutta di diritto Romano, epperciò le divinità estranee non vi furono accettate. Procedendo più oltre, e lasciate le valli Biellesi poverissime d’iscrizioni, giungiamo a val di Sesia, della quale dovevan esser oriundi que’ montanari che in Vercelli posero qualche epigrafe alle Matrone, seppur non vi furono trasportate dalle prossime alpi. Poi a misura che ci avviciniam alla Lombardia, spesseggian esse sempre più, numerose apparendo nell’Alpi Novaresi e di là venute essendo quelle ora in Novara. Furono raccolte dal Bescapé, Gallarati, De Vit e Racca. (1) Storia di Torino, N.° 214. (2) Ivi, N.° III A; N.° III B. Può essere Cortra Scriba o Contra Scriptor. (8) Ivi, N° II E; N° 214, A. (4) Antichità di Aosta, p. 61. (5) Dione, lib. LIMI, 25; Strabone, 1V, 6, 7. 476 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Identiche verità storiche si potrebbero constatare per le valli Lom- barde e per le Venete, fra le quali copiosissime sono di titoli alle Ma- trone quelle di Brescia, mentre invece cessano al cominciar della pianura. Fra le poche, incerte e casuali indicazioni degli antichi scrittori, l’os- servazione de’ limiti ai quali finiva il culto delle Matrone, basta a sta- bilire che col cessar della pianura cessava il Romano cittadinatico, vi- vendo le terre in montagna secondo le consuetudini Galliche, Retiche, Carniche e via dicendo. Ne conchiudo che poteva benissimo il nostro Catavigno essere Brit- tone, oppure, e più probabilmente, delle valli nostre del Gesso o della Stura, ed aver militato in una coorte ausiliare di Britanni ossia Brittoni; quindi esser morto in patria al confluente di que’ due fiumi, che non sappiamo a quale delle due valli spettasse; ma era certamente paese Gallico, cioè attribuito a qualche Municipio della pianura Italica ('), ed infine non di diritto pieno. Imperciocchè, soltanto alla pianura fu da Cesare, circa do anni avanti l’era volgare, estesa la cittadinanza Romana collo spartimento in tribù, credendo io che così avesse fatto seguendo le massime antiche attuate dal Senato, allorquando, e sin dall'anno 532 di Roma, spogliati i Galli del dominio della Circumpadana, loro lasciò pochi luoghi sottostanti alle stesse alpi (®). Assuefatti noi alla moderna geografia politica immedesimante sotto una legge sola le pianure colle valli che in esse s'immettono, difficile ci riesce d’imaginar le condizioni della regione subalpina all’età Romana, quando vivevano i pianigiani giusta il: miglior diritto, vivevano i montanari (grazie all’original peccato di lor mascimento) con diritti scarsi ed inferiori d’assai. Ma ciò non toglie che la distinzione, avvegnachè sin’ora sconosciuta, realmente non esistesse, dimostrata essendo nel più inconcusso modo dal diverso ge- nere di milizia esercitato dagli uomini delle due regioni; dalle Matronae popolari ne’ monti, perchè Gallici, ignote al pian paese, perchè Romano. Ho discorso altrove, e qui accennerò soltanto, come favorir i popoli (1) Enumerando Plinio (III, 21, 4) i popoli alpini dell’iscrizione della Turbia, dice che: Mor sunt adiectae Cottianae civitates ATI quae non fuerunt hostiles: item attributae Municipiis lege Pompeia. Al libro III, 24, I: Triumpilini, venalis cum agris suis populus (da Veneo, son venduto): den Ca- muni, compluresque similes finitimis attributi Municipiis. Henzen, N.° 7168: Carni, Cataligue attri- buti a Divo Augusto Reipublicae nostrae (cioè a Trieste), con quanto segue, spiegante come quegli estranì potesser salire alla cittadinanza. — Vedi anche Mommsen, Zarola di Cles (1869), linea 23 e seguenti, ove parlasi di tre popoli attribuiti ai Tridentini. (2) Polibio, II, 35. DI ©. PROMIS. 477 che, vinti, si rimettessero alla lor generosità, e sterminar ad un tempo le tenaci indipendenze, fosse massima di governo presso i Romani, vi- vesser dessi in repubblica o sotto l’impero (!; massima espressa da Vir- gilio ne’ mirabili versi : Tu regere imperio populos, Romane, memento ; Hae tibi erunt artes: pacisque imponere morem, Parcere subiectis et debellare superbos (). Siccome universale in Roma, egual concetto circa i popoli dell’alpi significava Augusto in sua severa prosa: Externas gentes, quibus tuto parcere potui, conservare quam excidere malui ®). Efficaci parole al certo : Excidere, cioè svellere, sterminare e sterminati furono gl’indo- mabili ed indomiti Reti e Salassi (9, e per tal modo che la deserta patria de’ primi fu data a coloni Ubii e Sicambri (5); la deserta patria de’ secondi ebbe a coloni tre mila Pretoriani (9). Epperciò la Rezia non mutò mai sua condizion di provincia; ma la valle de’ Salassi, d’unica importanza pel biforcarsi delle due vie, sola fra tutte quelle superiori fu fatta Romana, dopo spenta la stirpe indigena. Nell’alpi Retiche ebbesi Trento il diritto romano, e le valli laterali degli Anauni, Tulliassi e Sinduni, che avevan usurpata la cittadinanza, per benigni riguardi ed attesa la lunga consuetudine, furono in essa confermate da Claudio (?). Aggiungasi che non consta avessero questi osteggiata la conquista di Augusto, mentre i nostri valligiani, che tutti vi si opposero, eccettuati quelli di Susa, furon tutti ridotti a condizion di provinciali, cioè rag- guagliati ai Galli, ogniqualvolta sfuggiti fossero alla morte. ed al ser- vaggio; nè la fedeltà di Donno e de’ Cozzii potè far sì che, essi cessati, il regno loro, siccome Gallico, ridotto non fosse in provincia dell’alpi Cozzie. Insomma, gli alpigiani nostri (tolti i coloni Pretoriani di val d’Aosta), non furono mai Romani, e tali non essendo, non poteron essere legionari e proseguiron nel culto delle lor nazionali divinità. (1) Storia di Torino, p. 76. (2) Aencid. VI, 894. (3) Mommsen, Res gestae Divi Augusti ex monumentis Ancyrano et Apolloniensi (1865), p.7ep. LKXX. (4) Dione LIV, LIII, 25. (5) Svetonio, Oct. 21, Zib. 9. (6) Strabone IV, 6, 7. (7) Mommsen, Zavola di Cles (1868). 478 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Vengo ora all’esame analitico de’ singoli incisi dell’iscrizione di Ca- tavigno, corredandoli ad un tempo di quelle osservazioni, che meglio posson giovare alla filologia, alla storia e sopra tutto allo schiarimento di una difficoltà, che per quanto io mi sappia, ancor non fu indagata e spianata dai cultori di questi studi; dico della differenza politica che fu tra i conquistati ed i conquistatori della Britannia, differenza espressa co' due nomi di Brittones e di Britanni e derivati da essi. Diis. Manibus CATAVIGNI . IVOMAGI . Fili? Celtici sono i nomi del soldato e del padre suo, cosa non traente dall’imbarazzo chi voglia scernere se Catavigno fosse Brittone o dell’alpi nostre; li dico poi Celtici, avvegnachè di affatto eguali non ne abbia rinvenuto altrove. La prima componente di Catavignus la riscontro in Cathu elemento di parecchi nomi Gallici (quello, per figura, de’ nostri confinanti Caturigi), ed il quale s’interpreta per Pugra, come in Ca- thubodua (1). La seconda la ignoro. La prima componente d’/vomagus trovasi in molti nomi geografici di Spagna e Gallia, come la Celtiberica Evia od Aevia ®), ed i tanti nomi di Francia cominciati con Yve e tutti rispondenti ad Aqua, non- chè il nome Ewaria (8). Le voci Eve, Eva duran tuttora tra il volgo Francese e nostrano, in inedito documento Torinese del 1063 leggendosi Latus quo currit Eva; credo poi che nessuno penserà al /ivomagum di Ausonio (£, perchè dicendolo il poeta Castra inclyta Constantini, di- mostra abbastanza che intende della città di Noviomago; il personale /va è anche in Verona (©). La voce Mag. (Magus, Magum) è una delle più frequenti, quasi sempre avendo seco un aggiunto topografico. Abbonda la Francia di nomi siffatti, ma qui rammenterò soltanto i nostri, come: Bodincomagus ossia Bodinc-Mag., mansione sul Po, che Bodeyxos è detto da Polibio II, 16: Camilliomagus presso Stradella (9): Rigomagus, (1) Pictet, Revue Archeol. (1868), pag. il. (2) Plinio, III, 3, 7; Grutero, p. 550. (3) Carpentier, ad vocem. (4) Mosella, v. XI. (5) Muratori, 12, 7; Maffei, 80, 1. (6) Tavola Peuting., Itiner. d’Antonino. DI C. PROMIS. 479 o Trino vecchio, degl'Itinerari e de’ Vasi di Vicarello: Scingomagus a ventotto miglia da Ocelum ed entro l’alpi (4) Per tal modo il nome Ivomagus significherebbe mansione presso l’acqua. La componente /vo troverebbesi anche nel nome di Zvonercus Molaci. F. Britt., ogniqualvolta l’Arneth, che così ha nel testo, nella Tavola IX poi non avesse Zonercas, lezione seguita eziandio da Gazzera, Cardi- nali e Borghesi, e meglio concordante col fac-simile. Ma tutto ciò non ci guida a determinare quale si fosse il luogo nativo del soldato nostro. Radunando personali di egual forma e di ceppo Celtico, cercherò almeno di dimostrare, ch'egli poteva esser nato nella zona Gallica de’ nostri monti sovrastante alla pianura, e specialmente a Cuneo o nelle sue vi- cinanze. Possente argomento per dirlo nativo di quel luogo o de’ suoi pressi, sta nel fatto dell’essersi l'iscrizione trovata colà e che in Cuneo, or ha due secoli, non si trasportavan marmi per porli in fabbrica; ag- giungasi che, pei soldati Romani, ponevasi il monumento nel luogo nativo, ogniqualvolta morti non fossero sul campo o negli alloggiamenti militari, od in Roma. La prima componente del personale Mo- lacus, ch'è quello del padre di Zuonercus, trovasi in Mo/ota di questo sasso, che io stampai altrove dalle schede del Vernazza (®). Avvegnachè provenga da Testona, fini di Torino, lo credo di persona veniente dal superior Cispado nostro e presso l’alpi Marittime, abbondando colà le Memorie degli Ennii e dei Cominii, che da noi mancano, essendovene COMINIA M.F.PVPA.T.F.I. M.ENNIO.T.F.SVPERO T.ENNIO.T.F.TABLIONI moLoT AE . MATRI sei de’ primi, con cinque de’ secondi (8). P. MALLIVS .T.F. POL La copiai a S. Colomba presso Centallo ; VERAIS quantunque Zeranus sia anche cognome Ro- FECIT. PIE. P.L mano (4), pure lo trovo eziandio tra i perso- MODESTVS nali Celtici, avendolo in uno de’ sette fratelli Ibernesi (5), i di cui nomi desiniscon tutti in anus. A crederlo Celtico mi conforta il gran numero di siffatti personali (1) Strabone IV, 1, 3; Plinio, II, 112. Sono chilometri 42. (2) St. di Torino, N.° 26. (3) Prof. G. Fr. Muratori, Iscriz. de? Vagienni, 1869. (4) Zaccaria, Marm. Salonitana, p. 13; Doni CI. VI, N.° 24. (5) Zita S. Tresani, Bolland. Febr. II, 53. In Grutero, 561, 1 si ha: Meres Pius Fecit. 480 CAPO I. - ISCRIZIONE DI CATAVIGNO nelle iscrizioni di Centallo, delle quali qualcuna qui ne aggiungo. Giace questo borgo nella pianura di Cuneo, ed è prossimo a Caraglio alle fauci di val di Grana, nè discosto da Cavour; tutti tre sotto o presso l’alpi ed in paese Italico fronteggiante i Galli Alpini. Io penso anzi che codesti borghi, quand’eran Gallici dai Principes o primarie famiglie in esse stanti, prendesser il nome, come sovente accadeva fra la Gallica aristocrazia. Ed ecco le prove, che se ne potrebber addurre. Al nome geografico di Cavour risponde infatti il personale Cadurrus, ch'era un ottimate degli Elvii nella Gallia, ed è rammentato da Cesare (1). Leggesi questo nome eziandio nell’iscrizione di Caraglio posta da chi fu curatore delle tre Res Publicae. PEDONAtium. CABURrensium. GER- MAniacorum @. Dove dal Meyranesio e dagli altri fu mal compiuto l’ultimo nome con GERMAnicia, ch'è città d'Oriente, mentre alle nostre frontiere vera una Germaniaca presso Milano ) ed un Germaniacun nel contado Equestre (4. Coll’antica appellazione è scritto ancora nel l’anno 1039 e ne’ seguenti secoli ©); abbiamo poi un'iscrizione di Spagna col feminile Caburena (6). La lapide Caburrense alla Diva Drusilla chiama Municipes que” cittadini (7), significando la nobil condizione di quell’op- pido nel I secolo. MOCVS D.M. CARANIVS CARANIA NEVI.F. DIA . ANICAI POL. FILIO Caraglio lo tengo così detto dalla gente Carania, della quale fu tro- vato in Centallo il primo titoletto con gentilizio rispondente a quello del secondo proveniente dalla Gallica Scarpona ne’ Leuci (8). Nell’ iscri- zione di Centallo tutti i nomi son Gallici; Mocwus si ha altrove e da noi (1) B. Gall. VII, 65. (2) Data da Durandi e Gazzera, e poi da me (St. di Torino, N.° 48 A). Leggono i nostri quei tre nomi come se fossero di que’tre Oppidi, mentre le Res Publicae si riferiscono ai cittadini, non alle città. (3) Giulini, Memorie dî Milano 1, p. 93. (4) Mon. Hist. Patriae, Chart. I. N.° 336. Anno 1052. (5) Ivi. N.0 301, 512, etc. (6) Hibner, Zrscript. Hisp. Latinae. N.0 2500. (7) St. di Torino, N.° 247. (8) Mem. des Antig. de France, VII (1839). DI C. PROMIS. 431 sovente (4), Nevus o Nevius lo abbiam in questa rinvenuta nel 1839 in Cuneo, ed intagliata in un trovante, al modo di molte fra le iscrizioni di Centallo e vicinanze. Cosa accusante come rudi ancor fossero quei Galli fatti cittadini o tributaril. Mearus non mi occorre in lapidi nostre; ma bensì a era Morozzo nel Cispado un Moavus (®), avente la stessa uscita 0.A.C dell’Ambiavus di Avigliana in val di Susa ). Nell’iscrizione ET VELACO di Scarpona havvi il nome di Arica assonante con quelli STAIVELAI di Anivius ed Anita di lapide nostra (4). Yelacostai, al VNIA.VX. secondo caso, è come Zelacosti, al caso terzo, di lapide Caragliese (®), e come il Y'e/(ac)ostis di altra di Fossano %; una terza presso il Durandi () la rigetto, perchè Meyranesiana e falsa. Il dittongo AI invece di AE, trovasi in moltissime iscrizioni di paesi Gallici, quando già i Romani lo avevan lasciato; tali in Germania il Sassaius. Liccai. F. (8), il Samaus Taeiei F. di Lombardia 09), il Troncelei. Vepi. F. di Svizzera (19), il Boduac Treitiai ((5) di Beinette nel nostro Cispado. Aggiungo questa, scoperta or son pochi anni, nella campagna di Cuneo, ed intagliata essa pure in un trovante. Havvi il Carius nel CARIVS Y(ibius) Rinnius Karius di altra lapide Cuneese (12), non VOLIA/IVS essendomi dato di conoscerofse il secondo gentilizio "i ET. CAIVS.F Voliarius oppure Yolianius, e neppure se Romano sia o Gallico; ad ogni modo l’ultimo prenome palesa un inoltrato romanizzamento in questa famiglia. Non ignoro che ne’ iempi bassi Caraglio fu detta Cadralium (13), ma tuttavia penso che il nome presente meno si allontani dal primitivo , che (1) St. di Torino, p. 141. (2) Non saputa leggere dal Nallino. Pesio, p. 135. (3) Zaccaria, Excursus, p. 51. (4) St. di Torino, N.° 33. (5) Ivi. N.° 29. (6) Giuseppe Muratori, Mem. Stor. di Fossano, p. 134. (7) Piemonte Cispadano, p. 182. (8) Steiner II, N.° 1344. (9) Labus, Note all’Amoretti, p. 9. (10) Mommsen, Zrscr. Conf. Helv. N.° 80. (11) Nallino, Pesio, p. 76. Così emendò il Zreztiac. (12) St. di Torino, N.° 29. Del qui descritto titolo debbo notizia al Prof. G. Fr. Muratori. (13) M. H. P. Chart. I. N.° 509, Anno 1159. ST Vi 61 482 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO non quello portato ne’ secoli barbari, non essendo nell’indole della lingua Gallica di frapporre quel D. Non ignoro neppure che la terra di Centallo sin dal 1159 è detta Centallum (!) con nome non più mutato; ma trovando a Verona un Cin- tullus ®), altri di egual nome a Nîmes (®), altro a Novara in Petronius Centulli F. (4, poi a Piacenza romanizzato nel gentilizio di Cinzullius ©), mi pare che per questi esempi, e vieppiù pel Cenzu/lus di Novara, si possa inferire, che con lieve mutazione del V in A, ne venisse il nome moderno di Centallo. Una denominazione anche più prossima la trovo in Lubiamus Endruri Quintalli di Trento (9), ogniqualvolta si badi al frequente scambio delle due lettere GC e Q; abbiamo anche questo nome fra i Celtiberi di Spagna nella vita di S.° Centolla, narrandosi ch'era figlia del console L. Ragonio Quinziano, il quale ebbe i fasci nell’anno 289 (©. Una lapide v'è nel nostro museo (8), nella quale è detto che P. Minicius. Marmuris. Quram. Hegit, dove nella quarta voce v'è il Q per C, poi affinchè la M finale non si elidesse coll’E dell'ultimo verbo, questo fu fatto cominciare coll’ H. Parmi adunque che si possa conchiudere che nell'età Gallica e nella Romana, il nome di Centallo fosse Cintullum o Centullum o Cintallum, rimettendo la C invece della Qu nel marmo Tridentino. In documento Torinese del 1033 abbiamo altresì: Actum infra quitate Taurino (9. Così pure in Festo le voci Hirquitalli, Irquitallus, avendo lor base nella parola Hircus, convien dire che quest’ultima le producesse quand’ancora si scriveva Mirquus. IEMIMVS Nell stessa terra crnVI puro le seguenti iscrizioni , VESVAVIVS ch'io traggo dai manoscritti. del Bartoli. Questa, © DIRE. poco leggibile o mal letta, io la congetturo emendata così: Zemmus Veiquasii Disp. Il nome Zemmus è in lapide trovata presso Cuneo (!9) ed ora all’ Università; Z'esuavius lo leggerei (1) Ivi, N.° 509, 646. (@) Smezio, f.0 165, 13. (3) Muratori, 1281, 6; 1984, 4, (4) Racca, Marmi di Novara, N.° 55. (5) Manuzio, Orthographia, p. 691. (6) Mommsen, Tavola di Cles, p. 26. (7) Bolland. Agosto III, 13; Borghesi, Opere, IV, 315. (8) St. di Torino, N.° 70. (9) Terraneo, Memorie della Contessa Adelaide, II, 201. {10) Zaccaria, St. letteraria, VIII, p. 617. DI C. PROMIS. 433 Veiquasius o Vequasius (0 meglio Yequasti) come in marmi a Cherasco ed a Torino, mortuario l’uno e posto da un patrono, sacro l’altro e da un liberto (!). Le lettere Dire, non danti senso alcuno, le muto in Disp., ossia in Dispensator, come per mille esempi e pel marmo nostro di Urbanus Aponii Dispensator, che sarebbe disposto appunto come il Centallese, ogniqualvolta il secondo nome si avesse da porre al genitivo. C. MAGILIVS. GC. F.P. a questo titolo proviene il gentilizio dal TERTIVS.EX.TESTAM. Gallico nome Magilus romanizzato, così ap- pellandosi il regolo che dalla Gallia Circumpa- dana (ov è appunto Centallo) portossi ad insegnar la via dell’alpi ad Annibale (®. La lettera P. è iniziale della tribù Pollia, alla quale fu ascritta quella contrada. 3 FEC Questo che io copiai dal marmo, SALVIA . L. F. VERINA fa menzione di un romanizzato sa- SIBI . ET lito ad essere Questore e Duumviro SEX . CATVESIO . SEX . F. POL. nell’oppido di Centallo (8), il cui VERO . Q. ÎIVIR. censimento nella tribù Pollia è at- MARITO . FIDELISSIMO testato da cinque lapidi. Aggiungo che in questi ultimi lustri, scavan- dosi, vi si trovarono dei muri antichi ed un vasto condotto sotterraneo , voltato, però senza vestigio che mai vi fluisse acqua. Nè tacerò, che ad alcuno di questi oppidi, e singolarmente a quello di Centallo, debbono essere stati attribuiti 1 contermini valligiani e specialmente quelli delle valli di Gesso e di Stura, al cui confluente ora sorge Cuneo. C . VALERI i Fu UE e a Morozzo e Temple di Dal c.F.Apictiaci lio (), n'è il cognome assonante col Divitiacus di Cesare (5), ma forse desso proviene da Aduatuca (© o dagli Aduatici, ed allor sarebbe Aduaticiaci, ossia Aduactiaci. MILITis. COHortis . Ill. BRITANNORVM > GESATI (1) St. dî Torino. N.° 34, 253. (2) Polibio III, 44. Altro Mag:lius è in Muratori, 2093, 12. (3) Zaccaria, Donati, Durandi, Prof. Muratori. (4) Pesio, p. 108. (5) B. Gall, I, 3 e passim. (6) Ivi, VI, 32, 35. 484 CAPO I. = ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Che in Roma e hel I secolo, colla voce Britanni, venissero signi- ficate indistintamente la schiatta isolana de’ conquistati e quella avven- tizia de’ conquistatori, basterebbe a provarlo la sola autorità di Tacito (1); com'è vero altresì (e credo che sarà dimostrato ne’ capi II, III e IV) che i vocaboli esprimenti la necessaria distinzione tra Brittones e Bri- tanni propagaronsi in Roma pochi lustri avanti all’anno 100, nomandosi col primo gli uomini delle tribù patteggiate o tributarie, nonchè i bar- bari independenti: coll’altro i Romani ed i cittadini di diritto Italico stanziati nelle Colonie e nei Municipii della porzione militarmente e sta- bilmente tenuta dagli Augusti. i Oltre Tacito parlante al luogo citato delle Cohortes Britannorum, volle fortuna che contemporaneamente alla scoperta dell'iscrizione Cu- neese, venisse trovato a Weissenburg in Baviera un diploma militare di congedo dato da Traiano l’anno 107 e nel consolato suffetto di C. Minicio Fundano e C. Vettennio Severo (®) a quattro Ale ed undici Coorti, tra le quali è la nostra. Nella prima faccia esterna di que’ bronzi, è questa Coorte enunciata nell'undecimo luogo , colle parole ET. III BRI- TANNORVM ; poi. nella prima faccia interna leggesi ET III BRITTA- NINORVM per isbaglio, cred’io, dell’intagliatore 8). Di questo diploma ebbi prima notizia dal prof. Mommsen: informazioni dalla cortesia dei signori Henzen e P. Luigi Bruzza : l'illustrazione a stampa dalla genti- lezza del dotto S. W. Christ, che lo fece conoscere nella Notizia delle sedute dell’Accademia delle Scienze di Monaco per l’anno 1868 (4) Soli a chiamar Britannorum le Coorti de’ Brittoni, sono dunque il bronzo di Weissenburg ed il marmo di Cuneo, oltre lo storico Tacito; essendo queste le due prime volte che capita ne’ documenti codesta voce etnica, adoperata dagli scrittori quasi a compiuta esclusione dell’altra di Brittones. Dico, come sia mia opinione confermata dagli autori antichi, che da Cesare allo scorcio del I secolo, del solo vocabolo Britanni si valesser gli scrittori per denotar la schiatta de’ signori in uno con quella de’ soggiogati e de’ liberi, la qual ultima andò poi sotto nome di Brit- tones; nome invalso a Roma soltanto dopo quell’epoca. In altri termini, (1) Hist. I, 70 e passim. (2) Questi consoli creduti già dall’Oderico (SyZoge, p. 231, 236) dell’anno 51, trasportati da altri all’a. 103, hanno ora la lor vera sede. : (3) Così nel diploma di Domiziano, dell’anno 85, è scritto ET-I-ET-I- ALPINORUM. (4) Das ròmische Militày diplom von Weisenburg von I, Christ, Monaco, 1868, 80. DI G. PROMIS. 485 siccome i Romani, sino alla conquista di Domiziano, furono in Britannia o nulli o scarsissimi (1) non facendo d’uopo di denominazioni speciali per distinguere le due stirpi, andaron esse sotto il complessivo nome di Britanni. Vedremo al capo Il come tutti i prosatori latini (purchè anteriori al Il secolo) con tutti i poeti della buona età rifuggan dalla parola Brittones, adoprando sempre quella di Britanni, denominazione com- plessiva abbracciante allora ogni abitante dell’isola, qualunque ne fosse la condizion politica. Nello stesso capo II fu altresì notato, come Mar- ziale e Giovenale fossero primi tra i poeti a menzionar i Brittones, e come tra i prosatori fosse primo a parlarne Igino il Gromatico coevo di Traiano; quindi che una Coorte di Brittoni apparisce in diploma dell'anno 85, compiute appena le vittorie di Agricola. Anteriormente al qual diploma, altro vocabolo non fu adoperato che quel di Britanni, come da Tacito, dal diploma Bavaro e dal marmo Piemontese. Ad ogni modo, codesta voce, già fattasi strada ne’ diplomi, atti of- ficiali di necessaria esattezza, penetrò in Roma circa l’anno 100 con uno scrittor militare che avevala appresa ne’ campi, e con due poeti, cui nella metropoli affollata di plebi di tante nazioni, era occorsa più volte. Ciò, mentre i cantori ufficiali, mentre gli storici encomiasti d’una gran- dezza passata, schivando la barbara voce Briltones, proseguirono in quella Romana di Britanni, non curando la distinzione politica tra i due popoli, alla quale peraltro i Romani così altamente tenevano, e cagione essendo di perpetui malintesi ed equivoci. Valgami Tacito, sotto Traiano, parlante delle Cohortes Britannicae (®) e delle Britannorum; poi, degli ausiliari Romani £x Britannis fortissimi ®), e sempre appellando Bri tanni gl’isolani independenti da Roma e ad essa avversi, vale a dire i Brittones (4. i Dopo ciò, noi troviamo bensì questa Coorte III di Britanni, ma non troviamo le due prime, nè le susseguenti, mentre di quelle de’ Brittoni vi sono le tre prime, poi la sesta e la settima, solo mancando le due intermedie. Quindi, quella Coorte III Britannorum fa in Rezia egual (1) Venticinqu’ anni dopo la guerra Claudiana, scriveva Tacito (Zist. I, 2), perdomita Britannia et statim amissa. @) Hist. I, 43, 70; II, 97; HI, 45. (3) Agricola, 29. 4) Hist. IV, 74 e passim, 486 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO servizio militare di quello altrove fatto dalle altre Coorti de’ Brittoni, co- sicchè combinando tutto ciò coll’età nella quale apparisce quella Coorte INI e colla tenace consuetudine Romana di proseguir a chiamar Britanni i Brittoni (malgrado la distinzione che se non fu necessaria da Cesare a Caligola, lo fu però sotto Claudio e Domiziano e tanto più dopo), ne deduco che, scritta la nostra lapide in Italia dove prepoteva la lingua Romana; ed essendo accettata nell’uso militare la parola Brittones, ma non ancora officialmente sbandita quella di Britanni, siasi da noi, come nella Rezia all'Italia finitima, adoprata ancor la seconda voce nel valor complessivo ed abbracciante anche i popoli propriamente denotati colla prima. Per le quali cose io penso che non si abbiano a cercar speciali Coorti di Britanni; che altrove non si trovano, ma che debbasi ritenere che con questo nome, più consentaneo all’indole della lingua latina, fosser dapprima designati tutti gli abitanti dell’isola, epperciò anche le lor Coorti; e vieppiù, ogniqualvolta ne venisse fatta menzione in paesi addossati all'Italia o facienti parte di essa. Il capitano della centuria, nella quale militò Catavigno nella Rezia, è detto GESATVS, esso pure con cognome di radice Celtica o Gallica. Abbiamo infatti da Polibio (#) come i Gesati abitassero il paese che va tra l’alpi ed il Rodano, vale a dire le falde inverse de’ monti nostri ; erano poi così detti, o perchè andassero mercenarii al soldo altrui, giusta Plutarco ed Orosio, o più probabilmente dal giavellotto loro pro- prio e da essi chiamato Gaesum, del quale parlano in ispecie Cesare, Virgilio e Livio (). Ferocissimi erano e ad ostentar lo spregio loro per ferite e morti, combattevan ignudi; 225 anni prima dell’era volgare, a Telamone in Etruria, furono sterminati dai Romani, in uno coi nostri progenitori Taurisci ad essi unitisi per quell’impresa (8) Commentando Servio le citate parole Virgiliane, ne espone come Gaesi fossero dai Galli appellati gli uomini forti; per tal modo il nostro Gesatus sarebbe come dire portante il Gaesun, oppure così denominato dalla sua for- tezza o dalla patria. Le radicali Celtiche di questo nome si riscontrano in Gai, Gais, (1) Zlist. Il, 22. (2) B. Gall., III, 4; VIII, 661. Alpina Gaesa; Livio, VIII, 8. (3) Si crede rappresentata quella battaglia nel bassorilievo di Villa Ammendola. Nibby nell’ Accad. Rom. di Archeologia, Vol. IX. DI C. PROMIS. 437 rispondente al greco l'awòs ed originante i nomi di Gaiserico e di Ra- dagaiso (4); a quella voce probabilmente si connettono le Mazronae Gesahenae o Gesatenae, delle quali presso il Reno ricorron lapidi l®), nonchè la stazione nostra tra le somme alpi Cozzie e Susa, variamente appellata negl Itinerari, ma nei vasi di Vicarello detta Goesao e Gaesaeone. Pare che fosse sparso questo : nome anche in Germania, avendosi sul basso Reno lapide di un A/tivs. Gaîsionis. F. Veteranus. Alae. Afrorum®). VIXIT . ANNis. XXV. STlpendiorum. VI. Visse Catavigno venticinqu’anni, sei de’ quali furono di stipendii ossia di servizio; andò dunque soldato .a diciannove anni, come solitamente si ricava dalle iscrizioni. Nell’età imperiale la durata degli stipendi, per gli ausiliari, era di venticinqu'anni ed oltre, giusta la nota formola : Quinis. Et. Vicenis. Pluribusve. Stipendiis. Emeritis. La sovreminenza della Romana schiatta imperante su quelle inferiori de’ socii e provin- ciali appare in tutto e persino nelle lapidi sepolerali de’ semplici soldati; laddove il legionario scrive pel solito un orgoglioso Militavit, il soldato d’Ala o di Coorte ausiliare pone rimessamente di aver avuto gli stipendii, cosicchè invalse che la voce Stiperdiarius fosse sinonima di soldato au- siliare (9; essendo però in origine motivata da ciò, che gli Auxilia ven- nero dapprima in gran parte da Civitates Stipendiariae ©). Compisco Annis e Stipendiorum a norma delle lapidi (6) EXERCITVS . RAETICI . Gli eserciti Romani prendendo nome dal paese in cui stanziavano o guerreggiavano, furon detti 4fricanus, Britannicus, Germanicus, 1l- Iyricus, Mysiacus e così di seguito. L’Exercitus Raeticus lo abbiamo novellamente nella nostra iscrizione ed ab antico nel marmo di un T. Flavio Eques. Singularis. Augusti. Lectus. Ex. Exercitu. Raetico, il (1) Zeuss, Grammatica Celtica, p. 64. (2) Brambach, N.° 303, 617. - Steiner, Parte II, N.° 909. (3) Gupero, Monum. antiqua, in Poleni, II, 574. (4) Tacito, Arzal. IV, 20; Bell. Afric. 43. (5) B. Gall. I, 30, 36. (6) Orelli, 3409. 488 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO. quale stampato corrottissimo del Muratori (1), fu dato poco dopo e con tutta esattezza dall’Amaduzzi (); imperciocchè, quello presso Gudio (8) si argomenta falso perchè Ligoriano e perchè ha scioccamente Exercitus Raetorum, cioè composto di Reti, cosa assurda, e quindi ha un prefetto di Fabbri di una legione, mentre queste non ne ebber mai. Lo scrittor della nostra epigrafe ebbe maggior sapore di lingua latina che non colui che pose a Roma Exercituus (4) al secondo caso, oppure Exerciti, schivando anche la cacofonia di Ex Exercitu della citata la- pide di T. Flavio. Non dia però fastidio quell’Exercituus, la doppia V tenendovi luogo della V semplice ma accentata, per significare nella pro- nuncia l’allungamento, come avvertiva il P. Garrucci (5). La Rezia, gremita allora di Romani ed Italici industriantisi in ope- roso commercio (9), dava almeno otto Coorti di fanti, delle quali una Equitata, con altra di Cittadini Romani, in virtù di quella sua popola- zione avventizia; queste ci son note dai marmi e dai diplomi, ma Tacito parla altresì di cavalleria: Rehicae Alae Cohortesque 0). Allarmi di Roma comandate da Druso e da Tiberio acre resistenza opposero i Reti, che cessero infine, venendone la gioventù trasportata altrove (®; la lor deserta patria ripopolossi di Ubii e di Sicambri (9), e come già la lor bravura era stata cantata da Orazio, così lodò Tacito la Rhaesorum iu- ventus sueta armis et more militiae exercita. Dopo la conquista, Rezia, Vindelicia e Valle Penina (alto Vallese ) costituirono una provincia sola, come dall’ iscrizione di un Prolegat. Provinciai. Raitiai. Et. Vindelic. Et. Vallis. Poenin (49; dovevano quindi i tre popoli militar insieme, e tant'è provato da lapide di un Praefectus Raetis. Vindolicis. Vallis. Poeninae (4). Quando ne fu staccata la valle (1) Pag. 816, 4. Orelli, 487, 3409. (2) Anecdota Litteraria (1780), vol. III, p. 470. (3) Pag. 177, 5. (4) Orelli, 4922. (3) Segni delle lapide latine, p. 19. Così anche in Orelli, 254, benchè al caso quarto. (6) Cives Romani Ex Italia Et Aliis Provinciis In Raetia Consistentibus. Orelli, 485. (7) Hist. I, 68. (8) Dione, LIV, 22. (9) Svetonio, Oct. 21; Zid. 9; Orazio passim. Abbiamo una Coorte di Ubii, poi altra Equilata; Henzen 5150, 6858 a, 6926. (10) Maffei M. V. 113, 2. (11) Mommsen, I. R. N. 5330; Mancini, Pago Interpromino (1866), p. 14. DI C. PROMIS. 489 Penina, Reti e Vindelici uniti fornirono Coorti delle due nazioni () e furono rette da un solo Procuratore (®); ma non potrò mai imaginarmi come quegli Elveti del Vallese somministrasser truppe a cavallo; che se è mentovata l’Ala Zallensium ©), convien dire che sia questo un popolo sconosciuto, semifavolosi essendo i Valii, Valli, Vallei di Plinio (4). Come ho già detto, i provinciali fornivano fanti o cavalli, giusta Je consue- tudini della vita locale, nè mai gli Elvezi diedero cavalleria. Propone ‘il Dottor Henzen di leggervi Zeragrenses (°), ed infatti tra questi ed i finitimi Ceutroni vi poteron essere state liti di confini, ma non tra Ceu- troni e Vallensi, che non fronteggiavano. Infine nelle ottime stampe date in quest'anno dal sig. Luigi Révon (6) vi è Zlmuenses Et Centronas, non potendovisi però leggere la prima voce con tutta chiarezza, ad alcuni essendo parso che sia VIENNENSES. Ad ogni modo, nell’anno 107, la Coorte III de’ Britanni (ossia dei Brittones) militava con altre dieci e con quattro Ale, sotto Tiberio Giulio Aquilino, nella Rezia e nell'esercito tenutovi per tutelarla dagli attacchi de’ confinanti Germani ©). Le lettere ed il dettato della lapide di Catavigno la dimostran scolpita circa itempi di Traiano, essendoché il marmo ed il diploma, ambedue ricordano l'esercito Retico e la Coorte IMI de’ Britanni; dunque, se Catavigno non venne a morte in quell’anno stesso 107, è tuttavia probabile che sotto Traiano egli mancasse. Furono spediti i diplomi a que’ soldati che compiuto avessero venti- cinque anni almeno di militar servizio (8): ma il nostro, non avendo servito che sei anni, non potè avere la Missio MHonesta, e congedato essendo per infermità o per ferite, ebbesi la Missio Causaria mentovata eziandio in lapide di Sens 0). Ne insegna il giureconsulto M. Emilio Macro che : Missio causaria, quam quis vitio animi, vel corporis, minus (1) Maffei, 451, 3. (2) Borghesi II, 186; però sospetta. (3) A Roltemburg. Henzen, 6710. (4) VI, 35, 17; VI, 12, 1. (5) Bull. dell’Istit. (1854), p. 48. (6) Inscriptions antiques de la Haute Savoie (Annecy, 1870), N.° 44. (7) Tutto ciò dal citato diploma di Weissenburgo dicente che quelle truppe Sunt In Raetia Sub Ti. Iulio Aquilino, etc. (8) Quinis Et Vicenis Pluribusve. Stipendiis. Emeritis. (9) Orelli, 3584. Serie II. Tom. XXVI. 62 490 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO idoneus militiae renunciatur (4); e nella Glossa Torinese del V secolo : Missionum duo genera sunt, turpe et honestum. Turpe est, cum quis ex acie fugiens militia pellitur ; honestum est, quotiens causarie missus fuerit, veluti cum quis infirmitate impeditus militare non possit, aut cum quis veteranus effectus est (2). Dove, lasciata a parte la lezione del Savigny causarie amissa, m'attengo piuttosto a quella del dotto Paolo Krueger causarie missus; quantunque (non trovando altrove la parola causarie) piacerebbemi anche la semplice lezione Causaria Missio, così” appunto appellandosi quella data agl’invalidi in virile od in giovane età 0). Ora, Catavigno non fu cacciato dal corpo, perchè nella sua lapide sepolcrale non sarebber notati gli anni del suo servizio, nè Paterno ostenterebbe la qualità di suo commilitone; non fu veterano, avendo servito soltanto per sei anni. Parmi adunque , che per infermità o ferite ottenuta la Missio Causaria, e dalla Rezia per l’alpe Pennina tornato in Piemonte, portatosi nel luogo tra Gesso e Stura, ove poi fu Cuneo, morisse là dove probabilmente era nato. Imperciocchè tale è la lapide, che difficilmente avrebbela posta l’erede col semplice peculio castrense di Catavigno ; che se questi lasciò a Paterno un qualche fondo, la ra- gione ed il fatto attestato da tante lapidi vogliono che la memoria gli fosse innalzata sul terreno stesso costituente l'eredità, il quale sarebbe nel suolo dell'odierna Cuneo o ne’ suoi pressi. Infatti, che il marmo sia stato posto in un fondo, cioè nel terreno redato, lo lascia intendere l'iscrizione non avente espresse le misure Zn Fronte, In Agro e deno- tante per conseguenza che non fu locata lungo una strada; ciò posto, per la sua coliocazione altro luogo non rimane che un fondo privato, che sarebbe appunto l’agro da Catavigno lasciato al suo erede. La lapide dev'essersi trovata in Cuneo, oppure nelle sue immediate vicinanze; che, incastrata essendo, come materiale, in una casa che può contar due secoli, convien notare che in quella città allora non si por- tavan marmi, intagliati o no, per porli in fabbrica. Come poi sia ac- caduto, che nessuno mai veduta abbiala o notata, si capisce badando al povero abituro in cui si trova, non da altri frequentato che da’ po- veri suoi abitanti. (1) Digest. lib. TI. De re militari, cap. 49, 16, N.° 13. (2) Krueger, Die Turiner Institutionen glosse, p. 63; 165, TI, 3. (3) Livio, VI, 6. Exercitus ex causartis serioribusque. DI C. PROMIS. 491 Il settore tra que’ due fiumi, dirupato ed accessibile solo dalla base, è da natura siffattamente afforzato da consigliar a porvi, sin dall'età antichissima, una borgata, la quale dai Principes del luogo avrà tolto il nome, come vedemmo di Cavour, Caraglio e Centallo. Alcune città del Piemonte (quali Cuneo, Fossano, Mondovì) primeggiano per tanta difensibilità naturale, da far credere che nell'età eroica, in quell’età di pochi feroci armati e d'una turba debole ed inerme, quelle alture cc- cupate venissero da chi alla fierezza degli ottimati, come poi alla baronale del medio evo, altro non poteva opporre che il numero degli uomini e la fortezza del luogo. In due età di egual barbarie, di queste cose si ripeteron gli esempi; e come nella Francia de’ secoli bassi prepotè la feudalità armata, così ne’ tempi eroici prepotè nella Gallia Varistocrazia militare estesa di quà dell’alpi sin presso Ancona. I Gallici potenti, in- guinati e rapaci, furono dai Greci di Marsiglia personificati nel re Taurisco dell’alpi nostre e del nostro nome (!), in esso esprimendo san quanta fosse la forza cieca e rubesta di questi montanari, ad infranger la quale vi ci volle la clava di Ercole; quegli alpigiani li espressero pure in Alpione e Bergione (®), specie di Titani portanti i nomi dell’alpi e de’ monti nostri. Polibio poi, mentovando il regolo Magilo andato ad Annibale dalle regioni Circumpadane, intendeva di uno di quegli otti- mati Galli capi di tribù, ed appunto di un Magilio abbiam ricordo in Centallo (3). Dalle quali premesse possiam dedurre valida prova che Catavigno (morto nel settore tra Gesso e Stura, ove nel xn secolo sorse la villa e poi città di Cuneo), non fosse della Britannia o Gallia, ma appunto di que’ luoghi. Infatti, come mai un uomo che Gallo fosse o Brittone e che dalla Rezia partisse per rimpatriare, invece di prendere le vie del Reno o quelle delle Gallie; per l’alpe Pennina scendesse in Piemonte e diagonalmente lo percorresse sinchè addentrato si fosse in quelle fimbrie dell’alpi nostre a distanza grandissima dalla strada dell’alpi Cozzie e da quella della Turbia? Ogni cosa induce dunque a ritenere, che Catavigno ed il suo commilitone Paterno, venuti dalla Rezia in quelle regioni subalpine, fossero valligiani di colà, e che un agro avito fosse dal primo lasciato al secondo, come suo erede. (1) Ammiano Marcellino, XV. (2) Pomponio Mela (1867), pag. 50. (3) Vedi l’iscrizione a pag. 21. 492 CAPO I. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Nè faccia caso la barbara origine accusata dai Celtici nomi della sua iscrizione, che di simili da noi ne abbondano; neppur faccia caso il non dirsi cittadino Romano, mentre nel licenziamento de’ soldati ausiliari, loro si conferiva la cittadinanza (4); il nostro non servì che sei anni, epperciò ebbe solo la Missio Causaria non conferente questo diritto. PATERNVS . Heres. Faciendum . Curavit. COMMILITONI . CARISSIMO A Catavigno fu posta la memoria dall'’erede da lui istituito, suo an- lico compagno d'armi nella stessa Coorte, ma che enunciasi col solo cognome romano Paternus e doveva essere probabilmente compaesano di Catavigno stesso. Frequentissimo è questo cognome e lo trovo, per figura, in un Valerio che fu Speculator Exercitus Brittan(nici) ®; nella lapide posta ad un T. Flavio Quintino da Claudio Paterno (8); quindi in marmo Trentino di un Z. Lavisna Paternus veduto dal Mommsen (£); ma questo cognome, anzichè diretto, non era desso piuttosto un personale Celtico voltato in latino, ed avuto dalla famigliarità di qualche Romano o romanizzato ? Vero è che un Editto di Claudio vietava ai peregrini di assumere nomi Romani, ma quante volte non fu eluso mediante il latinizzamento del cognome (5)? Nè mi farebbe punto maraviglia che Paterno, in lapide posta ad un commilitone ed in luogo pubblico, avesse emesso i suoi nomi Celtici o Gallici, ritenendo soltanto il cognome piegato a forma Romana ; certo è che costui, soldato esso pure nella Coorte II Bri- tannorum, doveva essere un provinciale non godente di alcun diritto po- lilico, come infatti non ostenta prenome e gentilizio e tanto meno la tribù. Nel corso di questo lavoro più cose ho detto riferentisi all'antica storia del Piemonte; altre, che tratto mi avrebbero troppo lungi dal mio . tema, le rimandai ai capitoli V e VI. Ho eziandio trattata separatamente la questione capitale delle appellazioni di Britanni e di Brittones, e qual (1) Ipsis. Liberis. Posterisque. Eorum. Civitatem. Dedit. Et. Connubium. Cum. Vxoribus. Quas. Tune. ‘Habuissent. Cum. Est. Civitas. Tis. Data. Formola dei congedì militari. (2) Marmora Oxoniensia, N.0 104. (3) Orelli, 3409. E (4) Tavola di Cles (1869), p. 26. (5) Ne addussi esempi nella Storia di Torino, p. 241. DI C. PROMIS. 493 si fosse il servizio militare per ambedue i popoli: quali diritti avessero ì primi, e come i secondi provinciali fossero e soggetti. Espongo quindi il differente valore di questi due nomi, il nascimento, l’uso inopportuno, lo scomparir del primo al crescer del secondo, dimostrando che siffatta differenza, anzichè soltanto nominale, fu politica ed esprimente diritti esercitati o negati. CAPO SECONDO. Coi vocaboli Britanni e Brittones fu fatta distinzione, non tanto tra il popolo conquistatore ed il conquistato, quanto tra chi avesse diritti politici e chi non ne avesse punto. L'appellativo Britannicus deriva dai primi, dagli altri l'appellativo Britannicianus. Scrittori e monumenti ricordanti questi due popoli. Mutazioni nella loro denominazione. Per ischiarire la ragione della differenza tra Britanni e Brittones, esporrò come dall'arrivo di Cesare in Britannia sino allo scorcio del se- colo I, solo nome dato dai Romani agli originarii od avventizi abitanti dell’isola fosse quello di Britanni; quindi, come nel II e II secolo, accuratamente distinguessero i Romani tra i Britanni godenti di un qualche diritto politico e legale, ed i Briftones attribuiti probabilmente ai Munmicipii dell’isola, tributarii di Roma e somministranti fanteria au- siliaria ; sotto questo nome andando anche i popoli rimasti indipendenti. Sarà poi detto come nei secoli III e IV, fatti tutti eguali (attesa la cessa- zione dei diritti politici), la voce Britanni perdesse ogni valore, gli abi- tanti dell’isola andando tutti sotto l’universal denominazione di Briztones. Riassumendo dirò che la distinzione nominale tra le due stirpi (ta conquistata e la conquistatrice) non fu dapprima necessaria, sino a Claudio ed a Domiziano pochissimo avendo potuto nell’isola i Romani; che dopo le vittorie d’Agricola, la distinzion di fatto tra i due popoli fu espressa colla distinzion de’ nomi; che finalmente scomparve la Romana appel- lazione di Britanni, quando nella decadenza non si ebber più che Brit- tones. Qui gioverà conoscere anzitutto per qual motivo Catavigno sia detto soldato della Coorte III de’ Britanni, mentre in realtà lo era nella Coorte III de’ Brittones. . 494 CAPO II. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Autori e marmi antichi sovente rammentan la Britannia, nonchè la Terra Britannica (1) rispondente alla Zerra Italica (®), cioè al suolo con diritti, al suolo politico e legale dell’isola, infine al suolo Romano. Gli abitanti di essa furono indistintamente detti Britanni nel buon secolo, così appellandoli Lucrezio (3), Cesare 4, Orazio ©), Virgilio (9), Catullo (7), Properzio (8), Tibullo (9), Ovidio (19, Lucano (14), scendendo quindi a Ta- cito (42), Svetonio (43), Seneca (14), Plinio il vecchio (15), Stazio (16). Com’ è naturale, latinamente chiamandosi Britanni gli abitanti, fu detta Bri- tannia l'isola dai conquistatori; presso gli antichi, gli uomini dando nome al suolo, e non questo a quelli, com'è da noi, che per altro, seguendo il modo antico, le terre de’ selvaggi le appelliamo dai popoli che le abitano. Verso lo scorcio del I secolo sorse il bisogno di distinguere dagl’in- digeni, anche nominalmente, i Romani colà stanziati, in uno cogl’'Italici , e ciò tanto più che la conquista Romana benchè portata oltre da Claudio e da Agricola, fu sempre parziale. Adunque, due essendo le domina- zioni nell'isola, la nazionale cioè e la straniera ossia Romana, gli abi- tanti che godevan diritti furon distinti col nome di Britanni, vocabolo di forma latina; quindi, per la razza indigena, fosse dessa suddita o no di Roma, fu conservato il nome locale di Brittones significante un uomo multicolore e dipinto, che così usavan quegl’isolani fregiarsi la persona per attestato di parecchi autori (17). (1) Orelli, N° 1686. Genio. Terrace. Britannicae. M. Coccei(us). Firmus. ). Leg. II. Aug. (2) Lex Thoria dell’a. 647 av. Cr. Ager poplicus populi Romanei in terram Italiam. (3) VI, 104. (4) B. Gall., VI, 11, 21. (5) Epod. VII, 7; Carm. I, 21, 25; 35, 30; II, 4, 33; 53; IV, 14, 48. (6) Geogr., III, 35; e nell’epigramma Thucydides Britannus presso Quintiliano /ust. Orat., VIII, 3, 28. (7) Carmen XI, 12. Horribilesque ultimos Britannos. (8) Lib. 1I, 18, 23; 27, 5. (9) Lib. IV, Carmen, I, 149. (10) Amor. II, 16, 39, Britanni virides. (11) IT, 572; III, 78. (12) Agricola, 13, 15, 18, 29, 31, 32. Hist., Annal. passim. (13) Caesar, 25. (14) Apokolokintosis, 3, 3. Octavia, tragedia, monologo dell’Atto primo. (15) H. N. IV, 30, 3; XXII, 2, 4 e passim. (16) Silvarum. V. Carmen 2, v. 149. (17) Giovenale, Satyra XV, 123; ed ivi nota 124 di Koenig. DI C. PROMIS. 495 Per quanto io mi abbia veduto , posso dunque stabilir questo canone. Aver i poeti e gli storici di Roma (quando officialmente scrivevano, oppure venerando le cose e le voci antiche, ad esse sole si attenevano) sempre adoprata la denominazione di Britanni; ma che i poeti, singo- larmente, e quindi anche gli storici, col popolo viventi, dettanti pel popolo e con minor castigatezza di lingua, dallo scorcio del I secolo in poi, sempre distinsero gl’isolani indigeni dagli avyentizi, quelli ap- pellando Brittones questi Britanni ; a conforto della qual asserzione saranno più sotto arrecati numerosi esempi. Intanto, sin dall'anno 85, per necessità d’amministrazione e di governo, fu introdotta codesta di- stinzione nelle iscrizioni militari e nei diplomi di congedo; i quali tutti fortunatamente abbondano. Apparisce primamente la voce Britto ne’ due poeti contemporanei e scriventi circa l’anno 100, dico Giovenale e Marziale. Fioriva Giovenale tra i giorni di Domiziano e quelli di Traiano (scrivendo la satira XV nell’anno 121, giusta le congetture del Ruperti) ed a norma della po- litica qualità delle persone, con due nomi rammentando gli abitatori dell’isola. Esagerando ad effetto le cose, dic’egli, come gli esempi di Atene e di Roma prevalesser ovunque, cosicchè: Gallia causidicos docuit facunda Britannos : De conducendo loquitur iam rhetore Thule (1). Per intendere i quali versi fa d'uopo pensare all’accaduto in Bri- tannia, sotto Nerone e nell’anno 6o. Gl'Italici dell’isola assai lucravano sui prestiti ad usura fatti agl'indigeni; rimessa ad essi da Claudio la confiscazione de’ beni in favor de’ creditori, ad istanza singolarmente del filosofo Seneca (cui eran debitori d’ ingente somma), ad un tratto ne fu loro intimata la restituzione, d'onde la sollevazione degl’isolani e la strage di ottantamila Romani e socii seguita da guerra lunga e tenace (2). Onde riaver il danaro da un debitore moroso, faceva d’uopo, giusta le leggi Romane, di atti indetti da causidici, e la Gallia, già molto inoltrata nella nuova civiltà, fu quella che ai Britanni tenne scuola (1) Verso CXI. Però nella Satira II, 162 e nella IV, 126 serve alla consuetudine di Roma, chia- mando Britanni i Brittoni. (2) Dione, LXII, 1. Vedasi il capo VI sopra Seneca ed il suo uccisore C. Gavio Silvano. 496 CAPO II. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO dei procedimenti legali in materia di credito, impiantandovi i causidici. Ora, ell’è cosa evidente che codesti causidici non erano e non potevan essere nella porzione independente della Britannia, ma sì e copiosissimi in quella fatta Romana. Perciò, quasi commentando le parole di Tacito (4), dice il poeta che la profession di causidico esercitavasi dai Britanni e non dai Brittones: Ma quando al verso 124 della Satira stessa inorridisce Giovenale alle stragi, per diversità di culto, commesse in Egitto, mette a paragone i più immani tra barbari non caduti mai in tanto eccesso : Qua nec terribiles Cimbri, nec Britones umquam, Sauromataeve truces aut immanes Agathyrsi (2). Dov'è evidente che i Britones, accozzati coi Cimbri, i Sauromati e gli Agatirsi (Sciti di sangue o di costumi, dipinto il corpo e, presso i Romani, tutti in fama di compiuta e profonda barbarie), sono gl’incolti e rozzi isolani non soggetti a Roma, epperciò accuratamente distinti dai civili, romanizzati e guasti Britanni. Altro autore distinguente i Britanni dai Brittones fu Marziale scri- vente circa l’anno 100. Nell’epigramma /r Zydiam dicela rilassata quanto le vecchie brache d’un povero Brettone : Quam veteres brachae Britonis pauperis (3). Eran dunque bracati i Brittoni, con originale usanza o venutavi dai Galli, mentre non lo erano i Britanni, come quelli che vestivan alla Romana; e ciò pure valga a segnar la differenza che facevasi tra le due ) iù 5 5 parti dell'Isola, differenza rispondente a quella per cui la Gallia Bracata e d’indigeni distinguevasi dalla Gallia Togata godente del diritto Italico (4). 5 5 SIECZIo (1) Esponendo il Romano storico le arti che, nelle stagioni invernali frammesse alle sue vittorie, furon messe in opera da Agricola onde incivilire i Brittoni cogli studi e coll’ emulazione, scrive al capo 21 come: Zam vero principum filios liberalibus artibus erudire, ct ingenia Britannorum studiis Gallorum anteferre, ut, qui modo linguam romanam abnuebant, cloquentiam concupiscerent; inde etiam habitus nostri honor, ei frequens toga; paullatimque discessum ad delinimenta vitiorum ete. (2) Anche gli Agatirsi son detti dipinti da Virgilio (Zreid., IV, 146) e da Festo Avieno al verso 447. (3) Epigr. XI, 21,9. (4) Plinio, III, 5; III, 19. DI C. PROMIS. 497 E quando, sin dall’anno 643 di Roma, è mentovata la formola de’ To- gati denotante gl’ Italici di diritto Latino, poi quando Irzio chiama Gallia Togata la Cisalpina o più specialmente il paese Traspadano (!), convien dire che col nome di Togati s’intendesse de’ cittadini aventi un diritto, a differenza de’ primi abitanti Galli non ancor donati di esso (®) c portanti le brache giusta l’antico uso nazionale. Viste le quali distin- zioni, io penso che i suoi Traspadani avesse in mente Virgilio quando cantava de’ Romani Rerum domini, ed associavali alla Gens Togata (8), che infatti era ad essa legalmente e militarmente associata; penso al- tresì che quando il Vitelliano generale Alieno Cecina ebbe occupata la Traspadana, artificiosamente vi ostentasse l’abito e le brache Galliche a blandimento del tenace volgo, che in quel restituito indumento na- zionale poteva godere della vagheggiata depression de’ Togati (4). Fra 1 Romani storici, che la parola Britanni adopraron sempre nel suo antico ed esclusivo valore, va Tacito così informato delle patrie cose, al quale toccando di far frequente menzione dell’isola e degli abi- tatori suoi di Romana o di barbara stirpe, sempre li appella col vetusto ed unico nome di Britanni; nè altrimenti li mentova nell’orazione posta in bocca a Calgaco, senza distinzione tra chi obbediva a Roma e chi era tuttora independente 0). Fu quella guerra combattuta sotto Domi- ziano, allorquando già popolarmente adopravasi ed officialmente intro- ducevasi il necessario nome di Brittones per distinguere i liberi o tri- butarii, dai Britanni Romani; ma Tacito, nel suo tenacissimo affetto per quanto ricordavagli la Roma antica, non assentì a far sua quella voce ignota ai classici autori, mentre vi assentivano i due citati poeti pieganti alla democrazia Cesarea e pronti alle nuove parole, come alle nuove cose. Del rimanente, ancor incerta doveva essere in Roma l’accentuazione di codesto vocabolo, perchè mentre Giovenale ne fa breve la seconda sillaba, Marziale la fa lunga. Ciò dico, avvegnachè sia da credere che lunga la pronunciassero, lunga essendo la penultima sillaba dei nomi latini desinienti in ones. Se poi la lettera T abbia o no ad essere (1) B. Gall., VIII, 24. (2) Mommsen, Hist. Rom., vol. 1I, 251; 1V, 227. (3) Enceid., I, 282. (4) Tacito, ZHist., II, 20. (5) Agricola, 32. Serie II Tom. XXVI. 63 498 CAPO II. - ISCRIZIONE DI CATAVIGNO duplicata, non si può risolvere, scrivendo gli autori Britanni e Britones colla T semplice, mai marmi e bronzi, la cui autorità è tanto maggiore di quella de’ codici, facendone uso indifferente. All’autorità di Giovenale e Marziale dimostranti vulgato in Roma sullo scorcio del I secolo il nome dei Britores, aggiungerò quella di un diploma militare di congedo spedito da Domiziano nell’anno 85 e men- zionante la Cohors. I. Britannica. Milliaria. Et. I. Brittonum (!), essen- done questa la più antica ricordanza ne’ monumenti. Vero è che Stazio canta nelle Selve (® di Crispino Vezzio, il quale regi rapuit thoraca Britanno, mentre avrebbe potuto porre Britoni; ma egli, ingegnantesi d’imitar Virgilio (8), mai non avrebbe fatto uso in poesia di parola non adoprata dal suo maestro. Per altra parte, tanti erano già a que’ tempi gli scambi di cose, di persone e d’idee tra la Britannia e l’impero, tanti gli schiavi venuti dall’isola, tanti i soldati militanti fra gli ausiliari (4) e stanziati in varie provincie, che impossibil cosa era che quella designazione degl’indigeni non penetrasse ovunque ed anzitutto in Roma. Ma questa necessaria distinzione non fu ammessa dall’ inconcusso Tacito, il quale scrivendo le sue storie non meno di due lustri dopo l’anno 85, sempre disse al modo antico Britannorum Cohortes, Britannicae Cohortes, Britannicus miles ©, non lasciando comprendere se ai Brettoni accenni oppure ai Britanni. La Britannia poi essendo propriamente la terra de’ Britanni , dissero i Romani Britannia il paese da essi posseduto nell’isola, esclusone all'uopo quello degl’indigeni (9). Però, contemporaneo a Tacito , lo scrit- tor militare Igino il Gromatico, due volte mentova i Brittoni fra le truppe ausiliarie di fanteria (7). Mentre nella seconda metà del I secolo accettavasi in Roma popo- larmente ed officialmente il nome Brittores, sulla spiaggia continentale del Passo di Calais notavasi fra i Galli il forse nuovo popolo de Britanni, (1) Arneth., Zwolf Romische Militar-Diplome (1843), N° IV, p. 39, (2) Lib, II, Carmen, IT, 149. (3) Thebaidos, XII, 816. (4) Liberi per delectus conferuntur, Britannorum plerique dominationi alienae sanguinem commodant. Agricola, 31, 32. (5) Hist., I, 70; I, 43; II, 32. (6) Narra Sparziano come Settimio Severo morisse nel 211 a York dopo subactis gentibus quae Britanniae videbantur infestae. Hist. Aug., ed. Casaubono, p. 71. (7) De Castrametatione liber. DI C. PROMIS. 499 de quali Plinio è solo a far menzione (!). Ragionevolmente credesi che venuti fossero dall'isola, ma atteso il nome loro convien supporre che provenisser dai Britanni Romani, anzichè dai Brettoni indipendenti. Non posso tuttavia ammettere col dotto Generale Creully, che abbia forse ad intendersi de’ marinai della flotta Romana stanziata a Gessoriaco, ove ne son delle lapidi ®); non erano que’ marinai sì numerosi da poter dar nome ad una Civitas da Plinio equiparata a popoli potenti ; poi, que’ ma- rinai e soldati, dopo il congedo, non mancavano di un diritto politico, come consta dai tanti diplomi classiarii, mentre questi non l’avevano ; finalmente converrebbe supporre formato quel popolo nel breve tempo corso tra la guerra Claudiana del 43 (prima della quale non apparisce che vi sia stata flotta), e la morte di Plinio accaduta nel 79; badando ancora che se Plinio adoprò la voce Britanni, fu perchè allora essa sola vigeva in Roma; che se scritto avesse un po’ più tardi, adoprato avrebbe probabilmente la voce nuova pei Romani di Brittones. Essendo però cosa certa che i Celti, per invader la Britannia, do- vettero muover dalla Gallia, così ragion voleva che lasciasser parte dei loro presso Bologna o Calais, non essendo mai cessati i commerci tra le due sponde; a conferma della qual ipotesi occorre il venerabile Beda, uomo dottissimo pe’ suoi tempi e circa l’anno 700 scrivente: /r primis haec insula Britones solum, a quibus nomen accepit, incolas habuit, qui de tractu Armoricano (ut fertur) Britanniam adorti, australes sibi partes illius vindicarunt ®). Qui ed altrove gl’isolani, Beda gli chiama sempre Britones, ma al capo II narrando lo sbarco di Cesare li dice Britanni, la qual cosa non implica contraddizione, chiaro essendo ch’ei qui riandava i Commentarii. E qui conviene ch'io torni al canone prestabilito a pag. 495, in virtù del quale i Romani scrittori, di preferenza attenentisi al linguaggio of- ficiale, adopraron la parola Britanni, mentre quelli non iscriventi a Prin- cipi nè per Principi, senza proscriver affatto questa, vi anteposero però la voce Brittones. Non pochi tuttavia discordano e sono del IV e V secolo; uno è Sidonio Apollinare prefetto di Roma, che ammirandone la gloria e la lingua e rifuggendo dalla estrania e plebea voce ZBrittones, (1) H. N., IV, 31, 2. (2) Carte de la Gaule sous le proconsulat de Cesar (1864), p. 19. (3) Hist. Eccles. gentis Anglorum, capo I. O) 500 CAPO II. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO sempre adopra, come più nobile, quella di Britanni; l'altro è Claudiano, che gran vituperator essendo de’ governanti estinti, gran panegirista de’ viventi, scrivendo di Rufino, Stilicone, Gildone ed Onorio, gl’isolani mai altrimenti li appella che Britanni; egual cosa nel Greco storico Ammiano Marcellino e ne’ sei scrittori della storia Augusta, come in Servio scoliaste di Virgilio, nel Panegirista Eumene, nei viaggi marittimi di Rutilio, nel Cinegetico di Olimpio Nemesiano. Uomini tutti cui la scuola od i Mecenati traevan alla esterna imitazion dei classici. Ma non appena la crescente barbarie fece sì che gli scrittori smet- tessero il linguaggio officiale ed il cattedratico, la voce Brittores appare in bocca di tutti. Alla metà del VI secolo narra Giornandes come circa il 470 Antemio imperatore chiesto avesse gli aiuti dei Brittoni, e che il loro re Riotimo sceso nella Gallia vi fu vinto dai Visigoti (!); poi ( chiamando sempre Britannia l'isola), errando, fa Augusto vincitor dei Brittoni (®. A questo ed a Beda puossi aggiungere Giovanni Sarisberiense e Rodolfo da Diacceto, scrittori Inglesi del XII e XIII secolo, ma grandi conoscitori. degli antichi libri e costumi, i quali chiamando Britannia l'isola e Britannico il suo mare, gli abitanti li dicon sempre Briztoni (8). Tra i poeti provinciali citerò Ausonio, scrivente circa l’anno 400, ed il quale assai inurbanamente scherzando sui nomi di un Silvio Bono di patria Brittone, vi spazia in sei epigrammi (4. Ma appunto da questi nomi affatto Romani si scorge che Silvio doveva essere un Brittone ro- manizzato , ossia un Britanno, dal poeta di Bordeaux detto appositamente Brittone per ragguagliarlo ai barbari così appellati. Dove nota Elia Vi neto risultare da questi epigrammi che Britoni e Britanni fossero una sola e stessa cosa; ed io aggiungo che sì, come abitanti della medesima isola: no, per diritti legali e politici; Britanni essendo quelli Romani, o romanizzati e civili, Brittoni quelli tributarii o viventi in barbara in- dependenza. Ciò non ostante, le leggi del verso astrinsero una volta Au- sonio ad usar la voce Britannus () mentre avrebbe dovuto dire ZBritto. Ultimo venga Procopio vissuto nel VI secolo, ma che mai vide nè (1) De rebus Geticis, cap. 45. (2) De regnorum successione (1618), p. 94, 116. (3) Epist., 159; Abbreviat. Chroricorum, passim. (4) Epigr., 109 in 114. (5) [Vota Caledoniis tali pictura Britannis. Mosella, v. 68. DI C. PROMIS. 5oi la Britannia nè il prossimo continente. Dic'egli dell’isola Brizzia nell'O- ceano Germanico, lungi dal lido ducento stadi, ossia 37 chilometri , contro le foci del Reno ed abitata da numerosi Angli, Frisoni e Brittoni; aggiunge poi del muro di separazione, che parte in due la Brittia ed il quale è evidentemente quello Romano (!). Forse così parlando ne som- ministra Procopio l’originario nome dell’isola, nella voce Brittia, deri- vata dai Brittii nazione Celtica; e siccome, in ogni età, le memorie religiose d'un popolo ne son sempre le più antiche, così di questo nome si avrebbe traccia nelle Matres Brittae di un’iscrizion votiva a Xanten sul Reno (?). Una memoria sepolcrale presso Ginevra fu altresì posta Phileti Brittae (3). Parmi che dalla patria abbian nome que’ £rittones: incontrantisi in due lapidi sepolcrali di Spagna; ma nella terza posta ad un Z. Sterti- (nius) ...... Britto M(iles).....( mi parrebbe piuttosto un cognome, attesochè se L. Stertinio fosse stato Brittone, siccome mancante della cittadinanza, non avrebbe avuto prenome e gentilizio Romani; che se ottenuta l’avesse, allora sarebbe diventato Britanno. Imperciocchè , non più Brittoni, ma Britanni erano, ed insigniti di alcuni diritti, quegli uomini dell’isola, de’ quali dice Tacito che, senza appartener all'esercito, vestivan però alla Romana ed indossavan toga ©); attribuito essendo tal onore o per clientela o per aver sostenuto in patria qualche magistratura municipale. Di un soldato Nazione Britto , il quale, per clientela militare, ebbesi dall’imperator Traiano il prenome col gentilizio (essendo stato romanizzato, ma senza tribù), riparlerò nel capo IV. (1) B. Gothicum, IV, 20. (2) Steiner, Znsor. Dan. ei Rhene, II, 1279; Henzen, 5932. (3) Mommsen, Jrscr. Conf. Helvet., N° 124. (4) Hubner, Irscript. Hisp. Lat., 952, 3255, 1072, (5) Agricola, 21. 502 CAPO III. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO CAPO TERZO. Furon detti Brittones è popoli tributari dell’isola, ossia provinciali, con quelli della porzione indipendente. Il servizio militare fu da essi compiuto esclusivamente nelle Coorti ed Ale Brittonum. Lapidi e diplomi di congedo che ciò attestano. I primi Augusti non tenendo parte alcuna della Britannia, non vi poteron levar truppe, irruzioni anzichè conquiste essendo state quelle di Cesare; poi Augusto e Tiberio se ne astennero, e Caligola si restrinse a minacciarla (4), cosicchè ben la potè dire Svetonio, a’ giorni di Claudio, ulli tentatam post Divum Iulium ®); Tacito poi, esponendo la distribuzione delle legioni nell’impero con Tiberio , nessuna ne pone in Britannia 08). Nell'anno 43 Claudio vi estese le conquiste, oppure ve le aperse, con esso militando i Torinesi G. Gavio Silvano, di cui al Capo VI, ed uno sconosciuto, ch'io credo fosse P. Glizio padre del console, e furono ambidue donati, pel loro valore, di premii militari secondo i diversi gradi (©. Quantunque la guerra Claudiana la cominciassero gl’isolani a cagione de’ non restituiti disertori (9) (cosa indicante una stabilità di possesso de’ Romani nell’isola, come pure lo indica il danaro da Seneca prestato agl’indigeni (9), a Claudio se ne debbono le principali con- quiste in ragion di tempo, cosicchè sin dall’anno 43 si poteron levar nell'isola truppe di Brittoni ©; la qual cosa tanto più dovè accadere ed accadde sotto Domiziano, quando gran parte del paese fu domata da Giulio Agricola 8); Vitellio qualche Numero di soldati chiamò a Roma dalla Britannia (9); abbiamo un Numerus Brittonum Milliarius ed un Numerus Brittonum Triputiensium , ma stanziavano in Germania (19), e (1) Svetonio, Caligola, 19; Tacito, Agricola, 13. (2) Claudio, 17. — Strabone poi (IV, 6, 3) dice che i Romani non vi tenevan presidio, per evi- tarne Ja spesa; ciò ai tempi di Tiberio. (3) Annali, IV, 5. (4) St. di Torino, No 140, 141, 142. (5) Svetonio, Claudio, 177. (6) Vedasi il Capo VI. (7) Poche però furono, dicendo Tacito della perdomita Britannia et statim amissa. Hist. 1,2. (8) Tacito, Agricola passim. ò (9) Hist., I, 6. Non era il Numerus un corpo stabile, ma eventualmente formato con diverse truppe. (10) Brambach, N° 1563, 1745. DI C. PROMIS. 503 nulla ne indica la concordanza cronologica, apparendo anzi, che l' esi- stenza di questi fosse nel III secolo, e che quei Numeri venissero dall’eser- cito Britannico. Mentova Tacito, all'anno 69, l’esercito e le coorti che stanziando nell'isola, da essa prendevan nome (!); ad ogni modo dopo Claudio vi furono certamente arruolate delle coorti ausiliarie, e lo testifica lo stesso autore laddove, nella guerra d’Agricola, dice che: Britanni delectum ... . impigre obeunt, si iniuriae absint, e che fu redacta paullatim in formam provinciae proxima pars Britanniae, aggiungendo le lor lagnanze per le tante coscrizioni (®. Non fornivano i Brittoni fuorchè soldati di fan- teria in coorti ausiliarie, imperciocchè, presso di essi, quantunque vi fosser tribù combattenti sui carri, prevalevan però i pedoni (8), nè v'è memoria di cavalleria; tanto attesta Igino il Gromatico, le Ale di cavalli essendovi state levate più tardi e tra i socii ed i romanizzati. Vengo ora alle coorti de’ Brittoni e de’ Britanni, dette Britonun o Brittonum le prime, ma non mai Britannorum, toltochè da Tacito (4, per ossequio all’antico vocabolo latino adoprato dai classici, dal diploma militare di Weissenburg e dal nostro marmo ; scritture e documenti tutti del fine del I e del principio del II secolo. Abbiamo detto da quali motivi fosse Tacito indotto a così scrivere; il marmo ed il di- ploma dettati furono, l’uno appunto all'estremo confine italico ; l’altro nella finitima provincia della Rezia, dalla quale furono spedite le carte per compilarlo, avvegnachè il diploma inciso venisse in Roma, dove tardava ad introdursi la nuova parola Brittores. Cosicchè io penso che diploma e marmo se stati fossero intagliati in una remota provincia, ove per analogia di lingua celtica già invalesse quel nome, vi si sarebbe posto Brittones anzichè Britanni, come nel diploma di Domiziano e dell'anno 85 scritto in Roma, ma sopra carte comunicate dalla Pannonia. Nel qual diploma di Domiziano è già osservata la distinzione tra Brit- tones e Britanni in virtù della necessità che la cancelleria militare del- l’imperatore sentiva di scernere i soldati delle tribù socie o tributarie di Roma da quelle viventi sott’essa o con essa; vi è infatti espressa la (1) Hist., I, 9, 43, 70. Fra le legioni Britanniche eravi la XIV, nella quale mllitavano tanti torinesi. St. dî Torino, pag. 392, 93, 94. (2) Agricola, 13, 14, 15, 31, 32. (3) Ivi, 12. Zr pedite robur. (4) Hist., T, 43, 70. 504 CAPO JIl. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Cohors I Britannica Milliaria, poi distintamente la Cohors { Brittonum, facendo sì che la truppa romana o sociale precedesse la provinciale. Dalle memorie qui sotto addotte vedrassi eziandio come le coorti dei Brittones. fosser quelle formate con isolani soggetti o tributarii a Roma, eccettuati sempre i tre casi di sopra addotti: e che quelle di Britanni o Britannicae constavano d’individui di diritto latino, italico o sociale, vale a dire dei romanizzati, sapendo noi da Tacito, come numerosi fossero nell'isola i socii, cosicchè ben settantamila tra essi e cittadini romani caddero nell’insurrezione della regina Boadicea (1). Dallo stesso autore ancor sappiamo che per disciplinare ed ammaestrare quelle reclute, vi si frapponevano centurioni e soldati romani (?), come vediamo farsi tuttogiorno da’ Francesi, Inglesi e Russi colle truppe arabe, indiane e cosacche, predisponendo ancora che la vittoria decisa fosse dalle legioni romane, come presso queste nazioni lo è dai battaglioni dell’esercito re- golare. Ma qual norma avremo noi per distinguere se BR. BRITT. BRIT. si debba compiere con Brittones o Britones, oppure con Britanni 0 Britannici ? Ai singoli casi adattando la critica, potremo nella maggior parte. di essi rinvenirne il valor vero; qui osservando soltanto, che quando quelle note si riferiscono, per figura, ad una flotta, ad un eser- cito, ad un imperatore, sempre compiute vanno con BRITANNICA o BRITANNICUS. Alle volte esse rispondono a Britto, onum, come in lapide Murato- riana di un Eques. Imag. Coh. I. Brit. ®), posta da un Bodiccius erede del defunto ed anch'esso Imaginifero od Imaginario ; dove io argomento che questi, dal nome celtico (4) ed avente un grado eguale, ne fosse non solo commilitone, ma compaesano, epperciò che fosse questa la Cohors I Britonum. Trovando pure un C. Giulio prefetto di un’Ala de’ Campagoni e di una Milliaria, già essendo stato prefetto d’una Coorte di Galli e della Coh. Z. Britt. ©), dal rinvenirlo sempre a capo di truppe estranee, ne deduco che vada letto Brittonum. Nell’... Melve. Et. Britt. (1) Annal., XIV, 33; XII, 31. (2) Agricola, 28. (3) Pag. 870, 5. /maginarii ed Imaginiferi son detti da Vegezio (II, 7) una stessa cosa. (4) Revue Archéol. (1868) luglio. (5) Grutero, 425, 5; Ackner, 479. DI C. PROMIS. 505 di Germania (!), essendo questi congiunti cogli Elvezi, ne conchiudo che vi si debba riporre /elveziorum. Et. Brittonum, come al n.° XIX. A. Finalmente a Torino, nella lapide Industriense posta a L. Alfio Praef. Cok. II. Br. Eq. Trib. Coh. I. Br. ® ©, badando al titolo di M. Menio Prae. Coh. II. FI. Britton. Equitat. ®), si scioglieranno le sigle con Cohortis. II. Brittonum. Equitatae, cosicchè questa non era una Coorte Britannica ; nel secondo inciso lo stesso Alfio è tribuno di una Coorte I Milliaria Br. (che va supplito Brittorzm); infatti il diploma di Domiziano mentova una Coorte /. Brittonum. Milliaria, non dicendola Equitata, perchè ne’ suoi primordii ancor non aveva ricevuto rinforzo alcuno di cavalli. Ma Brittones e Britanni eran tutti abitanti della Britannia, e se- gnandone il nome colle sole due prime iniziali, si sarebbe confuso col mome di altri popoli di egual cominciamento. Onde ovviar all’inconve- niente, i nomi delle Coorti ed Ale di altri popoli, furon posti a disteso o quasi; i Breuci, per figura , furono scritti BREVCORVM o BREVCOR. come da mille esempi; poi BRACARAVG. o BRACARAVGVSTANORVM le coorti traenti nome dalla principale città del Conventus Bracarus, ora Braga in Portogallo (4; finalmente il nome de’ BRAVCONES fu scritto esso pure a disteso, come da una sola lapide (8). Soggiungo l’elenco delle Coorti e Numeri, come d’ogni altra truppa di Brettoni, facendolo seguir da quello degli altri corpi militari Britan- nici. Per le iscrizioni ed i diplomi cito soltanto quegli autori, presso i quali n'è migliore la rappresentazione. N° I. A. — COH. I. BRIT zonzum (Ackner-Miiller. Die Romischen Inschriffien in Dacien (1865). N° 479; Orelli, 3575). È l'iscrizione nella quale questa Coorte I apparisce senza qualifiche o predicati. Dove noto che Igino, nella Castrametazione, due volte parla di Britoni formati in coorti Quingenariac ossia di 500 uomini, e che li enumera con 5oo Palmireni, goo Goti, 700 Daci, 700 Cantabrij e siccome scriveva egli al giorni di Traiano, se ne può conchiudere che la formazione prima delle Coorti di Brettoni al soldo di Roma fosse quella detta Quingenaria. (1) Brambach, 1559, 1560. (2) Maffei M. V. 218, 5; St. diplomatica, p. 171; Promis, Storia di Torino, N° 147. (3) Orelli, 804. (4) Plinio, III, 3, 14; IV, 34, 2; Hibner, 4215, Orelli-Henzen passim. (5) Ala. Equit. Brauconum . D. cioè Quingenaria, giusta Igino. Nibby, Ziaggi, I, 301; Reénier, Melanges d’Epigr., p. 232. See II. Tom. XXVI. 64 506 CAPO III. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO N° II A. — COHors I. BRittonum. H. (Orelli, 4972, da Leichtlen). Marmo di pessima lezione, e che, non trovandolo negli ultimi raccogli tori, credo perduto. Vi si ha BR. H.; cra quell’H staccata non potrebbe indicare uno sconosciuto popolo Brittone così cominciante, ed il sup- plemento Zelvetiorum sarebbesi scritto HELV. Parmi adunque che IH contenesse le aste de’ due T, o meglio la sillaba IT, e che quel BR. H. stato fosse BRIT.; a questo modo avrebbesi assoluta eguaglianza col Numero antecedente. N° HI. A. — COHors. I. FLavia. BRITTONum (Marini, Arvali, p.- 474; Kellermann, N.° 30. a; Henzen 6519). L’onorifico di Flavia ebbelo probabilmente da Domiziano , ma non già perchè abbia egli esteso le conquiste nella Britannia, non apparendo mai che una truppa Britannica o di Brittoni abbia guerreggiato o stanziato nell'isola, essendo massima militare de’ Romani di tener sempre le truppe ausiliari lungi dai loro paesi nativi. N° IV. A. — COHors. I. VLPIA. BRITTONum. co (Gazzera. Di- plomi imperiali, Tav. IV e VII. Accad. di Torino, vol. XXXV, N° IV). Onorifico avuto da Traiano, che ne avrà veduto la buona condotta nelle tante guerre da lui combattute; un diploma di Adriano ci dimostra aver essa militato nella Dacia (i) Era in questa Coorte il fante Zuo- nercus. Molaci. F. Britt., a cui favore fu spedito il diploma di congedo da Antonino Pio (®, dove la patria è designata soltanto colle iniziali BRITT., ma i nomi celtici del soldato e del padre suo vogliono che si legga Britto. N° V. A. — COHors. I. AELia. BRITtonum (Borghesi, Opere, V, 227). Codesta lapide di Carintia ha la data dell’anno 238, quando la Coorte poteva aver avuto siffatto onorifico da uno de’ tanti Elii Augusti. Malgrado la diversità degli onorifici, parmi che queste tre Coorti ne costituissero una sola succcessivamente detta Flavia, Ulpia, Elia. N.° VI. A. — cohors. I. BRITTONVM. MILLIARIA (Arneth. Zwolf Rom. Mi. Dipl. N° IV, p. 39). Supplisco Cohors tanto ricavando dal- l'essere frapposta ad altre quattordici. Igino rammenta le Cohortes Pe- ditatae Milliariae, ma quasi tre secoli dopo, Vegezio (8) dà alle Coorti (1) Borghesi, Opere, III, 373 ed ivi ìÌn nota di Henzen. (2) Arneth, N° KX, p. 61. (3) 1, 6. DI C. PROMIS. 507 milliarie 1105 fanti con 132 cavalli corazzati. La menzione di questa essendo ricavata da diploma di Domiziano dell’anno 85, debbo riferirmi ad Igino che ne esclude i cavalli; i quali, quando non si omettevano, comunicavan alle Coorti l’appellazione speciale di Equitutae. N° VIL A. — cohors. I AUGusta. NERViorum. BRITTonum. co (AmmethiIN5f 1% p62, 63) Frano i Nervii liberi un popolo della Gallia Belgica nel dipartimento del Nord (i), somministranti a Roma non meno di sei Coorti di fanti, delle quali la II, III e VI, all'anno 145 ® militavano in Britannia, la INT essendone pure Milliaria; sotto Antonino Pio trovavasi la nostra nella Dacia Ripense sul Danubio. Per essersi dessa valentemente portata in qualche occasione, ebbesi titolo di Au- gusta; molte erano le Ale e Coorti ausiliarie. 00 Virtutem Augustae Appellatae ®), ed è da notare come, più frequentemente che altrove, trovisi quest’onorifico in Britannia. La denominazione di Augusta competeva alla Coorte I de’ Nervii, giusta la sagace osservazione dell’Henzen (4); epperciò io credo probabile che, guerreggiando essa nell’isola ed avendo sofferto assai perdite, venisse rinforzata con una incorporazione di Brittoni, conservando però sempre il predicato d’Augusta non perdibile che per codardia (5) Non è raro di trovar nelle Ale e Coorti ausiliarie la coesistenza di soldati di na- zioni diverse. N VII. A. — cohors... C. R. ET. BRITTOnum (Amneth. N.° XII, p- 69). La faccia esterna di questa lamina manca per modo a sinistra, da non potersi far dipendere le sigle C. R. dalla sillaba THRAcwm che la precede; avrà dungne codesta Coorte qual numero vogliasi, ma ne sarà riempiuta la lacuna intercalandovi, per figura, et. cohors. i. brit(an- nica) C. R. ET. BRITTOnzm; oppure et. cohors. i. voluntariorum. C. R. ET. BRITTOnum. L'età di questo diploma è incerta, ma di esso tanto rimane da poterla argomentare, seguendo le indagini del signor Henzen (5), il quale, osservando come concordino le due frammentate lamine presso l’Arneth, ne inferì come comandante di quelle truppe (1) Plinio, IV, 31, 2. (2) Henzen, 5455. (3) Grulero, 1006, 8; Donati, 175, 30; ed altri molti. (4) No 5888, dove la voce Nervare fu da lui scissa in Nero. Aug. (5) Dione, LIV, 11. (6) Annali dell'Istituto (1855), p. 26. 508 CAPO III. - ISCRIZIONE DI CATAVIGNO nella Pannonia Inferiore fosse quel C. Geminio Capelliano, che di quella provincia fa poscia Legatus Augusti Pro Praetore (I) Siccome poi questa Coorte è del II secolo inoltrato, non sarebbe affatto dannabile il sup- posto, che perduto avendo assai gente in guerra, in questa sola si fosser versate le Coorti Z. Britannica. Milliaria. Civium. Romanorum ((volun- tariorum ) e I de’ Brittoni, che distinte appariscono nei Numeri VI e IV presso l’Arneth. Così questa Coorte (senza averne l’appellazione) sarebbe però stata Gemina, come le due de’ Sardi e Corsi e de’ Liguri e Corsi (8), e come fu di tante legioni le quali, per esser composte di du’ altre mancanti e disfatte, ebbersi eguale appellativo. La leva dei soldati incumbeva ai governatori militari delle provincie, fosser dessi provinciali o cittadini romani (8). Ottime eran le truppe for- nite dagli Occidentali, ma pessime quelle degli Asiatici @; quindi lo spregio dei Romani verso questi, e l’essere sotto l'impero quasi affatto scomparse le loro Coorti ed Ale. N° IX. A. — COHors. I BRITtonum (Marsigli, Danubius. Panno- nicus. Mysicus. II, g7, Tav. XXXVI; Muratori, 870, 5). La lapide essendo posta ad un Ziîrius. Succius. Eq. Imag. Coh. I. Britonum. Tur(mae). Monta(ni), se ne argomenta che codesto Eques Turmalis facesse parte de’ cavalli addetti alla Coorte in discorso. Come poi, avendo dessa almeno due o tre turme, nè fosse, nè potesse esser detta Equi- tata, si spiega ponendo. che i suoi cavalli fosser lungi dal raggiungere il numero di 132 voluto dal regolamento onde potesse assumere quella qualificazione (5). N° X. A. — COHors. I BRitonum. co. EQuitata (Maffei, 218, 3; Promis, Storia di Torino, N° 147). Di questa Coorte qualche cosa ho già accennato. al N° IV. A.; ora dirò che, nella Castrametazione, alle Co- orti Equitate Milliarie Igino: attribuisce 240 cavalli con 760 fanti, essendo all’incirca nella proporzione di 1 : 3. Della sola Coorte I de’ Brittoni citammo dieci testimonianze aventi una, varietà continua di qualificazioni ed onorifici. Possono desse rispon- (1) Labus, Ara di Haimburgo, p. 32. (2) Baille, Diploma di Nerva. (3) Cicer., Famil., XV, 1; ad Atticum, IV, 18. (4) Cicer. dalla Cilicia, Famil., XV, 1. Zr loc provinciali delectu....negue multi sunt; et diffugiunt qui sunt, metu oblato. (5) Ogni turma contava 32 cavalli. Vegezio, lI, 14. DI C. PROMIS. 509 dere ad una Coorte sola portante in successivi tempi appellativi diversi; ma può anch'essere che in quei dieci marmi e diplomi si comprendano due Coorti almeno, delle quali una inferiore a mille uomini, Milliaria l’altra; potrebb’esser pure che una terza fosse quella detta Milliaria Equi- tata. Per far questa distinzione o per respingerla, non ho lumi sufficienti, quantunque certa cosa sia che gli onorifici desunti dai gentilizi imperiali, mutavano al mutar di questi. Conchiuderò dicendo essere stato notato come vi siano cinque Coorti di Traci, tutte dette prime, cioè una non avente che la nota numerale; altra Milliaria; altra Equitata; altra di cittadini Romani cognominata poscia Germanica ; altra de’ Sagittarii (1). N. XI. A. — COHors. II. FLavia. BRITTONun. EQVITATa (Doni, Cl. VI, N° 19; Orelli, 804). N° XI. A. — COHors. II BRittonum. EQuitata (Storia di Torino, Ning Maffer, (218,03) Riunisco queste Coorti Equitate di Brittoni, l’onorifico Aavia non valendo a distinguerle in due. Le Coorti Equitate erano come le Co- hortes Alariae della repubblica (®; nè monta che se ne trovino di citta- dini romani, così chiamandosi mentre avrebbe dovuto dirsi Zuris Italici ®). In queste Coorti il servizio de’ cavalli era quello di vanguardie, esplo- ratori, fiancheggiatori necessarii a tutelar la fanteria delle Coorti contro I Pala guerreggianti quasi tutti e quasi sempre a cavallo. Così ogni Coorte Equitata bastava a se sola, rappresentando un piccolo esercito , come certe brigate dello scorso secolo. N° XII. A. — COHors. II BRittonum. 0 (Ackner. Miiller, N.° 787. In Ungheria e forse in un bollo di mattoni). Le Coorti milliarie non erano necessariamente Equitate, come non lo erano le Quingenarie; per figura, parlando Igino d’una Coorte quingenaria di Brettoni, non fa motto di cavalli e non ne fornisce la particolar pedatura. N.° XIV. A. — cohors. II. AVGusta. NERVIA. PACENSIS co BRIT- TONwun (Sacken nel Sitzungsberichte dell’Accad. di Vienna, Classe Filos. Istor., vol. XI, fasc. 2, p. 353 e tavola 3; Henzen, Ann. dell’Istit. (1855) p. 26). Diploma di Traiano e dell’anno 114. Vedemmo al N.° VII una Coorte /. Augusta. Nerviorum. Brittonum. Milliaria, e forse questa II (4) Henzen negli Arnali dell’Istît. (1855), p. 36. (2) Cesare, B. Civ., I, 73, 83. Rammenta Cicerone gli Alari Transpadani. Famili, 31} 17, {3) Orelli-Henzen, 3398, 5443 ecc.; quella in 2211 è falsa, 5ro CAPO III. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO le si appaiava in tutto, senonchè alla nazione de’ Nervii, segnata in ambedue, fu qui aggiunta la specificazione di Pacenses per meglio in- dividuarla. Nei Nervii liberi dovevan questi formar una Civitas, senza però che se ne sappia altro; essendochè di Pacenses se ne conoscono soltanto nella Gallia Narbonese, Lusitania e Tracia (i), mentre questi erano della Gallia Belgica. Nè è credibile che i Nervii qui rammentati fossero i Neuri sul Boristene (®), avvegnachè la romana conquista, sin dai tempi di Vespasiano, oltrepassato avesse quel fiume, ed abbiano poi i Neuri militato per Maioriano Augusto (8) alla metà del V secolo; es- sendochè sia qui indicata una città nel geografico Pacensis, e Deultum appellato poscia ani Pacensis trovisi in Tracia, che dal Boristene è troppo discosta (4. Quando fu scritta la Notizia d'Occidente ancor mili- tavano in Britannia alcune Coorti di Nervii unitamente al Numerus Ner- viorum ed al Numerus Pacensium sotto il comando di quel Duca. Ad ogni modo non è raro il trovar, nelle Ale e Coorti, associati due popoli, fosser dessi finitimi o distanti; avendosi, per figura, Reti e Vindelici (9), Sardi e Corsi, e poi Sardi e Liguri (0), Galli e Pannoni (?); niuna maraviglia dunque se i Nervii presso l'Oceano erano fusi in Coorti coi non lontani Brittoni. È opinione degli archeologi che le sole Coorti I fossero milliarie ; qui invece lo sono la I e la II, e si SR rag- giungendo esse almeno il numero di sette. N.° XV. A. — COHors. III BRITANNORVM (V. il marmo a pag. (7 W. Christ, Diploma di Weissenburg nella /Motizia delle sedute dell’Acc. di Monaco (1868), Vol. II). È rammentata questa Coorte III de’Britanni dalla lapide di Cuneo e dal diploma di Veissenburg in Baviera, ambi novellamente scoperti ; le Cohortes Britannorum stanno anche in Tacito ®) circa la stessa epoca. Ma siccome la presente Memoria versa in gran parte su questa Coorte, nonchè sulla nazional denominazione da essa portata, altro qui non dirò, (1) Plinio, III, 3, 3; IV, 35, 5; Henzen, 5231; Forcellini in Pucersis; Plinio, IV, 18, 7. (2) Id., IV, 26, 10. (3) Sidonio Apollinare, Carmez, V, v. 475. (4) Plinio, IV, 18, 7. (5) Brambach, 895; Orelli, 484. (6) Baille, Dipl. di Nerva, p. 4. (7) Orelli, 804. Un Forum Iulii Pacatum è presso Henzen, 5231, ed i Pacatianenses militavan nell’Illirico (Bocking, p. 39*) e sovente altrove, giusta la /Motizia. (8) Mist., I, 70. DI C. PROMIS. dI aggiungendo soltanto che il diploma di Weissenburg, mentre ha nella faccia esterna IIL BRITANNORVM, internamente ha poi IH. BRITTA- NINORVM ; la qual voce non occorrendo mai, la ascrivo ad errore del- l’intagliatore, appunto come nel diploma di Domiziano, alla linea nona, è scritto ET. I. ET. I. Del rimanente non giova ch'io ripeta le ragioni esposte a pag. 484, per le quali io son condotto a credere che i Britanni qui rammentati, giusta il modo classico, altro non siano che i Brittones. Se la qui menzionata Coorte III fosse veramente stata di Britanni, sarebbe necessariamente preceduta da due altre; ora, di queste due non n’abbiamo nessun riscontro. Ci capita invece la COHors. III BRITonwm (8), dell’anno 211, in lapide trovata a Regemburg ed ora nel Museo di Monaco in Baviera, ed è un’ara dedicata al Genio di quella coorte; poi, sotto il comando del Duca della Rezia di nuovo ci capita il Zribunus Cohortis Ter- tiae Brittonum Abusina, stanziando questa ad Abusina, cioè ad Abensberg presso il Danubio in Germania (®); ma quest’ultima notizia è del V secolo. N° XVI. A. — COHors. III. BRITTONVM. VETERANORzwm. EQVI- TATA (Zaccaria, De C. Nonii Caepiani Inscriptione, in Gori, Symbolae, IV, p. 151; Henzen, 6729). Così rare sono le Coorti di veterani da non occorrere, oltre questa, che una di Aquitani (3), poichè i veterani mentovati nella lapide di P. Virgilio Paullino non provengono che da una mala lezione; della qual cosa sarà discorso nel capo V. Epperciò, non parendomi probabile che, avanti a questa terza, vi fossero due altre Coorti Equitate di Brittoni Veterani, ne conchiudo che sia la stessa che quella al N.° XV. A. detta in tre documenti Cohors. ZI. Britannorum, poi Cohors. III. Brittonum: quindi che in essa si trasfondessero i Brit- toni invecchiati sotto l’armi, e che, aumentata in seguito di '/; di cavalli, assumesse nome di Equitata. E tutto ciò senza che cangiasse dessa il suo ordine naturale di numerazione. Abbiamo altresì sul Danubio una coHors. III BRITorum dagli editori malamente letta Cohors. IZ. Bri- tannorum , poi un altro sasso assai malconcio, e ch’essi compierono pure allo stesso modo (4. Da plausibili motivi fu indotto lo Zaccaria a porre l’età di questo marmo circa quella di Adriano Augusto (9). (1) Gratero, 24. 7. (2) Not. occid., ed. Boecking, pag. 102%, 786%. (3) Henzen, 5418. (4) Ackner-Miiller, N° 13, 799, (5) L. cit., p. 173, 512 CAPO III. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Incontrasi in questo luogo una grande lacuna ch’è cagione ch'io non possa dir nulla delle Coorti IV e V de’ Brittoni, non essendovene, a mia notizia, memoria alcuna, epperciò convenendo passar alla sesta. Esisterono però desse certamente, trovandosi con questa ed anche con più inoltrata numerazione le Coorti de’ Breuci, Galli, Reti, Traci, e soprattutto de’ volontarii cittadini romani andanti sino alla XXXII. N° XVII A. — COHors. VI. BRITTOrzum. (Da molti e singolarmente da Hibner nelle /nscr. Hisp. Lat. N.° 2424). Stava a Braga in Porto- gallo, gli uomini del cui Conyertus militarono in Britannia ai tempi di Traiano (4); a codesta Coorte di Brittoni vediamo qui preposto un Lu- sitano. N.° XVII. A. COHors. VII BRITorzm (Smezio, f° 147, 20). Stava a Vormazia e dopo questa non ne conosciamo per ora nessun'altra; di un prefetto della stessa Coorte adduce pure lo Smezio un titolo Mes- sinese (2). N° XIX. A. — cohoRs. LI HELVEztiorum. ET. BRITTonum. AVRE- lianensiuwm (Brambach, N.° 1559, 1560). La prima lettera, che presso questi è una P, io la muto in una R, onde avervi cohoRs. Quali si fossero i Brittoni Aurelianensi e qual parte occupassero dell’isola , è ignoto, parendo però che tale appellativo lo avessero da Settimio Severo, che sappiamo da Sparziano aver vittoriosamente guerreggiato in Britannia, ove morì. Composta di Brittoni e di Elvezi, quest'era una Coorte Ge- mina, come di altre e di legioni si ha altrove; quindi è da credere che queste due Coorti separatamente formate e con uomini di due popoli facienti lor servizio soltanto a piedi, ridotte in guerra a metà di lor forza, venissero fuse assieme. In simil modo fu pure corretto dal Mommsen un bollo laterizio presso Brambach, N.° 1563. N° XX. A. — NVMerus. Brittonum. Milliarius (Brambach, N° 1563. In bolli laterizi). Il Numerus, com'è noto, era una quantità di soldati affatto indeterminata; ma questa volta, per qualche necessità di guerra, fu fissato ad un migliaio d'uomini. Abbiamo poi anche un Q. Numeri) BRIT(tonum), che dev'essere il sovr'indicato (3). (1) Cardinali, tav. XI. (2) Pag. 84, 16. (3) Lapide dell’anno 186 in Ackner, N° 262. — Costui era un Quaestionarius, od A Quaestionibus di quel corpo di Brittoni. DI C. PROMIS. 55 N° XXI. A. — Numerus. BRITonum. ET. EXPLORATorum. NEMA- NINGersium (Henzen, 6731). Di qual nazione fossero i Nemaningensi signora; andando qui uniti ai Brittoni, ma da essi distinti, è probabile che fossero Germani; nè si può capire se a cavallo fossero od a piedi, essendovi esploratori dell'una come dell’altr’arma. N.° XXIII A. — Numerus. BRITTONwn. TRIPVTIENsium (Bram- bach, 1732, 1749; Grutero, p. 93, 5). La patria dei Zripuzienses s'incontra a Zripontium, oggi Dowbridge non lungi da Londra. Tutte codeste lapidi, scritte con iniziali e nessi, palesan lo scorcio del III secolo od il sorgere del IV. N° XXIII. A. — Numerus. BRITonum. CALedoniorum. et. COhorTis. HELoetiorum (Brambach, N.° 1563). Anche qui sono associati agli El- vezi i Brittoni, come al N° XIX, ma specificati questi in Caledonii della Scozia; novella prova che le truppe di Brittoni levavansi dai Ro- mani anche nelle più remote parti dell’isola, armata mano percorse da Costanzo Cloro (!); prova eziandio che questi Numeri Geminati erano di fanteria. N° XXIV. A. — D. BRITTONVM. CVRVEDENSwyr (Brambach, 1455). È pure sconosciuto di qual parte dell’isola fosser gli uomini di questa Centuria faciente corpo da sè, e che appunto formata essendo di Brit- toni, doveva esser pedestre. N.° XXV. A. — GIINIO. HORreorum. Numeri. BRITTONVM (Steiner, N. 949; Borghesi, IV, p. 199). Si connetta codesto col N. XX. A. Ai Genii de’ granai ponevansi iscrizioni, che si posson veder raccolte presso Nardini e Grutero (2); ma questi Morrea significavan talvolta anche de’ magazzini militari, come dalla Notizia. N° XXVI. A. —— CENSITOR. BRITTONVM. ANAVIONernsium (Bor- ghesi, Opere, V, I). Come militare può essere considerata questa pure, saviamente avendo considerato il sig. Leone Rénier (8) (sull’autorità della lapide di Torquato Novellio /eg (ati). aD. CENSus. ACCIPiendos. ET. DILECTatori. ET. procoSuli. PROVINCiae. NARBONensis. (9), che i Censitores delle provincie presiedevan talvolta, come Dilectatores al re- (1) Eumene, Pareg. VII, 2. (2) Roma antica, lib. VII, cap. IX, Grutero, p. 75 e seg. (8) Mélanges d’Epigraphie, p. 48, 74. (4) In nota dello stesso autore a pag. 8, vol. V di Borghesi. Serie II Tom. XXVI. 65 514 CAPO II. = ISCRIZIONE DI CATAVIGNO clutamento ; cosa grandemente probabile, soprattutto in Britannia, per la molta analogia tra i due uffici, il civile cioè ed il militare. Gli Ana- vionenses sono un popolo di Britannia tuttora ignoto, ma certamente suddito di Roma. Nella Notizia dei due Imperii, scritta nella prima parte del V secolo, allorquando già era quasi affatto spento il romano nome di Britanni e viceversa allargavasi e prevaleva quello antichissimo, nazionale e primitivo di Brittoni, assorbendo l’altro, abbiamo nelle Gallie e sotto il Maestro della cavalleria fra quarantasette corpi militari anche i Britores, che non si può distinguere se cavalieri fossero o più probabilmente fanti, non avendo specificazione alcuna (!). Vanno questi senza uno speciale appel- lativo, quantunque mi paia che lo dovesser avere e che fosse quello di Primani, rispondente ai Secundani Britones stanti nello stesso paese e sotto lo stesso capo (®). Poi a pag. 37% son notati nelle Spagne, e sotto il Conte, gl’Invicti Iuniores Britones, che dalla qualità dei commilitoni appariscon di fanteria, mentre nell'Tllirico verano i Britones Seniores 8). Sotto il Maestro de’ Militi Presentali stavano i Britanniciani, e tra i suoi Ausili Palatini eranvi gli /nvicti Iuniores Britanniciani cogli Exculca- tores Iuniores (4 di egual patria, quindi i Z'ietores Iuniores Britanni- ciani sotto il Conte della Britannia ), dalle truppe associate apparendo che fossero tutti fanti. Il vocabolo Britannicus è aggettivo d'uomo o di cosa spettante ai Britanni, come popolo: tali l'agnome Britannicus, l'Exercitus Britannicus, le Cohortes Britannicae come Gallicus, e via dicendo. L'aggettivo Bri- tannicianus (rispondente a Gallicanus, Germanicianus e simili) è di cosa o d’uomini spettanti alla Britannia, quale regione; così un mercante di vasi fittili si dice Negotiator Cretarius Britannicianus (0); così i servi, ch’eran cosa propria di Germanico Cesare, da se stessi appellavansi Ger- maniciani dal nome del padrone (); e così pure chiamaronsi talvolta gli (1) Occidens, edente Bòcking, p. 35*. (2) Ivi, p. 36%. (3) Oriens, p. 33, 34. È (4) Così corregge Stewechio al cap. 15, lib. IT di Vegezio, dove eravi Auziliatores, notando che segue i migliori codici; corrobora poi la variante a p. 182 de’ Commenti, e sarebbero in italiano i Calpestatori. (5) Pag. 25, 38, 50. (6) Reinesio, Cl. I, N° 177; Brambach, N° 43. (7) Grutero, 602. 9, II. Paciaudi, Dissertaziore in Calogerà, XLII. DI C. PROMIS. 515 eserciti di Germania (4); così vedemmo denominarsi, nella decadenza inol- trata, alcune truppe dell’isola, le quali, per essere composte di Britanni e conseguentemente dall’appellarsi Britannicae, furon dette Corpi Br tanniciani. Detto della fanteria, che i Brittoni soggetti o patteggiati avevan de- bito di fornire all’esercito romano (della quale però nessun corpo tro- vossi mai di presidio nell'isola simo al IV secolo), noterò che di Brittoni soldati di cavalleria non vè memoria, marmi e diplomi altro non ram- mentando che Coorti, senza menzione alcuna di Ale, ed il Nwmerus essendo voce adattantesi alle une come alle altre (), fanti e cavalli da Tacito già essendo detti Numeri nella guerra civile di Galba (9). Singolar trasformazione di costumi, per la quale ignorando i Brittoni l’arte del cavalcare, praticavanla invece i Britanni Romani, sino a dar intieri corpi di cavalleria, come vedremo nel capo seguente; cosicchè dobbiam con- chiudere che la presente ippomania inglese debba sue prime origini a Roma, che abbattendo gli animi, facevali ad un tempo più colti, come più sociale la vita, più industriosa e piacevole. A questa scarsezza, od a meglio dire, assenza di cavalleria fra i Brit- toni, accenna lo stesso autore, dicendo che presso di essi /r pedite robur, ed aggiungendo che guaedam nationes et curru praeliantur (4); usanza eroica che, in Tacito come in Omero, non valeva punto a mutar quegli Essedarii in cavalieri, e vieppiù che portavan piccoli scudi e spade enormi (©). Cogli autori concordano lapidi e bronzi non rammentanti mai alcun’Ala di Brittores, ma sì e soltanto delle Ale Britannicae for- mate, come emana dal principio da me adottato, di Brittoni roma- nizzati ossian Britanni, e di Italici d’ogni patria colà soggiornanti ed insigniti di diritti politici e civili. La qual cosa dimostra che i prudenti Romani, non mai contrastando alle naturali condizioni e tendenze de’ popoli, trovando i Brittoni alieni dal servizio di cavalleria, pretermesse le Ale di cavalli, lasciaron che militassero soltanto nelle Coorti. Però, o Britanni fossero o Brittones, non avendo cioè il pien diritto o non (1) Svetonio, 7:8., 25; Galba, 20, ecc. (2) Romanorum cohortes nunc Numeri vocantur. Cassiodoro, Hist. Eccl. Tripart., I, 9. Nelle lapidi invece, con quel vocabolo è più frequentemente denotato un corpo di cavalleria. (3) Zist., I, 6. e sovente in Svetonio. (4) Agricola, 12; Dione LXXVI e passim. (5) Ivi, 36. 516 CAPO III. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO avendone nessuno, mai non poterono far parte dell’esercito legionario, almeno prima di Caracalla, e combatteron tutti cogli ausiliarii. Potevan però i Brittoni, o pel compiuto servizio militare, o per egregie opere di guerra, o per clientela, od anche per aver coperti uf- ficii municipali, venir ascritti alla cittadinanza; n'è testimonio quel Sul- picio Floro e Britannicis cohortibus nuper a Galba civitate donatus (8), che, indettato da Otone, fu principal uccisore dell’infelice Pisone Lici- niano. Dove conviene osservare che lo storico mentovante codeste Coorti Britanniche è Tacito ripugnante da un vocabolo nuovo e barbaro, cosic- chè ei disse Britannicae quelle Coorti che veramente erano di Brittones; imperciocchè Sulpicio fu fatto cittadino appunto perchè senza diritti ori- ginarii. Ultimo argomento che la voce Britannici spettasse a cose riferentisi al paese od agli uomini romani dell’isola, sia la Zegio secunda Britannica, sive Secundani, che nel V secolo la Notizia (pag. 27%) pone sotto i comandi del Maestro Presentale della fanteria. Ora, questa legione II è quella che ne’ buoni secoli dell'impero denominavasi Augusta, e che, andata con Claudio in Britannia, non lasciò mai più l’isola (), dove, quando fu scritta la Notizia, stava, almeno in parte, a Autupiae col suo prefetto (3), credendosi ivi traslocata da Carausio. Ora, questa legione detta Britannica dal lungo soggiorno nell’isola, ebbesi quel cognomento dal suo star di presidio ai Britanni contro gli attacchi dei Brittones; che se difeso avesse la porzion di Britannia tenuta da questi ultimi, allora avrebbe avuto nome di Britanniciana. (1) Tacito, Mist., I, 43. (2) Borghesi, IV, 206. (3) Pag. 81* sotto il Comes Litoris Saronici per Britaniam. DI C. PROMIS. (Ga, = NI CAPO QUARTO. 1 Britanni, siccome Coloni e Municipi, essendo cittadini Romani di diritto Italico, militarono separatamente dai Brittones în Coorti ed Ale speciali, nonchè ne’ Fanti Singolari. Essi soli, fra quegl’isolani, fornirono cavalleria, e le loro Ale e Coorti furon dette Britannicae. Prove desunte dai marmi e dalle tavole di congedi militari. Sottometto l’elenco delle Coorti ed Ale Britanniche seguente a quello delle stesse armi, ma di Brittoni, e dimostrante come queste due diverse denominazioni significassero realmente due popoli politicamente distinti, avvegnachè abitatori d'una stessa patria. Soggiungo che, le Coorti od Ale o Vessillazioni composte d’isolani romanizzati e di cittadini Romani, mai non s'incontrano col nome Britannorum rispondente a quello di Brittonum, ma sì con quello derivato dal paese, cioè ZBritannicae, e come chiama- vansi le Coorti Cypriae, Cyrenaicae, Italicae, e via dicendo. N.° I. BL — COHors.i. BRITANnrica (Maffei, M. V. 463, 1). Lo spazio compreso tra la prima voce e la seconda può contenere tre o quattro lettere come i. Flavia, i. Aelia, ma non trovandola mai con onorifici imperiali, vi posi COZZors .i., come negli esempi sottostanti. Militava questa nell'Africa. N.° II. B. — cohors.I. BRITANNICA (Arneth, N.° 3, p.33). Nel fac- simile alla Tav. VII si legge I., mentre nel testo è stampato T.; ho ritenuto la prima lettera come più razionale. N.° III. B. — cohors.I. BRITANNICA. MILLIARIA (Arneth, N.° 4, p. 39). Questa Coorte Britannica, nel diploma di Domiziano dell’anno 85, è immediatamente seguita dalla Z. Brittonum . Milliaria ed ambedue mi- litavano in Pannonia sotto L. Funisulano, ed erano prime e Milliarie , solo differenziandosi dall'essere una Britannica e l’altra Brittonum, con ciò fornendoci la più salda prova della distinzione andante tra i due popoli dell’isola, che le somministravano all’esercito Romano. Così abbiamo Coorti Cirenaiche (4) ed Italiche dianzi mentovate e le quali, per la denomina- zione presa dal suolo, erano di cittadini Romani, che in grandissimo numero trafficavan in Cirenaica. (1) Orelli- Henzen 5418, 6755. 516 CAPO IV. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO N° IV.B. — cohors.I. BRITANNICA. co. Civium . Romanorum (Ar- neth, N.° 6, p.49). Nell'anno rro spedì Traiano questo diploma a due Ale e dieci Coorti nella Dacia, fra esse essendone ben sette di cittadini Romani viventi in varie provincie. Quest’era pure Milliaria, cosicchè pro- pendo a credere che fosse una cosa sola colle due antecedenti; malgrado la pomposa qualificazione di cittadini Romani presa da quest’Ala, come da tante altre, non si creda che tali veramente fossero, ma che godessero d’un qualche diritto cittadino , che io, a motivo dell’Ala Britannica di cittadini Romani, qui mentovata al N.° VI, credo essere stato l’Italico e fors’anche il provinciale (1); che se goduto avessero del pien diritto, allora militato avrebbero nelle legioni o nei tre corpi di presidio in Roma. Di codesti cittadini, che si disser Romani, abbiam memoria in un titolo di un Censitor . Civium . Romanorum . Coloniae . Victricensis. Quae. Est. In. Britannia. Camaloduni ®), cioè a Colchester. Come fu detto per la Coorte I de’ Brittoni, anche questa dev'essere stata sempre una sola e I, avvegnachè vi si aggiungessero altre denominazioni. N° V. B. — EQuxites .ALAE . I. BRitannicae . Civium . Romanorum . Data da Smezio e poi da Grutero (8), accetto per essa la savia emenda- zione del Cardinali (4, che le iniziali PR. modifica in BR. ; imperciocchè, di Ale comincianti con PR., non vi sarebber che le Pretorie, per le quali strana riescirebbe l’addizione di cittadini Romani, mentre è noto che lo eran tutti; dico de’ tempi di M. Aurelio e L. Vero, ai quali si riferisce il citato marmo. Potrebbe però nascer il dubbio che le sigle BR. accennino ad un’'Ala di BRittoni, anzichè ad un’Ala BRitannica; ma subito esso sva- nisce in virtù dell’aggiunto di cittadini Romani, quali non erano certa- mente i Brittoni. Il qual acquisto si potrebbe spiegare colla cittadinanza Romana da essi ottenuta dopo qualche anno di servizio militare ©); ma il complemento di ALA BRitannica è meglio desumerla da Tacito, che (4) Cardinali, Diplomi, p. 114, 145. (2) Fabretti, pag. 29, N.0 129. (3) Pag. 493, 1. (4) Diplomi, p. 145, 239; sbagliando però nel credere che fosse Ala BRittorum. Non so nemmeno se nella lapide di Como del Labus fornita al Cardinali (p. 228) le parole AL. MIL. PR. Z/p. Cont(ariorum) debbansi leggere Alae . Militum. Praetoriae . Vlpiae ecc.; seppure quel Praetoriae non vada riferito alla guardia fatta in campagna al Pretorio dell’imperatore. (5) Mommsen, Bullett. dell’Istit. (1845) p. 193. DI C. PROMIS. d19 la mentova nella guerra di Vitellio, al quale essa aderiva (1). Dove noto che Tacito, nella stessa guerra parlando delle Cohortes Britannorum e dell’A/a Britannica, distingue esso pure fra le due qualità di soldati dai Romani levati nell’isola; la qual distinzione fu vieppiù significata pochi lustri dopo allorquando fu ritenuta la seconda denominazione e fatta la prima più evidente e più giusta colle Cohorzes Brittonum. Ne conchiudo che formata essendo quest'Ala di cittadini Romani, doveva necessaria- mente essere di Britanni, non potendo essere di Briztones. N° VI. B. — ALA.I. FLAVIA. AVGusta. BRITANNICa . co. Civium . Romanorum. (Henzen, Ann. dell’Istit. (1855) p.22; id. ad Orelli, 68574 (2), Diploma dato da Traiano nell’anno 114 a favor di soldati militanti nella Pannonia Inferiore, ai quali aggiungesi, fuori d'ordine, quest Ala, dicen- dola Missa In Expeditionem ed intendasi di quella contro i Parti. Io penso che fosse quella da Tacito, nel numero antecedente, detta semplicemente Ala Britannica, e che sia pur quella rammentata in marmo di T. Flavio Eques . Alae . I. Flaviae . Augustae . Brit(annicae). 0 . Civium . Romano- rum .luris . Italici. ®), esprimente che questi cittadini, non soldati nel- l’esercito propriamente detto Romano, amavan dirsi Cives Romani, ma erano di diritto Italico, come da lapide di un Zribunus . Cohortis . Mi- litum . Italicorum . Voluntariorum 4, e da altra di un Centurio . Cohor- tis.I.Civium . Romanorum . Ingenuorum 6); cosicchè V’intiera appellazione di queste Ale e Coorti sarebbe quella di Ztalicae . Civium . Romanorum . Voluntariorum (©). Dal qual complesso di /oluntarit, di Milites . Italici, di Zngenui e di Cives Romani, e dal servir come ausiliari, ma in Coorti ed Ale speciali, ne ricaviamo che codesti soldati (in Britannia come al- trove) traevansi dalle Colonie e dai Municipii locali, e per conseguenza da uomini di diritto Italico misti ad indigeni che, in qualunque modo, un eguale o prossimo diritto acquistato avessero per se e per le loro famiglie. Quindi è ch'io non posso consentire collo Steiner, che recando due (1) Mist. III, 41; I, 61. (2) Negli Annali dell’Istituto Henzen legge BRETANNIC. con variante di lieve importanza. {3) Grutero, 542, 7. (4) Smezio, f.0 75, 12; Marini, Arvali, p. 435 ne spiega la denominazione, che nelle sue varia- zioni significa pur sempre la stessa cosa. (5) Smezio, 85, 8; Maffei, 113, 2. (6) Borghesi, Opere, IV, 198. 520 CAPO 1Y. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO iscrizioni di un Eques e di un veterano Alae . I. Flaviae. Augustae Brit. Milliariae Civium Romanorum luriia Lici., invece di Britannicae, legge Britonum; come pure, volge quell’insulso /urita Lici in Turma Lici, mentr’è evidentemente Zuris Italici in ambedue le lapidi (1). N° VII B. — EQuizes. ALae . BRITANNICae . MILIARice (prima da Apiano e da Smezio, poi da Maffei, M. V. 241, 5; 242, 1, 2). La credo una cosa sola colle Ale sopraddette e con quella di Tacito, e che quando fu posto questo marmo ancor non avesse nota numerale, nè onorifici , nè altre specificazioni che quella di Milliaria; è vero che vi si tace della qualità di cittadini Romani, ma ciò non monta, essendo posta la lapide ad un Procuratore delle due Germanie e della Rezia, non per fatti mi- litari, né da soldati, ma dai Cives Romani Ex Italia Et Aliis Provinciis In Raetia Consistentes, senza dubbio, per ragion di commercio, ma cosa sempre più significante quali fossero costoro che assumevano qualità di cittadini Romani. N° VII B. — ALA. II. BRITANnrica . 0 . Civium . Romanorum ( Ver- nazza N° XVII). Male il Cardinali quel Brian. lo supplì in Britan(o- rum) con vocabolo che, quand’egli stampò il suo libro, non trovavasi che in Tacito ed a proposito di Coorti. Intanto la Coorte I e le Ale I e IL ambedue Britanniche, cioè di Britanni, ch'erano ad un tempo cittadini Romani (essendone, per conseguenza, esclusi i Brittoni) palesano quale e quanta fosse la differenza tra queste due classi di abitanti un'isola me- desima, in ispeciali corpi andando i Britanni, siccome cittadini, in altri pure speciali i Brittoni, come quelli ch’eran privi di diritti politici. N.° IX. B. — ALA QVARTA BRITONVM (/Votitia Orientis , ed. Bocking, p. 75). Parlando delle truppe di Brittoni al capo II, fu notato come altre non ne fossero che di fanteria, malgrado che, in una data epoca, le lor Coorti I, II e III si trovino essere Equitate, cioè, giusta Vegezio (2) rinforzate di 132 cavalli; cosa notantesi in moltissime altre e di nazioni diverse, senzachè ne fosse mutata la loro essenza di fanteria. ‘Troviamo in seguito le Ale di cavalli dell’isola essere sempre dette 5ri- tannicae nella buona età e nella media. Per queste positive osservazioni adunque, e pel canone critico sovr'e- nunciato (in virtù del quale scomparvero nella decadenza i nomi di Bri- (1) Zrascr. Danubii et Rheni, vol. I, N.° 3566, 3657. (2) IT, 6. DI C. PROMIS. 221 tanni e Britannici, ad essi sottentrando quelli di Brittones e Britanni- ciani), ne inferisco che la Notizia dei due Imperi, scritta dopo l’anno 400, dovendo enumerar quest'Ala, nel volgar linguaggio la dicesse Britonzr, mentre nella lingua Romana, militare ed officiale avrebbela dovuta dire Britannica, attesochè i Brittoni non davano cavalleria di sorte alcuna , la quale era poi tutta di Britanni; è a rovescio un identico errore con quello di Tacito, del diploma di Weissenburg e del marmo di Cuneo enuncianti colla denominazione Britannorum la coorte INI ch'era realmente Brittonum. Stava questa in Egitto a disposizione del Duca della Tebaide ad Isiu, luogo così detto da un tempio sacro ad Iside. Passerò ora alle Vessillazioni, ossia a que’ distaccamenti di cavalleria provenienti da uno o da diversi corpi e formati all'occorrenza per man- darli in guerra. Furono così dette le Ale di cavalli fiancheggianti e pro- teggenti le legioni in battaglia (4), come pure alcuni distaccamenti di le- gionarii sotto un vessillo. In marmo de’ tempi di Adriano parlasi di chi fu Praepositus Vexillationibus Milliariis Tribus Expeditione Britannica Leg . VII. Gem . VIII . Aug. XXIT . Primig., le quali furon tratte da queste tre legioni (®); ma a Tacito ne dobbiamo le più frequenti e se- gnalate menzioni, per figura, delle Vessillazioni di tre legioni Britanniche, che distingue dagli Auxilia, ed altra volta di altre numeranti ben 13000 uomini (*); essendo così dette quelle legioni dal far parte dell’ Esercito Britannico. Avendosi dunque, nell'età superiore, di cavalleria Britannica due Ale sole ed ambe Milliarie, io penso che da esse si traesse all'uopo una Ves- sillazione, oppure che ne’ diversi campi ove si trovavano, fornissero desse i Vessillarii alle legioni di quel dato esercito. Così, nelle guerre Napo- leoniche traevansi, occorrendo, i granatieri dai reggimenti, formandone corpi distinti. N° X. B_ — VEX BRT. (Brambach Nì 1280, 129%). Ed ecco qui tre volte la Zexillatio Britannica in ricordi trovati in Germania. Leggo poi sempre Britannica anzichè Brittonum, parendomi di aver dimostrato che i Brittoni non militavano che a piedi. (1) Vegezio, Il, 1. (2) Henzen, 5456. (3) Mist. II, 83; II, 100; Arzal. XIV, 34. Eran così dette quelle legioni, mon per essere d’iso- lani, ma per aver guerreggiato in Britannia. Serie II. Tom. XXVI. 66 522 CAPO IV. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO N° XI. B. — EQVes. ALE. TAMVE. X.. BRIT (Bullett. dell’Istituto, 1833, p. 48). Iscrizione Ungara e della quale si disputa sulla vera lezione. Appoggiandosi il Cardinali (1) al marmo di un Z'ez(eranus) . Ex . Dec(urio). Alae . Tami., emenda l’ultima voce in Zamp., leggendovi Alae. Tam- pianae, come in diploma di Traiano dell’anno 104 (®, correzione che vorrebbe pur qui introdurre. Ma non parendo probabile all’Henzen 0), che ad un’Ala di Pannoni venisse associata una Vessillazione Britannica, vi leggerebbe VEX:i/arius (natione) BRITannus. Io pongo invece, che quel soldato Brittone (Domo . Durocorrem), abbia dapprima militato nel- l’Ala Tampiana de’ Pannoni, la quale per testimonianza del citato diploma, trovavasi in Inghilterra (Et. Sunt . In. Brittania); e che con codest'Ala passato poi fosse in Pannonia unitamente ad una o più Vessillazioni tratte dalle legioni o dall’esercito Britannico. A questo modo si leggerebbe nel titolo di Carnunto: Eques . Ale . Tam(pianae) . Yex(illationis) . Brit(anicae). Abbiamo infatti molti esempi di soldati di nazioni diverse e lontane da quella regionaria de’ corpi ne’ quali erano arruolati. N° XII. B. — pediTes. SINGVLARES . BRITANNIC: (Arneth, N.° VI, p. 69). Dopo avere Traiano enumerato in questo diploma le due Ale e dieci Coorti stanzianti nella Dacia, vi pone a parte codesti fanti Singolari Britannici rammentati pure in diploma di Antonino Pio circa l’anno 157 (. I fanti Singolari dovevano probabilmente avere le stesse incumbenze , nonchè una scelta identica a quella degli Eqzites Singulares, circa i quali una dotta Memoria dobbiamo al dott. Henzen ©) Erano guardie degli ufficiali superiori e tanto più dell’imperatore, che specialmente accompa- gnavano in campagna, cosicchè Igino dando posto nella sua Castrameta- zione a 300 Pretoriani, li associa a 600 Singolari, i quali, per analogia di servizio, dovevano esser fanti e stavano ai Pretoriani come le odierne guardie del corpo alla guardia reale od imperiale. Ma mentre i Pretoriani sceglievansi dalle legioni, i Singolari (con esempio rinnovato dai Germani custodi del corpo de’ primi imperatori) vennero essenzialmente dalle truppe ausiliari, prevalendovi i Danubiani, (1) Diplomi imp., p. 144. (2) Ivi, Tavola XI. (3) No 5253. (4) Henzen, 6858 a. (5) Ann. dell’Istit. (1850) pag. 5, 50; ad Orelli N.° 6713. DI C. PROMIS. 523 come attestano i loro marmi; ma non sì che non vi fossero anche dei Brittoni, tanto indicando, per figura, il titolo di M. Ulpio Giusto Eques. Singularis . Augusti. Natione . Britto (). Sapevamci che i Singolari eran quasi tutti di nazioni barbare, e qui trovando mentovato un Brittone , argomento che anche i Pedites . Singulares . Britannici fossero propria- mente Brittones anzichè Britanni, maggiore essendo la fede che gl'impe- ratori riponevan negli estranei che non ne’ cittadini, e veduto avendo superiormente che la fanteria dell’isola componevasi essenzialmente di Brittoni. I nomi Romani li avrà avuti costui dall’imperatore omonimo ; quanto al cognome io penso, che ad imitazione de’ servi, egli abbia volto in latino il personale Brittone, /wustus, eludendo così il prescritto di Claudio (®) vietante che Peregrinae conditionis homines usurparent ro- mana nomina, duntaxat gentilicia. Una nuova specie di fanti Brittoni ( però non militari, ma urbani ) avrebbesi presso il Muratori (8), il quale avuta una corrottissima iscrizione Pesarese e leggendovi come un Tiberio Claudio Zenone fosse tribuno della Coorte I Flavia de’ Brittoni, poscia foss’ anche SVB . PRAEF . VIGIL.B., senza badar oltre, lo fece Sub . Praefectus . Vigilum . Brit- tonum. Ma il sagace Marini (4) visto l’assurdo di porre un corpo di Vigili al servizio non di una città ma di una nazione, vi corresse la B. in R., riponendo, come ragion vuole, il Pesarese Zenone nel grado di Sub . Praefectus . Vigilum . Romanorum. Alla qual emendazione aderirono anche Kellermann ed Henzen 0) Una lapide, ch'è ora a Colonia parla di un voto posto alle Dee Malvise ed a Silvano da un Aurelio Verecundo EX ORD .BRITO ©, dove io compio la seconda lettera con ORDInazius, intendendo che fosse semplice soldato nella Coorte o nel Numero di Brittoni colà stanziato. Furono infatti così appellati per molti secoli, e Catone in Festo di sè dice: Quid mihi fieret, si non ego stipendia in ordine omnia ordinarius meruissem semper ?; di Bonoso sappiamo che nel III secolo Militavit (1) Smezio, f.0 165, 11. (2) Svetonio, Claud. 25. (3) Pag. 1114, 5. Ne parlai al capo II, N.° 111. (4) Arvali, pag. 474, nota 33. (5) Zigilum, 30a; N.° 6519. (6) Brambach, 362. 524 CAPO IV. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO primum inter Ordinarios, deinde inter Equites i), ed in lapide v'è un Ex Ordinarius Legionis II Italicae ®); aggiungendo Vegezio (8) che: Ante signa et citra signa, nec non etiam in prima acie dimicantes , Principes wocantur, hoc est, Ordinari, ceterique principales. Si noti eziandio che, ne’ citati autori ed alla fine del III secolo, colla parola Ordinarii intendevasi de’ soldati di fanteria. Qui chiudo l’elenco delle truppe Brittoni e Britanniche, inutile es- sendo di parlar della Clussis Britannica (4), per la quale noterò solo che fu così detta come quelle Germanica, Maesica, Pannonica e via (5); nè mai si sarebbe detta Brittonumn o Britannorum, come si disse Misenen- sium e Ravennatium; significate essendo con questi nomi le flotte Romane de’ porti di Miseno e di Ravenna, cogli altri la flotta posta nel mare o sui grandi fiumi a tutela delle contermine provincie. Epperciò la flotta Britannica avendo una sola e geografica denominazione, potevasi questa scrivere colle sole iniziali BRIT. BR. senza tema d’equivoco. Quanto alle cose religiose (nelle quali più evidente appare la diffe- renza per ogni popolo misto di conquistati e conquistatori), dirò che mentre un legionario, certamente non del buon secolo, consacra un titolo Matribus Brittis, un prefetto di Coorte, stante in Britannia, ne pone un altro alle stesse Matre o Matrone Campestribus . Et . Britanni (0); dove, mancando l'ultima S., vè dubbio sulla lezione Britannis o Britannicis, essendo però chiarissimo che Britoribus non ventra per nulla. Il legio- nario doveva essere Brittone; Britanno il prefetto, ossia Romano. Menzionando Cesare le navi e le mura de’ Galli, le dice Ga/licae, mentre che se gli fosse occorso parlare di quelle de’ Brittoni, egli scri- vente anteriormente all’éga volgare, le avrebbe dette Britannicae, come abbiamo la Clussis Britannica, il Mare ed il Bellum Britannicum. Con terminazione Greca fu anche scritto Britannis, idis, ma va pareggiato a (1) Vopisco, Borosus, 14. (2) Orelli, 3391. (3) Lib. II, 15. (4) Orelli, 804. (5) Ivi, 3600, 3601, 6868. (6) Le Campestres dovevan essere Matrorae o divinità epicorie di un paese piano d’Africa (Plimo, V, 1, 5), abitato da provinciali e da cittadini Romani, de’ quali una Coorte III e di Cives Romani è in Arneth, N.° VI. Come divinità se n’hanno titoli in Henzen 5942, 43; Oderico, p. 306; Donati, 59, 5; Grutero, 1015, 2. DI C. PROMIS. 525 Britannica (!), al modo stesso che Virgilio chiamò /talides le donne Ita- liane od Italiche (©). Sarebbe questo il luogo di parlare della Legio Secunda Brittannica, sive Secundani, dalla Notizia d'Occidente posta tra le XXXII Comita- tensi (3). Questa legione II, cognominata Augusta (4), andò in Inghilterra per la guerra Claudiana e vi ebbe a legato Vespasiano (5); vi soggiornò poi di continuo, essendovi mentovata nella legazione di Desticio Tuba (9) imperante Gallieno e da altre lapidi; cosicchè , dalla lunga dimora nell'isola ebbesi l’appellazione di Britannica, rammentandola Dione () siccome avente gli alloggiamenti d'inverno nella Britannia superiore. Dalla sua permanenza di quattro secoli nell'isola acquistò quel cognome regio- nale, che nulla ha che fare nè coi Britanni, nè coi Brittoni; avvegnachè, dopo Caracalla (allorquando cessarono i diritti politici, e le comunicazioni con Roma spesso interrotte, imperandovi Caransio, troncaronsi aflatto), sia da credere che alimentata venisse quella legione con reclute dell’isola stessa od al più della Gallia; ciò senza alcuna distinzione di schiatte , fondata essendo questa sopra diritti che più non erano. Qui farò anche parola di una lapide Nemausense che Grutero (8) diede dallo Scaligero, ed è così: /ul. Valerian. Mit. n. XX |..Bri- tannic . Ben. | Aug . Militavit. Ann. | ecc. Nell’esemplare del Reinesio (9) manca la seconda linea, ch’ei leggerebbe peraltro Miles, Legionis . XX . Britannicae., mentre il Maffei (19) la interpreta Centuria Yigesima. Ma tutto questo non regge, perchè la legione XX fu bensì detta Vittrice e Valeria Vittrice, ma non mai Britannica; nè si conosce Centuria alcuna con numerazione e tanto meno col numero XX. Io proporrei che vi si avesse a leggere Mi/(es) . L(egionis) . XX. 7. Britannic(i), ponendo che l'imperito quadratario avesse scritto il segno della Centuria invece della iniziale L della legione, oppure che vi fosse stato error di copia; osservo (1) Prisciano, Periegesis, v. 577. (2) Aeneid., XI, 656. ‘ (3) Edente Bocking, pag. 27*, 81*. (4) Borghesi, IV, 206. (b) Tacito, Mist. III, 44. Svetonio, Zesp. 4. (6) St. di Torino, N.° 134. (17) Lib. LV, 23. (8) Pag. 548, 4; Orelli, 3512. (9) Syrtagma. Glasse VIII, n.° 47, pag. 530. (10) Ars Crit, Lapid. p. 347. 526 CAPO V. = ISCRIZIONE DI CATAVIGNO ancora che nell’esemplare Gruteriano alla voce Britannic. precede un breve spazio capace appunto della nota 7 esprimente la Centuria. Ri- mettendo questa, Giulio Valeriano militato avrebbe nella Compagnia del Centurione Britannico; dove noto che simile dimenticanza accadde in lapide Prenestina (1). CAPO QUINTO. Di due iscrizioni, ch'erano in Asti, quella di P. Virgilio Paullino non fa menzione del Veteranorum Exercitus, ma probabilmente dell’'Exercitus Britannicus; in quella di €. Tillio Vitale non è mentovata la Britannia. Farò ora parola di due lapidi (onoraria l’una, l’altra sepolcrale , ed am- bedue militari), le quali stavano in Asti ne’ secoli ultimi, ed ingegnerommi di provare come nella prima dovesse esser mentovato l’ Esercito Britannico colà combattente nella guerra di Tiberio Claudio: e di mostrar, invece, come nella seconda non vi sia stata mai menzione alcuna della Britannia. Parlando dell’ Esercito Retico dissi, che i Romani gli eserciti loro li distinguevano coi nomi de’ popoli, ne’ paesi de’ quali stanziato avessero o guerreggiato; nè giammai trovasi che li appellassero da uno de’ corpi che eventualmente li componevano. Al qual proposito dirò di una nostra lapide infranta nella chiusa e terminante colle mal lette parole .... Vfera|norum. Exercitus, parole dal Muratori ®) sollecitamente trasformate in Zeteranorum Exercitus, venendo siffatta mutazione adottata dallo Zaccaria, dall’ Orelli e poscia dal Prof. G. Fr. Muratori (8). Nella relazione del Prof. Fabretti e mia erroneamente mi parve che l'iscrizione dovesse andar scissa in due, e quanto a quell’ultima espressione, affermai che se « la chiusa non è mal copiata, in quel Praef. Cohortis. II. Veteranorum. « Exercitus. ci darebbe un modo affatto nuovo nelle Romane lapidi « militari » e ne proposi una restituzione, che ora respingo (4). Non erami (1) Rellermann, 155; Henzen, 6696. (2) Pag. 760, I. (3) Apud Gori Symbole litterarie, IV, 143; N.° 3877; Asti Colonia Romana e sue iscrizioni la- tine. (1869). N.0 1. (4) Atti dell’Accademia delle Scienze, Nov. 1868. DI C. PROMIS. 527 allora ancor venuto a mano il libro intitolato Opinionum Ioannis Marii Mattii Brixiani libri tres, stampato in Alessandria nel 1598 (1). Il Mazzio, mal noto ai nostri scrittori, sullo scorcio del secolo XVI professò umane lettere in Alessandria, Pavia, Asti @); riferisce egli infatti alquante lapidi di Acqui, di Alba e soprattutto di Asti, e parlando di quella metrica di T. Arrio Terzo (che colà posta nelle case del Magno Trivulzio, venne a’suoi tempi traslata a Torino presso i Dalpozzo), nota ‘ che ciò accadde wecordia eorum, qui prohibere cum possent, debuerint. L'iscrizione in discorso la dice Hast@ effossa haud itapridem in adibus Virginum Orbarum; poi Filippo Malabaila, mandando al Guichenon copia delle legittime come delle false lapidi Astensi (8), questa pure vi unì, indizio che ancor esisteva e che più tardi ne accadde la perdita , cioè dopo l’anno 1739, nel quale dice il Muratori di averne avuto l’apo- grafo da un Giuseppe Carretta. P. VIRGILIO.P.F.P.N. POL LAVREAE . AED. Il. VIR.I1.D. PRAEF. FABR IVDICI . DE . Ill . DECVRIIS . EQVITI SELECTORVM . PVBLICIS . PRIVATISO. PRAEF . DRVSI . CAESARIS. GERMAN . Il. VIR. QVINO. P. VIRGILIO.P.F.,P.N. POL. PAVLLINO EQVO .. PVBLICO . IVDICI . DE . Ill . DECV PRAEF . FABRVM . PRAEF . COHORTIS . Il . DECV nti ea IORVM. EXERCITVS........... de Alla 3. e 4.° linea, vi corressi qualche mala lezione; come ad un’e- mendazione Muratoriana, nella linea 3.°, dà ragione la lezione del Mazzio. All’8.° ritenni per ora Decu., come inchiudente gli elementi di rettifica- zione meglio che non l /7fera del Guichenon. Tra le nostre è quest’epigrafe (1) Poi a Venezia, 1605, con frontispizio alquanto mutato, ma serbando l'edizione prima ; ar- lifizio solito. (2) Querini. Specimen litterature Brixiane (1739), p. 237. (3) Nel Clypeum Civitatis Astensis (Asti, 1647; Lione, 1656) non ne fa parola, quantunque delle sincere ne dia qualcheduna, come quella alla Concordia de’? Fabbri posta da M. Vettio Secondo, dalla quale dedusse poi che S. Secondo d’ Asti fosse della gente Veitia, come alla vita. di questo premettono i Bollandisti, Marzo, III.° 797. Qualcuna delle sue iscrizioni furon provate false da M.or Della Chiesa e da Gisberto Cupero nelle Zrscr. et marmora antiqua, e ciò sin da quel secolo. 528 CAPO V. = ISCRIZIONE DI CATAVIGNO di molta antichità ed importanza, trattandovisi in Laurea di un uomo fiorito a’ tempi di Druso Cesare Germanico morto l’anno 19, sesto del- l'impero di Tiberio, cosicchè l’età del figlio suo Paullino batte con quella di Claudio; la qual cosa darà ragione della restituzione principale nel marmo. Nulla dirò degli uffici civili e militari coperti dai due Virgilii, notando solo che Laurea, come Eques Selectorum Publicis. Privatisque, o fu Triumviro Locorum Publicorum Persequendorum (4), ed esercitò uno de’ principali incarichi de’ Censori (), magistratura che non mai apparisce in Piemonte, tolione questo caso. i Quanto alla restituzione delle due ultime linee: Praef. (ecto) Cohortis. IL. Decu|...... iorum Exercitus ......, osservo, che, anzitutto, dev’esser cancellata dalla lista delle Coorti questa II de’ Veterani, quindi anche la I da essa inchiusa, appunto. per esser fondata soltanto su questo marmo (5), il quale non ne parla punto; e dopo ciò, che quelle let- tere .....iorum ad altre non possono rispondere che alle finali di Voluntariorum. Quindi, che nessuna Coorte ha nome cominciante con Decu, e che quello che meno se ne allontana e si connette colla voce Voluntariorum, sarebbe la Cohors. I. Italica. Civium Romanorum. Vo- luntariorum (4), leggendosi eziandio come ai giorni di Tiberio, contem- poraneo di Virgilio Laurea, vi fosse in Palestina un Cornelio Centurio Cohortis que dicitur Italica ©); del rimanente, queste Coorti di Cittadini Romani salirono poscia almeno a trentadue (9), cosicchè la Cohors IY. non ha d’uopo d'essere sanata. Dopo Exercitus pongo Britannici traendolo dalla stessa cronologia dell'iscrizione, nella quale, come ho detto, rammentasi in Druso l'età di Tiberio, e poi l'essere stati i due Virgilii giudici delle IV Decurie, accenna tutt'al più all'impero di Caligola, che portolle a cinque 0). L’aver militato Laurea sotto Tiberio, è indizio che Paullino figliuol suo vissuto fosse ai giorni di Caligola e di Claudio; ora, i moti del primo contro Germania e Britannia furon semplici vanti, ed altra guerra non (1) A Vienna Allobroge, Orelli 3840, 3841; a Ginevra id. 256. (2) Livio, IV, 8. Publicorum ius privatorumque locorum. (3) Henzen Indici, pag, 137 in fine. (4) Kellermann, 269; Henzen, 6709. (5) Acta Apostolorum, X. 1; se era Italica, doveva essere ad un tempo di Cittadini Romani Volontari. (6) Muratori, 1101, 1. (7) Svetonio. Calig. 6. DI C. PROMIS. 529 rimane fuorchè quella fatta da Claudio ai Britanni nell’anno 43, alla quale la ragion de’ tempi permette che Paullino preso abbia parte, forse anche successivamente, in ambidue i gradi, cioè di Prefetto della Coorte II Italica de’ Volontari Cittadini Romani e di Prefetto de’'Fabbri. Nel qual ultimo posto avrà egli avuto a collega P. Glizio Barbaro, padre del Console e Praefectus. Fabrum. Claudii. Caesaris, come ricavasi dalla magnifica sua iscrizione in Torino (1), Stando le quali avvertenze, la chiusa dell'iscrizione verrebbe a questo modo restituita: PRAEF . FABRVM . PRAEF . COHORTIS . Il . ITAL c.r.voluntarlORVM . EXERCITVS . dritannici IR 09 L'ultima linea potrebbe contenere il solito Zocus. Datus. Decreto. Decurionum; ma i due Virgilii poterono anche essere stati Patroni della loro città nativa (la quale non consta che mai sia stata colonia ), ed in questo caso vi si leggerebbe la formola Asterses Patronis, oppure R. P. Astensium. Patronis, come in tantissime altre, e badando altresì che nel I secolo al nome di questà città non si premetteva l’ aspirata. Aggiungo che se non posso seguir lo Zaccaria volente che il /7eteranorum debbasi riferire allExercitus, che sarebbe composto di Veterani, vedesi però che sospettava di mala lezione a segno di dubitare della sincerità del marmo istesso (®), con sospezione eccessiva. C.TILLIVS.M.F C.TILIVS.M.F POL . VITAL POL . VITAL AST . VETERA AST . VETERA nVS . MILITAVIT NVS . MILITAVIT IN. Leg. ziil . ANN IN . BRITANN XXII . opTlo . BE Ile NEFICc:ARIVS . TRi BVNI.AN....LA. Via AN. XLI. MEN. VI (1) St. di Torino. N.° 140, 141. (2) L. cit. p. 155. Num genuina inscriplio isthec sit, non quero. Serie II Tom. XXVI. 67 530 CAPO VI. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO L'iscrizione a destra fu data dallo Spon (4), il quale alterò e mutilò quella a sinistra e del Guichenon ©). È dessa pure di Asti ed io qui la riporto a prova della sbadataggine dello Spon, il quale doveva pur ve- dere che, nella quinta linea, la menzione de’ ventidu’anni, comparata col Militavit e cogli anni quarantuno di vita, esprimeva la legione nella quale costui era stato, segnata con un numero d’ordine desiniente in.....I; ma egli fisso nel pensiero che le lettere ...... I ANN spettassero ad un sol vocabolo, le compiè con brItANNi4; ciò, mentre il paese nel quale erasi guerreg- giato non veniva quasi mai mentovato nelle lapidi de’ semplici gregali (8). Fu questa iscrizione ristampata recentemente (£; a questa ristampa io apposi qualche osservazione, ma la penultima linea, causa l' eccessiva corruttela del testo, mai non mi fu dato d’intenderla. Ad ogni modo, la menzione della Britannia è in questo marmo assolutamente erronea. CAPO SESTO. IH Torinese Caio Gavio Silvano, tribuno di Pretoriani , uccisore del filosofo Anneo Seneca. È noto dalle storie come da avarizia spinto fosse il filosofo Seneca a farsi cagione immediata, se non principale, della sanguinosa insurrezione de’ Brittoni contro Roma, accaduta l’anno Go dell’ éra volgare. Sono descritti que’ casi da Dione Cassio, ed io qui scenderò ad uno de’ più famosi misfatti di Nerone, dico l'uccisione di Seneca, per la quale, la narrazione fattane da Tacito negli Annali, comparata col dettato di una lapide To- rinese, manifesterà come l’uomo scelto a perpetrare il scellerato comando, fosse il nostro concittadino Caio Gavio Silvano, del quale in questo luogo favello, stato essendo uno de’ più segnalati soldati che in Britannia se- guissero le Romane aquile condotte da Claudio nell’anno 43. L'iscrizione sua in Torino, ben cognita agli epigrafisti, l'ho già data (1) Miscell. p. 158, N° 4. (2) Pag. 51. Veramente Guichenon ha IANN tutto di seguito. (3) Un marmo presso Maffei (87, 5) parla di chi fu (Zr Bri)tarnia. Ann. VII., ma era un gradualo. (4) G. Fr. Muratori. Asti e sue iscrizioni, N.° VII. DI C. PROMIS. 53L ed annotata altrove (1). Più volte aveva io letto ne’ libri di Tacito le arti e le scaltrite vie, per le quali fu Seneca condotto a farsi carnefice di se stesso, allorquando al carnefice imperiale più non poteva sfuggire; ma chi stato fosse l’esecutor delle Neroniane sevizie, la corruzione del testo di Tacito m’impediva di scernerlo, nè mi era dato conoscerlo d’altronde, di esso non facendo motto altri storici contemporanei o posteriori. Ogni cosa però si fe’ chiara, incontrato essendomi nelle nuovissime edizioni degli scritti di Tacito, ed avuto il paragone del Codice Laurenziano scritto nell'XI secolo, e dal quale derivan gli altri; dalle quali fonti emanò, come l’uomo, di cui discorro, fosse Gavio Silvano tribuno di Pretoriani. Dirò prima della lapide di Gavio, la quale costì trovata nell’anterior metà del XVI secolo, fu posta nelle case del Presidente Aiazza, d'onde passò nella collezione raccolta ne’ giardini ducali da Emanuel Filiberto e da Carlo Emanuel I, e vedesi ora nel palazzo dell’ Università. Nella severità sua spira dessa quella Romana concisione che nulla obblia, ogni cosa esprimendo con solenne e mai più raggiunta proprietà. C.GAVIO.L.F sTEL.SILVA'NO pr IMIPILARI . LEG . VIII . AVG tr IBVNO . COH. il. VIGILVM tr IBVNO . COH. XIII . VRBAN tr IBVNO. COH. XII . PRAETOR dONÎS. DO'NA'TO.A.DIVO.CLAVD BELLO'. BRITANNICO to ROVIBVS. ARMILLIS . PHA/eris CORONA . AVREA p ATRONO . COLONI ae DIE RO Stampavala anzitutto il Lionese Guglielmo Du Choul nel 1556 (?), giusta l’apografo di Gabriele Simeoni, il quale, due anni dopo, la riproduceva (1) Storia di Torino, N.° 142, pag. 356. (2) Discours de la religion des anciens Romains, Lione, p. 142. 932 CAPO VI. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO coi tipi di Lione e di Parigi (!); davala il Pingone nel 1577 ®, nell’'81 l’altro Savoiardo Claudio Guichard (8) e poco stante Aldo Manuzio il gio- vane (4. E siccome è di molta importanza e per le cose e pel contesto, non la obbliarono Smezio, Guichenon, Grutero, Lipsio, Ménestrier, Fabretti, Maffei, Muratori, Ricolvi, Bagnolo, Bonada, Donati, Orelli, Gazzera, Bois- sieux, Kellermann, Garrucci. Che Torinese sia questa lapide, fu impugnato dal signor Boissieux, che nelle antiche iscrizioni della sua città (®) disse Lionese il personaggio, sic- come ostentante la tribù Stellatina, alla quale ei credè ascritta Lione; ma era dessa della Galeria, come per molti titoli che ciò ricordano, con altri aventi la Quirina e la Voltinia; cosa significante essere stata Lugdunum, colonia Latina anzichè Romana, a differenza di Vienna Allobroge, ch’ebbe la piena cittadinanza, legionari essendo i cittadini suoi, ma non i Lionesi (6), Vi si aggiunga il Barone Chaudrue de Crazannes, che trovato un taccuino del Boissard con entro qualche lapide di Lectoure, unitamente a quella di Gavio, a questa città l’attribuì senz'altro; ma pienamente vi rispose il Gazzera 0). i È questo titolo leggermente infranto, come dimostrano le lettere re- stituite; è anche in alto dimezzato il prenome €, il quale però, nella metà inferiore, ch'è salva, col suo attondarsi in modo identico a quello delle C conservate, non ammette dubbio sulla sua lezione. Codesta let- tera fu veduta da Simeoni, Pingone e Guichard, e quantunque dimezzata, è tuttor riconoscibile; nè so comprendere come a parecchi dotti sia dessa parsa la iniziale L del prenome Lucius. Gli spiriti, segnativi sette volte, vi furono primamente notati dal P. Garrucci 8). Nella deduzione Cesariana della nostra colonia, oppure in quella Au- gustéa, è da credere che sian qui venuti codesti Gavii, o scesi dalla gente Romana così appellata, oppure da famiglie di clienti o di liberti suoi. I Gavii di Roma non vennero in fama fuorchè tardi nella persona di M. (1) Illustrazione degli epitaffi et medaglie, etc. p. 8. Cesar renouvele etc. Parigi. (2) Augusta Taurinorum, p. 106. (3) Funérailles des Romains, Grees ete. Lione, 1581, p. 59. (4) De quaesitis per epistolam. N.° IM. (5) Inscriptions de Lyon. 1854, p. 188. (6) Mommsen, Annali dell’ Istituto (1853), p. 83. (7) Accad. di Torino. N. S. vol. XIV, p. 64. (8) Z segni delle lapidi latine (1857), p. Ix. iO) DI C. PROMIS. 533 Gavio Massimo ai giorni di Antonino Pio prefetto del pretorio (!); poi nell’anno 165 ebbero un console in M. Gavio Orfito (®). Parecchi ne mentovava però già Cicerone (3), e sin da mezzo il VI secolo faceva Livio menzione di due Gavillii (4), il nome de’ quali proviene da Gavis, come da Atius, Manius, Sextius quelli degli Atili, Manihi, Sestilii e via dicendo. Sotto l'Impero si sparsero i Gavii per l’Italia, che ne annovera in quasi tutte le sue città, e singolarmente in Verona, con prevalenza de’ cognomi Caio e Marco, in memoria degli antichi loro (©), ma senza escluder gli altri, Pare che questo gentilizio venisse dalle Gaviae o folaghe, delle quali parla Plinio (9), amando i Romani di appellarsi dagli animali. Fu Gavio della tribù Stellatina, cioè di Torino o del suo agro; e questo era allor limitato dall’ Alpi, dal Po e dal torrente Malone, inchiudendo il Forum Vibii, ora Envie. In Italia erano della Stellatina Mevaniola in Romagna, Tarquinia e Gravisce nell’Etruria Pontificia, Urbino, Palestrina e Benevento. Ora, è canone epigrafico che, quando una lapide mentova la tribù d'un uomo, ogni qualvolta trovata siasi questa nell’agro tribule nel quale era censita quella città, ad essa devesi attribuire l’uomo; di- modochéè, la lapide di Gavio essendosi da noi trovata, cittadino della nostra città era egli, e tanto più che vi è detto Patrono della Colonia, onore sommo cui sollevavansi di preferenza i concittadini. È C. Gavio il primo patrono della colonia Torinese, M.GAVIO : È } CF. STEL che ci faccian conoscere i marmi, e probabilmente suo RR VEE nipote è codesto, la cui iscrizione, trovata nel 1802, CALLE è all’ Università; nell'angolo che rimane in alto, ha un AVGVstali G PERSI bellissimo ornato a foggia di antefissa, essendone le lettere affatto Claudiane. Ho notato nella Storia di Torino, cotne in Piemonte prepotendo la devozione ai Cesari e lievissima essendo l'influenza del Romano patriziato, all'ordine libertino degli Augustali sin dai primordii si ascrivessero costì gl’ingenui in gran numero, cosicchè di XL lapidi Torinesi che si conoscono rammentanti gli Augustali, XXV essendo di liberti, ben XV sono d’ingenui. Anzi da noi, quando i liberti eran fatti (1) Capitolino in Ant. Pio; Frontone, Epistola 1V. (2) Cardinali. Diplomi Imp. N. XXII; Henzen. N.0 6111. (3) Att. V, 20; VI, 1; Zerr. V, 61; pro Sextio, 33. (4) XLI, 5. (5) Borghesi, Opere, II, 27. (6) X, 48 e 95. 554 CAPO VI. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Seviri di quell’ordine, venivan nel secondo secolo ascritti in gran parte alla tribù Palatina e conferita loro la cittadinanza riserbata una volta ai soli ingenui. Molti esempi del paese nostro io ne addussi valevoli a de- cider la questione sull’ascrizione tribule dei liberti; ad Q.VA_ERIVS ) È ; i i CALAAOPAT ess aggiungo ora questo titolo trovato circa il 1815 a Ort, Trezzo presso Alba Pompeia (i). Forse dai Gavii trasse OpT 93: 3 | ANS nome la terra di Giaveno presso la foce di val di Susa, appellantesi Z7îcus Gavensis all’età di Carlomagno, e poi Gavenus (A. L. VALERIVS SEVERINVS GAVIAE.M.F. NGEN CONIVGI.SANCTAE AC PIISSIMAE . VIXIT ANNIS XXIII DIES.XXIIII CASTAPVDICADECENS SAPIENSGENEROSA . PROBÀ VIVI FECERE P.GAVIVS.P.F.SALVIVS L.GAVIVS.P.F.IVSTVS. III VIR SIBI . ET P.GAVIO.P.F.SALVIO. PATRI ._ CARPIAE.T.F. MITELLAE . MATRI G.GAVIO.P.F.MODESTO.VI.VIR.FRATRI GAVIAE . P.F.MAXIMAE. SORORI P. ANTONIO. P.F.SENIORI. III. VIR. P. ANTONIO .P.F.SECVNDO. SORORIS. FILIIS Ignoro in qual grado fosse apparentata col nostro quella Gavia, la quale sposatasi in uno degli Avillii d’Industria, fu madre di C. Avillio (1) Deabbate. Sulla villa di Pertinace (Alba, 1818), p. 352, Tav. 3.2 (2) Chron. Noval. III, 14; Mon. Hist. Patriae. Chart. II. N.° 509, 609. Nella seconda linea di questo titolo leggasi Quizti Sexti Luci. Libertus. Palatina ete. DI C. PROMIS. 535 Gaviano perpetuo patrono del suo Municipio, tribuno della legione III Gallica e flamine del Divo Cesare (!). Erano gli Avillii fra le principali famiglie dell’Augusta Pretoria (2). Nella prima di queste due iscrizioni (ch'è Torinese) la donna essendo detta figlia di Marco, è probabile che avesse a padre M. Gavio Gallo anzidetto. La seconda stava gia a Zaumellum, ossia Lomello, antica terra mentovata da Ammiano Marcellino (8) e dagl’Itinerarii, ed ora andò per- duta; sospetto tuttavia che il IIII VIR della linea terza debba esser mutato in IINITVIR, com'è nella penultima. Altra di un M. Gavius C. F. Ligus stava in Alba (4); altra, supposta a Paesana in val di Po, è Meyranesiana e falsa (9). Siccome plebeo, fece Gavio le prime armi quale gregario, giungendo poi per la bravura sua al grado di Primipilo, ossia di centurione de? Pilani della legione VIII Augusta. E siccome la quì mentovata guerra Britan- nica è quella di Claudio nell’anno 43, così leggiam nella lapide come in quella campagna acquistato egli avesse dapprima i premi minori, cioè Torqui, Armille e Falere, e salito al primipilato, avesse la Corona Aurea; se ne ricava eziandio come i quattro premi abbiali avuti in Britannia, poco prima della venuta di Claudio od essa durante. Poi, data 1’ ipotesi che Gavio fosse alla guerra Britannica come tribuno di Pretoriani, con- verrebbe ammettere che un tal posto egli avesselo occupato per più di ventidue anni, che son quanti ne vanno dal 43 al 65; cosa non. guari probabile. Mi attengo quindi alla solita promozione, per la quale egli gregario dapprima, quindi Primipilo nell’anno 43 ed in Britannia, fosse poi a Roma tribuno de’ Vigili, degli Urbani, dei Pretoriani, ch'era la solita gradazione attestata da mille lapidi. | Nè voglio pretermettere che in quella stessa guerra Britannica trovasi locato in grado altissimo un altro Torinese, dico Glizio Barbato padre del Console Quinto, il quale ne’ sparsi frammenti e da me ricomposti, della ma- gnifica iscrizione onoraria eretta a Claudio e che quì stava, è detto coman- dante del personale del Genio militare in quella spedizione; PRAEFectus. (1) Ricolvi, Sito d Industria, p. 42; Maffei, M. V. p. 231, 1. (2) Antichità d’ Aosta, N.i 7, 19, 20. (3) Lib. XV. L’iscrizione la dà il Puccinelli nelle Memorie sepolcrali dell'antica Badia Fiorentina e d'altri monasteri (1664), N.° 186, ed è anche in Reinesio, Syztagma, p. 447. (4) Guicheron, p. 53, in due esemplari, uno de’ quali corroUlissimo. (5) Durandi, Antiche città, p. 121. 536 CAPO VI. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO FABRum. CLAVDI. CAESaris. augusti. (!), essendochè da Claudio altra guerra non fu combattuta che quella Britannica. Le coorù Pretorie essendo allora nove e le Urbane tre, queste portavan la numerazione di X, XI, XII, susseguendo alle Pretorie; e quando que- st’ultime divennero dieci e più, la numerazione primitiva fu sempre ritenuta dalle Urbane (2). Qui debbo ‘avvertire che le coorti Urbane non furon portate da tre a quattro, nè da nove a dieci le Pretorie imperante Vespa- siano (3); imperciocchè, non solo la lapide di Gavio, ch'è anteriore all’anno 65, cioè a quello di sua morte, ma eziandio una di Claudio dell’anno 4g (®, mentovan la XIII coorte Urbana, che sarebbe la IV. Di questi tre corpi veglianti alla custodia di Roma e dell'imperatore, come pure de’ quattro premi militari avuti da Gavio, non dirò altro, come di cose ai. cultori dell’Archeologia troppo note. I premi e le promozioni ebbeli Gavio da Claudio, che molto amava gli antichi suoi commilitoni, e singolarmente se Traspadani fossero , lautamente guiderdonandoli, come ricavasi dai tanti marmi che a quella guerra si riferiscono. Nell’ anno 65, decimoprimo dell'Impero di Nerone, fu avvolto Gavio in una di quelle congiure, che eziandio tramate contro un Principe nefando, attestano sempre i corrottissimi costumi d’un popolo; imperciocchè, qua- lunque siasi la scelleratezza della vittima designata, abbisogna a chi si fa socio di congiure tale un viluppo di perfidi silenzi; di accontamenti con uomini spregiati ed infami; di cieca e stolta obbedienza ad ignoti e futuri ordini di sangue; di spiagioni e raggiri; d’inganni e spergiuri verso colui che dà o diede onori e lucri, e verso nessuno nessuna pietà, da far ma- raviglia come fossero e siano riputati eroi uomini arrogantisi il mandato di mutar governo e governanti coll’arti del traditore e dell'assassino. Da questa peste fu invasa la società Greca, fu invasa la società Romana che ne trasmise l’eredità alle nazioni di sangue latino e più di tutto alla sua primogenita, la quale nell'età del risorgimento e nella nostra, con arti (1) Storia di Torino, N.° 140. (2) Borghesi, V, 101. (3) Rénier, Revue Archeol. (1864), p. 213; egli avvertiva però che la Xa Urbana due volte nei marmi è detta Ia (4) Orelli, 712. ‘© 0 DI €. PROMIS. 37 (6, siffatte, tante vite spense di principi, tante d’innocenti, per togliere un uomo odiato, ciò solo lucrando che l’offeso od il successor suo vieppiù stringessero il freno. Ebbe poi anche l'Italia chi si fece regicida, perchè trovava nell’antiche storie levato a cielo l'assassinio d'un re; plagiarii erano, ma plagiarii pessimi. Tramata fu la congiura da C. Calpurnio Pisone uomo ricco di virtà 0 simulandola con finte apparenze (!), cosa piacente ai più, dice Tacito, che in tanta comodità di vizi amano che gli uomini di governo non troppo al tirato vadano ed al ristretto; poi, come sempre, vi ci vollero dei soldati e furon tratti nella congiura Gavio Silvano e Stazio Prossimo tribuni di Pretoriani, A prova che il tribuno Pretoriano mentovato da Tacito negli Annali ai capi 5o, 60, 71 del libro XV sia veramente il nostro, dirò che l’iscri- zione lo chiama C. Gavio Silvano tribuno della XII coorte Pretoriana e censito nella tribù Stellatina, cioè Torinese; dove fa d'uopo notare che Tacito, con quasi tutti gli autori latini, non mentova le persone sotto i loro tre nomi, ma soltanto sotto due od uno solo, cioè gentilizio o cognome, oppure ambidue, pretermesso il prenome. Ora, nelle edizioni anteriori al- l’anno 1864 si ha Cranius o Granius, o Gravius Silvanus e nel codice di Buda Caius Silanus; il qual prenome, ch'è quello del nostro, starebbe se non fosse che, come dicemmo, i prenomi Tacito non li enuncia. Ma nelle ottime edizioni date nell’ ultimo decennio da Baiter, Nipperdey e Ritter, essendosi seguito anzitutto il Codice Laurenziano di Firenze, ch'è fonte degli altri, al capo 60 avendosi Gravius, in quelli 50 e 71 leggesi chia- ramente Guvius, della qual lezione, a mia richiesta, accertossi sul Codice stesso il collega Conte Vesme (2). Nè men rettamente procede la questione cronologica giusta Tacito e l'iscrizione. In questa è fatta parola del Divo Claudio, con ciò significando che fu innalzata non molto dopo l’anno 54 ch’è quello della sua morte e deificazione; badando poi agli anni che ci vollero affinchè il plebeo Gavio percorresse un così segnalato cursus hRonorum, converrà dire che gli fosse eretto il marmo verso la metà dell'impero di Nerone, cioè circa (1) Tacito, Arr. XV, 48. (2) Così pure |’ Ala Taurina, trascorsa ne’ codici e negli stampati di Tacito, per errore degli amanuensi e degli editori (ist. 1, 59, 64), ma della quale io già dimostrata aveva l’ impossibilità (St. di Torino, p. 379); nel Laurenziano è Tauriana, cioè di Galli ( Rénier. Zrser. de V Algérie, N.° 1534); poi quand’anche, e sull’autorità di Giusto Lipsio, si volesse leggere Auriaza, sarebbe questa d’Ispani (Christ. Dipl. di Weissenburg). Serie II. Tom. XXVI. 68 538 CAPO’ VI. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO l’anno 59, che sarebber sei anni prima che il nostro venisse a morte. Dalle parole di Tacito risulta ancora che tra il filosofo di Spagna ed il soldato Piemontese vi fosse antico vincolo d’amicizia ; ora, tribuno questo di Pretoriani, doveva per necessità godere della confidenza del prefetto Burro collega di Seneca nell'educazione di Nerone, poi per l'elevato grado e la diuturna frequenza del palazzo imperiale aver avvicinato il filosofo. La qual conoscenza fu anteriore alla nomina di Gavio a tribuno de’ Pre- toriani, perchè nei primordii del suo impero e quando invaghissi Nerone della liberta Acte, bassamente favoriva questi amori un Anneo Sereno consanguineo e famigliare di Seneca (!), e sappiam da Plinio che costui era prefetto de’ Vigili per Nerone (®) e morì prima di Seneca che lo pianse (8). Quindi probabile cosa è che Sereno fosse prefetto in quell’arma quando Gavio uscì dalla legione VIII per passare prefetto della coorte TI de’ Vigili; vale a dire che facile e quasi necessaria cosa gli fu di conoscere il filosofo per mezzo del collega Anneo Sereno. E con ciò si ha in ogni punto piena concordanza tra l’ Annalista e la nostra lapide. Dissi altrove come costanza molta dimostrasse Claudio nel benevolo e sapiente pensiero di rialzar le stirpi occidentali cui Roma, per lungo odio, teneva a sè inferiori escludendole dal pien diritto, o se già per beneficio di Cesare lo avesser ottenuto, loro impediendone I’ applicazione e l’uso; e come siffatta generosità la spiegasse Claudio singolarmente in favor dei Traspadani (4. Nella sistemazione delle guardie Pretoriane, Tiberio (po- nendole a tutela di sè e di Roma) servendo alla Romana plebe, le volle di purissima origine, cioè dell'Etruria, dell’ Umbria, dei primi Latini, delle Romane colonie antichissime (5), in altri termini venute soltanto dalla zona 2 che immediata cingeva il Pomerio, vale a dire, del più incontaminato sangue plebeo; nativi infatti di quelle regioni le dimostran le lapidi più vetuste. Muore Tiberio e poco dopo allarga Claudio quel diritto consue- tudinale a tutta Italia ed in ispecie al Traspado, promuovendo nelle Coorti Pretorie ai primi gradi uomini, che ai Romani dovevano parer nuovissimi, come il nostro Gavio da lui fatto tribuno di Coorte, dopo coperti gradi eguali ne’ Vigili e negli Urbani. (1) Tacito, Anz. XIII, 13. (@) H. N. XXII, 47. (3) Epist. LXIIT. A lui manda il filosofo il suo libro De tranquillitate animi. (4) Storia di Torino, p. 90, e segg. (5) Tacito, Arzal. IV, 5. DI C. PROMIS. 539 Scoperta la congiura e sostenutine due de’ principali affigliati, questi svelaron la trama e gli autori suoi. Allora fu trovato complice Seneca (1), al quale Nerone (bramoso d’avvilir ed infamare i congiurati col farli giudici e carnefici de’ compagni) mandò appunto il tribuno de’ Pretoriani Gavio Silvano ad interrogarlo. Questi, saputo giunto Seneca in una sua villa su- burbana, la circondò di soldati; quindi con lui abboccatosi, tornò da Nerone a ripeterne le parole, aggiungendo che nmiun segno di timore, niuna tristezza veduto avevagli in viso; torna, disse il Principe, e digli che muoia. Narravasi allora come Gavio non avesse rifatta sua strada, ma che, quasi a procrastinar l'istante di sua colpa, portato si fosse da Fenio Rufo, prefetto del Pretorio ® ed uno de’ congiurati, a dirgli la cosa e chieder ordini; n'ebbe risposta che facesse. Tanta era la viltà in chi tra- mava un sì gran fatto, da fare scrivere a Tacito, come il congiurato Gavio, colle sue more, nuovo delitto aggiungesse ora a quelli de’ quali voluto aveva farsi vindice. Però, non avendo cuore di udir la voce dell’amico infelicissimo o di vederne il viso, nunzio di sua morte, mandògli un cen- turione; al modo stesso cadeva pur allora Plauzio Laterano, essendone uccisore il tribuno Stazio, della congiura complice esso pure. Contro i prefetti ed i tribuni del Pretorio, come rei di militar delitto, specialmente infieriva Nerone; dannati Fenio e Scevino, fu perdonato a Gavio, compratosi l’indulto colla bassezza di sua condotta, e che poscia, dilaniato dal rimorso, benchè assolto, di sua mano si uccise (8), Gavio cospira, poi per comando di chi più odia, all'amico Seneca, suo socio di congiura, intima che cessi di vivere; questi muore per fatto suo diretto ed egli, per sfuggir all’infamia ed a se stesso, volontario esce di vita. I quali delitti e spergiuri e doppi tradimenti e morti ad altri ed a sè recate, fuori dell’umana natura forse appariranno a chi non sia sceso ne’ penetrali di quella società in tante cose così disforme dalla nostra. Augusto in sè concentrando la podestà tribunicia, erasi fatto sacro; pog- giando con Cesare sull’amor delle plebi e da queste adorato come suo vindice contro l’antica aristocrazia, tutto osò, smoderata, ma legale, es- sendo la sua possanza; egli ogni cosa potè, per sè avendo l’esercito e l'ardente passion politica de’ plebei, che dal Senato oppressi, conculcati, (1) Tacito, Arr, XV, 60, 61. @) XIV, 51; XV, 61. (3) Loc. cit. cap. 61. 540 CAPO VI. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO spogliati, contro gli ottimati ora si levavano guidati da un capo da essi sorto e, come tribuno, reso sacro. L'esercito imperiale poi, altro non fu in politica, che la plebe armata, le plebee passioni corroborando colla disciplina e col valore. Per obbedire ai Cesari la vita propria spregiavano e l'altrui, giusta quella militar natura formatasi in repubblica, rassodata ora e tutta volta a servir l'impero; tanta era in que’ soldati la venerazione per la casa Augusta, che uccisine parecchi, davan ad essi de’ successori dello stesso sangue. Il fanatico amor delle plebi apparve nei finti Neroni che sorsero dopo la sua morte e che sulla plebe tutti fecero fondamento; l’odio di esse contro chi nato fosse ricco ed illustre, si condensa nel motto del ciabattino Vatinio, con adulazion finissima, dicente a Nerone nel colmo di sua possanza: Zo #'odio perchè sei senatore (!). Ma queste son cose eterne, e l’uomo che a fin di potenza non si appoggia che sulle plebi, sposandone gli odii ed i rancori per porsene a capo, quell’ uomo vuol diventare e diventa tiranno, chiamandosi Nerone nell’antica, Robespierre nella novella età. I re e la repubblica assuefatti avevano i soldati Romani alla più cieca obbedienza verso i capi, ed il virtuoso abito, passato in natura, si fa ma- nifesto in quelle tante politiche turbazioni, in cui le reduci milizie, tornate cittadine, stanno silenziose ma inconcusse contro gli ottimati, ai quali obbedirono ed obbediranno in campo nel più assoluto modo; poi nel cader de costumi, fu servata quell’obbedienza dal lungo star sotto l’armi, che Tiberio ridusse poi a vent'anni (®. Così educati gli eserciti pronti erano a qualsivoglia comando di Cesare, nè mai distinguendo tra il cieco os- sequio e la coscienza di un compiuto dovere. Eppure, già stava codesta distinzione ne’ petti e nelle lingue de’ Cristiani, nè a Seneca poteva essere sconosciuta; a chi legge i martirologi frequenti occorrendo le risposte de’ soldati innanzi al carnefice tranquillamente dicenti: /n ogni cosa ci avrai obbedienti, o Cesare, ma contro Dio e la nostra coscienza giammai (©). Qui pongo termine a codesta storia di delitti e di sangue, nella quale trovossi avvolto il nostro concittadino C. Gavio Silvano, che pel suo (1) Tacito, Ann. XV, 34; Dione, lib. LXIII. (2) Ann. 1, 78. (3) S. Eucherio in Gallia Christ., X, 397. Dalle bocche de?’ filosofi, tutti codesti martiri fecero passare nella coscienza de’ popoli il Ratiorabile obseguium di S. Paolo. DI C. PROMIS. 541 valore salito al comando di una coorte pretoria, cospira coll’aio del Prin- cipe; che a Seneca, amico e socio di congiura, per Nerone intima la morte, poi per emenda ricorre alla fatale e volgar virtù del suicidio; virtù, dico, di secoli corrotti, come se l’uomo non dovesse abborrire da qualsivoglia turpitudine, anzichè commetterla prima, poi con delitto contro di sè far emenda dei delitti contro gli altri. La pratica del suicidio, ignota ai secoli virtuosi, è triste gloria di popoli guasti e decrepiti; tristo rifugio di chi per aver pace colla propria coscienza, o piuttosto per non sentirne i ri- morsi, risolve di precipitarsi nel nulla. Che quanto ai suicidi volgari, quasi unico e perpetuo motivo n'è il freddo egoismo, vizio addicentesi ad età guaste, come la carità verso gli altri adorna ed abbella gli uomini forti e virtuosi. L'altro personaggio, di cui mi occorre parlare, è il fi- !. ANNEO losofo L. Anneo Seneca. A pag. 494 della Storia di Torino M.F ho riferita la lapide a lui posta costi, e che data nel 1508 SENECAE dal Maccanéo (i) come stante ir parietibus magnifici Sci- pionis Charae, vedevasi settant'anni dopo sovra una porta della casa del Pingone (®, apparendo poi dal Guichenon che a’ suoi giorni fosse nel giardino del castello (8) e quindi essendo andata perduta, senza che la trovi ricordata dai biografi del filosofo. Ritenendo l’errore del Pingone, nè conoscendo SEME MORE il primo editor Maccaneo, parve al Bagnolo (4) SI ONIS E di doversi emendare Anneo (ossia Annaeo) in SECVNDVS RE } VIVIR SIBI ET Annio, ch'è tutt'altra gente. Abbiamo anzi nel ANNEAE > LIB ADIVTRICI VXORI ET ANNEAE MEROE TSE nostro Museo quest'altra iscrizione provante come la gente Annea fosse in Torino (5), e vi avesse de’ liberti. Dei cognomi Seneca, Senecio (Vecchio, Vecchietto), che qui non mancano, non è da farne caso. (1) Cornelius Nepos, f.° D. II. (2) Pag. 98. (3) Mist. genéalogique, p. 62. (4) Gente Curzia (1741), p. 197. (5) Maffei, 217, 6; Ricolvi, II, 81. I nostri Annei, non parendo originarii di Roma, potrebbero provenire da clienti o liberti degli Annei di Spagna, che ai giorni di Nerone coprirono in Roma così elevati gradi. 542 CAPO VI. - ISCRIZIONE DI CATAVIGNO Nel luogo citato io aveva pure proposto che in questo marmo (i nomi e la paternità rispondendo a quelli del Filosofo) si avesse a riporre il prenome Lucius mancante per frattura o per corrosione: e che il titolo ci richiamasse un busto od una statua innalzatagli nelle scuole o nel foro di Torino, quand'era Seneca nel fiore di sua potenza e fama (4). A quanto esposi io vedo una nuova conferma nelle parole di Tacito dicente come Seneca e Gavio congiurassero uniti, cosa presupponente un'antica amicizia; nell'educazione di Nerone essendo Seneca collega con Burro prefetto del Pretorio; ragion vuole che una certa famigliarità vi fosse anche coi tri- buni pretoriani, cioè cogli ufficiali superiori più prossimi al prefetto. Dalle quali cose deduco, che l’amicizia verso Seneca di Gavio, Torinese e pa- trono della città sua, molto abbia valso a far sì che i nostri ponessero a Seneca, insigne per lettere e per l'aura imperiale, un ricordo con questo titolo. Così alla nostra Minicia Petina fu qui alzata un'epigrafe dagli abitanti di Lebedah presso Tripoli (Zeptis Magna), sol perchè moglie di Rutilio Gallico, che ne aveva liberato il territorio dalle invasioni dei circostanti barbari (®) Della vita di Seneca hanno scritto molti moderni dopo il Lipsio, lo Scotto, Martin Del Rio, che fatti ciechi per troppa venerazione, non vi- dero come in lui le opere troppo differiscan dai dettati; più savi Win- kelmann, Rosmini e Tiraboschi, studiatine i libri e vistane la condotta, lo dissero un ipocrita. Alfieri lo esalta, Alfieri che dell’antica storia nè sentimento ebbe, nè studio: che contro l’espresse parole di Tacito, fa truce Nerone nel viso e ne’ colloquii, mentr’ era seducente e blando (8): Alfieri pel quale è Cesare un aristocrate, democrati i due Bruti: che fa un eroe del folle figlio di Filippo II. Ora dirò come pensato abbiano del Filosofo gli storici Romani che meglio a lui attesero. Dione Cassio (che non essendo Romano, si propose nelle sue storie di magnificar la grandezza de’ Cesari anzichè di Roma) di Seneca, ammi- rator degli ottimati, altro non narra che vizi; in sue brevissime parole lo (1) Tanto dice Sidonio (Epist. IX, 9) rammentando i ritratti di tredici filosofi. (2) Storia di Torino, p. 498. Di questo Rutilio, che fu console, ne discorro ivi a lungo, e forse trovavasi nell’esercito del proconsole d’ Africa Lucio Pisone quando essendo devastato il territorio di Leplis da Oeensi e Garamanti, ei vi accorse e lo liberò. Tacito, Hist. IV, 50. (3) Hist. XIV, 56. Mero factus natura et consuetudine exercitus, velare odium fallacibus blan- ditiis. DI C. PROMIS. 543 taccia Svetonio d’ invida vanagloria ; come e perchè abbia ucciso la madre, manda Nerone ragguaglio al Senato, e Quintiliano ne fa autore Seneca, di cui soggiunge che se negli scritti suoi alcuni punti avesse trascurato, se stato fosse più scarco di desideri, se troppo non avesse amato le cose sue, se attenuato non avesse la sostanza per le parole, avrebbe Seneca il consenso de’ dotti (!); Tacito che nelle sole genti senatorie pone il sublime di Roma, di Seneca, che una stessa parte segue in politica come in fi- losofia; assai rimessamente parla, e quando ne piange la sorte e uomo lo dice d’ingegno piacevole (®, pur enumerandone tutte le più amare incol- pazioni, le pone in bocca a P. Suillio (8); piuttosto per non farsene au- tore, che per tacerle o moderarle. Parecchie sentenze di Seneca spiranti una sapienza affatto Cristiana , fecero già credere che sue veramente fossero le otto epistole da lui scritte a S. Paolo in risposta alle sei di questo; nella qual opinione convennero scrittori di non poca critica per la loro età, dico i santi Gerolamo ed Agostino (4), rigettandole però i moderni, come foggiate sui libri di quei due. Ad ogni modo (posto che le lettere a noi pervenute, quelle siano di cui parlan que’ due Santi Padri) sarebber desse almeno del IV secolo e talmente consuonano cogli scritti di S. Paolo da far pensare a’ più as- sennati che, in origine, qualche cosa vi sia di vero, valendo esse a far risalire ai primi secoli le grandi somiglianze di dottrina che corrono fra i due scrittori; è dunque credibile che composte fossero circa il secolo II e per esercitazione di qualcuno pensante che se Paolo e Seneca car- teggiato avessero, sì l’avrebber fatto a quel modo; così fuvvi chi finse lettere di Falaride, dagli scrittori del basso impero tenute per sincere; così, non molto dopo la morte di M. Aurelio, correvan supposte lettere di esso e di Faustina sua, le quali da Vopisco inserite furono nella vita di Avidio Cassio; così a Sallustio furono attribuite lettere a Giulio Cesare circa il dar sesto alla Romana repubblica. (1) Zrst. Orat. VIII, 5, 18; X, 1, 13. (2) Ann. XII, 3. Zegenium amonum et temporis eius auribus accommodatum. Goloro che scrissero di Seneca convengono in genere sul rispetto molto e sul poco affetto che verso lui dimostra Tacito. (3) Ann. XIII, 42. (4) De scripit. Eccl. cap. 12; De civitate Dei, VI, 10. È però sconosciuto se fossero le epistole a noi giunte, oppure altre. 4 CAPO VI. - ISCRIZIONE DI CATAVIGNO A spander luce su codesta questione addurrò una lapide trovata presso ad Ostia nel 1866, D. M. M. ANNEO PAVLO. PETRO M. ANNEVS . PAVLVS FILIO. CARISIMO tosto messa in luce e con sagacissimi raziocinii illustrata dal Comm. G. B. De’ Rossi (1). Notava il grande epigrafista che del nome Petrus non si conosce esempio pagano; che il Petrus Paulus è reminiscenza evidentissima dei Principi degli apostoli; che in occidente rarissimi furono, anche nel IV secolo, que’ nomi; che principale e ripe- tuto è qui il cognome Paulus, quello di Petrus essendone concomitante; che il prenome Marcus ebbelo Gallione fratello di Seneca al cui tribu- nale in Acaia fu tradotto S. Paolo; dimostrò infine come con ragioni cronologiche sia provato che l’apostolo dovette conoscere il console Seneca, come quello cui nel consiglio di Nerone toccava di esaminarne la causa @®). Cred'egli che (malgrado il D. M.) Cristiano sia l'epitafio, e che quell’uso di cognomi apostolici, per tradizione vivente fra gli Annei, si riferisca all’amicizia corsa tra Seneca e S. Paolo; giudicato questo in Corinto da un consanguineo del filosofo; consegnato in Roma a Burro prefetto del pretorio, di Seneca collega ed amico « la presenza del prigioniero Giudeo « predicatore della novella dottrina destò l’attenzione di #tt0 il pretorio « e di molti nella casa di Cesare » (8). De’ precetti di Seneca nulla di più nobile, elevato, umano, Cristiano; le opere sue, non dirò che oltrepassano, ma che pareggian quelle dei peggiori. Egli immerso nel lusso, nelle usure, negli adulterii, nelle dop- piezze, nella piacenteria, egli laudator perpetuo della schiettezza e man- suetudine di Nerone, egli debitore all’impensata sua morte di non averlo potuto vituperare estinto, come vituperato aveva Claudio già da lui vi- lissimamente adulato; nè la sdegnosa scuola Stoica da Seneca seguita, nè le fiere virtù Romane, nè l'amicizia dell'apostolo delle genti, nè il vivo esempio di tanta forza e soavità ne’ perseguiti, ed a lui ben noti, seguaci di Cristo, poteron trarre l’aio di Nerone a porre in accordo i fatti e le parole. La fama del suo retto dire e del tristo operare, meglio che (1) Bollett. di Archeol. Cristiana (1867), p. 6. (2) Dione, LIII, 21. Allora, cioè nell’anno 57, Seneca fu console nel secondo semestre. (Derossi, Bullettino (1866), p. 60, 62). Lieve dunque fu l'errore del Borghesi (Opere, IV, 396), che lo an- ticipò d’un anno. (3) S. Paolo ai Filippensi Epist. T, 130; Acta Apostol. XVIII, 12, 14. DI C. PROMIS. 545 altrove dura in Piemonte, ove ad una cosa sua vien paragonato chi mal si comporta dopo favellato maestrevolmente (1). i Che se chi alta e cristianamente si governa, non può che condannarlo, ne ha ragione in tre sentenze ch'egli stesso pone nell’epistole XXIV e LXXV: Non hominibus tantum, sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua. Turpe est aliud loqui, aliud sentire; quanto turpius, aliud scribere, aliud sentire? Quod sentimus, loquamur ; quod loquimur, sentiamus. Conchiuderò dicendo, che coloro i quali pensano che le correlazioni tra il filosofo e l’apostolo altro fondamento non abbiano che le benevole brame di chi vorrebbe che la morale esposta da Seneca fosse, non già derivata, ma ordinata, rischiarata, ampliata dai colloqui con S. Paolo, hanno contro l’opinione loro i tre fatti che qui riassumo. Ad Anneo Gallione consanguineo di Seneca e giusdicente nel tribunale di Corinto fu tradotto S. Paolo, ch’ei fece tosto rilasciare. Fu tradotto in Roma avanti al consiglio di Nerone; ora in esso sede- vano i consoli dell’anno, ed una tavola Arvalica, recentemente scoperta, mostra che il Filosofo era allora console e quindi vi assisteva. È palesato dalla lapide Ostiense che nella famiglia degli Annei, oppure in una di lor liberti, venivan tramandati i nomi de’ Principi degli apo- stoli, come ad ossequio di persone riverite usavano i Romani. Nella novella edizione del suo bello e dotto libro sopra Seneca e S. Paolo (), il signor Carlo Aubertin nega che nessun rapporto vi sia stato mai tra que’ due. In questa recisa negazione mi pare di vedere l'influenza della scuola da lui seguita ; come nell’affermativa assoluta, vedo volontieri l'influenza della scuola opposta. In codesta questione pochissimo v'ha di assolutamente certo, oltre il contatto giudiziario tra S. Paolo, Seneca e Gallione. Ma, come mai si potrà ammettere che Seneca, così curioso e sollecito indagatore d'ogni novità filosofica, avendo tutto l’agio di studiarla, pur non abbia voluto conoscere questa riforma o nuova setta religiosa, che le leggi Romane potevan confondere per ignoranza o per disdegno colle cose Ebraiche, ma dai Giudei odiatissima era; e poi, non solo predicava, ma poneva (1) La gallina di Seneca canta bene e raspa male. (@) Sénèque et S. Paul. Études sur les vapports supposés entre le philosophe et l’apétre. Parigi, 1857, 1869, Serie II. Tom. XXVI. 69 546 CAPO VI. — ISCRIZIONE DI CATAVIGNO, DI C. PROMIS. in opera i più puri precetti degli antichi filosofi, illuminati ed abbelliti da una vampa ardentissima di carità? Di filosofi ben parlanti, molti sen’ ebbero, e Seneca tra essi; ma d’uomini bene operanti sempre fuvvi penuria, e la religione Cristiana tolse a moltiplicarli, presentando il più compiuto sistema d’una possibile perfettibilità, che mai sia stato al mondo; a’ suoi discepoli chiedendo non già che raggiungessero, ma che sempre più s’appressassero all’ Uomo-Dio. Questo mirabile corpo di dottrina l’offriva S. Paolo, esponendolo con infiammate parole; dottrina comprensibile ai dotti, ma molto più com- prensibile agl’ infelici nella sincerità del cuore cercanti giustizia senza trovarla. 547 INDICE CAPO PRIMO. L'iscrizione Cuneese di Catavigno figlio d'Ivomago, nato probabilmente al confluente della Stura col Gesso e soldato nella Coorte INI de’ Britanni, ossia de’ Brittoni, ai tempi dell’imperator Traiano, illustrata col sus- sidio di parecchie altre delle terre contermine a quella città. Analisi QEMISUON AU MOM SR RTI REALI VIAN NISSAN SISI Pic. 465 CAPO SECONDO. Coi vocaboli Britanni e Brittones /u fatta distinzione, non tanto tra il popolo conquistatore ed il conquistato, quanto tra chi avesse diritti politici e chi non ne avesse punto. L'appellativo Britannicus deriva dai primi, dagli altri l'appellativo Britannicianus. Scrittori e monu- menti ricordanti questi due popoli. Mutazioni nella loro denominazione. » 493 CAPO TERZO. Furon detti Brittones ? popoli tributari dell'isola, ossia provinciali, con quelli della porzione indipendente. Il servizio militare fu da essi com- piuto esclusivamente nelle Coorti ed Ale Briltonum. Lapidi e diplomi VIMCONOCAOMCNES CIOMUUESONO O O SN I » 502 CAPO QUARTO. I Britanni, siccome Coloni e Municipi, essendo cittadini Romani di diritto Italico, militarono separatamente dai Brittones in Coorti ed Ale speciali nonchè ne Fanti Singolari. Essi soli, fra quegl isolani, fornirono ca- valleria, e le loro Ale e Coorti furon dette Britannicae. Prove desunte dai marmi e dalle tavole di congedi militari. ................ » 547 548 GAPO QUINTO. Di due iscrizioni, ch' erano în Asti, quella di P. Virgilio Paullino non fa menzione del Veteranorum Exercitus, ma probabilmente dell’Exercitus Britannicus; in quella di C. Tillio Vitale non è mentovata la Britannia. PAG. 526 CAPO SESTO. Il Torinese Caio Gavio Silvano, tribuno di Pretoriani, uccisore del filosofo Anneo Seneca ao) o OI, RI, RE CRANE SR MIT » 530 SSD Un B=-S do) INDICE CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE Lorenzo Coster; Notizia intorno alla sua vita ed alla inven- zione della tipografia in Olanda; per Domenico CarutTI . pag. 1 SaGGIO CRITICO intorno a Properzio e ad una nuova edizione della Cinzia: PEER O MENICORCARUTTIA MN MC N 23 Monete delle Zecche di Messerano e Crevacuore dei Fieschi e Ferrero; Memoria di Domenico Promis. |. . . . .. » 63 La prIMA Tavocra pi ErackeA, illustrata da Amedeo Perxron » 139 DeLL’inpusTRIA DELLE MINIERE nel territorio di Villa di Chiesa (Iglesias) in Sardigna nei primi tempi della dominazione ara- gonese; del Conte Carlo Baupi pi VesmE . . . . . . » 225 L’Iscrizione CuneEse di Catavigno figlio d’Ivomago, soldato nella coorte III de’ Brittanni, illustrata da Carlo Prowis, con dichia- razione di alcune difficoltà nella storia antica dell’ Inghilterra CRAMPI Ne IR N 00 (i di : Arai 4, SUOLAOTA di ISAIA 1 x x " : i 4 bi mo LL: ul dll. di ì PAVI n à FIATI AO FL VO Si stampi: FEDERIGO SCLOPIS, PRESIDENTE. Ascanio SoBrERO È Segretarii. Gaspare GORRESIO 0 LE AV VERITA SSA INIAOO RRRA ii, sati ONOR: DO dk rari di i e "gl È pu tar Di Ca a % Pi È A 3 Ù x fi ’ ; ' " pu ; È i n i D, E % va * n Pal di & (PE i CÀ » i \ È È % r Ì Ù d ui N » î È a Pi ; 5 3 % » 3 } né x n x Ù n » IUDLLORIL TAI