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Delponte » i VII ELENCO DEGLI ACCADEMICI RESIDENTI, NAZIONAII NON RESIDENTI, E STRANIERI Al. I GENNAIO MDCCCLXXVIII ACCADEMICI NAZIONALI Presidente S. E. ScLOPis DI Salerano, Conte Federigo, Senatore del Regno, Ministro di Stato, Primo Presidente Onorario di Corte d'Appello, Pre- sidente della Regia Deputazione sovra gli Studi di Storia patria, Socio della R. Accademia dei Lincei, Socio non residente della Reale Accademia di Scienze mor-ali e politiche di Napoli , Membro Onorario del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Socio corrispondente del Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Socio Straniero dell' Istituto di Francia (Accademia delle Scienze morali e politiche). Socio Straniero dell'Accademia Americana d'Arti e di Scienze di Boston, ecc., C. O. S. SS. N., Gr. Cord. *, Cav. e Cons. Onorario #, Cav. Gr. Cr. della Concez. di Port. , Gr. Ufliz. dell' O. di Guadai, del Mess. , Cav. della L. d' O. di Francia , ecc. ecc. Vice-Presidente RicHELMY, Prospero, Professore di Meccanica applicata e Direttore della Scuola d'Applicazione per gì' Ingegnei'i, Socio della R. Accademia di Agricoltura, Comm. *■ , Uffiz. dell' O. della Cor. d'Italia. Serie II. Tom. XXX. 2 vili Tesoriere SisMONDA, Angelo, Senatore del Regno, Professore emerito di Mine- ralogia , Direttore del Museo Mineralogico della Regia Università , Socio della R. Accademia di Agricoltura, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio corrispondente delle Accademie Pontificia e Reale dei Lincei, Membro della Società Geologica di Londra, e dell' Imp. So- cietà Mineralogica di Pietroborgo, Gr.Uffiz. *, #, Gran Cord. dell'O. della Cor. d'Italia, Cav. dell'O. Ott. del Mejidié di 2.' ci., Comm. di i.' ci. dell'O. di Dannebrog di Dan., Comm. dell'O. della St. poi. di Sv., e dell'O. di Guadai, del Mess., Uffiz. dell'O. di S. Ciac, del Mer. Scient. Leti, ed Arti di Port., Cav. della L. d'O. di Francia, e Comm. O. R. del Br., ecc. IX CLASSE DI SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE Direttore SisMONDA, Angelo, predetto. Segretario Perpetuo SoBRERo, Ascanio, Dottore in Medicina ed in Chirurgia, Professore di Chimica docimastica e Vice-Direttore della Scuola d'Applicazione per gli Ingegneri, Membro del Collegio di Scienze fisiche e matematiche, Presidente della R. Accademia di Agricoltura, Comm. *, ^, Ufiiz. dell'O. della Cor. d'Italia. ACCADEMICI RESIDENTI SisMONDA , Angelo , predetto. SoBRERO, Dottore Ascanio, predetto. Cavalli Giovanni, Senatore del Regno, Tenente Generale, Coman- dante dell'Accademia Militare , Membro dell'Accademia delle Scienze militari di Stoccolma, Socio Onoi'ario dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena, e del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Gr. Cord. *, #, Comm. ©, Gr. Uffiz. dell O. della Cor. d'Italia, decorato della Medaglia Mauriziana pel merito di dieci lustri di militare servizio, Gr. Cord, degli Ordini di S. Stanislao e di S. Anna di Russia, Uffiz. della L. d'O. di Francia, dell'O. Milit. Port. di Tone e Spada, e dell'O. di Leop. del B., Cav. degli 0. della Sp. di Sv. , dell' Aq. R. di 3.^ ci. di Pr. , del Mejidié di 3.' ci. , di S. Wlad. di 4." ci. di R. , Gr. Uffiz. dell'Ordine Tunisino di Nichàn Iftokha. RicHELMY , Prospero , predetto. Delponte, Giovanni Battista, Dottore in Medicina e in Chinirgia, Professore di Botanica e Direttore dell'Orto botanico della R. Università, Socio della R. Accademia di Agricoltura , Uffiz. * e Comm. dell'O. della Cor. d'Italia. Genocchi , Angelo , Professore di Analisi infinitesimale nella R. Uni- versità , Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze , Socio della R. Accademia dei Lincei, Uffiz. %i e dell'O. della Cor. d'Italia, ^. MoLEscHOTT, Jacopo, Senatore del Regno, Professore di Fisiologia nella R. Università, Socio della R. Accademia di Medicina di Torino, Socio corrispondente delle Società per le Scienze mediche e naturali a Horn, Utrecht, Amsterdam, Batavia, Magonza , Lipsia, Cherbourg, degli Istituti di Milano, Modena, Venezia, Bologna, della R. Accademia dei Lincei a Roma, delle Accademie INIedico-chirurgiche in Ferrara e Perugia, Socio Onorario della Medicorum Societas Bohemicorum a Praga, della Société medicale allemande a Parigi, della Società dei Naturalisti in Mo- dena, dell'Accademia Fisio-medico-statistica di Milano, della Pathological Society di S. Louis, della Sociedad aiitropoloj ica Espaiìola a Madrid, Socio Straniero della Società Olandese delle Scienze a Harlem, Socio fondatore della Società Italiana d'Antropologia e di Etnologia in Firenze, Comm. * . Gastaldi, Bartolomeo, Dottore in Leggi, Professore di Mineralogia nella Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio della R. Accademia de' Lincei, Ufliz. *, #. Lessona , Michele, Dottore in Medicina e Chirurgia, Professore e Direttore de' Musei di Zoologia, Anatomia e Fisiologia comparata della R. Università, Socio delle RR. Accademie di Agricoltura e di Medicina di Torino, Ulliz. *, Comm. dell'O. della Cor. d'Italia. DoRNA, Alessandro, Professore d'Astronomia nella R. Università, Pro- fessore di Meccanica razionale nella R. Militare Accademia , e di Geo- desia nella Scuola Superiore di Guerra, Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, della R. Accademia dei Lincei, Direttore del R. Osservatorio astronomico di Torino, *, UfTiz. dell'O. della Cor. d'Italia. Salvadori , Conte Tommaso, Dottore in ìMedicina e Chirurgia, As- sistente al Museo Zoologico della R. Università , Prof, di Storia naturale nel Liceo Cavour, Socio della R. Accademia di Agricoltura, della Società Italiana di Scienze Naturali, dell'Accademia Gioenia di Catania, Membro corrispondente della Società Zoologica di Londra , dell'Accademia delle Scienze di Nuova- York e della Bridsh Ornithological Union. CossA, Alfonso, Dottore in Medicina, Pi'ofessore di Chimica agraria, e Direttore della Stazione agraria presso iì R. Museo Industriale Italiano, Socio della R. Accademia dei Lincei , Socio della R. Accademia di Agricoltura e Corrispondente del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Ufliz.*, e Conmi. dell O. della Cor. d'Italia. Bruno, Giuseppe, Dottore aggregato alla Facoltà di Scienze fìsiche, mate- matiche e naturali. Professore di Geometria descrittiva nella R. Università,* . Berruti, Giacinto, Ingegnere Capo delle Miniere, Direttore dell'Ofllcina governativa delle Carte- Valori, Uffiz. * , e Comm. dell' 0. della Cor. d' Italia e dell' O. di Francesco Gius. d'Austria. CuRiONi, Giovanni, Professore di Costruzioni nella Scuola d'Applica- zione degli Ingegneri, Dottore aggregato alla Facoltà di Scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Università, Socio della R. Accademia di Agricoltura, *, e Ufliz. dell'O. della Cor. d'Italia. SiACci , Francesco , Capitano nell' Arma d'Artiglieria , Professore di Meccanica superiore nella R. Università, e di Balistica nella Scuola d'Ap- plicazione delle Anni di Artiglieria e Genio, Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei, Cav. dell'O. della Cor. d'Italia. xn ACCADEMICI NAZIONALI NON RESIDENTI S. E. Ménabrèa, Conte Luigi Federigo, Marchese di Val Dora, Senatore del Regno, Professore emerito di Costruzioni nella R. Università di Torino, Luogotenente Generale, Ambasciatore di S. M, a Londra, Primo Aiutante di campo Onorario di S. M., Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio della R. Accademia dei Lincei, Membro Onorario del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, ecc.; C. 0. S. SS. N. , Gr. Cord, e Cons. *, Cav. e Cons. #, Gr. Cr. e , e dell'O. della Cor. d'Italia, dee. della Med. d'oro al Valor Militare, Gì-. Cr. dell'O. Supr. del Serafino di Svezia, dell'O. di S. Alessandro di Newski di Russia, di Dannebrog di Dan., Gr. Cr. dell'O. di Torre e Spada di Portogallo, dell'O. del Leone Neerlandese, di Leop. del Belg. (Categ. militare), della Probità di Sassonia, della Cor. di Wurtemberg, e di Carlo III di Sp., Gr. Cr. dell'O. di S. Stefano d'Ungheria, dell'O. di Leopoldo d'Austria, di quelli della Fedeltà e del Leone di Zoehringen di Baden, Gr. Cr. dell'Ordine del Salvatore di Grecia, Gr. Cr. dell'Ordine di S. Marino, Gr. Cr. degli Ordini del Nisham Flood e del Nisham Ijtìgar di Tunisi, Comm. dell'Ordine della L. d O. di Francia, ecc., ecc. Sella , Quintino , Membro del Consiglio delle Miniere, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Presidente della R. Accademia dei Lincei, Gr. Cord. *, e dell'O. della Cor. d'Italia, Cav. e Cons. #, Gr. Cord, degli O. di S. Anna di R., di Leop. d'A. , di Carlo III di Spagna, della Concez. di Port., del Mejidié di Turchia, e di S. Marino, Membro deirimp. Società Mineralogica di Pietroborgo. Brioschi, Francesco, Senatore del Regno, Professore d'Idraulica, e Direttore del R. Istituto tecnico superiore di Milano , Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio della R. Accademia dei Lincei, Gr. Uffiz. *, e dell'O. della Cor. d'Italia, #, Comm. dell'O. di Cr. di Port. Govi, Gilberto, Prefetto della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma, Socio della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia d'A- gricoltura di Torino, Uffiz. *, Comm. dell'O. della Cor. d'Italia. Cannizzaro , Stanislao, Senatore del Regno, Professore di Chimica generale nella R. Università di Roma , Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio della Reale Accademia dei Lincei, Comm. *, ^, Uffiz. dell'O. della Cor. d'Italia. XIII Betti, Enrico, Professore di Fisica Matematica nella R. Università di Pisa, Direttore della Scuola Normale superiore. Uno dei XL della Società Ital. delle Scienze, Comm. *, #, Uffiz. delI'O. della Cor. d'Italia. Scacchi, Arcangelo, Senatore del Regno, Professore di Minera- logia nella R. Università di Napoli, Presidente della Società Italiana delie Scienze detta dei XL, Segretario della R. Accademia delle Scienze Fis. e Mat. di Napoli, Socio della R. Accademia dei Lincei, Comm. *, #, Gr. Uffiz. deirO. della Cor. d'Italia. Ballada di S. Robert, Conte Paolo, Uno dei XL delia Società Ita- liana delle Scienze. Secchi, P. Angelo, Direttore dellOsservaturio del Collegio Romano, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia, Membro della Società Reale e della Società Astro- nomica di Londra, *, Uffiz. della Legion d'O. di Francia, e Dignitario della Rosa del Brasile, ecc. CoRNALiA, Emilio, Direttore del Museo civico e Professore di Zoologia applicata nella R. Scuola Superiore di Agronomia di Milano , Presidente del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio della R. Accademia dei Lincei, Socio cor- rispondente dell'Istituto di Francia, Uffiz. *, #, Comm. dell'O. della Cor. d'Italia, ecc., ecc. ScHiAPARELLi , Giovanni , Direttore del R. Osservatorio astronomico di Milano, Uno dei XL delta Società Italiana delle Scienze, Socio del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere , della R. Accademia dei Lincei e dell'Accademia Reale di Napoli, Socio corrispondente delle Accademie di Monaco, di Vienna e di Pietroborgo, Comm. *, e dell'O. della Cor. d'Italia, #, Comm. dell'O. di S. Stan. di Russia. ACCADEMICI STRANIERI Dumas, Giovanni Battista, Segretario Perpetuo dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia, Gr. Cr. della L. d'O. di Francia, a Parigi. Mayer, Giulio Roberto, Dottore in Medicina, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia, ad Heilbronri (Wurtemberg ). Helmholtz, Ermanno Luigi Ferdinando, Professore nella Università di Heidelberg, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia, a Parigi. Regnault, Enrico Vittorio, Professore nel Collegio di Francia, Membro dell' Istituto di Francia , Comm. della L. d'O. di Francia, a Parigi. Chasles , Michele, Membro dell'Istituto di Francia, Comm. della L. d'O. di Francia, a Parigi. Darwin, Carlo, Membro della Società Reale di Londra. Dana, Giacomo, Professore di Storia naturale a New Haven, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia. Hofmann , Guglielmo Augusto , Prof, di Chimica , Membro della R. Ac- cademia delle Scienze di Berlino, della Reale Società delle Scienze di Londra, Corrispondente dell'Istituto di Francia (Sezione di Chimica). Chevreul, Michele Eugenio, Membro dell'Istituto di Francia, Gr. Cr. della L. d'O. di Francia, a Parigi. XV CLASSE DI SCIENZE MORAll, STORICHE E FIIOIOGICHE Direttore Ricotti, Ercole, Senatore del Regno, Maggiore nel R. Esercito, Professore di Storia moderna nella R. Università, Vice -Presidente della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria , Gr. Uffiz. *, Gr. Cord, dell' O. delia Cor. d'Italia, Cav. e Cons. #, 0. Segretario Perpetuo GoRRESio , Gaspare , Prefetto della Biblioteca Nazionale , Dottore aggregato alla Facoltà di Lett. e Filosofia , e già Professore di Letteratura orientale nella R. Università di Torino, Socio Straniero dell'Istituto di Francia, Socio della Reale Accademia di Scienze e Lettere di Palermo, della R. Accademia della Ci-usca, ecc., Membro Onorario della Reale Società Asiatica di Londra, Presidente della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino, Comm. *, #, Comm. dell O. della Cor. d'Italia, dell' O. di Guadai, del Mess., e dell'O. della Rosa del Brasile, Ufi&z. della L. d'O. di Francia, ecc. ACCADEMICI RESIDENTI ScLOPis DI Salerano, Ecc.™ Conte Fedei'igo, predetto. Ricotti Ercole , predetto. BoN-CoMPAGNi , Cavaliere Carlo , Senatore del Regno, Ministro pleni- potenziario di S. M. , Socio della R. Accademia dei Lincei, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria , della Facoltà di Lettere e Filosofia, e Professore di Diritto costituzionale nella R. Uni- versità, Gr. Cord. *, Cav. e Cons. #, Gr. Cord. delTO. della Cor. d'Italia. GoRREsro, Gaspare, predetto. Fabretti , Ariodante , Professore di Archeologia greco-romana nella Regia Università, Direttore del Museo di Antichità, Socio corrispon- dente dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Socio della Reale Accademia dei Lincei , Membro col-rispondente del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, dell'Accademia di Archeo- logia, Letteratura e Belle Arti di Napoli, della R. Accademia della Crusca Serie II. Tom. XXX. 5 XVI e dell'Istituto di Corrispondenza archeologica, Prof. Onorario della Uni- versità di Perugia, Membro e Segretario della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino, Uffiz. *, ^, Cav. della Leg. d'O. di Francia, e C. O. R. del Brasile. Ghiringhello, Giuseppe, Dottore aggregato in Teologia, Professore emerito dì Sacra Scrittura e Lingua Ebraica nella Regia Università, Consigliere Onorario dell'Istruzione pubblica, UfTiz. *, e Comm. dell'O. della Cor. d'Italia. Peyron, Bernardino, Professore di Lettei'e , Bibliotecai'io Onorario della Biblioteca Nazionale di Torino , * . Vallauri, Tommaso, Professore di Letteratura latina nella Regia Università, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Socio corrispondente della R. Accademia della Crusca e del R. Istituto "Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Comm. *, Cav. dell'Ordine di S. Gregorio Magno. Flechia, Giovanni, Professore di Storia comparata delle lingue clas- siche e neolatine nella R. Università, Socio della R. Accademia dei Lincei, Uffiz. *, e Comm. dell'O. della Cor. d'Italia, #. Claretta, Barone Gaudenzio, Dottore in Leggi, Socio e Segretario della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria, Membro della Società di Archeologia e Belle Arti e della Giunta conservatrice dei monumenti d'Antichità e Belle Arti per la Provincia di Torino, Uffiz. * , e dell'O. della Cor. d' Italia. Bianchi, Nicomede, Sopran tendente degli Archivi Piemontesi, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria, della R. Accademia Palermitana di Scienze e Lettere, della Società Ligure di Storia patria, della R. Accademia Petrarca di Scienze, Lettere ed Arti in Arezzo, del- l'Accademia Urbinate di Scienze, Lettere ed Arti, del R. Ateneo di Ber- gamo, e della R. Accademia Paloritana di Messina, Gr. Uffiz. * , Comm. dell'O. della Cor. d'Italia, e Gr. Uffiz. dell'O. di S. Mar. Garelli, Vincenzo, Dottore aggregato della Facoltà di Lettere e Fi- losofia nella R. Università , Membro della R. Accademia d'Agricoltura di Torino, Uffiz. *, e Comm. dell'O. della Cor. d'Italia. Testa, Vittore, Professore e Dottore aggregato in Teologia, Membro corrispondente dell'Istituto Egiziano (Alessandria d'Egitto), Uffiz. *, Cav. dell'O. della Cor. d'Italia. Promis, Vincenzo, Dottore in Leggi, Bibliotecario e Conservatore del XVII Medagliere di S. M., Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria, e della Società d'Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino, Ispettore degli scavi e monumenti d'antichità in Torino, *^ Cav. deirO. della Cor. d'Italia. Rossi, Francesco, Assistente al Museo d'Antichità, Prof. d'Egittologia nella R. Università, Cav. dell'O. della Cor. d'Italia. Manno, Barone Antonio, Membro e Segretario della R. Deputazione sovra eli studi di Storia Patria. ACCADE.\IICI NAZIONALI NON RESIDENTI Spano, Giovanni, Senatore del Regno, Dottore in Teologia, Professore emeinto di Sacra Scrittui'a e Lingue Orientali nella R. Università di Ca- gliari, Coinmiss. de' Musei e degli scavi dell'Isola di Sardegna, Or. Uflìz. ^ , e Uffiz. dell'O. della Cor. d'Italia, #. Carutti di Cantogno, Domenico, Consigliere di Stato, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Socio e Segretario della R. Accademia dei Lincei, Membro del Consiglio degli Archivi, Gr. Uffiz. *, Cav. e Cons. #, Gr. Cord. dell'O. del Leone Neerlandese e dell'O. d'Is. la Catt. di Sp. e di S. Mar., Gr. Uffiz. dell'O. di Leop. del B., dell'O. del Sole e del Leone di Persia, e del Mejidiè di 2" ci. di Turchia, Gr. Comm. dell'O. del Salv. di Gr., ecc. AniARi, Michele, Senatore del Regno, Professore emerito dell'Università di Palermo e del R. Istituto di Studi superiori di Firenze; Dottore in Filosofia e Lettere dell'Università di Leida e di Tubinga; Socio della Reale Accademia dei Lincei in Roma, delle RR. Accademie delle Scienze in Monaco di Baviera e in Copenhagen; Socio Straniero dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Socio corrispondente dell'Ac- cademia delle Scienze in Palermo, della Crusca, dell'Istituto Veneto, della Società Colombaria in Fii*enze, della R. Accademia d'Archeologia in Napoli, delle Accademie Imperiali di Pietroborgo e di Vienna; Socio Onorario delle Accademie di Padova e di Gottinga ; Presidente Onorario della Società Siciliana di Storia patria e Socio Onorario della Ligure ; Gr. Uffiz. * e dell'O. della Cor. d'Italia, Cav. e Cons. #. Reymond, Gian Giacomo, già Professore di Economia politica nella Regia Università, * . Ricci, Marchese Matteo, Uffiz. dell'O. della Cor. d'Italia, a Firenze. XVlll MiNERVi.M, Giulio, Bibliotecario e Professore Onorario della Regia Università di Napoli, Segretario generale Perpetuo dell'Accademia Pon- toniana, Socio Ordinario della Società R. di Napoli e della R. Accademia dei Lincei, Corrispondente dell'Istituto di Francia ( Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere ) , della R. Accademia delle Scienze di Ber- lino, ecc., Uffiz. *, dell'O. della Cor. d'Italia, della L. d'O. di Francia, dell'Aquila Rossa di Prussia, di S. Michele del Merito di Baviera, ecc. De Rossi, Comm. Giovanni Battista, Socio Straniero dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), e della R. Acca- demia delle Scienze di Berlino, Presidente della Pontificia Accademia Romana d'Archeologia. Canonico, Tancredi , Professore, Consigliere della Corte di Cassazione di Roma e del Consiglio del Contenzioso diplomatico, *, e Comm. dellO. della Cor. d Italia. Cantù, Cesare, Membro effettivo del R. Istituto Lombardo, Sopran- tendente degli Archivi Lombardi, Socio dell'Accademia della Crusca, della R. Accademia dei Lincei, Corrispondente dell'Istituto di Francia e d'altri, Comm. *'e dell'O. della Cor. d'Italia, Cav. e Cons. #, Cav. della L. d'O. di Francia, Comm. dell'O. di C. di Port., Gr. Uffiz. dellO. di Guadalupa, ecc. Tosti, D. Luigi, Abate Benedettino Cassinese, Socio Ordinario della Società Reale delle Scienze di Napoli. ACCADEMICI STRANIERI MoMMSEN, Teodoro, Professore di Archeologia nella Regia Univei'sità e Membro della R. Accademia delle Scienze di Berlino, Socio corrispon- dente dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere). Mur.LER, MassimiHano, Professoi-e di Letteratura straniera nell'Uni- versità di Oxford, Socio Straniero dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere). MiGNET, Francesco Augusto Alessio, Membro dell'Istituto di Francia (Accademia Francese) e Segretario Perpetuo dell'Accademia delle Scienze morali e politiche, Gr. Uffiz. della L. d'O. di Francia. Renier, Leone, Membro dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Uffiz. della L. d'O. di Francia. XIX Egger , Emilio , Professore alla Facoltà di Lettere di Parigi, Membro dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Uffiz. della L, d'O. di Francia. Bancroft , Giorgio , Socio corrispondente dell' Istituto di Francia (Accademia delle Scienze morali e politiche). WiTTE , Barone Giovanni Giuseppe Antonio Maria De , Membro del- l' Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere) , a Parigi. LoNGPÉRiER , Enrico Adriano Prevost De , Membro dell' Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), a Parigi. XX MITAZIONI accadute nel Corpo Accademico dopo la pubblicazione del precedente f^olume ELEZIONI Bellardi, Luigi, Assistente al R. Museo mineralogico, Professore al R. Liceo Gioberti, eletto a Socio Nazionale residente il 3o dicembre iS'j'y della Classe di Scienze fisiche e matematiche. Basso , Giuseppe, Dottore Collegiato della Facoltà di Scienze fisiche e matematiche, e Professore di Fisica nella R. Università, eletto a Socio Nazionale residente il 3o dicembre i^']'] della Classe di Scienze fisiche e matematiche. Hermite, Carlo, Membro dell'Istituto di Francia, Gr. Cr. della L. d'O. di Francia, eletto il 3o dicembre 18'7'j a Socio Straniero della Classe di Scienze fisiche e matematiche. SCIE]\ZE FISICHE E MATEMATICHE SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM AUCTORE J. B. DELPONTE Triennium pene elapsum est ex quo prima opusculi hujus nostri pars (pag. 19 ad 108, voi. XXVIII) in lucem prodiit, quo temporis lapsu opera et studio CI.""" virorum quos inter celebrandi in primis Rabenhorst, De-Bary, De Brébisson, Archer, Lund, Wood, etc. bene multa innotuerunt sive ad physiologiam , sive ad organographiam spectantia: quae quidem in appendice quam primum edenda publici juris facere in animo est. SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Genus XI. COSMAKIUM Corda. Lorica orbiculato-oblonga , medio plus ininus constricta, plerumque de- pressa, pandiiraeformis ; hemicjtia raro splmerica plerumque haemisphae- rica, aut leniformi-elliptica, raro crenulala, interdum obsolete tetragona, ìiumquam lobata nec emarginata, superficie levi, alias punctata , plerumque globulis minimis, raro mucronihus obsita; endochroma utplurimuni e la- minis chloroplìjllaceis ulrinque binis , ternis , quandoque pluribus prò quolihet hemicjtio , ex uno alteroque nucleo amjlaceo ab im'icem di- ductis, aut ab axi radiantibus. Zigospoì-ae sphaericae, cnspidatae cuspidibus demum bifidis trifidisve. SECTIO PRIMA. Endocroma cum nucleo faeculaceo solitario. 1. COSSIARIUM mOCULATUM BrÉb. Cosmarium bioculatum Bréb. in Hit. apud Ralfs cum icon. ((846). - Bnt. Desm. (1848), pag. gS, tab. XV, fig. 5 (non Menegh. Syn. Desm. in LiNN. (1840), pag. 220), non Kììtz. Sp. Alg. (1849), P»§- '7^ Heterocarpella bioculaia Bréb. Alg. Falaise (i835), pag. 56, tab. VII. Cosmarium bioculatum Pritch. A. Hist. of Inf. (1861), pag. 781. - Rabknh. fi. Eur. Alg., pag. i63 (i868ì. - Lund. de Desm. Suec, pag. 44 (1871). Lorica e fronte orbiculato-subtetragona , tertia circiter parte magis longa quam lata, valde constricta; hemicjtia oblongo-cjlindracea, utrinque rotundata,e latere sphaerica, cum taeniis cklorophjrllaceis inconspicuis obsoletis. Junctura tertiam parteni totiiis latitudinis acquante. Cjtioder- mate levi. Serie II. Tom. XXX. a 2 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Cellula divisa in due segmenti trasversalmente ellittici, disgiunti da un solco largo e profondo. Endocroma in apparenza non formato di altro che d'un liquido giallo dorato intinto di verde per tutto imiforme, senza traccia di lamine clorofillari, con un grosso globolo di fecola posto nel mezzo d'ogni lobo. Parete liscia. Dimensioni: Lunghezza o,o36o - Larghezza 0,0202. Icori iiostfii , tab. ^II, fig. 1-4. Spiegazione delle figure. Fig. 1 . Individuo a termine di sviluppo, coll'endocroma costituito da un nocciolo damido, e da una lamina di clorofilla. » 2. Lo stesso da uno dei lati. » 3. Lo stesso da uno dei capi. )> 4. Due individui in corso di sdoppiamento. Lago di Candia nel Canavese. 2. COSMARIUM MEi\EGHI.M1 Bréb. Cosmariwn Meneghinil Bréb. in litt. cum icon. (1846) apud Ralfs, Brit. Desm., pag. 96, tab. XV, fig. 6 (1848). Cosmaviam biocidatum Menegh. exclusa Heterocarpeda bioculata Bréb. Alg. Falaise, pag. 56 (i835), tab. VIL - Menegh. Syn. Desm. in Link. (1840), pag. 220. Cosmarium Meneghina De-Bary, Unters. der Conjug., pag. '^2^, tab. VII, fig. 35-46. - Bréb. List. Desm. (i856), pag, 127. Eicastvum crenulalum Nag. Gattung. Einz. Alg. (1849), pag. 120, tab. VII A., fig. n^ a, b, e, d. Cosmarium Meneghina Pritch. Hist. of Inf. (1861), pag. 732. - Rabenh. Krypt. FI. v. Sach., pag. 199, - Alg., n. 1902 d. Cosmarium crenulatum De Not. Elem. Desm. ital. , pag. 4'? tab. Ili, fig. 25? (1867). Cosmarium Meneghina Rabenh. FI. Eur. Alg. (1868), pag. i63. - Lund. de Desm. Suec. (1871), pag. 43. Lorica e fronte sub-hexagonali, paulo magis longa quam lata, medio parum constricta: lateribiis utrinque bidentatis emarginatisi hemicjtia AUCTORF, J. B. DELPONTE. 3 e fronte sublelfugona , e Intere ohlim'^n-ryVmdi-ocea , e vertice oblongo- elUptica. Junctui-n (ìiiii'uliain totins latitndinis partem acquante. Cjlio- dennate levi. Cellula d'un quarto più lunga che larga, profondamente strangolata, a segmenti di forma jirossimamente tetragona a lati leggermente incavati, pressoché intieri. Endocroma d'un giallo dorato uniforme con lamine di clorofilla raggianti da mi gloholo di fecola; forma dei lobi nel profilo laterale ovato-cilindrica, leggermente strangolata: nel terminale ellittica. Parete liscia. Dimensioni: Lunghezza 0,0 1 80 - Larghezza 0,0 1 44- Icon nostra, lab. VII, fig. S-c). Spiegazione delle figure. Fm. 5. Parecchi individui provenienti da sdoppiamento, ancora concate- nati assieme. » (j. Individuo vuoto molto ingrandito. )) 7. Lo stesso veduto da uno dei lati. » 8. Lo stesso da una delle faccie commessurali. » 9. Individuo in corso di stloppiamento irregolare, cosicché invece di due nuovi lobi non si trova che un sacco poco o niente intac- cato nel mezzo. Lago di Candia nel Canavese, ecc. 3. COSMVRIUSI CO^STRICTUM N. Lorica e fronte oblongo-elliptica,fere quarta parte magis longa quam lata, medio valde constricta; lieinicjtia e fronte hemisphaerica , paulo magis lata quam longa, e latere oblongo-cflindracea , e facie commis- surali elliptica. Junctura dimidiam partem totins latiiudinis acquante. Cjtiodermate levi. Cellula di ambito ellittico, strangolala in due lobi rotondali, promi- nenti al vertice. Endocroma d'un giallo dorato, intinto di verde, con un grosso globolo di fecola per ogni lobo, senza traccia di lamine clorofillari. Profilo laterale cilindrico, strangolato nel venire, rotondato ai due capi, profilo terminale ellittico. Parete liscia. 4 SPECIMEN DESMiniACEARUM SUBALPINARUM Dimensioni: Lunghezza 0,0288 - Larghezza 0,0216. Icon nostra, tab. VII, fig. io-i5. Spiegazione delle figure. Fig. IO. Individuo fresco a termine di sviluppo. » 11. Lo slesso da uno dei lali. » 1 2. Lo stesso da uno dei capi. 1) 13, 14, 15. Individui della stessa specie, molto ingranditi. Lago di Candia nel Canavese. i- CoSilARIUM GRANATUM BrÉB. Cosmarium granatum Brèb. in liti, cum icon. ( 1846); apud Rai.fs, Brit. Desm. (1848), pag. 96, tab. XXXII, % 6.' - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 126. - Rabenh. fi. Eur. Alg. (1868), pag. 162. Lorica e fronte rhomboidea, paulo magis longa quam lata, e latere oblongo-cjlindracea ; hemicjtia triangulnria , angulis oblusis rotundatis, e latere prope basini infiala. Junctura dimidiam fere partem tolius latita- dinis aeqiumle, aul paulo superante. Cjtiodermate le\>i. Cellula d'ambito romboidale, d'un quinto più lunga che larga, pro- fondamente strangolata, segmenti triangolari ad angoli rotondati; endocroma d'un verde erbaceo, fatto da un grosso globolo di fecola, chiuso fra due lamine di clorofdla. Profdo laterale dei due lobi lineare bislungo, ingros- sato e come rigonfio in vicinanza della sutura, ogni volta che gl'individui non poggiano direttamente sopra una delle facce. Parete liscia. Di questa specie abbiamo trovato individui di due razze o varietà, delle quali una quasi del doppio più grande dell'altra, come si scorge dalle forme ritratte nella nostra tavola. Dimensioni: Lunghezza 0,0216 - Larghezza 0,0180. Icon nostra, tab. VII, fig. 16-21. Spiegazione dette figure. Fig. 1 6. Individuo a termine di sviluppo. » 1 7. Lo stesso veduto da uno dei lati. » 18. Una delle valve veduta da uno dei capi. AUCTORE J. B. DELPONTE. 5 FiG. 19. Altro individuo vuoto. » 20. Altro id. più piccolo. » 21. Un individuo in corso di sdoppiamento. Lago di Candia nel Canavese. 5. (^lOSMARIUM ATLA^THOIDEUM N. Lorica e jronle subtetvagoiìci. Itiin longa (jiiani luta, valde constricta ; hemicjtia e Jronte renifonni-triangulata , Jei'e duplo niagis longa quarti lata : e latere eximie sphaerica : e facie commissurali ohlongo-elliptica, medio iiijlatu. Juncturu fere tei-tiam paì'lpm totius latitudinis acquante. Cytiodermate levi. Cellula ti ambili) presso a poco rotonda, tanto lunga quanto larga, pro- fondamente strangolata a segmenti triangolari e ad angoli rotondati, depressi al vertice. Endocroma formato da un globolo di fecola, accompagnato da lamine clorofillari non abbastanza distinte. Parete liscia. Dimensioni. Lunghezza 0,0216 - Larghezza 0,0216. [con nostra, tab. VII. lìg. 22-24. Spiegazione delle figure. FiG. 22. Individuo veduto di fronte. » 23. Lo stesso da uno dei lati. 1) 24. Lo stesso da uno dei capi. Lago di Candia nel Canavese. ^j. COSMARIUM SCENEDESMUS N. Lorica e fronte suhorbiculatu,, profunde constricta; hemicjtia trans- versim ovato-jeniformia , fere dimidia parte magis lata quam longa, e latere sphaerica, e vertice oblongo-cyliiidraceu. Juncturu tertium purtem totius latitudinis aequante. Cytiodermate levi. Cellula di ambito orbicoiare, coi due lobi bislunghi reniformi, roton- dati ai due capi, congiunti a vicenda per una sorta di collo. Endocroma formato di due lamine di clorofilla, non abbastanza distinte, che chiudono frammezzo un globolo di fecola. Zigospora di forma tonda o ellittica. b SPECIJIKN DESMID1A<;EARUM SUBALPINARUM Profilo laterale sotto i'orma di due sfere congiunte a vicenda; profilo terminale bislungo ellittico. Parete liscia. Osservazione. Questa specie non differisce dai Scenedesmi che per la mancanza della spina alle due estremità. Dimensioni.- Lunghezza o,o432 - Larghezza o,o5o4. Icoii nostra, tab. VII, lig. 28-34- Spiegazione delle figure. FiG. 28. Individuo tresco e vigoroso. » 29. Altro, veduto da uno dei lati. » 30. Lo stesso da uno dei capi. )i 31. Individuo vuoto. « 32. 33. Individui accoppiali colla zigospora a termine di sviluppo. » 34. Individuo provveduto di guaina. Lago di Candia nel Ganavese. 7. Co.SM,U!lLM CUE.^ATLM Rali S. Cosmariuni crenatwn Ralfs, in Ami. of Nat. Hist. (i844)? '^'ol- '4^ pag. 394, tab. II, fig. 6, - Trans, ol Bot. Soc Edio., voi. 2, pag. i5i, tab. XVI. Cosmarium undiUatiuii Rai.fs, Jenj,ek, FI. ot Tunb. , jjag. igti. - Hassal. Brit. Alg. (1845}, pag. 365, lab. LXXXVI. - Kìjtz. Phyc. gemi. (1845), pag. i36, - Sp. Alg. (1849), pag. 174. - Focke, Phys. stud. (1847), lab. I, fig. 3. - Pritch. A. Hist. of Inf. (1861), pag. 732. - (Euastrum) Nàg. Gatlung. Alg. (1849), pag. 120, tab. VII, fig. 8 (a. Tetracanthiuin h. Cosmarium . - De-Barv, Unlers. der Conjug. , pag. 72 Microcosmarium b i^i858 . - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 127. Cosmaviuiìt cvenatwìi Kabeah. Krypl. FI. v. Sachs., pag. 199, - Alg. 121 1. - Ralfs, Brit. Desm. pag. 9G, tab. XV, fig. 7 (1848). - Di. Not. Elem. Desm. ilal., pag. 47. »• 33, tali. I\ , fig. 34- - Lund. de Desm. Suec, pag. 34 (1871). AUCTORE J. B. DKLPONTK. 7 Lorica e fronte, oblongo-elliptica, fere quarta parte magis longa quam lata, medio valde constri età ; hemicjtia hemisphaerica, grosse dentata, CHIÙ dentibus sen lobitlis octonis prò qaoUbet hemicjlio. Jimctura fere tertiam partein totiiis latitudinis acquante. Crtiodermate levi. Cellula di iorma ellittica due volle più lunga che larga, col margine interrotto da otto denti rotondati, poco profondi a foggia di lobi. Endo- cronia d'una massa di clorofdla informe, che ha dentro un grosso gloholo di fecola. Parete liscia. Osservazione. Il Nagkm, nel suo applaudito lavoro ^Cialluugen Aig. (1^49), pag. 120, lab. \ II, lig. 7), accenna qui due specie: La prima, cioè VE. crenulatum, ci sembra identica al nostro C. cre- nutum (Vedi lab. VII, fig. aS, 26, 27), e ancora identica a quella ritraila da Ralfs Brit. Desm. nella lab. XV, fig. 7. Soggiugneremo che coriisponde pure alla foiina ritratta da Hassal nella lab. LXXXVI, fig. 6. Per quanto spetta al C cìeiuUam Rai.i s ciedianio che non si debba ri- ferire al C. Meneghini, come è di parere il De-Bary loc. cit, pag. 72, lab. VI, fig. 33-34, slantechè quest'ultimo offre i lobi della lorica circoscritti, non interrotti regolarmente da denti rotondi, quali sono quelli del C. crenatum. Accenneremo per ultimo che VEuastrnm crenatum del Nageli non ci sembra altro che il C. ortogonum delle nostre tavole (Vedi lab. VII, fig. 49j 5o, 5 i). Dicasi altrettanto del C. crenatum Focke, lab. I, fig. 3, ancorché si tratti di una figura informe, slantechè i due lobi non vanno punto d'accordo, trovandosi il superiore più grande e largamente smar- ginato alla sommità, con due denti rotondi da ciascuna parte, mentre l'in- feriore non ha che un dente nella parte media, oltre all'essere più piccolo. Dimensioni; Lunghezza 0,0216 - Larghezza 0,0162. Icon nostra, lab. VII. fig. 25-27. Spiegazione delle figure. Fig. 25. Parecchi individui provenienti da sdoppiamento, ancora congiunti da uno dei capi. » 26 e 27. Individui molto ingranditi. Lago di Candia nel Canavese. O SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM 8. COSMARIUM ORTOGONUM N. Lorica e fronte oblongo-suhtetragona , tam louga quam lata aut paulo magis lata quam longa, valde constricta ; hemicjtia trapezoidea, vertice integerrima, lateribus grosse dentatis fere lobatis, e facie commissurali oblongo-elliptica medio inflata. Junctura tertiam fere po.rtem totius lati- tudinis aeqiiante. Cjtiodermate levi. Cellula di torma piossiuiaincnte orijicolarc ellittua, presso a poco tanto liuiga quanto larga, o alquanto più lunga che larga, profondamente stran- golata in due valve troncate ed intiere alla sommità, coi lati interrotti da tre grossi denti che corrispondono ai due capi e alla parte media di cia- scuna valva. Debbo notaie che (jneste intaccature non offrono sempre la stessa disposizione. Di tatto ora poggiano tutte alla stessa altezza, ora paiono scostarsi dalia base per raggiungere la sommità , cosicché s'incon- trano degli individui che hanno la metà del lobo dalla parte commessu- rale intiera, e l'altra intaccatii. Vi hanno ancora differenze notevoli di statura, talmente che gl'individui piccoli più non si possono distinguere da quelli del Cosm. crenatum, tranne che per la statura incomparabilmente più grande e per lintaccatura delle due estremitii. Dimensioni. Lunghezza 0,0648- Larghezza o,o5o4. Icon nostra, tab. VII, fig. ^^-5i. Spiegazione delle figure. FiG. 49. Individuo fresco veduto di fronte, coi due capi intieri. » 50. Una delle valve veduta da uno dei capi. » 51. Altro individuo vuoto alquanto differente pei- lintaccatura dei lobi come si vede a colpo d' occhio , ma sicuramente della stessa specie per i passaggi che si trovano da una forma all'altra. Lago di Candia nel Canavese. 9. COSMAUUM CLEI'SVDRA PS. Lorica e fronte obloìigo-cylindiacea , medio valde constricta, duplo magis longa quam lata; hemicytia ovato-subpentagona, lateribus nempe e vertice complanato ad angulum obtusum secedentibns, deinde introrsum AUCTORE J. B. DELPO.NTf;. q Jle.fis. Jiiiicliu'a fe/'c diiiiidiani pdrtcìii ioliu\ lutifiidiiiis aeqiumtc. Crtio- dennate levi. Cellula cilindrica, una volta più lunga die larga, largamente e pro- tondamente strangolata. Segmenti ovato-rigonfi alla base, troncati, roton- dati alle due estremità. Endocroma senza traccia distinta né di lamine, né di globolo. Profilo terminale circolare. Parete e contorno liscio. Osservazione. Forma notevole che è quella di due corpi rigonfi , congiunti a vi- cenda per una sorta di collo; precisamente come nel così detto orologio a polvere o ad acqua, accennato da Plimo sotto il nome di Clessidra {Clepsjdra). Dimensioni. Lunghezza u,o432 - Larghezza 0,0216. Icon nostra . lab. VII, fig. 35-36. .Spirijdzidìir ilfìtr fitjilìr. FiG. 33. Individuo a termine di sviluppo, veduto da una delle faccie. La stessa torma si presenta da uno dei lati . trattandosi di un corpo in compIess(j di forma cilindrica. » 36. Una delle valve veduta da uno dei capi. Lago di Candia nel Canavese (Specie rai'issima trovala addì i4 settembre 1 859J. 10. COS8IARILM WIMJTLM N. Lorica e fronte ohloiigo-cjliiidracea, vijc aut ne vice quidem medio constricta; hemicjtia siibrotundala , paiilo magis lata quani longa , e latere sphaerica , e vertice ovato-suborhiculatu. Junctura vix quartain parlem tolitts latitudinis acquante. Cjtiodermate levi. Cellula di torma cilindrica d' un terzo più lunga che larga, spartita nel mezzo da un solco largo, poco protondo. Endocroma fatto d'un liquido giallo dorato .semi-trasparente, con lamine clorofillari assili, raggianti da un globolo di fecola posto nel mezzo d ogni lobo. Profilo terminale quasi circolare. Parete li.scia. Dimensioni: Lunghezza 0,0288 - Larghezza 0,0216. Icon nostra, tab. VII, fig. Sr-Sq. Serie II. Tom. XXX. b IO SPKCIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Spiegazione delle figure. FiG. 37. Individuo fresco e vegeto veduto di tronle. .) 38. Lo stesso da uno dei lati. » 39. Lo stesso da uno dei capi. Lago di Gandia nel Canavese. 11. COSMAUIUM MONILIFORME RalFS. Tessarthi'onia monilifonnis Turf. Dict. Se. Nat., tom. ■j, fig. i (1830). Tessai'arthru monìlifòrmis Ehr. Inf., pag. i.jS, lab. X, fig. 20. Cosmaritim moniliforme Rai.fs, Brit. Desm.. pag. lo'j ([848"), tab. XVII, fig. 6. - Bréb. List. Desni. ' i856), pag. i32. - De-Bary, Unters. der Gonjug. , pag. 'y2, tab. VI, fig. 48. - Pritch. Hist. of Inf. (1861), pag. 'j35. - Rabenh. Fior. Eur. Alg., pag. i^S (1868). - Lund. de Desm. Suec, pag. 44 ('^7 0- Lorica bicorporea, duplo magis lotiga qudDi lata, profunde constricta; hemicjtia eximie sphaerica , interduni approximata contigua , intei-duni, pat'uriiper velati per colluin ab invicem diducta, et ideo junctura alias elongata, alias obsoleta. Cjtiodermute granulato alias leve. Cellula nna volta piiì lunga che larga, strangolata in due lobi emi- sferici, ora direttamente appiccati per la parete, ora per un tratto inter- medio trasparente a guisa di collo. Endocroma di un giallo dorato misto di verde, di sei lamine clorofillari raggianti da un globolo di fecola. Pa- rete liscia. Questa specie si è presentala sotto due forme (a, b) , delle quali ima alquanto più grande dellaltra. Varietà (a). Dimensioni: Lunghezza 0,0262 - Larghezza 0,0180. Varietà {b). Dimensioni: Lunghezza o,o36o - Larghezza 0,0180. fcon nostra, tab. \ II, fig. 4o-45- AUnORK, J. R. DKI.POMTK. I I Spiegazionr ilellr /ii/iirr. Fir.. io. Due individui della varietà (a) ancora appiccati per una delle estremità, provenienti da zigospoia. » 41. Un individuo veduto da uno dei capi. » i2. Individuo della varietà (b) fresco e vegeto. » 43. Un altro individuo veduto da uno dei capi. )) 44. [ndividuo veduto da uno dei lati, munito di collo distinto. )) 45 Altio, munito di guaina. Laso (li Candia nel Canavese e del monte Musine |)resso Caselette. 12. CoSMAniL'M ORBICULATUM RalFS. Cosmariiim orbiculatinn Ralfs, Ann. of Nat. Hist., voi. i4, pag. 392, tal). XI, fig. a (i844'> -Trans, of Bot. Soc. o/Edin.. voi. 2, pag. t48, tab. XVI, - Brit. Desm. (1848), pag. 107, tab. XMI, fig. 5. tab. XXXIII, fig. 9. - De-Bary, Unters. der Conjug. (i858), pag. 72, tab. VI, fig. 49-5o. - Pritch. A. Hist. of Inf. (1861), pag. 784. - Rabekh. FJ. Eur. Alg. (1868), pag. 178. - Lun». de Desm. Suec. pag. 46 (1871). Lorica nbloiigo-cyiliidi'acea tevtìa parie magis ìoiiga quam lata, valde constrlcla ; beinycitia snbrotuuda , vix ani ne vlx quidem compressa. Junctura vix terliam partein totius latitiulinis acquante. Cjtiodermate gr'anulato. Cellula di forma prossimamente cilindrica, presso a poco d' un terzo pili lunga che larga, a valve gloliose, leggermente compresse, appiccate r una ali altra direttamente per un piccolo tratto cilindrico, a gui.sa di collo come nel Cosni. monilifornie. Endocroma per lo più di otto lamine di clorofilla, raggianti da un globiìlo di fecola. Parete coperta di piccoli granoli, visibili soltanto negli individui vuoti. Diuìensioni ; Lunghezza o.oSgò - Larghezza 0,0288. Icon nostra, tab. VII, fig. 46-48. Spiegazione delle figure. Fio. 46. Individuo con mio dei loi.n mancante di endocroma per mettere in vista la parete coperta di granoli. 12 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI.PINARUM FiG. 41. Lo stesso da mio dei lati. » 48. Una delle valve dimezzata per mostrare la struttura dell' en- docroma. Lago di Candia nel Canavese e del monte Musine presso Caselette. 13. COSMAUIUM EUASTROIUKS N. Lorica e fronte Ictragona, paulo magis longa (jiuiin lata; hemicjtia subrectangularia, fere duplo magis tata qiiain longa, vertice complanata, utrinque bidentata , e latere oblongo-elliptica , ciim lubei-culo unico ab utraque facie, valde prominulo. Junctura fere tertiam partem totius laii- tudinis acquante. Cjtiodermate granulato. Cellula tetragona, un poco più lunga che larga, profondamente stran- golata, senza istmo a segmenti trilohi coi lati diritti, segnati da una intac- catura terminale, poco profonda ad angolo retto. Endocroma sottt) foiina d'un liquido sottilmente granolato giallo, intinto di verde; lobi nel profdo laterale bislungo-ellittici, ingrossati lateralmente da due bitorzt)li roton- dati, e fatti da una serie circolale di granoli. Profdo terminale ellittico, coi bitorzoli dei due lobi sporgenti all' infuori. Parete minutamente granolata. Dimensioni: Lunghezza o,oi8o - Larghezza o,oi44- Icon nostra, tab. VII, fig. 52-58. Spiegazione delle figure. FiG. 52. Individuo veduto di fronte, con un bitorzolo sporgente. » 53. Lo stesso veduto da uno dei lati. » 54. Individuo vuoto, molto ingrandito per mettere meglio in vista gli accidenti della parete. » 55. Lo stesso veduto da uno dei lati. » 56. Una delle valve veduta dalla faccia commessurale. » 57. Individui accoppiati molto ingranditi. » 58. Zigospora a termine di sviluppo. Mombaruzzo (Acqui) e lago di Candia nel Canavese. AucToiiK .1. B. Di:i. ponti:. 14. COSMARIUM TRIOKMMVrrM N. Lorica oi'bicalato-snbtetia^niia uffincjnc rtcpressa. pìofunde con stri da ; hemicjtia e fronte tì-ansversim elliptica cani tnberculis tribus ab utraque Jucie, niecliano palilo gran(lioii\ e vertice oblongo-elliptica iitrinque atte- nuata: junctura fere tertiain parteni totiiis latitudinis acquante. Cjtio- derinate granulato. Cellula di lonna tetragona, mediocremente .strangolata a valve bislun- ghe ellittiche, con Ire anelli o bitorzoli sporgenti da ciascuna faccia, il me- diano dei quali più grosso, (iiuntura quasi eguale alla terza parte della larchezza. Parete granulata. Dimensioni: Lunghezza (),<)3(io - Larghezza o,o36o. Jean nostra, tab. VII, fig. 5t)-6i. Spiegazione delle figure. FiG. 59. Individuo tresco a termine di sviluppo. » 60. Lo stesso più ingrandito per mettere in vista i tubercoli delle faccie. Il 61. Lo stesso veduto da uno dei capi. Laoo di Ga\idia nel Canavese. 15. COSMAIIIUM Lulndklii N. Ijorica aeque longa ac lata, projunde constricta ; hemicjtia e fronte nblongo-reniformia cani annido pellucido ab utraque Jacie, e latere sub- rotundata, e vertice elliptica, junctura fere tertiam partem totiiis latitu- dinis acquante. Cyliodcrmate levi. Cellula orbicolare profondamente strangolata in due lobi ovato-reni- formi. Endocroma tl'un giallo dorato, intinto di verde con quattro fasce di clorofilla raggianti da un grossi) globolo di fecola, convergenti due per due alla sonunità; parete minutamente punteggiata. Veduta da uno dei lati, la cellula si mostra perfettamente cilindrica, pochissimo strangolata e rotontlata ai due capi. Profilo trasversale navicolare. Dimensioni: Lunghezza o,o'yC)2 - Larghezza 0,0^92. Tcon nostra, tab. VII, fig. 62-64. 1i\ SPECIMK.X nF.SMiniACEARUM .StlBAI-PiNARUM Spiefjazinnc dille figure. FiG. 62. Individuo tresco e vegeto, con quattro lamine di clorolìlla. » 63. Una delle valve veduta dalia faccia comniessurale. « 64. La stessa veduta da un lato. Lago di Gandia noi Canavese. 10. COSMAIUUM MORnSTEDTII N. Lorica e fronte paiilo magis longu quani lata, meiliocr iter constr iota; heinicytia recfangulari-oblonga, circiter duplo magis longn qiiani lata, granulis obsita , sensivi deci-esccntibtis , sic ut in parte media atriusque hemicyiii fere dejiciaiit. Jniictura lerliam fere partem totius lalitudinis acquante. (^ytioderiìKilc granulato. Cellula di torma rcllanj^olaie, appena più lunga che lai'ga, cogli an- goli l'otondati, coperta di granoli più grossi quanto più salgono in alto; ed è la ragione per cui gli individui veduti di fronte hanno le faccie quasi nude in vicinanza della sutura, e quelli che si alFacciano da mio dei lati, non ne portano che due disgiunti da un tratto di parete nuda ed ap- pianata. Endocroma di otto lamine di clorolìlla, raggianti quattro per quattro da nn globulo di fecola. Dimensioni. Lunghezza o,o5o4 - Larghezza 0,0468. fcoji jinsira, lab. VII, fig. 65-68. Spiegazione delle figure. FiG. 65. Individuo completo a termine di sviluppo. » 66. Lo stesso veduto da uno dei lati. » 67. Lo stesso da uno dei capi che otiVe le quattro lamine disposte in torma di croce. )) 68. Individui) vuoto. Lago di Candia nel (Canavese. AUCTORE J. li. DELVOME 17. CoS.MARIUM SEXAAGULARE LuKD. Cosmuiium si'xaìif(iilai-e Lumu. de Destii. Siiec, pag. 35, lab. II, fig. iZ. Lorica e fixmtv tdiit Ionica (jitaiii lata, medio pi'ofunde constricta; hemicjtia pentagonn , lateribus oinnihiis rectis paralellis. Jutictura vix (luartam partem tolins latitiuliitis acquante. Cjtiodermale levi. Cellula tli ioiiiiii pentagona, colle taccie appianate e paralelle, due delle quali più grandi in corrispondenza ai due capi: e due altre a destra ed a sinistra a fianco della sutura , appena eguale alla terza parte della larghezza totale delle valve. Endocronia in apparenza non formato di altro che di un nocciolo di fecola avvolto da clorolilla iniòrrae. Osservazione. La nostra ligura va d'accordo con quella del Lundef. , cosi nella forma, come nelle dimensioni. Specie trovata per la prima volta al lago di Candia nell'agosto del 1866. Dimensioni: Lunghezza 0,0160 - Larghezza 0,0 144- Icoìi nostra, tal). VII, fig. 6g-'j3. ^legazione delle figure. Fig. 60. Individuo fresco, veduto di fronte. » 70. Lo stesso da uno dei lati. » 71. Altro individuo vuoto. » 72-73. Altri individui molto ingranditi . visti di fronte e da uno dei capi. Lago di Candia nel Canavese. 18. COSMARILM PA.NDURATDM N. Lorica e J l'Onte palilo magis tonga quain lata, medio ^^alde constricta, panduraeformis ; hemicjtia ti^ansversim oblongo-elliptica , duplo magis longa ijuam lata. Jwictura tertiam partem toiius latitudinis acquante. Cjtiodermate la'i. Cellula profondamente strangolata in due lobi, di forma trasversalmente ellittica, un poco più lunga che larga, coi lobi bislunghi, e l'endocroma fiìtto da più lamine raggianti da un gtobolo di fecola. Parete liscia. l6 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Osservazione. D'i questa specie abbiamo trovato parecchi individui quasi a termine di sviluppo dentro a una guaina trasparente, provenienti da sporangio. Dimensioni: Lunghezza 0,0750 - Larghezza 0,0684. Icon nostì-a. lab. IX, fig. 16. Spkfiazione della /iguia. FiG. 16. Parecchi individui contenuti in un sacco trasparente. Lago di Candia nel Canavese. 19. OjSMAUILM TliTRACAlNTHUM N. Lorica e fronte suborbicuhUa , paalo magis lata (jnain longa, panini constricta; hemicyfia oblongo-renifornda , duplo magis longa quam lata, utrinque muci-oniilata\ p laterc sphaerica, e vertice elliptica. Junctura dimidiam partevi totius latitudinis acquante. Cytiodermate Ipk'Ì. Celhila d'ambito circolare, tanto lunga (pianto larga, pochissimo slran- «Tolata in due lobi ovato-ellittici, coi lati commessurali divergenti e muniti d'una spina. Endocroma d un verde erbaceo, con otto lamine di clorofdla, raggianti quattro per quattro da due globoli di fecola, piccoli, equidistanti dall'asse in ciascuna metà. Profilo laterale cilindrico, leggermente stran- oolato in (lue lobi sferici. Profilo trasversale ellittico, terminato da due spine. Parete liscia. Dimensioni: Lunghezza o,o528 - Larghezza o,o.5ii4- Icon nostra, lab. VII, fig. 74-76. Spifiiazioiii' rii'Ui' fìfiiirr. Fio 74. Individuo a tenninc di svilnj)po veduto di ironte. )) 75. Lo stesso da uno dei lati. » 76. Lo stesso da una delle l'accie connness arali. Lago di Candia nel Canavese. AUCTORE J. B. DELPONTE. l'J 20. GoSMARlb'M CAINDIAMJM N. Lorica oblongo-elliptica, pi'o/unde constricta; hemicjlia eximie hemi- sphaerica, vertice nec minimum depressa, tertia parte magis lata quam loìiga , basi inflata lateribus rotutidatis. Junctura tertiam partem totius latitudinis acquante, aut paulo superante. Cjtiodermate levi. Cellula di forma prossimamente orbicolare, poco più lunga che larga, coi lobi emisferici della terza parte piii larghi che lunghi, a faccia com- messurali appianate. Gli individui veduti da uno dei Iati otìVono l'aspetto di due sfere direttamente appiccate luna all'altra, e di un'ellissi quelli che si allacciano da uno dei capi , i quali danno a vedere ancora 1' en- docroma formato di i ■?. laminette di clorofilla , raggianti da un nocciolo di fecola, quattro per quattro nella parte media di ciascuna faccia , e due altre sui lati. Osservazione. Specie niitevole per le dimensioni e per la trasparenza della parete. Debbo soggiugnere di avere trovato degli individui colle valve occupate da due grossi globoli di clorofilla (V. tab. Vili, fig. 4) congiunti a vi- cenda, come fossero individui più piccoli veduti da uno dei lati. In vi- cinanza di questi medesimi individui abbiamo trovato ancora dei globoli isolati di forma tonda (tab. VIII^ fig. 5) , coli' endocroma fatto da grossi granelli di clorofilla inforuve, e di nuovo dei globoli più grossi, alquanto più lunghi che larghi (tab. VIII^ fig. 6), coll'endocroma già spartito in due masse da uno spazio lineare trasparente in corrispondenza della com- mettitura, ma colla parete intatta. E credibile che trattasi qui di grossi gonidii capaci dì trasformarsi in individui perfetti, non altrimenti che quelli nati da zigospore propria- mente dette. Dimensioni : Lunghezza o,io44 - Larghezza 0,0720. Icon nostra, tab. VIII, fig. 1-6. Spiegazione delle figure. FiG. 1 . Individuo fresco e vegeto veduto di fronte con sei lamine di ciò rofilla, divergenti da un globolo di fecola. » 2- Lo stesso veduto da uno dei lati. Serie II. Tom. XXX. e l8 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM FiG. 3. Lo stesso da «no dei capi. » i. Individuo vuoto con quattro masse rotondale di clorofilla. » 5. Una massa a parte ingrandita. I) 6. Individuo in corso di sviluppo. Lago di Candia nel Canavese. 21. COSMARIUM A\.\ULATl)M N. Lorica e fronte siiborbiculata tam lata quam longa . medio parum constricta ; hemicytia e fronte ìiemisphaerica. vertice depressa cum qua- tuor granulorum seriebus ab utraque facie, e latere oblongo-cjlindracea. Junctura tertiam partem totius valvarum latitudinis aeqnante. Cjtioder- mate levi. Cellula d'ambito circolare strangolata in due lobi appianali , depressi al vertice, sormontati da quattro denti, terminali alia base da un bi- torzoletto. Endocroma d'un giallo dorato, tinto di verde con otto lamine clorofìUari, assili, raggianti quattro per quattro da un globolo di fecola, equidistante dall'asse e dalla periferia. Forma dei lobi nel profilo laterale ellittica rotondata, troncata ai due capi, muniti di due bitorzoletli. Profilo . terminale navicolare, rigonfio. Parete liscia, con quattro serie di tubercoli scorrenti nella direzione dell'a-sse longitudinale per tutto lambito della cellula. Osservazione. Differisce dal C. ornatum RAt.FS^ Brit. Desm. (1848), pag. ro4, tab. XVI, fig. 7: 1" Per i lobi appuntati alla base non rotondati. 2° Per il vertice depresso incavato, non ingrossato da un rialto li- neare su cui stanno i bitorzoli. 3° Per i bitorzoletli riunili in una sorta di fascia che passa per il diametro longitudinale, mentre nella specie di Rai.fs vi hanno due fascie che s'incontrano al vertice. 4° Per il profilo terminale navicolare, rigonfio, troncalo alle due estre- mità , non ingrossato nel ventre, rotondo ai due capi e quasi crociforme. 5" Per i lati sporgenti prismatici dello sporangio, terminati da una spina lunga , filiforme , bifida alla sommità , mentre nella nostra specie le AVCT»RF J. B. DELPONTE. ig basi sono pochissimo rilevate, e quasi direttamente terminate da un pro- lungamento spinoso, bifido, molto più corto. Dimensioni: Lunghezza 0,0288 - Larghezza 0,0288. Icon nostra, tab. Vili, fig. i4-iy- Spiegazione delle figure. FiG. 1 4. Individuo fresco e vegeto veduto di fronte. » 15. Lo slesso molto ingrandito. » 1 6. Individuo veduto da uno dei lati. » 17. Una delle valve vista dalla faccia commessurale. » 1 8. Due individui accoppiati colle zigospore in corso di accresci- mento. » 1 9. Zigospora a termine di sviluppo, irta di spine bifide o trifide. Lago di Candia nel Canavese. 22. (lOSMARIUM ELLlì'TICUM N. Lorica e fronte elliptica, qiuirta parte magis lata quani longa, parum eonstricta; hemicjtia e fronte oblongo-liemisphaerica, utrinque mucro- nulata e Intere sphaerica. Jiinctura dimidiam partem totius latitiidinis acquante. Cjtioderniate levi. Cellula ellittica d ini quarto piìi larga che lunga, mediocremente stran- golata in due segmenti di cerchio strettamente a contatto fra di loro, e terminati da un bitorzolelto. Endocr9ma fatto da un liquido giallo dorato, con otto lamine di clorofilla, raggianti quattro per quattro da due grossi globoli di fecola , equidistanti dall' asse in ciascuna metà. Profilo laterale cilindrico leggermente intaccato nel mezzo, rotondato ai due capi. Profilo terminale ellittico. Parete liscia. Specie notevole per la sproporzione delle valve, molto piiì lunghe che larghe , notevoli ancora pel combaciamento loro da tutta la faccia commessurale sì intimo che. a primo aspetto , la cellula sembra indivisa. Dimensioni: Lunghezza o^oS'^S - Larghezza o,o432. Icon nostra, tab. VIII, fig. ii-i3. 20 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Spiegazione delie figure. FiG. 1 1 . Individuo veduto di ironie. )> \ì. Lo stesso da uno dei lati, di forma prossimamente cilindrica, leggermente strangolato nel mezzo. » 13. Lo stesso da uno dei capi, di forma ellittica ristretto ed appun- tato ai due capi. Lago di Candia nel Canavese. 23. COSMARII-M LATICOLLUM N. Lorica e fronte orbiculata, parum consiricta ,• hemicjtia e fronte he- misphaerica , os^ato-reniformia duplo mugis longa quam lata , utrinque bidentata, e Intere oblongo-cj lindracea, medio pai-um constricla, e ver- tice elliptica , utrinque mucronulata. Junctura dimidiam partem totius latitudinis aequante. Cjtiodermate punctalo. Cellula tanto lunga quanto larga, poco strangolata in due lobi tras- versalmente ellittici, allontanati da un tratto intermedio a foggia di collo. Endocroma d'un verde scuro, con piìi lamine clorofillari-assili in ciascuno dei lobi raggianti da un globolo di fecola. Forma dei lobi nel profilo la- terale rotondata, nel terminale, ellittica. Parete tutta coperta di granelli disposti in serie nel profilo longitudinale diritte, nel profdo laterale circolari. Osservazione. L' endocroma di questa specie non ha mai oiferto altro che un am- masso informe di globoli di grandezza disuguale senza alcuna traccia di laminette o fettucce. Dimensioni: Lunghezza 0,0076 - Larghezza 0,0576. Icon nostra, tab. Vili, fìg. ao-aS. Spiegazione delle figure. FiG. 20. Individuo a termine di sviluppo quanto alla conformazione della lorica, veduto di fronte. )) 21. Lo stesso veduto da uno dei lati. » 22. Lo stesso da una delle faccie commessurali. » 23, Individuo vuoto per mostrare la parete tutta coperta di punti. Lago di Candia nel Canavese. ac«:tore j. b. delponte. 21 24. COSMARICM EROSt'M N. Lorica e fronte suborbiculata valile constricta ■ hemicjtia oblongo- reniformia, utìinque prope basini subemaì-ginata, e latere sphaerica, e vertice elUptica. Junctura tertiain partem totius latitudinis aequante. Cj- tvodermate levi. Cellula d'ambito prossimamente orbicolare, tanto larga quanto lunga, divisa in due lobi ellittici divergenti, intaccati alle due estremità, colla strangolatura eguale ad un terzo della lunghez/.a delle valve. Parete minu- tamente punteggiata a punti trasparenti, non visibili che nelle cellule vuote. Endocroma d'un giallo dorato, fatto da più iascie di clorofilla, rag- gianti da un globolo di fecola. Veduti da uno dei lati gli emisomi si mostrano sferici. Profilo trasversale ellittico, brevemente appuntato ai due capi, recinti da un piccolo arco trasparente, il quale proviene dal mar- gine superiore dell'intaccatura sporgente al di sopra delf inferiore. Dimensioni: Lunghezza 0,0648. - Larghezza 0,0648. Icon nostra, tab. Vili, fig. 24-27. Spiegazione delle figure. FiG. 24. Individuo fresco e vigoroso veduto di fronte. « 25. Lo stesso da uno dei lati. » 26. Lo stesso da uno dei capi. » 27. Altro individuo in cor.so di sdoppiamento, coi due lobi dell in- dividuo nuovo che cominciano a spiccarsi l'uno dall'aUro. Lago di Candia nel Canavese. 2o. CosMARirai deltoideum N. Lorica e fronte ovato-triangulata , utìinque depressa, tertia parte magis longa quani lata; hemicjtia ovato-deltoidea, e latere commissurali elUptica. Junctura tertinm circiter partem totius lalitudinis aequante. Cj- tiodermate punctato. Cellula troncata, depressa alle due estremila, di due terzi più lunga che larj^a, profondamente strangolata: contorno liscio: parete minutamente punteggiata. Valve piramidali, con due globoli di fecola ed otto lamine di clorofilla, raggianti da ciascuno dei globoli e convergenti due per due 32 SPECIMEN DESMiDIACEARUM SUBALPINARUM alla soimnità. l'i-ofilo laterale bislungo esaltamente ovale nei corixi delle due valve. Profilo terminale ellittico, circolare. Osservazione. Differisce dal C. pjranddatum nella forma dei lobi^ più presto del- loidea che piramidale, per i lati del vertice sempre depressi od incavati e per il profilo laterale in forma di due masse ovali contrapposte, e per l'endocroma d'una struttura intieramente diversa ed infine per la presenza di due globoli di fecola in ciascun lobo. Dimensioni : Lunghezza 0,0648 - Larghezza 0,0396. Icon nostra, tab. Vili, fig. 28-3o Spiegazione delle figure. FiG. 28. Individuo vuoto pei- mettere in vista la parete punteggiata. » 29. Lo stesso da uno dei lati. » 30. Una delle valve veduta dalla faccia commessura le. Lago di Candia nel Canavese. 20. COSMARIUM BOTRVTIS MeneGH. Hetevocarpclla Rolrjtis Bory, Dict. class. ^ tab. Vili (iSaS), pag. r8o. Cosmariuin delloides Corda, Alni, de Garlsb. (i835), pag. 120, fig. i8. Euastvuin Boti-ylis Ehr. Inf (i838), tab. XII, fig. 8. Euastrum margaritaceum Focke, Phys. stud., tab. II, fig. 17-19 (1847). Cosmarium Botrjtis Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 99, tab. XVI, fig. i. - Menegh. Syii. Desm. in Linn. ^1840), pag. 220. - Kutz. Sp. Alg- (1849), pag- 175- Euastrum Botrjtis Na(;. Gattung. Einz. .\lg., pag. i 19, tab. VII a), fig. 3. Cosmarium Botrjtis De-Bary, Unters. der Conj., pag. 7, lab. VI, fig. 1-24. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 128. - Pritch. A. Hist. of Inf. (i86ij, pag. 733. - Raiìkmi. Bacili., n. 17. - Alg. n. 787, i, i588 et i960. - Grun. in Rabenh. Beitrag. Il, pag. i5, tab. II, fig. 26. - De Not. Eleni. Desm. ilal., pag. 43- lav. III, fig. 38. - Lund. de Desm. Siiec, pag. 26 (1871). Lorica e fi-onta obloìigo-elliptica hexagonali , quaita parte circiter magis longa quaiit lata, valde cons/ricta ; hemicytia suhhemisp/iaerica AUr.TOnE J. B. DELPONTE. 2Ó vertice complanata, quarta parte magis lata qiuim longa, e latere sphae- rica e vertice ohlonga , medio utrinque in/tata , e Jacie commissurali rhomboideo-elliplica. Junctura tertiam partem circiter totius latitudinis acquante. Cytiodermate granulato, verrucis minimis obtecto. Cellula d'ambito ellittica romboidale, d'un quinto più lunga che larga, profondamente strangolata in due lobi, di forma deltoidea, coi lati com- messurali rotondali. Endocroma d'un giallo dorato, tinto di verde, con la- mine di clorofilla, raggianti e. da un globolo di fecola equidistante dall'asse e dalla periferia. Lobi nel profilo laterale di forma oblunga rotondata, dalla faccia commessurale, bislungo ellittici rigonfi nella direzione dell'asse minore. Dimensioni. Lunghezza 0,0720 - Larghezza 0,0576. Icon nostra, tab. Vili, fìg. 3 1-39. Spiegazione delle figure. FiG. 31. Tndivi(ku) fresco a termine di sviluppo, colle lamine di cloro- filla distinte e coli' endocroma scavato nel mezzo in due grandi logge o diradamenti pieni di corpuscoli trepidanti senza globolo di fecola distinto. » 32. Altro individuo colle lamine scomposte, e con due grossi globoli di fecola per ogni valva. » 33. Altro individuo vuoto, veduto da uno dei lati. . )) 34. Altro individuo, veduto da uno dei capi. » 35, 36, 37, 38. Individui diversi che vanno d'accordo per la forma, ma che differiscono assai per le dimensioni. » 39. Una delle valve veduta dalla faccia commessurale. Comune dappertutto nelle acque di corso lento e stagnanti dei fossi, dei laghi, e delle vasche dei giardini. 27. CoSMARIUM TURPIMI BkÉB. Cosmarium Didelta Bréb. in Kltz. Sp. Alg. (1849), P''g- '74- Hetenwarpella Didelta T(;rv. Meni. Mus. Tom. XVI, pag. 295, (ig. i6. Cosmarium margariliferum Focre, Phys. Stud., tab. II, fig. 18. Cosmarium Turpinii Bréii. List. Desm. (i856), pag. 127. - Pritch. A. Hist. of Inf.(i86i), pag. 733. - Rabenh. FI. Eur. Alg. ^1868), pag. 172. - LuND.de Desm. Suec. (1871), pag. 29. 3^ SPECIMEN DESMIDIACEARIJM SUBALPINARUM Ijorica e fronte siibìiexagonali tain longa quain lata, profutide eon- stricta; hemicjtia e fronte ovato-subtetragona , lateribus subrectis. Jun- ctura fci-e tertiam partein totius latitiidinis aequante. Cyliodennate levi. Cellula tanto luiig.i quanto larga di ambito, prossimamente esagonale. Segmenti triangolari troncati all'apice, coi lobi commessurali rotondati, molto divergenti. Endocroma d'un giallo dorato misto di verde, con lamine di cloro- filla, raggianti da un globolo di fecola, parete sparsa di bitoizoli rilevati rotondati. Forma dei due lobi nel profilo laterale esagonale . nel profilo terminale ellittica, molto gonfia nel ventre. Osservazione. Il Brébisson sulle faccie di questo Cosmario pone un disco di bitorzoli piiì rilevati ; noi non vedemmo questo disco, bensì , nel profilo terminale, vedemmo delle crenature che forse corrispondono ai bitorzoli anzidetti. Dimensioni: Lunghezza o,o'y20 - Larghezza 0,0720. Icon nostra, tab. VTII, fig. ^o-f^Z. Spiegazione delle figwe. FiG. 40. Individuo iresco e vegeto veduto di fronte. )) 41. Altrrt, da uno dei lati. » 42. Lo stesso da uno dei capi. ») 43. Altro vuoto con uno dei lobi rimasto imperfetto. Lago di Candia nel Canavese. 28. COSMARIUM BROOMEI KalFS. Cosmarium Broomei Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. io3, tab. XVI, fig. 6, tab. XXXII, fig. 7. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. i3o. - Pritch. a. Hist. of Inf. (1861). pag. 734, tab. I, fig. 7. - Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs. I, pag. 201, - FI. Eur. Alg. (1868), pag. 171. - LuND. de Desm. Suec. (1871), pag. 29. Lorica subtetragona profunde constricta ; hemicjtia e fronte rectaii- gularia ; duplo inagis lata quam longa : e vertice utrinque Lamidiuscida, e facie commissurali elliptica. functura fere tertiam partem totius lati- tudinis aequante. Cjtiodermate granulato. AUCTORE J. B. DEI.PONTE. 25 Cellula tetragona , tanto lunga quanto larga , prolondamente strango- lata. Segmenti rettangolari. Endocroma d'un giallo tinto di verde, piuttosto denso, con due grossi globoli di fecola equidistanti dall'asse e dalla pe- riferia, recinto da un'aiuola d'un giallo dorato trasparente. Nessuna traccia di lamine clorofillari. Parete tiitta coperta di granoli disposti in linea retta. Forma dei lobi nel profilo trasversale obovato-ellittica , separati da un istmo distinto. Profdo terminale bislungo ellittico. Osservazione. La nostra figura, veduta di fronte, concorda perfettamente con quella di Ralfs, ma ne differisce intieramente rispetto al profilo longitudinale e terminale che olfrono entrambi nel mezzo un rigonfiamento in forma di croce, che noi vedemmo ancora negli individui inclinati da uno dei lati , non in quelli posti a perpendicolo , e quindi crediamo la nostra specie identica con quella del Ralfs. Dimensioni: Lunghezza 0,0576 - Larghezza 0,0376. Icon nostra, tab. Vili, fig. 44-48- Spiegazione delle figure. FiG. 44. Individuo perfetto a termine di sviluppo. » 45. Individui accoppiati. » 46. Individuo veduto da uno dei lati. » 47. Individui sorti da sdoppiamento, congiunti per il vertice, perchè non ancora giunti a termine di sviluppo. )i 48. Individuo veduto da imo dei capi. Laeo di Candia nel Canavese. "e 29. COSMABIUM INTER»! EDIUM N. Lorica orbiculato-oblonga, medio valde constricta ; hemicjtia e fronte hemìsphaerica , lateribus rotundatis, e facie commissurali planiusculis, e Intere oblongo-rotundatis, e vertice oblongo-ellipticis. Junctura tertiam partem totius latitudinis acquante. Cjtiodermate verrucis minimis obsito. Cellula negli individui veduti di fronte di forma ellittica, profondamente strangolata, colla giuntura presso a poco eguale alla terza parte di tutta la larghezza ; negli individui veduti da uno dei lati, le valve si mostrano di forma tonda. Superficie minutamente granolata. Serie TI. Tom. XXX. d 26 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Osservazione. Questa specie dovrebbe considerarsi come una forma più piccola del C. candianwn, ma vuoisi avvertire che ha la parete evidentemente granolata. Dimensioni: Limghezza 0,0-^92 - Larghezza 0,0612. Icon nostra, lab. Vili, fig. -y-io. Spiegazione dette figure. FiG. 7. Individuo fresco e vigoroso veduto di fronte. » 8. Individuo più piccolo. )» 9. Lo stesso veduto da un lato. » -tO. Lo stesso veduto da uno dei capi. Lago di Candia nel Canavese. 30. COSMARIUM TETROPHTALMUM BrÉB. Cosmarìum margaritiferum Focke, Phys. stud. (1847), tab. I, fig. 6. Cosniarium tetrophtalinum Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 98, tab. XVII, fig. II, tab. XXXVIII, fig. 8. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 127. - Rabenh. fi. Eur. Alg. (1868), pag. iSg. - Lund. de Desm. Suec, pag. 27 (187 1). Lorica ovato-oblonga fere tertia parte magis longa quam lata, medio valde constricta ; Iiemicjtia hemisphaerica , prope basim injlata. Junctura vix tertiam partem totiiis latitudinis acquante. Cjtiodermate granulis majusculis obsito. Cellula eminentemente ellittica, d'un terzo circa più lunga che larga, profondamente strangolala in due lobi semi-ovato-rotondati, alla base e divergenli. Endocroma d un verde erbaceo scuro, fatto di grossi granelli con più lamine di clorofilla, raggianti da un globulo di fecola ad egual distanza dall'asse; parete tutta coperta di bitorzoli che al margine fanno prendere al contorno l'aspetto di crenature. Nel profilo laterale i due lobi si mostrano prossimamente sferici, nel profilo terminale ellittici. Osservazione. La specie descritta per la prima volta da Kutzing nell'opera Synops. Diat. (i838), pag. 69, tab. VI, fig. 87, sotto il nome di Heterocarpella \UCTORE J. B. DELPONTE. 2'J tetraophlalma, e adottata da Buéb. Alg. Falaise (i835), pag. 56, pi. VII, e poscia nuovamente dal Mexegh. (Sinops. Desm. in Linn. (1840), pag. 220) non ha punto che fare colla specie figurata e descritta dal Ralfs, né con quella che noi avemmo sott'occhio, per essere la nostra incompara- bilmente più grossa, tutta coperta di grossi bitorzoli rilevali rotondati, non liscia (Menegh.) per la forma dei lobi presso a poco emisferici ed in- tieri non triangolari (Kutz.), ed è sicuramente per la sconvenienza di questi caratteri che già il Ralfs avvertiva non essere la specie del Menegh. secondo il Brébisson. La qual cosa lascia supporre che quest'ul- timo, nel 1841, gli avesse mandato il disegno della specie propriamente detta. Ma non s'intende poi come il Brébisson, nell'ultima sua opera List. Desm. (i856), abbia ammesso il Cosm. tetraophtaùnnm Kììtz. citando se stesso e l'opera del Ralfs. Diremo per ultimo che l'aggiunto di panmm. assegnato dal Kutz. (Sp. Alg., pag. 175), male si accorda a questa specie che è una delle più grosse. Dimensioni: Lunghezza 0,0612 - Larghezza 0,0004. » » o, I iSa » 0,0792. /con nostra, tab. IX, fig. t-4. Spiegazione delle figure. Fio. 1 . Individuo fresco e vegeto veduto di fronte. » 2. Lo stesso da uno dei lati. » 3. Lo stesso da uno dei capi. » 4. Altro vuoto più piccolo. Lago di Candia nel Canavese. 31. COSMARILM MARGARITIFERUM MenEGH. Cosmarium margaritiferum Menegh. Sy.n. Desm. in Linn. (1840), pag. 219. - Ralfs, in An. of Nat. Hist., voi. i4, pag- SgS, tab. II, fig. 4 (i844)r - Trans, of Bot. Soc. of Edin. , voi. 2, pag. j5, tab. XVI. - Ralfs, Brit. Desm., pag. 100 (1848), tab. XVI, fig. 3 e tab. XXXIII, fig. 3. Ursinella margaritifera Turp. Dict. Se. Nat., fig. 23 (1820), - Mém. de Mus. , pag. 295, tab. XIII, fig. ig. Heterocarpella Ursinella Kutz. Sin. Diat. (i833), pag. 698. 28 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Euastrum margariti/erum Ehr. Inf., pag. i63 (i838), tab. XII, fig. -j. - KuTz. Phyc. Germ., pag. i36. - Baylei, Amer. of^Sc and Arts, voi. 4', pag. 295, fig. 8. - NÀo. Gatlung. Einz. Alg., pag. 119, tab. VII (^), fig. 2 (1849). Micrasterias margaritifera Bréb. Alg. Falaise (i835), pag. 55, tab. VII. Cosmarium margariti/erum De-Bary, Unters. der Conjugat. (i858), pag. ^2. -Bréb. List. Desm. (i856), pag. 128. - Hass. Brit. Alg. (i845), pag. 363, tab. LXXXVI, fig. I. - Pritch. A. Hist. of Ini: (1861), pag. 733. - Rabenh. Alg., n. 626, - FI. Eur. Alg., pag. 157 (1868). - De Not. Elem. Desm. Ital., pag. 44? "• 28, Tab. IV, fig. 29. - Lund. de Desm. Suec, pag. 25 (1871)? Lorica suborbiculata , paulo magis longa quam lata; hemicjtia e fronte oblongo-reniformia, e Intere sphaerica, e vertice oblongo-elliptica, valde constìicta. Junctura tertiam partem totius latitudinis acquante. Cjtiodermate verrucis minimis obsito. Cellula d'ambito orbicolare ed un poco più lunga che larga, piolòn- damente strangolata in due segmenti reniformi ellittici. Endocroma di un verde delicato, misto di giallo, con lamine clorofillari assili, raggianti da un globolo di fecola. Parete tutta coperta di granelli. Forma dei lobi nel profilo laterale sferica con istmo distinto : nel pro- filo terminale, ellittica. Osservazione. Affine al C. Phaseolus Bréb., Ralfs, tab. XXXII, fig. 5, ma differente, perchè quest'ultimo ha la parete punteggiata ed il contorno liscio, e perchè nel mezzo dei lobi va provveduto di due aggetti o tubercoli rotondati. Dimensioni: Lunghezza o,0352 - Larghezza 0,0264. » )) 0,0613 » o,o5o4. Icori nostra, tab. IX, fig. S-g. Spiegazione delle figure. Fig. 5. Individuo fresco e vegeto veduto di fronte colla parte di mezzo che offre una grande aiuola piena di corpuscoli trepidanti. » 6. Altro, veduto da uno dei lati. « 7. Altro, veduto da uno dei capi. AUCTORE 3. B. DELPONTE. 29 Fi6. 8. Individuo più piccolo. » 9. Due individui accoppiali colla zigospora in corso di sviluppo. Lago di Candia nel Canavese. 32. CoSxMARIUM .4NOM.4LU.M N. Cosmarium hirelum Bréb. in litt. cum icone (1846) apud Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 102, tav. XVI, fig. 5. - Bréb. List. Desm. (i856), p. i3o. - Pritch. a. Hisl. of Inf. (18G1), p. ySS. Cosmarium conspersum Ralfs, 1. e, pag. loi, lab. XVI, fig. 4. Cosmarium latum Bréb. List. Desm. (i856), p. 128, tab. I, fig. io. Cosmarium margaritiferum Focke, Phys. stud. (1847), '^^^*- I^' ^'g- ^^■ Lorica subtetragona, tertia parte et ultra magis longa quam lata; he- micjtia subrectangularia , vertice plus minus rotundata , lateribus modo rectis, modo rotundatis, e latere sphaerica subaeque longa ac lata, e ver- tice oblongo-elliplica , cjlindracea. Junctura fere quartam partem totius latitudinis aequante. Cjtiodermate granulato. Species valde poljmorpha ! Cellula d'ambito quadringolaie, d'un terzo sino ad un quinto più lunga che larga, profondamente strangolata in due lobi, coi lat? talvolta diritti, talvolta gradatamente allargati dal basso in alto, più o meno convessi al vertice. Forma dei lobi nel profilo laterale perfettamente sferica , e congiunti a vicenda per una sorta di collo: nel profilo terminale ellittico. Parete tutta coperta di bitorzoli rotondati, disposti in linee longitu- dinali nella cellula veduta di fronte, ed in linee circolari concentriche nella cellula veduta da un lato. Endocroma d'un verde erbaceo scuro, recinto da una zona d'un giallo dorato, con due grossi globoli di fecola in ogni lobo. Disposizione delle lamine clorofiUari sinora ignote. Osservazione. Il Cosm. conspersum Ralfs, quanto alla forma dei lobi, trapassa gra- datamente nel Cosm. biretum e nel Cosm. latum Bréb. Il carattere più importante per distinguere il Cosm. biretum dal C. conspersum, per giudizio dello stesso autore (Ralfs), consiste nella protuberanza mediana che fa prendere ai lobi quasi una forma di croce 3t) SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM nel profilo terminale. Dal nostro canto noteremo d'aver incontrato individui conformi quanto alla disposizione dei bitorzoli a lati diritti come nel Cosm. lalum (Bréb.) ed a vertice prominente quasi troncato sui lati come nel Cosm. bireluin: ed inoltre passaggi dalla forma piana ad angoli roton- dati alla forma prominente convessa prossimamente cilindrica, ma non ci accaiide mai di vedere sporgimento notevole, e tanto meno la forma di croce nel profilo terminale. Al quale proposito ricorderemo, che una tal forma venne pure asse- gnata da Ralfs al Cosm. Broomei, nel quale l'abbiamo invano cercata in un gran numero d' individui ; che per altro una tal forma del Rai.fs ne si offerse in quest'ultima specie, tuttavolta che la cellula si trovava posta un po' di sghembo . non veramente a perpendicolo sopra uno dei capi. Dimensioni; Lunghezza 0,06 r 2 - Larghezza 0,0468. » )) 0,1008 » 0,0'y92. -\-; Icori nostra, tab. IX, lig. io-i5. Spiegazione delle figure. FiG. IO. Individuo di grandezza intermedia visto di fronte. »' 11. Lo stesso veduto da uno dei lati. » 12. Lo stesso veduto da uno dei capi. » 1 3. Due individui dentro ad una guaina in corso di sdoppiamento. » 1 4. Individuo vuoto. ». 15. Altro individuo vuoto più grande. Lago di Candia nel Canavese. 33. COSMARIUM Brébissomi Menegh. Cosmarium Brébissonii Menegh. Syn. Desm. in Linn. , p. 219 (1840). - KuTz. Sp. Alg. (1849), pag. 176. - Ralfs, Bril. Desm. (1848), p. 100, tab. XVI, fig. 3. - Pritch. A. Hist. of Inf, (1861), pag. 782. - Rabenh. Alg. n. 1224, - FI. Eur. Alg. (1868J, pag. r58. - Lund. de Desm. Suec. , p. 27 (1871). Lorica oblongo-elliptica subtetragona, valete coustricta; Jiemicjtia e fronte hemisphaerica , e latere subrotimda, paulo magis lata qiutm longa, veHice parumpe?- depressa, functura fere quartam partem totius latitu- dinis acquante. Cjtiodermate mucronato. AUCTORE J. B. DELPONTE. il Cellula di forma prossimamente quadrangolare ellittica, d'un quarto più lunga che larga , profondamente strangolata in due segmenli emisferici, un po' depressi al vertice, a lati combaciami, senza istmo di sorta. Endocroma d'un verde erbaceo scuro, recinto da una zona d'un giallo dorato semi-trasparente, con piii lamine clorolillari, raggianti da un glo- bolo di fecola. Parete tutta coperta di bitorzoli conici ed appuntati. Lobi nel profilo laterale di forma rotondata , coi bitorzoli alquanto più larghi che lunghi, disposti in linee diritte o circolari. Profilo terminale ellittico, rigonfio nel ventre, un po' depresso ai capi. Dimensioni: Lunghezza 0,05^6 - Larghezza o,o432. /con nostra, tab. IX, fig. 17-22. Spiegazione delle figure. FiG. 17. Individuo fresco e vegeto veduto di fronte. )) 18. Lo stesso veduto da uno dei lati il quale lascia vedere le spine più distinte. » 19. Altro individuo più piccolo. » 20. Lo stesso veduto da un lato. » 21. Lo stesso veduto da uno dei capi. )i 2 2. Individuo vuoto per mettere meglio in vista gli accidenti della parete. Lago di Candia nel Ganavese. 34. COSMARH'M CONATLM BrÉB Cosmarium connatiun Bkéb. in Litt. (1846) apud Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 108, tab. XVII, fig. io. - Bréb. List. Desm. (i 856), pag. iSa. - De-Bary, Unters. der Gonjugat. (i858), pag. 72, tab. 'VI, fig. 47. - Pritch. a. Hist. of Inf. (1861), pag. 735. Dysphincliwn Meneghinianum Nag. Gatlimg. Einz. Alg. ( 1849), pag. 112, tab. VI. G., fig. 2. Cosmarium connatum Rabenh. Alg. sub n. i443 e i444- " I^f. Not. Eleni. Desm. ital., pag. Sg, n. 20, tab. Ili, fig. 20. - Lund. de Desm. Suec, pag. 45 (1871). Lorica e fronte oblongo-cjlindracea , tertia circiter parte magis longa quam lata; hemicjtia subrotunda , tertia parte magis lata quam longa, e latere parumper compressa , e facie commissurali elliptica. Cjtioder- mate levi. Sa SPECIMKN DESMIDIACEARCJM SUBALPINAROM Cellula d un terzo più lunga che larga, alquanto compressa e legger- mente strangolata in due lobi emisferici. L'endocroma di questa specie venne rappresentato dal De-Bary sic- come formato da lamine clorofillari parte intiere, parte interrotte, rag- gianti irregolarmente da due globoli di fecola, equidistanti dall' asse e dalla periferia. Noi non vedenniio altio che xm ammasso informe di clorofilla, forse perchè trattavasi d'mdividui troppo avanzati, o troppo lon- tani dal termine del loro sviluppo. Parete leggermente punteggiata; con- torno liscio. Dimensioni; Lunghezza i),o'y2o - Larghezza 0,0434. fcon nostra, tab. IX, fig. aS-aS. Spiegazioìie delle figure. FiG. 23. Individuo a termine di sviluppo visto di fronte. » 24. Lo stesso da uno dei lati, il quale ne differisce per essere alquanto più piccolo. « 25. Una delle valve veduta dalla faccia commessurale. Lago di Gandia nel Canavese. SECTIO TERTIA. Endocroma cum nucleis faecidaceis nulUs aiit obsoletis. 33. CoSMAUICM ANCEPS N. Lorica oblongo-cyUndracea, duplo magis longa quain lata, vix medio constricta; hemicytia ovato- campaniformia, vertice rotundala, prope ba- sini infiala , e latere teretitiscida. Juncliwa terliam partem totius latitu- dinis acquante. Cjtiodennate levi. Cellula ovato-cilindrica, una volta piiì lunga che larga, poco o niente strangolata colle valve campaniformi, cioè rigonfie alla base e come rovesciate all' infuori, coi capi rotondati. Endocroma per lo piii denso, fatto di granoli piuttosto grossi, per lutto uniformi. AUCTORE J. B. DELPONTE. 33 Trovammo individui, sebben di rado , mancanti di materia verde nella parte più intima, con quattro lamine raggianti dall asse , per cui la cellula mostravasi divisa per lungo da uno spazio lineare trasparente; nessun globolo di fecola nella parte media, senza traccia di nucleo nel centro. Profilo laterale cilindrico, trasversale circolare. Parete liscia. « Osservazione. Specie molto afline a quella stabilita da Ralfs sotto il nome di C. quadratum. Ma ne dilFerisce per i due lobi un poco più ristretti alla som- mità, per cui viene ad essere alquanto improprio il nome di quadratum. Oltreciò la sutura della nostra specie si mostra più estesa e quasi il doppio di quella che s incontra nella figura del Ralis, tav. XV, fig. i [a). Dimensioni: Lunghezza o,o'j2o - Larghezza o,o36o. Icori nostra, tab. IX, fig. 26-29. Spiegazione delle figure. Fig. 26. Individuo veduto di l'ronte. » 27. Lo slesso da uno dei lati. » 28. Lo stesso da uno dei capi. » 29. Altro affraUto, mollo ingrossato. Lago di Candia nel Canavese. 3(ì. COSMARIUM PYRAMIDATUM BrÉB. Cosmarium ovale Ralfs, in Ann. of Nat. Hist. voi. i4, pag. 394 (ex parte), tab. XI, fig. 7 a. b. e. (1844)5 - Trans, of Bot. Soc. of Edin., voi. 2, pag. i5o (ex parte). - JEK^ER, Flora ol Tunb., pag. ig6. Cosmarium pjramidatum Bréb. in liti, apud Ralfs (i84ale perchè offre la lorica liscia, non provveduta di tubercoli disposti in quattro serie li- neari e paralelle , e per altri particolari. Più rozza ancora è la figura dell' Hassal probabilmente anche estranea alla specie, e di spettanza del C pjramidatuni quanto alla forma dei lobi. Avrei dovuto riferire il C. quadratum, pjirimidatum e ovale sotto al genere Djsphinctinni, ma me ne trattenne la mancanza di sLrangolatuia che imprime alla cellula un abito affatto particolare, quello cioè di due cel- lule unite assieme per una sorta di collo, mentre nel genere Djsphinctium abbiamo sempre una sola cavità di forma prossimamente cilindrica, aperta da un capo all'altri). Dimensioni: Lunghezza 0,1800 - Larghezza 0,1080. Icon nostra, tab. X, fig. 1-4. 36 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Spiegazione delle figure. FiG. 1. Individuo fresco e vegeto, coll'endocroma disposto sotto forma di fasce tortuose dal basso in alto. » 2. Lo stesso, veduto da uno dei lati. 3. Altro individuo differente per la forma dei lobi notevolmente ap- pianati ai due capi, coll'endocroma spartito in due masse per » ogni lobo. » 4. Altro vuoto, veduto da uno dei lati per mettere in vista le serie di granoli o mucroni che lo attraversano da un capo all'altro. Lago di Candia nel Canavese. Genus XII. STAURASTRUM. Lorica angidato-lobata , valde constricta. Hemicjtia efacie terminali pleriunque trigona vel triradiata, lobis radiisque simplicibus vel com- positis, apice tricuspidatis vel muticis, e latere ovato-oblongis plus minus elongatis. Endocìiroma e taeniis chlorophjllaceis prò qiioi'is angulo ge- minis, e centro et qiiideni a nucleo Jaeculaceo ad apicem anguli cujus- libet convergentibns. Cjtiodermate levi, aut globulis minimis vel miicro- nibus aspero. Zjjgosporae sphaericae, aut ignotae. Osservazioni iìitorno ai caratteri generici. Nel modo istesso che vi hanno degli Staurastri con una delle valve della lorica di tre lobi, e l'altra di quattro o più, ve ne hanno di quelli a valve indivise bislunghe od appuntate ai due capi. E quindi, se il nu- mero dei lobi non basta per costituire un carattere di specie, perde ogni sorta di valore quando si considera come carattere di genere ; e per con- seguenza le specie a due lobi debbono essere allogate sotto al genere degli Artrodesmi. Ciò posto, le specie a due lobi, quando non vi fosse altro, andrebbero riunite agli Artrodesmi. Tuttavia bisogna confessare, dice il Ralfs (Brit. Desm., pag. 117) che negli individui veduti di fronte, la ras- somiglianza degli Artrodesmi cogli Staurastri è molto intima. Ma non è men vero che le specie riferite da Ralfs agli Artrodesmi sogliono essere costanti nella conformazione delle valve della lorica, e AUCTORE J. B. DELPONTE. 3'J sinora non si conoscono, per quanto io sappia, individui di Artrodesmus convergens con una delle valve a due lobi, e l'altra di tre o piìi. Oltraciò i veri Artrodesmi possono avere altri caratteri abbastanza importanti per formare un genere a parte; e se noi non l'abbiamo stabilito questo ge- nere, egli è perchè vi hanno degli Artrodesmi A. octocornis (V. Hassal. Brit. Fresw. Alg., tav. LXXV) forniti di otto spine, i quali più non si possono distinguere dai Zantidj propriamente detti. Difatti gli Artrodesmi veri hanno tutti la parete liscia e gli angoli muniti di una spina lunga e robusta, col lobo terminato da una punta più o meno ottusa, distinta dalla spina, mentre nelle specie a lobi indivisi, che debbono far parte del genere Staurastro, i lobi riescono insensibilmente ristretti in una punta cilindrica terminata da tre spine. Quanto agH Staurastri a parete liscia, i quali veduti di fronte non dif- feriscono dagli Artrodesmi tranne che per le spine alquanto più corte, ad esempio V Ailrodesmas Dikiei, soggiugnerò avervi degli individui di A. con- vergens ad una sola spina ed altri che affatto ne sono privi, e che perciò non si possono distinguere dai Cosmari. Del resto il carattere più sicuro per distinguere gli Staurastri dagli Artro- desmi sta in ciò, che i primi hanno cordoni di clorofdla e i secondi lamine, ancorché negli individui viventi sia d'ordinario malagevole a riscontrarsi dall'osservatore. I cordoni partono dal globolo che si trova libero, al contrario le la- mine continue da una parete all' altra chiudono dentro il globolo. Per quest' ultimo carattere anche gli Artrodesmi per anomalia mancanti di spine, non possono confondersi coi Cosmari. SECTIO PRIMA. Cjtiodevmate levi. \. Staurastkum orbiculare Ralfs. StaUrastrum orbiculare Ralfs, in An. of Nat. Hist., voi. i5, pag. iSa, tav. IO, fig. 4 ('845), - Trans, of Bot. Soc. of Edin., voi. 2, pag. i38, tom. i3. - Jenner, Fior, of Tunb., pag. 96. - Bréb. in liti, cum icon. apud Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. i25, tab. XXI, fig. 5. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. i44- ' 38 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARIIM Desmidium oibiculare Ehr. (i838) Inf, pag. i4i, tab. X, fig. g. Goniocjstis orbicularis Hass. (i845) Brit. Fresh. Algae, pag. 349 , t^*'^- LXXXIV, fig. 7 (Trigonocjstis). Phjcastrum orbiculare Kutz. Phyc. germ. , pag. i37 (i845), Sp. Alg., pag. 17S (1849). Àmbljactinuin INàg Gatt. Einz. Alg. (1849), P^S- '^^' '^'''''- ^lU -^j I- - Pritch. a. Hist. of Inf. (1861), pag. 740. Staurastrum miUicuìib Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. laS, tab. XXXIV, fig. i3 (rispetto alla zigospora). - Menegh. Syn. Desm. in Linx., pag. 228. - Bréb. in litt. cani icon. apud Ralfs (1840), pag. 228, List. Desm., pag. .44 (i856). Binatella miilica Bréb. Alg. Fai., pag. 57, lab. Vili (i835).' Staurastrum trilobum Menegh. Gonsp. Alg. Eug., pag. 18 (1837). Phjcastium muticum Kutz. Sp. Alg. (1849), P^§' '79- Staurastrum orbiculare De Not. Eleni. Desm. ita!., pag. 55, tab. V, fig. 53 (1867). -Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs., pag. 188. - FI. Eur. Alg., pag. 200 (1868). - LuKD. de Desm. Suec, pag. 56 (1871). Lorica ambita suborbiculari, tam lata quam longa. valde constricta. Hemicjtia e facie primaria triangulata, angulis rotundatis, dorso inflato prominulo: e facie secundaria oblongo-reniformia, aut oblongo-elliptica. Junctuìu tertiam partem totius latitudinis aequante. Cjtiodermate levi. Cellula strangolata in due lobi nel profilo terminale triangolari , a lati leggermente incavati , ad angoli subitamente scorciati rotondati : nel profilo laterale ellittici, o ellittico-reniformi coi lobi tanto ravvicinati da prendere l'aspetto di un corpo rotondo, provveduti di guaina mucosa, o senza. Parete liscia. Dimensioni. Lunghezza o,oa88 - Larghezza o,0252. Icov nostra, tab. X, fig. 5- 12. Spiegazione delle figure. FiG. 5. Individuo veduto da una delle faccie. » 6. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » 7. Valva vuota di un altro individuo più grande, veduta da una delle faccie commessurali. 1) 8. 9, 10, 11. Individui della stessa specie molto ingranditi. » 1 2. Individuo munito di guaina in corso di sdoppiamento. Lago di Candia nel Canavese. AUCTORE J. B. DELPONTE. 09 2. Staurastrum laniatum N. Lorica e fronte triangulari ., medio plus mimis constricta ; hemicjtia e latere hemisph nerica aut oblongo-elliptica , vertice depressa, inflato- rotundata, duplo magìs longa quam lata, utrinque mucronulata , vel mu- tica. Junclura tertiampartem totius latitudinis acquante. Cjtiodermate levi. Cellula mediocremente strangolala in due lobi, negli individui veduti di fronte triangolari, coi lati leggermente concavi e gli angoli rotondati, terminati da un bitorzolelto corto ed ottuso. In questa giacitura abbiamo incontrato un individuo con globoli di fecola piiì piccoli del consueto, con sei lamine di clorofilla, convergenti due per due alle estremità. E di nuovo nella cellula veduta da uno dei capi si scorge nel centro una trasparenza rotonda e attorno ad esse tre globoli (V. fig. i6). Osservazione. Noi non avendo trovato caratteri abbastanza sicuri tra le forme indi- cate dagli autori sotto i nomi di S. brevispina, S. Dikiei, S. dejectum. abbiamo creduto di riferirle ad una sola forma essenziale sotto il nome di S. laniatuin. Diremo per ultimo di avere incontrato un individuo ano- malo il quale ci offerse tre globoli distinti con sei lamine di clorofilla in ciascuna delle valve. Dimensioni: Lunghezza o,o432 - Larghezza o,o36o. Icon nostra, tab. X, fig. i3-25. Spiegazione delle figure. Fig. 13. Individuo visto diritto sopra una delle faccie. » 14. Lo stesso, visto da un lato, coli' endocroma formato da grossi eranoli d'amido e di clorofilla senza traccia di lamine. » 15. Valva dello stesso, che mostra il nucleo centrale eie lamine di clorofilla, convergenti alla sommità d'ogni lobo. » 16. Altro individuo anomalo, provveduto di tre nuclei per ciascuna valva. » 1 7. Altro individuo veduto da uno dei lati. » 18. Altro fresco, visto da una delle faccie. 4o SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM FiG. 19. Altro individuo in cui si scorgono i lobi della valva sottoposta. » 20. Valva vuota, veduta dalla faccia commessurale. )) 21. Individuo colle valve alquanto allontanate l'una dall'altra, proba- bilmente in punto di sdoppiarsi. » 22. Altro, da uno dei lati coi lobi delle valve gradatamente ristretti alla sommità. )) 23. Lo stesso, veduto da una delle faccie terminali. » 24. Individuo allralito dentro ad una guaina, nelle cui valve si scor- gono due globoli verdi che paiono due gonidii o corpi ripro- duttori straordinari. » 25. Altro in corso di sdoppiamento. Lago di Candia nel Ganavese. o" 5. SfAL'RASTUUM CUSPIDATUM BrÉB. Binatella tricuspidata Bréb. Alg. Falaise (i835), pag. 5^, tab. Vili. Phycastrum ciispidatum Kutz. Pli. germ., pag. i38 (i84:'>). — spinulosum Nag. Gattung. Einz. Alg., pag. 126, tab. Vili A, fig. 3 (i849). Staurastrum cuspidatiim Bréb. Lisi. Desm. (i856), pag. 143. - Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 122, tab. XXI, fig. i e io. - Pritch. A. Hist. of Inf. (i86i), pag. 787, tab. I, fig. 3i-34. - Brkb. apud Menegh. in LiNN. (1840). - Rabenh. Krypt. Fior. v. Sachs., pag. 189, - Alg., n. 1327 (i856). Lorica triangularis fere tain longa quam lata, valde constricta ; he- micjtiis o\'aio- lunulatis riempe versus apicem sensim attenuatis atque in cuspidem modo rectam modo sursum vel deorsnm curvatam productis, doì'so triangularibiis. Junctura alias dimidiam, alias terliam partem to- tius latitudinis acquante. Cjtìodermate lei'i. Gellula profondamente strangolata in due segmenti nel profilo termi- nale, triangolari a lati quasi diritti.' leggermente incavati e smarginati, nel profilo laterale bislunghi lineari, largamente depressi al vertice, disgiunti da un istmo lungo, coi lobi appuntati, terminati da una spina filiforme piuttosto lunga ed acuta, diritta, piegata all'indentro, ritratta in alto, e quindi ora paralclla, ora convergente, ora divergente per rispetto a quelle dellaltro lobo. AUCTORE J. R. DELPONTE. 4' Osservazione. La giuntura dei lobi di questa specie varia assai secondo il periodo di vita in cui si trovano gli individui, stantecliè nei giovanissimi, appena giunti a termine di sviluppo, suol essere brevissima, mentre in quelli avan- zati in età e prossimi a moltiplicarsi per isdoppiamento si allunga notevol- mente in una sorta di collo che pareggia in lunghezza il corpo delle valve. La figura del Ralfs rappresenta due individui accoppiati colla zigo- spora armata di spine in corso di sviluppo, e va pienamente d'accordo coi nostri individui quanto ai caratteri della lorica. Dimensioni: Lunghezza 0,0 25 2 - Larghezza 0,0216. Icon nostra, tab. X, fig. 36-33. Spiegazione delle figure. FiG. 26. Individuo veduto da uno dei capi , ossia da una delle faccia terminali. « 27. Lo stesso veduto da uno dei iati in corso di sdoppiamento. 1) 28. Altro individuo colle spine terminali, ripiegate dal basso in alto. » 29. Altro individuo più piccolo veduto da uno dei capi. )) 30. Due individui nell'atto in cui le valve si aprono per dare ori- gine alla zigospora. » 31. Altro individuo veduto da uno dei lati cogli aculei ripiegati al- l' indentro. » 32. Altro individuo cogli aculei piiì lunghi e paralelli, veduto da uno dei lati. )) 33. Altro individuo a tre spine impiantate nel mezzo d'ogni lobo e piegate in alto. Lago di Gandia nel Canavese. 4. StAURASTRUM AOANTHOIDES N. Lorica aecjue longa ac lata., valde constricta, ambita aculeata; he- micjtia e facie primaria , tetragona lateribus concavis . apice inflato- spinulosis; e facie secundaria oblongo-reniformia. Junctura dimidiam par- tein totitis latitudinis acquante. Cjtiodermate aculeato. Serie IL Tom. XXX. f l^l SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI.PINARUM Cellula molto strangolata, poco più lunga che larga, a lobi nel profilo terminale quadrangolari, coi lati molto incavati, ad angoli troncati terminati da cinque spine, una delle quali centrale; nel profilo laterale rettangolari col vertice appianato, ed i lati un po' concavi. Ossena%ione. Differisce dallo St. spinosum in ciò che la cellula è di forma qua- drangolare, ossia composta di quattro lobi rotondati, in grazia d'una leg- giera incavatura dei lati , sui quali stanno impiantate direttamente cinque spine, una delle quali centrale. Le cellule vedute di fronte ci offrono una trasparenza in forma di croce. Affme, a primo aspetto, allo St. qua- drangulare (vedi Ralfs, Brit. Desm., tav. XXII, fig. 7), ma differentissimo, perchè quest'ultimo ha i lobi bifidi terminati da due spine, mentre nei nostri individui i lobi sono rotondati troncati con pivi spine, come si è detto or dianzi. Dimensioni : Lunghezza 0,0288 - Larghezza o,024t). Icon nostra, tab. XI, fig. 5-6. Spiegazione delle figure. FiG. 5. Individuo veduto da uno dei capi. » 6. Altro, veduto da uno dei lati. Lago di Candia nel Canavese. 5. StALK ASTRUSI REFRACTUM N. Lorica aeque loiiga ac lata mediocriter constricta ; hemicjtia e facie primaria qtiadriradiata, radiis cylindraceis apice trimcato-spinulosis; e facie secundaria late excavata, jiinctura dimidiam partem totius latitudinis aequante. Cytiodermate le\'i- Cellula un po' più lunga che larga, interrotta circolarmente da un seno largo e poco profondo, in guisa che la parte ristretta, ossia l'istmo, viene ad essere eguale nella lunghezza al corpo della cellula. Profilo terminale di quattro lobi cilindrici, ingrossali alla base e sormontati da due o tre spine. AUCTORE J. B. DELPONTE. 4^ Le cellule viste da uno dei lati olR-ono qualche cosa di analogo al tronco d'un uomo in grazia dei lobi che ne rappresentano le quattro estremità. Parete liscia. Dimensioni; Lunghezza 0,0210 - Larghezza 0,0180. Icon nostra, tab. XI, fig. 7-9. Spiegazione delle figure. FiG. 1. Individuo veduto da uno dei capi a quattro lobi. » 8. Lo stesso veduto da uno dei lati. > 9. Altro individuo che lascia vedere anche i lobi della faccia opposta all'osservatore. Lago di Gandia nel Canavese. G. StALRASTBCM INTRICATLM N. Lorica paulo magis longa qiiam lata , ambita undequaque partita ; hemicjtia e facie primaria triangulata , triloba, lobis divaricatis , apice spinulosis; e facie secundaria cum lobis vigintiduo, cjlindraceis abbre- viatis, apice spinulosis. Junctura dimidiam partem totius latitiidinis ac- quante. Cytiodermate levi. Cellula tanto lunga quanto larga , strangolata in due segmenti trifidi , ciascuno dei quali nuovamente spartito in tre , talvolta in quattro tubetti cilindrici terminati ancor essi da tre o da quattro spine. Per questa di- visione di segmenti in lobi, e di lobi in lobetti, ne segue che il profilo laterale viene ad essere intieramente diverso dal profilo terminale, e che l'uno e l'altro cangiano pigliando le forme più strane sotto l'occhio del- l'osservatore quali sono quelle ritratte nella nostra tavola. Quando la cellula trovasi a perpendicolo presenta una superficie trian- golare coi lati molto incavati e cogli apici bifidi o trifidi ; e per contro, poggiando sopra imo degli angoli, rivolge i due altri all'osservatore divisi e suddivisi, ciascuno in quattro rami rovesciati all'infuori; ed infine quando s'affaccia da uno dei lati l'angolo rivolto all'osservatore, cadendo sul seg- mento stesso, ne fa comparire il contorno ed il margine spartito in sei lobi- Dimensioni: Lunghezza o,0252 - Larghezza o,0252. Icon nostra , tab. XI , fig. 10-21. //{ SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Spiegazione delle figure. FiG. IO. Individuo fresco veduto da una delle faccie terminali col globolo di fecola e le lamine clorofdlari distinte. » II. Altro fresco, veduto da uno dei lati. » 12. Altro vuoto ed alFralito coll'endocroma che pare siasi trasformato in due zigospore. » 13. Altro individuo vuoto, che presenta ancor esso im globolo verde della stessa natura. » 1 4. Altro individuo vuoto, veduto da una delle faccie terminali molto ingrandito. )ì 13. Altro individuo vuoto, molto piti ingrandito, veduto da uno dei lati, che lascia vedere in iscorcio tutti i lobi delle valve. n 16. Altro individuo veduto da uno dei lati in diversa giacitura. » 17. Individui accoppiati colla zigospora in corso di sviluppo. » 18. Individuo coi lobi rimossi. )) 19. Una delle valve veduta dalla faccia commessurale. )) 20. Altro individuo vuoto. » 21. Un lobo pili ingrandito. Lago di Candia nel Canavese. 7. Staurastrum Candianum N. Lorica paulo magis longa qiiam lata, ambita qaaqaaversus ramosa, ramis cjlindraceis ; hemicjtia e facie primaria triangulala , lateribus rectisy medio bilobatis; e facie secundaria oblongo-injìata quinqueloba, lobis crlindraceis, apice spiìiulosis. Junctura dimidiam partem totius la- titudinis acquante. Cjtiodermate levi. Cellula tanto lunga quanto larga, a segmenti nel profdo terminale triangolari coi lati appianati convessi, e gU angoli spartiti in tre rami, uno dei quali (il terminale) apparentemente più lungo. Gli altri due posti nel mezzo dei lati, ed apparentemente piti corti, e quindi rimossi dal ter- minale, d'onde la forma d'un segmento triangolare coi lati concavi, sor- montati ciascuno da due lobetti cdindrici terminati da due spme. Ncli individui veduti da uno dei lati, le valve si mostrano fornite di cinque lobetti cilindrici, uno dei quali viene a cadere nel mezzo della faccia rivolta all'osservatore. AUCTCRE J. B. DELPONTE. 4^ Osservazioni. Il BnÉBissoN nella sua opera recente (List. Desin. 1 856?) osserva che nel 1847 ^^^^^ mandato il disegno di questa specie a Ralfs, il quale la pubblicò sotto al nome di St. spinosum col sinonimo di St. furcatum , appunto perchè il Brébisson stesso gli aveva fatto sentire l'identità d una specie coH'altra. Ma poscia, quest'ultimo, avendola meglio osservata, trovò che si era male apposto, e che una specie voleva essere distinta dall'altra con nome particolare, che bensì il X. furcatum Ehr. tornava identico con un'altra specie che gli venne fatto di scoprire in appresso ; e quindi per levare di mezzo ogni sorta di dubbio chiamò St. farcatum la specie veramente affine, ossia identica al X. furcatum Ehr. , e diede il nome di St. armi- gerum alla specie nuova che era stata causa di errore per lui e pel va- lente algologo ingle.se. Egli è facile immaginare le apparenze strane che ha da prendere sotto al microscopio un corpo sillatto tutto irto di prolungamenti e di spine che s'attraversano in tutte le direzioni. Noi avemmo cura di rappresen- tare nella nostra tav. XI le apparenze normali, ossia proprie delle cellule cjuando poggiano direttamente e verticalmente da uno dei capi e da uno dei lati, volgendo direttamente all'osservatore ora uno degli angoli, ora uno dei lati. Soggiungeremo, che le nostre figure non hanno che fare con quelle del Ralfs e del Brébisson (vedi Ralfs, Brit. Desm. , tav. XXII , fig. 8 , e Bréb. List. Desm., tab. I, fig. 22). Di fatto i nostri individui offrono le valve triangolari coi lati quasi diritti, sormontati nel mezzo da due lobetti ci- lindrici terminati da due spine, mentre nella figura del Brébisson le valve sono bensì triangolari, ma cogli angoli sormontati da tre spine lineari ed appuntate come al solito, donde un aspetto intieramente diverso negli individui veduti da una delle faccie e da uno dei capi (vedi tab. nostra XI, fig. 22. 23. 24); ne differiscono ancora perchè i tubercoli e le spine of- frono una disposizione diversa da quella dei nostri individui. La qual cosa lascia credere che gli osservatori anzidetti hanno avuto sottocchio individui di specie diverse o non esattamente ritratti , ed è la ragione per cui ab- 46 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPISARUU biamo creduto a proposito di darlo a conoscere con altro nome tratto dalla sede nativa. Dimensioni: Lunghezza o,o354 - Larghezza o,o354. Icon nostra, tab. XI, fig. 32-34. Spiegazione delle figure. Fig. 22. Individuo veduto da uno dei capi per mettere in vista la forma e la giacitura dei lobetti. » 23. Altro veduto da uno dei lati , le cui valve offrono sei lobi in ciascuno degli emicitii. » 24. Altro individuo nellastessa giacitura, contino degli angoli in iscorcio dalla parte dell osservatore. Lago di Candia nel Canavesc. SECTIO SECUNDA. Cytioderinale punctato-verrucoso. 8. Staurastrijm punctulatum Bréb. Staurastruin punctulatum Bréb. in l'Ut. (1846) apud Ralfs, Brit. Desm., pag. t33, tav. XXII, fig. i. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. i44. - Pritch. a. Hist. of Inf. (e8Gi), pag. 'j^o. - Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs., pag. 188, - Alg. , n. 1208. i35i. 1768. iSo'y, - FI. Eur. Alg., pag. 208 (1868). - De Not. Eleni. Desm. ital., pag. 5i, lav. IV, fig. 44 (t867). - LuND. de Desm. Suec. , pag. 63 (1871). Lorica aeque longa ac lata valde constricta; hemicjtia e facie pri- maria triangularia , lateribus rectiusculis , lobis abbreviatis , apice rotun- datis muticis: e facie secundaria oblongo -ovata. Junctura tertiam partem totius latitudinis aequante. Cjtiodennate verriicis mininiis obtecto. Cellula appena più lunga che larga, profondamente strangolata in due masse globose ellittiche allontanate, divergenti col maggiore sviluppo verso la sommità, donde l'aspetto d'un antico orologio a polvere, presso a poco come nel Cosm. Clepsjdra. Profilo terminale a lati diritti, o quasi diritti; pa- rete minutamente granulata colle granulazioni disposte in linee concentriche. AUCTORE J. B. DELPONTE. 4? Osservazione. Il BnÉBissoN nel 1846 mandò al Ralfs i disegni di questa specie, che la pubblicò nella sua opera senza darne scliiarimento alcuno, altret- tanto fece il Brébisson accogliendola nel suo più recente lavoro or dianzi accennato (Bréb. List); del resto, per quanto si può dedurre dalla figura, la specie in discorso non ditferisce dallo Staur. punctulatum, tranne che pei punti più grossi a maniera di granoli , carattere che non ci sembra bastante a costituire una specie. Dimensioni: Lunghezza o,o2"o - Larghezza 0,0288. Icon nostra, tab. XI, fig. 33-38. Spiegazione delle figure. FiG. 33. Individuo veduto da una delle faccie. » 34. Individuo veduto da uno dei lati. » 35. Individuo atFralito, veduto da uno dei capi. » 3t). Altro individuo veduto da uno dei lati. » 37. Altro individuo un poco più piccolo, veduto da una delle l'accie terminali. » 38. Altro individuo alquanto più grosso del precedente. Laso di Candia nel Canavese. 9. Staurastrum ai.ternapss Bréb. Staurastrum tricorne Ralfs, in Ann. ofNat. Hist., voi. i5, pag. 14 1, tab. XI, fig. 2 (1845), - Trans, of Bot. Soc. of Edin., voi. 2, pag. 141, tab. XIV. - Jenner FI. of Tunb. , pag. 194 (non di Menegh., secondo il Bréb. ed il Ralfs). Trigonocjstis hexaceros Hass. Brit. Freshw. Alg. , pag. 352, tav. LXXXIY. Staurastrum alternans Bréb. in litt. (1846) apud Ralfs, Brit. Desm.,, pag. i32, tav. XXI, fig. 7.- Pritch. A. Hist. of Infusoria (1861), pag. 741, tab. Ili, fig. 16-17. Staurastrum dispar Bréb. List. Desm. (i856), pag. i44- - Rabenh. FI. £ur. Alg., pag. 207 (i868). ^3 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI.PINARUM Lorica paulo iiiagis lata quam loiiga , valde constricta ; heniicjtia o facie primaria triangularia 3. 4- 5 radiata, angitlis seu lobis rofundatis, miiticis, lateribus concavis ; e facie sccundaria oblongo-renifoi-inia ani oblongo-elliptica , apice macronulata vel mutica. Junctura terliam partein totius latitadinis acquante. Cjtiodermate granulato. Cellula tanto lunga quanto larga , profondamente strangolata in due lobi triangolari a lati incavati ad angoli ottusi lotondati. Nel profdo la- terale, ora lineari ellittici divergenti distintamente incavati ai due capi, ora troncati alternativamente, vale a dire coi Iati più lunghi, imo a destra r altro a sinistra , ciò che dipende dall' alternanza dei lobi che si rico- prono a vicenda. Osservazioni. Questa specie, dice il Brébisso\ a proposito dello St. dispar, diffe- risce dallo St. alternans per la statura più piccola, per le valve rigonfie, pei raggi corti e la supei'Ticie più rugosa. Noi l'abbiamo raccolto in grande abbondanza in una pozzanghera di acque pigre di sorgenti , e vi abbiamo trovato quanto alla statura tutti i passaggi da 0,0216 fino a OjoSgG gradi di diametro. Più la statura diminuisce, più la cellula diventa globosa, e quand'anche le rugosità fossero più risentite, un tal carattere non ci sembra avere valore abbastanza da costituirne una specie. È una forma che s'accosta alla specie stabilita dal Prof. De Notaris sotto il nome di St. pjgmaeum, tab. IV, fig. 45; ma ne differisce per la forma dei lobi nel profilo laterale, e per i punti sparsi in serie circolari. Dimensioni : Lunghezza 0,0896 - Larghezza 0,0396. » » 0,0216 » 0,0216. Tcon nostra, tab. XI , fig. 39-47- Spiegazione delle figure. Fig. 39. Individuo fresco veduto da una delle faccie terminali, n 40. Lo stesso da uno dei lati. )) 41. Lo stesso da uno dei lati in diversa giacitura. » 42. Altro più piccolo, veduto da uno dei capi. » 43. Sporangio colle valve vuote dei due individui che gli hanno dato origine. AUCTORE J. B. DELPOXTE. 49 FiG. 44. Individuo veduto da una delle (accie terminali a quattro lobi, >i 45. Valva vuota dello stesso, veduta dalla faccia comniessurale. » 46. Altro individuo più piccolo a cinque lobi. Il 47. Individuo fresco, veduto da uno dei lati. Sui colli del Monferrato (Acqui). IO. Staurastrum tricok>'e Bréb. Blnatella tiicornis Bréb. Alg. Falaise, pag. $7, tab. Vili (i835)? Desmidium hexaceros Ehr. Inf , pag. il\i, lab. X , fig. 10 (i838). Staurastrum tricorne Bréb. apud Menegh. Syn. Desni. in Linn. (1840), pag. 225. - Pritch. a. Hist. of Inf. (i86i), pag. 74'- Phjcastrum tricorne Kutz. Ph. Germ. pag. 137 (i845). - Sp. Alg. (1849), pag. 129. - Ralf.s, Brit. Desm. (1848), pag. i34, tab. XXII, fig. 11; tab. XXXIV, fìg. 8 (zigospora). - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 140. Staurastrum tricorne Rabenh. FI. Eur. Alg.. pag. 207 (1868). - Luwd. de Desm. Suec. , pag. 63 (1871). Lorica quarta parte magis lata quam longa , medio valde constricta; hemicftìa e facie primaria triangularia , angulis oblongo-ovatis apice bituberculatis : e facie secundaria ovato-oblongis . Junctura quartam partem totius latitudinis aequante. Cjtiodermate verrucis minimis vestito. Cellula d'un quarto circa più larga che lunga, a lobi profondamente spartiti in due segmenti negli individui veduti da uno dei capi triangolari coi lati leggermente incavati ad angoli conici ottusi ed alterni, terminati da due bitorzoletti colla parete tutta coperta di granoli minuti: negli indi- vidui veduti da uno dei lati, bislunghi fusiformi. Dimensioni: Lunghezza o,o3oG - Larghezza o,o36o. Icon nostra, tab. XI, fig. 48-5o. Spiegazione delle figure. Fio. 48. Individuo fresco, veduto da una delle faccie terminali. >) 49. Altro veduto da uno dei lati. « 50. Altro vuoto, veduto da una delle faccie commessurali. Lago di Candia nel Ganavese. Serie II. Tom. XXX. G 5o SPECIMEN DESMIDIACEARUM SOBALPINARUM II. StaURASTRUM ROBL'STIJM N. Lorica aeque longa ac lata mediocriter constricta , ambitu aculeata caeteriim levis ; hemicjtia efacie primaria triangulata , lateribus tumidis, margine aculeata, angulis iti cuspidem callosam tridentatam productis. A facie secundaria obconica, turbinata, aculeis sex validis prò uno- quoque Intere; strictura tertiam circiter hemicjtiorum partem acquante. Cellula tanto lunga quanto larga a lobi nel profilo terminale, triangolari coi lati un po' gonfu armati ciascuno di sei spme coniche robuste, e ter- minati da una laminetta callosa tridentata; nel profilo laterale trasversal- mente ovati, crociformi, lisci in tutto, tranne che verso il margine dei lobi dove si trovano le spine anzidette. Dimensioni: Lunghezza 0,0684 - Larghezza 0,0684. Icon nostra, tab. X, fig. 34-35. Spiegazione delle figure. FiG. 34. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 35. Lo stesso, veduto da uno dei lati. La"o di Candia nel Canavese. ■o" 12. Staiirastrum COMPLAINATCM N. Lorica quarta pai-te magis lata quam longa valde constricta, ambitu aculeata; hemicjtia e facie primaria triangulata lateribus concavis mar- gine spinulosis cum spinis in parte media longioribus, efacie secundaria vertice complanata aculeis destituta. Junctura tertiam partem totius latitiuìinis acquante. Cytiodermate spinuloso. Cellula d' un quarto piiì larga che lunga , profondamente strangolata coi lati incavati armati di spine , delle quali una piii robusta presso al- l'estremità. Nel profilo laterale ovato bislunghi colla giuntura di poco su- periore alla terza parte della larghezza totale. Dimensioni: Lunghezza o,o54o - Larghezza o,o432. Icon nostra, tab. X , fig. 36-3'y. AOCTORE J. B. DEr.PONTE. -"> I Spiegazione delle figure. FiG. 36. Individuo veduto da una delle faccie. » 37. Altro veduto da uno dei lati. Lago di Gandia nel Canavese. 15. Staurastrum semicosum N. Lorica paulo niagis lata quam longa, valde constricta; hemicjlia e facie primaria triangularia , e facie secundaria oblongo-cjlindracea, la- teribus rectiusculis , apice rotiindatis margine aculeis validis biseriatis instructo. Junctura fere tertiam partem totius latitudinis acquante. Cjtio- dermate spinis validis armato. Cellula alquanto più larga che lunga, a segmenti nel profilo terminale triangolare a lati diritti e ad angoli ottusi: nel profilo laterale, ellittici ap- pianati ai due capi molto rimossi, divergenti dallato della strangolatura. Parete tutta coperta di spine lunghe ed acute disposte in serie lineari convergenti verso la sommità degli angoli, motivo per cui riescono molto pili fìtte in detta sommità. Osservazione. Il Ralfs, accennando nel supplemento questa specie, statagli inviata dal Brébisson con un disegno, la dice affine e quasi intermedia allo St. hir- sutum e allo St. teliferum. Ma v'hanno caratteri, per farne una specie propria distinta dallo St. hiisutiun : 1° Per le appendici della parete che sono molto piìi lunghe, più rigide, distrigate, diritte a maniera di spine propriamente dette; ■2" Per la struttura dei lobi appianati sul vertice, rimossi dal lato della strangolatura , non uniformi , ellittici o emisferico-tiiangolari con- niventi contigui, come nello St. hirsutum. Quanto allo St. teliferum riesce distinto dalluno e dall'altro per la forma dei lobi che nel profilo verticale si mostrano coi lati più rotondati, più grossi ai due capi. S' aggiugne che nello St. echinatum , oltre all' essere più grosso del 53 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAl.PINARUM doppio degli altri , le spine sono disposte regolarmente in serie lineari convergenti verso gli angoli, mentre, negli altri due, spine e peli si trovano sparsi senz'ordine. Dimensioni: Lunghezza 0,0720 - Larghezza 0,0792. Icon nostra , lab. X , fig. 38 - Sg. Spiegazione delle figure. FiG. 38. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 39. Lo stesso, veduto da uno dei lati. Lngo di Candia nel Canavese. 14. Staurastrum teliferum Ralfs. Staurastrum teliferum Ralfs, Bril. Desm. (1848), pag. 128, tal). XXII, fig. 4, tab. XXXIV, fig. 14. - Pritch. A. Hist. of Inf. (1861), pag. 789, tab. Ili, fig. 20 e 21. - Rabenh. Alg. n. 689(1826), -FI. Eur. Alg., pag. 212 (1868). - De Not. Elem. Desm. ital., pag. 5o, tab. IV, fig. 4o (1867). - LuND. de Desm. Suec, pag. 64 (1871). Lorica paulo magis longa cjuam lata valde constricta, ambitu acu- leata, aculeis in parte extrema loborum confertissimis ; hemicjtia e facie primaria triangulata, angulis rolundatis, lateribus concavis ; e facie se- cundaria oblongo-elliptica. Junctura dimidiam partem circiter totius la- tiludinis acquante. Cjtiodermate aculeato. Cellula alquanto piìi lunga che larga, leggermente strangolata m due segmenti nel profilo verticale, triangolari a lati incavali ad angoli grossi rotondati, nel profilo laterale ellittici contigui, motivo per cui la cellula vuota, veduta dalla faccia commessurale, presenta un foro che occupa i due terzi dell'area totale. Parete tutta armata di spine robuste che si vanno diradando e per- dendo verso la parte centrale, mentre si mostrano più lunghe, piìi fitte sugli angoli. Zigospora sferica, armata di spine talvolta a foggia di lubilli lunghi e cilindrici bifidi alla sommità, talvolta semplici e corte, probabilmente perchè la zigospora si trova lontana ancora dal termine del suo sviluppo. I nostri individui differiscono da quelli ritratti dal Prof. De Notaris per le spine più rade , più lunghe e più fitte alla sommità dei lobi. AUCTORE J. B. DELPONTi:. 53 A confronto della figura data dal Lundel, la dilìereiiza sta nei lobi più rotondati, ed anche nella conformazione delle spine, che sono in generale pili lunghe, specialmente quelle poste negli angoli. Dimensioni: Lunghezza 0,0468 - Larghezza o,o432. Icon nostra, tab. XI, lig. i-4- Spiegazione delle figure. FiG. 1. Individuo fresco e vegeto coll'endocroma formato di grossi globoli verdi, i quali non lasciano vedere né le fascie né il nucleo. » 2. Valva vuota di un altro individuo veduta da una delle faccie terminali. » 3. La stessa, veduta dalla faccia commessurale. )) 4. Zigospora dello stesso, colle valve dei due individui che le hanno dato origine, in corso di sviluppo. Lago di Candia nel Canavese. o 13. StAUR ASTRUSI PILOSUM BrÉB. Staurastvum pilosum Bréb. List. Desm. {i856), pag. v^i, tab. II, fig. 49. - Pritch. a. Hist. of Inf. (1861), pag. 73g. - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. 212 (1868). Phjcastrum pilosum Nag. Eins. Alg., tab. Vili. A., fig. 4 -^ Lorica palilo magis lata quani longa, valile constricta^ hemicjtia e facie primaria triangularia , laterihus exca\>atis piliferis , apice ovatis . obtusis; e facie secundaria omto-oblonga, medio in/lata. JuncLura fertiam. partem totius latitudinis aequante. Cjliodermate spinuloso. Cellula sempre più larga che lunga, strangolata in due lobi nel profilo terminale triangolari ad angoli ovato-ottusi a lati leggermente incavati , nel profilo laterale fusiformi ellittici prominenti al vertice molto allon- tanati e divergenti dalla parte della strangolalura. Parete coperta di peli o spine disposte in linee circolari, principalmente alle estremità dei lobi Osservazioni. Affine allo St- hirsutum, ma ne dilferisce per i lati distintamente incavati, e per i lobi negl'individui veduti da uno dei lati prominenti nella parte media, ed infine per le dimensioni, essendo il pilosum alquanto più grosso. ^4 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Le valve di questa specie nelle figure del Nageh sono coperte di peli ghiandoliferi , radi e piuttosto lunghi ; nei nostri individui non ve- demmo che peli ordinari. Dimensioni : Lunghezza 0,0468 - Larghezza o,o54o. Icon nostra, tab. XI, fig. 29-00. Spiegazione delle figure. FiG. 29. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 30. Lo stesso, veduto da uno del lati. Lago di Candia nel Ganavese. 16. Staurastrim hirsutum Ralfs. Xanthidiuni hirsutum Ehr. Inf. , pag. 147, tab. X, fig. 22 (i838). - Menegh. Syn. Desm. in Linn. (i84oj, pag. 224. Binatella hispida Bréb. Alg. Falaise, pag. 58, tab. Vili (i835). Staurastrum muricatum Ralfs, Ann. of Nat. Hist. , voi. i.5, pag. i54, tab. XI , fig. I [a) (h) (e) (i845), - Trans, of Bot. Soc. of Edin., voi. 2, pag. i4i , t'ib. XIV. - Jenn. fi. of Tunb. , pag. 194. Staurastrum hirsutum Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 127, tab. XXII, fig. 3 (ex parte). - Bréb. List. Desm., pag. 141 ( t856). - Pritch. A. Hist. of Inf, pag. ^Sg. - Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs., pag. 190, - Alg. n. 1209. 1232. 1543. 1899, - FI. Eur. Alg., pag. 211. - De Not. Elem. Desm. ital., pag. 5o, tab. IV, fig. 41. Lorica aeque longa ac lata , mediocriler constrictu ; hemicjtia e Jacie primaria triangularia , angulis ovato~rotundatis muticis : e facie secun- daria oblongo-elliptica , undequaque pilis vestita. Junctura dimidiam partem totius latitudinis acquante. Cjtiodermate hirsuto. Cellula tanto lunga, quanto larga, o d'un quarto pii!i lunga che larga, strangolata in due lobi nel profilo terminale, triangolari ottusi diritti o leg- germente convessi, nel profilo laterale bislunghi ovati e strettamente rav- vicinali contigui ; parete tutta coperta di peli più fitti alla sommità dei lobi. Dimensioni: Lunghezza 0,0468 - Larghezza o,o36o. Icon nostra., tab. XI, fig, 3 1 -3 2. AUCTORE J. B. DELPONTE. 55 Spiegazione dette figure. FiG. 31. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 32- Lo stesso, veduto da uno dei lati. Lago di Candia nel Canavese. 17. Staurastrum muricatim Bréb. Binatella muricaUi Bréb. Alg. Falaise, pag. 66 (i835). Desmidium apiculosum Ehr. Inf. , pag. 142 (i838). Staurastram muricatiun Bréb. apud Menf.gh. Syn. Desm. in Linn. (1840), pag. 226. Trigonocjstis muricata Hassal. Brit.Fresw. Alg.^ tav. LXXXIV, fig. io. Xanthidium deltoideum Corda, Obs. niicros. animai, de Carls.. pag. 20 tab. V, fig. 38. 39 ( 1 840). Staurastrum muricatum (3. Ralfs, An. of Nat. Hist., voi. i5, pag. i54, tab. XI, fig. \. d. e. (i845), - Trans, of Bot. Soc. of Edio., voi. 2, pag. 141, tab. XIV. - Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 126, tab. XXIL fig. 2. Phjrcastrum muricatum Kutz. Sp. Alg. , pag. 182 (1849). Staurastrum muricatum ^f.t^.lÀsi. Desm. (i856), pag. i4i. - Pritch. A. Hist. of Inf. (1861), pag. 740. - Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs. I, pag. 190, - Alg. n. 1209. 1407. 1592. 1936, - FI. Eur. Alg., pag. 208 (1868). Lorica paulo magis longa quam lata, profunde constricta; hemicjtia e facie primaria triangularia , angulis rotundatis, lateribus tumidiusculis tubei'culato-spinulosis ; efacie secundaria ovato-oblonga. Junclura teitiam partem totius latitudinis acquante. Cytiodermate mucronulato. Cellula un po' più lunga che lai-ga, profondamente strangolata in due lobi ; nel profilo terminale triangolari coi lati piani e gli angoli ottusi ; nel profilo laterale emisferici , un po' rigonfi dalla parte della strangola- tura, e divergenti dallindentro all'infuori; parete coperta di spine corte, ma grosse ed appuntate, e come inserite su di \m bilorzoletto. Negli individui freschi i Iati si mostrano realmente piani; ma per il re- stringimento che ha luogo alle due estremità, a pi imo aspetto, paiono tumidi. Dimensioni. Lunghezza 0,0720 - Larghezza 0,0576. » » o,o5o4 » 0.0432. Icon nostra, tab. XI, fig. 5 1 -Sa. 56 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Spiegazione delle figure. FiG. 51. Individuo veduto da una delle faccia terminali. )) f>2. Lo stesso, veduto da uno dei lati. Lago di Candia nel Canavese. t8. Staurastrum contortum N. Lorica quarta parte magis lata quam loìiga , valde constricta; he- micjtia e facie primaria triangularia , lateribus excavatis dentato-spi- nulosis ; e facie secundaria lunato-oblouga medio infiala , radiis prope apicem incurvatis. Junctura tertiam partem totius latitiidinis acquante. Cjtiodermate verrucoso. Cellula d'un quarto piti lunga che larga, colle valve negli individui veduti di fronte, triangolari coi lati incavati, gradatamente ristretti e ri- piegati all' infuori , terminati alla sommità da tre spine. Negli individui veduti da uno dei lati, i lobi si mostrano di forma semilunare cogli apici piegati dal Jjasso in alto. Giuntura eguale alla terza parte della larghezza. Parete coperta di granoli disposti in serie circolari. Dimensioni: Lunghezza 0,0388 - Larghezza o,o432. Icon nostra, tab. XI, fig. 53-55. Spiegazione delle figure. FiG. 53. Individuo veduto da una delle faccie. » 54. Altro veduto da uno dei lati molto piti piccolo. » 55. Una delle estremità molto ingrandita. Laeo di Gandia nel Canavese. 19. Staurastrum paradoxum Meyen. Staurastrum paradoxum Meyen. Nov. acta Leop, Halm., voi. i4, pag. 43, fig. 37-38 (1828). - Menegh. Syn. Desm. in Linn. (1840), pag. 227. - Ralfs, of Nat. Hist., voi. i5, pag. i5i. tab. X, fig. 2, - Trans, of Bot. Soc. of Edin., voi. 2, pag. 137, tab. XIII. Micrasterias staurastrum Kuxz. Syn. Diat. in Linn., pag. Sgg (i833). AUCTORE J. B. DELPONTE 5'] Phjcastvum paradoxum Kùtz. Sp. Alg. (18/19), P^g- ''^*^- Staurastrum paradoxum Ralfs, Brit. Desm. , pag. i38 (1848), lab. XXIII, fig. 8. - Bréb. List. Desm., pag. iSp (i856). - Rabenh. Krypt. FI. V. Sachs. I, pag. igr. - Alg. n. 1989 (i568). - Pritch. Hist. ot Inf., pag. 742 (1861). - De Not. Eleni. Desm. Ital., pag. Sa, tab. IV, fig. 46- - LuND.de Desm. Siiec. , pag. 67. Lorica tertia parte circiter magis lata qiiam loìiga , inediocriter con- stricta; hemicjtia efacie primaria et secundaria biradiata, radiis medio injlatis cellulae corpus aequantibus , apice tricuspidatis. Junctura quintam partem totius latitudinis acquante. Cjtiodermate tuberculato-spinuloso. Cellula della lerza parte più larga che lunga, profondamente stran- golata coi raggi divergenti che pareggiano in lunghezza il corpo della cellula, terminati da due spine: lobi negli individui veduti da un lato di forma ovale, lungamente ristretti in uu raggio cilindrico: negli individui veduti da uno dei capi di forma lineare , rigonfi nel mezzo. Giuntura eguale alla quinta parte della lunghezza totale. Parete coperta di spine coi'te e minule disposte in serie circolari. Dimensioni: Lunghezza 0,0720 - Larghezza o,o5o4. Icon nostra, tab. XI, fig. 63-65. Spiegazione delle figure. FiG. 63. Individuo veduto da una delle faccie terminali. n 64. Altro veduto da uno dei lati. r, 60. Altro individuo piii grosso, veduto pure da uno dei lati. Lago di Candia nel Canavese. 20. Staurastrum gracile Ralfs. Euastruin n. i3. Bailey. Amer. BacUI. in Ann. Journ. of Se. and Arts, voi. 4', pag- 296, tav. I, fig. 2. 5 (i84i). Staurastrum gracile Ralfs, Ann. of Nat. Hist., v. i5, pag. £55, tab. XI, fig. 3 (1845), - Trans. ofBot. Soc. of Edin. , voi. 2, pag. 142, tab. XIV. Trigonocjstis gracilis Hassal. Brit. Alg., pag. 352, tav. LXXXV, fig. i (1845). Phjcastrum gracile Kuxz. Sp. Alg. (1849), P^§- ''^'• Serie II. Tom. XXX. h 5P^ SPECIMEN DESMIDIACEARUM SDBALPINARTJM Staurastrum gracile Ralfs, Brit. Desin., pag. i36, lab. XXll, fig. 12. - Bréb. List. Desm. , pag. iSg (i856). - Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs., pag. 192. - Pritch. Hist. of Inf., pag. 742, lav. UT, fig. 28. 29 (1861). - De Not. Elem. Desm. ilal. , pag. 54, lab. V, fig. 49 (1867). - Rabenh. FI. Eiir. Alg., pag. 211 (1868). - Lund. de Desm. Suec, pag. 68 (1871). Lorica tertia pai'le circileì- inagis lata quam longa, valde conslricta; hemicjtia e facie primaria 3-4 radiata , radiis cjlindraceis praelongis , totius cellulae latitudinem aequantibus , apice Iricuspidalis ; e facie se- cundaria tabulaejormibus. Junctura infiala, octavam partein totius la- titudinis acquante. Cjtiodermate verrucoso. Cellula (i un terzo circa più larga che lunga, divisa in due segmenti nel profilo terminale , tri-quadri-raggiati coi raggi subitamente ristretti m un prolungamento cilindrico eguale al corpo della cellula , terminato alla sommità da tre spine. Profilo laterale angustamente fusiforme a lati lineari diritti e paralelli col corpo intermedio ingrossato a foggia di colonna interrotta nel mezzo dalla commettitura , a cui sovrasta un orlo sporgente , oltre il quale la cellida si restringe in un tratto cilindrico piramidale e si espande nei raggi. Parete granolata, ossia interrotta da stringimenti ravvicinati, che al margine prendono l'aspetto di crenature. Dimensioni: Lunghezza 0,0720. - Larghezza o,o5o4. Icon nostra, tab, XII, fig. 12-21. Spiegazione delle figure. FiG. 12. Individuo veduto da uno dei capi. 1) 13. Altro a quattro lobi, veduto da uno dei capi. » 1 4. Altro individuo più piccolo coi lobi un po' storli. )) 15. Individuo veduto da una delle faccie con uno dei lobi molto giovane. )) 16. Valva di un altro individuo veduta dalla faccia commessurale, con tre semi-cerchi corrispondenti all'allaccalura dei lobi. » 17. Altro individuo veduto da una delle faccie con tre spine alla sommità. )» 1 8. AltrOj veduto da uno dei capi coi lobi delle valve un po' storti ed accavalciali. AUCTORE J. B. DELPONTE. 5g FiG. 19. Valva veduta per la taccia couimessurale con tre semi-cerchi che corrispondono alla inserzione dei lobi molto ingranditi. » 20. Individuo veduto da uno dei lati , più piccolo. » 21 . Un'estremità molto ingrandita per mostrare la disposizione delle spine. Lago di Candia nel Canavese. 21. StAURASTRLM VEiNTRICOSUM N. Lorica (ientato-acaleata , tertia parte inagis fata (juunt longa , imlde constricta; hemicjtia oblongo-elliptica, utrinque breviter attenuata, coì'~ nubiis vectis paralelUs apice tridentatis; e dorso oblongo-depressa ambita subrectangulari prope basini utrinque parumper angustata. Junctura inx quartam totius phycomatis parlem aequante. Istmo nullo. Cellula d'un terzo più larga che; lunga a segmenti fusiformi paralelli, diritti , rigonfi nei mezzo, ed insensibilmente ristretti alle due estremità munite di due spine sopì apposte. Profihi laterale cilindrico, ingrossato, troncato alle due estremità, leggermente ristretto nel mezzo; profilo ter- minale fusiforme gradatamente appuntato. Parete scabra , vale a dire interrotta da stringimenti circolari ravvi- cinati ed armali di spine, principalmente sul dorso della cellula. Dimensioni. Lunghezza o,o36o. - Larghezza o,o54o. Icon nostra, lab. XII, fig. 39-41- Spiegazione delle figure, FiG. 39. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 40. Altro veduto da uno dei lati. » 41. Individuo veduto da una delle estremità. Lago di Candia nel Canavese. 22. Stauiustuum scorpioideum N, Lorica didjma tetracera seu quadricornis , crenato-aculeata valde constricta ; hemicjtia e facie primaria triangularia , lateribus concavis , medio bidentatis, dentibus conicis acutis ; e facie secundaria fusiformia go SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI.PINARUM medio inflato-globosa , radiis subleretibus scorpioideis , sensim attenuatis, incurvis, convergentibus , apice tridentalis ; e dorso in aream discoideam complanata ; e facie terminali eximie sphaerica cum aculeis duobus divergentibus. Cjtiodermate verrucoso. Cellula di un terzo più larga che lunga a valve negli individui visti da una delle faccie primarie triangolari coi lati leggermente incavali, ter- minati da tre spine ; nel profilo laterale semilunati , un po' depressi al vertice, e sormontali da due spine divergenti inserite sul dorso, dove d raggio sembra staccarsi dal corpo della cellula. Parete nella parte interna liscia, nel resto, e soprattutto sui raggi, gremita di spine disposte m serie circolari. Osservazione. UilFerisce dallo St. armigerum Bréb. nell'essere quasi della metà pili grosso, nell'avere le spine poste sul vertice lineari semplici, non coniche troncate e munite di due spinette, ed infine nell'essere tutto spinoso, mentre lo St. armigerum è liscio affatto. Differisce dallo St. vestitum perchè quest'ultimo è alquanto piìi grosso, e va munito di due spine cilindriche troncate , bifide , impiantate nel mezzo d' ogni lato a poca distanza l' una dall' altra , ed inoltre per una serie di grosse crenature a poca distanza dal margine , non visibili che nella cellula vuota. Specie rara, quanto più singolare di conformazione per il corpo della lorica, o, per dir meglio, delle valve di forma quasi tonda, munite sul dorso di quattro spine equidistanti coi raggi incurvati all'indentro, inter- rotti da piccoli stringimenti o anelli, i quali sui due margini prendono l'aspetto di crenature. Una prova che le spine del dorso si trovano impiantate su di una superficie piana, a egual distanza l' una dallallra, è che si mostrano dis- giunte da un tratto piano nella valva veduta per il dorso, e specialmente da uno dei capi. Soggiungerò, che quando si avessero sott'occhio due indi- vidui, l'uno di S. scorpioideum , e l'altro di Xanthidium convergens, poggiati entrambi sulle loro corna, si troverebbero identici in tutto, tranne . che nel tratto anzidetto, appianato nel primo e convesso nel secondo. Dimensioni: Lunghezza 0,0468 - Larghezza o,o36o. Icon nostra, lab. XII, fig. 42-45. AUCTORE J. B. DF.LPONTE. Spiegazione delle figure. FiG. i2. Individuo veduto da uno dei lati. » 43. Altro individuo, veduto da una delle faccie terminali. » 44. Individuo vuoto, veduto da una delle faccie commessurali. » 45. Altro molto ingrandito. Lago di Candia nel Canavese. 23. Staubastrum Notarisii N. (i). Lorica pendo mugis longa quam lata , medio valde constricta ; he- micrtia e facie primaria triangularia , angulis rotundatis, lateribus tumi- diuscuUs, e facie secundaria oblongo-reniformia vertice prominulo. Jun- ctura tertiam partem tolius latiLudinis aequante. Cjtiodermate spinis rigidis vestito. Cellula alquanto piùi lunga che larga, profondamente strangolata in due lobi negli individui veduti da uno dei lati, ovato bislunghi, e trian- golari cogli angoli mollo ottusi in quelli che s' affacciano da una delle due estremità. Giuntura eguale alla terza parte della larghezza totale. Superficie tutta coperta di peli rigidi sotto forma di spine. È una delle specie piiì grandi e meglio controssegnate, finora scoperte nelle nostre acque, ed io sono lieto d'intitolarla al chiarissimo Prof Giu- seppe De Notaris a cui la scienza va debitrice di molte peregrine scoperte, come già ebbi a notare nel paragrafo 9 di questa Memoria Àuctores de Desmidiaceanim f umilia optimi meriti. V. Mem. Acc, Voi. XXVIII, Serie II. Dimensioni . Lunghezza 0,0986 - Larghezza 0,0648. Icon nostra, tab. XIII , fig. 1-2. Spiegazione delle figure. FiG. 1. Individuo veduto da una delle faccie terminali. n 2. Lo stesso da uno dei lati. Laso di Candia nel Canavese. (1) Io slavo rivedendo questo mio lavoro quando venne a colpirmi la notizia dell'irreparabile perdita fatta dalla Scienza e dall'Italia nel Prof. Giuseppe De Notaris. Per mitigare in parte la dolorosa sensazione fattami, pensai di ricordare il di Lui nome illustre in questa nuova specie di Desmidiacee. 62 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM 2i. Stacrastrum vestitdm Ralfs. Ralfs, Brit. Desm., pag. i49 (1848), lab. XXIIIj fig. 1. - Rabenh. Krypl. FI. V. Sachs., pag. ig3, - Alg. n. i444- ~ Pritch. Hist. of Inf., pag. 742 (1861). - Rabenh. fi. Eur. Alg. (1868), pag. 218. Lorica tertia parte inagis lata quam lovga, valdc coiistricta ; hemi- crtia e facle primaria triangidaria, laleribus concai'is cum tuhulis dnobus e parte media erumpentibus, apice bidentato-spinulosis; e Jacie secundaria obloìigo-cjlindraceis , utiinque sensim attenuatis, medio injlatis. Junctura quartam partem totius latitudinis acquante. Cytiodermate verrucoso. Cellula d'un terzo più larga che lunga, a lobi gradatamente ristretti alla sommità, sempre un po' storti, terminati da due o tre spine. Negli individui veduti da uno dei lati le valve si mostrano bislunghe, ventri- cose, coperte di spine minute a foggia di denti, disposti in serie circo- lari, e negli individui veduti da uno dei capi queste valve olirono i lati incavati muniti di due prolungamenti cilindrici bifidi o trifidi, ossia ter- minati da due o tre spine. Parete coperta di tubercoli minuti ed ap- puntati. Osservazione. Specie a primo aspetto identica a quella ritratta sotto il nome di S. Candianum (tab. XI, fig. 22). Ma ne ditFerisce per i lati rigonfi non incavati come nello St. vestitum (tab. XII, fig. 46). S'aggiunge che i raggi si trovano sempre un po' storti, ed infine per le dimensioni, essendo lo St. vestitum quasi del doppio più grosso dello St. Candianum. Dimensioni: Lunghezza 0,0648 - Larghezza o,o432. Icon nostra, tab. XII, fig. 46-49- Spiegazione delle figure. Fig. 46. Individuo veduto da una delle faccie. » 41. Altro, veduto da uno dei lati. » 48. Valva vuota veduta da una delle faccie commessurali. » 49. La stessa, veduta dalla faccia opposta. Lago di Gandia nel Ganavese. ATJCTORE J. B. DELPONTE. 63 25. Stauuvsikum aculeatum Menegh. Desm'uluun aculeatum Ehr. Inf., pag. i43, lab. X, fig. 12 (i838). Slaurastrum aculeatum Menegh. Syn. Desm. in Link. (1840), pag. 226. - Rai.fs, BHt. Desm., pag. 142, tab. XXIII, fig. 2 (1848). - Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs., pag. 194, - Alg., n. 849, 1224, 1407.- Pritch. Hist. oflnf., pag. 742 (1861). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. 217 (18G8). - Bréb. List. Desili. (i856), pag. i38. Phjcastrum aculeatum Kutz. Spec. Alg. (1849), pag. 182. Lorica tertia parte magis lata quam longa , valde constricta ; hemi- cjtia e facie primaria triangularia, lateribus tumidiusculis radiis subito angustatis intortis, undequaque spinis diffòrmihus armata, aliis subtere- tibus truncalis bifidis, aliis simplicibus , linearibus prope marginem bi- seriatis, e facie secundaria oblongo-fusiformia. Junctura vix quintam partem totius latitudinis acquante. Cjtiodermate aculeato. Cellula profondamente strangolata in due segmenti negli individui ve- duti di l'ronte triangolari, a lati depressi, piani, coi lobi un po' storti alla sommità, muniti di tre spine: negli individui veduti da un lato fusiformi, semilunati, coi lobi gradatamente ristretti e rivolti all'indentro, muniti da due sorta di spine, le une troncate bifide, inserite presso al margine su due linee paralelle. Dimensioni . Lunghezza o,o36o - Larghezza o,o54o. /con nostra, tab. XIII, fig. 3-5. Spiegazione delle figure. Fig. 3. Individuo veduto da una delle faccie. » 4. Altro fresco, coU'endocroma costituito da grossi globoli di clo- rofilla che non lasciano vedere né il nucleo né le lamine. » 5. Altro vuoto, coi lati vestiti di spine cilindriche^ bifide alla sommità. La"o di Candia nel Canavese. 64 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINAROM 26. S TAURASTRUM MaNFELDTII N. Lorica tuhevcidata dentato-spmidosa . tevtia parte magis lata qiiam longa profunde constricta: e dorso triradiata, radiis praelongis sensim atteniiatis tiiberculalo-spinulosis , apice tricuspidatis e latere oblongo linearibus complanato subrotundatis subincarvis , basi velati in istinnm productis. Tuberculis dorsalibus uniseriatis aliis (uno scilicet prò uno- qiioque angulo) teretibics, aliis cuneato bi/ìdis, reliquiis dentato spinulosis. Cellula di un Um'zo più larga che lunga, profondamente strangolata, colle valve nel profilo terminale tri-quadri-lobata, a lobi piìi lunghi del corpo della cellula; nel profilo laterale bislungo-lineari, a lobi un po' storti con- vergenti, congiunti da un lungo collo, talvolta allargato in una sorta di sacco. Parete armata di spine, disposte in linee alquanto distanti dal mar- gine, che si fanno confluenti al principio d'ogni raggio, e ne seguono il margine fino all'estremità, munite di due, talvolta di tre e di quattro spine. Sul vertice d'ogni lobo (|ueste spine in numero di sei si affacciano sotto forma di squame troncate, bifide, due delle quali \n\i grosse, più lunghe, impiantate allorigine dei raggi. Osservazione. S'accosta alle specie distinte col nome St. gracile e di Si. crassum; differisce dal primo nelle valve quasi della metà più lunghe che larghe, prominenti nel mezzo, non ricurve, non diritte e specialmente nella forma e disposizione dei tubercoli : differisce dal secondo nella lorica , non già tanto lunga quanto larga, ma quasi della quarta parte più lunga che larga, ed inoltre per le spine biforcate le più esterne semplici, le altre cuneate bifide, se ne discosta pure per il corpo della cellula più grosso, pei raggi troncati all'estremità molto più corti, non già diritti, gracili e molto allungati come nello St. Manfeldtii. Dimensioni: Lunghezza 0,0576 - Larghezza 0,1008. [con nostra, tali. XIII, fig. 6-19. AUCTORE J. B. DELPONTE. Spiegazione delle figure. 65 FiG. 6. Individuo fresco, veduto da una delle faccie terminali. )) 7. V^ilva di un individuo vuoto, veduta per di sotto per mostrare la disposizione dei tubercoli. » 8. Valva vuota di un individuo, veduta dalla faccia commessurale , tutta ingombra di spine. » 9. Valva di un altro individuo, pure veduta dalla faccia commes- surale, mancante di spine. » 1 0. Individuo veduto da uno dei lati , coi due capi sormontati da laminette. » 11. Altro veduto da uno dei lati. » 12. Altro veduto da uno dei Iati, piti piccolo. » 13. Lo stesso, con uno dei lobi non ancora giunto a termine di sviluppo, colle spine del dorso più ingrandite, per mostrare quelle poste sugli angoli piìi lunghe delle altre. n 1 4. Altro individuo piìi grosso, in corso di sdoppiamento. » lo. Altro, in corso di sdoppiamento, con uno dei lobi non ancora a termine di sviluppo. » 16. Spine del dorso cuneiformi, bifide o trifide molto ingrandite. » 17. Un'estremità molto ingrandita, provveduta di due spine, » 18. Altra estremità molto ingrandita, fornita di tre spine. » 19. Individuo anomalo, con un lobo da quattro raggi e l'altro so- lamente di tre, ma due volte più lunghi. Lago di Candia nel Canavese. 27. Staurastrum tetracerum Ralfs. Micrasterias tetracera Kutz. Syn. Diat. in Lmw. (i833), pag. 602, fig. 83, 84. Micrasterias iricera Kutz. 1. c. pag. 602, fig. 85. Staurastrum paradoxum Ehr. Inf., pag. i^Z, tab. X, fig. i4 (i838). Staurastrum tetracerum Ralfs, Ann. of Nat. Hist., voi. i5, pag. i5o, tab. X, fig. I (1845),- Trans, of Bot. Soc. of Edin., voi. 2, pag. 137, tab. XIII. Phjcastrum paradoxum Kìjtz. Sp. Alg. (1849), pag. 180. Staurastrum tetracerum IIassal. Brit. Fresw. Alg., pag. 354, ^p!' 4- " Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 137, tab. XXIII, fig. 7. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. i3g. - Lund. de Desm. Suec, pag. 68 (1871). Serie II. Tom. XXX. i 66 SPECIMEN DESMIDIACEARt'M SUBALPINARUM Lorica ter tia parte circiter magis longa quam lata; hemicjtia efacie pri- maria Uneari-oblonga medio in fiata, e facie secundaria subtetragona bira- diata, radiis corpore duplo longioribus, modo divaricatis modo confluenti bus. Junctura tertiam partem latitudinis acquante. Cjtiodermate granulato. Cellula nel profilo terminale una volta più lunga che larga nel pro- filo laterale, di forma tetragona a segmenti, muniti di due prolungamenti fililbrmi due o tre volte più lunghi della parte rigonfia della cellula, divergenti ora su di uno stesso piano a foggia di croce, ora su d'un piano dilFerenle, muniti di due soli raggi tutlavolta che questi divergono su d'uno stesso piano e di quattro nel caso opposto, cioè quando divergono su d'un piano differente, due dei quali visibili e distinti, gli altri solamente in parte. Parete minutamente granulata, munita di due spine alla estremità. Osservazione. Specie a primo aspetto afline a quella figurata sotto il nome di St. cuspidatum, tab. X, fig. 26-33, ed anche affine a quella ritratta sotto al n. 63-65 , tab. XI, St. paradoxum delle nostre tavole, ma ne differisce per essere il primo, cioè lo 5^. cuspidatum il doppio più grosso e som- mamente più piccolo dello St. paradoxum, essendo quest'ultimo almeno sei volte più grande tutto coperto di granoli. Dimensioni; Lunghezza o,oi44 - Larghezza o,oi44' Icon nostra, tab. XI, fig. 25-28. Spiegazione delle figure. Fig. 25. Individuo veduto da uno dei capi. » 26. Altro, veduto da una delle faccie che lascia vedere i «lue lobi, non più direttamente soprapposti gli uni agli altri. » 27. Altro individuo veduto da uno dei lati, ma colle due metà d'una valva ripiegate luna sull'altra. » 28. Altro, veduto da uno dei lati a due raggi per ogni valva, ripie- gati dal basso in alto. Lago di Candia nel Ganavese. 28. STAi'nAsrni'M polymorphum Bréb. Staurastrum poljmorphum Bréb. in litt. (1846) apud Ralfs, Brit. Desm.. pag. i35, tab. XXII, fig. 9, e tab. XXXIV, fig. 6 (a). - Bréb. List. Desm. AUCTORE J. B. DELPONTE, 67 (i856), pag. iSg. - Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs. I, pag. 19. - Alg., n. 849, 1009, i43o, i448j '7^2, 1654. - Pritch. Hist. of Inf., pag. 742 (1861). - De Not. Eleni. Desm. ital. , pag. Sa, tab. IV, fig. 46 (1867). - Rabenh. FI. Eur. Alg. pag. 209. - LuND.de Desm. Suec, pag. 67 (1871). Lorica aeque longa ac lata mediocriter constricta ; hemicytia efacie primaria tri-quadri-qiUnqueradiata , radiis plus minus elongatis apice spinulosis ; efacie secundaria ovato-oblonga , medio infiala. Junctura tertiam partem totius latitudinis aequante. Cjtiodermate verrucoso. Cellula tanto lunga quanto larga , profondamente strangolata in due segmenti ; nel profilo terminale tri-quadri-quinquelobi, nel profilo laterale ovato-rigonfi, un po' depressi al vertice, subitamente scorciati e terminati da una punta piuttosto grossa, munita di tre spine minute. Parete tutta gremita di punti rilevati o tubercoletti disposti in serie circolari attorno ai lobi ed attorno al corpo della cellula; appendici queste che sono qualche cosa di piiì di semplici punti, e non sono ancora né tubercoli, né spine propriamente dette. li carattere più notevole di questa specie consiste nell'avere il corpo delle mezze celle molto grosso, rigonfio sproporzionato per rispetto alla poca estensione dei lobi o angoli, nell'avere ancora sovente questi lobi molto sviluppati nella direzione del diametio longitudinale per modo che la lunghezza viene ad essere quasi il doppio della larghezza, e gli spazi compresi fra gli angoli che si trovano di riscontro eguagliano prossima- mente il corpo d'ogni mezza cella. Soggiugneremo che fra i molti individui che a noi s'affacciarono di questa specie, la più parte andavano forniti di segmenti trilobi, cosicché una tal forma vuol essere considerata come lo stato più abituale della specie. Dimensioni: Lunghezza 0,0216 - Larghezza 0,0216. » » o,o354 » 0,0354. [con nostra, tab. XI, fig. 56-62. spiegazione delle figure. Fig. 56. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 57. coi lobi cortissimi veduto da uno dei Iati. » 58. a quattro lobi veduto da una delle faccie terminali. » 59. veduto da uno dei lati. 68 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Fjg. 60. Altro veduto da uno dei lati. » 61. Individuo a cinque lobi veduto da una delle faccie terminali. » 62. coi lobi cortissimi veduto da uno dei lati. Lago di Candia nel Canavese. 29. Staurastrl'm CRE^LLATL'M N. Phjcastritm crenulatum Nag. Gatt. Algen. (1849), pag. iS'j., tab. Vili. B. Lorica tertia parte magis lata quam longa, medio valde constricta; hemicjtia e facie primaria tri-quadri-quinqueradiata, radiis elongatis cjlindraceis , apice tricuspidatis: e facie secundaria ovato-oblongis. Jun- ctura dimidiam partem totius latitudinis palilo superante. Cytiodermate verrucoso . Cellula d'un terzo pii!i larga che lunga, profondamente strangolata in due segmenti, nel profilo terminale 3-4-5 raggiati; nel profilo laterale fu- siformi, diritti, mutici o terminati da due o tre spine corte e divergenti. Parete liscia nel corpo della cellula, col margine crenulato lungo i raggi, le quali crenature provengono da piccoli stringimenti anellari che partono dalla base dei raggi e si estendono alla sommità, come se fos- sero altrettante guaine incastrate le une dentro le altre, dove, osservando attentamente, si vedono fornite di piccole spine. Frequenti sono gli indi- vidui muniti di valve luna di tre, l'altra di quattro o di cinque lobi trian- golari o quadrangolari, mancanti di raggi, probabilmente perchè in corso di moltiplicazione , ed il lobo mutico non trovasi ancora a termine di sviluppo. Dimensioni: Lunghezza 0,0576 - Larghezza o,o432. Icon nostra, tab. XII fig. i-i t. o" Spiegazione delle figure. Fio. I . Individuo a cinque lobi. » 2. a quattro lobi. » 3. veduto da uno dei lati. )) 4. Una delle estremiti della figura precedente molto ingrandita. )) 0. Individuo veduto da una delle faccie terminali, con uno dei lol)i in corso di sviluppo. « o » AUCTORE J. B. DELPONTE. 69 FiG. 6. Individuo veduto da uno dei lati. 7. a quattro lobi, veduto da una delle faccia terminali. 8. veduto da uno dei lati. q. — — sdoppiato, veduto da una delle faccie, colle valve nuove a termine di sviluppo. 10. a tre lobi. H. sdoppiato, coi lobi nuovi non ancora a termine di sviluppo. Lago di Candia nel Canavese. 30. Staubastrum avicula Ralfs. Stauraslrum Avicula Bréb. in litt. (1846) apud Ralfs, Brit. Desm., pag. i4o, tav. XXIII, fig. 1 1 (1848). - Bréb. List. Desm., pag. 187 (i856). - Rabenh. Alg. n. 1782, - FI. Eur. Alg., pag. 204 (1868). - Pritch. Hist. of Inf., pag. 738. tav. IH, fig. 18. 19 (1861). - Lund. Desm. Suec, pag. 61 (1871). Lorica tertia parte magis lata quam longa, mediocriter constrìcta ; hemicjtia e facie primaria "ò-Q- radiata, radiis ovatis e facie secundaria semilunata , tumida , apice bicuspidata. Junctura tertiam partem totius latitudinis acquante. Cjtiodermate verrucis minimis in lineas circutares dispositis , obtecto. Cellula pili larga che lunga, coi segmenti nel profilo terminale trian- golari, a lati leggermente incavati, ad angoli ottusi rotondati, terminati da due spine soprapposte per modo che l'angolo, continuandosi diretta- mente nella spina superiore piiì lunga, si mostra sottile ed acuto. Profilo laterale lunato troncato, a lati spartili alle estremità cariche di granelli disposti in più serie circolari attorno ai lobi. Dimensioni: Lunghezza o,o432 - Larghezza Ojo5o4. Icon nostra, tab. XII, fig. 22-29. Spiegazione delle figure. Fig. 22. Individuo a sei lobi, veduto da una delle faccie terminali. 1) 23. Altro veduto da uno dei lati. » 24. Un'estremità molto ingrandita. » 25. Individuo in corso di sdoppiamento colle valve nuove, non ancora a termine di sviluppo. no SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM. FiG. 26. Due individui molto giovani dentro ad una guaina, provenienti da zigospora. » 27. Individuo in corso di sdoppiamento irregolare , coi due lobi nuovi allargati in un sacco, e muniti di due nuclei. 1) 28. Una valva vuota vista dalla faccia commessurale. » 29. Individuo vuoto, per far vedere le doppie linee di giobetti che girano attorno ai lobi delle valve. Lago di Candia nel Canavese. 31. Staiirastrum obloingum N. Lorica diinidia parte circiter inagis lata qiiam longa , valde con- stricta; hemicjtia e facie primaria triangularia , lateribiis leviter con- cavis, apice breviter cjlindraceis tricuspidatis ; e facie secundaria ovato- oblonga , medio injlata. Junctura tertiam vel quartam partem fotius latitiidinis acquante. Cjtiodermate granulato. Cellula quasi della metà più larga che lunga a lati pressoché diritti, poco o niente incavati negli individui che si affacciano da uno dei capi, e di forma bislunga gradatamente ristretta all'eslreniità, terminata da tre spine in quelli veduti da uno dei lati. Giuntura eguale alla terza o quarta parte di tutta la larghezza. Parete coperta di granoli disposti in serie circolari, soprattutto lungo i lobi. Dimensioni. Lunghezza o,o36o - Larghezza o,o5o4. Icon nostra, tab. XII, fig. 3o-35. Spiegazione delle figure. Individuo veduto da una delle faccie terminali. veduto da uno dei lati. vuoto, veduto da uno dei lati. fresco, veduto da una delle faccie terminali. veduto da uno dei lati. veduto da una delle faccie terminali. Lago di Candia nel Canavese. ^G .30. )) 31. » 32. » 33. » 34. « 35. AUCTORE J. B. DELPONTE. "Jl 32. Staurastrum pileatum N. Lorica palilo magis lata qiiam longa pavuin comtricta , eximie verrucosa ; hemicjtia e facie primaria obverse trapezoidea , lateribus terminalibus complanatis paralellis, commissuralibus , divaricatis. E dorso tri"-ona lateribus inca^'atis, angulis contraclis ovato-subrotundatis gra- nulorum seriebus circularibus , pilei adinstar , exinde fere usque ad conimissuram vestitis, apice tricuspidatis ; strie tura laxa totius hemicjtii dimidiani partem aequante. Cellula più larga che lunga a segmenti nel profilo terminale trigoni coi lati scavati e gli angoli rigonfi, subitamente scorciati ed ottusi, ter- minati da due spine minute. Profilo laterale tetragono trapezoideo. Parete liscia , tranne che sulla parte rigonfia degli angoli , tutta coperta di bi- torzoli regolarmente disposti in serie circolari. In grazia della strangolatura poco profonda, il foro, che dà accesso alle due metà, arriva quasi a conlatto dei lati, ma tra esso ed il margine resta tuttavia una sottile falda di parete mancante aifatto di granoli. Osservazione. Specie sommamente notevole per la forma delle mezze celle, che è quella d' un trapezio a rovescio , vale a dire col lato superiore più lungo per l'ampiezza del foro commessurale e le punte dei lobi scorciate a forma di cono ottuso, coperto da serie circolari di granoli, che gli fanno attorno im rivestimento a maniera di calotta , cosicché negli individui veduti da un lato hanno l'aspetto di una cupola. Dimensioni: Lunghezza o,o432 - Larghezza 0,0576. Icon nostra, tab. XII, fig. 36-38. Spiegazione delle figure. FiG. 36. Individuo veduto da uno dei lati. » 37. Estremità della medesima più ingrandita. » 38. Valva vuota, veduta dalla faccia commessurale. Lago di Candia nel Canavese. "-2 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Genus XIII. XANTHIDIUM. Lorica compressa , medio pi'ojunde constrlcta ambita subangulalo elliptica integerrima, plerumque nuda ; hemicjtia e fronte oblongo-elliptica aut oblongo-reniformia , trapezoidea , aculeis validis armata ; e latere globo so-didjma non raro cnm grauulorum annulis ex utraque facie. Endochroma e nucleis plerumque duobus , et laminis chlorop/ijllaceìs saepe quatuor prò quolibet hemicjtio. Zigosporae sphaericae laeves aut ignotae. I. Xa^thidium fasciculatum Ehe. Cosmarium antilopaeum Bréb. in INIenegh. Syri. Desm. in Linn. (i84o), |)ag. 218. Xanthidium fasciculatum Ehr. Inf. (i838), pag. 146, tav. X, fig. 24 (^)- - Ralfs, in An. of Nat Hyst. (i844), ^ol- M? pag- 4^7. lab. XII, fig. 3 (a, b, e), - Trans. ofBot. Soc. of lldin.. voi. 2. pag. i54, tab. XVII. - Jenner, FI. of Tunb., pag. 194. Euastrum n. io. Baylei, Ani. Bacil. in Ann. Jouin. of Se. and Arts (1841), voi. 4'? pag- 296, tab. I, fig. IO. Euastrum fasciculatum Kutz. Pli. germ. (i845), pag. 107. Xanthidium fasciculatum Kutz. Sp. Alg. (1849), P'^8' '77- " Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. ii4, tab. XX, fig. i, e tab. XIX, fig. 4, var. |3, poljgonum sei paia di spine a ciascun lobo. - Ehr. Inf. (i838), tab. X, fig. 24 (a). - Hassal. Brit. Alg. (i845), pag. 36o, tab. LXXXIX, fig. i. Kantliidium fasciculatum Bréb. List. Desm. ( 1 856), pag. 1 34. - Cramer. in Rabenh. Alg. sub n. 1446 et i447- " Hedw. II, pag. 63, tab. XII, fig. 2, tab. XIX, fig. 4. - Pritch. Hisl. of Inf. , pag. 736 (1861). - De Not. Elem. Desm. Ita!., pag. 48, tab. IV, fig. 36 (1867). - LuND.de Desm. Suec, pag. 75 (1871). Lorica paulo magis lata quam longa, mediocritei- constricta; hemi- cjtia oblongo -trapezoidea subtetragona, lateribus complanatis vel tumi- diuscidis aculeatis, aculeis octonis biseriatis, inferioribus horizontalibus , ceteris adscendentibus rectiusculis , cum tuberculorum annulo nullo aut obsoleto. Junctura fere dimidiam partem totius latitudinis acquante. Cjrtiodermate levi. AUCTORE J. B. DELPONTE. 73 Cellula d'ordinario tanto lunga quanto larga, profondamente strangolata in due lobi reniformi prossimamente esagonali, armati di quattro paia di spine, radamente, sei inserite, su due ordini, talvolta corte, sottili, diritte, talvolta più lunghe , visibilmente ingrossate alla base ; e di nuovo ora diritte , ora storte ed arrutFate , ora tutte incurvate e rivolte all' infuori colle faccie nude o provvedute di due impressioni circolari. Endocroma d'un ''iallo dorato, tinto di verde, costituito da quattro lamme di ciò- rofilla divergenti due per due da un globolo di fecola. Negli individui veduti da uno dei lati , i lobi prendono la forma di due sfere congimite a vicenda, e terminati da due spine paralelle o divergenti. Profdo terminale ellittico fusiforme munito di quattro spine. Osservazioni. Il Brébisson, in un suo recente lavoro (List. Desm. i856), volendo provare l'essenza specifica del suo X. antilopaeum e del X. polygonum Uass. (X. fascicidatum vat. poljgonum Ehr., Ralfs, Ioc. cit.) abolite dal Ralfs , osserva che le spine in ciascuna delle valve sono sempre ni numero di otto incurvate dall' indentro all' infuori, e che le faccie negU individui adulti portano sul mezzo una protuberanza sormontala da un anello di grandi, di cui mancano il X.fasciculatuin e la varietà or dianzi accennata, i quali d' ordinario ne mancano o non hanno che uno spor- gimento conico mancante di granolazioni. S'aggiunge che la membrana del X. antilopaeum è tutta punteggiata. Ma noi siamo pur d' avviso che questi caratteri non hanno stabilità di sorta , e ce lo provano i molti disegni che ci procurammo degli individui in questione, i quali ci hanno dato a conoscere gradatamente i passaggi insensibili dalla forma indicata sotto il nome di X. antilopaeum , X. poljgonum e X.fasciculatuin, che si vorrebbero considerare come altrettante specie distinte ; di fatto la forma poligona colle spine lunghe, diritte, in numero di quattro noi la vedemmo a raccorciarsi , impicciolirsi , e trapassare gradatamente nella forma piccola munita di sei paia di spine corte e piccole, da non avervi pili altra differenza che quella di due paia di spine di più. Quanto alla protuberanza dei lobi è forza ammettere che non può servire di carattere distintivo, perchè nelle stesse forme precise figurate dal Rai.fs , come fornite di queste protuberanze, noi l'abbiamo incon- trata una sola volta sopra un gran numero d'individui ; e per altra parte Serie II. Tom. XXX. k t^A SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM non sono rari gl'individui forniti di otto paia di spine, vale a dire con qualtro spine di più niserile alla base d'ogni segmento quasi presso alla slrangolalura , più piccole e rudimentali. Diremo per ultimo, rispetto alla protuberanza ed alla parete: i" che il carattere della protuberanza sormontata da una corona di granoli è carattere ancora dei X. cristatum , non confondibile con altri per la spina impari della base, e che in questa medesima specie trovammo individui a parete punteggiala senza pnUuberanza di sorta , e individui a parete liscia munita di protuberanza semplice fatta da una sorta di ernia della membrana cellulare , senza la corona di granoli , e per ultimo individui unmiti non solamente d'una protuberanza, ma di tre, e tutte provvedute d un cerchio di granoli. Il Ralfs ha dato le figure e i caratteri di due specie sotto ad un solo nome, che è quello di X. fascicidatiim, e frattanto il carattere di due spine di più ne sembra suflkiente per farne una specie a parte. Dimensioni: Lunghezza o,o432 - Larghezza 0,0396. » » 0,0648 )) o,o54o. )) » 0,0576 » 0,0.576. » » 0,0648 )) 0,0648. » » 0,0684 » 0,0720. nostra , tab. XIII, flg. 20- 26. Spiegazione Mie figure. Fio. 20. Individuo di mole straordinaria. » 21. Lo stesso da uno dei lati. )) 22. Individuo più piccolo in corso di sdoppiamento, n 23. Altro individuo pure in corso di sdoppiamento più avanzato. » 24. Un mezzo individuo sdoppiato di fresco, colle spine del lobo nuovo allo stato rudimentale. .) 25. Individuo vuoto, notevole per la direzione molto obliqua, e per r incurvamento delle spine , notevole ancora per gii sporgi- menli della parete appena distinti sotto forma di un cerchio pili scuro. )) 26. Altro avvolto da una guaina mucosa, probabilmente non ancora a termine di sviluppo. Lago di Candia nel Canavese. auctore j. b. def.ponte, ^5 2. Xanthidium cristatum Bréb. Xantìiidium cfistatiun Bréb. (m Utt. 1846) apud Ralfs, Brit. Desm. , pag. 1 15, tab. XIX, fig. 3. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. i35. - Rabekh. Krypt. FI. v. Sachs. I, pag. ig6, - Alg. n. 34 i. 1 1 1 2. i443. - Limi, de Desm. Suec. , pag. 76 (iS'yi), Xanthidium cristatum (3. uncinatunt Bréb., I. e. Lorica paulo inagis longa (jiiam lata , valile ronstricta ; hemicytia e jacie primaria obloiigo-pyramidata subpentagona, acnleis denis inferio- ribus, solitariis, intermediis , adscendentibus , superioribns rcctis caeteris geminata. Junctura fere quartam partem totius latitudinis aeqiiante. Cytiodermale levi interdum pimctato, interdum leve cum gi'anulorwn annido eminulo ab utraque facie. Cellula elliuica tiii |>o'più lunga che larga, piofondamente strangolala in due lobi renifornìi piramidali con dieci spine , due solitarie , le altre inserite due per due sui lati ed al vertice leggermente appianato, spine di lunghezza varia, tutte incurvate dal basso in alto, ad eccezione di quelle della liase. Endocroma come nella specie precedente. Parete ora liscia , ora punteggiata colle faccie cpiasi sempre munite d'una protuberanza appianata, recinta da una corona di grandi. Forma dei lobi nel profdo laterale sferica, coi lati rigonfi muniti pure nel mezzo d'una protuberanza discoidea annulare recinta da una corona di granoli, di mezzo ai quali sembra sortire la membrana interna a fogs'ii di tubetto cortissimo tra- sparente. Profilo terminale dei due lobi, esagonale, coi capi terminati da tre spine, la mediana delle quali corrispondente a quella della base dei lobi. Dimensioni: Lunghezza 0,0576 - Larghezza o,o558. Icon nostra, tab. XIV, fig. 1-12. Spiegazione delle figure. Fig. I. Individuo provveduto di guaina. ;i 2. Altro individuo veduto da uno dei lati. » 3. Individuo vuoto per mettere in vista il disco dei bitorzoletti che occupa il mezzo delle due faccie. "6 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM FiG. 4. Individuo in corso di sdoppiamento , coi lobi nuovi prossimi a raggiungere il termine del loro accrescimento. » o. Altro veduto da uno dei capi, dentro al quale scorgonsi i nuclei, le lamine clorofdlari disgiunte da uno spazio trasparente. » 6. Altro veduto da uno dei lati; le due masse scure corrispondono ai due nuclei, a cui stanno appoggiate le lamine clorofillari sotto forma di archi. Sulle faccie esterne si scorgono ancora distintamente due sporgimenti o bernoccoli .semitondi , recinti da una corona di bitorzoletti , di mezzo ai quali esce una papilla trasparente. ' » 7. La corona dei bitorzoletti, e lo sporgimento predetto molto in- granditi. ì> 8. Una metà, o valva di un altro individuo veduto dalla faccia com- messurale. » 9. Altro individuo provveduto di guaina mucosa, veduto da uno dei lati. » IO. Estremità di un lobo molto ingrandita, la quale dimostra che il sacco interno non s innoltra dentro alla cavità delle spine. «11. .\ltro individuo veduto da uno dei lati , coli' endocroma spartito in due strati da una linea trasparente. » 12. Varietà insigne, o specie nuova coi lobi quasi emisferici e le due faccie nude . ossia munite di spine corte e coniche ; parete punteggiata. Lago di Candia nel Cnnavese. 5. XanTHIDIUM C01NVERGE^S N. Artrodesmus convergens Ehr. Inf., pag. i52, n. l'yG, tab. io, fig. i8. - Ralfs, Brit. Desm. , pag. ii8, n. i, tab. XX, fig. 3. - Rabenh. Alg. , n. 341 et 1227, et Dee. i85, n. 1227 (b), - FI. Eur. Alg., pag. 227 (1868). - FocKE, Phys. Stud. II, tab. IV, fig. 14. Staiivaslriim coni>ergens Mejjegh. in Link. (1840), pag. 228. Euastrum (TeLvacanthiam) coiwergens Nag. Einz. Alg. 114, tab. VII, C, fig. I. Lorica suboìbiculata, duplo magis lata cjuam longa, medio valde con- stì'icta; hemicjtia e facie primaria, reniformia , aiit oblorigo-cjlindracea , utrinque aculeata; e facie secundaria eximie sphaerica, e vertice oblongo- AUCTORE J. B. DELPONTE. 'J'J elUpiica; endochroma e laminis chlorophjllaceis duabus pavalelUs cum nucleo faeculaceo medio comprehenso. Cjtiodermate le^'i. Cellula di forma prossimamente orbicolare , due volte piìi larga che lunga, profondamente strangolata in due lobi cilindrici, terminati ai due capi da una spina ricurva presso a poco eguale al diametro dei lobi. Endocroma formato da due lamine di clorofilla che si estendono per tutto lambito della cellula, e chiudono frammezzo un nucleo di fecola. In questa specie s'incontrano sovente degl'individui con uno, o con tutti e due i lobi mancanti di spina , ed individui ancora avvolti da un ampio sacco mucoso (V. tav. XIV, fig. i4, 18). Dimensioni: Lunghezza 0,0936 - Larghezza o,o5'j6. Icori nostra, tab. XIV, fig. i3-23. Spiegazione delle figure. Fig. 13. Individuo fresco e rigoglioso. » li. Altro giovane ancora mancante di spine, colla guaina in corso di sviluppo. )) 1 5. pili piccolo in corso di sdoppiamento, » 16. Lo stesso individuo veduto da uno dei capi, vale a dire diritto sulle spine. )) 17. Altro individuo in corso di sdoppiamento alquanto piìi grande del primo e più avanzato. » 1 8. individuo di grossa mole col lobo giovane perfetto, ma privo di spine. n 1 9. Un mezzo individuo in corso di sdoppiamento col lobo vecchio, della grandezza del precedente. Attorno al nucleo si scorge la clorofilla che comincia a raggrupparsi per formare le lamine. » 20. Individuo di piccola mole veduto da uno dei capi, vale a dire diritto sulla valva opposta. » 21 . Altro sdoppiato di fresco col lobo giovane mancante di spine. » 22. Zigospora accompagnata dalle valve vuote degli individui che le hanno dato origine, provveduti della spina terminale. » 23. Zigospora proveniente da individui mancanti di spine. Lago di Candia nel Canavese. tS specimen DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM I Genus 11 DIDYMOCLAD()\ Ralfs. Lorica tetragoiioloba va/de constricta ; hcmicjtia triangnlata lians- \'evsim seda, fere bipartita, segmenlis iuaeqnalihus ; extinio minori tri- multi-radidto , l'adiis conicis , trans^'ersini annidato -mucronulatis , lobis subtrigonis subito in acnmen bi-tri-furcatum productis , exterioribus arcuatis siibintortis. Endochroma e taeniis geminis , prò qnoUbet hemi- cjtii angiilo , e nucleo faeciilaceo centrali ad apicevi convcrgentibus. Zigosporne nobi.i ignotae. ])lDVMOCLADO?< FUKCIGEULS RalFS. Staurastruni furcigerum Bréb. apud Menegh. Svii. m Ll^^■., pag. 226 (1840), in Hit. cum icori. Phfcastrum fìircigeruin Kutz. Phyc. Gemi., pag. i38 (i845). A stero xanthium furcigerum Kutz. Sp. Alg. (1849), pag. i83. Didymocladon furcigerum Ralfs, Bril. Desm. (1848), pag. t44i l^-'''- XXXIIÌ, fig. 12. - Bréb. List. Desm. (i85G), pag. i36. Staurastruin furcigerum Rabenh. Krypt. FI. v. Sachs., pag. 194. - Pritch. Hisl. of. Inf. (1861), pag. 743. Dydimocladon sexangulai-e Buln. Hedw. II, tab. IX, fig. i (a, d). - Rabekh. Alg. n. i568. Staurastrum furcigerum Kh3Eìi\i.Y\.^y\r. Alg., pag. 319. - Lund. de Desili. Suec. , pag. 70 (1871). Cellula tanto lunga quanto larga , due volte strangolata in segmenti triangolari; i primari o mediani paralelli disgiunti l'uno dall'altro da una strangolalura molto profonda; i laterali o secondari divergenti rovesciati all' infuori, separati dai mediani da un seno che si arresta sulla parte piena della cellula, e paiono un'espansione dei medesimi cogli angoli prolungati, crassi, conici, subitamente ristretti, bifidi o trifidi. Profilo terminale del lobo j)rimario triangolare a lati incavati, a prolungamenti conici terminati da una n due spine. Parete coperta di granoli disposti in linee circolari. Dimensioni: Lunghezza 0,0720 - Larghezza 0,0720. Icon nostra, tab. XIV, fig. 24-27. AUCTORE J. B. DELPONTE. 79 Spiegazione delle figure. FiG. 2i. [tulividuo veduto da una delle faccie primarie, il quale lascia vedere i due lobi soprapposti, uno dei quali, vale a dire l'e- sterno, pili piccolo. » 25. Lo stesso veduto da uno dei lati. )) 26. Altro individuo vuoto veduto da uno dei lati, diritto sui lobi di mezzo della faccia opposta. )) 27. Altro individuo, veduto ancor esso da uno dei lati in diversa giacitura. Laso di Candia nel Canavese. D Genus lo. PENIUM BnÉB. Lorica oblonga-cjlindraceu recta, vix aut ne vix quidern medio con- stricta, apicibus rotundatis vel cimeato-lruncatis ; hemicjtiu basi adnata riempe sidurae marginibus parum depressis , vel omnino coequatis. En- dochroma e laminis pluribiis ab axi radiantibus, integerrimis vel prope parietem bipartitis , laciniis in lae^'am atque in dexteram partem diva- ricatis. Nuclei amylacei nt plurimum intra laminas reconditi. Accedunt in extrema parte cujusque ìieinicjtii spalla quaedam vesicularia nitidis- sima corpusculis minimis continuo trepidantibus referta. Zygosporae sphaeiicae vel subtetragonae. I. Peniu.m iìnterruptum Bréb. Peninm interrupttim Bréb. apud Ralfs in liti. ( 1846) Brit. Desm., pag. i5i, tav. XXV, fig. 4 (1848). - Bréb. List. Desm. (.856), pag. 146.- De-Bary, Unlersuch. der Conjugat.. pag. 73 (^1858), tav. V, fig. i-4. Closterium digitus Ehr. Inf., pag. 94, tab. VI, fig. 3, n. 2 (i838)? Penium interruptum Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. 1 19 (1868). - Pritch., pag. 7.'>i, tab. Ili, fig. 45.- Lund. de Desm. Suec, pag. 84 (1871). Lorica cylindracea utroque polo subito angustata , rotundata, quin- quies magis longa quam lata cani laminis chlorophjllaceis septenis ivl denis integerrimis. Cjtiodermate levi. 8o SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Cellula cilindrica, subitamente ristretta e rotondata alle due estremità ( havvi qui un vero arrotondamento , non una troncatura cogli angoli rotondati ad unghia come nel P. lamellosiim):, oltraciò il ventre è lun- gamente cilindrico e ristretto ai due capi cjuasi ad un tratto, mentre nel P. Inmellosuin la lorica comincia insensibilmente a restringersi poco oltre il mezzo dei lobi. Vuoisi aggiugnere, che le vescichette dei corpuscoH trepidanti sono piìx grandi che al solito , e che nel mezzo dell' aiuola invece dei corpuscoli havvi un cerchietto trasparente , il quale cangia di posto incessantemente accostandosi e allontanandosi dalla parete. Trattasi egli di molecole trepidanti riunite in un solo corpo o di un corpo par- ticolare ^ Osservazione. La prima di queste supposizioni ne semljra più probabile , appunto perchè il cerchietto, sebbene lentissimamente, si muove e Ciingia di forma. Lo spazio che corre tra l'aiuola e la parete è pieno d'un plasma più scuro, e rendocroma si mostra d'un bel giallo dorato intinto di verde, specialmente nella parte periferica. Dentro al liquido giallo dorato si scorgono le lamine clorofdlari che non s'attaccano direttamente alla parete , ma bens'i al plasma parietale, e si vanno a raggiungere nell'asse. Per altro, nel punto di contatto, la materia verde si arresta, ed è questo il motivo per cui Tasse non riesce afiluto denso ed opaco. Le fascie sono in numero di dieci, talvolta di otto o di sei, e si estendono fm dentro agli spazi vescicolari delle due estremità; nell'aiuola mediana .si scorgono i capi di dette lamine troncale a sbieco. Negl'individui giovani le fascie non offrono interrompimenti di sorla ; ma negli adulti si mostrano interrotte nel mezzo da linee trasparenti. Vuoisi per altro avvertire che l' interrompimento ha luogo soltanto nella materia verde per un tratto lineare sottilissimo , cosicché il corpo delle lamine viene ad essere interrotto talvolta in due, talvolta in tre. talvolta in quattro pezzi. Dirò, per ultimo , che il plasma, ad un forte mgrandimento, accompa- gnato da una data modificazione di luce, si mostra tutto come spezzato irregolarmente, e, come concamerato nel mezzo dell'ajuola mediana; scor- gesi sempre il nucleolo scuro. Dimensioni: Lunghezza o,324o - Larghezza 0,0648. » » 0,2808 » o,o5o4- Icori nostra, tal). XV, fig. i-g. AUCTORE J. B. DEI.PONTE. Spiegazione delle figure. FiG. I . Individuo fresco e vegeto. » 2. Taglio trasversale dello stesso con otto lamine di clorofilla. » 3. Altro individuo fresco e vegeto. >) 4. Taglio trasversale delio stesso, con dieci lamine di clorofdla. » l). Altro individuo j)iù piccolo. » 6. Individuo coU'endocroma non ancora spartito. )> 7. Altro individuo più avanzato coU'endocroma diviso in quattro [)arti presso a poco eguali. » 8. Altro individuo con una estremità sdoppiata di fresco, e non an- cora giunto a termine di sviluppo. » 9. Individuo giovane proveniente da sdoppiamento. Lago di Gandia nel Canavese. *!. Pbnilm lameli.oslim Bréb. Clusleiiuin lamellosum Brkiì. Aig. Falaise , pag. Sg, tav. \ 111. Peniuin lamellosum Bréb. List. Desm. (i856), pag. i/jG, tab. Il, fig. 34- - De-Bary, Unlersucli. der Gonjugat., pag. 73 (i858). Closleriuni digitus Focke, Pliys. stud. I, tab. Ili, fig. 22-27. Peiiium lamellosum Rabenii. FI. Eur. Alg., pag. 119 (1868). Lorica cjlindracea utrinque sensvn attenuata, apice ad unguem ro- tundata , quatuor vicibus magis longa quam lata; endochvoma e laminis chloi'ophyllaceis octonis, bipartilis. Cjtiodermate levi. Cellula quattro volte più lunga che larga, cilindrica fusiforme, vale a dire cilindrica |)er un terzo della lunghezza totale nella parte media, poi ristretta gradatamente, coi due capi terminali ad unghia. L' cndocroiiia di questa specie è notevole per la tinta leggiera d' un giallo dorato misto di verde, che si presenta per tutta la cellula, più carico solamente ne' tratti corrispondenti alle lamine clorofiUari. Di queste havvene generalmente tre più forlemente marcate delle altre rivolte dalla parte dell'osservatore, una in corrispondenza dell'asse, generalmente poco di- stinta perchè nascosta nello scuro che le fanno al di sotto le altre con- trasseenate da una serie di traili scuri allungali nella direzione dell'asse. Serie II. Tom. XXX. l 82 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM a cui corrispondono al di fuori certe aiuole trasparenti a foggia di stpiar- ciature, come se ivi succedessero altrettanti disrompimenli della membrana interna. Due altre serie di tratti scuri e trasparenti si vedono in vicinanza delia parete, ma meno distinti. Tale essendo l'aspetto esteriore della cellula, diiemo la disposizione che paiono avere le parli interne. Il corpo clorofillare è formato da lamine, il cui margine esterno viene a portarsi contro la parete della cellula, e trovasi diviso trasversalmente in laminelte o ritagli che si discostano dal resto della lamina stessa, diver- gendo alternativamente a destra ed a sinistra, cosicché dalla parte del- To-sservatore ogni lamina di clorofilla viene ad oIlHre una laminetta rivolta in alto alterna ad un'altra rivolta in basso. La parte rivolta in alto, per l'ombra che viene a formare cadendo sopra se stessa, dà origine a tratti .sciu-i, mentre le laminette seguenti rivolte in basso, lasciando libero il passaggio alla luce, danno origine ai tratti trasparenti. E perchè le laminette , che possono considerarsi come ramificazioni della lamina principale, vanno a raggiungere la parete, s'intende il perchè a fianco e sui lati delle linee scure forti , badando attentamente , si os- servano due altre linee scure molto piìi sottili ed interrotte , che corri- .spondono ai punti di contatto delle laminette col plasma della parete. Alle due estremità si scorgono dei diradamenti o tratti più trasparenti con alcuni corpuscoli trepidanti; ma non vi hanno spazi vescicolari distinti. Nella parte media vi ha sempre un' aiuola trasparente più o meno grande , e vi hanno ancora degli spazi lineari trasversali che corrispondono ad interrompimenti delle fascie e del plasma; bui non havvi nucleo distinto. Osservazione. Affine al P.ìumcula del Prof. De Notaris, ma ne diilérisce proba- bilmente nel numero e nella struttura delle lamine clorofillari, che nella nostra specie sono in numero di otto, e cia.scuna delle quali si sdoppia in due laminette in vicinanza della parete, come abbiamo detto di sopra. « Ce Penium (dice il Brébisson, List. Desm., pag. 146, i856)souvent » confondu avec le P. digilus , en dilFère par sa taille plus allongée, et )) surtout par un léger renserrement qui se remarque en son milieu. Le » P. digitus est plus ovale et plus large au milieu ». » » AUCTORE J. B. DELfONTE. 83 Dimensioni; Lunghezza o,3644 - Larghezza o.o-56. » » 0,2880 » 0,0'^20. » » 0,2282 )) 0,0396. » » o,i5r2 « 0,0432. Icon nostra, tah. XV, lig. 10-18. Spiegazione delle figure. Y\G. IO. Individuo notevole per le lamine molto frastagliate, e perchè straordinariamente lungo, rispetto alla grossezza. ì) 1 1 . Altro fresco. » 1 2. Taglio trasversale , per mostrare la struttura deirendocroma. 1) 1 3. Individuo fresco. 14. Altro ancor esso notevole per la lunghezza rispetto alla grossezza, e per I endocronia formato d'una sola lamina di clorofilla. » 1 5. fresco molto più grosso. » 1 (j. Due individui muniti di guaina. 17. Individuo piccolo coU'endocroma allo stato nascente. » 18. Altro notevole per la sua lunghezza, e perchè ristretto, stran- golato nel mezzo. Lago di Candia nel Canavese. 3. Pemum closterioides Rai.fs. Peniuiìi closleìioides Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. i52, tab. XXXIV, fig. 4. Penitini iiavicula Bréb. List. J3esm., pag. 146, tab. II, fig. Sy (i856). Peniuni closterioides Rabekh. Alg. , n. i'y68. -De Not. Elem. Desm. Hai., pag. G8, tab. Vili, fig. -^6. - Rabenh. FI. Eur. Mg., pag. 121 (i868) - LuKD. de Desm. Suec, pag. 84 (1871). Lorica Jusiformis ntrinque sensini attenuata, medio in/lata , sexies inagis loìiga quam lata ; laminis chiaro phyllaceis pluribiis ah axi ra- diantibns. Cytiodermate le\'i. Cellula fusiforme a cominciare dalla parte media, ossia dalla sutiu'a, gradatamente ristretta verso le due estremità ottuse, rotondate. Endo-» croma formato da sei a dieci lamine di clorofilla, cogli spazi vescicolari posti alle due estremità della cellula di forma sferica, con un glohetto nel centro come nel P. inteii'iiptuni. 'CAT119I BrÉB. (jlitidrocislis truncata Bréb. in litt. cum icon. apud Rai.fs (lò^n), Jirit. Desm. (1848), pag. iSa, tab. XXV, fig. 5. Peninm truncatuni Bréb. List. Desm., pag. 146 (i856i. - Rabeah. FI. Eur. Alg. , pag. 121 (1868). . Lorica minima , cjUndracea , utrinque truncata , duplo magis longa quam lata, vix medio constricta. Laminis chlorophjllaceis inconspicuis. Zjgosporae ignotae. Cytiodermate levi. Cellula molto piccola, due o tre volte pii!i lunga che larga, liscia, cilindrica coi capi troncati , talvolta leggermente strangolata nel mezzo. Parete liscia. Dimensioni: Lunghezza 0,0288 - Larghezza 0,0096. » » 0,02 16 )) 0,0096. Icon noslì-a , tab. XV, fig. o'j-Sg. Spiegiizione delle figure. Fig. 37. Individuo coll'endocroma .scancellato. » 38. Altro vuoto. » 39. .\ltro individuo più piccolo. Lago di Candia nel Canavese. 86 .SPECIME^ DESMIDIACEARUM SUBAI>PIKARUM O. PeML'M OlìLOAGUM De-BaRY. Peniiim obloiiguin De-Barv, Untersucli. der Conjug., pag. ^S. lab. N II. G., fig. I. 2 ((858). - Rabenh. Alg., n. 70.5 (1828), - FI. Eur. Alg., pag.,i 19 (1868). - LuND. de Desili. Surc. , pag. 84 (1871). Lorica cylindracea , utrinque, rolundaUi, tei'tia vel quarta parte magis longa quain lata , ciun laminis chlorophjllaceis plurihus obsoletis. Cy- tioderinate levi. Cellula cilindrica, non rigoiilUi nel ventre, rotondala ai due capi senza alcuna traccia né di sutura, nò di solco nella |)arle inedia, con una traspa- renza trasversale. Trovaniuio iruli\idui colle lamine sconii)igliate, senza i^loholi di fecola ben distinti , e individui che ci hanno oiliiTto due globoli di fecola at- torniati da grossi globoli verdi senza traccia di lamine. Dimensioni: Lunghezza 0,2448 - Larghezza 0,0576. » » 0,1872 » 0/1648. Icon nostra, tab. XV, fig. 40-4^- Spiegazione delle figure. FiG 40 e 42. Individui coirendocroma alterato. » 41 . Altro vuoto. Lago di Candia nel Canavese. 0. Pi:iMU."« OIGITLS Bréb. Closteriuin digitus Ehr. Inf., pag. g4, tab. VI, fig. 3 (i838). - Menegh. Syn. Desm. in Link. (i8'io), pag. 236. - Bayi.ei. Am. Bacc. in Am. Jourii. of Se, voi. 41, pag. 3o2, tab. 1, lìg. 33. - Jenner, FI. of Tunb.. pag. ig6. - Hassal. Brit. Alg., pag. 376, tab. LXXXVIII, fig. 4. - Kutz. Phyc. gemi., pag. i33. Pleurosjcios myriopodus Corda Alni, de Cari. (i835), pag. t25, tab. 5, fig. 68. AUCTORE J. B. DELVONTE. 8n J^enium digitus Brkis. ììl Ult. (1847) apucl Rai>i-s, Brit. Desili. (1848), jjag. i5i, tiib. XXV, fig. 3 (t). - Bhéb. List. Desm., pag. i45 (i856). - De-B\rv, Uiitcrsiich. der Gonjugat., pag. -3 (i858}. Peniiun digilus R.abenii. Alg., n. i3o2, 1766, - FI. Vaw. .\lg., pag. 1 18 (1S68). - LuM), de Desm. Suec. , pag. 84 (1871). Lorica ohlongo-cyluidi'acea teftia parte cii'cUer niagis longa ijuani tata , a medio ad verticeiii vix attenuata , iitriiKjue rotwidata , laminis chlorophyllaceis pluribas ab axi radiantibas. Cjtiodennale levi. Cellula bislunga ellittica, subitamente ristretta ai due capi ottusi roton- dati, a parete liscia, con due trasparenze alle estremità in vicinanza delia parete ; niun indizio di sutura nella parte mediana. Varia nelle dimensioni facendosi del doppio più lunga e più gros.sa, colla parete per lo più liscia alFattOj talvolta tempestata di punti trasparenti, quasi impercettibili anche ad un fortj ingrandimento. Conserva però sempre la forma bislunga ovale, più o meno dilatata nel ventre , ma sempre ristretta in modo uniforme e rotondata ai due capi , non mai cilindrica , per un buon tratto nel ventre come nel P. lainellosam. Altro carattere di questa specie si è, di non avere traccia né di sutura, né di strangolatura. La nostra figura dilferisce da quella dell' Ehrf.nberg per la trasparenza dell'endocroma nella parte media in corrispondenza della sutura , come .se le lamine si trovassero interrotte; oltre ciò i capi mancano delle aiuole dei corpuscoli trepidanti. Dimensioni: Lunghezza o,36oo - Larghezza 0,1008. Icon nostra, tab. XV, fig. 5o-5i. Spiegazione delle figure. V\c,. 51. Individuo fresco e vegeto colla materia che lascia travedere le lamine clorofillari, ma confuse, n 52. Altro vuoto più piccolo. Lago di Candia nel Canavese. (1) 11 Ralfs adduce qui per siuonimo il C. lumellosum Bbéb., che, come osserva giuslamenle il Brébisson, cosliluisce una specie distinta. Il Nageli ha figuralo sotto il nume di CI. digitus un'altra specie, la quale è senza fallo una delle più coslanli e più sicure, il P. lamtUosum Bréb. (V. ISa(;. Gattung. Einz. Alg., pag. 109, tal). 6 (D) ^1849)). 88 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARONJ 7. PeINIUM BllEBISSOMI Rai.fs. Palmella cylindrala Bréb. Alg. Falaise, pag. 64 (i835). Cjlindrocjstis Brebissoìiii Menegh. Org. fis. delle Alghe, pag. 5 (i838). - Hassal. Fresw. Alg., pag. 36i, lab. LXX\, fig. 17 (i845). Closteriuiii cjlintlfocjstis Kutz. Ph. gerin., pag. i3p, (i845j. Palmogloea Meneghina Kuiz. Sp. Alg. , pag. 23o (1849). Palmogloea Brebissonii , Tab. phyc, pag. ii), lab. XXIV, fig. 4- Penium Brebissonii Rai.fs, Brìi. Desia. (1848)^ pag. i53, tab. XXV, fig. tì. - Bréb. List. Desni. (i856), pag. if\'j. Cylindrocystis Brebissonii De.-Bmì'ì, Untcrsurh. dcr Conjiigat. (i853), pag. 74» '•■i'^- ^^^j ^^o- (^)- ~ LuND. de Desiu. Suec, pag. 83 (1871). Penium Brebissonii Rabe.\h. Alg.. n. i i i ^| et 1910, et iterimi n. 1407, 101 1, - FI. Eur. Alg.. pag. tao (1868). Lorica cjUndracea, tertia parte circiter magis longa 30. Altro vuoto più grande. » 3i . con uno dei lobi in corso di sviluppo. )) 32. ehe lascia vedere le lamine di clorofilla con nucleoli di fecola soprapposti. )i 33. veduto da uno dei capi. Lago di Candiii nel Canavese. (1) Cylindroajstis (secondo il De-Bary apparterebbero a questo genere il P, cylindrus Ehr., il P. truncalum Ralfs , il P. Jenneri Ralfs, ecc.). g2 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAl.PINARUM li. PEiMUM margaritaceum Brkb. Closterium maigaritaceiun Ehr. Inf., pag. gS, lab. Vf, fig. i3 (i838). - Menegh. Syn. Desin. in Lina. (1840), pag. 'j36. - Jenner, FI. ofTunb., pag. 196. Penium margarUaceuin Bréb. (1846) apiid, Ralfs, Bril. Desin., pag. i4y, tab. XXV, fig. 4 («); lab. XXXIII, fig. 3 (1848). - Kutz. Sp. Alg., pag. 167 (1849). - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 146. - De-Bary, Unters. der Conjugat. (i858), pag. ■^3. - Rabenh. Alg., n. 5io b, i3.54 et 1788., - FI. Eur. Alg. , pag. 121 (1868). - De Not. Eleni. Desm. ital., pag. 69, tab. Vili, fìg. 79 (1867). ~ LuND. de Desm. Suec. , pag. 85 (1871). Lorica cyllndracea quarta parte inagis longa cjiiam lata , utrinqué rotundata, medio leviter constricta. Juncturae marginibiis obsoletis. Cytio- dermate levi aiit gi'anidatn. Cellula cilindrica rotondata ai due capi, tutta sparsa di grandi lucenti, disposti in serie longitudinali, segnata nel mezzo da un'aiuola trasparente senza solco di sorta negl'individui freschi e vigorosi, e attraversata da una linea scura che proviene dalla sutura dei due margini. Nel mezzo di ciascun lobo scorgesi in molti individui un'altra aiuola, attraversata pure da una linea scura; e trovammo ancora individui, che nel mezzo di ciascuno dei lobi ci hanno offerto un'aiuola molto allungata, come fosse un nuovo individuo ancora mancante di endocronia (tav. XV, fig. 45. 46). Le aiuole trasparenti e le suture indicano senza fallo il tratto in cui deve operarsi la moltiplicazione della cellula; e quindi l'impossibilità di segnare un limite alle dimensioni di questa specie, tanto più che gì individui forniti d'una sola aiuola variano da 0,1 i52 a 0,1800 per rispetto alla lunghezza e da o,o324 a 0,0144 l'igwardo al diametro. Nelle due estremità presso alla parete si trovano gli spazi vescicolari pieni di corpuscoli trepidanti. Dimensioni: Lunghezza 0,1 368 - Larghezza 0,0262. » » o, I 1 02 » 0,02 16. Icon nostra, tab. XV, fig. 43 -5o. AUr.TORE J. B. DEI.PONTE. Spiegazione :!clli' figure. 9^ FiG. 43. Individuo fresco t^oit uno dei lobi rigonfio nel mezzo in corso di sdoppiamento; in questo mdividuo le aiuole dei corpuscoli tre- pidanti sono molto dense e tali da parere tanti nuclei di fecola. rt 44. Lo stesso vuoto. » 45. Individuo fresco più grande. » 46. Altro in corso di moltiplicazione. » 47. vuoto. „ 48. in corso di moltiplicazione , colle valve mancanti di clo- rofilla. « 49. individuo Ire.sco. „ 50. vuoto un po' strangolato nel mezzo, con linee tras- versali che segnano i tratti di separazione nell'atto dello sdop- piamento. La"o di Candia nel Canavese. Genus XVI. CLUSri:RIU\l Nitz. Lorica fusiformis lunato-oblonga plus miniis curvata, vel si recta <]uod raìo, perpetuo a medio utrinque attenuata ensiformis ; hemicjtia basi adnata, suturae marginibus laevibus , nec foris nec intus replicatis. En- dochroma e taeniis cìiloroplijllaceis prnpe axiin in orbem dispositis cum nucleis amrlaceis plurihus sparsis aut uniseriatis. Jccedunt plerumque in extreina parte utriusqiie hemicjtii corpuscula trepidantia, ut in Peniis. Zygosporae sphaericae aut quadrangulares. I. (Ilosterki.m Ehre^bergii Menegh. Closlerinni Lunula Ehr. Inf. , tab. V, fig. 2 (i838). Closterium Ehrenbergii Menegh. Syn. Desm. in Link. (1840), pag.aSa. - Hassal. Brit. Alg., pag. 1^69 [excl. synonimo), tab. LXXXVII, fig. i (i845). - Ualfs, Brit. Desm., pag. 166 (1848), lab. XXVIII, fig. 2. - KÙTz. Sp. Alg., pag. i63 (1849). - Bréb. List. Desm. , pag. 148 (i856). - Rabenh. Bacili, n. 59, - Alg. , n. 1121 et i 497, - FI. Eur. Alg., pag. lij (18681. - Pritch. Hist. of Inf, pag. 718 (1861). g4 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Idrica oblonga semi-lunata , medio infiala apicibus obtusis, quinta vel sexta parte magis longa quam lata cum laminis chlorophjllaceis pluribus ah axi radiantibus et nucleis amjlaceis sparsis. Cjtiodermate levi. Cellula di torma semilunare , da cinque a sei volte più lunga che larga , col venire gonfio e i lobi ottusi rotondati alle due estremità : parete trasparente liscia. Endocroma d' un bel verde con lamine doro- flllari poco distinte, e molti globoli di fecola sparsi irregolarmente. Tro- vammo individui che ci hanno olTerto i nuclei sparsi ed i globoli ravvi- cinati verso il mezzo in una serie sola, ma alterni, non regolari, quasi in uno stato intermedio tra questa specie ed il Ci. moniliforme . Spazii vescicolari distinti piuttosto grandi alle due estremità. Noi l'abbiamo trovato in abbondanza sui colli del Monferrato presso Garentino ( regione Smegliana ) , nella prima fonte, vicino al sentiero, in quantità sterminata a segno di formare uno strato dello spessore di due millimetri sulle foglie secche ed altri corpi sommersi. Dimensioni: Lunghezza o,5o4o - Larghezza 0,0^92. » « 0,3240 )) 0,0576. Icon nostra, tab. X\ I , fig. 18-20. Spiegazione delle /igiire. FiG. 18. Individuo fresco e vegeto. » 19 e 20. A.ltri individui di diverse dimensioni, che lasciano vedere le laminette e i nuclei sparsi. Garentino nella provincia d'Alessandria. 2. Closterium moniliferum Bory. Lunulina monilifera Bory, Encycl. Méthod. flisl. des Zooph. (1824), tab. Ili, fig. 22, 25 a 27. Closterium Lunula Kutz. Syn. Desm. in Link. (i833), fig. 80. - Bréb. Alg. Falaise, pag. 58, tab. Vili (i835). Closterium moniliferum Ehr., Inf, pag. 90, tab. V, fig. 16 (i838). - Menegh. Syn. Desm. in Linn. (1840), pag. sSa. - Baylei, Am. Bac. in Am. Journ. of Se. and Arts, voi. 4i, l^g- 3o2, tab. I, fig. 3i. - Jenner, FI. of Tunb., pag. 196. - Kutz. Phyc. Germ., pag. i3o. - Hassal. Brit. Algae, AUCTORE J. B. DELPONTE. 9^ pag. 370, lab. LXXXVII, fig. 2 (1845). - Kutz. Sp. Alg. , pag. i63 (1849). - Ralfs, Brit. Desni. (1848), pag. 166, lab. XXVIII, fig. 3. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 149.- Habenh. Alg., n. 507, 849, i2o5, i23o. - De JNot. Eleni. Desm. Ilal., pag. 60 , lab. VI, fig. 62 (1867). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i3i (1868). - Lund. de Desm. Suec, pag. 80 (1871). Lorica semi-lunata, medio infiala, tertia vel quarta parte magis longa qiuim lata, utrinqiie sensim attenuata , apicibus obtusis cum laminis chlo- rophjllaceis pluribus ab axi radiantibus , et vescicularum serie unica in parte media. Cytiodermate lei'i. Cellula da tre a quattro volte più lunga che larga , semilunare , col ventre tumido, coi lobi ottusi, rotondati alle due estremità; parete tras- parente. Endocroma di otto lamine clorofillari, con grossi globoli di fecola disposti su d'una serie sola. Spazii vescicolari di forma tonda piuttosto grande, pieni di corpuscoli trepidanti. Parete liscia. Dimensioni: Lunghezza 0,4896 - Larghezza 0,0720. » » 0,8 i3o » o,o5o4- Tcon nostra, tab. XVI, fig. 2 1-23. Spieganone delle figure. FiG. 21. Individuo fresco e vigoroso. » 22. Altro più piccolo. » 23. Altro ancora più piccolo. Lago di Candia nel Canavese. 3. Closterium Lunula Ehr. nbrio Lunula Moller, Natur. Forsch., pag. 142 (1784), - Animai inf, pag. 55, lab. VII, fig. i3-i5. Mulleria Lunula Léclerc, Mém. du Museum (1802). Bacillaria Lunula Schrank , Acta Nov. Curi. XI, pag. 533 (i823). Lunulina vulgaris Bory, Encycl. Mélh., lab. II (1824)- - Turp. Dict. d'hist. nat. , tab. V. Closterium Lunula Ehr. Inf, pag. 90, tab. V, fig. i. - Kutz. Syn. Diat. m LiNN. (i833), pag. 596. - Corda, Alm. de Carlsb. (i835), pag. 190, tab. V, fig. 56-57. - FocKE Phys. Stud. , tab. III, fig. 18. - Jenner, FI. q() specimen DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Tunb., pag. 196. - Rai.fs, Brit. Desm. (1848), pag. i63, fig. i, tab. XVH. - Hassal. Brit., Fresw. Alg. , pag. 874, lab. LXXXIV, f,g. 4 (,845). - KuTz. Sp. Alg., pag. i63 (1849). - Bréb. List. Desm., pag. i5o (iS56). - Pritch. Ilist. of M, pag. 747 (1868). - Rabknh. Alg., n. 1767. - De Not. Desm. ilal., pag. 69, tab. VI, fig. 61. - Luind. de Desm. Siiec, pag. 79 (1871). - R.4BENH. FI. Eur. Alg., pag. 127 (18G8). Lorica lunalo-oblonga . fnsifonnis , margine altero coiwexo , altero planiusculo, e parte media lUrim/tie sensim attenuata, apicibus rotundatis obtusis , quarta ve! quinta parte magis longa quani lata cum laminis chlorophjllaceis pluribus ab axi radiantibus et globulis amjlaceis sparsis. Cytioderniate lei'i. Cellula Iiisilonne o semilunare, da quattro a ciuque volle più lunga che larga, col ventre leggermente ed uniformemente enfiato, e i due lobi gradatamente ristretti e terminati da uni punta ottusa rolondat;i. Endo- croma dun verde erbaceo di materia granolala piuttosto densa, qua e là tempestata di globctti di fecola, interrotta nella commettitura da una linea sottilissima e da un'aiuola trasparente bislunga ellittica, con dieci lamine di clorofilla troncate nel mezzo, coi loro capi sporgenti nell'aiuola, con- trapposte o alterne fra di loro. Spazii vescicolari o vacuole terminali piut- tosto piccole, di forma circolare, parete liscia trasparente. Osservazione. Ancorché le fasce nella sutura si mostrino interrotte, I interruzione ha luogo soltanto nella materia verde contenuta ( nel nostro modo di vedere ) in sacchetti o tubetti di plasma. E poiché i capi dell' uno dei lobi alternano con quelli dell'altro, è probabile che nell'aiuola medesima i tubetti cangino di direzione nel passare da un lobo all'altro. Ogni volta che si fa scoppiare alcuno degli individui sotto al microsco- pio, si osserva che il disrompimento succede dalla parte concava, e che l'endocroma ne scappa fuori con impeto, formando un getto tortuoso come si trattasse d'una pasta elastica, e che la cellula, appena si trova essere vuota di materia, si raddrizza, e i lobi prendono entrambi una forma piramidale. Il FocKE, sotto a questo nome, accenna parecchie forme, le quali non ci paiono tutte di spettanza d' uno stesso tipo essenziale , ad esempio quelle che portano i numeri i, 2. 3, 4, 6 paiono accordarsi col nostro AOCTORE J. B. DELPONTE. Q^ Cl.Jlaccidum , tab. XVIII, (ìg. 34-36; e di nuovo quelle delle figure 5, ", jo. di spettanza del Ci. monilifevum , vedi tavola nostra XVI, fig. 22; e il n. 1 1 al CI. Ehrenbergii , vedi la stessa tavola fig. i8; e il n. 18 è la sola figura che vada d'accordo colle figure del nostro Lunula. Dimensioni : Lunghezza o,5o4o - Larghezza 0,0986. » » 0,5760 1) 0,0864. Icori nostra, tab. XVI, fig. i-3. Spiegazione delle figuTC. Fig. 1. Individuo fresco. » 2. Altro individuo piìi piccolo. >) 3. Altro individuo affralito con una delle valve mancante d'invoglio esterno. Lago di Candia nel Canavese. 4. CLOSTKRItJM ACEROSUM Ehr. f^ibrio acerosus Schrank. Faun. Boica, IH. 2, pag. 47 (i8o3). Closterium acerosum, Ehr., pag. 92, tab. VI, fig. i (r838). - Menegh. Syn. Desm. in Linn., pag. 233 (t84o). - Kutz, Sp. Alg., pag. 164 (1849). - Jenner, Fior, oi" Tunb. Wel., pag. ig6. - Hassai.. Brit. Alg., pag. 3^4, tab. LXXXVII, fig. 5 ([845). - Ralfs, Brit. Desm., pag. 164, tab. XXVII, fig. 2 (184S). - Bréb. List. Desm., pag. iSa (i856). - Rabenh. Alg., n. 1048, 1387, - FI. Eur. Alg., pag. 128 (1868). - De Not. Eleni. Desm. ital., pag. 61, tab. Vili, fig. 65 (1867). -LuND. de Desm. Suec., pag. 79 (1871). Lorica obloìigo -lineari , a medio utrinque sensim attenuata, parum curvata secties 7)el duodecies magis longa quam lata, cum laminis chlovo- phyllaceis pluribus ab axi radiantibus et nucleis amjlaceis uniseriatis. Cjtiodermate levi, interdum striis subtilissimis exarato. Cellula fiisiforme lunata, da sei a dodici volte più lunga che larga, leggermente incurvata, gradatamente ristretta, e terminata da una punta ottusa col sacco interno troncato. Endocroma d' un verde erbaceo scuro con dieci lamine di clorofilla raggianti da un asse traspaienle con globoli d'amido disposti in una serie sola. Parete liscia, talvolta minutamente striala. Spazii vescicolari distinti, pieni di corpuscoli trcijiidanli. Serik li. Tom. XXX. k q8 specimen desmidiacearum subalpinarum Dimensioni . Lunghezza 0,6048 - Larghezza o.oSyG. )) )) 0,5 1 IO » o,o36o. Icon nostra, lab. XVI, fig. ^-iZ. Spiegaiione delle figure. FiG. 4. Individuo fresco e vigoroso. » 5. Altro individuo piìi lungo e più stretto. » 6. Altro di grossezza media. » 7. Altro più grosso e notevolmente più corto. » 8. Altro pili piccolo. » 9. Altro in corso di sdoppiamento. » 1 0. Altro in corso di moltiplicazione. » H , Un mezzo individuo in corso di sviluppo. » 1 2. Individuo vuoto a parete sottilmente striata. » 13. Una delle estremiti molto ingrandita per mostrare il lobo ristretto alla sommità col sacco interno troncato. Lago di Candia nel Canavese. ^g' O. CLOSTEttlUxM LeIBLENII Kutz. Closterium Lunula Leibl. (1827), pag. aSg , secondo Kùxz. Closterium Leiblenii Kutz. Syn. Diat. in Linn. (i834), pag. 68, - Phyc. Germ., pag. i3o. - Bréb. Alg. Falaise, pag. 58, tab. Vili (i835). - Menegh. Syn. Desm. in Linn. (1840), pag. 232. - Ralfs, Brit. Desm., pag. 167, tab. XXVIII, fig. 4 (1848). - Kutz. Sp. Alg., pag. i63 (1849). - Bréb. List. Desm, (i856), pag. .i5o. - Rabenh. Alg., n. Soy, 849, i23o. - Lund. de Desm. Suec. , pag. 80 (1871). Lorica semi-lunata quarta parte circiter magis longa quam lata , medio injlata , apicibus conicis abbreviatis cum laminis chlorophjllaceis pluribus et globulis amylaceis uniseriatis. Cjtiodermate levi. Cellula da due a quattro volte piìi lunga che larga, piegata ad arco, gonfia nel ventre, subitamente ristretta sotto ai due capi terminati da una punta piuttosto acuta. Parete trasparente liscia , quattro a sei lamine di clorofilla con globoli di fecola posti in una serie sola lungo la linea mediana. AUCTORE J. B. DELPONTE. 99 Osservazione. Noi abbiamo trovato questa specie sui GoUi del Monferrato nella fonte di Scoviglie presso Mombaruzzo nel iSSq, e abbiamo raccolto questa medesima specie nelle acque morte della Bolniida, la quale ci ha offerto i lobi non attenuati sotto alle due estremità, e direttamente terminati da una punta acuta, coU'endocroma fatto da un liquido giallo dorato senza granoli distinti, delicato, semi-trasparente, con quattro lamine di clorofilla con globoli di fecola piccoli disposti in una serie sola. Dimensioni : Lunghezza 0,8096 - Larghezza 0,0468. » i> o,2a32 » o,o5'^6. Icon nostra, tab. XVIl, fig. i-6. Spiegazione delle figure. FiG. 1 . Individuo fresco. » 2. Altro individuo. )i 3 e 4. Individui appiccali per una delle estremità. » 5. Individuo vuoto. » 6. Una delle estremità più ingrandita. Lago di Ciindia nel Ganavese. Sui Colli del Monferrato (Alessandria). 0. ClOSTERIUM DlANAE Ehr. Closteriiiin Dianae Ehr. Inf., pag. 92, tab. V, fig. l'-j (i838). - Kutz. Phyc. Gemi., pag. i3o. - Hassal. Brit. Fresw. Algae, pag. 3^1, tab. LXXXIV, fig. 5 (1845). - Ralfs, Brit. Desm., pag. 168, tab. XXVIII, fig. 5 ( 1848). - Bréb. List. Desm., pag. 149 (i856). - Kotz. Sp. Alg., pag. 164 (1849). Clostevium vuficeps Ehr. Abhand. der Akademie der Wissensch. zu Berlin (i83i), pag. 6'7. Closterium l^enus Kutz. Phyc. Germ., pag. i3o (i845).' - Ralfs, 1. e, pag. 220, tab. XXV, fig. 12 (1848). Closterium Dianae Rabenh. Alg., n. .547! ^^o'j. - FI. Eur. Alg., pag. i33 (1868). - LuMD. de Desm. Suec, pag. 80 (iS-ii. 100 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAT.PINARUM Lorica lunatim curvata, seplies aut duodecies magis longa quam lata, apicihus sensim attenua tis , oblique truncatis, acutis cum laminis chloro- phjllaceis pluribus et nucleis amjlaceis uniseriatis. Cjtioderinate levi. Cellula da sette a dodici volte più lunga che larga, piegala ad arco, gonfia, col ventre talvolta un po' tumido, coi lobi lungamente assottigliati ed obliquamente troncati alla sommità. Endocroma giallo dorato tinto di verde, con una o più lamine di clorofilla e globuli di fecola disposti in una serie sola senza spazio vescicolare distinto pei corpuscoli trepi- danti, che si trovano liberi alle due estremità della cellula. Osservazione. Diirerisce dal CI. Leiblenii per essere di gran lunga più gracile rispetto alla grossezza ; cosicché, se il C. Dianae può dirsi lineare, il C. Leiblenii non potrebbe mai essere indicato sotto a questo nome, perchè la cellula è dilatata e grande fin sotto alle estremità. Dimensioni: Lunghezza: 0,2996 - Larghezza o,0252. » » 0,11 52 )) 0,0108. Icon nostra, tab. XVII, fig. 45- 5 1. Spiegazione delle figure. FiG. i5, 46, 47 e 48. Individui di diversa dimensione, con una o più lamine di clorofilla e globoli di fecola disposti in una serie sola. » 49 e 50. Individui più piccoli mancanti di globoli di fecola. » 51. Estremità più ingrandita. Lago di Candia nel Canavese. 7. Closterium Jenneri Ralfs. Closterium Jenneri Ralfs, Brit. Desm., pag. 162, tab. XXVIII, fig. 6 (1848). - Pritch. Hist. of Inf., pag. 748 (i86r). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i34 (1868). Lorica semicircularis, decies ^vel duodecies magis longa quam lata, api- cibus cjlindraceis obtusis cum laminis chlorophjllaceis quatuor et nu- cleis amjlaceis minimis uniseriatis in parte media. Cytiodermate levi. AUCTORE J. B. DELPONTE. lOF Cellula regolarmente piegata ad arco, nnilòrmemente distesa, coi due capi poco ristretti, rotondati alle due estremità; dal lato interno, ossia dalla parte concava, scorgesi un'intaccatura, ma è soltanto d'apparenza, e proviene da una depressione del sacco interno. Non havvi aiuola distinta pei corpuscoli trepidanti che si trovano liberi nella parte estrema man- cante di endocroma. Osservazione. Il corpo clorofdiare è latto di più lamine di clorofdla, ordinariamente due, con nuclei sparsi assai minuti. Parete liscia. Dimen.sioni : Lunghezza o,2532 - Larghezza 0,0180. Icori ìiostìa, tab. XVII, tig. 52-53. Hpiegazione dette figure. FiG. 52. Individuo fresco. » 53. Altro individuo vuoto. Lago di Candia nel Canavese. 8. Closterium flaccibum N. Lorica semilunata, sexlies magis longa quam lata, a medio ad api- cem sensim attenuata upicibus obtusiusculis cum lamina chlorophjllare, unica et nucleis faeculaceis pluribus uniseriatis. Cjtiodermate extenuato flaccido. Cellula semilunare, sei volte più lunga che larga, subitamente piegata ad arco nella parte media, coi lobi ristretti e rotondati alle due estre- mità. Endocroma stemperato, appena intinto di verde coi corpuscoli tre- pidanti liberi alle due estremità. Di tutte le specie da noi conosciute è questa la più delicata, la più fragile per rispetto alla parete; ed è la sola che, così nella gomma di ci- liegio come nella glicerina, perde intieramente la sua lòrma. S'accosta al C. Leibleinii, ma ne difTerisce perchè ha il ventre co- stantemente piano non tumido, oltracciò perchè si mostra incurvato quasi ad un tratto sulla parte media e non già gradatamente verso alle due estremità. 103 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI.PINARUM Dimensioni: Lunghezza o,i656 - Larghezza 0,0262. n n o. ig44 " o,o36o. Icon nostra, tab. XVIII, fig. 34-36. Spiegazione delle figure. Fui. 34. Individuo fresco, che olTre una sola lamina di clorofilla, con noc- cioli soprapposti. » :i5. Altro individuo colla stessa disposizione dellendocroma, ma più piccolo. » 36. Altro individuo mancante m apparenza di nuclei, più piccolo. Laso di Candia nel Ganavese. 9. Clostkrium vENrs Rai.fs. Ralfs, Brit. Desm., pag. 220. Lorica eximie semilnuaUi decies mugis longa quam lata; apicibu.s atteniiatis aciUis, cum lamina chlorophillacea solitaria et nucleis amjl- laceis plurihus uniseriatis. Cytiodrnnate levi. Cellula di forma semilunare da dieci a dodici volte più lunga che larga, coi capi sottilmente appuntati ad una sola lamina di clorofilla, con nuclei disposti in una serie sola. Parete liscia. Dimensioni. Lunghezza o,o'i32 - Larghezza o,oo36. Icon nostra, tab. XVIII, fig. 4o-4i- Spiegazione delle figure. FiG. 40. Individuo fresco. )) 41. Lo stesso molto ingrandito. Lago di Candia nel Ganavese. 10. Closterium incurvcm Bréb. Closteriiim incmvum Bréb. List. Desm., pag. i5o, tab. II, fig. 47- " Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i35 (1868). Lorica semi-orbicidata tertià vel quinta parte magis longa qiiam lata, subito angustata, apicibus acutis, cum nucleis et laminis chlorophillaceis una vel pluribus utrinque binis ultra medium. Cytiodermate levi. AUCTORE J. B. DELPONTE. I03 Cellula da tre a cinque volte più lunga che larga in forma di mezzo cerchio, uniformemente incurvata, senza tumidezza di sorta, coi capi su- bitamente ristretti ed appuntati, con una o più lamine di clorofdla, ac- compagnate ila due o da quattro globoli per ciascuna metà. Corpuscoli trepidanti, nudi nella parte estrema dei lobi. Gli individui s'accoppiano per la parte concava rovesciandosi all' indietro, come dimostrano quelli ritratti nella nostra tavola. Dimensioni: Lunghezza 0,0720 - Larghezza 0,0108. Icon nostra, tab. XVII, fig. 22-27. Spiegazione delle figure. FiG. 22. Individuo fresco. » 23. 24. 25. Individui di diversa dimensione. » 26. Individuo accoppiato colla zigospora, di forma tonda. » 27. Altri individui accoppiati collo sporangio in corso di sviluppo. Lago di Candia nel Canavese. 11. Closterium didymotocum Corda. Closterium dUljmotocum Corda, Alm. de Carlsb. (i835), pag. i25, tab. V, fig. 64-65. Closterium subrectum Bréb. Alg. Falaise, pag. Sg, tab. Vili.' (i835). - KuTZ. Phyc. Gerni , pag. i3i. Closterium Bailljanwn Bréb. in Utt. cum icon. et specimine (i845) apUd Ralfs, Brit. Desm., pag. i68, lab.XXVIH. fig. 7 (1848). - Bréb. List. Desni., pag. i5i (i856). Closterium didjmolocum Rabenh. Alg., n. 1229, - Krypt. FI. v. Sachs., pag. 172, - FI. Eur. Alg., pag. 1 20 (1868). - Pritch. Hist. of Inf. pag. 746 (1861). Lorica cjlindracea, duodecies magis longa quam lata, apicibus ro- tundatis, vix aut ne vix quidem curvata. Endochroma e laminis chlo- rophillaceis pluribus intricatis et nucleis faeculaceis pluribus uniseriatis. Cytioderniate levi. Cellula leggermente piegata ad arco quasi diritta, segnata nel mezzo da un restringimento annuiate, talvolta eguale ad un settimo della lun- "hezza totale, come se ivi si trovasse munita di una fascia. Egli è in |04 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM questo iiiedesinio tratto che si scorgono da tre sino ad undici linee cir- colari o tagli raddoppiati, ossia ravvicinati due per due. Endocrouia fatto da più lamine di clorofilla, talvolta distinte e paralelle, talvolta tortuose ed accavalciate. Osservazioni. Le estremità di questa specie si danno a vedere per un breve tratto inspessite come fossero coperte da una specie di calotta: nella punta estrema si scorge una trasparenza che a primo aspetto sembra un foro, ma che dipende unicamente da un inspessimento della parete : nella parte estrema si vedono gli spazii vescicolari piuttosto grandi, pieni di corpu- scoli trepidanti. ■' Trovammo individui che ci hanno oll'erto nuclei di fecola nella parte media, ma per lo più ne mancano o per meglio dire non sono visibili. Pare fuor di dubbio che in questa specie il corpo clorofillare consta di cordoni e tubilli tortuosi immersi dentro al plasma, non già di lamine raggianti; e ciò si rileva da che alzando ed abbassando il porta-oggetto sotto ai giri tortuosi dei fdamenli superficiali, se ne vedono altri più pro- fondi. Il che non potrebbe succedere tutta volta che si trattasse di la- mine raggianti dal centro alla periferia. Uno dei caratteri più notevoli di questa specie consiste senza dubbio nella conformazione dei lolji, ingrossati all'estremità da due calli bislunghi ed ombellicati da rappresentare come la testa di un pesce. Trovammo individui i quali oltre alla sutura mediana, ce ne hanno olFerto una o più altre in ciascuno dei lobi, cosi che la cellula veniva ad essere divisa in tre o in quattro parti, e soprattutto negli individui meno sviluppati in lunghezza. È proprio ancora di questa specie d'avere tutta la parete intinta di giallo rossiccio, sensibile specialmente al inargine delle due estremità. Dimensioni : Lunghezza 0,6264 " Larghezza o,o5o4. » » 0,38 16 » o,o5o4- Icori nostra, tab. XVII, fig. 3i-3^. Spiegazione delle figure. Fio. 31. Individuo fresco colle laminette di clorofilla quasi paralelle. » 32. Altro fresco colle lamine scompigliate. 33. individuo. 34. con uno dei lobi vuoti, provveduto nel mezzo di otto suture. » AUCTORE J. B. DELPONTE. 105 FiG. 35. Altro vuoto diviso in quattro parti. n 36. vuoto diviso in tre parti. )) 37. Estremità molto ingrandita. Lago di Candia nel Canavese. 12. Cl.OSTERIl'M SETACEL'M EhR. Closterium setaceum Ehr. Abh. der Beri. Act. (i833), pag. aSg, - Inf., pag. 97, lab. VI, fig. ii. - Menegh. Syn. Desm., pag. 235 (1840). - Jenner, fi. oi Tunb., pag. 196. - Hassal. Brit. Algae, pag. 873, tàb. LXXXVII, fig. 7 (1845). - Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 176, tab. XXX, fig. 4- Stauraslrum subiilatwn Kùrz. Sp. Alg., pag. 166 (1849)- Closterium setaceum Bréb. List. Desm. (i856), pag. i56. - De-Bary, Unters. der Conjug, pag. 5o (i858). - Pritc;h. Hist. of Inf., pag. 750 (1861). - Ere. Critt. Ita!., n. i447- " Lund. de Desm. Suec, pag. 8i (1871) - Rabenh. fi. Eur. Alg., pag. i36 (1868) Lorica lineari medio fusiformi-irjlata, apice rotundata lobis plus minus curvatis, cui a ìaminis chlorophjllaceis subtilissimis paulo ultra mediani utriusque valvae ei'anidis. Cjtiodermate levi. Cellula lineare col ventre fusiforme, subitamente ristretta in due rostri sottili lungamente cilindrici, leggermente incurvati sotto alle estremità, e terminate da una punta sensibilmente ingrossata e rotondata. Endocroma circoscritto alla parte ventricosa che occupa un terzo circa della lunghezza totale della cellula; fatto da due o più lamine clorofillari; con pivi globoli di fecola, disposti in una serie sola. Parete sottilmente ma distintamente striata, senza aiuola vescicolare per i corpuscoli trepidanti che si tro- vano liberi là dove termina l'endocroma. Dimensioni: Lunghezza o,5i84 - Larghezza 0,0180. » » o,36oo » o,o324. Icori nostra, tab. XVII, fig. 4 1 -44- Hpiegazione delle figure. Fig. 41. Individuo fresco. » 42. Altro individuo. » 43. Individui appiccati per una delle estremità, n 44. Altri due individui appiccati allo stesso modo. Lago di Candia nel Canavese. Serie TI. Tom. XXX. o I06 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM 13. Closterium arcuatum Bréb. Closterium arcuatum Brèb. apud Ralfs, Brit. Desm ., pag. 219 (1848). - Bréb. List. Desm., pag. i49, lab. II, fig. 38 (i856). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i33 (1868). - LuND.de Desm. Siiec., pag. 80 (i8'^i). Lorica semicircularis , duodecies circiter magis longa quam lata , apicibius rotundatis cum laminis chlorophillaceis pluribus et nucleis amjl- laceis uniseriatis. Cjtiodermate striolalo. Cellula da otto a dodici volte più lunga che larga, semilunare, colla curva regolare che corrisponde ad una parte del circolo geometrico. Niuna tumidezza di sorta nel ventre, coi lobi insensibilmente ristretti e termi- nati da una punta ottusa. Parete trasparente liscia o sottilmente striata. Endocroma latto da più lamine di clorofilla, con nuclei disposti in una serie sola. Spazi vescicolari distinti alla sommità dei lobi. Il Brébisson osserva, che le punte sono ottuse senza intaccatura dal lato esternò, carattere proprio del C. Dianae , ma la figura, che ne ha dato, va provveduta dell'intaccatura in discorso. Del resto è certo che nei nostri individui non vedemmo intaccatura di sorta. Osservazione. Affine al Closterium Jenneri; ma ne differisce perchè quest' ultimo ha la lorica piegata ad arco, pari alla metà di un cerchio, ed ha pure i capi acuti non rotondati. Dimensioni: Lunghezza 0,2160 - Larghezza 0,0180. » » 0,1296 » 0,0 1 44- Icori nostra, tab. XVII, fig. 54-5g. Spiegazione delle figure. Fig. 54. 00. 06. o1. Individui freschi, differenti di lunghezza e di dia- metro, parte dei quali con laniine di clorofilla e globoli di fe- cola disposti in una serie sola. » 58. Individuo vuoto colla parete liscia. )) 59. Estremità molto ingrandita, che la.scia vedere l'apparenza di un foro ancorché non v'abbia soluzione di continuità nella parete. Lago di Candia nel Canavese. AUCTORE J. B. DELPONTF.. 10^ 14. Closterium macilentum Bréb. CfQSierium macilentum Bréb. Lisi. Pesm. (i856), pag. i53, lab. II, fig. 36. - Pritch. Hist. of Inf., pag. 747 (1861). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. .3. (.868). Lorica lineari cjlindracea rectiuscula, trigesies magis longa qiiam lata. Il medio sensìm atteniiato-lineavi , apicibus acutinsculis cum laminis chlorophillaceis duabus et nucleis amylaceis utrinque decani uniseriatis. Gytiodermate levi. Cellula lineare cilindrica a primo aspetto iliritta, ina in realtà leg- germente incurvata sotto ai due capi, terminata da una punta acuta. Pa- rete trasparente liscia. Endocroma d'un giallo dorato, intinto di verde, fatto di due lamine di clorofilla sporgenti, coi loro capi alterni dentro all'aiuola di mezzo, con nuclei di fecola, disposti in una serie sola. Pa- rete liscia. Trovammo individui che ci hanpo offerto l'aiuola mediana escentrica, ossia posta piìi da un lato che dall'altro, col lobo più giovane inter- rotto da due tagli o suture. Dimensioni; Lunghezza 0,4890 - Larghezza 0,0 1 44- ») » o,4o32 )> 0,0 1 44- /con nostra, tab. XVII, fig. 60-62. " Spiegazione delle figure. FiG. 60. Individuo fresco con due lamine di clorofilla e globoli di fecola disposti in una serie sola. » 61 . Individuo vuoto. » 62. Altro individuo fresco, molto piìi corto del precedente. Lago di Candia nel Canavese. lo. Closterium decorlm Bréb. Closterium f/ecomw Bréb. List. Desm., pag. i5i, tab. II, fig. 39 (i856). - Rabekh. fi. Eur. Alg., pag. 137 (i868j. - Pritch. Hist. of Inf., pag. 749 (1861). - LuND.de Desili. Suec, pag. 82 (1871). Lorica dnodecies et ultra magis longa quam lata cum laminis chlo- rophillaceis plurihus et nucleis amykiceis obsoletis. Cjtiodermate levi. I o8 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SLBALPINARUM Ceilvila da i3 a i5 volte più lunga che larga, piegata ad arco col ventre gradatamente ristretto in due rostri cilindrici, terminati da una punta ottusa, eguali ad un quarto della parte verde. Parete trasparente, sottilmente striata , coi corpuscoli trepidanti . liberi nella parte vuota. Endocroma d'un giallo dorato intinto di verde, fatto di più lamine di clorofilla, e globoli di fecola, disposti in una serie sola. Questa specie, meritamente distinta dal Brébisson, si allontana dalle altre affini e segnatamente dal C. rostratum e dal C. setaceum per l'en- docroraa molto più allungato nei lobi, cosicché la parte trasparente vuota si riduce ad un tratto molto più breve. Osservazione. La nostra specie differisce da quella ritratta dal Brébisson per la mancanza dei nuclei disposti in ima serie sola. Dimensioni: Lunghezza o,5i84 - Larghezza o,o252. » j) 0,4536 » 0,0252. Icon nostra, tab. XVIII, fig. 1-2. Spiegazione delle figure. FiG. 1. Individuo fresco. )) 2. Altro viioto. Lago di Candia nel Canavese. 16. Closterium strigoslm Bréb. Closlerium strigosum Bréb. List. Desm., pag. i53 (i856), lab. II, fig. 43. - Rabenh. fi. Eur. Alg., pag. i3o (1868). - Piutch. Hist. of Inf., pag. 74? (1861). - LuND. de Desm. Suec, pag. 79 (1871). Lorica lineari cjlindracea vigesies magis loiiga quam lata, vix aut ne vix quidem curvala e laminis clìlorophjllaceis duabiis, et nucleis amjlaceis pluribus aniseriatis saepe in conspicuis constituta. Cjtio- dei^mate levi. Cellula lineare cilindrica da i5 a 22 volte più lunga che larga, col margine esterno piano e l'interno alquanto rigonfio fin sotto alle estremità AUCTORE J. B. DELPONTE. 1 OQ sottilmente appuntate lesiniformi. Parete liscia leggermente intinta di giallo, con uno dei lobi munito di una sutura nella parte media, visibile negli individui vuoti ed atTraliti. Endocroma fatto da due lamine di clo- rofilla, con noccioli di amido, disposti in una sene sola. Corpuscoli trepi- danti liberi nella parte trasparente della cellula. I lobi curvati ed appuntati veramente a modo di lesina, il margine superiore e 1" inferiore Tuni) piano e l'altro lungamente rigonfio fin sotto alle estremità, la parete trasparente lineare cilindrica, ridotta all'ottava parte della lunghezza to- tale: la sua molta estensione in lunghezza rispetto al diametro, la mancanza assoluta di striscie separano questa specie dal C. macilentum, dal C. li- neatum e dal C. Conni, che a primo aspetto si potrebbero confondere con essa. Dimensioni: Lunghezza 0,5760- Larghezza 0,0216. ,1 j) o,5o4o » 0,0216. Icori nostra, tab. XVIII, fig. 3-5. spiegazione delle figure. FiG. 3. Individuo fresco. » 4. Altro individuo più piccolo. » 5. Individuo vuoto con più suture. Lago di Candia nel Canavese. 17. Closterium hirudo N. Lorica cjUndracea, medio infiala, quinquies vel decies magis longa quam lata; hemicjtia prope apicem curvata utrinque rotundata cum la- minis chlorophyllaceis pluribus et nucleis amjlaceis plerumque uniseriaiis in parte inedia. Cjtiodermate levi. Cellula da cinque a nove volte più lunga che larga, col ventre ri- gonfio sin oltre al mezzo dei lobi, il dorso piano, ed i lobi subitamente ristretti ed incurvati ai due capi, terminati da una punta ottusa. Endo- croma d'un giallo dorato tinto di verde, con più lamine di clorofilla, e nuclei di fecola talvolta regolarmente disposti in una serie sola, talvolta sparsi sugli incrocicchiamenti delle lamine. Corpuscoli trepidanti , posti Ilo SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAl.PlNARUM nella parte estrema dejla cellula vuota. Parete piuttostq crassa, d'un giallo qiisto di rosso. Trovammo individui molto giovani pure nelle acque morte della Bol- mida presso Alessandria, nei quali vedemmo la niateria disposta in fa^ce intrecciatq a maglia di rete, V. tav. XVIII, fig. -j. Dimensioni: Lunghezza o,5(i2 - Larghezza o,o432. » » 0,38 1 6 » 0,0396. fcon nostra, tab. XVIII, fig. 6-8. Spiegazione delle ligure. Fig. 6. Individuo a termine di sviluppo. 1) 7. Altro Tresco colle fasce reticolate. Il 8. di forma alquanto diversa da quello accennato dalla figura 6, coi globoli di fecola piiì ravvicinati. Acque morte della Bolmida presso Alessandria. Lago di Candia nel Ganavese. 18. Closterium capillare N. Lorica cjUndracea filiformi , trigesies magis longa quavi lata, api- cibus acutissimis vix curvatis cum lamina chlorophjllare unica, tortuosa et nucleis amylaceis uniseriatis. Cjtiodermate levi. Cellula sottilissima filiforme, cilindrica fin sotto alle estremità dove leggermente s'incurva, ma sì poco da potersi credere a primo aspetto di- ritta, terminando in una punta acuta. Parete liscia, provveduta nella parte media di una aiuola trasparente quadrangolare. I^^ndocroina formato da una sola lamina di plorofilla tortuosa, pon pucjej di fecola, disposti in una serie sola. Non differisce dal C. gracile del ^RÉpISSQN se pon p^r i capj diritti ed acuti, non adunchi ed ingrossati. Dimensioni. Lunghezza o,33o4 - l^arghezza 0,0108. » )) 0,2016 » 0,0108. Icon nostra, tab. XVIII, fig. i5-n> Àijcto're J. B. DÉLPONTÉ. Ili Spiegazione delle figure. Fiè. 15. Individuo ifresco. n 16. Altro individuo. » 17. 18. Altri individui vuoti di diversa dimensione. » 19. Un'estremità molto ingrandita. Lago di Candia nel Canavese. 19. Closteril'm Brebissonii N. Lorica lineari , ulrincfue sensim attenuata parum curvata irigesies magis longa quam lata, apicibus rotundatis obtusis cutn laminis chloro- phyllaceis duabus et nucleis faeculaceis phiribus majusculis uniseriatis. Cjtiodermate levi. Cellula Imeare a lobi lungamente prolungati e leggermente incurvati sotto alle estremità. Endocroma di due lamine di clorofilla, con globoli di fecola regolarmente disposti in una serie sola. Parete liscia. Spazii vesci- colari bislunghi pieni di corpuscoli trepidanti. Osservazione. Affine al Ci. praelongum, nia ne dilferisce per le due estremità non rovesciate all'infuori e per la parete liscia. Dimensioni: Lunghezza 0,6912 - Larghezza 0,0180. Tcon nostra, tab. XVIII, fig. 20-21. Spiegazione delle figure. FiG. 20. Individuo fresco. » 21. Altro individuo vuoto. Lago di Candia nel Canavese. IJ2 SPECIMEN DESMIDIACEÀRUM SUBALPINARUM 20. Closterium complanatum N. Lorica f US i/brmis f complanata ?J utrinque sensim attenuata, decies maghi longa quam lata, apicibus attenuatis acutis, càm laniìnis chloro- phillaceis geminis ei nucleis amylaceis ohsoletis. Cjtiodermate le^'i. Cellula dieci volte più lunga che larga, fusiforme ventricosa, e for- temente compressa e sottilmente appuntata ai due capi negli individui ve- duti di fronte, prossimamente lineare cilindrica in quelli che s'affacciano da uno dei lati. Endocroma con piiì lamine di clorofdla, senza traccia di nuclei amilacei. Da uno dei lati lineare, incurvata all'indentro nel ventile, e di nuovo ali infuori alle due estremità. Parete liscia. Due lamine clorofillari, con spazii vescicolari e corpuscoli trepidanti, liberi nella parte traspa- rente della cellula, capi piuttosto ottusi. Soggiugneremo che siamo ben certi della forma che abbiamo descritta e figurata, ma non avendone mai veduto più d'un individuo, sospettiamo che si tratti più d'una anomalia che d'un tipo specifico. 'Dimensioni: Lunghezza o,5328 - Larghezza o,o36o. ,1 » 0,5328 » 0,0 1 44- [con nostra, tab. XVIII, fig. 3i-33. Spiegazione delie figure. FiG. 31. Individuo fresco, con due lamine di clorofilla, veduto da una delle faccie. « 32. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » 33. Individuo vuoto. Lago di Candia nel Canavese. 21. Closterium biclrvatum N. Lorica lineari a medio ad apicem utrinque sensim attenuata bis cur- vata apicibus rotundatis, quadrigesies magis longa quam lata cum la- mina chlorophillacea solitaria, et nucleis nmjluceis pluribus uniseriatis. Cjtiodermate levi. AUCTORE J. B. DELPONTE. Il3 Cellula sottilissima cilindrica, gradatamente ed imiformemente ristretta alle due estremità, coi due lobi leggermente piegati ad arco, a comin- ciare dalla sutura, terminati da una punta ottusa ad una soia lamina di clorofilla sottilissima, con noccioli soprapposti ad egual distanza gli uni dagli altri. Estremità trasparenti per un buon tratto, coi corpuscoli tre- pidanti lilMJri. Affine al C. capillare, ma dilTerente, perchè più grosso ed anche più lungo, coi due capi acuti. Dimensioni: Lunghezza 0,2962 - Larghezza 0,0072. » » 0,3240 » 0,0072. Icon nostra, tal). XVHI, fig. 37-39. Spiegazione delle figure. FiG. 37. Individuo fresco » 38. Individuo vuoto più lungo. » 39. Una delle estremità molto ingrandita. Lago di Candia nel Canavese. 22. Closterium tubgidum Ehr. Closterium targidum Ehr. Inf. pag. 96, tab. VI, fig. 7 (i838). - Menegh. Syn. Desm. in Linn., pag. 234 (>84o). - Jenner, FI. of Tunb. pag. 196. - KiJTz. Pliyc. Gemi., pag. i3i. - Hassal. Brit. Freshw. Algae, pag. 371, tab. LXXXVII, fig. 3 (1845). - KuTZ. Sp. Mg., pag. i65 (1849).- Ralf.s, Brit. Desm., pag. i65, tab. XXXTI, fig. 3 (1848). - Bréb. List. Desm., pag. i5o (i856). - Rabenh. Alg., n 342 sub n. 547 et 1367, - FI. Eur. Alg., pag. 129 (1868). - Lund. de Desm. Suec, pag. 79 (187 1). Lorica cylindracea plus minus curvata, duodecies et ultra magis longa quarti lata; hemjcitiis prope apicem in/lato refractis. Endochi'oma et la- minis chlorophjllaceis pluribus cum nucleis faeculaceis in parte media uniseriatis. Cjtiodermate levi, aut striis minutissimis exarato cum suturis tribus vel pluribus in parte media. Cellula leggermente piegata ad arco da otto a dieci volte più lunga che larga, più rigonfia da un lato che dall'altro, coi capi grossi roton- dati, brevemente rovesciati all'inluori. Parete più o meno tinta di giallo rugginoso, con due o più linee trasversali o suture nella parte media, visibili soprattutto nella cellula vuota. Endocroma sempre d'un verde Serie II. Tom. XXX. p j\i SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARLM scuro in grazia dello spessore della parete, con più lamine di clorofilla, coi loro capi sporgenti nell'aiuola di mezzo, non contrapposti ma inter- calati gli uni agli altri, vale a dire alterni lineari diritti, gradatamente assottigliati verso le estremità fino a contatto delle aiuole dei corpuscoli trepidanti. I due capi della lorica nella punta estrema offrono una trasparenza che a primo aspetto sembra un foro, ma che dipende unicamente da un assottigliamento della parete esterna. Osservazione. Nella figura dell' Hassal non è stato riprodotto l'arrovescianiento dei lobi alle due estremità; accidente caratteristico della specie che vale per larla distinguere a primo aspetto dalle molte aberrazioni del CI. acerosum. I nostri individui vanno perfettamente d'accordo colle figure del Ralfs, tav. XXXII, fig. 3, ma non alFatto con quella dell'EBRENBERG, tav. VI, fig. 'y. Dimensioni: Lunghezza 0,6912 - Larghezza 0,0612. » » o,6552 » 0,05^6. Icori nostì-a, tab. XVI, fig. 24-3o. Spiegazione delle figure. Fig. 24. Individuo fresco, con uno dei lobi munito della parete più sottile, perchè nato di fresco da sdoppiamento. » 25. Altro individuo vuoto. » 26. Individuo vuoto più grande. » 27-28. Estremità più ingrandite. » 29-30. Parte di mezzo di diversi individui colle suture. Lago di Candia nel Canavese. 23. Closthril'm candì amim N. Lorica semilunaris, decies vel duodecies magis longa quam lata, utrin- que in acuinen , e reliqua cellulae parte sejunctum , subito angustata ; eìidochroma e laminis chlorophjllaceis pluribus ab axi di<>'ergentibus , et niicleis amylaceis iiiconspicuis . Cjtiodermate striis subtilissimis exarato. AUCTORE J. B. DELPONTE. Il5 Cellula da dieci u dodici volte più lunga che larga, leggermente pie- gata ad arco, col ventre un po' tumido, ristretta ad un tratto ed appun- tata alle estremità. Parete sottilmente striata , con piiì lamine di cloro- filla, alcune delle quali più risentite nella parte di mezzo. Le striscio esistono infallantemente, ma sono assai minute ed invisibili nella cellula piena. Trovammo individui leggermente curvati, ed altri quasi diritti. Ve- demmo nel mezzo della cellula il nucleo, ma non globoli di fecola, né sparsi né disjìosti in una serie soia. Osservazione. I nostri individui s'accordano pienamente con quelli ritratti dal Ralfs, tav. XXIX, fig. 5, sotto il nome di CI. attenuatum Ehr., ma siccome dif- ferisce dalle figure dell' Ehrenberg, che hanno gli emicizii insensibil- mente ristretti alle due estremità, non ristretti ad un tratto in un acume distinto dal corpo della cellula, abbiamo creduto a proposito di asse- gnare a questa specie un nome nuovo. Dimensioni: Lunghezza o,5o4o - Larghezza o,o36o. » )) o,36oo » o,o36o. [con nosfra, tab. XVII, fig, 7-10. Spiegazione delle figure. Fio. 7. Individuo fresco. )) 8. Altro individuo. » 9. Individuo vuoto. » 10. Una delle estremità molto ingrandita. Lago di Gandia nel Canavese. 24. Closterium Ju^'ClDUM Ralfs. Closterium juncidum Ralfs, Brit. Desm., pag. 172, tab. XXIX . fig. 6-7 (1848). - Bréb. List. Desm., pag. i53 (i856). - Rabenh. Alg,, n. 546 et n. 1448 sub n. i434, - FI. Eur. Alg., pag. 127 (1868). - Pritch. Hist. of Inf., pag. 749 (1861). - De Not. Eleni. Desm. Ital. , pag. 64, tab. VII, fig. 69 (1867). Lorica lineai'i cjlindracea, sexagies et ultra magis longa quam lata, fere recta. apicibus truncatis cimi lamina chloropliyllari unica, et juii- ctuì-is in pai-te inedia /finis i>el tjuaternis. Cjtiodermate subtilissime strialo. Il6 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPI^ARUM Cellula lineare cilindrica circa settanta volte più hmga che larga, po- chissimo incurvata, ossia colla curva sensibile soltanto alle due estremità. Parete sottilmente striata, con piiì tagli o suture riunite due per due nel mezzo d'ogni lobo. Estremità tanto ottuse, che la cellula si scorge ad un dipresso tanto grossa nel centro come al termine dei lobi. Endocroma fatto da due lamine di clorofilla, con noccioli uniseriati nella parte media. Trovammo individui, i quali non ci hanno offerto le aiuole dei cor- puscoli trepidanti, bensì un globetto sodo nella punta estrema dei lobi. Osservazione. La figura del Prof. De Notaris, tav. VII, fig. 69 si allontana dalle nostre e da quelle del Ralfs per essere notevolmente piìi grossa, e pare che s'accosti più presto al Ci. strigosum del Brébisson e della nostra ta- vola XVIII, fig. 3, soprattutto perchè il più piccolo degli esemplari ritratti dal valente algologo anzidetto manca di striscie. Differisce dal precedente nell'essere rispettivamente più grosso e più corto. Del resto, trovammo tutti i passaggi possibili daU'una forma aU'altra per modo che le dimensioni qui non potrebbero nemmeno bastare per costituirne una varietà. Dirò per ultimo, che trovammo ancora degli in- dividui con dieci tagli o suture nella parte media. Dimensioni. Lunghezza o,2232 - Larghezza o,oi44- » )) 0,2880 » 0,0120. « » o,36oo » 0,0108. » » 0,4608 » 0,0072. Icon nostra, tab. XVII, fig. ii-i4- Spiegazione delle figure. Fig. 1 1 . Individuo fresco. » 12. Altro individuo. 1) 1 3. Individuo vuoto. » 1 4. Estremità ingrandita. » 15. 16. 17. 18. Individui differenti nel diametro e nella lunghezza. » 19. Estremità più ingrandita. » 20. 21. Parte media di due individui per mettere in vista le suture. Lago di Candia nel Canavese. AUCTORE J. B. DEI-PONTE. I I7 2o. Closterium li>jeatu»i Ehr. Closterium lineatum Ehr. Abh. der Berlin Ak. (i833), pag. 288, - Inf. (i838), pag. 95, tab. VI, fig. 8. - MenEgh. Syn. Desm. in Linn., pag. 234 (1840). - KuTZ. Phyc. Gemi., pag. i3i. - Jenner, Fior, of Tunb., pag. 196. - Hassal. Brit. Freshw. Alg., pag. 3-2, tab. LXXXVIII, fig. i (1845). - Ralfs, Brit. Desui. {1848), pag. 178, tab. XXX, fig. i. - KuTz. Sp. Alg., pag. i65 (1849). - Bréb. List. Desm. (i 856), pag. 162. - De-Bary, Untersuch. der Conjugat., pag. 48-5 1. - Rabenh., n. 1432, 1654, i354, -FI. Eur. Alg., pag. i3o (1868). - LuND.de Desm. Suec, pag. 79(1871). Lorica cylindvacea, pavum curvata vigesies circiter magis longa quam lata, utì-inqite sensim angustata apicibus rotuiulalis cum laminis chloro- phjllaceis ternis et nucleis amjlaceis, pluribux uniseriatis. Cjtiodermate subtiliter lineato. Cellula da sedici a ventidue volte più lunga che larga, cilindrica e per un buon tratto diritta, cioè infino a metà di ciascun lobo, dove s'incurva e si restringe gradatamente, terminando in una punta ottusa. Parete sot- tilmente striata. Egli è nell'aiuola di mezzo e alle due estremità che le strisele pos- sono essere a stento visibili negli individui recenti, pieni di clorofilla. Dimensioni: Lunghezza 0,7200 - Larghezza 0,0288. n » 0,4320 » 0,0216. Icon nostra, tab. XVII, fig. 28-3o. Spiegazione delle figure. Fig. 28. Individuo fresco quasi diritto. n 29. Altro individuo vuoto colla parete minutamente striata, legger- mente curvato alle due estremità. » 30. Altro individuo più curvo di quello indicato dalla figura 28. Lago di Candia nel Canavese. 20. Closterium striolatum Ehr. Closterium striolatum Ehr. Abh. der Berlin Ak. (i 833), pag. 68, - Inf., pag. 95, tab. VI, fig. 12 (i838). - Menegh. Syn. Desm. in Linn. (1840), Il8 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM pag. 234 - BvYLEY. Ani. Joiirii. of Se. and Art. voi. 4ijpag. 3o3, tal). T, fig. 35. - KiTz. Pliyc. Gemi., pag. i3r. - Jenner, Fior, of Tunb., pag. 196. - Hassal. Biit. Freshw. Algae, pag. 3'j i, tab. LXXXVII, fig. 4 (1845). - Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 170, tab. XXIX, fig. 2. - KuTZ. Sp. Alg. (1849), pag- i65. - Bréb. List. Desm., pag. i53. - Rabenh. Alg., n. 365 et 1570. Lorica decies civciter magis longa qiiam lata, parum curvata, api- cibus a medio seìisim attenuatis rotiindatis ; luiniiiis chlorophyllaceis tribus prope medium interi'uptis. Cjtioderniate striolato. Cellula da otto a dieci volte più lunga che larga, piegata regolarmente ed uniformemente ad arco, ristretta gradatamente a cono verso le due estremità, molto ottuse e trasparenti costituite dagli spazi vescicolari dei corpuscoli trepidanti. Endocroma fatto da tre lamine di clorofilla, con nuclei di fecola, disposti in una serie sola nella parte centrale. Parete striata. I corpuscoli trepidanti si mostrano come nel Ci. didjmotocum. Dimensioni: Lunghezza o,453o - Larghezza o,o324. )) » 0,2448 » 0,0252. Icon nostra, tab. XVII, fig. 38-4o. Spiegazione delle figure. Fig. 3S. 39. Individui di diversa dimensione, con una delle valve vuota. » 40. Altro individuo vuoto. Lago di Candia nel Canavese. 27. Clostiìrium rostratum Ehr. Closterium rostratum Ehr. Abh. der Ak. der Berlin (i83i), pag. 67 (i833), pag. 240, - Int., pag. 97, tab. VI, fig. io (i835). - Menegh. Syn. Desm. in Link. (i84o), pag. 235. Closterium acus Nithz. Kutz. Syn. Desm. in Linn. (i833), pag. SgS, fig. 81. Closterium rostratum Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. 175, tab. XXX, fig. 3. Stauroceras acus Kutz. Ph. Gemi., pag. i33 (i845), - Sp. Alg., pag. 166 (.849). AUCTORE J. B. DEr.PONTE. I 19 Closteriiini acus Jenner, FI. oi Tunb. , pag. ig6. Closterium cnudatum Corda, Alm. de Carlsb. (i835), pag. 120, tab. V, fig. m. Closterium rostvatum Bréb. List. Desm. (i856), pag. i56. - De-Bary, Unt. der Gonjug. (1868), pag. 5o-54, tab. V, fig. 26-3o. - Habenh. Alg., sub n. 261, 849, 1285, i33o. - LuND.de Desm. Suec, pag. 81 (1871). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i35 (1868). Lorica linearis oblonga cjlindracea , medio injlata , aplcibus rectis vel incun'is. Endochroma e laminis chlorophjllaceis et nucleis amjlaceis pliiribus uniseriatis. Cjtiodermate striolato. Cellula lineare da dieci a venti volte più lunga che larga, fusiforme nel ventre, gradatamente ristretta in due rostri sottili, cilindrici verso le due estremità, e terminata da una punta leggermente adunca ed ingros- sata ai due capi, coll'endocroma esteso poco al di là della parte ventri- cosa per i due quarti della lunghezza totale della cellula, fatto da più lamine di clorofilla e da globoli di fecola, disposti in una serie sola. Pa- rete diafana striata, senza traccia di spazi vescicolari per i corpuscoli trepi- danti che trascorrono liberamente nella parte trasparente della cellula, specie variabile quanto alla lunghezza, ma sempre costante nel diametro. In alcuni individui raccolti sui Colli del Monferrato (Alessandria) ab- biamo trovato infallantemente quattro lamine di clorofilla disposte in modo alquanto diverso nei due lobi dello stesso individuo , vale a dire tal- volta in croce, talvolta soprapposte due per due, con una sola serie di nuclei nel mezzo. Parete striata. Neil accoppiamento 1 due individui s'appiccano ad altezza ditFerente, per modo che se ne trova sempre uno più lungo dell'altro posto al di sopra o al di sotto della zigospora, di forma quadrata. Dimensioni: Lunghezza 0,8904 - Larghezza 0,0216. » » 0;4o32 » 0,0288. Icoìi nostra, tab. XVII, fig. 63-68. Spiegazione delie figure. Fig. 63. Individuo fresco. » 64. Altro individuo fresco, più piccolo. » 65. Individuo vuoto, con una delle metà molto più corta. I2U SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM FiG. 66. Individui accoppiati colla zigospora a termine di sviluppo. » 67. Zigospora di due altri individui piìi piccoli. » 68. Zigospora trovata in disparte degli individui da cui ebbe origine. Lago di Candia nel Canavese. 28. Closterium refractum N. Lorica crlindiacea , panini curvata medio rectiuscula quatuordecies, magis longa qiuim lata , apicibus curvato-refractis oblusis, cum laminis chlorophyUaceis diuihus et nucleis amjlaceis pluribus uniseriatis. Cjrtio- dermate striolato. Cellula col corpo pressoché diritto per un terzo, della lunghezza to- tale, che comincia ad mcurvarsi a metà d'ogni lobo, gradatamente assot- tigliandosi in una punta ottusq, rovesciata all'infuori. Endocroma d'un giallo dorato tinto di verde, con quattro lamine clorofillari e nuclei di fecola disposti in una serie sola. Parete d un giallo rugginoso, fortemente striata, con tre suture nella parte media in corrispondenza dell'aiuola. Dimensioni : Lunghezza 0,8744 " Larghezza 0,0 1 80. » » o,2520 » 0,0180. Icon nostra, tab. XVIII, fig. 12-14. Spiegazione delle figure. FiG. 12. Individuo fresco. « Vó. Individuo vuoto. » 14. Estremità ingrandita. Lago di Candia nel Canavese. 29. Closterium i'raelopsgum Bréb. Closterium praelongum Bréb. List. Desm., pag. 162, tab. II, fig. 4' (i856). - Pritch. Hist. of Inf, pag. ^4? (1861). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i3o (1868). Lorica linearis, cylindracea longissima, trigesies magis longa quam lata, parviim cwvaUi, apicibus obtusis pellucidis fere truncatis, cum la- m,inis chlorophjllaceis geminis, et nucleis faeculaceis minimis uniseriatis. Cjtiodermate striolato. AUCTORE J. B. DELPONTE. 121 Cellula sUaordiaariainenle lunga, cilindrica lineare, pochissimo incur- vata nel mezzo coi due capi gradatamente ristretti, troncati, ritorti ali in- fuori. Parete trasparente striata, con quattro lamine di clorofilla ed una serie re<^olare mediana di nuclei ravvicinati e minuti. Corpuscoli trepi- danti, liberi alle due estremità. Osservazione. Sebbene il Brébisson descriva la parete come liscia, noi la trovammo infallantemente striata; e non sarebbe la prima specie in cui vi hanno degli mdividui a parete striata ed individui a parete liscia. Quanto al carattere piìi essenziale che è quello della forma, gli individui di Brébisson vanno d'accordo perfettamente coi nostri. Dimensioni: Lunghezza 0,8704 - Larghezza 0,0216. fcon nostra, tab. XVIII, fig. 9-11. Spiegazione delle figure. FiG. 9. Individuo fresco, con due lamine di clorofilla e globoli di fecola disposti in una serie sola. » 10. Individuo vuoto, con una delle metà sottilmente striata. » 11. Una delle estremità ingrandita. Lago di Candia nel Canavese. 30. Closterium crassum N. Lorica cylindracea, medio injlata, utrinque sensim attenuata, vigesies et ultra magis longa quam lata, apicibus truncatis cum suturis tribus in parte media. Endocroma e laminis chlorophjllaceis filiformibus intri- catis et nucleis faeculaceis inconspicnis. Cjtiodermate crasso, striolato. Cellula da nove a ventiquattro volte più lunga che larga, fusiforme, ventricosa, cioè largamente rigonfia nel ventre e per un buon tratto quasi cilindrica, poi subitamente ristretta e prolungata in due rostri lineari tron- cati. Parete crassa, coriacea, fortemente striata, a strisele fatte di linee ravvicinate due per due, disgiunte da un solco, inteiTOtta nel mezzo da pili suture riivvicinate due per due colle aiuole dei corpuscoli trepidanti, distinte alle due esireiuità. iMulocioma d un verde intenso, velato dallo Serie II. Tom. XXX. 132 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINAKUM spessore della paretCj fatto di lamine clorofiUari filiformi, raccolte in due fasci tortuosi , che talvolta accade di vedere distinti negli individui in corso di propagazione, che offrono uno dei lobi non ancora provveduto della tonaca esterna, come dimostra la fig. 24 della tav. XVIII. Varia straordinariamente nelle dimensioni; del resto, la forma si mostra assai costante. Gli individui si accostano al C. Ralfsii, ma ne differiscono per il ventre molto prominente in corrispondenza della sutura, non fusi- forme cilindrico come nei nostri individui, i quali ci hanno offerto tutti i passaggi d'una lunghezza da o,36oo per o,o252 di diametro e di nuovo 0,8064 di lunghezza per o,o36o di diametro. Un accidente, non mai incontrato in altre specie, si è quello di avere talvolta le due metà delle lamine piegate ad arco in direzione contraria. Dimensioni. Lunghezza o,5632 - Larghezza o,o352. » » 0,5848 » o,o5o4. » » 0,8064 » o,o36o. Icon nostra, tab. XVIII, fig. 2 2-3o. spiegazione delle figure. Fig. 22. Individuo fresco, con una delle due metà spogliata del cilio- derma e priva di lamine clorofiUari. » 23. Altro individuo fresco, colle lamine clorofiUari disposte a scac- chiere. » 24. pure con una delle valve priva del cilioderma, per met- tere in vista la disposizione dei fassetti clorofiUari. » 25. vuoto notevolmente più grosso e più corto degli altri or dianzi accennati. » 26. 27. Individui vuoti, notevoli per le differenze che offrono in dia- metro e in lunghezza. » 28. Metà di un individuo sdoppiato col lobo nuovo nascente. » 29. Una delle estremità molto ingrandita. » 30. Parte mediana dell'individuo contrassegnato dal n. 25, per met- tere in vista gl'in terrorapimenti o suture. Lago di Candia nel Canavese. AUCTORE J. B. DELPONTE. I 23 31. Closterium KNSis N. Lorica praelonga, vigesies magis longa qitam lata ; a medio ad api- cetn sensim siiie sensu aflenicata cum lamitiis chlorophjllaceis pluribus et nucleis amylaceis reconditis. Cjtioderinate levi. Cellula di fonnii lineare lanceolata, da venti a ventiquattro volte più lunaa che larga, dal mezzo alle due estremità gradatamente ed insensi- bilmente assottigliata, coi capi rotondati, non troncati nemmeno nel sacco interno. Lamine di clorofilla, con globoli di fecola disposti in serie li- neare. Aiuola di mezzo, provveduta di un nocciolo piiì scuro. Spazii ve- sciculari, con corpuscoli trepidanti, distinti nelle due estremità. Parete liscia. Osservazione. Diiferisce dal Ci. acerosum per una forma lineare piìi gracile e per un buon tratto cilindrica, gradatamente ed uniformemente ristretta verso le due estremità. Né si può confondere col CI. strigosuin Bréb., per- chè l'uno e l'altro sono descritti e figurati come più corputi e più corti, e decisamente appuntati ai due capi. È per altro probabile che non siano altro che passaggi d'una sola forma specifica. Dimensioni: Lunghezza 0,86.40 - Larghezza o,o36o. » » 0,7480 » o,o36o. Icon nostra, tab. XVI, fig. 14-17- Spiegazione delle figure. FiG. 1 4. Individuo fresco e vegeto. ì> 15 e 16. Altri individui. 17. Estremità molto ingrandita. » Lago di Gandia nel Canavese. Genus XVH. PLEUROTAENIUM De-Bary. Lorica cjlindracea, multo magis longa quam lata, medio constricta, sulurae marginibus in annulum inflatis; hemicjtia e basi ad apiceni sensim attenuata, apice truncuta, pleriimque laevia, inlerdum iisque /id medium 124 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SCBALPINARUM transversìm nodulosa. Endochroma e taeniolis pliirJbus parietaìibiis subun- dulatis integervimis ciim niicleis amjlaceis, ut in Spirogyra : at taeniolae rectae, aequidistantes. Spatiola vescicularia magna. Zigosporae sphaericae. 1. Pleurotaeìnium trabecula Nag. Pleurotaeniuni trabecula ISÀg. Gattung. Einz. Alg. (1849), pag. xo4, tab. VI, fig. À. - De-Bary, Untersuch. der Conjug. (i858), pag. ^S. Closterium trabecula Ehr. Inf. (i838j, tab. VI, fig. 2. - Menegh. Syn. Desm. in Linn. , pag. ijSS (18 jo). - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i4i (1868). Docidiuni Ehrenbergii Kutz. Sp. Alg, pag. 168 (1849). - Pritch. Hist. of Inf., pag. 745, tab. II, fig. 8, 9, 11. - Lund. de Desm. Suec, pag. 89 (.87,). Lorica cjlindracea quinquies vel sexies inagis loiiga quam lata, api- cibus truncatis. Junctura laxa medio sulcata cum laminis chlorophjl- laceis pluribus et nucleis amylaceis rectiseriatis. Cjtiodermate levi. Cellula da cinque a sei volte pivi lunga che larga, di forma cilindrica, alquanto enfiata nel ventre, con una sutura piuttosto larga, ma cogli orli poco sporgenti e i margini non rovesciati al di fuori, colle due valve sempre un po' storte e ventricose, e quindi saldate a sbieco, gradata- mente ristrette e troncate alla sommità. Endocroma d'un bel verde, fatto di laminette parietali parallele tortuose, con nuclei di fecola soprapposti come nelle Spirogire. Spazi vescicolari in vicinanza delle estremità, piut- tosto piccoli. Parete liscia. Dimensioni: Lunghezza o,54oo - Larghezza 0,0288. 5) )) 0,2448 » 0,0288. Icon nostra, tab. XVIII, fig. 42-49- Spiegazione delle figure. FiG. 42. Individuo fresco. » 43. Altro in corso di moltiplicazione. » 44. in corso di sdoppiamento, coi lobi nuovi quasi a termine di sviluppo. )) 45. in corso di moltiplicazione, colle valve nuove ancora coperte dalle vecchie. AUCTORE J. B. DELPONTE. 125 FiG. 46. Sacco proveniente da sporangio, pieno di nuovi individui a di- verso periodo di sviluppo. )> 47. Individuo a parte, proveniente probabilmente dal sacco anzidetto giacché trovato in vicinanza. « 48, 49. Parti estreme di due individui ancora congiunte alle vecchie. Lago di Gandia nel Canavese. 2. Pl.EUROTAENIUM WOODII N. Lorica eximie cjlindracea sexies magis longa qiiam lata, apicibus ro- tundatis , juncturae marginibiis x^eluti in annulum coalitis. Endochroma e laminis chlorophjllaceis rectis parallelis piope juncturam abruptis , cum nucleis fuecidaceis superposilis ut in spirogjris. Cjtiodermate levi. Cellula da sei a sette volte più lunga che larga, rotondata alle due estremità, coi lobi disgiunti da un solco profondo in grazia dei margini della sutura rovesciati all' infuori sotto forma di anello. Parete sparsa di punti trasparenti nelle cellule vuote. Endocroma fatto di bende clorofillari, undulate dentate al margine, sparse di globoli di fecola. Spazi vescicolari delle due estremità grandi sferici, col sacco interno troncato ed una tra- sparenza notevole fra esso e la parete esterna, di ambito circolare. Osservazioni. Afline al PI. tnmcatum, da cui differisce : i° per gli orli della com- mettitura pressoché niente rilevati dalla parete per la strangolatura segnata da un solco straordinariamente largo in guisa che fra le due linee, che segnano l'abbassamento della parete, corre un tratto di o,o432 deci- millimetri; 2° per essere cilindrico in tutta la sua estensione, terminalo da un capo rotondo a forma di mezza sfera. Dimensioni: Lunghezza o,54oo - Larghezza 0,0684. » » 0,4608 » o,o54o. Icon nostra, tab. XVIII, fig. 5o-5 1 . Spiegazione delle figure. FiG. 50. Individuo fresco. » 6i. Altro vuoto colle due estremità disgiunte per far vedere l'orlo ripiegato allinluori. Lago di Gandia nel Ganavese. 126 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM 3. Pleurotaemum inodulosum De-Bary. Closterium trabecula Baylei , Ani. Bac. in Vm. Journ. ot Se, voi. i4, pag. 3o2, tal». I, fig. 32 (1841). Docidinm nodidosum Brkb. in liti, cum icon. (1846) apud Rai.f.s, Bril. Desili. (1848), pag. 155, lab. XXVI, fig. i. - Bréb. List. Desni. (i856), pag. 147 (i858). Pleurotaenium nodidosum De-Bary, Uiitersuch. der Conjug., pag. '-5 (i858). - LuND. de Desm. Suec, pag. go (1871). Pleurotaenium crennlatuni Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i^ì (1868). Lorica cjlindracea octies vel decies magis longa quani lata, e medio ad apicem vix angustata ; a junctura usqne ad medium cujuslibet hemi- cjtiis nodulo sa , deinde cjlindracea, cum laminis chìoi'opliyllaceis pa- rietalibus et nucleis amjlaceis pluribus. Cjtiodermate pnnctato. Cellula eminenteiiiente diritta negli individui giunti a termine di svi- luppo, da sette a dieci volte più lunga che larga, leggermente ristretta e troncata alle due estremità. Parete punteggiata, non fornita né di bitor- zoli né di granoli , ma bensì di punti che si distinguono soltanto nella cellula vuota. Sutura dei due lobi, segnata da un solco profondo e da un anello nerastro, formato dai margini dei due lobi saldati assieme e ro- vesciati all'infuori. Al di sopra della sutura la parete si rialza in un orlo o rigonfiamento circolare sotto al quale la parete continua ad aljbassarsi e di nuovo a rialzarsi per un buon tratto , formando una serie di leg- gieri stringimenti o strangolazioni che si vanno facendo meno sensibili e scompaiono sotto alle due estremità, e quindi lorigine dei margini ondu- lati di questa specie. Nelle due estremità scorgesi una larga aiuola cir- colare piena di corpuscoli trepidanti. Sugli angoli estremi della cellula sempre leggermente smozzati, negli individui freschi, si scorgono due ingrossamenti a foggia di calli. Non è già che v'abbiano qui dei turbercoli, propriamente detti; egli é perchè la membrana della cellula si trova inspessita per tutto il con- torno e pili sottile nel resto, ond' è che i calli sempre vengono ad affac- ciarsi solamente sugli angoli, qualunque sia la giacitura della cellula. L'endocroma è formato principalmente di plasma trasparente che negli individui giovani riempie uniformemente tutta la cavità, ed inoltre da AUCTORE J. B. DELPONTE. 127 bende clorofillari sdraiate sulla parete da un capo all'altro, con anda- mento più o meno flessuoso e col margine più o meno dentato, e qua e là fornite di globetti di fecola come nelle spirogire. Nel trapassare da un lobo all'altro, le lamine, in origine, sono infal- lantemente continue, ma bentosto si mostrano interrotte, formando tra un lobo e l'altro un'aiuola trasparente. Vuoisi tuttavia notare che l'interru- zione lia luogo soltanto nella materia verde, e che i sacchetti trapassano da un lobo all'altro. Le fasce sono in numero di otto o di dieci. Dimensioni. Lunghezza o,56i6 - Larghezza 0,0576. » » 0,2448 » 0,0576. Icon nostra, tab. XIX, fig. i-6. Spiegazione delle figure. FiG. \. Individuo fresco. M % Altro mancante di endocroma, per mettere in vista la parete punteggiata. » 3. con uno dei lobi in corso di sviluppo. » 4. vuoto colla parete liscia. » .5, molto più piccolo. )) 6. Una delle valve vuota molto ingrandita, per dare a conoscere gli ondulamenti della parete ed i calli delle estremità. Lago di Candia nel Canavese. 4. Pleurotaemum trukcatum Nag. Closterium truncatuin Bréb. apud Menegh. Syn. Desm. in Link. (1840), pag. 235. - Ehr. Inf. (i83i), tab. VI, fig. 1-2. Doc'ulium trnncatum Bréb. in liti, cum icon (1846) apud Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. i56, tab. XXVI, fig. 2. - Kutz. Sp. M^. (1849), pag. 168. - Bréh. List. Desm. (i856), pag. 147- Pleurotaenium tvuncatum Nag. Untersuch. der Conjng., pag. io4 (i858). - Rabenh. fi. Eur. Alg,, pag. 142 (1868). - Pritch. Hist. of Inf , pag. 745 (1S61). - LuND. de Desm. Suec, pag. 89 (1871). Lorica cjlindracea secties circiter magis longa quam lata, a medio ad apicem sensim attenuata tr ancata, cum laminis chlorophjllaceis , 128 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM pluribus paralelUs, et nucleis amjlaceis obsoletis. Juncturae marginibus in annulum coalitis. Cjtiodermate levi, interdum punctato. Cellula sei volte più lunga che larga, a parete leggermente punteggiata, colla sutura dei due lobi segnata da un solco profondo e da un anello nerastro lormato dai margini dei due lobi sporgenti all' infuori; al di sopra della sutura la parete si rialza, formando un rigonflamento circolare sotto al quale la parete ora si restringe insensibilmente sino alle estremità a forma di piramide troncata, ora insensibilmente si allarga sino a mezzo dei lobi, donde poi bruscamente si restringe e termina a foggia di cono troncato. Dimensioni: Lunghezza o,658o - Larghezza o,o432. )) i> 0,4176 » 0,0-20. Icon nostra, tab. XIX, fig. y-ii. Spiegazione delle figure. FiG. 7. Individuo fresco, con uno dei lobi alquanto più corto. )) 8. Individuo vuoto colla parete liscia. » 9. Altro individuo vuoto colla parete punteggiata, e visibilmente ri- stretta dal basso in alto. » 10. Altro individuo fresco coi due lobi eguali. » 11. Individuo in corso di sdoppiamento, col lobo giovane ancora di forma globosa. Lago di Gandia nel Ganavese. o. Pleurotaemum Archerii N. Lorica cylindracea, vigesies circiter magis longa qiiam lata, apicibus vix angustato-truncatis ; hemicftia supra junctiiram tumida. Endocroma e taeniis chloi-ophjllaceis pluribus paralelUs cum nucleis amjlaceis spars is. Cjtiodermate levi. Lobi eminentemente cilindrici, gradatamente ristretti e troncati alle due estremità, due volte strangolati e rigonfi al di sopra e al di sotto della sutura, con un solco piuttosto largo e profondo , ma cogli sporgimenti che non escono fuori della parete in modo che non offrono la stessa gros- sezza, e la dilferenza si riduce a o,oo36 o poco più; e quindi lo sporgimento AUCTORE J. B. DELPONTE. 12^ straordinario dell'orlo proviene dalla grandezza e profondità del solco. I lobi si restringono quasi ad un tratto in una punta troncata rotondata. Dimensioni: Lunghezza 0,7200 - Larghezza o,o5o2. Icon nostra, tab. XIX, lig. 12-16. Spiegazione delle figure. FiG. 12. Individuo tresco a termine di sviluppo, con uno dei lobi alquanto più lungo. » I 3. Altro individuo fresco ma anomalo per l'ingrossamento sensibile dei lobi dal basso in alto a cominciare dalla sutura, forse per- chè non ancora giunto a termine di sviluppo. » 1 4. Altro individuo vuoto a termine di sviluppo, coi lobi eguali nelle loro dimensioni. » 15. Altro individuo in corso di sdoppiamento. » 1 6. Una delle valve che lascia vedere lo stringimento circolare al di sotto della sutura. Lago di Candia nel Canavese. G. Pleurotaenium rectum N. Lorica cjUndracea recta, duodecies et ultra tnagis longa quam lata, a medio ad apicem vix aiigustata truncata. Juncturae marginibus vix tumidis cum taeniis chlorophjllaceis pluribus rectis, et nucleis amjlaceis ininimis rectissì'iatis . Cjtiodermate levi. Cellula eminentemente diritta e cilindrica, troncata ai due capi, colle valve gradatamente ristrette dalla base alla sommità e gli orli della su- tura poco o niente rigonfi, non rovesciati all' infuori. Endocroma di piìi lamine di clorofilla diritte e paralelle, a cui stanno soprapposti dei glo- betti di fecola minutissimi. Parete liscia. Osservazione. Affine al Pi. trabecida, da cui dilferisce per gli sporgimenti circolari più sensibili al di sopra e al di sotto della sutura e nell'essere ancora molto più lungo e più stretto. Dimensioni: Lunghezza o,36oo - Larghezza 0,0288. Icoìi nostra, lab. XX, fig. 8-ii. Serie II. Tom. XXX. r l3o SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI.PINARUM Spiegazione delle figure. FiG. 8. Individuo fresco a termine di sviluppo, coi due lobi eguali e ci- lindrici dal mezzo alle due estremità. )) 9. Individuo fresco, coi due lobi pressoché eguali, piiì piccolo del precedente. » 10. Altro individuo ancora piiì piccolo, coi due lobi alquanto disuguali. » 11. Individuo vuoto colla parete liscia. Lago di Candia nel Canavese. 7. Pleurotaenil'm baculum N. Closterium baculum Bréb. Alg. Falaise, pag. Sg, tab. Vili (i835). Closterium tuberculoides Corda, Alm. Cari., tab. VI, fig. 44 (i84o). Closterium sceptrum Kutz. Phyc. Germ. , pag. i33 (i845). Docidium sceptrum Kutz. Sp. Alg. pag. i68 (1849)- Docidium baculum Bréb. apud Ralfs, Brit. Desm. (1848), tab. XXXIII, fig. .5, pag. i58. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 147. - De-Bary, Untersuch. der Conjug. (i858), pag. ^5. - Pritch. Hist. of Inf., pag. •74^ (1861). Lorica cjlindracea trigesies circiter magis longa quam lata, valvis cylindraceis plus minus curvatis apice truncatis. Juncturae margitdbus valde inflatis cum laminis chlorophjllaceis pluribus paralellis et nucleis amylaceis obsoletis. Cjtiodermate levi. Cellula da venticinque a trenta volte più lunga che larga, a lobi di- ritti cilindrici, troncati alle due estremità, col margine molto rilevato spor- gente al di sopra della sutura al punto che, sugli orli, il diametro viene ad essere una volta e mezzo piìi grande che nel mezzo dei lobi. Al di sotto di questo sporgimento la parete per lo più si mantiene ad un di presso eguale sino alle estremità. Endocroma formato da più lamine di clorofdla parietali diritte, con globetti di fecola sparsi, ma senza traccia dei globoli grossi, disposti in serie, accennati dal Ralfs. Spazi vescicolari alle due estremità distinti, privi dei punti sugli orli della sutura, figurati dal Ralfs. AUCTORE J. B. DELPONTE. l3l Osservazione. Differisce dal PI. Uneatum per gli orli molto più grossi, e perchè sotto alla strangolatura si mantiene cilindrico fin sotto alle due estremità. Dimensioni. Lunghezza 0,6048 - Larghezza 0,0 1 44- » )i 0,4680 >) OjOi44- Icon nostra, tab. XX, fig. 12-16. Spiegazione delle figure. FiG. 12. Individuo fresco. » 1 3. Altro individuo più piccolo. » 1 4. Altro ancor più piccolo del precedente. )) 15. Individuo vuoto d'una lunghezza straordinaria. » 16. Una valva a parte più ingrandita. Lago di Candia nel Canavese. 8. Pleurotaemum minutum N. Docidium minutum Ralfs (1848), Brit. Desm. , pag. i58, tab. XXVI, fig. 5. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 148.- Pritch. Hist. of Ini;, pag. 745 (i86i). Lorica cjlindracea quatuordecies circiter niagis longa quain lata, valvis cjlindraceis a medio ad apicem parum attenuatisi rectis, apice truncatis. Juncturae marginibus coequatis obsoletis ciim laininis chlorophjllaQeis pluribus et nucleis amjlaceis inconspicuis. Cytiodermate levi. Cellula da quindici a venti volte piti lunga che larga, coi lobi diritti, leggermente ristretti dalla base alla sommità troncati, disgiunti da una linea scura, corrispondente ad un solco, ma cogli orli indistinti dal resto della parete. Endocroma di quattro lamine sottili di clorofilla, con globetti di fecola sparsi. Spazii vesciculari distinti. Parete liscia. Dimensioni: Lunghezza o,2520 - Larghezza 0,0 1 44- » » 0,2160 » 0,0087. Icon nostra, tab. XX, fig. 17-21. l'in SPECIMEN DESMIDUCEARUM SUBALPINARUM Spiegazione delle figure. FiG. 1 7. Individuo fresco d'una lunghezza non comune. « 18. Altro individuo piiì piccolo quasi della metà del precedente. » 1 9. Altro ancora più piccolo di quest'ultimo. » 20. Una valva a parte pii!i ingrandita. n 21. Individuo piccolissimo vuoto. Lago di Candia nel Canavese. 9. Pleurotaenil'm Ehreinbergi N. Closterium Trabecula Ehr. Ini. ( 1 836), pag. gS, tab. VI, fig. 2 ? - Menegh. Syn. Desm. in Link. (i84o), pag. 235. Docidium Ehrenbergii Ralfs, Brit. Desm. (1848), pag. iS^, tab. XXVI, fig. 4, et tab. XXXIII, fig. 4. - Kutz. Spec. Alg. , pag. 168 (1849). - Bréb. List. Desm. (i856), pag. 147. - De-Bary, TJntersuch. der Conjug. (i858). - Pritch. Hist. of Inf., pag. 745 (1861). Lorica cjlindracea vigesies magis longa qiiam lata , apiclbus triin- catis, cum laminis chlorophjllaceìs pluribus et nucleis amjllaceis sparsis. Juncturae marginibus coeqiiatis. Cjtlodei'mate levi interdum subtilissime punctato. Cellula da diciotto a venti volte piti lunga che larga, coi lobi eminen- temente cilindrici, appena un po' tumidi nella commettitura e sensibil- mente dilatati alle due estremità. Commettitura coi m&rgini dei due lobi non rovesciati all'infiiori e cogli orli appena distinti dal resto della parete. Endocroma fatto di bende clorofillari sottili d'un verde delicato, con nuclei di fecola sparsi. Parete piìi o meno distintamente ondulata e punteggiata. Soggiungerò che le ondulazioni si fanno sensibili ai due capi sotto forma di pieghe o lineette scure. In ciascuna estremità si scorgono gli spazii vescicolari piuttosto larghi circolari a contatto della parete stessa. Dimensioni: Lunghezza 0,7488 - Larghezza o,o36o. » » 0,6264 » o,o36o. Icon nostra, tab. XX, fig. 1-7. AUCTORE J. B. DELPONTE. 1 33 Spiegazione delle figure. FiG. I. Individuo fresco, con lamine di clorofilla e con noccioli sparsi, colle valve abitualmente storte. » 2. Altro individuo vuoto, colla parete sparsa di punti minutissimi. )) 3. Altro individuo vuoto, colla parete liscia. » 4. Due individui provenienti da sdoppiamento, ancora appiccati per un tratto del vecchio da cui hanno avuto origine, uno dei quali , ossia il vuoto, offre alle estremità dei tratti lineari. » 5. 6. 7. Frammenti d'individui più ingranditi per mostrare gli orli della commettitura poco o niente rilevati, le aiuole dei corpuscoli trepidanti e i ripiegamenti terminali del sacco interno. Lago di Candia nel Canavese. Genus 18. DISPHYNTIUM Nag. Lorica oblongo-cjUndracea, duplo circitev magis longa quam lata, utrinque rotundata , medio late silicata , siitiirae marginihus non tumidis imo depressis et intiis agglutinatis. Endocroma e globulis amylaceis sparsis et taeniis chlorophjllaceis pliivibus margine integris , ab uno ad alter um hemicjtiiim plerumque abriiptis. Zjrgosporae nobis ignotae. I. DlSPUV.MlUM TLRGIDUM N. Cosmarium turgidum Bréb. in litt. apud Rai.fs, Brit. Desm. , pag. iio, tab. XXXII, fig. 8. - Bréb. List. Desm. (i856), pag. i25. - Pritch. A. Hist. of Inf. (1861), pag. qZS. - Lund. de Desm. Suec, pag. 5i (rS'^i). Pleiivotaenium lurgidum De-Bary, Untersuch. der Conjug. (i858), pag. 75, tab. V, fig. 3i. - Rabenh. FI. Eur. Alg., pag. i44- Lorica oblonga ovalis, duplo cum dimidio magis longa quam lata, medio parum constricta, utì-inque injlata, vertice rotundata. Endochroma e laminis chlorophjUaceis pluribus Jlexuosis cum nucleis amjlaceis sparsis, juncturae marginibus omnino coalitis. Cellula bislunga fusiforme, due volte e mezzo piiì lunga che larga, leg- germente strangolata , e però coi lobi rimossi da un solco largo e poco l34 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM profondo. Endocroma negli individui fresclii e vigorosi , formato di lamine piuttosto larghe, con nuclei di fecola, grossi e distanti l'uno dall'altro; ma nella più parte dei casi questa disposizione scompare assai per tempo, e la cellula non presenta più che un ammasso informe di globoli d'amido, tinti in verde dalla clorofilla. Parete liscia. Dimensioni. Lunghezza 0,2160 - Larghezza 0,0828. » » o,i8'72 » o,o'y2o. Icon nosti-a, tah. XXI, fig. i-6. Spiegazione delle figure. FiG. 1. Individuo fresco, che lascia vedere le lamine a cui stanno soprap- posti dei noccioli di fecola a un di presso come nelle Spirogire. » 2. Lo stesso individuo veduto da uno dei lati, coli' endocroma di clorofilla granulata informe. » 3. Valva di un individuo affralito, colle lamine di clorofilla scomposte. » 4. Altro individuo più grande, colla parete punteggiata. » 5. Individuo in corso di sdoppiamento, con uno dei lobi più corto e più grosso. » 6. Lo stesso da una delle commettiture dei lobi. Lago di Gandia nel Canavese. 2. DlSPHYMIUM ELLll'TICUM N. Lorica oi-bicidari-oblonga , quarta parte magis longa qiiam lata, vix medio constricta, apicibus utrinque rotundatis. Cjtiodermate levi. Cellula di forma ellittica, della quarta parte più lunga che larga, poco o niente strangolata, coi due capi rotondati, cosicché le due metà della lorica offrono la forma d'una mezza sfera. Parete liscia affatto. Dimensioni: Lunghezza 0,0684 " Larghezza o,o54o. fcon nostra, tab. XXI, fig. 14. Spiegazione della figura. FiG. 1 4. Individuo vuoto a parete liscia. Lago di Candia nel Canavese. AUCTORE J. C. DELPONTE. I 35 3. DlSPHYiNTlUM SUBROTUNDUM N. Lorica uvalo-subìotunda, (juarta parte magis longa (jiiam lata, vix medio constvicta, apicibns rotundatis , juncturae marginibus coalitis. Cj- tiodermate verrucoso ciun verrucls in series circulares dispositis'. Cellula di forma ovoidea, della quarta parte più lunga che larga, col solco della sutura superficiale aflatto distinto, ed i bitorzoli piuttosto grossi, disposti in serie circolari concentriche. Parete granulata, attra- verso della quale accade talvolta di vedere le lamine di clorofilla cogli occhielli soprapposti, come nella specie precedente. Dimensioni: Lunghezza o,i 1 52 - Larghezza o,og36. Icori nostra, lab. XXI, fig. 7 e 8. Spiegazione delle figure. FiG. 7. Individuo allValito, coll'endocroma raggrinzato in due masse dentro ad uno dei lobi. » 8. Individuo aflValilo che offre i bitorzoli della lorica, disposti in serie circolari. Lago di Candia nel Canavese. i. DlSPHVNTIUM GRANDE N. Lorica cjlindracea, duplo magis longa quam lata, vix medio con- strida, cum juncturae marginibus omnino coalitis; endochroma nobis ignotum. Cjtiodermate subtiliter punctato. Cellula di forma cihndrica, due volte piìi lunga che larga, coi capi rotondati, poco o niente strangolata nel mezzo, colla parete coperta di punti quasi impercettibili. Dimensioni: Lunghezza 0,2160 - Larghezza 0,1008. Icon nostra, lab. XXI, fig. g. Spiegazione della figuro. Fig. 9. Individuo vuoto, colla parete punteggiata. Lago di Candia nel Canavese. l36 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM O. UlSI'HViSTIUM TESSELLATUM N. Lorica cjlindracea, duplo magis longa quam lata, ulrinque rotundata, medio late silicata. Endochroma e massa chloiophyllacea injormi, raro e laminis chlorophjllaceis parallelis adscendentibus discretis. Cjtiodermate verrucis majusculis vestito. Cellula cilindrica, rotondata ai due capi, una volta più lunga che larga, distinta m due lobi da un solco alFatto superficiale e pressoché intiera- mente costituito dalla mancanza dei bitorzoli, di cui è tutta coperta la parete. Endocroma costituito da più laminette parietali parallele , con nuclei di fecola soprapposti, denticolate al margine come nelle spirogire. Ma ben tosto le lamine si scompigliano e la cellula non presenta più che una massa di materia verde, fatta di grossi granoli. Osservazione. S'accosta al D. striolatum del Nageli, da cui differisce soprattutto nella forma, la quale è propriamente cilindrica, d'una grandezza uni- forme in tutti! la sua estensione, e rotondata alle due estremità. Dimensioni: Lunghezza o,i44o - Larghezza 0,0720. » 11 0,1296 » 0,0864. Tcon Jiostra, tah. XXI, fig. io-i3. Spiegazione delle figure. FiG. 1 0. Individuo fresco che offre le lamine clorofillari e 1 noccioli di fecola. » 11. Altro individuo coU'endocroma d'un verde scuro in parte alterato. » 12. Una delle valve veduta dalla parte dell'anello commessurale. )) 1 3. Individuo vuoto, con uno dei lobi rimasto imperfetto. Lago di Candia nel Canavese. Genus XIX. TETMEMORUS Ralfs. Lorica cjlindracea recla Jusifoi'mis, medio parum constricta; hemi- cjtiis e fronte subturgidis complanatis, utroque polo excavato-bilobis e latere a medio ad apicem angustalis, integerrimis, obtusis. Cjtiodermate AOCTORE J. B. DELPONTE. iZ'J levi, aut pimctato , aut globulis minimis obsito. Endochroma e taeniis chlofophyllaceis pluribus ab axi radlanlibus cum uucleis amylaceù ple- rumcfice uniseriatis. Zjgosporae sphaericne aut eUipticae. I. Tetmemokus Brebissomi Rai.fs. Closterium Brebissonii Menegh. Syii. Desm. in Linn. (1840), pag. 206. - Bailley, Am. Bacili Am. Jouni. of Se. and Arts, voi. 4' 1 "• 2, tal). I, fig. 38 (1841). Telmemorus Btebissonii Rai.fs, An. ot INat. Hist., voi. 14, tab. Vili, tig. i (i844)> - Trans, of Bot. Soc. ot Edin., voi. 2, pag. i33, lab. XII. - Jenner, fi. ot Tunb., pag. rg8. - Has.sai.. Brit. Fresliw. Alg., pag. S-jy, tab. LXXXIX, tig. 5 (i845). - De-Bary, Untersuch. der Conjug., pag. 7 3 (i858). - Ralf.s, Brit. Desm., tab. XXIV (1848). Closterium leve Ktjxz. Phyc. Germ., pag. i32 (i845). Tetmemorus Brebissonii Kutz. Sp. Aig. (1849), P'^S- '67" Bréb. List. Desm. (i8fi6;, pag. 145. - Pritch. Hist. ol Int., pag. '-46, tab. II, fig. i2-i3. - Rabenh. fi. Eur. Alg., pag. i3g (i86>S;. - De Not. Eleni. Desm. ital., pag. 58 (i8f)7). Ijorica cylindracea, sexies magis louga quani lata, medio sulcata , hf- micjtiis e medio ad apicem integerrimis aut emarginato-bilobis prout e fronte aut e lateie se proferiuit, lobis brevissimis rolundatis. Cjtiodermate punctaio. Cellula di tornm cilindrica, leggermente compressa, smarginata ai due capi ; quando è vista di fronte senza pendenza più da un capo che dall'altro si mostra intiera ed uniformemente allargala : quando s'afTaccia da uno dei lati, in allora alle due estremità si scorge la forma di im x che proviene dalla smarginatura, e corrisponde ai due lobi; quando è vista di fronte, ma con inclinazione da uno dei capi, in allora il lobo poste- riore traspare al di sopra dell'anteriore, descrivendo un cerchio corrispon- dente alla grandezza del lobo. Negli individui avanzati ed atTraliti, ma per altro ancora intatti quanto alla parete, è ancora visibile l'aiuola dei corpuscoli trepidanti che talvolta scompare allatto. Egli è negli individui vuoti che si scorge la paiete coperta di punti trasparenti, disposti in linee longitudinali parallele, sottilissime. Nel punto Serie II. Tom. XXX. s : 38 SPECIMEN DESMIDIACEAKUM SUBALPINARL'M della cominellitiira liavvi una depressione circolare come se la parete rientrasse all'indentro, e al di sopra di questo solco le serie dei punti si trovano più ravvicinate. Il carattere ili questa specie consiste non so- lamente nei punti, ma ancora nella forma dei lobi più cilindrici, vale a dire meno appuntati alle due estremità. Dimensioni: Lunghezza o,JC)44 " Larghezza 0,0288. Icon nostra, lab. XV, fig. àS-S/j. Spieyazimir delle /ii/aie. FiG. r,:i. Individuo vuoto che presenta le intaccature da uno dei capi. )) 54. L vuoisi avvertire che l'intaccatura è visibile soltanto negli individui visti di fronte, come abbiamo or dianzi accennato. Dimensioni: Lunghezza 0,1224 ~ Larghezza u,o432. ìcon nostì'a, tab. X\, fig. 55-56. Spiegazione delle figure. FiG. 55. Individuo vuoto veduto da una delle l'accie, colla parete granulata. » 56. Lo stesso veduto dalla faccia opposta. Valle di Valdiei'i (presso le Terme) provincia di Cuneo. Genus XX. Sl^ROTAENIA Bréb. Lorica cjlùidracea aut ohlongo-fasifovmis , utrinque bievUer attenuata obtusa, sutiirae marginibus omnino coalitis . inconspicuis ut in Closterio. Endocroma, aut e lamina cliloiophjllacea impari., nmrgine undulato- crenatii in spiram contorta , aut e taeniis chloroplijUaceis pluribus decussatis, nempe aliis dextror.ium, nlii.i sinistrorsuin, a basi ad apicem utriusque hpmicjlii oblique incedentibus. Tjfgosporae nobis ignotae. Accedll nota, physiologica magni momenti, docente Alexandro Br.\un, nempe dimidiatio (exemplo unico) pei' sextionem obliquam, ut quando- que in Scenedesmo, et ideo nexus cum Zjgnemaceis et Pediastraceis coni- pertissinms. i. Spirotaenia Rectispira N. Lorica ohlongo-cjlindracea, quinquies inagis longa quam lata, utrinque rotundata cum taeniis cldoroplijllaceis quatuor rectiusculis et nucleis amylaceis minimis sparsis. Cjtiodermate levi. Cellula di forma cilindrica, rotondata ai due capi, da quattro a cinque volte più lunga che larga, con quattro lamine di clorofdla, di cui le me- diane soltanto visibili da un capo alf altro, mentre le due altre non lo sono che in parte. Dimensioni; Lunghezza 0,1 152 - Larghezza o,0252. Icon nostra, tab. XX, fig. 22. <0 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAr.PINARUM 140 Spiegazione della /igìtru. FiG. 22. Individuo tresco, colle fasce un po' storte, non incrociale. Sagra di S. Michele presso Torino. 2. Spirotaema (;rai\uis JN. Lorica cjUndmrea, novies magis longa (juain lata, utvinqiie rotun- data, medio nec minimum constricta, integerrima ; endochroma e laminis chlorophyllaceis in spjram convolutis, decussatis, et ideo {lorica) eximie tessellata cum nucleis nmjlaceis pluribus sparsis punctiformihus. Cjtio- dermate le\'i Cellula di forma cilindrica nove volte più lunga che larga, rotondata ai due capi, colle lamine dorofdlari regolarmente avvolte a spira ed in- crociate a maglia di rete. Noi non vedemmo mai alcuna traccia di sutura, né di vescichette terminali, fornite di corpuscoli trepidanti. Parete hscia. Dimensioni: Lunghezza 0,2664 - Larghezza o,o2H(S. Icon nostra, tal). XX, fig. 23. Spiegazione delle figure. FiG. 23. Individuo fresco, colle fasce che s'attraversano a spira le une colle altre. Lago di Candia nel Ganavese, Pichiranio (presso la Sagra di S. Mi- chele), Torino. 3. Spirotaeìnu obscura Ralfs. Spirotaenia obscura Ralfs, Brit. Desm., pag. 179, lab. XXXIV, fig. 2 (1848). - Beéb. List. De.sm., pag. iSy, n. 2 (i856). - Rabenh. Alg., n. 5io, et 727, - FI. Eur. Alg. , pag. 147 (i8tì8). - Lund. de Desm. Suec, pag. 9. (187 i). Lorica fitsi/ormis, quinquies magis longa quam lata, utrinque rotundata, ciun taeniis chlorophjllaceis linearibus et nucleis amjlaceis minimis api- cihus ì-otundatis: jnnctura nulla. Cytiodermaic levi. Cellula fusiforme ottusa, rotondata alle due estremità, liscia senza traccia di sutiira, cinque volte più lunga che larga. Endocroma di slriscie AUCTORE .1. B. DELPONTE. I;^ l o bende cloiofillari più o meno oblique, con tratti di spira, da dodici a venti per ogni laccia, e d ordinario in numero tanto più piccolo quanto più sono dirette obliquamente. Negli individui freschi e vigorosi sono sempre visibili i tratti che girano dalla parte opposta ali osservatore, intersecandosi a vicenda a maglie lomboidali. L'endocroina si mostra talvolta continuo in ogni sua parte, talvolta interrotto nel mezzo per un tratto più o meno grande come nei Closteri, soprattutto nelle cellule molto estese in lunghezza. I due capi delle bende mai non toccano al sonnno delle valve, cosicché lasciano alle due estre- mità un tratto vuoto trasparente. Trovammo individui muniti di sacco mucoso e anche dei sacchi contenenti due individui. Negli individui col- tivati nelle ampolle vedemmo comparire nelle cellule dei cordoni più o meno lunghi a maniera di fasce. Vedemmo ancora l'endocroma a farsi tessellato sui lati presso la parete, a un di presso come nel Penium digitus, ma non ci accadde mai di vedere traccia di vescichette piene di corpuscoli trepidanti alle due estremità. Dimensioni; Lunghezza 0,2264 ~ Larghezza o, 01288. » )' 0,1 368 » 0,0288. Icon nostra, tab. XX, fig. 24? ^5. Spiegazione delle figure. FiG. 24. Individuo fresco, che offre le lamine disposte a spira, che si attraversano a vicenda. » 25. Altro individuo più piccolo dentro ad una guaina. Lago di Candia nel Canavese. 4. Spirotakisia co.ndeìnsata Bréb. Ralfs, Brit. Desm., tab. XXXIV, tig. i. - Bréb. List. Desm., pag. 157 (i856). - Pritch. Hist. of Inf., pag. 75 1, tab. XI, fig. 4 (1861). - Rabenh. Alg., n. 1900 sub n. 171 et i23i , - FI. Eur. Alg., pag. 146 (1868). - Lund. de Desm. Suec. , pag. 91. - De Not. Eleni. Desm. ital. , tab. IX, fig. 82 (1867). Lorica cjUndracea, septies magis longa quam lata, apicibus conicis. Endochromu e lamina cldorophjllari solitaria , valde expaiua in splram l42 SPECIMEN BESMIDIACEARUM SUBALPINARUM eximie contorta cuni anfractibus duodeciin et nucleis faeculaceis fere iiiconspicuis. Cjtiodermate levi. Cellula tli forma cilindrica, ristretta a punta di cono ottuso ai due capi, sette volte più lunga che larga, con una sola lamina di clorofilla assai più grande che nelle altre specie, con dodici giri di spira, quasi diritti, che riescono distinti l'uno dall'altro da un intervallo libero che pareggia la metà della lamina. Parete liscia. Dimensioni; Lunghezza 0.1800 - Larghezza o,o252. Icori nostra, tab. XX, fig. 26. Spiegazione della fif/ura. FiG. 26. Individuo tresco ad una sola benda grande e regolarmente av- volta a spira da riempiere tutta la cavità della cellula. Lago di Gandia nel Canavese. Genus XXL APRISTE ODESMUS Corda. Lorica acicularis minima, atrinqiie sensini attenuala, ut plurimum curvata. Individui rai'o discreti, plerunir/ue una pliu-es, in fasciculos con- gesti, e valvis duahus sjinmetricis demum ad inviceni diductis, constituti nempe dimidiati. Corpus chlorophjllaceum extenuatum fere .solutuni, quum lorica nihil continere l'ideatur nisi liquidum flavo-citrinum. Zjgosporae nolns ignotae. Genus quoque valde duhium quoad ordineiii. 1. Al\KISTRODESMUS FALCATUS Ralfs. Micrasterias falcata Corda, Alni, de Carlsb. (i835}, pag. ii^i. tab. II, fig. 29. Closteriwn falcatum Mexegh. Syn. Desni. in Linn. (i 26. Alcuni articoli visti da uno dei capi. Xanthidi astrimi paradoxum N- FiG. 27. Filamento fresco e vegeto munito di guaina. » 28. Lo stesso veduto da uno dei capi. » 29. Alcuni articoli molto iiij;randili nella slessa giacitura. » 30. Individuo mancante di spina terminale. » 31. Individuo fresco privo di guaina. « 32. Alcuni articoli ad un ingrandimento più forte per dare a conoscere il modo con cui s'appiccano a vicenda. !> 33. Individuo in corso di sdoppiamento. Tavola IV. Micrasterias rotata Ralfs. Fio. I. Individuo fresco con uno dei lobi ancora imperfelti. Micrasterias radiosa Ag. Fig. 2. Individuo fresco e vigoroso. » 3-4. Parti della medesima più ingrandite. Micrasterias papiffifera Bréb. Fig 5. Individuo perfetto e vigoroso. » 6. Individuo vuoto. Micrasterias crux melitensis Ehr. Fig. 7. Individuo fresco. » 8. Altro vuoto, veduto da uno dei lati. > 9. Lo slesso, veduto da uno dei capi. AUCTORE J. I!. DKLPONTE. l49 Fio. io. Individuo vuolo mancante di spine e molto più piccolo. » 11. Altro individuo fresco e vegeto più piccolo del n.° 7. » 12. Individuo in corso di moltiplicazione coi due lobi nuovi quasi a termine di sviluppo ancora congiunti. » 13. Altro in corso di sdoppiamento colle valve nuove congiunte per i lobi ter- minali , meno avanzati. Tavola V. Micrasterias aj)iculaia Menegh. FiG. 1, Individuo Tresco. » 2. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » .3. Individuo vuoto con uno dei lobi imperfetto. » 4. Altro, con uno dei lobi non ancora pienamente sviluppato. i> 5. Spora, probabilmente di questa specie, perchè trovata in vicinanza di molti individui. M/crasferias truncala Ralfs. FiG. 6. Individuo rigoglioso a termine di sviluppo. » 7. Altro individuo più grande. » 8. vuoto, veduto da uno dei lati. » 9. vuoto, veduto da uno dei capi. » 10. vuoto, alquanto più grande dei precedenti, colla parete punteggiata. Micrasterias decemdentata Nag. FiG. 11. Individuo vuolo a parete punteggiala. » 12. Altro individuo più grande, veduto da uno dei lati. 1 13. Individuo veduto da uno dei capi. » 14. Altro fresco mollo più lungo. » 15. Due individui in corso di sdoppiamento ancora congiunti a vicenda. » 16. Individuo giovane con uno dei lobi in corso di sviluppo. Micrasterias crenata Bréb.? FiG. 17. Individuo fresco e vegeto. » 18. .\ltro vuoto. Tavola VI. Euastrum ambiguian N.? FiG. I. Individuo affralito, coll'endocroma scomparso e la lorica ancora intatta. l5o SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Enastrvm dideìla Turp. Fin. 2. Individuo vuoto coIIp valve provveduto di selle tubercoli, disposti a un dipresso come nell' E. ohìongum colla parete granolala. Euastrvw (impìilldceum Ralks. FiG. 3. Individuo vuoto, veduto di Ironie, colle valve provvedute di tubercoli disposti come neir E. didella , e la parete sparsa di punti trasparenti. » 4. Parte esterna di una delle valve, che si è trovala nettamente spiccala dalla parte media, e che lascia vedere i due lobi, di cui è formala, interrolli entrambi da un seno. Euasln/m RabenJinrslii N. FiG. 5. Individuo vuoto, colle l'accie munite di selle tubercoli disposti come nelle specie precedenti, colla parete mancante di punti e di granoli. Euastrum geìnmaivm Bréb. Fio. 6. Individuo vuoto colle valve provvedute alla base di tre tubercoli granolati, il mediano dei (|iiali d'ordinario alquanto più grosso. » 7. Una delle valve dello stesso veduta dalla faccia commessurale, con tre spor- gimenli da ciascuna faccia che corrispondono ai tubercoli. E/uislrxm nummiiloriìim N. Fio. 8. Individuo vuolo, colle valve provvedute nel mezzo di \m tubercolo coperto di granoli. Euastnnn hinale Uam-s. Fio. 9. Individuo vuoto. » 10. Altro in corso di sdoppiamento col lobo piii giovane non ancora perfetto. Einifttrmìi Cnvdiainrni N. Fio. il. Individuo in corso di sdoppiamento col lobo nuovo a termine di sviluppo. » 12. Lo slesso da uno dei lali. Euastrum vemtcosuni Ehr. Fio. la. Individuo vuoto, veduto di fronte per mettere in vista la parete e i Ire bi- torzoli di cui vanno provvedute le valve alla base » 14. Altro individuo più piccolo veduto dalla faccia commessurale. » 15. Lo stesso veduto da uno dei capi. AL'CTORE J. B. DELPONTE. Eìiasirum vemicosum coarta tvm N. i5i FiG. 16. Individuo affralito, coi lubercoli ridolli alla l'orina di un cerchio sprovveduto di granoli. Eiiaslrum spinulosimi N. FiG. 17. Individuo fresco e rigoglioso, veduto da una delle faccie, colle valve munite nel mezzo d'un rigonliamenlo, fornito di un cerchio di granoli, col- l'endocroma fatto di quattro lamine clorotillari e di due grossi globoli di fecola per ogni valva. » 18. Lo stesso, veduto da uno dei lati, che lascia vedere il tubercolo di mezzo sporgente a foggia di ampolla, oltre al livello della parete. Euaslrum subtelra/jonuni N. FiG. 19. Individuo vuoto, colla parete coperta di granoli e con tre lubercoli alla base di ciascuna valva, il mediano dei quali più grosso. « 20. Lo stesso, veduto da uno dei lali. Euasti'um intermedi ìtm N. FiG. 21. Individuo colla parete granolata e le valve munite alla base di tre tubercoli. » 22. Lo stesso, veduto da uno dei lati. « 23. Una delle valve veduta dalla faccia comraessurale. Euastrtnn intennedium Baìfrii iN. FiG. 24. Individuo vuoto colle valve provvedute di un solo tubercolo alla base e talvolta di tre. » 25. Lo stesso , veduto da uno dei lati. EiKif^tntm obìongum R.4lfs. FiG. 26. Individuo fresco veduto di Ironie, con due cordoni di clorofilla nella parte media, e sette bernoccoli per ogni valva , tre dei quali posti alla base in vicinanza della commettitura, due altri sui lobi di mezzo e due altri alla sommità; la parte media dell'endocroma si Irova sovente diradala e piena di corpuscoli trepidanti. >) 27. Lo stesso, veduto da un lato, sul quale si vedono delineati i lobi predetti sotto forma prossimamente di croce » 28 Una delle valve veduta da uno dei capi. » 29. Un individuo intiero vuoto affatto e trasparente, appoggiato sopra uno dei capi veduto per iscorcio , con lutti i lobi proiettati sopra di un piano. » 30. Una delle valve, veduta dalla faccia commessurale. iSa SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Eimstrnm ansati/m Ehr. FiG. 31. Individuo fresco e vegeto colle due fascie di clorofilla per o^tìi valva. Euaslriim ansafimi pixidatum N. Fio. 32. Individuo vuoto, veduto di fronte. • 33. Una delle valve, veduta dalla faccia couiraessurale. » 34. La slessa, da uno dei capi. Euustrìim antiulum ■subloliulum N. Fio. 35. Individuo fresco, veduto di fronte, con due fascie di clorofilla per ogni valva. » 36. Lo stesso da uno dei lati. Tavola VII. Cofimariani biociilahim. Bréb. Fio. 1. Individuo a termine di sviluppo, coU'endocroma costiluilo da un nocciolo d'amido, e da una lamina di clorofilla. » 2. Lo slesso, veduto da uno dei lali. » 3. Lo stesso, veduto da uno dei capi. » 4. Due individui in corso di sdoppiamento. Cosmari/nn Mene(//ii/u'/ Bréb. FiG. 5. Parecchi individui provenienti da sdoppiamento , ancora concatenati assieme. » 6. Individuo vuoto mollo ingrandito. )i 7. Lo slesso, veduto da uno dei lali. » 8. Lo slesso da una delle faccie commessurali. » 9. Individuo in corso di sdoppiamento irregolare , cosicché invece di due nuovi lohi non si trova che un sacco poco o niente intaccato nel mezzo. Cosnidriiim cìicìirbi.tacevm N. FiG. 10. Individuo fresco a termine di sviluppo. » 11. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » 12. Lo stesso da uno dei capi. H 13-14-15. Individui della stessa specie, molto ingranditi. Cosmarium granatum Bréb. FiG. 16. Individuo a termine di sviluppo. » 17. Lo stesso, veduto da uno dei lali. » 18. Una delle valve, veduta da uno dei capi. AUCTORK J. B. DEI.PONTE. 1 53 FiG. 19. Altro individuo vuoto. » 20. Miro individuo più piccolo. » 21. Un individuo in corso di sdoppiamento. Cosma r///m atlanthoideum N. Fio. 22. Individuo veduto di fronte. » 23. Lo slesso da uno dei lati. » 24. Lo stesso da uno dei capi. Cosniarium crenatiim Ralfs. FiG. 25. Parecchi individui provenienti da sdoppiamento , ancora congiunti da uno dei capi. » 26-27. Individui mollo ingranditi. Cosmarium Scenedesmum N. FiG. 28. Individuo fresco e vigoroso. » 29. Altro veduto da uno dei lati. » 30. Lo stesso da uno dei capi. » 31. Indi\i(luo vuoto. » 32-33. Individui accoppiati colla zigospora a termine di sviluppo. » 34. Individuo provveduto di guaina. Cosmnrhmi Clepsìjdiv N. FiG. 35. Individuo a termine di sviluppo, veduto da una delle faccie. La stessa forma si presenta da uno dei lati, trattandosi di un corpo in complesso di l'orma cilindrica. » 36. Una delle valve, veduta da uno dei capi. Cosmarmni minutum N. Elfi. 37. Individuo fresco e vegeto, veduto di fronte. » 38. Lo slesso da uno dei lati. » 39. Lo stesso da uno dei capi. Cosmarium, moniliforme Ralfs. Fio. 40. Due individui della varietà (a) ancora appiccati per una delle estremità, provenienti da zigospora. » 41 . Un individuo veduto da uno dei capi. » 42. Individuo della varietà [h] fresco e vegeto. » 43 Un altro individuo, veduto da uno dei capi. Serie II. Tom. XXX. u ;54 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM FiG. 4i. Individuo veduto da uno dei lati, munito di collo distinto. » 45. Altro ninnilo di guaina. Cosmar/nm orbicolatitvi Ralf.s. FiG. 46. Individuo con uno dei lobi mancante di endocroma per mettere in vista la parete coperta di granoli. » 47. Lo stesso da uno dei lati. 11 48. Una delle valve dimezzala per mostrare la struttura dell'endocroma. Cosmarium orloijonum N. FiG. 49. individuo fresco, veduto di Ironie, coi due capi intieri. » 50. Una delle valve, veduta da uno dei capi. « ol. -\ltro individuo alquanto differente per l'intaccatura dei lobi come si vede a colpo d'occhio, ma sicuramente della stessa specie per i passaggi che si trovano da una l'orma all'altra. Cosmarium ei/aslroides N. FiG. 52. Individuo veduto di Ironie, con un bitorzolo sporgente. » 53. Lo slesso, veduto da uno dei lati. » 54. Individuo vuoto, molto ingrandito per mettere meglio in vista gli accidenti della parete. » 55. Lo stesso, veduto da uno dei lati. Il 56. Una delle valve, veduta dalla faccia commessurale. » 57. Individui accoppiati molto ingranditi. » 58. Zigospora a termine di svilujipo. Cosmarium trifjemmalum N. Fio. 59. Individuo fresco a termine di sviluppo. » 60. Lo stesso più ingrandito, per mettere in vista i tubercoli delle faccie. » 61. Lo stesso, veduto da uno dei capi. Cosmarium Lundelii N. FiG. 62. Individuo fresco e vegeto, con quattro lamine di clorofilla. • 63. Una delle valve, vista dalla faccia commessurale. '■ 64. La stessa, veduta da uno dei iati. Cosmarium NordstedUi N. Fio. 65. Individuo completo a termine di sviluppo. » 66. Lo stesso, veduto da uno dei lati. ALCTORE J. B. DELPONTE. l55 FiG. 67. Lo slesso, veduto da uno dei capi, che offre le quattro lamine disposte in forma di croce. » 68. Individuo vuoto. Cosmarium sexangu/are LtiNo. Fio. 69. Individuo fresco, veduto di fronte. » 70. Lo slesso da uno dei lati. » 71. Altro individuo vuoto. » 72-73. Altri individui mollo ingranditi visti di fronte e da uno dei capi. Cosmarium ietracanthium N. FiG. 74. Individuo a termine di sviluppo. ■> 75. Lo slesso da uno dei lati. » 76. Lo slesso da una delle faccie commessurali. Tavola Vili. Cosmarium Candianum N. FiG. 1. Individuo fresco e vegeto veduto di Ironie, con sei lamine di clorofilla, divergenti da un globolo di fecola. » 2. Altro individuo, veduto da uno dei lati. » 3. Lo stesso del n. I , veduto da uno dei capi. » 4. Individuo vuoto con quattro masse rotondate di clorofilla. » 5. Una massa a parie ingrandita. » 6. Individuo in corso di sviluppo. Cosmarium intermedium N. FiG. 7. Individuo fresco e vigoroso veduto di fronte. » 8. Altro più piccolo. » 9. Lo stesso, veduto da un lato. )i 10. Lo stesso, veduto da uno dei capi. Cosmarium, eUijHicum N. FiG. 11. Individuo veduto di fronte. » 12. Lo slesso da uno dei lati, di forma prossimamente cilindrica , leggermente strangolato nel mezzo. » 13. Lo slesso da uno dei capi, di forma ellittica ristretto ed appuntato ai due capi. j56 specimen DESMIKIACEARUM SUBALPINARUM Cosmarìvm annnlaiìiw N. Fio. 14. Individuo fresco e vegeto veduto di fronte. » 13. Lo stesso molto ingrandito. » 16. Altro veduto da uno dei lati. » 17. Una delle valve, veduta dalla faccia cominessurale. » 18. Due individui accoppiati colie zigospore in corso di sviluppo. » 19. Zigospora a termine di sviluppo. Cosmariiim ìaìkollinn N. FiG. 20. Individuo a termine di sviluppo, quanto alla conformazione della lorica, ve- duto di fronte. » 21. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » 22. Lo stesso da una delle faccie commessurali. » 23. Individuo vuoto, per mostrare la parete tutta coperta di punti. Cosmariuvi erosimi N. FiG. 24. Individuo fresco e vigoroso, veduto di fronte. » 25. Lo stesso da uno dei lati. » 26. Lo stesso da uno dei capi. » 27. Altro individuo in corso di sdoppiamento , coi due lobi delfindividuo nuovo che cominciano a spiccarsi l'uno dall'altro. Cosmarivni deltoideum N. FiG. 28. Individuo vuoto, per mettere in vista la parete punteggiata. » 29. Lo stesso da uno dei lati. » 30. Una delle valve, veduta dalla faccia commessurale. Cosmariiim Botrijtùs Menegh. Fio. 31. Individuo fresco, a termine di sviluppo, colle lamine di clorofilla distinte e coll'endocroma scavato nel mezzo in due grandi logge o diradamenti pieni di corpuscoli trepidanti senza globolo di fecola distinto. » 32. Altro individuo colle lamine scomposte, con due grossi globoli di fecola per ogni valva. » 33. Altro individuo vuoto, veduto da uno dei lati. » 34. Altro individuo, veduto da uno dei capi. > 35-36-37-38. Altri individui che vanno d'accordo per la forma, ma che dif- feriscono assai per le dimensioni. » 39. Una delle valve, veduta dalla faccia commessurale. AUriORE J. E. DELPONTE. I Ò '" CoHmaThim Turjìinii Bréb. FiG. 40. Individuo tresco e vegeto, veduto di fronte. » 41. Altro veduto da uno dei lati. » 42. Lo stesso, veduto da uno dei capi. » 43. Altro vuoto con uno dei lobi rimasto imperfetto. Cosmarium Broomei Ralfs. FiG. 44. Individuo perfetto a termine di sviluppo. » 45. Individui accoppiati. » 46. Individuo veduto da uno dei lati. » 47. Individui sorli da sdoppiamento, congiunti per il vertice, perchè non ancora giunti a termine di sviluppo. » 48. Individuo veduto da uno dei capi. Tavola 1\. Cosmarkim tetrophtalmum Bréb. Fio. 1 . Individuo fresco e vegeto veduto di fronte. » 2. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » 3. Lo stesso, veduto da uno dei capi. » 4. Altro vuoto più piccolo. Cosmarium marrjafitifcram .Menegh. FiG. ij. Individuo fresco e vegeto veduto di fronte colla parte di mezzo che offre una grande aiuola piena di corpuscoli trepidanti. » 6. Altro veduto da uno dei lati. » 7. veduto da uno dei capi. » 8. più piccolo. » 9. Due individui accoppiali colla zigospora in corso di sviluppo. Cosmarium anomalurti N. Fio. 10. Individuo di grandezza intermedia, visto di fronte. » 11. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » 1 2. Lo slesso, veduto da uno dei capi. » 13. Due individui dentro ad una guaina in corso di sdoppiamento. » 1 4. Individuo vuoto. » lo. Altro individuo vuoto, più grande. l58 SPECIMEN DESMIDlArEARUM SUBM.PINAUUM Cosmoì^iìim pandvra/i/m N. FiG. 16. Parecchi individui coiilcnuli in un sacco Irasparenle. Cosmai'ium Brebissonii Menegh. FiG. 17. Individuo fresco e vegeto, veduto di fronte. » 18. Lo slesso, veduto da (ino dei lati, il quale lascia vedere le spine più distinte. » 19. Altro individuo più piccolo. » 20. Lo slesso, veduto da un lato. » 21. Lo stesso, veduto da uno dei capi. » 22. Altro vuoto per mettere meglio in vista gli accidenti della parete. Cosnucì'ium connatum Bréb. FiG. 23. Individuo a termine di sviluppo veduto di Ironie. » 24. Lo stesso, da uno dei lati, il quale ne differisce paressero alquanto più piccolo. » 25. Una delle valve, veduta dalla faccia comniessurale. Cosmarììim niìceps N. FiG. 20. Individuo veduto di Ironie. » 27. Lo slesso, da uno dei lati. » 28. Lo stesso, da uno dei capi. « 29. Altro affralito mollo ingrandito. Cmmitrimn pyrami datimi Bréb. FiG. 30. Individuo fresco a termine di sviluppo, veduto di fronte. » 31. Lo slesso, veduto da uno dei lati. » 32. Lo stesso, veduto da uno dei capi. » 3:J. Altro vuoto. Tavola X. Cosmaivìim ovaie Ralf.s. FiG. 1. Individuo fresco e vegeto, coli' endocroma disposto sotto forma di fascie tortuose dal basso in allo. » 2. Lo slesso, veduto da uno dei lati. » 3. Altro individuo ditferenle per la forma dei lobi notevolmente appianati ai due capi, coll'endocroma sparlilo in due masse per ogni lobo. « 4. Individuo vuoto, veduto da uno dei lati per ineltere in vista le serie di grandi 0 mucroni che lo attraversano da un capo all'altro. AUCTORE J. B. DKI.PONTE. I Sp Slaurastrum orbicolare Ehr. FiG. 5. Individuo veduto da una delle faccia. » 6. Lo slesso, veduto da uno dei lati. » 7. Valva vuota di un altro individuo più grande, veduta da una delle faccie commessurali. „ 8-9-10-11. Individui della stessa specie mollo ingranditi. » 12. Individuo munito di guaina, in corso di sdoppiamento. Slaurastrum laniatvm N. FiG. 13. Individuo veduto diritto sopra una delle faccie. » 1 5. Lo slesso, veduto da un lato coll'endocroma l'ormato da grossi granoli d'amido e di clorolìlla senza traccia di lamine. » 15. Valva dello stesso, clic mostra il nucleo centrale e le lamine di clorofilla, convergenti alla sommità d'ogni lobo. » 16. Altro individuo, anomalo, provveduto di tre nuclei per ciascuna valva, n 17. .\llro individuo, veduto da uno dei lati. » 18. Individuo fresco, veduto da una delle faccie. » 19. Altro individuo in cui si scorgono i lobi della valva sottoposta. » 20. Valva vuota, veduta dalla faccia commessurale. » 21. Individuo colle valve ahiuanto allontanate l'una dall'altra, probabilmente in punto da sdoppiarsi. » 22. Altro da uno dei lati coi lobi delle valve gradatamente ristretti alla sommità. » 23. Lo stesso veduto da una delle faccie terminali. » 24. Altro affralito dentro ad una guaina, nelle cui valve si scorgono due glo- boli verdi che paiono due gonidii o corpi riproduttori slraordinarii. » 25. in corso di sdoppiamento. Staurasirum cuspklatum Bréb. FiG. 26. Individuo veduto da uno dei capi, ossia da una delle faccie. I) 27. Lo slesso, veduto da uno dei lati in corso di sdoppiamento. » 28. Altro individuo colle spine terminali, ripiegale dal basso in alto. » 29. Altro individuo più piccolo, veduto da uno dei capi. D 30. Due individui nell'alto in cui le valve si aprono per dare origine allo zigospora. » 31. Altro individuo veduto ila uno dei lati cogli aculei ripiegali all'indentro. » 32. Altro individuo cogli aculei più lunghi e paralelli, veduto da uno dei lati. » 33. Altro individuo ;i tre spine impiantate nel mezzo d'ogni lobo e piegate in alto. l(Ì0 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM Skarra-strum rohìts/t/vi N. FiG. 34. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 35. Lo slesso, veduto da uno dei lati. Stanra^fììim complano linn N. FiG. 36. Individuo veduto da una delle faccie. » 37. Altro veduto da uno dei iati. Staurasinim aenticosum N. Fio. 38. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 39. Lo stesso, veduto da uno dei lati. Tavola XI. Staurasirum telìferum Ralfs. Fio. \. Individuo fresco e vegeto, coll'endocroma formalo di grossi globoli verdi, quali non lasciano vedere né le fascie né il nucleo. » 2. Valva vuota di un altro individuo, veduta da una delle faccie terminali. i> 3. La slessa, veduta dalla faccia commessurale. » 4. Zigospora dello slesso, colle valve dei due individui che li- hanno dato origine, in corso di sviluppo. Stati ra-sl rmn aca/ithoides N. FiG. 5. Individuo veduto da uno dei capi. » 6. Altro veduto da uno dei lati. Staurostrum refractum N. FiG. 7. Individuo veduto da uno dei capi a quattro lobi. » 8. Lo slesso, veduto da uno dei lati. « 9. Altro individuo che lascia vedere anche i lobi della faccia opposta all'osser- vatore. Staiirastruin Iniriratum N. FiG. 10. Individuo fresco, veduto da una delle faccie terminali col globolo di fecola e le lamine dorotillari distinte. » 11 Altro fresco, veduto da uno dei lati. » 12. Altro vuoto ed affralito coll'endocroma che pare siasi trasformalo in due zigospore. ai»(;tore j. b. dei-ponte. lè' FiG. 13. Altro individuo vuoto, chi- presenta ancor esso un globolo verde della slessa natura. » 14. Altro individuo vnolo, veduto da una delle l'accie terminali molto ingrandito. » 15. Altro individuo vuoto molto più ingrandito, veduto da uno dei lati, che lascia vedere in iscorcio tulli i lobi delle valve, n 16. Altro individuo, veduto da uno dei lati in diversa giacitura. •> 17. Individui accoppiati colla zigospora in corso di sviluppo. « IS. Individuo coi lobi rimossi. .1 19. Una delle valve, veduta dalla faccia eommessurale. » 20. Altro individuo vuoto. » 21. Un lobo più ingrandito. Stcmrafttriim Candiamim N. FiG. 22. Individuo veduto da uno dei capi per mettere in vista la (orina e la giacitura dei lobetti. ' » 23. Altro veduto da uno dei lati, le cui valve offrono sei lobi in ciascuno degli emicitii. » 24. Altro individuo nella stessa giacitura, con uno degli angoli in iscorcio dalla parte dell'osservatore. S/fti/rastrum tetracervm. Ralfs. FiG. 25. Individuo veduto da uno dei capi. » 26. Altro veduto da una delle faccie che lascia vedere i due lobi, non più direttamente sovrapposti l'uno all'altro. » 27. Altro individuo vedulo da uno dei lati , ma colle due metà d'una valva, ri- piegate luna sull'altra. » 28. Individuo veduto da uno dei lati a due raggi per ogni valva, ripiegali dal basso in alto. Sto ìira strimi pi/nsì/m Bréb. FiG. 29. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 30. Lo stesso, veduto da uno dei lati. Stanrasirum hirsutnm Ralfs. FiG. 31. Individuo veduto da una delle l'accie terminali. » 32. Lo slesso, veduto da uno dei lati. Statirastì'um ptmctvìalum Bréb. FiG. 33. Individuo veduto da una delle l'accie. » 34. Altro vedulo da uno dei lati. Serie II. Tom. XXX. v 162 SPECIMEN DESMIDIACEARUM StJBAI.PlN ARUM Fio. 35. Allro affralito, veduto da uno dei capi. » 36. -Vitro individuo, veduto da uno dei lati. » 37. Altro individuo un poco più piccolo, veduto da una delle faccie terminali. » 38. Altro individuo alquanto più grosso del precedente. SlaiirdsLnmi altermms Bréb. Fio. 39. Individuo fresco, veduto da una delle faccie terminali. » 40. Lo stesso da uno dei lati. » 41. Lo stesso da uno dei lati in diversa giacitura. » 42. Individuo più piccolo veduto da uno dei capi. » 43. Sporangio colle valve vuole dei due individui che gli hanno dato origine. » 44. Individuo veduto da una delle faccie terminali a ([ualtro lobi. » 45, Valva vuota dello slesso, veduta dalla faccia commessurale. » 46. Altro individuo più piccolo a cinque lobi. » 47. Individuo fresco veduto da uno dei lati. Staurastrum tricorne Bréb. FiG. 48. Individuo fresco, veduto da una delle facci(! terminali. » 49. Altro, veduto da uno dei lati. » 50. Altro vuoto, veduto da una delle faccie commessurali. Stcmrastrum muricatum Bréb. FiG. 51. Individuo veduto da una delle faccie terminali. » 52. Lo stesso, veduto da uno dei lati. Stmirastrum conlortum N. Fiu. 53. Individuo veduto da una deile faccie. » 54. Altro veduto da uno dei lati molto più piccolo. » 55. Una delle estremità molto ingrandita. Skmrafitriim lìolymoìyhnm Bréb. Fio. 56. Individuo veduto da una delle faccie t(!rminali. » 57. Altro, coi lolii cortissimi, veduto da uno dei lati. >i 58. a quattro lobi, veduto da una delle faccie terminali. » 59. veduto da uno dei lati. » 60. Altro individuo veduto da uno d(M lati. " 61. Individuo a cinque lobi, veduto da una delle faccie terminali. » 62. Altro, coi lobi cortissimi, veduto da uno dei lati. AUCTORE J. B. DELPONTE. l63 Staurastrnm paradoxum Mayer. Flc. 63. Individuo veduto da una dello faccie terminali. » 64. Altro veduto da uno dei lati. » 65. veduto da uno dei lati , più ijrosso. Tavola \ll. Staurafitrum crenulatum Nagel. FiG. 1- Individuo a cin(|ue lohi. n 2. Altro a quattro lobi. » ,3. veduto da uno dei lati. » 4. Una delle estremità della figura precedente molto ingraiulila. » 5. Individuo veduto da una delle faccie terminali, con uno dei lobi in corso di sviluppo. » 6. veduto da uno dei lati. .. 7. Individuo a (|uallr() lobi , veduto da una delle faccie terminali. » 8. Altro, veduto da uno dei lati. » cj_ sdoppiato , veduto da una delle faccie colle valve nuove a termine di sviluppo. » 10. a tre lobi. „ \ I sdoppiato , coi lobi nuovi non ancora a termine di sviluppo. Slaurastrum gracile Ralfs. FiG. 12. Individuo veduto da uno dei capi. » 13. Altro a ([uattro lobi, veduto da uno dei capi. » 14. Altro individuo più piccolo coi lobi un po' storti. „ 15. veduto da una delle faccie con uno dei lobi mollo giovani. » 16. Valva di un altro individuo, veduta dalla faccia commessurale , con tre semi-cerchi corrispondenti all'altaccalura dei lobi. » 17. Altro individuo veduto da una delle faccie con tre spine alla sommità. „ 18. veduto da uno dei capi coi lobi delle valve un po' storti ed accavalciali. » 19. Valva veduta per la faccia commessurale con Ire semi-cerchi che corri- spondono all'inserzione dei lobi mollo ingranditi. » 20. Individuo veduto da uno dei lati. » 21. Un' estremità molto ingrandita per mostrare la disposizione delle spine. Slaurastrum avicula Ralfs. FiG. 22. Individuo a sei lobi, veduto da una delle faccie terminali. » 23. Altro veduto da uno dei lati. FlG. 30. » 31. » 32. 0 33. » U. n 35. l(j^ .SPECIMEN UESMIDIAC EARUM .SUBA,I>P1.NAKUM FlG. 24. Un eslremilà mollo ingrandita. » -25. Individuo in corso di sdoppiamenlo , coli*' xahc nuove non ancora a lermino di sviliiijpo. 1. 2(). Due individui mollo giovani dentro ad una i:uaina, provenienli da zigospora. » 27. Individuo in corso di sdoppiamento irregolare, coi due lobi nuovi allargali in un sacco, e munili di due nuclei. » 28. Una valva vuota, vista dalla faccia coniTuessurale. » 29. Individuo vuoto per far vedere le doppie linee di globelti che girano attorno ai lobi delle valve Stanrastrum oblongum N. Individuo veduto da una delle l'accie terminali. Altro, veduto da uno dei lati. vuoto, veduto da uno dei lati. fresco, veduto da una delle l'accie terminali. veduto da uno dei lati. — — veduto da una delle ('accie terminali. Stanrastrum, pileatvm N. Fkì. 36. Individuo veduto da uno dei lati. » 37. Estremità della medesima più ingrandita. » 38. Valva vuota , veduta dalla faccia commessurale. Staurastram ventì^cosnm, .N. Fio. 39. individuo veduto da una delle faccie terminali. r iO. Altro, veduto da uno dei lati. » 41. veduto da una delle estremità. Staurastrum scorpioideum iN. Fu;. 42. Individuo veduto da uno dei lati. • 43. Altro individuo, veduto da una delle l'accie terminali. » 44. Individuo, veduto da una delle faccie commessurali. .. 45. Individuo mollo ingrandito. Staurtixlrvm vesti tìiin Ralfs. Fu;. 46. Individuo veduto da una delle faccie. 11 47. Altro, veduto da uno dei lati. » 48. Valva vuota, veduta da una delle faccie commessurali » 49. La stessa, veduta dalla faccia opposta. AUOORE J. li. DELPO^TE. 1 65 Tavola XIII. Staurastrum Notarisii N. FiG. 1, Individuo vodiilo da una delle faccie terminali. » ì. Lo stesso, veduto da uno dei lali. Staurastrum aculeatum Menegh. Fio. .3. Individuo veduto da una delie faccie. » ì. Altro fresco coH'endocroma costituito da grossi globoli di clorofilla che non lasciano vedere né il nucleo né le lamine. » 5. vuoto coi lati vestiti di spine cilindriche , bifide alla sommità. Staurastrum Maiifeldtii N. FiG. (1. Individuo fresco, veduto da una delle faccie terminali. » 7. Valva di un individuo vuoto, veduto per di sotto per mostrare la disposizione dei' tubercoli. » 8. Valva vuota di un individuo, veduta dalla faccia commessurale, tutta ingombra (li spine. » 9. Valva di un altro individuo pure veduta dalla faccia commessurale, senza le spine. » 10. Individuo veduto da uno dei lati, coi ilue ca])i sormontali da laminelte. » II. Altro, veduto da uno dei lati. » 12. veduto da uno ilei lati, più piccolo. >i 13. Lo slesso, con uno dei lobi non ancora giunto a termine di sviluppo, e colle spine del dorso più ingrandite, per mostrare quelle poste sugli angoli più lunghe delle altre. » 14. Allro individuo più grosso in corso di sdoppiamento. » lo. Individuo in corso di sdoppiamento , con uno dei lobi non ancora a termine di sviluppo. " 16. Spine del dorso cuneiformi, bifide o Irifide niollo ingrandite. » 17. Un'estremità mollo ingrandita, provveduta di due spine. » 18. Altra estremità molto ingrandita, fornita di tre spine. 11 19. Individuo anomalo, eoo un lobo da (piatirò raggi ed un altro solamente di tre, ma dui' volle più lunghi. Xanthidiurii fasciculatum Ehr. Fic. 20. individuo ili mole straordinaria. » 21. Lo stesso, da uno dei lati. » 22. Individuo più piccolo in corso di sdoppiamento. |66 SPECIMEN DESMIDIAfiEARUM SUBALPINARUM FiG. 23. Allro indiviiluo pure in corso di sdoppiaraenlo più avanzalo. .1 25. Un niiv.zo individuo sdopiìialo di IVosfo, colle spine dol lobo nuovo allo slato rudimentale. » 25. Individuo vuoto, notevole per la direzione mollo obliqua, e per l'incurva- mento delle spine, notevole ancora per gli sporgimenli della parete appena distinti sotto forma di un cerchio più scuro. » 26. Altro avvolto da una guaina mucosa, probabilmente non ancora a termine di svilup|)o. Tavola XIV. Xantlìidmm cristahim Bréb. FiG. I. Individuo |)r()Vveiiuto di guaina. » 2. Altro individuo, veduto da uno dei lati. » 3. Individuo vuoto per mettere in vista il disco dei bilorzolelti che occupa il mezzo delle due faccie. n 4. Altro in corso di sdoppiamento, coi lobi nuovi prossimi a raggiungere il termine del loro accrescimento. » 5. veduto da uno dei capi , dentro al ([uale scorgonsi i nuclei, le lamine clorofillari disgiunte da uno spazio trasparente. « 6. veduto da uno dei lati , le due masse scure corrispondono ai due nuclei a cui stanno appoggiale le lamine clorotillari scilo forma di archi. Sulle faccie esterne si scorgono ancora distintamente due sporgimenli 0 bernoccoli semitondi, recinti da una corona di bilorzolelti, di mezzo ai quali esce una i)a[)illa trasparente. » 7. La corona dei bilorzoletli , (! lo sporgimento predetto molto ingranditi. » 8. Una metà o valva di un altro individuo, veduto dalla faccia commessurale. » 9. Allro individuo provveduto di guaina mucosa, veduto da uno dei lati. » IO. Estremità di un lobo molto ingrandita, la quale dimostra che il sacco interno non s'innoltra dentro alla cavità delle spine. » 11. Altro individuo veduto da uno dei lati, coll'endocroma spartilo in due strati da una linea trasparente. » 12. Varietà insigne, o specie nuova coi lobi quasi emisferici e le due faccie nude, ossia munite di spine corte e coniche; parete punteggiala. Xanthidium convergens N. Fio. 13. Individuo fresco e rigoglioso. » 14. Individuo giovane ancora mancante di spine, colla guaina in corso di sviluppo. » 15. Individuo più piccolo in corso di sdoppiamento. » 16. Lo slesso individuo veduto da uno dei capi, vale a dire diritto sulle spine. AUCTORE J. B. DF.1-P0^TE. '67 FiG. 17. Altro iiuliviùuo in corso ili sdoppiamenlo alquanU. più grande del primo e più avanzalo. 1. 18. Allro individuo di grossa mole col lobo piovane perIVUo, ma privo di spine, dentro a una guaina. » 19. Un mezzo individuo in corso di sdoppiamento, col lobo vecchio della gran- dezza del precedente. Attorno al nucleo si scorge la clorolìUa che comincia a raggrupparsi per formare le lamine. . 20. Individuo di piccola mole, veduto da uno dei capi, vale a dire diritto sulla valva opposta. .. 21. Altro sdoppiato di Tresco col lobo giovane, mancante di spine. » 22. Zigospora accompagnata dalle valve vuote degli individui che le hanno dato origine, provvedute della spina terminale. » 23. Zigospora proveniente da individui mancanti di spine. Didimodadon fì/rcigerum Raifs. Fio. 24. Individuo veduto da una delle faccie primarie, il quale lascia vedere i due lobi soprapposli, uno dei quali, vale a dire l'esterno, più piccolo. « 2o. Lo stesso, veduto da uno dei lati. » 26. Allro individuo vuoto, veduto da uno dei lati, diritto sui lobi di mezzo della faccia opposta. » 27. Allrn individuo veduto ancor esso da uno dei lati in diversa giacitura. Penium Brebissonil Ralfs. FiG. 28. Individuo in corso di moltiplicazione. » 29. Due individui accoppiati. » 30. Individui accoppiati con zigospora, che occupa soltanto i lobi d'un individuo. » 31. Altro più piccolo, che lascia vedere le lamine clorofillari ed i nuclei. ,, 32, in corso di moltiplicazione coU'endocroma spezzalo in quattro masse, disposizione che probabilmente precede l'alto di moltiplicazione per isdoppiamenlo. -> 33. accoppialo con zigospora. » 34. Due individui accoppiati. » 35. Individuo fresco, |»iù piccolo ancora dei precedenti. » 36. Due individui muniti di guaina. Tavola XV. Penium interrujHum Bréb. F[G. I. Individuo fresco e vegeto. » 2. Taglio trasversale dello stesso con olio lamine di clorofilla. l68 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI.PINARUM Fifi. 3. Altro individuo fresco e vegeto più piccolo. >. 4. Ta;;lin Irnsvcrsalo dello stesso con dieci Inuline Hi clorotilla. » [ì. Altro individuo più piccolo. ). 6. Individuo coH'endocroma non ancora spartilo. » 7. Altro individuo più avanzato coH'endocroma diviso in (piatirò parli presso a poco uguali. » 8. Altro individuo con una eslremilà sdoppiala di fresco, e non ancora giunto a termine di sviluppo. » 9. Individuo giovane proveniente da sdoppiamento- Pevìvm f/racile N.? Fio. io. Individuo notevole |»cr le lamine mollo frastagliale, e perché straordinaria- mente lungo, rispetto alla grossezza. Peniwn (amell.osum Bréb. Fro. 11. Individuo fresco. » 12. Taglio trasversale per mostrare la struttura (lell'cndocroma. » 13. Individuo fresco. • 14. Altro, ancor esso notevole per la lunghezza rispetto alla grossezza, e per l'cn- docroma formalo d'una sola lamina di clorofilla. » 15. Individuo fresco molto più grosso. » 16. Due individui muniti di guaina. » 17. Individuo piccolo coH'endocroma allo stalo nascente. » 18. Altro, notevole per la sua lunghezza, e perchè ristretto nel mezzo. Penivm clnsterioides Ralfs. FiG. 19. Individuo piccolo, in cui non vedemmo le vescichette dei corpuscoli tre- pidanti nelle due eslremilà. » 20-21. Individui vuoti di diversa dimensione. » 22. Individuo di statura mediocre a termine di sviluppo. » 23. Altro individuo più grande coH'endocroma che ofl'rc nella parte media un diradamento, dove prohahilinenle avrà luogo lo sparliincnlo della cellula. » 24. in corso di moltiplicazione. •• 25. di grossezza mediocre a termine di sviluppo. Pciiinm Raìfsit KiJrz. FiG. 26. Individuo fresco. » 28. Individuo vuoto. au«:tore j. b. delpokte. i(J9 Penium cylindrus Bréb. FiG. 29. Individuo fresco a lorminc di sviluppo, coli'endocroma ridoUo a due masse di clorofilla. » 30. Altro vuoto più grande. » 31. con uno dei lobi in corso di sviluppo. „ 32. che lascia vedere le lamine di clorofilla con nucleoli di fecola soprapposli- » 33. veduto da uno dei capi. Penium jnisi/fvm N. FiG. 34. Individuo veduto da una delle faccie. » 35. Lo stesso, da uno dei capi. i> 36. Lo stesso, ingrandito il doppio. Penium truncalum, Bréb. FiG. 37. Individuo coli'endocroma cancellalo. » 38. Altro vuoto. » 39. Altro individuo piii piccolo. Penium oblongiim De-B\ry. FiG. 40 e 4'2. Individui coli'endocroma alterato, n 41. Individuo vuoto. Penium margaritaceum, Bréb. FiG. 43. Individuo fresco con uno dei lobi rigonfio nel mezzo, in corso di sdoppiamento. In questo individuo le aiuole dei corpuscoli trepidanti sono molto dense e tali da parere Jan li nuclei di fecola. ». 44. Lo stesso, vuoto. n 45. Individuo fresco più grande. » 46. Altro in corso di sdoppiamento. » 47. vuoto. » 48. Individuo in corso di moltiplicazione, colle valve mancanti di clorofilla. » 49. Altro individuo fresco. » 50. Individuo vuoto, un po' strangolato nel mezzo, con linee trasversali che segnano i tratti di separazione nell'atto dello sdoppiamento. Penium digitus Bréb. FiG. 51. Individuo fresco e regeto, colla materia che lascia travedere le lamine clo- rofillari, ma confuse. B 52. Altro vuoto più piccolo. Serie IL Tom. XXX. ^ jijO SPECIMEN DESMIDIACEARUAI SUBALPINARUM Telmemorus Brebisftotiu Ralfs. FjG. 53. Individuo vuoto, veduto da una delle faccie, colla parete granolata. » o4. Lo slesso, veduto dalla faccia opposta. Teimemorus granu/aliis Ralfs. FiG. 55. Individuo vuoto che presenta le intaccature da uno dei capi. » 56. Lo slesso, veduto da uno dei lati. TaTola \\l. Closteritmi Lunula Ehr. Fu;. 1. Individuo fresco. » 2. Altro individuo più piccolo. » 3. Altro individuo affralito con una delle valve mancante d'invoglio esterno. Cìoiilerimn acerosnm Ehr. Fio. 4. Individuo fresco e vigoroso. » 5. Altro individuo più lungo e più stretto. » 6. Altro individuo di grossezza media. » 7. Altro individuo più grosso e notevolmente più corto, n 8. Altro individuo più piccolo. » 9. Altro in corso di sdoppiamento. » <0. Altro in corso di moltiplicazione. » 11. Un mezzo individuo in corso di sviluppo. .1 12. Individuo vuoto, a parete sottilmente striala. B 13. Una delle estremità molto ingrandita per mostrare il lobo ristretto alia sommità col sacco interno troncato. Closterium Ens/'s N. Individuo fresco e vegeto. .Miro individuo. Altro individuo. Estremila molto ingrandita. Closteriuin Ehrenberrjù'. Menegh. FiG. 18. Individuo fresco e vegeto. » 19 e 20. Altri individui di diverse dimensioni, che lasciano vedere le laminette e i nuclei sparsi. Fin. 14. )) 15. i> 16. » 17. AUCTORE J. B. DELPOlNTE. I^I Closteriinn monitiferum Bari. Fio. 21. Individuo fresco e vigoroso. » 22. Allro più piccolo. » 23. Altro ancora più piccolo. Closterinm turgidum Ehr. Fir,. 2i. Individuo fresco, con uno dei lobi munito della parete più sottile, perchè nato di fresco da sdoppiamento. » 25. Allro vuoto. » 26. Altro vuoto più grande. » 27 e 28. Estremità più ingrandita. » 29 e 30. Parte di mezzo colle suture. Tarola XVII. Closterium Leibleinii Kdtz. FiG. 1. Individuo fresco. » 2. Altro individuo. » 3 e 4. Individui appiccali per una delle estremità. » 5. Individuo vuoto. » fi. Una delle estremità più ingrandita. Closterium Candianvm N. FiG. 7. Individuo fresco. » 8. Altro individuo. » 9. Individuo vuoto. » 10. Una delle estremità mollo ingrandita. Closleriuin juncidum Ralfs. FiG. 11. Individuo fresco. » 12. Altro individuo. » 13. Individuo vuoto. , » 1 i. Estremità ingrandita. » 15, 16, 17 e 18. Individui differenti nel diametro e nella lunghezza. » 19. Estremità più ingrandita. » 20 e 21. Parte media di due individui per mettere in vista le suture. Closterium incntnmm Bréb. FiG. 22. Individuo fresco. » 23, 24 e 25. Individui di diversa dimensione. I'j2 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM FiG. 26. Individui accoppiali colla zigospora, di forma tonda. » 27. Altri individui accoppiati collo sporangio in corso di sviluppo. Clofiteiiam lineatHm. Ehr. FiG. 28. Individuo fresco quasi diritto. » 29. .\ltro individuo vuoto, colla parete minulamenle striala, leggermente curvalo alle due estremità. » 30. Altro individuo più curvo di quello indicalo dalla fig. 28. C/oftteriinn didi/mocotum Corda. FiG. 31. Individuo fresco colle laminetle di clorofilla (juasi paralelle. • 32. Altro fresco colle lamine scompigliale. « 33. Altro individuo. » 34. Altro con uno dei lobi vuoti, provveduto nel mezzo di otto suture. » 35. vuoto, diviso in quattro parli. » 36. vuoto, diviso in tre parti. » 37. Estremità mollo ingrandita. Cloftierium, slinolatum Ehr. Fio. 38 e 39. Individui di diversa dimensione, con una delle valve vuota. » 40. Altro individuo vuoto. Closlei'ium setaceum Ehr. Fig. 41. Individuo fresco. » 42. Altro individuo. » 43. Individui appiccati per una delle estremità. » 44. Altri due individui appiccali allo slesso modo. Closterium Dmnae Ehr. Fig. 45, 46, 47 e 48. Individui di diversa dimensione, con una o più lamine di clorotìlla e globoli di fecola disposti in una serie sola. » 49 e 50. Individui più piccoli mancanti di globoli di fecola. >' 'il. Estremila più ingrandita. Clnsteritnn Jeaneri. Ralfs. Fic. 52. Individuo vuoto. » 53. Altro individuo fresco, che lascia vedere le lamine di clorofilla. AUCTORE J. li. DELPONTE. Iy> Closteriimi (iraiolinn Bréb. FiG. 54-oo-;i6-o7. Individui freschi, dilTerenli di lunghezza e di diametro, parie dei quali con lamine di clorolìlla e globoli di fecola disposti in una serie sola. » 08. Individuo vuoto colla parete liscia. n o9. Estremità mollo inprandila, che lascia vedere l'apparenza di un foro ancorché non v'abbia soluzione di continuità nella parete. Closteriìim rnaci/ciìdirn Biiéb. Fio. 60. ln 61. Altro vuoto. » 62. Altro individuo fresco, mollo più corto del precedente. C/oMp riunì rnsiralinn Ehr. FiG. 63. Individuo fresco. » 64. Altro individuo fresco, più piccolo. » 65. Individuo vuoto, con una delle metà mollo più corta. » 06. Individui accoppiati colla zigospora a termine di sviluppo. » 67. Zigospora di due individui più piccoli. » 68. Zigospora trovala isolala dagli individui da cui ebbe origine. Ankistrofìesmus falcahis Ralks. FiG. 69 e 70. Individui freschi, colle due metà leggermente curvate in direzione contraria, di diversa dimensione. » 71. Individuo vuoto più piccolo. .) 72. Altro individuo fresco e diritto. » 73. Altro individuo mollo più piccolo, quasi diritto. » 74. Lo slesso , vuoto. » 75. Altro individuo aurora più piccolo degli anzidelli. TaTola \Sn\. Closlerium decnrurn Brkb. Y\r,. 1. Individuo fresco. » 2. Altro vuoto. ir A SPE(:IME^ desmidiacearum subalpikarum Closlcrlum .sirif/osi/m Bréb. Fu;. 3. Individuo fn-sco. I) 4. Altro individuo più |)ic(;olo. » 5. Individuo con più suture. (Uoslcriioii Ili nido N. FiG. 6. Individuo a tcnniuc di sviluppo. » 7. Altro fresco colle lascie reticolate. » 8. Individuo di forma alcjuanlo diversa da quello accennalo dalla lig- 6, coi globoli di fecola piii ravvicinati. Cìnsteriitm pradon/jiiw Bréb. Ftc. 9. Individuo tresco, con due lamine di clorolilla e globuli di fecola disposti in una serie sola. » 10. Altro vuoto con una delle metà sottilmente striala " 11. l'na delle estremità ingrandita. Closterium refractum N. Fu;. 12. Individuo fresco. » 13. Altro vuoto. » 14. Fslremità ingrandita. Closterinm. capillare N. FiG. I.j. Individuo fresco. » 16. Altro individuo. ■ 17 e 18. Altri individui vuoti di diversa dimensione. » 19. Un'estremità molto ingrandita. CÌOHlerimn Èrebi f^f^onìi N. FiG. 20. Individuo fresco. » 21. Altro individuo vuoto. Closterium crassum N. FiG. 22. Individuo fresco, con una delle due metà spogliala del cilioderma e priva di lamine clorofillari. » 23. Altro indiriduo fresco, colle lamine clorolillari disposte a scacchiere. ■ 24. Altro individuo, pure con una delle valve priva del cilioderma, per mellere in vista la disposizione de' fascetti clorofillari. AUCTORE J. B. DEI.PONTE. 175 FiG. 2:j. Individuo vuolo, nolevolmenle più grosso e più corto dogli allri or dianzi accennali. » 26 e 27. Altri individui vuoti, notevoli per le dilVerenze che olirono in diametro e in lunghezza. » 28. Metà di un individuo sdoppiato col lobo nuovo nascente. » 29. Una delle estremità molto ingrandita. » 30. Parte mediana dell'individuo contrassegnato dal n. 2o, per mettere in vista gl'interrompimenli o suture. C/oster/inn com/>l((»fif/nii N. FiG. 31. Individuo fresco, con due lamine ili clorolilla, veduto da una delle faccie. » 32. Lo stesso, veduto da uno dei lati » 33. Individuo vuolo. Closterium flaceidiiìn N. FiG. 34. Individuo fresco che olire una sola lamina di clorofilla, con noccioli soprapposli. » 35. Altro individuo colla stessa disposizione dell'endocroma, ma più piccolo. » 36. Altro individuo mancanle in apparenza di nuclei, più piccolo. C/o.s/i' fi I/Ili hieiit'fdluni iN. Fio. 37. Individuo fresco. » 38. Altro vuoto più lungo. » 39. Una delle estremità molto ingrandita. C/osterinm Venus Rali's. Fio. 40. Individuo fresco. » 41. Lo stesso molto ingrandito. Plciiroldeniurti Trahcccìihi N. Fio. 42. Individuo fresco. » 43. Altro in corso di moltiplicazione. „ 44 in corso di sdoppiamento, coi lobi nuovi quasi a termine di sviluppo. „ 45. in corso di moltiplicazione, colle valve nuove ancora coperte dalie vecchie. » 46. Sacco proveniente da sporangio , pieno di nuovi individui a diverso periodo di sviluppo. » 47. Individuo a parte, proveniente probabilmente dal sacco anzidetto, giacche trovato in vicinanza. » 48 e 49. Parli estreme di due individui, ancora congiunte alle vecchie. 1^6 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINAUUM Pìenrolaenium fnnìumiiìii N. Fio. oO. Individuo Cresco. » 51. Altro vuoto, collo due eslreinilà staccati' |)or far vedere l'orlo ripiegalo allint'uori. TaTola \\\. l'Ieìirotdcniìnn nnduìo.sìiiii Di>Barv. FiG. 1. Individuo fresco. » 2. Altro individuo mancante di endocronia, per mettere in \ista la parete pun- teggiala. » 3. Altro individuo con uno dei lobi in corso di sviluppo. » 4. Individuo vuoto colla parete liscia. » 5. Altro individuo mollo più piccolo. » 6. Una delle valve vuota molto ingrandita, per dare a conoscere gli ondula- menti della parete ed i calli delle estremità. PleuroUienJum Iriincalìon N.ìgei.. Fk;. 7. Individuo fresco, con uno dei lobi al(|uanlo più corto. » 8. Altro vuoto colla parete liscia. » 9. Altro individuo vuoto colia parete punteggiata, e visibilmente ristrelta dal basso in alto. » 10. Altro individuo fresco coi due lobi eguali. » M. Individuo in corso di sdoppiamento, col lobo giovane ancora di forma globosa. Pìeìii'olaeiiiimi Caìidianum N. FiG. 12. Individuo fresco a termine di sviluppo, con uno dei lobi alquanto più lungo. » 13. Altro individuo fresco, ma anomalo per 1' ingrossamento sensibile dei lobi dal basso in alto, a cominciare dalla sutura, forse perchè non ancora giunto a termine di sviluppo. » 14. Altro individuo vuoto a termine di sviluppo, coi lobi eguali nelle loro di- mensioni. » 15. Altro individuo in corso di sdoppiamento. » 16. Una delle valve che lascia vedere lo stringimento circolare al di sotto della sutura. AUCTORE .1. B. nELPOKTE. inn Tavola W. Plenrolaeni.um Ehrenbergn N. FiG. I Individuo tresco, con lamini' di clnrotilla p con noccioli sparsi, colle valve abilualmentc slorlc. » ì. Allro vuoto, colla parete sparsa di punii minutissimi. » 3. Altro vuoto , colla parete liscia. " 4. Due individui [irovenienli da sdoppiamento, ancora appiccati per un trailo del vecchio da cui hanno avuto origine, uno dei (}nali. ossia il vuoto, olire alle estremila dei tratti lineari. » 8-6-7. Frammenti d'individui piii ingranditi per mostrare gli orli della com- mellilura poco d niente rilevali, le aiuole dei corpuscoli trepidanti e i ripiegamenti lerniinali del sacco interno. P/fii idlacnìii'ìii redìmi N. FlG. 8. Individuo Tresco a lermini' di sviluppo, coi due lobi eguali e cilindrici al mezzo alle due estremità. » 0. Altro Iresco, coi due lobi pressoché eguali, più piccolo del precedente » 10. Altro individuo ancora più piccolo, coi due lobi alquanto disuguali. » ti. Individuo vuoto colla parete liscia. Vlcìirnldenhiìiì Bacu/um N. FiG. 12. Individuo tresco. D 13. Allro individuo più [liccolo. " 14. Allro individuo ancor più piccolo del precedente. » lo. Allro vuoto d'una lunghezza straordinaria. » 16. Una valva a parte piii ingrandita. Pleiirolaenivm, mhmtum N. FiG. 17. Individuo tresco d'una lunghezza non comune. » 18. Altro individuo più piccolo quasi della metà del precedente. » 19. .\llro ancora più piccolo di quest'ultimo. » 20. l'na valva a parte più ingrandita. » 21. Individuo piccolissimo vuoto. Spii'OLaenia revUapi ra N. Fic. l'i. Individuo fresco, colle lascie un pò" storte non incrociale. Spirotaeniu (irandis N. FiG. 23. Individuo fresco, colle fascie che s'attraversano a spira le une colle altre. Serie H. Tom. X\X. ir 1^8 SPECIMEN DESMlDIAf.EARL'M SUBALPINARUM Spiroldenia olj.sciira Kalfs. FiG. 24. Iiiilividuo Iresco, elle olire le lamine disposte a spira . ehe si allraversano a vicenda. » 25 Miro individuo più piccolo dentro ad una fruaina. S/)/ri>/(ii'./i.ia coiìdensuld Brkb. Fio. 26. Individuo Iresco ad una sola benda grande e rej;,olannenle avvolta a spira da riempiere tutta la cavità della cellula. Tavola \\\. Dis]>liiiiìliìim tiifciidiim .\. FiG. I. individuo tresco che lascia vedere le lamine a cui stanno sovrapposti dei noccioli di fecola a un dipresso rome nelle Spirogire. » 2. Lo slesso individuo, vedalo da uno dei lati, coirendocroma di clorotìlla gra- nulala informe. i> 3. Valva di un individuo all'ralilo, colle lamine di ciorolilla scomposte. » 4. -Vitro individuo più grande colia parete punteggiata. » 5. Individuo in corso di sdoppiamento, con uno dei lobi più corto e più grosso. » H. Individuo veduto da una delle cominetlilure dei lobi. Dìspkyntitim subroluiulKiii N. FiG. 7. Individuo all'ralilo, coll'endocroma raggrinzato in due masse dentro ad uno dei lobi. » 8. .\ltro affralito ilie olire i bitorzoli della lorica, disposti in serie circolari. Disp}iyn.tiuiih iji-ainh. N. FiG. i). Individuo vuoto colla parete punteggiala. Disphyntinm lefisellaliirti N. Fio. IO. Individuo fresco che olire le lamine clorolillari e i noccioli di fecola^ » M. .Miro individuo coirendocroma tl'nn verde scuro, in parie alteralo. » 12. Una delle valve, veduta dalla parie dell'anello commessurale. « 13. Individuo vuolo, con uno dei lobi rimasto imperfetto. D/sphi/iitium elli ptifum N. Fio. I 4. Individuo vuoto in parte liscio. AUrrroRE I. B. riEI.POME. '79 ORDINAMENTO METODICO DELLE SPECIE DEL OENEEE COMIII.% Kit .^ . Un solo globolo di fecola Coorte 1' a verlice \ hioculatum appianato l Meneghini lobi regolari triedri { [ '-oiislnclum \ (jrdnalum a verlicp ' allaiitkuideum promineiit<; , srenede.smus parck' liscia ^ / crenalum 1 orloijonwn 1 Clepsylra l()i)i regolari diedri ' minuluin I iiioniiirùriue ... I • ,• 1 ■ \ iiìimilifmme parete i lobi regolari diedri . ^ orhlclalum punteggiala ' 0 granolala | |o|,i regolari triedri \ «««■^'' ""^f Coorte 2- lisci / lobi regolari triedri punteggiati Due globoli di fecola granulati depressi . prominenti . l prominenti . depressi . . depressi . . . prominenti . Lundellii Nonlsledlii aexangiilare puììduralum 1 leirucnììllìum } Candianum I aimulalum l rilipticvm ì latìcolhim I erosvm . delioideum l Bolnjlix Tiirpinii I Broomei / inlermedimn \ lelropltllialmiim margariliferum anomalum Brebissonii lobi irregolari diedri roniialum. i8o SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBAI-PINARUM Coorte 3" Nessun globolo di ferola i anceps ' fHjramidatum I orale ORDINAMENTO METODICO DELLE SPECIE DEL GENERE «T A IR tSTKI IW . Coorte 1« senza spine Parete liscia / spine sollanlo all'eslreniilà dei lobi I lobi semplici lobi roniposli ed Ja. Quindi, allorché si vuole valutare una lunghezza delle figure, si piende (piesta col compasso, e si porta sulla scala in modo che una delle punte scorra sopra una delle lince verticali , che Irovansi a destra della retta .-/i». finché l'altra punta, che trovasi a sinistra della medesima, coincida coli' intersezione di una delle 10 linee inclinale con una delle 10 orizzontali. Le divisioni che si avranno a destra di JB saranno decimi di millimetro; (|uelle a sinistra, i centesimi; e quelle comprese fra Ja e JO, i millesimi. La II» scala si riferisce alle figure disegnate coli' iugrandinieuto di iKi:!. Allìnchc la scala potesse essere contenuta nella tavola, essa venne limitata a mezzo millimetro; la lunghezza AB ne rappresenta quindi i cinque decimi; ed essendo divisa in 5 parti uguali , ciascuna di queste parti rappresenterà un decimo di millimetro. La porzione JC. che rappresenta un decimo di millimetro, è divisa in 10 parti; ciascuna delle quali rappresenta un centesimo di millimetro. I millesimi di millimetro sono rappresentati dalle porzioni delle rette orizzontali comprese fra le rette AD ed Aa. Per l'uso di questa scala si iiroceile nello stesso modo che si è spiegato per la prima (vedi Tavola XXII). AUC10RF. F. B. DELPONTF,. t83 INDICE DEI GENERI E DELLE SPECIE DESCRITTE Ankitlrodrsnini falcatus R.alfs . Pofi. 238 <:io8ieriiiin sfitaceiim Ehr. . . Pag. 201 Apiogoniiiii Baylei Rai.fs . )) 62 strigosum Brér. » 204 Desmidium R.u.fs . » 61 striolatum Ehr. )) 213 diagoniim .\. . . » 6'» tnrgiduni Ehr. . . » 209 tetr.igoniim A. . . » 63 venus R.U.F.S . . . .. 198 ■auibusina Borierì Cleve . . » :a Cosniarliini anceps .\. . . » 128 Cloelrrium arerosiim Ehr. . . )> 193 anniiiatom N. II 114 aiciialum Bréb. . )) 202 aiiomalum A. . . .) 125 biciicvatum N. . . >. 208 atlantlioideum i\. . » 101 flroliissonii .\. . . » 207 hioculalum Brér. . .. 97 r.andianum i\. . f> 210 Rotrylis Menegh. » 118 capillare X. . . . » 206 Brebissonii Mene(;h. >» 126 complanatum N. 1) 208 Broomei Ralfs . . » 120 crassum >. . . . n 217 Caiidianum .\. . . )} 113 decorum BnÉn. . . ù 203 Clepsydra .\. . . )) 104 Dianae Ehr. . )» 195 constrictum A. . . )> 99 didymotocum Curd.'. ») 199 connatum Bréb. » 127 Ehienbergii Meneoii. .) 189 crenatum Ralfs » 102 ensis i\ n 219 (leltoideum A. . . 1) 117 flaccidiini N. . . . » 197 fillipticnni A. . . » 115 hiriido N. . . . )> 205 erosum A. » 117 inciirvum Brkiì. )l 198 euastroides A. . . )ì 108 Jeiinnri Hai.fs 11 196 granatum Bréb. » 100 iiiuciduiii Ralfs „ 211 iiilomiedium A. » 121 [^eibleinii Kut/.. . . 11 194 laticoUum A. . . » 116 liiieatiim Ehr. . . ,. 213 Luudelii A. . . .. 109 f,iii]iila Ehr. . . i> 191 niargaritiferum Mkneg 1. ■ 123 maciientiim Brkr. . rt 203 Meneghinii Bréb. . ji 98 nioniliferum Bory . f> 190 ininutnm .\. . . . )) 105 praelongum Bréb. . i> 216 moniliforme Ralfs . 1) 106 refractum S. . . . rt 216 Aordstedtii A. . . » 110 rostraliim Ehii. . . ;, 214 orbioolatnm Rat.fs . )) 107 i84 SPE'.IMKN DESMinlACEARUM SUBALPINARUM Coimariiim urtoHoiiiim .\. . Pag. lO'i Micrasierias rotala Ralfs . Pag 70 ovale Ralfs . . n 130 truncata Ralfs . . )> 77 panduratum .\. . » IH Mixolarniiiiii armillare A. . . » 50 pyramidatiim Bbéb. )1 129 prniiiin lìrebissonii Ralfs . » 184 Sceiiedesmus N. . . n 101 niosterioides Ralfs . )) 179 sexangulare Lund. 11 111 Cylindrus Bréb. )> 186 tetracanthium N. . « H2 digitus Brér. )> 182 tetrophtalmum Bréb 11 ] w interruptum Bréb. . » 175 Tiii-pinii Bréb. .. 119 laniellosum Bréb. . » 177 trigommatum N. . )> 109 Diargaritiferum Bréb • » 188 Deiinidiiiiii quadrangulare Ralfs » 60 oblongum De-Bary )i 182 Swai'lzii Ao. . . )ì 56 piisillum A. . . . « 185 Didirinorlacloii fiircigcrus Rai,fs . )} 174 Ralfsii KiJTZ. . . II 186 Dldymopriuin Grevillei KUTZ. . )) 52 truncaluni Bréb. » 181 Disphiuliiiin ellipticum A. . . » 230 Pleurolaeniun Archerii N. . . . t) 224 grande A. . . » 231 baculuni A. . . . )> 226 subrotundum N. . n 231 Elirenbergii K. . . » 228 tessellatum X. n 232 niinutiim A. . . . fl 227 turgiihim A. . » 229 nodnlosum De-Barv >1 222 Eaadrum ambiguum K. . . n 81 rectum A. . . . )> 225 ampullaceum Ralfs n 92 Trabeccula Nao. . . » 220 ansatum Ehu. » 89 triincatum Aag. . . n 223 binale Ralfs . . 11 95 Woodii A. . . . » 221 Candianum K. " 95 Spliaerozosma pnlclirum Bayl. . . II 65 niarlalinn Is'. . )ì 83 .«piniilosum N. . . n 66 didelta Turp. . » 93 Spirolaenia condensata Bréb. . )) 237 gemmatiim Bréb. )) 94 grandis A. . . . » 236 —, — intermediiim N.. . « 85 obscur.i Ralfs . . > 236 nummularium N. >* 87 rectispira A. . . . > 235 oblongum Ralfs . )) 87 Slaurasii-iini acanthoides A. . » 137 pyxitlaUim i\. . . » 91 aculeatum Menegh. » 159 Rabenhorstii N. . . 93 alternans Bréb. . . )t l'.3 Halfsii i\. . . . i) 86 avicula Ralfs » 165 spiiiulosum i\. . . n 85 Candianum A. . . » 140 SLibtetragonura N. n 84 complanatum A. 11 146 siiliìdbaium K. . . . H 91 contortum A. . . t) 152 verrucosum Ehr. » 82 crennlatum A. . . y> 164 Hjraloiheea dissiliens Ralf.s . . » 47 cuspidalum Bréu. . " 136 mujor .\ l> 49 gracile Ralfs . . . 1) 153 minor N. . . . » .50 hirsutum Ralfs . . » 1,50 Mieraslcria!i apiciilata Menegh. )> 70 iiitricatiim A. . . » 139 crenata Bréb. . . . )) 80 laniatum A. . . it 135 criix-melitensis Ehr. y> 75 Manfeldtii A. . . » ?60 decemdentata Nag. . 11 70 niuricatum Bréb. . •> 151 papillifcra Bréb. . » 74 Aotarisii A. . . • 1) 157 radiosa h\. . . 11 73 oblongum A. . . ti 166 AUCTORE J Slaaraslram orbicolare Ralfs . Pag. 37 paradoxum Meyen . Il 56 pileatum .\. . • » 71 pilosum Bhéb. . . » 59 polymorphum Bréb. . » 66 punctulatum Bréb. » 46 refractum Is. . . .. 42 robustura N. . . » 50 scorpioideum N. » 59 senticosum N. - • . » 51 teliferam Ralfs . . 52 B. DELPONTE. 1 85 siaurasironi tetracerum Ralfs Pag. 65 tricorne Bréb. ...» 49 ventricosum K. . . » 59 vestitum Ralfs . . • 62 Teimemorus Brebissonii Ralfs . » 137 granulatus Ralfs . . « 138 Xanlbidiastrnni paradoxum ^'. . ■ » 80 Xanibldiam convergens N. . . . » 76 cristatum Bréb. . . » 75 fascicuiatum Ehr. . « 72 Seeie II. Tom. XXX. l86 SPECIMEN DESMIDIACEARUM SUBALPINARUM. AUCTORE I. B. DELPONTE. ERRATA-CORRIGE ERRORI CORREZIONI Pag. 10, LiN. 18 in due lobi emisferici .. in due lobi di forma sferica • 24 » 30 e vertice utrinque turni- e vertice oblongo-elliptica e lalere cylindracea diuscula e fonie commis- utrinque tumidiuscuìa surali elliptica . 27 -. 32 Sin. Diat Syn. Diat. » 39 11 12 e attorno ad esse e attorno ad essa » 80 " 34 e come concamerato nel e come concamerato; nel mezzo dell'aiuola mezzo dell' aiuola me- mediana scorgasi diana; scorgesi Manfeld ,U<. C Kùjhi/u, Zt/ Tacùw. ZU.^JDevtìJi M,u.f..i,( ,us C- Ri^hini J,if. Tonno, Zi/ r~J)ai Ki^hmi. liJ Tcrina, l'I F'J'Dotfov. Tar.X. ''^'■Y\à^^^ Rtjlvni in Tonno, Lil. Ft'Dave Tai'.XI. sjja. v, >\ -^■'^... \\. ..Ju:.'-':'^ #■ V'A^^Wl ■^- ::^' <^ ^r--^ "%^ Riijhiitt £it Iffriiio f.it F^ Dfvfn > w Jif<*»^^--_ ^ ,^4- 1>' ì't f/, 'Jif m ^ \( r 30. 31 i -'J -c:"' £ 28 ^.r^lf' V w .-.:-i -•v^" 41 A .<.-.■■/. , A ■X \ 24. A .\ -, ^S«! '^al^;f, ^-'1»!»^.: W t:--, 7c?Kjr//. T,~ — - . -_ V i'V''"^'f^ W'/ Mtin^ei Iì,y/u„^ //< «,tóu. ii/ /:i'Jloyfn liivxiri. L,iA.L\ >JkliX,/ -:-M>^i-i ^l /.V/"^. /-/ /■*■ /)^>r„ MoLiifeld, rf<,s %/„„.. /,- Tar.W. Ma„f>;.fd. (iti Mightm hù Torino, /-li. F'!" Doven. Tai^JV/. Ma^ftU dlt. A1a.njttd dts- forine. laF'L'^Doyea.. 1^? * *1M 1 I:': ;' W'- ■■' ù u m.i. m ^àì -■'i. SI .~^ // Ik % Ma'ìfeJd diA raj.AA'. i i w a ^ ^ Manf./.Idis ByJtuii za TiTijtP. LU-f^Bfnfcj. Tay. .07. ^. Miìfìffld dix. Z. Cant'il ZU Tori^a^.Zi£/'^J}oyen . ic.\L l'pi^!.: fui.u.' .(;..c;,iialc>vlT',.uj>aii^Mil.. .Jl ÌOS-I tlf.ii.lYi.i.a.o J pLc.v' p;-. .uiilÀ Tir.Wn iimiiiHi ^'•t,>i'.xn."|.v, ù fu,u« .ii...;,i,.xi^- .viv ;i..,...,iai.u.-,.io j. 'iiii.i .n' ■,uiT,riiai.-/pu-.v pc HI i 1 1 un " U ' 1 1 W' 1 1 1 T f^ ^ T _ J ' 1 JU L A«ix ^«fl 1 1 MTft .•/w ■ X Mia r>imi«Zi/ /" y Diy (IR TaKJim .^k^ -^>jf^£x^, )!/- fe^..^ CARTA TOPOGRAFICA DEI DINTORNI del Lago di Can dia e diViverone /'«Tóùl>jishma ùuleaarìs. 7.lii.F^Doyej>^ \ INDICE GEIVERALE ED ALFABETICO DELLE MEMORIE CONTENUTE NELLA PARTE FISICO - MATEMATICA DEI TOMI \\1 A X\\ SERIE li DELLE MEMORIE DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORIIXO tSg INDICE GENERALE degli Autori delle Meinorie conlcmile nella parte Fisico- Matematica dei Tomi XXI a XXX, Serie II, delle Memorie della Reale Accademia delle Sdenze di Torino. N. B. 11 numero romano indica il Volume della Serie II. Il numero romano minore manda alla IVolizia Storica di ciascun Volume. Il numero arabico segua la pagina. Basso Giuseppe. = Nota intorno alla determinazione di temperature molto elevate, mediante un procedimento calorimetrico analogo a quello che per tal fine fu seguito da Bystròm. XXII, lxxx. — Sulla deviazione massima dell'ago calamitato sotto l'azione della cor- rente elettrica. XXVI, 169. — Nuova Bussola reometrica; Nota. XXVI, 283. BellArdi Luigi. = Saggio di Ditterologia messicana. Parte 2.' XXI, io3. — I molluschi dei terreni terziarii del Piemonte e della Liguria. Parte i.' - Cephalopoda, Pteropoda, Heteropoda, Gasteropoda (IHnrlcidae et Trltoiiidae). XXVII, 33. — I molluschi dei terreni terziarii del Piemonte e della Liguria. XXIX, I. BoNELLi Gaetano. = Nota sulla forza motrice delle correnti elettriche. XXI, i.xiii. — Schiarimenti intorno alla nota precedente sulla forza motrice delle correnti elettriche. XXI, i.xxii. Bruno Giuseppe. = Circa alcuni casi di integrazione dell'equazione li- neare sì difFerenziale ordinaria, che a differenziali parziali, a coef- ficienti variabili, d'ordine qualunque; Studi. XXI, 29. igo Bruno Giuseppe. = Alcune proposizioni sulla superficie conoide avente per direltrici due rette. XXIV, 3 r 7. — Nota sulla superficie conoide, la direttrice curvilinea della quale è una linea piana di 2° grado, ed interseca la direttrice rettilinea del conoide stesso. XXIV, 32'y. Canestrini Giovanni. = Sopra alcuni pesci poco noti o nuovi del Medi- terraneo; Nota. XXI, 359. Cavalli Giovanni. = Nota intorno ad una mina colossale fatta esplodere sul monte Orfano. XXII, cxiii. - — Apercu sur les canons rayes se chargeant par la bouclie et par la culasse, et sur les perfectionnements à apporter à 1 art de la guerre en 1861. XXII, gS. — Mémoire sur la Théorie de la resistance statique et dynamique des solides, surtout aux impulsions coinme celles du tir des canons. XXII, là'y. — Recherches dans l'état actuel de l'industrie métallurgique, de la plus puissante artillerie et du plus formidable navire cuirassé, d'après les lois de la mécanique et les resultals de l'experience ; Mémoire suivi de remarques sur la fortification pernianenle avec les gros canons cuirassés. XXIV, i. — Mémoire sur les éclatements remarquables des canons en Belgique de i85'7 à i858, et ailleurs, à cause des poudres brisantes; sur les chargements défectueux et sur les chafgements d'égal efibrt dans les canons lisses et dans ceiix rayés; de leur effet balistique important, et déduction de l'experience, des tensions successives et maxima des poudres brisantes , des poudres pilons , et de celles inoffensives , et de leur reception plus rationnelle. — Dissertation sur les principes des théorles émises et manière rationnelle de calculer la resistance vive des bouches à feu , de leurs proportions , et des épreuves de re- ception du tir et mécaniques les plus concluantes, et conclusion sur les choix du meilleur metal à canon, avec résumé final. XXI V^, 35'j. — Supplément à la Théorie du choc des projectiles d'arlillerie donnée dans le Mémoire de 186G, Serie II, Tome XXIV des Mémoires de CÀcadéniie des Sciences de Turin. XXV, i23. — Della resistenza dei tubi all'urto dell'acqua entroscorrente d'un tratto arrestata. XXV, 241- Cuccio G. V. = Dell'anatomia sottile dei corpuscoli pacinici dell'uomo ^9' e d'altri mammiferi e degli uccelli, con considerazioni esperimen- tali intorno al loro ullicio. XXV, i8i. CoDAzzA Giovanni. = Trasmissione pneumatica della forza a veicolo stan- tuIFo senza variazione dell'aria circolante. XXVI, 291. CossA /dlfonso. = Ricerche di Chimica mineralogica sulla Sienite del Biel- lese; Memoria. XXVIII, 3og. Costa Oronzìo Gahiiele. = Osservazioni critiche intorno agli animali terebranti. XXII, ci. CuRiONi Giovanni. = Spinta delle terre nel caso più generale che si può presentare all'Ingegnere costruttore. XXV, 81. — L'elasticità nella teoria dell'equilibrio e della stabilità delle vòlte. XXYIII, 339. De Filippi Filippo. = Nota sopra il Triton alpestvis. XXI, lxv. — Descrizione di un nuovo genere di Accavidi parassiti. XXI, lxxi. — Osservazioni scientifiche fatte in un recente viaggio in Persia. XXI, lxxxi. — Sulla struttura della cute dello Stellio caucasicus. XXIII, 363. — Sopra due Idrozoi del Mediterraneo. XXIII, 3'y4- — V. Eugenio Sismonda. Delponte Giovanni Battista. = Un Ricordo botanico del Prof. Filippo De Filippi, ossia Cenno intomo alle piante nate dai semi da esso raccolti in Persia e nella China. XXVI, ii'j. — Specimen Desmidiacearum Subalpinarum , ossia Desmidiacee del lago di Candia nel Canavese. XXVIII, 19; XXX, i. De Notaris Giuseppe. = Osservazioni su alcune specie di Aire italiane. XXI, 377. — Appunti per un nuovo censimento delle Epatiche italiane. XXII, 352. — Epatiche di Borneo , raccolte dal Dott. O. Beccari nel ragiato di Sarawak durante gli anni 1865-66-67. XXVIII, 267. DoR>A Alessandro. = Catalogo delle 634 Stelle principali visibili alla latitudine media di 45°, colle coordinate delle loro posizioni medie per l'anno 1880; ed Atlante di dodici Carte, contenenti le dette Stelle proiettate stereograficamente sull'orizzonte, di due in due ore siderali, coi circoli e paralleli di declinazione, di io in io gradi, presentati alla R. Accademia delle Scienze di Torino dal Direttore dell Osservatorio. XXVI , 223. — Descrizione degli stromenti e dei metodi usati all' Osservatorio di Torino per la misura del tempo; prima comunicazione. XXVII, i. 192 DucHAssAiNG DE FoMBRESSiN P. et MicHELOTTi Jean. = Supplénient au Mémoire sur les Coralliaires des Àntilles. XXIII, q'^. Foscolo Giorgio. = Descrizione ed uso del declinatore orario. XXVI, 53. Francfort Eugenio. ^ Sull' oro contenuto nei fdoni oriferi della Val- lanzasca, provincia di Novara. XXIII, 83. Galletti Maurizio. = Determinazione volumetrica dello Zinco conte- nuto ne' suoi minerali mediante una soluzione normale di ferro cia- nuro di potassio; Memoria. XXIII, go. Gastaldi Bartolomeo. = Intorno ad alcuni fossili del Piemonte e della Toscana; breve Nota. XXIV, ig3. — Iconografia di alcuni oggetti di remota antichità rinvenuti in Italia. XXVI, 79. Genocchi e RicHELMY. ^ Relazione intorno al merito di una Memoria manoscritta del sig. F. Lefort, intitolata: Déterminadon numérique des intégrales défmies ; au mojen desquelles on ex prime les ter mes généraux de développement des coordonnées dune pianéta dans son mouvement elliptique. XXII , lxix. Genocchi Angelo. =1 Intorno alla formazione ed integrazione di alcune equazioni dillerenziali nella teorica delle funzioni ellitiche. XXIII, 223. — Studi intorno ai casi d'integrazione sotto forma finita; Memoria prima. XXIII, 299. — Dimostrazione d'una forinola di Leibnizio e Lagrange, e di alcune formole affini. XXVI, 61. — Studi intorno ai casi d'integrazione sotto forma finita; Memoria se- conda. XXVIII, r. — Sur un Memoire de Daviet de Foncenex et sur les géométries non euclidiennes. XXIX, 365. Giracca Carlo. ^ Nuove esperienze intorno all'arresto del cuore per la galvanizzazione dei nervi vaghi. XXIII, 2x5. Govi, Sella e Matteucci.=: Rapporto sulle riforme da introdursi nell'Osser- vatorio meteorologico della R. Accademia delle Scienze. XXII , lxxxv. Govi Gilberto. = Sulla misura dell'amplificazione degli strumenti ottici, e sull'uso di un megametro per determinai'Ia. XXII, lxxhi; XXIII, 44 5- — Sull'efficacia delle grandi aperture nei microscopii composti; Consi- derazioni. XXIII, 285. — Di un Barometro ad aria od Aeripsometro per la misura delle pic- cole altezze. XXIII , 467- 193 Gras Augusto. =z Le Ranunculacee del Piemonte ^ Saggio tassonomico. XXVI, i85. IssEL Arturo. = Catalogo dei Molluschi raccolti dalla Missione italiana in Persia, aggiuntavi la descrizione delle specie nuove o poco note. XXIII, 387. Sopra le caverne di Liguria, e principalmente sopra una recentemente scoperta a Verezzi presso Finale , del Prof.* Giovanni Ramorino ; accompagnate da una Memoria sulle conchiglie delle breccie e ca- verne ossifere della Liguria occidentale. XXIV, 277. La Marmora Alberto e Sismonda Eugenio. = Parere su una Memoria mano- scritta del Dottore Giustiniano Nicolucci, intitolata: Di un cranio fenicio rinvenuto nella necropoli di Tharros in Sardegna. XXIjLxxiv. — — Parere su una Memoria manoscritta del sig. Ingegnere Costantino Perazzi, intitolata: Nota intorno ai giacimenti cupriferi contenuti ne' monti serpentinosi dell'Italia centrale. XXI, lxxv. Lefort F. = Sunto della Memoria intitolata: Détermination numérique des intégrales définies , au mojen desquelles on exprime les termes généraux de développement des coordonnées d'une planate dans son mouvement elliptique. XXII, lxx. Marchi Pietro. = Monografia sulla Storia genetica e sulla anatomia della Spiroptera obtusa Rud. XXV, i. Matteucci Carlo. = Osservazioni sulla piro-elettricità. XXI , lxxi. — Esperienze sullo stato elettrico della Terra. XXII, ex. — V. Govi. Ménabrèa Luigi Federigo. = Note sur l'effet du choc de l'eau dans les conduits. XXI, 1. — Étude de Statique physique. - Principe general pour déterminer les pressions et les tensions dans un système élastique. XXV, i4i. MlCHELOTTI G. = V. DuCHASSAING. MoLEscHOTT Jacopo. — Sull'azionc riflessa che l'eccitamento del pneu- mogastrico spiega sul cuore, e sui cambiamenti disparati nella fre- quenza della respirazione e del polso. XXII, lxxiv. — Studi embriologici sul pulcino; Memoria. XXIV, 237. MoTTURA Sebastiano. =t Sulla formazione solfifera della Sicilia ; Memoria premiata dalla R. Accademia delle Scienze di Torino. XXV, 363. Nicolucci Giustiniano. = Di un antico cranio fenicio rinvenuto nella necropoli di Tharros in Sardegna. XXI, 383. Serie II. Tom. XXX. 'a Oehl e. ^=. Sulla parziale ed innata occlusione dell'appendice vermiforme nell'uomo. XXI, 36g. Perazzi C. = Sul concentramento della calcopirite nel giacimento di pi- rottina niclielifera di Miggiandone, e sulla paragenesi dei minerali cristallizzali che vi si trovano. XXI, i.xvii. — Intorno ai giacimenti cupriferi contenuti nei monti serpentinosi del- l'Italia centrale; Nota. XXII, 3i3. Plana Giovanni. ^ Memoire sur l'integration des équations différenlielles relatives au mouvement des comètes, etablies suivant l'hypothèse de la force repulsive definie par M. Faye, et suivant l'hypothèse d'un milieu résistant dans l'espace. XXI, ii. — Mémoire sur un état hypothctique des surfaces de niveau dans les nébulosités qui entourent le noyeau des comètes , su[)posé solide et sphérique. XXI, 32 1. — Lettura dell'ullima sua Memoria. XXII, cxviii. — Mémoire sur l'expression du rapport qui (abslraction faite de la chu- leur solaire) existe, en verta de la chaleur iX" origine , entre le re- froidissenient de la masse totale du globe terrestre et le refroidis- sement de sa surface. XXII, 235. — Mémoire sur la loi du refroidissement des corps sphériques et sur l'expression de la chaleur solaire dans les latitudes circumpolaires de la Terre. XXIII, i. — Mémoire sur les formules du mouvement circulaire et du mouvement elliptique, libre, autour d un point excentrique par l'action d'une force centrale. XXIV, 149. Ramorino Giovanni. =: Sopra le caverne di Liguria e principalmente sopra una recentemente scoperta a Verezzi presso Finale; accom- pagnale da una Memoria sulle conchiglie delle breccie e ca- verne ossifere della Liguria occidentale ; pel Dottore A. Issel. XXIV, 277. Resio Carlo. = Estratto di una Memoria intitolata : Descrizione e teoria di ima maccltina ad aria calda. XXI, i.xxvu. RiCHELMY Prospero. ■=. Parere su una Memoria manoscritta del sig. Prof. Carlo Resio, intitolata: Descrizione e teoria di una macchina ad aria calda. XXI, lxxvii. — Esperienze sopra una macchina a colonna d'acqua, istituite nell'anno i863. XXII, xci. RicHELMT Prospero. = Ricerche teoriche e sperimentaH intorno agli efflussi dei liquidi a traverso di brevi tubi conici divergenti. XXV, 3i. — V. Genocchi. Saint-Robert [Paul De). = De la résolution de certaines équations à trois variables par le inoyen d'une règie glissante. - Caractère auquel on reconnaìt qu'une telle résolution est possible. - Graduation de la règie. XXV, 53. — Nouvelles Tables hypsoniétriques. XXV, 63. Scacchi Arcangelo. = Memoria sulla poliedria delle facce dei cristalli. XXII, I. ScHiAPARELLi G. V. = Sulla trasformazione geometrica delle figure, ed in particolare sulla trasformazione iperbolica. XXI, 327. ScLOPis Federigo. = Della vita di Giovanni Plana; Discorso. XXII, li. Sequenza Giuseppe. = Disquisizioni paleontologiche intorno ai Corallari fossili delle rocce terziarie del distretto di Messina. XXI, 899. Sella. = V. Govi. SiSMONDA Angelo. = Gneis con impronta di equiseto; Nota. XXIII, 207. — Nuove osservazioni geologiche sulle rocce antracitifere delle Alpi. XXIV, 333. SiSMONDA Eugenio e De Filippi Filippo. = Parere su una Memoria mano- scritta del Prof. Giuseppe Seguenza, intitolata: Disquisizioni pa- leontologiche intorno ai Corallarii fossili delle rocce terziarie del distretto di Messina. XXI, lxxiii. — Matériaux pour servir à la Paleontologie du lerrain tertiaire du Pie'- mont. XXII, 391; XXV, 257. — V. La Marmora Alberto. SoBRERO Ascanio. =: Notizia storica dei lavori fatti dalla Classe di Scienze fisiche e matematiche nel corso dell'anno 1862. XXI, lxi. — Notizia storica dei lavori fatti dalla Classe di Scienze fisiche e ma- tematiche della Reale Accademia delle Scienze nell'anno i863. XXII, LXVII. — Relazione sopra una Memoria del signor Maurizio Galletti intorna ad un metodo di Determinazione volumetrica dello zinco conte- nuta nei suoi minerali mediante una soluzione titolata di ferro- cianuro di potassio. XXII, cxii. — Della cagione della malattia della vite, e dei mezzi da usarsi per debellarla. XXIII, 44 1. ig6 Struver Giovanni. =z Studi sulla Mineralogia italiana; Pirite del Pie- monte e dell'Elba. XXVI, i. Tapparone-Canefri Cesare. ^ Intorno ad una nuova specie di Nephrops, genere di Crostacei Decapocli Macruri. XXVII, SaS. — Zoologia del viaggio intorno al globo della R. Fregata Magenta , du- rante gli anni i8G5-C8. - Malacologia (Gasteropodi, Acefali e Brachiopodi). XXVIII, log. TissoT E. = Elude géologique de 1 isthme de Suez, dans ses rapports avec l'exécution des travaux du canal maritime. XXIII, 261. ToMASiN[. = Proposta di miglioramenti da introdursi nella costruzione delle macchine pneumatiche. XXI, lxxvi. « '97 INDICE GENERALE delle materie contenute nella parie Fisico-Matematica dei Tomi XXI a XXX, Serie II, delle Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino. Anatomia. ^ Sulla parziale ed innata occlusione dell'appendice ver- miforme nell'uomo. E. Oehl. XXI, SGg. — Sulla struttura della cute dello Stellio caucasicus. F. De Filippi. XXIII, 363. — Monografia sulla storia genetica e sulla anatomia della Spiroptera ob- tusa RuD. Pietro Marchi. XXV, i. — Dell'anatomia sottile dei corpuscoli pacinici dell'uomo e d'altri mam- miferi e degli uccelli , con considerazioni esperimentali intorno al loro ufficio. G. V. Giaccio. XXV, i8i. Arte militare. = Apercu sur les canons rayés se chargeant par la bouche et par la culasse, et sur les perfectionnements à apporler à l'art de la guerre en 1861. Jean Gavalli. XXII, g5. — Mémoire sur la Théorie de la résistance statique et dynamique des solides, surtout aux impulsions comme celles du tir des canons. Jean Cavalli. XXII, iS'j. — Recherches dans 1 état actuel de l'industrie metal lurgique , de la plus puissante artillerie et du plus formidable navire cuirassé, d'après les lois de la mécanique et les résultats de l'expérience; Memoire suivi de remarqucs sur la fortifìcation permanente avec les gres canons cuirasses. Jean Cavalli. XXIV, i. 198 Arte militare. := Mémoire sur les éclatements remarquables des canon» en Belgique de 1857 ^^ '858, et ailleurs, à cause des poudres bri- santes ; sur les chargements défectueux et sur les chargements d'égal effort dans les canons lisses et dans ceux rayés; de leur etFet balistique important , et déduction de l'expérience , des tensions successives et maxima des poudres brisantes, des poudres pilons, et de celles inoffensives , et de leur reception plus rationnelle. — Dissertation sur les principes des ihéories émises et manière rationnelle de calculer la résistance vive des bouches à feu, de leurs proportions, et des épreuves de reception de tir et mecaniques les plus concluantes, et conclusion sur le choix du meilleur metal à canon, avec resumé final. Jean Cavalli. XXIV, 35^. — Supplément à la Théorie du choc des projectiles d'artillerie donnée dans le Mémoire de 1866, Serie II, Tome XXIV des Mémoires de VAcadémie des Sciences de Turin. Jean Cavalll -XXV, laS. Astronomia. = Mémoire sur un état hypothétique des smj'aces de niveau dans les nébulosités qui entourent le noyau des comètes, suppose solide et sphérique. Jean Plana. XXI, 82 1. — Catalogo delle 634 stelle principali visibili alla latitudine media di 45°, colle coordinate delle loro posizioni medie per l'anno 1880; ed Atlante di dodici carte, contenenti le dette stelle proiettate stereograficamente sull'orizzonte , di due in due ore siderali , coi circoli e paralleli di declinazione, di io in io gradi, presentati alla Reale Accademia delle Scienze di Torino dal Direttore dell'Osser- vatorio A. DORNA. XXVI, 223. — Descrizione degli stromenti e dei metodi usati all'Osservatorio di To- rino per la misura del tempo ; prima comunicazione. Alessandro DoRNA. XXVII, I. Atti accademicl = Notizia storica intorno ai lavori della Classe delle Scienze fìsiche e matematiche della Reale Accademia : per l'anno 1862 e i863. A. SoBRERO. XXI, lxi; XXII, lxvu. — Programma di concorso. XXII, cxxi. Biografia, = Della vita di Giovanni Plana. Federigo Sclopis. XXII, n. Botanica. = Osservazioni su alcune specie di Aire italiane. G. De Notaris. XXI, 877. — Appunti per un nuovo censimento delle Epatiche italiane. G. De Notaris. XXII, 352. '99 Botanica. = Della cagione della malaltia della vite, e dei mezzi da usarsi per debellarla. Ascanio Sobrero. XXIII, 44'- — Un Ricordo botanico del Prof. Filippo De Filippi, ossia Cenno in- torno alle piante nate dai semi da esso raccolti in Persia e nella China. G. B. Delponte. XXVI, 127. — Le Ranunculacee del Piemonte; Saggio tassonomico. Augusto Gras. XXVI, i85. — Epatiche di Borneo , raccolte dal Dott. O. Beccari nel ragiato di Sarawak durante gli anni 1865-66-67; descritte dal Dott. G. De NoTARis. XXVIII, 267. — Specimen Desmidiacearum Subalpinarum, ossia le DesmicUacee del lago di Candia nel Canadese; J. B. Delponte. XXVIII, 19; XXX, i. Chimica. = Relazione sopra una Memoria del sig. Maurizio Galletti intorno ad un metodo di Determinazione volumetrica dello zinco contenuto ne suoi minerali mediante una soluzione titolata di ferro cianuro di potassio. A. Sobrero. XXII, cxii. — Determinazione volumetrica dello Zinco contenuto ne' suoi minerali mediante una soluzione normale di ferro cianuro di potassio; Me- moria. Maurizio Galletti. XXIII, go. — Ricerche di Chimica mineralogica sulla Sienite del Biellese; Memoria. Alfonso CossA. XXVIII, 809. Concorsi. = V. Atti accademici. Fisica. =: Nota sulla forza motrice delle correnti elettriche. Bonelli. XXI , LXIII. — Osservazioni sulla piro-elettricità. Matteucci Carlo. XXI, lxxi. — Schiarimenti intorno alla Nota precedente sulla forza motrice delle correnti elettriche. Bonelli Gaetano, XXI, lxxii. — Proposta di miglioramenti da introdursi nella costruzione delle mac- chine pneumatiche. Tomasini. XXI , lxxvi. — Sulla misura dell'amplificazione degU strumenti ottici , e sull'uso di un megametro per determinarla. Govi. XXII, lxxiii; XXIII, 4^5. — Nota intorno alla determinazione di temperature molto elevate, me- diante un procedimento calorimetrico analogo a quello che per tal fine fu seguito da Bystróm. G. Basso. XXII, lxxx. — Esperienze sullo stato elettrico della terra. Carlo Matteucci. XXII, ex. — Mémoire sur l'expression du rapport, qui (abstraclion faite de la cha- leur solaire) existe, en vertu de la chaleur d'origine en le refroi- aoo dissement de la masse totale du globe terrestre et le refroidissement de sa surface. Jean Plana. XXII, 235. Fisica. = Mémoire sur la loi du refroidissement des corps sphériques et sur l'expression de la chaleur solaire dans les latitudes circuni- polaires de la terre. Jean Plana. XXIII, i. — Sull'efficacia delle grandi aperture dei microscopii composti. Govi. XXIII, 285. — Di un Barometro ad aria od Aeripsometro per la misura delle pic- cole altezze. Gilberto Govi. XXIII, 467- ^ — Etude de statique physique. — Principe géne'rale pour determiner les pressions et les tensions dans un sjstème élastique. L. F. Ménabrèa. XXV, 14,. — Descrizione ed uso del declinatore orario. Giorgio Foscolo. XXVI, 53. — Sulla deviazione massima dell'ago calamitato sotto l'azione della cor- rente elettrica. Giuseppe Basso. XXVI, i6g. — Nuova Bussola reometrica; Nota. Giuseppe Basso. XXVI, 283. — Trasmissione pneumatica della forza a veicolo stantuffo senza varia- zione dell'aria circolante. Giovanni Codazza. XXVI, 291. Fisiologia. =: Sull'azione riflessa che Teccitamento del pneumogastrico spiega sul cuore, e sui cambiamenti disparati nella frequenza della respirazione e del polso. J. IMoleschott. XXII, lxxiv. — Nuove esperienze intorno all'arresto del cuore per la galvanizzazione dei nervi vaghi. Carlo Giracca, XXIII, 21 5. — Studi embriologici sul pulcino. Jacopo Moleschott. XXIV, 237. Geologia. = Sul concentramento della calcopirite nel giacimento di pi- rottina nichelifera di Miggiandone , e sulla paragenesi dei minerali cristallizzati che vi si trovano. Perazzt. XXI, lxvii. — Parere su mia Memoria manoscritta del Dott. Giustiniano Nicolucci, intitolata: Di un cranio fenicio rinvenuto nella necropoli di Tharros in Sardegna. La Marmora e Sismonda Eugenio. XXI, lxxiv. — Parere su una Memoria manoscritta del sig. Ingegnere Costantino Perazzi, intitolata: Nota intorno ai giacimenti cupriferi contenuti nei monti serpentinosi delV Italia centrale. La Marmora e Sismonda Eugenio. XXI, lxxv. — Intorno ai giacimenti cupriferi contenuti nei monti serpentinosi del- l'Italia centrale; Nota. C. Perazzl XXII, 3i3. — Gneis con impronta di equiseto; Nota del Gomm. Angelo Sismonda. XXIII, 20 '1- 20 I Geologia. =: Étude géologique de l'isthme de Suez, dans ses rapports avec l'execution des travaux du canal maritime. E. Tissot. XXIII, 261. Nuove osservazioni geologiche sulle rocce antracitifere delle Alpi. An- gelo Sismokda. XXIV, 333. Sulla formazione solfifera della Sicilia; Memoria. Mottura. XXV, 363. Iconografia di alcuni oggetti di remota antichità rinvenuti in Italia. B. Gastaldi. XXVI, 79. Idraulica. = Note sur l'elfet du choc de l'eau dans les conduits. L. F. Ménabrèa. XXI, r. Esperienze sopra una macchina a colonna d'acqua istituite nell'anno l863. P. RlCHELMY. XXII, xci. Ricerche teoriche e sperimentali intorno agli efflussi dei liquidi attraverso di brevi tubi conici divergenti. Prospero Richelmy. XXV, 3i. Della resistenza dei tubi all'urto dell'acqua entroscorrente dun tratto arrestata. Giovanni Cavalli. XXV, 241- Macchine e Strumenti. = Parere su una Memoria manoscritta del signor Prof Carlo Resio , intitolata : Descrizione e teoria di una mac- china ad aria calda. Richelmy. XXI, lxxvii. Estratto di una Memoria intitolata: Descrizione e teoria d'una mac- china ad aria calda. Resio. XXI, lxxvji. Matematica. = Mémoire sur l'integration des équations différentielles re- latives au mouvement des comètes, établies suivant l'hypothèse de la force repulsive définie par M. Faye, et suivant l'hypothèse d'un milieu résistant dans l'espace. Jean Plana XXI, 11. Circa alcuni casi d' integrazione dell'equazione lineare , sì differenziale ordinaria, che a differenziali parziali, a coefficienti variabili, d'or- dine qualunque; Studi. Giuseppe Bruno. XXI, 29. — Sulla trasformazione geometrica delle figure, ed in particolare sulla trasformazione iperbolica. G. V. Schiaparelli. XXI, 227. Relazione intorno al merito di una Memoria manoscritta del signor F. Lefort , intitolata : Détermination numérique des intégrales dé- finies, au mojen desquelles on exprime les termes généraux de développement des coordonnées dune pianòle dans san mouvement elliptiqiie. Genocchi e Richelmy. XXII, lxix. — Sunto d'una Memoria del sig. Lefort, intitolata: Détermination nu~ Serie II. Tom. XXX. *» mérique des intégrales définies , au mojen desquclles ori exprime les tennes généraux de développement des coordonnées dune pla- nile dans son mouvement elUptique. XXII, lxx. Matematica. = Lettura dell'ultima 3Iemoria di G. Plana, intitolata: Mémoire sur les fonnules du mouvement circulaire et du mouve- ment elUptique libre autour d'un point excentrique pour Vaction dune force centrale. XXII, cxviii. — Intorno alla formazione ed integrazione di alcune equazioni dilTéren- ziali nella teoria delle funzioni ellitiche. Angelo Genocchi. XXIII , 223. — Studi intorno ai casi d'integrazione sotto forma finita; 3Iemoria prima; di Angelo Genocchi. XXIII, 296. — Memoire sur les formules du mouvement circulaire et du mouvement elliplique libre autour d'un point excentrique par l'action d'une force centrale. Jean Plana. XXIV, i49- — Alcune proposizioni sulla superficie conoide avente per direttrici due rette. Giuseppe Bruno. XXIV, 3 17. — Nota sulla superficie conoide, la direttrice curvilinea della quale è una linea piana di 2.° grado, ed interseca la direttrice rettilinea del co- noide stesso. Giuseppe Bruno. XXIV, 327. — De la rcsolution de certaines e'quations à trois variables par le moyen d'une règie glissante. - Caractère auquel on reconnaìt qu'une telle résolution est possible. - Graduation de la règie. Paul De Saint- Robert. XXV, 53. — Nouvelles Tarbles hypsométriques. Paul De Saint-Robert. XX"V, 63. — Dimostrazione d'una forinola di Leibnizio e Lagrange, e di alcune formolo afiTini. Angelo Genocchi. XXVI, 61. — Studi intorno ai casi d'integrazione sotto forma finita; Memoria se- conda; di Angelo Genocchi. XXV^III, i. — Sur un Memoire de Daviet de Foncenfx, et sur les géométries non euclidiennes. A. Genocchi. XXIX, 365. Meccamica e Costruzioni. ^ Nota intorno ad una mina colossale fatta esplodere sul monte Orfano. G. Cavalli. XXII, cxiu. — Spinta delle terre nel caso più generale che si può presentare all'In- gegnere costruttore. Giovanni Curioni. XXV, 81. — L'elasticit\ nella teoria dell'equilibrio e della stabilità delle vòlte. Giovanni Curioni. XXVTII, 339. 203^ Mbteorologia. = Rapporto sulle riforme da introdursi nell'Osservatorio meteorologico della Reale Accademia delle Scienze. Govi, Sella e MaTTEUCCI. XXII, LXXXV. Mineralogia e Metallurgia. = Memoria sulla poliedria delle facce dei cristalli. A. Scacchi. XXII, i. — Sull'oro contenuto nei filoni oriferi della Vallanzasca, provincia di Novara. Eugenio Francfort. XXIII, 83. — Studi sulla mineralogia italiana; Pirite del Piemonte e dell'Elba. Gio- vanni Strdver. XXVI, I. Paleontologia. = Nota sopra il Triton alpestris. De Filippi. XXI, lxv. — Descrizione di un nuovo genere di Acaridi parassiti. De Filippi. XXI, LXXI. — Parere su una Memoria manoscritta del Prof. Giuseppe Seguenza, intitolata: Disquisizioni paleontologiche intorno ai Corallarii fossili delle rocce terziarie del distretto di Messina. Sismonda Eugenio e De Filippi. XXI, lxxiii. — Osservazioni scientifiche fatte in un recente viaggio in Persia. De. Filippi. XXI, lxxxi. — Saggio di Ditterologia messicana, Parte II. Luigi Bellardi. XXI, io3. — Sopra alcuni pesci poco noti o nuovi del Mediterraneo ; Nota del *Dott. Giovanni Canestrini. XXI, SSg. — Di un antico cranio fenicio rinvenuto nella necropoli di Tharros in Sardegna. Giustiniano Nicolucci. XXI, 383. — Disquisizioni paleontologiche intorno ai Corallari fossili delle rocce terziarie del distretto di Messina. Giuseppe Seguenza. XXI, 3gg. — Osservazioni critiche intorno agli animali terebranti. O. G. Costa. XXII, CI. — Matériaux pour servir à la Paleontologie du terrain tertiaire du Pic- mont. Eugène Sismonda. XXII, 391; XXV, aS'j. — Intorno ad alcuni fossili del Piemonte e della Toscana; breve Nota del Gav. Bartolomeo Gastaldi. XXIV, 193. — I molluschi dei terreni terziarii del Piemonte e della Liguria ; Parte I. - Cephalopoda, Petropoda, Heteropoda, Gasteropoda (Muricidae et Tritonidae). Luigi Bellardi. XXVII, 33. — I molluschi dei taireni terziarii del Piemonte e della Liguria; descritti da Luigi Bellardi. XXIX, r. Premi proposti. ^ V. Atti accademici. 2o4 Zoologia. = Supplcment au Memoire sur les Coralliaires des Anlilles. P. DuCHASSAING DE FoMBRESSIN Ct J. MlCHELOTTI. XXIII , g'^. — Sopra due Idrozoi del Mediterraneo. F. De Filippi. XXIII , 374- — Catalogo dei Molluschi raccolti dalla Missione italiana in Persia, ag- giuntavi la descrizione delle specie nuove o poco note. A. Issel. XXIII, 387. — Sopra le caverne di Liguria, e principalmente sopra una recentemente scoperta a Verezzi presso Finale, del Prof. Giovanni Ramorino; accompagnate da una Memoria sulle conchiglie delle breccie e ca- verne ossifere della Liguria occidentale. A. Issel. XXIV, 277. — Intorno ad una nuova specie di Nephfops, genere di Crostacei Deca- podi Macvuri. Cesare Tapparone-Canefri. XXVII, 325. — Del viaggio intorno al globo della Regia fregata Magenta, durante gli anni 1 865-68 - Malacologia (Gasteropodi, Acefali e Brachio- podi). Cesare Tapparone-Canefri. XX VI II, 109. S e I E ]\ Z E MORALI STORICHE E FILOLOGICHE MEMORIE DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO SERIE II. — TOM. XXX. SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE. TORINO DALLA STAMPERIA REALE MDCCCLXXVIII. IL PROBLEMA METAFISICO STUDIATO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA (dalla Scuola Jonica a Giordano Bruno) C3-IUSEPPE ALLIEVO Memoria approvala per la stampa nei Fotumi accademici netta seduta del 4 Febbraio 1S77 Attinenze della Metafisica colla Religione e con le scienze seconde. Prima di proporre il problema della scienza, e tentarne lo sciogli- mento, a;iova determinare le attinenze della Metafisica colla religione e colle scienze seconde. V'ha nello spirito umano una facoltà, che percepisce in- tuitivamente l'Infinito e lo tiene per fede; questa facoltà è il sentimento refigioso: vha pure un'altra facolt'i, che specula intorno all'Infinito per lavorarne una teorica scientifica; questa facoltà è la ragion filosofica ossia la speculazione. Entrambe queste due facoltà sono necessarie ed essenziali, avendo loro radice nell'intima natura dello spirito umano. Dico che il sen- timento religioso è essenziale all'uomo; perchè la religione esistette sempre e dovunque anche frammezzo alla moltiplicità delle sue forme, alla diver- sità de' suoi culti e delle sue credenze; la sua universalità prova che ha ragion d'essere nell'essenza stessa della natura umana; dunque il senti- mento religioso è essenziale all'uomo. Dico in secondo luogo che anche la Metafisica è essenziale all'uomo, che la ragion filosofica ossia la spe- culazione fa parte integrante di nostra natura; altramente, come mai po- trebbe spiegarsi il bisogno indestruttibile, che sente l'uomo di rendersi Serie II. Tom. XXX. i 3 II. PROBLEMA METAFISICO ECC. ra no nell'essere assoluto. PER GIUSEPPE ALLIEVO. La Metafisica e la Critica. Nell'atto istesso che procediamo a sciogliere il problema metafisico, il Critico ci ferma a mezzo del cammino muovendoci una questione pre- "uidiciale. — Voi vi accingete ad una teorica razionale del supremo prin- cipio dell'essere e del sapere; ma avete voi posto mente se la vostra ragion filosofica sia da tanto da costrurre la Scienza prima? Siete voi consci! delle vostre forze mentali con cui vi mettete alla ricerca ed allo studio del primo principio, e non potrebbe darsi che sia questo un ideale impossibile ' Cercate adunque anzitutto se sia possibile all' umana ragione la Scienza prima, è questo il jjioblema, che va risolto per primo e dalla cui soluzione dipendono tutti gli altri. — Tale è la questione pregiudiciale, che ci muove il Critico, il quale facendoci precetto di misurare le forze della ragion filosofica prima di accingerci alla soluzione del problema metafisico, ci ripone in mente quel consiglio che dava il Venosino agli scrittori: Sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam Viribus et versate diu quid ferine recusent Quid valeanl humeri^ e ci ricorda quelle parole di Dante, che nell'atto d'incominciare il suo terribile viaggio dubitando di sé si rivolgea al suo Virgilio, dicendogli: Poeta che mi guidi , Guarda la mia virtù s'ella è posseate, Prima chu all'alto passo tu mi fidi. fnf., cani. 2, vers. IO. Noi non dobbiamo lasciar senza risposta questo problema, che ci muove la Critica: l'interesse della Scienza richiede che noi esaminiamo, se si debba, come vuole il Critico, far precedere alla soluzione del problema metafisico l'esame critico delle forze della ragion filosofica in relazione colla Scienza prima o no. Facciamoci anzitutto un chiaro concetto degli intendimenti e dell'oggetto della Critica. A tal uopo credo conve- niente di avvertire che il vocabolo Critica, Criticismo tal fiata si usa per indicare una dottrina, o dirò meglio una Metodologia, la quale pre- scrive che prima di por mano allo studio degli esseri si esaminino il valore, la legittimità e la portata dei nostri mezzi conoscitivi che sono le facoltà intellettuali; tal altra volta per Critica o Criticismo s'intende una 20 If. PROBLEMA METAFISICO ECC. dottrina filosofica, la quale niega ogni carattere assoluto ed oggettivo alla verità ed al sapere umano pronunciando che la niente nostra è impotente a conoscere la realtà noumenica degli esseri; tale è il criticismo di Kant, che però è un risultato del suo metodo critico. Noi pigliamo il vocabolo Critica nel primo dei due sensi succennati. Primo a sollevare il problema critico fu Emanuele Kant, il (piale rico- noscendo per una parte la necessità della Melallsica naturale, ossia il bisogno che lo spirito umano sente ineluttabile di una Scienza prima, e veggendo per l'altra falliti i tentativi fatti finora per costruirla e le antinomie in cui è mai sempre caduta la ragione nel risolvere il problema intorno a Dio, al mondo, all'uomo, propose a se stesso questo problema. La Metafisica è dessa possibile? « La critica della ragione, egli scrive, condure da ultimo » necessariamente alla scienza. L'uso dogmatico della ragione senza critica )) non può condurre al contrario se non ad asserzioni senza fondamento, )) alle quali se ne possono mai sempre opporre alti-e del paro verosimili, >i e conseguentemente allo scetticismo (Critica della Ragion pina, trad. )) Tissot. Tomo i", pag. S^S) «. Però la critica nel senso di Kant non debbe aggirarsi intorno ai sistemi filosofici ossia alle produzioni metafisiche della ragione essendoché, quand'anche un'analisi critica instituita intorno alle teorie filosofiche ci conducesse a dichiararle tutte insussistenti e fallaci, non ne potremmo inferire logicamente altra conseguenza che questa; — finora la ragione non giunse ad una scienza prima — , non ne verrebbe che la scienza prima sia impossibile: e di tal modo la Critica non raggiun- gerebbe il suo compito, che è quello di dimostrare e porre fuori d'ogni contestazione la possibilità o l'impossibilità della Scienza. Perchè il pro- cesso a posteriori, cioè l'analisi instituita intorno ai sistemi filosofici potesse adempiere questo intento della Critica, farebbe duopo che la ragione filo- sofica avesse già spiegata ed esaurita tutta per intiero la sua attività, che cioè tutti i sistemi filosofici possibili fossero escogitati e svolti; in tal caso soltanto la critica fatta intorno ai medesimi potrebbe porci in grado di sentenziare decisivamente che la Metafisica è possibile od impossibile. Ma ciò non essendo, dobbiamo abbandonare il procedimento a posteriori e (piindi sottoporre alla critica non già i sistemi filosofici, ossia le produ- zioni della ragione, mala ragione essa stessa considerata indipendentemente da' suoi oggetti e dalle sue produzioni; per tal via soltanto potremo giungere a decidere il problema critico se la Metafisica sia possibile. « Non si « tratta qui nemmeno di una critica de libri o dei sistemi della ragion PER GIUSEPPE ALLIEVO. 21 » pura, ma di ima critica della facoltà della ragion pura in se stessa. « Solo pigliando questa critica come punto di partenza, ci troviamo muniti ì) di una pietra di saggio infallibile per apprezzare il valore delle opere » anliclie e moderne; poiché senza di essa lo storico ed il giudice, en- )) trambi incompetenti, dichiarano vane le asserzioni degli altri in nome )) delle loro proprie, che punto non hanno maggior fondamento (ih. « pag. 375) ». A' di nostri il prol)lema critico proposto primamente da Kant e da lui risolto in senso scettico, venne ripiglialo e disvolto in altro senso dal Renouvier ne' suoi Saggi di Critica generale, e dal Mazzarella nella sua opera la Critica della Scienza, del quale esporremo qui un cenno espo- sitivo. Facendosi anzi tutto a dimostrare la necessità della Critica, il Maz- zarella osserva che quando lo scettico chiama impossibile la Scienza prima, pronuncia una sentenza, cui la storia non ha forza di combattere; quando il dogmatico la dichiara possibile, ha per sé quel dettato dell'ingegno, che non vi può essere ragionamento senza principi! , non scienza senza un fondamento comune; la convinzione delluno perciò é in aperta contrad- dizione a quella dell'altro; scegliere è cosa difficile, e piena di pericoli; è necessario anzi tutto di mcUersi in grado di decidere, in via prope- deutica, quale de' due, lo scettico o il dogmatico abbia ragione: questa necessità crea la Critica. Ella è una vera specie di tribunale, che sor»e per dare decisione sulle due opposte sentenze : essenzialmente adunque, a capo della Critica, evvi un problema, né può essere altro che quello messo dal Kant: è possibile la Scienza prima fpag. 3o6 della Critica della Scienza)! Però soggiunge l'Autore, che con ciò non è a credersi che la Critica congiunga e Scetticismo e Dogmatismo insieme e si ponga mediana tra amendue per restar neutrale: la Critica dee decidere, se abbia ragione il dogmatico, o lo scettico quanto alla possibilità della Scienza prima; ella dovrà dunque giugnere necessariamente ad una decisione tra le due, ed essere o co' dogmatici o cogli scettici ; ma si rifletta Tegli scrive) che non per questo ella finirà con essere o uno scetticismo, o un dogma- tismo; la diversità del metodo la porrà sempre al di sopra di entrambi; lo scettico combatte, ma non esamina le sue forze in sé stesse; il dog- matico edifica, ma non cerca di scrutare la potenza che in ciò adopera; il Critico al contrario comincia col porre ad esame ciò, di cui gli scettici ed i dogmatici si servono fin dal bel principio senza discussione : così mentre io scettico ed il dogmatico hanno un teorema, di cui debbono 22 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. fornire la dimostrazione, la Critica ha un problema, cui deve risolvere (pa". 3o9J. La Critica per virtù del suo problema si pone n capo della storia; ne cava profitto e la chiude o per sempre o per aprire un nuovo corso agli studi filosofici i pag. 3 io). Quanto poi ali oggetto ed alla natura costitutiva della Critica, questa non è per il Mazzarella un semplice esame critico delle nostre facoltà precedentemente alla trattazione delle questioni metafisiche, ma è l'esame di ciò che è nella Ragione in rapporto al pro- blema della Scienza; iacoltà e quistioni metafisiche sono esaminate insieme e come luna l'altra (pag. 345): altra cosa è la Critica generale delle co- gnizioni umane, ed altra la Critica della scienza, benché possano incon- trarsi in varii punti (pag. Soy): la Critica, per esaminare se la scienza è possibile, non può semplicemente esaminare la facoltà di conoscere: ella dee ascendere alla facoltà più alta, che la Ragione pretende di avere, alla facoltà scientifica, -AV ingegno filosofico : che 1 uomo possa sapere qualche cosa, è ammesso pur dagli sceltici; la questione critica è se possa giun- gere al primo principio delie cose (pag. 354): quindi la vera dimanda della Critica è questa: la facoltà scientifica, di cui si vanta la Ragione, può giugnere a costruire la Scienza prima (pag. 355)? Per quel che ri- guarda ai limiti ed all'estensione della Critica, essa non tende a creare una scienza nuova: essa aspira a un metodo nuovo; e perciò none per se stessa una scienza, ma una propedeutica e sia della scienza, se questa è possibile, e sia dello scetticismo, se la fosse impossibile (pag. 353, 354): la Critica dcbb essere suprema legislatrice e avviatrice di scienza, non la sua distruggitrice ; e se per caso questa fosse impossibile, deve giungere ad averne il sentimento dopo certi ed ineluttabili esami , non già nutrirla ed accarezzarla fin da principio (pag. 90): la Critica della Scienza dee esser breve, se vuol essere veramente critica e non convertirsi in Meta- fisica: il Critico dee pervenire a dimostrar possibile o impossibile la scienza, e non deve usurpare l'ufficio del Metafisico, del Logico, dello Psicologo, o dello Scettico: un metodo, de' principii, e lo accennamento d'un av- venire, ecco ciò che entra nel suo compito (pag. 96). L'Autore conchiude la sua opera scrivendo così : « La Critica non è, che una Introduzione » per la Scienza; ecco il pensiero, che ci ha governato in tutto il corso » di quest'opera. Ella ha determinato la possibilità della Scienza, fissan- )) done il principio generatore e il metodo ». Veduto che cosa sia la Critica e quale il suo intendimento, rimane a chiedere se si debba o no discutere il problema che essa ci propone a PER GIUSEPPE ALLIEVO. 23 risolvere prima del problema metafisico intorno alla possibilità della Scienza prima. Alla quale domanda credo di poter dare una risposta negativa e ne addurrò le ragioni in conferma. A tal uopo raccoglierò in pochi pro- nunziati fondamentali la dottrina critica per sottoporla ad esame. Sostiene il Critico 1° che prima di costruire la Scienza prima vuoisi cercare se essa scienza sia possibile ; 2° che la Critica è necessaria ed inevitabile allo scet- tico del paro che al dogmatico; 3° che suo intento è di pronunciare un giudicio decisivo ed inappellabile tra le due opposte sentenze dichiarando possibile od impossibile la Scienza prima; 4° che la Critica debbe deter- minare il metodo suo proprio razionalmente, e quindi fissare il supremo principio del sapere ed il metodo stesso della scienza metafisica, di cui non debbe usurpare l'uflìcio, ma essere una mera propedeutica od Intro- duzione. Facciamoci ad esaminare la prima di queste quattro proposizioni fondamentali : essa comincia dal porre in dubljio il valore della ragion filosofica e rendere problematica la stessa scienza della Metafisica. Ora io tenyo che con ciò il Critico viene a negare fin da principio la realtà e l'esistenza stessa della Metafisica , posciachè ponendo in forse e conte- stando la legittimità ed il valore della ragion filosofica, si chiude con ciò ogni via e si toglie di mano ogni mezzo per uscire dal suo stesso dubbio, e decidere della possibilità della Scienza prima. Infatti con quale mezzo può il Critico risolvere il suo problema e potrà lo spirito umano giun- gere al Vero filosofico.' Certo con verun altro mezzo se non colla ragione; ma se questa ragione è avvolta fin d'ora nel dubbio e se ne contesta il valore, manca perciò ogni mezzo per riescire nell' intrapresa. Il Critico muove dal dubbio, chiedendo se la Metafisica sia possibile, e questo dubbio colpisce la facoltà stossa che deve produrre la Scienza: da un dubbio sif- fatto, che non è fittizio ed ipotetico, ma reale e scettico, non può piiì uscire né la verità critica né la Metafisica. V'ha, gli è vero, un dubbio che è fecondo di nuove verità, quello cioè che sorge nello spirito dalla contemplazione di una verità anteriormente ammessa; giacché la mente umana é così fatta, che raggiunto un Vero, tosto gli germogliano accanto uno o più dubbii, che conducono a nuove verità ove siano soddisfatti, in quella guisa che appiè di un albero piantato si veggono sorgere più e più rampolli o germogli; tale è il dubbio di cui parla Dante là dove scrive : Nasce per quello, a guisa di rampollo, Appiè del vero il dubbio Farad., canto I, vers. 130, (31. 24 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Silfalto dubbio è fecondo di nuovi veri perchè presuppone un Vero anteriore, da cui germoglia; ma tale non è il dubbio critico, non ammet- tendo anteriormente a sé nessun Vero filosofico: il dubbio assoluto, reale e scettico non può condurre che ai dubbio. V'ha pure un dubbio ipotetico ossia metodico che consiste nel supporre la non esistenza di ciò che altri vuol dimostrare, ma che però presuppone altre verità già ferme ed inconcusse di cui giovarsi per compier la dmiostrazione ; tale era il dubbio metodico di cui si servivano gli scolastici, i quali volendo ad esempio dimostrare resistenza di Dio, cominciavano dal porre la questione Jn Deus sit; ma ciò non era che una pura ipotesi, un processo, non già un dubbio vero e reale intorno all'esistenza di Dio; così S. Tommaso intitola le sue trat- tazioni questioni. Ma il dubbio del Critico non è veramente ipotetico né metodico, ma serio e reale, ponendo egli in forse la possiljilità della Me- tafisica ; lo che è tanto vero che il Mazzarella sostiene che la Critica in atto di risolvere il suo problema debbe porsi in uno stato d'indifferenza vuoi verso lo Scetticismo, vuoi verso il Dogmatismo, né debbe recarvi ve- runa opinione preconcetta. Di che ne inferisco che il dubbio da cui parte il Critico gli toglie ogni mezzo non solo per giungere al Vero metafisico, ma ben anco di risolvere il suo stesso problema critico. Si dirà : il dubbio della Critica ammette un Vero anteriore, quello cioè che costituisce ii sapere comune, sebbene neghi il Vero che forma il sapere filosofico; il Critico non mette in forse la ragione ossia il pensar comune, sebbene du- biti del valore della ragion filosofica ossia del pensare speculativo. Vano sutterfugio sarebbe questo ; poiché in tal caso occorrerebbe il dimandare al Critico, se e come egli possa giovarsi della ragion comune per giudi- care del valore e delle forze della ragion filosofica, e muovergli questione qual divario egli interponga fra il pensare ed il sapere comune e fra il pensare ed il sapere filosofico: qualunque sia la soluzione che si vuol dare a questa gran questione, qualunque sia il divario, o di sostanza o di forma che altri stabilisca fra il pensare comune e la ragion filosofica, certo è che il Critico non può razionalmente giovarsi della ragion comune, per giudicar il valore e segnare i limiti fra la ragion comune e la filo- sofica, fra il Vero comune ed il V ero metafisico senza aver prima giusti- ficato fuso razionale che egli fa della ragion comune per la soluzione del suo problema; lo che lo condurrebbe fuori del campo della Critica per determinare qual guisa di divario interceda fra il pensar comune ed il metafisico. Io non trovo perciò differenza sostanziale fra lo scettico, che PER GIUSEPPE ALLIEVO. sS avvolge in un dubbio universale tutto il sapere umano, ed il Critico che muove dal dubbio intorno alla validità della ragion filosofica per la co- struzione della Metafisica; quindi indarno il Critico si tiene superiore al dogmatico ed allo scettico pel suo metodo, d quale in sostanza si converte nel dubbio scettico. Né varrebbe l'avvertire che tra il dubluo del Critico e quel dello Scettico vi intercede questo divario, che il dubbio dello Scettico è permanente, mentre il Critico muove dal dubbio non già per rimanervi , come fa lo Scettico, ma per uscirne ; vana, dico, sarebbe tale avvertenza, perchè, come abbiamo superiormente avvertito, il Critico si è chiusa ogni via per uscire dal dubbio, in cui si è gettato. Alla osser- vazione critica fatta finqul intorno alla prima proposizione fondamentale della dottrina critica è da aggiungersi quest'altra, che la questione pre- giudiziale mossa dal Critico al Metafisico può ritorcersi contro di lui. In- fatti egli propone che prima di por mano alla soluzione del problema metafisico si cerchi se la ragion filosofica sia da tanto ; e noi alla nostra volta gli proponiamo la questione pregiudiziale se il problema critico vada risolto anteriormente al metafisico; egli pone in forse, se la ragione umana sia valevole a costrurre la Scienza prima ; e noi gli proponiamo alla nostra volta il dubbio, se la ragione umana sia capace di risolvere in modo ade- quato e satisfacente il problema critico; lo che ci respingerebbe d'una in altra questione pregiudiziale senza mai fine. Analizziamo ora la seconda jiroposizione , che cioè il probleana critico è necessario ed inevitabile a see;no che il dogmatico del paro che lo scettico sono costretti ad accettarlo. Io tengo al contrario che né il dogmatico né lo scettico il * debbano accettare; non il dogmatico, il quale non soffre nemmeno un istante che si metta in dubbio e si contesti il valore e la legittimità della ragion filosofica, a cui egli dice doversi prestar fede sin da principio, sotto pena di minare inevitabilmente nel nullismo e nello scetticismo; non lo scettico Kanziano , il quale avendo già risolto il problema critico, e conchiuso alla impossibilità della Metafisica, non può più accogliere il pro- blema critico, se sia possibile la Scienza prima. Non meno insussistente è la terza proposizione, in cui si stabihsce, intento finale della Critica essere questo, di sciogliere in modo decisivo e perentorio la controversia fra lo scettico ed il dogmatico provando impossibile o possibUe la Meta- fisica. Se tale é l'intento della Critica, io dico che essa fallisce al suo compito. E veramente qual valore potrà ancora avere e quale autorevo- lezza la sentenza che pronuncierà la ragion critica intorno alla possibilità Serie II. Tom. XXX. 4 26 II' pnOBI.KMA METAFISICO ECC. della Scienza prima, dacché voi stesso avete posto in dubbio e conte- stala la validità dei pronunciali di essa raijione.' E come potete voi pre- tendere che lo scettico ed il dogmatico si acquetino al giudizio emesso dalia ragione, se questa cessa di essere autorevole perchè voi stesso ne avete scalzate le fondamenta? La gran controversia adunque continuerebbe a pendere indecisa per manco di autorevolezza da parte del tribunale che pronuncia da arbitro la sentenza. Il Mazzarella sciive che k la Critica non » può pigliar le mosse da una supposizione, e che sin da suoi primi passi » deve ricercare il metodo che le è proprio, e con precisione determi- » narlo (pag- ?>25) ». Ma qual valore, chieggo io, potrii avere tutta la vostra ricerca del metodo critico, se non conoscete per anco le forze della ragione e dubitate pur ora se la scienza sia possibile.' Tutta la vostra metodologia critica, anzi tutta la vostra Critica è puntata in aria, perchè lavoro di una ragione, di cui contestate la legittimità ed il valore scien- tifico; e voi stesso non avete più di che assicurarvi della felice soluzione che darete al problema critico. 11 fatto viene qui in conferma di queste osservazioni teoriche. Kant si propose il proldema critico a discutere e lo risolse nel senso dello scetticismo conchiudendo ali impossibilità della Metafisica; i\ Mazzarella discusse lo stesso problema e da esso conchiuse alla possibilità della Metafisica: quale di queste due soluzioni è la vera.' Ci vorrebbe un'altra critica per giudicare del valore di queste due, e cosi all'infinito; lo che prova che la Critica non raggiunge il suo intento, che è di pronunciare una sentenza decisiva ed inappellabile nella controversia tra lo scettico ed il dogmatico. Aggiungasi, che Kant vuole si esamini la ragion piu-a, cioè scevra di ogni contenuto oggettivo per decidere intorno alla possibilità della Metafisica; ma ciò è un rendere impossibile la de- cisione, giacché io non posso decidere se la ragione sia capace di una Scienza prima senza esaminare la ragione non in sé, ma in rapporto col- l'oggetto che costituisce il prol)lema metafisico, cioè colla realtà assoluta. Anche la quarta proposizione panni .inammessibile, perchè si assegna alla Critica ciò che debb'essere di spettanza della Metafisica, cioè la ricerca e la determinazione del primitivo assoluto. - PER GIUSEPPE ALLIEVO. 27 Pusizioiie del problema metafisico ( Pensare crìtico ). Il problema metafisico importa , siccome sua condizione primaria ed in- declinabile, una mente che lo ponga e lo determini: l'atto con cui la mente umana pone il problema può essere denominato pensare critico; del che si scorgerà Ira breve la ragione. Ma d pensare critico è forse il primo degli atti da cui s'inizia il movimento progressivo della nostra vita mentale, o non venne forse preceduto da una serie di altri atti intellet- tuali che ne siano come a dire una logica condizione, un germe preesi- stente? L'osservazione interna ossia il senso intimo ci attesta, che il pen- siero umano prima di porre il probleuia metafisico intorno alla realtà uni- versale, ha già riflettuto , sebbene in modo assai imperfetto, intorno alla medesima; ha emessi varii e multeplici giudizi e raziocinii, ha compiuti insomma, più o men bene, più atti intellettuali che lo misero in possesso di un tal quale determinato sapere. A tutta questa serie di atti, che pre- cedettero U pensare critico, daremo il nome di pensare comune, perchè appunto è comune all'universale degli uomini, tantoché senza il sapere, che per mezzo di esso si ottiene, fora impossibile la vita stessa umana. Ma in che modo mai procede lo spirito dal pensare comune al pensare critico? E come si collegano questi due momenti del pensiero e in che si distinguono? Il pensare comune ha un contenuto che si denomina sa- pere comune e che risiede in un complesso slegato di cognizioni imper- fette intorno a Dio, alla natura, all'uomo, alla realtà universale: cogni- zioni siffatte, appunto perchè imperfette e sconnesse, non valgono ad ap- pagare le brame dello spirito umano, che tende al perfetto ed all'assoluto: quindi il pensiero, punto dal desiderio del Vero^ pig'ia ad esaminare il sapere conmne, vi scorge imperfezioni, vi discopre antinomie e contrad- dizioni apparenti prodotte dall'aver considerati gli esseri sotto aspetti re- strittivi e limitati anziché nel loro vasto insieme. In questo istante lo spirito è conscio dell' insulTicienza del sapere comune e sente il bisogno di uu sapere superiore e compiuto, che tolga le imperfezioni del primo e sciolga le antinomie in cui è avviluppato: da quest'istante è sorto il pensare critico cosi denominato perchè è un giudizio emesso intorno alle imperfezioni del pensare comune. Che se il pensare critico è la consapevolezza che ha 28 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. l'uomo deiriiisuificienza del pensare e sapere comune e il sentimento del bisogno di un sapere superiore o filosofico, è chiaro come il pensare cri- tico mentre per una parte è preceduto tlal pensare comune, pei- 1 altra vuol essere susseguito da un'altra forma di pensare che chiameremo pen- sare speculativo o metafisico. Questi tre momenti o forme di pensare che al)l)iamo distinto nel periodo evolutivo della vita mentale vanno Inno dal- l'aJLnj distinti e per riguardo alla forma del loro contenuto e per rispetto al diverso ufficio a cui adempiono. E primamente per riguardo al loro contenuto, sehhene sia in londo e sostanzialmente lo stesso, pure diver- sifica assai di forma ossia di grado, posciachè le cognizioni, che costi- tuiscono il contenuto del pensare comune, sono imj)erfette sia percliè sconnesse e prive della suprema unità sistematica e sia perchè lontane ancora dal loro sviluppo definitivo; potremmo quindi stahilire per cara t- lere distintivo del sapere comune questo, che esso è dogmatico ossia re- lativo inquantochè manca dell'ultima ragione scientifica, ossia di quel primo principio ideale, che solo può imprimere al sapere umano lo stampo dell'unità sistematica ed il suggello della perfezione. Però sebbene il sa- pere comune diletti della ragione scientifica assolutamente suprema, esso tuttavia non va privo di ragioni scientifiche secondarie e relative; il perchè erroneamente esso viene da alcuni filosofi tedeschi connotato col titolo di sapere cieco e.l irrazionale, parendo a me che i due termini di sapeie e di iririzionale facciano a cozzi tra di loro. Per contro le cognizioni, che formano il sapere critico, sono meno imperfette delle prime inquantochè in (piesto secondo momento il pensiero ha acquistato la consapevolezza deUmsutficienza del sapere comune e sentito il bisogno di un sapere su- periore, che compia il primo e io perfezioni; e siccome quivi si pone il problema della Scienza prima, perciò il sapere critico ha per carattere distintivo di essere problematico ; mentre il sapere speculativo o metafisico, in cui si è scoperta la ragione suprema spiegativa di tutta la scienza , va distinto dagli allri due precedenti in ciò che esso è razionale nel senso assoluto della parola. Di che si scorge come il pensare critico interme- diando Ira i due estremi momenti del pensiero umano, sia come a dire il punto d'indilfeienza in cui si congiungono gli altri due, essendoché in esso cessa il pensare comune per essere dappoi convertito in ispeculativo, simile al color bi'uno, di cui parla Dante, che non è nero ancora, e l bianco muore. Queste tre forme di pensare e di sapere si distinguono seconda- mente per rispetto al loro ufficio: essendoché il pensare comune ha per PER GIUSEPPE ALLIEVO. 29 ufficio di ammanire allo spirito umano quel corredo di cognizioni intorno a Dio, al mondo, all'uomo, che sono come la base ed il fondamento della nostra vita operativa e morale, il pensare critico ha per proprio di porre il problema della Scienza, determinandone il contenuto, fermando i dati per risolverlo ed additando lo scopo a cui è indiritto; mentre al pensiero speculativo spetta il risolvere' il problema proposto, trovando la suprema ragione sufficiente del conoscere, ossia il primo principio scientifico, e Ira- ducendo così il sapere comune in sapere metafisico o speculativo. Donde apparisce, come il contenuto del pensiero umano, sebbene diversifichi di forma ne tre diversi mumenti o periodi della vita mentale, pure sia mai sempre nel suo fondo o sostanzialmente lo stesso, sicché il sapere speculativi! non è in sua essenza altro che lo stesso sapere comune, ma svolto e ridotto a rompimento dopo di essere stato ridotto a forma di problema dal ])ensiero critico. Però queste tre forme di pensare che siam venuti fin qui divisando, sebbene si distini^uano in riguardo a due capi ora accennati, pure non van risguardate siccome disgiunte e srisse Tuna dall'altra, quasi fossero tre forze radicalmente diverse, che si spieghino luna in separato dall'altra con intendimenti diversi, ma bensì come tre momenti continui di una medesima forza od attività, che si mantiene mai sempre la stessa ed iden- tica nella continuità del suo sviluppo. E qnal è il punto di unione o di continuità, che collegando queste tre guise di pensare fa di esse una sola ed identica attività.' E lo spirito umano, il quale uscendo dal pensare comune come da uno stato rudimentale ed imperfetto fa passo al pensare critico, e riposa da ultimo nel pensare speculativo siccome in sua forma perfetta e terminativa: di vero, è desso il pensieio umano, che produce il sapere comune; desso che pone il problema metafisico; desso che lo risolve. Se vi ha siffatto legame di continuità fra questi tre momenti del pensiero, per modo che mutuamente si presuppongono ed insieme s'in- tìecciano, e se, come abbiamo testé avvertito, il pensare critico è quasi il punto d indifferenza, in cui il pensare comune e lo speculativo si con- giungono e si trasformano l'uno nell'altro, si scorge quale giudizio abbiasi a portare di quelle teorie filosofiche, le quali o vorrebbero scindere il pensare ed il sapere speculativo dal comune mettendolo in opposizione con questo, o vorrebbero ammettere solo il pensare critico disgiunto sia dal pensare comune, sia dallo speculativo. La prima di queste sentenze è insussistente, perchè ponendo un dissidio tra il sapere comune e lo spe- 3o IL PROBLEMA METAFISICO ECC. culativo, pone con ciò stesso lo spirilo umano in contraddizione con se me- desimOj e cos'i viene a negare lo stesso pensare speculativo siccome quello che ha per proprio di sciogliere le antinomie del pensiero umano , non già di accrescerle e ralForzarle. Né si dica che essendosi il sapere comune trasmutato nello speculativo, ed avendo perciò cessato di esistere, cessa quindi tra 1 uno e I altro ogni contraddizione, la quale, perchè davvero ci fosse, importerebbe 1 esistenza distinta di questi due momenti intellet- tuali: quest'avvertenza non regge, perchè è bensì vero che il contenuto del pensare comune passando dal primo al terzo momento lia mutato di torma, ma il fondo suo ossia la sostanza è ancora la stessa. Non meno erronee sono le altre sentenze, in cui si pronuncia volersi il pensare cri- lieo disgregarsi e dal comune e dallo speculativo, sia isolando il primo dal secondo, sia escludendo il terzo per ammettere esclusivamente il primo. Il pronunciare che il pensare critico debbe collocarsi in istato di isola- mento e di indipendenza dal pensare comune, rigettando siccome falso lutto il sapere comune o ponendo in dubbio ed avvolgendo in uno scet- ticismo universale tutti i suoi dettati, come léce Cartesio, è un chiudersi il passo alla posizione ed alla soluzione del problema metafisico ; come per altra parte chi si arresta al secondo momento che è il pensare cri- tico negando il terzo momento che è il pensare speculativo, ruina di ne- cessità nello scetticismo, pone lo spirito umano in lotta con se stesso, perchè dopo di aver l'ilevato 1 insufficienza del sapere comune etl il bisogno di un sapere superiore, negagli 1 appagamento di tale bisogno speculativo (i); e siccome il pensare critico ha scoperto contraddizioni ed antinomie nel sapere comune, così se esso non è susseguito dal pensare speculativo che sciolga queste contraddizioni, debbe di necessità ammettere la contrad- dizione siccome legge suprema del pensiero e della realtà: il' dubbio uni- versale e la contraddizione, in una parola lo scetticismo è la conseguenza indeclinabile delle due ultime sentenze succennate. Il sistema di Hegel, che pone la contraddizione siccome legge suprema dell'essere non è perciò un sapere speculativo, ma un sapere critico e, quel che è piiì, falsato e viziato perchè disgiunto dallo speculativo. i Abbiamo stabilito essere ufficio del pensare critico di porre il problema (!) Tale è il Criticismo di Kant, che dicliiara insolubile il problema metafisico ed impotente la ragione a satisfare al bisogno speculativo. PER GIUSEPPE ALLIEVO. Ol metafisico determinandone il contenuto, ossia gli elementi che esso rac- chiude, delineando lo scopo che con esso intendesi di conseguire e fis- sando il dato, da cui come da punto di mossa vuoisi partire per risol- verlo. Facciamoci perciò ad adempiere a siffatto ufficio proprio del pen- sare critico. Facendo tesoro delle riflessioni testé fatte intorno alle tre guise del pensare umano, noi potremmo formolare il problema della scienza ne termini seguenti : Trasformare il sapere dogmatico del pensare comune in un sapere supremamente razionale per mezzo del pensare speculativo: ossia (lo che torna ad un medesimo) perfezionare il sapere comune e nella forma e nella materia, informandolo alla più alta unità sistematica accop- piata alla massima moltiplicità di cognizioni. Questo primo modo di porre il problema metafisico riesce una formola assai vaga ancora ed in- determinala, la quale giova tradurre in altre formole vieppiù esplicite e concrete, lo che tenteremo di fare man mano che riesciremo a determi- nare il contenuto stesso del problema, lo scopo di esso ed il dato per risolverlo. Ora, siccome il pensare critico trae il suo contenuto dal pen- sare comune, cosi a determinafe gli elementi contenuti nel problema me- tafisico non occorre altra via se non quella di dare alla forma dogmatica ed assertiva del sapere comune una forma pitiblematica riposta nell' in- terrogare che fa se stesso lo spirito umano e chiedersi conto e ragione di quanto sa o crede di sapere per mezzo del pensare comune: levarle domande, che egli muoverà successivamente a se medesimo intorno a quanto egli sa riguardo a Dio, al mondo, ali uomo, alla realtà universale, saranno altrettanti elementi che entrano a comporre il problema scientifico e che ci porranno in grado di formolare il problema stesso in un modo più esplicito e determinato. Veggiamolo. Io posseggo i concetti categorici di essere e di non essere, di sostanza e di modo, di causa e di effetto, di uno e di molteplice, di potenza e di atto, di essenza e di sussistenza ed innumerevoli altri di siniil genere; e di essi faccio continuo uso nel discorrere e ragionare, applicandoli a questo, a quell'altro essere; ma quale l'origine, quale il fondamento, quale iJ valore di siffatti concetti che io adopero in modo empirico e dogma- tico.' Ecco una prima interrogazione, opperò un primo elemento del pro- blema metafisico, il problema delle categorie, che, al vedere di alcuni Metafisici, costituisce tutta l'Ontologia, mentre, secondo noi, non è che uno degli elementi del problema , non già tutto il problema della Scienza. Io concepisco il creato siccome una moltiplicità di esseri che si distin- guono e si differenziano gli uni dagli altri : or qual è la ragione della loro 32 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. distinzione e di che guisa è dessa mai.' Ecco un secondo elemento del problema, risguardante il gran principio ontologico della diversità e delia distinzione degli esseri. Io concepisco al di sopra del creato un essere in- finito siccome causa efficiente di tutti i finiti: or in che modo il Creatore produsse questa moltiplicità di esseri che chiamiamo universo.' È questo un terzo elemento del problema che tocca 1 altro gran principio detto di causalità. Io concepisco la realtà finita siccome alcunché di distinto e di diverso dalla realtìi infinita, e questa siccome negazione e limitazione di quella, e net medesimo tempo scorgo che questi due termini si chiamano a vicenda e si piesuppongono : come adunque, io domando a me stesso, possopo coesistere e conciliarsi due cose che si escludono e si oppongono mutuamente? E che guisa di distinzione intercede ha il reale infinito ed il reale finito .' Quarto elemento del problema che concerne le attinenze tra l'infinito ed il finito. Io concepisco Dio siccome giusto e misericorde ad un tempo, siccome semplice e tuttavia dotato di un infinito numero di attributi, siccome libero e pure privo della facoltà di scegliere fra il bene ed il male, siccome immutabile e che tuttavia passò dalla potenza allatto di creare il mondo : aiibiamo stabilito che tutte le cognizioni , che formano il contenuti) del problema, si riferiscono mai sempre all'essere culle sue diverse e molteplici manifestazioni, non abbiamo intesi) l'essere nel senso categorico, astratto e generalissimo, come se fosse alcunché di conmue alla realtà infinita ed alla finita, come un entità generalissima appli- cabile a tutte cose , l essere insomma indeterminato e categorico degli Scolastici, di Wolfio, di Rosmini e di molti altri fdosofi . sibbene l'essere preso nella sua totalità oggettiva e concreta , ossia 1 insieme di tutte le individue sussistenze, vale a dire la realtà infinita e tutta la realtà finita, Iddio ed il cieato presi insieme come un tutto ontologico. Or siccome la realtà universa, cioè infinita e finita può venire insieme colle sue mani- festazioni studiata o nella sua totalità, nel suo insieme, o luna distinta- mente dall'altra, quindi si deriva la partizione della Metafisica in generale ed in ispeciale: la prima parte piglia nome di Ontologia , siccome quella che si travaglia intorno ali essere in universale, o, dirò meglio, intorno alla realtà presa nel suo insieme, nella sua totalità di finita e di infinita: la seconda parte invece si bipartisce in Teologia ed in Cosmologia, se- condochè piglia ad oggetto delle sue indagini Dio o l'universo, la realtà in- finita o la finita. Il problema metafisico adunque racchiude nel suo contenuto tre altri problemi speciali, che sono il problema ontologico risguardante la realtà in universale, il problema teologico relativo alla realtà infinita, cioè Dio, ed il problema cosmologico riferentesi alla realtà finita che è l'universo creato. Di che si scorge, come questi non siano che problemi separati, che possano stare ciascuno da sé. sibbene tre elementi o termini di un solo e medesimo problema fondamentale, essendoché i tre concetti ontologico, teo- losico e cosmolosrico inesistono l'uno nell'altro, e s'illustrano a vicenda. Vedesi altresì la ragione, per cui delle due supreme categorie essere, e ?na- iiifestazioni di essere, a cui sono riducibili tutti i concelli umani, ho scelto a fondamento della partizione della Metafisica quella di essere, preso come sinonimo di realtà concreta e sussistente, non già quella di manifestazioni flell'essere, posciachè queste non istanno da sé od in sé, ma presuppongono il reale, in cui si radichino e sussistano, isolate dal quale non possono am- manire l'oggetto e la materia ad un ramo particolare di scienze metafisiche. PER GIUSEPPE ALLIEVO. 35 a^ Il perchè io mi sono scitstato , nell' intendere e partire la Metafisica , dal concetto fondamentale che se ne formarono molti filosofi , fra cui Wolfio e Piosmini. Chi piglia tra mano il voluminoso Trattato di Metajisicu del filosofo di Breslavia, vi trova partita questa scienza in Metafisica ge- nerale od Ontologia ed in Metafisica speciale suddivisa in Teologia, Cosmo- logia e Psicologia; perì) i' Ontologia , quale la intese il Wolfio, ha per oggetto l'essere non come sinonimo di realtà universale, ma Tessere ca- tegorico, astratto, generalissimo, in quanto è conume a tutte cose ed è predicabile di tutti gli esseri ; essa è tutta nella soluzione del problema delle categorie, e non si dà pensiero di sorta della realtà infinita e finita nei loro rapporti, ^^on molto dissimile è il concetto che si formò Rosmini della Metafisica generale od Ontologia, sebbene ei l'abbia svolto in modo aflTatto originale colla sua teorica delle tic forme dell'essere, 1 ideale, la reale e la morale: l'essere da lui posto ad oggetto e fondamento dell'Ontologia non è la realtà universalmente considerata, ma l'essere categorico e comunissimo, in quanto è predicabile di tutte cose. " L Ontologo. egli scrive, ha per » iscopo di dare la teoria dell'essere universale in quant'è comune all'ente » tanto finito, quanto infinito, e però considera lente nella sua possibi- » lità;. . . egli ha uno scopo unico, ed è quello di dare una teoria dell'es- H sere nella sua universalità, senza fare ancora distinzione se sia finito o in- )) finito, di dare cioè quelle proprietà e leggi dell'essere, che si avverano )) in ogni ente tanto finito quanto infinito [Teosofia, voi. i, pag. 40, /ji) »■ Su questo concetto fondamentale ontologico sono lavorati e condotti quasi tutti i trattati di Metafisica che si adoperano nelle scuole , e lo stesso Programma ufliciale di Metafisica per le nostre Accademie ed Uni- versità uscito di recente non ha altro fondamento. Scorgesi di qui quanto e qual divario vi interceda Ira I Ontologia quale venne intesa da Wolfio, da Rosmini e da molti altri filosoli , e la nostra. Noi le assegniamo ad oggetto non l'essere categorico, astratto e comunissimo, ma la realtà infinita e la finita considerate nel loro insieme e nelle vicendevoli loro attinenze, perchè slam persuasi che le categorie disgiunte ed isolate dalle realtà concrete manchino del loro fondamento ontologico , ne possano perciò venire adequatamente comprese, e teniamo oltre a ciò, che un siffatto concetto ontologico apre la via al panteismo, posciachè presuppone, siccome oggetto precipuo dell Ontologia, che abbiavi alcunché di comune alla realtà infinita ed alla finita, mentre non si può scansar il panteismo se non a condizione che nulla siavi di comune tra l'infinito ed il finito. 36 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Determinato il contenuto del problema, si chiede quale ne sia lo scopo. La risposta a sitFatta inchiesta è già implicitamente inchiusa nelle cose superiormente discorse intorno al pensare critico. Pervenuta a questa forma di pensare, la mente umana scorge linsullicienza del sapere comune , e prova il bisogno di un sapere superiore che compia e jiertezioni il primo. E adunque la cognizione di siiUitto bisogno quella che esprime e determina lo scopo a cui vuol giunger lo spirito nel porre il problema della scienza: questo scopo pertanto non può esser altro se non il satisfacimento stesso di tal bisogno, vai quanto dire il sapere speculativo, che è la soluzione del problema proposto , in una parola la teorica metafisica. Cerchiamo ora di determinare con maggior precisione questo scopo delineandone i caratteri. Dimandiamo: chi è che costruisce la teorica metafisica, ossia il sapere speculativo? La natura umana. E con quale intendimento essa natura umana costruisce la teorica metafisica? Certo, con questo fine di satisfare ai bisogni proprii dello spirito umano e ad esso inerenti. Di qui io ne inferisco per prima condizione di una teorica metafisica, questa, che essa sia conlorme ai bisogni stessi della natura umana, rispettando le esi- genze e conciliandola colla realtà; in una j)arola che essa sia umana. Or quali sono le esigenze della natura umana, quali le sue tendenze, i suoi bisogni, le sue aspirazioni? Due sono le tendenze precipue della natura umana, pensiero ed azione: luomo non vive sol di pensiero, ma altresì di azione: non è tutto speculazione, ma altresì sentimento; non ragione soltanto, ma affetto; non solo riflessione, ma cuore. Il bisogno dellazione, ossia della vita pratica è un bisogno imperioso, cui nessuna teorica me- tafisica })U() disconoscere; la destinazione dell uomo di Fichte, la ragion pratica di Ivant, il dubbio stesso metodico di Cartesio, che fra i precetti del suo metodo pone questo, di conformare la sua vita pratica ai pro- nunciati del senso comune in tutto il frattempo che gli sarebbe occorso per uscire dal dubbio universale, in cui si era avvolto, attestano la verità della proposizione che stiamo svolgendo. Kant, dopo di avere colla ragion pura o speculativa distrutte le credenze del .senso comune intorno all'e- sistenza di Dio, alla libertà morale, alFimmortalità dell'anima, cercò di riedificarle con un'altra specie o guisa di facoltà che ei pose accanto alla prima, e denominò ragion pratica, riconoscendo con ciò la necessità della vita operativa e morale , la quale presuppone come suo naturai fonda- meato le credenze intorno a Dio , alla libertà , all'immortalità avvenire. Fichte poi, nel libro terzo della sua opera Destinazione dell uomo , cosi PER GIUSEPPE ALLIEVO. 3n si esprime: « Io non son fatto unicamente per sapere; la mia destinazione, » il mio dovere è di agire; sol per l'azione ho un valore. Questa è la » voce della mia coscienza, ed ella si dirige irresistibilmente a qualche cosa ' » di reale fuori di me, superiore al sapere, e per rapporto a cui questo )> non è che un mezzo ». Se adunque tale è la natura umana, tali i suoi bisogni, le sue aspirazioni, è chiaro che una teorica metafisica a voler essere umana , cioè conforme ai bisogni del nostro spirito , debbe rico- noscere e spiegar l'uomo in tutta Tintegrità della sua natura, tener conto di tutti gli elementi integrali dell' umanità , non distruggerne o negarne alcuni a favore di altri, debbo cioè conciliare l'uomo colla realtà quale è data e dall'esperienza esterna e dal senso intimo, conciliare nell'uomo la vita del pensiero con la vita di azione, la ragione col sentimento, la speculazione col cuore, la riflessione colf all'etto; in una parola, vuol essere realistica nel senso fdosofico della jtarola , ossia vera , giacché il veio è il riconoscimento teorico e razionale della realtà. Da siffatta con- dizione, cui debbe adempiere una teorica metafisica, scopo del problema, si trae il criterio per giudicare della veracità di un sistema speculativo : ogni teorica, che non sia umana, che cioè non riconosca e spieghi l'uomo tutto quant'è, non tenendo conto di tutti gli elementi integrali dell'umanità, ogni teorica che non sia realistica, che cioè disconosca la realtà sia esternaj sia interna , che è un bisogno imperioso ed indeclinabile dello spirito umano, è insussistente perchè non è vera: giacché l'uomo, anche cjuando si è sollevato all'altezza del sapere speculativo, non cessa di essere uomo; continua in lui filosofo la vita pratica ordinaria , anche suo malgrado , perchè fa parte integrale di sua natura, non potendo mai l'uomo essere ridotto ad una pura speculazione, ad un pensi'ero meramente teorico dis- giunto dallazione , poiché in tal caso cesserebbe di essere uomo; quindi una teorica metafisica . che disconosca la realtà della vita , pone chi la professa in contraddizione con se medesimo, essendoché egli nega come filosofo quelle credenze e que' pronunciati del senso comune che pur come uomo è costretto, suo malgrado, ad ammettere, perchè sovr'esso si regge e si fonda la vita ordinaria operativa che egli vive. Piacerai qui riferire, in conferma di tutto questo, il seguente passo di A. Franck , estratto dall' Introduzione della sua opera De la Certitude : « No . il partito che resta a prendersi non è di abbandonare la meta- >) fisica . di togliersi affatto alia speculazione , ma di unire strettamente » la metafisica con la morale, rendendola accessibile ad un piìi gran nu- 38 II. PROBLEMA METAFISICO ECC. » mero d'intelletti , di non obbliare , elevandosi alto nella speculazione , « le condizioni, gì interessi, gli elementi della vita attiva e lo scopo ul- n timo dell esistenza. Imperocché si scorge, che 1 uomo non è crealo per » il solo pensiero, e non gli è lecito, per usare la bella espressione d un » filosofo contemporaneo , di isolarsi sotto quella forma d egoismo , che )) astrazione s'appella. Che la filosofia si fissi nell'umanità e nella vita, » e 1 umanità e la vita si fisseranno in lei , e diverrà un giorno , come » altra volta è. stata, l'arbitra del mondo ». Di qui si possono distinguere due forme e guise di Metafisica, realistica l'una, idealistica od astratta l'altra. La metafisica realistica riconosce mai sempi-e la realtà della vita, pur mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall alto : essa rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze della natura umana, tien conto de' suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose aspirazioni, e non disconosce veruno desìi (elementi integrali dell'umanità; essa è la sola vera e sussi- stente , perchè umana e rispondente al fine ed allo scopo ultimo del- l' esistenza. La metafisica idealistica od astratta per lo contrario non si sta contenta di trasformare soltanto il sapere comune in un sapere più elevato e superiore, sibbene lo Irasnatura negandone il contenuto primi- tivo : dimentica dello scopo supremo della speculazion filosofica, non si dà verun pensiero di satisfare a tutti i bisogni dello spirito umano scien- tifici, religiosi e sociali, ma straniando l'uomo dal mondo della realtà e perdendo di vista la vita operativi, lo pone in contraddizione col sapere comune e colle credenze istintive dello spirito, tentando, se pur fosse possibile, di ridurre l'uomo ad una pura speculazione, « disconoscendo in esso laltro non meno imperioso bisogno dell azione e della vita ope- rativa. Una Metafisica silTatta è difettosa ed insussistente perchè dimezza r uomo e niega la realtà cui dovrebbe spiegare. Noi ci contentiamo di avere qui accennato di passaggio queste due forme di Metafisica, di cui discorreremo piiì a lungo altra volta. Il .Mazzarella nella sua pregevole opera La evitica della scienza pone in assai bella luce l'indole realistica di cui debbessere rivestita una teorica filosofica là, dove alla pagina ^GZ e seguenti si fa a dimostrare ciie il primo principio metafisico vuol essere teorico -pratico , e non semplicemente teorico o speculativo. Che se una teorica metafisica, scopo e termine del problema, debbe avere per prima condizione ({uesta , di essere umana . si scorge qual giudicio abbiasi a recare di quella sentenza della scuola hegeliana, la quale pretende di PER GIUSEPPE ALLIEVO. Sq identificare ìa ragione nostra coll'intelligenza divina, e tiene lo spinto umano capace di costrurre una teorica metafìsica, che sia un sapere per ogni verso assoluto, uua scienza onninamente perfetta ed infinita, quale quella d'Iddio, in cui tutto sia svelato il gran mistero dell esistenza, e resi aperti i segreti di tutta la creazione. Tale non é, uè può essere lo scopo, che lo spirito limano si propone riguardo al piohlema della scienza; egli non pretende di diventare un Dio, né aspira perciò ad un sapere speculativo che sia onninamente assoluto ed infinito; ei si propone di ottener un sapere che gli spieghi le sue tendenze, che risponda alle sue esigenze ed aspirazioni, che appaghi i bisogni pi-oprii di lui ed inerenti alla sua natura, vai quanto dire una teorica umana, non divina. Se si avverte, che il sapere speculativo, scopo del problema, è lavoro di uno spirito limitato e finito, qual è il nostro, si scorgerà l' inipossi- jjilità dell'assunto, che gli hegeliani assegnano alla ragione umana, voglio dire un sapere assoluto ed infinito. Lo spirito nostro sa di esser finito e limitato per una parte, e per 1 altra ei présente, che la realtà, aggetto del suo pensiero , ossia l'essere, è Ulimitato, immenso, infinito; dal che s' inferisce , che la sua teorica metafisica non potrà essere se non con- forme alla sua natura finita e limitata ed a' suoi proprii bisogni , ossia non potrà essere un s;ipeie infinito ed assoluto nel senso dell hegelianisnio, sibbene finita ed umana; e che perciò vi sarà mai sempre nel suo pro- blema una X, una quantità incognita, cui non giungerà mai ad eliminare; questa x è appunto il sovrintelligibile delle cose, ossia la loro essenza ontologica, l'assoluto, che gli hegeli.ini ci dicono di avere perfettamente compreso , anzi di averne fatto una teorica , una scienza assoluta essa stessa ; mentre se si pon mente , non alle magnifiche promesse ed alle tragrandi pretese, ma al fatto, si scorge che il loro idealismo assoluto, ben lontano dall'averci dischiuso il grande arcano dell esistenza, ci lascia anzi in un buio più fitto di prima, niegando quella stessa realtà cui do- vrebbe spiegare. In l>reve, il pensiero umano è limitato e finito; dunijue a più forte ragione lo debb' essere il suo lavoro speculativo , che è la scienza ; altramente dovrebbesi minar iieUassurdo di ammettere l'elFetto maggiore della causa. La prima condizione, cui vuole adempiere una teoria metafisica, da noi testé accennata, si riferisce alla materia della scienza metafisica, riposta nelle varie e molteplici cognizioni di cui essa si elemenla, le quali vogliono ■tulle essere vere o realistiche, cioè conformi alle esigenze ed ai bisogni ^O IL PROBLEMA METAFISICO ECC. della natura umana, la quale non può passarsi della realtà. Ma la scienza non ha solo una materia, sibbene altresì una forma, con cui la materia medesima venga accoppiata , e che risiede nel nesso logico che deve sistemare e collegare ad unità la moltiplicità delle cognizioni scientifiche. Di che si deriva una seconda condizione della teorica metafisica, la quale vuol essere sistematica nella forma, come debbessere realistica, cioè vera, nella materia. Questa seconda condizione importa, che le cognizioni del sapere speculativo formino un insieme logico e rigoroso, im tutto organico e sistematico tale, che i concetti siano tra loro collegati da un ordine logico rigoroso e dipendano gii inferiori dai superiori, e tutti poi da un concetto assolutamente supremo, che sia come a dire il centro di tutto il sistema, il principio e la radice di tutti gli altri. Certo »■ , che anche questa seconda condizione è necessaria a costruire la teorica metafisica, ma mal s appongono que' filosofi, che la reputano unica e credono che basti essa sola senza la prima: in loro sentenza, la virtù di un sistema filosofico è tutta nell'insieme logico ossia in una rigorosa deduzione di concelti; essi non pongono mente, che la teoria metafisica non debbe solo porsi d'accordo colla logica, ma altresì colla verità ossia colla realtà della vita: un sistema speculativo che manchi di verità, per quantunque ben lavorato e condotto a filo di logica, mal risponde alle aspirazioni dello spirito umano che ha sete di realtà e non può vivere senza il Vero, e potrebbesi con Bacone paragonare a que ragnateli, che sono tenuUate fili atque operis mirabiles , sed quoad usum frivoli et inanes. Delineato lo scopo del problema e fermate le condizioni di una teoria speculativa, possiamo di qui derivare una nuova lormola, un nuovo modo di porre il problema, enunciandolo con questi termini: Costrurre una teorica me- tafisica, vera nella materia e sistematica nella forma. Resta a determinare il dato per risolvere il problema, ossia il punto di mossa da cui vuoisi partire per la costruzione della scienza nostra. A tal uopo credo anzitutto conveniente di avvertire, che per punto di mossa si può intendere o lo stato mentale in cui si trova lo spirito umano in atto di cjstrurre la Scienza, oppure un concetto, che serva allo spirito di guida e quasi a dire di filo conduttore al processo che percorre nel lavorare la teorica metafisica. Quanto allo stato mentale dello spirito nel- l'atto di iniziare il suo sapere speculativo, esso non può essere altro di necessità se non quello in cui di presente si trova, cioè a dire il pensare critico, che contiene il sapere comune ridotto a forma di problema: or PEn GIUSEPPE ALLIEVO. 4l siccome la fonna problematica data al sapere comune risiede in una serie di interrogazioni che il pensiero umano muove a sé medesimo chiedendo ragione dei pronunziati del suo pensare comune, e siccome questa raoion suprema, questo primo principio che deijbe rendere razionale, spiegandolo, il sapere comune, egli la presuppone colle sue stesse inlerrogazioni e la va cercando, ma non l'ha per anco raggiunta, così j)ossiamo stabilire queste due proposizioni; i° die il primo momento del processo dello spirito nella costruzione della Scienza è ascensivo, il secondo discensivo, che cioè da prima egli ascende dallo stato mentale iu cui si trova tino alla cognizione ed alla scoperta del primo principio per poi discendere da esso alle cognizioni molteplici e parziali collegandole ad unit'i siste- matica intorno al supremo principio; 2" che il primo atto del pensiero debbe per una parte riconoscere la realtà quale è data dal senso intimo e per l'altra ammettere la necessità di un primo principio che la spieghi e ne renda ragion sufficiente, e che perciò il primo mezzo da adoperarsi nella soluzione del problema è l'osservazione, la quale vuol essere susseguita da un secondo mezzo che è il ragionamento rivolto a determinare il supremo principio, muovendo dall'osservazione della realtà. Dal che si scorge, quanto vadano lungi dal vero e gli empirici, che vorrebbero esclusivamente ado- perato il metodo osservativo disgiunto dal razionale, ed i trascendentali che tengono la sentenza opposta: la verità sta nell'accordo di (pieste due sentenze; ci vuole osservazione e ragionamento, e prima quella, poi questo; 1 osservazione ci dà i materiali della Scienza, il ragionamento li lavora e li trasforma in sapere speculativo: l'osservazione senza il sussidio del ra- gionamento non può sollevarci fino alla Scienza; il ragionamento non appoggiato all'osservazione mena ad una scienza astratta che trasnatura la realtà invece di spiegarla. Si inferisce altresì da quanto abbiamo stabilito I insussistenza di quella metodologia, che vorrebbe, lo spirito umano nel- l'atto di edificare la Scienza cominciasse dal dubbio imiversale intorno a tutte le credenze del senso comime, e che i\ primo suo atto fosse un atto di indipendenza e di isolamento dal contenuto del sapere comune. L'in- sussistenza di 'questa sentenza appare vieppiù manifesta se si pon mente, che l'osservazione è dessa che debbe verificare la speculazione; lo che presuppone che l'osservazione abbia veracità e legittimità quanto al suo ufllcio, né delibasi perciò rigettare fin da principio siccome irrazionale ed illegittima ne' suoi pronunciati. Non bisogna mai dimenticare, che la forza mentale che pone il problema metafisico è quella stessa che il debbe Serie II. Tom. XXX. 6 42 11- PROBLEMA METAFISICO ECC. risolvere; la quale continuità ne' due momenti melodici, osservativo e ra- ziocinativo, viene disconosciuta dai fdosofi, di cui parliamo, quasiché il pensare speculativo, cui spetta di costrurre la scienza, uscisse fuoii dallo spirito umano come per incanto ed all'improvviso, né avesse verna legame di continuità col pensare comune. Che se per punto di mossa s'intende il concetto, da cui lo spirito debbe partire nella serie dei diversi concelti per elaborare la scienza, allora la dimanda vuole avere una diversa risposta. Fichte, Schelling ed Hegel con- vengono nei pronunciare, che il punto di mossa della filosofia preso come concetto non può essere determinato, ma vuol essere ipotetico ed arbitrario. Fichte comincia la sua Dotti-ina della Scienza così: « Noi ci proponiamo di 1) cercare il principio più assoluto, il principio assolutamente incondizionale » di tutta la conoscenza umana », poi soggiunge: « Sulla via, dove la rifles- )) sione va ad innoltrarsi, noi dobbiamo partire da una proposizione qua- li lunque, che sia da tutti accordata senza contraddizione veruna. Di siffatte « proposizioni possono esservene un gran numero, ma la riflessione è libera, 5) e poco importa da quale comincierà. Noi scegliamo la più vicina al 1) nostro scopo ». Scheìhn^ nel suo Sistema dell Idealismo trascendentale, do|)0 di avere stabilito che ogni cognizione poggia sull'accordo di un obbiettivo con un subbiettivo, cioè dell /o, dellintelligenza, e della natura, e che il problema metafisico sta nello spiegare l' incontro di essi due elementi nella conoscenza, non sa poi determinare se per risolvere il problema si debba muovere dal subbiettivo o daH\)ijl)iettivo e crede in- dilFerente il punto di mossa (pag. i, 2). Hegel aneli egli riconosce nella sua Enciclopedia che la difficoltà per la filosofia sta nel precisare il punto di mossa e crede non potersi cominciare che da un supposto che Tosse poi giustificato dal risultato; onde per lui la filosofia è un cerchio, che ritorna su di se stesso, ed ebbe a dire che il punto di mossa della filo- sofia ne é altresì il risultalo. E cosa singolare il vedere, come Hegel, il quale accusa il sapere comune ed il sapere stesso delle scienze seconde siccome cieco, irrazionale, empirico, perchè inconsapevole del suo slesso procedimento e muoventesi quasi a dire alia ventura , staliilisca che la filosofia non può muovere se non da una supposizione, e che il suo pro- cesso iniziale é arbitrario, lo che vai quanto dire irrazionale ed inconscio di sé. Ma il processo filosofico non può essere arbitrario ed ipotetico nel suo punto di mossa senza cessar di essere filosofico: il metafisico ha da- vanti di sé delineato lo scopo che intende di l'aggiungere, epperò spetta VER GIUSEPPE ALLIEVO. 4^ a lui il determinare da quale concetto debita iniziare il suo procedimento per giungere al suo intendimento; giacché non ogni concetto lo può scor- gere diritto al suo fine , sihbene quello soltanto che abbia i caratteri richiesti all'uopo. A chi crede indilFerente il punto di mossa si può do- mandare : o voi avete consapevolezza che il concetto da cui partite vi condurrà alla teoria metafisica, o no; nel primo caso non è pivi ipotetico ed arbitrario; nel secondo ctso voi lo dovete abbandonare, perchè non adoprate da filosofo , e rischiale di far opera vana. Cerchiamo adunque di determinare quali caratteri debba avere il concetto di cui discorriamo, ed in quale concetto si riscontrino e si avverino essi caratteri. A tal uopo giova avvertire, che il concetto di cui parliamo non è il primo principio enciclopedico, in cui giace virtualmente rinchiuso tutto il sapere, perchè, come abbiamo testé stabilito, il primo momento del processo del pensiero non è discensivo, ma ascensivo, epperò il primo principio si cerca, ma non si possiede ancora; quindi si tratta appunto di determinare da quale concetto si debba partire per giungere alla scoperta del primo principio ideale, e costruire con esso la teoria metafisica. Or (pianto ai caratteri , di cui debb'essere insignito il concetto da cui si muove, pare a me si possano ridurre a questi tre principali: i° esso dev' essere una verità indimostrabile e talmente evidente , che abbia ad essere universalmente accettata e da tutti riconosciuta. Si obbietterà forse da taluno, che se il punto di mossa debb'essere un Vero indimostrabile ed evidente per sé , in tal caso sarà il primo noto , ossia il supremo principio ideale, e non più il concetto, di cui intendiamo discorrere. Al che rispondo, distinguendo ciò che é primo noto per sé ed in se stesso da ciò che é primo noto soltanto per rispetto a noi , ossia facendo dilFerenza tra l'ordine logico ed assoluto delle verità ideali ed il loro ordine cronolo- gico e soggettivo: altro é la verità che si presenta per prima al nostro spirito siccome evidente ed indimostrabile , ed altro è quella verità su- prema, da cui, come da loro fonte e principio ideale, derivano tutte le altre verità: fatto questo divario, che d'altronde è ammesso da Aristotele e dall'universale dei filosofi, si scorge come il concetto da cui dobbiamo muovere, possa e debba essere il primo noto relativamente a noi, non già relativamente alle altre verità dello scibile. Dico che debb' essei-e , perchè se si muove da un dato non indimostrabile ed evidente, ma che possa essere revocato in dubbio, ne chiudiamo il passo per giungere alla teoria metafisica: l'incerto non può generare che l'incerto. Vuole adunque ^/^ IL PROBLEMA METAFLSICO ECC. necessità che si muova dal primo noto relativamente allo spirito nostro per giungere al primo noto in sé e per sé. Non basta però che il punto (li mossa sia un vero primo , indimostrabile ed evidente ; si richiede in secondo luogo, che esso sia un concetto concieLo, non astratto, un con- cetto cioè che abbia ad oggetto una realtà, un essere deteruunato, non nn astrazione, una manifestazione dellessere : ciò è richiesto dallo stesso scopo finale del problema, che è la teoria metafisica, la quale, dovendo essere realistica e non astratta , importa che il punto di mossa sia una realtà, non un'astrazione: l'astratto non può dare il concreto ed il reale, perchè non lo contiene. Si richiede da ultimo, che il concetto da cui muove il processo del pensiero speculativo, abijia tale attinenza con tutti gli altri concelti, di cui si dovrà elementare la teoria metafisica, che da esso possa il pensiero procedere logicamente a tutti gli altri, perchè con- nessi col primo (la cui si parto. Or qual è il concetto in cui si avverano tutti e tre questi caratteri da noi designati.' Io tengo per fermo, che esso non sia, né possa essere se non quello dell io umano pensante, lo penso ; ecco il fatto, da cui dobbiamo pigliare le mosse nell'elaborare la teoria metafisica; è questo un primo noto relativamente a noi, una verità evi- dente ed indimostrabile, un concetto concreto, non astratto, e tale che a volerne rendere ragion sufticiente, la mente vedesi costretta ad uscire poi dall'io pensante alla realtà universale, che è suo oggetto, e ad una realtà infinita che sia la ragion suprema dell'essere e del sapere, dell'io e della realtà finita. Dico, che Ito penso è tal verità evidente ed indi- mostrabile, da ottenere l'assenso di tutte le menti, e resistere inconcussa a tutti gli assalti del dubbio; poiché non si dà momento, nel lungo pe- riodo della nostra vita mentale, in cui non si avveri il fatto àeìiio pen- sante , giacché se cessasse il pensiero , cesserebbe con esso l' io umano medesimo. Lo scettico, che pur dubita di tutto, è costretto suo malgrado ad ammettere il fatto di cui discorriamo, poiché non potrebbe pur pro- nunciare il suo io dubito di tutto, se non pensasse; per dubitare occorre di pensare ; il pensiero è perciò la condizione stessa del dubbio dello scettico; tant' è che Cartesio, dopo d' e-ssersi gettato in un dubbio uni- versale , vide di non poter dubitare del suo stesso pensiero , e trovò noWio penso , dunque sono , una verità prima incontrovertibile , da cui pigliò le mosse per riedificare su nuove basi l'edificio delle sue cognizioni. Che più.' Il problema stesso della Metafisica presuppone come sua con- dizione primaria ed indeclinabile I/o penso, giacché senza il pensiero umano PER GIUSEPPE ALLIEVO. 4^ non potrebbe nemmeno essere posto, non che risoluto. Dico in secondo luogo, che Ho penso è un concetto concreto, e non astratto, perchè ha per oggetto una realtà determinata, qua! è l'io pensante, non già un'astra- zione : di che si scorge come il pensiero umano , che noi poniamo sic- come punto di mossa dalla scienza metafìsica, non è il pensiero puro di Schelling , di Hegel e di altri filosofi tedeschi , cioè il pensiero astratto e scisso dal soggetto e dall'oggetto; che tal guisa di pensiero none che una mera astrazione, la quale perciò non può ammanire un giusto punto di mossa allo spirito filosofico; il nostro io pensante è un pensiero con- creto perchè non disgiunto dal st)ggetto che lo possiede, cioè l'io umano, e dall'oggetto cui si riferisce, cioè la realtà universale. Ho detto in terzo luogo, che il concetto da noi stabdito è intimamente connesso con tutti gli altri concetti che debbono comporre la teoria metafisica, giacché dall'io pensante lo spirito fa passo alla realtà universale , oggetto di esso pen- siero , e si solleva da ultimo alla realtà infinita per cercare in essa il fondamento supremo di tutto l'essere. Ci si dirà: dunque voi siete psi- cologista in fatto di metodo, e voi non ignorate come il psicologismo sia stato da Gioberti e da altri filosofi accusato siccome la mina delle scienze filosofiche, la fonte da cui derivò ogni gran male a tutto il sapere, fa- cendolo minare nel soggettivismo, e spogliandolo perciò di ogni autore- volezza e veracità oggettiva. Tutto questo io non l'ignoro; ma rispondo, che le accuse mosse allo psicologismo non colpiscono per nulla il uietodo che noi propugniamo : le obbiezioni che or si fanno reggerebbero e col- pirebbero nel segno, se noi ponessimo il concetto dell'io pensante siccoftie il supremo principio scientifico, l'Idea assolutamente prima, da cui come da germe dovrà dischiudersi tutto quante lo scibile umano; lo che non è, perchè per noi l'io penso non è il Primo ideale, ossia il supremo principio del sapere , sibbene il dato , ossia il concetto , da cui vuoisi nuiovere per assorgere alla scoperta ed alla determinazione di esso primo principio. Quindi è che a me pare infondata ed infedele la critica che fa di Cartesio Gioberti, quasiché il filosofo francese avesse dato il suo ce- lebre io penso, dunque sotto siccome il Primo scientifico, e non già come la verità che per prima si manifestò a lui uscente dal suo stato di dubbio ; Gioberti confonde di continuo il primo noto per sé ed in se col primo noto relativamente a noi. Se tali sono i caratteri di cui vuol essere insignito il concetto preso come punto di mossa , , è chiaro non essere ammessibile la sentenza di 46 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Rosmini su questo riguardo, il quale, pigliando ad esaminare la questione « da (.he cosa debba incominciare la filosofìa », risponde: dall'idea dell'es- sere del tutto indeterminato , sentenza che ha molta analogia con la teoi ira hegeliana, che pone a base dellessere e del sapere il puro indeterminato. Tessere-nulla, la mera possibilità delle cose destituita di ogni determina- zione e realità. Giusta il Rosmini , la filosofia debba muovere dall' idea dell'essere comunissimo, e terminare nell'idea dell'essere assoluto e pie- namente attuato , che è Dio. P^gli avverte , che il sistema della scienza debbe cominciare da un idea che non presupponga verunaitra idea avanti di sé , tale cioè che abbia un primato , una priorità logica su tutte le altre : a tal uopo confronta fra di loro le varie classi di idee , e trova che le idee hanno bisogno, per essere ricevute dalla mente, delle idee meno comprensive, che hanno perciò maggior estensione; di che consegue die I idea prima, la quale non è contenuta né presupposta da verun'altra, e che perciò non è più una supposizione, sarà quella che non avrà nessuna comprensione , epperciò la massima estensione silFattamente che involga tutte le altre, a tutte si estenda, su tutte abbia una logica priorità; silFatta idea non può essere altra se non quella dell essere comunissimo ed inde- terminatissimo; da essa dunque, egli conchiude, debbe cominciare il si- stema della Scienza {Teosofia, voi. i", pag. iG, 17). Noi non possiamo menare per buono questo cominciamento, che Rosmini vorrebbe dare al processo filosofico , giacche il concetto dellessere comune ed indetermi- natissimo è un concetto astratto, anzi la suprema delle astrazioni; essa percit) non può condurci a conoscere nulla nell'ordine degli esseri sussi- stenti e della realtà ; il che egli medesimo il confessa verso il fine del terzo volume del suo Saggio intorno alV origine delle idee, pag. 19-. Né gli gioverebbe il dire, che all'essere indeterminato ed universale va ac- coppiato il sentimento dell'io, il quale circoscrive e determina l'essere e ne fa uscire il reale infinito per una parte , il reale finito per f altra ; giacché in tal caso il cominciamento che si dà alla scienza, non è più il puro concetto dellessere. Gli è vero, che il Rosmini considera fio, ossia il subbietto umano, siccome una condizione materiale della scienza filo- sofica, perchè questa senza di quello non potrebbe essere costrutta, sebbene poi fio non costituisca nemmeno il principio della teoria scientifica [ibid., pag. i5): ciò però non distrugge, né inferma per nulla il punto di mossa da noi stabilito , perchè riposto non nelf io considerato come soggetto, ma nel pensare dell' io. PER GIUSEPPE ALLIEVO. 47 Determinato il contenuto del problema, il dato per risolverlo e lo scopo a cui è rivolto, possiamo di qui raccogliere un'ultima e determinata for- mola espressiva del problema contenente in sé tutte le altre forinole parziali che siain venuti man mano enunciando, ponendo il problema ne termini seguenti: := Muovendo dall'io umano pensante costrurre una teoria me- tafisica materialmente vera , formalmente sistematica , la quale spieghi le manifestazioni dell'essere, trovandone la ragione ultima che ne risolva le antinomie. Il Rosmini, divisate le forme diverse, sotto le quali si presenta all'umano pensiero il supremo problema dell'Ontologia, cosi le riassume alla pag. 63 del volume primo della sua Teosofia . « 1° Trovare la conciliazione delle manifestazioni dell ente col con- » cetto dellente; )) 2° Trovare una ragione sufliciente delle diverse manifestazioni » dell'ente; » 3" Trovare l'equazione tra la cognizione intuitiva e quella di predi- » cazione; » 4° Conciliare le antinomie che appariscono nel pensiero umano; » 5" Che cosa sia ente e che cosa sia non ente ». Riscontrando queste forinole del Rosmini con quelle da me proposte, vi iipparisce un termine comune, lente colle sue manifestazioni. Ma il savio lettore avrà già rilevato nella comunanza di questo termine la di- versità profondissima del significato. L'ente, intorno a cui tutta si tra- vaglia siccome a suo supremo oggetto la metafisica rosminiana, è l'ente comunissimo, il puro indeterminato, la possibilità universale di tutte cose; per me invece l'ente è la realtà universa: dall'ente del Rosmini la scienza non può trar fuori il benché menomo che, perchè esso nulla in sé com- prende ; dal mio, che tutto comprende, la scienza può sgorgare piena ed intiera. Oltreché, nel formolare il problema metafisico, io ho altresì indicato (cosa, che non fece il Rosmini) il punto di mossa, ripunendolo nell'io umano pensante, vai quanto dire nella coscienza della nostra personalità, che sola può salvare la scienza vuoi dall'ignobile materialismo, vuoi dal presontuoso idealismo panteistico e trascendentale. 48 'il problema metafisico ecc. Soluzione del Problema Omologico. (Pensare speculativo). La Metafisica venne ila noi superiormente bipartita in generale od ontologia, ed in ispeciale. Facciamoci dalla prima di queste due parti. Oggetto delTontologia è la realtà in universale, considerata cioè nella dualità dell'Infinito e del finito e nei rapporti delluno con l'altro: di qui deriva che il problema ontologico ha tre termini che sono la realtà infi- nita, la realtà finita ed il rapporto di amendue, e cpiesli tre termini danno luogo a tre distinte teoriche o parti dell ontologia. Or ecco le questioni ontologiche quali si alFacciano di per se stesse al pensiero speculativo nell atto di risolvere il proposto problema, insieme colle diverse soluzioni che si presentano e che danno perciò luogo a diverse guise di dottrine metafisiche. Posta la realtà in universale siccome oggetto dell'Ontologia, si dimanda : Esiste, o non esiste una realtà universale .' Potendosi a tale inchiesta dare due diverse ed opposte risposte, ne sorgono di qui due forme di dottrine me- tafisiche, lo scetticismo che nega la realtà, e lontologismo che la ammette. E siccome la realtà può venir im[)ugnata in diversi modi, così lo scetti- cismo può prendere diverse forme, che sono il JNuUisnio, T Idealismo ed il Criticismo, secondochò riduce la realtà ad un puro nulla assoluto, o ne fa una mera idea, un apparenza, oppure lasciando indecisa la questione se essa esista o no, pronuncia essere in se stessa inconoscibile. Lo scet- ticismo sotto tutte e tre le sue forme venne fra gli antichi sofisti della Grecia professato da Gorgia; il criticismo fu ai tempi nostri sostenuto da Kant. Allo scetticismo sta diametralmente opposto lontologismo, il quale si distingue in monismo ed in dualismo ontologici, secondo che alla di- manda, se la realtà sia unica o duplice, dà una risposta affermativa o negativa. Dato e non concesso, che la realtà esistente sia unica, si chiede di nuovo se l'unica realtà esistente sia l'infinito, ossia l'assoluto, oppure sia la realtà finita, cioè il relativo : nel primo caso il Monismo ontologico prende la forma di Assolutismo o di Acosmismo, perchè riduce tutta la realtà allassoluto e nega il mondo: nel secondo caso esso è un Ateismo o Relativismo, perchè nega Dio per ammettere solo la realtà relativa. L'Assolutismo poi od Acosmismo può essere un Razionalismo od un Misti- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 49 cismo, secondochè si perviene alla negazione del finito per mezzo della ragione speculativa o del sentimento religioso ; per gli opposti motivi il Relativismo può essere un Empirismo od un Sensualismo. Contro al Monismo ontologico sta d Dualismo ontologico, che ammette una duplice realtà, infinita luna, finita l'altra, e che dà luogo a tre que- stioni : 1° qual è la natura della realtà infinita, considerata come primi- tivo assoluto o Jòndamento degli esseri; 2" qual è la natura della realtà finita risguardata siccome un derivato; 3° qu;di rapporti intercedono fra queste due realtà. Quindi il Dualismo ontologico comprende Ire distinte teoriche corrispondenti alle tre proposte questioni, che sono : 1° la Pro- tolosia o Teorica del Primitivo; 2° la Deuterologia o Teorica del Deri- vato; 3° la Dialettica o Teorica delle relazioni Ira il Primitivo ed il Derivato, intenta a conciliare insieme questi due opposti ontologici. La Protologia dimanda: il Primitivo è un idea, un concetto, un astratto, un indeterminato, oppure un reale, un concreto, un essere determinato.' Di qui due forme di Protologia, idealistica Funa od Idealismo assoluto, rea- listica l'altra, secondo la diversa risposta data alla dimanda. Posto che il Primitivo sia un reale, si può di nuovo chiedere se sia spirito o materia; epperò la Protologia realistica può essere un Teismo od un Materialismo. La Deuterologia studiando il finito come un (.lerivato, considera da prima gli esseri cosmici nei loro vicendevoli rapporti, che sono le categorie di causa e di effetto, di identicità e di diversità, di genere e di specie ecc.; poi considera i singoli esseri cosmici ciascuno in sé, ossia sotto le categorie di uno e di molteplice, di tulto e di parli, di essenza e di esistenza, di sostanza e di modo, di potenza e di atto, di materia e di forma, di quantità e di qualità, di base e di appendici, ecc., le quali due sorta di categorie vengono denominate estrinseche le une (ossia di rapporto), intrinseche le altre (ossia di proprietà). Da ultimo la Dialettica, che potremmo qui denomi- nare ontologica per distinguerla dalla intellettuale, chiedendo quali siano i rapporti che passano tra il Primitivo ed il Derivato, li riduce a tre che sono: 1° rapporto di origine; 2° di natura e contenenza; 3° di fine. La questione del rapporto di origine può essere formolata così: Come lUno pone il Molteplice, e risolta in tre diversi sensi, che danno luogo a tre diverse dottrine metafisiche, il Dualismo assoluto, che nega il rapporto di origine del finito dall'Infinito ammettendolo eterno, l'Emanatismo che sostiene la produzione del finito per via di un esplicamento della sostanza infinita, il Ctisologismo che ammette la creazione del finito dal niente. Serie II. Tom. XXX. 7 5Ò IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Alla questione, qual rapporto di natura interceda fra l'infinito ed il finito, ossia come l'Uno contenga il Molteplice, si può rispondere: T che l'uno sia sostanzialmente distinto dall'altro; i" che siano sostanzialmente identici ; questa seconda sentenza è quella del panteismo, il quale può essere ma- terialismo o spiritualismo secondochè la sostanza unica che si ammette è materia o spirito. Rimane da ultimo la questione del rapporto di fine, ossia il come all'Uno ritorni il Molteplice: il Nullismo teleologico risponde negando la finalità degli esseri finiti, il Teleologismo ammettendola, e pronunciando che i finiti sono destinati ad essere assorbiti in seno alla sostanza infinita, od essere dalla medesima beatificati (immortalità degli spiriti) congiungendosi con essa senza però identificarsi e serbando intatta la propria individualità. Tutta la serie di questioni ontologiche si può presentare nella tavola sinottica di cui nella seguente pagina. Tali sono le questioni, che si alFacciano spontanee al pensiero nell'atto che si pone a speculare intorno al problema ontologico; e siccome le soluzioni che si presentano sono contrarie e diverse, perchè affermative le une, negative le altre, così è ulTicio del pensiero speculativo il sotto- mettere alla critica le diverse dottrine metafisiche, cernere da esse il sodo dall'insussistente per comporre le teorica metafisica di elementi positivi e sincerarla dai negativi ed insussistenti. Pigliando a confutare le dottrine metafisiche, le quali paiono a noi lontane dal vero, noi le esamineremo anziché nella loro astratta natura, nei sistemi dei pili celebrati metafisici, in cui pigliarono forma viva e concreta, parendoci che di tal modo abbia a riescire piiì agevole e piiì proficua la loro intelligenza, e così stimiamo di far precedere alla parte teorica della scienza la critica delle più ce- lebri dottrine de' filosofi intorno al problema ontologico. A chi poi obbiet- tasse che la critica intorno ai sistemi metafisici vuol essere essa stessa preceduta da una teorica antecedentemente stabilita, che serva come di norma e di criterio per giudicare della veracità dei sistemi, rispondo non richiedersi a tal uopo una teorica prestabilita, sibbene bastare la conoscenza che già possediamo dei caratteri e delle condizioni cui vuol adempiere una teoria metafisica perchè sia ammessibile: il criterio adunque direttivo della nostra critica non ci manca. Oltreché chi si fa a giudicare della veracità o dell'insussistenza di sistemi metafisici dietro una teorica prestabilita, corre pericolo di recare giudizii infedeli, dettati più dall'amor di sistema, epperò ristretti ed esclusivi, che dalla verit-ì. PKR GIUSEPPE ALLIEVO. /SII g o ( Nullismo: Non v'ha niente di reale — Tutto é nulla ■ ^ { Idealismo: Se esiste l'essere, non è che apparente — Tutto i apparenza Z 1 so ' vi 1 Criticismo: La realtà, se esiste, non può conoscersi in sé: Tutto è inconoscibile oggettivamente. 5 ? I" L'unica realtà esistente è l' infinito o l'assoluto Acosmisnio od Assolutismo Kazionalismo Misticismo c8 te U Q ■tà 1—1 fcc o o O a Si a I \ 2° L'unica realtà esistente è il linito, od iJ relativo I" .Natura della realtà infinila considerala come il Primitivo ■{ ^ProtologittJ = 11/ = -5 2° Natura della realtà lìnita considerata come derivala "^ fDeuterologiaJ Ateismo o Relativismo Empirismo Sensualismo 3» Rapporti tra l'infinito ed il finito ^DialetlicaJ I" 11 Primitivo è un'idea, un indeterminalo? ^Protologia idealislicaj. 2" Primitivo è un reale, I I» È spirito» f Teismo J un determinato? ) (Protologia realistica^ f 2" È materia? f Materialismo^ r Esseri co.smici ri- guardati gli uni in rapporto cogli altri 2° Esseri cosmici considerali ciascuno di per sé r Rapporto d'origine (Come VUno pone il molteplice ?J 2° Rapporto di natura o di contenenza (Come VUno contiene il Molteplice^ Causa ed effetto Identità e diversità Genere e specie ecc. Tutto e parli Uno e molteplice Essenza ed esistenza Sostanza e modo Potenza ed allo Materia e forma Base ed appendici Quantità e qualità ecc. 1" Dualismo assoluto 2" Emanatismo 3" Ctisologismo r Teoria dell'iden- tità sostanziale, o Panteismo Materialismo Spiritualismo 2» Teoria della diversità sostanziale degli esseri 2" Nullismo Teleologico 3° Rapporto di fine (Come alVUno ritorna il MoltepliceJ 2° Teleologismo < 1 » Assorbimento de- gli esseri nella so- stanza infinita I 2» Distinzione so- stanziale di essi : Immortalità degli spiriti. Sa IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Critica de** precipui e più celebrati sistemi ontologici. Scuola Ionica. Fra le scuole filosofiche, che tentarono una soluzione del problema ontologico, la prima che ci si presenta per ordine- di tempo è la scuola Ionica, da cui prese inizio e si svolse il movimento del pensiero filosofico greco. Volgendo l'occhio allo spettacolo dell universo sensibile, e colpiti dalla nioltiplicità svariatissima degli esseri mondiali, i filosofi della scuola Jonica chiesero a se stessi se mai frammezzo alla continua ed incessante mutabilità dei fenomeni fossevi alcunché di uno, di permanente, di inniiu- tabile e di costante, che si serbasse mai sempre il medesimo sotto varie e molteplici modificazioni e che giacesse in seno a tutti gli esseri na- turali, siccome loro essenza originaria e costitutiva, loro comune sostrato e fondamento. Qual è il principio maleriale delle cose, ossia la materia prima, originaria ed unica, da cui provennero e provengono tutti gli esseri della natura , a cui vanno a metter capo tutte le cose che scompaiono dalla scena delluniverso, e che sta in fondo a tutti gli esseri siccome loro elemento costitutivo e sostegno di tutte le loro modificazioni? Tale fu il problema precipuo che si affacciò al pensiero dei primi filosofi greci, i quali chiedendo alf osservazione sensibile esterna la soluzione di esso, ed apprendendo dai sensi come gli elementi si trasmutino di continuo gli uni negli altri, ne inferirono doversi il principio materiale ed originario delle cose cercare e rinvenirsi in un elemento produttivo di tutti gli altri, ed a cui tutti siano riducibili. Concordi nell ;immeltere la necessità del principio elementare delle cose, discordavano poi nel precisarne e deter- minarne la natura, riponendolo Talete nell'acqua, Anassimene e Diogene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Empedocle in un misto dei quattro princi- pali elementi, ed altri in un altro elemento. Di tal modo il principio ori- ginario delle cose e l'elemento erano per essi una sola e medesima cosa, ricercando 1 unità degli esseri in un principio elementare, che fosse la loro essenza prima ed il loro componente. Rinvenuto così il principio materiale delle cose, ossia la loro essenza originaria o materia prima , sorgeva a lato del primo problema , che si erano proposto, un secondo problema; sorgeva cioè la questione, in che modo la materia prima potè uscire dal suo stato primitivo e vestendo PER GIUSEPPE ALLIEVO. 53 forme diverse emettere dal seoo della sua unità originaria la moltiplicità degli esseri dell'universo, come cioè dall Uno primitivo usci il molteplice derivato. Qual è la forza formatrice delle cose, ossia il principio attivo, efficiente ed ordinatore, che operando sulla materia prima passiva e fa- cendola uscire dalla sua indeterminazione primitiva, la rivesta di forme particolari determinale, e ne faccia fluire la moltiplicità degli esseri e dei fenomeni? E questa causa efficiente, questo principio ordinatore, questa forza trasformatrice è dessa intrinseca alla materia prima e con essa identica, od estrinseca alla medesima e da lei distinta e diversa? Fu questo il secondo problema, che i filosofi Ionici si proposero di risolvere; pro- blema intimamente collegato col primo, poiché Inno risguarda l'elemento originario ed unico costitutivo degli esseri, labro i mutamenti e le trasfor- mazioni di questelemento primitivo, che dalla sua unità emette la mol- tiplicità delle cose. Mi spiego. Data una statua, si chiede quale sia il suo principio materiale , ossia l'essenza sua costitutiva ; questa sia ad esempio il marmo: ecco il primo problema: se non che, dato che la materia sua sia il marmo, si chiede di nuovo, ct)me mai e quale fu la forza formatrice, il principio attivo ed ordinatore, sotto il cui impero il marmo sia passato dal suo primitivo stato informe e greggio a questa torma venusta ed elegante, che prende nome di statua? Ecco il secondo problema relativo non piìi al principio materiale delle cose, sibbene al loro principio formale, ossia alla causa prima efficiente ed ordinatrice. Così il problema ontologico deli- neandosi vieppiù chiaro e distinto presentava al pensiero speculativo dei filosofi Jonii una dualità di termini, che sono il principio materiale delle cose ed il principio efficiente, e che dal pensiero filosofico piiì sviluppato e razionale vennero concepiti siccome Dio ed il mondo, la mente e la ma- teria, 1 intelligente e l'inteso, il soggettivo e l'oggettivo, l'ordinante e l'or- dinato, l'attivo ed il passivo, l'intelligenza ed il suo oggetto. Facendosi adunque alla soluzione del secondo problema, i filosofi Jonici indagarono qual fosse il principio ordinatore e trasformatore della materia prima, ed altri il riposero nella materia stessa dicendolo a lei intrinseco, e con essa identificandolo: altri il cercarono fuori della materia prima, dalla quale lo dislinsero sostanzialmente riponendolo in una tal quale entità diversa dal principio materiale e costitutivo delle cose, professando i primi un panteismo materialistico, i secondi un dualismo. Però i filosofi della prima classe si divisero in due differenti scuole, dinamica o vita- listica l'una, meccanica l'altra: i seguaci del dinamismo ossia del vitalismo 54 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. attribuendo alla materia prima un'intrinseca vitalità che la porta a modi- ficarsi e trasformarsi dal di dentro al di fuori, tenevano che i molteplici esseri fossero usciti fuori da germi preesistenti in seno alla materia prima ed unica e sviluppantisi per intima loro virtii, come Talete, Anassimene, Diogene^ Eraclito ; i seguaci della scuola meccanica per contro, come Anas- simandro ed Archelao il fisico, assegnando alla materia prima im movi- mento suo proprio, ossia una forza plastica, mercè cui essa si trasforma e si moltiplica nella varietà di fenomeni, pronunciavano che gli esseri cosmici sonosi formati mercè un moto di aggregazione o di separazione degli elementi esistenti insieme nell'unità della materia prima. Tali sono i pronunciati delle due più celebri scuole di que' filosofi Junii che pro- fessavano il panteismo materialistico, identificando il principio materiale delle cose colla loro causa intelligente, attiva ed ordinatrice, mentre gli altri filosofi, come Anassagora, professavano il dualismo ontologico, te- nendo distinti i due principii delle cose, la mente e la materia, Dio ed il mondo. Discendiamo ora a dire alcunché in particolare di taluni dei filosofi che appartengono alla scuola jonica. Diogene di Apollonia, detto il fisico per distinguerlo da altri filosofi dello stesso nome, riconoscendo il bisogno e la necessità di rimenare la moltiplicità degli esseri ad unità, teneva che le cose tutte quante debbono provenire da un solo ed unico principio materiale. Egli dimostrava questo pronunciato dall'osservazione, la quale ne attesta che gli esseri della na- tura agiscono e reagiscono mutuamente gli uni sugli altri, e che le cose si trasformano e tramutano le une nelle altre; di che ne inferiva che tutte le nature costitutive dei varii esseri deggiono avere un'essenza co- mune ed essere mere modificazioni di una sola ed unica materia comune, da cui tutte si trasformino, in cui tutte sussistano e che sia essa stessa indiflerenle a tutte le nature, poiché se ciascuna cosa esistente avesse una natura sua propria ed incomunicabile, ned avesse comune la materia con tutte le altre, sarebbe inesplicabile l' azione e la reazione mutua degli esseri, ed il cangiare continuo delle cose ed il loro mescolarsi con tanta frequenza. Questo concetto del tramutarsi delle nature le une nelle altre e del loro comune trasformarsi da una materia unica primitiva, ha molta affinità coH'Eraclitismo e coll'Hegelianismo, che ammette il trasformarsi di tutte cose e luna diventar l'altra. Ammessa e dimostrata l'unicità del principio materiale delle cose. Diogene lo ripose nell'aria perchè è l'ele- mento più trasmutabile e più acconcio a cangiarsi in altre nature, e perchè PER GIUSEPPE ALLIEVO. 55 senz'essa fora impossilnle la respirazione e quindi la vita della natura in generale, degli animali e dell'uomo in particolare. Così Diogene risolveva il primo de' due problemi superiormente accennati, quello cioè che ris- guarda il principio materiale delle cose. Ma donde mai e come questa materia prima e comunissima, l'aria, uscendo dalla sua unità produce la moltiplicità degli esseri e si trasforma nelle singole cose? Diogene risolveva questo secondo problema senten- ziando che l'aria è dotata di una virtù divina, di una mente ordinatrice, poiché senza di questa lordine e la regolarità che risplendono nell'uni- verso riescirebbero inesplicabili. Ei fece quindi dell'aria e della virtiì divina, ossia della mente e della materia un essere unico, un tutto, cadendo così in un panteismo materialistico, in cui si identifica il principio materiale e costitutivo delle cose col loro principio ordinatore ed intelligente, e si fa della mente e della materia non due esseri distinti, ma due determina- zioni categoriche, due attributi di un solo e medesimo essere, che è l'aria, la quale, come materia prima, è la natura comune di tutti gli esseri, ossia l'elemento originario componente i varii corpi dell'universo, che tutti da essa provengono e di essa partecipano, come virtìi divina, come mente è la causa eiiiciente ed ordinatrice di tutto. Il primitivo di Diogene ha grande aflìnità con quello di Spinoza, la cui sostanza unica ha i due caratteri, le due determinazioni di pensiero infinito e di estensione infinita, come l'aria di Diogene è ad un tempo mente e materia di tutto. Il panteismo materialistico venne altresì professato da Anassimandro. Diogene avea dimostrato che il principio delle cose vuol essere unico ; Anassimandro fecesi a provare che esso ha ad essere infinito, poiché se esso, egli avvertiva, fosse limitato, circoscritto, mutabile e di una natura peculiare determinata, mal potrebb'essere principio di ciò che è limitato e va soggetto a cambiamento. Il Primitivo non debb' essere uno degli elementi finiti e determinati, quali sottostanno all'esperienza sensibile, non debb'essere questo o quell'altro termine particolare, non avere questa o quell altra qualità o relazione, non esistere in tale o tal altro modo; esso è adunque indeterminato; egli lo espresse col vocabolo rò anapou , che si- gnifica infinito ed indefinito, ossia indeterminato. Tale concetto dell infi- nito di Anassimandro ne ricorda l'essere indeterminalo e virtuale di Rosmini, e l'Idea di Hegel, ossia l'essere privo di ogni determinazione, l 'essere-nulla. Quest'infinito è il contenente di tutti i termini senz'essere veruno di essi in particolare; è il principio di tutte cose, le quali trovano in esso ciascuna 56 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. il SUO elemento costitutivo e la specifica sua essenza: in esso si contengono i principi! degli esseri, infiniti in numero, sebbene non sia una riunione od un aggregato determinato di tutti gli elementi. Il principio infinito ammesso da Anassimandro è la materia , la quale essendo tutto perchè contiene tutti i diversi ed i contrarli, ha perciò tutti i caratteri dell'essere infinito di Diogene, è l'unico esistente, quindi l'assoluto, il necessario, 1 unico pensabile, il pensiero, la mente. Iddio. Dio e mondo, mente e materia sono un essere unico e solo , ecco il panteismo materialistico di Anassimandro. Ma in che modo quest'infinito vuiico, questa materia emette e fa uscire dalla sua unità la moltiplicità degli esseri e delle forme, che tutte sono in essa contenute e per essa possibili ? Ei rispondeva, secondo i placiti della scuola meccanica, per mezzo del movimento: le cose nascono o periscono dall'aggregarsi o dal separarsi che fanno gli elementi, ossia le parti omogenee ed eterogenee contenute nella materia infinita, dotata di un moto pur infinito ed eterno. Mentre Diogene ed Anassimandro professando il panteismo materiali- stico identificavano in uno il principio materiale ed il principio ordinatore delle cose, Anassagora seguiva il dualismo ontologico. lenendo distinta la materia prima dalla mente ordinatrice. Il concettp di questa dualità di termini ontologici si trova espresso e formolato in principio ilell'opera di Anassagora intitolata De Natura, la quale, stando a Diogene Laerzio, incomincia con queste parole: Tutte le cose erano insieme; di poi vi si accostò la Mente e le compose in ordine. Questo concetto di Anassagora ne ricorda quello della Bibbia, che ci rappresenta lo stato primitivo del mondo sotto lòrina di caos e ne pone davanti al pensiero lo spirito di Dio che sopra vi discese ad ordinarlo. Ma che cosa era, in pensiero di Anassagora, la materia prima, che cosa la mente, e qual rapporto tra luna e l'altra? Cerchiamo di risponder breve a tale dimanda. Immaginiamo per un istante, che gli esseri della natura smarriscano ciascheduno la propria distintiva natura, che ciascuna cosa svesta quella forma peculiare e determinata per cui si differenzia da tutte le altre, che gli elementi della natura depongano i caratteri che li diversificano fra di loro e che lutti si sminuzzolino e s impiccioliscano a proporzioni imper- cettibili infinite di numero, e da ultimo frammischiandosi gli uni cogli altri si confondano insieme in una massa informe, omogenea ed indistinta : questo miscuglio primordiale di tutti gli elementi, di tutte le nature, di tutte le cose era la materia prima di Anassagora, lo stato primitivo ed PER GIUSFPPE ALLIEVO. 5^ originario deHiiniverso sensibile. Quesia materia prima era da lui con- cepita siccome alcunché di indeterminato, di asti alto, di generale, ossia siccome un'unità, perchè in essa, prima che la Minte l'avesse ordinata e compr.st;i, non vi appariva ancora la moltiplicit\ dt-gii esseri, non vi si (liscerneva veruna natura particolare , veruna individualità deter- minata, ma tutto vi giaceva contuso, indistinto, indiscernihiie, tutto era omogeneo ed indistinto, e le particelle elementari erano infinite in nu- mero od in piccolezza. Posta così la materia prima, Anassagora ricorse ad una mente ordina- trice, al voùg, al p;!nsiero per ispiegare il passaggio della materia dal caos al cosmo, daj suo stato informe all'ordine dell universo. Procedendo a postei-iorl egli si fece a dimostrare resistenza di una mente, di un pensiero, di imo spirito intelligente ed ordinatore della bellezza, dell'armonia die risplende nell'universo; la natura è ordinata; duncpie esiste uno spirilo ordinatore. Provata la necessità d'un principio ordinatore ed intelligente, carco di spiegare per mezzo di esso l'ordine e la produzione delle cose dalla materia prima. Accostandosi ad essa lo spirito intelligente vi realizzò le idee di ordine e di armonia da lui contemplate, distinse ed ordinò gli elementi, che giacevan confusi e frammisti nel primordiale miscuglio, traendoli cosi dalla loro indiscernibillià ed impercettibilità ad una esistenza determinata ed elevandoli alla condizione di esseri reali. L'alto ordinatore esercitato dilla mente sulla materia era un atto di conoscenza ; il pensiero ordinò gli elementi conoscendoli, poiché conoscere un oggetto vale quanto determinarlo e distinguerlo da ogni altro. Di qui egli ricavava un argo- mento per dimostrare la purezza ed immateriallt'i della mente e la sun sostanziai dilFerenzi dal principio materiale delle cose, ponendo così il Primitivo fuori della natura creata ed opponendo al panteismo materia- listico degli altri fdosofi jonii un dualismo ontologico. La mente, egli ragionava, ordina e domina la materia conoscendola; ora se essa fosse una delle forze materiali, uno degli elementi corporei, in tal caso conoscerebbe e dominerebbe solo quell'elemento, con cui ha comune ed identica la natura, perchè solo il simile può conoscere il simile. Se adunque la mente, come principio di cognizione e di ordine, possiede una perfetta conoscenza di tutti gli elementi ed esercita un assoluto dominio su tutta la materia, forza è che essa non sia nessuna delle forze materiali , ma abbia una natura tutta sua propria, incorporea, inconimista, purissima e scevra da ogni elemento materiale. Serie IL Tom. XXX. 8 58 li. PROBLEMA METAFISICO ECC. Aristotele pone in l)occa ad Anassagora queste parole: « rio che pensa vuol essere senza mistura a fine di comandare ». ed a lui attribuisce il merito di avere pel primo stabilito il nmg come il Primitivo assoluto. Quest'intelligenza suprema ei la ilenomina anima del mondo, risguardata in quanto compenetra ed informa la materia prima, ordinandola secondo i suoi disegni e conforme al proprio ideale; considerata poi in se stessa, in quanto ha una natura tutta sua per cui diiferisce dalla materia ed esiste in sé e per sé, ei la chiamava Dio; onde Anassagora si ritiene come il ])rimo dei filosofi greci antichi che in metafisica abbia prolèssato il Teismo, cercando il Primitivo assoluto fuori della natiua creata, sebbene Odoardo Schmit nella sua Delineazinne della storia della filosofia si sforzi di dimo- strare il contrario, erroneamente interpretando (pag. 63) il vcùc di Anas- sagora come il pensiero puro, astratto, generalissimo, anziché come uno spirito, un essere intelligente, Dio. L'universo essendo opera di un principio intelligente, di uno spirito, egli ne inferiva che esso ha uno scopo, che tutto si la per un fine, che nulla si fa per destino, rigettando così il fatalismo degli altri filosofi jonii. che ponevano il caso o la materia come principio del tutto. In tal modo egli mostrava la coscienza del problema teleologico relativo alla finalilcà delle cose sebbene l'avesse lasciato insoluto; del che gli muove rimprovero Socrate nel Fedone di Platone. Egli spiegava I origine del male nel mondo derivandola dalla tendenza della materia a ricadere nell'antico disordine e dall'impotenza in cui si trova la mente di mutare la natura degli elementi da lei ordinati, essendone l'architetto che dà loro la forma , non l'artefice che li abbia fatti esistere. Le particelle costitutive degli esseri si scompongono di continuo e ritornano nel caos primitivo a confondersi insieme, ma l'anima mondiale si fa di nuovo ad ordinarle togliendole dal miscuglio primordiale e chiamandole a novella esistenza. Esposte per sommi capi le dottrine metafisiche della scuola jonica , rimane che se ne inslituisca la critica, la quale ridurremo a tre precipui punti, che sono: i" il modo con cui i filosofi jonici posero e concepirono il problema ontologico; 2" il processo che tennero nel risolverlo; 3° la teorica che ne lavorarono. (ìuanto al primo punto, essi proposero ad oggetto delle loro indagini la ricerca del primitivo da cui derivò 1 imiverso sensibile quale ci è dato dall'esperienza esterna. Intorno a questo modo di porre il problema della realtà universale noi osserviamo, che esso per nna parie e conforme al processo del pensiero umano, il quale muovendo PER GlUSEHPi; Al-I.ltVO. Sg dal mondo i onsideralo come mi derivato ed un molteplice, ascende ali In- finito considerato come il Primitivo e 1 Uno, ragion suflìciente del Gnito; ma per altra parte rivela che il problema ontologico non venne concepito né proposto in tutta la sua integrità ed ampiezza dai fdosofi jonici, avendo essi ristretta la realtà uin versale al mondo sensibile, lasciando da parte il finito soprasensibile e tutto il mondo umano. Lo stesso principio njateriale ed originario delle cose, di cui andavano in traccia, quale essi si propo- nevano di ricercare, era nulla più che un elemento generalissimo e costante appartenente alla cerchia slessa del mondo sensibile, siccome quello chr doveva costituire la sostanza ed il iiìndo comune di tutti gli esseri. Quindi ben a ragione i filosofi jonici vennero da Aristotele designati col nome di fisiologi, ossia scrutatori della natura sensibile, e la loro dottrina, anziché una teorica della realtà universale, è tutt'al più una teorica della lealtà sensibile e materiale, ossia, per dirlo in linguaggio moderno, una meta- fisica della natura, sebbene, secondo alcuni, sia ancor meno di questo, riducendola ad una fisica nel senso stretto e moderno della parola. Avendo circoscritto e ristretto il problema ontologico alla cerchia angusta dell universo sensibile risguardato nel suo primo principio, non è mera- viglia se nel risolvere il problema usarono un processo ristretto ed angu- stiato esso pure, vale a dire l osservazione sensibile esterna, nulla o poco sussidiata dalla ragione speculativa, e quindi impotente a raggiungere la scienza, a produrre una vera e soda teorica metafisica. Così scorgiamo i primi filosofi jonici confondere il principio primitivo delle cose con un loro elemento materiale , tentando indarno di allerrare e di cogliere per mezzo dell'osservazione sensibile esterna quel Primitivo, che solo può essere appreso e fermato dalla ragione speculativa; veggiamo Talete, Anassimene, Diogene usare un procedere meramente empirico nell indagine del principio delle cose, e cercarlo non in un principio estrinseco ali universo sensibile, ma in un fenomeno generatore di tutti gli altri fenomeni, in uno degli elementi sensibili, che per le sue doti e qualità fosse tale da .servire di fondamento a tutti gli altri, di sostegno a tutte le modificazioni della natura. E adunque difettoso e viziato il processo della scuola jonica, la quale non solo non tenne il debito conto della ragione speculativa risol- vendo il problema col solo mezzo dell'osservazione , ma questa stessa non adoperò in tutta la sua integrità, sibbene solo in parte, trascurando l'osservazione interna per appigliarsi unicamente all'esperienza sensibile esterna. Qo IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Pialiando ora a discutere il concetto die essi si firmarono iìA Primitivo e la teorica ch3 ne lavorarono, giova osservare che ossi giustamente rico- nobbero il bisogno e li necessità di ricondurre il molteplice dato dalla natura sensibile all'unità di un principio, origine e fondamento della mede- sima; ma (jual è il concetto che si formarono i\?\ Primitivo, quale la natura ch3 gli assegnarono, quali i rappirti chs stabilirono fra il Primitivo ed il Derivalo? l'assi concepirono il princij)io costitutivo delie cose siccome un Uno die contiene in sé ed emette il moltt-piice, ossia si;"coine la materia prima la quale si trastorma e diventa la varietà degli esseri cosmici o per impulso suo pro|)rio, cioè per una forza attiva ed ordinatrice a lei intrinseca, o per virtù di un piincipio attivo ad essa estrinseco e sostan- zialmenle da essa distinto. Per loro aduntjue la categoria suprema, sotto la quale concepirono il Primitivo, era qnalla di indeterminato; onde il problema, cli3 si pro|>i>sero di risolvere, potrebbe venire formolato nei termini seguenti: Posto f indetorminato jjrimilivo, in che modo diventa determinato? Gli uni, come Talele, Anassimandro, Diogene, Anassimene, ideutifii andò la liuteria prim i col principio ordinatore secondo i placiti del panteismo materialistico, risolvevano il proiìlema, attribuendo all'indeter- minato primitivo una forza vitale o plastica a lei intrinseca che lo portava a determinarsi nei molteplici esseri, preludendo cos'i alla teorica del Mona- dismo Lcibiiiziano; gli altri, come Anassagora, Fereriile ed Archelao, profes- sando un dualismo ontologico rispondevano alla questione ammettendo un altro principio intelligente ed attivo diverso dall' indeterminato primitivo e ad esso eslrinseco, che lo faceva uscire dalla sua indeterminazione alla realt'a. Facciamo alcune osservazioni su questo concetto deiriiideterminato. Il concetto dell indeterminato, che si determina, è uno di que' concetti fondamentali, che attrasse mai sempre a sé la meditazione e l'attenzione de' pensatori attesa la sua importanza ; esso si riscontra frequentissimo nella storia delli filosofia, e si alfacciò al pensiero speculativo sotto guise diverse e nuove forme. La gran questione agitatasi nel medio evo intorno agli universali, sj siano reali o no, e come si concretino e s'individuino nei singolari, la teoria di Rosmini inloino al suo essere comunissimo ed inde- terminato, quella di Schelling, di Hegel e di altri lilosoiì Irascemlenlali che p^ero per Primitivo assoluto Tessere spoglio di ogni forma e deter- minazione, 1 essere-nulla, che contiene identificali in sé tutti i inolt:q)lÌLM e diversi, tutte si nascondono nel concetto del Primitivo indeterminato, che si determina, di cui discorriamo. Or domandiamo: può egli l'indeterminato, lo PER GIUSEPPE ALLIEVO. 6r"^ si chiami coi jonici materia prima, o con Rosmini essere comunissimo, o con Hegel essere-nulla, o con Schelling i'idenlilà assohita ilei diversi e degli opposti, può, dico, essere elevalo alla dignità di jjrincipio assoluto delie ccsc, di intimo e supremo fondamento dell'essere e del sapere ? Io tengo di no. Infatti, il veto Assoluto vuol cssimc incondizionato, cioè intlipendentc da ogni condizione; ma tale non è del sicuro l'Indeterminato di cui palliamo; esso non è che un mero concello, unaslraziune pura, un pre-dotto del pensiero umano che Io ha elaborato muovendo dalla mollipliiilà degli e.sseri reali e dolci minati e spogliandoli delio loro speciliclie determina- zioni per adunarli tutti sotto un connine concetto e comprcndei li sotto la categoria suprema di Indetermin:ito. Diche deriva che (piest' Indelcr- minalo non è incondizionato, quale dehl/esserc il vero Assoluto, siccome quello die dipende d;i due condizioni, che sino il pensiero umano, da cui è prodotto, e senza di cui non avrebbe csisienza, e la real.à deter- minata da cui fu estricato. Oltrethè rindeteriniiialo essendo un mero astratto, e non avendo nulla di realtà perchè ogni reale è determinato, non può perciò stesso oiiginaie la realtà universale e venire cosi posto come il Primitivo assoluto ed il fondamento delT essere. È vero che i recenti panteisti tedeschi, non sapendo come far derivare altramente dalla vuota unità del loro Primitivo la moltij)licità degli esseri, gli atlribuirono una forza latente ed intiinseia che lo porta per indeclinabii necessità di sua niilura ad uscir fuori di sé, e diventar un diverso da sé, nella stcs.sa guisa che i filosofi della scuola jonica ricorsero alla necessità di un principio attivo ed ordinatore che trasformasse e determinasse il principio materiale indelerniinato; ma il ripiego è insulliciente , come vedremo a suo luogo nellesposizione critica dell Idealismo assoluto. Aggiungasi che è il pen- siero umano soggettivo quegli che determina e circoscrive il concetto dell'essere indeterminato, e che le determinazioni, di cui egli lo va rive- stendo, non le piglia dal concetto stesso dell'essere indeterminatis.>;imo, il quale ha per ciò stesso nessuna comprensione e quindi nessuna deter- minazione per la somma sua senijìlicità , sibbene d;igli stessi es.seri reali diterminati, da cui aveva ricavato l'indeterminato, rivestendolo, dirò così, di nuovo tli quelle spoglie isLesse, di cui l'aveva denudato. Panni adunt^ue inammessibile ed insiissislenle la teorica jonica del Primitivo (i). (I) l'eri) se rinililciniiiKilifsiino non può essere posto sieronie II rniulainenlo dell' csrerc ed il rri;iii;ivo .issolulo, v'Iij un eleiiicnlo di venia nellii do!triii:i clic (jiii coiiili.TUi,iir(i. e <|iuflo è elio l'.aJclaraiiualo djler.uiiinuUsi 6 una delle lo>;yi loijiclic deiruiiuno pcuiicro, il ijualc e cisi falCo 62 n. PROBLEMA METAFISICO ECC. • Un altro gravissimo appunto che la critica può muovere alla dottrina ionica, riguarda il rapporto tra il Primitivo ed il Derivato. Secondo questa scuola, v'ha una materia pruna costituente l'essenza degli esseri naturali, ossia un principio materiale delle cose, e vlia una causa elìiciente che trasforma la materia , ossia un principio attivo ed ordinatore. Ma quale rapporto vi passa tra questi due principii, tra la natura finita e l'Intel- ligenza infmita.' Quanto alla relazione tra la materia prima e gli esseri cosmici che ne derivarono, i filosofi jonici ammettevano esservi un rapporto di contenenza, considerando il principio materiale siccome il contenente universale di tutte cose. Ma, quale rapporto ha la materia prima col prin- cipio attivo ed ordinatore? I seguaci del panteismo materialistico ammet- tevano un rapporto di identità confondendo la materia passiva con la mente attiva ed ordinatrice; noi confuteremo altrove questa specie di pan- teismo. Per contro Anassagora col suo dualismo distingueva bensì la materia prima dallo spirito ordinatore, ma egli negava poi ogni r.ipporto di origine della materia cosmica dallo spirito, il quale secondo lui non dà l'essere e l'esistenza alla materia, ma solo la forma. Il principio attivo ed intelligente per lui è mero ordinatore e trasformatore della materia, non autore o produttore della medesima, la quale esiste per sé (i): ò questo un dualismo assoluto che pone due principii indipendenti Tuno dall'altro quanto alla loro esistenza; dualismo che lo vediamo altresì professato da Platone, da Aristotele e da altri filosoli. Questo sistema, che nega il rapporto di origine della materia cosmica ilalla mente suprema, ripugna al concetto del vero Assoluto priinilivo, il quale non può essere che un solo. Riman- gono perciò aperte due altre vie per non incorrere nel dualismo assoluto, quella del panteismo che identifica in uno i due termini ontologici e quella del Gtisologismo, che pur mantenendo distinta la sostanza del mondo da quella di Dio, fa dipendere l'origine di quello dalla libera attività di questo. Quale di questi due sistemi sia da preferirsi, il vedremo altra volta. Intanto da queste considerazioni emerge una nuova conferma di quanto abbiamo superiormente atfermato, che i\ problema ontologico non venne che comincia dal conoscere un oggeUo in modo confuso, cioè solto forma indeterminata e procede ad una cognizione esplicita cioè detcrminata. Sta però sempre che anche nella cognizione primitiva confusa si apprende l'oggetto come alcunché di fisso, e non come indetermioatissimo. (I) Anassagora ammetteva senza restrizione di sorla il principio ex niìiilo niìiil, e non solo ne- gava la produzione della materia dal niente per mezzo dello spirito, ma dichiarava lo spirito stcìfo impotente a mutare le leggi e la natura degli elementi materiali. PER GIUSEPPE AI.TIEVO. 63 dai filosofi di questa scuola concepito nò svolto in tutta la sua integrità ed ampiezza. Esso comprende nel suo seno tre distinti problemi e quindi tre teoriche, luna del Primitivo, l'altra del Derivato. la terza dei rapporti tra il Primitivo ed il Derivato. Ora la teorica del Primitivo professata dalla scuola jonica è imperfetta e difettosa, siccome quella che o non giunse a distinguere la mente dalla materia, o ruppe nella contraddizione del dualismo assoluto ammettendo oltre della mente un secondo principio indipendente dal primo quanto alla sua esistenza, se non quanto alla forma: la stessa teorica di Anassagora, che pur si solleva di tanto al di sopra di quella degli altri filosofi jonici. pecca di questo vizio, poiché lo spirito da lui ammesso siccome distinto dalla materia non può essere considerato siccome il vero e supremo Assoluto, essendoché egli non è il creatore, ma solo il forma- tore od ordinatore della materia, la quale non riconosce perciò da esso la sua esistenza, e per di piìi non esercita sopra di essa un dominio assoluto e veramente supremo, dovendo egli stesso assoggettarsi ed accon- ciare il suo magistero ordinatore alle leggi ed alla natura degli elementi materiali senza poterle in verun modo dominare. Quanto al problema che riguarda la natura del Derivato , la teorica ontologica di cui par- liamo è ristretta assai più ed affatto insutliciente , poiché riduce tutta la realtà finita entro la breve cerchia del mondo sensibile per modo che la dottrina , che si travaglia intorno ad esso , non può nemmeno pre- tendere al titolo di metafisica della natura , riducendosi piuttosto ad una fìsica nel senso moderno della parola. Da ultimo per quel che ri- guarda il problema relativo ai rapporti tra il Primitivo ed il Derivato, anch'esso non venne veduto in tutta la sua ampiezza, né risolto a do- vere, poiché la questione intorno al rapporto di origine tra il finito e l'Infinito venne pretermessa affatto; si ammise eterna cioè senza origine la materia cosmica, ma non si tentò nemmanco di dimostrare la tesi, che rimase perciò una asserzione dogmatica , non un concetto razionale e filosofico; si diede cosi alla questione una specie di soluzione negativa senza nemmanco averla proposta. Lo stesso dicasi del problema relativo al rapporto di fine, ossia allo scopo dell'universo: esso non venne ve- duto , anzi fii dogmaticamente negato dai filosofi jonici che ammettevano l'universo come opera del cieco caso o della materia. Anassagora solo presentì il problema teleologico, ma lo lasciò insoluto contentandosi di dire che il mondo è opera della Mente e che nulla si la per destino, tutto si fa per uno scopo. 64 IL PnOCLEJIA METAFISICO ECC. Il modo rislretlo ed esclusivo nel concepire il problema ontologico, ed il processo empirico che si tenne nA risolverlo furono causa per cui la lorica metalìsica della scuola jonica dilettasse altresì di quella forma sistematica e razionale, che abbiamo stabilito essere uno dei caratteri essenziali, di cui vuol essere insignita una dottrina metafisica. 11 sapere speculativo allora si può dire che abbia unità sistematica quando i con- cetti, di cui si eicmenla, sono razionali e logicamente concatenati fra di loro, ed alloi-a sono razionali e collegati in un tutto logico i concetti, quando tutti si radicano ncU'idea suprema della scienza, che è il con- cetto razionale del Primilivo assoluto. Ora l'As-Soluto non può essere rag- giunto e compreso dalla sola osservazione empirica, sibbene dalla ragione speculativa sussidiata dall'osservazione: al che non poterono pervenire i filosofi jonici, i cpiali trascurarono il ragionamento per abbandonarsi al- l'esperienza. Riassumendo i punti precipui della nostra Critica possiamo conchiu- dere : 1° che la scuola jonica non concepì il problema ontologico in tutta la sua comprensione; 2" che nel suo processo metodico vi ha un pre- dominio esorbitante dell'esperienza esterna sulla ragione speculativa; 3° che la teorica manca di forma sistematica, che Lisciò insolute molte questioni, che è insussistente in quanto al concetto del Primitivo, e che si riduce ad un empirismo in cui il molteplice pi'edomina sull'Uno, il sensibile sul soprasensibile. Quanto ai pregi, possiamo stabilire che si riconobbe il bisogno e la necessità di riconthnre il molleplice alitino, di spiegare il Derivato per mezzo del Primitivo; che si pigliò le mosse dal reale finito come dal più noto relativamente a noi per sollevarsi al reale infinilo che è il pili noto per sé, che si usò l'osservazione prima del ragionamento, sebbene poi non sia stala susseguila da esso. ER.4CLIT0. La scuola jonica avendo chiesto la soluzione del problema ontologico alla sola osservazione sensibile, all'esperienza esterna non sussidiata dal ragionamento speculativo, riusc'i di necessità all'empirismo, sistema che riduce tutta la realtà all'universo visibile e crede di rinvenire in esso altresì il principio supremo ed a.ssoluto delle cose. IMa siccome questo Primitivo assoluto non può essere rintracciato, né albergare entro langusta cerchia della natura sensibile, essendo oggetto non dell'esperienza esterna PER GIUSEPPE ALLIEVO. (35 né dell'osservazione materiale, sibbene della ragione speculativa, così 1 em- pirismo contiene nel suo seno un intrinseca contraddizione, perchè la natura materiale isolata dal vero principio assoluto, anzi considerata essa stessa come l'unico reale, come il Primitivo assoluto, oflVe colle vicende e mu- tazioni continue, cui va soggetta, una serie di contraddizioni e di antinomie che riescono insolubili se non si esce fuori della natura stessa sollevan- dosi ad un principio comprensivo che ne contenga la ragione spiegativa. Le contraddizioni giacenti in seno all'empirismo jonico dovevano essere rilevate e messe all'aperto dallo svilupparsi del pensiero filosofico greco, e lo furono di fatto da Eraclito, il quale, meditando intorno ali universo sensibile che la scuola jonica aveva posto siccome l'unico reale e l'unico pensabile e notandone T incessante mutabilità e trasformazione, mentre pur dovrebb esser immutabile peichè fu ammesso siccome l'ente assoluto ed unico, venne condotto ad ammettere siccome primo principio la coe- sistenza simultanea dei contraddittorii e degli opposti, preludendo così alla teorica hegeliana dell identità dei contraddittorii. Il perchè nella storia dello sviluppo del pensiero filosofico greco, Eraclito segna quel periodo della vita mentale che abbiamo denominato pensare critico, in cui lo spirito umano uscendo dalla sfera del sapere empirico ed assoggettandolo alla critica vi scorge antinomie e contraddizioni apparenti, che vogliono poi essere dal pensare speculativo risolte. Le antinomie che si ailiicciarono al pensiero critico di Eraclito potrebbero esprimersi con questa forinola: Se l'universo sensibile è l'unico reale, sarà altresì l'unico pensabile, epperò l'assoluto, e perchè tale, debb'essere immutabile e permanente; ora esso apparisce ai sensi ed all'osservazione siccome alcunché di mutabile, che di continuo si trasforma e cessa di essere quello che era. Come mai adunque l'universo può essere immutabile e mutevole, permanente e transi- torio, assoluto e relativo .' Non è questa una contraddizione ? Sarà dunque la contraddizione il principio di tutto? Per questo riguardo Eraclito si discosta assai dalla dottrina dei filosofi jonici, fra i quali viene comunemente anno- verato, e sta come punto intermedio fra l'empirismo della scuola jonica, in cui l'Uno è soverchiato dal molteplice, ed il razionalismo della scuola eleatica, in cui il molteplice è assorbito dallUno. Eraclito mosse anch'egli, del paro che tutti gli altri filosofi della scuola jonica, dalla ricerca del principio materiale delle cose; ma colpito dallo spettacolo delle vicende e de' cambiamenti incessanti, che ci olFre l'universo sensibile, si sollevò al concetto d'una forza che fosse in continuo e pe- Serie il Tom. XXX. 9 66 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. renne movimento, di un essere che fosse tutto attività e che cangiasse forme e natura senza mai posa: questa forza sempre operosa, che mula forme senza mai arrestarsi nel suo processo è per Eraclito il sommo della realtà, il sommo dell'essere, il sommo della vita, l'Assoluto. Per lui la realtà, l'esistenza risiede nella vita, la vita nella mutazione, e il sommo della vita nella mutabilità assoluta; tantoché il Primitivo vuol essere con- cepito siccome una forza vitale assoluta, che esplica di continuo la sua attività con forme sempre nuove senza mai esaurirla, e tutto vince nel suo processo, né v'ha altra forza che valga a frapporle ostacolo ed arrestarne lo sviluppo. Se tale è il primo principio delle cose, esso debbe riunire in sé i due caratteri contraddittorii di permanenza assoluta e di mobilità assoluta ; giacché come forza suprema ed assoluta non può venir distrutta da verunaltra forza, epperò perenna e dura eterno; come poi attività incessante e trasformatrice di tutto, muta di continuo e smette le forme che ha per vestirne di nuove. Così Eraclito stabiliva che la contraddizione é il vero Assoluto, é la legge suprema del lutto, giacché se l'essenza dell'As- soluto sta in un continuo trasmutamento, in un perpetuo flusso, tutta la realtà, che dall'assoluto emana, nuita di continuo; tutte le cose, secondo lui, sono e non sono nel medesimo tempo, poiché tutto apparisce, ma disparisce bentosto, lutto diventa e mai non è, tutto in moto, nulla in riposo, nulla di ciò che esiste rimane, ma tutto è in uno stato di nascita costante, poiché la vita assoluta ha una tendenza continua a mutar forma, e quando ha preso una determinata guisa di esistenza, non la conserva costante, ma passa a nuova forma, giacché la vita sta nel mutamento, e l'Assoluto non sarebbe più vita, se piìi non mutasse. Quindi lo sviluppo dell'Assoluto non ha verun termine, veruno scopo definitivo ed ultimo, raggiunto il quale debba quietare; e soleva dire che Giove si trastulla nel formare il mondo per indicare questa mancanza di scopo nell'operare del primo principio, il quale si svolge solo per esercitare la sua energia; il fuoco distruggerà un dì l'universo, ma la vita assoluta ne costrurrà un altro novello sulle sue ruine. Egli soleva spiegare questo suo concetto dell'assolula mutabilità delle cose dicendo . « Tu non potresti tuffarti una seconda volta nello stesso fiume, poiché il fiume si cangia, e tu medesimo non sei piti quel desso ». Egli simboleggiava il concetto del suo Assoluto coll'imagine del fuoco, da lui posto siccome principio materiale ed attivo delle cose, avuto ri- guardo alla natura essenzialmente trasformatrice, energica ed infaticabile PER GIUSEPPE ALLIEVO. 6'] di quest'elemento. Alla vita generale egli assegnava due movimenti, 1 uno all'insù verso il fuoco, l'altro all'ingiù verso la terra; e siccome nel lin- guaggio filosofico greco il vocabolo yJyr,aig, movimento, significa non solo il mutar sito nello spazio, ma ogni sorta di mutazione, epperò anche una trasformazione di cose, cosi col movimento ascensivo e discensivo delle cose verso i due estremi del fuoco e della terra egli voleva forse indicare il tras- mutarsi delle cose l'una nell'altra di contraria natura. Posto che il Primi- tivo sia mutabilità assoluta, e che perciò il reale, che da essa proviene, sia un diventare continuo e non un vero essere, ne conseguiva che ogni cosa riunisce in sé i due opposti dellessere e del non essere, che i con- trarii possono avere una simultanea coesistenza in un medesimo soggetto identificandosi in esso, che di una stessa cosa si può affermare il contrario, che è e non è, che ha una forma e la sua opposta, che insomma il prin- cipio di contraddizione rimane distrutto; conseguenze tutte che Eraclito ammetteva pur mentre ne aveva coscienza. Così mentre gli altri filosofi jonici dichiaravano l'universo sensibile siccome f unico reale e lunico pensabile, Eraclito ne inferiva per opposta sentenza, che essendo in sé contraddittorio, non solo non è l'unico pensabile, ma non può nemmeno essere oggetto del pensiero, perchè nell'alto istesso in cui egli afferma alcunché intorno ad un soggetto, questo mutandosi cessa di essere quello che è e che si è affermato, per modo che un'affermazione è distrutta dalla sua opposta. Da tutte cjueste cose si scorge quanto intime e strette siano le attinenze che legano la dottrina di Eraclito col sistema di Hegel, e come quella sia come a dire il germe di questo, trovandosi nell'Idealismo assoluto del filosofo tedesco lo slesso concetto fondamentale del filosofo greco svolto e ridotto a forma più rigida e sistematica. Infatti è pronuncialo fondamentale dell'Hegelianismo che l'essenza dell'Assoluto sta in una mutabilità infinita per guisa che cesserebbe di esser tale se esaurisse la sua feconda vitalità e toccasse un termine nel suo sviluppo ; ed è pure una delle sue pro- posizioni cardinali questa, che l'Assoluto identifica e contiene coesistenti in sé tutti gli opposti ed i contrarli tantoché la contraddizione é la legge suprema dell'essere e del sapere. Noi quindi non piglieremo a confutare qui questa teorica di Eraclito, che fa del Primitivo assoluto un continuo diventare, credendo che questa critica troverà luogo piìi acconcio nell'e- sposizione che faremo del sistema di Hegel. Qui ci contentiamo di avver- tire che il concetto di un continuo movimento e di una perpetua mutabilità 68 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. delle cose è vero, ove si consideri come una categoria applical)ile uila realtà finita, la quale è di sua natura mutabile essendoché non essendo tutto perchè finita ed aspirando a divenire lutto ciò, di cui è capace, perchè progressiva, si trasforma e cangia senza mai posa, cercando di raggiungere per mezzo di una moltipiicità svariatissima di foitne quel tutto, cui non potrebbe raggiungere con una sola forma determinata di esistenza. E 'veramente il concetto di un perpetuo diventare ci viene am- mannito dall'osservazione e dall'esperienza, la quale ci apprende il mutare continuo ed incessante delle cose finite e del mondo vuoi esterno, vuoi interno o psicologico. Che se il concetto di una mutabilità assoluta si applichi non alla realtà finita, ma al reale infinito, in tal caso si riesce ad un assurdo, perchè il vero Infinito, Iddio, essendo tutto quello che ei può essere, e racchiudendo in sé la pienezza della vita e dell'esistenza, non può per ciò stesso prendere nuove forme e diventare cosa che già non sia, giacché in tal caso cesserebbe di essere l'Infinito. Ed anche in questa dottrina, come in ogni altra erronea, v'ha un elemento di verità, che travisato si trasmuta in errore. Si dice che lAssoluto è mobilila infi- nita; ciò è vero, se s'intende di significare, che l'essere infinito è una forza suprema ed indestrullibile, che tutto domina e trasforma e mai non desiste dalla sua infaticabile attività: è questo appunto il concetto supremo del Dio del Cristianesimo, che ci si presenta come onnipotente, cioè come una forza infinita , che è causa remota di tutte le mutazioni dell universo, e che crea ciò che ancora non è, distrugge ciò che già è, e fa passare gli esseri dall'una all'altra forma di esistenza. Se adunque per mobihtà assoluta si volesse designare 1 onnipotenza dell'essere infinito, il concetto, di cui parhamo, non va lontano dal vero; l'errore sia nel reputare la mutabilità siccome propria ed intrinseca all'Assoluto, mentre non è l'Assoluto, che muta e si trasforma e patisce alterazione, sibbene sono le cose finite che cangiano sotto il dominio dell'attività infaticabile ed incessante dell'Infinito. Scuola elcatica.. Eraclito, abbiam detto, sta come punto intermedio tra lempirismo della scuola jonica ed il razionalismo della scuola eleatica. La scuola jonica abbandonandosi all'osservazione ed all'esperienza siccome ad unico stru- mento del supere filosofico, aveva spiegato una tendenza esclusiva verso il PER GIUSEPPE ALLIEVO. 69 sensibile ed il molteplice : la scuola eleatica per campare dalie contrad- dizioni che Eraclito aveva elevato dal fondo dell'empirismo jonico, si ab- bandonò alla sola ragione speculativa siccome alla sola via per giungere alla verità assoluta e spiegò così una tendenza esclusiva verso il sovra- sensibile, sacrificando il molteplice ed il contingente all'uno ed al neces- sario. Vediamo quindi quale soluzione abbia dato questa celebre scuola al problema ontologico. È noto come la scuola eleatica debba il suo nome ad Elea, colonia greca nella bassa Italia, e sia stata fondata da Senofane. Si annoverano fra i più celebri fdosofì di questa scuola, oltre di Senofane, che la istituì, Parmenide, Zenone, Melisso ed Empedocle. "Ev nyyra., tutte le cose sono uno; era questo il pronunciato fondamentale, con cui gli eleatici solevano formolare la loro dottrina. Giusta questa formola, lUno è il solo e vero essere, il molteplice è mera apparenza; epperciò solo dell'ente uno ed assoluto si dà vera e ferma scienza, mentre degli esseri molteplici e finiti non si ha, né si può avere che uno slegato ammasso di cognizioni mera- mente probabili ed incerte, non già razionali né speculative; sentenza questa assai affine, se non identica con quella altra volta da noi confutala, la quale pronuncia che il solo e vero sapere è lo speculativo avente per oggetto l'assoluto, mentre quello delle scienze seconde aventi per oggetto gli esseri relativi è destituito di valore scientifico e razionale. Una è adunque la scienza, secondo gli eleatici, perchè uno è l'ente: essi pro- fessavano un dogmatismo intorno all'essere infinito, uno scetticismo riguardo alle cose finite, opperò dei tre termini e delle tre teoriche componenti il problema ontologico non riconoscevano se non quella che riguarda il Primitivo, giacché la dottrina intorno al relativo viene da essi ridotta ad una mera fenomenologia, e non è punto considerata siccome una teoria scientifica speculativa. Giova ora indagare il come essi pervenissero a stabilire la loro dottrina dell'ente uno sovversivo del molteplice, la quale si può denominare un razionalismo ontologico, perchè, come vedremo, è causata da un predominio esclusivo della ragione speculativa sull'osser- vazione. Era principio ammesso dalla scuola jonica questo, che dal nulla esce nulla; ex nihilo nihil. Coerenti al medesimo i filosofi jonici negavano alla materia ogni origine dal niente, dichiarandola eterna, sebbene, se avessero accettate tutte le conseguenze di quel principio, avrebbero logicamente dovuto negare non solo la produzione della materia prima dal niente, ma no IL PROBLEMA METAFISICO ECC. altresì la produzione di nuove forme e cose dalla materia prima , ossia le trasformazioni nuove della medesima. Siffatta contraddizione rinviensi altresì nella dottrina dei panteisti , i quali ammettendo il principio ex nihilo nihil da essi male interpretato , negano la produzione di nuove sostanze dal niente, ma non la produzione di nuovi modi, di nuove mani- festazioni dell'essere ; lo che è un far violenza alla logica, perchè chi trova assurdo che dal nulla possa escire alcunché di nuovo die da prima non fosse, dovrebbe trovar altresì ripugnante l'ammettere I esistenza di nuovi modi che non esistevan da prima. Invano lenta schermirsi il panteista osservando che non è irrazionale il concetto della produzione di nuovi modi , perchè questi hanno il loro germe e quindi la loro ragion d'essere nella sostanza unica che si ammette come il fondamento dell'essere: poiché il ctisologista può alla sua volta osservare che né anco la produzione di nuove sostanze dal niente, ossia la creazione sostanziale non ha nulla di irrazionale né di ripugnante, perchè, trova la sua ragion d'essere in Dio, che egli ammette come onnipotente. Ma di questa grave questione discor- reremo altra volta in luogo più acconcio. Continuando il nostro discorso, dico che i fdosofi eleatici pigliarono le mosse dal piincipio ex nihilo nihil ammesso dalla scuola jonica, principio che é oggetto della ragione, e che interpretato e svolto da essi dietro l'unica scorta della facoltà speculativa, disgiunta dall osservazione e dall'esperienza, li condusse alla negazione del molteplice e del contingente ed alla teorica dell ente uno ed assoluto. Speculando intorno a questo principio Senofane così pare che ragio- nasse. Se nulla produce nulla, dunque è mipossibile la creazione di esseri non per anco esistenti , impossibile l'annientamento di esseri già esistenti, impossibile ogni mutazione di forme e di modi di esistere. Se è impos- sibile la creazione di nuovi esseri , dunque tutto ciò che esiste ha sempre esistito, è eterno; se è impossibile I annientamento degli esseri esistenti, dimque tutto ciò che esiste, non verrà mai annientato, esisterà sempre, è eterno; se é impossibile la mutazione di forme e modi di esistere, dunque nessuna cosa può cangiar forma ed esistere in un modo diverso dall'attuale, ed é perciò immutabile, immobile. Il principio ex nihilo nihil ci conduce a stabilire adunque, come sua indeclinabil conseguenza, che l'essere é eterno ed immutabile, e che quindi debb'essere uno, perchè se esistessero più esseri si limiterebbero l'un l'altro, e cesserebbe perciò ogni esistenza, lo che è contrario all'eternità dell'essere. Quest'essere uno, eterno, immutabile, concepito siccome racchiudente in sé la pienezza ed il colmo di PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 1 tutte perfezioni è, per Senofane, l'Assoluto, Iddio. E degna di conside- razione la teorica che egli professava intorno all'Assoluto: esso è al di sopra delle categorie di finito e di infinito, di mobile e di immobile, è perfettamente identico ed eguale a se stesso in ogni sua parte: non è finito, perchè il finito essendo circoscritto da limiti, presuppone un altro finito da cui sia terminato, vai quanto dire presuppone la moltiplicità ; ora l'Assoluto essendo uno, non può essere tale qual è il molteplice; non è infinito, perchè l'infinito non avendo parti è il nulla ; ora Dio non può essere tale quale è il nulla: non è immobile, perchè il solo nulla è tale, e Dio non è il nulla ; non è nemmanco in moto, perchè il moto presup- pone la moltiplicità la quale in Dio non può ammettersi. Egli è inoltre semplicissimo, giacche non vi sono in esso parti differenti, ed attributi o potenze distinte spieganti ciascuna un'attività sua propria e diversa da quella delle altre; egli è tutto identico ed eguale a se stesso in ogni sua parte, pari ad una sfera che è perfettamente simile a se stessa in tutte le pai'ti della sua superficie; e questo concetto è affatto conforme a quello che il Cristianesimo ci dà della semplicità di Dio, in cui non v'ha distinzione sostanziale di sorta tra potenza ed atto, tra essenza ed esistenza, tra attributo ed attributo, per modo che Dio è tutto in ciascuna sua perfezione, od ogni attributo suo è Dio, sebbene si ammetta una distinzione razionale e meramente soggettiva tra gli attributi divini. Per dirlo qui di passaggio, vi ha un gran fondo di verità in questa teorica di Senofane intorno a Dio concepito non come l'identità e la contenenza degli opposti e dei diversi, ma come superiore ad ogni duaUtà e contrarietà di categorie; egli presentiva con ciò la didicoltà gravissima che pesa sul pensiero umano alloraquando tenta di conciliare in Dio la dualità di categorie' opposte e diverse, e per iscampare dalla difficoltà stabiliva che Dio non è, ad esempio, infinito e finito ad un tempo, ma ne questo né quello; non è immobile e moventesi, ma né l'uno né l'altro di questi due opposti; teoria questa, la quale conduce alla dottrina del concetto negativo di Dio, e di cui faremo parola nella teologia. Partito dal principio ex nihilo nihil, ed appigliandosi alla ragione spe- culativa come ad unica scorta per rintracciare il vero, Senofane si trovò di tal modo condotto per una serie di astrazioni alla teorica dell'essere uno, necessario, immutabile, epperò alla negazione dell'essere molteplice, contingente e mutabile. Ma lo spirito umano non è tutto ragionamento ed astrazione, sibbene altresì osservazione ed esperienza; e sorse ben tosto "2 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. l'osservazione a rivendicare i suoi diritti conculcali dalla ragione specu- lativa, a propugnare l'esistenza di una realtà molteplice, svariala e con- tingente contro il predominio della realtà una, identica ed assoluta. Senofane non ignorava, che la sua teorica speculativa era smentita e contrad^iìella dai fatti dell'esperienza e dai dettati del senso comune e dell'osservazione, la quale ci apprende una realtà molteplice e contingente. Neil antagonismo fra il suo sapere speculativo ed il sapere comune egli doveva scegliere fra i pronunziali della facoltà speculativa, la quale stando al principio ex nihilo nihil pone l'essere uno, eterno, immutabile, ed i pronunciali della iiacoltà osserva ti va e del sentimento che ci attesta la realtà del can- giamento e della contingenza negli esseri ; egli doveva conciliare insieme i diritti di queste due facoltà conoscitive e sciogliere le loro antinomie. Noi fece: egli aggiustò fede alla voce della ragione speculativa siccome la sola autorevole, rigettò come illusioni ingannevoli tutte le nozioni amman- nite dal sentimento, dichiarò mera apparenza soggettiva il molteplice, solo vera realtà l'ente uno, professò lo scetticismo intorno alla natura sensibile e finita sentenziando che di essa non abbiamo né possiamo avere che cognizioni incerte e coatraddicentisi. Questo suo scetticismo intorno alle cose nalurali ci viene confermato da Aristotele là dove discorrendo di Senofane e di Epicarnio dice : « Vedendo questi che tutta la natura è in movi- ci mento, e che intorno a ciò che si muta, nulla si può enunciare che )) sia vero, dissero che intorno a ciò che per ogni verso e in tutte le maniere » si mula, non è possibile pensare o parlare con verità (Met. Ili 5) ». Come ben si scorge, questo scetticismo di Senofane intorno alla natura era già implicitamente contenuto nella dottrina di Eraclito, il quale pronun- ciando che tutta la reult'i muta mai sempre ed è in un diventare continuo, ne inferiva che il pensiero non può a meno di non emettere giudizi con- traddittorii intorno alle cose ed affermare che sono e non sono ad un tempo, esistono in un dato moie ed in un dato altro, lo che è pretto scetticismo. Cosi Senofane, mal potendo negare l'esistenza del molteplice e del contin- gente datoci dall'osservazione e dall'esperienza, la riduceva a mera appa- renza, e ne inferiva l'incertezza e lo scetticismo nel pensiero che tenta di apprenderlo e di conoscerlo. Se tale è la dottrina di Senofane intorno al Primitivo ed d Derivato, è agevole il rilevarne quale soluzione possa avere in tale sistema il pro- blema intorno ai lapporti tra l'essere assoluto ed il relativo. Giacché si nega al finito ed al molteplice ogni realtà vera ed oggettiva, rimane con PER GIUSEPPE AI-UEVO. •^ó ciò stesso senza valore e senza soluzione il problema de' rapporti, di cui discorriamo; giacché nulla vi ha di realee di oggettivo all'infuori dell'essere primo ed assoluto, giacché il finito stesso non può, per la sua mutabilità, essere oggetto di un sapei-e vero e rigoroso, il problema dei rapporti tra il Primitivo ed il Derivato, tra l'Uno ed il molteplice, o non ha più luo°o o viene dichiaralo insolubile , perchè, non conoscendosi la verità intorno al molteplice, non se ne possono determinar con certezza i rapporti colTUno. Parmenide professò una dottrina sostanzialmente identica a quella del suo maestro Senofane, sebbene abbia tenuto un altro processo, e dato ad essa maggiore sviluppo ed una foima piìi rigorosa e sistematica. La posi- zione dell'Uno, siccome vero e solo essere, la negazione del molteplice, lo scetticismo intorno alla natura finita, il dogmatismo intorno all'essere assoluto, le antinomie tra la facoltà speculativa e la osservativa, lasciate insolute anzi elevate a sistema, tutte queste proposizioni, che pur sono fondamentali nella dottrina di Senofane, si riscontrano, sebbene sotto forma diversa, nel sistema di Parmenide suo discepolo. La sua dottrina sta esposta in un suo poema inscritto Della Natura, diviso in due parti, di cui luna tratta della verità, laltra dell'opinione. La prima parte si travaglia intorno all'essere assoluto, che è oggetto della ragione speculativa, e di cui solo si dà vera e ferma scienza, perchè esso solo è veramente ; la seconda parte si aggira intorno al relativo, ossia al fenomeno, che è oggetto dell'osser- vazione e dell'esperienza, e di cui non si hanno che opinioni, perchè non è vero essere, ma solo apparenza di essere. Da questo disegno del suo poema traspare che esso è informato allo stesso concetto fondamentale del sistema di Senofane; ma mentre questi pose a cardine della sua dottrina l'idea dell'essere assoluto considerato come Dio, cioè come un essere perfettissimo dotato di attributi non solo metafisici ma ben anco morali, quegli collocò a fondamento del suo sistema il concetto dell'essere assoluto, risguardato come un ente puramente astratto e metafisico, non già come Dio. Il processo da lui tenuto per giungere alla sua teorica dell'essere uno si trova esposto nella prima parte del suo poema. Quivi egli comincia dal proporre l'alternativa fra l'essere assoluto ed il nulla assoluto. A chi si pone a rintracciare il vero non rimangono aperte che due sole vie; od ammettere che l'essere solo è, e che è impossibile il non-essere, od ammet- tere che il non ente sia, e che è impossibile l'essere. Di queste due vie la prima è via di certezza e di verità; la seconda è via assolutamente falsa, perchè il non-ente non solo non è pensabile, ma nemmanco espri- Serie II. Tom. XXX. io ^4 'L PROBLEMA METAFISICO ECC. inibile con parole, giacché pensare ed essere è la stessa cosa. Se adunque tulto riducesi all'alternativa — l'ente è, o non è — e se la seconda ipotesi va rigettata come inescogitabile ed inefTabile, segue che solo la prima è ammessibile come verace e reale, che cioè l'ente solo è. Tutto adunque è essere, e l'essere è tutto, epperò è anche il pensiero ; pensare ed essere tornano ad un medesimo. Quest'ultimo pronunciato di Parmenide ci ricorda il celebre principio di Cartesio, penso, dunque sono; e però incerto se con ciò il fdosofo greco vole.sse solo significare che è impossibile pensare senza essere, o ridurre tutto l'essere al pensiero, ammettendo questo sic- come attività suprema ed assoluta, .secondo i placiti dei recenti panteisti tedeschi. Se l'ente solo esiste disgiunto affatto dal non-essere, prosegue Parmenide, esso adunque debbe escludere da sé tutto ciò che è in qualche modo un non-ente, un nulla, o.ssia una limitazione; sarà quindi eterno, poiché il nascere ed il perire è una hmitazione, un non-essere; sarà immutabile ed infinito sotto ogni aspetto per la .stessa ragione ; sarà tutto simile a sé stesso e non divisibile in parti diverse, pari al globo di rotonda sfera, di cui ogni parte è equidistante dal mezzo, non potendo essere mag- giore o minore da questa o da quella parte. Vuoisi pure avvertire, che l'Assoluto di Parmenide essendo perfetto in sommo grado e racchiudendo tutta l'entità e la pienezza dell'essere, è per ciò stesso un essere deter- minato, cioè compiuto ed integi'o, non già indeterminato come il nulla che manca di ogni qualità; per questo riguardo egli lo chiamava finito, non già infinito, prendendo questi due vocaboli nel senso che hanno nel linguaggio filosofico greco, in cui Vcc-'.tpoy, l'infinito, significa indeterminato; e cos'i rimangono conciliate le contraddizioni in cui parrel)be fosse incorso Parmenide che chiama l'Assoluto /i/z/to e ad un Iciupo perfèllissimo. (^on questa sua teorica Parmenide veniva a negare ogni realtà oggettiva agli esseri molteplici e sensibili, perciò stesso che negava Li contingenza, la mutabilità, il nascere ed il perire delle cose: per lui non si dà mezzo tra l'essere assoluto, uno, eterno, necessario, ed il nulla, per modo che od esistere in modo uno, semplice, necess;irio, identico, o non esistere affatto. Si scorge di cpii quale potesse essere la sua dottrina intorno alla natura sensibile e finita, contenuta nella .seconda parte del suo poema, che tratta dell'opinione ossia dei fenomeni sensibili: essa non è una teorica scientifica ed ontologica, ma una mera fisica, una fenomenologia della natura. Vi ha quindi, secondo Parmenide, una filosofia dei sensi, ed una filosofia della mente: ina (jueste tino specie o parti di filosofia sono luna in contrasto PKR GIUSEPPK ALLIEVO. ']5 coll'allra e dillèriscono radicalmente; 1 una è fallace ed illusoria, perchè lia per oggetto apparenze di esseri, e non vere realtà; 1 altra è vera e razio- nale, perchè si travaglia intorno all'Uno, che è il vero e solo essere ; quella è appoggiata ai sensi che sono di loro natura ingannevoli e non danno che iì mutabile e l'apparente; l'altra è appoggiata alla ragione speculativa, che sola sa e può cogliere ciò che veramente è e permane immutabile; la prima è un sistema di opinioni , ossia di cognizioni probabili ; la seconda è un sistema di verità razionali ed inconcusse; luna è pretto e puro empi- rismo, perchè riduce tutta la realtà al molteplice ed al mutabile; 1 altra è razionalismo, perchè riconosce l'Uno siccome 1 unico reale e pensabile, siccome il tutto. Di tal modo Parmenide pose in antinomia, come aveva fatto Senofane, le due facoltà conoscitive dell uomo, la speculazione ed il sentimento, che rimangono nella sua dottrina inconciliate. La scuola eleatica, per bocca di Senofane e di Parmenide, aveva oonchiuso all'unità assoluta dell'easere, e riducendo tutta la realtii all'ente uno, eterno, immutabile, indivisibile, era pervenuta a negare la moltiplicità, il cangia- mento, lo spazio, il moto, a ricusare ogni veracità ed autorevolezza ai dati dell'esperienza sensibile. Ma il senso comune mal poteva acconciarsi alle conclusioni speculative di silfalta teorica, ed in nome del senso comune sorgevano i seguaci dellempirismo a combattere la dottrina eleatica, oppo- nendole i dettati della sapienza comune e le credenze universali del genere umano con cui ponevasi in contraddizione. A difendere i principii della scuola eleatica dagli assalti dellempirismo e dalle contraddizioni, che le venivano rinfacciate, sorse Zenone, discepolo di Parmenide, collintendi- mento di dimostrare che la dottrina opposta, la quale ammette la molti- plicità degli esseri, il loro cangiamento e la contingenza, contiene nel suo seno assurdi e contraddizioni ben piiì gravi di quelle che erano rinfac- ciate alla dottrina eleatica dell'unità assoluta. Zenone professa la stessa teoria di Parmenide, suo maestro, e di Senofane, e rivolse ogni studio a difenderla, anziché ad ampliarla di imovi elementi; onde il suo lavoro è di uihcio meramente negativo, nell'adenipiere il quale egli spiega tale uno spirilo polemico, tanta sottigliezza ed arte critica nel sostenere il prò ed il contro intorno ai dati del senso comune e dell esperienza sensibile, che il diresti sofista, cavillatore e scettico, se non ponessi mente che suo finale e supremo intento era sol questo di cogliere in contraddizione! suoi avver- sarli sostenitori della pluralità assoluta, e dimostrare così per via indiretta la verità della sua teorica dell'unità as.solula. •-6 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. I punti principali della sua polemica sono rivolti a dimostrare i' ciie i esperienza sensibile è fallace e che la verità non si può raggiungere se non colla ragione; 3° che la molliplicità delle cose conduce a contrad- dizioni; 3° che è impossibile lo spazio; 4° '1 movimento delle cose nello spazio è ripugnante. Contro la veracità e l'autorità de sensi egli così argo- mentava: un grano di frumento, o la diecimillesima parte di esso, cadendo a terra, fa forse qualche rumore? Non certo. E un moggio di frumento, se cade a terra, fa o non fa qualche rumore? Certo che sì. Eppure il rumore di un grano di frumento non può essere affatto nullo, come atte- stano i sensi, ma qualche cosa; giacché la proporzione, che vi passa tra il grano di frumento ed il moggio, dovrebbe pure intercedere fra il rumore dell'uno e quello dell altro ; e siccome il grano di frumento non è nullo, così neppui" nullo do vrebb' essere il rumore da esso prodotto. Dunque, conchiudeva Zenone, l'esperienza sensibile è fallace, e non essa ci aj)prende il vero ed il reale, ma solo il ragionamento. Contro la moltiplicità egli opponeva i seguenti ragionamenti: se esistessero molte cose , dovrebbero essere i" somiglianti e differenti nello stesso tempo; somiglianti in quanto che tutte sono qualche cosa ; differenti in quanto che le une sono distinte dalle altre; 2" numerabili ed iniiumerabili nello stesso tempo; numeiabili, perchè essendo tante quanto sono, né più né meno, sono in numero determinato e Anito; innumerabili in quanto che tra l'una e l'altra possono esistere altre cose, e fra mezzo a queste altre ed altre all'infinito: 3° infi- nite ed eguali a zero; infinite, perchè ciascuna è divisibile all'infinito, constando di parti poste le une fuori delle altre, ciascuna delle quali è ancor divisibile in altre; eguali a zero, perchè ciascuna è un composto, ed ogni composto presuppone il semplice, che non avendo veruna gran- dezza è eguale a zero. Contro la possibilità dello spazio egli argomentava che se esso fos.se qualche cosa di reale, dovrebb' essere contenuto entro ad un altro spazio maggiore, e questo in un altro più esteso, e così senza mai fine; ma il progresso all'infinito ripugna, dunque lo spazio non è reale, è impossibile. Da ultimo egli combatteva la realtà del movimento: egli osservava che il corpo mobile per passare da un punto dello spazio ad un altro deve )iercorrere lo spazio intermedio fra i due punti estremi ; ma siccome questo spazio intermedio è composto di una infinita molti- tudine di piccole parti., così per essere percorsa dal mobile richiederebbe un tempo infinito, il quale essendo impossibile, prova l'impossibilità del movimento medesimo. PER GIUSEPPE ALLIEVO. ']'J Di tal modo Zenone reputava di avere combattuta e vinta la dottrina, la quale appoggiandosi all'esperienza sensibile siccome a fonte di verità, ammette la moltiplicità degli esseri , la realtà del moto, del cangiamento e dello spazio, e dimostrato cosi per via indiielta la verità della dottrina eleatica, la quale non ammette altra realtà se non quella che è oggetto della ragione speculativa, vale a dire Tessere imo, eterno immutabile e semplicissimo. Di Melisso, altro filosofo della scuola eleatica, nulla diremo sia perchè della sua dottrina non ci rimangono che pochi e scarsi frammenti, e sia perchè l'Eleatismo non ebbe da lui un notevole incremento ed uno svi- luppo maggiore di quello a cui l'aveva sollevato Parmenide, che è il più celebre rappresentante di questa scuola. Passiamo quindi dall'esposizione di questa dottrina alla critica. Anzi tutto si chiede , a quale specie di sistemi ontologici abbiasi a riferire l'eleatismo. Volgendo l'occhio allo specchio sinottico, in cui abbiamo delineate le forme diverse dei sistemi metafisici, chiaro si scorge come la dottrina eleatica sia un monismo ontologico , essendoché pronuncia che la realtà universale è una sola : ma siccome il Monismo si specifica in Assolutismo ed in Relativismo, secondochè riduce tutta la realtà od al solo essere assoluto, od al solo relativo, così il Monismo della scuola eleatica è un Assolutismo, mentre quello della scuola jonica è un Rela- tivismo. Ancora, l'Assolutismo si distingue in Razionalismo ontologico ed in Misticismo ontologico, secondochè vi si perviene per avere adoperato esclusivamente la ragione senza l' osservazione o per essersi abbandonati al predominio dell estasi e dell' entusiasmo religioso sulle altre potenze umane; l'Assolutismo eleatico è un Razionalismo ontologico. Determinata così la forma specifica del sistema eleatico, facciamoci ad instituirne una critica, cui ridurremo anche qui a tre precipui punti, esaminando i° il concetto o principio da cui pigliaron le mosse i filosofi di questa scuola; 2" il processo che tennero nella costruzione del sistema ; 3° l'indole ed il valore della loro teorica. Facciamoci al primo di questi tre punti. Il concetto da cui l)igliò le mosse Senofane per giungere alla dottrina dell essere uno, è il principio ex nlhilo iiihil. Sottomettendo ad un'analisi critica questo principio occorre rilevare i sensi diversi di cui è suscettivo per giudicare se e come possa venire ammesso. Se con questo principio si vuol significare , che il nulla non può essere né causa efllciente , ne causa materiale di qualche cosa, esso è verissimo ed irrepugnabile, pò- ■jS IL PROBLEMA METAFISICO ECC. sciachè se noi imaginassimo spenti lutti gli esseri dell'universo ed un nulla immenso, assoluto, universale in loro vece, fora impossibil cosa che da questo nulla assoluto possa uscire qualche esistenza o realtà, e dato pure che esistesse qualche cosa, essa non potrebbe servirsi del nulla come se fosse una tal quale materia preesistente per produr nuovi esseri: è questo U solo caso , in cui il principio ex niìiilo niìiil sussiste in tutta la sua forza. Ma esso riescirebbe falso ed inammessihile, se si volesse significale che presupposta l'esistenza di un essere eterno ed onnipotente non possa dal niente crear nuovi esseri , od anche presupposta 1' esistenza di una sostanza finita non possa questa emanare da sé altre sostanze che da prima non esistevano, o spiegare nuove maniFeskizioni e vestire nuove forme e modi che non aveva j)er lo innanzi ; poiché quanto ai nuovi esseri creati dal niente, essi hanno la loro ragion d'essere nell'onnipotenza divina; quanto poi alle nuove sostanze emanate dalla sostanza preesistente od alle nuove lòrme da essa assunte, esse sebbene fossero da prima un nulla nell'ordine della realtà, pure erano qualche cosa nell'ordine della possibilità, inquantochè erano virtualmente contenute nella sostanza pree- sistente e non fecero che passare dalla potenza allatto, dalla possibilità alla realtà, uscendo dirò cosi da un nulla relativo, non già assoluto. È adunque falso ed insussistente il principio ex idliilo nihil inteso nel senso che non possa venire all'atto e passare a sussistenza ciò che, od era virtualmente contenuto nella potenza di un essere preesistente, od aveva la possibilità di esistere nellonnipotenza divina. Male adunque Senofane volle inferire dal principio ex niìiilo nihil l'impossibilità di ogni creazione, di ogni annientamento, di ogni mutazione, e ipiindi l'eternità, l' imnm- tabilità, lunità dell'essere. Parmenide pigliò le mosse dal concetto delle-ssere risguardato astrat- tamente e preso nella sua più alla generalità ; giacché (|uand"egli in sul principio del suo poema propone al filosofante l'alternativa dell'essere e del non-essere , non piglia di certo il vocabolo essere in un senso de- terminato come se significasse Iddio ad esempio, o l'uomo, od il vegetale od altra realtà determinata, sibbene come sinonimo di qualche cosa, ossia dell'essere in universale; quindi tutti i ragionamenti, di cui va intessendo la sua teorica, riguardano il mondo degli astratti, non quello de' concreti, le concezioni mentali, non le sussistenze reali. Che il concetto dell'essere astratto ed universalissimo non debba essere assunto siccome inizio e fon- damento della scienza ontologica , d vedremo altra volta nellesposizione PER GIUSEPPE ALLIEVO. 79 critica che faremo della teorica di Rosmini , che pone a vero ed unico principio iniziatore della filosofia 1' idea dell' essere comunissimo a tutte cose. Qui giova solo avvertire , che la dottrina di Parmenide svolta da quella di Senofane ci presenta lo prime traccio di quella metafisica astratta» idealistica e trascendentale, che fu con tanto ardore coltivata a dì nostri in Germania, e toccò per cosi dire il soninm nell'Idealismo assoluto di Hegel. Silfàtta guisa di metafisica muove da un astrazione , procede per ima sene di astrazioni e linisce in un tessuto di astrazioni più o men bene cucite insieme: il suo processo metodico non è losservazione sus- seguita e fecondala dal ragionamento speculativo, ma il solo ragionamento che tenta di cavar tutto Tessere dai propri! visceri invece di lavorare intorno ai dati dell' osservazione per trasformarli in verità scientifiche e razionali ; suo intendimento non è di costrurre la scienza della realtà , in mezzo alla quale ci muoviamo, viviamo e siamo, ma di lavorare un sistema di concetti puri sulle ruine del senso comune e della realtà imi- versale: a suoi occhi, la vita, l'azione, il senso intimo non hanno alcun valore, per cui meritino di essere presi in sul seno, sono mere illusioni, un nulla; il pensiero, la speculazione, l'astrazione è lutto; così il divorzio fra il pensiero e l'azione è consumato. Tale è l'indole e la tendenza della dottrina di Parmenide: egli ragiona dell'essere, della sua unità, immutabilità e semplicità; ma di qual essere intende eijli di discorrere? Non certo dell'essere reale infinito sussistente e personale , tanto meno poi dellessere reale finito ; non di veruna realtà determinala, ma dell'essere logico, astratto, mentale, spoglio di ogni de- terminazione; la sua teorica non è la scienza della realtà sussistente, ma un sistema di concetti puri , di mere astrazioni : il fondamento , su cui edifica il suo sistema, non è lidea di un'essenza reale, ma l'essere puro, l'assoluU» metafisico , non l'assoluto sussistente ; e la sua dottrina non è se non lo sviluppo di quanto si contiene di identico nell' idea astratta dellessere, compiuto per opera del solo ragionamento speculativo. Indarno noi tenteremmo di arrestarlo a mezzo del cammino delle sue metafisiche astrazioni richiamandolo ai dati dell'osservazione ed al mondo reale; in- darno gli chiederemmo di distinguere tra esseri ed esseri, ricordandogli che i suoi ragionamenti son troppo vaghi ed astratti per modo che ap- plicati a tale od a tal altra guisa di esseri rimangono senza valore e per- dono il loro senso : egli sdegna le testimonianze dell' esperienza e del senSo comune, e fa violenza a se stesso per tener fiso lo sguardo della 8o IL PROBLEMA METAFISICO ECC. mente nell' unità assoluta dell' essere , sicché non ricada sulla diversitn specifica degli esseri, la quale rovescierebbe fin dalle basi la sua teorica dell'essere uno ed immutabile. Parmenide provò così col fatto e confermò quanto abbiamo detto altra volta, che chi muove dall'astratto non riesce che all'astratto, e si chiude di per sé ogni via per giungere al concreto. Ora noi abbiamo a suo luogo stabilito, che quanto al processo metodico l'osservazione debbe precedere il ragionamento, ed il concetto, da cui debbe pigliare le mosse il pensiero speculativo, vuol essere un concreto, non un astratto, perchè la teorica metafisica ha ad essere uno sviluppo razionale del sapere comune e non una negazione di esso. I filosofi del In scuola eleatica evidentemente seguirono un processo opposto. Rimane a discutere il valore della teorica eleatica. Due sono, abbiamo stabilito altrove , i caratteri onde vuol essere insignita una teorica me- tafisica ; essa debb essere sistematica nella forma , realistica cioè vera nella materia ossia quanto al suo contenuto. Riguardo al primo di questi due caratteri , esso , sebbene non si riscontri effettuato in tutta la sua integrità nella teorica eleatica, non si può affermare che vi manchi affitto, come avviene nella dottrina della scuola jonica, essendoché vi si spiega uno sforzo continuo per procedere in modo razionale e dedurre dal con- cetto supremo dell essere un sistema di concetti in esso contenuti; ed è questo un progresso che la filosofia ha fatto dalla scuola jonica ali eleatica. Ma se questa teorica non manca di forma sistematica, è per altra parte destituita del secondo carattere di verità o realismo quanto al suo con- tenuto, che è affatto idealistico ed astratto. E questo il piìi grave difetto, di cui possa andare viziata una teorica ontologica, la quale debbe spie- gare, non negare la realtà universale per ismarrirsi dietro un sistema di astrazioni, che mal può appagare i voti e le tendenze dello spirito umano fatto per la x'ealtà e per il vero. Facciamoci a disaminare piìi da presso l'idealismo della scuola eleatica, discutendo il suo principio fondamentale dell'unità assoluta ed indivisibile dell'essere. Tutto è uno: h nmxu. A Ibrmarci un adequato concetto del valore di questa formola, con cui gli Eleatici compendiavano la loro dottrina, giova distinguere le interpretazioni diverse , di cui essa è suscettiva. Si vuol forse significare, che tutte le cose, in quanto sono esseri, conven- gono fra di loro e fanno una cosa sola? Ciò è vero; giacché l'esistenza, considerata nella sua più alta generalità e non già nella sua diversità specifica, è la stessa in ogni essere per guisa che non si dà mezzo tra PER GIUSEPPE ALLIEVO. 8l il qualche cosa ed il nulla. O si vuol denotare , che l'unità è la forma suprema ed universale che si avvera e si riscontra effettuata in ogni essere? Anche questo è verissimo, ed è anzi un gran principio ontologico che vorrebb' essere con piiì di precisione espresso dicendo : ogni essere è uno. Oppure si vuol intendere , che i molteplici e variatissimi esseri dell'universo sono fra di loro collegati e stretti da vincoli così inlimi ed estesi da formare un insieme stupendo , una vasta ed armonica imita ? Neppur questo si può in verun modo negare, senza negare il gran prin- cipio ontologico del sintesismo degli esseri. Che se da ultimo si volesse significare che tutte le esistenze formano un essere imico e solo negando la diversità specifica degli esseri e delle sostanze , la formola sarebbe inammessibile e falsa ; e tale è appunto il senso erroneo in cui veniva intesa dagli Eleatici. Essi colsero nel segno nell'avere posta l'unità siccome categoria del supremo principio dell'essere e del sapere, e forma comune di tutte cose ; ma di questo gran vero abusarono volendo l'unità astratta, assoluta, vuota senza moltiplicità. Cerio è che T unità è la forma uni- versale di ogni realtà e di ogni pensiero, e che la mente non può ap- prendere verun oggetto se non come uno , perchè ogni oggetto forma un tutto, una unità: così troviamo unità nelle scienze, perchè ognuna di esse fluisce tutta da un solo principio supremo; unità in tutti e singoli i nostri atti intellettuali, siccome quelli che intendono ad armonizzare più idee fra di loro ; unità nelle arti , giacché in ogni prodotto estetico ha da risplendere un concetto armonico ed uno in mezzo ai contrarii ed ai diversi: unità nelle lingue perchè offrono elementi comuni e sostanzial- mente identici per modo che fanno presentire la loro comune provenienza da una lingua unica primitiva; in una parola troviamo unità nel mondo della realtà , perchè tutti gli esseri trassero origine da un solo essere primitivo e supremo , ed in esso si sostentano ; ed unità troviamo nel mondo del pensiero , perchè tutte le idee si radicano nell' unità di un supremo principio generatore di tutto lo scibile. E l' unità non è solo forma dell'essere e del pensare, ma altresì del bene e della perfezione, poiché le scienze, gli atti mentali, i prodotti estetici, le lingue, gli esseri, le cognizioni sono tanto più perfetti quanto più si accostano all'unità ed in sé la ellètluano. Che se gli è vero, che tutto hi questo senso è uno e debb'essere uno, gli è vero altresì che l'unità, forma dell'essere e della perfezione, non va scompagnata dalla moltiplicità. È una ogni scienza, ma nella sua unità Serie II. Tom. XXX. 1 1 Sa IL PROBLEMA METAFISICO ECC. racchiude una inoitiplicità di cognizioni distinte e diverse ; è uno ogni atto mentale , il giudicio , il ragionamento , ma pur si elementa di piiì idee dialetticamente consociate insieme ; è uno ogni lavoro estetico , ma non esclude quella varietà che rende piìi bella e splendida l'armonia; è una ogni lingua , ma pur si elementa di una moltiplicità di vocaboli ; è uno il mondo della reallri, ma gli esseri che lo compongono sono mol- teplici e diversi, come lo scibile universo armonizza in sé una moltiplicità di scienze varie e distinte. Che piii ? La perfezione stessa non viene raggiunta , ma sparirebbe ben tosto se tutte queste cose toccassero una unità così rigida , assoluta ed esclusi\a da assorbire in se il molteplice. Ciò posto, si chiede: 1 unità eleatica è dessa armonica, organica, viva e concreta quale debb' essere , sicché non escluda la molteplicità , ma la contenga e la armonizzi. No , cerio ; è un'unità assoluta , astratta ed inorganica, che non lascia più luogo di sorta al molteplice ed al di- verso, ma lo esclude. L unità eleatica non solo non contiene implicati in sé gli opposti ed i diversi, che si svolgano poscia dal suo seno, ma è al di sopra di tutti i contrarii, di tutte le categorie, sicché queste non si possono della medesima predicare; essa è adunque unità pura, assoluta senza molteplicità, senza pluralità di note, di manifestazioni, di determi- nazioni ed attributi; é tutta unità e nient'altro che unità. Ora una unità cosi fatta è inammessibile , insussistente , poiché non solo non è più la forma universale dellessere, del pensare, e della perfezione, ma la ne- gazione di tutto. Togliete ad una scienza la moltiplicità delle cognizioni di cui si elementa, ai nostri atti mentali le idee diverse da essi collegate, ad un prodotto estetico la varietà , a ciascuna lingua i suoi diversi vo- caboli , al mondo della realtà 1' essere supremo e primitivo , allo scibile universale la diversità e la pluralità dei rami scientifici , e voi avrete con ciò non solo resa impossibile la perfezione di tutte queste cose, ma avrete negato tutto. Quest' unità dell' essere rigida , vuota , immobile , semplicissima, qual venne concepita dagli Elealici, é la negazione della vita, di ogni esistenza, di ogni attività, di ogni sviluppo: essa ha in sé alcunché di orribile , che agghiaccia il pensiero , irrigidisce ed essica le fonti della vita, e dell'essere : non solo l'esisLenza universale diventerebbe impossibile, ma il pensiero stesso dovrebbe cessare, giacché non potendo più concepire la diversità specifica degli esseri e procedere dialettica- mente da un concetto ad un altro diverso sarebbe condannato ad una sterile e vuota contemplazione dell'Uno, ad una specie di monomania PER GIUSEPPE ALLIEVO. 83 intellettuale , che ci ricorda la monomania ascetica di que' Bramini del- l'Asia, che stavano assorti ed immobili in una monotona ripetizione del sacro vocabolo own. E veramente cjuali altri concetti specificamente diversi potrebbe mai il pensiero speculativo dedurre dal concetto astratto dell'essere uno, se questo in sentenza medesima degli Eleatici non solo non contiene in sé i diversi e gli opposti , ma è anzi collocato al di sopra dei contrarii e dei molteplici^ È chiaro che in tal caso non possiamo nulla afTermare e nulla negare se n(m la sola categoria dell'uno, la quale yer quantunque si ripeta un numero indefinito di volte non potrà mai dare il diverso da se. Tanto è vero, che il concetto dell'essere puro ed astrattissimo attesa la sua estrema semplicità è di tutti i concetti il piìi povero ed infecondo, e che chi lo pone a principio e fondamento supremo della fdosofia ri- corda di sé il noto adagio : Chi tutto abbraccia , nulla stringe. L' unità vuota ed assoluta degli Eleatici senza la moltiplicità non solo si oppone all'esperienza, al senso inlimo, al pensare comune, ma altresì allo stesso pensiero speculativo (i), giacché negata la pluralità dell'essere, epperò de' concetti, è reso impossibile il movimento del pensiero metafisico, im- possibile quindi la stessa Dialettica intellettuale, che risiede appunto nel discorrere da un concetto ad un altro e nello sviluppar pii'i concetti da un'idea suprema. Se non che gli Eleatici non solo errarono nel concepire lunilà assoluta priva della moltiplicità, ma ben anco nell'avere confusa la forma dellessere colla sua so.stanza, riducenilo tutto, quante, l'essere ad una pura unità, mentre questa ne é solo la forma, non il contenuto. Ogni unità è imita di qualche cosa , ossia é la forma di una sostanza od essenza per modo che l'una importa l'altra ed un essere che non sia altro se non un'unità e non contenga in sé veruna natura od essenza propria , riesce ad un impossibile nell'ordine della realtà, sebbene nell'ordine dell'astrazione si possa pensare alla fórma dell' essere , lasciandone momentaneamente da parte la sostanza. Mi .spiego. Sia dato ad esempio l'essere uomo: esso é un tutto, un individualità detenninata , una unità; ma quest'unità ha un (1) A conrerma di ciò giova l'osservare, che i conceUi di uno e di molteplice sono due termini correlativi, che si chiamano e si involgono mutuamente per modo che il pensiero speculativo non può porre l'uno senza il molteplice. Il pcrchi; gli Eleatici stessi, che si appigliano al ragionamento come unico fonte del vero , sono dal ragionamento stesso costretti a porre l'uno accanto del molteplice. 84 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. contenuto suo proprio, questa forma è accoppiata ad una sostanza: qual è questo contenuto, questa sostanza? L'animalità e la razionalità. Abbiasi quest'altro esempio; l'essere nazionale. Ogni nazione è un'unità, un tutto vivente di vita propria, questa è la sua forma: ma quest'unità ha un contenuto , questa forma si congiunge con una sostanza od essenza. Qual è questo contenuto, questa sostanza dell'essere nazionale ? « Certo » novero di genti per comunanza di sangue , conformità di genio , me- li desimezza di linguaggio atte e preordinate alla massima unione sociale » (Mamiani, Divitto Europeo, pag. SgS) ». Da queste considerazioni io ne inferisco che in ogni essere determinato vuoisi ammettere una dualità di forma e di sostanza , ossia un' unità come forma ed un contenuto come sostanza ; che perciò il problema ontologico relativo a ciascun essere in particolare ed all'essere in generale racchiude due parti, l' una risguar- dante la forma dell' essere , ossia la sua unità , 1' altra la sua quiddità o sostanza; e che la teoria ontologica degli Eleatici è monca ed incom- piuta perchè disconosce nell'essere la sostanza riducendolo tutto alla forma, ossia ad una unità assoluta ed astratta. Che cosa è l'essere.' Gli Eleatici rispondono: è unità assoluta. Ma questa risposta è vera solo in parte, essa abbraccia non tutto l'essere quanl'è, forma e sostanza, ma solo un lato dell'essere, la forma. Che si direbbe di chi, interrogato che cosa sia il poema di Virgilio , rispondesse sol questo : è un' unità estetica ? Ciò sarebbe un eludere la dimanda e farsi beffe di chi interroga , il quale non istà contento a questa risposta, ma vuol conoscere quanto si contiene in questa unità estetica , ossia la sostanza del poema 'S'irgiliano. Perciò la teorica ontologica degli Eleatici, a voler essere compiuta, debbe far luogo a quell'altra questione che riguarda la sostanza dell'essere ; ma in tal caso essi son costretti ad abbandonare il loro sistema dell'unità assoluta ed esclusiva, ammettendo nell'essere la dualità della forma e della so- stanza, vai quanto dire, dell'unità ontologica e del suo contenuto. Muovendo dall'erroneo principio dell'uniti assoluta, posta dagli Elea- tici a fondamento della loro dottrina, non è a meravigliare se si videro condotti ad erronee conseguenze. Mal sapendo conciliare col loro sistema metafisico Tutto è uno la mutabilità e contingenza delle cose, la moltipli- cità e diversità specifica degli esseri, presero il partito più comodo di negare il molteplice attestatoci dall'esperienza e dal sentimento, in grazia della unità suprema, oggetto della ragione speculativa. È dessa razionale ed am- messibile questa contraddizione ed antinomia che pose l'Eleatismo tra l'os- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 85 servazione ed il ragionamento, tra il sentimento e la speculazione , tra il pensare comune e lo speculativo, tra l'uomo della vita ordinaria ed il filosofo? Risolvere tale questione vai quanto determinare i rapporti che interce- dono fra le due guise di facoltà conoscitive, di cui parliamo; e siccome non è possibile divisare per bene la natura di un rapporto senza cono- scere la natura propria de' termini fra cui esso passa, così a voler fermare le attinenze che vi sono tra la facoltà osservatrice e la razionale o spe- culativa occorre investigare f indole e la natura peculiare di ciascuna di queste due potenze conoscitive. Or la natura specifica di una facoltà viene determinata dall'oggetto che essa apprende e che in certo qual modo la informa. Qual è adunque l'oggetto dell'osservazione, quale quello della ragione speculativa? Gli Eleatici ne rispondono che la ragione specula- tiva ha per oggetto l'uno, l'osservazione per contro il molteplice, e ne inferiscono poi che l'Uno è il vero e solo essere, anzi tutto l'essere e che il molteplice è solo apparenza di essere, anzi una illusione, un nulla. Giova formarci un giusto ed adequato concetto di ciascuno di questi due oggetti che si assegnano alle due facoltà conoscitive per recare un fondato giu- dizio intorno la dottrina degli Eleatici su questo punto. Allorché si pronuncia che l'Uno è oggetto di speculazione, ed il mol- teplice oggetto dell'osservazione, s'intende forse per l'Uno l'essere assoluto infinito, divino, e per molteplice l'essere, o gli esseri relativi, finiti, mon- diali? In tale supposto io stabilisco contro gli Eleatici, che le due facoltà del ragionamento e dell'osservazione aventi per oggetto quella l'uno in- finito, questa il molteplice finito non solo non deggiono mutuamente com- battersi a segno da riescire l'una una negazione esclusiva dell' altra, ma vicendevolmente si presuppongono per guisa che l'una non può sussistere senza dell'altra; e traggo la conferma della mia proposizione dalle mutue attinenze che intercedono fra l'Uno infinito ed il molteplice finito. Questi due termini sono correlativi, vai quanto dire si presuppongono e si invol- gono l'un l'altro per modo che il concetto dell'infinito inchiude logicamente quello del molteplice finito, e questo non può sussistere senza di quello. A dimostrare la prima parte dì questo pronunciato io ragiono di tal modo: L'infinito è il sommo dell'essere e per conseguente il sommo dell'attività, giacche l'essere è forza ed energia: se l'Infinito è attività suprema, può esplicare ed attuare questa suprema attività, epperò produrre nuovi esseri o nuove torme di esseri senza numero, giacché la sua attività essendo im- mensa è inesauribile; non cerco qui se questa produzione di nuove so- 86 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. stanze per parte della sostanza infinita avvenga in modo emana cistico, come pretende il Panteista, oppure sia una libera creazione dal niente, come sostiene il Teista ; questa è questione che risolveremo a suo tempo, ma che in quale che siasi senso venga risolta, non inferma per nulla il nostro ragionamento. Dico dunque ohe posto il concetto dellUno infinito è posta con ciò stesso la possibilità d'un molteplice finito tantoché quello non può logicamente ammettersi senza di questo. Si avvertirà forse, che posto un Essere infinito sarebbe posta solo la possibilità de' molteplici esseri finiti, non per anco la loro realtà ed effettuai sussistenza, essendo- ché stando ai pronunciati dei Teismo Iddio potrebbe altresì astenersi dal tradurre in atto i possibili della sua niente creatrice; e ciò il concedo di buon grado , essendo mia ferma sentenza che dal solo concetto di Dio non sia possibile, senza rovesciare nel panteismo, derivare per soia forza logica di ragionamento puro la realtà dell'esistenza del mondo, sibbene la semplice sua possibilità. A me basta all'uopo, mi si conceda, ciò che d'al- tronde non mi può essere contestato, che il concetto dell'Uno infinito inchiude logicamente quello del molteplice finito per inferirne contro gli Eleatici che la ragione speculativa, a cui essi assegnano ad oggetto l'Uno infinito, non può sussistere senza I osservazione, che ha secondo essi ad oggetto il molteplice finito, e che il togliere di mezzo, come essi fanno, il molteplice finito, oggetto dell'osservazione, è un distruggere perfino il concetto dell'Uno infinito, oggetto della speculazione. Così a ragion d'esempio dato il concetto dello spazio geometrico è data logicamente una moltiplicità svariatissima di figure geometriche siccome quelle che altra cosa non sono se non lo spazio stesso diversamente configurato e circo- scritto entro a dillferenti determinazioni; onde che chi niegasse la mol- tiplicità delle figure geometriche toglierebbe con ciò stesso di mezzo l'unità medesima dello spazio. Rimane a chiarire la seconda parte della .sentenza nostra, con cui si pronuncia che il molteplice finito non può sussistere senza l'Uno infinito; lo che rimane dimostrato e posto in sodo sol che si rifletta che per finito intendesi tal essere, che non essendo tutto, né avendo perciò la ragione di sua esistenza in sé medesimo, importa per logica necessità un altro essere, che sia causa e ragione di esso, voglio dire l'Infinito. Se adunque il molteplice finito non può sussistere senza l'Uno infinito, ne discende per indeclinabile corollario, che l'osservazione, siccome quella che ha per oggetto il primo di questi due termini, importa come suo com- plemento la ragione speculativa, che intorno ali Uno infinito si travaglia. PER GIUSEPPE ALLIEVO. 87 Per tal modo reputo provata la insussistenza ed erroneità della sen- tenza eleatica inturno alla contraddizione ed al contrasto delle due facoltà conoscitive, posto che col vocabolo Uno si voglia denotare 1" Essere in- finito, e con quello di molteplice l'essere finito. Però noi abbiamo sinora presi i due vocaboli di Uno e di Molteplice in senso ontologico, come cioè esperimenti due specie di esseri che sono l'Infinito, che si denomina r Uno perchè è un solo, ed il finito denominato il Molteplice perchè è vario e specificamente diverso. Se non che questi stessi vocaboli potreb- bero venir presi altresì in senso categorico, vale a dire in quanto espri- mono la forma di ogni essere, che è l'unità contenente una moltiplicità. In tale caso la facoltà dell'osservazione avrebbe per oggetto la moltiplicità di elementi o di note che si rinviene in un dato essere conosciuto, mentre la facoltà della ragione speculativa sarebbe rivolta a cogliere Tessere nella sua unità. Posta cosi la questione prende un nuovo aspetto , e si cerca se sia fondata od insussistente la dottrina eleatica la quale pone in dis- sidio le due facoltà conoscitive, volendo anzi luna sacrificata all'altra. A risolvere la questione cosi proposta occorre tenere un processo analogo a quello che abbiamo sinquì seguito e che risiede nel considerare le due facoltà conoscitive in rapporto col loro oggetto. Facciamoci adunque a considerare l'uno ed il molteplice come forma categorica suprema di ogni essere e dal rapporto che giungeremo a stabilire tra amendue noi argui- remo il rapporto che debbo intercedere fra le facoltà che li apprendono siccome loro oggetti. Ogni essere determinato (Dio, ad esempio, l'uomo, il vegetale ecc.) è uno e molteplice ad un tempo, uno, in quanto che costituisce un tutto da sé avente una individualità sua propria ed una distinta sussistenza; molteplice, in quanto racchiude nella sua unità una pluralità di note, di caratteri, di proprietà, di elementi, però queste due categorie di unità e di moltiplicità sono talmente collegate insieme che mutuamente s'involgono sicché l'unità non può stare senza moltiplicità, né questa può sussistere da sé disgiunta e scissa da quella. Così è uno Tessere umano, ma pro- viamoci a spogliarlo della moltiplicità de' suoi elementi, togliamogli il sen- timento, Tistinto, la ragione, la libertà e via via le altre potenze che lo dementano, e la sua unità scomparisce e si perde in una vuota ed arida semplicità: del paro togliamogli la sua unità, la sua individua, totale esi- stenza, e vedremo la moltiplicità stessa delle sue potenze sperperarsi in un'accozzaglia di elementi che si disperdono per manco di un centro su- 88 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. premo che li aduni ad unità di vita e di azione. Se adunque Tessere e uno e molteplice ad im tempo sebbene sotto diversi risguardamenti e se queste due categorie formali non vanno disgiunte né isolate perchè ciò sarebbe un dimezzare e troncar la natura stessa dell'essere, lecito è l'in- ferirne che le facoltà conoscitive dell'uomo deggiono apprendere l'essere nell'armonia di tutte e due le sue forme dell'unità e della moltiplicità, e che per conseguente non che osteggiarsi mutuamente e lottare discordi tra di loro hanno a consociarsi insieme e ritrarre in sé quell armonico accordo che regna tra l'unità e la moltiplicità dell'essere conosciuto. Pon- gasi a ragion- d'esempio che la ragion speculativa, a cui si assegna in pro- prio di apprendere l'oggetto come uno, proceda isolata dalla osservazidne e senza il suo sussidio; in tal caso coglierà l'unità di un dato essere disgiunta dalla sua moltiplicità, lo che vai quanto dire, non giungerà a conoscere la vera e propria natura di quell'essere, poiché apprendere a ragion d'esempio, l'essere-uomo come uno senza por mente alle sue molle- plici facoltà di sentii-e, di intendere e di volere racchiuse nella sua unità è un non apprenderlo in realtà, giacché in tal caso la sua unità vuota ed astratta senza moltiplicità non si distingue per nulla dall'unità degli altri esseri né posso dire di avere appreso V essere-uomo. Pongasi per lo contrario che 1 osservazione, cui si assegna ad oggetto la moltiplicità dell'essere proceda discorde e separata dalla speculazione; in tal caso apprenderà la moltiplicità di un dato essere isolata dalla sua unità, vai quanto dire, non apprenderà più un essere determinato ed individuo , giacché ogni essere formando un tutto da sé é un unità individua sussistente: così chi pen- sasse alla moltiplicità degli elementi e delle note della natura umana, alla sensitività, all'istinto, alla intelligenza, alla libertà, ma tutti questi elementi considerasse in separato senza comporli ad armonica ed organica unità, non avrebbe del sicuro il concetto dell'essere-uomo, il quale é uno. Ed ecco come queste due facoltà conoscitive, la speculazione e 1 osservazione, ove si svolgano discordi e lottanti, falliscono al loro intento, poiché non appren- dono Tessere in tutta la integrità della sua natura, sibbene dimezzato e tronco; e solo raggiungono la meta quando procedano concordi ed unite. Dal che s inferisce l'insussistenza della dottrina eleatica, che invece di conciliare insieme ragionamento ed osservazione sicché si giovino e si compiano a vi- cenda, stabiliscono un dissidio fatale tra l'uno e l'altra, che si oppone all'ar- monia intrinseca dell'essere, il quale è uno e molteplice ad un tempo e per ciò stesso toglie di mezzo il conseguimento della verità integra e compiuta. PER GIUSP:PPE ALI-IEVO. 89 Dirò di più. Le riflessioni fatte or ora ci conducono a conchiudere che le due facoltà conoscilive di cui teniamo parola, non solo non vanno posle in dissidio luna contro l'altra, ma vogliono essere risguardate in tale e sì stretta intimità da dover essere reputate, anziché due potenze distinte, pili propriamente due atti di una medesima facoltà, o meglio ancora due momenti del pensiero umano. E veramente non essendo Tessere, per cosi dire, dimezzato in due parti, giacchi"; è uno e molteplice ad un tempo, non si può supporre che il pensiero umano apprenda con due (acolt.'t di- verse ogni essere determinato da prima come uno esclusivamente, p(ji come molteplice soltanto; sibbene gli è più ragionevole l'ammettere che lo apprenda come uno e molteplice, ma in due momenti o con due atti diversi, che sono da prima il pensare comune, con cui si contempla l'unità e la moltiplicità di un essere in modo vago ed oscuro, da ultimo col pen- sare speculativo, che è la visione primitiva ma resa esplicita, chiara <> distinta. Giusta questa sentenza, l'essere non sarebbe più direi così spez- zato in due parti per assegnarne l'una ad oggetto della speculazione, l'altra ad oggetto della osservazione, ma sussisterebbe in tutta la sua ar- monica integrità e tale sarebbe appreso in ciascuno de' due momenti del pensare comune e dello speculativo, sebbene in modo nien perfetto nell'uno e più perfetto nell'altro. Veduta e posta in tal modo la questione, .sa- rebbe risolta nel medesimo senso contro la dottrina eleatica, poiché se l'osservazione e la ragione sono il pensar comune, l'una e l'altra il pen- sare speculativo, è chiaro che la seconda non vuol essere una negazione esclusiva della prima, avendo noi altrove dimostrato che il sapere specu- lativo ha ad essere non una distruzione, sibbene una spiegazione ed uno sviluppo razionale del sapere comune, da cui piglia le mosse e riceve i materiali onde costrurre l'edificio scientifico. Riepiloghiamo il processo del nostro ragionamento. Era questione, se la contraddizione posta dagli Eleatici tra la speculazione e l'osservazione sia razionale od insussistente. Siccome non si riesce a divisare il rapporto che fra due termini intercede senza conoscere da prima i termini stessi, così a risolvere la proposta questione intorno i rapporti fra le due fa- coltà conoscitive faceva mestieri indagare da prima la natura propria delle medesime. Ma la natura di una facoltà è determinata dall'oggetto che la informa e che essa apprende; dunque dovevamo rivolgere le nostre in- dagini intorno agli oggetti proprii di ciascuna di queste due potenze pei' conoscere da poi le potenze stesse e determinare da ultimo i loro rap- Serik II. Tom. XXX. 12 go IL PROBLEMA METAFISICO ECC. porti. Delinealo cosi il processo del nostro discorso, e posto che oggetto della ragione speculativa sia l'Uno, oggetto della osservazione il molte- plice, abbiamo specificato il doppio senso di cui sono suscettivi i vocaboli di Uno e di molteplice. Se essi vengono assunti per denotare l'essere in- finito e gli esseri finiti, abbiamo provato che questi due termini essendo correlativi si involgono a vicenda per modo che il concetto dell'uno non può sussistere senza quello dell'altro; di che abbiamo arguito che le due facoltà conoscitive, cioè la speculazione, avente per oggetto lUno infinito, e l'osservazione, avente p^r oggetto il molteplice finito, non dcggiono osteggiarsi uè contraddirsi, come pretendono gli Eleatici, ma inchiudersi ed implicarsi mutuamente, perchè mutuamente s'inchiudono e si implicano 1 loro oggetti, l'infinito ed il finito. Che se i vocaboli di Uno e di mol- teplice si pigliano per indicare le due forme universali di ogni essere, che sono l'unità e la moltiplicità , abbiamo dimostralo che anche in tal presupposto la speculazione e T osservazione vogliono procedere non di- scordi ma consociate ed armoniche, perchè le due forine dell'unità e della moltiplicità, che esse apprendono siccome loro oggetto, non sussistono isolate e disgiunte nell'essere appreso, sibbene armonizzanti e concordi, essendoché ogni essere determinato è uno e molteplice ad un tempo, e come tale vuol essere appreso dalle nostre facoltà conoscitive, le quali procedendo altramente scinderebbero violentemente la natura stessa armo- nica dell'essere. Rimangono alcune considerazioni a fare intorno a Zenone, che venne soprannomato il Palamede di Elea atteso l'ardore e lo spirito polemico da lui spiegato per difendere l'Eleatismo dagli assalti deiren)pirismo. EgK rivolse il nerbo della sua polemica contro l'osservazione sensibile esterna, di cui s ingegnò di provare la fallacia e chiarirne l'impotenza a raggiungere il vero, e non si avvide che oltre dell'osservazione sensibile esterna v'ha un altra guisa di osservazione, voglio dire l'interna o psicologica, chia- mata con altro nome senso intimo, che è autorevolissima ne' suoi pro- nunziali, anzi incontrovertibile e superiore agli assalti del dulìbio, siccome quella che si fonda sulta consapevolezza, che Pio ha di sé stesso, senza della quale la scienza stessa mancherebbe della sua condizione prima e della sua causa efficiente. Nessuno, nemmanco lo sceltico può negar fede alla voce del senso intimo, poiché tolta di mezzo la consapevolezza che l'io ha di se stesso, verrebbe meno il pensiero medesimo, e quindi la scienza, che del pensiero è un prodotto razionale. Se Zenone a vece di PER GIUSEPPK AI.L!K\0. 9' ridurre tutta la facoltà dell'osservazione ai sensi esterni, avesse fatto luogo all'osservazione interna o psicologica, avrebbe scorto l'insussistenza del suo sistema dell'unità assoluta, giacché il senso intimo procacciando allo spirito la consapevolezza di sé medesimo rivela con ciò slesso una dua- lità di termini, che sono l'io ed il non io, non putendo il pensiero enun- ciare col vocabolo io \.\ pro|)ria personalità senza suppon-e un non-io, da cui si tenga distinto; di qui quella profonda sentenza di Jacobi: senza il tu è impossibile l'io. Errò adunque Zenone disconoscendo l'osservazione interna, la quale ci dà il molteplice, ed errò allres'i allorquando niegò o"ni valore all'osservazione esterna dichiarando mipotente la percezione sensitiva a raggiungere il vero ed il reale, e pronunciando che la verità non si può conseguire se non colla ragione speculativa. L esempio del grano di frumento da lui citato a conferma della sua sentenza prova contro di lui, giacché il rumore prodotto dalla caduta di un moggio di frumento é una verità attestata della percezione sensitiva altres'i concorde in ciò colla ragione specidativa ; di die si inferisce contro di lui , che vi sono dei veri e dei reali che si apprendono dalla osservazione esterna, e che questa in tali casi non contrasta, ma concorda colla ragione speculativa. Aggiimgasi, che la polemica di Zenone, quando pur fosse solida e sussi- stente, non avrebbe forza se non contro l'empirismo esclusivo, ossia contro la dottrina che ammette il molteplice senza l'uno, l'osservazione senza la speculazione; ma dalla falsità dell'empirismo esclusivo non ne discende la verità del razionalismo ontologico che ammette 1' uno senza il molte- plice, la speculazione senza l'osservazione, poiché fra questi due opposti .sistemi sta intermedio un terzo, che ammette l'Uno insieme col molte- plice, la speculazione insieme con l'osservazione. Anche qui, come sempre, la verità sta in un mezzo dialettico tra due estremi, del paro che la virtiì : i due sistemi opposti dell'unità assoluta e della moltiplicilà assoluta pec- cano perchè troppo esclusivi; la verità risiede appunto in ciò che essi escludono, vale a dire nel dualismo armonico dell'Uno e del molteplice, del reale infinito e del reale finito. Chiudiamo questa critica con un brevissimo raffronto tra la scuola eleatica e la jonica. Comparando insieme queste due scuole metafisiche si scorge che amendue convengono nel pronunciare , che la realtà uni- versale è una sola , epperò professano un monismo ontologico , ma di specie diversa. Il monismo della scuola eleatica è un assolutismo sotto forma di razionalismo, essendoché riduce tutta la realtà all'essere uno ed qj IL PROBLEMA METAFISICO ECC. assoluto e vi perviene per causa del predominio esclusivo della ragione sull'osservazione nel processo metodico; per contro il monismo della scuola jonica è un relativismo sotto forma di empirismo perchè riduce tutta la realtà all'essere multeplice relalivo condottavi dall uso esclusivo dell os- servazione sensibile nel processo metodico. Di qui ancori altri punti di discordanza: nella scuola eleatica la ragione speculativa predomina esclu- siva sulTosservazione; nella scuola jonica predomina la facoltà osservativa sulla razionale; il principio Iòndamentale dell una è che tutto è Uno, il multeplice non esiste; principio fondamentale dell'altra è che tutto è mol- teplice, l'Uno non esiste; in quella lelemenlo razionale distrugge l'empirico, in questa l'elemento empirico domina esclusivo sul razionale. Entrambe queste due scuole lasciano insoluto il problema ontologico, disconoscendo I Ire termini distinti di cui si elementa, e riducendoli ad un solo. Scuola Pitagorica od Italiana. Qual è la causa esemplare delle cose, ossia l'essenza tipica degli esseri, la loro intima e costitutiva natura ? Tale fu la ricerca, a cui rivolsero le loro indagini i filosofi della scuola pitagorica , i quali , educati allo studio delle scienze matematiche, reputarono che tutto sia quantità e si possa spiegare per mezzo dei rapporti di quantità, e si avvisarono di avere risolto il propostosi problema pronunciando, che i numeri sono d principio o lessenza tipica di tutte cose. Avendo contemplato l'universo sotto la- spetto del numero, ed in esso riposta la causa esemplare, ossia 1 inlima natura degli esseri , i pitagorici vennero perciò denominati matematici , come per lo contrario i jonici furono da Aristotele chiamati fisiologi , o naturalisti perchè studiarono luniverso sensibile nel suo continuo trasmu- tarsi, anziché nell'immutabile sua essenza. Principio fondamentale della dottrina pitagorica è achuHjue questo: Il numero è il principio e l'essenza (li ogni cosa. Noi piglieremu a svolgere questo pronuncialo supremo della scuola italica collesposizione del Pitagorismo, la quale divideremo in tre distinte parti corrispondenti ai tre termini del problema ontologico, che sono la teorica del Primitivo, li teorica del derivato, e quella dei loro japporti. Teorica del Primitivo, secondo i Pitagorici. — Al di sopra di tutte le unità elementari, onde risullan composte le cose, al di sopra di tutti PER GIUSEPPE ALLIEVO. gì 1 numeri particolari e derivati sta un'unità suprema, un numero primitivo, assoluto, esistente in sé e per sé, ossia la Monade. Essa è senza origine, perchè al di sopra dell' unità assoluta non v' è più cosa veruna , da cui possa trar l'esistenza; è anzi origine di tutte le altre cose, perchè tutte stanno armonicamente disposte al di sotto di essa. La Monade contiene l'essenza di se medesima e di ogni essere , perchè essenza di tutto è il numero, ed essa è il numero per eccellenza, il numero-principio, che esiste in sé e per sé, il numero assoluto. Essa è tutto, e tutto sta con- tenuto in lei perchè ogni cosa è numero, ed essa è il principio di tutti i numeri, la sorgente di tutte le unità, opperò la radice di ogni esistenza. I Pitagorici simboleggiavano la Monade, risguardata siccome il tutto, coi numero tre, il quale avendo principio, mezzo e line, era da essi chia- mato il numero del tutto , e considerato come il tipo del mondo ; e la connotavano pure col numero dieci, chiamandola decade, perchè il dieci, siccome quello , che risulta dall' addizione dei qu;ittro numeri primitivi era da essi avuto siccome il numero più perfetto e con esso indicavano l'intiero universo, l'insieme degli esseri, la totalità delle cose. La Monade essendo tutto, contiene in sé tutti i contrarii, ossia F unità e la niolti- plicità, assumendo questi due vocaboli per denotare la dualità degli op- posti; e siccome 1 unità è impari, e la molliplicità è pari, perchè il primo molteplice che si ottiene partendo dall'uno è il due, che è pari, cos'i la Monade, in quanto contiene in sé i contrarii, veniva da essi denominata parimpari , ossia pari ed impari nello stesso tempo. Contenendo tutti i contrarii, ossia tutte le unità elementari delle cose, la Mon;ide è assolu- tamente composta, ma ad un tempo solida, inseparata, indivisa, perchè i contrarii inesistono nel suo seno indistinti e non divisi per anco gli uni dagli altri da intervalli determinati, epperò non formanti ancora le varie e singole cose. E siccome tutti i contrarii sono nel seno della Monade indivisi e ridotti ad unità, così la Monade è dotata di una forza, di una virtù unificatrice ed armonizzatrice dei contrarii, ossia è principio di ar- monia e fonte dell'ordine universale; epperò essa non è solo un principio logico ed astratto , ma un principio reale , attivo , perchè ha in sé un vincolo, che tiene uniti in debito rapporto tra loro tutti i contrarii che esistono in essa non solo, ma altresì nei singoli esseri, nei quali altresì la Monade esercita quest'azione conciliatrice degli opposti, dando a tutto forma, legge, ordine e misura. Se adunque la Monade è radice di ogni esistenza , perchè è tutto , e se è fonte dell' ordine universale , perchè è ^ II, PROBLEMA METAFISICO ECC. armonia, se cioè non solo è un principio astratto e metafisico, ma reale altresì, attivo, intelligente ed ordinatore, essa è per ciò stesso l'essere assoluto e supremo, ossia Iddio. Per i Pitagorici l'Uno e l'ente con ciò si convertono, tanto che ciò che è uno, è altresì ente, ed ogni ente è uno; ond'è che TUno primitivo, supremo ed assoluto, cioè la Monade, sarà altresì l'essere primitivo, supremo ed assoluto, vai quanto dire Iddio. La Monade adunque, stringendo in poco il sinquì detto, è senza origine, essenza di se e delle altre cose, il tutto, la contenenza di tutti i con- trarli, il principio dell armonia e dell ordine, lessero supremo ed intelli- gente, Iddio. Tale è la teoria pitagorica del Primitivo. Teorica del derivato. — Che cosa sono gli esseri derivati in particolare, ed il mondo in universale:' Ogni cosa derivata è esemplata sul tipo della Monade suprema e ne ritrae 1 essenza. Or siccome la Monade consta di tutti i contrarii vincolati dall armonia, così ogni essere derivato, che della Monade è un'imagine ed un riverbero, debbe pur esso constare di con- trarii con temperati dal vincolo armonico; lo che esprimevano i Pitagorici colla forinola = ogni cosa è un numero = reputando di avere con ciò additata l'essenza tipica di ogni essere peculiare , sendochè il numero è pure l'essenza della Monade suprema, la quale è altresì numero, ma nu- mero assoluto, numero in sé e per sé, principio di tutti i numeri. Ogni cosa adunque, ogni essere peculiare, ed il mondo stesso, risguardato nella sua inlima natura od essenza, è numero ed armonia, vai quanto dire consta di contrarii , ossia di unità sostanziali ed elementari separate e distinte l'una dall altra a determinati intervalli e disposte giusta un certo ordine. A vie meglio comprendere questo concetto definitivo delle cose giusta la dottrina dei Pitagorici occorre che si esponga qui brevemente la loro teorica dei contrarii. Aristotele, al capo quinto del libro primo della sua Metafisica, ci dà esposta la tavola categorica, in cui i Pitagorici adunavano tutti i contrarii: essi vengono disposti in due serie, delle quali la prima contiene i dieci termini seguenti: Limite ossia Fine, Dispari, Uno, Destro, Maschio, Stabile, Retto, Luce, Bene, Quadrato; la seconda poi racchiude altri dieci termini opposti ai primi, e sono: Infinito od Illimitato, Pari. Moltitudine, Sinistro, Femmina, Mobile, Curvo, Tenebre, Male, Ret- tangolo. La prima serie venne detta la serie del bene, perchè consta di termini positivi, ossia esprime ciò che vi ha nelle cose di positivo, di buono, di ordinato e di perfetto; per contro la seconda serie é chiamata serie del male perchè risulta composta di termini meramente negativi , PER GIUSEPPE ALLIEVO. gS ossia esprime ciò che v'è negli esseri di negativo, di malvagio, di disor- dinato e di imperfetto. I termini positivi della prima serie non esprimono dieci concetti diversi , sil)bene un solo concetto , nulla piìi essendo che altrettanti diversi aspetti, sotto cui concepivano l'elemento buono e po- sitivo delle cose, da essi chiamato il limite, il finito, 1 uno, ossia il bene; mentre i contrarli della seconda serie enunciano anch'essi un solo ed identico concetto, quello cioè dell'imperfezione e del male che v ha nelle cose, e sono altrettanti aspetti, sotto cui concepivano lillimitato o l'infinito, che in loro dottrina costituiva l'elemento negativo degli esseri. Quando adunque pronunciavano . che ogni cosa si dementa di contrarii , intendevano di significare che consta di una dualiti di termini, positivo l'uno, negativo l'altro, ossia di limite e di non limite, e non già che si componga di venti contrarii, posciachè tutti i dieci termini della prima serie esprimono un solo concetto, il perfetto, e tutti del paro gli altri contrarii della se- conda se; ie si convertono in un solo , che è l' imperiétto. Bene e male sono i due contrarii, i due principii costitutivi di ogni cosa, e tanto è necessario Telemento buono alla costituzione degli esseri, quanto il mal- vagio : il male era perciò considerato dai Pitagorici siccome una inde- clinabile necessità, cui Dio stesso non potrebbe togliere del tutto; e quand'anche il potesse, noi vorrebbe, perchè gli converreblie distruggere 1 intiera esistenza, la quale consta di contrarii opposti a contrarii. A dimostrare che le cose tutte constano di due contrarii, Filolao così argomentava: » E necessario, che le cose siano o tutte limitanti, o tutte " illimitate, o limitanti ed illimitate. Se tutte le cose fossero illimitate, nulla )> vi sarebbe di conoscibile; ed è nece.ssario, che fra le cose reali si trovi » la scienza ». Dimostrata impossibile altresì la prima ipotesi, che cioè tutte le cose siano limitanti, con ragioni che a noi non pervennero, egli ne inferiva la necessità di ammettere la terza ipotesi, che cioè ogni cosa consti di principii limitanti, ossia di limite e di principii illimitati, ossia di non- limite. Che cosa abbiasi poi ad intendere per questi due principii detti limite e non-limite si arguisce agevolmente da quanto si è supe- riormente discorso intorno ai contrarii ed al numero. Per limite s'inten- dono gli elementi semplici, ossia le unità incorporee ed elementari, onde consta ogni essere; e per non -limite od illimitato s intendono gli intervalli determinati frapposti tra l'una e laltra unità, tra l'uno e l'altro elemento, sicché questi riescono coordinati in data proporzione e misura: le unità elementari diconsi limite , perchè ognuna di esse essendo distinta dalle q5 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. altre per mezzo degli intervalli, è alcunché di limitato, di finito, di cir- coscritto e determinato; gli intervalli poi che separano le unità elementari chiamarsi non- limite, ossia illimitato, perchè essi sono divisibili all'infinito, potendosi col pensiero concepire come (ormanti una distanza maggiore u minore tra un elemento ed un altro, e per ciò stesso riuscendo alcunché di indeterminalo e di indefinito: quindi i limiti sono il principio ed il fine di tutte cose, ossia ciò che v'ha in esse di positivo e di sostanziale; mentre il non-limite è il mezzo della cosa, ossia il vacuo, la distanza In il principio ed il fine, ciò che v'ha in essa di negativo. Così i limiti, ossia i principii limitanti del solido o corpo geometrico, sono le superficie, le linee ed i punti; i principii illimitati poi sono gli intervalli che separano superficie da superficie, linea da linea, punto da punto. Togliamo le su- perficie , le linee ed i punti, che sono i limiti del corpo geometrico, ossia le unità elementari onde consta, e sarà con ciò tolto il corpo stessn. togliamo gli intervalli che dividono luna dall'altra le superficie, le linee, i punti, cioè il non-limite, ed anche in tal caso sarà tolto di mezzi) il solido geometrico , perchè le superficie e le linee , non più divise da intervalli si confonderebbero in un sol punto, che certo non è un solido. Adunque il corpo geometrico consta di due contrarii, che sono limite e non-limite, ossia punti ed intervalli. Parimente un numero qualunque de- terminalo è una riunione di unità, distinte e separate l'una dall'altra da certi intervalli: immaginiamo tolti questi intervalli o separazioni tra una unità e l'altra, e tutte si confondono in una sola unità, che certo non è più il numero dato: l'unità e adunque il limite del numero, gli intervalli poi tra luna e l'altra unità sono il non-limite, epperò anche il numeio consta di due contrarii, che sono limite e non- limite, o pia propriamente uno e più, impari e pari. Cos'i pure l'accordo musicale è una riunione di pili suoni elementari o noie .separate da certi intervalli, denominati toni e semitoni: tolgansi i suoni elementari, e noi avremo tolto 1 accordo stesso musicale che mancherebbe delle sue unità, de'suoi elementi; tolgansi gli in- tervalli determinali tra un suono e l'altro, ossia i toni ed i semitoni, ed anche la melodia verrebbe cessata, perchè tutte le note, non piìi distinte per via di intervalli, si confonderebbero in un solo suono: or siccome ogni suono elementare è qualcosa di determinato, perchè è una nota e non un'altra. e siccome l'intervallo tra un suono ed un altro è qualcosa di indeterminato, perchè può essere accresciuto o diminuito, cosi dirassi che un accordo musi- cale consta anch'esso di due contrarii, che sono il limite ed il non-limite, ri PER GIUSEPPE ALLIEVO. QT finito e r infinito. Generalizzando queste osservazioni se ne trae la con- clusione che ogni cosa consta nella natura di due elementi necessarii ed opposti, che sono il limite e lillimitato, il finito e l'infinito, 1 impari ed il pari , 1' uno ed i più , 1' eterogeneo e 1 omogeneo , la forma e la materia, il principio attivo ed il passivo, e che questi due contrarii sono i principii costitutivi di ogni esistenza tanto che il bene ed il male , il perfetto e l'imperfetto si riscontrano l'uno in faccia all'altro in ogni cosa come due elementi che, quantunque contrarii ed opposti, deggiono tuttavia trovarsi assieme per costituir la natura. La recente dottrina di Hegel , che eleva la contraddizione a legge suprema dell essere e del pensiero, e pone in essa il colmo della vita e dell' esistenza , è una strana inter- pretazione ed un abuso di questa teorica indeterminata e mal ferma dei Pitagorici intorno ai contrarii. Se non che, contro a questa dottrina pitagorica, che si sfoiza di spiegar l'essenza e la natura sostanziale delle cose per mezzo delle idee astratte del numero e della quantità matematica, insorgeva gravissnna, anzi insu- perabile una diilicoltà. Se ogni cosa è numero, se l'essenza del numero e la stessa in tutti gli esseri, se perciò ogni cosa consta degli stessi con- trarii, ossia di unità elementari, semplici ed inestese che sono le mede- sime e non si dilTerenziano nei singoli esseri, che ne sono composti, in tal caso come mai si potrà spiegare la diversità specifica degli esseri della natura.' Tutti dovrebbero essere sostanzialmente identici, non avendo più luogo veruna diflérenza qualitativa tra gli uni e gli altri. I Pitagorici s'in- dustriavano di risolvere siffatta difficoltà spiegando la diversità specifica degli esseri per mezzo della diversità delle relazioni in cui stanno fi-a di loro le unità elementari coordinate ad intervalli. Gli elementi semplici, onde constano le cose, non differiscono punto tra di loro: ma i rapporti in cui stanno gli uni verso gli altri, ossia gli intervalli a cui sono coor- dinati diversificano, potendo crescere o diminuire, e sono causa della diversità specifica degli esseri. Così dei due contrarii, limite e non-limite, onde si elementano le cose , il secondo , appunto perchè indeterminato , epperò suscettivo di aumento e di diminuzione, è, a dirla cogli Scolastici, il principium specificationis od individuationis delle cose. Teorica dei rapporti tra il Primitivo ed il Derivato. — Siccome tra il Primitivo ed il Derivato si possono concepire tre guise di rapporti , di origine cioè, di natiya od essenza e di fine, così occorre qui di vedere quale fosse la dottrina pitagorica intorno a questo triplice punto. Fac- Sep.ie II. Tom. XXX. i3 q8 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. ciamoci anzi tutto alla questione risguardante il rapporto di origine del mondo da Dio. In che modo dalla Monade eterna , ossia dall'Unità pri- mitiva si svolse e si formò la moltiplicità degli esseri della natura? L'Uno assoluto e supremo conteneva collegati nel suo seno tutti i contrarii ed i diversi ; ma questi sentivano in se una cotal tendenza a separarsi per unirsi omogeneo con omogeneo , e pigliare forme distinte ed uscire ad esistenza determinata. Questa separazione dei contrarii dalla Monade av- venne per opera dell'infinito ossia del vacuo, che introdottosi fra i con- trarii li divise, li coordinò a determinati intervalli recandoli così ad una individuai sussistenza. La Monade esisteva fin da principio in sé stessa, siccome quantità una. continua ed indivisa in mezzo ad uno spazio im- menso, ad un vacuo interminato, infinito, che la circondava tutt'all'intorno, e che era come il luogo o la sede dell'Uno. La Monade aspirò questo vacuo e tosto si divise in un gran numero di unità, e produsse con esse la moltiplicità degli esseri della natura: e quest atto, con cui l'Uno lascia penetrar nel suo seno il vacuo separatore degli elementi contrarii, i Pi- tagorici il chiamavano 1 atto di respirar l'infinito. Così due principii op- posti concorsero a formare il mondo, che sono la Monade ed il vacuo o l'infinito; quella è principio limitante, perchè attirando a sé vicino l'in- finito in certo qual modo lo limita, questo è illimitato; i quali due prin- cipii noi li abbiamo già riscontrati nella teorica del derivato siccome i due contrarii costitutivi di tutte cose. Però 1 ufficio adempiuto nella formazione dell universo dal principio illimitato ossia dal vacuo è meramente negativo, questo principio è passivo, perché respirato; ed è quello stesso che nella costituzione delle cose non forma altro se non 1 intervallo vuoto che separa le unità elementari, mentre il principio limitante ossia la Monade adempie un ufficio positivo , ed é perciò principio attivo o forma delle cose contrapposta alla materia , ossia all' infinito od indeterminato. Quanto al rapporto di natura o di essenza tra il Primitivo ed il De- rivato, non é cosa agevole il precisare il concetto dei Pitagorici intorno a ciò; la quale malagevolezza deriva dalla loro malferma ed incerta teorica intorno all'essere uno e primitivo. Abbiamo de' frammenti di Filolao in cui è apertamente riconosciuta la sostanziai ditl'erenza di Dio dal mondo, come apparisce dal seguente brano citato da Filone nel suo libro De Mundi opificio : « Iddio è l' imperatore e duce di tutte cose , uno ed » eterno, permanente, immobile, simile a se stesso, diverso dalle altre » cose )). In un altro frammento di Filolao, che trovasi in Stobeo, si dice PER GIUSEPPE ALLIEVO. gg che « l'eterna essenza delle cose e la natura in sé è solo accessibile alla » conoscenza divina e non all'umana, se non in quanto che non sarebbe » possibde che alcuna delle cose che esistono e si conoscono fosse da noi I) conosciuta, se quella natura ed essenza non si trovasse dentro le cose » di cui consta il mondo ». Questa sentenza, che in sulle prime ha sem- bianza di panteistica, potrebbe tuttavia essere interpretata in senso teistico, essendoché viene a significare che Iddio, siccome numero assoluto e quindi essenza di tutto, inesiste nelle cose e le rende conoscibili compenetrandole colla sua stessa essenza: lo che non é ancora un confondere la sostanza di Dio con quella delle cose , sibbene un divisare 1' intimo e profondo vincolo che collega Iddio col mondo , il quale senza Dio non può né esistere né essere conosciuto nelle ultime sue ragioni: in sostanza, è la stessa dottrina della Scolastica, che enunciava questo stesso principio di- cendo che Dio è la causa esemplare, ossia l'essenza tipica ed ideale di tutti gli esseri. Che se si pon mente al concetto che i Pitagorici si erano formato della Monade eterna, riesce alquanto malagevole il sincerare la loro dottrina da ogni taccia di panteismo. Poiché se la Monade contiene unificati nel suo seno tutti i contrarii, e se questi entrano dappoi come altrettante unità elementari a costituire l'intima natura degli esseri , par- rebbe che e Dio e mondo abbiano un comune principio , una comune essenza, il numero, il quale dal seno della Monade prima si reitera senza mai fine e si esplica elFettualmente in tutti gli ordini delle cosmiche esi- stenze, la quale comunanza ed identità df essenza costituisce appunto il panteismo. Se non che questo concetto pitagorico inteso nella sua inde- terminata generalità vorrebbe significare sol questo , che il numero o la Monade assoluta contiene in sé tutti i numeri, od in altre parole, Iddio contiene in sé il mondo , ossia le essenze delle cose , il Primitivo con- tiene in sé il Derivato. Ora questa sentenza presa in senso indeterminato non è per anco panteistica, se pure non vogliasi tacciare di panteismo la Scolastica, la quale insegna apertamente in Dio esservi le essenze eterne di tutte cose, o la Scrittura stessa, in cui si legge che in Deo vivimus, movemur et sumus. Noi e tutte cose siamo in Dio come l'elfetto è nella causa che lo sostenta, come il Derivato è nel Primitivo, in cui si radica; ma essere in Dio non vuole per anco significare essere Dio. La questione adunque si restrigne a sapere quale sia il senso preciso e determinato, in cui i Pitagorici concepivano la contenenza di tutti i contrarii nella Monade, ossia l'inesistenza del mondo in Dio; ma siccome le loro idee lOO IL PROBLEMA METAFISICO ECC. SU questo punto sono mal ferme ed indeterminate, così la questione che abbiam per le mani mal può ricevere una soluzione definitiva. Tentiamo da ultimo di chiarire qual fosse la teorica dei Pitagorici in- torno al rapporto di fine tra il mondo e Dio, cercando di arguirla e ri- cavarla dal contesto del loro sistema e dallo spirito della loro dottrina. Se ogni cosa è numero e se il numero ha insita in sé un armonia, una virtù che conciliando i contrarli elementi e con temperandoli ad unità li accorda in esistenze individue e determinate, ne discende che l'armonia ossia l'ordine universale è lo scopo supremo, la finalità ultima di tutti gli esseri, di tutte le cose, di tutto l'universo. Tutto debbe tendere all' ac- cordo, ali ordine, all'unità, aspirando senza posa alla Monade suprema, che è armonia assoluta e come tale è principio non solo, ma termine al- tresì di ogni cosa, o quest'armonia ciascun essere la debbe efiettuare e compiere non solo in sé, nella sua vita intima e propria, ma altresì fuori di sé, nella sua vita esteriore cogli altri esseri per modo che ogni esi- stenza armonizzi e con se stessa e con tutto l'universo « Pitagora (scrive il Centofanti nel suo Frammento storico su Pitagora) applicava alla vita » del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de sin- » goli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia » tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella » società del genere umano. . . Se tutto il mondo scientifico è un sistema » di armonie razionali, che consuonano coi concenti cosmici procedenti )) dal fecondo seno della monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare » tutte le potenze del numero contenuto in lui, e metter suono che si ac- » cordi con la musica dell'universo. E tutte le anime umane essendo so- » relle, o raggi di una comune sostanza eterea, debbono nei consorzii » del vivere riunirsi coi vincoli dell'amicizia antica, ed eseguire una musica » sociale sul modello di quella cosmica. . . E questa era la vera e pro- » fonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, » un sacramento di conformarsi al principio eterno delle armonie univer- » sali, un'esecuzione dellidea divina nel mondo tellurico ». Noi abbiamo così compendiosamente esposta la dottrina ontologica della scuola pitagorica, ordinandone le parti giusta i tre termini che co- stituiscono il problema metafisico, sebbene un siffatto ordine logico non si rinvenga nel sistema stesso del Pitagorismo quale venne a noi dalla storia trasmesso. I Pitagorici applicavano poi ad ogni ordine di cose il loro principio fondamentale, che tutto è numero ed armonia. E numero PER GIUSEPPE ALLIEVO. lOI ed armonia l'anima umann siccome quella che consiste nell'accordo di diverse potenze e delle varie parti del corpo fra di loro,; è numero ed, armonia la virtù perchè risiede nel domar le passioni, nel contemperare le varie tendenze sicché ubbidiscano, come a loro centro di imita, al do- minio della ragione, è numero ed armonia il sistema mondiale constando di dieci sfere moventisi regolarmente in giro nello spazio, è numero ed armonia la musica, consistendo in una moltitudine di varii suoni unificata in un solo accordo. E non solo ogni cosa è numero, ma ciascuna parte dell'universo veniva simboleggiata con un numero particolare: cosi l'uno connotava il punto matemiUico, il due la linea, i\ tre la superficie, il quattro il solido o corpo geometrico, il cinque il corpo sensibile, il sei il vegetale, il sette l'animale, l'otto l'uomo, il nove la vita divina, il dieci l'universo intiero preso nel suo vasto complesso. Di tal modo la scienza dei numeri e dei loro rapporti, la matematica era agli occhi dei Pita- gorici la fonte di tutto lo scibile, la legislatrice di tutte le scienze, il principio ed il termine di tutto il sapere. Critica del Pitagorismo. La scuola jonica battendo (come abbiamo veduto) la sola via dell'espe- rienza sensibile era riescita ad un empirismo, che nega l'unità in grazia della moltiplicità. la scuola eleatica appigliandosi al solo processo del ragio- namento puro aveva conchiuso ad un razionalismo ontologico, che disco- nosce il molteplice sacrificandolo alPunità assoluta dell' essere ; la scuola pitagorica si pone come dottrina dialettica intermedia tra i due opposti del razionalismo e dell'empirismo, siccome quella che ammette e professa la coesistenza dell'Uno e del molteplice nell'essere. Così mentre le due prime scuole filosofiche erano entrambe un monismo ontologico, sebbene di specie diversa, il Pitagorismo appartiene a quella guisa di sistemi me- tafisici, che abbiamo denominato dualismo ontologico perchè pronuncia che la reallà universale è duplice, e non già una sola, facendo luogo all'essere uno ed all'essere molteplice, all'infinito ed al finito, al Primi- tivo ed al Derivato. Se non che il dualismo ontologico è tenuto a risol- vere tre gravi e distinti problemi che sorgono dal seno stesso del suo principio fondamentale, e che esso debbo tradurre in tre distinte teoriche corrispondenti ai tre termini della questione ontologica piià volte accennati. Or si domanda : il dualismo ontologico professato dalla scuola pitagorica ha esso risolto i tre problemi risguardanti l'Uno, il Molteplice ed i loro rap*- porti in guisa da satisfare alle esigenze del pensiero speculativo ;' I02 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Intento supremo della scuola pitagorica questo era ili indagare la causa .esemplare degli esseri determinando la loro tipica essenza ossia l'intima natura costitutiva di ogni cosa. Il tipo e l'essenza di tutte le esistenze reputò di averlo rinvenuto nel numero, che ha sua radice e fonte nell'Unità suprema e da essa si svolge e si riproduce in tutte le cose; di qui il prin- cipio fondamentale della loro dottrina: i numeri sono il principio e 1 es- senza delle cose. Giova discutere anzi tutto questa tesi, che è la formola {generale in cui si acchiude tutto il Pitagorismo per discendere poscia all'esame delle singole sue parti sostanziali superiormente esposte. Posto per principio, che i numeri siano la causa esemplare delle cose e che queste siano fatte ad imitazione di quelli, ne consegue che gli esseri vanno studiati sul tipo del numero e che a quelli non può assegnarsi altra natura ed essenza se non quale è rivelata dal concetto di questo. Occorre adunque che si chiarisca da prima e si determini per bene 1 idea del numero matematico affinchè possiamo essere in grado di pronunciare un giudicio critico intorno alla tesi che sliam discutendo. Il numero, in- teso nella sua più astratta generalità e quale lo concepisce il matematico, è nulla pili che una somma di unità ossia è 1 unità ripetuta più e più volte, l'unità è adunque il primo elemento del numero. Ma in che modo l'unità astratta origina il numero matematico? Non certo per via di una forza intima e vitale, che si spieghi dal di dentro al di fuori dinamica- mente e si svolga in un diverso da sé , come il germe si sviluppa in una pianta, sibbene col ripetere se stessa meccanicamente più e più volte, e quelle unità poste l'una accanto ali altra in una serie successiva costi- tuiscono il numero, che è per ciò stesso una somma od aggregato di unità. Se tale è il processo meccanico, con cui l'unità produce il numero matematico, ne consegue primamente, che tutti gli elementi, ond'esso ri- sulta composto, sono specificamente identici, dappoiché ognuno di essi è nulla pili che la stessa unità ripetuta più volte; secondariamente, che il numero emergente dal composto di essi elementi è un' unità meramente formale, esterna, inorganica, ossia un puro aggregato, non già un'unità reale, interna, vivente, organica, ossia un sistema. Gli è vero, che le mol- teplici unità elementari componenti un numero vanno in certo qual modo distinte l'una dall'altra, che altramente non si avrebbe che una sola unità, un solo elemento, lo che non sarebbe più numero; ma silFatta distinzione è meramente esteriore e meccanica riposta nel diverso luogo, che il nostro pensiero assegna a ciascuna unità elementare nella serie delle unità com- PER GIUSEPPE ALLIEVO. lo3 ponenti un numero, e non già una distinzione interna e reale, che non può in verun modo aver luogo dacché si ha sempre la stessa e mede- sima unità più volte ripetuta, il che tanto è vero, che in senso matema- tico non si può allèrmare che tre fiori e due minerali facciano cinque fiori o facciano cinque minerali, per ciò appunto che il fiore si differenzia specificamente dal minerale, né può perciò essere l'uno sommato coll'altro e dar luogo ad un numero, il quale importa elementi specificamente iden- tici ed esclude elementi eterogenei. Gli è vero altresì che più unità ele- mentari concepite in separato luna dall'altra e non disposti in una serie unica non costituiscono il numero, e che questo importa perciò che le sue unità elementari non sulo siano concepite come se l'una non fosse l'altra per rapporto al diverso luogo che occupa nella serie, ma altresì come unità in guisa che formino un tutto; ma perchè abbia luogo siffatta unione , basta sol questo che le unità elementari siano poste nella serie l'una dopo l'altra, l'ima accanto all'altra; essa è dunque una /«arte-posi- zione, non una intus-susceptlo, il loro legame è solo un legame di suc- cessione, m quanto che un'unità succede e tien dietro all'altra, non già un legame di elfettiva causalità, come se un'unità generasse l'altra op- pure 1 ima esercitasse sull'altra una mutua azione e reazione; esse adunque formano un aggregato, un meccanismo, non un sistema, un organismo; luna non esercita nell'economia dell' insieme un compito suo particolare , impostole dall'indole sua specifica, avendo tutte una stessa e comune na- tura. In breve, il numero importa bensì una distinzione tra le unità ele- mentari che lo compongono, ma questa distinzione è locale, non razionale, quantitativa e non qualitativa, numerica e non specifica; importa altresì un'unione, ma questa è inorganica, non organica, astratta non reale ed operativa. Abbiasi ad esempio il numero 4- scomponiamo col pensiero i suoi elementi, imaginiamo di vederli disposti in serie, avremo i -k i -i- i -f- i: è chiaro che tutti questi componenti sono specificamente identici, che si distinguono solo in ciò che luno di essi è pensato e scritto dopo l'altro, che questa loro distinzione è meccanica, nun razionale, perchè non v'è ragione per cui uno qualunque di essi occupi piuttosto il terzo che il primo luogo nella serie d il secondo piuttostochè il quarto; che il vincolo che li unisce è meramente esteriore non interiore, è un più cioè una ripe- tizione del primo elemento, non un'azione per cui l'uno produca un altro, che raccogliendo insieme questi elementi in un tutto, abbiamo un aggre- gato, non un sistema; lo che si esprime nella definiziune del numero ma- tematico dicendolo una somma di unità. 104 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Se tale è l'essenza del niiniero e se ogni cosa è fatta ad imitazione di esso ed in esso va studiata siccome in suo tipo e causa esemplare, siamo condotti a concepire ogni essere particolare non già come un organismo vivente e concreto, ma come un mero aggregato inorganico ed astratto, a negare ogni diversità specifica tra gli elementi che lo compongono, ogni intimo commercio ed operosità fra gli elementi di un medesimo essere, o fra gii esseri componenti l'universo. La natura non costituirebbe più un vasto e stupendo sistema, una grande sintesi organica, ma uno sterile e vuoto meccanismo, non vi sarebbe più vita, esseri che si sviluppano da un solo germe vitale, forze che agiscono e reagiscono le une sulle altre e che esercitando un vicendevol concambio di vita esplicano la loro fe- conda attività nella produzione di nuove sostanze e di esistenze diverse: invece della causalità avrebbesi mera successione di cose e di fenomeni, invece dell'azione che rinnova la vita, un impotente meccanismo che la irrigidisce e la petrifica, invece di una realtà svariata, molteplice, inno- vatrice di se medesima, una vuota e monotona ripetizione del medesimo elemento. Così l'uomo, ad esempio, giusta questa teorica matematica, non sarebbe più un sistema vivente di potenze specificamente diverse, dotate ciascuna di un'indole peculiare ma pur consociate insieme da un vincolo di operosità e di commercio di vita e contemperate insieme ad organica unità, sibbene nulla più che im aggregato meccanico di elementi identici privi di vita o di azione e solo accostati da un mero legame di jiixta- posizione e di successione: lo spirito non opererebbe più sul corpo, né cpiesto reagirebbe su quello, ogni rapporto attivo e causale sarebbe tolto tra il sentire e l'intendere, tra l'istinto e la libertà. E quello che qui si dice delluomo individuale, andrebbe applicato del paro all'uomo civile e sociale, ad un popolo, ad una nazione, ad uno stato. L impotenza del numero matematico a spiegar la natura degli esseri e la vita universale, è qui manifesta. Gli è vero clie i Pitagorici, quasi a declinare silTatte conseguenze della loro teoria matematica e per ridonare agli esser i quell organismo vitale e quella forma di sistema, che loro aveva tolto il concetto del nu- mero liducendo tutto ad un vuoto ed inerte meccanismo, avevano asse- gnato all'essenza del numero e della Monade suprema una forza coordinatrice degli opposti, un vincolo unificatore de' contrarii, detto armonia. Ma oltre- ché siil'atto concetto di armonia non è da essi razionalmente dimostrato, e solo gratuitamente asserito opperò entra quasi a dire di traforo nel corpo della loro dottrina, esso è poi atfatto estraneo al concetto del numero ma- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 o5 tematico, con cui pretendevano di spiegar l'essenza delle cose, poiché l'analisi da noi fatta del medesimo ci apprese che l'essenza del numero esclude da sé ogni idea di forza attiva, di causalità, di organismo, di si- stema, e quindi di armonia, essendoché T unità, primo elemento e fonte del numero, non lo produce operando e svolgendosi dinamicamente, ma ripetendo meccanicamente se stessa, epperò essa non è forza reale ed operativa ed i suoi elementi non essendo altro se non altrettante ripe- tizioni di lei medesima non possono nenuneno, dato pure che vi fosse una forza armonizzatrice, venire dinamicamente collegati a quella forma di unità, ohe dicesi organismo, sistema, armonia. Così il concetto del nu- mero matematico posto dai Pitagorici come tipo ed essenza degli esseri conduce a quella dottrina meccanica, che pretende di spiegare tutte cose per mezzo di un accostamento esteriore degli elementi anziché per via di uno sviluppo di forze vitali e che niega ogni intimo commercio degli esseri fra di loro, dottrina omai rigettata dai pensatori profondi e dall'uni- versale dei dotti. Allo stesso risultato ci troveremmo condotti ove pigliassimo ad esami- nare il concetto di spazio, che é un'altra specie di quantità matematica, attesa l'intima e comune natura del numero e dello spazio, i quali sono due specie formanti un sol genere cioè la quantità matematica e che si differenziano solo in ciò che quello é quantità discreta, questo quantità continua ; epperò l'aritmetica, scienza del numero, e la geometria , scienza dello spazio, non in altro differiscono, come avverte il Vico, che nella specie della quantità di cui trattano; del rimanente sono una cosa stessa, talché i matematici dimostrano una verità stessa ora per linee ora per numeri. Dissi che il concetto di estensione mena agli stessi risultati a cui conduce quello di numero. Infatti come 1' unità produce il numero, COSI il punto geometrico genera la linea e quindi lo spazio: ora l'unità origina il numero ripetendo più volte se stessa in una serie di unità, ed il punto genera la linea ripetendo pure se stesso in una serie di punti : il numero ammette bensì una distinzione ed una unione tra i suoi elementi, ma una distinzione di quantità, non di qualità, un'unione meramente este- riore, non interiore; del paro nella linea i punti che lo compongono, sono specificamente identici perchè sono in sostanza un medesimo punto ma ripetuto jnìi volte ossia pensato e ripensato in tempi diversi e con atti intellettuali diversi e la loro distinzione è una vera successione locale, l'uno non é l'altro perchè l'un punto vien dopo all'altro; sono uniti al- Serie II. Tom. XXX. i4 Io6 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. tresì nella conlinuità della linea, ma la loro unione è un accostamento esteriore, non un compenetramento interiore, i'un punto è collocato ac- canto all'altro, ma non lo compenetra: quindi ancora la linea e T esten- sione è un aggregato di punti, non un sistema, come il numero è una somma di unità, non un organismo; epperò se è impotente il concetto del numero a spiegar la natura degli esseri, impotente si chiarisce a tale uopo altresì il concetto di spazio. Da tutto ciò lecito è l' inferirne, che la quantità matematica sia che si risguardi sotto la forma del numero cioè come quantità discreta, sia che si consideri sotto la forma dello spazio cioè come quantità continua , non può venire assunta a principio spie- gativo dell essenza reale delle cose, e che la scienza della quantità, la matematica, per quantunque pregevole, come scienza speciale, ed inmie- ritevole delle accuse, di cui alcuni Hegeliani la fecero segno, non può tuttavia, come pretendevano i Pitagorici, aspirare al posto della Metafisica e dare in sua vece la teorica dell'essere. Se non che al di sopra delle due specie di quantità matematica or or divisate sta la quantità concepita nella sua suprema generalità, voglio dire la quantità metafisica. Ora che abbiamo riconosciuta l' impotenza della quantità matematica a sciogliere la questione ontologica , e quindi la ne- cessità di uscir Inori dalla sua cerchia e sollevarci al concetto della quan- tità metafìsica, giova il dimandare se questa possa venire assunta siccome tipo e causa esemplare degli esseri. Siffatta inchiesta non è fuor di pro- posito e merita qui di essere esaminata, se si pon mente allindole ed alle tendenze proprie della scuola pitagorica, la quale considerando i fenomeni della natura come imitazioni dei numeri cercava di spiegarli per mezzo di relazioni di quantità fondando su queste relazioni i fenomeni stessi. Negli esseri della natura vuoisi distinguere la qualità dalla quantità: ^«a- lità di un essere è il complesso delle note o caratteri o proprietà per cui esso è quale è e non un altro; quantità è il maggiore o minor grado di perfezione in cui si trovano le proprietà qualificative di un essere. Quindi a chi imprende a studiar un oggetto deterininatu occorre di risolvere due distinte questioni ontologiche, delle quali l'uiia risguarda la qualità dell es- sere, che altri vuol conoscere, e cerca quali siano le sue note costitutive; l'altra si riferisce alla sua quantità e chiede finn a qual grado quel dato essere possegga gli attributi con cui lo alibiaino qualificato. Ciò posto, la domanda, che ci avevamo mossa, se il concetto della quantità metafisica valga a spiegar per intiero l'essenza reale degli esseri, si rifonde in que- PER GIUSEPPE ALLIEVO. lO'J st'altra : se la quantità di un essere racchiuda altresì in se la spiegazione della sua qualità. Così posta la questione riesce agevole il rilevare che se la quantità ontologica non ha verso la qualità il carattere di supe- riorità e di supremazia, non potrà pei' ciò stesso costituire I essenza dell'es- sere né ammanire una compiuta teorica metafisica. Veggiamolo. Che cosa è la quantità metafisica? E una qualità considerata come su- scettiva di aumento o di diminuzione, ossia, come dice Rosmini, un'entità in relazione co' suoi limiti. Sia data una cpialità, una proprietà determinata, ad esempio l'intelligenza: si sollevi col pensiero questa qualità fino al suo pili elevato segno di perfezione, si avrà un intelligenza infinita, assoluta, l'intelligenza di Dio; per altra parte, la si deprima ed abbassi fino al suo più infimo grado d'imperfezione, fino a confonderla quasi col senso, il quale da taluni è reputato come il menomo grado di vita cogitativa; cosi avremmo segnati i due limiti estremi ed opposti di questa virtiì dellintelli- genza; essa non li può oltrepassare, ma può bensì entro ai medesimi svi- luppare la sua attività o lasciarla inerte , discorrere in due sensi diversi e quindi o crescere di intensità, di forza comprensiva e di vigore accostan- dosi all'intelligenza di Dio, o languire, decrescere e perdere di intensità fino a confondersi col senso fisico : or questa relazione, che essa ha coi proprii limiti, per cui è suscettiva di percorrere diversi gradi di perfe- zione, è appunto la quantità dell'intelligenza. Da questo concetto della quantità metafisica ne discende questa indeclinabile inferenza , che essa presuppone la qualità siccome sua condizione e sostegno per inodo che tolta la seconda è tolta altresì di mezzo la prima come levata via la con- dizione rimansi pure distrutto il condizionato. Infatti io non potrei chie- dere, stando all'addotto esempio, quanta sia l'intelligenza, supponiamo, dell'uomo, se quest'intelligenza davvero non preesistesse alla mia domanda; il quanto presuppone ed importa il quale -^ di qui io conchiudo che il con- cetto di quantità ontologica non primeggia ne contiene in sé quello di qualità, ma per lo contrario ne è dipendente e che perciò esso non co- stituisce l'essenza integra dell'essere, essendoché l'essenza di un essere è ciò, che vi ha in lui di assolutamente supremo e da cui come da sua fonte e ragione ultima rampolla tutto, che si trova in esso; or tale non è di certo la quantità, la quale fluisce dalla qualità come da sua radice. Per lo che la questione intorno alla qualità di un essere verrebbe ad es- sere disconosciuta e negletta siccome quella che non potrebbe ricevere soluzione veruna dal concetto di quantità, che non la contiene, ma ne è con- 108 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. tenuta: che anzi, chi bene avverte, la stessa questione della quantità di un essere, in cui si vorrebbe racchiusa per intiero la teorica spiegativa di esse, non potrebbe più venir posta né discussa rigorosamente, perchè essa presuppone come sua condizione e ragion logica la questione della qualità per guisa che disconosciuta questa, anche quella viene tolta di mezzo. Ed ecco come il concetto della (juanlità metafisica posto «ome principio spiegativo dell'essenza reale delle cose lascia senza soluzione e luna e l'altra delle due questioni che il pensiero si propone intorno alla natura di un essere. Aggiungasi, che se la quantità costituisse davvero l'essenza e la natura sostanziai delle cose, in tal caso non si darebbe essere veruno in cui non si riscontrasse elfettuato il concetto di quantità, giacché non si dà essere privo di essenza : ora nell essere infinito ed assoluto non cape quantità di sorta poiché i suoi attributi possedendo il sommo di perfezione, né potendo più essere concepiti come suscettivi di aumento o di decre- mento, non hanno limite epperò escludono ogni quantità, siccome quella che risiede nella relazione di un'entità co' proprii limiti. Or dunque o sarebbe giuocolorza niegare all'essere infinito ogni essenza perchè non ha quantità , ciò che sarebbe assurdo , oppure farebbe ti" uopo attribuire ad esso altresì la categoria di quantità, ciò che è un secondo assurdo non minore del primo, o se pure non si vuol minare in entrambi, necessità vuole che si stabilisca, non essere il concetto di quantità il principio e la ragione spiegativa dell'essenza reale delle cose. Che la quantità non costituisca lessenza e la natura integrale di un es- sere r abbiamo dimostrato col ragionamento ; ma i Pitagorici lo prova- rono essi stessi col fatto quando s'industriarono di spiegare la diversità specifica e qualitativa degli esseri per mezzo di soli rapporti di quantità. Essi sentirono la difficoltà gravissima che sorgeva di per sé dal lòndo stesso della loro dottrina . giacché se ogni cosa è numero e quantità e se l'essenza del numero è una ed identica in tutti gli esseri, non ditFe- rirebbero più l'uno dallaltro in qualità ed in ispecie, ma solo in quan- tità; e per conciliare la loro dottrnia metafisica colla realtà spiegarono acume e sottigliezza d'ingegno, ma le astrazioni e le teorie tàntastiche per quantunque vivaci ed ardite non hanno forza di creare la realtà né di collocarsi in sua vece; e la diflicollà. che essi argoinentaronsi in ogni modo di risolvere, stette lì forte ed insuperabile in faccia al loro sistema. Abbiam veduto come e.ssi tentassero di spiegare l' infiniti varietà degli PER GIUSEPPE ALLIEVO. I OQ esseri per via delle diverse relazioni degi intervalli delle unità fra di loro. Intorno a ciò noi avvertiamo, che siccome questi intervalli si riducono ad alcunché di negativo, essendo nulla più che il vacuo che si suppone interposto tra gli uni e gli altri elementi di un essere, o, a parlare più propriamente, la loro mancanza, cosi essi non possono causare una di- versità specifica o qualitativa, ma tutt'al più una ditìérenza di torma, la- sciando inlatta lesseuza stessa dell essere. Mi spiego. L'acqua mula forma e stalo a seconda ilella maggiore o minor forza di coesione e quindi della maggiore o minor distanza che divide le sue particelle elementari: essa passa dallo stato solido allo stato liquido e dal liquido all'aeriforme, ma lessenza e la qualità sua specifica si mantiene pur senqjre la stessa in tutte e tre queste lorme diverse di ghiaccio, di acqua e di vapore. Adun- que la diversità dei rapporti di quantità, in cui stanno fra di loro gli elementi degli esseri, spiega tutt'al più una diversità di forma, ma non già di sostanza e di essenza, e si aggiunga che questi principii matematici di quantità se pure hanno qualche sussistenza, valgono allora solo che si tratta di render ragione della diversità degli esseri corporei e dei feno- meni naturali esistenti nello spazio, ma riescono atfatto insudicienti quando si voglia farne un'applicazione razionale agli esseri viventi, incorpoi'ei e spirituali; poiché riesce impossibile di concepire una diversità di rapporto matematico o di intervallo tra la sensitività, ad esempio, e 1 intelligenza nell uomo, fra lo spirito ed il corpo di lui. Tutte queste considerazioni fan manifesto il carattere astratto ed idea- listico della scuola pitagorica, siccome quella che si fonda sui principii delle scienze matematiche, i quali si basano sull'astrazione e si connet- tono coll'idealismo. Essa abbandonò il inondo della realtà per sollevarsi e chiudersi nel mondo delle idealità mateinatiche e cercare in questo la ragione spiegativa di quello, fondando così il concreto ' sull'astratto; ma le venner meno le fòrze per uscire dal mondo astratto dei numeri, in cui si era rinserrata, al mondo degli esseri reali che aveva lasciato. Avendo ridotto ogni cosa a quantità ed a rapporti di quantità e combinazioni di- verse di numeri , si trovarono nelf impotenza di far uscire per forza di logica il concreto dall'astratto, le cose dai numeri, le qualità specifiche degli esseri dalla quantità. Il puro e mero concetto di quantità per quan- tunque lavorato e svolto non potrà mai darci le tante e svariate qualità che specificano gli esseri, li individualizzano e determinano la propria e costitutiva natura di ciascheduno. La scienza matematica non può adunque IIO IL PROBLEMA METAFISICO Ef:C. dare la realtà né spiegarla, perchè la quantità non crea la qualità ma la presuppone siccome sua condizione essenziale. Tolta quindi la realtà, che è la fonte della diversità e la base dell'intiera natura, noi ci troviamo av- volti in un mondo di pure astrazioni senza esseri concreti a cui si ap- poggiano, vai quanto dire nell'idealismo. Di già Aristotele nella sua Metafisica (Lib. I, capo 8") aveva obbiettato ai Pitagorici che le proprietà ed i rap- porti numerici tornano insudicienti a rendere ragione delle qualità degli elementi e della diversità infinita dei fenomeni. Discusso così ed esaminato nel suo principio generale il Pitagorismo, aggiungeremo poche osservazioni critiche intorno ad alcuni suoi filoso- femi in ispeciale. Ed anzi tutto crediamo bene di notare che la dottrina dei Pitagorici intorno all'essere primitivo ossia alla Monade suprema non solo non raggiunge quella compitezza e quel rigor razionale che si richie- dono per una teorica tlell' Assoluto, ma racchiude nel suo seno un dua- lismo assoluto irrazionale ed inammessibile siccome quella che colloca accanto alla Monade prima un, altro principio assoluto che è l'infinito, ossia il vacuo, l'illimitato, di cui i Pitagorici non diedero un concetto ra- zionale, non avendone provala la sua ragion d'essere né determinati i rapporti ontologici coll'altro principio che è la Monade; ond'esso riesce un secondo Deus ex machina, a cui ricorsero questi filosofi per ispiegare la formazione del mondo. Notiamo qui di passaggio che questo principio del vacuo essendo nulla più che un mero indeterminato, un puro infinito negativo, ossia una pretta negazione di ogni determinazione e di ogni forma particolare di esistenza ha molta analogia ed affinità colla materia prima di Platone e di Aristotele, coli u).y? dei filosofi greci, che ora nel loro concetto quell'indeterminatissimo, da cui come da suo principio passivo ed eterno il pensiero di Dio fece uscire ogni cosa dell'universo. Quanto alla teorica dei Pitagorici intorno al rapporto di origine tra il derivato ed il Primitivo, la critica non può chiamarsi soddisfatta del modo con cui essi tentarono di spiegare la formazione del mondo, ossia l'uscita dei molteplice finito dall' Uno infinito. Due opposti principii concorsero insieme, secondo essi, alla costruzione dell'universo, la Monade cioè e l'in- finito ossia il vacuo, quella principio determinante, ed adempiente un uf- ficio positivo, questo poi principio indeterminato e passivo ed adempiente un ulHcio negativo. Ma abbiamo già avvertito, che il principio dell' infi- nito ossia il vacuo non ha una ragion metafisica di essere né in sé né nella Monade, e che perciò tale concetto non ha un fondamento razio- PER GIUSEPPE ALLIEVO. I I I naie. Cerio è che lo spiegare in che modo dall Uno primitivo sia escito il molteplice derivato è uno de più gravi e piiì paurosi problemi che si affaccii al pensiero umano per essere risoluto; noteremo qui solamente, che il concetto che emisero i Pitagorici per ispiegare l'origine dell'universo da Dio,, tradotto nel linguaggio filosofico uìoderno potrebbe enunciarsi così: L'Infinito origina il finito determinando ciò che era indeterminato. Sifiatto concetto preso nella sua generalità non discorda gran fatto dalla soluzione che diedero a tanto grave questione Hegel, Rosmini e Gioberti. Infatti il filosofo Tedesco fa uscir tutte cose dall'Idea, la quale presa come primo momento dell'Assoluto è l'essere affatto indeterminato iden- tico sotto questo rispetto col nulla e che diventa le singole cose limitando se stessa, ossia vestendo determinazioni e forme particolari. Rosmini poi spiega la creazione dei contingenti insegnando che Iddio col suo pensiero determina e circoscrive entro a certi ristretti limiti l'essere iniziale che risplende illimitato ed universalissimo alla sua mente, e che colla sua in- finita attività fa poi esistere e crea quella parte o modo di essere che aveva colla sua divina astrazione determinato (Vedi Teosofìa, \'o\. i°, pag.3o2). Gioberti concepisce Iddio siccome 1 Idea generale ed universalissima con- tenente in sé tutte le idee particolari ossia le essenze specifiche degli esseri individuali, e la creazione siccome un atto con cui Dio individualizza l'idea generale recandola alf esistenza (Intr. L. i , e. iv). Venendo da ultimo alla dottrina pitagorica intorno al derivato, ossia alla natura degli esseri finiti, essa, oltreché si chiarisce impotente a spiegare l'essenza reale degli esseri per mezzo dei principii astratti di matematica, come aljbiamo superiormente notato, contiene altresì un punto assai di- fettoso e censurabile, voglio dire la teorica dei contrarli, la quale è la- sciata nel vago o nell'indeterminato e manca di precisione e di rigore scientifico. E pronunciato fondamentale del Pitagorismo che ogni cosa consta di contrarli, cioè di un elemento positivo e di un elemento negativo; ma il concetto che questa scuola si fa de' contrarii siccome principii costitu- tivi delle cose non è ben fermo e ben definito. Volgendo l'occhio alla tavola pitagorica de' contrarii qual ci venne tra- mandata da Aristotele, noi troviamo nella prima serie dieci termini che esprimono l'elemento buono o positivo delle cose, e sono il finito, il di- spari, l'uno, il destro, il maschio, la quiete, il retto, la luce, il bene, il quadrato: nella seconda serie, che dicesi serie del male, vengono schie- rati dieci altri termini contrarii ai primi, epperciò negativi che esprimono 112 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. l'elemento ilei male e dell'imperfezione che si riscontra negli esseri ac- canto a quello del bene e della perfezione, e sono P infinito, il pari, i più, il sinistro, la femmina, il moto, il curvo, le tenebre, il male, il ret- tangolo. Ora esaminando per bene i conlrarii della seconda serie, è age- vole il rilevare, che non tutti hanno, come pur dovrebbero avere, lo stesso valor negativo e lo stesso rapporto verso i termini della prima serie, a cui si contrappongono e con cui debbono collegarsi per costituire gli esseri, poiché taluni di essi sono opposti contrarii ai jirimi, tali altri sono op- posti contraddittorii. Cosi, a ragion d'esempio, al termine positivo di limite ossia diluito che trovasi per primo fra quelli della prima serie, sta cor- rispondente nell'altra serie il termine di non-limite ossia infinito, che è opposto contraddittorio del primo, essendoché esso non fa che negare semplicemente il suo termine opposto positivo senza nulla affermare né porre in sua vece verun' altra entità positiva diversa; e lo stesso è a dirsi del termine luce, cui corrisponde tenebre che è suo opposto contraddit- torio: mentre al termine quadrato si oppone quell'altro di rettangolo, che non é suo contraddittorio, ma semplicemente contrario, perchè il rettangolo non solo nega ed esclude il quadrato, ma oltre questa sua ne- gazione 0 rapporto col quadrato é pure in sé qualche cosa di positivo e di diverso; qui adunque avremmo due entità contrarie ed opposte ma entrambe positive, mentre nei due casi succitati avrebbesi nulla più che un'entità vera e positiva. Lo stesso é a dirsi dei termini retto e curvo , maschio e femmina che sono opposti contrarii e non contraddittorii, per- ché accennano due entità diverse ma positive. Ciò posto, si dimanda: gli esseri constano di opposti contrarii o di opposti contraddittorii? A questa dimanda non si dà veruna risposta nella teorica pitagorica de'contrarii, siccome quella che non determina né pre- cisa il concetto distintivo degli opposti contrarii e degli opposti contrad- dittorii. E questo stesso grave difetto che qui rimproveriamo alla dottrina pitagorica, si nota altresì nel sistema di Hegel , il quale é tutto fondato sopra un equivoco ed una strana confusione degli opposti contrarii coi contraddittorii e che perciò non intese tutta l'importanza di questo gran problema dei contrarii avviluppandolo anzi in oscurità più forti di prima. Chiediamo adunque di nuovo: gli esseri constano di opposti contrarii o di opposti contraddittorii? Se opposti contraddittorii son quelli dei quali il secondo distrugge in tutto il primo, se non possono perciò conciliarsi in un terzo termine superiore né coesistere insieme nel medesimo .soggetto PER GIUSEPPE ALLIEVO. . Il3 posciachè luno di essi soltanto è un'entità vera e positiva, e l'altro una pura negazione e quindi un nulla nell' ordine della realtà , è chiaro che la natura degli esseri non può constare di opposti contradditlorii perchè ciò sarebbe un distruggere Tessere stesso togliendogli la coerenza onto- logica ed il sintesismo che gli è necessario per ridurlo ad una contrad- dizione che distrugge se slessa. Cosi il pronunciare a ragion d' esempio, che luomo consta d'intelligenza e di non-intelligenza, di sensitività e di non-sensitività, di libertà e di non-libertà, torna ad un inedesiino che il pronunciare questa contraddizione, luomo è intelligente e non intelligente, sensitivo e non sensitivo, libero e non libero, lo che vai quanto un di- struggere l'uomo. Che se nel pronunciare che l'uomo consta di intelligenza e di non intelligenza, si vuole con questo secondo opposto significare che egli oltre dell'intelligenza possiede altre qualità che intelligenza non sono, in tal caso si direbbe il vero, ina si avrebbe non pivi un opposto con- traddittorio, sibbene contrario, e nessuno mai vorrà negare, che gli esseri constano di elementi specificamente diversi e di attributi contrarii coe- sistenti insieme in un medesimo soggetto, quali sono lo spirito ed il corpo, l'animalità e la razionalità nell'uomo. I contrarii adunque e non i contrad- ditlorii sono i costitutivi delle cose, al che se avessero posto mente Hegel e gli hegeliani, non avrebbero mosso rimprovero immeritato alla logica ordinaria ed al sapere comune, quasiché ella negasse questa verità che dappertutto in natura_ c'è contrasto di elementi ed urto di forze antago- nistiche, e quasiché l'attrazione e la repulsione, che essi si compiacciono di citare ad esempio, non fossero due opposti contrarii, due forze en- trambe attive, due entità positive ed operanti. Quello che nega e rigetta la logica ordinaria è la coesistenza e la conciliazione dei contraddittorii, i quali si escludono mutuamente e distruggono la coerenza dell'essere con se medesimo. Di qui si scorge qual giudizio abbiasi a recare di quell'altra sentenza pitagorica , che il male è una indeclinabile necessità nell' economia del- l'universo, uno de' principii costitutivi delle cose, che va consociato in- sieme col suo contrario , il bene , per elementare e compiere l' essenza integra degli esseri. Se per male s'intende la pura e pretta negazione del bene, il suo opposto contraddittorio, e se per bene intendesi l'elemento positivo delle cose e la fonte della loro perfezione ontologica, la sentenza di cui discorriamo è falsa, poiché collocherebbe la natura delle cose in un composto irrazionale di due elementi , dei quali il secondo distrugge Serie II. Tom. XXX. i5 11^ IL PROBLEMA METAFISICO ECC. il primo senza collocarvi in sua vece alcunché di positivo; e noi abbiamo già avvertito che i contraddittorii distruggono Tessere togliendogli la coe- renza con se medesimo. Che se per male s'intende l'elemento contrario del bene, ossia la deficienza e 1 imperfezione dell'essere, in tal caso si verrebbe a significar questo, che gli attributi degli esseri finiti sono un bene, una perfezione in quanto che sono qualche cosa di positivo, e sono un male , una imperfezione nel senso che non raggiungono il sommo dell essere, il massiriio di entit^i, e la sentenza in tal caso è vera, ma con ciò non si verrebbe a significare se non questo: gli esseri finiti non sono dotati di attributi infiniti ed infinitamente perfetti, ossia il finito è finito, lo che è una vana tautologia. Il male adunque di cui qui si discorre è il male così detto metafisico, ossia è 1 imperfezione o limitazione inerente all'essenza stessa degli esseri finiti, vai quanto dire non è un male nel senso rigoroso della parola, perchè gli esseri finiti sono quah debbono e possono essere. Chi dirà ad esempio che sia un male per l'uomo il non possedere un'intelligenza infinita , una potenza infinita .' Ciò condurrebbe alla negazione della realtà finita e contingente ; ed in ciò forse si cela una delle cause che producono il panteismo, il quale non riconosce altro essere vero e sostanziale se non l'Infinito che è tutto. Infino a qui la nostra critica del Pitagorismo ha adempiuto un ufTicio meramente negativo, che consiste nel respingere gli elementi di una dot- trina che si chiariscono irrazionali, cioè opposti alle^ esigenze del pensiero speculativo ed all' indole della vera teorica metafisica. Ma la critica ha pure un ufficio positivo, cui è tenuta di satisfare, e che sta nel cernere e^ sincerare dagli elementi irrazionali ed esclusivi quelli che hanno un valore speculativo, o che potrebbero venir legittimati alla scienza. Ora non è a negare che sebl)ene il Pitagorismo non abbia dato al problema ontologico una soluzione satisfacente e definitiva , esso tuttavia contiene parecchi concetti, i quali ove venissero o raddrizzati od elaborali dalla riflessione e sincerati dei loro elementi esclusivi si tradurrebbero in isplendide e feconde verità filosofiche. E primamente è gran merito della scuola pita- gorica l'avere essa per prima riconosciuto e legittimato alla scienza il con- cetto della dualità ontologica dell'Uno e del molteplice, ossia dell'essere infinito e del finito, mentre le altre due scuole filosofiche greche avevano disconosciuta luna di queste due realtà a profitto dell altra, sebbene però essa non sia pervenuta a dare una soluzione razionale e solida ai tre distinti problemi speciali che in sé racchiude il dualismo ontologico. Anche PER GIUSEPPE ALLIEVO. ii5 il concetto pitagorico dell' unità e dell'armonia posta siccome scopo su- premo e meta ultima di tutti gli esseri è un concetto razionale fecondo di grandi verità e di belle applicazioni ad ogni ordine di cose: tutto debba tendere all'uno, all'armonia, all'accordo per guisa che un essere è tanto pili perfetto , quanto piìi si accosta all' unità ; però quest" imita . forma compiuta di perfezione , non vuol essere vuota, inorganica, esclusiva della moltiplicità, sibbene organica e ricca della maggior possibile varietà, po- sciachè l'unità perfettiva ed ultimata importa con sé il massimo sviluppo possibile di tutte le forze di un essere, epperò il massimo di moltiplicità accoppiato al massimo di unità e di armonia; la moltiplicità è uno svi- luppo, che trova nell'unità il suo centro armonizzatore. V'ha un terzo concetto pitagorico, di cui la critica potrebbe far tesoro, quello vo' dire che considera ogni essere siccome un numero , ossia come composto di contrarli e di diversi contempcrati ad unità. Certo è che questo concetto è insussistente ed irrazionale, ove si prenda come espressivo della natura e dell' essenza tipica degli esseri ; ma se vien sincerato dall' elemento matematico che il rende esclusivo e disforme dal vero, e si assume per connotare non già la natura intima e sostanziale degli esseri, sibbene la loro forma ontologica ed universale, in allora si converte in una splendida e fecondissima verità metafisica, la quale vorrebb'essere più propriamente formolata in questi termini: ogni essere è un tutto armonico, ossia una unità contenente in sé una moltiplicità. È questo un gran vero, che trova il suo eilettuale riscontro in ogni ordine di cose e si stende per tutta quant'é ampia l'universalità della natura. Certo è che gli elementi mol- teplici e le potenzialità diverse di cui si integra e si compie la natura degli esseri, specificamente si differenziano, sicché le determinazioni e le proprietà degli uni si diversificano da quelle degli altri , ma l'unità nella moltiplicità è tal forma che si avvera in tutti e riscontrasi per ogni dove tantoché verun oggetto può esistere ned essere pensato se non come un tutto, un'unità molteplice, una moltiplicità una ed armonica. E chi tien dietro allo sviluppo di questo gran concetto e ne intende per bene tutta la virtù comprensiva , scorge anche questo , che ogni essere , ogni cosa non solo é un lutto da sé , ma che ad un tempo , senza smettere la propria unità ontologica , forma parte integrante di un tutto maggiore , e questo alla sua volta di un altro tutto più esteso , e così successiva- * mente per via di un intimo collegamento che hanno fra di loro tutte le individue esistenze progredendo fino a che si perviene all'unità assoluta, I l6 IL PROlìl.EMA METAFISICO ECC. alla Monade suprema, che comprende in se tutte le altre, ed a cui tutte si collegano come intorno al loro centro armonizzatore , al gran tutto , che non è 1' identità di tutti gli esseri diversi ed opposti in senso pan- teistico , ma che li pone con un atto libero e creativo , e ponendoli li armonizza e li collega con sé pur mentre lascia intatta ed integra l'in- dividuai sussistenza di ciascheduno Così il corpo umano è un tutto de- mentato di molteplici membra insieme organizzate e composte ad unità di vita e di azione, e lo spirito umano è esso pure un'unità contenente in sé una moltiplicità di potenze o di attività specificamente diverse e pur cos])iranti insieme ad un medesimo scopo: ma il corpo e lo spirito sono poi tlue unità subordinate ad una unità superiore che è l'essere umano. E l'uomo che, riguardato nella sua individuale esistenza, è un'u- nità organica e vivente di vita propria, ove lo si consideri ne' suoi rap- porti sociali, diventa membro e parte di un'altra unità più estesa che è la famiglia . come pure le famiglie rientrano , come un tutto minore in un lutto maggiore, nell'unità organica della città, e la città nello stato, gli stati nella nazione, le nazioni nella gran società del genere umano, e l'umanità tutta quanta rientra nel gran tutto dell'universo, e tutta questi immensa varietà di esseri e di cose si raccoglie ad unità intorno ad un solo essere assoluto, causa e ragione di tutto il molteplice. E qui poniamo termine ali esposizione critica della dottrina pitagorica. Cenni sulla Sofistica ^reca. Le tre prime scuole filosofiche greche , di cui abbiamo infino a qui tenuto parola, conchiusero alla sofistica di Protagora e di Gorgia. Giova quindi rintracciare le cause per cui il primo periodo del movimento del pensiero filosofico greco si chiuse in guisa cotanto irrazionale, e segnare l'indole ed accennare i pronunciati fondamentali de' Greci Sofisti. L'esclu- sivismo , chi bene avverte , è il carattere comune di cui si trovano im- prontate le scuole filosofiche di cui discorriamo: esclusivo è il Jonismo, siccome quello che volle rinserrare la realtà universa negli angusti limiti del mondo sensibile . disconoscendo la realtà eterna , immutabile ed as- soluta; esclusivo l'Eleatismo che minò nell'estrenui opposto; esclusivo il Pitagorismo, che sebbene avesse fatto luogo alla duplice realtà, finita ed infinita, tentò di spiegarla col solo concetto della quantità, che è di sua PER GIUSEPPE ALLIEVO. I I 7 natura parziale e restrittiva, perchè, se vale per le scienze matematiche, non può tener luogo di un vero principio metafisico, che nella sua am- piezza debbe abbracciare tutta quant'è la distesa della realtà universale, qual può cadere sotto 1 umana apprensiva. Ora è legge dialettica indecli- nabile che ogni teorica esclusiva e parziale , ove sia sviluppata nelle sue logiche conseguenze, riesca alla negazione di sé medesima; onde che le scuole filosofiche , di cui discorriamo , dovevano dalla logica venir con- dannate a distruggere sé medesime. K veramente il Jonismo , che pro- fessava il principio della moUiplicità degli esseri disgiunta dalla unità , mal poteva satisfare alle esigenze del pensiero speculativo , che non può far senza dell'unità ideale, unità che non si rinviene per entro al mondo sensibile, ma risiede in un principio superiore al corporeo universo. Del paro voleva essere respinto lEleatismo perchè il pensiero, non altrimenti che la realtà richiedono sibbene l'unità ideale ed ontologica, ma insieme con essa la moltipiicità che le conferisce vita, varietà, bellezza ed armonia. Ed il Pitagorismo anchesso, chiaritosi impotente a spiegar la vera ed integra natura degli esseri per mezzo di principii matematici, e minando per ciò stesso iu un astratto idealismo , mal rispondev.i alle brame del pensiero speculativo, che aspira ad una teorica realistica, e non sa ap- pagarsi di mere astrazioni. La negazione del Jonismo , dell' Eleatismo e del Pitagorismo, ossia di tutto lo sviluppo del pensiero filosofico greco nel suo primo periodo; ecco la Sofistica. L'indole parziale, ristretta ed esclusiva delle tre prime scuole filosofiche greche doveva di necessità porle in antinomia ed in opposizione 1' una coir altra, essendo proprio dell'errore, che è di per sé esclusivo, f in- trodurre la guerra nel campo della verità e discordar da se stesso, mentre la verità sola ha virtù lonciliativa ed è essenzialmente armonica e con- corde con sé medesima. Ora la lotta ed il dissidio , che dividevano le scuole di cui parliamo , (u una seconda causa che concorse insieme col- l'esclusivismo a generar la Sofistica, la quale si férma alle antinomie del pensiero ed alle contraddizioni elevandole a dignità di principio e di legge invece di risolverle e conciliare gli opposti, come intende appunto di fare la Dialettica. Questa lotta tra il Jonismo, 1' Eleatismo ed il Pitagorismo era aperta e sorgeva tlal fondo stesso di questi tre opposti sistemi, posciachè di essi il primo propugnava il principio del molteplice senza l'Uno , il secondo ammetteva l'Uno esclusivo del molteplice, il terzo opponeva ai due primi Il8 IL PROBLEMA METAFISICO ECC.. una teorica contraria. La Sofistica è 1' espressione di questa opposizione tra i diversi sistemi precedenti elevata essa stessa a sistema , e questa opposizione , giova il notarlo , trovavasi di già in germe nella dottrina polemica di Zenone, il quale contribuì a crear la Sofistica perchè la sua dialettica è tutta negativa, distrugge ma non edifica, tenta di dimostrare la vanità e l'insussistenza dell'empirismo esclusivo, ma non salva perciò dalle contraddizioni il razionalismo ontologico degli Eleati, e non riesce a porne in sodo la verità. Fermate così le cause precipue che menarono la filosofia greca alla Sofistica, è agevol cosa segnarne 1" indole particolare ed arguirne i pro- nunciati fondamentali. La Sofistica sorse dall'esclusivismo e dall'antinomia delle tre scuole filosofiche che la precedettero , e non fece che rivelare e mettere all'aperto la negazione latente che nascondevano nel loro seno: essa è perciò una forma di filosofia critica, ma una critica falsata e monca, che vien meno al proprio vifficio e fallisce al suo intento speculativo. La vera e compiuta critica razionale , lavorando sui dati del senso comune o sui prodotti filosofici del pensiero speculativo, si adopera a sincerare il vero dal falso, a cernere i buoni elementi da quelli che si oppongono alla scienza; essa quindi adempie ad un duplice ufficio, negativo 1" uno che sta nell'eliininare l'errore dal campo della speculazione, positivo l'altro che risiede nel fermare e porre nella sua debita luce la verità; col primo distrugge, col secondo edifica, ma entrambi raggiungono l'intento del pen- siero speculativo, che è il possesso della verità pura e sincerata da ogni elemento irrazionale. Tale non è la Critica propria della Sofistica: invece di cernere il vero dal falso nella disamina che fece dei sistemi filosofici anteriori e legittimare alla scienza quegli elementi che ad essa si confor- mavano, li avvolse tutti nell'incertezza e nel dubbio rivolgendoli contro la scienza stessa, e rendendoli strumento di scetticismo: essa quindi di- strusse senza edificare, respinse Tenore senza accogliere la verità, negò i sistemi precedenti .senza produrne de' nuovi in loro vece, fermandosi così alla negazione, al dubbio, siccome a meta suprema del pensiero umano. La Sofistica non è solo una critica meramente negativa, epperò man- chevole ad un suo indeclinabile uflicio, ma è tale che fallisce onninamente al suo scopo essenziale riposto nella ricerca della verità immutabile ed assoluta. Poiché i Sofisti greci, dopo di avere rigettati i prodotti del pen- siero filosofico svoltosi prima del loro apparire , rinunziarono pur anco al desiderio ed alla scoperta di una verità speculativa, in cui lo .spirito PER GIUSEPPE ALLIEVO. IIQ umano potesse ritrovare quellappagamento razionale e quella quiete scien- tifica, che nelle scuole precedenti mal si poteva rinvenire. L'incredulità e 1 inditrerentismo scientifico sono il carattere precipuo e distintivo dei greci Sofisti : essi non solo rigettavano que veri che si trovavan fram- misti a molti errori ne' sistemi anteriori, ma smarrirono ogni sentimento dell'Assoluto, ogni fede nella verità innnutabile e nella sua forza e dignità sovrumana , ogni zelo pel suo progresso e pel suo ti-ionfo. La verità assoluta non è più ai loro occhi qualche cosa di sacro e di divino che costituisca tutto il pregio e la serietà della vita, il personale interesse è il loro movente, la loro meta suprema, e la verità non vale se nun come mezzo che conduca al conseguimento dei fini particolari ed al trionfo del- l'arbitrio individuale. Quindi non piiì principii immutabili, assoluti, invio- labili, in faccia ai quali taccia 1 egoismo e cedano i moventi personali; essi non hanno più ragione di fine , ma di mezzo : il vero è sacrificato all'utile, la dignità della scienza è posta a servizio dell'interesse individuale; riescirc nel propostosi intento; ecco tutto. Quindi se altri volesse con- notare con un vocabolo peculiare lindole propria della Sofistica, potrebbe dire che essa è il Machiavellismo (i) tradotto dal giro della politica nel legno della scienza. Scopo ed anima degli studi de Sofisti non era la scienza, sibbene la smodata ambizione, il turpe guadagno ed il desiderio di una vanitosa celebrità. Essi disputavano non già per amore del vero e del giusto, ma col fine di spiegar vana pompa d'ingegno, e di trionfare sull avversario facendolo ammutolire a lorza di sottigliezze e di un cavilloso argomento : essi traOicavano i loro privati insegpamenti vendendo a caro prezzo le loro lezioni, addestrando i giovani a sostenere il prò ed il contro intorno al medesimo argomento, ad illudere altrui con vano apparato di sottigliezze dialettiche e con vana pompa di belle e sonanti parole, a ser- virsi dell' eloquenza non già per propugnare il diritto e far trionfare la verità, ma per dominare Topinione pubblica, sedurre gli animi e far piegare ogni cosa nell'interesse privato dell'oratore. Celebra tissimi fra tutti i greci Sofisti furono Protagora e Gorgia, che fiorirono quattrocento anni prima di Cristo, ed in cui la Sofistica toccò per CO.SI dire il suo estremo. Partendo dal principio di Eraclito, che le cose sono in continuo flusso e cangiamento, e che tutto diventa e nessun oggetto è veramente, Protagora sentenziava che non si dà esistenza im- (1) Machiavellismo è sacrificare Toggellivo al soggettivo, il necessario al contiogente. 120 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. mutabile ed assoluta, che tutta la realtà è mobile e relativa, che i sensi sono la sola sorgente del conoscere e del sapere, preludendo cosi al sensismo di Condillac, che ridusse tutte le facoltà razionali deiruomo alla sensazione trasformata. E siccome la realtà, oggetto del pensiero, in tale sistema can- giasi senza fine e con essa mutano di continuo i sensi che la- apprendono, così Protagora insegnava che non si dà verità assoluta ed immutabile, ma sol relativa e mutabile come l'esistenza stessa, perchè le cose sensibili appariscono ali uomo in dill'erenti ed opposte maniere e, possedendo qua- lità contrarie, ingenerano nel pensiero che le apprende opinioni opposte per modo che le proposizioni contraddittorie, il sì ed il no, si possono sostenere intorno al medesimo oggetto ed hanno lo stesso valore. Di qui il pronunciato fondamentale di Protagora che l'uomo è la misura di tutte cose , vai quanto dire che non esiste altra realtà se non quella che è dall' uomo sentità e nel nn)do con cui è sentita , che quindi essa muta secondo il mutare della nostra facoltà sensitiva e delle condizioni diverse in cui ci troviamo collocati nel tempo e nello spazio, sicché ciò che altri tiene per vero potrebb' essere falso per chi si trovasse in contingenze diverse , non essendo lo stesso oggetto sentito sempre allo slesso modo e dal medesimo organo, ma producendo impressioni diverse e contrarie non solo su diversi individui, ma sul medesimo soggetto senziente. Così dalla mutabilità e relatività dell'essere egli dedusse la mutabilità e relatività del sapere e della verità, e dall'identità del pensiero colla sensazione, del vero coir impressione sensibile venne condotto a rigettare ogni concetto puramente razionale, a sacrificare l'oggettività del sapere al soggettivismo empirico, a convertire ogni pensiero ed ogni conoscenza in una semplice e pura apparenza. Come Protagora aveva svolto dal Jonismo il suo principio che l'essere ed il vero sono relativi , così Gorgia dedusse il nullismo dalla scuola eleatica e segnatamente dalla teorica negativa di Zenone. Egli scrisse un libro che s intitola: Della Natura ossia di ciò che non è, coli intento di dimostrare queste tre tesi, in cui si compendia tutta la sua Sofistica: i" Non esiste cosa veruna; 2" se pur esistesse alcuna cosa, non la si po- trebbe dall'uomo conoscere; 3° supposto che potessimo conoscerla, non potremmo comunicarla agli altri. Ecco come ei si sforzava di provare la prima tesi che niente è esistente con questo ragionamento : Se qualche cosa è, la necessità vuole che essa sia o ciò che è, o ciò che non è, o ciò che è e non è ad un tempo. Ciò vai quanto dire che se esistesse PER GIUSEPPE ALLIEVO. 121 alcunché, farebbe mestieri ammettere una di queste tre proposizioni: 1° ciò che è, è; 2° ciò che non è, è ; 3° ciò che è, è e non è nel medesimo tempo. Ma niuna di queste tre proposizioni può ammettersi; dunque niente è esistente. Come si scorge, il ragionamento di Gorgia per dimostrare la prima delle tre sue celebri tesi, cioè l'impossibilità di qualunque cosa esi- stente, è un sillogismo ipotetico che muove da una proposizione maggiore condizionale, che è la seguente . Se esiste qualche cosa, essa dovrebb'es- sere o ciò che è, o ciò che non è, o ciò che insieme è e non è. Nella proposizione minore del suo sillogismo egli esclude tutti e tre questi casi come impossibili . di che ne inferisce la conclusione , che dunque niente è esistente. Giova il vedere in che modo egli s' industriasse per provar la minore del suo sillogismo, mostrando l'impossibilità di queste tre pro- posizioni in essa contenute: i" ciò che è. è ; 2° ciò che non è, è; 3° ciò che è, è e non è ad un tempo. La seconda e la terza di queste pro- posizioni vanno escluse perchè contraddittorie: rimane a dimostrar impos- sibile la prima; il che Gorgia tenta di fare con quest'argomentazione: se ciò che è, è, esso debb'essere o eterno o generato, oppure eterno e generato ad un tempo; in altri termini, se ciò che è, è esistente, debbe esistere o nell'eter- ni tà, o nel tempo, o nell'eternità e nel tempo insieme ; ma ciò che è, non è né eterno, né generato, né eterno insieme e generato; dunque ciò che è non esiste. Gorgia provava la minore di questo sillogismo in tal modo: se ciò che è, fosse eterno, non avrebbe principio, ciò che non ha principio, è infinito; ciò che è infinito non è in veriin luogo, ciò che non è in verun luogo, non esiste, dunque ciò che è, non è eterno. Esso non è nemmanco generato; poiché se tale fosse, dovrebb'essere generato o da ciò che non è, o da ciò che è; ma non può essere generato da ciò che non è, perchè sarebbe un assurdo; non da ciò che è, perchè se ciò che è, è, esso adunque di già esiste e non può perciò essere generato. Tali sono le cavillose e sottili argomentazioni con cui Gorgia si credette di aver dimostrata la prima delle sue tre tesi fondamentali, in cui stabilisce che niente è esistente. Noi non lo seguiremo nelle sue arguzie e ne' sofistici ragionamenti che egli fa a sostegno delle altre due tesi, che se pur esistesse qualche cosa, sarebbe a noi incomprensibile, e dato pure che si potesse apprendere, non si saprebbe enunciarla né spiegarla agli altri; poiché queste due tesi dipendono dalla prima, distrutta la quale cadono di per se stesse. Da questa rapida esposizione della greca Sofistica si rileva, come essa appartenga a quella forma di sistemi metafisici, che abbiamo denominato Serie II. Tom. XXX. 16 J22 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. scelticisiiio, essendoché mette in forse ed impugna la realtà dell'essere e l'o<^"eltività del sapere, negando l'esistenza stessa del problema ontologico invece di tentarne la soluzione. Noi non discenderemo a conlulare i so- fisti seguendoli passo passo nelle tortuose lor vie e nei sottili e cavillosi loro ragionamenti, ma ci contenteremo qui solo di avvertire che la sofi- stica non appaga né attuta i bisogni e le esigenze della ragione umana, la quale aspira ad alcunché di necessario, di assoluto e di immutabile m cui quietare, che il problema metafisico da essa disconosciuto e niegato si affaccia allo spirito umano e gli dimanda una soluzione, che il prin- cipio messo avanti da Protagora, non darsi altro essere, altra verità se non relativa e mutabile, si distrugge da sé perchè il relativo ed il mutabile non può sussistere senza l'assoluto e l'immutabile , che il nullismo di Gorgia porta con sé la propria condanna perchè presuppone resistenza, per lo meno, del pensiero che nega la realtà e pone sulle sue ruine il nulla. La confutazione della sofistica venne già fatta da Platone in modo irrepu- gnabile e vittorioso, e la critica non può a meno di rigettare insieme con questo gran genio una dottrina cotanto ignobile ed indegna dell'umana ragione. PLATONE. La sofistica greca, abbiam veduto, era ima critica monca e falsata, che nie^^ò tutti i sistemi filosofici anteriori senza sollevarsi alla contempla- zione di quell'immutabile ed assoluta verità, che è oggetto e nota suprema del pensiero speculativo. La vera e compiuta critica razionale chiamando a severa disamina le doltrine delle scuole metafisiche precedenti doveva non solo distruggere, ma ben anco edificare, non respingere soltanto gli elementi irrazionali dal campo della verità, ma far tesoro di que con- celti che avessero un valore speculativo, e fecondandoli colla virlii del pensiero e compiendoli di nuove idee organarli in un sol corpo di scienza. Ciò non venne fatto dai sofisti, e tale fu appunto l'arduo e sublime com- pito che SI assunse Platone, la cui teorica metafisica sorse dalla severa critica che egli fece delle dottrine filosofiche, che lo precedettero. La scuola jonica insieme con Eraclito altro non iscorgeva nell'universo che una va- rietà e molteplicità indefinita di esseri, un continuo cangiamento, una per- petua instabilità, ossia il molteplice disgiunto dall'Uno. La scuola eleatica non ammetteva con Parmenide che un essere immobile, privo di attività, PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 20 di intelligenza, di vita, ossia l'Uno senza il molteplice. Pitagora poi aveva bensì ammessa la dualità ontologica dell'essere Uno e del molteplice con- ciliando così in im concetto superiore i due opposti sistemi del relati- vismo ionico e dell'assolutismo eleatico entrambi esclusivi, ma non seppe dappoi spiegare colla sua teorica de' numeri posti come causa tipica ed esemplare degli esseri la vera e compiuta natura della realtà. Platone ap- propriandosi quanto vi era di vero e di razionale in questi sistemi e con- venendo con Pitagora nell'ammettere contro di Parmenide e di Eraclito che la realtà è una e molteplice ad un tempo, s'ingegnò di adempiere i difetti della metafisica pitagorica e compierne le lacune svolgendo la sua celebre teorica delle idee dalla teorica de' numeri pitagorici, che viene comunemente risguardata siccome un imperfetto abbozzo di (juella. Fra i suoi dialoghi metafìsici ne abbiamo due che contengono per così dire la critica delle scuole anteriori, e sono quello intitolato il Teeteto, ossia della scienza, e l'altro che è inscritto il Sofista, ossia dell'essere. Il Teeteto è rivolto a confutare il principio di Eraclito, che negava la per- manenza e l'unità dell'essere e riduceva la natura al movimento ed al feno- meno: ivi Platone dimostra che il movimento puro ed assoluto dell'essere disgiunto dalla stabilità e dalla permanenza involge contraddizione; che se niente vi fosse di permanente e di fìsso, niente pur vi sarebbe di mo- bile ; che nel sistema di Eraclito il moto si distrugge di per sé perchè privo di un centro stabile, intorno al quale si compia, e che il fenomeno senza il sostegno della realtà si disperde nel niente. Il dialogo poi del Sofista ha per intento di combattere Parmenide , che negava perfino la possibilità del cangiamento e della pluralità riducendo tutto l'essere ad \m riposo assoluto, ad una perpetua immobilità, ad una vuota e sterile unità: nel Sofista Platone prova contro gli Eleatici che l'essere assoluta- mente e puramente astratto si converte in un bei niente ; che 1' essere spoglio affatto di proprietà e meramente indeterminato, sfugge, del paro che il non-essere, al pensiero ed al linguaggio; che la mera unità scevra di ogni moltiplicità e vuota di contenuto è un puro niente, mostrando così fin d'allora l'insussistenza dell'Idealismo assoluto di Hegel, che pone a supremo principio dello scibile e del reale l'essere indeterminatissimo, il puro e sommo astratto, l' essere-nulla. Da questa critica Platone infe- riva, che la vera esistenza debbo riunire in sé l'unità e la pluralità ad un tempo, la permanenza e la mobilità, l'Assoluto ed il relativo, e che nel con- ciliare insieme ad armonia e spiegare questi due termini senza sacrificarli 124 '^ PROBLEMA METAFISICO ECC. l'uno all'altro si nasconde tutto il secreto del gran problema ontologico: ed in quell'altro sno dialogo che si intitola il Filebo , egli intende ap- punto di riunire insieme e di accordare i due principli dell'Uno e del molteplice, che la scuola jonica e la eleatica avevano separati. La filosofia di Platone non è una mera critica dei sistemi che lo pre- cedettero, ma egli intese altresì di svolgere dalla critica una teorica spe- culativa, in cui le dottrine anteriori trovassero il loro razionai comple- metito. Or la dottrina metafisica di Platone è tutta contenuta nella sua celebre teorica delle idee, detta Dialettica. ^ olendo qui formarci un giusto concetto della dialettica platonica e sottometterla ad un'anaUsi critica, occorre pigliar le mosse dalla dottrina di Platone intorno alle diverse forme o guise dell'umano conoscere. Egli distingueva quattro gradi di co- gnizione corrispondenti a quattro ordini di cose conoscibili, e sono; i" la rappresentazione fantastica, ossia l'aflìgurazione, come la chiama il Rosmini (stxaiTt'a), la quale ha per oggetto le immagini delle cose sensibili; 2" la fede o persuasione (ntan^) che si riferisce agli stessi oggetti sensibili e corporei; 3° il ragionamento o la cogitazione {omoia) che apprende le en- tità matematiche ed astratte; 4° '^ ragione od intelligenza, o pensiero (yc-'vjffjg) che ha per oggetto le idee od essenze eterne ed immutabili delle cose. Di questi quattro gradi di cognizione i primi due annoverati cioè la rappresentazione fantastica e la fede appartengono entrambi all'ordine delle cose sensibili e corporee e si riuniscono sotto il nome comune di opinione {^oCv); i due ultimi si riferiscono all'ordine delle cose sovrasen- sibili ed incorporee e si comprendono sotto il nome comune di scienza. L'opinione diversifica assai dalla scienza; poiché l'una non ha principii ra- zionali, laltra li investiga e li contempla ; quella non sa rendersi ragione di se stessa, questa ha mai sempre la consapevolezza di sé e 1' evidenza razionale; la prima è mobile, vaga ed incerta, perché tali sono le cose sensibili ed i fenomeni che essa apprende, la seconda è immutabile ed eterna perchè immutabili ed eterne sono le essenze degli esseri che essa ha per oggetto. Queste quatti-o forme di cognizioni sono insieme collegate da vicende- voli rapporti e sono l'una all'altra subordinate per modo che si compiono e si perfezionano successivamente. Il primo grado dell'opinione, che ab- biamo denominato rappresentazione ed a (figurazione è la più rozza ed imperfetta notizia che si abbia delle cose sensibili e corporee, perchè queste non vengono per anco apprese in se stesse e nella loro reale esi- PER GIUSEPPE ALLIEVO. ^ 125 stenza, ma solo rappresentate nelle loro immagini. Meno imperfetto del primo è il secondo grado dell'opinione, cioè la fede, perchè questa ci ap- prende gli oggetti sensibili non più nelle loro immagini rappresentative, sibbene da se stessi . ed inducono nell'animo nostro la persuasione della loro esistenza. Però entrambi questi due gradi dell'opinione, la congettura o rappresentazione e la fede, non eccedono ancora l'ordine delle cose sen-' sibili e corporee. Al di sopra di queste due forme di cognizione stanno siccome piìi perfetti degli altri i due gradi della scienza, che sono il ra-*' "ionamento e la ragione od intelligenza, perchè anch'essi sono l'uno men perfetto dell'altro e diversificano profondamente fra di loro. Poiché il ra- gionamento, primo e men perfetto grado della scienza, parte bens'i da' prin- cipii ideali e ne svolge le conseguenze che vi sono contenute , ma non ascende fino al supremo ed evidente principio, in cui tutti gli altri sono contenuti e da cui attingono ogni loro valore ed efficacia ; opperò i prin- cipii, da cui parte il ragionamento e che ne costituiscono l'oggetto, non sono altro che supposizioni ammesse gratuitamente per vere, ma non an- cora giustificate per via di un primo principio superiore che in se li con- tenga e li armonizzi, e tali sono per appunto i principii delle scienze matematiche. Per contro l'altro grado della scienza più perfetto, che è la ragione speculativa ossia l'intelligenza, il pensiero, non si limita a trar conseguenze da principi) supposti veri gratuitamente, ma investiga i rap- porti dei principii stessi e si solleva di sopra di essi infino alla ricerca del supremo principio ideale contemplandolo come contenente ed armo- nizzante in sé tutti gli altri principii. Quindi entrambi questi due gradi della scienza, il ragionamento e la ragione speculativa hanno per oggetto i principii, ossia gl'intelligibili, ma di specie diversa, e gli uni più ec- cellenti degli altri: gli intelligibili, oggetto del ragionamento, sono entità astratte che danno luogo alle matematiche ed alle altre scienze seconde, mentre gli intelligibili, oggetto della ragione ossia del pensiero speculativo, sono le ragioni ultime, le essenze delle cose, le idee e costituiscono la filosofia ossia la Dialettica, come la chiama Platone. Ecco come Platone distingue le due specie di intelligibili, di cui discor- riamo, oggetto gli uni delle matematiche e delle scienze seconde, gli altri della fdosofia o Dialettica, scienza suprema e superiore alle altre tutte. Parlando della prima specie di intelligibili egli dice che alla loro forma- zione « l'anima è costretta a far uso di supposti, non rivolgendosi verso » il principio, perchè non può ascendere pii^i su de'supposti, il che si fa J26 'L PROBLEMA METAFISICO ECC. » nella geometria e nelle altre arti affini »; mentre discorrendo dell'altra divisione di intelligibili egli dice di farli consistere « in ciò che lo stesso » raziocinio raggiunge colla virtiì del dialettizzare, prendendo i supposti « non già come principii, ma veramente come supposti, quali gradini ed » amminicoli, finché, giungendo a ciò che non è supposto cioè al principio » dell'universo, lui stesso attinga e ancora aderisca a quelle cose che ad » esso aderiscono . e così pervenga sino al fine , non facendo verun uso » di alcun sensibile, ma delle stesse specie, di esse in esse procedendo e » nelle specie finiendo (Republica VI, 5ii, A-E.) ». Perciò la filosofia o Dialettica si solleva, secondo Platone, al di sopra di tutte le altre scienze seconde, perchè queste muovono da principii supposti , quella invece si fonda in un principio supremo evidente, necessario, indipendente da ogni condizione. Da tutte queste cose discorse intorno ai quattro gradi della cognizione SI inferisce quale fosse il concetto della Dialettica platonica. Lo spirito umano inizia il suo movimento intellettuale dalla rappresentazione sen- sibile come dalla notizia più rozza ed imperfetta e riesce alla ragione speculativa, ultima e piìi perfetta forma di cognizione. La Dialettica è ap- punto quella, che solleva l'animo nostro dalla bassa sfera dell'opinione, dove regnano il dubbio e l' incertezza intorno ai fenomeni ed alle cose sensibili, insino alla sublune regione delle idee, dove si contempla pura ed incoramista la verità. Il fenomeno è adunque il primo oggetto della cognizione, il punto di mossa della Dialettica ; l'idea ne è il punto di sosta e di arrivo. La Dialettica, quale la intende Platone, è la scienza delle idee, ossia delle essenze delle cose, di ciò che v'ha in esse di perfetto, di immu- tabile, di eterno; la scienza del vero in sé, dell'essere, non però dell'essere mutabile, fenomenico ed apparente, sibbene del vero essere, del vero e reale esistente, di ciò che immutabilmente è. 1) siccome le idee tipiche ossia le essenze eterne tengono la cima suprema dell' esistenza , cosi la Dialettica è la filosofia prima, la protologia, l'apice di tutte le scienze e sta sopra di esse, le vigila, le precede, le comprende, le domina e le unisce in un tutto. Essa guidata dall'idea suprema del Bene, ossia di Dio, armonizza e collega tutte le cose intorno a sé, può discorrere di tutto, rispondere a tutto, dominar tutto e l'essere ed il sapere, ed il pensiei'o e la parola. Volgendo lo sguardo a questo sì sublime ideale della Dialettica, Platone riconosce lei sola siccome la vera e perfetta scienza, ricusando PER GIUSEPPE ALLIEVO. là^ perfino il nome di scienza a tutti gli altri ordini di cognizioni, a tutte le altre arti, quali sarebbero le matematiche e la loro applicazione all'astro- nomia ed alla musica {Repub. Liliro VII), opinione riprodotta a' dì nostri e stranamente abusala dagli hegeliani (i). Abbiani detto che la Dialettica è la scienza delle idee che contengono la cognizione dell'essenza eterna e necessaria delle cose, e che perciò ha per oggetto il vero e puro essere non già astrattissimo, indeterminatissimo e vuoto di contenuto, ma come sede ed armonia di tutte le idee od es- senze delle cose: or le idee vengono dalla Dialettica contemplate e stu- diate sotto due precipui aspetti, cioè nella loro distinzione o ditlòrenza e nella loro unione o rassomiglianza. Le idee in sentenza di Platone, sono sibbene distinte, non però separate, sono unite, ma non confuse: non tutte però le idee possono collegarsi insieme e fondersi, come non tutte deg- giono essere separate; ma talune possono insieme collegarsi ad unità, tali altre no; che del resto si romperebbe in una contraddizione. La Dialet- tica è dessa che studia questo collegamento e questa opposizione delle idee, raggruppandole e distinguendole in classi, e determinando quali generi con quali arinoneggino e con quali no. Essa quindi ha due precipui ufticii da adempiere, analitico luno che sta nello sciogliere un'idea ne'suoi ele- menti ossia nel distinguere, sintetico l'altro che sta nel riunire più idee particolari in una sola, ossia nel connettere e nell'organare. u Chiunque » può far questo (egli s,cr{\ e nel Sofista), sente acutamente, che un'unica )) idea si stende tutta pei molti singolarmente presi, e che molte idee, le » quali sono altre tra loro reciprocamente , si comprendono da una sola » estrinsecamente: e di nuovo che un'unica idea distesa pe' molti univer- )) salmente presi, s aduna nell'uno, e che molte, in separato, sono per in- )) tero da quell'uno distinte. E questo è un saper discernere, in che modo » 1 singoli generi possano comunicare tra loro, e in che modo non pos- » sano » . I mezzi poi , di cui si giova la Dialettica per adempiere al suo duplice ufficio, sono la definizione, che scopre in ogni cosa l'elemento essenziale, universale, intelligibile, ossia l'idea; la divisione, che distingue le idee le une dalle altre e le disgiunge a seconda delle loro intrinseche dilferenze, la generalizzazione e la classificazione, che le raggruppano e (1) Dico abusata, perche Platone non ricusava, come fanno pli hegeliani , ogni valore scientifico alle scienze seconJe, come si scorge nel FilcOo, \>. 56. a. 128 JL PROBLEMA metafìsico ECC. le connettono svolgendone l'ordine e spiegandone la gerarchia, l'ipotesi, che pone i principi!, il razionisnio che li dimostra, la deduzione, che li svolge nelle loro conseguenze. A compiere questo concetto della Dialettica di Platone vuoisi aggiungere che la filosofia quale egli la intendeva non è tale scienza , che abbandoni lo scopo finale dell'umana esistenza per ismarrirsi dietro a vuote ed in- concludenti astruserie allintutto aliene dalla realti'i della vita: egli vuole che il fine della filosofia sia pratico ed eifettivo, e non già una sterile ed astratta speculazione ; epperò ei fonda ed incardina la Dialettica non già sul concetto dell' essere astratto , indeterminato e comunissimo , che è la negazione della vita e dellcsistenza effettiva , ma suH' idea sovrana del Bene, che è della vita e dell'esistenza il piìi compiuto sviluppo, ed il finimento supremo. Il vero filosofo, posto al reggimento della pubblica cosa, è il solo capace di informare alla virtù tutto il popolo effettuando l'idea del Bene nella vita privata e pubblica , individua e sociale. Così Platone intendeva l'indole realistica di cui vuol essere insignita una teorica metafisica stringendo in operoso connubio il pensiero e l'azione, fra cui il trascendentalismo geraianico vorrebbe introdurre un fatale divorzio ed una scission violenta. Bello e sublime davvero è quest'ideale che Platone si è loggiato della Dialettica, essendoché essa contempla le essenze supreme delle cose nelle eterne idee, e queste stesse idee vede armonicamente unite insieme for- mare il pensiero stesso e lessenza di Dio. Ma la ragione umana è essa potente a sollevarsi tant'alto e toccare un così sublime ideale ! Lo asse- riscono que recenti trascendentalisti della Germania , i quali sciogliendo da ogni limite 1' intelligenza umana fino ad identificarla colla divina , la reputano capace di una scienza infinita ed assoluta. Non così la pensava Platone, che dopo di avere delineato l'ideale tipico della Sapienza suprema, non si perita di confessare che solo nella mente divina può esso rinvenire il suo pieno ed adequato effettuai compimento, e che Io spirito umano vi aspira di continuo e senza posa , ma noi può arrivare giammai. Egli quindi poneva gran differenza tra la scienza divina e la umana: quella è vera e compiuta sapienza, è Sofia ; questa non è che filosofia, ossia amore della sapienza ed aspirazione alla medesima: la Sofia o scienza in sommo grado perfetta non può divenire umana; è cosa tutta divina, né la pos- siede altri che Dio; la filosofia sola può essere il retaggio dell'uomo, che ama la Sofia e vi tende anzi come ad un ideale d'impossibile atluamento PER GIUSEPPE ALLIEVO. I 29 e trascendente la sua virtù; tant è che la debolezza della Dialettica umana costringe la nostra ragione a disgiungere le idee per poi ricomporle in un tutto, operazioni queste che non hanno la loro ragion d'essere nel- l'essenza stessa delle cose, che è immutabile ed indisgiungibile, ma solo ne' nostri rapporti con esse. Per tal modo Platone, riconoscendo i limiti del pensiero umano, veniva con ciò a dichiarare che nel gran problema dell' essere si nasconde una incognita che 1 ingegno filosofico non varrà mai ad eliminare del tutto dall'equaziun filosofica. Delineato il concetto della Dialettica platonica , facciamoci ad esporne sommariamente il contenuto. La Dialettica, abbiam detto, è la scienza o teorica delle idee. Ma le idee che cosa sono, e per quale via perviene la ragione ad intuirle, e come si collegano ad armonica unità? Si è già avvertito, che punto di mossa della Dialettica è il fenomeno, punto di sosta e di arrivo lidea. 1 sensi ci apprendono una moltiplicità di fenomeni e di oggetti diversi e disgiunti; la ragione scopre che frammezzo alla plu- ralità di esseri individui e singolari vi sono de' caratteri comuni , in cui convengono, caratteri che permangono immutabili ed identici, e che co- stituiscono le essenze medesime delle cose. Questi caratteri costanti e generali, queste essenze immutabdi, che servono di base alla mutabilità de' fenomeni , questi tipi perfetti , ciascuno de quali armonizza in sé un intiero grappo di fatti, una determinata quantità d'individui, sono le idee platoniche, ottenute per mezzo della definizione la quale, intesa in senso socratico , tende appunto a fissare i concetti generaU , e per mezzo di essi enunciare le essenze delle cose ricavandole dai particolari, ed estri- cando dai fenomeni l'uno e l'identico che vi si nasconde e dà ad essi una stabile forma. A ragion d'esempio, esiste fuori di noi, egli avverte, una moltitudine di cose, che diciam belle; ma ned esse sono in realtà belle, né come belle possono venir da noi apprese né denominate tali se non in virtù di un principio comune ed identico , che trovasi in ognuna di esse presente ed attivo, voglio dire la beltà in sé, la quale non è le stesse cose, ma ciò per cui le cose son belle e tali si dicono, essendoché cia- scuna cosa è bensì bella, ma non é la beltà, di cui solo partecipa senza punto assorbirla in sé. Vuole adunque necessità che oltre alle cose belle esistavi un altro principio superiore e distinto affatto da esse , cioè il bello in sé e per sé ; ecco un idea nel senso platonico. Del paro sono molte le cose buone, molte le giuste, molte le vere, ma al di sopra di esse e distinto da loro sta il buono in sé, d giusto in sé, il vero in sé; Serie II. Tom. XXX l'^y j3o il problema metafisico ecc. ed è ciascuno di questi principii , che unifica la moltiplicità delle cose buone, o delle giuste, o delle vere, e le distingue da quelle che tali non sono, è un'idea. Le idee adunque sono la causa esemplare od il principio di ciò che vi ha di costante e di perpetuo nella natura : esse rappre- sentano quanto havvi di reale, di eterno, di assoluto e di universale in tutti e singoli gli esseri; sono i tipi immutaljili ed eterni delle cose mobili e passeggere , le verità , i rapporti necessari! delle esistenze . esse con- tengono perciò 1 essenza delle cose perchè racchiudono in sé il principio di tutte le determinazioni o proprietà necessarie per constituire ogni essere particolare. Esse sole adunque le idee, siccome quelle che formano l'es- senza di ogni ente, e sono alle cose cagione del loro essere e del loro di- venire, appariscono entità vere ed assolute esistendo di per se stesse sciolte da ogni forma sensibile e da ogni legame del tempo e dello spazio. Ma mentre il mondo delle idee costituisce esso solo il vero essere , perchè 1 essenza è di sua natura generale, immutabile, identica e sempre la stessa, il mondo delle cose sensibili per lo contrario costituisce il non-ente, perchè son mutabili, particolari, passeggere, insussistenti, e non esistono per sé ed in sé , ma solo in rapporto con alcunché di diverso e di superiore ad esse, onde non danno alcun fermo sapere, ma solo opinione, mentre le idee formano la scienza, e sono apprese dalla ragione sola e non dai sensi. A meglio comprendere la natura propria delle idee platoniche uopo é risguardarle per rapporto a Dio, alla mente umana ed ai reali finiti. Per Dio le idee sono gli archetipi eterni, su cui sguardando modellò e foggiò gli esseri tutti dell'universo: per la mente umana esse sono la fonte del sapere, la luce che illumina e rende intelligibili tutte le cose: per i reali finiti esse sono la fonte e radice della loro entità e sussistenza, il prin- cipio e la causa per cui ogni individuo è quello che è e diventa quel che diventa. Quindi le idee sono ad un tempo la fonte ed il principio dell' essere e del sapere , della scienza e dell' esistenza , del pensiero e della realtà : sono per noi la fonte ed il principio del sapere e della scienza, ossia l'intelligibilità e conoscibilità delle cose, perchè queste non si possono davvero e compiutamente apprendere se non nelle idee che ne rivelano l'essenza e ne sono gli archetipi; sono poi per le cose e per le realtà finite fonte e principio dell'essere, perchè ogni cosa sussiste per virtù dellidea o dell'essenza, disgiunta dalla quale cesserebbe issofatto di esistere, onde le idee sono la pienezza e la misura delle cose sensibili, e queste in tanto sussistono in quanto han rapporto colla loro verace misura. PER GIUSEPPE ALLIEVO. iBl Però vuoisi attentamente avvertire che le idee, sebbene considerate in rapporto col nostro pensiero , siano fonte di scienza e di verità , e ri- guardate in relazione colle cose siano fonte dell' essere e della realtà , pure esse hanno un esistenza loro propria ed oggettiva, e stanno di per sé anche indipendentemente da ogni loro rapporto sia collo spirito umano che le intuisce , e sia colle cose che in esse si radicano. Certo è che l'animo nostro cesserebbe di essere intelligente ove non fosse più illu- minato dal sole delle idee, sorgente di ogni intelligenza e di ogni scienza verace perchè non ve scienza che del necessario, dell'immutabile, del- l'assoluto; ma non perciò verrebbero meno le idee col cessare del nostro spirito, esistendo esse non nel tempo, né nello spazio, ma in se stesse, eterne ed immutabili, oggetto delf intelligenza divina. Del pari, le cose non possono sussistere senza le idee; ma queste sussistono di per sé di- stinte da quelle; Dio produsse sull'idea tutto luniverso, ma l'entità del- l'idea non dipende assolutamente da ciò che Dio produsse; e le idee non cesserebbero di essere quello che sono quand'anche verun oggetto fosse stato dalla potenza divina recato all'esistenza per via dell'idea. Quindi le idee essendo indipendenti dallo spirito umano che le contempla e le predica degli esseri, non sono mere concezioni di esse, né meri predi- cabili; ed essendo pure indipendenti dalle cose, che ne partecipano, non sono meri partecipabili. L'idea può bensì venire dallo spirito nostro pre- dicata di molte cose , e può essere partecipata da molti individui , ma non è qui tutta la sua essenza, giacché essa esiste anteriormente ed indi- pendentemente da ogni logica predicazione, come da ogni partecipazione ontologica. « Che se le cose partecipano delle idee , come avviene poi ed in qual modo si compie questa partecipazione? E se le idee esistono indipenden- temente dalle cose e fanno un tutto da sé , qual é poi il principio su- premo della loro unione e della loro esistenza oggettiva? Quanto alla par- tecipazione delle idee , uopo é confessare che la teorica di Platone su questo punto così grave e rilevante è assai incerta, oscura e mal ferma, come lo era la dottrina dei Pitagorici intorno al modo con cui le cose imitano i numeri e ne ritraggon l'essenza. II che veniva già avvertito da Aristotele, il quale cosi lasciò scritto nella sua Metafisica al capo sesto del Ubro primo. « I Pitagorici dicono, che gli enti sono per imitazione » de' numeri, Platone poi per partecipazione: muta il nome; ma qual cosa » poi sia per loro questa imitazione o partecipazione delle specie, indo- l32 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. » vinaio » ; e tale avvertenza Aristotele la ripete al libro ottavo della Metafisica (6. io45''. 8), e nel duodecimo (io. loyS"". 34). Il non aver detto alcunché di preciso e di fermo intorno a questa unione delle cose sensibili colle idee ed alla loro partecipazione è causa per cui non si può determinare per bene se nella teorica platonica le cose godano di una realtà loro propria e di un' esistenza distinta da quella delle idee , o non siano che mere apparenze. Poiché se le idee godono esse sole di una vera esistenza, ed adunano in sé tutta quant'è la realtà e le entità positive , sorge di per sé la questione , se gli esseri mondiali e le cose finite siano alcunché di concreto e di reale, oppure semplici e mere ap- parenze destituite di ogni valore ontologico ed entità positiva. Dal contesto della Dialettica platonica altri potrebbe inferirne in risposta alla mossa dimanda, che i finiti ed i sensibili essendo soggetti ad un fluire continuo per sé e disgiunti dall'idea, sarebbero un puro niente, e che quanto hanno in sé di realtà la derivano e la prendono ad imprestilo dalla partecipazione e dal commercio loro coll'idea. Ma di nuovo, in che sta, o di che guisa è siffatta partecipazione.' Platone lascia senza risposta questa grave dimanda. È dessa un'analogia , una rassomiglianza ? In tale supposto i sensibili non avrebbero se non un'esistenza analogica riposta nella loro somiglianza colle idee, essi perciò sarebbero simulacri, od ombre, o pallidi riflessi dell'essere, cioè delle idee, e non l'essere stesso. Tutto quello che la Critica può raccogliere dal concetto platonico intorno a questo punto è che le idee, uscendo per cosi dire dalla ragion suprema od intelligenza divina, in cui hanno un'esistenza eterna ed assoluta, di- scendono nel mondo della natura ; ma siccome non cessano inai di essere eterne ed assolute, perciò non possono albergar nelle cose se non per via di una cotal partecipazione, mercé cui quelle inesistono bensì in queste, non però a segno di rimanervi per intiero assorbite e confuse. Le cose mondiali adunque contengono bensì le idee, ma in uno stato soltanto di mescolanza impura e come a dire prigioni, in modo cioè limitato e finito, non già nella loro pura oggettività , né nella pienezza della loro virtìi ; eppei'ò le cose hanno tanto piìi di entità quanto maggiore e più piena è la loro partecipazione alle idee , ma non giungeranno mai ad attuarle perfettamente in se medesime e con esse identificarsi: l'ideale platonico non esiste in alcun luogo del mondo, la realtà si sforza di raggiungerlo, ma non vi riesce, s'informa ad esso, ma non lo contiene, si cerca nella natui'a, ma non si rinviene che in Dio. E non le cose soltanto, ma noi PER GIUSEPPE ALLIEVO. l33 stessi, spiriti intelligenti, partecipiamo soltanto delle idee, ma non le com- penetriamo integralmente; quindi il nostro sapere cresce e si perfeziona vieppiù man mano che va accostandosi all'eccellenza dei tipi intelligibili, ma non mai la scienza umana diventerà scienza divina ed assoluta, perchè la ragion nostra è impotente a capire nella sua finita natura I intelligibilità infinita delle idee nella stessa maniera che infinito è l'intervallo che di- vide la natura dall'ideale divino. Da questa parlecipabilità delle idee consegue, che ogni idea è un'unità contenente una moltiplicità. Platone pronuncia nel Sofista, che non si può pensare nell'ente né un'unità senza moltiplicità, né una moltiplicità esclusiva della unità; e nel Parmenide l'idea vien riconosciuta per un'unità con- tenente in sé la differenza , sostenendo così contro la scuola ionica e la eleatica l'unità e la moltiplicità dell'essere insieme congiunte. Ma come si conciliano nellidea questi due opposti caratteri? Le idee, abbiam detto, sono le essenze delle cose; ora ogni essenza, sebbene sia identica, e sempre la stessa, può però essere in diiferenti guise partecipata da una moltiplicità indefinita di individui: così, ad esempio, l'essenza dell'umanità è la stessa ed identica in tutti gli uomini , eppure molti sono gli individui che ne partecipano. Ogni idea adunque è una , in quanto che non vi ha che una sola e stessa essenza per ciascun genere di cose, ed è molteplice, avuto riguardo alla pluralità di individui , che essendo informati da una me- desima idea posseggono una comune essenza e formano perciò una me- desima specie. Quindi l'idea contenendo nell'unità di sua essenza la pluralità di tutti quegli individui , che la posseggono in comune , è un principio unico e distintivo ad un tempo , perchè li unisce tutti nella comunanza della specie, pur mentre li distingue da un'altra classe o moltitudine di individui improntati da un'altra idea e partecipanti di un'altra essenza. Se non che questi due caratteri dell'unità e della moltiplicità non sono soltanto proprii di ciascuna idea presa in separato dalle altre, ma si ri- scontrano del paro nelle idee prese nel loro insieme , ossia nel mondo degli intelligibili. Ciò si rileva dal seguente brano, che si legge nel quinto libro della Repubblica : « Ciascuna di esse idee è un uno particolare , e » ciascuno di questi uni appare molti, pigliando da per tutto molte ap- » parenze per via del comunicare cosi colle azioni e coi corpi, come gli » uni cogli altri » . Queste parole fan manifesto come le idee non comu- nichino soltanto colle cose mondiali che ne paitecipano , ma altresì con se stesse, e che mentre nel primo caso l'unità dell'idea si dirompe in l34 'L PROBLEMA METAFISICO ECC. una moltiplicità di individui nel mondo sensibile , nel secondo caso ogni idea è un'unità che rientra in un altra unità più estesa nel mondo intel- ligibile, di guisa che la moltiplicità ideale di questo è organata ad unità. E veramente se le idee sono le essenze stesse costitutive delle cose si dovranno perciò distinguere tante idee diverse quante sono le entità na- turali e le essenze specifiche delie cose ; vi ha quindi una moltiplicità ideale nel mondo intelligibile. Però le molteplici idee in esso contenute, per quantunque diverse ed inconfusibili, non sussistono isolate Xiè disgiunte, ma insieme collegate ad artnonica unità e strette da vincoli intimi ed in- dissolubili. Or quali sono questi rapporti che intercedono fra le idee, e qual è l'idea suprema in cui tutte si unificano siccome in loro principio comune? Siccome le idee hanno col nostro spirito e colle cose mondiali un certo rapporto che consiste nella loro partecipabilità collo spirito e colle cose, così esse mantengono Ira di loro certi determinati rapporti, che risiedono nella loro mutua partecipazione. Platone dimostra la necessità di questo rapporto ideale per la scienza da ciò, che se le idee non partecipassero le une delle altre ed insieme non si collegassero , tornerebbe impossibile ogni giudizio, ogni ragionamento, ogni scienza. Però questa vicendevole partecipazione delle idee fra di loro non vuol essere arbitraria né dis- ordinata per modo che un' idea qualsiasi possa collegarsi con qua- lunque altra scelta ad arbitrio, o diventare la sua contraria perdendo la propria distintiva natura ; poiché se tutte le idee potessero indilFerente- mente partecipare fra di loro fora impossibii cosa l'errore, che sta ap- punto nell illogico collegamento di più idee, come riescirebbe impossibile il vero se nessuna partecipazione avesse luogo fra di loro. Questa parte- cipazione ideale adunque vuol essere ordinata e conforme a leggi dialettiche sicché rimanga intatto il principio di contraddizione, giusta il quale nessuna idea s'identifica nel suo opposto , ma lo esclude , fuggendo essa stessa allapparire del suo contraddittorio. Platone, scegliendo qui ad esempio le due opposte idee di grande e di piccolo, concede bensì che questi due contrarii possano insieme riscontrarsi in un medesimo individuo, non però sotto lo stesso riguardo, dicendo che Simmia, non in quanto è Simmia, ma in quanto ha una grandezza, è più grande di Socrate, e più piccolo di Fedone (Fedone, p. 102 ); ma se una medesima idea può contenere il grande ed il piccolo , egli avverte altresì che il grande non diventa mai il piccolo, né reciprocamente questo può diventare quello. Ma se le PER GIUSEPPE ALLIEVO. [35 idee seconde partecipano fra di loro giusta un certo ordine e comunicano insieme le une si e le altre no, tutte poi partecipano dell'idea suprema, che è l'ente ossia l'Uno, e di esso si predicano in tempi diversi però e sotto diversi rispetti , perchè rimanga illeso il principio di contraddizione. Platone nel Sofista ed in altri dialoghi riduce tutte le idee seconde ed opposte a quattro sommi generi che sono lo stato, il moto, il medesimo od identico ed il diverso o l'altro, e dopo di avere al di sopra di questi generi inferiori posto siccome genere supremo l'ente, dimostra che tutti e quattro i generi accennati, a cui si riducono le molteplici idee seconde, si copulano coli ente e di esse partecipano, ma che 1 ente non si confonde né si identifica con veruno di essi. Quindi l'ente riunendo in sé i conlrarii è in istato e in molo, è il medesimo od identico ed il diverso o l'altro, ossia (chiamando non-enti questi quattro sommi generi) è ente e non-ente. Parrebbe qui a prima giunta che venga tolto di mezzo il principio di contraddizione e che Platone identificasse insieme le cose più disparate e contraddittorie, quali sono Tessere ed il non essere, ma le contraddi- zioni non sono che apparenti e le antinomie ricevono nella Dialettica platonica la loro soluzione. Poiché le idee seconde partecipano Ijensì dell'idea prima, ma non sono l'idea prima; ognuna di esse è perciò un ente, ma non è l'ente : l'idea prima è l'ente, le idee seconde sono altret- tante proprietà o determinazioni dell'ente, epperò esse partecipano del- l'ente, perchè altramente sarebbero un nulla, ma non sono tutto l'ente, perchè esso ha non solo una data proprietà o determinazione, ma infinite altre. Quindi fra l'ente ed i suoi quattro sommi generi detti il non-ente, fra l'idea prima e le idee seconde v'intercede un vincolo ideale cosi pro- fondo ed intimo, che l'ente non può sussistere senza il non-ente, ossia senza proprietà e determinazioni specifiche, come il non-ente, ossia le idee od essenze speciali delle cose non possono star sènza l'essere; ma tale vin- colo non è un vincolo d' identità per modo che l' ente sia il non-ente od una determinazione specifica sia essa sola tutto l'essere, sibbene un vincolo di partecipazione detta da Platone [j-ùz^ig per cui l'ente si co- pula col non-ente, cioè fon le diverse essenze o nature senza confondersi con esso; di qui la formola del sistema platonico sv vMi rtollà, luno ed i molti, ossia l'ente ed il non-ente; opposta ed a quella di Parmenide tuno senza i molti, ed a quella di Eraclito i molti senza Vano. Se adunque si pon mente che per Platone il non-ente non è già il puro nulla, ossia l'opposto dell'ente (c'vavrjov rcv òVrsj, come scrive nel Sofista), l36 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. ma solo t altro (hepov) ossia il diverso, e che i predicati diversi non com- petono all'ente se non sotto diversi rispetti ed in tempi distinti, si viene a rilevare che la Dialettica platonica ben lontana dall identificare, come fa Hegel, l'essere ed il nulla e dal negare il principio di contraddizione, come sentenziano alcuni hegeliani, lo vuole anzi mantenuto siccome legge suprema, senza della quale il mondo degli intelligibili si perderebbe in un caos universale. Così a ragion d'esempio, quando si dice che lo stato ed il moto partecipano entrambi dell'ente e con esso si copulano, non s'in- tende già di significare che l'essere si muova e non si muova nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto, ma che il moto è una partecipazione o determinazione dell'essere, perchè se noi fosse, sarebbe un nulla, ma che non è tutto l'essere, perchè questo in quanto possiede altre determina- zioni non ha moto, o non si muove. Del paro, l'essere è il medesimo od identico, e diverso od altro, ma sotto dilFerenti aspetti; è il medesimo, in quanto sia considerato nella sua astratta generalità, la quale è mai sempre la stessa in ogni genere di cose, è poi diverso, risguardato nelle varie determinazioni che esso assume, e nelle ditferenti proprietà che riveste'. In virtù di questo vincolo di partecipazione Ira le idee, esse si coor- dinano in gruppi determinati a seconda delle loro somiglianze e dissomi- glianze, e questi gruppi ideali sono alla loro volta collegati da rapporti di subordinazione e di sovrordinazione per guisa che le idee inferiori rien- trano nelle superiori che le contengono, e queste in altre più estese e così successivamente ascendendo la serie ideale fino a che si perviene ad un'idea assolutamente suprema, che contiene nella sua sfera comprensiva la totalità e ad un tempo l'accordo di tutte le altre. Or quest'idea su- prema, che in sé racchiude la verità di tutte le idee inferiori e per ciò stesso l'unità della scienza, è l'idea del bene, che per Platone non è più l'ente indeterminato ed astratto, che abbiamo detto copularsi col non-ente e ritrovarsi in tutti i concetti, in ogni genere ideale, ma l'essere piena- mente compiuto ed attuato, l'essere assoluto, ricco di tutte le perfezioni, contenendo perciò tutte le idee e quindi tutte le verità, tutte le essenze delle cose, giacché idea, verità ed essenza tornano ad un medesimo. Così Platone, collocando la conoscenza del bene al di sopra di ogni altra e conside- randola siccome la fonte della verità e della scienza, veniva con ciò a stringere in armonia il pensiero e l'azione, il vero ed il buono, la vita speculativa e la pratica ed a niegare ogni verità, ogni valore ontologico a quelle conoscenze che non venissero tradotte nel bene né riescissero PER GIUSEPPE ALLIEVO. iS^ ad esso siccome a loro termine e complemento. Quest'idea del bene poi è Tessere assoluto, ossia Dio stesso; poiché essa sta in cima degli intel- ligibili, è il principio dell'essere e della verità, riposa sopra di sé, è suf- ficiente a se stessa, é senza premesse, ma é anzi la premessa di tutte le altre idee, l'ultimo loro fondamento, la loro suprema unità, caratteri questi che non possono convenire se non all'essere assoluto, a Dio. Così le idee che hanno un'esistenza oggettiva ed indipendente dai reali finiti, risiedono in Dio, loro comune sostanza e si unificano tutte in modo occulto nella divina essenza : così Dio é principio e termine del mondo intelligibile, è l'unità suprema che non esclude, ma inchiude la moltiplicità delle esi- stenze, e contiene la totalità delle idee e per ciò stesso la pluralità di tutte le essenze delle cose (i). Ed eccoci sollevati su per la scala ascendente delle idee insino al con- cetto supremo dell'essere primitivo ed assoluto, la cui teorica è per così dire il compimento finale della teorica delle idee per modo che Dio sta al di sopra del mondo intelligibile, come le idee stanno al di sopra del mondo sensibile. È sentenza di Platone, che una cognizione compiuta ed assoluta dell'essere primitivo trascende la virtiì dell'intelligenza umana, e che r idea del Bene cioè Dio é sovrintelligibile perchè sta al di sopra dell'essere comunissimo ed indeterminato, al di sopra delle verità e delle idee, al di sopra della scienza stessa. Nel Sofista egli avverte, che due sono le cose difficili a conoscersi, il non-ente, cioè i finiti perchè tene- broso, e l'ente cioè Dio perchè colleccesso di luce inaccessibile, che lo circonda, soverchia ed acceca l'inferma pupilla del nostro occhio mentale. Di Dio non possiamo formarci se non un concetto analogico e razio- cinativo, dedotto dall'analogia che hanno le cose con essolui ed ottenuto per mezzo del discorrere che fa il nostro pensiero dall'una all'altra idea. Iddio in sé è un'essenza semplicissima ed una, superiore allessenza delle cose mondiali ; ma noi non possiamo apprenderlo in sé, nell unità semplicis- sima della sua essenza, sibbene nelle sue ragioni ed idee dirompendo la sua unità m una pluralità di attributi, di determinazioni, di idee, le quali prese nel loro insieme costituiscono l'essenza o sostanza divina. (Quindi il pensiero nostro impotente a cogliere Dio in sé, o nella sua essenza, ma solo nelle sue ragioni od idee, nell' elaborar la teorica del Primitivo è costretto a procedere per via di idee ed organandole insieme comporne (1) Onde venne dello a Platone, che < l'idea del Bene è la massima disciplina od istiluzione ». Serie II. Tom. XXX. i8 l38 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. il concelto dell'essere assoluto, ponendo così nell'essenza divina una plu- ralità, la quale non può essere che apparente e tutta relativa al nostro limitato modo di intendere. Posto che non si ha di Dio una scienza compiuta ed intuitiva, ma solo imperfetta, analogica e discorsiva, vediamo quale essa sia, giusta la Dia- lettica di Platone. Iddio non è l'essere astratto, indeterminato e vuoto di contenuto, ma l'idea del Bene, ossia l'essere infinitamente concreto, l'essere pienamente ed in sommo grado determinato, che contiene il colmo dell'entità, epperò tutte le idee, tutte le essenze delle cose per guisa che in lui esiste quanto si trova di buono e di positivo in tutti gli esseri ele- vato ad un grado infinito e scevro da ogni elemento di imperfezione, da ogni difetto. Siffatto concetto di Dio si rileva da un brano del Sofista, in cui si scrive: « E che ' Dimmi, per Giove, ci persuaderemo noi facilmente, » che appresso all'ente assoluto non sieno veramente il moto e la vita e » l'anima e la prudenza, e lui non vivere, non intendere, ma non avendo » una veneranda e santa mente starsene senza attività l » Del paro nel Fedro si legge che « il divino (cioè le idee costitutive della Divinità) è il » bello, il sapiente, il buono, e ciò che è qualche cosa di questo »; colle quali parole egli intendeva significare che all'essere primitivo convengono soltanto le determinazioni positive dell'essere contenenti una perfezione, quali sarebbero Tinteli igenza, l'attività, la sapienza, e non già le negative inchiudenti un difetto (Sofista p. 248 E , 249)- Il Dio di Platone adun- que è uno spirito dotato di bontà e di sapienza perfetta : egli è autore di tutte le idee, epperò intelligenza e verità infinita, ma la sua intelli- genza va congiunta con una forza ed attività egualmente infinita, che ha formati gli esseri dell'universo sugli esemplari eterni delle idee, e che veglia sul mondo con una provvidenza generale, che mantiene l'ordine del creato nella sua integrità e perfezione, e con una provvidenza particolare altresì, che vigila sopra ciascun individuo e si estende fino alla minima delle azioni e delle alfezioni dell'uomo. La sua essenza è la più assoluta e per- fetta realtà: quindi egli è eterno, immutabile, fonte di ogni bene, sede di ogni fehcità e pienamente beato di se medesimo, unico e scevro di ogni diletto. Platone dimostra poi l'esistenza di Dio per mezzo del prin- cipio di causalità muovendo dallordine e dall'armonia delluniverso e dalla esistenza delle cause seconde, le quali importano l'esistenza di una causa prima ed assoluta. Da questa teoria platonica del Primitivo si rileva, quanto vada lontana dal vero e sia aliena dal concetto platonico la sen- PER GIUSEPPE ALLIEVO. ' Sg lenza di alcuni critici della Germania, i quali appoggiati a quella sentenza di Platone che Dio è Tldea del Bene ne inferiscono, che per lui Tessere primitivo fosse nulla più che un concetto astratto e generale, un' idea della mente destituita di ogni realtà e sussistenza, come opinava il Kant, che ridusse la Divinità ad un mero ideale della ragione umana. Poiché se si avverte che in mente di Platone l' idea non è una mera conce- zione mentale, ma l'essenza stessa dell'essere, e che perciò Tidea del Bene viene ad identificarsi coll'essenza stessa del Bene tanto che Platone stesso {Rep. VI, p. 3o5 E) usa indifferentemente Bene e idea del Bene a si- gnificare la stessa cosa, cioè il Bene essenziale, e se si pon mente alle determinazioni che egli assegna all'essere primitivo chiamandolo intel- ligente e saggio, autore e conservatore dell'universo, determinazioni tutte che disconvengono affatto ad un concetto astratto, ad una mera idea mentale, rimane chiarita l'insussistenza e l'erroneità dell'opinione di cui discorriamo. Noi abbiamo incominciata l'esposizione della Dialettica platonica colla teorica delle idee, e siccome queste tengono per cosi dire un luogo in- termedio fra Dio, in cui hanno la loro sede, e le cose mondiali di cui sono gli esemplari, così cercando il principio unificatore delle idee siamo ascesi da esse insino alla teorica del Primitivo, che è l'idea prima, l'idea delle idee, o, come lo chiama Platone nel Timeo (p. 36 E ) « l'ottimo di » tutti gli intelligibili, che sempre sono». Ora vuole il processo logico del nostro ragionamento, che da Dio ridiscendiamo agli esseri finiti, dalla teorica del Pnmitivo alla teorica del derivato. Intorno alle nature esistenti Platone seguendo la scuola pitagorica insegna che esse sono organate di elementi opposti non però contraddittorii , sibbene contrarii e diversi in quella stessa guisa che i Pitagorici sentenziavano ogni cosa constare di contrarii contemperati ad unità. Nel Filebo Platone investigando la na- tura del derivato muove a se stesso la questione, quali siano le parti co- stitutive di ciascun ente e risponde che « ciascuna cosa di cui si dica che » sia, risulta di unità e di moltiplicità ed ha da natura in se medesima » fine ed infinità ( p. i6, C. ) ». Questi due elementi, finito ed infinito, che formano le cagioni costituenti ogni essere, vengono pure da Platone determinati con diversi termini, che sono il limite e l'illimitato, la forma od idea e la materia, l'identico ed il diverso, lo stesso e l'altro, lente ed il non-ente. Svolgiamo il concetto platonico di questi due opposti principii od elementi della natura finita. 1^0 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. In Ogni essere v' ha un elemento che permane immutabile e sempre lo stesso, e v'ha un altro elemento che scorre e muta continuamente; l'ele- mento immutabile è l'essenza stessa di un essere, per la quale esso è quel che è; quest'elemento o principio ontologico è quel che Platone denomina il finito, l'unità perchè è in sé determinato, l'idea o lorma, 1 identico, o lo stesso , l'ente : l' altro elemento poi, che mutando continuamente non ha per se stesso né unità, né determinazione fissa, pari al diventar di Eraclito, vien denominato l'infinito (prendendo tal vocabolo come sino- nimo d'indefinito o di indeterminato; onde Platone lo definisce per ciò che è illimitatamente capace di aumento e di decremento e lo denotava ' altresì coi due caratteri il grande ed il piccolo), l'illimitato, la moltipli- cità, la materia, il diverso, l'altro, il non-ente; e questi due opposti prin- cipe costituenti la natura degli esseri non sono arbitrarii nella Dialettica platonica, ma corrispondono alle due forme di cognizione che abbiamo chiamato opinione e scienza, poiché l'elemento mutabile delle cose, cioè l'infinito, o moltiplicità , o materia, o non-ente è oggetto dell'opinione, mentre l' elemento opposto è oggetto della scienza sola. Neil' esposizione della teorica delle idee noi abbiamo già riscontrati i due caratteri di unità e di pluralità, e questi stessi caratteri qui li riscontriamo tradotti dal mondo ideale al mondo della natura. Come o^ni idea, così ogni cosa è una e molteplice: essa contiene una pluralità avuto riguardo ai molti caratteri che la determinano, e possiede ad un tempo unità, perchè que' caratteri formano un tutto e costituiscono una cosa sola; però la pluralità, che riscontrasi in ciascun essere , avverte Platone che non è infinita poiché il numero di caratteri, che esso possiede, è determinabile, mentre è in- determinabile il numero di quelli, che esso esclude, e per ciò appunto Platone dice essere in ogni cosa l'elemento detto infinito, o più propria- mente indefinito perchè essa è illimitatamente capace di aumento o di decre- mento in quanto che non possiede tutti i caratteri e le determinazioni possibili. Da tutto ciò si rileva, come Platone insegnando coi Pitagorici che ogni cosa consta di contrarii non intendeva per nulla di distruggere il prin- cipio di contraddizione e di stabilire la contraddizione stessa siccome la legge suprema e l'essenza dell essere, poiché i principii opposti, di cui vuole costituite tutte le nature esistenti, non sono già contraddittori! cioè tali che si neghino e si distruggano mutuamente, ma solo contrarii o di- versi, che possono insieme sussistere e conciliarsi. Gli è vero che egli pronuncia ogni cosa constare di ente e di non-ente; PER GIUSEPPE ALLIEVO. ì^l ma questi due termini che presi quali suonano parrebbero contraddittorii, non sono tali nel senso platonico, poiché egli stesso ci avverte nel Sofista che quando egli dice non-ente, non intende la negazione dell'ente, ossia il puro nulla, ma V altro, il dk'erso] e che perciò esso non cessa di essere un ente sotto un altro risguardamento. Quante cose, a ragion d esempio, sono neir uomo, che pur son diverse od altre dall' uomo , ossia sono un non-uomo, od un non-ente per rispetto all'uomo! Poiché l'uomo non è la sua animalità solamente, né la sua razionalità disgiunta dallanimalità, né la sua memoria, né il suo istinto ; eppure tutte queste cose, che sono un non-ente per rispetto all'uomo, sono un ente considerata ciascuna cosa in se stessa, son ciò che sono, poiché non sono di sicuro un mero nulla, quand'anche veruna di esse separatamente presa non sia 1 uomo. Il perché questi due principii opposti di cui discorriamo, essendo sibbene diversi e contrarii, non |)erò contraddittorii, vanno a copularsi insieme coelemen- tando la natura di ogni essere siffattamente che l'elemento variabile, che trovasi in ciascuna cosa, non può sussistere di per sé disgiunto dall' ele- mento invariabile che è l'essenza immobile ed eterna, senza della quale ogni natura diventa un incognito nell ordine del pensiero, un assurdo nel giro della realtà essendoché abbisogna dell'essenza ossia dell idea vuoi per essere conosciuta, vuoi per esistere. Però questi due opposti principii co- stitutivi dell'ente, sebbene vengano a copularsi insieme nella natura degli esseri, non si confondono mai insieme né s' identificano, ma sintetizzano armonizzando fra di loro di guisa che l' idea ossia l' essenza serba mai sempre la propria sua natura distinta da quella del fenomeno, ed il feno- meno non mai potrà trascendere la bassa sua sfera e diventare idea. Questo vincolo, per cui l'ente ed il non-ente, l'idea o forma e la materia, l'es- senza ed il fenomeno si copulano insieme ad armonia senza punto con- fondersi, viene da Platone denominato partecipazione, ossia metessi, ma di che guisa sia siffatta partecipazione noi spiega, contento di averla in- dicata ed invitando il pensatore a studiarla nel fatto della natura. A compiere la teorica platonica del derivato rimane che lo si contempli ancora ne' suoi rapporti col Primitivo, i quali, come abbiamo piiì volte avvertito, sono di origine, di natura e di fine. Or, quale rapporto di ori- gine intercede secondo Platone fra il derivato ed il Primitivo, e come cercò egli di spiegare la formazione del mondo? Platone ammette tre fattori dell'esistenza, e sono le idee, tipi eterni, immutabili, increati delle cose; Dio, forza, intelligenza, architetto del mondo, regolatore dei suoi movi- 'i'< IL PROBLEMA METAFISICO ECC. 142 menti; la materia, eterna pur essa ed increata: di questi tre fattori, il primo interviene come causa esemplare, il secondo come causa efficiente, il terzo come causa materiale. Qual fosse il concetto platonico di Dio e delle idee , l'abbiamo veduto ; ma che cosa era la materia nella teorica di Platone, ed in che modo concorse insieme coll'idea e con Dio ad ori- ginare il mondo;' La materia platonica è qualche cosa di meramente in- determinato, di indefinito e di illimitato, scevro affatto di proprietà, di figura e di forma , suscettivo però di vestire tutte le forme , e che per ciò stesso non ne debbe avere veruna, che in tal caso male rappresen- terebbe tutte le altre forme: essa contiene perciò tutte cose sensibili nella loro possibilità , e sotto questo riguardo di contenente universale viene altresì da Platone designata siccome il vuoto , ossia lo spazio vacuo in cui si compie la generazione delle cose. Essa è dotata di un movimento continuo, ma disordinato, cieco e fatale: essa esiste di perse distinta ed indipendente da Dio, eterna anch essa, necessaria ed increata. Però questa materia priva di ogni energia sua propria ed intrinseca attività, principio meramente passivo ed inerte, non avrebbe potuto per propria sua virtià uscire dal suo stato di mera indeterminazione, vestire proprietà e determinazioni e formar l'universo. Era necessario un altro principit» attivo, una causa efficiente, che operando su quest'informe materia e lavorandola, vi avesse fatto emergere I ordine e l'armonia in mezzo a questo caos confuso di elementi ed in seno a questo movimento cieco, disordinalo e fatale. Questo principio attivo, questa causa efficiente delluniverso è Dio. Ma prima di accingersi alla formazione degli esseri Iddio ha dovuto foggiarsi in mente il modello, e come a dire il disegno del suo lavoro; questo modello pre- sente al pensiero dell artefice supremo son le idee, archetipi eterni, su cui Dio plasmò la materia , ed a cui conformò la sua azione formatrice dell'universo; e siccome la materia tentava resistere allintenzione dell'arte divina e mal rispondeva ai disegni di Dio, di qui Platone derivava l'ori- gine del male che si riscontra noli' universo , il quale , emergendo dalla cooperazione dell' intelligenza , che è Dio , e della necessità , che è la materia, accoppia perciò in sé 1 due contrarli, bene e male. Tre cause adunque o principii concorsero alla formazione dell'universo, cioè Dio , la materia e le idee ; Dio come causa elliciente o principio attivo, la materia come causa sostanziale o principio passivo, le idee come causa esemplare o principio ideale contenente tutti i tipi che si riferiscono al mondo formati dalla mente divina per produr l'universo. L idea e la PER GIUSEPPE Allievo. i43 materia sono i due contrarii principi! che Iddio contempcrò insieme per elementare la natura delle cose : principii già riscontrati nella teorica del derivato siccome componenti gli esseri mondiali : l'idea è il principio di ciò che vi ha di immutabile, di necessario e di perfetto nelle cose, ossia l'essenza ; la materia per contro è il principio di ciò che vi ha in esse di mutabile, di contingente e di imperfetto, ossia il fenomeno; l'idea è l'unità, la forma, l'ente; la materia è la moltiplicilà, il non-ente. Passando ora dal rapporto di origine a quello di natura o d'essenza tra il Primitivo ed il derivato, si chiede se nella Metafisica di Platone Iddio ed il creato abbiano una comune essenza o no. Siccome le cose finite intanto hanno una entità in quanto partecipano delle idee . e la loro natura emerge dal contemperamento di due contrarii principii , che sono lidea. da cui attingono la loro immutabii essenza, eia materia, che dà ad esse un'esistenza mutabile, fenomenica e passeggiera, così a voler risolvere la proposta questione occorrerebbe divisare per bene in che guisa le cose partecipano delle idee, e determinare la natura od essenza propria della materia prima. Ma avendo Platone lasciati nell' incertezza questi due gravissimi punti, rimane a conchiuderne che lasciò insoluta la questione risguardante il rapporto di natura od essenza tra Dio ed il finito. Da ultimo , quanto al rapporto di fine tra il Primitivo ed il deri- vato, Platone insegna che la causa finale o lo scopo che ha determinato Iddio ad ordinar la materia prima e formarne l'universo è la bontà. È proprio del bene il diffondersi e comunicare se stesso a tutto 1' essere ; e Dio, che è il Bene assoluto ed ha mai sempre presente al pensiero r idea del Bene , sentesi determinato ad attuarla fuori di sé . lavorando tutte cose sul modello della medesima, e quindi operando sempre dietro il meglio. Tutte cose adunque tendono al bene come a loro fine supremo, perchè tutte originaron dal Bene, come da loro causa efficiente. Critica del Platonismo. Occorre anzi tutto che noi volgiamo uno sguardo retrospettivo all'espo- sizione dell'Ontologia Platonica, adunandola entro a pochi concetti fon- damentali e comprensivi. Due ordini si danno di cognizioni, l'opinione e la scienza : le cognizioni del primo ordine si ottengono per mezzo delle facoltà percettive, hanno per oggetto il mondo delle cose sensibili, man- cano di immutabilità e di certezza apprendendo soltanto ciò che è, non j.ii IL PROBLEMA METAFISICO ECC. ciò che deblj' essere ; le cognizioni del secondo ordine sono un prodotto delle facoltà razionali, hanno per oggetto il mondo delle cose sovrasen- sibili , ossia delle idee , sono immutabili e certe apprendendo ciò che debb' essere, ossia il necessario. L'opinione e la scienza costituiscono perciò due mondi opposti e profondamente differenti, essendoché nell'uno si con- tengono termini contingenti, relativi e mutabili, nell'altro termini neces- sarii, assoluti ed immutabili. Lo spirito umano cercando 1' universale ed il necessario per via del particolare e del contingente , e riferendo ciò che è mutabile e sensibile all'immutabile ed al sovrasensibile, gli individui ai loro esemplari, si solleva per via di un procedere dialettico dalle cose alle idee, dall'opinione alla scienza, ossia alla Dialettica che è la scienza delle idee. Le idee sono le essenze delle cose : per rapporto a Dio sono gli stessi archetipi su cui formò l'universo; per l'umano pensiero sono lume intellettivo e principio del sapere ; per le cose mondiali sono fonte del loro essere e della loro realtà. Le idee hanno un'esistenza loro propria ed oggettiva, indipendente dal pensiero umano e dalle cose mondiali, esi- stendo di per sé sciolte da qualunque condizione sensibile. Tra le idee e le cose v'ha un vincolo di partecipazione, per cui queste sussistono in virtù e per forza di quelle e ne attingono l'entità ed il valore ontologico che posseggono, senza però contenerle appieno ed identificarvisi compiu- tamente. Ogni idea è una e molteplice, perchè non v'ha per ciascun genere di individui che un'unica essenza che tutti li rappresenta e che inchiude i caratteri universali e costanti di tutti gh individui contenuti in un sol genere. Quest'unità però e questa moltiplicità si riscontrano non soltanto in ciascuna idea presa in separato dalle altre, ma in tutte prese nel loro insieme, ossia nel mondo intelligibile: le idee perciò partecipano fra di loro ed insieme si collegano giusta la legge suprema del principio di con- traddizione; vha un'idea prima, di cui tutte partecipano le idee seconde, ed è quella dell'ente comunissimo, indeterminato; v'ha un'idea suprema, in cui si collegano ad unità e si comprendono tutte le idee seconde, ed è quella del Bene , ossia di Dio , che é l'essere pienamente concreto e determinato, contenente in sé tutte le perfezioni, tutte le idee, tutte le essenze delle cose. Quanto agli esseri finiti, la loro natura consta di due principii od elementi opposti, l'idea o forma e la materia, l'ente ed il non ente, l unità e la pluralità. Alla formazione ed origine dell'universo concorsero tre principii. Dio, le idee e la materia: Dio originò gli esseri lavorando e delerminando la materia sul modello delle idee. Iddio, come PER GIUSEPPE ALLIEVO. l45 sommo bene, è non solo causa eQicienle, ma altresì causa finale e scopo di tutte le esistenze. Volgendo lo sguardo sull'insieme della Metafisica di Platone la Critica non può a meno di riconoscere la gran potenza di mente di cui si trova improntata ed ammirare tal genio, le cui sublimi e profonde speculazioni sorpassarono di tanto quelle di tutti i filosofi precedenti, e vennero svolte e riprodotte sotto forme diverse in tutta la storia del pensiero filosofico dal secolo di l^latone e di Aristotele infino al nostro. Ma la Critica, pur mentre ammira il genio , non può chiamarsi paga del tutto e satisfatta della teorica. Incomincieremo da un'osservazione intorno all'indole ed alla natura della Dialettica di Platone. Alcuni critici sono d'avviso, che avendo essa ad oggetto le idee, e che queste essendo conmne principio dell essere e del pensiero, dell'esistenza e della verità, egli avesse con ciò inteso di fare colla sua Dialettica una scienza sola della Logica, scienza del pensiero e della verità, e della Metafisica, scienza dell'essere e dell'esistenza, come fece a' tempi nostri Giorgio Hegel , che diede la sua Logica come una Metafisica, fondandola sull'identità dell essere e del pensiero. Ma se per Logica intendési coli universale de filosofi la scienza delle leggi del pen- siero soggettivo ed umano, la sentenza di cui discorriamo non può soste- nersi se non a condizione che Platone identificasse il pensiero umano soggettivo colle essenze oggettive delle cose ; lo che ripugna apertamente allo spirito ed al contesto della sua dottrina, in cui si pronuncia che le idee hanno un'esistenza oggettiva loro propria , distinta atfatto ed indi- pendente dal pensiero umano che le intuisce; epperò la Dialettica, quale la intende Platone, è nulla più che una Metafisica distinta onninamente dalla Logica, poiché le idee vengono da essa studiate oggettivamente come essenze costitutive delle cose, non già soggettivamente come forme e leggi del pensiero umano. Gli è vero, che egli denota altresì la Dialettica siccome la scienza di discorrere giusta l'ordine logico delle idee , di connetterle e distinguerle le une dalle altre secondochè richiede la loro gerarchia, ma con ciò in- tende solo di significare 1 ordine oggettivo ed ontologico che hanno fra di loro le essenze delle cose indipendentemente dalla loro forma soggettiva e dal processo metodico che segue il pensiero nell'apprenderle. E quando pure si concedesse che nella Dialettica platonica insieme colla teorica spiegativa degli esseri si mescolino tal fiata elementi logici risguardanti il movimento dialettico del pensiero umano nella cognizione della realtà Serie li. Tom. XXX. 19 l46 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. universale, ciò proverebbe soltanto che Platone non sempre distinse le idee considerate come rappresentative delle essenze delle cose ed oggetto della Metafisica, dalle idee risguardate siccome principii logici e mezzi di ragionare, oggetto della Logica; ma non se ne potrebbe inferire, che egU intendesse di confondere in una queste due scienze , cosa apertamente disdetta dalla fondamental ditFerenza eh" ei fa tra le idee ed il nostro pensiero. Facendoci ora più da presso alla critica della teorica delle idee , a me pare che essa si avvolga per entro a difficoltà così gravi ed inestri- cabili da non reggere alla forza di una rigida e severa analisi. A voler procedere con ordine, noi faremo soggetto delle nostre riflessioni questi quattro pronunziati della Dialettica platonica: i° Le idee considerate per rapporto al pensiero umano sono fonte di verità e di tutto il nostro sapere: 2" le idee risguardate per rispetto agh esseri finiti sono fonte della loro realtà ed esistenza : 3° le idee hanno un' esistenza oggettiva ed assoluta indipendentemente dal pensiero umano e dalle cose create: 4" le idee si radicano siccome in loro comune principio e sostanza nell' idea suprema del Bene , ossia in Dio. Cominciamo dalla prima di queste proposizioni. 1° Si pronuncia che le idee sono per noi rinteHigibililà delle cose, la fonte di verità, il principio unico di tutto lo scibile. Ora io osservo che la scienza, a voler essere verace, debb'essere uno specchio fedele ed una schietta manifestazione della realtà conoscibile per modo che questa vi si riveli al pensiero tutta quant'è e genuinamente qiial è in se stessa, non alterata né monca. Ma le idee platoniche non hanno del sicuro questi caratteri necessarii perchè possano pretendere al titolo di principio della verità e della scienza, poiché a tal uopo esse dovrebbero farci conoscere gli esseri finiti quali sono in se stessi , cioè come finiti. Ora gli esseri finiti risguardati non nella loro possibilità , ma nella loro effettuai sus- sistenza, godono di una realtà loro propria, di un'essenza determinata che pur mentre si conserva costante ed inalterabile, è tuttavia vestita di ca- ratteri particolari e mutevoli prendendo forme diverse ed in differenti guise atteggiandosi, e quasi configurandosi ne' differenti individui che la partecipano; ond'è che ne' singoli esseri finiti, quali effettualmente sussi- stono in natura, l'essenza che li informa e li sostenta non entra sola a costituirne la reale natura , ma commista insieme con molti altri elementi d'imperfezione, quali sono la mutabilità, la successione, la composizione, la contingenza e temporaneità ed altri senza numero. Ora nell'idea pia- PER GIUSEPPE ALLIEVO. I 47 tonica nulla si contiene di tutto questo : le idee non hanno la realtà e l'esistenza propria delle cose sensibili, perchè sono la semplice e pura possibilità delle cose scevra dell'atto di sussistenza; esse non hanno del paro in sé né mutabilità, né successione, né moto, né composizione, né contingenza o temporaneità , perché sono le essenze pure delle cose , epperò semplici, immutabili, eterne, sciolte da ogni condizione del tempo e dello spazio. Dunque , conchiudo io , esse non ci fanno conoscere gli esseri finiti schiettamente per quel che sono in se stessi e quali sussistono in natura , non nella loro realtà e sussistenza , ma nella loro pura pos- sibilità; non nei loro caratteri proprii, individui e distintivi, ma nelle loro generiche determinazioni ; non nei loro elenienli mutabili , che pur sono necessarii alia natura essenzialmente mutabile, ma nel loro elemento im- mutabile, ossia nella loro essenza. Or chi dirà che le idee siano per noi la schietta e verace intelligibilità delle cose, la fonte del sapere e della verità? In breve, le realtà finite hanno essenza ed esistenza, ossia un elemento noumenico che permane imnuitabile, ed un elemento fenomenico, che di continuo si trasforma , necessarii entrambi a costituire l' integrità della natura finita, che consta di ente e di non ente. Le idee non ci rivelano che l'essenza dei finiti spoglia de' caratteri accidentali che la individuano, ossia il noumeno in sé e per sé : l'esistenza ed il fenomeno son lasciati intieramente nei bujo, anzi dichiarati inconoscibili , essendo pronunziato fondamentale della Dialettica platonica che non si dà scienza se non del necessario, dell'immutabile, dell'assoluto, ossia dell'essenza, e che il fe- nomeno , il sensibile , 1' individuo non è oggetto di scienza , ma solo di opinione, che è un conoscere incerto, oscuro, insussistente. L'universo è un gran sistema di esseri dotati ciascuno di un'individualità sua propria e di un' esistenza incomunicabile , e rivestili non di caratteri comuni soltanto ed universali , sibbene di proprii altresì e di particolari : la Dia- lettica platonica altro non vede, altro non apprende in tutta l'universalità della natura se non essenze comuni ed universali, non quali stanno in- dividuate e partecipate da' singoli esseri, ma nella loro nudità spoglia di ogni reale ed effettuale sussistenza , di ogni individua determinazione : essa non è dunque la scienza della natura e della realtà finita quale sussiste in sé, ma nella sua possibilità ed idealità astratta. Per tal modo il Platonismo , rinchiudendo ogni cognizione nel solo mondo ideale , e dalle sole idee derivando ogni luce conoscitiva , viene con ciò a negare ogni certa e diretta notizia degli esseri finiti e delle |/|8 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. reali esistenze , ruinando eoa ciò in un pretto idealismo , in cui non si conoscono più le cose, ma le idee; non più si apprende la realtà finita quale si sviluppa e vive innovando continuamente se stessa, ma la pos- sibilità ideale immutabile e necessaria; sentenza questa in gran parte identica con quell'altra che idibiamo altrove confutata, m cui si sostiene non darsi altra scienza se non quella deU'assoluto e dell infinito, negando ogni valore alle scienze seconde che si travagliano intorno agli esseri finiti e con- tingenti, e dichiarandoli inconoscibili. Aggiungasi che questa dottrina ed ogni altra consimile, in cui si pongono le idee come intelligibilità delle cose e rappresentative delle medesime , quasi luce interposta fra il pen- siero e gli oggetti conoscibili, appresi non più in se slessi e direttamente, ma nei loro tipi, va incontro al gravissimo dubbio se l'idea sia specchio fedele e verace delle cose conosciute , e se queste rispondano perfetta- mente a quella, dubbio che riesce impossibile a dissipare, perchè farebbe mestieri a tal uopo instituire tra l'idea e la cosa un raffronto che non si potrà mai compire, perchè la cosa in sé, disgiunta dallidea, vien dichia- rata inconoscibile. Invano si opporrà che lidealismo platonico è un vero realismo , perchè le idee sono vere realtà , anzi i soli esseri che godano di un'esistenza stabile ed oggettiva; ciò sarebbe uno scambiar la questione e travisarne il significato ; poiché V esistenza che si attribuisce alle idee platoniche non è la realtà e la sussistenza quale compete agli esseri finiti, poiché nelle idee l'esistenza è la loro stessa essenza, mentre nelle cose l'una è distinta dall'altra; le idee si dicono reali considerate come deter- minazioni ed attributi di Dio; le cose diconsi reali perchè la loro essenza è trasformata in sostanza accoppiando in sé l'atto della sussistenza. Abbiamo osservato, che le idee platoniche non contengono la piena ed esatta intelligibilità delle cose perchè rivelano delle medesime la possibi- lità e non la realtà, l'essenza e non l'esistenza, il carattere costante e permanente, non il fenomeno mutevole e transeunte. A ribattere questa gravissima difficoltà potrebbe taluno avvertire, che la mutabilità, la suc- cessione, la contingenza, la temporaneità, la corporeità, la composizione e simili altri elementi d'imperfezione comuni alle cose finite si contengono pure nell'idea, però non quali sussistono in natura, ma sciolte da ogni difetto ed in modo sopraeminente e perfettissimo e vengono perciò dall'idea stessa ri- velate e rappresentate per una tal quale correspettività ed analogia. Questa os.servazione non regge, né vale a salvare la teorica delle idee dalla difficoltà che le abbiam mosso ; poiché rimarrebbe pur sempre vero ed incontro- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 49 vertibile, die le idee non ci rivelerebbero le qualità ed i caratteri suc- cennati quali stanno nella natura delle cose, ma alterati e scevri della lor finitudine ; onde ne verrebbe pur sempre indeclinabile la conseguenza, che la scienza ideale non è la schietta e fedele intelligibilità della natura finita. Oltreché il pronunciare che le condizioni finite de' contingenti si conten- gono nell'idea in modo però sopreminente, infinito ed assoluto, è tal sen- tenza che si riduce ad una mera tautologia, anzi, ad un assurdo, perchè ciò varrebbe quanto dire che le cose ritrovano nelle idee una mutabilità immutabile, una successione permanente, una contingenza necessaria, una temporaneità eterna, una corporeità spirituale , una composizione sempli- cissima e va discorrendo; espressioni tutte che finiscono in un non senso. Questo primo appunto, mosso alla Dialettica platonica intorno ali intel- ligibilità delle idee poste come principio di tutto il sapere, ne trae con sé un secondo intimamente connesso col primo, che risguarda il rapporto tra i due ordini di cognizione, l'opinione e la scienza, e tra le facoltà corrispondenti ad essi due ordini, la percezione sensitiva e la ragione speculativa. Platone fa iniziare il processo dialettico del pensiero dalla percezione degli oggetti sensibili e lo solleva man mano infino all' intui- zione degli intelligibili, oggetto della ragione speculativa, per modo che il fenomeno e 1 idea segnano i due punti estremi del discernimento in- tellettuale. Certo è che il metodo razionale consta di due momenti, ascen- sivo l'uno in cui dal sensibile e dal contingente si assorge al soprasensibile ed al necessario, discensivo l'altro, in cui tenendosi il processo opposto si spiega il contingente per via del necessario; onde il vero metodo debbe accoppiare in sé l'osservazione e la speculazione, la percezione sensibile e la ragione pura in modo che armonizzino insieme e si compiano a vi- cenda, verità questa, che venne veduta e significata da Dante: Cosi parlar conviensi al vostro ingegno; Perocché solo da sensato apprende Ciò, che fa poscia d'intelletto degno. Par., C. IT, V. 40 Bene avvisò Platone facendo precedere nel lavoro scientifico fosserva- zione sensibile alla ragion pura, l'esperienza alla speculazione, ma egli dis- conobbe dappoi il concorso e l' importanza della facoltà sensitiva nella costruzion del sapere negandole ogni valore scientifico e ponendo tra essa e la ragione speculativa un mero vincolo di successione esterna, anziché un legame di intima continuità e mutua comunicazione. Queste due facoltà j5o il problema metafisico ecc. conoscitive deggiono insieme concorrere e compiersi scambievolmente nella produzione della scienza per modo che l'osservazione ammannisca i mate- riali del sapere alla speculazione e questa, lavorandovi sopra, li traduca in elementi razionali organandoli a sistema, sicché il contenuto della ragione speculativa sia sostanzialmente quello slesso dell'osservazione e del pen- sare comune, ma svolto in forma scientifica e recato a compimento. Pla- tone per lo contrario, anziché armonizzare insieme la percezione de' sensibili coir intuizione speculativa degl'intelligibili e farle camminar di conserva, le segregò e disgiunse luna dall'altra: egli interpose, come a dire, un muro di separazione tra il fenomeno e lidea, tra i sensibili e gl'intelli- gibili, tra l'opinione e la scienza : l'intelligenza umana viene bipartita in due facoltà conoscitive incomunicabili senza vincolo di inlima continuità fra di loro . all'opinione succede sibbene la scienza, ma questi due ordini di cognizioni non sono siffattamente connessi fra di loro che il secondo sia un logico sviluppamento del primo; anzi constano di elementi essen- zialmente differenti a segno che l' uno non ha che fare col secondo ; e così lo spirito umano non procede dialetticamente dal primo al secondo ordine di cognizioni svolgendo in questo i germi ideali, contenuti in quello, ma salta di pie pari dallopinione alla scienza, dal fenomeno alfidea, tanto che pervenuto al secondo periodo intellettuale debbe radere dalla sua mente tutte le notizie apprese nel primo periodo die è l'opinione e ri- costrurre da capo ledifizio del sapere con nuovi elementi attinti a yo/wri dalla ragion pura, differenti all'intuito da quelli della percezione e dell'os- servazione. Di tal modo la facoltà osservativa e sperimentale non è piìi avuta in conto di valido ed efficace strumento del sapere, ma riesce come a dire un fuor d'opera, o tult'al piiì una mera occasione dell'idea, uno sti- molo estrinseco provocatore della speculazione: il corpo viene anzi consi- derato non come sussidio, ma come impaccio ai voli dell'anima verso la sublime regione delle idee, anzi allora soltanto la ragione sarà fatta ca- pace della scienza e della intuizione delle idee quando sarà giunta a svin- colarsi da ogni dato empirico e sottrarsi al dominio dell' opinione per contemplare un nuovo ordine di cose. Il difetto, che stiamo qui appuntando alla teorica della cognizione pro- fessata da Platone, apparisce vie meglio ancora se poniamo mente non pili al primo momento del processo intellettuale, in cui il pensiero ascende dal sensibile ai soprasensibile , ma al secondo momento, in cui discende dallidea al fatto, dalf ordine necessario allordine contingente. Giusta la PER GIUSEPPE ALLIEVO. l5l Dialettica platonica , necessario è l' ascendimento del pensiero dalla per- cezione degli oggetti sensibili alla visione speculativa degli intelligibili, atteso il necessario riferimento del fenomeno all'idea, delle cose individue ai loro eterni esemplari ; ma necessaria non è piiì la discesa del pensiero dall'idea al fatto, dall'intuizione dei tipi intelligibili alla percezione degli oggetti sensibili ed individuali, essendoché le idee hanno, in sentenza pla- tonica, un'esistenza assoluta in sé e per sé indipendentemente dalle cose, e l'intelligibile è in sé pieno e compiuto senza il sensibile. Se adunque dall'esistenza delle idee non deriva per logica necessità quella degli indi- vidui, per quale via potrà mai il pensiero umano far trapasso dal mondo della possibilità a quello della realtà, come potrà discendere dalla visione delle idee alla notizia della natura ? E chi lo assicura che le essenze ideali ed eterne hanno presa un'etìèttual sussistenza nel tempo, e che le idee si sono tradotte in individualità vive e concrete ? Essa sola l'osservazione potrebbe giovare all'uopo; ma il suo sussidio vien meno affatto nella Dia- lettica platonica , che le diniega ogni valore scientifico facendola autrice soltanto dell'opinione, non cooperatrice della scienza insieme colla ragione speculativa. È adunque manifesto che l'umana ragione, impotente a va- licar 1 abisso che separa il mondo dei possibili da quel degli esseri, tro- vasi imprigionata entro ai cancelli dell'idealismo, costretta a morirvi assetata di realtà: poiché nel suo trapasso dal fatto all'idea, dall'opinione alla scienza le fu giuocoforza abbandonare la realtà finita e contingente per tener fiso Io sguardo nell' idealità , e da questa le riesce poi impossibile ridiscendere a quella, perchè l'idea sta da sé indipendentemente dagl' in- dividui. L'idealismo ossia la negazione della realtà contingente in ordine alla scienza è adunque indeclinabile corollario della Dialettica platonica, e l'idealismo fu appunto lo scoglio in cui ruppe il Malebranche colla sua celebre teorica della visione ideale di tutte cose in Dio: lo che vide il Gioberti e tentò di scansarne i difetti e compierne le lacune aggiungendo alla visione ideale di Dio il concetto dell' atto creativo , per cui le idee vengono tradotte dalla possibilità alla realtà e che serve così come di ponte di comunicazione, per cui lo spirito discende dal mondo ideale a quello della realtà. Platone isolò il mondo delle idee eterne da quello degli esseri contingenti, separando cosi la filosofia dallo studio della realtà finita. Insino a qui abbiamo comljattuto la teorica delle idee poste siccome intelligibilità delle cose e degli esseri mondiah. Ma la realtà universale, qual può cadere sotto l'umana apprensiva, non si restringe tutta nella l52 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. cerchia della natura creata, essendoché oltre dei reali finiti conoscibili vi ha pure una realtà infinita e divina. Or si domanda, se le idee pla- toniche, cui abbiamo vedute impotenti a darci una piena e schietta in- telligibilità delle cose mondiali, valgano a fornirci scienza verace dell'essere infinito e divino. Intorno a siffatta questione io muovo il seguente dilemma: fra le idee e l'essere divino da esse manifestato, o vi corre un rapporto di identità, od una relazione di mera somiglianza e di analogia. Nel primo supposto di una perfetta identità fra Dio e la sua manifestazione ideale non sono più le idee che si mtuiscano e ci manifestino Iddio, ma si ap- prende Dio in se stesso senza l'intermedio delle idee . aggiungasi questo, che se le idee si suppongono identiche con Dio slesso, non piìi varreb- bero a rivelarci le essenze delle cose mondiali, a meno che non si voglia identificare l'essenza del mondo con quella stessa di Dio. Nel secondo sup- posto di una mera somiglianza ed analogia fra le idee e Dio, siccome questa è suscettiva del piìi e del meno, e quella potrebbe essere falsata ed infedele, così occorrerebbe una terza idea, la quale ci assicurasse che le idee sono una schietta e verace somiglianza dell' essere divino, e che determinasse il grado di analogia fra quelle e questo e sciogliesse il nostro sapere dalla dubbiosità e dall'incertezza ; ora ciò varrebbe quanto ammet- tere alcunché di superiore e al mondo ideale ed a Dio stesso. 2° Procediamo alla disamina del secondo pronunciato della Dialettica pla- tonica, in cui si stabilisce che le idee risguardate per rapporto alle cose mondiali sono fonte del loro essere e di tutta la loro entità. E sentenza platonica, che gli esseri mondiali sussistano in virtù delle idee presenti in essi, sentenza riprodotta dal moderno Ideahsmo assoluto germanico, che fa le idee principii delle cose. Ma in che modo le idee sono prin- cipio e fonte degli esseri e delle cose? Forse, come il germe che si sviluppa in pianta comunicandole la propria sostanza .' O come la causa pone l'ef- fetto tacendolo esistere senza punto trasfondere in essola propria natura? Oppure, come l'esemplare riflette la propria immagine su 11' esemplato .' Platone a significare la derivazione delle cose dalle idee usa tal fiata il vocabolo di comunione (-Aotva-Aa) , tal altra quello di presenza (napov^ia.), più spesso il vocabolo partecipazione (^us'Ss^tg), sicché le cose intanto hanno un'entità in quanto le idee stanno in esse presenti, e con le idee comunicano e di esse partecipano. Ma di che guisa è questa partecipa- zione ' Platone noi dichiara e lascia così nell'oscurità una delle più ini- portanti proposizioni della sua teorica, che è ad un tempo uno dei più PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 53 gravi e capitali problemi di scienza ontologica, e che si affacciò sotto forme diverse al pensiero degli scolastici allora che cercarono se le essenze ideali e generiche ossia gli universali siano reali, e come vengano ad individuarsi ed a sussistere negli esseri singolari che ne partecipano. Pigliando adunque a discutere la sentenza platonica, giusta la quale gli esseri della natura derivano ogni loro entità dal partecipare che fanno delle idee, la si trova avvolta in serie ed inestricabili difficoltà. E veramente affinchè le idee siano fonte e principio di tutte le cose, farebbe mestieri che degli elementi, che compongono la natura integrale delle cose, non ve ne fosse pur uno che non rinvenisse la sua ragione d'essere ed il suo principio nelle idee. Ora se noi poniamo niente alla natura costitutiva degli esseri mondiali, troviamo che in fondo a ciascuno di essi giace qual- che cosa che permane costante ed immutabile ed ha caratteri universali per cui si riscontra altresì in altri esseri congeneri e viene da essi par- tecipato in comune; ma troviamo altresì che ciascun essere, oltre di questo elemento perenne, immutabile e comune, racchiude altresì qualche cosa di proprio, di incomunicabile, che gli conferisce uno stampo di indivi- dualità per cui la sua esistenza si mantiene distinta ed inconfusibUe con quella degli altri individui; vai quanto dire che l'entità di ciascun essere consta di due elementi, il comune ed il proprio, l'universale ed il parti- colare, il generale e l'individuale. A cagion d esempio, in fondo a ciascun essere umano sta un elemento costante , immutabile , comune a tutti gli uomini ed è l'essenza costitutiva delf umanità; ma quest'essenza prende ne' diversi individui umani atteggiamenti e forme diverse, di guisa che Vio di ciascun individuo possiede un'esistenza tutta sua propria, incomunica- bile, inconfusibile. Ciò posto, l'idea contiene essa in sé il principio e la ragion d'essere di entrambi questi due elementi, dal cui insieme emerge, abbiam detto, l'entità degli esseri sussistenti ' No, certamente, poiché che cosa è mai l'idea platonica, se non l'essenza delle cose, ossia un'entità immutabile, costante, universale epperò spoglia di ogni fórma restrittiva, di ogni determinazione individuale e di tutte quelle diverse contingenze, che si riscontrano siccome necessarie ne' singoli esseri della natura, e che per lo contrario sono ailiitto aliene ed estranee all'indole ed alla natura indefinita dell'idea? Adunque non tutta per intiero l'entità delle cose mon- diali, ma solo una parie avrebbe suo principio e sua origine dalle idee, con cui esse comunicano ; poiché se le idee partecipano agli esseri finiti ciò che hanno di costante, di comune e di universale, vale a dire 1 es- Serie II. Tom. XXX 20 r54 'L PROBLEMA. METAFISICO ECC. senza, non possono del sicuro comunicare ai medesimi il proprio, il par- ticolare, l'individuale, ossia la forma singolare e contingente dell'essenza medesima, perchè nenio dat quod non habet. Ancora, l'individualità, che noi abbiamo detto riscontrarsi in ciascun essere insieme con l'essenza, ha una realtà ed una vera ed effettiva esistenza in natura ben differente dalla mera possibilità, e questa reale esistenza, di cui godono gli esseri mondiali, è in continuo moto e trascorrimento, ve- stendo mai sempre modi e determinazioni diverse e passando senza posa di forma in forma, atteso gli elementi d'imperlezione inerenti alla natura delle cose finite. Ora le idee non godono di quella realtà e sussistenza, che è propria degli esseri contingenti, non essendo esse altro che la mera possibilità dei medesimi; come pure in esse non cape verun elemento di imperfezione, che pure si riscontra di necessità nei reali finiti, non v'ha successione, non movimento né mutabilità, non temporaneità né contin- genza ; nuovo argomento anche questo , che non tutta l' entità delle cose mondiali rinviene il suo principio nelle idee. Né punto suffraga 1' avver- tire, che gli elementi negativi degli esseri, ossia le loro imperfezioni si contengono altresì nelle idee, non però quali sussistono in natura, ma in modo .sopraeniineiite e come a dire nel loro tipo e nella loro essenza esem- plare. Poiché io confesso ingenuamente, che davvero non so più cosa siano questi elementi negativi degli esseri, spogliati di loro finitudine ed imper- fezione e sollevati alla purezza del loro ideale, poiché ciò torna ad un me- desimo che distruggerli onninamente. Dire, a cagion d esempio, che nell idea si contiene il tipo o l'essenza della mutabilità, della successione, della tem- poraneità, varreblie (juanto il pronunciare, che vi si contiene una mutabilità in sommo grado sollevata ad una potenza infinita, ossia una mutabilità che non è pili mutabilità, e dicasi lo stesso delle altre determinazioni negative; del paro, il dire che l'essenza del moto non é mobile, 1 essenza della corru- zione non è corruttibile, l'essenza della sensitività e della corporeità non è né senziente né corporea, è un distruggere quello che si é affermato. Non tutta adunque l'entità degli esseri finiti rinviene nelle idee il suo principio, ma solo una parte, voglio dire l'essenza e non già l'esistenza con tutli gli elementi d imperfezione e di contingenza che 1 accompagnano. Se non che anche su questo secondo punto la teorica platonica non è scevra di dubbi e (lifficoltà. Poiché, posto che gli esseri finiti partecipino dalle idee la loro essenza, insorge il dubbio se non si vogliano ammet- tere due ordini di essenze, cioè l'essenza in sé propria dell'idea e 1' es- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 55 senza partecipata dagli esseri finiti e propria de' medesimi , e se queste due guise di essenza siano sostanzialmente identiche o differenti. Poiché se l'essenza ideale è onninamente identica collessenza partecipata, in al- lora Dio ed il mondo avrebbero identità e comunanza di essenza, né dif- lerirebbero se non quanto al modo di esistere, necessario ed eterno in Dio, contingente e temporaneo nel mondo. Aggiungasi che se l'essenza ideale è identica con quella, di cui partecipano in comune più individui, riesci- rebbe inesplicabile il come essa possa assumere forme diverse ne' diversi individui, e serbare incomunicabile la loro sostanzialità. Che se si suppone che l'essenza partecipata dagli esseri individuali sia differente dall essenza ideale, allora si riconferma quanto abbiamo testé avvertito, che le idee non sono il principio unico di tutta l'entità delle cose, e per di più non solo l'esistenza, il proprio, lindividuale, il fenomenico, che giace in esse, non traggono il loro principio dall'idea, ma né anco l'essenza. Le considerazioni fatte finora su questo argomento le possiamo strin- gere in questo dilemma : le cose o non hanno altro contenuto se non quello stesso delle idee, oppure posseggono qualche entità diversa ed estrin- seca a quella delle idee. Nel primo supposto, gh esseri della natura ver- rebbero ridotti a mere possibilità di essenze prive di esistenza reale . essi non godrebbero più ciascuno di un'individualità sua propria ed incomu- nicabile, perché l'essenza è universale, indefinita, comune a più cose; quindi la sostanzialità e la terrena esistenza degli esseri verrebbero sacri- ficate all'eterna natura delle idee, che identificano ed assorbono in sé la pluralità degli individui, e l'universo si convertirebbe in un immobile idea- lismo. Nel secondo supposto, non sarebbe più vero quel che sentenzia Platone, che le idee siano il solo e vero essere e che il loro contenuto abbracci ed aduni in sé ogni realtà, perchè si ammetterebbero entità fuori dell'idea, proprie esclusivamente de' reali finiti e che non hanno nell'idea la loro ragion d'essere. Neil' un caso, per salvar il dominio eminente e l'universalità ontologica dell'idea si niega al mondo ogni valore e sussi- stenza propria, perchè quanto esiste fuori dell' idea é un nulla; nell altro caso, per salvare la sussistenza e la sostanzialità del mondo, si niega l'uni- versalità ontologica dell'idea, perché si ammetterebbero entità che non sono l'idea. Giova qui l'avvertire, che questa questione è in lòndo quella stessa, che sott' altra forma si agita tra i panteisti ed i clisologisti, se il mondo abbia una sostanzialità ed un'entità sua propria diversa da quella di Dio, o con essa identica. l56 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. 3" Nella terza delle proposizioni platoniche sovraccennale si statuisce, che le idee hanno un'esistenza assoluta ed oggettiva indipendente da^li esseri finiti. Posto che le idee esistano in se stesse, si dimanda, sono esse entità separate ed indipendenti non solo dal mondo , ma anche da Dio? Questo presupposto di una separazione ed indipendenza delle idee da Dio è un concetto irrazionale ed insussistente, perchè conduce ad ammettere due principii egualmente eterni e necessari, Dio e le idee, il che si op- pone sia all'idea dell'essere assoluto e divino, che non può essere che un solo, sia alla sovrana perfezione di Dio stesso. Che se per iscansar quest'as- surdo, si pone che le idee sono sibbene separate ed indipendenti dalle cose mondiali, non però da Dio, e che Dio per appunto è l'intelligenza che le uituisce, ed il soggetto reale in cui sussistono e si sostanziano, in tal caso le idee non sarebbero piiì entità insussistenti e come a dire cam- pate in aria ed avrebbero un sostegno ed un fondamento ontologico, ma allora s'incorrerebbe nel gravissimo sconcio di fare delle idee altrettante determinazioni e modi della sostanza divina, e di confondere la sostanza di Dio con quella del mondo, poiché le idee od essenze mentre per una parte si sostanziano nell'essere infinito, di cui sarebbero determinazioni o modi, per 1 altra si sostanziano e si attuano negli esseri finiti, che sono essenze ideali partecipate. 4° Da ultimo, per quel che risguarda la quarta proposizione fondamen- tale, che cioè tutte le idee si unificano nell idea suprema del Bene, che è Dio stesso, avvertiamo sol questo, che Platone non ispiega, come si compia e di qual guisa sia quest'unione di tutte le idee od essenze delle cose in Dio, non ci dice se le essenze si unifichino in Dio per modo da smar- rire la propria distintiva natura e confondersi in una vuota e .semplicis- sima unità, oppure vi si mantengano distinte l' una dall'altra. L'essere assoluto contiene egli le essenze di tutti gli esseri relativi e contingenti.' Ed in che modo le contiene ? Ecco un gran problema metafisico, che Pla- tone lasciò senza .soluzione. E giacché discorriamo della teoria platonica dell'Assoluto e primitivo, la Critica non può a meno di muoverle un grave appunto per ciò, che essa collocò accanto a Dio un altro principio eterno, necessario, esistente per sé ed indipendentemente da Dio stesso, che é la materia (i), sebbene Rosmini (Arisi, esp. ed esani, pag. 2^6, 254) seguendo (I) Dio viene concepito come 1" ordinatore eJ il trasforma tore della materia, non già come creatore della medesima. PER GIUSPPE ALLIEVO. ' 5'y lo Stalbaum e Lod. Hònstel si sforzi di provare che Platone non ammise l'eternità della materia. Il dualismo assoluto di Dio e della materia è un concetto irrazionale, perchè due principii infiniti ed assoluti involgono con- traddizione. Queste lacune e difetti, che la Critica rileva nella Dialettica platonica, non le tolgono però i molti pregi e l'originalità che la adornano. Raffrontata colle dottrine metafisiche precedenti essa le vince d'assai e per la profondità e peregrinità dei concetti e per il loro insieme sistematico e rigoroso, e per la critica razionale esercitata sui sistemi anteriori, mercè cui Platone seppe legittimare alla scienza quanto si trovava di vero in essi e tentò di conciliare insieme il materialismo empirico della scuola ionica col razionalismo idealistico della scuola eleatica e della pitagorica, l'esperienza colla speculazione, il mondo della natura con quello delle idee, sebbene non ci fosse appieno riescito. Certo è che la sua Dialettica pre- senta grandi lacune e lascia nell oscurità ed incertezza assai punti onto- logici ; ma è pure un gran merito questo, l'avere egli pel primo affrontati e proposti alla meditazione del pensiero filosofico i piìi gravi e momentosi problemi di Metafisica, quantunque non sia guuito a porgerne una solu- zione definitiva. « Egli ebbe, avverte il Bufile (t. r, p. SSg), dell'oggetto, )) dello scopo e dell'estension della scienza un concetto più preciso e più » adequato de' suoi predecessori » ; 1 aver assegnato alla filosofia uno scopo pratico ed effettivo associandola alla realtà della vita, riconosciuta l'ar- monia e l'organismo delle idee, additato il Bene assoluto siccome prin- cipio e termine di tutti gli esseri, insegnata la personalità dell'essere primitivo, riconosciuti i limiti della ragione umana facendo differenza tra la scienza nostra e la divina ed assoluta, tutte queste sono verità razio- nali, che attestano la dignità e grandezza speculativa della filosofia pla- tonica. — Chiuderemo con un ultima riflessione. È pronunciato fondamentale del Platonismo, che la vera e perfetta scienza ossia la Dialettica sta nell'apprendere le essenze eterne ed immutabili delle cose. Ma quali sono poi queste essenze costitutive de' singoli esseri? Qual è a ragion d'esempio l'essenza dell'uomo, l'essenza del bruto, l'essenza del vegetale, l'essenza del minerale, l'essenza dello spirito, della natura, della gravità, della luce e delle molteplici e singole forze della natura? Platone lascia senza risposta tutte queste domande, che pure dovrebbero costituire l'oggetto stesso della sua Dialettica: egli si tiene sempre in sui generali senza mai discendere ad attuare e concretar il concetto defini- tivo della Dialettica: egli sta pago e contento a discorrere delle essenze l58 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. in generale^ dei loro vincoli, della loro distinzione e del loro collegamento nell'essenza suprema di Dio. Che diremmo di quel matematico, il quale proposto a svolgere il concetto comprensivo della geometria siccome della scienza che ha per oggetto lo spazio puro risguardato nelle sue dimen- sioni si contentasse di discorrere delle figure in generale e ripetesse di continuo che esse figure sono molteplici e varie , che sono distinte ma pur connesse da vincoli indissolubili e che tutte poi ritrovano il loro comune principio nello spazio puro, di cui sono altrettante forme e de- terminazioni diverse, ma che poi non facesse parola di ciascuna di queste figure in particolare, e nulla dicesse né del triangolo, uè del quadrilatero, né del circolo, né di verun solido geometrico/ Tale è per appunto la Dialettica di Platone, che ne lascia nella sua generalità U concetto senza mai tradurlo all'attualità. Si dirà forse che il discorrere delle singole es- senze delle cose in particolare non è di spettanza della Dialettica o scienza prima, sihbene delle scienze seconde. Ma ciò varrebbe quanto un confon- dere l'oggetto delle scienze seconde con quello della Metafisica o scienza prima, anzi uno snaturare l'indole propria delle une e dell'altra, posciachè se le scienze seconde avessero per oggetto lo studio e T indagine delle essenze specifiche delle cose, già per ciò stesso non più sarebbero scienze seconde, ma scienza prima, e per l'opposto questa non sarebbe più tale. Però Platone potrebb' essere difeso da questo appunto ricorrendo alla gran dilFerenza da lui fatta tra la scienza divina ed assoluta e la scienza umana: egli aveva segnato l'ideale della Dialettica concependola siccome la scienza che apprende le essenze delle cose e che guidata dall'idea su- prema del Bene in cui tutte le idee e le essenze si comprendono sa ren- dere ragione di tutte cose, ma Platone aveva altresì riconosciuto che l'umana ragione è impotente a raggiungere un si sublime ideale, e che la scienza assoluta ossia la vera e compiuta Dialettica non può albergare altrove che nella mente divina. Egli sarebbe adunque affatto concorde e coerente con sé medesimo pronunciando che una perfetta e compiuta dottrina delle essenze delle cose supera le forze dell'umana apprensiva e sarebbe perdo un pre- tendere da lui cosa che non ci ha punto promessa il chiedergli una teoria scientifica intorno a tutte e singole le essenze delle cose. Ma da questa accusa, che altri immeritatamente muovono a Platone, non potrebbero del sicuro giustificarsi i seguaci dell'idealismo assoluto germanico, i quali non facendo dilFerenza veruna tra la scienza assoluta e divina e la umana, anzi infinitizzando la nostra ragione ed eguagliandola alla divina la reputano PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 5g capace di conoscere tutte le essenze delle cose, anzi l'Assoluto. Ad essi adunque, con molto più di ragione che non a Platone noi abbiamo il diritto di domandare che ci svelino tutti i misteri di quest'Assoluto, che ci spie- ghino e ci faccian palesi tutte le essenze delle cose colla loro scienza as- soluta ed infinita , che ci dicano in modo aperto , certo e sicuro qual è l'essenza dell'uomo, di Dio, dello spirito e di tutte e singole le forze della natura quante mai esistono ed operano latenti e secrete nell' immensità dell'universo. Ma i nostri filosofi dell'Assoluto, quando è tempo di scio- gliere le magnifiche loro promesse, se la svignano e ci illudono con vaghe ed astratte generalità ; e quando si tratta di aprirci gli arcani dell Asso- luto si avvolgono entro ad una nube olimpica, dove non ci è più dato di intenderli ne di seguirli: anzi, sentendosi impotenti perfino a sciogliere tutte le difficoltà in cui giace avvolta la finita natura che ne circonda cer- cano di coprir la loro ignoranza pronunciando che il finito non è degno del nostro studio, che non gode di veruna sostanzialità e non ha valor ontologico, che l'infinito solo è oggetto del nostro sapere. ARISTOTELE. La Metafisica di Platone trovò un valido e potente avversario in Ari- stotele, che allo slancio ed all'entusiasmo speculativo del suo maestro oppose una fredda e severa ragione analitica, ricca di uno svariatissimo numero di cognizioni positive, ed educata ad un'attenta contemplazione della natura. Platone aveva svolto dalla critica de' sistemi precedenti il proprio. Aristotele chiamando a severa disamina le dottrine de' filosofi che lo precedettero e segnatamente la Dialettica di Platone, seppe derivarne una teorica originale sua propria, che tanto splende per virtù analitica, quanto si sublima per virtù sintetica la Dialettica di Platone. La teorica delle idee fu quella, contro di cui Aristotele rivolse tutto il suo spirito critico e l'acume della sua mente, e sulle mine di essa cercò di edificare la sua Metafisica. Platone colla sua Dialettica aveva isolato il mondo delle esistenze contingenti dal mondo delle idee eterne, la filosofia dallo studio della realtà finita, poiché se egli ammise un vincolo di partecipazione fra le idee e le cose, si ristette dallo spiegarlo e determinarne la vera na- tura : Aristotele cercò di ricongiungere questi due mondi, il necessario ed il contingente, l'ideale ed il reale, epperò egli negò alle idee un'esistenza assoluta e sopramondana facendole per così dire ridiscendere come in loro jgQ IL PROBLEMA METAFISICO ECC. soggetto negli esseri finiti, e quindi tentò di ricondurre nella cerchia della scienza reale la natura finita, la quale presa nella sua sussistenza tempo- ranea e contingente era stata da Platone dichiarata non oggetto di scienza, ma di mera opinione. L' esistenza assoluta ed oggettiva delle idee fu il primo e più rilevante punto della Dialettica platonica cui Aristotele prese ad impugnare: contro di Platone, che ammetteva le idee essere il solo e vero essere , egli stabilisce che 1 universale non sussiste in sé e per sé, ma solo ne' particolari, e che gli individui soli sono esseri compiuti e veri. « L'uomo è detto dell'uomo universale, ma non esiste punto, ben » c'è Peleo principio di Achille, di te poi il padre, e questo B di questa » sillaba AB; e il B semplicemente della sillaba BA, In fine, le specie » sono degli essenti {Met. XI, 5)». Posto che Tessere appartenga agl'individui e che gli universali non sus- sistano né vadano studiati in sé ma ne' particolari, qual è il mezzo con cui si perviene alla notizia de' particolari e degl'individui? L'esperienza: essa ci somministra i fatti particolari, da cui lo spirito raccoglie poi e preme il sugo della scienza; essa ci apprende gl'individui e negl individui stessi il pensiero cerca e studia l'universale che vi si contiene. Il fonda- mento della cognizione, giusta Aristotele, non è l'idea, ma il mondo tal quale esiste colle leggi che lo governano. Se non che sorge qui una dif- ficoltà. Aristotele conviene per una parte che l'esperienza non ci dà se non il particolare, il contingente, l'individuale, e per altra parte riconosce ed ammette che la scienza ha per oggetto l'universale, il necessario, il generale: come adunque potrà l'esperienza sensibile essere la sorgente di tutte le nostre idee e somministrare il germe ed il principio di tutta la scienza? Aristotele risolve tale diflicoltà avvertendo che l;i facoltà dell'espe- rienza e dell'osservazione vuol essere susseguita e compiuta da quella della speculazione e del ragionamento, il quale comparando fra di loro gli og- getti particolari somministrati dall'esperienza vi scopre l'universale, oggetto della scienza, ricavandolo dai particolari in cui è contenuto. Epperò il me- todo aristotelico non vuol essere risguardato siccome un pretto empirismo, che si ferma alla notizia del sensibile e del particolare senza sollevarsi infino al soprasensibile ed all'universale, poiché Aristotele riconosce egli stesso che l'esperienza non può di per sé sola tener luogo della scienza e le è di assai inferiore: « non crediamo (egli scrive al e. i del lib. i della )) Met.) che le sensazioni siano sapienza, quantunque di certo siano le piìi » autorevoh cognizioni de'singolari ; ma non dicono il perchè di nulla » . PER GIUSEPPE ALLIEVO. i6i Scorgesi di qui quale divario interceda fra la metodologia di Platone e quella di Aristotele, e quali capi di convenienza abbiano l'una coU'altra. Convengono entrambi questi due filosofi nel sentenziare, che il metodo (•azionale consta di due distinte funzioni, l'osservazione e la speculazione, che quella debbe precedere a questa, e che la scienza si travaglia intorno al necessario, all'universale, al sovrasensibile: ma mentre Platone aveva interposto un abisso tra l'osservazione e la speculazione, tra l'opinione e la scienza, dichiarando la prima ostile alla seconda, o per lo meno am- mettendo- fra entrambe un puro vincolo di successione esterna e non di intima continuità, Aristotele per contro volle conciliati insieme e rispettati del paro i due elementi, l'empirico ed il razionale, somministrati l'uno dall'esperienza, 1' altro dalla ragione. La scienza, in suo avviso, è in parte universale, in parte particolare; la scienza, che constasse di soli elementi empirici, non sarebbe più scienza, ma cieco empirismo, come pure per lo contrario se contenesse nulla piiì che elementi razionali, non sarebbe pili qual debb' essere scienza delia realtà, ma un vuoto e sterile razio- nalismo, che abbandona il mondo delle individue esistenze per israarrirsi dietro al mondo di una pura possibilità. La vera e compiuta scienza debbe contemperare in armonico accordo l'elemento empirico ed il razionale, e tutta è intenta alla soluzione di questo problema : conciliare a scientifica unità la dualità del sensibile e dell'intelligibile, e quindi dell'esperienza e della ragion pura. Quindi Aristotele assegnava alla scienza due principii, l'uno detto di individuazione, che ci dà l'essere, ossia l'individuo, che per Aristotele è il solo e vero essere, l'altro detto principio di contraddi- zione, che ci dà il generale od universale, oggetto della scienza, mentre il principio di individuazione mancava affatto nella Dialettica di Platone. Da questo concetto della metodologia aristotelica si rileva quanto male si apponga Hegel, il quale nella sua storia della filosofia sentenzia che Aristotele riconosce il pensiero puro, libero da ogni elemento empirico siccome l'essenza e la verità delle cose ed ammette l'identità dell'essere e del pensiero, del reale e dell'ideale, dell'oggetto e del soggetto. Ari- stotele vuole sibbene l'armonia dell'empirico e del razionale nell'unità organica della scienza, non però la loro identità; vuole il pensiero puro, non però libero da ogni dato empirico, ma consociato con esso, vuole che la scienza sia in parte universale, in parte particolare, e non già che consti di soli elementi razionali disgiunti dagli empirici. Il raffronto, che abbiamo fatto fra la metodologia platonica e l'aristo- Serie II. Tom. XXX. 21 l62 >L PROBLEMA METAFISICO ECC. telica ci mena a conchiudere, che Aristotele non ammise fra l'osservazione e la speculazione un mero legame di successione esteriore, come fece Pla- tone, ma una continuità e comunicazione interiore, di guisa che la pie- nezza della scienza debbe emergere dall'esperienza perfetta e pienamente attuata. Ma in che modo egli risolse poi il problema, che si era pro- posto, di conciliare nell unità organica della scienza la dualità de' due contrarii elementi, 1 empirico ed il razionale.' In quale maniera la cognizione inferiore dell'esperienza si trasforma nella cognizione superiore della scienza? Come spiegò egli e determinò il rapporto di continuità tra l'esperienza e la speculazione scientifica, tra il sensibile e l'intelligibile, tra il particolare e l'universale? Uopo è confessare che le idee di Aristotele su questo punto cosi rilevante sono incerte e mal ferme, e pare che non abbia con suf- ficiente precisione e con la debita accuratezza distinto loggetto e le fun- zioni proprie della facoltà empirica ed osservativa dall' oggetto e dalle funzioni che spettano alla facoltà razionale e speculativa. A ben comprendere il concetto aristotelico su questo riguardo occorre por mente ai varii gradi del processo intellettuale da esso stabiliti. Viene per prima la sensazione esterna ossia l'impressione causata dagli oggetti sui sensi nostri ; succede ad essa la memoria che conserva le percezioni sensibili e rende permanenti e fisse le immagini degli oggetti sentiti: alla memoria tien dietro l'esperienza, la quale apprende solo il fatto e non il perchè del medesimo, onde vuol essere susseguita e perfezionata dalla ragione speculativa , che dallesperienza ricava il principio generale e ne forma la scienza. Adunque impressione sensibile, memoria, esperienza e scienza, tali sono i diversi gradi del processo intellettuale. Di qui si può rilevare in qual modo tentasse Aristotele di conciliare insieme lesperienza sensibile e la speculazione scientifica, lelemento empirico e l'elemento ra- zionale. Secondo lui la scienza non è opera della sensazione e dell'espe- rienza, ma dell attività razionale ossia della speculazione, distinta e superiore all'esperienza sensibile. Però la speculazione non potrebbe di per sé pro- durre la scienza senza collegarsi intimamente coUimpressione sensibile e coU'esperienza e ricevere da questa i materiali del proprio lavoro; il vin- colo adunque di continuità intima tra l'esperienza sensibile e la specula- zione scientifica sta in ciò che la sensazione sola ci fa conoscere l'individuo, ossia il vero essere, che la ragione speculatrice scopre e studia nell indi- viduo il principio universale, oggetto della scienza: così l'osservazione sensibile ci rivela gli esseri e ci convince della loro presenza; la specu- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 63 lazione poi ricava da essi i prÌHcipii necessarii e di essi compone la scienza. Quindi nel sistema di Aristotele la facoltà dell'osservazione e dell'esperienza sensibile è del tutto necessaria per la costruzion della scienza, e non già un semplice fuor d'opera come nella metodologia platonica, poiché la ra- gione che cerca i principii universali per comporne la scienza non li può rinvenire altrove se non ne' particolari, che ci sono rivelati dalla sensi- bilità e da essi debbe muovere, in essi studiarli: tolta la facoltà della sen- sazione e dell' esperienza e quindi tolti gli esseri individui e particolari è tolto con essi l'universale, opperò la fonte e l'oggetto stesso della scienza: di qui la celebre sentenza di Aristotele: nihil est in intellectu, quod prius non fìieiit in sensii; e di qui ancora la gran distinzione che egli taceva tra ciò che è più noto relativamente a noi, cioè il particolare, e ciò che è più noto in sé e per sé ed è l'universale: lo spirito muove dal pnr- ticolare perchè più noto riguardo a sé e lo apprende per mezzo dell'espe- rienza sensibile, e riesce all'universale come al più noto per se apprendendolo per mezzo della ragione speculativa. Ma Aristotele è poi riuscito a sciorre il propostosi problema, la conciliazione, cioè dell'esperienza e della ragione speculativa, e quindi dell'elemento empirico e del razionale, del sensibile coll'intelligibile, del particolare coll'universale ? Ciò apparirà dalla breve esposizione che or faremo della sua Metafisica intimamente connessa colla sua metodologia. Il sistema filosofico di Aristotele si contiene quasi per intiero nellopera sua, che porta il titolo di Metafisica. Quest'opera consta di quattordici libri, i quali a chi li risguarda superficialmente pare che siano un disor- dinato ammasso di considerazioni metafisiche , anziché una teorica ben connessa e sistematica. Francesco Patrizio, noto filosofo italiano del secolo decimosesto ed acerrimo avversario delle dottrine aristoteliche e peripa- tetiche, divise i libri metafisici di Aristotele in due serie, gli uni aventi per oggetto l'ente comunissimo ed indeterminato, gli altri l'ente primo e pienamente determinato , ossia Dio : i libri della prima serie costitui- rebbero la scienza, che venne poi denominata Ontologia e formerebbero i libri quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo, nono e decimo della Me- tafisica di Aristotele; quelli della seconda serie darebbero luogo alla Teo- logia, e sarebbero il primo, il terzo, l'undecimo, il duodecimo, il deci- moterzo ed il decimoquarto. Il Michelet nel suo Esame critico della Metafisica di Aristotele, ammettendo che i libri di cui si compone possano dividersi nelle due serie succennate , cioè in Ontologia ed in Teologia , l64 "- PROBLEMA METAFISICO ECC. aggiunge a queste due parti una prima a mo' d introduzione , la quale secondo lui consta dei prinoi tre libri della Metafisica aristotelica , ed avrebbe per iscopo di porgere il concetto definitivo della Metafisica ed assegnare i problemi che essa si propone di svolgere. Seguendo questa divisione della Metafisica di Aristotele in tre parti distinte noi ne espor- remo brevemente il contenuto di ciascheduna. Parte I^ Della Metafisica (Lib. 1-3). Introduzione. Fedele al suo metodo empirico-razionale Aristotele non procede a priori nel determinare il concetto definitivo della Metafìsica , ma lo raccoglie dalla crìtica fatta intorno alle opinioni del volgo circa alla medesima. Quindi chiamando a rassegna i giudizi e le nozioni che il comune degli uomini si forma del sapiente e della sapienza, egli rileva che essa viene caratterizzata siccome un sapere universale, difficile e recondito, certo e preciso , libero ed autonomo , ossia fine a se medesimo. Tali essendo i caratteri che comunemente vengono assegnati alla sapienza metafìsica, egli ne deduce di qui il concetto definitivo della filosofia , dicendola scienza de' primi principii, ossia delle cause prime, essendoché i piincipii supremi son dessi appunto che conferiscono alla Metafisica i succennati caratteri di universalità, di difficoltà e reconditezza , di precisione e certezza , di autonomia ed indipendenza. E veramente se la scienza .sta per appunto nel conoscere le cose nelle loro cause e ne' loro principii , la scienza suprema, ossia la Metafisica consisterà nello studio e nella notizia de' primi principii e delle cause prime delle cose. Definita così la sapienza o filosofia per la scienza delle cause prime o de' primi principii dietro le tracce del senso comune, Aristotele distingue quattro specie di principii o cause, e sono: i" la causa materiale, ossia il soggetto di ciascun essere ; 2° la causa formale , ossia 1' essenza , ciò per cui un essere è quel che è ; 3° la causa efficiente o motrice , ossia il principio che produce il cangiamento in un essere; 4^ ''^ causa finale, ossia il fine a cui ciascun essere è indiritto. Aristotele fa qui un'intramessa nella storia della filosofia per confermare con prove storiche la giustezza e la compitezza della sua classificazione delle cause ; poiché non è da dimenticare, che in Aristotele liavvi lo storico critico che espone e discute le teoriche de filosofi anteriori, ed il pensatore originale che dalla critica de' sistemi antichi ne fa emergere de' nuovi. Egli avverte che nella scuola PER GIUSEPPE ALLIEVO. l65 jonica predomina la ricerca della causa materiale ; che i pitagorici sco- persero essi pe' primi la causa formale, ossia l'essenza delle cose riposta da essi ne' numeri, la quale venne poi svolta da Platone colla sua teorica delle idee ; che la causa efficiente venne riconosciuta da Anassagora ed oscuramente ammessa da Parmenide e da Empedocle ; e che la causa finale lu intraveduta da Anassagora e perduta di vista da Platone. Da questa critica latta delle opinioni de' filosofi da Talete insino a Pla- tone , Aristotele rileva che essi non diedero una compiuta teorica delle cause prime , e ne inferisce altresì che non essendo essi nel loro esame usciti da queste quattro cause, la classificazione che egli diede delle me- desime è giusta e compiuta. Tale è il contenuto del primo libro della Metafisica. Nel secondo libro , determinando vie meglio il carattere e l'oggetto della medesima, si fa a provare che le cause prime non possono essere infinite né di numero né di specie , ma che vi debb' essere una causa materiale ultima , una causa formale ultima , come pure un solo principio efficiente supremo, un unico principio finale. Facendosi quindi allo studio de' primi principii che formano l'oggetto della Metafisica, Aristotele vede alFacciarglisi al pensiero diverse difficoltà e dubbii , dalla cui soluzione debbe appunto uscir fuori attuato e com- piuto il concetto della filosofia; quindi il terzo libro della sua Metafisica, intitolalo i.nooriij.caa contiene una rassegna di problemi metafisici disor- dinatamente esposti , quali si presentarono di per sé alla mente di Ari- stotele nellatto di indagare i principii e scrutar le cause prime delle cose. Le quattro cause sono loggetto di una o più scienze? Ci sono altre cause oltre la materiale, e una o più.' I principii degli esseri sostanziali ed i principii del ragionamento sono l'oggetto di una o più scienze? Tutti gli enti sostanziali sono oggetto della stessa scienza o di parecchie? Ci sono solo enti sostanziali sensibili, od anche altri/ Fuori dell'essere reale con- creto c'è nulla? I principii sono universali o singolari? sono in potenza o in atto ? sono immobili o mobili ? Queste e molte altre sono le inter- rogazioni che Aristotele muove a se medesimo , ed a cui si riserva di dare negli altri libri una risposta scientifica e definitiva , contentandosi qui di accennare le opposte e contrarie soluzioni di cui è suscettiva cia- scuna questione, senza dibattei le e discuterne il valore scientifico. Gio- verà qui r avvertire che questo processo del pensiero aristotelico nella costruzione della teorica metafisica è appieno conforme ai tre successivi periodi per cui discorre la ragione umana , da noi distinti nelle nostre l66 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. lezioni preliminari col nome di pensare comune, di pensare critico e di pensare speculativo; poiché nel libro primo Aristotele raccoglie dal pen- sare comune il concetto definitivo della Metafisica ; nel terzo libro poi degli «Tio/j/ip-ara espone i dubbii ed i problemi che insorgono intorno ad esso, segnando con ciò il periodo del pensare critico, mentre i libri successivi , contenendo la soluzione dei proposti problemi , si riferiscono al pensare speculativo. Questa è la materia esposta nei primi tre libri formanti la prima delle tre parti in cui abbiamo divisa l' opera metafisica di Aristotele , voglio dire l'Introduzione. Ora egli è da osservare, che la definizione della Me- tafisica esposta neir Introduzione viene da esso modificata e tradotta in due altre definizioni, di cui l'una si trova al libro quarto, l'altra nel sesto. Tenendo conto delle quistioni suscitate intorno al concetto della Metafisica ed esposte nel libro terzo, ed avvertendo che i primi principii, le cause prime, oggetto della medesima, si compendiano tutte nell'ente, che è la vera esistenza, egli traduce la prima definizione della Metafisica, la scienza de piincipii o delle cause prime , in quest'altra, la scienza delfente in quanto ente, ossia dell ente considerato fuori d'ogni sua determinazione particolare ed accidentale. Ma questa stessa seconda definizione, che tro- vasi in principio del libro quarto viene nei libro sesto convertita in una terza, giusta la quale si assegna ad oggetto della Metafisica non più l'ente indeterminatissimo, ma Tessere pienamente determinato, la sostanza prima. Iddio ; a tal che la Metafisica vien qui denominata filosofìa prima o Teo- logia , mentre nel libro quarto era concepita come filosofia senza piij , e nel primo venne considerata genericamente siccome sapienza. Da quest'ul- timo concetto dellaMetafisica considerata come Teologia o filosofia prima, Aristotele ne rileva il carattere di supremazia e di superiorità, che essa possiede rispetto a tutte le altre scienze, essendoché queste non istudiano U loro oggetto nelle sue cause prime, ossia nell'essenza sua, ma solo nelle sue estrinseche proprietà, né si danno punto pensiero della sua sussistenza, ma lo suppongono, mentre la sola scienza prima lo studia e nel sua sus- sistere e neir essenza sua. Di tal modo la Metafisica aristotelica abbrac- cerebbe due parti distinte, che sono l'Ontologia, scienza de' primi principii della sostanza sensibile e finita, detti altramente categorie, e la Teologia, scienza della sostanza prima ed infinita : l'Ontologia verrebbe ad essere nel concetto di Aristotele una teorica del Derivato, la Teologia una teorica del Primitivo. PER GIUSEPPE ALLIEVO. 167 Parte II'. Ontologia o Teorica del Derivato (Lib. 3-10). Abbiamo avvertito, che la seconda parte della Metafisica aristotelica, detta Ontologia, comincia col libro quarto e si stende fino a tutto il decimo. Nel quarto libro Aristotele proponesi di stabilire l'unità della scienza ontologica derivandola dair unità del suo oggetto, che è l'ente; poiché mentre le scienze particolari si travagliano intorno a questa o quell'altra specie di enle in particolare, la Metafisica per contro è la scienza dell'ente senza piìi , che nella sua generalità abbraccia tutti i sommi generi delle cose, ossia le categorie, gli universali e nella sua unità coaliene non solo i primi prmcipii e le cause prime di ogni essere finito, ma altresì i principii supremi ed assiomatici del ragionamento, qual è il principio di contraddizione. La Metafisica adunque è scienza unica, perchè unico è 1 oggetto suo, lente in genere, il quale sebbene possa essere assunto in moltissimi e differenti sensi dando così luogo alle ca- tegorie, pure ha un senso primario, a cui come ad unità si riferiscono tutti gli altri, ed è appunto sotto tale riguardo che vien dalla Metafisica studiato. Però, prima di svolgere la teoria dell'ente, Aristotele quasi per aprirsi la via alla scienza ontologica si fa a determinare il significato dei vocaboli, che alla medesima si riferiscono, illustrando i concetti categorici di principip, causa, elemento, natura, necessario, uno, ente, essenza, re- lazione, quantità, qualità e molti altri consimili, che occorrono all'ontologo per costrurre la sua scienza. Queste definizioni ontologiche si trovano luna dopo l'altra registrate senza verun ordine logico nel libro quinto, il quale mancando allatto di legame scientifico potrebbe piuttosto aversi in conto di un mero dizionario metafisico; e ci ricorda molti trattati di ontologia, nei quali questa scienza è ridotta alla trista condizione di una disordinata rassegna spiegativa de' vocaboli astratti, che occorrono piti di frequente nella trattazione delle materie ontologiche. Fermata nel libro quarto l'unità della scienza metafisica, esposte nel quinto le definizioni ontologiche, Aristotele entra senza più. in materia, svolgendo nel libro sesto e nei successivi la teoria ontologica, che cer- cheremo qui di riassumere ne' suoi concetti fondamentali. Oggetto dell'Onto- logia è l'ente in genere; ma l'ente racchiude nella sua suprema e gene- ralissima unità una pluralità di sensi e di concetti ; questi concetti generalissimi poi sono essi i primi principii, le cause prime degli esseri. ]68 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. sono i soinnii generi delle cose, sono i predicati universa lissimi che si estendono ad ogni classe di enti, sono insomma le categorie; e l'Ontologia studia per appunto l'essere sotto 1 aspetto di tutte le categorie principali. Or quali e quante sono queste categorie, questi aspetti universalissimi dell'ente? Dieci ne annovera Aristotele, non più, non meno, e sono: la sostanza od essenza, la quantità, la qualità, la relazione, il luogo, d tempo, la situazione, l'avere, il lare, il potere. E facile il rilevare, che questa classificazione delle categorie non è logica, né sistematica, ma arbitraria : Aristotele la dà come un fatto senza renderne ragione e senza appog- giarla a verun principio fondamentale. Il solo nesso, che egli riconosce e stabilisce Ira queste dieci categorie, sta in ciò, che havvene fra di esse una suprema, da cui tutte le altre dipendono : dessa è Ja sostanza, ossia l'essenza sostanziale, che per Aristotele è l' individuo compiuto ed inte- grato, ossia il vero essere. La sostanza adunque è la categoria prima, è Tessere; le altre nove categorie non sono veramente l'essere, ma modi dell'essere, epperò entità accidentali che non possono sussistere di per sé senza l'essere, universali che sussistono ed hanno il loro fondamento nell'individuo ossia nel singolare. Tolta la sostanza, ossia 1 individuo, che è la categoria prima, sono tolte con ciò stesso tutte le altre categorie perché prive del loro fondamento ontologico, mentre posta la sostanza individuale, cioè Tessere, sono posti altresì i modi delTessere, essendoché di ogni individuo od essenza si possono predicare le nove categorie secondarie, muovendo la questione del quanto esso sia, quale, per rap- porto a che, dove, quando, come e va discorrendo. Di tal modo, sebbene l'ente abbracci una pluralità di sensi e di concetti e si estenda a tutte le categorie, ha però un senso primario e supremo, dal quale tutti gli altri derivano e al. quale tutti si riferiscono ; v' ha una categoria primaria, da cui dipendono tutte le altre. Questa categoria suprema, questo primo e proprio significato dell'ente, a cui l'ontologia debbe riferire tutto quanto discorre come ad un solo principio attingendovi la propria scientifica unità, é quello di essenza sostanziale, ossia di sostanza, vai quanto dire essere individuale ed integrato. L'Ontologia che ha per oggetto Tessere in quanto essere debbe appunto studiare precipuamente l'essenza sostanziale siccome il solo vero e com- piuto essere, e le altre entità categoriche studiarle sibbene, ma nel loro riferimento all'essenza, essendo ad essa posteriori: quindi Aristotele avverte che la perpetua ricerca, intorno alla quale si travagliarono tutti i filosofi PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 69 cosa è l'essere = si riduce a quest'altra = cosa è l'essenza. Per lui adunque ciò che merita prima di ogni altra cosa il nome di essere e di ente, è l'essenza sostanziale, che egli dice il massimo intelligibile, il primo ente, l'essere determinato ed uno, mentre le entità delle altre categorie, ad esempio la quantità, la qualità, la relazione, non sono esseri se non in virtià della sostanza, in cui sussistono e si fondano, non esistono se non per la sostanza, epperò hanno un'esistenza accidentale che Aristotele para- gona al non ente, sono accidenti che partecipano dell'essere in grazia della sostanza. ( hiesta ha perciò sulle altre categorie una priorità ed una supe- riorità di natura, di ragione e di tempo, sola Ira tutte le altre gode di una vera ed indipendente esistenza. Or questa sostanza, essere per eccellenza, perchè determinato e concreto, è l'essere finito, è la sostanza sensibile; ecco come l'Ontologia è la scienza dei principii dell'essere finito, ossia delle cause prime della sostanza sensibile, è, in altri termini, la teorica del Derivato. Per tal modo la prima definizione, che della Metafisica aveva dato Ari- stotele dicendola scienza dei primi principii o delle cause prime, riman conciliata con quest'altra, che la Metafisica è la scienza dell ente; in- tendendo per ente ogni entità individua e compiuta, che è la sostanza od essenza. Posto che la Metafisica abbia per oggetto lo studio dell'essere ne' suoi primi principii o cause prime, facciamoci a svolgere la teoria di Aristotele intorno alle cause prime dell'ente, ossia i principii della sostanza individua e finita. Ricordiamo a tal uopo, che egli distinse quattro specie di cause prime o principii delle cose, e sono la causa materiale, la formale od essenziale, la efficiente detta anche motrice, e la finale. Di questi quattro principii i primi due, cioè la materia e la forma, sono intrinseci all'essere od alla sostanza, gli altri due, cioè il moto ed il fine le sono estrinseci. Anzi tutto occorre il dimandare che cosa siano nella teoria aristotelica la materia e la forma, e come costituiscano i due principii intrinseci della sostanza. L'essere individuo dotato di una sussistenza sua propria (che tale è per appunto la sostanza o l'essenza sostanziale in senso aristotelico) è un entitìi determinata, che ha in sé alcunché di reale e di attualmente esistente e che possiede perciò tale o tal altro attributo, tale o tal altro carattere e qualità; ma ciascun essere individuo pur mentre è in sé alcunché di reale e di attuale, ha in sé 1 intrinseca possibilità di vestire nuove forme, di passare a nuove determinazioni, di acquistare certe qualità che non possiede per anco: or ciò che vi Serie II. Tom. XXX. 32 I-O IL PROBLEMA METAFISICO ECC. ha (Ji reale nell' essere, ossia l' attualità, ne costituisce la forma, e quanto vi ha in lui di possibile e di virtuale, ossia la potenzialità ne è la materia: onde egli nel duodecimo della Metafisica, al capitolo quinto scrive, che « i pruni principii di tutte le cose sono duna parte ciò che è primilivamente in atto, dall'altra ciò che è in potenza ». Questi due principii intrinseci dell'essere compongono un unità di esi- stenza che è la sostanza individua: essi possono bensì essere mentalmente separati e pensali l'uno isolato dall'altro, ma in natura non possono andar disgiunti senza distruggere l'entità stessa e la sussistenza dell essere so- stanziale finito. La sola materia o virtualità non può di per sé sola co- stituire un ente reale e compiuto; separisi infatti la materia dell'essere dalla sua forma, e non si avrà che un'entità del tutto indeterminata, possibile e virtuale e non ancora alcunché di attualmente esistente e di reale, non ancora l'essere vero e sussistente; ecco il perchè l'universale ossia il genere comune, l'indeterminato, che é poi la materia, secondo Aristotele non esiste separato dal singolare, dall individuo; la materia abbisogna della forma per essere qualche cosa nell' ordine ontologico, e noi svilupperemo a suo luogo questo giustissimo concetto aristotelico quando piglieremo a confutare la teorica hegeliana dell'Idealismo assoluto, che pretende di far iscaturire tutte le esistenze dall'essere meramente indeterminato e possibile, non avvertendo che il possibile abbisogna di un reale che lo tragga allattualità e che se tutto fosse mera possibilità, non vi sarebbe realtà veruna. Che se la materia non può in natura sus- sistere senza la forma, questa alla sua volta vuol essere copulata colla materia a costituir Tessere finito e sensibile, che è appunto l'oggetto deir Ontologia aristotelica; poiché se la sostanza fosse spoglia affatto di materia ossia di potenzialità e fosse mera forma, ossia atto puro, in tal caso non sarebbe più sostanza finita e sensibile, ma sostanza prima ed infinita, cioè Dio che è atto purissimo in cui nulla vi ha più di possibile e di virtuale. Cosi se la sostanza individuale fosse solo materia senza forma, non più sarebbe sostanza, essere vero e compiuto, ma entità in- determinatissima, essere puramente mentale; se poi fosse pura forma senza materia, sarebbe non più sostanza finita e sensibile, ma Dio stesso; mentre (juesti due principii, materia e forma, si appartengono mutuamente sino a formar l'unità naturale della sostanza, dt cui l'uno esprime la virtualità o potenza, l'altro l'attualità. L'essere individuo poi, in cui coesistono con- giunti questi due principii ontologici della materia e della forma, ossia PER GIUSEPPE ALLIEVO. I 7 I della universalità e della particolarità, viene appunto da Aristotele denomi- nato (Tvvolryj, cioè l'universale in atto, ossia il tutto, l'essere integrato. Raffrontando fra di loro la virtualità dell'essere o materia, colla sua attualità o forma, Aristotele stabilisce che latto precede ed lia la priorità sulla potenza, priorità di ragione, di natura e di tempo. Poiché il virtuale non è tale se non in virtù dell'attuale, esso tende, come a suo scopo supremo, all'attualità che è la vera esistenza degli esseri, né può venir tradotto all'attualità se non da un principio reale ed esistente in atto. Quindi è uno dei pronunciati fondamentali dell'ontologia aristotelica questo, che il mero possibile e virtuale non può di per sé e per propria sua virtù tradursi in atto, che la realtà novellamente escita dalla potenzialità potè solo essere prodotta da una realtà precedente, che quanto vi ha di reale e di attualmente esistente è causato da qualche essere già sussistente in atto e non meramente potenziale; e di qui Aristotele obbiettava contro l'idealismo platonico, che le idee essendo pure possibilità o virtualità delle cose non valgono di per sé a produrre la realtà delle esistenze senza il sussidio di un principio reale che le faccia uscire dalla possibilità, che il chiamar le idee esemplare o modello delle cose è nulla più che una fin- zione poetica, che la metessi o partecipazione è una parola vuota di senso ; onde egli cercò di correggere Platone sostituendo l'attività ed energia della forma all'immobilità dell'idea platonica, che non può essere causa della mobilità delle cose e che essendo priva d'ogni principio di movi- mento non può spiegare come gli enti si formino. Tale é la teorica di Aristotele intorno ai due principii intrinseci dell'essere, la materia e la forma. Ora posto che ogni sostanza finita accoppii in sé l'unità della materia e della forma, ossia del possibile e del reale, del potenziale e dell'attuale, sorge la dimanda se e quale sia il principio o la causa che trae la sostanza dal suo stato di potenzialità all'attualità, giacché si è avvertito che la materia non ha virtù di muover se stessa, ma abbisogna di una forza che ne determini i'esplicamento. Ecco il pro- blema della causa efficiente o motrice, che è causa estrinseca all'essere, mentre la materia e la forma ne sono principi! o cause intrinseche. Così alla ricerca sull'essere considerato come un composto di materia e di forma si connette la ricerca sulla causa motrice, principio del cangiamento. Rilevantissima e degna di essere attentamente meditata è la teoria ari- stotelica del movimento o passaggio dell' essere dalla potenzialità alla attualità, dalla materia alla forma. Abbiamo veduto che Platone sollevatosi 117 2 II' PROBLEMA METAFISICO ECC. insino alla contemplazione delle pure essenze delle cose era uscito fuori della natura vivente e rinchiusosi nel mondo immobile delle idee, da cui non gli 111 |)iù possibile ridiscendere nel mondo della raoventesi realtà. Aristotele per contro si colloca fin dalle prime in seno della natura, che per lui è l'insieme delle cose che si nmovono, e quivi studia il moto non solo come il latto caratteristico della natura, ma altresì come il fatto del più alto momento, da cui la filosofia debbe pigliare le mosse per sollevarsi alla cognizione scientifica dell'essere. Che cosa è adunque il moto, ossia il cangiamento e come si compie? Abbiam notato che l'essere finito consta di materia e di ferma, e che perciò in quanto è dotato di forma, possiede realmente ed in atto tale o tal altra qualità, in quanto poi ha una materia, possiede la facoltà o potenza di acquistare tale o tal altra qualità, di cui è privo tuttora, diventando ciò che non era dapprima. Quindi è proprio della sostanza finita il passare da uno stato o modo di essere ad un altro diverso, dalla materia alla forma, attuando la propria virtualità infino a che tutta l'abbia esaurita ed esplicata e tentando così di avvicinarsi a Dio che è atto purissimo scevro di potenzialità senza però mai poterlo raggiungere. Or questo passaggio dell' essere dalla materia alla forma, questo esplicarsi continuo e successivo della sua virtualità è per appunto il cansiamento o molo: gli individui mutano e si trasformano incessante- mente; il cangiamento è perciò un fatto irrepugnabile che costituisce il fondo stesso dellessere finito e la vita della natura; esso quindi importa e presuppone che la sostanza non sia tutta attuata e svolta, che non sia per anco tutto quello che può essere, ma importa ad un tempo che non si rimanda in uno stato di mera immobilità ed indeterminazione. Il moto adunque non è né pura potenza o materia, né puro atto o forma, perchè la potenza, che non uscisse dalla sua indeterminazione sarebbe immobile del pari che l'atto che stesse fermo mai sempre in una precisa determinazione ; è perciò necessità che il moto sia un termine intermedio fra la potenza e l'atto, e che li riunisca entraml)i in sé, che sia un'attualità per così dire virtuale, ed una virtualità attuale ; lo che Aristotele esprime definendo il moto per =z l'attualità del possibile in quanto é possibile =. Così ogni momento del moto è un attuamento della potenza; è la potenza che diventa atto per guisa che in esso Fattualità e la virtualità, la potenza e l'atto, la materia e la forma insieme si ricongiungono e coesistono. Con questo concetto del moto Aristotele intende di risolvere le diHicoltà che accamparono contro il cangiamento coloro, i quali lo PER GIUSEPPE ALLIEVO. I'j3 respinsero come un mero indeterminato, come un non essere, perchè non può essere risguardato né come pura potenzialità, né come vera realtà : Aristotele fii osservare, che il moto è una realtà ed attualità imperfetta, una realtà ed una non realtà ad un tempo, perchè essendo un transito dal virtuale al reale, non è più un mero virtuale, ma non è ancora un vero reale, sihbene la congiunzione dell uno e dell'altro. Che il can- giamento sia attualità e non lo sia ad un tempo, Aristotele riconosce essere cosa assai strana e malagevole a comprendersi, ma pur tuttavia possibile, anzi un fatto incontrastabile. E qui non so ritenermi dall'osservare, che questo concetto aristotelico del cangiamento, il quale riunisce in sé il virtuale ed il reale, la realtà e la non realtà, pare a primo aspetto identico col concetto hegeliano del diventare, che in sé identifica i due opposti dell'essere e del non essere; ma gli è da por mente a questa gran differenza, che mentre pel filosofo greco il cangiamento cade soltanto nella sostanza finita e sensibile, di cui è proprio il passare dalla potenza all'atto esplicando la propria virtualità, e non già nella sostanza infinita e divina che è atto purissimo o forma scevra di materia, il filosofo tedesco all'incontro applica il diventare al- l'essenza stessa dell'essere assoluto e primitivo, che dall'estremo della possibilità passa al massimo di realtà fino a diventar Dio. Ancora, per Hegel il possibile puro ossia il mero indeterminato si traduce nell'attualità per propria sua virtiì senza bisogno di una realtà precedente che lo tragga al- l'atto, mentre è un pronunciato capitale della Metafisica aristotelica questo, che la materia cioè il possibile non può di per sé tradursi in forma, cioè in realtà determinata, e che la potenza vuol essere preceduta dall'atto che la esplichi tantoché la produzione e l'esistenza di nuove realtà riescirebbero ontologicamente impossibili se non vi preesislesse una realtà, come causa efficiente delle medesime. Cosi Hegel avrebbe tolto ad Aristotele il suo concetto del diventare, non già svolgendo, ma trasnaturando il concetto aristotelico del cangiamento per dargli una tal quale aria di originalità che sta nella negazione del principio di contraddizione. Questo principio, non che essere impugnato da Aristotele, faceva anzi parte integrante della sua teorica della materia, della forma e del cangiamento, che aveva in esso la sua base ed il fondamento. Egli enunciava il principio di con- traddizione dicendo = essere impossibile che il medesimo attributo con- venga e ripugni al medesimo soggetto nel medesimo tempo e sotto lo stesso rapporto {Met., lib. 4°) =, e risguardava tale principio come legge inÀ IL PROBLEMA METAFISICO ECC. non solo degli esseri ma altresì del pensiero, dichiarando logicamente e realmente impossibile la coesistenza simultanea dei contraddittorii nella medesima sostanza, e stabilendo che fra due contraddittorii non si dà un terzo termine medio in cui si uniscano. Coloro che negano questo prin- cipio (egli avverte nel cap. 4° •^'*^1 libro 4" Met.) pretendono che sia la stessa cosa essere un uomo e non esserlo punto, e così va discorrendo. Ciascun oggetto avrebbe dunque e non avrebbe tutte le determinazioni : di tal modo la sostanza è annientata, poiché essa è un essere determinato^ e tutto non è che relativo ed accidentale, perchè tutti gli attributi sareb- bero suscettibili di cangiamento. Così tutti i contrarii sarebbero attribuiti alla medesima cosa, l'uomo sarebbe una trireme, Dio una muraglia. Aristotele rimanendo fedele alla sua teorica della materia e della forma la conciliava col principio di contraddizione, avvertendo che un essere ri- sguardato nella sua forma od entità determinata non può possedere attual- mente due attributi contraddittorii per la contraddizione, che noi consente^ ma che considerato nella sua materia o potenzialità, riunisce in potenza i due opposti, non però in alto, in quanto che mentre possiede real- mente un dato attributo determinato, ha la potenza di possedere il suo opposto, il quale sebbene non sussista ancora realmente accanto al primo, è però virtualmente contenuto in questo. Sta però sempre in tutto il suo vigore il principio di contraddizione, poiché l'essere non potrebbe pas- sare all' attualità e vestire realmente la determinazione o qualità che in esso virtualmente si conteneva senza smettere la determinazione o qualità primitiva. Ed ecco come Aristotele svolgendo il principio di contraddi- zione, secondo cui i contraddittorii non possono attualmente coesistere nel medesimo soggetto, veniva a compiere la sua teorica del cangiamento aggiungendo alla materia ed alla forma un terzo principio, che è la pri- vazione, mercè il quale la sostanza non possederebbe realmente od at- tualmente un determinato attributo senza essere privo del suo opposto, il che é lo schietto e genuino senso del principio di contraddizione. Così a ragion d'esempio un uomo non possederebbe in atto la scienza se non fosse privo dell'ignoranza, quantunque virtualmente questa in lui inesista, potendo ricadere nell ignoranza. Quindi ogni sostanza vorrebb'essere con- cepita come composta di materia, di forma e di privazione ; tre principii, che insieme coesistono nell'essere sostanziale, che nel medesimo tempo possiede attualmente un determinato attributo (forma), è privo del suo op-^ posto (privazione), e può possederlo (materia). PER GIUSEPPE ALUEVO. 175 Il cangiamento o moto della sostanza ha un principio che lo produce, causa elliciente o motrice, ed ha uno scopo a cui tende, causa finale, tanto che quella segna l'inizio, questa il termine del movimento, ed hanno l'una per rapporto all'altra quella stessa attinenza, che la materia e la forma. La sostanza adunque non si muove né si trasforma a caso: tutto, che ac- cade, ha uno scopo, e questo fine, a cui è indiritto ogni movimento della natura, è un bene, e il bene sta nel massimo possibile esplicamento della potenza, vai quanto dire nel raggiungere la pienezza dell'esistenza, nel che sta appunto la perfezione dell'essere. Vi ha tal essere, in cui 1' attualità ha raggiunto la sua massima e pienissima perfezione; quest'essere, in cui non v' ha piii nulla di potenziale perchè lutto è pienamente attuato, que- st'essere, atto puro senza potenza, forma perfetta, scevra da ogni materia, è Dio. Or Dio, come puro e compiuto alto, è desso la causa motrice ad un tempo e la causa finale di tutte sostanze finite, egli è il supremo mo- tore, che essendo da esse desiderato le fa passare dalla materia alla forma e sta come ideale supremo a cui tutte si sforzano di arrivare siccome a meta e termine ultimo di loro movimenti. La sostanza finita, attratta dal supremo motore come da essere perfettamente attuato, tende di continuo verso di lui e quindi cerca di uscire dal suo stato di imperfezione, espli- care i germi dell'essere, che in sé nasconde, e compier sé stessa, liadu- cendo ad una determinata attualità la sua indeterminata potenzialità per mezzo del movimento, che è la tendenza della natura all'essere attualis- simo assoluto. Scopo adunque e termine di tal movimento sarà il massimo possibile esplicamento della potenzialità o materia, nel che sta appunto il massimo possibile accostamento della sostanza finita alla sostanza infinita, che é forma purissima d'ogni materia, atto compiuto scevro di potenza, epperò essere sovranamente ed infinitamente perfetto. Essendo adunque Iddio, come atto purissimo, il supremo motore ed il fine supremo, per cui la sostanza finita fa trapasso dalla materia alla forma, scorgesi di qui ragione, per cui de' quattro primi principii o cause prime delle cose, la motrice od elHciente e la finale vengono considerate siccome estrinseche allessere finito siccome quelle che risiedono in Dio, mentre la materiale e la formale si dicono intrinseche al medesimo perchè costituiscono per cosi dire la sua entità. Considerando nel loro insieme queste quattro cause, che vennero infino a qui studiate in particolare, Aristotele stabilisce che esse sono siffatta- mente collegate fra di loro e dipendenti luna dall'altra da significare quasi jr-Q IL PROBLEMA METAFISICO ECC. una sola e medesima cosa e da non dilFerire tra di loro se non pei dif- ferenti aspetti sotto cui vengono considerate. Egli riconosce una tal quale identità tra la causa formale, la finale e la elliciente o motrice essendo- ché tutte costituiscono la determinazione dell'essere sguardata sotto diversi aspetti: solo la causa materiale si mantiene essenzialmente distinta dalle altre tre, né può ad esse venir ricondotta, siccome quella che è la mera indeterminazione o potenzialità delPessere, epperò non è vero e compiuto essere in atto. Quindi Aristotele non perde mai di vista né mai disconosce l'opposizione tra la materia e gli altri principii determinativi dell'essere. Tale è ne suoi fondamentali concetti delineata l'Ontologia di Aristotele. Essa ha per oggetto l'ente, non però accidentale, non meramente gene- rico, né universale puro, ma Tessere individuato e compiuto formante un tutto da sé , l'essere supremamente categorico , vai quanto dire la so- stanza, e per di piìi la sostanza finita e sensibile, non già la soprasensibile ed infinita: ond è che lOntologia aristotelica riesce una teorica del deri- vato. La realtà sensibile è il punto di mossa della scienza ontologica ; suo compito è di spiegare questa stessa realtà schiettamente tal quale ci si presenta senza punto alterarla, studiandola dietro la scorta dell'osserva- zione sussidiala dal ragionamento, non già costruendola a priori col pen- siero puro e trascendentale. Ma spiegare la i-ealtà finita e sensibile vai quanto i-icondurla alle supreme sue cause, a' suoi primi principii: lOnto- logia adunque vuol essere una compiuta e scientifica spiegazione de' primi principii. Or i principii primitivi dell'ente sono la forma, la materia, il moto o cangiamento ed il fine. Ogni essere sostanziale è in sé qualche cosa di determinato nei caratteri e nelle qualità che attualmente possiede; ecco la forma: può ricevere nuove determinazioni e qualità altre da quelle che già . possiede ; ecco la materia: passa di continuo dalla materia alla forma, dalla potenza all'atto, ecco il moto o cangiamento; tende al mas- simo esplicamento di sua potenzialità, al massimo di realtà possibile; ecco il fine. La teorica di questi quattro principii è tutta 1 Ontologia di Ari- stotele; essa è spiegazione compiuta e quindi scienza compiuta, perchè non venne ommesso veruno dei principii costitutivi dell'essere. Parte IIP. Teologia o Teorica del Primitivo (Lib. 11-14). LOntologia ha disaminati e discussi i principii primi dell'essere finito, ma la realtà sensibile e finita non è tutto l'essere, epperò la teorica dei PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1^7 quattro principii, che è 1 Ontologia, non è tutta la scienza metafisica, ma al di sopra di essa si solleva la teorica del Primitivo, ossia la Teologia, come al di sopra della sostanza sensibile e finita sta la soprasensibile ed infinita, Iddio. La Teologia aristotelica si stende dal libro undecimo in- fino al decimoquarto ed ultimo della Metafisica; prima però di por mano alla teorica del Primitivo, Aristotele fa nel libro undecimo un breve rie- pilogo di quanto venne ne libri precedenti discorrendo intorno alla so- stanza finita quasi per richiamare al pensiero del lettore i concetti ontologici ottenuti e prepararlo con ciò a nuove indagini intorno all'essere primitivo, sicché il libro undecimo viene considerato come una propedeutica alla teorica del Primitivo e serve come di anello intermedio fra l'Ontologia e la Teologia. Nel libro duodecimo si espone e si .svolge la teorica dell'es- sere assoluto, ossia del primo principio, che è Dio, mentre liei due ultimi libri si piglia a confutare la dottrina de' Pitagorici e de' Platonici intorno alla natura della sostanza infinita riposta dagli uni nel numero, dagli altri nell'idea. Lasciando qui da parte la critica che fece Aristotele del sistema pitagorico e del platonico su questargomento, passiamo senza più ali espo- sizione della sua teorica del Primitivo. Aristotele collocandosi in seno della natura vivente aveva fermato il suo pensiero sul fenomeno del movimento, che è il gran fatto caratteristico della realtà sensibile e finita, e dal concetto del moto egli prende appunto le mosse per sollevarsi al concetto di un supremo motore, Iddio. Il mondo porta in sé latente il principio della forza motrice, per cui veste mai sempre tale e tal altra forma, e si determina e si modifica senza cessa nella pro- duzione delle individualità successive e diverse che compongono luniverso. Ma il mondo non si sarebbe destato alla vita se la forza motrice che in lui riposa non avesse ricevuto la spinta: ci \aiole adunque un primo mo- tore, da cui le forze latenti della natura abbiano ricevuto il loro primitivo impulso, e questo primo motore debb' essere assolutamente immobile, perchè se egli pur si muovesse, sarebbe mosso da altre cause da lui distinte e queste alla loro volta da altre all'infinito, il che ripugna. Dimostrata la necessità di un primo motore, Aristotele ne svolge il con- cetto di Dio traendolo dal concetto stesso del derivato e compiendo così la sua Ontologia per mezzo della Teologia: gli esseri finiti componenti la natura mondiale son forme accoppiate alla materia , cioè alla potenzia- lità, sono entità in parte determinate, in parte indeterminate, sono alcun- ché di reale e di attuato, non però ancora tutto il reale, tutta l'attualità Serie II. Tom. XXX. 23 I^cS IL PROBLEMA METAFISICO ECC. di cui son suscettivi. Ma la natura mondiale mancherebbe per cosi dire del suo comignolo e della sua suprema ragione, se al di sopra di essa non vi fosse un essere primo, atto perfetto senza potenzialità di sorta, pura forma scevra di materia. Per ciò stesso che è atto puro Iddio è il sommo dell'essere, la pienezza della realtà; infatti il vero e compiuto essere ri- siede nella forma e non nella materia, perchè la forma sola è qualcosa di determinato, tutto ciò che non è in atto, ma solo in potenza, non è. vera e reale esistenza, questa non può risiedere altrove che nella determina- zione e nell'attualità : di che consegue che la perfezione e la compitezza dell'essere cresce col crescere della forma e col venir meno od estinguersi della materia, e che perciò il sommo dell'essere risiederà nella forma scevra di materia, ossia nellatto purissimo che è per appunto Iddio. Egli è adun- que un'essenza eterna, immobile, immodificabile ed inalterabile, poiché il cangiamento essendo il transito dell'essere dalla potenza all'atto è sibbene proprio delle sostanze finite e temporanee che sono miste di materia e di forma, ma non può cadere nella sostanza divina, che essendo pura forma ha una natura tutta esplicata ed attuata, è pienamente determinata né con- tiene in sé veruna potenzialità non per anco tradotta in atto, sicché es- sendo tutto che può essere debbe di necessità rimanere tal quale esiste. Cosi Iddio si solleva infinitamente al di sopra dell'universo, perchè gli esseri finiti non mai giungeranno a spogliarsi onninamente della materia ed ade- quare la purità della forma divina. La teorica del Primitivo non può arrestarsi a questo punto : il concetto di Dio considerato come atto puro riesce per anco indeterminato e vago; esso abbisogna di essere concretato, poiché sorge di per sé la dimanda, in che propriamente risieda quest'atto puro, e quali caratteri debba rac- chiudere perchè contenga il sommo dellessere e della realtà. E questo il massimo e piii grave problema teologico, poiché ciò vai quanto il diman- dare qual sia la natura costitutiva dell'essere primitivo, e la teorica del Primitivo non può dichiararsi compiuta se lascia senza risposta tale do- manda. In che adunque risiede l'atto puro? Nella vita, risponde Aristo- tele, e nell'atto più sublime e piìi eminente della vita, che è il pensiero. Infatti il vero e perfetto atto è quello, che è fine a se stesso, che con- tiene in se stesso la propria perfezione senza bisogno di riceverla dal di fuori, che perciò non esce dalia potenzialità, ma si conserva mai sempre immutabile ed il medesimo senza mai venir meno, cogliendo sem])re io stesso ed identico oggetto e non mai trapassando da questo a quello. Il PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 79 vero atto insomma non suppone né potenza, né fatica, né strumento di cui si giovi per esercitarsi, né oggetto esteriore e mutabile a cui tenda come a suo scopo. Ora siffatti caratteri dell'atto puro non si avverano che nel pensiero , in cui solo svaniscono la distinzione e V opposizione tra il soggetto e l'oggetto. Il pensiero non è una potenza che tenda all'atto e che venga tradotta all'atto da un oggetto estrinseco, da un fine posto al di fuori di lei, ma é un'azione, che si mantien sempre la stessa senza posa e senza cangiamento e che in ciascun istante é pur sempre quella di prima, perchè immutabile ed a lei intrinseco è il proprio oggetto. L'ope- rare della natura e delle sostanze finite non è atto puro, non è vera azione, ma piuttosto movimento che termina ad uno scopo da esse distinto ed estrinseco, qual sarebbe ad esempio 1 attività dell artefice nel costruire una macchina : come pure le diverse operazioni dell' anima e del corpo non sono atto puro perchè non hanno il loro fine in se medesime ; così si studia per acquistare la scienza, che è cosa diversa dall' apprendere, si lavora e si fatica per raggiungere la felicità che è altra cosa del lavoro e della fatica ; del pari il sentire è un alto cui si oppone l'oggetto sen- tito ed abbisogna dell' oggetto perchè esca fuori dalla potenza sensitiva. JNon così incontra del pensiero : esso solo é un atto puro, un' entela- chia, come lo chiama Aristotele, vale a dire un'attività avente in se stessa la propria perfezione: esso è forma distinta affatto dalla materia, è atto che non erompe da veruna potenza, fche ha in sé il proprio oggetto senza bisogno e dipendenza di oggetto estrinseco e diverso, che lo faccia uscire dalla sua nascosta virtualità. Nel pensiero cessa ogni opposizione e distin- zione tra soggetto ed oggetto; lintelligenza non riceve dal di fuori l'oggetto intelligibile, come il senso 1 oggetto sensibile; ma il conoscente ed il co- nosciuto, U pensiero e l'essere fanno uno. L atto puro adunque risiede nel pensiero puro, e Dio che é 1 atto puro, è altresì il pensiero puro e per- fetto, in cui il pensante ed il pensato si identificano insieme. Però que- st'identità del pensante e del pensato ha luogo solo nel pensiero divino, che è atto puro, non già nella ragione umana, la quale anziché atto puro è una potenza che va man mano esplicandosi ed abbisogna di oggetti in- telhgibili da lei distinti che la traggano all'atto e la perfezionino; mentre Iddio non é una pura facoltà di pensare , ma il pensiero slesso in atto immobile e perenne. Dio perciò é essenzialmente pensiero e nulla piìi che pensiero, egli é felice, ma la sua beatitudine non istà nell'agire, essendo già tutto quanto può essere, ma nel conoscere, nel pensare, non è ragion l8o IL PROBLEJIA METAFISICO ECC. pratica, ma ragion teoretica, il suo gaudio risiede nel suo atto del pen- sare; quindi egli è pienamente ed eternamente beato, perchè pensa sempre a tutto il pensabile, mentre per noi, il cui pensiero muta di continuo, la gioia non è che temporanea ed incompiuta. Ma qnal è quest'oggetto perenne ed immanente dell'intelligenza divina, che costituisce il pensiero puro? E questo l'ultimo problema, la cui so- luzione chiude per così dire la teoria teologica di Aristotele, e che per la sua gravità merita di essere attentamente discussa dalla Critica. Egli consacra un intiero capitolo nel libro duodecimo della Metafisica, il nono, a rispondere alla dimanda, quale sia lo stato abituale dell'intelligenza di- vina, ed ingegnasi di dimostrare che Dio non può avere altro oggetto dei suo pensiero che se stesso, e che se egli conoscesse cose diverse da lui, quale sarebbe il mondo, perderebbe la sua perfezione e felicità. Quivi egli comincia collo stabilire, che l'intelligenza divina debb' essere pensiero in atto, perchè se non pensasse nulla, se fosse come uomo addormentato, non sarebbe del sicuro la cosa oltre modo eccellente e dignitosa. Ma essa non solo debbe pensare, ma il suo pensiero non debb' essere una sem- plice facoltà che abbia bisogno di un oggetto o principio intrinseco che la tragga allatto; perchè in tal caso dipenderebbe da un principio supe- riore che le dà l'atto; opperò non sarebbe piià I essenza ottima. Posto adunque che lessenza dell'intelligenza divina sia il pensare, si domanda quale sarà l'oggetto di essa ? O quest oggetto sarà essa stessa, o qualche altra cosa diversa da lei, e se altra cosa da lei, questa od è sempre la stessa, o tale e tal alti'a. Ammettere che l' intelhgenza divina abbia per oggetto cose da lei differenti, ovvero la prima cosa venula a caso, ripugna all'eccellenza sua, perchè alcuni oggetti sono sconci e vai meglio non co- noscerli, e d'altronde cambiare l'oggetto del proprio pensiero sarebbe pas- sare dal meglio al peggio, sarebbe un moto, una fatica, e la stessa mente divina ne sofirirebbe detrimento e scapito. E adunque chiaro che l'intel- ligenza divina non può pensare se non a quanto vi ha di più sublime e di pili eccellente e che non varia d'oggetto; ma nulla vi ha di piiì eccel- lente e di più immutabile se non Dio stesso; dunque Iddio non può pensar che se stesso, e il pensiero divino è il pensiero del pensiero. Cosi mentre il pensiero umano non è oggetto a se slesso, perchè ap- prende cose da lui ditìèrenti, e passa da tale a tal altro oggetto, il pen- siero divino all' incontro comprende in sé il suo oggetto in un istante indivisibile, pensa se stesso durante tutta l'eternità, ed è perciò un atto PER GIUSEPPE ALLIEVO. l8l semplice , immutabile ed unico , in cui il soggetto pensante e l' oggetto pensato fanno uno, e si confondono insieme la suprema intelligenza ed il supremo intelligibile. Tutto questo ragionamento di Aristotele può venir compendiato nelle quattro seguenti proposizioni; i° la Mente suprema deve essere sempre in atto di contemplazione; 2" quest'alto contempla- tivo deve aver per oggetto l'ottimo e quindi l'immutabile ed identico; 3° quest'ottimo non può essere che il pensiero stesso divino; 4° dunque Dio è un pensiero che pensa se stesso, ossia è il pensiero del pensiero : e tale è appunto la definizione che di Dio dà Aristotele scrivendo nel libro duodecimo della Metafisica al capo nono, che il pensiero è il pensiero del pensiero. Cos'i, muovendo dal latto del movimento della natura, egli erasi sollevato al concetto di Dio come supremo motore ; quindi scru- tando la natura di questo primo principio lo concepì come atto puro, e concretando questo concetto, ripose l'essenza dell'atto puro nel pensiero e l'essenza del pensiero puro nel pensiero avente per oggetto se stesso, ossia nel pensiero del pensiero, in cui conchiuse il concetto definitivo di Dio. Questo primo principio poi Aristotele dimostra non poter essere che un solo, arguendolo dall'ordine e dall'armonia dell'universo; ond' egli chiude la sua teorica del Primitivo con quel verso di Omero : Non buono è il reggimento dei piìi. un solo sia il reggitore. Quale sia la teorica del Derivato e la teorica del Primitivo di Aristotele l'abbiamo or ora veduto. A compiere l'esposizione del sistema metafisico da lui professato rimane ad esporre la dottrina dei rapporti che egli sta- biliva tra questi due termini ontologici , il Derivato ed il Primitivo , il mondo e Dio. Sollevandosi dalla contemplazione degli essed finiti insino all'essere infinito, egli aveva concepito Iddio siccome il supremo motore che muove tutto Tuniverso; e questo concetto di Dio risguardato siccome motore primo ed unico della natura compendia in sé tutta la dottrina aristotelica intorno al rapporto tra il Primitivo ed il Derivato. Ma Dio non è egli atto puro, epperò immobile in virtìi di sua stessa natura, essendo eternamente assorto nell immutabile contemplazione di un mede- simo ed identico oggetto, cioè di se stesso? E se sta essenzialmente im- mobile in se stesso, come mai potrà muovere il mondo senza uscire dal suo assoluto riposo ? Come si concilia insomma il movimento divino del mondo coll'immobilità del principio motore ? Cercando di sciogliere questo grave problema , Aristotele svolse una teorica che , sebbene non possa essere menata buona dalla Critica, non manca però di originalità, e me- iSa IL PROBLEMA METAFISICO ECC. rila di essere studiata e convenevolmente apprezzata. Iddio è sommo Bene, e come tale essendo il fine supremo dell'universo, muove tutta la natura senza esserne mosso egli stesso alla sua volta. Poiché è proprio del bene il destar desiderio ed amore di sé in tutti gli esseri che 1' appetiscono : nel mondo sensibile 1' oggetto del desiderio e dell amore attrae a sé il soggetto che desidera ed ama senza riceverne influenza di sorta. Or Dio che è Bene sommo ed infinito attrae a sé il mondo come calamita il ferro : ogni essere lo ama e lo desidera , tutto tende e si muove verso di lui , ed è come oggetto di desiderio e di amore che il Bene supremo muove ogni cosa. La sua azione motrice è una semplice attrazione; la natura^ intelligente e piena d amore , aspira a Dio come a suo scopo finale , e quest'aspirazione continua, incessante di tutto l'universo al primo principio costituisce 1 unità, la bellezza, l'armonia della natura. Aristotele con una bella immagine ci mostra il cielo e la terra sospesi a Dio, siccome a loro supremo centro di attrazione, tantoché non vi ha pure un sol essere in tutto r immenso universo , che non senta la sua possente azione : di tal modo la natura tutta forma, per cos'i dire, un'immensa scala, dove stanno gerarchicamente collocati gli esseri mondiali ; ali infimo gradino di essa sta la materia , siccome quella che , essendo indeterminata , sente meno l'impero del supremo motore e né lontanissima; alla cima di questa scala sta il pensiero puro e perfetto; fra questi due estremi della materia pura e del puro pensiero giace la natura mista di materia e di forma, la quale esplicando i germi di vit;i in lei racchiusi, e svolgendosi in forme sempre più j)eriétte di esistenza va man mano e con passo lento , ma sicuro , percorrendo i diversi gradi dell essere, elevandosi dalla .semplice ed in- composta materia insino al pensiero supremo. Abbiamo detto, che Dio muove il mondo per attrazione, perchè essendo Bene assoluto è oggetto di desiderio e di amore a tutte cose. Ma questa divina attrazione è dessa una vera ed efficace azione che da Dio trapassi nel mondo da lui mosso e gli comunichi qualche cosa di sé.' La natura riceve essa dal motore supremo qualche nuova entità che non avesse da prima , e deve forse a lui la sua propria esistenza , e le determinazioni o forme dellesistenza stessa.' In altre parole, Iddio operando sul mondo come fine supremo, come bene assoluto, è forse per il mondo principio di essenza, di forma, di esistenza, come lo é del movimento ' Il pensiero di Aristotele intorno a questi gravi problemi concernenti il rapporto di origine, di natura e di fine tra il mondo e Dio emerge chiaro ed aperto PER GIUSEPPE ALLIEVO. l83 dallo spirito e dal contesto della sua dottrina metafisica. Il Dio di Ari- stotele è onninamente segregato ed isolato dal mondo; è un essere affatto solitario ed estramondano chiuso immobilmente in sé , assorto nella contemplazione di se stesso , che non conosce , non desidera , non ama altro oggetto che se stesso, né si trova in contatto con verun altro essere che con se stesso. Egli non ha col mondo nessun vero ed efllcace legame; il mondo non gli deve la sua origine, non la sua forma, non la sua es- senza: che piii? Dio è siffattamente segregato dal mondo che noi conosce nemmeno, e non conoscendolo noi governa neppure; egli lo muove, ma senza stabilire con esso verun rapporto di azione ; egli è causa finale dell'universo, ecco l'unico suo rapporto, ina non ne è la causa efficiente, non creatrice, non trasformatrice, non provvida, né ordinatrice. Platone aveva bensì ammessa esistente ab aeterno la materia, ma in uno stato informe, disordinato, indeterminato, epperò aveva concepito Iddio come causa efficiente , se non creatrice , almeno ordinatrice di essa ma- teria , come artefice sovrano che operando sopra di lei 1 ha trasformata ed abbellita traendone l'ordine e l'armonia dell universo; aveva concepito Iddio j non solo come forza ordinatrice del mondo, ma come provvidenza che governa tutto l'universo iii generale ed i singoli esseri in particolare. Nulla di tutto questo in Aristotele. Per lui non vi ha caos primordiale, da cui sia uscito il cosmo per opera divina ; non vi ha moto cieco e sconvolto che abbisogni di una mano suprema che lo ordini e lo com- ponga: tutto in natura è per se stesso, tutto esiste eternamente, neces- sariamente, con ordine: la materia è sempre esistita, ma ordinata, de- terminata, non già informe ed indeterminata, poiché la materia non può sussistere un solo istante separata dalla forma, e per questa unione ne- cessaria ed eterna della materia e della forma gli individui della natura esistono in sé e per sé senza bisogno di un principio supremo ed assoluto che abbia loro data l'esistenza e gliela conservi. A rendere ragione del- l'origine, del moto e dellessenza sostanziale degli esseri mondiali Aristo- tele non reputa necessario risalire ad una causa superiore e distinta dai mondo stesso; tale i-agionc egli la trova nellidea .stessa della natura, e solo a spiegar l'ordine, l'armonia, il bene che risplendono nell'universo egli reputa necessario un Dio come fine supremo di tutte cose. Del resto, il mondo è eterno e necessario, ha sempre esistito e sempre esiste in uno ' stato organizzato , con le sue forze e con le proprie sue leggi ; esso si determina, si trasforma e si modifica di per sé, ha in se stesso il prin- l84 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. cipio del SUO moto , la forza motrice. E bensì vero che la natura tutta tende a Dio, come a Bene suprèmo, ma non è Dio che le dia il moto, r essenza , la forma e la vita ; tutte queste cose essa le debbe già pos- sedere in sé , poiché non potrebbe aspirare verso il bene supremo , de- siderarlo, amarlo, se non fosse già di per sé mobile ed attiva. Iddio adunque non è causa efficiente e creatrice del moto, ma solo causa impulsiva che scuote le forze motrici preesistenti in seno alla natura, non è che forza attrattiva riposta nell'essenza slessa del Bene, in virtiì del quale le forze assopite si risvegliano e si pongono in esercizio. Cosi Dio ed il mondo non hanno fra di loro verun rapporto di unione intima ed operosa: essi rimangono non solo distinti, ma separati fra loro da un abisso. Dio pensa se stesso , ecco tutto ,per lui ; il mondo va da sé senza Dio , a cui non deve né origine , né movimento , né essenza , né forma : gli esseri mondiali hanno insita in sé da natura e non comu- nicata da Dio la forma dell' esistenza , e questa forma si perpetua e si rinnova eternamente dall' uno all' altro essere nella propagazione della specie , e la natura tutta non cesserebbe di esistere e di propagar la vita a nuovi esseri anche senza che esistesse Iddio, solo che mancherebbe di fine a cui tendere, ed a cui, come a sommo Bene, commisurare la pro- pria perfezione ; epperò Iddio , sebbene non sia per gli esseri dell'universo principio della loro esistenza e della loro essenza, é però fine e termine supremo a cui tendono tutte le entità finite senza mai poterlo pienamente raggiungere , é Bene assoluto , che attrae a sé 1 universo senza punto conoscerlo, essendoché il mondo abbisogna di uno scopo, e questo non può essere altro che il sommo Bene , Iddio. Con ciò Aristotele , de' tre distinti problemi relativi al triplice rapporto di origine, di natm-a od es- senza e di fine fra il mondo e Dio , avrebbe solo cercato di risolvere quest'ultimo, disconoscendo affatto gli altri due. Critica di Aristotele. Dalla rapida esposizione che abbiamo fatta della dottrina di Aristotele aaevolmente si rileva . come la sua teoria metafisica sia intimamente connessa colla sua teorica del metodo. Epperò conformando la nostra critica allordine stesso seguito nella esposizione , noi piglieremo ad esa- minare da prima brevemente la metodologia di Aristotele, passando poscia a discutere il valore del suo sistema metafisico. PER GIUSEPPE ALLIEVO. I 85 Nel corso delle nostre lezioni più volte ci venne avvertito che dal me- todo filosofico dipendono in gran parte le sorti di una dottrina metafisica, e che solo dal felice connubio dell'osservazione e del ragionamento può germinare ima soda e compiuta teorica speculativa. Ora se si raffronta la metodologia aristotèlica con quella delle scuole filosofiche precedenti, la Critica non può a meno di non riconoscere la superiorità del concetto metodologico di Aristotele su quello degli altri filosofi, ed il notevoi pro- gresso a cui egli condusse questo punto cotanto rilevante del sapere filo- sofico. E veramente la scuola jonica disconoscendo affatto la necessità del ragionamento speculativo per la costruzione del sapere filosofico aveva chiesto alla sola facoltà dell' osservazione e dell' esperienza la soluzione del problema metafisico, minando così in un grossolano ed irrazionale em- pirismo; la scuola eleatica per contro ponendo in lotta l'osservazione col ragionamento sacrificò quella a questo, smarrendosi così nell'estremo op- posto di un chimerico ed astratto idealismo. Platone riconobbe sibhene la necessità di entrambe queste due facoltà conoscitive siccome due mo- menti costitutivi del metodo filosofico ; ma invece di armonizzarle fra di loro per mezzo di un vero vincolo di continuità e di intiera compene- trazione fece procedere il pensiero dall'osservazione alla speculazione in modo affatto meccanico e quasi a dire saltuariamente, considerando l'espe- rienza siccome un fuor d'opeia nell'elaborazione del sapere speculativo e niégandole ogni efficacia e valore scientifico. Aristotele spiegò del metodo filosofico un concetto ben pili compiuto e chiaro che non quello di tutti i filosofi che lo precedettero : egli non solo fece luogo ad entrambe le facoltà conoscitive dell'osservazione e del ragionamento, ma (ciò che non aveva fatto Platone) le volle conciliate insieme in un felice accordo per mezzo di un vincolo di vera continuità e comunicazione interiore , e non di mera successione esteriore ; per lui r esperienza non può far senza della speculazione razionale , ma questa alla sua volta non può passarsi di quella. Epperò egli mostrò di avere coscienza del vero metodo speculativo alloraquando riconobbe che la scienza, essendo in parte universale, in parte particolare, debbe, a voler essere intiera e compiuta , studiarsi a sciogliere il problema di conciliare ad ar- monica unità la dualità dell'empirico e del razionale, del sensibile e del- l'intelligibile, e conseguentemente dell'osservazione e della speculazione. Quindi, mentre per Platone il mondo della realtà, quale è dato dall'os- servazione e dall' esperienza , è sibbene il punto di mossa del pensiero Serie II. Tom. XXX. ^4 iQQ II, PROBLEMA METAFISICO ECC. umano, ma vuol essere tantosto dalla ragione dimenticato per dare luogo al mondo delle idee, che è il vero e solo oggetto di scienza, Aristotele invece muove dalla realtà, né mai l'abbandona interrogandola attentamente e cercando di cumprenderne l'intimo significato per mezzo della ragione speculativa sorretta mai sempre da un attenta e fedele osservazione. Ad Aristotele adunque spetta il merito di avere egli pel primo fermato il vero e compiuto concetto del metodo filosofico, volendo rispettate del paro e conciliate insieme 1' osservazione e la speculazione , unica via questa di scansare i due estremi di un cieco empirismo e di un astratto idealismo. E veramente la realtà va studiata non nelle cellette del nostro cervello, ma nel gran libro delf universo , non ideata a priori, ne costrutta su forme preconcette soggettive, ma concepita ed appresa nella sua oggettiva natura ; spiegata per mezzo di principii a lei intrinseci e proprii che la manifestano, non già per via di principii ad essa estrinseci, quali sareb- bero le idee platoniche , le quali per essere affatto straniere alle reali esistenze non ci possono disvelare i secreti della realtà , e nulla ci ap- prendono intorno ad essa. L'esperienza somministra alla scienza metafìsica la materia di cui si dementa, la ragione speculativa vi imprime la forma; ecco il concetto fondamentale della metodologia aristotelica . concetto improntato di una grande verità , che verrebbe a significare che la spe- culazione debbe lavorare intorno ai dati stessi dell' osservazione e del pensare comune , esplicandone i germi e trasformandoli in elementi scientifici, non però trasnaturandoli, sicché l'oggetto dell'una permanga sostanzialmente identico con quello dell'altra. E qui non posso a meno di toccare di una gravissima diflìcoltà , la quale sorge da questo concetto fondamentale del metodo filosofico, e che mentre conferma vieppiìi le attinenze che intercedono tra la dottrina metodologica e la teorica metafisica , ne giova altresì ad apprezzar vie meglio la metodologia aristotelica. Se tra l'osservazione e la speculazione vi corre un vincolo di continuità cosi intimo e profondo , che l' oggetto dell'una sia sostanzialmente identico con quello dell'altra, sicché la ragione speculativa trasformi soltanto i dati dell' esperienza senza punto mutarne l'intrinseca natura e somministri questa la materia alla scienza, quella la forma , in tal caso Iddio , oggetto della speculazione , sarebbe nulla pili che r universo sollevato per così dire alla sua piiì sublime potenza , e l'universo alla sua volta, oggetto dell'ossei-vazione, sarebbe esso stesso un Dio , ma limitato e ridotto alle anguste proporzioni dell'essere finito ; lo PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 87 che è pretto panteismo. Se poi per iscansare uno scoglio così fatale s'in- terpone Ira la natura di Dio e quella dell' universo tale un abisso , che nessuna generalizzazione dell'esperienza valga a valicarlo, sicché nulla vi sia di comune tra l'essere divino e l'essere più sublime del creato, allora il pensiero non procede più dialetlicameule , ma salta di pie pari dal mondo a Dio, e vien meno quel legame d' intima conlinuità tra l'osser- vazione e la speculazione , in cui abbiamo riposto il vero concetto del metodo fdosofico. Neil un caso adunque per conciliare ad armonica unità la dualità delle facoltà conoscitive si rovescia nel panteismo trasformando il mondo in Dio e mantenendo sostanziahnente identico l'oggetto dell'una di esse con quello dell'altra; nell'altro caso si rompe larmonia tra l'os- servazione e la speculazione separandone gli oggetti e conseguentemente i due momenti del processo metodico ad essi corrispondenti, lo reputo che siffatta difficoltà possa venire agevolmente risolta ove ci facciauio un giusto ed adeguato concetto dell'indole costitutiva delle due facoltà cono- scitive di cui discorriamo. A mio avviso, la facoltà dell'osservazione e del sentimento è quella stessa che abbiamo altra volta denominato pensare comune , e la facoltà della speculazione o del ragionamento si converte col pensare metafisico e speculativo; di che ne segue che esse due facoltà non si distinguono in ciò, che luna abbia per oggetto il inondo, l'altra Iddio ; esse apprendono entrambe la realtà finita e la infinita nel loro insieme, con questo divario però che la facoltà dell'osservazione e del sentimento, cioè il pensare comune, coglie la realtà in modo intuitivo e vago e quasi per via di un cotal oscuro presentimento, mentre la facoltà della ragione speculativa , ossia il pensare metafisico , la apprende sotto forma scientifica , chiara e determinata. Di tal modo riman fermo quel che abbiamo stabilito, che la speculazione non fa che trasformare i ma- teriali dell' osservazione convertendo in concetti scientifici e razionali le vaghe e malferme intuizioni del pensiero comune, e pur mentre rimangono conciliati i due momenti del metodo filosofico, si scansa il panteismo per ciò, che non si trasforma il mondo in Dio, quasi che il mondo fosse esclusivo e proprio oggetto dell'osservazione, Dio poi esclusivo e proprio oggetto della speculazione, ed il pensiero passando dal primo al secondo momento del processo metodico, convertisse il concetto cosmologico in concetto teo- logico : secondo il nostro modo di vedere il mondo e Dio vengono entrambi appresi dal sentimento, e la speculazione esplica e compie la cognizione im- plicita e confusa che se ne aveva nel periodo intuitivo del pensare comune. j88 il problema metafisico ecc. Aristotele ha egli intesa nel modo or ora indicato la conciliazione di questi due atti fondamentali del pensiero nel processo metodico ? Io non oserei airermarlo ricisamente , anzi parrebbe, che sebbene egli avesse rico- nosciuta la necessità di conciliare nellunità organica della scienza la dualità dellelemento empirico e del razionale, le sue idee su questo punto così rilevante non abbiano raggiunto una forma stabile e definitiva. Tuttavia se si avverte che egli fa tal fiata rientrare l'uno nell' altra il sentimento e la ragione, che egli ammette un sentimento non solo delle cose mate- riate, ma altresì del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, che il sensibile e la sensazione, da cui egli fa iniziare la scienza, vengono da lui intesi ora in senso ristretto, ora in senso piìi esteso, fino a chiamare talvolta intelletto o ragione una certa maniera di sentile,' se da ultimo si pon mente a quella sua fondamentale sentenza, che l'esperienza ci dà sibbene il fatto, ma la scienza sola ci apprende il perchè del fatto e la sua ragione spiegativa , avremo fondato argomento di pronunciare che Aristotele presentì almeno, se non pose nella debita luce, la \erità di cui abbiamo fatta parola, cercando modo di contempcrare ad armonico accordo i pronunciati del sentimento e dell'esperienza con le speculazioni della ragione e di scansare i due estremi dell'empirismo e del razionalismo puro. Il Vacherot nella sua Storia critica della scuola di Alessandria (t. I, pag. ^S e seg.) facendo una breve esposizione critica della Meta- fisica di Aristotele, gli muove rimprovero di avere chiesta tutta la scienza e del mondo e di Dio dalla esperienza, sebbene rischiarata dalla ragione: finché si tratta di conoscere la realtà sensibile e finita e costrurre la teorica del derivato, l'esperienza sola illuminata dal ragionamento può rivelarne i secreti e giovare all'intento, ed il Vacherot ammirando la vastità e bellezza dell'Ontologia di Aristotele riconosce che egli deve la sua teorica cosmologica alla virtù del suo metodo empirico-razionale e che l'attenta contemplazione della natura fu dessa che lo sollevò alla scoperta di una forinola comprensiva dell'universo: ma quanto alla teorica del Primitivo, il Vacherot sentenzia che « il genio d'Aristotele si è lasciato dall' espe- rienza rinserrare in un angusto e falso concetto della natura di Dio e de' suoi rapporti col mondo ». Finché si tratta, egli dice, della realtà finita, l'esperienza guidata dalla ragione soccorre al bisogno; ma quando è (piestione del principio assoluto e supremo delle cose, l'esperienza debbe cedere il posto alla ragione : la speculazione non può giungere a Dio per mezzo di astrazioni tratte dall'esperienza; la natura di Dio va concepita PER GIUSEPPE ALLIEVO. 189 a priori, non indotta, né dedotta dai dati deirosservazione; ora il Dio di Aristotele non è una pura concezione della ragione, ma un vero astratto, un'induzione prodigiosamente sottile dell'esperienza sussidiata dalla ragione; e siffatta teorica del Primitivo è viziata per ciò appunto che è falsato il metodo teologico di Aristotele, che volle attingere la cognizione scientifica di Dio da quello stesso metodo empirico-razionale, da cui aveva felice- mente derivata la cognizione scientifica del mondo. Tale è l'appunto che muove il Vacherot alla* metodologia aristotelica; ma l'appunto a noi pare infondato per le osservazioni che siam venuti infine a qui facendo in pro- posito : anche noi siamo d'avviso che la Teologia aristotelica sia in molti pimti falsata, ma la causa dell'errore va cercata altrove e non nel metodo. Facendoci ora a disaminare il valore del sistema metafisico di Aristotele, giova die diciamo alcunché del suo concetto definitivo della Metafisica. Carattere essenziale ad ogni scienza speciale é l'unità , e quest' unità le debbe provenire dall'unità stessa dell'oggetto, intorno a cui essa si tra- vaglia. Ora la Metafisica, quale Aristotele 1 ha concepita ed ideata, attinge essa dal proprio oggetto quella forma di unità, senza della quale non può pretendere al titolo rigoroso di scienza? Noi abbiamo veduto che Aristotele concepisce la Metafisica prima come sapienza, poi come filosofia, da ultimo come Teologia o filosofia prima, e che dietro a questo triplice concetto l'ha definita primamente come la scienza delle cause prime o de' principii, secondamente come la scienza dell'ente in quanto ente; terzamente per la scienza della sostanza prima ossia di Dio. L'unità della scienza non può aversi se non a condizione che si possano ricondurre a logica unità le tre definizioni date della Metafisica, sicché esprimano lo stesso ed identico oggetto, sebbene sotto forme diverse. Ora, se si raffrontano fra di loro le prime due definizioni, é agevole il rilevare come esse si identifichino insieme e si riducano sostanzialmente ad una sola, essendoché i primi principii o le cause supreme degli esseri si convertono nell'ente in quanto ente; ma la cosa riesce assai malagevole, per non dire impossibile ove si tratti di identificare la seconda colla terza definizione, posciachè se per ente in quanto ente s'intende l'essere universalissimo e comune, spoglio d'ogni determinazione, io non veggo modo d'identificarlo colla sostanza prima, cioè Dio, che é per opposto l'essere singolarissimo e sommamente individuato, ricco di tutte le determinazioni positive ed infinite. Questo profondo divaiio tra l'ente indeterminatissimo e Dio venne già rilevato da un celebre critico peripatetico, Francesco Patrizio, il quale IL PROBLEMA METAFISICO ECC. igo ragionando della Metafisica di Aristotele cosi scrive: » chi dice Dio, non » dice già lutti gli enti, ma un ente a parte, un ente che nell'ordine degli » enti è il primo e migliore , un ente che tiene il primo e il più gran » posto, e che è principio e causa degli altri. Invece chi tratta dell'ente » in quanto ente, non tratta già propriamente di Dioj s'occupa di altro; » Giacché chi dice ente in quanto ente abbraccia così le prime e piiì » eccellenti sostanze, come le naturali e le sensibili e le matematiche ed )) ogni altra cosa, che si comprenda sotto gli altii predicamenti. Lente » adunque in quanto ente s'applica a tutti i generi degli enti: lente primo » invece è esso stesso uno ne generi degli enti : della scienza che tratta » quello, si può dire che non si circoscriva a nessun genere, e spazii » sopra tutti ; ma della scienza che tratta questo si deve dire come d'ogni » scienza particolare, che si circoscriva, si riservi per oggetto del suo » studio un genere dell'ente (Discus. perip. viii, pag. 68) ». Posta adunque questa radicai discrepanza tra l'ente indeterminatissimo e Dio, è chiaro che limita della scienza metafisica n'andrebbe offesa, siccome quella che si radicherebbe sopra un concetto dualistico, e sarebbe così scissa in due teoriche separate, l'ontologica cioè e la teologica, ciascuna delle quali forma un tutto da sé. Aristotele aveva assegnato alla Metafisica , siccome suo carattere primario e supremo l'universalità; ora, se la Metafisica può dirsi universale in quanto è la scienza dell'ente comunissimo e genera- lissimo, tale non può più chiamarsi ove le si assegni per oggetto l'ente singolarissimo e determinalo, che è Dio. In che modo l'universale s'indi- vidua e sussiste nel singolare .' Ecco la gran questione che Aristotele doveva risolvere per mantenere I unità e la coerenza logica del suo con- cetto metafisico, questione che affaticò tutte le menti degli Scolastici allora che disputavano intorno agli universali se sussistano in sé o ne' singolari, se in Dio o fuori di Dio. Aristotele lasciò insoluto siflàtto problema, onde non solo lasciò sussistere un dualismo nel seno della scienza metafisica, ma non seppe schermirsi da quelle stesse difficoltà che egli accampava contro la teoria platonica degli universali. Questo dualismo del concetto metafisico aristotelico, che abbiamo or ora notato, venne riprodotto dalla metafisica scolastica e perpetuato fino a' dì nostri, costumandosi tuttora sulle tracce di Giovanni Duns Scoto e di Wolfio di dividere o dirò meglio scindere la Metafisica in due sepa- rate teoriche, che sono I Ontologia, avente per oggetto Tessere astrattis- simo od indeterminato, ed in Teologia che intorno alla sostanza singolare PER GIUSEPPE ALLIEVO. HJl suprema, cioè Dio si travaglia. Però è degno di essere ricordato il ten- tativo che facevano gli Scolastici per salvare la scienza metafisica da quel dualismo a cui Aristotele l'aveva condannala , e mantenerle quell'univer- salità scientifica che egli le aveva assegnato siccome suo carattere proprio e supremo. A provare l'identità dell'ente universalissimo ed indeterminato con la sostanza divina, la Scolastica concepiva Iddio siccome l'essere fuori di tutte le categorie, epperò dotato della suprema universalità; ma siccome un Dio siffatto non era del sicuro il Dio del cristianesimo, perchè veniva ridotto a nulla più che una mera astrazione destituita di realtà, quindi per accordare il suo concetto teologico col dogma cristiano la Scolastica usciva in quella celebre sentenza, che Dio è eminenter tutte le cose. credendo così di aver fatto di Dio l'essere universalissimo in quanto con- tiene imificate nella sua semplicissima essenza le essenze eterne di tutti gli esseri finiti, e di avere con un avverbio eminenter posta in salvo la purezza e dignità della sostanza divina dal contatto delle imperfette e difettose sostanze finite. Ma noi vedremo a suo luogo, che questo con- cetto di Dio risguardato siccome il conlenente supremo di tutte le essenze delle cose non ha verun fondamento razionale, che Iddio non è già uni- versale perchè sia eminenter tutti gli esseri, ma perchè tulli li fece sus- sistere traendoli dal nulla, sicché la sua universaUtà non è intrinseca al suo essere, ma estrinseca radicandosi nella virtiì del suo alto creativo , che si estende a tulle cose, a tutte le esistenze. Ed è veramente a stupire come la Scolastica, che pur si teneva stretta al dogma cristiano fino a sacrificargli tal fiata il suo venerato maestro Aristotele quando le riesciva impossibile il conciliarlo con esso, non abbia saputo attingere dal Cristia- nesimo stesso il concetto dell'atto creativo, e derivarne la soluzione del gran problema, di cui discorriamo, e che pure è il massimo problema fondamentale della Metafisica, perchè tocca i supremi rapporti tra Dio e la realtà universale (i). Ed ecco, per dirlo qui di passaggio, come la que- stione critica che ci eravamo proposta intorno al concetto che Aristotele espresse della Metafisica, per quantunque umile e poco rilevante abbia (1) I moderni panteisti tedeschi risolvono in modo tutto loro proprio questi problemi. Il loro Asso- luto è l'essere universalissimo ed il singnlnrissimo , ma in due momenti diversi: da prima i; l'idea cioè l'essere nulla, l'ente in quanto ente, Pindeterminatissimu, il massimo degli universali; da ultimo Dio, cioè il singolarissimo, determinatissimo. In che modo dal mero indeterminato, cioè da un nulla di realtà sorge il massimo di realtà, Dio? È questo il mistero, di cui non ci svelaron per anco l'arcano. 1Q2 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. potuto sembrare a prima giunta, pure nasconda in sé il più grave ed arduo problema, che la Metafisica abbia mai a risolvere, quello cioè che riguarda le relazioni tra il Primitivo ed il Derivato. Il Rosmini cercò di scolpare la Metafisica aristotelica dalla duplicità di concetto, che noi le abbiamo appuntato, così scrivendo: u L Essere » è considerato da Aristotele sotto due riguardi , o come atto puris- » simo , o come potenza. Come atto purissimo è il primo ente , Dio. n Come potenza è l'essere comunissimo, non sostanza, e non separato » dalla natura. Ora ciò che è in atto e ciò che è in potenza, dice Ari- » stotele, appartiene allo stesso genere. Ogni scienza ha per oggetto suo » un genere. La filosofia prima dunque ha per oggetto l'ente come ente, )i sia questo considerato in atto , o in potenza. Tratta dunque di Dio e n dell'essere comunissimo; e riducendosi all'essere come essere tutte le )) cause, c'è una scienza sola di tutte le cause, non meno nell'ordine » della Mente, cioè nell'ordine logico che nell'ordine fisico, cioè nell'ordine « della natura (^Jrist. esp., pag. 659) ». Queste osservazioni non bastano a conciliare la dualità che abbiamo notata nella Metafisica di Aristotele, la quale non può godere di unità scientifica se non a condizione di stu- diare un unico oggetto. Ora Rosmini stesso confessa che questa unicità di oggetto non ha luogo, poiché dopo di aver mossa la domanda, come Dio e l'universale siano un unico oggetto, risponde: « Ecco quello che » Aristotele non dice che oscuramente , e dove sta pure il nodo della » dottrina » (op. cit. , pag. 641). La critica da noi fatta del concetto metafisico di Aristotele si fonda sul supposto che l'ente da lui assegnato ad oggetto delf Ontologia sia l'ente indeterminatissimo ed astratto, che nella sua suprema generalità si predica di tutte guise di esseri vuoi finiti, vuoi infiniti; ma dall'espo- sizione fatta della Metafisica di Aristotele apparisce che l'ente quale egU lo concepisce non è la suprema entità categorica comune a tutte cose ed applicabile a Dio del paro che a ciascun essere mondiale , ma l'essere individuato e completo, l'esistenza determinata e sussistente, vai quanto dire la sostanza sensibile e finita, qualunque poi sia la specifica sua natura, per cui apparisce tale o tal altro essere mondiale Tuttavia, sebbene l'ente venga inteso in questo secondo senso assai differente dal primo, non cessa per ciò quel dualismo che abbiamo rimproverato alla Metafisica aristotelica, ma ricomparisce sott'altra forma: poiché, posto che l'ente intorno a cui si travaglia l'Ontologia, sia la sostanza finita risguardata nelle sue cause PER GIUSEPPE ALLIEVO. 1 qS prime o ne' suoi principii supremi, e che perciò l'Ontologia si converta in una Teorica del Derivalo, rimane pur sempre a risolvere la questione, se e quale vincolo ontologico v interceda fra Dio e il mondo, fra il Pri- mitivo ed il Derivato, questione che non avendo ricevuto da Aristotele soluzione di sorta, è cagione per cui le due parti, in cui ha bipartito la sua Metafisica, l'Ontologia e la Teologia, permangono due teoriche scisse l'una dallaltra, e tolgono alla Metafisica la .sua scientifica unità. Venendo ora a disaminare più dappresso il valore della Metafìsica ari- stotelica in ciascuna delle due sue parli, la Critica scopre nell'Ontologia tanta semplicità ed originalità di concetto, tale un sapere protondo, rigo- roso e sodo, ed una teorica del finito cos'i ben concepita, che ben si può asserire col Vacherei (op. cit. t. I, p. 72) che Aristotele non ha solo svolta e perfezionata la scienza della natura, ma T ha creala. Infatti la scuola jonica si sforzfj di comprendere le ultime ragioni della realtà finita col solo mezzo delf esperienza sensibile e del f osservazione esterna, ed il tentativo andò a vuoto; invece di una scienza ragionala e riflessa si ebbe un cieco empirismo e nulla più. La scuola italica e la eleatica chiesero al solo ragionamento puro il supremo perchè delle cose, ed invece di una vera e soda scienza non si ebbe che un tessuto di astra- zioni e si riuscì alla negazione stessa di quel mondo, che si voleva spiegare. Platone medesimo, sebbene avesse fatto luogo alla duplicità dell'osserva- zione e del ragionamento puro, abbandonò la realtà finita siccome indegna di essere oggetto di speculazione e di scienza per rifugiarsi nel mondo delle idee, e la sua Dialettica, opera della sola ragion pura, è piuttosto una negazione che una vera spiegazione razionale della natura cieata. Scienza rigorosa e verace del finito non vi era, né vi poteva essere, perchè vi mancava il vero e compiuto metodo filosofico ; non si era pervenuto ad una ferma teorica del derivato perchè non si era per anco segnata la via per giungervi. Aristotele seppe con acuto e penetrante pensiero risalire insino allorigine prima di tali errori, scoprire la causa degli infelici tentativi fatti infino allora per costrurre la scienza della natura, ed additarne ad un tempo il riparo. Non osservazione scompagnata dal ragionamento puro; non ragionamento disgiunto dall'osservazione; osservare la realtà e ragio- nare di poi intorno ai dati dell'osservazione, elevandoli alla dignità di concetti scientifici e razionali senza punto trasnaturarli ; tale è il vero e compiuto metodo filosofico, con cui Aristotele seppe sollevarsi ad una profonda ed originale teorica del derivato , sconosciuta per lo innanzi. Serie II. Tom. XXX. 2$ jq/ il problema metafisico ecc. Fedele al suo metodo osservativo-razionale egli interroga sagacemente la natura e facendo tesoro de' responsi che ne ottiene, si fa a lavorarne la scienza sommettendoli alla riflessione ed al ragionamento. Egli osserva con occhio vigile ed attento la realtà . la contempla sotto tutti i suoi molteplici e svariati aspetti, ne indaga successivamente gli elementi costi- tutivi, le proprietà, le tendenze, il moto, e ne compone una teorica, in cui la speculazione mantiene un felice accordo coli' esperienza pur mentre si solleva al di sopra di essa nel mondo della scienza , non creando a priori la realtà , ma spiegandola quale l'osservazione gliela pone davanti. La sua teorica de' quattro principii è la piìi semplice e la piìi giusta forinola spiegativa dell'universo creato, e direi altresì la più compiuta se avesse riconosciuto il vincolo di creazione tra il derivato ed il Primitivo: non vi ha essere nella natura che non trovi in essa la sua ragione onto- logica : non parte della realtà che sfugga alla sua comprensione o le dia una smentita. La natura non contiene e non dà che individui ; e dall'in- dividuo appunto, ossia dalla sostanza, siccome da vero e compiuto essere Aristotele piglia le mosse, e non già da quelle entità astratte, da quegli universali generici che non hanno in se veruna realtà elFetliva, epperò non possono condurre che ad un sapere chimerico ed illusorio. Ricono- sciuta la sostanza individua siccome la sola vera realtà , qual è il fenomeno costante, con cui essa manifesta se medesima e si dispiega alla contem- plazione del filosofo? Il cangiamento. Tutto in natura si muove e si tras- forma senza posa: spirito e materia, corpo ed intelligenza, uomo e bruto, individuo e società, governi e nazioni, tutte insomma le esistenze finite vanno soggette a questa gran legge dello sviluppo e del cangiamento ; la natura vive, e la vita sta per appunto nel moto, nel passaggio dall'uno all'altro modo di esistere, nel rivestire di sempre nuove forme l'esistenza. Aristotele fermò attento il suo sguardo intorno a questo gran fatto del cangiamento, e mentre Platone l'aveva pressoché disconosciuto abbando- nando la realtà finita per rinchiudersi nell' inmiobilità dell'idea, egli si collocò fin dalle prime in seno della vivente natura , vi colse il fatto del movimento e cercò di spiegarlo sostituendo all'immobilità dell'idea plato- nica l'attività della forma, che è l'energia ontologica. La sua teorica del moto è una delle piìi ingegnose e più originali creazioni dell'antico pen- siero filosofico, ed ai pensatori, che vennero dopo, somministrò il germe di nuove e peregrine dottrine. Non voglio dir con questo che essa sia di tutto punto perfetta e compiuta, ed abbia risolti tutti i dubbi e spiegate PER GIUSEPPE ALLIEVO. igo tutte le difficoltà che involgono questo così importante problema onto- logico. Poiché se altri chiedesse a se medesimo , qual è 1 origine prima del moto universale delle cose? Perchè la natura tutta si muove e si tras- forma incessantemente .' Perchè non fu creata fin da principio pienamente attuata e compiuta.' Forsechè ripugna questo suo stato originano di im- mobilità, di perfezione e di quiete.' Potrà essa raggiungere la pienezza della propria entità ed esplicare tutta la virtualità di cui è suscettiva ? Se sì, perchè non la possedette fin dal primo istante del suo esistere? Se no, perchè riman condannata a consumare se slessa in uno sforzo sterile ed impotente.' A tutte queste e molte altre gravissime questioni che sorgono dal fondo slesso del problema risguardaate il moto della realtà finita Aristotele, uopo è confessarlo, non dà soluzione di sorta, e non la poteva dare, giacché egli non si era sollevato insino al concetto del vincolo di creazione, che legando il mondo a Dio può solo spiegar l'operare delle cause seconde collegandole colla causalità prima ed infinita, e solo cosi può compiere la teorica del cangiamento additandone in Dio creatore la ragion sufficiente. Il cangiamento essendo il diventare dell'essere finito, ossia il suo pas- sare da una forma all'altra dell'esistenza, importa nell'essere stesso la dualità della potenza e dell atto , cioè della materia e della forma , sicché cessi di essere in un dato modo e diventi quel che da prima non era se non in potenza. Quindi il concetto del moto condusse Aristotele all'altro non meno giusto concetto di ravvisare nella sostanza finita i due principii interni della materia e della forma, siccome suoi costitutivi elementi; gran verità anche questa, la quale ci presenta ogni essere della natura siccome un misto di potenzialità e di attualità, e quindi come soggetto alla legge necessaria del cangiamento. Ma il cangiamento stesso vuol essere indiritto ad uno scopo, e questo scopo è il bene, questo bene è la perfezione, ossia il massimo sviluppo possibile delle potenze di un essere, il sommo di attualità di cui è suscettivo. E con questo concetto del principio finale Aristotele compie la sua teorica dell'essere finito e ci rappresenta tutta l'esistenza in un conato, in una tendenza continua ad attuare i germi dell'essere che in sé racchiude, ed in questo incessante e non mai compiuto esplicamento consumare tutta se stessa. Quindi Aristotele riponendo il concetto della somma perfezione finale degli esseri nel puro atto ed il concetto della loro somma imperfezione iniziale ed originaria nella pura potenza, ideò una gran gerarchia tia tutti gli enti iq6 il problema, metafisico ecc. per guisa che la pura potenza o materia prima tenesse fra essi l'infimo luo"o, il sommo poi l'atto puro, che è Dio, e tra l'uno e l'altro estremo della serie ontologica intermediassero tutti gli altri enti affaticati nell'e- splicamento della propria potenzialità e quindi nell'assenso continuo e progressivo delia materia prima insiiio a Dio; idea sublime, che ci ri- corda la sublime terzina, con cui Dante apre il suo Paradiso La gloria di Colui che tutto muove Per l'universo penetra, e risplende In una parie più , e meno altrove e che svolse sott'altra forma più giìi in quello stesso Canto, dove, discor- rendo dell' armonia degli esseri e del loro piìi o meno approssimarsi a Dio , così canta : Le cose tutte quante Hann' ordine tra loro; e questo è forma Che l'universo a Dio fa simigliante Nell'ordine eh' io dico sono accline Tutte nature, per diverse sorti, Più al principio loro, e men vicine; Dante. Paradiso, Cani. I, v. I, 103, <09. Dante è l'Idea scolastica in forma poetica, come la Scolastica è l'idea aristotelica in forma cristiana. Che se Aristotele diede del derivato una teorica in molti punti soda ed incensurabile, che quasi sempre risponde alle esigenze della specula- zione del paro che ai pronunciati dell'osservazione e dell'esperienza, ben diverso è il giudizio che la Critica deve pronunciare intorno alla sua teorica del Primitivo, la quale non offre soltanto grandi lacune, ma mostrasi deturpata da gravi e funesti errori. Che cosa è Dio in se con- siderato ? Che cosa è Dio ne' suoi rapporti col mondo ? Son questi i due problemi fondamentali, che la Teologia è tenuta di risolvere elaborandone la teorica del Primitivo, e che non hanno né l'uno né laltro una so- luzion razionale nella teorica di Aristotele. Infatti lo stesso concetto dell'essere primitivo ed assoluto importa, che Dio venga risguardato siccome inizio e termine della realtà per modo che tutte le nature, quante mai si muovono per lo gran mal* dell'essere, trovino in esso il loro supremo perchè. Ora questo primato ontologico di Dio su tutta la natura, questa sua imiversalità estensiva all'intiera realtà sono apertamente PER GIUSEPPE ALLIEVO. «97 -disconosciute e negale dalla Teologia aristotelica, la quale sostiene in modo chiaro ed esplicato il dualismo assoluto di Dio e della materia e 1 indi- pendenza del mondo da Dio quanto all'essere suo. Abbiamo leste rilevato, che il concetto definitivo della Metafisica di Aristotele è offeso da un intrinseco dualismo che scinde l'unità stessa della scienza; poiché egli le assegna non un oggetto unico, ma duplice, cioè ora l'ente in quanto ente, ora Iddio stesso, termini che egli lasciò inconciliati sia che s'intenda per ente in quanto ente Tessere indetermi- natissimo e comunissimo, sia che per esso si voglia significare la sostanza individua finita. Ora questo dualismo, che giaceva in fondo al concetto stesso della sua Metafisica, si riproduce in tutta la sua Teorica del Pri- mitivo e deturpa tutto il suo concetto teologico. Il Dio di Aristotele non ha verso il mondo quel rapporto di causalità suprema ed assoluta, che pure è richiesto dal concetto stesso dell'essere primitivo: se vi ha nella sua dottrina metafisica un punto chiaro ed esplicito, è questo che egU assegna agli esseri mondiali un esistenza eterna ed indipendente da Dio quanto all'esser loro e dipendente da lui, solo come da causa finale e bene appetibile; e, quel che è piìi. Dio anche come causa finale del mondo non esercita sovr'esso nessuna diretta azione, è desiderato dal mondo senza punto conoscerlo né governarlo. La natura adunque in questo sistema possiede per se stessa non solo la materia, ma anche la forma; non solo 1 esistere, ma altresì il modo di esistere; non solo Tessere, ma pure il movimento e la vita, e Dio non fa che condurla al bene per mezzo di una cieca e passiva attrazione : vai quanto dire, gli esseri dell'uni- verso esistono e son quel che sono per propria loro virtù, non già perchè Iddio li abbia fatti esistere ed abbia rivestito ciascuno di essi di una forma specifica e particolare. Platone anch'egli aveva ammessa eterna ed indipen- dente da Dio la materia del mondo; ma questa materia, da prima informe e disordinata, abbisognò della mano divina, che dal caos antico facesse uscire le forme organiche degli esseri e l'armonia dell universo ; il Dio di Platone è perciò se non creatore del mondo, almeno artefice ed ordinatore di esso, e l'universo gli deve se non la materia, certo la forma. Aristotele andò più oltre fino ad ammettere eterna ed indipendente da Dio non solo la materia del mondo, ma ben anco la forma; onde il suo dualismo assoluto è più spiccato e riciso che non quello di Platone, avendo sottratto il mondo da ogni impero deUazione divina e negato ogni guisa di rapporto di causalità fra la natura e Dio, che Platone aveva lasciata sussistere in parte. 1q3 II. PROBLEMA METAFISICO ECC. Questo concetto aristotelico del dualismo assoluto, che pone due prin- cipii coeterni e necessarii, indipendenti l'uno dairaltro, è affatto irrazio- nale e distruttivo ad un tempo della sostanza divina. Esso infatti ripugna alla ragione, la quale essendo fatta per l'unità non può arrestarsi se non in faccia all'unità suprema e primitiva; il dualismo assoluto, essendo la negazione dell'unità suprema, riesce per ciò stesso alla negazione della ragione umana, la quale mal saprebbe in quale di essi due principii as- soluti rinvenire la legge suprema direttiva del suo processo dialettico, in quale riporre l' ullimo perchè delle cose. In secondo luogo il dualismo assoluto distrugge la nozione stessa dell'essere infinito, perchè lo spoglia di quel primato e di quella universalità ontologica, che gli spetta nel giro della realtà, ponendo accanto a lui un' altra entità che non riconosce da lui né la sua esistenza, né la sua forma; oltrecliè due principii indipen- denti, limitandosi reciprocamente, perchè la realtà posseduta dall' uno manca all'altro (che altramente sarebbero identici, epperò si ridurrebbero ad un solo) finiscono per distruggersi, perchè un essere infinito, che sia limitato, non è più infinito. Il Dio d'Aristotele non solo non è principio efficiente ed autore del- l'universo, ma è affatto destituito di provvidenza e del governo supremo dei mondo. Infatti il concetto di Provvidenza arguisce in Dio il legame di creazion libera e sostanziale fra lui ed il mondo, ed una perfetta cognizione di tutti e singoli gli esseri della natura, che egH intende di- rigere al loro fine. Ora entrambe queste condizioni della Provvidenza mancano a Dio qual è concepito da Aristotele; che egli non sia l'autore dell'universo, il vedemmo or ora; ed è pure un pronunciato della sua teoria teologica questo, che Iddio essendo il pensiero del pensiero non conosce né intende altro che se stesso, e che il mondo non può né debbe essere oggetto dell'intelligenza divina. Or come potè Iddio provvedere e governare il mondo, se non l'ha formato e noi conosce nemmeno? Tolta a Dio l'onnipotenza, e l'onniscienza, è tolta di mezzo altres'i la provvi- denza, che non può sussistere senza quelle due condizioni. Così il mondo avendo in sé ab aeterno la forma dell'essere e passando per propria sua virtù dall'una all'altra foggia di esistenza, cammina di per sé all'acquisto del suo perfezionamento senza l'intervento della divinità; ond'è che per manco di provvidenza 1 imiverso rimane in balìa di una fatale ed ineso- rabile necessità, la quale é però alcun poco temperata e corretta dalla tendenza ed aspirazione del mondo al Bene sommo, che è Dio, siccome PER GrUSEPPE ALLIEVO. 109 a tipo compiuto di perfezione e scopo supremo di tutte le esistenze. Il solo rapporto che Aristotele ammette tra il mondo e Dio, è quello di fine; Dio non è causa efficiente e formatrice, ne causa provvidenziale dell'universo ma solo causa finale; ora se si pon niente che nella teoria ari- stotelica Iddio, anche come causa finale del mondo non esercita sopra di esso veruna azione diretta e positiva, perchè lo ignora e non gli ha dato l'esistenza, e che gli esseri della natura trovano in se stessi e fuori di Dio il compimento della loro perfezione che sta nel massimo possibile esplicamento della loro virtualità, si avrà ragion di conchiudere, che anche quest'unico rapporto di finalità tra il mondo e Dio non ha verun fonda- mento razionale e che Aristotele non rispose alla domanda che cosa sia Dio in rapporto col mondo. Il Vacherot rigettando come erroneo e troppo restrittivo il concetto che Aristotele si fece della natura di Dio ne suoi rapporti col mondo, sentenzia nella sua Storia critica della scuola di Alessandria (T. i, pa- gine 'y4, 76), che Iddio a voler essere risguardato siccome il vero prin- cipio della realtà e come dotato di universalità ontologica debb" essere concepito non come individuo, od essenza reale determinala, ma come un universale contenente in sé tutti gli esseri particolari sicché egli com- prenda il tutto in sé e tutto derivi da Dio ed in Dio conservi non solo il moto e la vita, ma eziandio l'essere e la sostanza, opinione questa soste- nuta altresì da Odoardo Schmidt e professata dai recenti panteisti tedeschi, pei quali Iddio è ridotto ad un puro concetto universale con lenente in sé tutti gli altri concelti particolari, in cui si svolge e si determina. Per me reputo atlalto insussistente siffatta sentenza e distruttiva della stessa divinità, la quale non può essere elevata alla dignità di essere primitivo ed assoluto se non a condizione di avere un'essenza reale e determinata. Certo è, che Aristotele non concepì Iddio siccome alcunché di universale conte- nente in sé le essenze e le forme di tutti gli esseri particolari , cui egli collocò fuori del Pnmitivo ponendole eterne ed indipendenti da lui ; ma questo suo concetto teologico, non che essere soggetto di rimprovero e di accusa, è anzi argomento che dimostra aver Aristotele fatto un passo piìi su di Platone nella teorica del Primitivo. Platone aveva riposto nell Idea su- prema del Bene, che è l'essenza stessa di Dio, tutte le altre idee particolari, ossia le essenze delle cose identificandole con quella stessa divina, opi- nione riprodotta sott'altra forma dalla Scolastica, allorché pronunciava che Iddio contiene in sé eminenter le essenze tutte delle cose. Aristotele per 200 'L PROBLEMA METAFISICO ECC. contro collocò fuori di Dio le essenze delle cose, e con verità; ma errò poi nel farle eterne e per sé esistenti, cioè nel separarle da Dio invece di distinguerle soltanto dall'essenza divina, privandole così della loro ultima ragion sufificiente che è la creazione divina. Ma se si collocano fuori di Dio e da lui si distinguono le essenze delle cose, se Dio viene considerato non pili come essenza universale, ma come individuo particolare e deter- minatissimo, come potrà ancora essere considerato quale vero principio dell'universo e godere di quella universalità ontologica, che gli è essenziale? Non è dillicile il rispondere a tale inchiesta ; Dio è il principio di tutte le essenze non in quanto le contiene in sé distinte o confuse, in modo eminente o naturale, ma in quanto le crea; non in quanto sono in lui o le distingue dalla sua stessa natura, in cui si avviluppino facendone parte integrale, ma in quanto le fa esister dal niente. Aristotele quindi avrebbe erroneamente tolto a Dio la sua universalità ed il suo primato ontologico su tutti gli esseri della natura, non perchè abbia poste fuori di lui e da lui distinte le essenze e le forme specifiche delle cose, concetto questo giustissimo e razionale, ma perchè le fece indipendenti dalla potenza creativa di Dio costituendole eterne, ed esistenti per propria loro virtù. Non meno censurabile ed erronea è l'altra parte delia Teologia aristo- telica risguardante Iddio in se stesso considerato, la cui essenza egli ripose nel pensiero del pensiero. Dio, in sua sentenza, è atto purissimo, e sic- come il sommo dell'essere e dell'attività risiede nel pensare, Dio è adunque pensiero sommo ed infinito : ma ogni soggetto pensante, ogni mente im- porta un oggetto pensato: or qual è l'oggetto pensato dalla niente divina? Aristotele risponde essere lo stesso pensiero, la stessa mente divina, perchè Dio non può né deve pensare se non ciò che è in sommo grado ottimo e divinissimo, vai quanto dire se stes.so; Iddio adunque è unin- telligenza pensante se stessa, o, come si esprime Aristotele, il pensiero del pensiero. Come ognun vede, questo Dio aristotelico concepito come il pensiero del pensiero viene ad essere l'Assoluto di Schelling, di Hegel e de" recenti panteisti tedeschi, che concepiscono l'essere prinìitivo ed infinito siccome il pensiero puro, cioè il pensiero che non è né soggetto pensante né oggetto pensato, ma confusione ed identità di entrambi; ed è cosa singolare il vedere come questo concetto metafisico, di cui essi menano tanto scalpore come di una grande scoperta fatta dalla loro scienza trascendentale, ben lontano dall'avere quella originalità che gli viene attribuito, già si trovasse da venti e più secoli nelle pagine del PER GIUSEPPE ALLIEVO. 201 greco filosofo: e riesce più singolare ancora lo scorgere, come essi invece di far tesoro di quelle verità filosofiche, le quali risplendono nei libri della sapienza antica, e respingere gli erronei pensamenti, questi rinnovino e quelle lascin da banda, non mostrando cosi originalità nemmeno nel campo dell'errore. Il concetto teologico di Aristotele or ora enunciato è desso tale da rispondere all'essenza propria dell'essere primitivo, ai bisogni dello spirito umano, alle esigenze della ragione speculativa? Io non credo che possa essere menato buono dalla Critica filosofica. Che Iddio sia un atto puro, cioè una sostanza in sommo grado compiuta ed attuata per modo da non ammettere venm elemento potenziale e virtuale non per anco tradotto all'attualità, è questo un concetto verissimo appieno conforme alla natura stessa di Dio, il quale cesserebbe di essere l'ente necessario, immutabile, perfettissimo se abbisognasse di nuove forme, di nuove determinazioni e proprietà non per anco possedute: concetto concorde coi pnncipii stessi teologici del cristianesimo e della Scolastica, da cui Iddio vien concepito siccome V ens realissimum, l'ente pienamente realizzato, siccome purus actus, et totus actus, escludente perciò ogni guisa di potenzialità. Ma per ciò stesso che Dio è l'essere pienamente determinato, e puro atto, non debb'essere concepito siccome il pensiero del pensiero nel senso ari- stotelico. Infatti o con questa formola = Dio è il pensiero del pensiero = si vuol significare che in esso il soggetto pensante e l'oggetto pensato smarriscono ogni distinzione e si identificano insieme facendo una sola cosa; oppure mantenendo intatta la loro distinzione e dualità si vuole solo intendere, che Iddio non può pensare né conoscere altro oggetto che se medesimo per modo da riuscirgli impossibile il pensare un diverso da sé. Nel primo supposto. Iddio verrebbe ad essere concepito siccome il così detto pensiero puro, che è l'Assoluto dei recenti panteisti tedeschi ; ora siffatto concetto teologico ripugna aOàtto all'essenza stessa dell essere assoluto e primitivo, e contiene in sé un assurdo ontologico; poiché che altro è mai il pensiero in generale, se non un rapporto tra un soggetto pensante ed un oggetto pensato? Ora, un rapporto qualunque non si dà senza i termini fra cui intercede, tolti i quali cessa di esistere il rapporto stesso perchè viene a mancare della sua ragion sufficiente ; ma il pensiero puro, in cui si vorrebbe riposta l'essenza di Dio, esclude ogni distinzione e dualità di soggetto pensante e d'oggetto pensato e li sopprime entrambi; dunque, tolti di mezzo questi due termini, il pensiero, che è un rapporto Serie II. Tom. XXX. ^6 209. IL PROBLEMA METAFrSlCO ECC. fra l'uno e l'altro, viene con ciò stesso a cessare, mancando della sua ragion sutìiciente. Di tal modo ci troveremmo condotti alla negazione dello stesso pensiero juiro, e conseguentemente di Dio medesimo, essendoché il pensiero non può sussistere senza la dualità del soggetto e dell oggetto. Ma non è egli possiijile far astrazione dai due termini del soggetto pen- sante e dell'oggetto pensalo e considerare unicamente ed in sé il loro rapporto che è il pensiero * Certo che si: ma in tal caso sarà pur sempre vero che il pensiero puro così concepito disgiuntamente da' suoi due termini è nulla più che una pretta e pura astrazione; epperò non può costituire l'essenza di Dio, il quale vuol essere non un puro astratto, ma un sommo ed infinito concreto , Vens realissimum ; altramente non po- trebb' essere principio e termine della realtà universale. Se poi la formola succennata si assume nel secondo significato, in cui si mantiene bensì la distinzione fra soggetto pensante ed oggetto pensato, ma si stabilisce che Iddio pensa unicamente ed esclusivamente se stesso, ossia l'identico, ed ignora allatto U diverso da sé, cioè il finito, il mondo, siccome oggetto indegno della sua intelligenza, la quale non debbe ap- prendere se non l'ottimo in sommo grado, in tale supposto si salva bensì la realtà dell'essere divino ed assoluto, perché verrebbe concepito come una sostanza pensante, ma si rovescia nell'assurdo di togliere a Dio l'on- niscienza riducendolo ad una vuota identità, ad una mera unità che esclude il diverso ed il molteplice. Questo concetto teologico adunque verrebbe ad essere distruttivo dell'essenza dell'essere primitivo, a cui spetta per necessità di natura l'universalità del pensiero, universalità che Aristotele avrebbe negata a Dio , come gli aveva ricusata l' universalità ontologica , quando discorrendo i rapporti tra Dio ed il mondo aveva assegnato a questo una perfetta indipendenza da quello quanto al suo essere ed alia sua esistenza. Iddio a voler essere il Primitivo e l'Assoluto vero debbe godere di una duplice universalità, ontologica e mentale, debbe cioè esten- dere la sua onnipotenza su tutta la realtà finita, facendola essere, ed estendere la sua onniscienza su tutto l'universo, conoscendolo; egli non è il vero Assoluto se non a (jueste due condizioni, e queste vengono entrambe disconosciute da Aristotele. Il Rosmini, notando l'erroneità di questo concetto aristotelico, cerca di sciogliere le difficoltà in cui si è avviluppato il filosofo greco, e così scrive in proposito : « Se l'intellezione pura altro non intende che se stessa, » ed essa non è che intellezione pura, come conosce Iddio l'altre cose? PER GIUSEPPE ALLIEVO. 2oS » A questa difficoltà si smarrisca, e cade Aristotele. Se questo filosofo » avesse potuto concepire un Dio creatore, sarebbe altresì giunto a sciogliere » la difficoltà che si presentava al suo spirito, e che consisteva nella » conciliazione di queste due proposizioni egualmente dimostrai)ili . i° Iddio » intende solo se stesso ; 2° Iddio intende tutte le altre cose. Poiché, ») solamente ammessa la creazione, si concepisce che le cose finite abbiano » un modo d'esistere eminente ed obbiettivo in Dio , e che Iddio possa » conoscerle compiutamente in sé, conoscendo solo se stesso. Ma avendo » dato Aristotele un'esistenza eterna alle cose mondiali indipendente, in » quanto all'essere, da Dio, e dipendente solo come da causa finale e bene >» appetibile, concependo Aristotele Iddio sotto 1 unico concello di primo » motore immobile, non c'era più verso di pensare che le cose mondiali » fossero comprese in Dio, e da Dio nella loro natura propria conosciute. » La conciliazione adunque di queste due proposizioni nel sistema d'Ari- >) stotele diveniva impossibile, e quindi egli fu spinto a rigettarne una; » mantenendo la prima, sacrificò V onniscienza (Un'ina (^Arist. esposto ed « esani., N. 2o3)>i. Con queste osservazioni il Rosmini, mentre riconosce l'insussistenza del concetto aristotelico, che niega a Dio la conoscenza di un diverso da se, crede di averne corretta l'erroneità jjer mezzo del con- cetto di creazione. Convengo anch'io, che 1 idea ctisologica valga essa sola a salvare la teoria del Primitivo sia dal panteismo, che confonde Iddio col mondo, sia dal dualismo che ne lo separa, ma io sono d'avviso, che intorno al presente argomento il Rosmmi non siasi formato della creazione quel concetto giusto e vero che si richiede per emendare l'erroneità del principio teologico aristotelico. Egli opina, che la difficoltà stia tutta nella conciliazione di questi due pronunciati. 1° Dio intende solo se stesso; 2° Dio intende tutte le altre cose. Io credo che queste due proposizioni, quali sono dal Rosmini formolate, siano talmente inconciliabili, che posta la prima si è nella necessità di rigettar la seconda, e che la conciliazione tentata da lui non possa campare dal panteismo senza cadere in una vana tautologia. Si avverta infatti che la questione, quale vien proposta dal Rosmini, non risiede già nel dimostrare che Iddio intende e se medesimo e le altre cose tutte da lui diverse, ma nel provare che egli intende solamente se stesso, e che pur mentre intende soltanto se medesimo, conosce e pensa altresì le altre cose che non sono lui. Ora per poco che si rifletta su questo argomento, riesce agevole il persuadersi che la prima di queste due proposizioni, in cui si pronuncia che Dio intende solamente se slesso, 2o4 'L PROBLEMA METAFISICO ECC. non può sussistere né mantenersi se non a condizione che la seconda proposizione, in cui si stabilisce che Dio intende tutte le altre cose, ven"a trastormata in quest altra . tutte le altre cose, che Dio intende oltre di sé, non sono alcunché di diverso da Dio, ma solo lui stesso. E tale è appunto il senso, in cui il Rosmini intende la seconda delle due suc- cennate proposizioni per conciliarla colla prima; infatti egli stabilisce che le cose abbiano un modo di esistere eminente ed obbiettivo ni Dio, e che Iddio possa conoscerle compiutamente in sé, conoscendo solo se stesso, e ne inferisce che Aristotele avendo concepito Iddio come motore immobile e non come creatore, non potè più pensare che le cose mondiali fossero comprese in Dio, e da Dio nella loro natura propria conosciute. Ma e"li è chiaro che intendendo in questo senso la seconda proposizione, il Rosmini viene a distruggerla per hitiero; poiché in tal caso Iddio non conoscerebbe più le altre cose tutte cioè il mondo come un diverso da sé, ma solo se stesso, ossia in quanto il finito cessa di essere tale e smarrisce il suo proprio modo di esistere e la sua natura contingente per identificarsi coU'essenza divina. Così verx'ebbe tolta a Dio la cognizione del finito come finito e si ricadrebbe nell'erroneo concetto di Aristotele che Dio non ha altro oggetto della sua mente che se medesimo, ossia che è il pensiero del pensiero, concetto di cui il Rosmini reputa di aver corretto lerroneilà per mezzo dell'altro concetto di creazione. Invano adunque egli reputa di avere risolta la proposta diflìcollà sen- tenziando, che Iddio pensando se stesso intende altresì le cose finite in quanto queste esistono e si contengono in lui in modo eminente ed ob- biettivo. Poiché io muovo questo ihleinma: il mondo od è contenuto in Dio per guisa da formare con esso una pura e semplicissima unità e smarrire cosi la propria sua natura, per cui é quello che è, cioè finito e da Dio si diversifica; oppure vi si trova contenuto in modo da con- servare i suoi caratteri distintivi e la specifica sua essenza. JXel pruno supposto Iddio non conosce più un diverso da sé, ma solo se stesso, perchè il mondo cesserebbe di essere quello che è, né più sarebbe, come mondo, oggetto dell'intelligenza divina; mentre il vero senso della se- conda proposizione richiede, che Iddio intenda non solo se stesso, ma altresì il finito. Nel secondo supposto si distrugge la prima proposizione, in cui si era stabilito che Iddio conosce solo se stesso. Il primo di questi due casi riesce per una parte ad un non senso, per l'altra al panteismo; riesce ad un non senso, perchè dire che il mondo è compreso in Dio PER GIUSEPPE ALLIEVO. 2o5 in modo eminente, torna ad un sentenziare, che cessa di essere mondo, e conoscere il finito non come finito, ma come infinito, vai quanto non conoscerlo; riesce poi al panteismo, perchè spogliando il mondo della sua sostanziale essenza e della sua finitudine, viene ad identificarlo con Dio, e si ricade cosi in quel filosofema de panteisti tedeschi, non darsi scienza se non dell'essere assoluto ed infinito. Il secondo caso poi lascia sussistere in tutta la sua forza la proposta ditiicoltà, che si voleva risolvere. Giustamente il Rosmini aveva avvertito, che il concetto di creazione vale esso solo a conciliare in Dio la cognizione che egli ha di se stesso, con quella che ha del mondo ; ma questo concetto se fosse stato da lui sanamente inteso, doveva condurlo a conchiudere che il mondo è co- nosciuto da Dio non m quanto è eminentemente contenuto in lui, ma in quanto è da lui creato e fatto sussistere. Il vero concetto di creazione importando una diversità essenziale fra Dio ed il mondo mena a questa duplice conclusione, che l'essenza di Dio non è conosciuta nell'essenza del mondo, e che per allra parte 1 essenza del mondo non è conosciuta in quella di Dio, perchè non sono contenute né comprese l'una nell'altra. Noi alibiamo rigettato siccome erroneo ed insussistente il concetto teologico di Aristotele; ma prima di chiudere questa critica fa d'uopo che noi rintracciamo la causa della sua erronea dottrina intorno alla natura intrinseca dell'Essere primitivo. Il Vacherot nella sua Storia critica della scuola di Alessandria crede che il metodo teologico di Aristotele sia radicalmente viziato, e che tale metodo l'abbia appunto condotto ad una viziata teorica del Primitivo. Secondo lui la natura di Diu va concepita e contemplata in sé, a priori, col solo pensiero puro e trascendente, mentre Aristotele studiò Iddio attraverso alla natura finita, procedendo a posteriori, dietro la via dellesperienza e dell'osservazione, la quale ci schiude sibbene il mondo della realtà contingente, ma non può cogliere il principio supremo della realtà, ci Volendo Aristotele giungere insino » al principio del mondo (egli scrive) senza uscir dall'esperienza e dalla » realtà, segue la Natura in tutti i suoi progressi, dalla base alla cima, » dall'essere semplice all'Intelligenza, e liberando con un possente sforzo » di astrazione il pensiero dagli impacci e dalle imperfezioni inerenti » all'umanità, egli lo idealizza e ne fa l'Essi re puro e |)eilttto, oltre al » quale non vi ha più nulla a cercare. Un ideale dell'essere, non conce- » pito a priori dalla ragione, al di là ed al di fuori di tutti gli esseri » contingenti, ma semplicemente supposto dall'induzione, come primo 2o6 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. ìì termine di una serie alla quale egli appartiene, e dove trova il suo ana- )) logo, tale è il Dio, a cui l'esperienza e la psicologia pura devono » condurre il genio più penetrante dell antichità (T. 3, pag. 235). Questa » teoria dell'essere è il supremo sforzo delf mtuizione psicologica Il » Dio di Aristotele, tipo perfetto dell individualità, atto puro. Pensiero del » pensiero, Essere solitario, straniero al mondo, cui egli non fa che » muovere e dirigere per attrazione, senza produrlo, né animarlo, né ì) comprenderlo, non è il vero Dio della ragione, F Essere universale, » principio, sostanza e fine di quanto esiste (ib. pag. 234)- Il Dio della » Metafisica non è una pura concezione della ragione, ma solo un indu- )) zione prodigiosamente sottile dell'esperienza aiutata dalla ragione; è » nulla più che un astrazione (T. 3, pag. 76) ». E egli vero, che rerroneità del principio teologico di Aristotele debba ripetersi dal suo processo metodico.' È egli vero, come sostiene il Vacherot, che nell elaborare la teorica del Primitivo abbiasi a procedere a pi lori col solo pensiero puro e trascendente, e che il metodo dell osservazione e dell esperienza allora soltanto sia valido ed acconcio, quando trattasi di studiare la realtà finita? Anzi tutto gli è da avvertire, che il processo aristotelico non é un mero empirismo, come da taluni si crede, ma consta di due momenti, ascensivo e disc;ensivo, accopjìiando in sé 1 osservazione e la speculazion pura. Secondamente io reputo falsa la sentenza di Vacherot e di quei metodologisti, la quale vorrebbe adoperata la speculazione pura disgiunta dall'osservazione nello studio dell'essere primitivo, e T osservazione sola separata dalla speculazione pura nello studio degli esseri derivati e con- tingenti; giacché questa dottrina della separazione fra i due momenti del metodo e le due facoltà intellettuali conduce dritto alla separazione asso- luta del mondo da Dio, oggetti e termini di esse due facoltà nel senso che abbiamo superiormente accennato. Io porto quindi opinione, che l'osservazione del finito non vada del tutto bandita nella costruzione tiella teorica del Primitivo , e che sotto questo riguardo il processo metodico di Aristotele non voglia essere riprovato né risguardato siccome causa dell'erroneo principio teologico da lui professato. Ma qui gli è d uopo distinguere bene i sensi diversi di cui è suscettiva questa nostra sentenza per non cader in errore. Quando si pronuncia che nel costruire il concetto teologico 1 osservazione del finito va accoppiata insieme colla ragione speculativa, e col pensiero puro, non vogliamo con ciò significare, che giusta un tale processo per formarci la nozione scien- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 20' tifica di Dio basti pigliare il inondo quale ci vien dato dall'osservazione, e trasformarlo quindi per mezzo della speculazione nell'essere assoluto ed infinito togliendogli le imperfezioni ed i difetti e sollevando per così dire ad una potenza infinita i suoi attributi, tanto che il concetto teologico sia nulla più che il concetto cosmologico infinitizzato dalla ragione specu- lativa; tale processo teologico, che venne denominato metodo di rimo- zione, perchè risiede appunto nel rimuovere i limiti dalle proprietà degli esseri finiti per applicarle all'essere infinito, mena alla dottrina panteistica, non ammettendo fra Dio ed il mondo una differenza di essenza, ma sol di srado. In ben altro senso noi intendiamo la sentenza di cui si discorre, ed è che l'osservazione della natura finita va fatta come propedeutica alla teorica del Primitivo, coli' intento di eccitar il pensiero a cercare la ra- gione ultima della sua esistenza nell'essere infinito, non già di trovare nel mondo l'essenza stessa di Dio; ed a tale scopo giova il ricordare che le due facoltà dell'osservazione e della speculazione convertendosi, in no- stra sentenza, ne' due momenti del pensare che abbiamo chiamato pensare comune e pensare speculativo ed avendo perciò amendue per oggetto la duplice realtà finita ed infinita, sebbene sotto forma diversa, non ci fanno cadere nella dottrina panteistica dell'identità di Dio e del mondo essen- doché questi due termini si mantengono sostanzialmente distinti, perchè appresi in ciascuno dei due momenti del processo intellettuale come tali, sebbene in modo implicito e vago nel periodo del pensare comune, in modo esplicito e determinato in quello del pensare speculativo. Ciò posto, si domanda in quale dei due sensi succennati Aristotele in- tese ed usò la facoltà dell^jsservaziooe nella costruzione della sua teorica del Primitivo.' Forse nel primo senso, che abbiamo superiormente rigettato siccome pernicioso, in cui Iddio verrebbe ad essere concepito nulla più che il mondo stesso trasformato e sollevato ad una potenza infinita? Tale sarebbe l'avviso di Vacherot, il quale reputa che Aristotele debba la sua teorica ad un supremo sforzo di intuizione psicologica e che non abbia fatto altro che prendere il pensiero umano, scioglierlo dai limiti e dalla finitudine, onde circoscritto, sollevarlo all'ideale infinito del pensiero puro identificando in esso la potenza e l'atto, il soggetto e l'oggetto e conver- tirlo così nell'Essere assoluto e primitivo. Ma a me pare, che questo con- cetto di Dio come pensiero puro, a cui giunse Aristotele, non voglia essere risguardato siccome un necessario ed esclusivo risultato del processo em- pirico-razionale da lui seguito nella costruzione della sua Teologia; e che 208 II- PROBLEMA METAFISICO ECC. anzi a siffatto concetto teologico si perverrebbe egualmente anche seguendo il solo processo speculativo od a priori, che il Vacherot vorrebbe esclu- sivamente adoperato nello studio dell'Essere assoluto, il quale per ne- cessità slessa di sua essenza vuol essere concepito come pensiero. Che se l'erroneità del principio teologico di Aristotele non può essere cercata nel processo metodico da lui seguito, donde mai atlunque. diman- diamo nuovamente, debb'essa ripetersi.' Io opino, che egli sia minato in una insussistente teorica per ciò appunto che volle afferrare e stringere in una formola metafisica 1 inlima essenza dell essere assoluto, cosa affatto superiore all'apprensiva dell'umana ragione, e che egual sorte debba in- contrare ad ogni teorica metafisica, che intenda al medesimo scopo. Dio è atto puro, pronuncia Aristotele; nulla di più vero di questo concetto, essendoché se in lui si celasse alcunché di potenziale e di virtuale non per anco esplicato né tradotto ali attualità non sarebbe piìi l'essere realis- simo e pienamente determinato, mancherebbe di alcune determinazioni e cesserebbe con ciò di essere Dio. Ma questo concetto di atto puro come si concretizza e si determina? L'essenza dell'atto puro, ossia di Dio in che risiede .' E qui, nella soluzione di questo grave problema, che la ra- gione umana soccombe alla prova e fallisce ali arduo intento. Iddio è sib- bene atto puro, e come tale dotato di tutte le determinazioni positive dellessere; ma egli è ad un tempo unità semplicissima, in cui tutte queste determinazioni coesistono insieme identificate, ossia egli è, come si esprime il Mamiani, 1 Essere dotato di un infinito numero di attributi infinitamente perfetti e ridotti a semplicissima unità. Or come si concilia questa plu- ralità infinita degli attributi di Dio coli unita semplicissima di sua essenza? Qual è, per così esprimermi, quel punto centrale, da cui irraggiano ed in cui si unificano le infinite determinazioni dell'essere divino .' In una pa- rola, qual è l'essenza dell'Assoluto;' Il pensiero puro, risponde Aristotele ; ma questo pensiero puro non è un'unità vivente, attiva e personale, quale debb' essere Iddio, sibbene un unità vuota, morta ed astratta, in cui il soggetto pensante cessa di esistere per identificarsi coli' oggetto pensato, in cui la mente non è più una sostanza personale , ma una pura astra- zione, in cui tutto si identifica e si confonde. Il concetto di una siiFatta attività, la quale non ha altra base né altro fondamento che se medesima, pare al Vachei'ot un incomprensibile mistero (pag. "ytì, Tom. i), e lo è veramente; mg non è meno incomprensibile il concetto teologico, che il Vacherot sostituisce a quello di Aristotele , concependo Iddio siccome PER GIUSEPPE ALLIEVO. 2O9 Y Essere universale, principio, sostanza e fine di quanto esiste (T. 3, pag. 282), giacché se Dio è sostanzialmente tutto, non è piiì Dio, ma è altresì il mondo, la natura, l'uomo e va discorrendo. E che adunque (si dirà)? Se Iddio non è pensiero puro, se egli non è identità del soggetto e dell'oggetto, ma ammette in sé una distinzione ed un'opposizione tra questi due termini, non si offende in allora la unità semplicissima di sua essenza.' Non si verrebbe a sacrificare la sua unità alla pluralità delle sue determinazioni' Iddio sarebbe bensì un'essere vi- vente, attivo e personale, ma dove risiederebbe il centro supremo dei suoi attributi, della sua vita e personalità? Si sente tutto il peso di questa difficoltà, ma tentandone la soluzione si ricade nella prima difficoltà testé accennata e risorge in tutta la sua forza il gran problema, che è quello di conciliare la pluralità infinita delle diverse determinazioni dell" essere assoluto coH'unità semplicissima della sua essenza. Così, concepito Iddio come pensiero puro, lo si spoglia di realtà e di vita per ridurlo ad una vuota ed astrattissima unità; concepito poi come una dualità di soggetto pensante e di oggetto pensato distinto l'uno dall'altro, pare offeso nella sua semplicissima unità. Cosa singolare! La ragione umana sa che le di- verse ed infinite determinazioni dell'essere divino vanno unificate in una sola semplicissima essenza, ma quando si accinge alla prova e crede di aver afferrata quest'essenza come centro di tutte le determinazioni divine, si trova in faccia di una vuota e morta astrazione, che non può tener luogo della viva e concreta unità propria dell' essere divino. Il concetto aristotelico di Dio posto come il pensiero del pensiero è il piià possente e supremo sforzo dell' astrazione umana che tenta di comprendere 1' es- senza dell'Assoluto-, é la formola più breve e piìi compendiosa in cui la speculazione possa chiudere l'immensità dell'essere divino, ma è ad un tempo la negazione della vita e della realtà di Dio, è una vuota ed inconclu- dente teorica, non già un concetto espressivo della natura della sostanza divina. La filosofia pronunciò per bocca di Aristotele l'ultima sua parola intorno all'essenza sostanziale dell'essere divino ; ma l'insussistenza del pro- nunciato conferma novellamente col fatto la sentenza di Platone, che una teorica perfetta e per ogni parte compiuta dell' essere primitivo supera l'apprensiva dell'intendimento umano. Serie II. Tom. XXX. 210 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. La Patristica. Noi abbiamo percorso il movimento del pensiero filosofico greco dalla scuola jonica, che lo aveva iniziato, insino a Platone ed Aristotele, in cui toccò per cosi dire il suo apogeo. Contemplando questo gran movimento nel suo vasto insieme , la ragion filosofica non può a meno di ammirare la gran potenza sjieculativa del pensiero greco e la sua meravigliosa fe- condità nel lavorìo di tanti e si svariati prodotti razionali costrutti con tanta originalità di con< etti e svolti in forme così rigide e sistematiche. Ma la Critica, pur mentre ammira questo cosi spendido sviluppo del genio filosofico, è costretta a sentenziare che il problema metafisico non venne compiutamente risolto in modo da soddisfare alle esigenze della ragione speculativa ed ai bisogni del sentimento. Infatti noi vediamo che la scuola jonica intenta alla ricerca del primo principio delle cose non seppe sol- hsvarsi al di là del mondo della natura, cercando in essa il Primitivo, onde la sua dottrina metafisica riesce ad un naturalismo, che erronea- mente avvisa di avere rinvenuto in seno della natura finita quel primo prin- cipin dell essere, che va cercato fuori dell'universo creato, perchè ha la sua ragion di essere in se stesso. La scuola eleatica poi e la pitagorica smar- rirono entrambe di vista il mondo della realtà perdendosi in un astratto idealismo. Quanto a Platone ed Aristotele, le loro teoriche vincono d'assai in profondità e grandezza di concetto quelle dei filosofi che li prece- dettero, ma non seppero sollevarsi infino all'idea di un solo principio su- premo di tutto l'essere, essendosi arrestate all'erronea dottrina di due principii coeterni ed indipendenti V uno dall altro quanto alla loro so- stanza. Dio e la materia. Il Dio di Platone lavora bensi la materia, ma non l'ha creata; è ar- tefice, non creatore: il Dio poi di Aristotele è ancora da meno; egli non solo non diede resistenza alla materia, ma nemmanco la forma; è né crea- tore, né artefice. E chiaro, che questa dottrina del dualismo assoluto non iscioglie, ma niega affatto il problema dei rapporti tra Dio ed il mondo, posti qui come affatto indipendenti l'uno diilPaltro, e che perciò non ap- paga, ma urta la ragione speculativa, la quale non può arrestarsi se non alla suprema unità ontologica. Avendo la filosofia greca disconosciuto quello dei tre termini del problema metafisico, che riguarda il rapporto fia Dio ed il mondo, si trovò necessariamente condotta ad una incompiuta ed erronea PER GIUSEPPE ALLIEVO. 211 dottrina intorno agli altri due termini del problema risguardanti 1 uno il Primitivo, r altro il derivato : il dualismo assoluto mena logicamente ad una falsa teoria teologica e cosmologica. Infatti Tessere primitivo ha per proprio di possedere una supremazia e superiorità assoluta su tutto quanto esiste, sicché non si dia entità veruna la quale non debba il proprio essere al Primitivo ; come pure è proprio dell' essere derivato il dipendere da un principio superiore in cui possegga la ragione ontologica ili se. Ora nella dottrina del dualismo assoluto Iddio cessa di essere il Primitivo e l'Assoluto, perchè accanto a lui vien sollevato un altro principio che non gli deve la propria esistenza, come pure il mondo cessa di essere il de- rivato, perchè quanto alla sua sostanza è indipendente affatto da Dìo. Sta adunque quel che abbiamo stabilito, che la fdosofia greca non diede al problema metafisico una soluzione sitfattamente compiuta da satisfare on- ninamente alle esigenze della ragione speculativa. Il pensiero non poteva quindi far sosta a questo segno, e necessità richiedeva che esso cercasse di riannodare mtorno ad un nuovo principio superiore tutte le precipue dottrine filosofiche greche, e di sciogliere così meglio, che non si era fatto finqui, il problema metafisico. Tale per appunto fu il tentativo dei Padri della Chiesa e dei filosofi neo- platonici, che segnano un nuovo periodo nella storia del pensiero filo- sofico, e che tentavano il medesimo scopo, seguendo però vie diverse, essendoché i Padri cercarono nel nuovo Cristianesimo quel principio su- premo che doveva in sé riassumere tutto il pensiero greco e contenere la soluzione compiuta del problema scientifico, mentre i Neoplatonici, combattendo il sorgente Cristianesimo, e continuando lo spirito tradizio- nale del pensiero greco cercavano di compierlo fecondandolo ed aggran- dendolo colla potenza di un nuovo principio attinto alle sorgenti stesse dello spirito umano. Giova il vedere in qual modo sia stato concepito e risolto il problema metafisico dalla Patristica e dal Neoplatonismo, che sorsero quasi contemporanei e si svolsero per entro il medesimo periodo di tempo, sebbene lottanti l'uno contro l'altro. Quali rapporti intercedono fra la filosofia greca, che tramontava, ed il nuovo Cristianesimo che sorgeva? Tale era il problema che per primo do- veva affacciarsi di per sé al pensiero dei primi Padri della Chiesa. Questo problema poteva venire da essi risolto in sensi diversi, o considerando la filosofia antica come nemica e contraria alla nuova rivelazione, lo che menava alla negazione o della filosofia o della fede, oppure risguardan- 312 U. PROBLEMA METAFISICO ECC. dola come conciliabile col Cristianesimo, e quindi cercando di adempierne i difetti e le imperfezioni per mezzo dei principii rivelati. La prima di queste due soluzioni fu abbracciata dal Neoplatonismo, che oppose ai principii rivelali del Cristianesimo le speculazioni razionali del pensiero greco; la seconda fu seguita dalla Patristica, la quale propugnò l'alleanza della filo- sofia greca, e specialmente del Platonismo col nuovo Cristianesimo. I Padri della Chiesa in generale consideravano la filosofia come una propedeutica alla fede, legittima ed efficace tanto, quanto la ste.ssa tradizione delle verità rivelate- e veramente il Cristianesimo non avendo ancora in que'suoi primi esordii prese tutte le rigide e precise forme del dogma, ben poteva nella va"a ed indeterminata sfera de' suoi principii rivelati far luogo ai concelti speculativi della ragione, cercando cosi di abbracciare, non di escludere i diversi e moltiformi prodotti dello spirito umano. I dogmi cristiani non essendo ancora tutti fermati dalla Chiesa in modo esplicito ed aperto, era fatta ampia liJjertà al pensiero speculativo di continuare a svolgere le dot- trine metafisiche precedenti ; quindi vediamo i Padri tutti intenti a conciliare la tradizione ebraica colla filosofia, la rivelazione colla ragione mescendo idee filosofiche greche colla dottrina rivelata; vediamo Origene assistere alle lezioni del fondatore del Neoplatonismo, e filosofi neoplatonici fre- quentar le lezioni di Origene; vediamo S. Giustino considerar la filosofia di Platone come la sola che possa condurre alla fede, e S. Clemente sfor- zarsi di emancipar il dogma cristiano dal Giudaismo per ricongiungerlo colla filosofia; vediamo Ira la filosofìa e la fede non porsi altra differenza se non questa, che la prima non conobbe il Verbo se non in parte, mentre la seconda lo comprese per intiero in Cristo , che è la sola rivelazione completa del Verbo. Vuoisi però notare, che Tertulliano separandosi su questo punto dal sentimento dei Padri della Chiesa considera la filosofia non come la naturale alleata del Cristianesimo, ma siccome o superfi- ciale o dannosa, sentenziando che dopo Cristo ogni curiosità di sapere piiì oltre diviene insensata, che dopo d Vangelo ogni scienza diventa inutile. Vediamo ora quale sia la Metafisica cristiana sviluppata dai Padri della Chiesa. Il concetto fondamentale che informa tutta la Metafisica patristica è la dottrina rivelata dal Verbo preso come tipo del mondo intelligibile, come l'idea delle idee, il contenente universale di tutte le essenze delle cose: nel che si scorge l'alleanza della Patristica cristiana colla filosofia greca, poiché la dottrina dei Padri intorno al Verbo è la teorica plato- nica del mondo inlelligibile svolta e conformata ai principii rivelati del PER GIUSEPPE ALLIEVO. 2l3 Cristianesimo. Il Verbo viene dai Padri considerato siccome il mediatore tra Dio ed il mondo, siccome l'anello intermedio tra il Creatore e la crea- tura, siccome il termine dialettico che concilia insieme I unità dell'essenza divina colla pluralità degli esseri creali. Dio risguardato nella sua essenza è unità assolutamente semplice, che non può essere concepito in verun rapporto colla pluralità, la quale offenderebbe lo somma ed infmita sem- plicità di sua essenza; epperò in virtù di questa sua unità assoluta riesce inaccessibile al pensiero umano ed incomunicabile per se stesso ad ogni altra entità da esso distinta. Di qui sorge la necessità di un mediatore, che facendo uscire la divinità dalla sua assoluta unità la renda accessibile all'apprensiva del pensiero umano, e la ponga in contatto colla pluralità delle esistenze; questo mediatore è il Verbo. Ma come il Verbo adempie a quest' ufficio mediativo e collega in sé l'unità dell'essenza divina colla pluralità degU esseri mondiali? Il Verbo, osserva (Origene, è uno perchè è la Verità stessa, la quale non può essere che una, né può avere che una sola espressione compiuta ; ma per ciò appunto che é Verità suprema, esso è molteplice perchè è l'ideale tipico di tutto il mondo intelligibile, la ragion suprema di tutte verità, il prin- cipio di tutte le ragioni delie cose, l'idea delle idee, l'essenza delle es- senze, continens (com'egli scrive nel i° libro De princ.) in semetipsa universae creaturae vel inilia, vel formas: vel species : piiì ancora, e^li non è solo l'Idea suprema conlenente in sé tutte le essenze intelligibili delle cose, ma pure la forza infinita e creativa che produce tutte le forze mondiali, ed origina tutte le esistenze. Così il Verbo è uno e molteplice ad un tempo ; uno per la sua essenza , molteplice pel suo contenuto , poiché, se nel mondo sensibile la pluralità esclude sempre e necessaria- mente l'unità, la cosa avviene al contrario nel mondo intelligibile. Insieme colla teorica del Verbo collegasi la teoria patristica del Pri- mitivo. L'intuizione pura del Primitivo é il fine supremo della filosofia e della religione ad un tempo , della scienza e della tradizione ; è la sa- pienza e cognizione per antonomasia, o, come dicevano i Padri, la Gnosi, che è il pili sublime grado di contemplazione a cui l'anima possa solle- varsi, superiore ad ogni scienza dimostrativa e puramente razionale. È sentenza di Origene, di S. Clemente e di molli Padri della Chiesa, che Iddio , considerato come 1' essere assoluto ed infinito , non possa essere compreso in modo positivo e diretto dallintelligenza umana. Il supremo principio delle cose, Iddio, è l'unità assoluta, superiore ad ogni essenza, 21^ IL PROBLEMA METAFISICO ECC. ad Ogni vita, ad ogni intelligenza, unità incomprensibile, incomunicabile; niuna mente finita lo può concepire per quel che è in se stesso, o com- prenderlo in una definizione ; non si perviene a conoscerlo per altra via se non per quella dell'astrazione, eliminando tutte le imperfezioni che accompagnano gli attributi degli esseri creati. Per tal modo non ci è dato di sapere ciò che Dio è , ma sol di conoscere quel che non è : e tutto quel che si può affermare della sua natura è che dessa racchiude in sé il sommo di perfezione. Iddio in sé non è né il Bene , né l'Unità , né r Essere , né lo Spirito ; il nome che gli conviene meglio d' ogni altro , l'Uno, non definisce per niente la sua essenza, ma connota soltanto la semplicità assoluta di sua natura. Quanto alle altre denominazioni che gli vengono assegnate, son tutte prese ad iinprestito da' rapporti tra Dio ed. il mondo, ma non ne esprimono l'intrinseca e positiva natura. Quanto alla teorica dei rapporti tra il Primitivo ed il Derivato, la dot- trina patristica contiene un concetto nuovo ed originale ignoto affatto alla Metafisica greca, voglio dire il concetto di creazione delle sostanze finite dal niente. Mentre Platone ed Aristotele, nello spiegar Torigine del mondo, non seppero sollevarsi più su del dualismo assoluto ammettendo eterna la materia ed esistente per sé accanto ad un altro principio egualmente eterno ed assoluto, cioè Dio, i Padri della Chiesa rigettavano l'assurdo ed irrazionale concetto di una materia eterna preesistente alla formazione del mondo, sostenendo che Dio creò il mondo con un atto libero della sua volontà, essendoché egli non abbisognava delle esistenze finite perché tutto in sé comprende, e facendo della creazione un atto spontaneo dell'on- nipotenza divina che trae tutte cose dal nulla assoluto, e non già da un germe eterno preesistente. Origene chiama empii coloro che pretendono essere la materia increata e coeterna a Dio stesso, e considera la crea- zione divina non come un mero accidente od una caduta della potenza creatrice, ma come un prodotto spontaneo di Dio, che essendo il Bene assoluto sentesi tratto dalla stessa sua natura a dar vita a nuovi esserr comunicando loro parte di sua bontà , essendo proprio del Bene il dif- fondersi in nuove esistenze. Il concetto di Dio consideralo come sommo Bene é quindi il ponte di comunicazione , per così dire , per cui Dio uscendo dalla sua unità assoluta fa trapasso al mondo, e spiega l'origine dell'esistenza del finito, opperò il mondo viene ad essere uno specchio m cui si manifesta esteriormente e si riverbera l'intima natura divina, le cui perfezioni rivelandosi, per cosi dire, sotto forme sensibili vengono con- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 2l5 tempiale dall'anima attraverso la natura finita , veggendo così indiretta- mente quel Dio nascosto, che non poteva contemplare a faccia a faccia. Iddio non viene dalla Patristica considerato soltanto come creatore, ossia come principio del crealo, ma altresì come provvidenza e come fine ultimo di tutti gli esseri. È degna di essere ricordata la teorica di Origene intorno alla finalità suprema delle finite esistenze. L'universo è destinato a risalire, siccome a suo ultimo fine, a quel Dio stesso che fu primo ed unico principio della sua esistenza ; ma quest'universo, prima di ri- tornare in seno al suo supremo principio, debbe purificare onninamente se stesso, distruggendo tutta la materia che in sé contiene; allora il regno della perfezione e dell' armonia universale , interrotto dalla caduta delle creature da Dio, verrà ristabilito, e tutto sarà in Dio, e Dio sarà tutto: erit Deus omnia in omnibus, ut universa natura corporea redigatur in eam substantiam, quae omnibus melior est, in divinam scillcet [De princ. lib. 3 , pag. 6 ). Di tal modo Iddio veniva considerato nel suo triplice rapporto di prin- cipio, di mezzo e di fine dell'universo. Egli, come creatore, come po- tenza infinita , origina il mondo traendolo dal niente ; come Sapienza e Provvidenza infinita lo consci va, serbando dislinte le essenze degli es.seii, ed aiutandoli nel loro sviluppo; come Bene infinito richiama tutti gli esseri creati alla sua unità, come a fine supremo di tutto quanto esiste. Creare, mantener l'esistenza agli esseri prodotti, ricondurli alla causa prima di ogni produzione, ecco le tre precipue operazioni di Dio per rapporto al mondo. Neoplatonismo. La Patristica attinse dalla nuova rivelazione del Cristianesimo il prin- cipio spiegativo della realtà universale , chiedendo alla fede la soluzione del problema filosofico; il Neoplatonismo, ripudiando per una parte i dogmi del nuovo Cristianesimo , e per l' altra riputando impotente la ragione umana a sciorre il problema, ricorse "al misticismo, ossia alla potenza del sentimento come al solo mezzo per giungere alla piena comprensione del supremo principio delle cose. Intento precipuo del Neoplatonismo era di ricomporre l'antico pensiero filosofico greco, fecondarlo e compierlo col- legando ad unità sistematica le diverse ed opposte dottrine metafisiche , quelle segnatamente di Platone e di Aristotele, per mézzo di un nuovo 2l6 IL PROBI.EMA METAFISICO ECC. principio supcriore che conciliasse le antinomie e comprendesse in una vasta sintesi organica tutti i prodotti della ragione speculativa. Il Neopla- tonismo cominciò verso l'anno i8o dell'era volgare e finì verso il Sag: la sua storia si divide in due periodi distinti, denominati dalle due precipue città in cui compiè il suo movimento , e sono il periodo della scuola di Alessandria e quello della scuola di Atene. La scuola neoplatonica di Ales- sandria segna il periodo di formazione^ di sviluppo e di perfezione del Neoplatonismo; la scuola tli Atene segna il tentativo fatto per risollevare questa dottrina a quel sublune punto di perfezione da cui era scaduta : la prima di queste due scuola si distingue per originalità di concetti, per profondità e vigor di pensiero; la seconda non fa che commentare o rior- dinare ciò che il genio aveva creato ; onde la filosofia neoplatonica si denomina altresì scuola filosofica di Alessandria , perchè quivi ebbe non solo la sua culla, ma toccò il massimo suo sviluppo. Alessandria era in quell'epoca il centro di un gran movimento scientifico e speculativo, dove le vecchie tradizioni dell'Oriente andavano a mescolarsi colle nuove dot- trine filosofiche; situata pressoché al centro dell Europa, dell'Asia e del- l'Africa diventava, per così dire, il ritrovo di tutte le credenze religiose antiche e nuove, della filosofia e della letteratiu-a, del commercio e della civiltà. Fondatore della scuola neoplatonica di Alessandria reputasi Am- monio Sacca, che nulla scrisse, ma comunicava in private lezioni la propria dottrina a' suoi fidi discepoli, ed originò ima tradizion filosofica che venne poi svolta e convertita in dottrina scritta da' suoi seguaci. Lo spirito in- formativo della sua dottrina filosofica era essenzialmente greco; e precipuo suo intendimento era di conciliare insieme Platone con Aristotele , e su questa conciliazione ricomporre tutta la greca filosofia. Questo sublime intento di fondere in una vasta sintesi tutte le dottrine filosofiche greche , e ricomporne gli elementi ad unità per mezzo di un principio superiore, venne proseguito da Plotino, il piùi celebre fia i di- scepoli di Ammonio; e siccome in Plotino la filosofia neoplatonica toccò il suo più sublime segno di sviluppo e di perfezione, perciò considerandolo come il più gran rappresentante del Neoplatonismo, ci contenteremo di discutere la sua dottrina , veggendo come abbia concepito e cercato di sciogliere il problema metafisico compiendo il pensiero filosofico greco. Scopo finale e supremo dell'esistenza umana è 1 unione dell'anima col supremo principio per via della contemplazione dell'Uno; mezzo per giun- gere a siffatta contemplazione è la filosofia . che solleva lo spirito al più PER GIUSEPPE ALT-IEVO. 3 17 sublime grado di vita cogitativa. La fdosofia ha per proprio di contemplar le cose nella loro essenza, e non nelle loro forme passeggere e mutevoli; di intuire la verità nella sua purezza assoluta, e non attraverso i simboli e le forme sensibili; essa quindi è del paro la scienza dell'essere considerato nella sua essenza, e la scienza delle idee, ossia delle essenze delle cose, e comprende perciò, la Metafisica di Aristotele (scienza dellessere), e la Dialettica di Platone (teorica delle idee). Scopo adunque della fdosofia è il possesso della verità , l' intuizione delle idee , delle essenze , degli intelligibili , dell' essere , vai quanto dire la vera e perfetta conoscenza. Ma la (conoscenza perfetta e vera importa l'identità del soggetto pensante e dell'oggetto pensato nel pensiero puro. Plotino dimostra questo punto fondamentale del Neoplatonismo con due sorta di argomenti derivati l'uno dalla natura stessa della cognizione vera, l'altro dalla natura dell'intelli- gibile assoluto. Intatti la cono.scenza compiuta debbe possedere in se stossa e compenetrare di sé l'oggetto conoscibile , e sarebbe vuota di realtà e di verità se non contenesse in sé il proprio oggetto: se questo fosse este- riore ed estraneo al soggetto conoscente, in qual modo l'intelligenza po- trebbe all'errarlo e conoscerlo intimamente .' Non sarebbe forse possibile che essa non lo incontrasse.' L'incontro stesso poi, essendo fortuito e passeggero , ciò sarebbe causa per cui la conoscenza , a vece di essere permanente, sfuggirebbe insieme con l'oggetto stesso. Plotino prova poi la stessa tesi dalla natura stessa dell' intelligibile , ossia della verità, la quale essendo non molteplice, né sparpagliata, ma una e continua debbe essere appresa nella sua semplicissima unità dall'intelligenza, e fare quindi una sola cosa con Fintelligenza stessa. Posto in sodo questo principio, che la vera e perfetta conoscenza cui intende la filosofia importa l'identità del 'soggetto conoscente coll'oggetto conosciuto, Plotino chiama a rassegna le diverse facoltà conoscitive del- l' anima , quali sono la sensazione , 1' imaginazione , il ragionamento , la ragione, e si fa a provare che in veruna di cpieste facoltà risiede la vera e perfetta conoscenza, ma solo nell intelligenza pura, per la ragione che soltanto in quest'ultima si avvera la condizione succennata, cioè l'identità del soggetto conoscente coll'oggetto conosciuto. La sensazione infatti non adempie a tal condizione, perchè l'oggetto sensibile è estrinseco e distinto dal soggetto senziente; nell'imaginazione del paro mantiensi la distinzione tra il soggetto e l'oggetto, perchè l'oggetto di essa, sebbene non sia più la realtà materiale come quel della sensazione , ma una forma di essa , Serie IL Tom. XXX. 28 2i8 "• PROBLEMA METAFISICO ECC. tuttavia non è per anco un puro intelligibile. Il ragionamento poi non è nensiero ma discorso; non è forma o perenne intuizione della verità, ma un discorrimento, un moto per raggiungerla: esso è un'operazione com- nlessa per cui lo spirito risale penosamente dalle forme sensibili alle ragioni inlelligiljili , ed è perciò segno della debolezza della intelli- genza umana : ragionare è cercar la sapienza e non possederla ; Giove non ragiona perchè è già sapiente, ma intuisce e contempla. La ragione noi è altra facoltà delf anima più perfetta dello stesso ragionamento , perchè questo mette capo e si compie in quella, ma non è per anco il vero e perfetto conoscere , perchè non coglie direttamente il proprio og- getto ne in sé lo contiene, ma col sussidio e coll'intermezzo dell'intelli- genza • 1' anima per mezzo della ragione conosce sibbene se stessa , ma conosce sé in quanto proviene da un princijìio superiore , 1' intelligenza pura di cui è una emanazione. La vera e perfetta conoscenza adunque non si rinviene altrove che nella pura intelligenza, siccome quella in cui soltanto si avvera l'identità del soggetto e dell'oggetlo del pensiero. Ma in qual modo avviene in essa sitlatta identità ? L" intelligenza pura con- tiene nella sua semplicissima unità tutte le essenze intelligibili , ossia le idee le verità, le quali perciò non sono alcunché di estrinseco e di di- stinto dell'intelligenza ste.ssa, ma ne costituiscono, per così dire, il fondo e la natura. Quindi per pensare non abbisogna di uscir fuori di se me- desima e cogliere un oggetto ad essa estrinseco ; ma le basta contemplare se stessa, perchè pensando se medesima pensa ad un tempo tutte le es- senze intelligibili delle cose, lutle le idee, siccome quelle che in lei si contengono; essa quindi comprende e contiene in sé il proprio oggetto, perchè essa è lintelligibile stesso. Per lei pensare la verità e pensare se stessa è una sola e medesima cosa, sicché non contempla la verità se non a condizione di contemplare se stessa, e non conosce se stessa se non a condizione di conoscere la verità. Tale è il carattere proprio dell' in- telli'^enza; carattere che non si riscontra né nella sensazione, né nell'i- maginazione , né nel ragionamento , né nella ragione : facoltà tutte che non conoscon davvero e ijerfettamente perché in esse non v' è identità assoluta tra il soggetto e l'oggetto della conoscenza, mentre l'intelligenza pura è per necessità di natura intelligenza ed intelligibile ad un tempo, intelligenza in quanto è intelligibile, intelligibile in quanto è intelligenza. Vuoisi però notare che per Plotino quest'intelligenza pura, sede della vera e perfetta conoscenza perché essa sola in sé identifica il soggetto pen- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 2ig sante coH'oggetto pensalo , non è un carattere od attriljiito dello spirito umano individuale: essa anzi talmente si differenzia dall'intelligenza pura, e le è siflattamente inferiore , che non può raggiungere la vera e per- fetta conoscenza se non a condizione di smarrire il sentimento della propria individualità ed immedesimarsi coli intelligenza pura . facendo una sola cosa con questa. Ma in che modo giunge i anima umana al pos- sesso di questa conoscenza perfetta, che è l'oggetto supremo delle sue aspirazioni, lo scopo ultimo della vita? Val quanto dire, qual è il pro- cesso del metodo filosofico.' Per giungere alla visione intuitiva dell Essere primitivo^ che è il più perfetto e sublime grado di nostra vita cogitativa, l'anima non ha che ad eliminare gli ostacoli che le contendono la visione dell' Uno assoluto , giacché esso è vicinissimo a lei , ed ella noi vede perchè impedita dallo spettacolo delle cose esteriori; chiuda adunque gli occhi alle cose esteriori e sensibili che la circondano, raccolgasi in sé e contempli la propria intima essenza nella sua purezza spoglia de suoi sensibili elementi ; e quando l'anima sarà giunta a svestirsi di tutti i suoi elementi sensibili che le nascondono la sua vera natura, e discesa infino al fondo del suo essere , contemplando pura e limpida la sua essenza troverà in se stessa il mondo intelligibile per intiero, e sollevandosi più su insino alla cima di questo mondo intelligibile, insino al principio stesso del vero, vedrà l'intelligenza pura, fonte di tutti gl'intelligibili, ed ele- vandosi ancora più su dell intelligenza pura con un novello ed ultimo sforzo intravedrà il principio stesso dellintelligenza , il Primitivo, Iddio, l'Uno, ed in quest'intuizione dell'Uno smarrendo la propria individualità diventerà una sola cosa con Dio. Così lauima è pervenuta all'intuizione del Primitivo, non già uscendo di sé e cercandolo al di fuori di sé at- traverso la natura, ma raccogliendosi in se stessa, concentrando lo sguardo nel profondo di sua essenza, quiyi trovò loggetto delle sue speculazioni, sicché « la scienza dell'essere non è per l'anima umana se non la co- » scienza di sua propria natura ; la Psicologia si confonde ad una data » profondità coU'Ontologia (f acherot, op. cit. , p. 386, toni, i) ». Conosci te stesso; tale era il gran canone del metodo di Socrate; e questo stesso precetto metodico venne da Plotino applicato alla Metafisica, sostenendo che 1 anima non ha che a sguardar in se stessa per vedervi tutte verità e trovarvi la scienza, poiché in sé rinviene la ragione, nella ragione le verità e gli intelligibili, negl'intelligibili l'intelligenza pura, nell'intelli- genza pura il Primitivo, l'Uno, Iddio. 220 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Riepiloghiamo quanto siam venuti infino a qui discorrendo. L' anima aspira, come a suo scopo finale, al possesso del Primitivo; mezzo a tanto fine è la filosofia , ossia la scienza dell' essere , la teorica delle idee , la ricerca del supremo principio ; nel che risiede la vera e perfetta cono- scenza. Ma la conoscenza perfetta non risiede altrove che nell'intelligenza pura, siccome quella che in sé identifica il soggetto e 1 oggetto; e l'anima non può raggiungere tal forma di conoscenza se non immedesimandosi coU'intelligenza stessa. E con qual processo perviene la scienza a tal segno? Passando dalla natura, ossia dal complesso delle cose esteriori, all'anima, dall'anima all'intelligenza pura. Ma giunta l'anima alf intelligenza pura, ossia alla contemplazione, spogliando se stessa delle forme umane che la restringono, e sciogliendosi dai sensi e dalla imaginazione che la incep- pano, quivi non dehbe arrestarsi , ma" progredire più oltre perchè al di sopra dell' inlelligenza pura sta il primo principio , epperò al di sopra defia scienza e della conoscenza vera sta lintuizione dell'Unità assoluta, ossia il possesso del Primitivo per mezzo dell estasi , onde la Metafisica riesce un mezzo a fine superiore, una propedeutica alla Teologia. Plotino dimostra che al di sopra dell intelligenza pura sta il Primitivo da ciò che essa è destituita dei caratteri costitutivi del Primitivo , i quali sono l'assoluta semplicità od unità, l'assoluta indipendenza, 1 assoluta universalità. Ora l'intelligenza pura manca del primo carattere, essendoché l'unità le è bensì essenziale, ma non è unità assoluta, siccome quella che emerge dalla sintesi del soggetto e deiloggetto, due termini che si con- fondono bensì, ma che tuttavia possono essere concepiti distinti e lasciano luogo ad una mentale dualità: nel pensiero, per quanto perfetto esso sia, VI ha ad un tem|)o unità e distinzione, identità e dilFerenza. Secondamente, l'intelligenza pura manca dellindipendenza assoluta, perchè l'intelligenza abbisogna dell'intelligibile per pensare se stessa, e questo alla sua volta abbisogna di quella per essere pensato. Del paro l intelligenza pura non ha universalità assoluta, poiché havvi superiore ad ogni intelligenza, anche la più perfetta, un altro principio che gode della massima universalità, e questo principio superiore è il bene a cui tutte cose, e perfino la stessa intelUgenza, tendono ed aspirano, mentre non tutte le cose tendono al- l'intelligenza, la quale perciò non possiede l'universalità assoluta. Il mondo sensibile esterno adunque, ossia la natura, l'anima, l'intelli- genza pura, l'Uno primitivo sono, nella metodologia plotiniana, i quattro momenti del processo metodico, per cui si ascende dal mondo sensibile l'ER GIUSEPPE ALLIEVO. 32 1 a Dio; e l'immaginazione sensitiva, la ragione, la contemplazione, l'estasi sono i quattro atti corrispondenti ad essi quattro momenti. L'anima ap- prende da prima j^er mezzo dei sensi e dell immaginazione il mondo esterno della natura, che la circonda; poi dalla natura passa a se stessa apprendendosi colla ragione, dall'anima fa passo all'intelligenza pura per via della contemplazione, e dalF intelligenza sollevasi fino all'Uno, dove si arresta unendosi con esso per mezzo dell'estasi, ossia dell'intuizione amorosa, che è il fine supremo della vita dell'anima. Quest'intuizione è superiore alla scienza ed alla filosofia stessa; giacché l'Uno primitivo non è oggetto di contemplazione, ned è appreso per mezzo del discorso e del ragionamento, ma solo intuito e posseduto dall anima col solo mezzo dell estasi e del sentimento mistico. In questo raccoglimento assoluto dell'anima, che è l'estasi, essa esce, per cosi dire, dall'essere, oggetto della scienza metafisica, per entrare nel divino, anzi esce per fin di se stessa per immedesimarsi con Dio. Giacché tale e tanta è l'intimità di quest unione dell'anima con Dio, che assorbita onninamente nell' Uno primitivo, smarrisce ogni coscienza della sua individualità, e nulla piii vede in sé, né intorno di sé che Dio solo, con cui s'identifica fino a far una sola cosa con lui. E siccome Iddio è l'Uno assoluto e semplicissimo, che sta al di sopra del moto, della vita, del pensiero, della ragione, così l'anima diventa uiia sola cosa con Dio, anzi essendo Dio stesso più non si muove né sente il suo corpo, ma sta al di sopra del moto e del sentire, pili non vive, ma è sopra la vita stessa, più non pensa né ragiona, né intende, ma è superiore al pensiero, alla ragione, allmtelligenza, più non si afferma né si riconosce come anima, né come intelligenza, né come essenza determinata, ma libera da ogni forma, dalla scienza, dalla virtù, dalla beltà, dall'intelligenza, è l'Uno assoluto, in cui non vi ha più nulla di tutte queste cose. Però quest'unione dell'anima con Dio per mezzo del- l'estasi non si otterrà piena, costante e durevole se non dopo la morte del corpo; quaggiù non é che momentanea perché il corpo strappa l'a- nima dal commercio con Dio per ripiombarla nella vita sensibile; e Plotino ci assicura egli stesso di avere più d'una volta in vita sua fruito dell'inelilibile intuizione dell'Uno assoluto e di essere stato in perfetta unione con lui. Ma che cosa è l'Uno ossia il Primitivo, che cosa il mol- teplice, ossia il Derivato , ed in che maniera dallUno esce il molteplice ed all'Uno ritorna.' Rispondere a tal inchiesta vai quanto esporre la teoria metafisica di Plotino. 222 ÌL problema METAFISICO ECC. Teoria del PrimitÌTO considerato in se stesso. Tutta la teoria di Plotino intorno al Primitivo risguardato nella sua oggettiva unità compendiasi in questa paradossale proposizione: Iddio è l'inconoscibile e ì ineffabile per modo che riesce impossibile non solo ogni scienza intorno ad esso, ma ogni concetto, ogni vocabolo. La dot- trina intorno a Dio riesce cosi ad una confessione della nostra ignoranza e fa un singolare contrasto col trascendentalismo £;ermanico , il quale sostiene che si dà dell'Assoluto una scienza assoluta essa stessa. ^ ediamo in che modo Plotino giunge a stabilire questa tesi. Il Primitivo in virtiì della sua stessa natura debbe sollevarsi al di sopra di tutto quanto è od esiste, epperò va concepito come unità suprema, pura ed assoluta, in cui non v'ha distinzione veruna, nemmanco la distinzione tra il conoscente ed il conosciuto. Ora il concetto di unità pura ed assoluta escludendo ogni sorta di aiolliplicità e di diversità, richiede che non si ponga in Dio nessuna delle qualità diverse di cui possiamo formarci un idea qualsiasi, e che perciò nel concepirlo si faccia astrazione da ogni determinazione sensibile ed intelhgibile, da ogni essere, da ogni essenza determinata, da tutto ciò che esiste e può cader in pensiero umano sotto forma particolare e determinata. Dio adunque non ha nessuna determinazione, nessun ca- rattere, nessuna qualità, egli non ha attività , non vita, non sost;inzialità, non sentimento né coscienza di se, ma è al di sopra di tutte (]ueste ed altre determinazioni: non ha il volere, perchè nulla può desiderare ; non ha né intelligenza né pensiero ; poiché il pensiero per quantunque per- fetto importa identità e differenza, unità e distinzione, essendo il ritorno del molteplice allunità; ma Dio esclude ogni distinzione, ogni moltipiicità e differenza, uè può aspirare allunità perchè è unità assoluta egli stesso, quindi non pensa, non intende, non conosce né sé, né altre cose, perchè se pensasse, si distinguerebbe e si dividerebbe. Egli non è indivisibile, immenso, eterno, infinito, perchè tali attributi convengumi altresì ali in- telligenza pura, mentre egli è al di sopra dellintelligenza e del pensiero. Che pii^i? L'Uno è superiore perfino aliente, perchè nellente trovasi sempre qualche moltipiicità, come per esempio nell' uomo, in cui si di- stinguono animalità e ragione, ed organi corpoiei, mentre l'Unità suprema ed assoluta esclude qualsiasi guisa di moltipiicità: attribuirgli l'essere sarebbe un circoscriverlo, mentre egli non è veruna essenza determinata. PER GtUSEPPE ALLIEVO. 2 23 Il Primitivo non essendo ente, è per ciò stesso affatto indeterminato, anzi informe, come lo chiama Plotino stesso; e questa è la ragione per cui esso non può venir appreso né conosciuto dal pensiero umano , perchè tutto ciò che è conosciuto, è alcunché di determinato, ossia un ente. Sentiamo lui stesso: « Quamobrem quod intellectu superius est, » non est intellectus, sed ante intellectum extat. Intellectus enim est ali- » quid entium : illud vero (unum) non aliquid, sed uno quoque superius. » Neque est ens: nam ens velut formam ipsam entis habet. Sed illud est » prorsus informe, et ab intelligibili etiam forma secretum. Unius namque )) natura cum sit genitrix omnium, merito nulium existit illorum. igitur » neque quid existit. neque quale, neque quantum. Praeterea non est » intellectus, non anima, non movetur, non quiescit, non est in loco, non » est in tempore : sed ipsum secundum se uniforme, imo vero informe » super omnem existens formam, super motum, super statum. Haec enim » circa ens versantur, quae quidem ipsum multa conficiunt {Ennead. VI, » IX 3) ». Ma se Dio non è né intelligenza, né essenza, né sostanza, né verun essere determinato, come potremo ancora parlare di lui? E che cosa sarà desso mai .' Non forse il niente !" Davvero, che essendo onnina- mente indeterminato, non pos.siamo discorrerne in modo positivo ma sul negativo ; possiamo solo dire quel che egli non è, non già quel che è ; e gli stessi vocaboli di Uno, di Primitivo, di Bene, di Assoluto, i soli, secondo Plotino, che convengano veramente a Dio, non esprimono per niente la sua natura intrinseca, che é veramente ineffabile, ma ciò che egli è per rapporto a tutti gli esseri finiti. Dacché però Iddio sta al di sopra di ogni determinazione e categoria particolare non ne consegue che sia un nulla, né che non ci sia dato di possederlo. Certo è che noi possiamo raggiungere per mezzo della ragione, non essendo oggetto di cognizione e di scienza umana, ma lo possiam possedere per mezzo dell'estasi e del sentimento mistico, che è una cotale presenza di Dio al nostro spirito, miglior della scienza, e quest'atto con cui lo spirito umano coglie Dio a sé presente, vien da Plotino chiamato intuito, che sopravanza il ragio- namento e la scienza stessa perché identifica 1 anima con Dio. Teoria del Primitivo ne^ suoi rapporti col Derivato, Considerato il Primitivo nella sua unità assoluta ed inconumicabile, rimane che lo si consideri come produttore del derivato, ossia nel suo 2 24 '^ PROBLEMA METAFISICO ECC. sviluppo esteriore. Il problema adunque che qui si propone di risolvere è questo: in che modo il Primitivo pone il derivato, ossia in qual modo l'Uno assoluto si svolge e si estrinseca nel molteplice? Plotino risponde, che siccome Iddio basta a se stesso, né sente verun bisogno, verun desi- derio di cosa ad esso estranea, così se egli produce, non esce di se stesso, né altera la sua assoluta unità, ma pone il derivato ed origina il molte- plice senza tendere a qualche cosa , senza agire al di fuori di sé. La creazione adunque non è un atto, con cui Iddio tragga alla realt;i ed all'attualità ciò che da prima esistesse in lui virtualmente od in potenza; giacché egli essendo perfettissimo, non ha né bisogno, né desiderio, né amore di cosa veruna ; se egli adunque produce il molteplice, noi fa per compiere quasi e perfezionare vieppiù la sua unità, ma perché la pienezza infinita della sua natura in certo qual modo sovrabbonda e si espande al di fuori per modo che la produzione del molteplice e del derivato viene ad essere una emanazione necessaria dell'Uno e del Primitivo. L'Uno essendo perfettissimo per necessità stessa di sua natura, è necessitato a produrre il molteplice, essendoché il produrre si contiene nel concetto stesso della perfezione. Posto che l'Uno sia necessitato a creare, si chiede qual sia la prima ed immediala sua emanazione. L atto suprenio ed immanente dell Uno é la libertà ossia il pieno dominio di se stesso : questa libertà perfetta è dessa che fa essere il Primitivo; in grazia della mede- sima egli dà a se stesso l'essere e la propria sussistenza, egli forma se medesimo. Ma in virtù di questa libertà l' Uno non solo esiste perchè vuole esistere, ma è quel che vuole essere: e siccome vuole conoscer se stesso, così egli emana da sé l'intelligenza, che è il suo verbo, l'immagine in cui specchia e conosce se stesso , la prima ed immediata emanazione dell'Uno. Ma è un principio fondamentale della dottrina neoplatonica questo che ogni ente superiore emana da sé senza punto uscir da se stesso e sostenere verun cangiamento, veruna azione, altri esseri simili a lui, ma meno perfetti; opperò l'intelligenza, che è prima emanazione dell Uno primitivo meno perfetta di esso, emana da sé per necessità stessa di sua natura e senza mutare se stessa, un terzo principio, che è l'anima intellettuale del mondo, principio del movimento della natura, e men perfetto dell'intelligenza stessa, chiamata altresì verbo od atto dell'intel- ligenza, come questa è il verbo dell'Uno primitivo. L Uno, l'intelligenza, l'anima del mondo, son questi i tre principii primordiali di Plotino, la triade che egli cercò di opporre alla Triade del Cristianesimo allora sor- PER GIUSEPPE ALLIEVO. :?25 gente. Avendo già discorso dell'Uno, riinane a dir brevemente di ciascuna delle sue due emanazioni, l'intelligenza e l'anima del mondo. Consideriamo anzitutto l'intelligenza, o da prima in rapporto con l'Uno da cui emana, poi in se stessa e ne suoi rapporti coli anima, che da essa emana. L'Uno primitivo produce l'intelligenza senza veiun atto di volontà, senza verun consenso, senza movimento di sorta; l' intelligenza sfugge dall'Unità prima come un puro lume senzachè questa emanazione turbi la perfetta quiete del principio generatore. L intelligenza è la prima e pili perfetta emanazione dell'Uno perchè dopo l'Uno nulla vi ha di più perfetto dell'inlelligenza; essa è la pura immagine dell'Uno, la sua ras- somiglianza, il Verbo suo; ma per ciò stesso che ne è una emanazione, è assai meno perfetta di lui, e siccome la somma ed infinita perfezione del Primitivo sta nella sua semplicissima ed assoluta unità, così l'intelli- genza per essere meno perfetta contiene in sé dualità e moltiplicità. Quindi lUno producendo l'intelligenza diventa il molteplice, perchè in questa comincia a comparire la distinzione e la dualità del conoscente e del conosciuto, che in quello non potevano aver luogo in verun m.)do. Considerata poi in se stessa l'intelligenza è un'unità non pura, non as- soluta, né semplicissima, perchè questa è propria del Primitivo, di cui è assai meno perfetta, ma un'unità imperfetta ossia contenente in sé la moltiplicità; e questa moltiplicità risiede nella totalità degli intelligibili, ossia delle idee delle cose possibili, le quali si contengono tutte nellin- telligenza; però tutte queste idee ed intelligibili formano un'unità e non si distinguono realmente dall'intelligenza stessa, di cui sono l'oggetto, ed in virtìi di questa identità del soggetto e dell'oggetto, del conoscente col conosciuto essa é un Uno-molteplice, un intelligenza-intelligibile, principio e centro di tutte le idee. Ma come si concilia la moltiplicità delle idee e del mondo intelligibile colf unità delf intelligenza? Le idee non sono già parti dell'unità intelligiljde, anzi non esistono se non in grazia di quest'unità che le comprende senza cessar di essere semplice; la loro distinzione adunque é tutta interiore, non già estrinseca, per quantunque leale e profonda essa sia, epperò non impedisce il fondersi di tutte le idee nella comune unità: solo nel mondo sensibile la distin- zione delle cose essendo esteriore trae dietro con sé la loro separazione. Come il Primitivo, ossia il primo principio è l'Uno assoluto e puro, come il secondo principio cioè lintelligenza è l'Uno molteplice contenente in sé la varietà delle idee o degli intelligibili, così il terzo principio Serie II. Tom. XXX. 29 2 2() li. PROBLEMA METAFISICO ECC. primordiale che è l'anima del mondo è il principio del movimento di tutta la natura, la forza attiva formatrice del mondo sensibile. Essa serve per così dire di anello intermedio che congiunge l'intelligenza pura col mondo sensibile, che non potrebbero insieme compenetrarsi se l' anima non trasmettesse alla realtà sensibile il lume intelligibile, l'erciò 1 anima mondiale tende di continuo e necessariamente a vestire gli intelligibili di forme sensibili, a tradurre ed estrinsecare fuori dell intelligenza le idee, e queste idee così estrinsecate sono le diverse anime sensibili che infor- mano i diversi corpi della natura. Come 1 intelligenza è immagine dell'Uno primitivo, da cui emana, così l'Anima mondiale è una copia ed un ri- verbero dell intelligenza, opperò essa è essenzialmente ragione in atto, è il ^ erbo intelligibile che riflette e contempla senza posa il suo divino archetipo, sicché la contemplazione è il solo e vero atto proprio e co- stitutivo dellanima considerata non per rapporto al mondo sensibile, che essa produce, ma in riguardo ali intelligenza, da cui emana. In virtù di questa sua essenza essa è assolutamente impassibile, incrollabile in sé, immune da ógni dolore; né prova veruna sensazione esteriore dai corpi dell'universo, perchè essa penetra e riempie di sé lutto il mondo sensibile epperò nulla può venir sentito da lei per rapporto al mondo. L'essenza vera sta nel pensare, e questo alto del pensare è in essa immanente, non discorsivo, sicché pensa tutt insieme ciò che è, fu e sarà senza bi- sogno del tem[)o, né della memoria; ed è il pensiero stesso invariabile ed immanente, che la preserva da desiderii sensuali, del pari che da ogni sentimento di dolore e di piacere. Che se l'anima in riguardo all'intelligenza da cui emana è pensiero o ragione in atto contemplatrice degli intelligibili, considerata rispetto ai mondo sensibile, cui essa produce, è forza espansiva e formatrice e prin- cipio del movimento ; e sotto questo secondo riguardo essa è un' unità conlenente nel suo seno la moltiplicità delle anime particolari umane ed animali, nella stessa maniera che 1 intelligenza è un' unità contenente in sé la molteplice varietà delle idee ossia degli intelligibili, che diventano poi le singole anime individuali quando dall'anima del mondo siano state rivestite di forme sensibili e corporee. Però le diverse anime degli uomini e degli animali pur mentre si compongono ad unilà ed insieme coesistono in seno all'anima mondiale, conservano ciascuna la propria individualità e sostanzialità. Plotino per ispiegare questa conciliazione della moltiplicità ed individualità delle anime particolari colf unità dell'anima mondiale PER GIUSKPPE AULIEVO. 22y ricorre alPimagine della scienza. Ogni scienza è un sistema di conseguenze, che si riconducono tutte ad un solo principio supremo, pur mentre cia- scuna di esse mantiensi distinta e da ognuna delle altre e dal principio comune ; come adunque nella scienza conciliasi la varietà ilelle conseguenze coU'unità del principio da cui rampollano, così le anime particolari coe- sistono nell'unità dell'anima mondiale, da cui emanano, esse si unificano in quanto hanno identità di principio e medesimezza di essenza, si distin- guono individualmente quanto ai modi di esistere, potendo non provare le medesime afìTezioni malgrado l'identità del principio e dell'essenza. Esposta la teoria del Primitivo quale venne professata da Plotino veduto come l'Uno primitivo ahbia originato il molteplice emanando da sé l'intelligenza da prima, poi l'anima mondiale per mezzo dell'intelli- genza, rimane ad esporre la teoria cosmologica risguardante il mondo della natura sensibile e contingente, che è un'emanazione dell'anima mondiale , essendo un punto fondamentale del Neoplatonismo questo, che ogni principio debba di necessità emanare altri principii più imperfetti. Teorica della natura sensibile o Cosmologia. L'anima mondiale, come principio del movimento è una potenza che si espande al di fuori ed origina la natura, ossia le molteplici e diverse potenze del mondo sensibile; opperò essa essendo soggetta al movimento nel suo sviluppo esteriore, cade di necessità sotto le condizioni del tempo, dello spazio e della materia. Il movimento è l'atto delle potenze dell'anima; quest'atto risguardato nella sua espansione esteriore è lo spazio, consi- derato nella sua successione o durata è il tempo , contemplato nel sog- getto, in cui si compie la successione ossia il passaggio dall'una all'altra forma, è la materia. Adunque il tempo , lo spazio e la materia sono le condizioni a cui va soggetta tutta la sensibil natura , ossia il mondo dei contingenti. L'esistenza della materia è attestata dai fenomeni del mondo sensibile: ogni fenomeno risiede nel succedersi di una forma ad un'altra; ma perchè tale successione abbia luogo , ci vuole un mezzo , ossia un soggetto capace di venir trasformato; questo mezzo è la materia. Il ca- rattere pi'oprio della materia è adunque il difetto assoluto di ogni forma, ossia 1 indeterminato, l'infinito. Aggiungasi ancora che la materia non solo ha per proprio di non possedere veruna qualità determinata, veruna forma^ 2 28 ir. PROBLEMA METAFISICO ECC. Mia (li non contenerne veruna virlualmenle: essa non è capace di tutti i contrarii, se non perchè ò non un atto, nò una potenza, ma una pura possibilità: nell'alto i contrarii si escludono; nella potenza si respingono; nella pura possibilità si conciliano. La materia non essendo quindi che una pura possil)ililà, la quale non possiede la forma uè attualmente né virtualmente, può essere considerata come il non-essere assoluto. La legge suprema dell'essere e del divenire è la triade. Ogni essere creato è un ternario composto di tre principii, che sono il finito, 1' infinito, il misto; ossia l'essenza, la potenza ed il ritorno della potenza all'essenza, la sostanza, la causa ed il complesso organico della sostanza e della causa. Senza l'essenza, l'essere sarebbe inconsistente e fiiggitivo; senza la potenza, sarebbe infecondo; senza 1 armonia di questi due principii sarebbe imper- fetto. A questi tre principii costitutivi dell'essere corrispondono tre mo- menti ontologici, nel primo de quali l'essere dimora in sé, si determina, si pone come una sostanza, un'essenza, lUì qualche cosa di finito e di compiuto; nel secondo esce fuori di se, si distingue e si stacca dal suo principio essenziale sviluppandosi e si manifesta come potenza, come causa, come infinito od indeterminato; nel terzo rientra in sé, ritorna alla sua sostanza od essenza primordiale e si costituisce come un misto di essenza e di potenza, di sostanza e di causa. L'esistenza propria ed indipendente di ogni essere, la sua separazione, la sua conversione, od in altri termini, l'unità, lo sviluppo, il conccnlramento, tali sono i tre principii, i tre mo- menti dell essere considerati) sotto tutte le sue forme. Critica del Neoplatonismo. — Dalla rapida esposizione fatta del sistema metafisico di Plotino appare come il concetto di unità sia il cardine fon- damentale di tutta la Metafisica neoplatonica. L'unità suprema ed a.ssoluta è il principio fontale ed originario da cui emanano in serie indefinita e vie più decrescente tutti gli esseri; e l'unità suprema è altresì il termine di cpianto esiste, lo scopo ultimo e finale dell'anima nostra, che rinviene nella contemplazione estatica dell Uno assoluto T oggetto compiuto delle sue aspirazioni, smarrendo in esso il sentimento della propria individualità. La Metafisica di Platone e di Aristotele era radicalmente viziata dal con- cetto irrazionale ed erroneo del dualismo assoluto : il Neoplatonismo cor- resse questo erroneo principio, ponendo a fondamento della realtà universale 1 unità suprema dell'essere, che sola può appagare le esigenze speculative della ragione umana : e mentre il dualismo assoluto della filosofia greca aveva interposto per così dire un abisso tra il mondo e Dio, il Neopla- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 22g tonismo cercò di colmar quest' abisso collegando Iddio col mondo per mezzo di una serie indefinita di emanazioni vincolate fra di loro e le une più imperfette delle altre. Ma se la filosofia neoplatonica riconobbe giu- stamente l'erroneità del dualismo assoluto e la necessità di soddisfare alla ragione speculativa sostenendo il principio dell'unità suprema dellessere, ha essa poi dato della suprema unità una teorica salda e sussistente ed è riuscita a risolvere il gran problema, in qual modo 1 Uno emette e pone il molteplice ed a sé lo richiama? Una breve critica del principio fon- damentale di questa dottrina ci porrà in grado di rispondere all'inchiesta. I Neoplatonici riuscirono alla loro unità assoluta, principio supremo di tutti gli esseri, per via di un processo analitico, che va dal composto al semplice, dal molteplice all'uno. Muovendo dalla realtà la pivi moUeplice ed anzi tutto dalla malaria, si sollevarono da questa al soggetto mate- riale, la CUI figura presenta di già una tal quale specie imperfettissima di unità; dalla figura o forma sensibile penetrarono ad una più intima unità, che è l'anima; dall'anima ali intelligenza che è più una dellaniina; ma che pure lascia ancora sussistere la distinzione di soggetto e di oggetto; in- fine dall'intelligenza giunsero all'Unità assoluta e suprema, in cui cessa allatto qualsiasi sorta di dislmzione , in cui 1' analisi più profonda iiuii iscopre più verun elemento, e questa pura Unità posero siccome il Pri- mitivo, fonte di tutto 1' essere e di tutto il sapere. Giunti alla pura ed assoluta Unità e tenendo un processo sintetico regressivo opposto al primo, si sforzarono di far scaturire da essa tutta la molteplice realtà, facendone emanare da prima 1 intelligenza, da questa l'anima, da questa tutti gli esseri dell'universo fino alla materia. Risalire dal molteplice all'Uno, ridiscendere dall'Uno al molteplice; tale è il duplice processo filosofico di Plotino, da cui scaturiscono i due massimi problemi metafisici che egli imprese a risolvere; i" come l'Uno ponga il molteplice; come il molte- plice ritorni all' Uno. A questo proposito venne già avvertito da Carlo Kuehn nel suo opuscolo [De dialectica Platonis, Berolini i843, pag. 3o, 3i) che « gli antichi da' singolari elevandosi tendono all'unità, e la diflicoltà » consistere nell'intendere come arrivino a conseguire quest unità: i mo- » derni - alludendo a tedeschi - incominciano con tutta sicurezza dallo » stabilire una prima unità; o la difficoltà consistere come da questa » loro unità si possa trapassare alla pluralità ». Ora sottomettendo all'analisi critica questo duplice processo metafisico di Plotino, che è pur quello di lutti gli unitarii assoluti, si rileva che 23o ir- PROBLEMA METAFISICO ECC. DÒ il processo analitico od ascensivo, qual venne da lui tenuto, conduce ad una suprema e perfetta unità, che risponda al concetto dell'Essere primitivo, né il processo sintetico o discensivo ha tale un valore ontolo- gico che dairuuità assoluta sappia derivare la molteplice realtà universale. Infatti r Uno assoluto qual venne da Plotino concepito è affatto spoglio di ogni carattere o determinazione dell'essere, è, com'egli stesso lo chiama, all'atto uniforme, anzi informe; che piiì .' è superiore all'ente stesso, il quale va mai sempre accompagnato da una tal qual moltiplicità, e non ha altro essere che quello di essere uno. E agevole il rilevare, come que- st' unità assoluta di Plotino si converta nell'essere indeterminatissimo e possibile di Rosmini, nell'idea od essere-nulla di Hegel, nella pura e sem- plicissima unità di Parmenide e degli eleatici, unità immobile ed astratta che esclude non solo ogni sensibile e finita realtà, ma ben anco ogni forma intelligibile, ogni essenza ideale, ogni determinazione positiva, insomma ogni guisa di moltiplicità e di diversità. Il concetto adunque neoplatonico dell'unità suprema ed assojuta va soggetto a tutte le gravi diflìcoltà mosse contro la dottrina eleatica dell'essere assolutamente uno ed immobile esclu- dente il molteplice ed il diverso, e manca perciò di tutti i caratteri po- sitivi che costituiscono il vero essere primitivo ed assoluto. Che altro mai jjuò essere cpiest' unità neoplatonica, che non ha né vita, né attività, né intelligenza, che non ha veruna essenza propria costitutiva fino ad essere superiore ed anteriore all'ente stesso, che altro mai, dico, può essere se non una vuota e sterile astrazione, un nulla.' L'unità importa un soggetto che la possegga, essa è perciò la forma e la condizione delf essere, ma non può tener luogo della sostanza, non può costituire l'essenza intima del Primitivo, né quella di verun essere derivato. Posto l'essere dotato di un'essenza sua propria, esso potrà avere la forma dell'unità o della moltiplicità; ma un esseie, che sia null'altro che unità, cioè che sia mera forma ontologica non accoppiata a qualche sostanza , a cui aderisca , è impossibile. Adunque la pura e vuota unità assoluta di Plotino non può tener luogo del Primitivo, siccome quella che non ha essenza e manca perfino dell'essere; e cosi il suo processo analitico od ascensivo lo ha con- dotto di astrazione in astrazione, non già all'essere sovranamente perfetto, al vero Primitivo, ma all'unità astratta vuota di ogni forma, di ogni es- senza, di ogni contenuto, vai quanto dire al vuoto, al niente. Fallito così il primo momento del processo metodico, che doveva con- durre Plotino al vero concetto del Primitivo, che è la perfetta e suprema PER GIUSEPPE ALLIEVO. 23 1 unità, non è meraviglia se anche il secondo momento del processo me- todico neoj)latonico, che è discensivo o sintetico sia impotente a far uscire dall'unità assoluta la uiolteplice realtà universale. In che modo il Primi- tivo origina il derivato, l'Uno pone il molteplice.' Siffatto problema è in- timamente connesso con quell'altro, in cui si chiede che cosa sia il Primitivo, l'unità suprema. Ora la dottrina di Plotino intorno all'essere primitivo l'abbiamo veduta testé : esso è l'unità pura ed assoluta, priva di ogni forma e determinazione, vuota di ogni contenuto, che non ha verun rapporto colla moltiplicità, perchè non è altro che unità, per guisa che le si deve negare l'essenza, la vita, l'essere stesso per non introdurre in essa una moltiplicità mentale, essendo propria ed intrinseca all'essere la moltipli- cità. Se il Primitivo è tale unità da escludere ogni rapporto colla mol- -tiplicità, è chiaro che ogni produzione del derivato per parte del Primitivo, ogni origine del molteplice dall'Uno torna impossibile, siccome quella che ripugnerebbe all'essenza stessa del Primitivo, che non sarebbe più unità pura ed assoluta se si ponesse in rapporto col molteplice, né lo escludesse da sé. Che piti? L'unità di Plotino non solo esclude da sé ogni molti- plicità, ma l'essere stesso ; come adunque potrà originare nuove esistenze da sé diverse, se essa stessa non é essere.' Forsechè il non essere potrà produrre l'esistente, il nulla, la realtà.' Il problema adunque, in che modo l'Uno origina il molteplice, rimane senza soluzione, giacché il concetto dell'unità assoluta di Plotino viene ad interporre tra essa ed il molteplice un abisso che non può essere valicato senza oHéndere e mutare il con- cetto stesso dell'unità plotiniana. "Vide Plotino quest'abisso da lui scavato tra Dio ed iì mondo ed av- visò di averlo potuto colmare col suo sistema delle emanazioni sostenendo che lunità suprema ed assoluta emana da sé l'Intelligenza pura, la quale emana da sé alla sua volta l'anima universale, da cui escono poi i mol- teplici esseri del sensibile universo per guisa che l' unità assoluta non è in diretto commercio col mondo sensibile, ma lo produce indirettamente per mezzo dell intelligenza pura. Ma questo sistema delle emanazioni non giova a risolvere il problema dell'origine del molteplice, e non iscioglie la questione, ma solamente la sposta. Poiché rimarrebbe sempre a spiegarsi come mai il Primitivo, senza cnssar di essere unità pura ed assoluta esclu- dente da sé il molteplice, possa emanare da sé l'intelligenza pura, distinta dall'unità assoluta: aggiungasi, che se non ripugna a quest'unità suprema 1 emanare d;i sé 1 intelligenza pura, non le ripugnerebbe del paro l'ema- 232 '1' PROBLEMA METAFISICO ECC. naro direttamente da sé anche I anima universale ed il mondo sensibile, lo che viene rigettato da Plotino. Invano egli considera il Primitivo sic- come buono e perfetto e, come tale, principio di tutte cose: egli noi può fare se non incorrendo in contraddizione con se stesso, giacché le pro- prietà di buono, di perfetto e di principio universale mentre per una parte ripugnano al concetto della semplice e pura unità, quale la intende Plotino, per l'altra presuppongono l'essere, siccome loro soggetto, e che manca al Primitivo, qual viene da lui concepito. Gli è vero, che Plotino per rendere feconda e produttiva l'unità assoluta, le assegna una potenza universale, chiamandola polestas omnium, quae quìdem nisi esset, ncque cuetera fovent {Ennead. Ili, viii, 9). Ma che cosa si vuole egli significare dicendo che lUno è potestas omnium! Forse che esso è una forza infinita e creatrice capace di trar tutte cose dal niente ì In tal caso il concetto è vero, ma non si ha piìi 1' unità assoluta di Plotino, la quale non ha rapporto di sorta colla moltiplicità delle esistenze finite. O forse, chia- mando l'unità potestas omnium, si vuol significare, che esso è in potenza tutte le cose, l'essere pienamente indeterminato, capace di prendere tutte le determinazioni e vestire tutte le forme .' In allora si cade nella teorica hegeliana dell'Idealismo assoluto, che confiiteremo a suo luogo. Chiaritasi insussistente la Metafisica neoplatonica intorno alla natura dell'essere primitivo ed all'origine del molteplice, essa non si mostra meno erronea e meno falsata intorno al fine supremo dell'esistenza umana, che è la contemplazione dell'unità assoluta. Se quest'unità assoluta non è una essenza reale, concreta e determinata, ma una pura astrazione, se non è l'essere, ma il non-essere, ne consegue che lo scopo ultimo e finale del- l'esistenza umana, riposto nella contemplazione dell Uno, non è più qual dovrebb'essere la suprema perfezione, ma il vuoto, il niente. Infatti se- condo la Metafisica di Plotino, allora quando l'anima è pervenuta alla con- templazione dellUno, in cui sta il termine supremo di sua perfezione, rimane colI'Uno stesso identificata per guisa da perdere il pensiero e la coscienza di sé; lo che vai quanto dire che l'anima non può raggiungere il suo ideale di perfezione se non a condizione di annientare se stessa cessando di essere quello che era e perdendo la moltiplicità de' suoi co- stitutivi per ismarrirsi in una vuota astrazione, la quale non può del si- curo tener luogo dell'unità armonica de' diversi principii costituenti la vita sua, quali sono la sensitività , l'intelligenza, la volontà. Così l'unità asso- luta, vale a dire il vuoto, il niente è pel Neoplatonismo il principio su- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 233 premo della realtà universale, ed il vuoto, il niente è pure il termine finale in cui va a perdersi l'esistenza umana. Plotino per conciliare la coscienza che ha l'anima di sé col suo assor- bimento nella contemplazione dell'Uno, avverte che la vera coscienza non istà, come comunemente si crede , nell'essere consapevole del suo corpo e della sua animalità : questi elementi non sono che principii esteriori dell'anima umana: i principii costitutivi, che formano la sua essenza, sono a lei interiori e stanno nella cognizione che ha I anima di sé, come in- telligente, riflessiva e contemplatrice dell'Uno, e nello spogliarsi de' suoi principii esteriori , nel dimenticare il corpo e l' animalità sua , epperò è appunto nell intuizione dell Uno e nell'identificarsi con esso, che essa ac- quista e mantiene la vera coscienza di sé, perchè in allora l'anima spogliatasi de' suoi elementi estrinseci e raccolta in sé, conosce la vera sua essenza che è cpiella stessa dell'Uno e che è in ragione inversa della sua indivi- dualità. Vano tentativo gli è questo ; poiché la coscienza di sé non ha solo per condizione che l'anima si spogli del corpo e della animalità, ma si distingua altresì da tutto ciò che non è lei, ej)però anche dal Pri- mitivo, dairUno, da Dio, perchè se con esso si confonde e s immedesima smarrendo la sua individualità, smarrisce con ciò la coscienza di sé: fa d'uopo insomma che si distingua e da ciò che sta sotto di sé, quale sa- rebbe il corpo, l'animahtà, e da ciò che sta sopra di sé, quale sarebbe il Primitivo, ossia da tutto che non è lei: ora questa condizione della con- sapevolezza (h sé manca allatto nella dottrina di Plotino. Oltreché egli suppone che l'essenza dellanima sia quella stessa dell' Uno per inferirne che essa contemplando 1 Uno acquista la vera conoscenza di sé: or questo presupposto manca di fondamento e può essere impugnato. Vi ha un altro punto nella dottrina metafisica di Plotino, che merite- rebbe di essere lungamente discusso, ma che qui accenneremo soltanto perché ripiglieremo tal cosa in altro luogo; ed é quello che riguarda il sistema delle emanazioni sviluppantisi gradualmente dal seno dell'Unità as- soluta. La legge, che secondo Plotino presiede allo sviluppo emanatistico degli esseri, è una discesa dall' ottimo al peggio , dal perfetto all' imper- fetto; quindi ogni sviluppo è una diminuzione di essere, ogni movimento è una caduta, ogni emanazione è un regresso, poiché l'Essere perfettis- simo passa per una serie di emanazioni sempre più imperfette e digra- dantisi man mano che da esso si allontanano, e discendendo dalla sua per- fezione assoluta va a perdersi nella materia, che è l'infima e l'imperfet- Serie II. Tom. XXX. 3o 234 If- PROBLEMA METAFISICO ECC. tissima delle emanazioni, il vuoto, il niente. Fu già avvertito dal Vacherot (op. cit. tom. 3, pag. 327 e seg.), che se l'essere muove dalla perfezione per finire nel niente discendendo per una serie di gradi dall'intelligenza pura alla materia, allora la legge direttiva dello sviluppo dell'essere è il regresso, non il progresso, e che questa legge è smentita dalia realtà: es- sendoché il Gosmos, ossia la storia dello sviluppo della Natura ci attesta come essa siasi sollevata, nello sviluppo graduale delle sue forze, dalle creazioni inorganiche soggette alle sole leggi della meccanica alla creazione di esseri organici e viventi, piante, animali, uomini soggetti alle leggi superiori della fisiologia e della psicologia ; sicché la legge dell essere é un progresso incessante, che si inizia col regno inorganico e termina colla umanità. Come ognuno vede, questa dottrina di Plotino é diametralmente opposta a quella di Hegel e dei recenti panteisti tedeschi, secondo i quali l'essere va dall imperfettissimo al perfettissimo, dall'indeterminatissimo all'at- tualissimo, dal nulla al massimo di realtà. Di queste due opposte dottrine qual é la vera? E questa la questione essenzialmente filosofica del pro- gresso degli esseri , questione intimamente connessa con gli studi storici dell umanità. Sebbene dalle cose discorse appaia che il Neoplatonismo veime meno al proprio intento, tuttavia la Critica non può a meno di sapergli grado del suo lodevole tentativo e riconoscere la vasta erudizione accoppiata ad una gran forza dialettica da esso spiegati per giungere il propostosi intendimento. Io non dirò già col ^ acherot che « il Neoplatonismo sia « la prima scuola che comprese il vero rapporto del sensibile coli intel- » ligibile, della realtà coH'idea, del mondo con Dio, concependo l'uno » di questi termini come lo sviluppo naturale e la forma esteriore del- » l'altro ; la prima scuola altres'i, che abbia saputo spiegare la misteriosa « coesistenza degli individui nell Essere universale (op. cit. t. 3, p. 460) « . Avvertirò solamente, clie sel)bene non sia pienamente riuscito nel proprio intento, pure il solo tentativo di raccogliere in una vasta ed armonica unità tutte le diverse ed opposte dottrine metafisiche precedenti costituisce un gran merito filosofico pel Neoplatonismo, poiché con ciò mostrò di avere una giusta e piena coscienza del problema metafisico, il quale allora soltanto sarà razionalmente risolto quando sarà fermato il giusto rapporto tra il Primitivo ed il derivato, tra l'Assoluto ed il relativo, tra l universale e l individuale, tra lidea od essenza, ed il fatto od il fenomeno, perchè allora sarà altresì conciliata la ragione speculativa con l'osserva- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 235 zione, il razionalismo con l'empirismo, Platone con Aristotele, il processa a priori con quello a posteriori. Fra i concetti neoplatonici, di cui la Critica filosofica potrebbe far tesoro, havvi il concetto della triade ontologica considerata siccome legge suprema dell'Essere e del divenire, in grazia della quale ogni essere passa per tre momenti successivi, nel primo dei quali Tessere dimora in sé possedendo un'essenza sua propria, nel secondo esce fuor di sé svilup- pando la propria potenza, nel terzo ritorna in sé raccogliendo ad armo- nica unità tutto il suo sviluppo. E questo un gran concetto filosofico improntato di una profonda verità, e che ove fosse sanamente inteso, assai gioverebbe alla scienza nella spiegazione della realtà. E veramente ogni sostanza individua finita in tanto esiste e vive in quanto sviluppa l'essenza intrinseca che la costituisce, e coordina ed armonizza tutto il suo successivo sviluppo colla sua stessa essenza, sicché questa permanga immutabile in mezzo al variar delle forme esteriori; e tale è appunto il senso vero del concetto neoplatonico, che Tessere rientra in sé. Questa legge della Triade neoplatonica ci richiama al pensiero la celebre trico- tomia hegeliana della tesi , dell'antitesi e della sintesi, per cui l'Assoluto pone da piima se stesso come Idea, poi esce fuori di sé diventando Natura, da ultimo ritorna in sé trasformandosi in spirito, che è la sintesi dei due opposti, l'Idea e la Natura. Chiuderemo con un'ultima avvertenza. Abbiamo già altra volta notato, che una teorica del Primitivo per ogni parte perfetta ed assoluta é su- periore alT apprensiva dell'intendimento umano, e che la nostra ragione speculativa ogni qual volta si attenta di comprendere l'intima essenza dell'essere assoluto rompe in antinomie e si avvolge per entro ad inestri- cabili difficoltà. Il Neoplatonismo stabili per una parte che la scienza superiore risiede nel conoscere T Unità suprema, sicché il sapere non è possibile se- non nella congiunzione dello spirito colf Uno; ma per altra parte reputò impotente la ragione umana a comprendere l'Unità assoluta; quindi si appigliò al sentimento mistico, ossia alla facoltà dell'estasi e dell'entusiasmo siccome al solo mezzo che all'anima nostra rimane per congiungersi colTEssere primitivo ed assorbirsi in lui. Il Neoplatonismo adunque essendo un tentativo per afferrare TUncj col mezzo dell'estasi, non è sotto questo riguardo una teorica metafisica, ma im misticismo; è una confessione dell'impotenza in cui trovasi la ragione di costrurre una teorica speculativa e razionale intorno a Dio: esso si riassume in 236 "- PROBLEMA METAFISICO ECC. questa sentenza ; Dio si sente e non si discute ; si adora, e non si conosce razionalmente ; è oggetto di amore e non di scienza. In tal modo il misticismo crede di avere sciolto lo spirito umano dalle contraddizioni, a cui trovasi condannata la ragione quando vuol discutere e cogliere l'essenza dell Assoluto; si, le contraddizioni sono cessate, ma insieme colle contraddizioni è anche cessato io spirito umano, che ha perduto il sen- timento della propria individualità per lasciarsi assorbire dall'Uno; la pace è raggiunta, ma è la pace del sepolcro. La Scolastica. Mentre la filosofia neoplatonica erasi consumata m un vano tentativo per ricomporre e compiere l'antico pensiero filosofico greco, la Patristica intenta a svolgere e conciliare i pronunciati della ragion filosofica con i dogmi della nuova rivelazione venne in questo suo intendimento seguila e continuata dalla Scolastica; sotto il qual nome si suole comunemenle designare tutto quel periodo di storia filosofica, che si stende dall'anno 800 infino a tutto il i3oo. Fu già da altri avvertito, che la filosofia scolastica non offre ne' suoi diversi sistemi un unità di dottrina armonica e sistematica; però Ira le molteplici e varie questioni metafisiche da essa agitate havvene una che primeggia su tutte le altre, che affaticò per cosi dire tutte le menti degli Scolastici, ed è come il cardine di tutto il loro movimento speculativo; vo' dire la questione degli universali, questione che si allacciò sotto forme diverse al pensiero filosofico in tutti i periodi del suo sviluppo storico da Platone e da Aristotele infino a noi, e che ove venga intesa in tutta la sua ampiezza si può asserire che nasconde in sé il problema stesso di tutta la Metafisica. Il pen- siero degli Scolastici venne eccitato a discutere il problema degli uni- versali da una frase di Porfirio tradotta da Boezio. Porfirio, filosofo neoplatonico del quarto secolo, nella sua Introduzione od Isagoge alle categorie di Aristotele così lasciò scritto : » Per quel che riguarda i » generi e le specie eviterei il quesito, se abbiano una realtà oggettiva » in natura o se siano pure nozioni dello spirito; e posto che godano di » una realtà oggettiva, se siano corporei od incorporei, e finalmente se » siano separati, o se non esistano che nelle cose sensibili e siano di » esse composti, essendo questa una questione ardua assai e che abbisogna )) di profonde investigazioni». Questo problema intorno alla natura degli PER GIUSEPPE ALLIEVO. 237 universali, che Porfirio si stette contento di tormolare senza tentarne la soluzione, trasse a sé tutto il pensiero degli Scolastici i quali fattisi a discuterlo si divisero in opposte scuole secondo le diverse soluzioni da loro seguite e spiegarono nella lotta tale un accanimento da convertire in diatribe virulente le serene contemplazioni della verità filosofica. Che cosa sono gli universali / A questa domanda tormolata da Porfirio, rispose Roscellino, gli universali essere nuU'altro che vuote parole, nomi senza significato oggettivo, flatus vocis, e gli individui godere essi soli di eH'ettiva realtà; da tale dottrina i suoi seguaci furono detti nominalisti. Contro di Roscellino sorse Guglielmo di Campello, il quale sulle tracce di S. Anselmo sostenne che gli universali qualificati dal suo avversario come vani suoni sono anzi il fondamento e lessenza stessa delle cose e che al contrario l'individualità non è che accidentale; di qui la sua dot- trina prese nome di realismo , perchè assegna agli universali una realtà oggettiva. Una terza via seguì Abelardo, il quale sosteneva che gli uni- versali non sono né realtà oggettive, come voleva Guglielmo, né vane parole, come pretendeva Roscellino, ma concetti della mente, indi il nome di concettualismo dato alla sua dottrina. Così dal problema degli universali diversamente risolto sorsero le tre grandi scuole filosofiche del medio evo, il nominalismo, il realismo, il concettualismo che in sé riassumono tutta la Scolastica. Contro il realismo si obbiettava, niente esservi di universale nella natura perché le cose universali non sono definite né da certo luogo, né da certo tempo, mentre tutto che in natura esiste è definito da luogo e da tempo, e si argomentava altresì che se gli universali godessero dav- vero di una realtà oggettiva negli esseri, in tal caso gli individui siccome quelli che parteciperebbero di una comune essenza e natura. dilFerirebbero solo per accidente e farebbero in sostanza una sola cosa. Alla lor volta i seguaci del realismo obbiettavano contro i loro avversari, che la scienza ha per oggetto gli universali, e non già i singolari, e che perciò se essi universali fossero mere parole, o meri concetti della mente, anche la scienza mancherebbe di valor oggettivo e si minerebbe nello scetticismo. La discussione del problema intorno alla natura degli universali con- dusse il pensiero degli Scolastici ad un altro problema intimamente con- nesso col primo, in cui si cercava ([ual fosse il principio, per cui l'uni- versale s'individua negli esseri singolari sotto forme differenti, e che fu perciò detto principium indwiduationis ; ed anche questo problema venne in ditferenti guise risolto, dividendo i filosofi in opposte scuole. 338 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Fu detto, cìie questo problema intorno alla natura degli universali ed. al principio di individuazione, che tanto agitò la Scolastica tutta, è un problema futile e vano , indegno di trarre a sé la contemplazione del filosofo, che aspira alla cognizione della realtà, ed atta tutt al più ad in- tertenere gli spiriti frivoli, che si pascono di vuote astruserie. Ma se si pon mente, che questo problema con tanto ardore discusso dalla Scola- stica è in fondo quello stesso che sotl'altra forma venne agitato dall'an- tica filosofia, segnatamente da Platone e da Aristotele, e che continua tuttodì a tormentare lo spirito umano presentandosi sotto forme sempre diverse e nuove, si è costretti a riconoscere che in fondo ad esso debbe pur giacervi una ricerca di sommo momento; anzi, se ben si studia, e se si approfondisce la cosa, si giunge a riconoscere che siffatto problema è una delle diverse forme, con cui si manifesta lo stesso problema meta- fisico del Primitivo , del. derivato e del loro rapporto. Io non cerco qui se gli Scolastici abbiano compresa tutta 1' estensione e l' importanza di questo problema; anzi concedo che tal fiata ne frantesero il giusto senso e sciuparon lingegno in vane quisquiglie e futili astruserie ; come pure non intendo qui di instituire vm analisi critica di ciascuna delle tre scuole filosofiche del medio evo sovraccennate. Ma quello che non so, né debbo pretermettere su questo rilevante argomento, si è di porre in cliiaro come quest'arduo problema degli universali , il cui sommo momento fu tal fiata disconosciuto, sia in fondo lo stesso problema fondamentale e supremo della Metafisica concepito sotto una delle tante sue forme, e che quindi contiene nel suo seno lo scioglimento delle altre questioni che lo spirito si propone intorno a Dio ed al mondo; problema, che diversamente risolto genera le diverse guise di sistemi metafisici. Il problema degli universali è complesso racchiudendo nel suo seno questi due altri: i° Che cosa sono gli universali; 2° Qual rapporto in- tercede fra gli universali e gli esseri singolari. Se sotto il nome di uni- versali si vogliono intendere quelle supreme generalità dell'essere che si predicano di tutte cose e che presero nome di categorie, ognun vede che la teorica degli universali così intesi si converte nella Ontologia quale venne concepita dal Wolfio, da Hobbes, dal Rosmini, dagli Scolastici, e dalla più parte dei metafisici moderni siccome la scienza dell'essere in generale, ossia delle categorie. Che se si intendono gli universali in senso jion categorico, ma ontologico siccome significanti le essenze medesime delle cose, in tal caso il problema degli universali è quello stesso che PER GIUSEPPE ALLIEVO. 289 forma l'oggetto della Dialettica platonica, che è la teoria delie idee od essenze intelligibili delle cose, è quel medesimo intorno a cui si travaglia tutto 1 Idealismo assoluto di Hegel, pel quale comprendere l'Assoluto ed intendere le essenze delle cose tornano ad un medesimo. Ancora, se si pigliano gli universali in senso logico siccome quelle idee più o meno estese che chiudono in sé i germi delle varie scienze e ci rivelano la realtà delle cose nella loro sintesi , allora il problema degli universali diventa non pili il problema dell'essere, ma del sapere, non delle cose, ma della conoscenza umana; ed il dimandare con Porfirio se i generi, le specie e le idee universali esistano per se stesse, o soltanto per 1' intelligenza umana, vai quanto chiedere se il pensiero umano sia verace, o no, se il sapere nostro goda di una realtà e di un valore oggettivo, o se nuli' altro sia che un tessuto di astrazioni chimeriche ed illusorie; problema gra- vissimo quant'altro mai, da cui pendono le sorti di tutta la filosofia: è il problema che si dibatte tra lo scetticismo, che impugna la validità del sapere umano ed il dogmatismo che la difende, tra Kant il quale pro- nuncia nulla poter l'uomo conoscere intorno alla natura inlima delle cose, ed Hegel, il quale asserisce potente la ragione umana a comprendere tutte le essenze delle cose. Venendo ora all'altra parte del problema, che riguarda il rapporto tra l'universale e l'individuale, noi ci troviamo in faccia alla gran questione cosi vivamente agitata tra il Platonismo e l'Aristotelismo contendenti fra di loro se la vera ed oggettiva realtà risieda nelle essenze universali spoglie di ogni forma singolare, oppure negli esseri individuali concretanti in se stessi un tipo intelligibile. Sosterremo noi con Platone, con Guglielmo di Champeaux e coi realisti in genere, che gli universali soltanto son vere ed effettive realtà, e che gli individui identici quanto alla loro essenza non ditTeriscono che per la varietà degli accidenti o delle forme passeggere? Noi ci troveremmo in tal caso sul pendìo del panteismo. O terremo forse con Aristotele, che gl'individui siano le sole vere realtà, negando o"ni 'valore ontologico alle essenze universali? In allora le essenze cessano di essere immutabdi e permanenti seguendo le sorti stesse de' mutevoli in- dividui e si rischia di cadere nella dottrina di Eraclito, di Protagora e ^ei sofisti, che tutto continuamente diventa e ninna cosa è veramente. O forse porremo tra le essenze universali e gli esseri individuali tale un vincolo ontologico che questi ricevano da quelle il loro elemento di sta- bilità e di permanenza e quelle alla loro volta rinvengano in questi la 2/o 'L PROBLEMA METAFISICO ECC. forma concreta e delerminata dell'esistenza ! In tal caso sorge il gravis- simo problema, in qual modo l'universale si individui e si concreti nei singolari, come cioè le essenze intelligibili possano cadere nella contin- genza del tempo e dello spazio, e pigliar l'orme concrete e diverse nei diversi individui esistenti, come insomma l'indeterminato si determini nei diilerenti esseri della natura. È questo, come ognun vede, il gran problema dei rapporti tra il Primitivo ed il derivato, che i panteisti tedeschi reputano di avere risolto colla loro teorica dell'essere indeterminatissimo ed univer- salissimo che diventa i singoli esseri dell'universo, e Gioberti coU'immagi- nare Iddio siccome l'identità del concreto e dell'astratto, dell'individuale e del generale. Così il problema degli universali nasconde nel suo seno le più gravi e momentose questioni di tutta la iilosofia; ned è perciò meraviglia se esso non solo agitò le menti della Scolastica, ma ricomparve mai sempre sotto forme diverse in tutti i periodi della storia del pensiero filosofico. Sebbene però la Scolastica non abbia forse veduto, come il problema degli universali inteso in tutta la sua ampiezza contenga nel suo seno le precipue questioni fondamentali di tutta la Metafisica, pure non è a cre- dere che essa non abbia meditato altresì e tentato di risolvere i problemi principali della scienza nostra, quali sono quelli che riguardano il Primitivo, il derivalo ed il loro rapporto. E per quel che risguarda la teorica del Primitivo, merita di essere qui accennata la dottrina originale di S. An- selmo, che precorrendo di otto secoU le ardite speculazioni di Gioberti e di Hegel, intorno al supremo principio dell'essere e del sapere, elaborò una teorica nuova e degna di essere attentamente discussa. Partendo dal concetto dell'unità della scienza, egli riconobbe la necessità di un prin- cipio supremo, che nella sua generalità racchiudesse la spiegazione del tutto. Postosi quindi all'indagine di silFatto principio, fecesi anzitutto a divisarne i caratteri, che egli ridusse a due, e sono: i° l'universalità logica o soggettiva, e 2° l'universalità ontologica od oggettiva: questi due caratteri accennano a due aspetti o forme del Primitivo, il quale vuol essere un'idea ed una realtà ad un tempo. Come idea, esso gode di una universalità logica e soggettiva, in grazia della quale contiene in sé tutte le idee, tutti i concetti del mondo ideale; come essere poi, ossia realtà , è rivestito di universalità ontologica od oggettiva e contiene in sé l'essere di tutte le cose componenti il mondo della realtà, sicché non v'ha entità che non dipenda da esso. Egli dimostra che il principio su- premo debbe godere di questa duplice universalità; poiché senza l'uni- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 2^1 versalità ontologica od oggettiva la scienza cesserebbe di essere uno specchio fedele della realtà e diverrebbe nulla più che un sistema di concetti logicamente concatenati e svolti da un principio ideale supremo, che però non avrebbero veruna oggettiva corrispondenza nel giro della realtà; come per lo contrario senza l'universalità logica o soggettiva la realtà universale non ci si presenterebliC più al pensiero con quello stesso ordine che concatena in una gran sintesi gli esseri tutti dell'universo. Vuole adunque necessità, che il primo principio sia ad un tempo la prima idea e la prima realtà sitliiltamente che non possa essere logicamente universale senza esserlo altresì ontologicamente e per inverso; lo che vai quanto dire, sia tale un'idea, che nel suo concetto soggettivo inchiuda di necessità una realtà oggettiva. , Posta in sodo la necessità di un primo principio dedotta dal concetto dell'unità della scienza, divisatine i caratteri e le condizioni e veduto come esso voglia essere un'Idea prima, che inchiuda in sé necessariamente la prima realtà, identificando in sé il principio dell essere e quello del sapere, si cerca quale sia silFatta Idea, che adempia alle condizioni volute. Risponde Anselmo, che è l'idea dell'essere sovranamente perfetto e rea- lissimo, ossia di Dio. siccome quella, che sola riunisce in sé i due caratteri succennati dell'universalità logica ed ontologica ed adempie alle due con- dizioni di Primo ideale e di Primo reale ad un tempo. Infatti Iddio, essendo l'essere sovranamente perfetto e realissimo, contiene in sé tutti i gradi dell'essere, tutte le entità, tutte le perfezioni per modo che nella cognizione ideale di lui si possiede altres'i la cognizione di tutte le realtà esistenti, poiché ad apprendere quel che sono i singoli esseri finiti non si ha che a commisurare i loro gradi di entità coll'essere infinitamente reale, che è Dio. Egli è adunque insignito di utiiversahtà logica, ossia è il Primo ideale, i\ supremo principio enciclopedico spiegativo di tutto l'essere, poiché tutte le idee particolari degli esseri finiti essendo nulla più che apprensioni di qualche grado di essere o di perfezione, rimangono contenute nell idea universalissima della perfezione o realtà infinita, che è Dio. Ma l'idea di Dio non solo gode di universalità logica, sibbene è tale che involge di necessità la realtà oggettiva ed ha perciò altres'i l'u- niversalità ontologica, poiché se Dio fosse un essere meramente ideale o logico destituito di realtà elFettiva e di sussistenza, non più sarebbe l'essere sovranamente perfetto, potendosi in tal caso concepire un essere più per- fetto di lui, tale cioè che accoppii alla idealità la sussistenza, essendo per Serie IL Tom. XXX. 3i 2^2 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. certo cosa più perfetta la sussistenza che la mera possibilità. L' idea adunque di Dio involge necessariamente nel suo concetto soggettivo la realità oggettiva: è questa la celebre dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio data da S. Anselmo, e riprodotta poi sotto altre forme da Cartesio, da Leibnitz, e recentemente dal Bertini nella sua Idea di una filosofia della vita, dove (voi. i,pag. 38) si fa a provare che il pensiero dell'in- finito importa l'esistenza e la realtà oggettiva dell'infinito medesimo. Così reputa Anselmo di aver dimostrato, che l'idea di Dio è il prin- cipio generale della scienza, siccome quella che in sé ricongiunge i due caratteri di Primo ideale e di Primo reale; come Primo ideale Dio sta in cima di tutto il mondo intelligibile, di tutte le idee; come Primo reale siede in cima di tutti gli esseri, di guisa che vuoisi di necessità far capo a Dio per rinvenire il centro unico di tutto l'essere e di tutto il sapere, il vincolo supremo e la mutua corrispondenza dei due ordini logico ed ontologico , ideale e reale. Qualunque altra idea , tranne quella di Dio , è destituita dei due caratteri di universalità logica ed ontologica, e non può perciò essere elevata alla dignità di principio generale della scienza; poiché ogni altra idea rappresentando non tutto l' essere , non tutta la realtà, ma solo tale o tal altro grado di entità è di natura sua particolare, e non universale, e non importa neppure la realtà del proprio oggetto. Tale è l'ardita ed originale Teorica intorno al supremo principio del- l'essere e del conoscere da Anselmo abbozzata. I pili possenti pensatori dei tempi nostri, in Germania ed in Italia segnatamente, si travagliarono e si travagliano tuttora per compiere e condurre a termine la teorica me- tafisica dell'Assoluto , di cui egli aveva distese le prime fila ; ma a lui forse spetta la gloria ed il merito di averla per primo iniziata con lodevole tentativo. Dissi che la ricerca dell'Assoluto come principio supremo di tutto r essere e di tutto il sapere è tuttodì proseguita con infaticabile ardore dagli ingegni speculativi de" tempi nostri. Infatti lo Schelling nel suo Sistema dell' Idealismo trascendentale si fa a dimostrare la necessità, ed a divisare il carattere del supremo principio del conoscere . il quale debbo in suo avviso essere tale, che la forma sia la condizione della sua materia o contenuto, ed il contenuto la condizione della forma, collo- candolo nell'identità del soggettivo e dell'oggettivo, dell'ideale e del reale, ed immedesimando così l'Assoluto logico coll'ontologico, il Primo ideale col Primo reale. Hegel traducendo in forma più logica e più rigorosa il principio stesso metafisico di Schelling collocò anch'egli l'Assoluto nell'i- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 243 dentila universale, ossia nell'essere indeterminatissimo da lui denominato Idea , da cui lisce scaturire il duplice mondo dei concetti e delle cose , delle idee e degli esseri. Ma questa dottrina dell'identità universale pro- fondamente si dispaia da quella di Anselmo, il quale pose a fondamento supremo dell'essere e del sapere, non già l'ente indeterminatissimo scevro di realtà , ma Tessere pienamente determinato e realissimo, cioè Dio. In Italia Gioberti, premendo le orme di S. Anselmo, di cui cercò ristaurare e com- piere la teorica aggiungendo al concetto di essere realissimo applicato a Dio quello di essere creatore , avvisa anch' egli che il supremo principio dell'essere e del sapere debba riporsi in Dio creatore , la cui idea è da lui posta a base della scienza e della realtà {^Introd., Tom. 2, pag. 1 38-1 39). Anche il Mamiani sostiene con Anselmo e con Gioberti, seb- bene con diverso intendimento, 1 identità sostanziale dellassoluto logico e del metafisico in Dio, incentrando in esso l'essere ed il sapere. Queste considerazioni ci conducono a stabilire , che la Protolo^ia o Teorica del Primitivo ha un duplice compito da adempiere, indagale se il Primo ideale ed il Primo reale s" identifichino sostanzialmente in un solo, e cercare quale sia lldea prima da ciii originano tutte le altre idee particolari , quale sia la prima realtà da cui dipendono tutte le altre ; e che la Dialettica ontologica, o Teorica dei rapporti tra il Primitivo ed il derivato, debba pur essa compiere un doppio ullicio, ricondurre ad una suprema idea sintetica la moltiplicità di tutte le idee secondarie, collegare con una prima realtà la moltiplicità delle esistenze derivate. Or qui sorge la dimanda se l'essere l'ealissimo, cioè Dio, si debba davvero risguardare, come sostiene S. Anselmo , siccome il principio generale della scienza spiegativo di tutto l'essere, e se veramente esso goda della duplice uni- versalità da lui assegnatagli. Che a Dio, siccome all'essere sovranamente perfetto e realissimo , convenga una universalità ontologica siffatta , che da esso , siccome da loro causa suprema , dipendano tutte le esistenze finite, io noi contesto in verun modo; ma l'idea di Dio gode poi altresì di quella universalità logica che Anselmo le ha attribuito , sicché possa essere considerata siccome la contenenza universale di tutte le altre idee, il Primo enciclopedico spiegativo di tutti e singoli gli esseri dell' uni- verso.' È questo tal punto, che merita di essere attentamente discusso, perchè tocca uno de' più gravi ed ardui problemi della Metafisica. Data lidea di Dio, spiegare con essa sola tutta quante la realtà, de- ducendo dalla medesima le molteplici idee particolari spiegalive di tutti 2/{/| IL PROBLEMA METAFISICO ECC. e singoli gli esseri dell'universo: tale è il pronunciato che imprendiamo a discutere, espresso in una forinola. A tale uopo io primamente avverto, che siccome le molteplici iilee particolari per adempiere al loro ufficio scientifico hanno a rivelarci le specifiche e ditrerenti nature costitutive delle molteplici realtà, né possono da una sola idea superiore essere de- dotte se non a condizione che siano in essa contenute, cosi ne consegue che l'idea di Dio non può venir stabilita siccome il Primo enciclopedico racchiudente in sé tutti gli altri principii ideali se non a condizione che tutte le idee od essenze intelligibili delle cose siano nell idea od essenza divina contenute ; vai quanto dire che il mondo sia contenuto in Dio , la realtà finita e contingente nella realtà infinita e necessaria. Ciò posto, è egli vero che tutti gli esseri sono contenuti in Dio , ed in qual senso si può ammettere tal pronunciato/ Questa dimanda ci chiama a discutere uno de' punti fondamentali della Scolastica, che cioè Dio è il contenente universale di tutte le essenze delle cose, o, come essa si esprimeva, è eminenter tutte le cose ; e dalla discussione di cpiesta sentenza dipende la soluzione del quesito che ci siamo proposti di risolvere, se l'idea di Dio sia il Primo enciclopedico. Era un pronunciato conume a tutta la Scolastica cpiesto , che Iddio essendo la pienezza dell'essere, contiene in sé tutti i gradi di entità che si trovano sparsi negli esseri della natura, tutte le perfezioni e le deter- minazioni delle creature, non però cpiali stanno in esse, ma sollevate ad un grado infinito, ossia, come diceva la Scuola, non proprie et formaliter, sed eminenter. S. Tomaso, celeberrimo fra gli Scolastici, considera l'uni- verso creato siccome una rappresentazione , sebbene imperfetta , delle perfezioni divine; siccome uno specchio della divina essenza, un vestigio dell'essere infinito, avvertendo pur anco che le molteplici e diverse per- fezioni delle creature in Dio si riducono ad una pura e semplicissima unità. « Diversae res diversimode Deum imilantur, et secundum diversas « foi'mas repraesentant unam simplicem Dei formam , quia in illa forma » unitur quidquid perfectionis distinctim et multipliciter in creaturis in- » veiiitur; sicut etiara omnes proprietates numerorum in uni tate quodam « modo praeexistunt , et omnes potestates ministrorum in regno aliquo » uniuntur in potestate regis » ( De veritate , q. Il , art. i ). A' dì nostri il Rosmini riprodusse sott altra forma e svolse con molto acume siffatta sentenza nel suo Rinnovamento della Jllosofia italiana, dove al capitolo cinquantesimosecondo del terzo libro ingegnasi di dimostrare PER GIUSEPPE ALLIEVO, 245 che tutti i possibili, ossia le essenze intelligibili delle cose si contengono sotto forma di semplicissima vmilà nel Verbo divino, e questo modo di essere delle cose tutte finite in Dio ei lo dice eminente, ripetendo la irase della Scolastica. Anche il Wolfio nella sua Teologia naturale sostiene, che Dio essendo Tessere perfettissimo contiene in un grado assolutamente sommo quante mai realtà si ritrovano negh esseri finiti (p. 3, § i4)- Ora, analizzando questa sentenza e discutendone il valore, dico che essa può venire assunta in due sensi differenti: quando si pronuncia che Iddio contiene eminenter tutti gli esseri, si può intendere con ciò, che i° in Dio c'è la forza creativa, ossia la potenza di trane dal niente tu Ite le entità delle cose ; 2° che Dio è l'essenza che in sé identifica ed unifica tutte le diverse e molteplici essenze delle cose. Questi due sensi sono profondamente diversi, poiché secondo il primo Dio contiene il mondo, come una causa efliciente contiene il suo etìètto ; nel secondo, come una sostanza contiene i proprii modi, o come la materia contiene virtualmente le diverse sue forme. Se si piglia la sentenza nel primo dei due sensi suaccennati, essa è vera, ma in tal caso la teorica di S. Anselmo, che Iddio sia il Primo ideale, più non reggerebbe, perchè le entità create, quanto alla loro essenza costitutiva, non già quanto alla loro reale esi- stenza, non più andrebbero studiate ed apprese nell'idea di Dio, ma in se stesse, poiché non si contengono dentro, ma fuori dell'essenza divina. Che se si assume la sentenza nel secondo significato, ponendo che Iddio contiene le cose non come creatore di esse, ma come essenza universale delle medesime, in allora si viene a sostenere che le entità finite non sono che altrettante determinazioni o modi dell'entità divina infinita, che l'essenza o natura intima dei finiti è in fondo quella stessa dell'infinito, che Dio ed il mondo sono essenzialmente una sola cosa, non differendo che di gradi, lo che è pretto panteismo idealistico. Forseché a scansar questo sconcio si dirà che le perfezioni delle cose create non si contengono nell'essere divino quali stanno nelle creature, ma in un modo mollo più nobile ed elevato, non propriamente né for- malmente, ma eminentemente? L'avvertenza non approda, perchè le si può muover contro questo dilemma-. 1° le entità finite dopo di essere state sollevate ad un grado eminente, e depurate dei loro elementi nega- tivi, o ritengono ancora la loro primigenia essenza e natura, ed in tal caso l'emanatisnio riesce inevitabile, non essendovi più tra la natura di Dio e quella delle creature differenza di essenza , ma solo di grado ; 246 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. 2° oppure mutano di natura ^ fino a smarrire la loro intrinseca e specifica essenza, ed allora si riesce ad un non-senso, ad un assurdo, perchè non sono più perfezioni vere e reali, proprie delle sostanze create. Dire che nell'essere divino si contengono tutti gli esseri finiti, ma privi di limiti, vai quanto pronunciare che in esso si contengono gli esseri finiti, ma non finiti, perchè un essere privo di limiti non è più finito, od a parlar più chiaramente ancora , che nell'essere divino non si contengono gli esseri finiti. Spogliate de' suoi intrinseci ed essenziali elementi la natura propria dell'uomo, o quella del bruto, o quella del vegetale coH'intendimento di infinitizzarla, e voi l'avrete ragguagliata allo zero: infinitizzare le entità finite , equivale ad un distruggerle. Mi pare quindi di poter conchiudere che la sentenza di cui discorriamo non possa campare dal panteismo idea- listico senza cader in un non-senso, nell'assurdo. Ricordiamo il problema primario che ci eravamo proposto di risolvere per cogliere il nesso logico delle idee che andiamo sponendo. Si cercava se l'idea di Dio possa, come sostiene Anselmo, essere considerata siccome il Primo enciclopedico spiegativo di tutti e singoli gli esseri dell'universo. Avevamo avvertito che la soluzione di tal problema dipende da quest'altra questione, se e come Iddio contenga in sé tutti i gradi di entità degli esseri finiti: discussa questa questione, fiimmo condotti a conchiudere che Iddio non debb'essere concepito siccome essenza universale identificante in sé le essenze degli esseri finiti. Ora siamo in grado di sciogliere il primo problema propostoci, affermando contro di Anselmo che data l'idea di Dio, non si può con essa sola spiegare le essenze costitutive dei finiti e dedurne le molteplici idee particolari spiegative della realtà finita, perchè 1 essenza divina non contiene in sé le diverse essenze degli esseri finiti. La sentenza che stiamo discutendo non può reggersi se non a condi- zione di ammettere come vera e sussistente la dottrina del panteismo idealistico. Di vero, stando a questo sistema metafisico, iì quale pro- nuncia che il finito è una partecipazione dell'infinito, e che considera le sostanze finite come altrettante modificazioni o restrizioni parziali della sostanza infinita, si capisce benissimo come il concetto scientifico dell es- senza divina ne possa servir di lume a conoscere le essenze reali delle cose. Secondo questa dottrina nel mondo ce tutto quello che vi ha in Dio, meno l'infiniludine, come in unefìigie si riscontrano tutti gli elementi connotativi che stanno nell'originale, meno la personal sussistenza; quindi niente di più naturale che la conoscenza dell'essere divino ci conduca PER GIUSEPPE ALLIEVO. 247 alla conoscenza degli esseri finiti, che sono di quello altrettante ripro- duzioni od immagini sebben pallide e sbiadate. Ma non veggo come ciò possa aver luogo nella dottrina teistica della creazione professata da An- selmo e dalla Scolastica, dottrina che nega al creato ogni comunanza di natura col Creatore, che divide anzi con infinito intervallo l'essenza del primo da quella del secondo, che sentenzia tutti gli esseri finiti nulla aver di comune coll'essere infinito né in quanto alla sostanza, né in quanto all'essenza, né in quanto al modo di esistere, per la ragione che essi furon tratti dal nulla e non dal fondo della divina natura. Se vogliamo avere delle sostanze finite una scienza schietta e verace, dobbiamo stu- diarle quali si stanno nella j'ealtà, non quali c'immaginiamo che siano eminentemente contenute in Dio; e siccome considerate in se stesse non sono più precise e genuine quelle medesime che si trovano in Dio, perchè quivi si rimangono spoglie del loro essenziale elemento di finitezza e di imperfezione, così riesce opera impossibile il voler conoscere veracemente e fedelmente nell'essere divino tutti gli altri esseri creati, giacché nessun occhio umano per quantunque esercitato alle visioni speculative e di forte acume, ])uò scorgere in Dio ciò che non v'é , vale a dire le essenze finite quali sono in se stesse e nel creato. Ponete caso, ad esempio, che alai si provi a studiare nell'essenza divina l'essenza della natura umana: a che riuscirebbe ? La natiu'a dell'uomo emerge dall' armonia di tre principii essenziali, che sono il sentir fisico, l'intendere ed il volere. Ciò posto, chi potrà mai trovare e studiare nel solo concetto della divina natura il primo di questi tre elementi dell'umano composto, la fisica sensitività .' Che se mi si dice che la vi si trova, ma depurata del suo elemento animale e sublimata ad un grado assolutamente sommo, rispondo che in tal caso non istudiate piri ìa fìsica sensitività dell'uomo, ma un tutt' altro sentire che ha nulla a che far coll'umano. S'intenda il medesimo dei due altri componenti della natura umana, l'intelligenza e la libera volontà, che sebbene paia a prima giunta si debbano riscontrare in Dio assai piìi della fisica sensitività, tuttavia se non si vogliono menar buoni i pronun- ciati del panteismo idealistico e dell'antropomorfismo, sono e formalmente e sostanzialmente differenti dall'intendere e dal volere divini. Così il pro- nunciato, che vuole che nel solo concetto dell'essere divino si contengano i concetti spiegativi di tutti gli esseri finiti, mena per una parte al pan- teismo idealistico, per laltra ad un non-senso, ad un assurdo; poiché gii attributi costitutivi di quale che siasi sostanza creata o si concepi- 348 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. scono come altrettanti modi e restrizioni dell'essere mfmito, come faceva Spinosa, ed allora si cade nell'emanatismo, o si vuole che contemplati quali stanno in Dio mutino di essenza e di natura, e si riesce ad un non-senso per campare daHemanatismo, perchè non si conoscono più le entità finite, ma l'entità infinita. Si conchiuda adunque che siccome nel- l'ordine ontologico il finito non è emanazione, né parte dell'infinito, così nell'ordine logico od ideale il concetto scientifico del primo non è con- tenuto nel concetto scientifico del secondo; che 1 unico vero senso, in cui può pigliarsi la sentenza, che Dio contiene in sé eminenter il mondo, è questo, essere lui la forza creatrice che lo trasse dal niente, non l'es- senza universale che si circoscrive e si limita nelle essenze particolari; ma che in tal caso coll'idea di Dio si spiega soltanto 1 origine degli esseri finiti, ossia il perchè esislono, il quale perchè si trova nella sua potenza creatrice, ma non quello che essi -sono, essendo essi tratti dal niente, non emanati dall'essenza divina. La questione che qui abbiamo discusso intorno al Primitivo, ossia Dio posto da S. Anselmo come idea suprema generatrice di tutte le altre, ed intorno alla contenenza di tutti gli esseri nell'essere divino, quale venne ammessa dalla Scolastica, va strettamente connessa con quella del metodo quale venne tenuto dagli Scolastici per elevarsi alla nozione su- prema della scienza e costrurre il concetto metafisico di Dio. È dottrina scolastica di S. Tonuìiaso, che nella costruzione del concetto di Dio vuoisi procedere per via di rimozione od esclusione, e non per via di affermazione; lo che vuol dire che per determinare il concetto teologico fa d'uopo sottrarne man mano gli attributi degli esseri finiti e contingenti, di cui consta l'universo, rimuovere dalle qualità delle crea- ture ogni accidente, imperfezione e difetto, sicché ci si presenti al pen- siero la sostanza divina nella sua purezza assoluta, sciolta da ogni limite e nulla avente di comune colle create sostanze {C. Geni. lib. I, cap. xiv). Giusta il concetto teologico costrutto con questo metodo di rimozione e di esclusione, Iddio sarebbe l'essere perfeltissimo e realissimo, che con- tiene quanto vi ha di positivo in tutte le entità finite, ossia tutte le per- fezioni delle creature, ma sciolte da ogni limite e difetto e ridotte a semplicissima unità, ossia eminenter, non però quali stanno nelle sostanze finite, ossia forinaliter. Noi abbiamo già discusso altrove e rigettato questo processo metodico per la costruzione del concetto teologico seguito dai teologi i quali pronunciano, che prima ad intelUgendam Deum ratio per PER GIUSEPPE ALLIEVO. 249 abstractionem est (Alcinoo). Se il concetto dell'Infinito potesse venire determinato col pur rimuovere i limiti alle cose finite, infinitizzando le loro proprietà e come tali predicandole di Dio, in allora Iddio sarebbe nulla più che una vuota astrazione, anzi una pura incognita indicifrabile per la nostra mente, poiché le proprietà degli esseri finiti quando siano sciolte da ogni elemento di contingenza e sollevate ad un grado assoluto ci svaniscono davanti al pensiero sicché non ce ne rimane piii veruna idea precisa. Rimuovete quanto vi aggrada i limiti e le imperfezioni insite alla natura delle sostanze create, infinitizzatele e che vi rimarrà.' Una mera incognita, un niente, giacché ci riesce impossibile il pensare che cosa mai possa diventare a ragion d'esempio la fisica sensitività sollevata ad un grado assoluto fino a smarrire la sua intrinseca essenza, per cui è sensitività, e non intelligenza, e non libertà e non altra cosa qualsiasi. Vuoisi por mente a questo gran principio già avvertito dal Cudwort, che il potere, che ha la nostra mente di amplificare le realtà finite non si può estendere al di là di quel che comporta la natura delle cose finite medesime amplificate: esse hanno ciascuna le proprie determinazioni che le circoscrivono distinguendole le une dalle altre; togliamo queste limitate determinazioni e noi avremo distrutta la natura stessa degli esseri finiti. La dottrina scolastica, che ora abbiamo discussa intorno al concetto di Dio considerato come il contenente universale di tutte le essenze delle cose, ed intorno al processo metodico per la costruzione del concetto teologico, è seguita da Leibnitz , il quale considera la divinità siccome « una sostanza semplice primitiva, che deve rinchiudere eminentemente » le perfezioni contenute nelle sostanze derivate, che ne sono gli effetti ». L'idea di Dio, dice altrove, è nella nostra mente per via della soppressione dei limiti delle nostre perfezioni, come l'estensione assolutamente presa è racchiusa nell'idea di un globo. Di qui egli deduce, che la via piìi sicura per giungere alla conoscenza della natura divina sta nel considerare gli attributi delle creature e segnatamente quelli di nostra umana natura, contenenti come in germe le perfezioni dell'essere divino, rimuovere da essi quanto vi si trova di limitato, di incompiuto, di relativo e condizio- nale, sollevarli al grado della perfezione suprema ed assoluta, alla misura àeWeminenza e àeWinfmìtà, e così sublimati alla più alta potenza possi- bile attribuirli a Dio uniti nel seno dell'infinita e semplicissima sua natura. Serie II. Tom. XXX. 32 aSo IL PROBLEMA METAFISICO ECC. SAN TOMMASO. De' pensatori tulli della Scolastica nissuno contemplò il problema on- tologico con isguardo cosi penetrante e così comprensivo, come S. Tom- maso d'Aquino. Il sistema della scienza, che negli altri filosofi della media età apparisce scompaginato e monco, nell'Aquinate addimostrasi nell'eu- ritmìa delle sue parti e nell' integrità del suo insieme. Accoppiando la potenza sintetica di Platone colla profondità ed acutezza analitica di Ari- stotele, ed illuminala la mente da luce sovrumana, egli fermò il pensiero in Dio, siccome centro dell'essere e del sapere, e vide fluire da esso il triplice mondo degli spirili, dei corpi e degli uomini, e questi tre mondi contemplò al lume del Pensiero e del Volere divino ; discorse le loro distintive nature , ed il vario loro operare non solo , ma altresì le loro inlime armonie, per cui e s integrano gli uni gli altri, e tutti poi si com- pongono ad universal consonanza intorno l' Unità primitiva. Dio distin- guendo dal mondo , non però separando , egli collegò il Primitivo col derivato mercè un vincolo d'intelligenza e di amore, l'alto creativo, che è ad un tempo conservativo e provvidente, per cui le creature tutte ori- ginano da Dio , come Potenza assoluta , a Dio intendono come sommo Bene finale. Alla luce del principio di creazione libera sostanziale egli camminava sicuro fra i due scogli opposti, contro a' quali andò a rom- persi più volte la speculazione metafisica , voglio dire il panteismo , che mesce in una sola sostanza il Primitivo ed il derivalo , ed il dualismo , che separa luno dall'altro questi due massimi termini del problema on- tologico. Distinti ed uniti Dio ed il cosmo , distinti altresì ed uniti ei riconobbe i tre ordini di esseri cosmici, gli spiriti, i corpi, l'uomo. Come aveva salvala l' Ontologia dal panteismo e dal dualismo, cosi a campare l'Antropologia dal materialismo e dallidealismo sostenne congiunti ad unità personale nell' uomo 1' anima ed il corpo , eppur inconfusi nel- r essere e nell' operare , e governati da proprie leggi. Di qui la divina origine dell'anima, e l'eccellenza del suo pensiero, e la libertà morale e l'immortalità, che esige il futuro ricongiungimento col proprio corpo. Che la filosufica scienza sia uscita di tutto punto perfetta dal capo di S. Tommaso, come Minerva dal cervello di Giove, sarebbe sconvenienza il sentenziarlo , anzi stoltezza , essendoché quale mai lavoro di umano ingegno risponde appieno al suo ideale? Nelle opere filosofiche dell'A- PER GIUSEPPE ALLIEVO. nSl quinate giacciono qua e là disseminati alcuni concetti, che non possono essere menati buoni dalla critica, quello, a ragion d'esempio, che riguarda \\ principium individuationis ; altri sono bisognevoli o di piiì forte rincalzo, o di più ampio sviluppo, o di più lucido schiarimento. Il concetto To- mistico , che ri£juarda Dio siccome universal contenente , anzi identità suprema di tutte le essenze ideali delle cose finite, lascia involto in troppa oscurità il problema del rapporto di natura tra il Primitivo ed il derivato, benché dica assai piiì che non la mimesi pitagorica e la metessi platonica. Per quello poi che s'attiene allo studio filosofico della natura fisica e delle genti umane, la dottrina dell'Aquinate lascia vaste lacune, che mal potevano essere adempiute in que' tempi , in cui 1' arte dell' osservare e dello sperimentare andava sfornita di quei poderosi strumenti, dai quali sorretta la moderna scienza della natura si avanzò gigante nella via del suo perfezionamento. Malgrado queste ed altre mende la dottrina filosofica di S. Tommaso, riguardata nella generalità sostanziale delle sue parti, adempie meglio, che ogni altra fin qui esposta , le condizioni essenziali di una vera teoria metafisica. La sua Ontologia non è , .come in gran parte la sco- lastica e la wolfiana , im ingegnoso tessuto di generalità vaghe e di esili sottigliezze; ma vigoreggia informata da quello spirito realistico, che della scienza fa verità vivente, dell'essere fa vita vera. Le sue speculazioni tra- scendentali e categoriche, anziché sdilinguire in fuggevoli e nude astrat- tezze, s'inviscerano nella realtà infinita e nella finita, ed il molo vi man- tengono ed il vigore. Sostanzialmente realistica, la filosofia di lui è insie- memente sistematica nella forma, tantoché in mezzo all'orditura vastissima del lavoro risplende l'unità dell'insieme, e valse ad inspirare all'Alighieri il concetto scientifico del divino poema, a cui ha posto mano e cielo e terra. Adunque, fatta pure gran parte alla Critica, la Somma del nostro filosofo rimarrà pur sempre il pivi sublime e solido monumento che nel volger de' secoli il genio abbia saputo innalzare al culto della scienza metafisica. « Figlia d'alpestre balzo, aquila altera Sprezza lo stormo degli augei rombanti Nella morta palude, il guardo spinge Vèr l'etereo sereno e dispiegando Il remeggio dell'ali, oltre le nubi Vola e si perde nel cammin del Sole » . Tale apparisce in mezzo ai filosofi del suo secolo e delle trascorse età il pensatore di Aquino. 252 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. La rinascenza e Giordano Bruno. La Scolastica aveva pronunciata T ultima sua parola con S. Tommaso. La scienza di qua' tempi erasi composta ad unità potente; ma presentava difetti, che piu-e si potevano adempiere senza scompaginarne il sostanziale organismo. Il trecento , anziché colmare le lacune che vi rimanevano , appurare le parti malsane , i buoni germi coltivare a dovere , trascorse inglorioso e dappoco per manco di vigoria mentale e di coscienza spe- culativa. Il pensiero scolastico si dissolveva fra le arcadiche dispute dei Tomisti, degli Scotisti e degli Occamisti, i quali, smarrita l'intelligenza del problema ontologico , stemperavano il problema degli universali in quisquiglie metafisiche od in sottigliezze dialettiche. L abuso dell apriorismo nel processo metodico teneva ancora il campo, e lo studio dell'universo, anziché posare sopra osservazioni accertate e solide induzioni, si perdeva in avventate ipotesi e generalità vuote di contenuto. Sorgeva quindi vi- vissimo il bisogno di una riforma che, gittate le basi all'arte dell'osservare e dello indurre, dalla quale i fatti delia natura e della storia attendono la loro ragione spiegativa, schiudesse allo spirito umano un nuovo ordine di idee nella contemplazione del mondo fisico e sociale. Il grido di riforma scoppiò unanime ed insistente nel quattrocento, il quale tentò rinverdire sulle mine della Scolastica il pensiero filosofico ed estetico greco-romano. L'Accademia, il Peripato e la Stoa rinacquero nel secolo decimoquinto, e contarono per lutto il secolo decimosesto ardenti e numerosi seguaci schierati in campi opposti. Stavano dall'un lato i par- tigiani del Platonismo Giorgio Gemisto Pletone, Marsilio Ficino, i due Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa, Teofrasto Paracelso. Dall'altro lato si schieravano intorno al vero Aristotele dell'antica Grecia , il Gen- nadio, Giorgio da Trebisonda, Teodoro di Gaza, Pietro Pomponazzi, il Vanini , il Zabarella , il Cremonini , il Zimara , Agostino Nifo , Andrea Gesalpino. L'urto tra i Neoplatonici ed i Neoperipatetici si ripercuoteva contro la Scolastica, la quale veniva colpita a morte non solo dai ristau- ratori della greca fdosofia, ma altresì dagli Umanisti entusiasti della ve- nustà della forma classica greco-i'omana , Ermolao Barbaro , Giovanni Reuchlin , il Poliziano , il Valla, Cornelio Agricola , Erasmo , Ludovico Vives, Francesco Patrizzi, il Nizolio, il Sadoleto, l'Aconzio. Ma una seria e grave riforma filosofica mal si compie risuscitando dottrine gravate dal PER GIUSEPPE ALLIEVO. a53 peso di tanti secoli , e ripensando l'antico pensiero già dalla Critica sen- tenziato. Né si potevano rinnegare i sedici secoli scorsi da Platone a San Tommaso ; né la rinascenza , accampatasi sulle mine della Scuola , fece progredire d'un sol passo la fdosofia. Mancava la virtù inventiva. Il Neo- platonismo si perdeva nella cabalistica di Giovanni Reuchlin e di Cornelio Agrippa, e nell'illuminismo di Paracelso e dei due Van-Helmont che, spegnendo ogni attività intellettuale, sottostava di assai ali apriorismo sco- lastico. Il Telesio tentò una fdosofia della natura, ma il suo naturalismo ristretto nella cerchia della scienza fisica manca di valore ontologico. Filosofi che abbiano mostrato coscienza del problema ontologico, e lo abbiano riconcepito con vigoria di mente ed originalità di pensiero, sono Nicolò di Cusa nel secolo XV, e Giordano Bruno nel secolo XVI. Il Cusano riabbracciò col pensiero i tre termini ontologici, l'Uno, il mol- teplice ed il loro rapporto, ed accoppiando la Metafisica alla matematica secondo lo spirito del pitagorismo , fece delle idee de' numeri la forma costitutiva della ragione umana, ed a leggi matematiche ridusse i fenomeni della natura. L'unità prima, assoluta, infinita è oggetto della scienza tra- scendente; il molteplice è oggetto della scienza inferiore. L'Uno è incom- prensibile in se stesso, è il più grande, e come tale è riguardato come Dio dalla fede di tutte le genti. Questo più grande è altresì l'assoluto , l'unitutto, ciò che é in tutto ed ha lutto in sé, il più grande ed il piìi piccolo, perché niente gli può essere opposto. Egli è il principio di ogni numero, in qualità di più piccolo; il fine, in qualità di più grande. L'in- finitamente grande, che nel Primitivo esiste come unità suprema e come Dio, esiste altresì nel derivato come unità contratta in pluralità, senza la quale esso non potrebbe essere; e nell'universo molteplice esiste come fin* supremo di esso , poiché il movimento progressivo e finale dell' umanità ha per iscopo di raggiungere Dio nell'uomo. Da queste ardite speculazioni del Cardinale di Cusa svolse l'arditissimo suo sistema il filosofo napolitano, il panteista del secolo XVI. Il concetto fondamentale della dottrina metafisica di Bruno é la convertibilità dell'uno coH'ente, la quale si traduce in questa formola: l'unità è l'essere, e Tessere è lunità; formola che ci richiama al pensiero il principio degli eleatici: tutto é uno. Conoscere questa unità che ad un tempo è l'essere, tale é lo scopo della filosofia, la quale ha per oggetto di apprendere per mezzo della ragione il necessario, l'infinito, l'universale, che è per appunto il vero e solo essere, la realtà, mentre le cose particolari ed individue, og- 254 'L PROBLEMA METAFISICO ECC. getto de' sensi, non sono, come tali, che pure ombre della realtà. A di-- moslrare che l'essere risiede soltanto nell'unità il Bruno osserva, che tutto ciò che non è uno, ossia il multiplo, non è, in quanto multiplo, che un composto, ed ogni composto è un insieme di rapporti, e non già una realtà. Il composto è di sua natura divisibile, opperò importa di necessità un alcunché di semplice, di indivisibile, di uno, in cui come in sua base possa sussistere. Lo spirito umano, fatto per l'unità, non sa arrestarsi al molteplice ed al composto, ma solo nellunità rinviene l'oggetto delle sue ricerche, e di unità in unità progredisce infmo a che siasi sollevato al principio supremo, l'unità assoluta fonte di tutte le altre unità derivate. Cosi l'unità è l'essere, come l'essere è l'unità ; cosi si fa manifesta la ne- cessità di riconoscere un'unità assoluta senza parti e senza limiti, essen- doché l'opinione contraria, che tutto sia relativo, è respinta dalla ragione umana, che tende di sua natura all'assoluto. Quest'unità assoluta e suprema, fondamento dell'essere, oggetto della filosofia e della ragione, é dessa l'essere assoluto e supremo, il Primitivo, attesa la convertibilità dell'uno coH'ente. Il Primitivo, per ciò stesso che é unità assoluta e suprema, vuol essere lidentità assoluta di tutte cose per guisa che esso unifichi nel suo seno quante mai entità sono o possono esistere, prive delle loro proprie determinazioni e differenze. Scorgesi qui per dirlo di passaggio, il germe dell'idealismo assoluto di Schelling e di Hegel, i quali considerano il Primitivo siccome l'identità universale di tutte cose, l'indifferenza dei differenti. Per ciò che il Primitivo è identità universale, debbe in sé confondere i principii più generali della differenza delle cose, quali sono l'infinito ed il finito, lo spirito e la materia, il pari e l'impari, principii, la cui distinzione non costituisce una real differenza nel seno dell'unità assoluta, non essendo che diverse modificazioni dello stesso essere uno ed universale. Si suole comunemente ammettere due sostanze, la materia e la forma, ossia la potenza di essere e l'attività, la possibilità e la realtà ; ma in Dio la prima materia universale e la prima forma universale sono inseparabili ed identiche sì che formano una indivisa unità, mentre le altre cose possono essere o non essere, essere in tal maniera, od in tal altra. La possibilità perfetta della esistenza delle cose, ossia la materia prima universale, non può precedere la realtà della loro esistenza, ossia la forma, né dopo di essa sussistere (i); perchè se vi fosse una (1) Qui si rileva una notevol discrepanza tra la Metafìsica del Bruno e quella di Hegel, riposta/- PER GIUSEPPE ALLIEVO. 255 perfetta possibilità di essere reale senzachè vi fosse esistenza reale, allora le cose si creerebbero esse stesse ed esisterebbero prima di esistere. Adunque il Primitivo identifica in sé la materia e la forma, la virtualità o possibilità e la realtà od attualità, può essere tutto ed è realmente tutto, e se non potesse esser tutto noi sarebbe. Questo primo principio di ogni esistenza, che è tutto ciò che può essere, in cui cioè la possibilità e la realtà, la potenza e l'atto sussistono in unità inseparabile, è Tessere as- soluto, è Dio. Tale è, riassunta ne' suoi concetti fondamentali, la teorica di Giordano Bruno intorno all'essere, all'unità suprema, al Primitivo, a Dio, che tutte queste cose sono per lui un medesimo. Ma accanto a questa scienza dell'essere, che è il Primitivo, v'ha un'altra scienza, che ha per oggetto il mondo, il Derivato. Or come il Primitivo, che è l'unità assoluta, pro- duce il derivato, che è la moltiplicità degli esseri mondiali, e come si concilia l'unità della sostanza infinita colla diversità delle specie e de^li individui ? Ecco in qual modo il Bruno abbia cercato di sciogliere siffatto problema, per mezzo della sua teorica della monade considerata come riunente in sé i due estremi del minimo e del massimo. Iddio è una monade, ossia una sostanza assolutamente semplice ed una. Ora la monade è una potenza sviluppantesi di per se: questo sviluppo importa un germe primordiale da cui si inizii, ed una perfezione in cui si compia, e sta perciò intermedio fra i due punti estremi che vengono da Bruno designati col nome di minimo e di massimo. Ma fra questi due punti estremi, che iniziano e chiudono lo sviluppo della monade o della sostanza corre una serie indefinita di gradi che segnano come altrettanti momenti distinti della sostanza, e che danno luogo alla differenza delle forme che essa veste nel suo successivo sviluppo. Di qui l'origine della diversità e mol- tiplicità degli esseri mondiali dalla sostanza o monade infinita. Essa è una potenza che si sviluppa per virtù sua propria progredendo dal germe alla compiuta altualitn, dal minimo al massimo; ma nel procedere dall'imo all'altro di questi due estremi percorre una serie indefinita di gradi che sono altrettante forme della sua essenza, altrettanti differenti aspetti del in ciò che l'Assoluto di Hegel è originariamente pura possibililà di tutte cose o pura materia, scevra di ogni realtà o forma, mentre l\\ssoluto di Bruno è per lui virtualità e realtà ad un tempo, sicché non avrebbe tradotte all'esistenza reale le cose possibili se non fosse esso stesso una realtà, ma una pura possibilità. 256 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. SUO sviluppo; queste forme od aspetti della sostanza sono i diversi e molteplici esseri dell'universo, i quali si differenziano soltanto di forma o modo, non già di essenza o sostanza, giacché la sostanza divina è una ed identica in tutti e singoli i gradi del suo sviluppo, e quindi in tutti e singoli gli esseri dell'universo. Il minimo ed il massimo si confondono nella loro radice in una sola e medesima sostanza, e qui si avvera la celebre massima, che gli estremi si toccano, giacché il minimo è la sostanza implicata nel suo germe, il massimo è la sostanza stessa, ma svolta ed amplificata fino al suo compimento : ossia il minimo é il massimo ma concentrato e rimpicciolito nel suo germe; il massimo è il minimo, ma ingrandito e sviluppato nella sua essenza. La sostanza divina considerata come il Primitivo, ossia il germe universale delle cose, è il minimo; considerato come l'universo uscito dal suo germe é il massimo. Ma come il minimo ed il massimo sono una sola ed identica sostanza considerala in due opposti momenti, cosi il Primitivo é ad un tempo il minimo ed il massimo, Dio e l'universo, l'infinito ed il finito, la monade e la decade per parlare il linguaggio pitagorico: Dio è il germe dell'u- niverso, come l'universo é lo sviluppo di Dio. Come agevolmente si scorge, il Bruno diede al problema dei rapporti tra il Primitivo ed il derivato una soluzione affatto panteistica, sostenendo, che Dio produce il mondo diventando il mondo stesso, ossia che il primo principio genera la moltiplicità delle cose svolgendo la sua suprema ed assoluta unità. 11 panteismo non potrebb' essere più esplicito ed aperto: tutto è sostanzialmente uno, tutto è sostanzialmente Dio; e fuori di questa sostanza unica tutto è mera forma, anzi tutto è niente, ed in questo senso il Bruno cita la celebre frase della Scrittura Nil sub sole novum, per significare che tutto é vanità, eccetto l'unità immutabile presente per tutto. E così si spiega pure quell'altra sentenza del Bruno , che la divinità non va cercata al di là dell' infinità del mondo e della serie infinita delle cose, ma dentro il mondo e nelle cose, giacché il mondo non è che l'unità manifestantesi sotto le condizioni del numero; e quest'unità presa in se stessa è Dio, considerata in quanto si produce nel numero é il mondo. Il panteismo del Bruno riesce piiì manifesto ancora a chi pon mente alla sua teorica del derivato. L'universo è sostanzialmente Iddio, dunque riunisce gli stessi attributi che si assegnano alla sostanza divina, di cui è uno sviluppo naturale, una forma esteriore. Quindi Bruno concepisce PER GIUSEPPE ALLIEVO. ^5"] l'universo come infinito, immenso, eterno, immutabile ed uno, perchè è Dio stesso. Consideralo in sé, indipendentemente da Dio, il mondo non è che un complesso di fenomeni, di forme, di modi, di cui non si può indagar la sostanza, fessenza, il fondamento senza riscontiar da per tutto la sostanza e la natura divina. Perciò i diversi e molteplici esseri indi- vidui dell'universo non diiferiscoiio luii dall'altro che di forma e di grado; essi sono simili, come dice Bruno, ai ditfcrcnti sughi di uno stesso essere organizzalo; non son che la forma esteriore di una stessa sostanza: l'a- nima del mondo è tutto; il numero infinito delle cose individuali non costituisce per essa ed in essa che un solo ente, che è Dio. L'universo consta sibbeiu- di contrarii, che sono i minimi ed i massimi; ma questi SI annullano e .'fi identificano in un termine medio superiore, vero punto di coincidenza e di inditferenzi di tutti gli opposti ; e questo punto è Dio. Tutti i minimi si risolvono in un minimo assoluto, monade delle monadi, che è Dio, come tutti i massimi sono compresi in un massimo assoluto ed unico, che è l'Universo, sostanzialmente identico con Dio. Per tal modo Bruno giunge a togliere ogni sostanziai differenza tra i molteplici esseri dell'universo; egli riduce tutte le sostanze individuali, siano corpi, siano spiriti, ad una sostanza unica, fuor della quale non vi sono che modi e fenomeni fuggitivi. Gli è vero, che egli aveva fatta di- stinzione tra principio od essenza e causa avvertendo che il principio è la ragione interna di una cosa, la fonte della possibilità di sua esistenza, la causa invece ne è la ragione esterna, la fonte della sua reale ed attuale esistenza, e che il principio resta nell'eiTetto, mantiene la cosa nell'esser suo, mentre la causa è fuori dell'etfetto e determina l'esistenza esteriore della cosa. Se Bruno si fosse mantenuto fedele a questa gran distinzione, avrebbe potuto scorgere che se Iddio è causa del mondo, non ne è però la so- stanza, e che però se il mondo è un effetto avente un'esistenza esteriore fuor della sua causa, non è una forma né un modo esistente nella so- stanza divina medesima. Ma egli obbliò ben tosto questa capital distin- zione concependo Iddio non come causa soltanto del mondo, ma altresì come principio e sostanza del medesimo, non come la ragione esteriore delle esistenze soltanto, ma sopra tutto come la ragione interiore, la radice, la sostanza di esse. « Deus (egli scrive) est substantia univei salis in essendo, K qua omnia sunt, essentia omnis essentiae fons ; sicut enim natura est u unicuique tundamentum entitatis, ita profundius naturae uniuscuiusque « est Deus (oper. lat. t. 3,pag. 47^) '). Se perciò la natura è la base di Serie II. Tom. XXX. 33 2 58 IL PROBLEMA METAFISICO ECC. Ogni essere, Dio, sostanza slessa della natura, è il fondu più intimo e più secreto dell'universo. Così si spiega il concetto che il Bi uno aveva emesso dei Primitivo, che cioè egli può essere tutto ed è lutto realmente. Da tale sistema egli venne a filo di logica condotto a sosteneie che il bene ed il male, il bello ed il turpe, la felicità e i infelicità non hanno fra di loro una dilì'erenza assoluta, ma solo relativa : conseguenza logica di ogni sistema panteistico. La Scolastica aveva prt.nuncialo, che Dio è eininenter tutte le cose: il panteismo sentenzia per bocca di Giordano Bruno che Dio è tutto viitualiter , germinalmente , sostanzialmenlc. Il Minimo facienlesi Massimo del Bruno sarà più Lardi convertilo da Hegel nell essere-nulla , che diventa tulio. • L'unità assoluta, quale la intende il fdosofo di Nola, patisce le slesse censure, che l'unità parmenidea, pitagorica e plotiniana. Essa ne appa- risce il Primitivo, né mostra virtù di produrre e sorreggere il Derivato. La convertibdità dell'uno coU'ente, da lui ideala, è un concetto radical- mente sbagliato, che vizia originalmente tutta la sua teorica. L'unità è mera forma, che importa l'esseie come sostanza. Ora l'ente primitivo, in suo concetto, non e né spirito, né materia , nò pensiero, né corpo, non ha verun costitutivo, che lo determini. (]hc è dunque mai? JNient'aitro che unità, ciò è dire, non è sostanza, ma mera e pretta forma; e sic- come la forma importa logicamenle una sostanza, che la sorregga, cosi ne arguisco, che unità siffatta non è né il Primitivo, né il Derivato, perché ogni unità è unità di qualche cosa, e quella del Bruno é unità di niente, sicché il Minimo non diventerà .Massimo mai. Così il Primitivo del Bruno, che é pura unità vuota di contenuto, é impotente a porre il derivato ed il molteplice: la forma, sia pur perfettissima, non genera da sé il menomo di sostanza , come l'unità matematica , pur repetendo eler- nalmente se stessa, non produce un diverso da so, peichè non comporta interiore sviluppamenti). PER GIUSEPPE AI.I.IKVO. sSq I iisr iD I a E AUiiienzc della Aletalisica colla Religione e con le scienze seconde . . . pag. 1 La Melalisica o la Critica ■> \9 Posizione del problema meUQsico [iiemare critico) » 27 Soluzione del problema ontologico {pensare speculalivo) 48 Tavola sinottica delle questioni e delle dottrine ontologiche » 51 Critica de" precipui e più celebrali sistemi ontologici » 52 Scuola Jonica „ juì Eraclito » 64 Scuola Eleaticii » 68 Scuola Pitagorica od Italiana » 92 Critica del Pitagorismo n -loi Cenni sulla Sofistica greca > H6 Platone „ 122 Critica del Plalonismo » 1 43 Aristotelk » 159 Della Metafisica: Parte 1» Introduzione » |64 Parte 2''" Onloloqin 0 Teorica del derivato » 167 ■ Parte 3" Teologia 0 Teorica del Primitivo » 176 Critica di Aristotele » ) 84 La Patristica » 210 li Neoplatonismo » 215 Teorica del Primitivo consideralo in se stesso » 222 Teorica del Primitivo ne'suoi rapporti col derivalo » 223 Teorica della natura sensibile 0 Cosmologia ' » 227 La Scolastica » 230 S. Tommaso » 250 La rinascenza e Giordano Bruno » 252 SUI PRINCII'ALI STORICI PIEMONTESI E PARTICOLARMENTK SlKìLI STORKKÌKAFI DELLA l{. (^ASA Di SAVOIA UW)m. STORICflE, LRTTf.RARIF, F RIOfiRAKiCHE GAUDENZIO CLARETTA l,rfl4i veWndìinanzu dr.l 7 gennaio 1875 e nelle successive, finn a i/uflla drt ì luglio 18* PROEMIO L'argomento che imprendo a trattare risguarda una provincia d'Italia, in cui se tardi allignarono i semi dei buoni studi , perchè in parte scon- volta dalle guerre e dall'avidità di reggitori stranieri , ed in parte dal- l'incuria di reggitori indigeni, non per questo lasciò di produrre, di quando a quando, ubertosi frutti che io sono lieto di aver raccolti e di poter far gustare a quei pochi, a cui oggidì non tornano indifferenti codeste investigazioni. Che se non lascierommi accecare da eccessivo amor patrio, nel voler tentare paragoni, sollevando la nostra lettera- tura al grado di quella di altre parti della penisola , credo che non mi si potrà ascrivere ad orgoglioso vanto municipale se cercherò di mettere in luce opere di tali, che onorarono col loro ingegno la nazione, indottovi dall'assennata osservazione del Tiraboschi, che la storia della letteratura italiana sarebbe stata più perfetta, ove ogni provincia avesse avuto la sua propria. 262 '^UI PRINf:iPAU STORICI PIKMONTESI Da que' tempi agli odierni molto si progredì, a dir vero, e parec- chie città nostre consorelle hanno storie sulle vicende degli uomini loro, che nelle lettere e nelle scienze distintisi, siano meritevoli di lode; né al nostro Piemonte mancarono in questi ultimi anni dotte scritture, le quali c'informassero della condizione degli studi fra noi sino dall'età più remota; ed i varii lavori del Denina, del conte Na- pione, i briosi scritti di Ludovico Sauli sullo stato degli studi avanti l'età di Emanuele Filiberto, e le gravi ed eleganti storie delle univer- sità piemontesi, delle società letterarie e della poesia in Piemonte di Tommaso Vallauri, saranno sempre un glorioso monumento elevato agli ingegni subalpini. Manca però ancora fra noi un' istoria speciale che accenni propriamente alle vicende ed al progresso degli studi storici , dai tempi remoti ai presenti, e poche e monche sono le notizie che hannosi nelle storie generali. Onde acconciamente scriveva Cesare Balbo « Cependant mème chez nous, et encore aujourd'hui, on voit bien des » personnes sourire de piété au seul nom d'histoire du pays. Mais il » faut bien distinguer l'histoire et les historiens : nous avons l'une, les » autres nous manquent absolument. Tout pays a une histoire, mais pour » ceux qui ont eu le malheur de passer sous plusieurs dominations, ce y> malheur se prolonge encore dans leur histoire, qui s'en trouve embar- » rassée à perpetuile. Chez nous c'est tout le contraire, et cela seul suffirait » à rendre belle notre histoire. Mais nulle histoire nest si belle, qu elle » puisse se passer d'étre bien racontée, et il faut Tavouer, la nótre ne » Fa jamais été » (1). Se non che, siccome a trattare in tutte le sue parti tema così nobile e vasto, questo lavoro riceverebbe uno svolgimento tale, da non poter più corrispondere allo scopo che mi sono prefisso; così rifuggendo da questo aringo direttamente , credo di far nondimeno opera non inutile, col divulgare notizie, che frutto di lunghe e spinose indagini ne pubblici archivi, io ho raccolte sui principali storici nostri, e sull'avviamento di questi studi, distendendomi poi particolarmente su (Ij Niilice sur VhisUnre et les ìiistariois iles Étals de la Maison de Savoie. Firenze. Lemonniei, 186?. DI GAUDENZIO ( LARETTA 263 quei pochi nazionali e stranieri, che furono dai nostri Principi sollevati all'onore di scrittori palatini. Scarsa però è la serie di costoro, e tanto più scarsi (]uelli sono, che abbiano saputo camminare sul retto sentiero; persuasi molti di essi che conveniva od adulare o soccombere, stima- rono meglio di cedere ; onde rimasero poi consentiti certi giudizi, ed alle lodi classicamente profuse non si seppe opporre talora il menomo barlume di critica; e l'analisi filosolìca, l'insistenza scientifica e l'im- perio della volontà furono messi da un canto. Rigoroso dunque sarà il giudizio che io porterò nel dissodare questo vergine terreno, sapendo abbastanza a qual compito debba tendere la storia, sacerdozio del vero e delle generose ispirazioni, e ben ricordan- domi della nota sentenza di Tertulliano: Hoc exigitveritas, cui nemo ■praescribero poteste non .spalùim temporis; non patrocinium perso- /tan/m, non privl/er/ia regionuìu: e infatti se questa sollevò dal fango i suoi annali, se la verità sprigionata dalla pesante atmosfera che la soffocava si levò radiosa sol libero orizzonte, è ornai tempo che, se- condo giustizia, vengano giiulicati quei profanatori che contaminarono le caste sue pagine. Nel trattare quest'argomento (1) forse consultai più il buon volere che le mie proprie forze, ma vi fui indotto da una considerazione e da un desiderio. In questo fortunato asilo, sacro alla scienza, da cui tanta e così viva luce dipartesi, e sempre cosi nobilmente, nella ricerca del vero e dell'utile , ed in quanto può contribuire alla gloria del paese, e ad invo- gliare agli studi severi, avendo ricevuto fecondissimo e potente impulso gli studi storici , mercè la generosa protezione accordata dai nostri ante- cessori ai primi fondatori della scuola di critica storica in Piemonte, Carena, Durandi, Napione e Vernazza, in tempi in cui governanti e governati sonnecchiavano, in tempi in cui non poco si bamboleggiava, e dove ridondavano società, le cui aule non risuonavano che della lettura (I) L'Auloie cieilu opiiorliiiid d' indicai^ che iutniprese a leggere cpiesta Memoria all'adunauza della Classe di scienze morali, storielle e filolofiche della U. Accademia delle Scienze, del 7 gen- naio 1875, r la prose!];»"! sino a ijiiplla ilil ì luglio IS*';. 264 SU' PHmCIPAH STORICI PIEMONTESI di slombati componimenti, frivole poesie, 0 di canore inezie, non po- trebbe ritenersi inopportuno, che io togliessi quest' occasione per con- secrare qualche pagina a rammemorare una benemerenza cosi rilevante. Ferve poi in me la speranza, che nella sua semplicità possa questa mia, comunque tenue fatica , invogliare col tempo altri , forniti di miglior dottrina, e del presidio di più profondi studi, a ritrarre su più ampia tela questo quadro , che servirà ognor più a provare , come anche fra gli ostacoli e le avversità d'ogni specie, mai non fu estinto ne' Piemontesi quell'amore delle nobili ed utili discipline, che fu sempre un prezioso vanto, onde s'ingemma questa nostra cara patria. a65 DAI TEMPI ANTICHI A QUELLI DI EMANUELE FILIBERTO. Se le legioni che costituiscono il Piemonte non furono le prime a forbirsi dalla niggme de secoli barbari all'aurora del rinascimento delle lettere, non perciò rimasero dal gareggiare con paesi di più celebrata coltura. E quantunque non così agevole cosa ella sia di snebbiare l'ori- gine, in cui poco presso si cominciò ad ottenere in ciò qualche risultato soddisfacente, tuttavia da ben remoti tempi troviamo alcuni nomi, che fiiori patria altresì acquistarono non volgar fama. Albuzio Silo da Novara, Vibio Crispo vercellese, e probabilmente quel famoso Plozio, che primo aprì scuola di eloquenza di lingua latina, uscirono da quella parte della Gallia Cisalpina, che poi si denominò Piemonte. Ma la giacitura stessa di questo nostro paese, ed i procellosi tempi succedutisi molto contribuirono a disperdere i suoi monumenti letterarii ed artistici. Le selvaggie torme dei Saraceni che iermato aveano le incomode loro stanze a Frassineto nella riviera di JNizza, donde, quasi torrente che alta -vena preme, sul prin- cipio del secolo decimo si sparsero, per mettere a ferro e fuoco quei sagri ricetti di monasteri, entro alle cui quete mura, siccome in un porto sicuro, eransi riparati alcuni avanzi della sapienza degli antichi Greci e Romani, e le guerre continue che funestarono quei tempi, dispersero senza dubbio ogni reliquia, la quale ci farebbe fede della coltura di molti di quei monaci. La badia di Bobbio, fondata da S. Colombano, dalla quale potea ancora provenire al nostro ateneo tanto tesoro di libri, e dove dottrina sacra e profana coltivava il compagno di S. Colombano , il monaco Giona di Susa (i): quella di Pedona presso Cuneo, ove nell 8^4 fioriva 1 abate (1) Hisloire litlnaììt He la Frani e, t. Ili, p, K03. Skkie II. Tom. XXX. 34 266 SUI PRINCIPAM STORICI PIEMONTESI Giuseppe, che copiò molti codici radunati ne' suoi viaggi «li Francia ed Italia; la non meno famosa della Novalesa , ch'ebbe poi la ventura di ricettare l'eroe del medio evo, Carlo Magno, e che, se la l'ama non mente, aveva sin cinquecento monaci nell'alpestre sua solitudine (cioè in un cupo vallone sulla scesa del Moncenisio), a molti dei quali soleva affi- dare incumbenze di scrivere e copiare; quella piìi recente di S. Michele, che forse si murò colle mine di quelle chiuse, che i Longobardi invano avevano rizzato a difesa e schermo d'Italia, furono asili, ove in mezzo alla barbarie dei secoh VII, Vili. IX e X si coltivarono le lettere, come il catalogo dei libri che conservavansi a Bobbio, pubblicato dal Muratori e dall'abate Peyron, e l'avere le due altre il loro cronografo, bastantemente ci può persuadere, ancorché buona parte di quei tesori letterarii venisse depre- data da quelle torme, e ventura sia stata se pochi monaci poterono evitare di cadere sotto la scimitarra di quei barbari. E non v'ha dubbio che la dominazione 3i Carlo Magno apjiortò anche vantaggio al Piemonte riguardo alla sua coltura, poiché chi potrà disconoscere, che le dieci mila scuole da lui istituite nel vasto suo impero presso alle abbadie e agli episcopii, e l'accademia palatina non eccitassero almeno emulazione .' (i). Delle scuole di Torino poi rimane memoria, che ad esse erano chiamati i giovani di tutti i comitati all'intorno, e sino quelli del ligure litorale. Del resto gli uomini grandi che ne uscirono, e posti a capo per esempio della vecchia e della nuova Corbia, erano là come sentinelle avanzate a far argine alla irrompente barbarie straniera, e custodi della interna na- scente civiltà. Ivi dai mano.scritti custoditi e moltiplicali dalla mano del paziente monaco, e la notizia e l'ardore per le antiche discipline rinasceva, e il Trh'ium e il Quadvmum si allargarono; e qualche brano d'Ari- stotele ba.stava a dar luogo a battaglie dialettiche sottili e profonde, per cui dietro ari uno Scoto Erigena o ad un Abelardo a cento e a mille correva la gioventù ansiosa. Lento però tra noi fu il passo all'incremento delle ottime disci- pline. Nello stesso secolo decimo si dormì ancora di profondo sonno m fatto d'istruzione, ma nel seguente, in quella città tutta romana, Aosta, nasceva S. Anselmo, che fatti i suoi studi nel monastero di Bec in Nor- j (1) Nel li9 fece questo capitolare « Sacerdoti, monaci e canonici facciano scuola di lettura ai fanciulli, e per tutti gli episcopii e i monasteri s'insegnino 1 salmi, le note, il cauto, il computo e la ijrammatica, e s'abbiano libri ratlolici ben emendati ». nr GAUDENZIO «.LARETTA. 26 inandia , a|)prendeva le. scienze da Lanlraiico , riputato il più solenne maestro di (jiiell'età, e meritava poi di succedergli nella sedia arcive- scovile di Canlorheri. Fu Anselmo foinito di grande ingegno, e ster- minato è il numero delie opere filosoliclie e teologiche da lui composte. Alla fama raggiunse nel secolo XIII Arrigo di Susa , creduto di quella nobile fiamiglia de Bartolomei, che a Parigi insegnò con grande applauso il diritto ecclesiastico, e nell'isola Britannica fu altamente onorato presso la corte di Enrico III, divenuto poi vescovo d'Ostia, donde il suo nome d'Ostiense, in fine innalzalo alla dignità cardinalizia; e Dante usò il nome dellOsticnse per simboleggiare lo studio di tutta quanta la giurispru- denza (i). Mii se di uomini d'ingegno singolare il Piemonte non mai pati difetto . e per rendere meno arida questa materia userò di quando in quando rammentarli, non ehbe a quei di storico alcuno. Bensì, in ditetto di storici, cominciò a fornir (pialclie cronista, che in tanta povertà ci potè tramandare documenti pregevoli . i quali però ci rivelano l'esiguità della critica loro, e Ira le insigni favole addensate lasciano scorgere il suggello dei tempi, che di continuo ci si appalesa dai loro dettati: non uno di essi che abbia scritto in luono alquanto elevato, e siasi districato dalle minutezze. 1". duole il dover ammettere, che già da que- st'epoca si comincia a star male ove si voglia tentare un paragone coi cronisti di altri paesi. Infatti noi non ebbimo né un Gregorio di Tours, né un Orderico Vitale inglese ed altri simili. Sino dal secolo XI però fioriva il cronografo della cennata budia della jNovalesa. che ci die le più antiche notizie della patria storia e dei primi dominatori di codeste regioni, dopo la decadenza dei Carolingi; Guglielmo della Chiusa, descrivendoci la vita del secondo abate di S. Michele, illustrò pur le gesta dei progenitori della celebre contessa Adelaide di Susa ; e cosi egualmente i cronisti del cistercense cenobio di Rivalla, di Pedona , e di Friittuaria e' intrattennero per poco sulle vicende di quei tempi. Nelle età più recenti compaiono gli scrittori, che sebben disadorni, furono i fondamenti delle storie nostre. E nella guisa che molte città italiane noverarono il loro cronista, fra cui Ricobaldo di Ferrara, che primo tentò di scrivere una storia universale , se pur non è apocrifa , Galvano Fiamma per Milano, Saba Malaspina per Genova, il CafTaro, il Mario da Marino. Enrico Guasco e gli scrittori delle famiglie Stella, (I Paiaiiiso. Canto XII.. 83. 268 SUI PRINCIPALI STORKI PIEMONTESI Senareya e Casoni , e perchè saviamente quella insigne lepuhblica an- nualmente usava presentare ai consoli la cronaca dei (atti di quell'anno, che approvata riponevasi negli archivii ; cosi furonvi , conio dissi, nel nostro Piemonte i cronisti. Onorevole è la serie di (juesli scrittori vissuti nei sernli XI\ e XV. Oggerio Alfieri, nobile astigiano, riferì i fasti dell'illustre sua patria, registrando i privilegi che eranle stati conceduti dagli imperatori, cogli islrumenti di leghe, paci, tregue e convenzioni fatte da quei cittadini mentre vivevano a comune. Messuno può disconoscere l'importanza di questo lavoro, poiché ben si sa come il Comune d'Asti fu, alcuni secoli dopo il mille, il più possente e ricco del Piemonte, ed ottenne dagli imperatori privilegi amplissimi e molti trattati di pace, alleanza e com- mercio, molti contralti d'acquisto di giurisdizioni e feudi conchiusi coi vicini. E non esiguo vanto dell'Alfieri è di aver dato fra noi il primo esempio di storia, come suolsi accennare, documentata. I Ventura, Guglielmo e Secondino, anche astigiani, scrissero in me- moriali le cose della patria loro, e si ti'asmisero quel nobile retaggio di padre in figlio. Pietro Azario, notaio novarese, intorno al i3.55 da Matteo Visconti, signore di Milano, mandato a Bergamo, e quindi a Bologna per sopraintendere agli stipendi militari, e nel [36 2 giudice di Tortona, scrisse dal 1260 al i362 la sua Cronaca latina, che vide la prima volta la luce a Leida (i), di cui se barbaro talora è lo stile, riceve però molta grazia da una grande naturalezza , e giova asSai a metterci sott'oc- chio l'indole del secolo in cui fu scritta. Lo stesso scrisse anco un'ope- retta De bello Canapiciano, che racchiude interessanti notizie sul Canavese. .\ntonio Astesano, nato nel i:\v2 in Villanova d'Asti, da padre che cogli uffizii di segretario del comune, con insegnar la grammatica, e colla professione di agrimensore guadagnando assai sottilmente, reggeva la sua vita, come poteva il meglio, udì a Pavia le lezioni di Matteo Veglio e Lorenzo Valla, ed a Genova conciasse amicizia con Bartolomeo Guasco, maestro di grammatica. Ancor egli scrisse una cronaca astigiana in versi elegiaci, sotto il titolo De vaiietate fortunae et de vita sua, che il Mu- ratori pubblicò nella sol parte , che invida mano avevagli comunicato , rimanendo allora medita la parte di fogli che furono lacerati. Questo lavoro porta ugualmente 1 impronta dei tempi, ma sebbene sfornilo d'ele- (Ij Thesaurus. .'Inliquit. et hislor. Ilaliae. Lugd. Balav. HSS. T. IX. Pars VI. DI GAUDENZIO CLARETTA. 269 giiiiza, spira però un certo naturale candore, che rifa il lettore della noia di dover consultare cose per sé poco impoitanti. Ometto la citazione di altri scrittori minori e cronisti, i quali tutti nei loro errori, nei loro delirii e difetti non si devono rigettare, perchè ci somministrano viva immagine delTetà e dei costumi, la iHìir et visiteì' les livì'es » . Se non col titolo d'istoriografo. è por») il Dnpin menzionato nei pochi documenti che ne rimangono , con equivalente denominazione , non una storia, ma solo una cronaca avendogli i nostri principi commesso di scri- vere. La vedova duchessa adunque il quattordici giugno del 147'' com- metteva al tesoriere generale Alessandro Richardon ili pagare cinque fiorini di piccol peso, a conto e.xpensarum factaì-unt et Jiendarwii usque quo eidem condignam feeerimus assignacionem de dictis suis expensis (3). Il Dupin non potè essere così presto .soddisfatto, come di frequente capitava in tempi di amministrazione sregolatissima. Ma non tardò in breve ad e.ssere eletto segretario ducale, venendogli nel i477 accordato lamino stipendio di centocinquanta fioiini di picciol peso, come ricavasi dall or- dine della Camera dei conti mandato al tesoriere Richardon, nel qual documento si attribuiscono al Dupin le qualità «li ducalis secretarii et cronicarum compositor-is. Queste cronache non sono che un monco lavoro, il quale conqirende il solo regno di Amedeo VII . e parte di quello di Amedeo VITI ; e (1) Coloro fra y}i storici ch'ebbero la qualità dì ."iloriografì , saranno Imlicjtti con rarattore spp- ciale, comp si comincia ad usare col ltii|]in. (2) Notizie ili Pietro du Più. (3) Compie de ìa trésoreiie de Savoie, 1 '|7(J-I i"7, arcUivi camerali. IJI GAUDENZIO CLARETTA. 2^3 che ne sia sLiilo :iulore il Dupin, scorgesi aperlamenle da queste parole. Foidan l'erlnei da Più cy androit en regislrer listoire de VII Amé quc fils du dessasdit Rouge et siicredant. a icellut fen sans varier en nomhre Xf I conile de Savoie. Fu probabiinieule aticlie cronista ed isloriograio Sinforiano Champier, auLorr delle grandi cronache di Savoia e Piemonte, quah egli atrenna di avere composte per invito di Luigia di Savoia madre di Francesco I, e duchessa di Angouléme, donna di elevati) ingegno e sorprendente attività. Nato il Champier nel 1472 a S. Siiiloriano tra Ccirsonai e Corseilles nel Gencvesp. studiò a Parigi ed a Mòinpellier la medicina; e nel iSog venne in Italia, insieme al duca Antonio di Lorena, mentre Ludovico XII guerreggiava in queste contrade. Scrisse egli le cronache della Casa di Savoia, di comandamento della duchessa di Angouléme, e pubhlicoUe a J'arigi nel i5i5, anno in cui per lappunlo il figlio di quella principessa, essendo salito sul trono di Francia, essa desiderava che pilli conte t'ossero le glorie de' suoi progenitori. 11 Champier compilò la sua opera sulle cronache più antiche, ma vi ag- giunse assai del suo sul principio specialmente e sul line, unitamente al supplemento, che contiene un compendio delle vite dei principi, i quali regnarono dopo il conte Amedeo VII. E già alquanto si allarga il campo di scritti di tal genere. Omettendo Gioth-edo Della (/hiesa , che a metà incirca del .secolo XV scrisse le cronachi' di Saluzzo , a cui accennerò nel parlare della benemerita sua famiglia, il savoiardo Guglielmo Fichet, nativo del Petit-Bornaud. nel Faucisn\ . dottor della Sorbona, e rettore dell'Università di Parigi, dettava intorno al 1470 una cronaca istorica della nostra Dinastia, che dedicò al duca Amedeo IX, citala dal Pingone e da monsignor Della Chiesa. Di questo scrittore discorre con elogio il Guichenon, ma dove sia la sua cronaca non si sa; esiste bensì una sua bella lettera pubblicata, e da lui scritta nel citato anno al lodato duca Amedeo, ed ai suoi fratelli per esortarli alla guerra contro il Turco, nell' intento di ricuperare i regni di Cipro, di Gerusalemme ed Acaia. Nell'antiquaria acquistossi un nome Gaudenzio Morula, che nell'opera De Galloruin Cìsalpinorum antiquUate ac origine .sorpassò nell'arte critica quanti prima di lui avevano trattato quell'argomento. Nò qui vuoisi omettere, che sul finir dello stesso se- colo XV r invenzione della stampa, la quale non tardi propagossi nel Pie- monte, prima a Savigliano, poi a Moiidov'i e Torino, e l'arrivo per l' Italia 2'-G SUI PRINCIPALI STORICI PII.MONTESl (Il molti Greci, che t'uggivano dalle rovine della loro pallia , giovarono assai a j)iej)arare il buon gusto del cinquecento, ed a spargere alcun poco i liuni «Ielle lettere e delle scienze più gravi, ancorché fra noi, secondo il solito, i tempi non trascorressero trojjpo propizii. Né mancarono a quei di buoni grammatici; persino Govone, terra mediocre presso Alba, aveva per maestro di scuola Gabriele Carlo, a cui il Calderari nel codice di Venturino de' Priori aveva scritto una lunga elegia, chiamandolo Phoebi milite potentissimo. A Vide, piccola terra della provincia di Pinerulo, nel i5t i, teneva scuola Leonardo Aloa di Murello, come ci apprende una sua lettera Claiissimo Jieroi Johanni Phelippo Solavo ex dominis Monastei'oUi, che ha la data: ex nostra Academia Vercellaium sexto kalendas julias millesimo cjuingen- tesimo undecimu. Impressum Taurini pei- magislrum Franciscum de Silva. Il vercellese Giovanni Ranzo, che fu ambasciatore di Amedeo IX e di Carlo I, nel i'\^'j aveva scritto Chronica Italiae nsqiie ad sua tempora- Ebbe fama a quei giorni di valoroso umanista e poeta, Ubertino Clerico di Crescentino, stato professore d'eloquenza a Pavia, poi di rettorica a Mi- lano, e che quindi apri scuola a Casale, dizione di Monferrato, l suoi conunenti sulle lettere famigliari, sui libri degli ufizii di Cicerone, sulle satire di Giovenale , sulle metamorlòsi di Ovidio riscossero molti elogi, come altresì i suoi carmi, distinti per dottrina e profonda erudizione. Dal Clerico non vuol essere disgiunto Pietro Cara da S. Germano nel Vercellese , che fu professore di leggi a Pavia, ove attirò gran concorso di discepoli e di ammiratori, che convenivano non solo d'Italia, ma da Francia, dall'Inghilterra persino e dalla Spagna, secondo la testimonianza dello stesso Clerico. Benché distolto da gravi negozii affidatigli da' suoi principi, e dagli uffjzii di senatore, prima a Torino, poi a Milano, trovò tempo di coltivar le lettere; e le sue orazioni stampate a Torino lo dimostrano, come eccel- lente statista, cosi scrittor terso ed elegante. Fra queste ve V Epitalamiuni per Petrum Carani adolescentem conipositum in ìiuptiis ill."^' Phillibcrti ducis Sabandiae et Blanchae Mariae Galeatii Mariae Mediolani ducisjiliae. Accenno pure s\Y Epistola undecima supei- controversiis exactis Inter Ge- nuenses et Nicienses de anno 1 49 1 ; alla lettera : Ad ili.""' divumque prin- cìpem Carolum Sabandiae dticem de jratris obitu. Kul. sextiles, i485 (i). (1) Credo bene di avvertire, che ben altro essendo lo scopo di questo lavoro die di somministrare notizie bibliografiche, non accenaerò per conseguenza fuorché a <|ucf;li scrini i quali servano a dilu- cidare la materia esposta, omettendo le singole opere 4legli autori i' fia i()>l(iio rlcoi.ien) sulo i principali. DI GAUDENZIO CLAllETTA. 2'7'y Fiorirono intorno a quei tempi Domenico Nano d'Alba, dei signori di Mirabello, autore della Poliantea; Venturino dei Priori, pur albesano, poeta non volgare, e maestro del suo concittadino Paolo Cerato, che non ebbe rivali tra gli altri cultori della poesia latina in Piemonte; Galeotto del Carretto, a cui compete il merito di avere scritto nel rSoa la prima trai^edia italiana, la Sofo nisba , dedicata ad Isabella marchesa di Mantova. Ma qui piuttosto lo ricordo , perchè pubblicò altresì in ottava rima la cronaca del Monferrato e dei marchesi del Carretto; pregevole per la varietà, non per lo stile rozzo in cui fu scritta, né per imparzialità. Allo spuntar del cinquecento, l'età più propizia per le nostre lettere, noi veggiamo ben altri risultati. Che se ancor qui il Piemonte deve ri- manere indietro nei paragoni, e specialmente colla vicina Toscana, dove Guicciardini, Machiavelli, Segni, Nardi e "Varchi vogliono essere ritenuti altrettanti principi fra gli scrittori delle cose municipali, nobili esempi ciò non ostante ci porge un paese, se meno macchiato da mostruosa cor- ruzione di costumi, più sconvolto dalle lagrimevoli calamità, che lo spro- fondarono in quello squallore, da cui doveva più tardi rilevarlo la mente savia e potentemente operatrice del secondo fondatore della monarchia, che come studiò a renderla una e forte, così scienze ed arti volle as- sociate a coronare i suoi grandi concetti politici. Regnando Carlo III fiorirono molti distinti personaggi , che non poco si distinsero nelle professioni esercitate. Accenno a Pietro Gazino, capitano de' cavalli di quel duca, che trovatosi presente a molte belliche fazioni, e ferito mortalmente presso al castello di Masino, scrisse le memorie dei suoi fatti militari, andate però miseramente perdute (i); a Marco Guazzo da Trino, che a quei giorni scrisse la storia di Carlo Vili nella con- quista di Napoli ; a Giacomo Dosi di Candelo , autore della relazione della prigionia seguita in Biella del vescovo di Vercelli Giovanni Fieschi; ed a Ludovico Tizzone, signor di Crescentino, di cui nella biblioteca nazionale di Torino serbasi un codice ins., che contiene alcuni suoi lavori di storia e biografia patria. Ma per la natura di questo lavoro ricorderò specialmente gli storici. Pietro Lambert, signor della Croix , divenuto primo presidente della Ca- mera dei conti di Savoia, scrisse i commentarii del travagliatissimo regno (1) DegBEGOBI. Storia della vercellese letteratura, I, p. 14). 3^8 sur PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI di Carlo. Godendo egli la confidenza di questo sventurato principe, che si ebbe a lodare assai della sua intelligenza, destrezza e zelo singolare , dimostrati nel maneggio di rilevanti negoziazioni e gravi faccende di Stato, in cui sceneggiavano i papi Giulio II e Leone X, Massimiliano e Carlo ^ , Ludovico XII p Francesco I ; era ovvio che iiissun altro meglio di lui poteva raccontare con molta abilità i particolari de" negoziati, a cui aveva preso parte, e descrivere con vivacità e veridicità di colori le fazioni guer- resche, alle quali si trovò presente. Già il suo stile si manifesta non dispregevole, nr [)rivo talora di certa festività, al che devesi aggiungere una tal quale critica, con cui dimostra di comprendere l'avviamento generale dei fatti e subodorarne il vero. I. quando le tenebre addensano qualche nebbia su certi negozii, non si può disconoscergli il merito di avere scritto la storia coli accortezza propria di chi maneggia le pubbliche faccende. I commentari del Lamlicrt cominciano dal i5oi e fanno capo al io3c), ed erra il Rossotti, che nel suo Sillabo scrisse: avere il Lambert composto altri commentari citati dal Pingone, e che sono questi. Scrisse pure sulla storia piemontese in quei tempi, Giovenale d Acquino, dal 1475 al 1 5 i5, autore molto lodato dal Guichenon per la sua schiettezza. La cronaca delle cose del Piemonte dal i23o al i566 scritta in latino da Bartolomeo Miolo di Lombriasco con sincerità e giudizio, non è senza pregio, e può paragonarsi all'opera del Lambert, poiché anche il Miolo fu col presidente Balbo mandato dal duca Carlo III in missione nel i536, mentre era a NapoU , per dargli avviso dell'invasione del Piemonte per opera dei Francesi. Prima de' suoi tempi quest'autore poco si stende nei racc.). Questo documento ci apprende altresì , che, oltre al leggere grammatica, ebbe anche l'onore di venire proposto al grado di Rettore di quello stesso ginnasio (3), e di essere stato incari- rato di missione alla corte di Roma presso il celebre pontefice Leone X (4). Sin dal i5o8 aveva egli pubblicato in Torino i Commenlarii sugli uo- mini illustri di Cornelio Nipote, da lui intitolati l^^eneramlo ac icvcren- dissimo domino Àmadeo Romaguuno episcopo Montisregaleìisi et ducali cancellano d igni ss imo. In essi egli si sottoscriveva Dominicus Macn- neus publicus Taurini orator, scusandosi di avere festivamente atteso a quel lavoro, per essere di continuo distolto da varie occupazioni pubbliche e private. Non essendo mio assunto di qui accennare a tutti i suoi lavori, farò menzione almeno dei principali, sia editi che manoscritti, i quali in parte si conservano presso gli aichivi di Stato. Degli inediti accenno alle antichità di Savoia comprese in dieci libri; alla Congratidatio in geiielhliacon ducalis Jìlii Ludovici Philippi, che il Maccaneo intitolò al suo collega Giovanni Bremio e che così comincia : (( In Frondisticio nostro appendices anliquitatis Sabaudianae epistographis » conscripsi capitibus, ubi occurrit illud praecipuum de secundo filio Ludo- « vico, ab illustrissimis ducibus Sabaudiae enato, tunc gratulantissimis gra- n tulantior genethliacon ducalis filii prae letitia repente cecini: in qua cum » celebrato philosoplu) praeter (|unn) quod illud mente revolvi. me omni- (1) Documento N. 1. (2) Libravil magis vigore et per liUeruin prelibali illustrissimi domini ducis in ipsius rcddilam ol plenius designalam inaj-istro Machanco ledenti grammalicani in civiialc Tliaurini videliccl suhscri- ptos ducentum llorenos Sahaudiae parvi ponderis et lioe prò slipendiis suis secondi anni racieodi cronicas Sabaudiae inclite domus Sabaudiae infra Ircs annos. Anliivi camerali. Tesoreria >. 171. F. 641-42. (3) Libravit vigore et per littcram domini inTerius desiijnalam maj^islro Machaneo reclori srlmlirnm Taurini videlicet subscriplos ccntum llorenos Sabandie p. p. i|uos prcfalus illuslrissimus dominus noster dux eidem donavil de et super composicinnc cum eodem illuslrissimo cloniinn nostro duce. ili. F. 317. (4) Libravil magis vigore et per littcraui domini inlerius redditam el dcsignatam magislro Maclianeo Tidelicet subscriplos dccem scutos auri solis quos prcfalus dominus (\»\ ipsius certa scieutia largitus est dona\ilquc eìdem magislro Macbaneo prò eundo domam ci recipiondcj al> co <|iiilanciam de rc- ccpta corumdem deocm sculorum solis rum diclo mandalo litlerac. 111. DI GAUDENZIO CI.ARETTA. 28 I » poLeutissiiiio Deo iiilenninas agere gralias, quia Machaneum homunculum » suavem latimiiu pallia Mcdiolanensem^ consimili quoque preconio, cuni » Marcho Tullio, parcnlo eloquii (cujiis, vestigia seinper adoro) merito glo- » riabor, naturam meam magis ad alia, «juani ad arma nalam, soleoque » pentanietroii ovidianum iiiuLaie. Bella gerani ahi sed Alachaneus aniet par » laliim culli (jCeioiiis lioroscopo conligil, qui licei poeticani a primo » aggrcssus Inerii aratuin graecum exametro latinum fuerit, tanien milii » V idetur numquain furore divino fores musariun pertraclasse, irrisus maxime )) in eo versu Roma patrem patiiae Ciceronem libera dixil. Ego quoque » ingenium nieum faleur, magia ad personam, quam ad censum natum n. Conservaiisi pur manoscritti il Breviai-luni sabaiidianae aiitiquitatis ; il breviario o sommario degli illustrissimi duchi di Savoia; De adventu sere- nissimi Iinneraloris Caroli in fialiain (imi. i^ag; Safjrae compositae ab esresio Dominico Machanco Mediolancnsi de Bellis historico ducali el lectori in publico studio, Joauiies Ponnnicus de Bellis filius praedicli hoc exannùl ile anno MDXXf^'I/l die prima mail regnante illustrissimo Karolo TX duce, cfuem omnipolens et sempite rnus Deus ad Nestoreos aniios perducat. Contiene satire coiilm i laureali che la pretendono a dottore in ogni materia; consigli e discorsi ai figli piìi giovani Stefano e Gian Dome- nico, al medico e ducal consigliero Pietro Bairo, ai colleghi Giovanni Bremio (i). a Giorgio Carrara, sulla castità alla figlia Lucrezia, a Mel- chior Scaravelli, ed altri contro gli infingardi e gli avari. Accennisi ancora ad un sommario composto « da lo egregio Dominico Maccaneo milanese De Bellis ducale el lectore in publico studio a lo inclito et prudentissimo Carlo duca nono di Savoia Dominico ÌNIachaneo milanese salute sinceramente cum felicità perpetua ». Di questo sommario che reca la vita de'primi conti educhi di Savoia darò in nota la inedita supplica (:?). (l) Questo Ginvaniii Bremio, sebbeu correttore della stamperia di Pietro e Paolo Porro, di Torino, era pur non inelegante poeta, come risulta dalla raccolta delle Orazioni e delle Epistole di Pietro Cara, ove lianuosi alcuni suoi versi elegiaci. (3) Magnanimo e moderatissimo principe mi kuniilc e subiecto servilor de la excellentia e signoria vostra mando e dono questa petita breve e sommaria opera a quella, pregando si degni acceptare e leggere e conservare tal servitio estimando lo bonu auimo o coragio del scri\ente come il precio de la minima cosa perchè ripensandomi la impresa per liberalità vostra e singoiar gratia a me con- cessa benché indigno e minimo di tulli li vostri litterati pensionarli me parve far el mio debito farvi intender secundo che agio ordinato le croniche latine, e in prima li e la descriplione del Piemonte e la desnriptiono di tutta la Sauoja, el anclie el snmmario de li dui libri de sexdecim illustri conti Serie II. Tom. XXX. 36 aSa SUI PRINCIPALI storici piemontesi Il lavoro principale del Maccaneu fu la compilazione delle cronache di Savoia, delle tjuali devonsi distinguere due parti; la prima che giugne sino al duca Amedeo Vili, e che devesi ritenere una sterile Nersione e com- pendio, senza molta critica, in tessuto di non poche tavole ; la seconda che da Amedeo Vili arriva a Carlo IH, e che vuol essere riputata migliore e pili accurata. Come autore non insensibile al titolo di purgato scrittore, il Maccaneo che si specchiava in Tito Livio, giudicò indegno della romana magnilo- quenza certi particolari, che pur avrebbero lecato molta luce su quei fatti e tempi, né seppe essere superiore ad un sistema pui- censurabile, da lui adottato, di volei' volgere in latino i nomi di luoghi , persone ed ulficii con pregiudizio altresì della chiarezza, mentre iiissuno ignora come 1 istoria, affinchè presenti facili dipinture delle cose, vuole essere scritta nella lingua adoperata nel tempo in cui esse seguirono. Fatta però astrazione da questi nei, molti pregi si commendano nel Maccaneo, che dotato di un fino acume, tenne un criterio assai logico nell'apprezzamento di certi fatti. Discorrendo, p. e., di Amedeo IX, per la specchiata sua virtù aimoverato poi Ira beati, egli professò cjuesto giudizio riguardo ai miracoli che si sono attribuiti a quel principe. Quihus senseiiin, relicturus iti medio qiuie in urcìiana Dei majestate lateiit. Con eleganza ed esattezza descrisse molti avvenimenti del giorno, e par- ticolari relativi alle nozze di Ludovico di Savoia con Carlotta di Cipro di Savoia, ma la consacratione e inscriplionp della \ita e yesta de li sexdpcim colili e inlilulata •volendo la signoria vostra al sanctissimo nostro papa Leone dccimosccundo elle raisiando a Roma promessa di portar o vero di mandar a la sanctilà sua e la vita de li illustri odo duca predecessori nostri meritamente escripta a lo amantissimo e potentissimo re di Fransa ncpote nostro corno gene- rosamente nascente per linea materna da la honestissima el excelentissima vostra sorella de lo anli- quissimo sangue de Saxonia coma me a conseglato e coraprobalo lo reverendo ambasciatore de Fransa. Pertanto perchè ritrovo nulla esser dilVerenlia in prononciare e rilVcrirc li consegli e li latti de li mago^iori in pace e in guerra in qualonchc lingua si uoglia purché le scntentie sien ben ordinate e cognoselle la lingua francesca esser nostra naturai e usala per meglio intendere ho fato in tal parlamento per uno mio amico et familiare tradurre questi pochi lioreli ricolli brevamenle nel jar- dino amplissimo ne la historia de li vostri magiorl , non perchè me dubita de la sapientia vnslra, ma perchè la uedo occupalissima in tante grande faccende che li fano a refrigerio e delectatione e memoria. Incomansaremo aduncha a lo honor de la individua Trinità e de la sanctissima Vergine Maria e de sancto Maurilio l'anello del quale tuli li conti e duci di Savoia anno per hcredilà di vestirselo per segno primario e manifestissimo della signoria come apertamente ne le croniche se pò legcro specialmente de lo vostro illustre figlio Ludovico principe di Piemonte, per sno esemplo in prima computando li ani da lo principio de la casa vostra ritrovo del tempo del primo irnperalore de Sa- xouiu Othoue DI GAUDENZIO CLARETTA. 28.3 cri ;i quelle di Kiliberta con Giuliano de' Medici, ed intorno alla vita del l)iioi) duca (]ar!o III. Come lombardo, non lasciò al certo di mostrare alquanto di parzialità nel racconto delle contese fra i nostri duchi e quelli di Milano della slir[)ft Sforzesca; ed in tal suo giudizio, alla dimestichezza delle aule palatine, prevalse il sentimento di patria. Merito poi non esiguo del Maccaneo fu di essere stato il primo a riferire nel i5o8 undici iscri- zioni .sparse per Torino, che pubblicò nella vita di .Annibale per Aurelio Vittore (i). De' scritti suoi editi, s' hanno la corografia del Iago Verbano, che si pubblicò nel 1490 a Milano da Ulrico Seinzenzeller ; e V Epitome rrrnm (ìiicum SahauAnriim, che venne inserito nei Monumenta Historiae patviae. Prosegui il nostro Maccaneo a professar le lettere all'Università , sino a che secondollo la salute, ma (juesta scapitando nell'innoltrarsi degli anni, chiese anzitutto un coadiutore, e poscia di venire surrogato nella cattedra dal suo figlio Domenico a codeste supplicazioni acconsentiva Carlo III con lettere date a Ciamberi il dieci maggio del 10:29, '^ ^1"^^' contengono i meritati elogi a lui, che viene i:\\\mwaU^ vethorem et historicum facun- dissimiim, qui prnpterea suis exigetrtibiis meritis publicae lectioiii per illii- strissimos predecessores nnstros et tios jam prò triginta annos et ultra revolutos prepositus fuerat pariter et pei- iios ad contexendam nostrae Sabaudiae domus Instar iam deputalus, in qiiihus summam laiulem et glo- riosum nonien conseculus est (2). E veramente era egli all'estremo, poiché morivasi in quell'anno stesso. Le sue spoglie furono deposte nella chiesa di San Domenico innanzi alla cappella del Rosario, dove a sua memoria erige vasi una lapide con epigrafe (3). Elisina, verosimilmente della famiglia dei Cara, gh generò Gaspare, che a suo esempio fu anche notaio , ma non letterato , inquantochc nel suo testamento del ■?.?> settembre iSgS, da me rinvenuto, non fa al certo spicco di molto gusto nello scrivere, e la sua (pialità di notaio, è spiegata da lui stesso in queste parole <( Io Gaspare Belli cittadino et nodaro pu- (I) Pbomis , Storia di Torino antica (aella Prefazione). (9) Documenlo >". II. (3) Taurini visi studiosus in urbe professor Musaruin et raorum vix Macaneus rrani. Cara milii coniux fuit Elisina pudica Vivens focmineum diixil in astra Hecus. iSA SUI PRINCIPALI STORK.I PIEMONTESI blico, regio e ducale di Savoia , figliolo (^/e/yw wei^^e/- Gio. Donienicu Relli (letto Machunen anco cittadino et notavo di lavino. Ma se egli era figlio della pudica Elisina, non più tale doveva essere la sua prima consorte, Catlerina, della famiglia Grandi di Avigliana , di cui molto si lagnava nell'indicato suo testamento. La seconda consorte pro- creavagli un figlio, Giovanni , che a quei dì era ancor pupillo, mentre egli già aveva sessantaqualtro anni, e che forse continuò la linea di questa famiglia, inquantochè Giulio Cesare, figlio di primo letto, erasi fatto gesuita. Gaspare Maccaneo ascrilto alla famosa Compagnia di S. Paolo, era molto sollecito del bene di questo sodalizio, e mentre consigliava al figliuolo di farvisi pure iscrivere, costituiva quell'Opera persino sua erede, verifican- dosi la moi'te senza discendenti di quel suo figlio. Se le disavventure , come dissi , si addensarono principalmente sul regno di Carlo IH, notisi però che la memoria sua degna è d'encomio presso i posteri pel patrocinio con cui, malgrado tempi così infelici, volle onorate le lettere; e molto ei stimò ed onorò Claudio di Seyssel, che fu professore alla nostra Università, referendario del Re di Francia Ludo- vico XII, arcivescovo di Torino e cancelliere di Francia, il primo che scrivesse la lingua francese con ordine e purità, e che traducesse in buona lingua Tucidide ; Giacomo Pellettier d'Annecy, matematico e letterato, le cui opere furono in fama di riputazione ai suoi tempi, e primo a pub- blicare le regole dell'ortografia francese; Gian Francesco e Niccolò Balbo; Giovanni Francesco Porpoi'ato e Giovanni Nevizzano. Che Carlo fosse amico de' letterati lo attesta anche il Maccaneo , e la bella ed altiera sua consorte, Beatrice di Portogallo, lagunò nel castello di Vercelli una libreria, di cui conservasi il catalogo negli archivi camerali. Ed ecco compiuta la narrazione della prima parte del presente lavoro, che ha compreso tempi, in cui il nostro paese, povero ed abbietto fii travagliato da lunghe guerre, lacerato dalle fazioni, e minacciato dalle eresie, che dal Genevese e dal Delfinato erano penetrate in Italia. Migliori tempi or si apprestano, vuoi per le condizioni politiche, vuoi per quelle letterarie e storiche; cominciando in essi la cronologia e la geografia a farsi più conosciute, di quel che non lo erano addietro, e per esse camminar la storia con pie .sicuro, ed essere districata dal disor- dine, dalle pastoie e confusioni precedenti. E se merito di Giuseppe Sca- ligero, italiano d'urigine, ma nato in Francia, fu di aver ridotto a più sicuri principii la prima di queste, Iacopo Gastaldi, nativo di Vill:ifranca DI GAUDENZIO CLARETTA. 285 di Piemonte, sali in grande riputazione pei suoi lavori di cosmografia e geografia, fra cui la Mappa niumli, che vide la luce in Venezia nel 1 567 ed i commenti alla geografia di Tolomeo. Sul regno di Carlo III e sulla sua persona scrissero. Bernardino Par- pnglia, nella sua orazione a Leon X; Garcia Lascado. autore della Fi'. Accenna alle varie ambasciate avute dal lìoncas in Francia. Germania e Spagna « all'umanità del Cristia- nissimo nelTaverlo accollo alla sua regia mensa, e colmato di mille altre grazie non ordinarie, ne 202 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI i54o, "iorno in cui Taceva la sua entrata solenne Carlo V, e tolse di- mora nel collegio tli S. Michele, proseguendo però gli studi a quello di S, Barba, dov'ebbe a precettori personaggi vaienti, da cui molto apprese, scrivendo egli stesso di aver colà menato vita molto regolare e pia. Riaccesasi però la guerra , e pericoloso essendo colà il soggiorno , il dieci settembre del i544 e' sen fuggì, e pedestre giunse il 26 di quel mese a Pingone, dove imprese anche a dar assetto ai domestici negozi, ed a quei dei fratelli e delle sorelle, dei quali Antonio era stato intorno a quei giorni fatto cavaliere di Rodi, e Maddalena ernsi disposata a Claudio Manuel, gentiluomo di Aiguebelle. Sebben bersagliata dovesse essere la sua educazione, per gH avvenimenti pubblici e privati, tuttavia vivo era in lui il desiderio di apprendere e proseguire negU studi, onde poten- dolo, recavasi alle lezioni di Lazzaro Bonamico da Bassano. Neil inlento di perfezionarsi e compiere gU studi di leggi, si stabilì nel i5/(7 a Padova, dove in quell'Università studiò sotto la disciplina di Girolamo Gagnolo e Geronimo Tornielli: e certo che die tosto saggio di non comune capa- cità, poiché già nell'ottobre ebbe l'incarico di far l'elogio delle leggi nella pubblica chiesa di Padova, innanzi a gran concorso tli cardinali, principi ed altri insigni personaggi; e quell'orazione giudicala degna della stampa, fu impressa a centinaia di esemplari. Ma il mite clima d'Italia, il contatto con tanti, e fra discepoli di vario sentire ed educazione, il ge- nere di vita libera, facile a radicare men sani principii nei giovani, tanto più quando lontani dalla vigile sorveglianza de' genitori, influirono sulla sua condotta, ed amoreggiata una giovine, per nome Lucia Sensia, n'ebbe due figli naturali. Luigi e Lucrezia, com'egli stesso candidamente con- fessa nell'accennata autobiografia ; visse più a lungo il primo, ma non giunse la seconda ad un anno solo, e quella morte ei pianse con epigrammi e sonetti, come altresì in versi ricordò altra Lucia amata pudicamente , onde questi secondi suoi componimenti meritarongli elogi da Bernardino Scar- done nel suo libro sulle antichità di Padova. Anche dai condiscepoli ebbe testimonianze di stima, essendo da loro stato eletto vice-rettore in assenza del rettore, Giacomo Solfo, piemontese. Né mancarongli più elevati atte- stati ancora, poiché lo si delegava dal doge Francesco Donato a Venezia, solile ad ogni sorta d'ambasciatori ». Quest'Angelo Ingegneri nel 1578 era a Torino ed Ila la grande benemerenza, che qui voglio ricordare, perchè forse a nessuna noia oggidì, di aver introdotto Tor- quato Tasso, che in abito dimesso era stalo ributtato dalle guardie ducali. .Ne discorreremo piir innanzi. Df GAUDENZIO CLARETTA. SqS in missione, indi il (ìoverno affidavagli la scuola delle matematiche con modesto assegno, e che iniziò con ima prolusione in lode di Giustiniano, qual durò lo spazio di due intiere ore. Finalmente, il primo di aprile del i55o, iii ricevuto dottore, avendo avuto a promotori Geronimo Gagnolo di Aercelli, Geronimo Tornielli di Novara, Marco Manina di Padova e Marcantonio Zababelli. Spinto dal desìo di percorrere l'Italia, madre di quelle leggi, in cui di tresco aveva ottenuto la laurea dottorale, sferrò da Venezia coi .savoiardi giureconsulti Luigi Milliel e Giovanni Rubai, coi quali visiiò Ravenna, Cesena, Rimini, Pesaro, Ancona e Loreto; poi per Recanate, rolenlino, Spoleto e Terni giimse a Roma il 20 di quello stesso mese, dove III ricevulo splendidamente dal vescovo di Nizza Francesco Lamberto, ed amorevolmente accollo dai cardinali Cesi, Rodolfo e Farnese- dal celebre storico Foglietta, e da Renato ToJosano di Aosta. Fece ritorno per Bologna, ed il aS luglio In a Vercelli, dove stavasene mesto Tinfelice e malaticcio duca di Savoia Carlo III, spogliato di quasi tutto lo Stato, ed a cui f\i presentato dal senatore Claudio Milliel, che lo accolse con molto favore, e lo trattenne in famigliari colloquii, discorrendo di suo padre, e glie ne die non dubbie prove in sull'istante, poiché morto a Torino, il principe di Melfi Gian Caracciolo, luogotenente generale del Piemonte (i), ed avendo il Re dato quell'ufficio al maresciallo di Brissac, il Duca, de- ciso di delegare un deputato a congralularsene, scelse a quell'ufficio il Pingone, che poco dopo fu anche invialo a Giorgio Costa della Trinità, governatore di Possano e generale delle milizie imperiali, con cui ebbe molte segrete conferenze. Ma nella china in cui volgevano gli alfari del Duca, questi era nell'impossibilità di dar un ufficio stabile al Pingone, il quale non era largo di censo; onde stimò meglio valicar le Alpi e far ritorno alla sua patria, come eseguì nell'ottobre dello stesso anno i55o. Ed il nove di novembre prestò il giuramento di avvocato al Senato di Ciamberì. Il sei aprile del seguente chiuse gli occhi alla madre sua, che religiosamente da figlio riconoscente fece seppellire alla sua cappella della Motta; e poco dopo perdette pure il suo fratello Antonio, cavaliere di Rodi. Nel i553 ottenne la nomina di giudice d'appello nel contado di Charneux e Utrières dalla vedova del conte della Chambre, quindi accettò la carica tli ufficiale dal vescovo di Grenoble, Lorenzo Allemando. Non (I) Duca di Venosa, gran senescalco di Napoli, mareiicìallo di Francia e luogotenente generale in Piemonte. Mori a Siisa di setlant'anni incirca. Traiano suo figlio era morto alla nota battaglia di Ceri-sole del 1544. 2q4 SUI PRINCIPALI S'IORU.l PIEMOM ESI dimenticò con questo la terra sua natale, di cui venne eletto primo sindaco, e sotto la sua amministrazione fu restaurato il palazzo municipale ; si ripa- rarono le strade; si moderò il prezzo delle derrate: ma poco ci rimase in quell'uffizio, e sul declinar del novembre prese congedo. iSeirapriic suc- cessivo il collegio degli avvocati lo elesse suo priore con buona provvigione, e fu in quel tempo che scrisse di avere nelle ore d'ozio cominciato a com- porre il suo lavoro sulle antichità degli Allobrogi, avendo 1 età di trenta anni. Fu pur allora che decise infine di stabilire definitivamente il suo stato, e fece rinunzia del suo beneficio d'Aiguebelie nelle mani di Amedeo di Vegy, riservando una pensione di 3 20 fiorini pel suo fratello Pier Maria. Nel dicembre del i554 il principe Giacomo di Savoia Nemours volle chiamarlo a far parte del suo consiglio d'Annecy, a luogo del collaterale Giacomo Cirisier. Ammalatosi seriamente nel 1 558 , fu a consolarlo al capezzale il suo figliuolo naturale Luigi, che era sino allora rimasto a Padova, ina consolazione maggiore ebbe, com'egli scrive, dalla visita della sua fidanzata futura. Finalmente piìi propizii giugnevano i tempi. Rassodatisi i negozi di Stato per la pace di Castel-Cambresis, e festeggiando provincie e popoli della monarchia sabauda la nuova della restituzione degli antichi dominii, egli stesso concertò il piano delle dimostrazioni pubbliche che doveva celebrare la sua patria. Nel i559 ricevette la nomina di presidente del Genevese, e nell'otlobre riverì il duca, che per la Borgogna faceva ritorno negli Stati, e da Pont d'Ains accompagnollo sino alle rive del Rodano, dove prese imbarco. Il duca di Nemours nel i56o lo delegò ambasciatore a Nizza ad Ema- nuele Filiberto, da cui fu onorevolmente accolto, e dal quale ottenne un privilegio per la stampa delle sue opere. E fu a Nizza che contrasse famigliarità coi distinti personaggi che corteggiavano il duca e la duchessa. Michele dell' Hópital , consigliere intimo della duchessa Margherita, Tommaso Langosco, cancelliere di Sa- voia, suo condiscepolo a Padova, Giacomo Solfo, presidente della Ca- mera, ed Onorato Drago, senatore. Ad Aix di Provenza ebbe in un albergo la buona ventura d'incontrare il famoso Michele Nostradamus, che gli profetizzò lieta fortuna e longevità sino ad ottantun anni, nel che vera- mente riusciva se non esatto, non troppo fallace indovino. Era un bell'au- gurio ad un giovine spo.so, poiché il 23 aprile il Pingonc ammogliavasi nel castello della bastia di Breuil con Filiberta di Brucile, figlia del cava- DI GAUDENZIO CI.ARETTA. aQO liei e Bertrando, signor de llle, de Cheneval de la Hàtie con soli 1200 scudi, apprezzandone molto le virtù, e peri:hè d'ordinario gli uomini di lettere non sono schiavi dell'iiileresse. Nel novemljre di quell anno slesso giugueva in Savoia l'ier Malliard di Bochet (i) per apportargli le patenti del quattro di quel mese, con cui Emanuele Filib?rto avevalo nominato consigliere e referendario di Savoia; e fu allora che dismessi gli uffici che leiieva dal duca di Nemours, da lui tolse congedo, ed abbandonò la Savoia. Invero nel iSGi s incamminò alla volta di \ ercelli per riverire Ema- nuele Filiberto, cui seguì a Crevacuorc ed in altre parli. Nel iSGa lo stesso duca volle incaricark) di porgere al duca di Nemours la notizia della nascita avvenuta a Rivoli di Carlo Emanuele I ; segno della stima in cui lenevalo il suo principe, e di cui poco tardò a dargliene prove, poiché mancato ai vivi nellottobre Iacopo Solfo, riformatore dell' Uni- versità^ egli fu designato a succedergli, e nel marzo del 1 563 gli conferì la signoria di Cusy colla dignità baronale. Nel iSGa dalla liberalità dello stesso duca ebbe il governo d'Ivrea. ¥a\ in premio de' suoi lavoii il nostro comune nel iSGg, imitando quanto l'aiini) innanzi aveva compiuto col ce- lebre ingegnere Francesco Pacchiotlo, conferivagli la cittadinanza torinese. Ma le cure dello Stato non lo distoglievano né da quelle della famiglia, né da quelle degli studi; ebbe molti figli, e varii nati a Torino nei pochi anni di sua dimora che ivi determinò slabile. Ed ancor oggidì da qualche raro amatore di antichità si additano la sua casa d'abitazione, che era sul canto della via Palatina (nel i566 scriveva di averne acquistata altra riinpetto a S. Francesco) e la sua vigna sugli ameni culli torinesi nella Val dei Salici, che aveva acquistata coi danari della consorte Filiberta di Bruel nell'anno i565, ed ove lasciò un monumento dell'amor coniugale con epigrafe, che oggidì ancora dopo tante vicende si legge (2). Per quanto si sappia, il Pingone fu il primo a cui, per volere sovrano, lurono aperti gli archivi ducali, affinchè potesse attingere notizie pei suoi lavori sl(jrici, che aveva intenzione di pubblicare: ma pochi di questi (11 Pietro MaìUard, conte di Tournon, governatore della Savoia, cavaliere della .SS. Annunziala. (3) llaec vineta mapalibus sub liisce - Couvalleis dominas ohosculantur - Heic nec non Philibcrta ruris emptrix - Nostras cxcipil osnilationes - Philiber' coniuge? - l'iiigonii (jisiaccn. barones - / ta Ad mutui auioris - l'erp. mem. • 2q6 ''UI PRIMCIPAI.I STORICI PIEMONTESI videro la luce; non ch'ei fosse ineii laborioso, ma perchè ardeva di desi- derio di renderli il più che possibile perletli. La storia di Torino (per la cui compilazione il nostro comune erasi piu" adoprato assai, comuni- candogli tutti i documenti di cui poteva disporre, e che sgraziatamente ritenuti dai suoi eredi, andarono poi irremissibilmente perduti) che gli conferì il popolare epiteto di antiquario, specialmente in questa città, uscì coi tipi del Bevilacqua nel iS-^z-y, e fu onorata di una seconda edi- zione nel 1777. E un'opera, che senza dubbio contiene molte fole, fra cui è marchiana quella di far derivare i principi torinesi da Fetonte, che avrebbe regnalo l'anno 1629 prima delléra volgare. Essa è scritta in forma di annali, ed il margine di ciascuna pagina è corroborato dalle fonti onde ricavò le notizie, fra cui hannovi varii documenti. Con qualche maggior proprietà contiene il catalogo delle sue famiglie, la serie, ma imperfetta, dei vescovi, con varie altre notizie qua e là sparse, ma di cui non conviene guari fidarsi, non avendo l'autore dimostralo inolia cautela, come gli avvenne quando si lasciò andar a prestare credenza a quel famoso impostore, che tolse il nome di Annio da Viterbo. Ma merito di quest'opera è la CoUettanea d'iscrizioni romane riferite da lui, che era delle epigrafi ricercatore appassionato, come lo prova la sua collezione manoscritta testé comunicata all'Accademia di Berlino, la lapide di Slrà, ch'ei fornì allo Scardone storico di Padova. Nell'or citata storia di Torino sono inserite ben cento iscrizioni, gran parte delle quali aveva allogate nella sua casa; scrive però Carlo Promis (i) che otto di esse sono evidentemente spurie e foggiate in marmo da quei fabbricatori d'antichità che qui erano allora ap- parsi per la prima volta, ed ai quali avendo il Pingone dato piena fede, con- tento non aveva desistito di albergarle presso di sé. Soggiunge lo stesso scrit- tore che di essa ima sola .sopravanza, ed è quella ch'ei adduce al N. 2i5 del suo impareggiabile lavoro di Torino antica, dove del Pingone così lasciò scritto: « dotto ed intemerato, ma non critico; lingannarlo fu cosa agevole, troppo avventato, lo diremo, quando nelle sue lapidi introdusse interpola- zioni che ne alteravano il senso, oppure le compiè ad arbitrio : non di rado guaste ne sono le lezioni, ogni epigrafe essendovi però ubicata e descritta. Aggiungo, pochi essere i titoli torinesi da lui posti nella CoUettanea ». Se tempo e lena glielo avessero concesso, forse avrebbe scritto una ampia storia della monarchia: a buon avviamento della quale già si erano (1) Storia di Torino anticii, uella prefazioDe. DI GAUDENZIO CI.ARETTA. 297 presi i coiu'.erli per un viaggio in Sassonia, affine di procacciarsi docu- menti che corroborassero l'opinione, che cercavasi allora di far prevalere sull'origine sassone. Ma il viaggio non si elFettuava e nel 1 58 1 compa- riva la stoiia genealogica dei duchi di Savoia e di Sassonia, che intitolava: Inclitorum Snxoiiiae Sabaudiaeque principimi arhov gentilitiu. Nella pre- lazione che precede la dedica di quell'opera a Carlo Emanuele 1, ei si prolessa molto grato alla ducale famiglia, ed accenna altresì al disegnato viaggio di Sassonia, non compiuto. Da essa j)ure scorgesi, come da ben dieci anni già avesse compilato quel lavoro che era rimaso sin allora inedito. « Decimus eifluxil aunus, cum te puero, arborcm hanc tuam » gentilitiam, inserere coeperam, et tibi (divae tuae matris Margaritae a » Francia auspiciis) consecraram. Amplectebare tu quidem meam operam, » et a radice iam ductum caudicem fronderc , gemmasque magis ac magis )) agere delectabaris. Alii, alio ingenio apud divum tuum parentem Emma- » nuelem Philibertum in me movebantur, accustibant tacile audacem et ina- » nem istum laborem mcum , nisi priu.> consulto Saxoniae duce, a quo 1) tamquam capite membra movenda sunl. Quasi vero caput suos motus 1) membris denegare soleat, nec ab ipsis prò tempore dirigatur. Ita fit ut » bene coepta. intermiltendo supprimantur, siquidem ex mora taedium, » ex taedio provenit oblivio: oblivione autem quid non extinguitur.' Saepe » ego ad ducem illuni destinandus lui, optavi, et iussus paravi me sae- » pissime, et in procinctu variis negociis sive potius iniqua mea quadam » sorte iactatus, quasicpie minus (ut fateor) ad id idoneus subsedi. Interea » aetas labitur, belli viae intercluduntur, valetudo paullatim cocpit ingra- » vescere : nuper vero niors tanti, tamque magni mei principis ex inspe- j) rato contigit. Quae me prae dolore abiecta spe omni pene simul contecit. » Hinc arbor penes me latitans, visa in agello deflorescere, et inoculare )) eam velie dernonstrasses » . Questo lavoro che usci con bel sesto del benemerito tipografo tori- nese Bevilacqua devesi ritenere assai imperfetto, ed ancor qui si sarebbe potuta desiderare maggior esattezza, poiché per la storia della Casa ducale egli aveva raccolto una grande quantità di notizie; jier essa egli aveva proceduto a lungo esame di documenti, né a lui si può contestare il merito di aver insegnato primo la retta via di trovare la verità. Non bi- sogna però chiedere più di (juanto si possa pretendere a' tempi , in cui l'arte critica non era peranco sorta, e ad uno scrittore come Pingone, che si lasciava facilmente trarre all'esca di sistemi oppugnati superficial- Serie II. Tom. XXX. ~ 3b 2q8 sui PKI-NCIPAM STORICI PIEMONTESI mente, ma privi di un sodo tondamento; ad un antiquario che in paleo- grafia dimostrò debole capacità, e che commise gravi eriori nel riportare documenti. I sistemi addotti dal Pingone in questo lavoro non passarono inosser- vati, e 1 origine sassone della Gasa di Savoia venne combattuta, come meglio vedremo fra non molto, dallo storico Alfonso del Bene, a cui il Pingone credette di rispondere con questa produzione n Pro arbore se- renissiniuruni Sabaudiae principum Philiberti Pingonii Sabaudi, Cusiacensis baronis, responsio. Augustae Taurinorum apud haeredes Nicolai Bevilacqua MDLXXXI ». L;i risposta e in foruia di lettera, indirizzata a Claudio di Pobel, barone della Pierre. Devesi qui però avvertire Terrore del Gui- chenon, che asserì, come il l'ingone avesse intiapreso il viaggio di Sas- sonia per far accolta di documenti, atti a rischiarare l'oiigine sassone : mentre dalle poche linee di dedica testé accennate, risulta che quel viaggio non fu compiuto. Un'altra opera, che sarebbe stata utile, e l;inlo più ulde, perchi- ri- sguardante la Savoia, su cui poco erasi scritto, comprendeva per I appunto la storia generale di quella vasta provincia del Sabaudo dominio di là dei monti, di cui il Guichenon die questo poco favorevole giudizio u II » avait encore enlrepris d'ccrire les antiquités allobrogiques et i'histoire » généiale de Savoie en latin divisée en 3o livres. dont le Ms. est dans » l'archive rovai de Turin, duquel en ai une copie, mais il ne l'a pas .) achevé , nayant qu'ébauché le l'ègne du Grand Amé. Cette pièce est » pleine de digressiuns importunes, le style en est rude: Tauteur s'est fort » légèrement éténdu sur les alTaires étrangères, et a traité celles de Savoie » fort légèrement. Il sest souvent anime à décrire des bals de dames et des festins , et a des étimologies ridicules, ce (jui choque la dignilé de l'histoire, il se contrarie en beaucoup d'endrcìits, et ce qui est de plus désLigréable en son ouviage e' est que de taiit de tilrcs et de chartes » importantes quii a alléguées, il peine eii a-t-il donnée une entière ». Il Guichenon però eccedette in questa sua sentenza, e non rese al Pingone il giusto sentimento che ben meritavasi, poiché nientie riferì il contenuto di molti ed importanti documenti estranei al regno di Amedeo il Grande, dimostrò abbastanza come il lavoro iosse piti esleso e com- piuto di quel ch'egli volle asserire. E qui aggiunge il Carena nei suoi discorsi storici manoscritti: « È vero che il Pingone avrebbe latto molto meglio riferire per intiero i lauti importanti documenti da lui veduti negli 1)1 GAUDENZIO CLARETTA. a^y archivi che il duca Carlo Emanuele il Grande gli fece aprire, insieme alla copiosa biblioteca da Ini formata, ricca di molti e preziosi manoscritti comunicatigli per ordino di quel sovrano da altri archivi , specialmente delle principali abbazie degli Stati, ma è scusabile sul cattivo gusto della erudizione del suo secolo, nel quale si tenne solamente conto dello stile e della scelta dei fatti grandi, istruttivi e singolari, ma non delle loro prove ». Fu afFezionatissimo ai suoi principi, e nel 1 5^6 scriveva al ve- scovo di Vercelli, di non aver altra intenzione v che far la Casa di Savoia grande non tanto per loro grandezza, che per li grandi spiriti li quali sono slati e sono in loro paesi ipiali non sariano se non erano loro stali sempre virinosi ». Carlo Emanuele I, essendo ancor principe di Piemonte e diletlaudusi di blasoiieria, commise al Pingone di radunare un armoriale dello Slato, al che egli adempieva, dettando un trattalelli) di araldica, coll'indicazione dei principali stemmi delle famiglie del Piemonte e della Savoia, a cui faceva precedere queste parole di dedica: c( Monseigneur, suivant ce qu'il vous a più me comma nder vous don- » ner le blasoii des armoiries de volre arbre de consanguineite' pour vous » esbaltre à la peindrc de votre main (comme tous vos ebattements el » plaisirs , sont en vertu) je vous ai oboi, quoique je désirasse le faire » peindre ;i quelque illumineur, et n épargner la dépense à ce faire après » qu il eut più à l'Allesse de Monseigneur volre pére et de vous, ne dé- » siranlen lontes choses que vous complaire. Mais puisqu'étes ainsi content » de peu, vous accepterez ma volonle et du vrai en sera l'ouvrage plus » exqiiis auquel vous serez daigné de mettre la dernière main ». E però un lavoro imperfetto di poche pagine, e che manoscritto con- servasi negli archivi di Stalo. Oltre ((uest'opera, lasciò pure manoscritti ed imperfetti: un volume delle antichità romane; gli annali di Ciamberì, Aosta, Vercelli, Asti e Nizza; le antichità allobrogiche: la vita di Gian Michele Pingone poeta lam'eato e cittadino romano; ed epigrammi eroici sulle figure dei principi di Savoia. Furono pubblicate: I operetta intitolata Sjndoii evangelica, e la sua vita, col titolo Hit' vita mea, che ebbe cura di divulgare nel 1779 Giu- seppe Zaverio Nasi. Questo scritto, così il Cibrario (i) » ritrae come lì .\olizie di Kilihcilu «li l'iiiuone. Toriuo, 1827. 3oO su PRINCIPALI SlORICl PIEMONTESI tutti gli altri dei Pingpne, dello studio impiegato nella iiuitazione dei classici, ma perchè la narrazione procede spontanea e naturale senz'essere ad ogni passo interrotta, siccome nelle altre t)pere di lui, è molto più gradevole alla lettura. La storia de' nostri principi se ne può giovar gran- demente per correggere alcuni eiTori ». ()ueste fatiche letterarie hanno senza tlubbio raccomandato il suo nome alla posterità, poiché da esse sulficienlemente si rivela, essere stato uomo iòinito di eccellente ingegno, capace di molte discipline, versato nella giurisprudenza, nella storia e nell'archeologia. E come già osservava, me- rito suo insigne sarà sempre quello di essere stato il primo fra i Piemontesi che abbia dato opera all'antiquaria (a meno che si ritenga vera l'esistenza del Beraidenco di Cuneo, di cui favelleremo a suo teiiipo), da poco sorta in Italia, e presso di noi poi incolta affatto. Per far tesoro ili cognizioni di essa, ei non risparmiò né spese, né fatiche, e diniuslrossi veramente appassio- nato nel raccogliere documenti e lapidi, monete e medaglie; e notisi la .sua accuratezza di aggiungere sui libri a lui appartenenti, al cognome le parole antiquitatis altoì\ vincendo in tal modo e rindifferentismo, ed anco le beffe dei suoi compaesani, inlenti allora a ben diverso genere d'intertenimenti , e di cui nobilmente ei toccava nel citato brano della prefazione or citata della genealogia della famiglia : u Ahi, alio ingenio apud divum tuum pa- li rentem Emmanueleni Philibertum in me movebantur, accusabant tacite » audacem et inanein istum laborem ineum ». Conoscitore non volgare della lingua latina, che scriveva con certa eleganza, della greca, non che dell'ebraica, era tanto piiì lodevole, in quanto che per nulla peritoso, non mai rifiniva di annotare e pulire i suoi componimenti che faceva difficoltà, come dissi, di pubblicare, per tema che non comparissero con quella venustà e con quel sapore di cui era molto geloso. l'n bel saggio dei suoi lavori latini si ha in un'ode da lui pubblicata nel rarissimo opuscolo // battesimo del serenissimo principe di Piemonte fatto nella città di Torino tanno 1562. Conchiudo adunque: codesti pregi ci devono far dimenti- care le molte imperfezioni che possono ofìùscare la sua qualità di storico. Il Pingone morì a Torino il diciotto aprile dell anno 1082, essendo di cinquantasette anni. Le sue spoglie furono riposte nella chiesa di S. Domenico, con iscrizione fattagli iniudzare dalla consorte Filibci ta di Bruel e dai suoi figh (i). Nel volume XIV delle Memorie della Società (1) l'iiilibeito Piiiyonio Cusiaccnsium baroni - Piiiniscaeilaie domino, praesidi inlegi'riinio - Eiu. DI GAUDENZIO CLARETTA. 3o I savoiarda di storia ed archeologia, compariva, or volgono pochi anni, l'i- nedito lavoro del Pingone intitolato : Regalis Sahaudiae domus prae- mineniiiie jura in Magnum Hetruriae ducevi augustissimi Emanuelis Philiberti duce jiissu, a Philibevto Pijigonio barone de Cusj, a Iibellis, primo magnaeque cancellariae praefecto, coUecta ad dominum de la Croix Sabaudiae apud Caesarem legatum misso in solemnihus imperii comitii X hai. septembris MDLXXXTI firmata. L'elezione seguita nel 1669 di Cosimo de Medici a granduca di Toscana per opera di Pio V. come tutti sanno, aveva dato nell'occhio al nostro duca (i). E vero che Cosimo glie ne die avviso, coll'osservargli che quegli onori non muti vano in nulla le loro ragioni; è vero che Emanuele Fili- berto se ne rallegrò con Cosimo, e lasciò che il suo atnbasciatore a Roma assistesse alla sua incoronazione, ma poi protestò a Roma, a Parigi , a Madrid ed alla dieta di Germania. E sebbene il papa avesse dichiarato di non aver voluto offendere la preminenza regia della Casa di Savoia . la questione non fu risolta (:>}. Inutili essendo state le nego- ziazioni ofliciose per ottenere un titolo ecpiipol lente a quello avuto dai Medici, il Pingone ebbe incarico di compilare una scrittura che do- vesse servire di solenne protesta, od almeno annoverasse i diritti che ben poteva avere la Casa di Savoia per fregiarsi di quellonorifica distinzione. Essa però non fu consegnata alle stampe, e dicasi pure, senza detrimento degli studi storici , poiché gli argomenti addotti degli antichi regni degli Allobros;!, dei Borgognoni e dell'avere Umberto III e Tommaso I usato Phililii'ill patris Caroli Em. tilii sab. diicum - libolloruui .suppliciini in supremo Consilio magislro - Magni canoellarii vices f>erenti - poplac facondissimo - Hisloriourapho gravissimo - Et Fliiliberlae de Bruel uxori - Margarilae Valesiae Sab. et Bituriccnsium ducissae - asseclarum nobilium custodi - \ixit ilio annos LVII menses III obiit Taurini MDLXXXII XVIII aprilis - Ista \ero anno LIV menses IV obiii Tau: - MDLXXXIX XVI novcmbris - Beroldus baro Ludovicus Augustus miles et Car. Kmm. eques - Filii moestissimi posuerunt. (1) Cora' i? noto, Pio V voleva crear (josimoil Re d'Italia, ma essendovisi opposto Massimiliano II che rispose al papa: non esservi altro Re d'Italia fuorché l'imperatore, il pontefice, per mezzo del niifizin Michele Bonelli, gli rimise una bolla con coi lo elesse gran duca di Toscana, accordandogli le regie prerogative o la facoltà di usar una corona reale chiusa, con fiordalisi. (2) Nel breve del 12 gennaio 1570 Pio V diceva ad Emanuele Filiberlo « Nos te, tuamquc nobi- > lissimara et clarissimam familìam , maioresque tuos , regia stirpe progenilos prò peculiari nostra • erg» Tos dileclione, plurimi semper fecisse, intimoque et paterno affecln, nunc maxime prosequi, » pr(ip(ereaque mentis, et volunlalis noslrae non fuisse, libi successoribusque tuis, ob concessiones » eidem (losmo magno duci, prò nos factas, neque dignitali, iip(iue praecedenliis luis, ullum prae- t iiidirium inforre >. 3o2 SUI PRINCIPAI-I STORICI PIEMONTESI nei sigilli uno scettro, avrebbero servito a destare ilarit;"i, anziché a cor- roborare quanto volevasi sostenere. Ma tolta questa inclinazione dia vanagloria. d(!l resto tollerabile a quei giorni, e per quell'incidente di Toscana, non risulta che Emanuele Filiberto abbia imposto ad alcuno storico, come fecero poi alcuni dei suoi succes- sori, il modo del racconto ed il vero fino da osservarsi ; e narra il Bo- terò (i) che il famoso vescovo di Nocera, Paolo Giovio, così ben dipinto da Girolamo Muzio con queste parole: « Nella scrittura sacra fu negli- gentissimo, e tutta la diligenza sua fu di procacciar che altri gli donasse, e chi gli donava era il suo soggetto » avendo chiesto al nostro duca una provvigione colla promessa d'immortalarlo, questi gli rispose, che più temeva il segreto testimonio della sua coscienza, che (juel pubblico del più famoso storico del mondo. E questo un aneddoto che torna molto onorevole al nostro principe, fornito di alti e generosi spirili, che grande beneficenza usò verso i let- terati ed artisti, ed alla sua Corte ricettò l'imniortal cantore di Goffredo (2), quando nell'ottobie del iSyS fuggendo sdegno di principe e di fortuna, aveva disegnato di ripararsi in questa nostra Torino, dove rimase ospite per quattro mesi presso Filippo d'Està, genero del duca, e dove contrasse famigliarità coU'eloquentissimo medico torinese Agostino Bucci, già men- zionato, filosofo peripatetico, ma filosofo che non aveva giurato sulle parole del maestro, come lasciò scritto il nostro Vernazza (3). Nel dialogo della nobiltà intitolato // Forno introdusse a parlare il Bucci, a cui dimostra professare grande riverenza. Di tutto il merito poi che si attribuisce ad Emanuele Filiberto nell'avere favorito scienze e lettere, si voglia anche rendere partecipe la degna sua il) yita dei prinvipi di Casa Savoia. (2) Dell'arrivo Hel Tasso a Torino s'iia pur cenuo nella dedica della Gerusalemme, che Angiolo Ingegneri fece, il febbraio 1581 al duca Carlo Emanuele I. Due anni la, egli scrìve « quando il povero signor Torquato Tasso portalo dalla sua strana mauinconìa si condusse tin alle porle di To- rino, ondo per non aver fede di sanità \cnne riballalu , fui quegli io che ritornando dalla messa udita ai Padri Cappuccini, lui incontrato introdussi nella città, fatte prima capaci le guardie delle nobili qualità sue, che (comecbé ei fosse male all'ordine e pedone') non però affatto si nascondevano sotto a sì bassa fortuna. LaV.S. fu poi che l'accarezzò e favori, e se non che il signor marchese di Este l'avea già raccolto e accomodalo, occupando in ciò il luogo alla cortese volontà di monsignor di Torino, son certo, ch'ella saria stala quella che l'avrebbe ricevuto, e fattolo di tutto ben prov- vedere: tanta in lei si conobbe pietà di cosi indegna miseria, e tale di si alta virtù gusto ed am- mirazione » . (3) Bum. Lellerat. DI GAUDENZIO CLARETTA. 3o3^ consorte, Margherita di Valois, figlia di quel Francesco I, a cui l'u contento dai Francesi il titolo di padre delle lettere, sebbene avesse voluto far distruggere le slamperie in tutta l'estensione del regno. La Corte della nostra principessa, che conosceva assai bene il greco e il latino, ed era appassionata della poesia, divenne uno specchio di gentil costume ed un asilo aperto agli uigegni d'ogni contrada, che colle deliiie dell'erudizione ne abbellirono il consorzio (i). Il celebro cancelliere Michele de l'Hò- pital (2), a cui, pe I-seguitato, sempre era stalo sostegno la nostra prin- cipessa, concorse ad avviarla e dii-igerla negli studi dei classici, nei quali egh nel lungo suo soggiorno a Padova ora stato erudito. Col piiì illumi- nato patrocinio promosse Clemente Marot du Bellay (3); Jodelle, che con rara generositj volle beneficare; e Giacomo Amyot, celebre traduttore delle Fife di Plulavco. fu da lei invitato a supplire colla propiia penna la perdita di quelle di Scipione ed Epaminonda, che però andaiono anch'esse smarrite. E naturale che non mancaronle i generali encomi dei letterati dei suoi giorni. Monsignor del Bene dedica vale il suo libro intitolalo La città della verità, e nella cappella di Altacomba una lapide, nella quale scrisse: « Si la vertu élait chose mortelle - Qui comme nous un corps fièle eut » vertu - J'oserai dire lei gjsl la vertu - L honneiir, les arts enterrés » avec elio ». Giulio Cesare della Scala compose in suo onore un ele- gante poema latino, e !\Iarco de Buttet da Ciamberl, fra i primi che tentas- sero di adattare alla poesia francese il ver.so saffico misurato alla maniera dei Greci e dei Latini, scrisse per lei alcuni canti e|)italamici e pastorali. Papirio Massone ne dettò in latino l'elogio, e dagli scrittori contem- poranei che gareggiarono a dedicarle libri, Irovansi profusi i pomposi titoli di decima musa, sorella delle Grazie, Jloi-a delle Margherite, perla di Francia, ornamento del secolo. Ma più consono al suo cuore dovette (I Fu immoitalizzala dal celebre Ronsard ne' suoi versi, die quando ella lasciò Francia, cantò Toujours, par lout, sans repos et .sans cesse, Je cliauterai celle belle Deesse , l,a AJarguirite, lionneur de nolre teuips , Uonl la vertu llcuril corame un prinlemps, etc. (2) L^Hòpital, da Maria Moria sposata nel 1537, ebbe Madil,iloiia die spesò linberln lluranlt signor di Bclesbat, che lu cancelliere di quella nostra duchessa. (3) Questo celebre poeta di Cahors, esule per materia di religione, secondo Mortori si^iebbc motto a Torino nel 1544 danni 49. 3o4 ^^' PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI essere il titolo di madre del popolo , con cui fu invocata dagli infelici, come leggiamo nello stesso maledico Branlòmej tanto meno sospetto, quanto universalmente conosciuto per rivelar, talvolta francamente, i vizi dei potenti. Anche nel riprisliuamenlo sovraccciuialo degli studi per opera del duca suo consorte, ella seppe essergli abile consigliera, e concorse col valido suo patrocinio a raccomandargli or I uno , or l'altro fra i valentuomini ch'ei chiamava a sé; accenno al dottissimo Antonio Goveano, dal Fabro proclamato il più eccellente giureconsulto de' suoi tempi. Questa incomparabile principessa non andò immune da calunnie e da cen- sure che le mossero contro quei cotali, che s impegnano a tenere sempre giudizio diverso da quello della maggioranza degli uomini assennati e pru- denti ; ed il vederla ineditare e chiosare le sacre scritlui e e trattenersi alquanto famigliarmeiile con protestanti, e biasimare i rigori eccessivi con cui erano puniti nella sua patria gli ugonotti, bastò a divulgare che pu- tisse delle idee introdotte dalla riforma: ma credo non sia agevol cosa il poter provare, eh ella non si reggesse secondo i deltami della religione cattolica. E la piova più convincente, che ingiusta devesi ritenere la censura mossale contro, ce la fornisce lo stesso arcivescovo Anastasio Germonio, illustre giureconsulto e letterato, che nelle sue Pometidianae Quaestiones cosi lasciò scritto di Margherita ; Qiiis etiain tain elinguls essel , ut de inclita ejus iixore Margarita , Bitui'igum et ^llobroguin duce , non loquatur? in qua non soluin humanitas, pietas, misericordia, liberalitas et sanctitas, vemm etiain tanti animi magnitudo ac virtus effulgebat, ut innumerabilibus omnium artium magistris , nihil utilius , ac honeslius visum sit , quam libros docte et perpolite conditos , sub illius nomen edere, et ejusdem animi dotcs , sapientiam singularem , dieta ac facta eximiis scriptis collaudare , et prò rei , de qua agebatur, dignitate explicaret Questa fedele compagna di Emanuele Filiberto, cui stimò e riverì, chiudendo un occhio sui suoi trascorsi, e tollerando che alla Corte rice- vessero degno trattamento gli otto figlioli naturali di lui, morì il quattordici .settembre del 1 5'j | , e sepolta ad Altacoinba , riposa ora alla Sacra di S. Michele. Le stesse imprese ;■ gli stessi molti da lei usuli dimostrano, come inge- gnosa e sapiente ella si fosse. Due serpenti allacciati ad un ramo d ulivo o DI GAUDENZIO CI-ARETTA. 3o5 l'ecavano la leggenda Regum prudentia custos: la luna in un cielo sLellato, Nec celsa hcic, nec darà magis splendescit imago. In una bella moneta poi trovansi scolpite queste parole . Dominus solus dux ejus fuit, e forse per ribattere laccusa di fede che dicemmo contro lei essersi scagliata. Anche fra le gentildonne di quei tempi furonvi alcune che alle doti dei natali ebbero accoppiate quelle dell'ingegno^ ed illustri giunsero a noi i nomi di Eleonora Paletti di Villafaletto, di Ottavia Scaravello, di Mad- dalena Pallavicini dei marchesi di Ceva, di Camilla Scarampi di Asti^ di Margherita Asinari di Camerano, di Livia Tornielli di Novaia e di Claudia della Rovere signora di Vinovo, dotta al dir del Chiesa di (( quelle scienze che si possono imparare da ogni buon ingegno » . Chiudo il regno di Emanuele Filiberto, accennando alla liberalità usala a favore degli studi in genere, ed indirettamente anche agh storici, da quel cardinale Guido Ferrerò, che fondò in Torino un collegio, in cui dovevansi mantenere gratuitamente dodici giovani, mosso a quella fonda- zione dagli autorevoli consigli di quel principe, al cui patrocinio racco- mandò il nuovo istituto, e degno emulo di Bonifacio Ferrerò, fratello dell'avolo suo. anche benemerito delle lettere piemontesi, mercè la fon- dazione fatta nel 1541, essendo cardinal legato di Bologna, del collegio della Viola, che durò sino al J797, ed a cui potessero avere accesso i suoi discendenti, e quei Piemontesi che, a date condizioni, ambissero di nutrirsi alle scienze nel famoso studio di quella metropoli. Già più copiosi sono gli scritti ove s'accenna ad Emanuele Filiberto e al suo regno: cito alla relazione dell'assedio di Cuneo del iSS-j; alle memorie di Boivin di Villars^ ai commentari del Montine; al libro di cavalleria El cavallero resplendor, stampatosi a Vercelli nel iSGa; al canto pastorale « Les amours conjugales du très vertueux, Irès illustre )) et très magnanime prince Emmanuel, due de Savoie, prince de Piémont » et de la très vénérable et très excellente princesse madame Marguerite )) de Valois, duchesse de Berry, etc. ; » agli « Epigrammata varia Joannis » Francisci Apostoli a Montemagno in funere Margarilae Valesiae ducissae )) Sabaudiae ». Ned ultimo argomento, a prova dell alFetlcj destato da codesta princi- pessa, sono le varie orazioni in suo elogio , che videro la luce all'epoca della sua morie ed in Italia ed in Francia. Serie II. Tom. XXX. 3g 3o(Ì SUI PRINCIPATI STORICI PIEMONTESI III. I TEMPI DI CARLO EMANUELE I, E DI VITTORIO AMEDEO I. Il poco che ancor ci rimane a discorrere del secolo XVI, ci consente di associarlo a quanto avremo a dire de! secolo susseguente, che ben può ritenersi l'età d'oro per le nostre lettere, le quali furono valorosamente protette dal duca Carlo Emainiele I, dalla reggente Cristina, e dal suo figlio Carlo Emanuele II. Se Emanuele Filiberto, come or vedemmo, erasi adopralo non poco nel favorire la coltura delle scienze e delle lettere, molto ancor rimaneva a desiderarsi, ed a questo compiè il suo successore Carlo Emanuele I, che intraprese a regnare nel i58o, principe di spirili nlti e generosi, amante dei letterati, e letterato egli stesso. Anzitutto nei primi anni del suo regno (verso il i585) fondava l'Ac- cademia detta degli Incogniti, facendosene egli capo e protettore, per at- tirare buon numero dei suoi aulici ; del qual istituto si possono leggere particolari notizie nell'interessante lavoro delle Società letterarie del Pie- monte di Tommaso Val lauri : più tardi, e verso il 1600, accoglieva benignamente a Torino il caposcuola di quell'età, il napoletano Giambat- tista Marini, poi Gabriele Chiabrera di Savona, e quello spiritosissimo modenese, Fulvio Testi, a cui, come al Marini, confisriva le insegne dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Furono pure a stipendi del duca: Ascanio Vit- tozzi d'Orvieto, distinto architetto; Alessandro Ardente di Pisa, rinomato pittore; Alfonso Ferrabono bolognese, musico ed uomo letterato, che ci lasciò il romanzo di Altimoro. Dicasi lo stesso del modenese Ales- sandro Tassoni, uno de' più chiari ornamenti dell'italiana letteiatura di quei giorni nato nel i565. Ed invero l'autore della Secchia rapita sin dal 1620 manteneva relazione col conte di Polonghera, Carlo Costa, e col conte di Verrua, che gli fecero donare dal duca duecento scudi romani- Dovendosi questi riscuotere sulle entrate che aveva il duca nel regno dt Napoli, che non venivangli pagate, il dono non ebbe guari elTelto , e fu poi provvisto di 3oo scudi di pensione su benefìcii, di che il Tassoni rin- DI GAUDENZIO CLARETTA. Zo'J graziò il duca con sua lettera del 19 marzo 161 6 (1). Nel giugno poi del 161 8 fu chiamalo segretario dell'ambasciata di Savoia a Roma, quindi eletto gentiluomo del principe cardinale Maurizio, con assegnamento di 3oo ducati annuali. Accettò il titolo di gentiluomo, non quello di segretario. Chiamato nel 1620 a Torino per servir d duca come primo segretario, vi venne bensì, ma non tardò ad accorgersi quanto l'invidia ed i ma- neggi per parte dei ministri di Spagna fossero capaci a raffreddar l'ami- cizia del duca inverso 1 autore delle lilippiche, contro Spagna, onde non potè nemmeno ottenere udienza, uè gli tu dato di esercitare 1 avuto impiego. Morto però nel 1620 Paolo V, il duca lo delegò ad assistere il principe cardinale Maurizio nel conclave, in cui lu eletto papa Gre- gorio XV. Ma ancor qui gli falli ogni risultalo; il conclave già era sciolto quand'ei giunse a Roma, ed il principe cardinale non gli fé' guari lieto viso. Libero allora da ogni pensiero di Corte, ei attese tranquillo ai suoi studi, sinché acconciossi ai servigi ilei cardinale Lodovisi, nipote di Gre- gorio XV, a Bologna, dove rimase seco sino alla morte di questo avvenuta nel i632, e poi n'andò a Modena, dove inori nel i635. In favore di Casa Savoia compose pure una risposta al genovese Soc- cino, che aveva con nonr poca villania scritto contro Carlo Emanuele I. Che se il pessimo gusto dell'epoca, il secentismo, corruppe il sano giu- dizio, ed alla naturalezza sottentrò un dire slombato, uno spreco continuo di concetti lambiccati e sconvenienti, e di frasi sbombardate, ai tempi dovevansi attribuire simili macchie, né a questi poterono essere superiori i letterati piemontesi. L'erudizione, che al certo si trova nelle scritture di molti autori di quei giorni, rimase adunque guasta da siffatto vizio , ma meno sensibile ci sarà il difetto dovendo per qualche tempo intrattenerci su francesi che furono innalzati all'onore di storici palatini. Primo di essi è Claudio G-uicìuird, nato a S. Rambert nel Bugev (dominio allora della Casa di Savoia . perduto poi di buon grado collo scambio del Sahizzese), e signore d'Arandas e Fenay, già illustratosi in patria colla fondazione del collegio di S. Spirito. Valente oratore e poeta greco e latino, erudito scrittore di materie archeologiche, fti degno delle onorificenze e degli elevati uffizii che gli furono conferiti dall' accorto principe, munifico nel premiare, ma rigoroso altresì nel punire, come (1) TlBABOSCHl, Biblioteca Modenese, V, 151-152. 3o8 SUI PRINCIPAM STORICI PIEMONTESI n'ebbero ad esperimentare lo stesso Guichard e varii altri insigni perso- naggi del suo regno. Laureatosi egli in leggi, e giovinissinio ancora, avendo composto alcune scritture che valsero a procacciargli fama, Carlo E^manuele ne lo rimune- rava, facendolo succedere al Pingone nella carica d'istoriografo con ono- rifiche patenti del ao agosto i583(i), le quali stabilivangli altresì l'asse- gnamento di duecento scudi. Ma le finanze non erano più floride, di quel che fossero ai tempi dell'antecessore del Guichard, il Maccaneo: quindi ci tocca di riscontrare gli stessi disagi, e le ripetute giussioni del duca, affinchè il suo storiografo (e quel che dicesi dello storiografo, si applichi a tutti gli altri ufficiali dello Stato) potesse venire ragionevolmente sod- disfatto de' suoi stipendi!. C informa di codesti inconvenienti una pre- gevole ingiunzione, che il duca faceva l'ultimo di giugno del 1 586 al tesoriere generale di Savoia Emanuele Diaz, che qui ripoilo a fedele ritratto dei tempi . « Ayant toujours cté notre intention, comme elle est, que notre Irès )) cher, amé et féal conseiller et liistoriographe messire Claud Guichard » soit justement payé de ses gages qu il nous a fait en la dite charge » comme pour ceulx qu'il a fait à Don Amedé de Savoie notre frère » bastard que nous estimons étre liiits à nous mème, et étaiit à prcsent n informés que lui sont encore dues des dites gages du temps de notre » prédécesseur en la dite charge, ainsi quii nous a notamment exposé » par l'attestation y attaché. Nous à cette cause, etc. ». E siccome con tutto il buon volere ducale, non era così agevol impresa quella di conseguire lo stipendio dovuto, per gli imbrogli dell'ammi- nistrazione, per il sistema in vigore, per appalti die privati facevano di certi uffizii, così sovente eravi uso di gratificare i creditori dello Stalo con assegnamento di beni, o confiscati, od in qualunque altro modo de- voluti al Governo. E questo manifestavasi per l'appunto riguardo al Gui- chard, che poco dopo riceveva dal duca la donazione di beni caduti in retaggio di un tal Stefano Louet di Cize e Cormaranche nella Bressa, morto figlio naturale non legittimato, e senza prole. Se Carlo Emanuele, come dissi, era molto propenso a fa\orire letterati ed artisti, essendo egli stesso letterato e verseggiatore non dispregevole; se per questo amava conversare coi dotti, e mentr'era a mensa proporre (1) Documento n. iii. DI GAUDENZIO Ct.ARETTA. 3oQ quistioni e disputarle; tentarne così l'ingegno con caute interrogazioni ed opportune difficoltà; se innumerabili sono le dedicatorie a lui fatte di libri tanto piemontesi quanto stranieri; se il Chiabrera, come avvertiva, ottenne splendida ospitalità, e lu persino fatto servire di una carrozza di Corte a quattro cavalli, e se finalmente gran parte di queste rimunerazioni toccò allo slesso Guichard, ei'avi però molta facilità a cader in sospetto, talvolta per piccole cause o frivoli pretesti, ed il supplizio del marchese di Pia- nezza misteriosamente decapitato a Moncalieri, come credesi, senza che mai siasene saputa la vera causa, la lunga prigionia del sovra lodato segre- tario di Stato Pietro Leonardo Roncas , U processo girato al conte Mar- tmengo grande scudiere, generale di cavalleria, ■e che aveva sposato Bea- trice Langosco, figlia del gran cancelliere, e madre di donna Matilde di Savoia, provano pur efficacemente che bisognava andar assai cauti nelle relazioni, nelle parole, nelle amicizie e nel bazzicare cogli stranieri, tante essendo le brighe del duca e coi Francesi e cogli Spagnuoli, che e degli uni e degli altri concepiva gelosia. Per quanto si potesse credere che avrebbe dovuto essere prudente uno storiografo palatino, non eralo stato abbastanza il nostro Guichard, se pui- non fu, secondo egli stesso asserisce, vittima di una indegna trappola tesagli da uno de' segretari ducali, che l'accagionò di aver agito contro il duca, fondandosi su di una scrittura firmata dallo stesso Guichard, e caduta in mani di un paggio. Essendo il duca assente da Torino, ed a quel che pare diretto alla volta di Provenza, come spiega la lettera di giustificazione dell'accusato, locchè farebbe succeduto questo malvagio scherzo nel iSgo, l'infanta Caterina d'Austria reggente ne aveva scritto con severità a Carlo Emanuele, che fece tradurre il Guichard in un ca- stello. Da questo luogo di detenzione scriveva l'infelice accusato due let- tere di pietose scuse al duca, cercando di persuaderlo della sua innocenza, e supplicandolo a compatire alla sua sventura, la cui origine attribuiva alla calunnia di lingue, contro di lui inviperite, le quali avevano cercato di minarlo nella riputazione presso del suo principe (i). Ma iì silenzio del luogo ove fòsse egli carcerato vien dileguato dalla supplica della sua con- sorte, Maurizia della Palò, la quale lagnavasi che il marito fosse da ben tre mesi prigione nel castello di Ciamberì. 1.1 Documenti n. iv e v. 3lC» SUI PRINCIPALI STORICI PIEMO>TESl E forse non si devierebbe dal vero, ove si ritenesse che queste vessa- zioni potessero anch'essere frullo dell'invidia de' suoi emuli, esempio pe- renne, come in ogni età gli uomini mediocri, neghittosi, e dappoco ma faccendieri, sono naturalmente nimici degli ingegnosi e dei faticanti, e come talvolta le male arti de tristi riescono a soverchiare la tranquilla securilà de' buoni. Siccome non usavasi sempre a quei dì costituire procedimenti regolari, ed il più delle volte accadeva, che accusali iiinocenli dovessero gemere prigioni, anni ed anni, innanzi che fosse sbrigala la loro causa, e talvolta innanzi che sapessero qual cosa avesse cagionato così rigoroso procedi- mento, cos'i i pochi mesi di prigionia sofferti dal Guichard dovonsi rite- nere un nonnulla in paragone del sistema in vigore, e verificata la sua innocenza potè essere hberato da quel molesLo soggiorno , ancorché dal Governature del castello \enisse trattato assai benignamente, come le con- venienze ammettevano, locchè egli manifestava nelle accennate sue lettere. Ma colla libertà non ottenne cosi presto la ripristinazione negli udìcii e negli stipendii , la quale solo il 1 2 marzo dei 1 5g8 egli piiteva conse- guire (1), manifestandocelo questa lettera del 4 marzo 1599 *^^' duca, cos'i concepita ; « Avendo noi sin dal mese di febbraio dell'anno prossimo pas- sato 1 598 richiamalo al servizio nostro Claudio Guichard signor d'Arandat, già segretario nostro di Stato e di Finanze, con promozione e titolo di consigliere nostro di Stato, referendario ordinario presso nostra persona tanto di qua che di là de monti e primo referendario dei principe di Piemonte figliuolo nostro amatissimo e stabilitogli per altre lettere nostre patenti delli ■j.i di detto febbi-aio per ordinario suo trattenimento lire (1^ Charles Emanuel. Voulant quc iiotrc bien amé et leal, iioble Claude Guicliard seigneur d'A- randade soit enlieremenl et effectuellement payc des gaiges dus et appaitenans à Telai et charge de conseìller d'etat et referendaire ordinaìre auprès de notre personne , comme aussi de premier referendaire du prioce de PiémoDl nutre Irés clicr et trés aìmé lils doat nous avons par Dos pateotes du douzieme du present mois pour\u ledit Guichard suchant les frais qu'il aura à supporler à nolre suite et pour l'exercice de ladile charge ensemble bien memoratil que déjà l'année 1583 les gaiges de nos quattres secretaires d'etat ordinaircs des quelles il est l'un furent par nous assìgnés sar les deniers provenanls de l'cmolument de nolre grande chaneellerie etani nolre intention d'ac- croitre plustot quc de diminuer audit Guichard l'assigncment du payemenl de ces dites gages et le maintenir en ces prerogatives lui coulinuant la mème assignation et les mémes gages et les mèmes emolumens. A cette cause mandons et commandons à nos Irès chers bien amés et feaux conseìllers el Iresoriers generaux de ^a et de la les monis noble Emanuel Diaz et Aotoine Solaro que de quel- conques deniers de notre receple soit ordinairc ou extraordinaire notamment de deniers provenus des emolumens de sceau et signature de notre grand chancellier ils ayent a payer eie. . . . Donne a Chambery le douzieme feirier 1598. .\. e. I. e. DI GAUDENZIO CLAHETTA. dlt mille cinquecento 22 e soldi i5 ogni anno, e volendo che ad ogni modo che ne sii a tempo debito intieramente pagato e soddisfatto, vi ordiniamo e comandiamo per la presente che dobbiate dei danari del sigillo di nostra cancelleria pagargli o largii pagare eziandio anticipatamente e di mese in mese, dall'emolumentatore di esso sigillo Panealbo, ogni anno le suddette lire mille cinquecento ventidue ecc. » (1). Già altre volte il Guichard, il cui merito era stato apprezzato dal duca, aveva ricevuti non dubbii attestati di slima, e nel i594 confidenzialmente era stato spedito a Macon per visitare da parte sua il duca di May enne, e secolui trattare importanti negozii, come togliesi dall'ordine dato al tesoriere di pagargli 1 20 fiorini per le spese di quel viaggio. Essendo anche erudito giureconsulto, meritò, con Anastasio Germonio nato nel i55r a Sale, piccolo villaggio del marchesato di Ceva , illustre avvocato, teologo e diplomatico, e con quello splendido luminare della Savoia, Antonio Favre, di sedere fra i membri dell'Accademia Papinianea di Torino, di cui sopra ebbi a favellare. Del che egli stesso discorre in un epi- gramma elegiaco premesso ni libro del Favre De jiivisprudciUia Papinianea. Breve però fu la sua vita, che non potè sorpassare i cinquantun anni, es.sendo venuto meno il dì otto del maggio dell'anno iGcj. Fu sepolto nella chiesa metropolitana di Torino presso la minore porta d'ingresso, e vennegli innalzata una lapide (2) su cui fu impresso quel distico famoso, pieno di inestimabile sapienza Soli fide Deo, vilae quod sufficit opta, Sit libi cara salus , caetera crede nihil. Le opere del Guichard furono dettate con eleganza e purezza di lingua sì in latino che in francese. Pubblicò nel primo : De variis modis quibus utebantiw antiqui Romani et Graeci in liumandis mortuorum corporibus. Lugduni ap. Joannem de Touvnes i58i. Quest'opera, intitolata a Carlo Emanuele, meritò gli elogi del Cotier, che nel suo trattato De jave Manium, allérmò, essere il lavoro del nostro storico il più perfetto di quel genere; ed invero esso si distingue per copia di erudizione e per senno critico, (I) Archivi camerali, Controllo 1593. (3) Claudius Guicbardus Araodali Dominus — Ab ìntimis consiliis, suplicibusquc libellis — Se- renissimi Sabaudiac Oucis. . — Hic post varios casus ad aeternam quietem quiescil — Soli Fide Deo vilae quod sufficit opta — Sii libi cara salus caetera crede nihil — Vixit ann. i.i dies 29 obiil die Tlii mai 1607. 3i3 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI e racchiude parecchie iscrizioni di Torino, solo fra tulli dando quella in bronzo di Gaio Valerio Clemente che andò tosto perduta. Il Germonio, nel più volle citato suo scrilto Sessiones pomeridianae così si fa a di- scorrere del Guichard. e di questa sua opera, dopo aver accennato al Favre « Alter, Claudius Guichardus , summus orator, et rerum antiqua- rum pater. Hic quoque paucis abhinc dicbus, de sepulturis , sepeliendis- que omnium nationum vita libros aliquot, prudentissime ntque gravissime conscripsil, in quibus adolescentis ingenium et ermiitionem quis facili potest aìiimadit'erfere ». Scrisse in francese: un Carme su Torino; V Alphabet maral, che dedicò al Re di Francia; Les agréables nom>elles a tous bona Catholiques de la cow^ersiou du duché de Chablais ; una traduzione delle istorie di Tito Livio, composta di comandamento del duca Carlo Ema- nuele, e lasciò manoscritti compendiosi elogi dei duchi di Savoia. Il Guichard, nel suo testamento fatto a Torino, istituiva erede il nipote Giovanni Guichard, che oltenne pure la successione nell'uflicio di giudice e nella signoria di Arandas , come erane stalo investito il suo autore. E questa carica, con quella della cancelleria di S. Ramberl, dipendente dai duchi di Savoia Nemours, passava ne' suoi discendenti, Giovanni. Giorgio e Pietro, il quale nel 1700 instava perchè proseguisse nel suo figlio Giuseppe. Era codesto un benefizio che apparteneva alla generazione dei feudi, ed a quell'uso cosi censurabile della trasmissione delle cariche ereditarie e venali. Ai tempi di Guichard e Pingone fiorirono eziandio in Piemonte e Savoia altri storici e cronisti. Renato di Lucinge, signor d'Alimes, ch'ebbe alla Corte di Carlo Emanuele 1 gli elevati gradi di generale, poi di ambascia- tore in Francia, indi di referendario e consigliere di Stato, dettò altresì alcune opere storiche, fra cui le Memorie dei negoziati per la pace di Lione, Y Epitome rerum toto orbe gestarum ab anno \b-j2 usque ad annum i584, lavori amendue di qualche interesse, poiché per la parte ch'ebbe Fautore nella missione di Francia potè essere in contezza di molti gravi negozi!. Secondo Grillet, sarebbe stalo decorato della qualità d'istoriografo Mar- cantonio di Buttel, che si vorrebbe autore di alcuni scritti che diedero occasione a polemiche letterarie in Savoia, cioè Le cavalier Savolùen, nell'intento di provare i diritti pretesi dai duchi di Savoia su Ginevra. Al quale opuscolo il consiglio di questa repubblica faceva rispondere col- V Antichevalier de Savoie, en reponse du citadin de Genève , che s'attirava Ili GAlTDENzio CLARETTA. !') I 3 dal Biiltet la risposta collo sciitlo L aristocratie genèvoise en I liurangue ile M. Pictet cbnseilleì- d\'lat à Geìiwe , servant de réponse (tu citadin. Lo stesso Grillel ascriverebbe pure al Marcantonio un discorso sull'o- rigine de nostri duchi, ma recenti scritti comparsi negli atti della Società storica di (jinexiM, ed alcune note del conte Amedeo de Foras nel suo Nohilidiio della Savoia lasciano dubitare di questi scritti, come usciti dalla penna del Marcantonio. Il conte De Foras poi sostiene, che la qualità di storiografo attribuita al Marcantonio si debba invece ascrivei'c a Luigi, o piuttosto a f'f audio Luigi de Buttet signoi- di Maletrait, cavai ieie dei santi Maurizio e Lazzaro, ed autore della vita di Bei'oldo ed Umberto di Sa- voia e (Ielle decadi di Savoia. Lo stesso conte De Foras sogginnoe di aver copiato negli archivi della nobile famiglia Manuel di Ciamberl le patenti di storioerato ducale, conferitegli da Carlo l'Emanuele I: « si^nées. » contresignées, et scellées, mais par une erreur du scribe, dont je n'ai » trouvé que ce seul exemple . non datées ni rcvétues en lète du nom » de Charles l'Emmanuel ». Le indagini da me fatte agli archivi atline di scopi'ire (juesto documento essendo state mlruttuose, mi limilo a lilerire (pianto sci'isse il De Foras in proposito. Queste lettere adunque direbl)ero: « Désirant désormais de » pourvoir à ce que l'histoire de nos très illustres antécesseurs et mai- » son de Savoie soit purement et selon la ve^rité educh(;c sur de fidèles » cahiers qui tcmoignent à l'advenir sans passion tout ce (jui nous touche, « Nous avons cru (ìlre ben de choisir un personnage^ dont la preudhom- » mie. sullisance et doctrine peut répondre à la charge de noire histo- » riographe annaliste. Etant donc bien infornui que toutes ces louables • » qnalités sont en la jjersonne de notre clier. bien amé et féal Claude n Louis De Hutlet, seignem- de Maletrait, chevalier de la sacrcje religion » des Ss. Maurice et Lazaie . . . sur ce sujet, pour ces causes . . . etc. ». Negli archivi camerali ho ritrovato a riguardo di Claudio Luigi, nel i584 l'ordine alla camera dei conti di Savoia di pagargli cento scudi da lire tre ciascuno, pei' annuale assegnanu^nto: e nel i6q8 il dono di 238 ducatoni sulla gabella del sale. Gli accennati lavori altro non sono che un compendio del Champier, del Paradin e del Tonso, e tale è pure il giudizio del Guichenon. che però ((mimenda lo stile e la lingua dell'autore. Il Carena poi, ne'snoi di- scorsi storici, si lagna che quel manoscritto sia perito nell'incendio, a cui nel secolo xvii fu soggetta la biblioteca ducale. Serie II. Tom. XXX. 4^ 3l4 St" I■RI^(^PALI STOl'.lCI l'IKMONTKSI Ma aii/.iliiUo il Carena incorse in errore, che proviene dalla gelosia quale vigeva a quei dì, in quanto appaileuevasi ad arcliivi che rimanevano chiusi agh investigatori, ma in ogni caso non sarehhesi a deploiare tale perdita, puichè, conservandosi il manosciitlo nell'aichivio di Stalo, esso non <• che una povera scrittura, che nulla conferisce ai nostri studii. Qualche parola di più deve risguardare Alfonso del Bene, di lamiglia originaria toscana, stabilitasi in Savoia nel secolo decimosesto. £i però nacque a Lione intorno al £53S; studiate le leggi sotto Cuiacio, In ri- cevuto fra i gini'econsulti, e dedicatosi poi alla Cliiesa, non tardò a venir provvisto liti i56o dell'abbazia di Altacomba, e nel t588 del vescovato d'Alby Essendo abate di Altacomba, egli, coi suoi successori in ([uella prelatura, venne decorato del titolo di si^naton- onoi'ario nel senato «li Savoia: vuoisi però che già nel i.'Ì74 avesse ottenuto (piel titolo da Ema- nuele Filiberto. Ne' primi anni del regno di Carlo Eniannele 1, il Delbene acquistò qualche renomanza fra i nostri storici, poiché j)iimo propagò l'opinione dell'origine italiana della Casa di Savoia, pubblicando nel i58i coi tipi di Marcanlonio Blanc Lys, che Vernazza predicò tipografo dell abbazia di Vllat imii);i. quest'opuscolo n De prlncipatu Sabaiuluir ci veiri ducitm origine fi Sa.roiiiae pi'incipibus,siiiìul(jiic i-egiiiiiiì Galline e stirpe Hugunis Cappli derhicto liber primiis dd illasti'ein et excellciilissiniwìi Carolimi. Eiìianaelein , utraqnc gente or/ uni , duceni Snbaiidiar Sidxilpiiioruiiìijiic priiicipcin. Contro l'avviso di Pietro Cara. Siiiloriano Clianipiei', (jiovanni Cortile, Maccaneo, Paiadin, Simlero e Pingone sostenitori dell opinione, che fosse Beroldo, figliuolo di Ugo di Sassonia, come vuol taluno di essi, o come ammette altri, di \ibcrto e nipote dell imperatore Ottone 11. il primo sia slato a venir dalla Sassonia, mise dubbi, e sostenne egli, il l^>eroldo doversi ritener figlio di un Inimedo oil Amedeo, nato da A'alpeilo, nipote del Vitichindo, e che il Beroldo fosse anche chiamato Guglielmo, GeraKlo o Bertoldo. Tenendo poi altra via nel! accennare agli ascendenti del Beroldo, combattè, conu; dissi superiormente, l'opera anzi accennata del Pingone, il (|ii;il(' vi lispose, come jiariniciilc ho esaminalo, nella cilala sua lellera al barone della Pierre. L'opera juiiuipalc di Deibcnc lu questa; Jlplioiisi Delbene episcopi Albensis ac domini yUbine a Consilio secretiore Regis (.'hristidiiissinii, de Regno Burgundiae Transjiiranae et Arehuis libii tres: in t/nibiis DI C;AL'UE^ZIO <;[,ARETTA. O I l) etiani pleraeque res geslae vicinaruiu gentiiiìii bì'e\>issime coiUinenlur. Ad Henricuru UT Fraticùie et Navaii'ue Regem Christiauissimum, cmii duplici rp/'tim et noniitioruiii proprioiiim indice, Lugditni apiul Jacobum Reiissin ((ioj. Questo lavoro lii onoralo di una seconda edizione a Parigi nel ino:"), ma molti anacronismi e molti errori notansi in esso, che in parte furono vittoriosamente confutati dal Terraneo nella sua Adelaide illustrata. Cito, p. e., l'avere allegato, che lìodoll'o HI avesse il regno d'Arles, mentre il regno di Borgtjgna posseduto da llfidolfo IH abbracciava bensì la città d'Arles, ma il titolo di quel legno non mai erasi adopeiato prima del secolo xii : l'avere scritto che Manfredo fosse slato creato maichese di Susa dal re Ardoino, (piandochè a cjuei dì Susa colle sue valli, for- mava una piccola provincia dei conti di Torino, e Manfredo già nel looi usava il titolo marchionale. Altro errore commise il Delbene nell'alleoare che \delaide fosse l'unica figlia del marche.se di Susa, Manfredo II. mentre alcuni documenti contemporanei ben provano il contrario (i). \è fu più felice il Delbene nell abbellire il sistema Pingoniano sulla morte del marchese Manfredo II e sulla favolosa giieria del conte Um- berte I di Savoia contro di lui , splendidamente combattuto dal Ter- raneo : onde non francava la spesa che cotanto s accapigliasse contro il Pingone , con cui usò ben poca moderazione, specialmente in quel passo dove così si espresse : « Nec sutis miravi possimi aiidaciaiii , seti potiiis ignoi-antiarn Pirigoiiii rccentis sci'iptovis poi Sed desi- ìiuinus miravi, fabulavum eiiim scì'iptov niendacem et iìiale\ e 5. (3) Hospitliim ossiiiin et cincruDi Alplioiisi crMIjriic <{ij(iii(laiii i|iisco|)i alLieusis atl iiovis.simum diem , faxit Deus ad gloriauj. Vcrum laiucii in iniaLiinc pciiraiisil lioiiio. — Homo \aiiilali similis faclus esl , dies cius sicul umbra pracU'ri'uiil. - Oliiil auiio IGOS die ocla>a februarii. ni (.AUliKN/.IO CI.Ani.l TA. 3 I ly -Ma (Il qua rlellAlpi riscuoteva ben più iiobiir faina Giovanni Bolero, nato a Bene nel i54", prima gesuita, poi consigliere ed istitutore dei principi di Savoia, die governò j)iù da amico che da maestro, e loro fu mi nume lulelare nella corrotta Corte del re (valtolico. E inutile di qui ripetere i meritati elogi che in ogni età furono attribuiti all'illustre autore delie Relazioni universali (i) e della Ragione di Slato, che vide la luce a Venezia nel 1399 e fu onorata della veisione in varii idiomi: e basterà pel nostro oggetto di qui accennare, come questo filosofo, teologo, slorico e statista di grido, oltre le varie opere filosofiche, politiche e morali, scrisse la vita dei jirincipi cristiani, divisa in due parli, delle (juali la seconda com- prende quelle dei principi di Savoia , da Beroldo ad Emanuele Filiberto. Giova però osservare, che se questo è un lavoro letterario non isprege- vole, in quanto a storia nulla aggiunge, poiché non londalo su ilocumenti. Di questopera il Napione, nella nota 2 all'elogio del Bolero, credette di lasciar questo giudizio: « L opera dei principi di Savoia stampata nel i6o3 la quale, sebbene per ciò che appartiene alle origini della Real Casa ed ai tempi antichi sia poco critica, è però del reslo scritta assai bene e qualunque siasi, è sinoia l'unico corso di storia patria che s abbia in lingua italiana, il quale meritar possa tal nome », giudizio che poteva convenire a' suoi tempi. Il Boterò non fu distinlo della (jualilà d istoriografo. ma ottenne dal favore di Carlo l-uianuele 1 la lautissima abbazia di S. Micliele della Chiusa. Il suo conlemporanei) (jugliclmo Baldessaiio, iiaLo a Carmagnola e di- venuto canonico teologo della Metropolitana di Torino, compilò in tre volumi la storia delle due Chiese, orientale ed occidentale, in cui ragunò molte notizie riflettenti la storia ecclesiastica del Piemonte. Ma quest'o- pera non fu pubblicala, e conservasi manoscritta presso gli archivi di Stato. Nel 1604 die alle stampe la storia* della legione Tebea, con un trattato sulla fondazione e sull'origine dei cavalieri ilei Ss. Maurizio e Lazzaro. Egli fu assai benemerito dell istruzione, poiché nel suo testamento del diciannove luglio ilei 1606 istituì erede il collegio dei Gesuiti di Torino, con che lonilasse un simile stabilimento di educazione a Carmagnola, ap- pena che, accumulato il reddito dell'asse ereditaiio, si potesse aver di che eseguire la sua volontà, rimasta senz'effètto, e non certo a gloria di coloro |1) l.a seconda parie ancor maiioscriUa con!^('I^asi iirlla lilMìnlria doll'lUiiveisilà. 3i8 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI che, avendo accetlato il dono, non dovevano dare un'inter|)iila/.ionr non ammessa dal fondatore. Nella lieoirenza del matrimonio della duchessa Cristina, Scipione (luillet uditore di campo presso l'esercito francese di qua de'uionti. die alle slampe a Parigi nel iGic) « le renouvellcment des anciennes alliances et conliidé- » rations des Maisons et Couronnes de France et de Savoie cn la paciflca- )) tioa des trouhies d ftalie et en mariage du serenissime V. Amedé prince )i de Picmont avec Madame Chrestienne soeur de S. M. )i. 11 (iudlel , ver- sato nelle scienze politico-legali, die alla luce ipiest opuscolo quando il cardinale Maurizio erasi recalo a Parigi a iine di sposarvi, come pi'ocu- ratore dei fratello, la principessa Cristina, ma egli si limita solo a cantar le lodi delle due famiglie, e devesi litenerc un mero presente festivo di nozze. Questi storici o;- menzionati iuìu furono distinti della qualità E.\/JO <.LAl;l:TIA. 3(<) Questo seme non cadeva su terreno inj^rato , poiché la figlia di Enrico IV era molto sensibile a lai genere di esaltazione, e pui-ecchi scrittori, od in prosa o colla cetra, col profonderle regii Liloli, seppero riLrarne non pochi segnalati avvantaggi. J^ non è senza meraviglia lo scoi'gere Cornelia, così spiritosa, InLla andasse in solluchero (juando la si chiamava llglia e soi'clla di grandi regi, madre di regia prole, coiisurle di regal principe, né ri- ijullasse dair aggiungere ne' decreti, negli editti ed in tutte le leggi, al glorioso titillo di duchessa ili Savoia, quello di sorella dei Re Cristianis- simo , che poteva dinotar deljolczza e servilità. Ti Monod, visto di qua! pie zoppicassero i padroni, fu burbero abbastanza per trarne profitto a sua volta, uè punto accingersi ad ailontanaili da simile propensione. Data mano all'opra, spiegò tutta la sua immaginazione per cercare ar- gomenti die riuscissero graditi al palazzo. Uno dei primi suoi lavori, e che non è privo di mento. In la storia esposiliva delle alleanze di Francia e Savoia, che pul)i)lica\a a Lione nel itìai intitolandola Rechercìies hlsLoiiijin's sur ks dll'umces ruya/cs de Frorice ci de Savole, con dedica ù Maduiiic sii'iti- da Mei, piincesse de Piénumt. E ben poteva la duchessa accettarne la dedica, e come Irancese e come principessa, poiché l'opera conteneva il panegirico di altrettante principesse francesi, tutte generate da real sangue, tutte distinte per virtii peregrine, e tutte state mollo felici nei Itilo malrimonii per i pregi singolari che le adornavano. Non sapendo più qualcosa encomiare, lo sdolcinato autore prolondevasi peisino in elogi del numero dieci, che definiva il più perfetto, e che, come tale, spettava alla ducliessa Cristina, la quale avrebbe poi superato tutte le altre in virtù. Trattandosi di un panegirico, ammantato dei titolo di Storia, egli era pidese che rantoic; doveva consacrare parecchi capitoli a trattai'e argo- mcnli estranei alla luateiia , e che ii\clano qiial fosse il corso delle idee, che i l.inciiilii cemincia\aiio a prcliggeisi nelle scuole nelle tenere Ioli) menti , e che ammogliali , alla lor voila , trasmettevano ai fìqli ed ai nipoti. l'arecchi ca|)iloli consacra\a 1 autore per [trovare che il principe è il ritrailo della divinila; die tien jiiù del divino che tlell'umano; chele al- leanze e. le opere dei re sono allicttante immagini delle opere divine, e «•he la principessa è giglio perfetlissinio. poiché tra i fiori, il giglio, è quello che alza il e:. pò orgoglio.so sopra tulli gli altri. I'. si'i'ielto da tali paradossi, pi'osiegue ben due ca[)i per provare che la duchessa Cristina era il gigho ilelle sper.nize di Savoia e di Francia. 320 SUI PRI\(.ll*Al.r STORICI PIEMONTESI Filialmente, dato stogo agli arzigogoli ed alle iiielat'ore int'elte di se- centismo, discende l'autore a trattare delle alleanze, cominciando dalla prima d'Alice od Vdeiaide , liglia del secondo Umberto , inanellatasi a Luitii VI il Grosso, sino airultima , che si riscontra in Cristina. Il ovvio che in tntte <[uelle principesse, ei, come dissi, doveva solo scorgere virtù, onde nessun alilo di sinistro presagio ammorba un racconto, destinato ad un semplice panegirico. Sol interrompono ahpianto la monotonia degli elogi alcuni capitoli l'elalivi all'anello di S. .Maurizio, allOrdine del collare, al santo Siulario, alla longevità e lecondità dei principi di Savoia, premio dell.'i loro continenza. Fa però slii[)ire, conu^ non temesse di venir accagio- nalo di menzogna nel toccare alcuni tasti, ed almen per pudore, pare clie avrebbe ilovulo lasciar certi argnmonli, in cui, se non in i'ieniontc, altrove avrebbe potuto venire contraddetto e sbelieggiato. L'opera che pi-ocacciava al Monod miglicn- lama, e che meiitò di venire per intiero inserita nel diciassellesnno tonu) degli annali eccle- siastici del Bai-onio, l'u VAiiiedeiis jìacìficiix . cioè la storia delle famose controversie del primo i scontare colla perdita della libertà sua personale, sacrificata nobilmente per servigio della causa del suo principe. Giunse il Monod a Parigi nel luglio del i63i, precedendo larrivo del suo compagno di viaggio e di missione, il piincipe cardinnle Maurizio, la cui entrata solenne in quella metropoli ei descriveva appunto ii 26 luglio, dicendola seguita il giorno di S. Vittorio, per la porta di quel nome, in omaggio al duca di Savoia. Vittorio Amedeo. Avendosi, come dissi (e conviene ripetere), estremamente bisogno della nostra CoVte, per poterla indurre a tutto ciò che da lei esigevasi, quel Governo non risparmiò quanto valesse a soddisfare la vanagloria de'nostri principi e le apparenze esteriori. Il Re deputava ad incontrare il principe ad Esone, distante sei miglia da Parigi, il duca d'Angouléme col conte d Allèts suo figlio, corteggiato dai cocchi della Corte e di tutti i principi del sangue. Visti all'arsenale i duchi di Nemours, il dì seguente veniva visitato dal cardinale di Richelieu, accompagnato dal cardinale della Valletta, dal duca d'Angouléme, dal Montmorency, Crequy, Monbason e Vignoles con ben cinquanta carrozze e cento cavalli. TI cardinale Maurizio fu poi al Louvre per visitare il Re e la Regina, che gli diedero alle Tuilleries tutte le soddisfazioni di ceremoniale, di cui egli era ghiotto assai, chie- dendosegli se voleva essere ricevuto come cardinale o come principe, la quale ultima proposta egli accettò, per poter tenersi copeito, mentre quanti furono presenti dovettero rimanere scoperti: per la qual grazia egli avrebbe sacrificato molte cose. Ed a coronare così splendida accoglienza il Re die ordine che fosse spesato a Corte con mille lire al giorno. Il principe cardinale non faceva guari paura a quegli astuti, mentre assai 324 ■''^' PR'i'^CIPÀLl STORICI PIEMONTESI più si temeva dello spirito e dell' indipendenza del padre Monod, a cui fu subito attorno il cardinale Richelieu, non avendo tralasciato di vezzeg- giarlo in ogni maniera. Un bel mattino uscendo il Richelieu di Parigi, volle persino averlo seco in carrozza, e con lui s'intrattenne più dun'ora, facendogli mille elogi dei duchi di Savoia. Udiamo lui stesso a raccontare quel colloquio. « Il me fit l'honneur de me dire qu'il me recevoit pour » son ami, et que ce ne seroit point à demi, mais avec une franchise qui » seroit tonte entière et ensuite me fit tout le discours des mauvaises » impressions qu'on uvoit donne à la reine mère contre luy depuis trois » ans des eclaircissemens, réconciliations, troubles et autres choses survenues » en tout ce temps là entre eux. Me montra les propres lettres que la )) reine mère lui avoit escrit de sa main, sur la prière qu'il luy avait » fait il y a deux ans de se retirer de la Cour pour éviter le malheur » de luy déplaire, lesquelles lettres sont si justificatives pour luy qu'il est » iiupossible de plus. Il adjouta les mauvais desseins de la feue princesse » de ("onti, desquels la reine mère 1 avait elle-méme adverli. Il me » raconta ce qui estoit arrivé plus prochement des lettres de madame de « Fargis à la reine regnante et à un seigneui- de la Cour. et corame la » reine s'était sagement gouvernée monstrant soudain ses lellres au roy » pai lesquelles on voyait quoii lui faisait espérer d étre deux lois » reine en France ce qu'on a voulu aussi persuader par certaihs discours » d'astrologues qui sont en prison et qui seront bientól chàties corame » me dit le niéme cardinal. La lettre qui alloit au seigneur que je ne » nomme pas menacoit le cardinal de prison, et elles sont toutes dans » les mains de la méme dame ». Non era tempo di smascherarsi ; ecco secondo me, la vera storia di tanta finzione che toma veramente a malincuore. Prima però di entrare nei negoziati della parte più essenziale della sua missione, dovette il Monod intrattenersi sul richiamo dei Francesi, che venuti a Torino all'epoca del matrimonio di Cristina di Francia nel 1619, dovevano far ritorno in patria. La lettera del 4 settembre che di questo c'mforma, è pregevolissima, poi- ché è documento certo a cui si può prestar fede, e che ci rende istrutti, come veramente ne' primi anni di matrimonio di quella bella e lalor accorta duchessa, fossero succeduti alcuni sciezii, che parve avessero un poco turbata la buona pace coniugale, in risguardo di una tal lamigliarità ch*^ la duchessa aveva con un certo Ponunense valletto di camora , il quale rimbeccato dal principe cardinal Maurizio, cui aveva olieso con una pa- DI GAUDENZIO CI.ARETTA- Sa") squillala, era stato l)andito dallo Stato. Ma la duchessa (jiistina rimpian- geva queir assenza. Ed ecco i preliminari della missione del Monod, missione diflicile, poiché doveva bilanciarsi fra la suscettibilità del duca e le voglie della duchessa, la quale non avrebbegli poi mai condonato uno .sbaglio su quel punto. Trattò il Moiiod col Richelieu, che tosto dis- segli anche, come il Re a dir vero voleva bensì appagare Cristina, ma non iscontentare il duca, coli' obbligarlo a tener presso di sé persone a Ini odiose. Quindi così esprimevasi il Monod in questa interessante sua lettera: « .Te ne pius rien ad)outer à ce que la prudence de ^. A. luv dictera » sur ce sujet mesmemenl après luy en avoir dit mon sontinieut par les )) précédentes. Le séjour du peu de temps donne une grande satisfactiou » nu roy et à madame, leva beaucoup de murmures et ne peut porter » aucune conséquence il Poi più chiaramente scrive: « L'accident arrivò )) à madame depuis peu est une grande justification pour ce fail, et à » donuer occasion à ces ministies de presser davantage. Madame fail » aussi grande instance à monsieur le piince cardinal pour Ponimeuse et « sa femme : il ma commaiidé d écrin^ a V. A. qu'il la prie de faire en » cecy tout ce qui se peut pour le conlentement de madame, afin quelle 1) aie occasion à connaitre combien il l'honore . et désire lui complaire. « Madame m'en a esciit aussi avec beaucoup d'ardeui-. Je lui ai repondu » qu'avanl mème mon déparl j en avais fait très grande instance à V. A. » et n'avais pu importer antro chose si non que quand toules les charges » d'escuyer seraienl pourvues , \ . A. permettrail que Pommeuse (it un » voyage en Piémont pour lemoigner quii en étail pas banni. Il est » nécessaire qué V. A. ajouste ces afFaires avec madame au plustost, et » qu'elle envoye les ordres précis de ce que nous avons à faire par deca » . Ma ecco che qui succedono gravi negoziazioni politiche del nostro am- basciatore, che cominciò nell'ottobre ad avere a Monceaux lunghi col- loquii col cardinale di Richelieu. e siccome solo al diciannove di quel mese doveva seguire il trattato segreto di Mirafiori, con cui cedevasi de- finitivamente alla Francia Pinerolo, cosi era evidente che al tre di ottobre in cui il Monod ebbe udienza dal Richelieu. questi dovesse solo alla lon- tana lasciare scorgere i suoi nequitosi rtificatissimo di scorgere tanta nequizia si fosse, padroneggiandosi il più che possibile, rispose al porporato ministro, ch'egli non era conscio di cjuel genere di proposte del Mazzarino, e che solo si sarebbero potuto conchiudere prima del trattato di Pinerolo, nel- l'intenzione che cedendo Ginevra, fossevi speranza di mantenere quella piazza forte del Piemonte, ma che assolutamente non poteva comprendere, come mai il duca di Savoia si lasciasse indurre a cedere Ginevra senza un equipollente compenso, facendo cosi gran torto alla riputazione sua. e de' suoi discendenti. Il cardinale dovette questa volta cedere al nostro gesuita, che scrisse : (( Enfin après avoir bien dispute il conclut qu' a.s- » surement il fallait taire cette entreprise et à la facon que V. A. avait » concerté, à laquelle il se tiendrait toujours ». Non era ancor giunto il momento propizio di spiegar l'atra bile la quale il Richelieu già nutriva nell'animo suo contro il Monod, che anzi continuò a vezzeggiare con alfet- tate sdolcinature. Ecco quanto leggesi a proposito nell'interessantissima ed inedita corrispondenza del Monod: « Il fit le lendemain un peu de plamte » à monsieur le comte de S. Maurice de ce que je l'avais presse sur des ni GAUDtiNZlO CLARKJTA. 3 OT / » iiouvelles projìosilioiis, mais aujourd'hui il ma dit qu il m'en savait bon » gre et qiie les alfàires ne se pouvaieiit taire sans dispiiler , et qu'iJ » voulait qiie nous le fissions suuveiil, et a adjoutt- plusieius termes de » ciuirtoisio iort ohIigéanLs. Ce qu il a recoiifirmó l'aprèsdìner à iiionsei- » gnem- le prince cardinal en ma présence: de quo! je le remerciais, lui )) protestant que la fidélite que je devais à mes maitres représentant effi- » cacemenl lenrs laisons, ne mo ferait jamais perdre le respect que je )' lui devais ». Non è (-he il Monod si fidasse guari delle benevoli espressioni di un uomo fedifrago, qual era il Richelieii, Lutlavia scorgendo alquanto di bo- naccia, colse quel momento opportuno, per rammemorargli la fatta pro- messa di concedere il regio titolo, così ambito dalla sorella dei suo Re. Qui poi dovevano cominciare i disinganni; e meglio che le mie, ritrag- gono quell'uomo, le parole del Monod, che nella stessa memorabile lettera così prosegue : « .le lui parlai aussi pour le titre de roi, le faisant resou- » venir des proinesses que le roy a l'ait à madame, et lui représentant » le tort qu'on avait fait nouvellement à V. A. et à lAUemagne à loccasion » de I investiture. Il mit aussi ceci aii rang des nouvelles propositions, « disanl que le roi l'avait promis, quand il y aurait occasion dagrandir n les Etats de V. A. et que lui niéme en avait fait la lettre, mais quii » fallait aller pidel a /nde/ : exequter la paix d Italie et ce qui concerne » Pignérul, qui etait le foiidement de tout le reste, et puis qu'on ferait » des merveilles. Ensoninie c'est l'uiiique allàire qu'il a à cceur, eL on voit » manifestemenl par ces discours qu'il ne veut point qu'on croye que les » atfaires de la reme mère et de monsieur (ij le mettent en peine et que « pour cela on so piiisse prévaloir de la conjoncture pour Lirer de lui » des avantages, se lai.ssant clairement entendre que ce ii'est pas le moyen » de Iraiter aver lui. ce qui a eté cause que je suis alle retenu à pour- » suivre l'appanage de Madame pour ne le facher pas >• . Seguito poi il (lii l'empoi-ter par (^loquence. A quoy luy ayanl répliqiie avec la modestie » ronvenal)le, il s'appaisa soudain, et me dit, ([uil me sivait l)on gre que )) je disputasse ainsi, el |)our V. A. et que les affaires ne se pouvaient )) presque traiter aulrement ». frisomma il Richelieu, quantunque a quei momento non cedesse ancor un sol punto delle sue prelese, tuttavia simulò di darsi (piasi per vinto innanzi alla maschia eloquenza, ed alle sovrabbondanti ragioni schierate dal VIonod: e tante che, più non saj)endo a qual argomento appigliarsi, fini per dirgli, ch'egli non doveva dimenticare di essere gesuita, e che la sua Compagnia doveva avergli grandi obbligazioni ; ragionamento che lorni al Monod di leplicare: « (|up comme jesuitc je I honorerais et servii^ais n t(uijours autanl (ju'lioninie dn monde, mais qne ma ir.bc n'avnit rien à )i iairc avec les inti-rèts de \. A. n . La conclusit)ne pel Monod tu, che al iluca di Savoia non avrebbe convenuto di spogliarsi de' suoi diritti, in vista di incerte, lontane, ed eventuali speranze, e che confidando nella giustizia della .sua causa. Dio lavrebbe poi protetto in altre congiunture. A quel punto il Richelieu conchiuse da sua parte, che si dovessero ab- battere le Fortificazioni di (Ginevra, e che il duca avesse a ritenere quanto è al di (pia, ed il Re quanto al di là del Rodano, con che Vaud rima- nesse a quello, Neufchatel a questo. Che se la proposizione poteva essere discutibile, il Monod però non volle impegnarsi in accettarla da sé. Insomma tale fu la stima, che nel cuor suo il cardinale dovette concepire di quel potente suo avversario, che lacendo tacere altri sentimenti, lo volle seco a desco. Per forza maggiore e per la prepotenza del celebre ministro rimanendo soccombente la nostra Corte, si cominciò a frammettere alle negoziazioni la pervicace opposizione ostile. Il titolo ed il trattamento regio veniva infine palesemente assunto da Vittorio Amedeo I, in seguito al noto breve, con cui Urbano Vili nel i63o aveva assegnato ai cardinali il titolo di eminentissimo , con proibi- zione a loro di ricever altro titolo d;i chiunque si fosse, ad eccezione dei Re. Pretendeva il nostro duca che in quella congiuntura al suo fia- tello Maurizio venisse continuato il titolo di Altezza, protestando che in difetto, egli avrebbe solo accordato ai cardinali quello d'illustrissimo. Simultaneamente avendo i Veneziani, per le pretese loro sul regno di Cipro, chiusa la ducal corona, a guisa della regia, ed ottenuto a Roma 33:>. SUI PRINCIPAl.l STORICI PIEMONTESI ' ed a Pai-igi il liattamento regio pei loro ambasciatori, il duca credette pure che sarebbe stato leso nella sua riputazione, ove avesse lasciato trascorrere con indifferenza un tale avvenimento. Non s'illudeva però che cjuello iioii era agevol compito, tanto più per gli ostacoli già esperi- mentati, e che ben sapeva sarebbergli sovraggiunti per parte delle pri- marie Corti d'Europa, onde, afline di prevenirli, stimò di scendere a vie di fatto, e senz'altro assunse il titolo di Re di Cipro, di altezza reale; innestò nelle sue armi il quai'to di Cipro , o chiuse egualmente a simi- litudine della regia la sua cotona. Ma codesto latto compiuto, non otteneva il suggello dell'approvazione j>er parte delle grandi potenze, cosicché Impero, Spagna, Francia e Roma non vollero assolutamente riconoscere siffatte novità, e Venezia, siccome quella che vi era più da presso interessata, non dubitò mi istante di manifestarne profondo risentimento. Fu allora egualmente che il Governo pensò di schierare al pubblico le ragioni, quali credeva avere a sostegno di quella risoluta delermmazione, e nel i633 pubblicavasi a Torino il i' Trattato del titolo regio dovuto alla serenissima Casa di Savoia insieme ad im ristretto delle rivoluzioni del reame di Cipro appartenente alla corona ilell'A. P<. di \ iltorio Amedeo duca di Savoia, principe di Piemonte, Re di Cipro». L'anonimo autore di quella indigesta materia In il padre Monod, che spiegò senz ambagi il modo con cui avrebbe trattato quell argomento, to- gliendo a prestanza le parole di S. Agostino. Tiliilus qui erat, ipse est; - Possessoì' ììiulalur, titnlus iioìi mutatur. E inutile l'aggiungere, che essendo uno di quei lavoii con cui i Go\erni cercano talora di predisporre lanimo dei leggitori, dovevasi, come i tempi il consentivano, sfoggiare anche in venustà dedizione; onde dopo un acconcio frontispizio, un vago disegno di valente bulino rappresentava lo stemma completo della Casa di Savoia m Lutti i suoi cjuarti , adorno di regal manto e padiglione, e cimato da quella corona reale, tanto appari- scente, e che doveva cagionar non pochi dissidii. L'argomento che aveva per le mani fautore non lasciava di jiresentare molte diOicoltà. volendolo trat- tare convenientemente e sul serio; ed anzitutto egli stesso dava a divedere che si potevano r.iccozzare poche buone ragioni; e bene stiracchiato jiarmi il sillogismo (li ricorr'ere alle espressioni usate dal cardinal S. Pier Damiani in (pxella famosa sua lettera, scritta intorno al 1060, alla contessa Ade- laide (vedova di Amedeo I, secondo Monod, mentre lo fu di Oddone), DI GAUDENZIO CI.ARK'I 1 A. 333 in cm chiamò i suoi Hgli , regine iiidolis fdios , aggiungendo pure Tu quoque, sine virili Regis auxilio Regni poiidu^ siistines. Or bene queste espressioni metaforica niente usate, per denotare un dominio sovrano, nulla possono valere a sostegno dell esistenza di lui titolo regio. Tutto caldo ed immaginario era lo stile di S. Damiano , e ne è prova che nella stessa lettera chiama altresì l'Adelaide, semplicemente duchessa delle Alpi Cozie. Che il Lilolo regio dovesse convenii'e ai principi di Savoia, tanto per la schiatta lor sovrana, (juanto per i parentadi continui e progressivi da più di un secolo, questo è l'oggetto del secondo capo, in cui cominciò a di- chiararsi, non pili transitoi'iamente, sassone essere l'origine della Casa di Savoia, oiigine riconosciuta da quei principi, e stabilita dal consenso co- iiuiiic di tutte le nazioni. Kd ancor qui come scrittoi' aulico il Monod dichiarava formaliiienti' I intenzione del suo principe, spiegata anc.. Tutto questo è vero, e la bella regina 334 ^^^ PRIM IPAI.I STORICI PIEMONTESI Carlotta, il i8 giugno del detto anno nella monumentale badia di San Maurizio d Agauno nel Vallese, a soli 20 anni dichiarava, essere sua vo- lontà che, ove ella venisse a morire, la corona di quel reame dovesse trasmettersi a Ludovico suo consorte ed ai suoi discendenti. Ma se quel matrimonio potè soddisfare la vanagloria , fu però cagione di non pochi guai, prossimi e remoti: pinssiuri, pel favoritismo originatosi da una prin- cipessa bellissima di forme e di viso, ma capace colla sua fantasia a sog- giogare, come fece, d debole duca. Infatti il suo regno va segnalato per molte inconsideratezze e disordini deplorevolissimi. Essendo Ludovico un principe debole , amante dell' ozio e dei sollazzi, tutto fu in preda delle carezze della moglie , e delle lusinghe dei cortigiani, fra i eguali primeg- giavano i Cipriolli, ch'ella era sollecita di favorire, cosicché persino Pio II aveva scritto, che erano passate allora a Cipro tutte le dovizie di Savoia: 1 mali remoti 10 li scorgo in quell'addentellato che lasciarono le pretese su quel regno, pretese che, cagionarono poi la malaugurata rot- tura con Venezia (T, che olluscò il regno di Vittorio Amedeo 1. Non era però l'autore del titolo regio quello che doveva soffermarsi su conside- razioni di tal genere , tutto propenso coni' era ad imbellettaie quanto attenevasi al racconto di fatti, di cui valevasi per sostegno del suo tema. Apprestato il fuoco alla mina, non dovevano mancare nelle alte re- gioni della gerarchia de'puljblici ulliziali, e per nulla schietti, quegh eterni blanditori, che ogni età copiosamente produce, i quali inneggiando all'aura del dì, cercano di attrarre su di loro gli sguardi, mercatando favori e doni da chi può dispensarli. E tra costoro vuol essere annoverato lo stesso primo presidente del Senato di Piemonte, Gian Antonio Bellone, che per la versatilità di carattere, doveva poi assaporare molte amarezze ne' torbidi e perigliosi tempi della reggenza. Or bene questo primario magistrato del {ì) Non potevano ccilaiiipnlc piacere alla Repubblica questi poveri versi . con cui l'autore poneva termine all'opera : Uellissiiiia Clirislina, Per crearli Rejjina, Il Piamente Panello, La Savoia il gioiello. La reale corona Cipro ti (Iona. Non dubitar, che s'il fralcllo Aiiiiusto È tanto giusto, Alle regine invidia non liavrai, Perchè il titolo solo non godrai. 1 ni GAUDENZIO (l-AUriTA. 335 dominio facevasi tosto uiu> scrupoloso dovere di scrivere al duca, di avere letto quel libro, e di averlo trovato corrispondente al soggetto trattato, adatto a lortificare le vere ed efficaci ragioni che aveva il duca ad inti- tolarsi Re di Cipio ed usare la regia corona, il quale avrehb' anzi mancato a sé ed al decoro di sua Casa , dove avesse trasandalo di farlo. La lettera del Bellone (i) è un documento che consegnerò alla stampa, perchè dipinge perfetta mente i tempi, e dimostra quanto debole assegna- mento dovesse fare il duca su una parte della sua magistratura, dal mo- mento che il primo rappresentante di essa serviva alla cortigianeria, anziché alla verità. Intatti non era una sola metafora l'allegare che i duchi di Savoia avevano diritto d'intitolarsi Re, per le ragioni che potevano at- tribuir loro le Provincie degli Allobrogi, de' Borgognoni e de'Cozii, ride- stando la vana inemoiia di (juel Re Cozio, prefello o legolo delle Alpi, che da lui s intitolano ancor oggidì.' Ma l'opera dello storiografo ducale era ben lontana dall' assicurare la vittoria, ed altro era scrivere su labile e fugace caria i prelesi diritti, altro mettersene in possesso al cospetto dell' Europa; e come dissi, la contesa avevasi a decidere fra le grandi potenze, delle quali le une, per ragioni politiche, le altre per emulazione, non erano troppo disposte a lasciar ,1) "Ho lello tou y|■ilncll^iillll(l 1111(1 yiislo il discniso ili'l padre Sloiioil, il ijiialo mi ò litiscilo lalc die stimo sarà giudicato de^no di Ini, e corrispondente al soggetto del quale parla perchè dopo avere con grandissima fatica raccolto in intinili luoghi siuqiii non conosciuti , né da alcuno accen- nati che mettono in cliiaru e fauno al inuudo palese i|uella i-lima die in lulti i tempi e stala lalla da serenissimi antecessori di V. A. al pari Hello maggiori corone e poicntali di cristianità e alle prerogative che hanno sempre avuto gli altri principi di simile dignità, prova anco con molte ragioni ■vive ed cQicaci che V. A. U. può e deve intitolarsi Uè di Cipro, ed usarne la corona regia, e che •luando non lo facesse luancliereblic a se «lesso ed a (jiiell'olihligo al quale la grandezza della sua Casa l'astringe, stando massime che il l'ondamento non solo consiste ncU'esser vero Re di quell'isola e per tale dichiarato da Sommi l'onteUci che pur basterebbe a fondare la giustizia di tal uso non ostante che il possesso sia da maggior potenza violeuleuicnte occupato e ritenulo, ma anco perchii l'ampiezza de' suoi Slati contiene in sé tre regni , cioè quello de' Cozii , degli Allobrogi, e gran parte del regno di Borgogna, de' quali un solo, cioè rultinio , basterebbe per potere con l'acclamazione (come dicono; de' popoli essere crealo e chiamalo Re seuzaltra approvazione de' maggiori , quando si facesse constare che quello non dipende dall'imperio, come in etVetlo è \cro T'na sol cosa pare che si possa opporre, cioè che questa sia novità, non avendo mai (,'li aniecessori di V. A. usalo tal titolo, ne portata raiina regia. Ma a questo si potrebbe a mio giudizio rispondere che sotto la parola ecc., la quale dopo gli altri titoli si suol mettere m lulte le scritture, si contiene il titolo (Il Re di Cipro, non ostante che sia maggiore degli allri, perclic non essendo congiunto col possesso, deve sempre essere posto dopo gli altri che con quello son rongiunli , come diciamo noi leggisli di quei magistrati che non esercitano l'nlllcio. i quali devono redcrc agli allri che in eflèllo servono ». A. S. Lvthrv lii pailicdlari. 336 SUI PHixriPAi.i sToiuci piemontesi incarnare simile novità. Considereremo più tardi le polemiclie letterarie, a cui die occasione il libro del Monod. Or noteremo, che l;> diflìcoltà principale nmoveva di Francia per le lagioiii «ià allegate, mule si die ansa al Pvichelieu, con quel suo sogghigno burbero e spre/./.anle, di ral- legrarsene bensì, ma di osservare amaramente, come dal momento che aveva il duca di Savoia accresciuto il suo Stato di Pinerolo , eia troppo giusto che dovesse anco in proporzione avanzare in titoli e preminenze: sarcasmo grossolano^ poiché ben si sa che Pinerolo era caduto in po- destà di Francia per trappola tesa da quel burbero porporato, in seguito al malaugurato trattato di Cherasco del 3i marzo del i63i , con cui si cedevano al duca Alba, Trino ed altre terre del Monferrato, povero com- penso, poiché colla perdita di Pinerolo doveasi abbandonare una parte d'Italia al pili infenso ile' suoi avversari. (hiesto preludio ci appalesa, come sotto Ijen tristi aiispizi si iniziasse l'altra missione del Monod a Richelieu, per il liconoscimento del tratta- mento regio, adidatagli nel i(J36, tanto più che l'astuto cardinale già subodorava il cangiamento politico che maturavasi nella famiglia di Savoia, dove due membri di essa, Maurizio e Tommaso, dovevano seguir le sorti di Spagna e delF impero; alla qual |)olitica ei non credeva estraneo il Monod, sapendolo capacissimo ad istigare, anziché ad allontanare quei due contendenti da una tale risoluzione. Non è dunque ad illudersi che codesta nuova missione del nostro gesuita, per quanto abile ei si tosse, potesse essere coronata di prospero successo. Nella prima udienza del cardinale, ottenne bensì da lui speciose parole, con assicurazione del buon volere del Re, osservando, che se si fosse potuto ottenere la pace com'egli desiderava, senza dubbio bisognava che Ma- dama Reale dovesse andar a visitare il Re suo fratello, il quale di propria mano le avrebbe cinto le tempia della regal corona, e eh egli ben voleva aver in ciò la sua parte. Il 4 febbraio ragguagliava pure il duca, che aveva avuto lunga con- ferenza, relativamente alla concessione fatta dall'Imperatore alla Repubblica di Venezia, e che lo stesso d Emery era andato a visitare il marchese di S. Maurizio, alla cui presenza trovandosi ancor egli, aveva dalla parte del cardinale commissione d'assicurare entrambi, che il Re in considera- zione dellatFetto che legavalo alla duchessa Cristina sua sorella, avrebbe accordato che gli ambasciatori di Savoia potessero nelle prime e nelle ultime udienze venir ricevuti al cospetto di tutte le guardie, come usavasi DI GAUDENZIO CI. ARETTA. SSy con quelli delle tesle foronate. Fidente in questa chiara assicurazione, U Monod andava il dì seguente difilato a ringraziarne il cardinale. Ma ecco qui altra di quelle scene, a cui già doveva esser avvezzo il nostro storio- gral'o. Infatti il Richelieu prese ad osservare, che non mai aveva potuto il d'Emery accennare ad ambasciadoii ducali, e che se per caso n'avesse discorso, egli ben saprebbe larlo decapitare, pronunziando siffatte parole con una veemenza tale « et avec d'injnres si atroces et de niepris si » grand, que nous ne savions comprendre ce inystère. Ce pauvre homme » etait hors de soy, et on voit clairement que on lui veut reellement » jetler la laute dessus, ci nous payer des injures qu on lui dit jusque là « (pi'on l'accusa davoir pris 5o/m. escus de S A. pour lui procurer le » titre royal, par où elle pourra juger de lextrème nialice de cette Cour ». Era una scuola del più fino machiavellismo, di cui era maestro quel porporato. Andato poi il Monod a congedaisi insieme al marchese di S. Maurizii), il Richelieu finse nuovamenle di essere sdegnati! cdI d' Emeri, de^no suo compagno in mariuoleria. dicendo «he il Re I' avrebbe presto punito della sua temerità. Tanta era la finzione, che il Monod scriveva : « Il me lut impossible de tenir les larnies, de manière que le cardinal sembla » d'en ètre attendri, mais ce ne lui que pt)ui' adjouter d(^ belles paroles, » qui ne luy coutent guères ». Il Monod era adunque fiiori di sé, di essere stato ingannato a quel modo, e ben lo dovette essere ancora, quando poco dopo, queir implacabile ministro « la lamie a l'oeil me dit quii prioil » V. A. davoir un peu de patiénce, qu' assurement il la contenterait, mais » que on l'assuroit tellement qu' il ne le pouvait faire maintenant . sans )) témoigner trop de foiblesse, quii ne croyait pas que oii lui voulut perdre » sa reputa ti on ». Ripeto, che era indecoroso per la Francia di voler avvilire a quel modo un suo alleato , la sorella del suo Re, ancorché in politica alle persone poco si badi. Eppure, quasi non bastasse ancora una condotta così ferina, quando il quattro maggio il Monod erasi recato dal Richelieu per avere la definitiva udienza di congedo, si giuoco altra scena non dissimile dalle precedenti. In quella la conclusione fu, che sarebbe poi stata gran ventura ove il Re, in caso di assalto degli Stati ducali, si fos.se ancor deciso di fornirvi soccorso (i). Il Monod era convinto dell'inimicizia del Richelieu, (1) ... Il n''y u poÌDt de pire couditìon pour ceux qui Uaileul avec mousieur le curdioiil que d'aToir de raisons fortes, car comme il ne peni sonfl'rir d'èlre vaincu , il use de son aulorilé avec Serie II. Tom. XXX. 4^ 338 SUI PUIN< IPAI.I STORI! 1 PIEMONTESI ma credeva che parte della sua bile, provenisse anche a suggestione del famoso suo consigliere e padrone, il padre cappuccino Giuseppe (i) « J'ai )) cette ferme opinion qua cet homme est le seul qui traverse toutes les )) bonnes intentions qu on aurait eu pour y. A. ». Meglio ci piacerebbe che avesse aflermato che tutti erano associati ai danni di Savoia: e lant' è che quell'Emeri, che il cardinale allegava di voler decapitare, in premio riceveva poi l'ambasciata di Torino, e diveniva l'implacabile avversario del povero padre Monod, che assolutamente si voleva perdere per la sua grande capacità spiegata, e la radicata alTezionc ai suoi Sovrani, guastata però da certe sue improntitudini. Se fosse vissuto U duca Vittorio Amedeo, la cosa non avrebbe potuto succedere cosi facilmente , e tant' è che il Richelieu stesso, poco tempo dopo quell'ullimo colloquio e quella sfuriata avuta con lui, disse al S. Maurizio, come questi scriveva il tredici giugno, (( quii me voulait faire encore un peu de reproche contre le pére Monod » qui nétait pas inoins desavantageux pour luy , car en le Inuant et en » l'estimant grandement pour ses affections au service de V. A. R. , il le )) taxait aussy d'un peu trop de clialeur en ses négotiations ». Anche il S. Maurizio rese molti elogi al Monod. scrivendo a Torino, che ancor « quii cut à soutenif un rude tournoy, Tissue a rt<' neanmoins » très avantageuse ». Sul finire di maggio ci giungeva alla noslra Corte, che |)rosegui a servirsi de' consigli dell'abile, sebben focoso e sgraziato gesuita. Sicuramente che non vi può essere dubbio, eh' egli dovesse coi narrati precedenti divenire t)stile a Francia . quindi secolui manteneva corrispondenza il principe cai- dinale Maurizio, che ritiratosi a Roma, aveva assunto, come cardinale, il protettorato di Spagna, e perciò erasi schieiato dalla parte degli avversari di Francia. Il principe cardinale meditava a Roma vasti disegni per for- tificare il partiti) italiano, e sino ad un certo punto non la pensava male. lanl d'avantage <(uc s'ils ne se conduisenl avcc une adresse oxlicine il Ics porle oh à rompre ou à se ilooner le lori. Le seul nom d'empeieui lui est eu lioireur: cesi pourquoi il se mit soudaiu sur l'iuveclive de soo clection , qa'il soiilicnl èlrc defcclueusc . . . prolcslanl au lesle que si les autrcs princes veuicnt faire des faules et lémoiyuer de l'aiblcsses , que le Roy n'j estait dispose et que ce scrnit une belle coinédie d'a\oir un ambassadeur de V. A. dans la maison d'Aulriclie , liindis qu'clle lui laisail la j;ucrre. Que V. A. élail prince libie ci pouvail Irailer les att'aires avcc qu'il ìu\ plaisail, mais quii l'allail avoiv ses inlenliims par ccrit (1) Figlio di Giovanni ÌAt CI ere , siijnor di Trenililaj e di Maria La Fajellc, sosteiino del Richelieu, che voleva far creare canlinalc in premi" de' srrTt!;i lesigli. Ma mori a Ruel il !S dicembre del 1638, di sessaulun anuo. DI (lAUDF.NZIO CLARETTA. 339 Studiando una lega di principi italiani, per ottenere a suo tempo un papa, che potesse sostenere quelle fazioni, e siccome era molto ambizioso, così forse non si commetterebbe un errore ove si ammettesse, ch'egli probabil- mente non credeva impossibile col tempo la scelta di sua persona in Capo sovrano della cristianità. Comunque, restringendosi allora a men elevati voli, limitavasi a propugnare 1' acquisto per la Casa di Savoia del palazzo di Montegiordano, che avrebbe servito di residenza al protettore italiano, ai ministri di Savoia ed a lui stesso. Poi, come cosa secondaria, ma va- levole anche a fortificare in Roma il partito di Savoia, ideava pm-e un disegno di matrimonio di donna Margherita sua sorella naturale, col duca Cesarini. A trattare ([uesta proposta egli aveva incaricato il suo fedele agente e consigliere il conte Gromo di Mussano di recarsi a Torino, a discorrerne col padre VIonod e colla duchessa. Ma siccome nei primi negoziati, il Mussano aveva offeso la duchessa, così il Monod compiè egli la missione, di cui die parte al duca con sua lettera del due giugno, che come inedita qui riferirò pel suo interesse (i). Forse, anche qui, se fosse vissuto il duca, la parte assai viva sostenuta dai due principi fratelli Maurizio e Tommaso, avrebbe rintuzzato la bra- vura e la unllanteria di Francia. Ma morto poi nell'ottobre "Vittorio Amedeo, che lasciò reggente la giovane consorte Cristina, le cose cangiarono, e la condizione del Monod subì nuove fasi. Continuò egli bensì ad essere il fedel consigliere della Corona, ma probabilmente non abbastanza si contenne 'nelle sue mire avverse a Francia, con che si preparò la mina, che gli procurarono il suo carattere troppo insistente e l'animavversione dell' Emeri e di altri della stessa Corte ducale. (1) Documento a. VII. 34o SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI IV. LA REGGENZA DI MADAMA REALE CRISTINA Cosi numerosi luiono gli scritti succedutisi in questi ultimi anni a brevi intervalli gli uni dagli altri, sulla colta, sehben dispettosa figlia del grande Enrico di Francia, che sarebbe opra gettata lo estendermi qui a tessere una esposizione sulle sue gesta, bastando per laigomeuLo che si tratta, di avvertire, che lo schietto alletto ai paese , la cui causa ella sostenne, quanto i tempi e lindole sua il consentivano, guastò talora con atti di favo- ritismo, ohe difficilmente sogliono disgiungersi dal reggimento di donna. Ed omettendo qui di accennare alle censure, che ben se le potrebbero muovere, per l'amministrazione interna dello Stato, macchiata da determina- ziom mconsulte e lesive della giustizia, e per la sregolatezza nello spen- dere il pubblico danaro, basterà di avvertire, come straordinario per noi, iu il patrocinio, di cui seppe esser larga alle lettere, alle scienze ed alle arti, onde in codesta rassegna letteraria il nome suo vuol essere ricordato con riconoscenza, ancorché siffatta propensione si risentisse talora di quelle inconsideratezze, le quali facevano si, che talvolta si venissero a ricompen- sare i faccendieri, a detrimento dei veri meritevoli, ma non intromettenti. Consideriamo intanto il seguito delle vicende del padre Monod, che fu indirettamente cagione alla duchessa di far prova d'animo virile, e di non ♦•edere menomamente alle strane pretese di Francia, lesive dell'indipen- denza sovrana. Dovendosi nel i638 rinnovare la lega offensiva e difensiva con Francia, lega che nel i635 era stata conchiusa con Vittorio Amedeo, il Monod, come membro del consiglio ducale, osservò " che dovevasi ad ogni costo conservare la buona unione della Savoia colla Francia, e piuttosto che romperla, duvevaiisi sopportare gli incomodi di una guerra ollensiva contro la Spagna; essere poi eresia preferirle l'amiciziii con questa potenza (i) ». Soggiunse indi, dannosa essere la lega, e sol" cvmvenire al Piemonte la neutralità, al quale scopo dovevano rivolgersi tutte le mire del Governo. Il principio contrario era propugnato dal conte Filippo d'Aglio, che volev.i (1) Archivio ili Sialo, ['arerò del .Muiiuii. .itatene politiche. DI GAUDENZIO CLARET TA. 3\l SI circosrrivesse la guerra alla difesa del Piemonte e del Monferrato, né la duchessa si obbligasse a portar le armi contro Lombardia. E codesto partito vinse nel Consiglio. Come direttore di spirilo, e cmisigliert! molto insistente, il Monod poteva assai alla Corte, ed il suo voto preponderante era temuto a Parigi, ancorchi\ la sua imlinazione al contraddire, cresciutagli coli aumentarsi dei dispetti verso Francia, avessegli inimicato alquanto il conte Filippo d Agliè, e per rillesst) anche un tantino la duchessa; e qui si racconta l'aneddoto, che cioc mia volta dolendosi essa di un grave disgusto, da lui procacciatole, e protestando di più non volergli perdonare, egli dopo avere cercato indarno tli rammorbidarla, vedendola ostinata, traesse dalla cintura il cro- cifisso, dicendole risolutamente, o deponesse tosto 1 affronto, o si cercasse d'altro confessore, con clic riuscì atl espillare qualche lagrima da Cristina, e tosto ottenerne il perdono, essendo quella principessa assai proclive alle lagrime, che aveva a' suoi cenni, forse più delle altre donne. Ma il d'Eiiieri, uomo corrotto e cieco esecutore dei comandi di Riche- lieu, per (pianto fossero essi ingiusti ed iniqui, non perdei le piiì di vista il Monod , ed adoperatosi energicamente coi suoi avversali , tesegli cosi bene il laccio, che abilmente lo fece allontanare dalla Corte. L" Emeri più non poteva aver pace, sinché non avesse in suo potere Tostile gesuita, esagerando a Parigi, che senza di lui sarebbe stato padrone della Corte e di tutto il paese, ma il Richelieu, che più freddo, e conscio delle relazioni del padre colia duchessa e del naturale di questa, sapeva che bisognava camminare con molto riguardo, coiisigliavagli di avei' pa- zienza, e cercando sempre di guadagnare terreno, colpire quando fossevi cei'tezza tli polerlo fare con sicurezza. Bazzicando costui di frequente alla Corte, sebbene fosse più odiatt> di quel che stimato, avendo modi assai grossolani e tracotanti, tuttavia face- vasi sembianza di iivciirlo, correndo i tempi grossi, e la F'rancia essendo la st)la àncora di salve//,a pel barcollante governo della duchessa. Molti aneildoti correvano allora sui rapporti di lei col Monod, coli linieri e col conte Filippo, e vuoisi clic un di essa notasse su d'una lettera del Monod scritta al fournon, e presentatagli dal conte Filippo, Baroli, qiiand tu auras à invotjuer Sainte Christine, ne thidresse poini à Saint Ignace. Il ministro Irancese fiutava ogni passo, ogni detto, e quando credette aver guadagnato assai, s'atteggiò anche da bullo, e con moine e con mille vezzi, contralliiceva alla presenza di Cristina i gesti, il vibrar delle mani, 3/, SUI PRINCIPAU STORICI PIEMONTESI l'alzar tlegli omeri e la voce roca del gesuita, e visto soriiderglisi, e rispon- derelisi con facezie, ne scrisse tosto a Parigi, avvisando che Fora della vendetta pareva ormai giunta. Saccinse allora allopera, cercando di col- pire con mezzi non ancora odiosi: si tentò il Monod dal lato dell'ambi- zione, offrendogli elevate dignità ecclesiastiche. La duchessa medesima ccmvinta, che la sua presenza alla Corte inaspriva fuori modo la Francia, suoceri di crearlo grande elemosiniere, poi di proporlo alla sede di "Moriana; ma egli stesso sulle prime oppose le regole della compagnia, vietanti il con- seguimento di dignità, poi Roma non volle consentirlo. L" Eineri allora, commendando l'ingegno del nostro storiografo, disse che lo si sarebbe dovuto incaricare di missione in Francia, ma era una scappata Iroppo grossa, ed il Monod ricusando ricisamente, non dubitò di rispondere, che non mai avrebbe vai'cato le alpi, e che si sarebbe appagato di vedere la Francia ed il Uichelieu in sole pitture. Senonchè corse egli stesso pre- cipitoso verso la sua ruina , poiché invece di usar meno a Corte, non desistette dall'aizzare vieppiù la duchessa contro Francia, ingrandendcì i non improbabili conati del cardinale, ed animandola a starsene indipen- dente, pili di quel che occoiTCsse politicamente a quei «fi, anche nell'in- teresse dell'incolumità della indipendenza piemontese, che pure, stava co- tanto a cuore alla nostra duchessa. Essa medesima poi non seppe tenersi abbastanza cauta ne' discorsi, ed in breve l'Èmeri potè a fondo cono- scere i menomi -cenni ed i menomi detti del palazzo; onde senza indugio gerisse a Parigi, che non bisognava più ritardare a compiere i disegni sul veemente gesuita. Allora il Richelieu pieno di stizza, rispose al ministro « C'est une impos- n ture si manifeste, qu'il faut étre diable pour en étre auteur, et il est » bien à craindre qu'un esprit capable d'un si diabolique artifice le soit de « divers aulres attentats encore plus méchants d. Si concertarono varii mezzi di aver alle mani quel fiero avversario, e tutti degni dell'iracondia e malvagità di chi ne era fautore. Questi consistevano, o nel sorprenderlo di notte, imbavagliarlo, chiuderlo in Pinerolo fortezza francese, o farlo uscire dallo Stato, incaricandosi poi la Francia del resto, ovvero relegarlo a Nizza od a Ciamberì, e di là trarlo a bell'agio in qualche agguato. La duchessa vistasi ridotta alla mala parata, ma orgogliosa della indipendenza sovrana, cominciò a spedir a Parigi il conte di Cumiana per difendere il rigido, il fanatico, il passionato se vuoi, ma fedelissimo consigliere della Corona. Ma Richelieu giurò, che non avrebbe più trattalo alrun negozio M GVUOEiNZlO flURITTA. 343 con Torino, se la duciiessa persisteva a tenersi ai fianchi il Monod. Inca- ricalo di tal missione alla nostra Corte tu il signor di Chabran , gentiluomo francese, die al ritorno a Parigi, avendo dimostrato di compassionare il perseguitato gesuita, ne In ripagato colla rilegazione a Pierre Encise. A (pieslo punto la duchessa doveva prendere qualche temperamento anche nel I interesse del Monod, che torse nella stessa Tonno non poteva più rimanere sicuro. Fu egli adunque confinato a (>uneo. ma cpiesto soggiorno non garbava a Francia, scorgendo che troppo facile era la comunicazione con Torino, cosicché nel periodo st)lo di un giorno egli avrebbe potuto essere facilmente informalo de negozii politici , e mandare i suoi avvisi. I luiiiisti'i francesi sapevano egregiamente spiare quanto succedeva li-a Cuneo e Torino, uè s'ingannavano scrivendo a Parigi, che continuo era il carteggio del relegato gesuita col (ioverno. Infatti tia le lettere indi- rizzate al conte FilipjM) d Aglié, sunvene du? medile da me scelte, e che lisguardano i consigli politici, che il Monod proseguiva a dare alla du- chessa per mezzo del suo ministro in riguardo dell'accennata conclusione dell'alleanza francese (t). (1) Il 27 iJI marzo cos'i scriveva al colile Filippo: e Dall'onoip che mi fa .M. R., vedo benissimo la coulinuazioiie ilella prolezione che V. K. tiene d'un suo devotissimo servo, e le ne resto con inli- niti oldilighi. (^osi l'ossi io buono a corrispondere alla aspettazione che S. A. 11. si degna avere del mio parere come vorrei e sarei obbligato, ma che cosa potrei aggiungere alla singolare prudenza e lunga esperienza di V. li. , pure per ubbidire ho toccato <|ualche cosa di tulli i capi che V. E. mi ha accennalo. E pcrchi; nella sua non mi parla del soccorso di Breme, e che all'ora d'adesso che ogni cosa sarii risoluta, iiou saprei dir altro che siccome ora si puouui> negare ai Francesi tulli i soc- corsi di vettovaglie ed altre provvigioni, cosi sarebbe desiderabile di potere schermire di mandar gente almeno che uscisse dallo Stalo o di quello di Monferrato, perchè quando la nostra gente fosse acquartierala in una di queste pioviucie si può sempre dire che sono ivi per dilesa. Si potrebbe anco pigliare occasione dal romando di far (|ualche dillicnltà, allesochè un generale della cavalleria di S. A. H. vada solto quelli che sono adesso nell'armala francese. Fraltanlo verrà qualche risposta di Francia, e dalla quale si piglierà maggior lume. « (gnaulo pili premeranno nella lega oll'cnsiva , tanlo luaggionneiile bisogna per mio parere fuggirla, ma ci va un poco di pello nel parlare e slare saldo, e quando M. R. si risolvesse a non consentirvi assolutamente, non vorrei ch'ella slessa ne facesse la risposta, ma che si rimettesse al suo consiglio e che commettesse a uno o due uomini togati di far Tambasciala , i quali riducessero II suo discorso in due capi, che cioi; se si dimanda, per obbligo non ve n' e alcuno, come Lhiaiamenle consta dai trattati, se per convenienza, .sono cessali tulli i molivi che ebbe S A. R. quando la fece, come già si è ampiamente discorso nelle istruzioni mandale al signor marchese di S. Maurizio. Che se si ridurrauDo i Francesi all'estremo di dire che se M. It. non la farà la terranno per nemica , cre- derei forse bene di mandar loro in iscrillo questa protesta . con dirle che M. R. non vuole prima dar parte a S. M., la quale essa non crede che sia informala di qiiesla violenza, che se la fa senza che ella ne abbia dato cagione alcuna e < on questo si pigliar.! tempo per deliberare meglio, lo provai per esperienza, ijuamlo fin deputalo per far l'allro Iratlalo, che non bisogna credere alle prime mi- 344 '"" P"'^''P^'' STORICI PIEMONTESI Le agevolezze lasciate dal governo di Torino al Monod davano occa- sione ad altra missione del signor di Bonnelle, spedito per parlare ancor più severamente alla duchessa; e già Moinmeliano, Annecy ed altre piazze cominciavano a venire a galla, quando il Monod, accortosi die l'afifare vieppiù s'imbrogliava, un bel di fingendo d'uscir da Cuneo per diporto, quetaniente s'incamminò su di un cavallo, segretamente apprestatogli, verso Mondovì, per recarsi Torse in più remoto paese. Sorpreso però dagli inca- ricati alla di lui sorveglianza, e temendo i medesimi che tentasse di nuovo di evadersi da Cuneo, e che finisse di cadere nelle mani de' suoi nemici, lo chiusero nella rocca di Mommeliano; onde nel cuor del veino dovè valicare il Moncenisio, accompagnato per difesa, e per qualunque accidente potesse succedergli nel viaggio, da sessanta archibugieri della guardia ducale. Era questa una prigionia forzata, ma richiesta dalle esigenze del tempo e dall'indole stessa del gesuita, incapace omai a contenersi: onde essa poi veniva censurala da colori) che considerano unicanienlc i fatti alla sola corteccia. TI Governo usò tutti i riguardi per far apparire meno aspro quel soggiorno alpino, ed alcune camere decentemente airedate. la facoltà di ricrearsi pel forte, la conversazione di un compagno, un desco onesto, e la lettura di quanti libri garbassero all'illustre prigioniero, potevano sino a certo punto temperare l'imperiosità delle contingenze. Del resto, in prova che codesta determinazione era assolutamente richiesta dalle esigenze, basti» osservare che all'arrivo del nostro ospite, il pie.sidio del forte di Mommeliano fu accresciuto di varie compagnie di soldatesca, non al certo necessaria per impedir la fuga di quell'esile persona, che due uomini naccie dei Francesi. Mi prolestarono cento volte che il Re avrebbe dicliiarata la yuerra a S. A. R. s'egli non faceva al modo loro e a tutte le dillicoltà tornano questa canzone in campagna, e pure stessimo quattro mesi e più in queste tenzoni , e bisogna che avessero pazienza di tralasciare tulle quelle dimande che si ponno vedere in un foglio di scrittura che ho rimesso in mano di M. R. prima di partire. iSè mai in tulio quel tempo vi fu parola fastidiosa fra S. A. R. e gli ambasciatori perchè non parlavano iusicme di queste cose, lo stento a credere che mai siano per dichiarare la guerra a M. R. per questa causa. Quanto al trattato segreto di Cherasco io non vi era ([uando fu fallo, nfe mai ho veduto l'originale; al signor Pasero non fu comunicato, onde non ne potrei dar conto. Se non si troverà Ira le scritture che restarono a veder.si la sera innanzi che io partissi non mi posso immaginare dove sia. « Per ristrultoria di quanto si ha da fare , basta la copia che V. E. ha avuto dal signor C. Del trattato finto bisogna tenerne molto conto perchè vi è la dichiarazione come sia finto e che bisogna slare su quello del 31 marzo del 1631, onde per essere relativo a quello è anco confermatiyo , ed è certo che i Francesi avendo stampato e pubblicato questo secondo Iratlato come se (osse il vero, potrebbero pretendere che si stesse a quello, se non vi fosse la dichiarazione della nullità di esso». m GAUDENZIO IXARKTTA. à/\5 poleviìtio guardare, ma bensì per prevenire qualunque violenza straniera si fosse per manifestare. Sicuramente che conveniva al Richelieu fai- rico- noscere l'accaduto quale vittoria ottenuta, né reca maraviglia che lo strom- bazzasse sulla gazzetta di Parigi con questi accenti « Madame de Savoye » enfm a eiivoyé lo Pére Monod prisonnier dans la cito de Monlmelian, » convaincu depuis long temps d'avoir ilieno (esprit du servire de ceux qui » protègent la maison de Savoie avec tant de zèle et depense «. Ma chi non trova indecoroso quel millantarsi del poco ohe laceva la Francia, la quale pur in segreto agognava molto al Piemonte! Quel cenno però sui giornali ili Parigi fu una violazione di quanto aveva promesso alla duchessa il cardinal della N'alletta, come tolgo da questo interessante passo inedito della lettera del due febbraio del i638 dell'egregio diplomatico, l'abate della Monta, al ministro S. Tommaso « Dii'ò solo esser vero che la fuga del padre Nb)niid fece risulv(;re totalmente alla sua detenzione M. R., ma però non potoisi negare essere già disposta a ciò dagli ullicii ilei conte Fi- lippo, come ai'gomentar si può da quello che esso signor conte ed io tre o quattro giorni stanti alla fuga dicessimo al signor cardinale della Valletta, e pertanto non è stato negozio forzato ma elettivo. Il signor oaiilinale della Valletta promise in casa sua al signor conte Filippo e a me di non spedire corriere alcuno sopra l'avviso della detenzione di esso padre, che non fosse di comun concerto, eppure per li avvisi e gazzette di Francia si vede che egli spedì subito a portarne la nuova (i) ». Nel modi) ohe alla duchessa, la quale trovavasi oppressa tlalle più dure vicissitudini e prove, così ad un uomo della tempera del Monod era im- possibile di astenersi da qualche oonumicazione epistolare, in cui non doveva al i:erto essere estranea la politica, ed una lunga lettera del povero gesuita, che è un memorandum di tutta la sua vita politica, dal primo giorno, in cui era stato chiamato alla Corte, sino alloia , è pur un monumento degno del suo ingegno e prova della rettitudine delle sue intenzioni. Ned infrequente era quel conunercio epistolare, il quale concorse ad ingelosire non poco la Francia. Non discorio a caso : il cavaliere Vin- cenzo Berrò, agente di Savoia a Parigi, scriveva a quei dì a Torino, che presso quel Governo tenevansi molto d' occhio i portamenti del gesuita , sebbene rinchiuso in quella rocca, temendosi assai la sua lingua e la sua penna. Soggiunge vasi, che si sapeva essere « così pecunioso delie pensioni (I] helleie di particolari. Serie li. Tom. XXX. 44 3^5 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI che M. R. le dava, che era cosa pericolosissima di far che subornasse alcuno di quella guarnigione, e che si meravigliava assai di vedere che tutto ciò fosse permesso e con tanta franchezza eziandin col medesimo Governatore si è famigliarizzato, che con le sue solite furberie potrebbe in breve fare qualche gran scelleraggine, e ini si disse di più che quando M. R. sapesse tutto questo, non le rimedierebbe, poiché la sua- bontà è tale, che il male non lo crede, raccontandomi i casi seguiti di molte cose che non è stata I A. S. R. avvertita , e che mai ha voluto credere e per conseguenza pigliar provvigione per rimediarvi (i) ». La duchessa Cristina essendo assai ciarliera, e molto inclinata a rap- presentare scene di commedia, era tenuta, non senza ragione, in concetto leggiero da quei perspicaci ministri, sdegnati bensì che ella non cedesse alle loro mire. Per non inasprire però di più quel Govèrno, quando nel maggio del 1639 il duca colla sorella lasciava il castello di Ciamberì per ritirarsi nella rocca di Mommeliano, prendevausi tutte le precauzioni, aftinché il Monod si tenesse qual prigioniero, né potesse conversare colla Corte; e l'abate d'Aglié ragguagliando il conte Filippo di quella visita, soggiugneva, che sino allora non avevano ancora quei principi veduto il gesuita « il quale ha promesso dalla messa in poi starsene sempre sequestrato nella sua camera a l)asso fuori del dongione (:>) ». Ma codesti erano fuochi di paglia per salvai- le apparenze: né il Mo- nod avrebbe saputo padroneggiarsi e quetare il suo spirito, astenendosi dall'intromettersi negli ambiti suoi consigli politici, né la duchessa avrebbe saputo privarsi della sua cooperazioiie a suggerirle il miglior partito a seguirsi in quei casi luttuosi. Fu allora che il Richelieu insistette di nuovo sulla mutazione di trat- tamento preteso inverso il Monod, e già già divulgavasi che non sarebbe stata impossibile una sorpi-esa persino nella ben custodita rocca. L'insistenza della Francia doveva senza dubbio in quei gravi momenti avere le sue conseguenze in riguardo al Monod. Il mattino del sei settembre il governatore di Mommeliano, conte Cagnolo, manifesta vagli, come la duchessa era costretta a farlo rinserrare nell' ino- spita rocca di Miolans. E quanto ostico tornasse al povero gesuita quel (I) .\. S. T. Lellcra al conte d'Agliè. '2) 11)., I. e. DI GAUDE^Z10 CLARETTA. 347 suono, ben lo si appalesa dallo sconvolgimento a cui tu sottoposto l'animo suo in un baleno. Indegnato, e fuori di sé, tosto scrisse alla duchessa, che volle far prova di commuovere con espressioni patetiche, persuaso che eccitando in lei qualche sentimento di commiserazione, potesse riuscire ad impedire l'esecuzione di quel decreto ^i). Le eccezioni opposte dal Monod, il dileguarsi del pericolo che teme- vasi dalle conferenze di Grenoble, allontanarono alcun poco la decisione statuita, che però inesorabilmente, e previa la facoltà ottenuta da Roma, fu messa in atto il diciotto maggio del 1640, e per la seconda volta il Cenlorio Gagnolo dovette portargli 1' ingrata ambasciata. E senza dubbio che il nome dì Miolans, tomba di tanti sgraziati, che gemevano in umide ed oscure celle, dove le membra cadevano loro mezzo (l'acide, e dove molti vestiti di lerio dovevano miseramente vivere ira gli stenti ed i disagi, poteva far impazzire chi aveva ad essei vi racchiuso, fosse paranco soste- nuto dalla speranza di una sollecita liberazione, come si lasciava supporre al nostro prigioniero. Il Monod però non veniva confuso con quegli sgraziati, e come a Mom- meliano , cosi a Miolans iu cura speciale della duchessa di provvedere agli agi suoi, per quanto le contingenze il consentissero. E ad onore della duchessa, che avevagli consentito la compagnia di un dotto suo confratello, il padre Teofdo Raynaud (2), sostituito poi da un frate agostiniano, ri- porto in nota parte delle spese principali (attesi per provvista di arredi, vesti e libri a conforto dell illustre prigioniero (3). (1,1 Uocumenlo u. vili. (2) Il p. TeoClo Raynaud Ja Sospello , autore di centiuaia di opere di controversie leologiclie e sacre fu as.sai encomiato dal RossoUi , suo contemporaneo, che lasciò scritto e Virum istiim, omnium » uationnm testimonio, magnum ingenio, eximium in scribendo, maximum doctrina, animatamliiblio- » thecam pieno ore appellare possem: omnes enim possidebat scientias, memoria pollebat felicissima, » eruditione l'uit maximus, et inQnitae lectionis. Plures legit solus libros, quam viderint plurimi >. (3) (I Mémoire des choses nccessaires cel hivcr pour le rev. pere Monod et son compagnon. — Une soutaine de sèrge d'Angleterre pour la peau, sans poches. Un manteau pour son compagnon de l'étoffe ordìnaire; il est de la laille de son l'rère Paul. Une paire de Iiaut de chausses de sèrge pour le pere avec doubles poches et attachés aux genoux eans donblure, aii lieu de la quelle fait une paire de cale^ons de ratine. Une paire de pantoufles qui ayent le dessus de drap pour le pere à cause des gouttes j un autre des communes pour son compagnon. Deux calottes de sèrge doublé de revèchc. Une chemisette de bollane pour le pere. Six mains de grand papier fin de la méme de celui-ci et trois mains de papier fin moindre. Un carterou de plumes. 3/S SUI PRINCIPAIJ STORICI PIEMONTESI Ma iiilaiiLo la salute affievoliva, e lo spirito diventava ogni di più ab- battuto, e r inquietudine dell'animo lasciava pur presagire poco di buono sul suo conto. Eppure si parlò di tuga tentata, se pur codesti non erano daraori sparsi con arte dagli agenti francesi che lonzavano attorno a quella rocca, e conniventi forse con chi. procurando al Monod la luga, operava la sua consegua in mani loro. Quel che non puossi rivocare in dubbio è. che la duchessa fece invigilare con maggior precauzione, e rigorose con- segne vennero date al presidio rinforzato che custodiva quelle stanze. TI marchese Ottaviano Antonio di S. Germano il sei gennaio 1643 scriveva alla duchessa, che il Monod faceva ogni sforzo per guadagnare qualche soldato della guardia di Miolans, affine di essere secondato nel mandar qua e 1;"\ biglietti, e procurargli la fuga. « Ora, soggiungeva il marchese, sapendo io quanto sii importante d'impedirgli il suo disegno in virtù dell'ordine che tengo da V. A. R. sopra il quale assicuro la mia coscienza, ho stimato necessario fargli mettere alla porta della sua stanza buone serrature, acciò non avesse occasione con la libertà che aveva prima di meltermi in pena, così da due giorni in qua lo fo custodire sotto chiavi, qual cosa egli non può sollrire. e fa tanto strepito che quasi eccede alla ragione, e per questo intima scomuniche non solo contro di me. ma eziandio contro tutti quelli che tengono mano in questo fatto ». Ned agevol cosa ella era la custodia dell'astuto gesuita, ed il povero marchese di S. Germano doveva di continuo mvigilai'e e far invigilare scrupolosa- mente. Inveio pochi giorni dopo un domenicano consegnava al conte Gagnolo un involto, con lettera latina del padre Teofilo succennato, diretta al Monod, ed il S. Germano ignorando naturalmente il latino, e fattane eseguire la versione dal medico, riconosceva contenere quella scrittura una censura al marchese di S. Maurizio, per il che prendeva indi oppor- tuni concerti coll'avvocato generale della Perosa. Nellaprile il padre agostiniano trattenuto a Miolans pei- cagione del Monod, mentre i soldati del presidio suonavano a ritirata, trovava mezzo coll'aiuto di unii fune, assicurata ad uno de cannoni, di calarsi giù dal bastiojie. Ucux pisUilIcs roniiiics pour Ics pailii-s de lapolhicairij et \o\ai,'C5 lio escii\igiez. Ticnte pour payor qiiclques (puvres lliéologiques He? B*rl)0»a el GrotsciiA» q»c '* l»érc iccleuv Ju collage à fi*it venir ile l-joii pour le Hit pere; ijnelijue e liosc |iour tli.uDcr Ics plreimes aux \alels de la maison, à Miolans ce 8 janvier 1(<ÌI >. Pi GAUDENZIO (l.ARKTIA. 349 Il marchese avutone avviso, fu lutlo sossqpra , temendo si divulgassero rivelazioni e corrispondenze del INIonod , che avrebl>ero procurato poi più rigorosa esigenza da parte di Francia : onde supponendo che non dovesse essere guari lontano, lattosi animo, ordinò che si spiassero le cir- costanze di Miolans. locchè servì veramente allo scopo, inquanto raggiun- gevasi il fuggitivo a mezza lega, in uno stato tale che non ne poteva quasi piiJ, essendo mezzo storpiato dalla caduta che fece, sicché subito fattolo montare a cavallo « ben accompagnato me lo condusse sulla sera mentre alla veiità io non sperava più |)otorlo riavere, e quando lo vidi ebbi altrettanta consolazione, come grande mi fu la mortificazione della sua fuga, per il che l'ho fatto rinserrare in luogo sicuro, tuttoché questi signori delegali del senato non mi approvino die io lo tenghi sotto chiave, come già da quattro mesi in qua Da essi pure mi fu ordinato di lasciargli la libertà |)er il donzone come religioso: ma perchè lo vedo ridotto quasi alla disperazione, non posso di meno di assicurarmene meglio acciò nuovamente non cercasse precipitarsi » (i). Le vicende del P. Monod diedero occasione alla duchessa di dimostrare la sua grande fermezza, poiché dopoché si era da Francia imprigionato il conte Filippo di Agliè, che si tradusse nel castello di \ incennes, labate Mondino agente di Savoia a Parigi, che sapeva destramente conciliare coi servigi del suo principe, i suoi interessi, e fors anco quei di Francia, avendo da sé proposto il cambio di lui col Monod , Cristina ributtò allistante da tal disegno, né mai consenti di sacrificare l'infelice gesuita al favorito. E codesto allo onora altamente la duchessa Cristina. Senonchè, non molto in appresso, doveva dileguarsi ogni timore sul conto del Moiiiul, inquantochè nel verno del 164 ( il povero padre in- fermatosi gravemente , tra febbri acute e vomiti continui . stentatamente potè superare i due più rigidi mesi dell'anno. Accertato lo slato suo gra- vissimo, gli In consentito di avere ai fiaiu-hi il padre Debeausse , rettore del collegio di Ciamber'i, e he pietoso lo assistè sino alla morte avvenuta il 3 1 di marzo. Il governatore di Miolans potè allora dar facile passo a quel corpo, che vivo aveva richiesto tante vigilanze, e che seppellivasi nel priorato di S. Filip}xi di Ciambeiì. Visitati pure gli scritti, che in sei anni di de- tenzione erano stati dal Monod compilati, mentre come .soldato non cre- (i) ib., I. t. 35o SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI deva di sofrennaisi sulla parte essenziale, che insieme a libri faceva sug- gellare in involto, e spedire a Torino], intertenevasi particolarmente ad intorniare la duchessa, come l'ingegnoso gesuita avesse nella cattività co- strutti) un curioso orologio, non ultimato, ina coli' istruzione necessaria per condurlo a termine. Anche a Torino il grand archivista, presidente Cristol'oro Faussone, ese- guiva indagini presso il collegio de" gesuiti per ritirare gli scritti lasciati dal VIonod, locchc coinpievasi inentr egli ancor era vivo. Il Faussone vi andava coli' arcivescovo, e trovale quelle scritture, liponevale in un colano coi suggello del prelati), avvisandolo però che le migliori già erano state tolte a Cuneo e rimesse nell'archivio. Composto poi un indice, sollecito presentavalo alla duchessa, avvisandola di avere trovato l' importante istru- zione, che il duca Carlo Emanuele I aveva consegnalo ai suoi figli quando erano inviali alla Corte di Spagna, istruzione che lòrse andò smarrita, e che io in)n potei consultare quando scrissi la vita di uno di (pici principi, Emanuele Filiberto. E così miseranda fine toccava ali istoriografo, al imnislni di due regni? che avrebbe potuto illustrare assai la patria letteratura, ove riinoven- dosi dalle cure politiche e dal passionato parteggiare, si fosse mantenuto nella pacifica regione degli sludi, e che forse non poca gloria avrebbe anco acquistato in politica , ove non avesse avuto per antagonista un Richelieu. Le interessami avventure del Monod ci hanno distolto dal pioseguire il cenno sui suoi scritti; oltre dunque quelli già indicati, ei fu autore della Apologie francoise poter la serenissime maison de Savoje cantre les scan- daleiises invectives intitulées i et i savoisiennes , oà se volt comme ìes (Ines (le Savoie ne possèdent chose aucune injustement usurpée sur la couronne de France , mais ani été les plus ronstans eti fumilié de ses rojs, comme les plus anciens en lew alliance. Il primo libello erasi pub- blicato nel iGoo, quando Enrico TV occupava militarmente la Bressa e la Savoia, nello scopo dimpedire la sostituzione di quelle due provinole; il secondo venne alla luce nel i63o. In essi sostanzialmente tendevasi a provare, che quanto i principi di Casa Savoia possedevano, era stato da loro acquistato per forza d'armi, tolta la Moriana; ch'essi sempre avevano turbato l'Italia, e che la loro vicinanza sempre era stata funesta alla Francia. Erano errori che confutavansi da sé senza risposta, ma i tempi non erano da ciò. Ili GAUDENZIO CLARKTTA. 35 f Il MoiiocI accenna a questo suo sciitto in sua lettera da Parigi del di- ciotto settembre del i63i con questo parole: « Quand je passai a Cham- » héry au coimiiencement de juillet je reinis au sieur Garnerin la réponse » aux Savuisiennes . afin quii la fit imprimer, et fit aller de Lyon un » iinprimeur avec Ics caraclères pour v travailler, car à Lyon il y avait » de gens qu'on l'empecha. Cela a étc cause d un peu plus de depenses, » et à ce qu'on mécrit, faute d étre payés, les ouvriers vont lentement: » il sprait nécessaire que V. A. en écrivit un peu lorlement audit sieur Gar- n ncrin, j'ai appris que c'est assurement nionsieur de Garin qui a fait les )) Savoisienties et servi le cardinal fori en semblables ccritures. C est » lui qui a fait la défense coiitre les manifestes de la Reine et de Mon- )) sieur ». Dunque questa lettera ci apprende l'anonimo autore di quel libello sin qui sconosciuto. Era naturale che alla nostra Corte si mettesse molto impegno a rispondervi, ed il primo di ottobre delln slesso anno nuovamente il Monod scriveva che nelle risposte alle Snvoisiennes stavano schierali tutti i servigi dalla Casa di Savoia resi alla Francia, e che già era pntnta una versione in italiano^ aflìdatasi alF aliate Orengiano. Nello stesso tempo scriveva pure, che la narrazione dei servigi dalla stessa Casa resi agli imperatori ed ai pontefici, stava altresì composta, e che giunto a Torino l'avrebbe messa in netto. Ma ben grave lotta, come si disse, eccitava l'ojjera del titolo rei^io. L'olandese Teodoro Graswinkel (i) scrisse conlio il libro del Monod un trattato De juie praccedriifiae iiiLer sereìdssimain FeneLam Rewpublicnni et scre/iissiinum Sabaiuliac Dticein, ove lasciossi però traspollar di troppo contro il suo avversario. Gaspare Gianotti avendo dato un parere sulle ra- gioni che aveva la repubblica di Venezia su Cipro e sul titolo regio assunto dai duchi di Savoia (2), il Monod vi rispondeva con una ben concertata scrittura, in forma di lettera datata da Torino il 22 aprile 1634. e che credo degna di pubblicazione, perchè rivela lacume del nostro storiografo (3). (I Kra iialo a Dclli. Nel 1643 pubblicava all'Aja un libro De juic Majeslatis, iiililolulu alla regina Cristina di Svezia. Fu mollo tenero di Venezia , per cui scrisse la Libertas venda, seu Fenctorum in .«e, ac suns imperatìdi jus. In premio la repubblica creolln cavaliere di S. Marco. Mori a Malines nel 1666, e fu sepolto nella cattedrale dell'Aja con onorevole cpilaflo. (3) Parere scritto al sig. GiulioCesare Cantelmi sopra il ristretto delle rivoluzioni del reame di Cipro V ragioni della serenissima Casa di Savoia sopra di esso e sopra uo breve trattalo del titolo regale dovuto a S. A. S. stampalo a Torino senza nome d"aulore. Il conte Daru nella sua Hisloirc ile Fenise 1821 pare i;,'nora5se l'esistenza di i|uell'opu9coln. og(:;idi a«sai raro, p riprodoltn in esemplari a penna. (3) Uocuinenlo n. VI. 35a SUI PKIM IPAM Si ORICI PIEMONTESI In altra noleinica egli entrava pure, col rispondere nel i636 in forma di lèttera, al padre (iian Maria Cainogi ad uno scritto pubblicalo dal genovese Federico de' Federici, relativamente a quanto aveva dello sulla Casa di Savoia ne rapporti con Genova. K siccome il Cainogi solto il pseudonimo di Onorato Fedeli aveva arcliitellala una risposta al Monod, così questi prendeva la palla al balzo, ed il «S gennaio di quell'anno nspondevagli con risentimento, cominciando dal testo di Tertulliano Mhil veritas erubescit non solummodo abscomli. ed osservanilogli ch'egli non arrossiva di soscrivere la sua lettera e di combattere a viso scoperto. « Ma, padre mio, concliiude\a burlando il vivace nostro storiografo, noi altri Piemontesi bendiò Liguri non siamo proieti, né ci basta 1 ingegno di in- dovinare il giorno preciso della nostra morie, e se a me fosse concesso 1 indovinare, vorrei sapere il nome del nostro replicante per dirgli all'o- recchio ch'egli fa bene a minacciarmi un vespaio, poiché Jaciunt fen'os et vespas come diceva Tertulliano, ma non fatino né miele né cera e così da esse non si può aspettare altro che (pianto della vespa diceva "Varrone: similitudimm apis huhet sed necjue socia est operis , et nocere solet moi'sii ». Parecchi altri lavori autografi del Monod, in paile compleli ed in parte no, e di cui non diraoslrarono conoscenza i suoi biografi, si coaservano negli archivi: cito » Le succès des armées du roi de France et de S. A. » le due de Savoie en l'État de Génes; L'histoire de Charles Emmanuel I; » de Victor Amél; de la régence de Christine de France, jusqu'à la » majorité de Charles Emmanuel II ; des clievaliers et de létat de che- » valerie » , piccolo trattatello sull'origine de'cavalieri, sullo stato e stima che un dì facevasi della cavalleria , e che si conserva autografo nella regia Biblioteca , ove pure lu da me consultala la sua dissertazione su di una medaglia di Vittorio Amedeo I, la quale aveva scolpilo un uc- cello di paradiso, col motto Coelestis aemula molus. Agli archivi di Stato sonvi questi altri manoscritti del Monod: Amedeo l'innocente, ovvero la difesa di Felice nella sua obbedienza a Papa V dalle calunnie del Blandi e del Poggio e di altri scrittori; Un Discorso sul matrimonio di Carlo Emanuele I ; « Les remarques historiques selon » la chionologie, la plus part pour l'histoire de Savoie; Les mémoires his- » toriques tirées de plusieurs auteurs et qui ont servi à la rédaction des » annales de Savoie »; Il discorso sull'origine e discendenza della R. Casa di Savoia da quella di Sassonia, ove ad un punto così ragiona: « È curiosa DI GAUDENZIO CI.ARETTA. 353 a questo proposito l'osservazione fatta da fu S. A., di gloriosa ed incom- parabile memoria, al (piale come a principe non men dotto che valoroso dimandando io un giorno se sapeva la ragione che aveva indotto suo padre il duca Kmanuele Filiberto a mutare Io scudo delle sue armi, poiché li suoi predecessori non avevano mai portato che l'aquila e la croce bianca, mi lispose che il motivo era stato perchè suo padre tiovandosi in Ale- magua con l'imperatore Carlo V in tutte le guerre che fece contro i pro- testanti s'accorse che gli imperiali vedevano mal volentieri quella gran croce bianca che è sopra il suo padiglione e nel suo stendaido campeg- giare come se troppo s'accostasse alla livrea di Fi-ància. F.gli adunque preso il parere de' suoi consiglieri lisolvette di coitlpartire il suo scudo al modo dei Tedesclii, quali tanto più stimano le armi (pianto più qual-- tieri Inumo. Né gli parve di poter più nobilmente inquartarlo che se alli suoi tre ducati di Savoia, Aosta e Ciablais aggiungeva le aiini di Sassonia pei" far palese a tutti l'origine sua. Piacque infinitamente ai Tedeschi il parere del duca, ma principalmente ai principi sassoni Maurizio ed Augusto, i quali fecero un' ampia dichiarazione in favore suo, volendo che per essa constasse a lutto il mondo come il duca Emanuele Filibei-to era vera- mente e legittimamente uscito dalla serenissima Ca.sa di Sassonia e che egli, suoi eredi e successori come principi sassoni d'origine potevano inquartare il suo scudo dellarma principale di Sas.sonia. Quindi è dunque che da allora in poi Savoia ha pollato sempre nel i° e 4" di Sa.ssonia, cioè di rosso al cavallo gaio nel primo e nel saltante d'argento, e di fasciato d'oro e di nero alla banda verde d'una corona di ruta innestata di bianco a tre punte rosse di Ibdre di spada » . Persino nell'amaro soggiorno di \Iiolans l'infelice storico compose un trattato Di' la javew des pruices , e lasciò manoscritta VHistoria Gene- vensis et. iiascentis in ea cwitdtis primoi'dia ; gli Annali ecclesiastici e civili della Savoia, dal 900 al 1 1 2, rimasti incompiuti : V Essai histotique si la Savoie élait. jadis et doit éli-e tenue aujourdhni Jìef de Vempire, che vide la luce nel già citato tomo IV delle Memorie della Società di Savoia, ed in cui prova acconciamente, che la Savoia non devesi ritenere del dominio dell'impero, uè per titolo d'antico possesso, nf^ per acquisto od unione fatta alla corona imperiale, essendone la signoria pervenuta ai nostri duchi per mancanza di successori ne' capi del dominio della Borgogna, avvalo- rata da una legittima prescrizione. Dalla suddetta penna uscirono pure \ Elogio di Carlo Emanuele /, e la Serie li. Tom. XXX. /}5 354 '^^' PJ\'f*f'''P'^'-I STORICI PIEMONTESI f'^lta (li Margherita di Savoia marchesa di Monferrato ; il Capriconw ossia oroscopo d'Augusto Cesare fu scritto da lui contro Emanuele Tesauro, che rispose poi colla sua f^ergine trionfante e il Capricorno scornato. E cosi rimangono alquanto più compiute le notizie sul Moiiod, su cui erasi da alcuni scritto alquanto superficialmente, ragione per cui venivano consentiti certi giudizi, non degni della fama di questo illustre Savoiardo. Ed eccoci a parlar ora di una famiglia piemontese, che lievesi ritenere assai benemerita, per il nobile magistero degli studi, che qual caro re- taggio, da padri si trasmise ne' figli e ne" nipoti. È dessa la famiglia dei Saluzzesi Della Cìiiesa , la quale fra i varii uomini distinti che in ogni età ne uscirono, produsse specialmente Gioffredo, Ludovico, Giovanni An- tonio e Francesco Agostino. Gioffredo, di cui serbai qui a parlare, nato a Saluzzo nel i3ij4, fu segretario del marchese Ludovico T di Saluzzo. Oltre essere stato nel i44i creato podestà in patria, fu onoralo di varie missioni in Savoia e Francia, e potè per ragione de' suoi uffizi (che fu per- sin consigliere e segietario del noto Luigi XI), venire istrutto di molli iiitti, e compulsare i documenti esistenU negli archivi de" suoi principi, da' quali fu in grado di laccoglierc i materiali per iscrivere in forma di cro- naca i fasti di queir importantissimo marchesato, che con tutti i diletti e mancanze presenta però non pochi pregi ; e ben meritava che mon- signore Francesco Agostino, dell'agnazione di Gioffredo, ed il Terraneo vi facessero alturno molte critiche osservazioni (i). Gioffredo della Chiesa moriva in Parigi nel niaggio dell'anno i453, con testamento in cui assegnò una ragguardevoi somma di danaro al col- legio dei Lombardi, istituito a quei d'i in quella Metropoli; e l'eredità delle lettere e degli studi veniva raccolta dai citati suoi discendenti. Ludovico, nato in Saluzzo nel luglio del 1578, e studiate a Pavia le leggi, appena diciannovenne potè conseguire il dottorato a Torino nel iSq-y, e nel 1602 ottenere la carica di senatore. Consacrò egli buona parte degli ozii, a lui consentili dalle diuUirne cure del suo elevato uffizio, nel de- dicarsi agU studii, e già nel iGoi pubblicava la f^ita e i fatti dei mar- chesi di Saluzzo ed il piimo libro della Storia del Piemonte. Apertigli poi da Carlo Emanuele 1 gli archivi dello Slato, potè attingervi tutte le (1} 11 titolo dell'opera del Gioffredo è: « farliure e genealogia della illustrissima casa di Sahi-.zo iun li gesti tmmorabili per uulenliii umlratti e laile, verijicati da Gioffiedo Della Chiesa, segretario dei inaj'c/iesi di Saluzzo » . DI GAUDENZIO CLARETTA. j5.> notizie necessarie per ampliare il suo lavoio, che però non ebbe ima seconda edizione, e cosa non avvertita , in varie pagine riuscì dilferente nella stessa prima edizione del 1608 , forse per avere con naturalezza troppo viva narrate certe \erità storiche. Il Terraneo postillò imo di questi esemplari, e pazientemente notò le varianti, tlalle quali ben si scorge quanto guardingo dovesse camminare uno storico di quei gioini nello esporre il vero stato delle cose. Cosi, p. es., in un esemplare, discorrendo d'Aosta, trovansi queste parole : u Neil istessa città nacque Anselmo arcivescovo di Cantuaria nell'Inghilterra , per aver pieilicato la verità, fatto uccidere (la suoi emuli ». Poi discorrendo di Vercelli, si legge in alcune ci>pie . « NeHanno loou l'ietro ucciso e latto abbruciare da' snoi emuli ». Al- trove i-oovpisando tini Piemontesi lasciò scritto, dupo a\i'r accennato a Coloro che inm trattarono con equo giudizio: « Io sperfi hir conosiere al mondo, ilie se iien vi siano stale nel Piemonte diverse qualità di persone ed umori, come in tutte le altre provincie del mondo, si ritrovano dei buoni e tristi, ha però sempre abboiulato d uomini eccellenti in tutte le buone arti e professioni ». Questa è la prima storia del Piemonte che si possa leggere con li ulto, e che, non senza certa critica e retto giudizio, rechi notizie interessanti, e relative, come alla Casa de suoi principi, così a quella ilelle sue nobili famiglie, ed aggiungo, che è il primo lavoro fra di noi. in cui sia registrata questa proli^ssione di fede, onorifica all'autore, perchè ad essa si attenne fedelmente nel corso dell'opera: « Assicurandomi che i premii della bugia sono frivoli e di poca durata e quelli della verità perpetui ed eterni, mi sono posto a seguir lo studio della verità e con essa a scrivere le istorie di Piemonte, patria mia, degna di memoria al pari di <|uelle di ogni altra vicina provincia, e da altri prima non tentate o con negligenza e falsità riferite, né mi sono potuto persuadere che alfaticandomi per scoprir an- tichi fatti importantissimi ed insegnando coi domestici esempi che più degli altri muovono, come si debba amare la virtìi e odiare il vizio e a guisa di candela con iar luce ad altri dovessi me stesso consumare, o in qualunque picciol danno incorrere, e che nello raccontare sinistri e felici avvenimenti d essa patria e de' suoi principi peggio mi potesse avvenire che agli antichi autori di tal professione, i quali non altrimenti il vero nome e lode d'istorici acquistavano, che col riferir tanto il male quanto il bene di quelli de' quali trattavano ed appresso i buoni principi e po- poli, più presto lode e premii, che biasimo e danno rapportaroou , e 356 SIT PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI fuialiDpnle non ho dubitalo che ogni uno il quale voglia spugliarsi total - mente di passione, non giudichi essere di gran lunga più utile a principi il conpscere la verità de' fatti occorsi a loro [>opoli e antecessori, che l'esser imbibilo di bugie, perchè conoscendo la verità »■ facile il non errare, e non olFender il prossimo nò il Signoi- Iddio il quale è te- slimonio con qual zelo, alTezione e sincerità mi sii messo a quest impresa, alla quale i^on ho risparmiato tempo, opere, fatiche e vigilie d'ogni pos- sibile sludio per non lasciar addietro cosa di rilievo . e per rendere la istoria al mondo più integra e purgata; che anzi ho voluto vedere non solo le istorie antiche e moderne, ma anco gli archivi e scritture delle città, terre ed abbazìe, che mi è slato possibile ». Il senatore Della Chiesa investigò in questo lavoro con molta dottrina le origini della Casa di Savoia, e nel suo Nuovo discorso intorno all'o- rigine di questa famiglia cos'i scriveva: « (Questa dunque mi pare la pf^ra verità, cioè che i conti di Savoia e di Moriana siano discesi per linea materna dagli Olloni imperatori et per linea paterna dalli re d Italia et conti di Borgogna ». Fu dunque il primo de' nostri storici che attribuì alla nostra Dinastia lorigiiie italiana, in appresso poi Lauto contestata e tlibaltuta, come vedremo. Questo chiaro ingegno mori di soli cinquantalrè anni in Torino il 24 dicembre del 16:'. t, e fu sepolto a Saluzzo nella gentilizia cappella di S, Giovanni con onorifica iscrizione (i). Alla gloria di storico sincero uni Ludovico quella altres'i di gi'an giur rqconsulto e di poeta, e pubblicò in Torino diverse odi ed epigrammi latini, ed alcuni commenti intorno allo stile del marchesato di Saluzzo, inseriti a pie delle osservazioni forensi del suo nipote Giovanni Antonio. Altro degno nipote di così illustre zio, fu Fraiieesco Agostino, di cui ci ò grate?, di fa}", qui particolare menzione, riportando qualche documento inedito. Ei nacque pure a Saluzzo il sei di ottobre del iSgS da Nicolino signQc di Cervignasco, fratello del senatore Ludovico, e da Lucia Cprvo, gentildonna di Cuneo. Giovinetto ancora fu mandato agli studii in Roma, (1) Ludovico ex perillustri Ecclesiana Salutiarum familia Auguslini senatorie c( consiliariì Fran- cisci IV D. celeberrimi ci marchionalis consiliarii nepoti , et Georgi! II regii reqnest: magistri et marcliionalis vicarii generalis et consilliarii pronepoli et Cervigiiasci et Isascliae corniti IVD. exiniio in Taurinensi Curia senatori optimi inviclissinii ci potentissimi Caroli Emauuelis Sabaudiae duci» fidelissimo consiliario status et requeslarum magislro . liistoriographo diligentissimo et in omni disci- pliqarum genere versalissimo, qui obiil Taurini anno 1621 die 24 decerabris aetatis suae 5.1. Mar- garita cpq^MX jV,ugustinus ss. DI GAUDENZIO r.l.ARETTA. 357 dove consegui la liuiea in leggi civili e canoniche nel pubblico studio di S. Eustachio il sedici gingno del i6i5. Fatto ritorno in patria amò dedicarsi allo stato ecclesiastico, e dal vescovo di Saluzzo Ottavio Viale fti nel if>i8 promosso al diaconato, e provveduto di una cappellania sotto il titolo della Trinità nella cattedrale di S. F2iisebin di Vercelli. Paolo V poi, con bolla del i6 aprile 1620, gli conferì il priorato di Vjlianovetta. Ammesso al sacerdozio, ottenne gli iillìzii di pr(M;onotaio apostolico, e daHa Sagra Congregazione de' riti la missione di togliere, in un con Gerolamo Odetti. inquisitore generale del marchesato di Saluzzo, e Gioffredo Mar- lina, protoiiotaio apostolico e giudice di quella città, informazioni legali sulla vita e sui costumi del pio vescovo di Saluzzo Giovenale Ancina, morto nel i6o4: il che fortiivagli occasione di pubblicai-e un'operetta, oggidì rarissima, che vide la luce in Torino nel 1639 coi tipi del Ca'- valleri , e che intitolò al piincipe di Piemonte Vittorio Amedeo. Questo lavoro del laboriosissimo , indefesso e coscienzioso nostro storiografo ci rivela la sua propensione allo studio ed all'investigazione delle patrie memorie, inquantochè non lasciava sfuggire ([uell'occasione, per porgere altresì un compendio delle cose più notabili della città di Saluzzo, facendo nella dedica conoscere al suo mecenate, che ove non gli fossero per riuscire discari quei doni « avrò animo di comunicare al mondo sotto i|i suo invittissimo e gloriosissimo nome altre fatiche che delle cose di Piemonte ho per le mani ». Dalla pagina 31 alla 33 sonvi interessanti notizie su Saluzzo e sui suoi uomini distinti, poi dopo la vita dell'Ancina, cominciando da carte 44> hannosi di nuovo pregevoli cognizioni che ri.s- guardano i principali avvenimenti di Saluzzo, oltre una breve relazione dei castelli e delle ville di quel marchesato, susseguita dall'elenco de' giudici maggiori e vicaiii generali, presidenti, senescalli e prefetti. Quest'operetta è, come dissi, assai mia oggidì, perchè latta sopprimere per cura di chi riputavasi oHeso nel passo, in cui l'autore narrando la morte del pio vescovo di Saluzzo, recatosi a desco dai Francescani che fe.steggiav;ino il giorno di S. Bernardo, aveva scritto che « da un certo uomo arri.schiato ed audace il quale dal buon vescovo era pochi giorni avanti stato di severo castigo minacciato se dalla non troppo onesta pratica' di un monastero di monache non si asteneva, e da quell'uomo, di cui per la riputazione di sua famiglia non voglio far il ninne, li fu in un bicchier di vino dato il veleno, quale appena ebbe bevuto, che dalli astanti subito si vide cangiar di volto e muoverseli i vomiti ». 358 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Ma il primo lavoi'o del Chiesa lii il Catalogo degli scrittori piemontesi ed altri degli Stati ducali, che pubblicò coi tipi del Cavalieri nel i()i'i, intitolandolo all'abate di Verrua, ambasciatore di Savoia a Roma. L'autore era sol ventenne, e non è a stupire che la composizione sua dovesse riuscire molto imperfetta e riboccante di omissioni, ma grande merito se gli deve con tutto questo ascrivere, essendo lavoro originale, non peranco stato prima di lui sbozzato da venni altro; e pietoso vuoisi ritenere lo scopo che avevalo indotto a pubblicarlo, come manifesta in questi schietti suoi accenti: <( Venendomi a' giorni passati alle mani certe antiche e famose biblioteche raccolte da diversi scrittori . mi venne in pensiero di vedere qual memoria si tenesse in quelle di lauti e tanti eccellentissimi ingegni partoriti dall'alma nostra patria di Piemonte, e dopo averle ve- dute e rivedute insieme, con mio grandissimo disgusto, mi ai-corsi molti essere stati defraudati del proprio onore, parte per aver tralasciato detti autori le più illustri opere di cui fanno menzione, parte per aver trala- sciato molti che ai suoi tempi hanno ritenuto il primo luogo fra virtuosi. Onde, come a pietoso suol accadere, fui acceso d'ardentissimo desiderio che ognuno godesse del debito onore, che il mondo conoscesse non meno d'acutissimo ingegno avei- abbondato per il passato, e per il presente abbondare il vago e fertile territorio piemontese che d'altre cose per quali vien ad essere pareggiato (per non dir superiore) a qualsivoglia altra provincia della bella Italia. Perciò ho usato ogni diligenza (per quanto si estende il debole mio potere) di far una raccolta di scrittori piemontesi sotto nome di catalogo » . Non s'ascose egli stesso l'imperfezione del lavoro, ed apertamente confessò di non aver potuto raccogliere tutto il necessario: onde in età provetta, nel 1660. facevane vina .seconda edizione, pubblicatasi a Car- magnola dal tipografo Colonna, e dedicata all'abate Francesco d'Agliè. Duole che, ad imitazione di quelle famose gare che deturparono le let- tere nostre , anche il Chiesa venisse preso di mira da un emulo , e si avessero a rinnovare quelle pi-olisse discussioni letterarie , e si cadesse in ridicolosi frastagli. Già es.sendovi qualche riigaine fra il Chiesa ed An- drea Rossotti, cistercense riformato della congregazione di S. Bernardo . stanziato al convento di N. D. di Vico presso Mondovì . questi nel suo Sillabo di scrittori piemontesi non lasciava di censurare assai il Chiesa nella stes.sa sua prefazione, menando non piccioi vanto perchè il suo Javoro fosse meglio rimpinzito di notizie, in paragone dell'altro. Poi ni GAIDEWZIO (XARKTTA. 359 con maggior ardore scriveva pur ivi : « Caeteruni adverte, quod dictus » Salutieiisis episcopus ubi in suo novissimi.) catalogo mei mentionem Il habet, scribit (sed sine fundamento) me ex italico latinum iecisse ipsius » calalogimi, (pioil non solum a ventale alienissimuni est, sed nusquam » milii in nieulem venisse, sanclissime aflirnm ut legentibus patebit ». Quanto meglio sarebbe stato pel Kossotti 1 esordire x-on un elogio al nuovo lavoro del vescovo di Saluzzo, f poi encomiare bensì 1 opera sua, senza dubbio preferibile e più completa di quella del Chiesa! Ma ripeto che la moderazione non è virtù a tutti conosciuta, e la diversità di educazione del monaco Hossolti e del vescovo di Saluzzo deve pur tenersi in qualche conto. Il Disco/ so (Iella preminenza del sesso donnesco con il Tcatio delle donne lette/ ale in il secondo lavoro del Chiesa, che vide la luce in Mon- dovi nel 1620, e che intitolò alla duchessa di Mantova, Margherita di Savoia. Ancor questo opuscoletlo, oggidì quasi irreperibile, può ritenersi un solo compendio di poche donne, che I autore scelse per farne una collana, m cui tengono priiicipal luogo alcune principesse della Casa di Savoia, e specialmente Luisa duchessa di Angoulème, madre di Fiancesco 1. Non istuggiroiio queste dotte fatiche al principe , che onorando gli eruditi ed i letterati suoi sudditi , sapeva di onorar se stesso ed il suo regno, che come dicemmo, va con ragione celebrato assai per il patrocinio accordato alle lettere ed ai loro cultori. Già nel 1626 Carlo Emanuele eleggevalo suo consigliere e custode degli archivi. Uguali favori couti- nuavagli \ ittorio Amedeo, che il 6 febbraio del i636 conferivagli luflìcio distoriografo e cosmografo u come persona esperinientata delle istorie e pratichissimo in ogni sorta di scrittura e carattere di lingue ». >è tardò egli a dar piuova che cosi splendidi attestati non dovevano cadere su persona indegna, poiché nel i635 pubblicando la sua relazione dello Stato del l^iemonte, dava 1 idea di un lavorìi immenso intrapreso dieci anni prima, cioè la descrizione dello Slato antico e moderno di lutto il Piemonte, qual eiuinzia\a nella prelitzione, affine di animare le persone eulte* e specialmente i nobili, costoro sebben poco culli, ma possessori di preziosi documenti, a fornirgli materiali indispensabili a scrivere opera di tanta mole. Una censura però vuoisi muovere a certi paragoni onde cercò nobilitare il suo lavoro,, dicendo . « Imito in qualche cosa la stona naturale di IMinio fra gli antichi e le relazioni di monsignor lìotero tra i moderni, ma quanto manca in me 1 arlilìcio e 1 ingegno che in loro 3Co SI" PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI si loda, altrettanto abbonda in me la schiettezza e la verità che in lor si desidera ». Queste espressioni vogliono essere alquanto corrette, poiché il Boterò si attenne ad una descrizione amplissima, quale in ri- guardo ai tempi ed alla natura del soggetto ha inerito, avuta considera- zione altresì alla verità , di cui l'u scrupoloso seguace. Falso poi è il giudizio di paragone con Plinio . che visse in tempi assai illuminati, e che spiegò molta letteratura, e non minor desiderio di sapere, unito ad un eccellente giudizio, e la cui lingua non regge allo stile inculto e disadorno del Chiesa , che mancava del presidio di pro- fondi stiidii. Quindi miglior ragitme aveva di scrivere d che senza pre- tensione di premio o di lama , io vengo a soltopormi non solo come gli altri compositori alle censure, ma anche alla maldicenza, e toccare della nobiltà dei viventi è toccare la più fma corda dell'ambizione : ogni animo ben composto è insaziabile in questa materia , aspetto già di essere condannato or per avaro, or per troppo liberale: vorrebbe alcuno che avessi latto un volume per se solo: vi è chi sarebbe contento che non avessi parlato di sé purché avessi taciuto degli altri, e tois'anco per acquistar credito si duole del mio silenzio qualche altro, qual non posso che aver beneficato col tacere la verità ». Lo stato del Chiesa in Saluzzo, già vicario generale di due vescovi, poi vicai-io capitolare, imparentato colla primaria nobiltà della provincia, 1 egregia sua condotta e l'atTétto dimostrato alla monarchia, non solo come fedele vassallo, ma altresì come savio consigliere, che seppe dimostrarsi anche indipendente nelle quistioni della Corte di Roma pei' le controversie dell'immunità ecclesiastica, fecero rivolgere lanimo della duchessa Cristina a proporlo per il seggio episcopale di Saluzzo, vacante per la morte di monsignor Pietro Bellino, morto nel maggio del i64i. Già in quell'anno questa principessa avevalo deputato a rappresentarla nella solenne funzione della traslazione del corpo del Saluzzese patrono S. Ghiatfredo, e quindi proteggevalo, affinchè potesse ottenere» quella sede; ed egh giunto a Roma, il 20 aprile la ragguagliava dell' avviamento^ che prendevano i suoi alfari. Bisogna però ammettere come codesta impresa, avrebbe potuto essere ben malagevole, ove la Corte di Roma si fosse indotta a prestare fede a questa commendatizia, dal nunzio di Torino, monsignor Cecchinelli, trasmessa al Cardinal Barberini, e che inedita qui riferisco in parte, per la sua importanza; essa ha la data dei 16 no- vembre 164 1, ed è di questo tenore: « Ho pigliato diligente, seria e se- Dr GAUDENZIO CI-ARETTA. 3()l grela infonnazioiie da j)iù persone, ed in ultimo dall inquisitore di Saluzzi» padre vecchio e di sicura bontà, delle qualità di Agostino Della Chiesa, nominato alla chiesa di Saluzzo , e riportatane unilbrme conclusione che egli in modo alcuno non è degno di chiesa cattedrale , coi fondamenti seguenti: i" Si è fatto eleggere per lorza coli autorità laicale vicario capi- tolare dopo che canonicamente era stato eletto dal capitolo il teologo Cigna, onde certo che la sua elezii)ne non sussiste e continua nella ca- rica coli antoiilà di Madama (M. R. Cristina duchessa di Savoia), senzap- prendeie che lutti gli atti della sua giurisdizione sono nulli; egli è prior curato di Villanovetta , e son molli anni che non risiede, lasciando la cura in mano di un mercenario ignoianlc, ancorché avvertito dal vescovo e da altri, mantenendosi sempre colPautorità laicale. 2" Sta tutto pendente dalla medesima autorità laicale, mostrandosi parzialissinu» di quella e poco amico dell ecclesiastica, onde ha proferito alle volte proposizioni propor- zionate alla sua ignoranza e mala natura duomo, mentre parlandosegli del mantenimento dell immunità e libertà ecclcsiaslica, ha risposto che ^ladama è padrona nel suo Stalo come il Papa in Roma, ed ognuno può far a modo suo; è poco amante del Governo di Roma, a segno che il padre inquisitore mi ha detto che con lui è uscito a dire proposizioni impertinentissime; III il dolio, ma da savii è stimato ignoian te, scrive 1 istoria di questo paese, dove dice cose imprudentissime. Sapendosi la sua nominazione in Sa- luzzo, lanno tutti orazione per lesclusione, e dicono chiaro chiarissimo, che sarebbe peggio cento volte del vescovo Del \ erme » (i). Una commendatizia di siifalto genere , sebbene improntata di un fiele e di ima passione, che spiccano anche agli occhi de meno veggenti, poteva senza dubbio essere presa in considerazione in un aliare di tanto mo- mento, stante che qualche mese dopo il Chiesa limitavasi di scrivere alla sua protettrice, che dalla Congregazione incaricata dell'esame della vita e dei suoi costumi andavasi sobillando, come eragli stata mossa qualche opposizione pel suo libro in lode delle donne « quasiché le belle doti del sesso gentile non dovessero venir celebrate dagli ecclesiastici ai quali pure spetta di esaltare le virtù proposte ad ammirazione loro ne' libri sacri ». Non mancavano allo scrittore incolpato le buone ragioni per difendersi , e sostenere il suo operato al cospetto del cardinale Barbe- rini, il quale infine superò le difficoltà premesse, ed essendogli risultate (t) Biblioteca di S. M. Serie II. Tom. XXX. 4^ 362 SUI PRINCIPALI STORICI PlEMONltSI false le censure mosse dal nunzin di Torino, lo propose alla dignità ri- chiesta. Subito il consueto esame, il i4 luglio del 164^' fu preconizzato vescovo di Saluzzo, e tosto ne die parie alla duchessa. Né le cure del pastoral ministero lo distolsero dai prediletti studii, che prosegui a benefizio della patria, a lustro di quella sede , ed a con- fusione di quel nunzio Cecchinelli, che erasi dimostrato cosi avverso al- l'inlalicabile annalista del Piemonte, perchè non ligio alFatlo ai suoi prin- cipii, e fedel suddito di principe indipendente. E tre anni dopo la conseguita dignità episcopale, monsignor Della Chiesa, compilò per l'appunto un opera degna del grado, che teneva nel- f Tecclesiastica gerarchia. È questa la Historia chroiiologica S. R. E. cartJiiialium, archiepiscoporum, episcoporum et abbatuin pedernontanae regionis , a cui va unito il catalogo degli arcivescovi di Tarantasia , vescovi di Aosta, Sion, Moriana, Ginevra, Belley e Losanna e dei generali degli ordini religiosi originari del Piemonte. L opera dedicata alla duchessa Cristina vedeva la luce coi tipi di Gian Domenico Tarint), che riceveva dalla Corte hre 576 per le spese di stampa. L'istoria cronologica devesi ritenere anche lavoro originale, assai inte- ressante per la storia ecclesiastica del Piemonte, per la prima volta, svolta e corredata di molte notizie biografiche e di carte inedite. Non v'ha dubbio che notansi in essa multe imperfezioni, molle omissioni, e duolmi dirlo, er- lori sugli stessi prelati a lui coevi, ed alcuni documenti sono anche apocrifi: ma sarà sempre inerito non esiguo del Chiesa, di avere gettato le basi della nostra storia ecclesiastica, il cui edifizio doveva sorgere assai più tardi. Anche quest opera doveva suscitar nemici al suo autore, e rinnovare tra noi quella polemica letteraria, che già vedemmo originata ai tempi del Pingone . e che io di buon grado accennerò ne' suoi particolari. Nel suo capo XI intitolato Status civitatis asleusis ac series ejusdem episcoporum, il Chiesa aveva espresse con troppa naturalezza certe verità, che or l'orse scorrerebbero inosservate, ma che allora per le gare municipali potevano destare grandi tumulti, come infatti avvenne. Tutti sanno che gli Astigiani poterono lungo tempo reggersi a popolo e mantenersi in floridis- simo stato, mercè la loro attività ed il traihco a cui intendevano i prin- cipali di loro, appartenenti alle famiglie Asinari , Pelelta , Solari, Gut- tuari, Turchi ed altri, confusi coi Lombardi o Caorsini, che prestavano ad usura nella Francia e nelle Fiandre, locchè valse a rendere doviziosissime e polenti quelle casate repubblicane. Pochi pure ignorano le gare, che DI GADDENZIO (.LARETTA. 363 quasi sempre, sino ai tempi odierni, furonvi tra gli Astigiani ed i loro vescovi : or bene questi due fatti, particolarmente segnalati con espressioni alquanto vive dal Chiesa, sollevarongli contro le ire di un astigiano, rite- nuto il padre abate Filippo Malabaila. monaco cistercense, qual peraltro il Chiesa nel citato suo capo aveva onorevolmente citato . chiamandolo diligentisximuf! in perquirendis rebus patriae. Il primo strale contro il Chiesa fu scoccato nell anonimo opuscolo, Clypetis ci\>ilatis astensis ad retundenda tela quae auctov chronologicae historiae de praesiiHbus pedemontanis in eam intersit. Ecco la prefa- zione (li questo scritto n Nuper prodiit e\ Tariniana officina de praesu- 11 libus pedemontanae regionis chronologica lustoria, in qua auctor de cae- » teris Sabaudiae ditionis civitatibus bene meritus videri potest , secus » tamen de Astensi. Idque. non tantum quod plura relatu digna subticuit, » veruni etiam quod inulta, quae Astensi nomini et ipsi ventati afficiant, )) ei operi inseruit. Qua in re rum sui inslituti suaeve personae satis im- » memorem se praebueiit, nostra non interest: interest tamen providere, » ne silenlium trahatur in consensum aut dissimulatio in conscientiam. » Hinc igitur ea quae in Astenses idem contorsit tela sigillatim profe- » remus et ad singula proprio responso, scutum inexpugnabile veritatis » obiiciemus quo scias, nec immeriti, iiec in cassum hanc defensionem » susceptam » . L'anonimo autore, che ben si presume essere il Malabaila , enumera quindi i varii punti che crede di confutare, e come buon astigiano prende ad impugnare quello, ove dice comparatis injustiori hici-o divitiis, comin- ciando con queste amare espressioni : « Mirandum sane, ne dicam indigna » ferendum. virum sacrum, eoque loci qui perfectionem exigat constitu- » tum. in historia sacra, non verens civitatem in qua minime sit laesus, » ejusdemque cum sane ditionis, et ut caetera omittantur erga Deum ac » commuiiem principein spectatae fidei ita lacessere, prò veris scilicet « criminibus ea obiiciendo convitia. quae olim illius inimici (prò more » eoruni qui vel armis, vel diversis inter se certant studiis) in Astenses » petulanter jaclare solebant ». L'opuscolo usciva coi tipi dell'astigiano tipografo Francesco Antonio di Zangrandi, a spese del comune, e colla data del 1647. Non tacque il Chiesa, il quale vi rispose due anni dopo con un altro opuscolo, cui intitolò: Illustratio historica undecimi capitali chronologicae historiae praesulum Pedemontii. 354 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI In esso monsignor Della Chiesa, difese virilmente le sue espressioni, che sebben forti, non erano punto aliene dal vero, né si astenne natural- mente dal definire il Cljpeus u partum infonnem, mendis scatentem , a » veritate omnino alienimi, et qui malevolum in nos sui parentis animum » facile testatur ». Qui avrebbero potuto aver fine tutte codeste acri riprensioni, sul riflesso che chi a sproposito censura, pubblica la propria imbecillità o reità d'animo, ma non s'appagò quella dura cervice dell'astigiano Malabaila , il quale coi tipi, ed a spese di Michele Liberal, pubblicava nel i65(i a Lione. Cljpeus cmtatis Astensis, liber apologeticiis varia ei'udUione de instilutione et juribus regni Italiae exornatus , auctore reverendo patre Philippo Malabaila astensi, monaco cisterciensi congregationis sancti Bernardi. Ed ancor qui fa cattivo contrasto colla nobile moderazione delle espres- sioni usate dal (Chiesa, il livore che spira da quelle del suo avversario, il quale esagera le incriminate frasi, col censurarlo in quel passo, che secondo lui, suonerebl^ i< niajores nostri tamquam damnati lucri rei, )) suoruiii episcoporum iniqui expulsores ac sacrorum anatheniatuin con- )) teniptores asserunlur ac Arianac haeresis insimulantur d. Tutto poi risente delle gare micidiali che funestavano a quei dì la pacifica carriera delle lettere, il titolo stesso che dava il Malabaila al suo scritto Discussio lenebricosae illustrationis auctoris clironologicae historiae de praesulibus pedemontanis insciiptae : e quel chiamar di quando ili quando il vescovo di Saluzzo un magistruzzo, quodam magi- sterulo, denota abbastanza che coll'esagerata propensione a sostenere la patria, andava pur congiunt;i 1 invidiuzza e l'emulazione deUo scritto- rello, qual era il monaco Malabaila, in paragone dell' infaticabile autore della Descrizione del Piemonte. Meglio consigliato però , il Malabaila , questa volta, impavido, dimostrò coraggio nell' apporre al liltello il suo nome. Il genere di vita laboriosa e; paziente che menava monsignor Della Chiesa, era non frequente presso di noi, e valeva a somministrare pur un luminoso esempio agli investiti di dignità prelatizia, non sempre usi a cosi nobiU ed utili cure. Egli slesso ci racconta nella sua Coì'ona Beale, come compiendo la visita pastorale nel villaggio di Paesana, venuto nell inten- «hmento di Irar profitto di un breve intervallo di tempo per esaminare l'archivio di quel comune, trovava infatti un vecchio protocollo, sulla cui DI GAUDE^ZIO CLARETTA. 365 coperlii ili pergamena eravi la genealogia di varii marchesi , propagatisi da Aleramo, stala compilata intorno al i3oo. Se simile attitudine fosse stata comune a certi abati, prelati e membri di capitoli, le cui carte importantissime andarono disperse, prima che alcun di loro ne lunghi ozii avesse pur pensalo d illustrarle, di quanti documenti, sarebbe arricchita la nostra storia, che offre molte lacune, e scarseggia co- tanto di tlocumenti dell'età passata ! Accennerò ora alla sua Coioiui reale, la quale servì per l'appunto a rendere popolare tra noi il nome del Chiesa. Proseguendo egli alla compilazione di quell'opera di più anipia mole, che doveva essere la ci- tata Descrizione ^^enei-alc del Piemonte, disegnava Irattanto di ricavare da essa una scelta di memorie , per restringersi a delineare con maggior concisione quelle provincie dello Stato di Savoia, che nel manoscritto in discorso sarebbero stato trattate di passo in passo coll'invariabile ordine stabilito dalla natura , con una dettagliata descrizione delle vicende di ciascun luogo, deiroriginc, grandezza e decadenza loro, e colla storia delle famiglie insigni che fit)rirono in esse. Ecco 1 opera denominata la Corona reale di Savoia, ossia relazione delie provincie e titoli ad essa apparte- nenti, che consacrò al figlio della sua protettrice, Carlo Emanuele II, a (Ili non poteva disaggradir quel titolo, poiché avendo succhialo col latte materno la propensione a quanto sapeva di regio e di fasto, era anco appassionato a quel trattamento che occupò pur assai la sua diplo- mazia a Parigi, Pioma e Madrid, rome vedemmo. Né mancavano al- l'esordio le iperboli secentistiche, jioichè ineiilre dava principio col dire, che a nissun più che ai vescovi spettava di por corone in fronte ai re, il dura di Savoia, qual Re di Cipro, non aveva ad invidiare la tur- rita della dea Cibele, potendosi nella corona da lui intessuta, far pompa di nobilissime città senz aver a mendicare all'India ed all'Arabia le gemme che u i preziosi oinainenti già aveva nella devozione di tanti fedeli vassalli ». Ma omettendo questi trastulli, se il lavoro lascia molto a desiderare in fatto di stile e di buona dicitura, non esiguo compenso si ha nelle notizie sulle città, sui castelli, sulle chiese, famiglie, abbazie e sui personaggi distinti che in ogni età fiorirono in Piemonte E ben pochi, come il Chiesa, avrebbero a quei giorni potuto piegarsi ad un lavoro di tanta mole, per la cui compilazione era mestieri visitare perso- nalmente i luoghi principali, compulsarne gli archivi, e dipendere da in- finito numero di corrispondenti, che fosserti poi veramente propensi a 366 SUI PRINCIPALI STORI':! PIEMONTESI sorregeere l'autore neirardiio cammino , il quale era seminato altresì da triboli e rovi , onde malagevole e£;li riusciva il trattare certi punti. Meglio che le mie parole, c'informeranno di queste osservazioni, alcuni brani della sua stessa prefazione « Scopersimo, ei diceva, sempre usando metafore secentistiche, scopersimo. col cannocchiale, de' privati dlscoisi che molti ambiziosi, non contenti di un" origine proporzionata alla vera nobiltà vanno da lontanissimi paesi ricercando il principio dei loro maggiori con ritrovate ambascierie e con finti bandiinenti eziandio per cause poco oneste: ch'altri volendo essere stimati semidei e di stirpe eroica con inventare ben mille favole suggeritegli dagli adulatori procu- rano di persuadere al mondo di non aver avuto principii ordinarii o col frammischiarsi con senatori lomaiii o col predicarsi usciti dal cavallo di Troia, o col credersi figliuoli di compagni del grand' Alessandro , e cer- cando le orme ilei la loro stirpe dove mai alcun de' suoi pose il piede traer in scena le proprie vergogne; ch'altri per il contrario standosene neshitlosi ne' suoi castelli contenti solo d'una vana fama della loro nobiltà sparsa per il volgo fallace, lasciano fra li ozii talmente irrugginirsi che appena sanno i nomi degli avi, senz'avvedersi che in un medesimo tempo sopra la tomba delle memorie incenerite de' loro antenati celebrano i fu- nerali al propiio onore; che afcuni altri scordatisi delle leggi della gra- titudine non si sono degnati nemmeno far risposta alle nostre lettere ». Codesti accenti abbastanza ci invelano come assai sconfortante fosse per un autore il dover accingersi ad una fatica, che più ostica venivagli resa da coloro stessi che avrebbero potuto agevolargliela. Colla pubblicazione della sua Corona reale, ei tracciò la via che voleva tenere in quelle sue disquisizioni, in cui nissuno poteva dolersi di quei tratti di scortesia ed inurbanità, che pur con frequenza scambia vansi da molti scrittori di quei giorni. L'opera della Corona ideale valse assai a famigliarizzare la storia del Piemonte particolareggiata, nelle due sue paili in cui è divisa. La prima, preceduta da un sommario di titoli e dignità usate dai Reali di Savoia, comprende U ducato di Savoia col Chiablese, la valle d'Aosta, il Genevese, Monferrato, marchesato di Saluzzo, col principato di Piemonte. La parte seconda, divulgatasi pur coi tipi dello Strabella di Cuneo, ma uscita due anni dopo, reca anzitutto una mediocre incisione in legno, che rappresenta laulore in cappa prelatizia e ne ritrae la figura rubiconda, ma grave contorniata da fronde di alloro, che intrecciate, recano la leggenda Non ni GAUDENZIO CLARETTA. 3^7 est menlivi ineiun ; motto che se non puossi molto applicare agli scrittori di quei tempi, e tanto più ai palatini, non ripugna al Chiesa, che se sfolgoreggiò in ludi, allor necessarie ai sovrani, principi e mecenati, usò però in generale una certa parsimonia, uè puossi tacciare di avere falsifi- cato testi o documenti. In questa seconda parte sono descritte Ginevra, Romont, Nizza, Asti, Tenda, Vaud, Faucigny, Vercelli, Ceva, il marchesato d'Italia, il princi- pato e vicariato perpetuo del S. W. 1. ed il regno di Cipro. Ma ecco ancoi' qui suscitarsi non meno aspra guerra, né minore a quella, che vedemmo essersi manifestata alla puljblicazione della storia cronolo- gica. Negli archivi di Stalo conservasi un memoriale di anonimo autore, presentato però al Governo, coli' ignobile fine di deprimere l'infaticabile nostro storiografo, tanto più degno di riconoscenza e di lode, per aver dovuto combattere colla crassa ignoranza de' suoi contemporanei. Udiamo per poco le accuse che venivangli lanciate da un tale, che oltre essere un ignorante, si dimostrò anche fanatico. Anzitutto cerca egli un vano ap- poggio agii argomenti suoi contrarii, invocando una lettera di S. Paolo a Timoteo, ove si legge quaestiones praestant magis quain aedificationem, per conchiudere poi, che monsignor Della Chiesa nella sua scrittura, altro non erasi proposto che sollevar questioni colla sua parzialità, e co' suoi errori, ed insomma non erasi trattenuto che di materie estranee al suo ministero di ecclesiastico, accusa su cui erasi pur fondato, come si è detto superiormente, il nunzio Cecchinclli. Oltre questo maligno ed ignorante scmiosciuto, insorgevano contro la Covoim reale I abate eletto della celebre badia d'Agauno nel Vallese, il quale facevasi premura di segnalare gli errori, madornali secondo lui, ne' quali era incorso il Chiesa discorrendo del Vallese; errori relativi piuttosto alla topografia di quei luoghi, anziché ad altro, ed inevitabili in ((ualsiasi lavoro, tanto più a (piei tempi. Così p. e. ei menava gran vanto, che l'autore avesse aUérmalo, che Conteggio fosse posto sul Ro- dano, mentre era distante da quel fiume due leghe tedesche e fi-am- inezzato da monti , burlandosene colf aggiugnere che forse monsignor Chiesa intendeva alfeimare, che fosse vicino al Rodano bens'i, ma fosselo stato prima del diluvio. Poi osserva, che aveva errato col definirlo Con- lagientis , mentre doveva chiamarlo Coiitagiensis. Cos'i pure avendo il Chiesa affermato che nel Vallese oranvi sei comuni, egli tosto facevasi a segnalare quellerrore, col dire esservene invece sette. 3(jg SUI prim;ipam storki piemontesi Non meno IVivole, ma più perniciose potevano essere al Chiesa le cen- sure mosse dall'avvocato patrimoniale geneiale ducale, Antonio Ganibarana, il quale non volendo comprendere lo stile inetaforu;o usato dall autore nella prefazione specialmente, estolleva a cielo una sua propria scoperta» affine di potergli imputare di avere scritto, che spettava ai vescovi d'in- coronare i re, volendo secondo lui con liò inferire, ch'egli annoveravasi fra gli elettori, affettando la carica dell'arcivescovo di Colonia che usava incoronare i Re di Germania. Poi mena gran chiasso, perche fia gli abati di S. Michele della Chiusa, abbia decorato della dignità sacerdotale Lo- renzo Gapris, che sarebbe stato laico, anzi avrebbe sposato Laura Ferrerò di Vlasserano. Nella sua qualità di conservatore de' dirilli del re-io patrimonio j)oi egU credeva d'immenso pregiudizio alla Dinastia, l'avere pubblicato nel fine della cronologia una scrittura, fatta da lui risaltare ancor di più, mediante il segno d' una mano in inaigine di essa , in cui Amedeo, padre di Um- berto di Savoia, avrebbe detto di sé e del suo figliuolo ragioni, tendenti a denigrare la fama e la pietà di principi cosi religiosi. Ma lasciando per oia a parte l'autenticità ilella carta, la nianilestazione di quei fatti dal documento in questione è tutta consona a tempi di continue prepotenze, né ripugna che Amedeo ed Umberto, ricordando le largizioni dai loro predecessori fatte al monastero di S. Giusto di Susa, poscia cosi discorressero: « Imo peccatis exigentibus nostrorum consiliariorum nefando » ortatu, bona ad praefatmn monasterium pertinentia saepissinie perturba- » verimus per bannuui et alias oppressit)nes innumeras ». Eia già molto che si facesse quella confessione, e si cercasse di riparare al male operato. Ligiusta poi era la conclusione del Gambarana, che tacciando qual tal- sano il Chiesa, pretendeva che dovesse venir punito come usansi castigare i folsari, per la ragione che questi rubano il danaro e quelli la fama altrui. Altri pure accusavano il Chiesa delle omissioni, cosi che secondo loro, famiglie insigni ed illustri fossero state omesse, e famiglie mediocrissime esaltate, ed anche costoio forse agivano per passione, e la dimenticanza dei loro casati la volevano imputare all'autore con amare calunnie. Finalmente un povero verseggiatore divulgava questo scherzo: 0 tu che doni e logli le corone E che la nobiltà poni all'incanto Come quel frate che con simile vanto Per un fiasco di vino facea baroni DI GAUDENZIO CLARETTA. 36c) Contro cosi triviali accuse, che si rinnovano in tutti i (empi da certi bi iganti di penna, monsignor della Cliiesa agiva nobilmente con tlignitoso silenzio , rispondendo invece con altra pubblicazione , che dopo la prima parte della Corona l'eale nello stesso anno consegnava al palio, e che intitolava / /iori di blasone fiu, quasi a mo di esperimento per riconoscere se col pubblicare i muli emblemi gentilizi, non confortati da narrazione, dal menomo cenno sulle Famiglie, ne da veruna tlata, non correvasi ri- schio d intaccare la suscettibilità delle tauuglie . che erano allora tanto permalose. Quindi devesi riconoscere uiolto coraggio, molta indipen- denza nel nostro vescovo di Saluzzo, impavido a gettar un guanto di sfiila , come laceva con un preambolo, dove schiariva per benino i vizii ed opposizioni per paite di coloro, che paievano contrastare a simile la- voro. E ben a ragione ei chiamava costoro « spiriti inquieti che si van- tano di essere universalmente dotti e più che mediocremente eruditi e tuttavia prima di avere imparato a snllicienza i veri termini d una pro- fessione, prolessano senz'aleuti leimine di civiltà di conoscere quello che ancora non mtendono, recandosi a delizia l'oscurare inaratamente la "loria Or? di quelli che con onorate fatiche si sforzano di dar qualche luce alla loro ignoranza ». AHine dunque di fornirsi di uno scudo capace a tlifenderlo da tanti frizzi, il Chiesa invocava un nume tutelare, sotto la cui egida poter pre- sentare al pubblico il nuovo suo lavoro. E certo che la scelta non poteva essere meglio adatta, avendolo dedi- cato al personaggio più possente della Corte, che del cor della sovrana tenea ambe le chiavi. Era (jue.s(o il lodato conte Filippo d Agliè, sovrintendente delle finanze, maggiordomo maggiore, cavaliere dell'Annunziata, ed in una parola il noto favorito della Duchessa , il quale senza dubbio avrebbe potuto ren- dere molti servigi ali autore di quei fiori emblematici, ove la malignità si fosse attentata a cospargerli di suo veleno. Anche quest operetta , sebbene difettosa, ha il merito dell'originalità, ed è ancor oggidì consultata con frutto dagli scarsi amatori dell' arte araldica. Che le sue opere fossero lette a quei giorni, lo prova il contemporaneo Fresia, che nel catalogo degli scritti di monsignor Della Chiesa avverte che le medesime furono talmente apprezzate, che presso i librai non se ne trovava più alcun esemplare: onde l'edizione doveva ritenersi esaurita. Serie II. Tom. XXX. 4? ^--O Stir PRINCIPAM STORICI PIEMONTESI Ben A ragione fu detto, che il Chiesa devesi ritenere il Muratori del Piemonte , poiché in un ordinano periodo di vita compose un numero considerevole di lavori, ed i suoi manoscritti, che qui giova pur analizzare, di molto eccedono i dettati, fatti di pubblica ragione. Tien fra questi il primo luogo l'enunziata ampia sua Descrizione del Piemonte « nella quale tutto ciò che in esso degno di memoria si vede e per il passato e sèguito si legge ». Seguono indi. La relazione dell'isola di Cipro e dei re che in essa hanno dominato ; un volume di Discorsi sopra alcune nobili famiglie piemontesi ,• La genealogia di quelle rase che in Piemonte posseggono giurisdizioni e castella ; La compendiosa istoria genealogica dei Reali di Francia e Savoia ; L'origine dei titoli civili e prin- cipalmente della serenissima Casa di Savoia; Ristretto delle regine e prin- cipesse che sono state tutrici de loro figliuoli ; La compendiosa istoria della città di Cuneo e de fatti de' Cuneesi : lavoro però indarno cercato im secolo fa dal Meiranesio. che da Cuneo aveva avuto l'incombenza di scrivere quella storia; e notino i leggitori una raccolta da lui compiuta di pii'i di due mila epitaffi, la quale andò pure dispersa: Promptuarium aìitiqnitatum ecclesiaruni Pedemontis. in quo fundationes ac donationes ipsarum ecclesiarum , nrc non privilegia et indulta siimmorum pontifìcum, imperatornm, regum ac aliorum principum referuntur ; un Discorso isto- rico delLi pace di Alessandro UT pontefice e Federico Rarbarossa ; una Raccolta degli stemmi delle famiglie nobili piemontesi e savoiarde sì antiche che moderne : Relazione di tutte le cose seguite in Piemonte più notabili in forma d'annali. Quest'opera potè venir esaminata dal Gnichenon. il quale citando gli autori viventi, nel parlare del vescovo di Saluzzo. os- serva che il pubblico aspettava con mipazienza (juella sLoria piemontese in forma d'annali. Nel chiudere poi della sua Corona reale, accennava ancora al disegno che aveva di compilare un catalogo di tutti i cavalieri dell'Ordine dell'An- nunziata, e di più di seicento cavalieri gerosolimitani, sudditi di Savoia. Ma oltre lo scusarsi già sin d'allora, che quel lavoro in p;irte veniva trattato dal Capre, uditore della Camera di Savoia, manifestava il dubbio, che accaden- dogli di ometterne qualcheduno, potrebbe dar materia « a coloro che sfog- giano ciò che hanno e desiderano quel che con diflicoltà aver si può, ci trat- tassero di trascuraggine e in luogo di ringraziamento si dolessero di noi ». Rimane dunque sempre più provato che il Chiesa aveva a combattere coll'ignoranza e presunzione degli aristocratici, ed anche colla gelosia degli DI GAUDENZIO CLARETTA 3"! emuli, fra cui cito nuovamente il monaco Rossotli, il quale non pago nel suo Sillabo di avei' censurato il vescovo di Saluzzo , facevasi a pro- nunziar altra volta queste amare parole: u (Hiidam scriptor pedemontanus » satis inepte et false, (juaedam de ipsiiis edidit fundatoriijus (juae nulK> « modo proljare poterai. Veruni mirum est, si liic scriptor, qui tam male » de aliis L'edemontis sensit civitatibus, de Monteregali etiam vana ad- » didit ; saepissime enim supinissimos sciipsil errores, sicnl cum dixit ci- » vitatem Montisregalis de anno i452 suljjectiuii tuisse ditioni marcliionum » Salutiarum, quod esse falsissimum ostendit et prohat praefatus comes » fjonaidus ». AcctMinerò ancoia ad altin lavijro , relativo a studi senealouici sulla L)i- nastia di Savoia, che intitolava: I cinquecento e dieci gradi degli ascen- denti fìalerni e iiialerni delP A. R. di Cm'lo Emanuele II con t anni ed insegne de piincipi in essi gradi nominati. Ed è ad ossei'vaisi, die per questi 5io gradi non diwesi intendere il solo computo delle linee ascen- dentali paterne e materne, poiché, calcolandosi tre gradi di generazione per secolo, bisognerebbe concedere un periodo di diciassette mila anni, ma bensì devesi intendere il computo tiogli ascendenti paterni e materni supposti nati per ciascuna principessa entrata nella Casa di Savoia. Prescindendo dall'analizzare i suesposti lavori del Chiesa, perchè ciò ci devierebbe dallo scopo a cui mira questa Memoria, ci'edo però pregio dell'opera «li porgere un giudizio almeno sul principale di essi, cioè la Descrizione del Piemonte, la quale non vedo considerarsi oggidì come menta, ancorché alcuni scrittori abbiano da essa espillato il principale de loio lavori. Questa descrizione adunque deve delinirsi meritamente ampia descri- zione del Piemonte, vuoi pei la sua estensione, vuoi per labbondanza delle notizie geografiche, stoi'iche ed ecclesiastiche, civili e genealogiche di uomini illustri, che con paziente diligenza, iatica ed industria seppe in varii archivi di città, monasteri, capitoli e lainiglie raccogliere, e quindi compilare con accuratezza ed ordine coininendevoli, tanto più in tempi in cui non eranvi presso di noi esempi precedenti a seguire. Sorretto egli tu 111 quest'opera colossale, ove spiegò molto acume e scrisse sulle norme di Plinio e Strabone, da immenso affetto al paese ed ai suoi principi, a cui onoranza egli procurava di rendere celebrdto il nome Piemontese. In quel suo lavoro crasi il Chiesa proposto di descrivere ampiamente il Piemonte, cioè gli Stati che intorno alla metà di quel secolo possedeva 3-:/! SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI la Casa di Savoia di qua da monti, comprendendovi anco In parte di Mon- ferrato, ancor soggetta ai duchi di Mantova, e le Langhe, in gran porte ancora indipendenti, e collo stesso ordine tenuto in generale pel Piemonte. A ino di prefazione contiene ima relazione sullo stato antico e moderno di fjuesLo paese, delle produzioni e fertilità del suolo, del numero delle città e dei luoghi cospicui, dell'estensione e delle divisioni politiche di esso per i! regolamento economico e per l'amministrazione della giustizia. Ne accenna la popolazione, le entrate, le forze, gli antichi abitatori e le principali vicende , né omette di toccare la forma del Governo antico e moderno, civile ed ecclesiastico. In cinque jiopoli ei divide il Piemonte prima della conquista fattane dai Romani, cioè Sta/.ielli. Vagienni. Taurini, Salassi e Libici, servendosi della divisione fatta dai fiumi principali che scorrono in essi , quali sono la Bormida ed il Tanaro negli Stuzielli. a cui attribuisce il tratto di paese che si stende dalla sorgente del Po al confluente loro , chiuso a mezzodì dalla giogaia ile' monti che da alcuni geografi, appennini, da altri alpi delle alpi marittime veniano chiamati, ed oggidì sappellano langhe. Scorrono il Tanaro ed il Po ne' Vagienni, ch'egli divide in superiori ed inferiori, ai juinii assegnando i monti che si stendono tra la loro sor- gente e la sottoposta pianura, sin dove è terminala dai colli che si rial- zano fra i due fiumi, nel sito in cui si scostano dal loro corso, ed ai se- condi il tratto dei delti colli, i quali stendonsi fra i due fiumi sino al loro confluente. Questa parte è divisa in due hbri : nel primo in cui si tratta del Pie- monte di qua del Po, ossia superiore, logica distinzione conforme all'antica divisione romana di Gallia ed anche Italia cispadana e traspadana ; nel secondo s accenna al Moulérrato ed allAstigiano della provincia de' Va- gienni inferiori, mancandovi però la descrizione di Chieri. La terza distinzione contempla il Po e la Dora minore o Riparia ne' Taurini, a' quali assegna il tratto fra quei due fiumi, chiuso ad occi- dente dai monti che gli antichi già chiamavano Alpi Cozie , e che il nostro autore descrive in 29 capi. Sieguono la Dora minore, il Po e la BalLea nei Salassi, nella qual di- visione è compresa la Valle d'Aosta, descritta in 32 capi. Compie infine la descrizione la Dora maggiore, il Po e la Sesia ne'Libici. Quest opera, e giova ripeterlo, concorre ad estollere eminentemente le benemerenze del Chiesa, che potè ed ebbe lena a raccozzare tante e così DI GAUDENZIO CI.ARETTA. 3^3 disparate notizie di un paese variamente sparso ; e devesi ritenere opera di merito, tanto più avuto riguardo, come dissi, ai tempi, alla necessità di visitare personalmente i luoghi, per non rimanere deluso. Né devesi omet- tere, come dissi, che il lavoro del Chiesa tu sempre sino ai tempi odierni il repertorio, a cui ricorsero quanti s'accinsei-o a scrivere sulle descrizioni di città e Provincie del Piemonte, sulle sue famiglie e sugli uomini che in ogni età ne iisciromi. Ed il Gasalis, nel suo dizionario, riportò periodi intieri, senza nemmeno citarne fautore, a cui, meglio che a lui devesi attribuire l'originalità di tal genere di produzione. Ma largo compenso di giustizia seppe rendergli il nostro Gihrario , che in un articolo stampato neW Antologia di Firenze prima del i833, trattando di alcune conside- razioni sulla storia civile e sui fondamenti di essa nella Monarchia di Savoia , non dubitò un momento di definire questo lavoro del Chiesa « opera di grande importanza e perciò degna che dal Governo ne venga prescritta ed aiutala la pubblicazione ». Alla morte del vescovo di Saluzzo i cangiamenti politici sovraggiunti nel periodo di mezzo secolo modificavano lo Stato del nostro paese, note- volmente accresciuto di belle provincie, già da lungo tempo vagheggiate, e ricostituito da nuove leggi, che promulgavano i due provvidi principi Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III. (]otal condizione di cose induceva per I appunto un degno pronipote del nostro autore, vo' dire Ignazio della Chiesa di Roddi, elemosiniere e vicario generale della Corte, e poi vescovo di Casale, a proseguire la de- scrizione del Piemonte siuo ai suoi tempi, rendendola adatta alle seguite mutazioni. Senonchè le fatiche di questo laborioso scrittore devonsi ritenere di molti) inferiori a quelle di Francesco Agostino, ed il suo lavoro, a cui dava il titolo di Memoiùe per servire alla storia sì antica che moderna della real Casa di Sa^'oia e dei suoi Stati di qua da' monti e colli, compresi .sotto nome di Piemonte , rimase pur manoscritto , e ripeto . è di pregio mfrriore a (juel dello zio. E però a deplorare clic, in tempo m cui questa fatica poteva recare utilità uìaggiore che non oggidì, nissuno mai si fosse accinto a rivedere la descrizione del Piemonte del Chiesa e presentarla alla stampa; con- cetto, che primo manifestava negh aurei suoi discorsi storici Angiolo Paolo Carena, di cui a suo tempo terremo menzione. Monsignor della Chiesa mori a Saluzzo agli undici di settembre del i66:ì, in età di sessantanove anni, de' quali quasi cinquanta aveva dedicalo agli ^rjA SUI PRlN(;iPAI.l STORU.I PIEMONTESI Sludi e \enti alle cure del pasloial suo ministero. Le sue spoglie rijiosLe nella cattedrale venivano onorate di epigrafe ni , per se- condare unicamente le mire dei principi, i quali assolutamente volevano imporre alla storia l'espressione delle loro idee e delle loro ambiziose convenienze. Contemporanei al vescovo di Saluzzo varii scrittori luioiio cliiaiiiali al- ruIBcio di storici palatini, ma non ebbero essi le belle doli di cuore onde andava fornito il Chiesa, il quale, per amor della scienza, per venerazione alla verità, vedemmo sfidar ire e procelle, che polevangli scaraventare contro gli emuli, gli ambiziosi ed i cortigiani. Primo fra gli scrittori, che in riguardo di lavori pubblicati debbasi specialmente accennare è Samuele G^uictieuon , il quale ebbe a godere in modu superlativo i favori della duchessa Cristina, inclinata a proleg- gerlo, perchè non ebbe alcun ritegno a sacrificarle incenso, e solleticare le tendenze di lei e la sua passione al regio fasto. Guichenon era nato il diciotto di agosto del 1607 accidentalmente a Macon, da Gregorio, medico di Chatillon les Dombes, che ivi aveva do- vuto rifugiarsi colla sua consorte Claudia Chaussat, perchè putiva di quel protestantesimo, perseguitato, come è noto, ad onta delle guarentigie del famoso editto di Nantes. Del luogo de" suoi natali non vi può esser dubbio, né si sostiene l'opinione che lo vorrebbe nato a Chatillon, dopo queste parole scritte dal suo padre da Macon: w Le 18 aout 1607 jour de sa- li medi sur les trois heures de matin Dieu tout puissant, tout bon et tout » miséricordieux m'a donne un fils de Glaudine Chaussat le quel a élé » baptisé le jeudi suivant , en l'église leformée de Pont de Vogle ». (I) Francisco Augustino ab Ecclesia. — Saluliarum merilissiino praesiili. — A Magno Carolo Ema- nuele Sabaudiae duci — Jain anno aelalis xxx ad — Infulas destinalo de — l'atria — Quam pastor \igilatissimus rexit — De loia litleraria republica — (Juaiii erudilissimis lucubralionibus auxil — de familia cui pastorali tiara — splendoiem geminavit — oplime merito — Victorius Nicolinus Caroli!? Franciscus ot Cacsar Augustiniis ab Ecclesia ex fratie — Nepotes - Hoc grati animi nioniinentiini pnsneie - iuncoii. CI GAUDENZIO Cr.ARfTTA. 3^5 Il testamento di suo padre del io gennaio ifìaS lo designa già graduato in diritto non oltre il diciottesimo suo anno. Ultimati gli studi giuridici, fece un viaggio in Italia, ed intorno ;il 162^ abiurò gli errori delia religione evangelica a Lione nelle mani di quel- l'arcivescovo, Alfonso di Hichelieu, e prolìabihiiente indottovi da scliiett;» persuasione, poiché, ancor nel suo testamento, ed in seguito a tanti anni ed a tante vicende, toglieva occasione a rallegrarsi di quella determinazione. Dopo essere stato alcuni anni giudice del contado di Chatillon, stabili la sua dimora a Borgo di Bressa, dove diedesi all'esercizio del patro- cinio, e venne ricevuto avvocato al presidiale di tal città. Come avvocato, pare che godesse qualche riputazione, poiché nel 164 3 Favie di Vau- gelas vinse, colla di lui assistenza, una difficile causa relativa alla terra di Perouge, locchè valse a stringere tra loro due una inestinguibile amicizia. Verso il r6.35, ammogliatosi con una tal Isabella Hurat, vedova assai benestante, la ((naie avevalo favorito di buona dote, abbandonava quella professione, e davasi agli studi letterarii e storici, ne quali riusciva egre- giamente, non trasandando però altri uHicii, come quel di sindaco di Borgo, nella quale carica dovette recitare un elogio a Luigi XIII, quando fu a Lione. Non durò tanto a lungo nell'esercizio di quella carica . di cui diede le dimissioni. Consideriamii ora i molti simì lavori letterarii. che assicurarongli un nome nella poslerilà. Prima vuol essere riferita la Series episcopoiiim BeUiceiisium, argomento eh era pure tolto ad esame dall'illustre De Bou- chet, locchè servi ad aspreggiare alquanto le sue relazioni coll'istoriografo di Francia, ina il lavoro vide la luce, essendone egli stato sollecitato dal vescovo di Bellev , Giovanni di Passalaqua. Pubblicò indi un opuscolo, divenuto rarissimo, e relativi! ad un disegno di quella storia della Bressa e del Bugev, che indi pubblicava a grande sua ono- lanza. dovendosi quest opeia ritenere insigne, tanto più riguardo ai tempi. La storia di Bressa racchiude quanto di memorabile era colà avvenuto sotto la dominazione dei Romani, dei re di Borgogna e di Arles, impe- ratori, conti di Beauzai, conti e duchi di Savoia e re di Francia, sino allo scambio del marchesato di Saluzzo. Quindi tu hai in quel lavoro do- cumenti copiosi, in massima parte ricavati da codici inediti, relativi alla fondazione di abbazie, priorati, certose, collegiate, città, castelli, signorie e feudi; quindi le genealogie delle principali famiglie, da lui compilate, non già su titoli làllaci o tendenti solo a solleticare l'ambizione della 3^6 SUI PRINCIPALI STOKICI PIEMONTESI ECC. iiubUlà, uia sibbene su documenli, tolti dagli archivi dell;» Camera dei conti di Parigi, Grenoble, Torino, Ciamberì e Dole. E siccome egli da sé solo non avrebbe potuto compiere così vaste indagini , così dirigevasi a persone amiche, capaci; e con riconoscenza ricoida monsignor della Chiesa e Carlo Agostino di Sales, vescovo di Ginevra, (^empiuta l'opera, intilolavala alla duchessa Cristina, a cui già cominciava profondere elogi tali, che con donna della sua tempra egli poteva essere certo di averne a ricavare un sicuro risultato. Che se queste adulazioni oggidì fanno schifo, almeno a certuni, allora protlucevano effetto contrario, ed il Guichenon coi SUOI concettini, colle sue metafore ben sapeva quanto colpisse nel giu.slo segno. La storia della Bressa venne ridotta in compendio da Ger- mano Gmchenon agostiniano, che pubblicolla a Lione nel 1709. Siccome d'ordinario avviene a taluni, che inviscerati negli studi e nelle ricerche di blasoneria, di genealogie e di famiglie, finiscono per dimo- strarsi inclinati a conseguir alla loro volta le preminenze, che sono avvezzi a notare negli altri, così precisamente succedeva nel Guichenon, il quale chiese e conseguì la nobiltà, linvestitura di giurischzione sul villaggio di Painnesuit e la croce dello sperone d'oro, a cui andava unito il titolo e la prerogativa di conte palatino. La nobiltà gli fu conferita da Luigi XIV con lusinghiere espressioni, di cui riboccano le lettere del iG58, che il Papillon ebbe la cura di testualmente inserire nella sua fìlbliuthèque des auteuis de Boiirgogne ; fanno però onore al Re queste parole con cui di- ceva, che « les savans ne contribuent pas moins à la gioire de leur pays, » que les gens de guerre et que le Roi voulant recompenser les travaux » de Samuel Guichenon, la créé chevalier, avec pouvoir d'en prendre » et porter le titre et qualités tout ainsi qu'en accoutument de faire )) les autres chevaliers ». Una cosa v' è a censurare in queste patenti , ed è la concessione al Guichenon del motto Fidelis praemia pennae , poiché, sventuratamente per la penna di un Guichenon, quel motto esprime la sua inclinazione ad essere fedele non alla verità storica, ma alle persone, che la storia vo- levano mancipio delle loro voglie. Del resto per uno scrittore di quei dì poteva ritenersi dimostrazione ancor più apprezzabile la qualità d' istoriografo. che Francia, Dombes(i) (1) Dombes. principato tra la Bressa e la Saòne, che allora speUava in sovranità alla celebre Anna Maria Luigia, principessa di Monlpensier, figlia del duca Gastone d'Orleans, fratello di Luigi XIIL DI GAUDENZIO CLA RETTA. 3'J'^ e Savoia a gara con cede vangli , e che non ebbero a pentirsi di avei'gli conferito tale testimonianza. In quanto a' speciali suoi rapporti colla nostra Corte, pare che essi si possano assegnare, quando finita la reggenza di Cristina, Carlo Emanuele suo figlio, solo però di nome, assumeva le redini dello Stato che proseguì a governare la madre. Venuto a Torino, ed introdotto a Corte, secondo alcuni, dal giudice di Montreal, potè incontrare i favori della duchessa, informata che (juello essendo lo storico che avrebbe potuto acconciamente servire a' suoi fini, non tardò ad incaricarlo di varie incumbenze. a cui egli scrupolosamente tosto attendeva. Varii storici italiani ed anche francesi avevano scritto svdla (lasa di Savoia, ma quei loro lavoii non potevansi ritenere compiuti, ed ancor mancava alla Monarchia una storia, che in un corpo solo ne accennasse i fasti, dai tempi piiì remoti ai recenti. Guichenon In lo scrittoi' riputato capace l'conie lo era in fatti) a riempiere quella lacuna, tanto più che possedendo egli non mediocremente la lingua francese, poteva soddisliare meglii) al gusto della duchessa, sensibili; assai all'idioma suo nazionale, ed al suo proposito di dare maggior estensione di lettura ad un'opera, che scritta in altra lingua si sarebbe mantenuta in cerchia piìi ristretta. A tal fine il diciotto agosto del i65o il Guichenon riceveva da Carlo Emanuele la patente di suo consigliere ed istoriografo, coU'incarico di dedicarsi a quel! opei'a; quindi con patenti del quattro di ottobre oidinavasi al teso- riere generale di Stato di soddisfargli ogni anno la pensione di 600 du- catoni alla ragione di sette fiorini ciascuno (i). Ricevuto l'onorevole mandato, faceva egli tosto ritorno a Borgo, donde cominciava a por mano al carteggio coi suoi protettori, ed il 18 novembre, mentre piangeva la perdita immatura della sua consorte, da (i) " Charles Emmanuel. Ayanl accordé par nos paleoles dii 18 aoùt dernicr ati .sieur Samuel Gui- chenon advocat au presidiai du Bourg en Bresse la chaige de conseiller et liisloriographe pour meltre en lumière l'histoire de notrc maison el désiranl en considération de la grande dépcnse qu'il a déjà faile pour ce rcgard , et (|u'il lui convieni encore supportcr en plusieurs \oyages et recher— ches de titres, livres et manuscripts de lui elablir une pension convenablc à cet emploi pour lui donner courafje et moyen de s'en acquitter avec les soins el l'exactitude que rcquiere la gioire de notrc cournnnc et la grandeur d'un si péniblo travail ; par les presentes . . . nous vous mandons . , . que de quelqnes plus prompts et plus liquides deniers de notre generale recepte lant ordinaire qua extraordìnaiie ... vous ayez à paver ... iimis p:ir iimis au liit sieui de Guichenon à son ohniji la somme de 50 ducalons effcctifs etc. .. Serie IT. Tom. XXX. /^Pl 378 SU) PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI ECC. buon cortigiano anche in mezzo a lutto sì grave, non esitava un momento ad assicuiare la duchessa, come nessuna disgrazia però mai sarebbe stata sufljciente ad affievolire Fumile obbedienza, chei si vantava di profes- sarle, né distoglierlo dalla promessa fatta d illustrare la Casa di Savoia. Del resto, la tristizia per la morte della moglie dileguavasi presto, ed entro l'anno stesso il pieghevole storico passava a seconde nozze. Annun- ziando questo successo ancora alla duchessa, con lettera del 22 ottobre i65i, infòimavala pure di avere già steso il piano della sua storia, pronto, ove facesse di bisogno, a smascherare i' impostura di quanti avessero tentato di menomare la grandezza e lo splendore della Dinastia. E n a- veva ben donde, poiché non mancarongli 1 più alti lavori e le più ab- baglianti dimostrazioni, che d allora sino a' tempi nostri non si ebbero più a verificare in sitiàtta proporzione. Sollecito di ragunar materiali, egli indii'izzavasi al ministro, marchese di San Tommaso, affine di poter avere i manoscritti lasciati dal padre Mouod. Si consentiva, e quelle carte trasmettevansi allo storico francese, che già aveva ricevuto simili favori dal marchese di Pianezza, il quale avevagli pur latto trascrivere vani documenti dall'archivio ducale di Torino. >è temendo di farsi gli elogi da sé, osservava al ministro, che nissuno po- trebbe meglio di lui riuscire in un lavoro cosi splendido ed utile alla Casa di Savoia, che ni pochi mesi sperava di avere compiuto. Per fortuna che sbagliava nel calcolo, dovendosi i mesi ritenere anni, giacché diver- samente non avrebbe potuto compiere opera di tanta mole (i;. Ma i favori de principi, anche ne tempi di forma di regime più stretto, spesse volte trovano incaglio, o nei privati stessi, o nelle corporazioni, le quali o mal comprendono la benigna e nobile intenzione sovrana, ovvero non credono di derogare con intelligente disinvoltura ai precetti sugge- riti da certe massime compassate, rigorose e lalor soverchie di ufficio, per non usar qui la barbara parola burocrazia. Il precetto di agevolare al Guichenon la comunicazione dei documenti non poteva senza dubbio capacitare i fedeli custodi di quelle carte, a' quali non sembrava possibile che ad un privato dovesse esser lecito di cacciarvi entro la sua mano pro- fiana, né sliniavasi quello che un mero inganno, in cui si fosse lasciato allacciare il principe, mal informalo a concedere un tal favore. A questo raeioiKmioiiLi) <-r:\ inclinata la Camera dei conti di Savoia, restia ad aprire (r iiociiiiifiiio 11. i\. DI GAUDENZIO C.LARETTA. 3^y le riverite porte de' suoi tesori allo storico curioso ed indagatore, e tanto più restia ad interinare la pensione legalmente concedutagli dal duca, onde fu jnestieri che in seguito a ripetute lagnanze del Guichenon, la duchessa trasmettesse il quattro di ottobre una giussione a quel magistrato, pei- indurlo ad obbedire ai suoi precetti. E sapendosi la nostra magistratura mantenere sino a certo punto onestamente indipendente, la Camera non dimostrossi disposta ed inclinata ad acconsentire tanto facilmente; onde bisognò che l'ordine venisse altra volta replicato. Del resto, per quanto si possano scorgere nei nell'opera del Guichenon, egli ben ineritavasi una ricompensa, poiché per compilare il suo lavoro ei non aveva risparmiato né fatiche, uè lunghe, tediose e pazienti indagini; e compulsati gli archivi di Savoia, disponevasi a visitare altresì quei di Francia. 1'^ torna a speciale onoranza della duchessa Cristina il dire, che appena informata del proposito del Guichenon, scrisse tosto una lettera per encomiarlo ed offrirgli la sua protezione (i). Né paga di ciò la quanto munifica, altrettanto intelligente sovrana, facevasi a scrivere al suo cugino, Carlo Amedeo duca di Savoia-Nemours, di volergli prestare assistenza, e coniunicargli i documenti di Casa, per essere il suo raccomandalo pei'- sonne de rare inerite, ritenendo come fatta a lei l'accoglienza che avrebbe ricevuto il Guichenon. Se non che ancor qui le buone disposizioni della duchessa rimanevano deluse, poiché il Guichen(jn recavasi bensì a Parigi, ma vi giungeva nel funesto momento, in cui 1 infelice duca di Nemours veniva il trenta di luglio ucciso in duello dal suo cognato duca di Beau- fort, con che estinguevasi quel ramo di Casa Savoia, che spiccatosi da lei poco pili d'un secolo prima, avevale recato fastidio, anziché gloria. Se ne condoleva assai il Guichenon , che stabiliva di far vela verso Borgo, lagnandosi in pari tempo amaramente che la Camera dei conti riiljelle ad ogni precetto, non avesse sin alloi'a (e già correvano due mesi dacché eragli stata conferita la pensione) voluto liquidare il suo conto, per cui nulla peranco aveva egli potuto percepire. Non era però uomo a scoraggiarsene ed a deporre ogni filo di speranza: e tant'è che fra non molto giugneva a raccapezzare qualche cosa. Frattanto disegnava di re- carsi a Parigi una seconda volta per raggranellare documenti negli ar- chivi regi e della Camera ; e rivolgevasi nuovamente a Madama Reale per ottenere una commendatizia pella duchessa di Savoia Nemours, affinchè ' (1 Ducuiuvnlu II. \. 38(1 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI ECC. volesse aprirgli I archivio di sua famiglia , nella fiducia che anche quel ramo della nostra Dinastia potesse comparire orrevolmente nella sua storia. Un secondo fine guidavalo altresì in quella sua gita, ed era di con- seguire, se possibil fosse, l'ufficio di sovrintendente ai negozi di quella Casa nelle provincie di Bressa e Bugey, ancorché avesse vento che l'ar- civescovo di Rheims (i) già ne avesse provvisto un uoin di milizia. Comun- que, appena giunto a Parigi, prese tosto ad inlormare la nostra du- chessa di quanto facevasi, dicevasi , e se fosse stato possibile ad indovi- narsi, di quel che si pensava in quella gran metropoli e ritrovo di begli spiriti. Pare che non tutti gli archivi gli venissero aperti , poiché scriveva a Torino, che fra tre settimane si sarebbe sbrigato di ogni negozio: notisi però eh ei consumava il lempo, non dirò in sollazzi, ma in molte visite ai ministri, allambasciatore di Savoia, ed al principe Tonnnaso , avendo anche, prima di recarsi da costui, interpellato il ministro abate d'Agliè, per essere sicuro di non far poi cosa sgraziosa alla duchessa, per quella segreta ruggine che passava nelle relazioni coU'emulo cognato. Ma a quanto di restrizione fu assoggettato nel compulsare gli archivi francesi, d'altrettanta laigliezza potè valersi nel visitare quei dello Stato, ed il 26 settembre del 16.04 ''' spediva il mandato di lire 1820, pari a 1 20 doppie di Spagna u per le spese e fatiche da lui fatte nel visitare e pigliar memorie delle scritUire più antiche che sono negli archivi di Savoia, Piemonte, Nizza e Valle di Aosta e per le spese del viaggio che deve fare a Baid per relFelto suddetto (2) ». Sullo scorcio del iG55 già era pressoché compiuta la sua storia della Casa di Savoia, e tosto allora atfrettavasi di venir a Torino per farla esa- minare e presentare alla duchessa Cristina, ancorché vi mancasse 1 ultima mano di perfezione. Esaminatala e giudicatasi degna, e scritta a seconda del volere manifestatogli, daviisi ordine che appena saiebbe stata ridotta a definitivo compimento, verrebbe a spese della Corte pubblicata in ele- gante edizione. Ed a titolo d'incoraggiamento se ne rimunerava tosto fautore, regalandolo di preziosi gioielli di vago artifizio, e conferendogli 1) limico >li Sa>oia->'emours, fralellu Hi (Inrlo .\ineileo, die tosic iliccmMjo ucciso in duello Hai (luca «li Beaulort. — F.Diii-o era arcivescovo di Hlieirii.s. ma il a-i uia^i;i(> ilrl 1657. (olloiii il coliate e la soUana, sposava Maria, figlia d'Enrico d'Orleaus. >'on ebbe però Ogliiiolanza, egli falli l'idea di lasciar discendcn/u dalla linea di sua iamiglia. Mori a Parigi il 11 gennaio del 16.50. i .\rclii\i camerali, — l'csitreri.i «li l*ienioiile. 1)1 GA0DEr.ZIO CLARICTTA. 38 f con bolle del sei gennaio i656 l'equestre divisa dell' Ordine niauriziano, distinzione allora tanto più preziosa, in quanto raramente elargivasi ai dotti, ai letterati ed agli artisti, riservata essendo a ricompensare servizi militari nei soli alti gradi della milizia, o coloro che compiacevansi di chiederla, mediante le prove di certe condizioni di nobiltii di natali e di alleanze, ed a cui si concedeva, come dicevasi, in linea di giustizia. Il Guichenoii hi schietto, e non mise indugio ad attestare con lettera alla duchessa ed al duca la riconoscenza profondissima che sentiva di quel favore, veramente esimio. La dimostrazione del lesto servi di sprone a porre termine con pre- stezza all'opera sua, e nel setlemlire da Borgo scriveva di essere pronto a presentarla a Torino. Tare però che esaminatala, fosse da lui stata ri- chiesta qualche modificazione od iiggiunta, poiché un anno dopo (agosto 1637) raccomanda vasi a Madama Reale, affinchè facesse intendere all'ar- chivista Lageri di non far il niffolo, e ricordarsi che quando ad un galaiiluomn si promette di rispondere , conviene attendere la promessa. E questo Lageri, allesempio de'magistrati della Camera dei conti di Savoia, era restio a comunicare i documenti, sebbene avesse avuto ordine dalla Sovrana di farlo, onde tanto più è benemerito il Guichenon per aver saputo perseverare nella lotta cogli ignoranti e cogli emuli de' suoi tempi. Fu ventura pei lui, che, secondato dal Governo, potè infine vincere ogni t)staeoIo; e lo stesso marchese di Pianezza, che per ragion di principii, non era al certo molto largo nel favorire la pubblicazione di documenti, quanluiupie lauture avesse sol di mira d'illustrare la Dinastia, il 23 luglio del 1660 inducevasi a scrivere al celebre presidente Bellezia: « 11 signor di Guichenon che stampa la genealogia della leal Casa di Savoia desidera aver tutte le memorie che sopra di ciò aveva il signor- di Bonnefon già agente di S. A. lì. a Parigi; supplico \ . S. I. di vedere se da monsieur Meinier si potessero ritirare (1) ». Finalmente la stona, rinvigorita ed accresciuta di nuovi documenti, era pressoché ultimata, e sollecito n'avvertiva la duchessa, facendole osservare, che il racconto giugneva sino allaiino i65o, e che era suo intendimento di riservare poi per un appendice o per una seconda edizione quanto comprendevasi nell'ultimo decennio. Né celava l'impazienza di poter ornai fi) Ci.nis|)oiiilc)i<;ii ilei l". Ilellivin rjiil ionie Carroiio, (■f-isiculo iw^\i ajcliiM ilciia iidl.ili- faiuiylia dei conli Bro;:lia di Ca8.ill>or;;(inf. 382 SUI PR1N<:IPAI-I STORICI PIEMONTESI F.C.C. pubblicare quel lavoro, per non ritardare all' Europa il momento di am- mirare les gi-andears et les aviuitages (rune famille tonte rojale (i). E come in ogni parte doveva rifulgere il regio fasto, cos'i volendo che anche dai tipi spirassero venusta e grazia, decidevasi di fare stampare l'opera monumentale a Lione, ove si era recato l' autore, facendo fondere nuovi caratteri, ed intagliare i rami che l'adornano. Sino dal rGSg il banchiere Tarino aveva avuto precetto di sborsare al tipografo lireSiyS, equivalenti a lire torinesi 2556 a solo a buon conto delle spese di slampa, e poi nel i66o ritrovo essersi pagate altre lire 6885. Della veramente regale munificenza dei nostri duchi partecipava ancora in seguito il (iuichenon, riguiderdonato con nuovi premi, ed alla presen- tazione del primo volume il suo figlio riceveva pure l'Ordine Mauriziano, come dalla lettera di ringraziamento, indiritta dal padre ricavasi, sebbene nella storia di quell'Ordine equestre non appaia il nome del medesimo. Secondo il sistema adottato sin qui, parmi or acconcio di esaminar al- meno sommariamente questa storia della Monarchia di Savoia, che si può ritenere ancora oggidì la più completa e la più ricca di documenti della nostra Dinastia. L'opera ha la data di Lione i6()o, ed è abbellita dallo incisioni del Tharneysen , e del De Piene. Gian Michele Birolo di Torino nel 1778 facevane una seconda edizione, abbellita pure di ornati e intagli di Mer- cerus. Cagnoni, Valperga e Pittarelli, Dopo la dedica alla duchessa Cristina, il cui ritratto ne adorna pur il fronti.spizio, evvi una lunga prefazione, ove si dà ragione di tutta l'opera, e si spiega che non si ricorse alle tradizioni che in mancanza dei docu- menti, base principale su cui afferma costituito quell'edifizio. L'opera è divisa in sei parti : nella prima ove s'accenna ad una descri- zione topografica degli Stati ducali, delle Alpi, dei fiumi, avanzi di anti- chità , strade militari, iscrizioni romane, a cui tien dietro un discorso sull'antichità della Savoia, nobiltà e sovranità della Casa di quel nome, pretese e ragioni su varii regni e principati sovrani, armi, ordini e divise. Ma su questa prima parte convien fare qualche osservazione. Ignaro alfatto di epigrafia, le i5o iscrizioni di Torino, che per avere sott'occhio, meglio amò di toglierle dal Grutero, e soprattutto dal Pingone. di quest'ultimo (1) Docuiueulo 11. XI. DI GAUDENZIO (JI.ARETJA. 383 dando persino le mutale ubicazioni , delle molte non trovate nei libri mandò a stampa lo copie, ma di cosi pessima lezione, scrive Carlo Pro- mis(r), che talvolta più non danno senso alcuno, oltre la mescolanza di parecchi titoli sparii. A lui però dobbiamo la trasmissione sola, sebbon infelice, di i-ran parte dei nostri marmi, che altrimenti sarebbero stati sconosciuti, poiché trovandosi allogati nella galleria che prese fuoco, furono involti in quelle mine ed andarono perduti. Comprende la seconda parte la vitii dei .singoli principi, dal gSo al i65o, colle loro gesta civili e militari; la terza, quella delle linee collaterali; la quarta le genealogie dei naturali; la quinta quella delle famiglie alleatesi con essii, riservando a complemeiitn i documenti, a cui sussegue in altro volume che vide la luce a Lione nel i6ti6, la Bihliolheca Sebusiuna, seu variarum chartaruin diplomatimi . juiidalionum . pìivilegioranì , doiiationwn et iminunitatwn a summis pontificibus , iinpeiatoribus , i-egibus , ducibus , marchionibus , comitibus et proceribus, ecclesiis, monasteriis et aliis locis aut personis concessaruiìì , nusquam anteu editaiuin Miscellae cenlwiae duo. La qual produzione io cito, riportando le parole con cui è menzionata nella pre- fazione che la Deputazione di Stona patria faceva precedere nel i854 all'edizione del suo secondo volume Chartarum « Jamque magnum historiae )) noslrae munus attulerat anno mdclx. Samuel Guichenonus, evulgata » Bibliotheca Sebusiana, ubi multa leguntur ad Galliam Lugdunensem et » JNarbonensem pertinenlia, in quaruni oppida complures diu Allobrogici )i Priticipes sunt dominati ». VA invero la Bibliotheca Sebusiana fu la prima raccolta di documenti, in gran partt; appartenenti alla Monarchia, e reca una copiosa scelta di carte pubbliche e private risguardanti al Lionese e Delfinato, parie delle quali provincie ha lungamente obbedito ai nostri duchi, ed altre non poche concernenti gli alili Stati di Savoia al di là dei monti. La prefazione della storia genealogica del Guichenon è anche un com- pendio storico letterario di quanti scrissero sulla Casa di Savoia, dalle prime cronache attribuite ai tempi del Conte Verde, sino ai suoi, e giova riflettere , come in questa rassegna abbia fautore dato saggio di molta critica , non mai disgiunta da un equo e temperato giudizio sugli altri scrittori, fatto degno a notarsi negli autori di quei tempi, sempre in poco (1) Storili di Turimi aniUn. 384 ■^"' PKINCIPAM .STORICI PIEMONTESI KCC. buona armonia tra di loro, e rull'albagia di un francese, l'he si dimostra schiettamente propenso a testimoniare meritati elogi a monsignor Della Chiesa, manifestando senza la menoma ombra di livore una vera soddis- fazione per una nuova produzione di quell'iiuiefesso suo rollega istorio- grafo, che quanto priniii doveva comparire ad incremento e lustro degli studi storici. Sarebbe estraneo a questo tema, ed eccederebbe lo scopo proj)ostomi, h) scendere ad una particolare analisi di (juestopera cosi voluminosa, che in sostanza merita più d'encomio che di biasimo, eppeiciò mi limi- terò a considerare un sol punto che ha una relazione moiale coi tempi, e che dinota lo svilupjH) ed il progresso degli studi storici a quei dì. Risguarda esso la lunga dissertazione sullorigine della Casa di Savoia, in cui esaminò i sistemi principali, e specialmente quelli già da noi citati di Lodovico Della Chiesa, che anzitutto la fece discendente dai conti di Ginevra, e poi poco prima della sua morte la volle originala dai marchesi d'Ivrea re d'Italia, cioè dallOtton Guglielmo, duca e conte di Borgogna, figliuolo di Adalberto, e nipote di Berengario II re d Italia, il quale sa- rebbe stato il Beroldo delle cronache: opinione con lievi modificazioni accettata poi in tempi più recenti dal celebre Scipione Mafifei nella sua Verona illiislrata, dal conte Napione, e finalmente dal nostro Luigi Ci- brario, che eloquentemente però la sosteneva con argomenti suggeritigli dal fervido suo ingegno, anziché fondati su prove alcune dirette. E un punto oscuro ancor oggidì, e sonovi ragioni valevoli a dar peso tanto allopinione dell'origine italiana, quanto a quella della derivazione germanica, propugnata da Guichenon con tutto I impegno con cui altri sostenne la contraria sentenza ; poiché, come scrittore aulico, doveva sod- disfare all'inclinazione ed all'interesse che aveva allora la famiglia di sostenere tal origine: inclinazione conlessata apertamente dal duca stesso, che si professava discendente dalla stirpe di Sassonia, e manifestata per- sino da lui nell'ordine dato di dipingere una sala del regal palazzo di Torino con emblemi ed allegorie relative alla Sa.ssonia, ed al famoso Vitichindo, illustrati dalla dotta penna del ducale epigrafista, Emanuele Tesauro. Proclamato questo principio, gli oHiciosi andavano a gara di piopa- garlo, ed il nostro ministro a Parigi, conte Carroccio, il quattro agosto del 166:2 scriveva alla duchessa Cristina, che un tal Camillo Lilii, storico, avevagli presenlala una commendatizia dell'elettrice di baviera, per aver DI GAUDENZIO CLARETTA 385 copia autentica di una certa scrittura esistente a Roma, atta a provare la discendenza di Beroldo dai principi di Sassonia (i). Sidàtla opinione veniva avvalorata da attributi che si volevano rite- nere di qualche peso, quali erano: l'autorità della maggioranza degli scrittori: l'anlichità dell'uso d'inquartare lo stemma sassone in quel di Savoia; il diritto dei noslri principi d'intervenire con voce deliberativa alle assemblee e diete imperiali ; la tradizione convenzionale nelle due Famiglie, espressa apertamente dallo stesso Amedeo VITI, il quale cosine discorreva intorno al ipi ad un suo inviato all'imperatore i Itein reciterà » commcnt par la j^race de Dieu monseigneur et ses predecesseurs depuis 11 (ju ils partirent de Sassoygne du Irere du tiers Empereur Odde » Ttem sii est metier pourra renionstrer au due de Sassoygne lamour » et confiance que monseigneur doit avoir à lui leqtiel et ses ancetres » sount descendus de ceste tie Sassoygne du lams du tieis empereur » Odde, que messir Beraud de Sanxogne neveu du dit empereui- d'oii )) est issu mon dit seignetu' tiist envoyo aux armes et cornine capitain i> de l'empire es inarches de par deca et sous 1 obéissauce du royauiuc 11 d Arles 1) 2). Similmente il duca Ludovico, liglio di Amedeo Vili nel suo stesso con- tratto ili matrimonio cosi dichiarava (piest origine sassone « \'olentes circa >i renovationem t'oederum allinitatis Inter eos duces qui ambo ab inclita » domo Saxoniae educti sunt ab antiquo ». I sostenitori di tal conghiettura traevano pure argomento dal nome di Amedeo, trapiantatosi nella Casa di Savoia dacché, secondo Guichenon, Ugo marchese d'Italia, padre di Beroldo, sarebbe stato figlio di Innned di Sassonia, che in tedesco corrisponde al nostro Amedeo. Sono sistemi fondati su semplici conghietture, e che solo acquisterebbero verisimiglianza colla scoperta fortuita di un documento certo, su cui non essendo del pari appoggiato il sistema opjxisto, lasciava al Guichenon materia di confutarlo. Essendo l'Otton Guglielmo vissuta) intorno la metà del secolo undi- cesimo, doveva porgere diflicolttà il supporre, che uno fra i suoi figli potesse essere affatto ignorato, tanto più ammesso che avesse avuto una parte più importante degli altri fratelli. ^Ij A. S. T. Franiin. — I.fUrra .Miuislii, niazzii 7 i. (3] .\. Camerali. — l'rolocollo l'ingon, n. ili. .Sf.HIK 11. J'OM. X\X. _ 49 386 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Molto |)iù agevole sarebl)e risolvere la difTicoltà^ facendo nascere o l'Umberto, o 1 Oddone da un principe rinomato nella storia di Borgogna, che attribuire a Beroido di Sassonia un principe, a mala pena conosciuto * vissuto nei primi anni del secolo decimo. Ma in questo sistema della origine italiana spunta sempre lo scoglio, die cioè l'Ottone Guglielmo fosse estraneo al regno di Bori^ogna, e che la Casa di Savoia nnn p',- lesse avere ricevuto in retaggio alcuno degli Stali posseduti in origine. Dico, che è malagevole il piovare, (Mine uno di questi prmcipi abbia potuto formarsi uno Stato in un regno straniero, o tanto meno acqui- starvi Provincie intiere nel solo spazio di pochi anni e nell'adi'lescenza. Ora rottoli Guglielmo fu estraneo al regno di Rodolfo III, poiiiiè ed il, ducale di Borgogna, di cui volle inettei'si in possesso, e la contea di Dijon donatagli dal iie Roberto e (jiiella di Macon , pervenutagli per alleanza, appartenevano alla Francia, e nella donazione fatta dal Re di Francia nel io>:> al monastero di Fruttuaria. Olton Guglielmo è da lui chianiato Comes lìos/c'f. Che piìi: il grado iia principi ilaliani apparteneva ad Oddone pel suo matrimonio con Adelaide di Siisa. che recogli la contea di Tonno col marchesato di Susa, mentre, nella loiidazione di Altacomba del i i a5, è chiamato conte di Savoia, e conle di Moriana trovasi denominato sino dal ioq3, ed è paleso che il solo titolo di conte usato da Umberto sino •dal ioo3, secondo la costumanza d'alliua in atti emanati in agro Sa- {'ore/isi, in comitalit Sa^'oyensi n Bellacensi, è ben lungi d indicare una sovranità italiana. Ne può forse recar molto peso I argomento addotto dal Malièi. e poi ai nostri giorni seguito dal Cibrario, che in una carta del 1098 Umberto II avesse dichiarato di regolarsi a norma della legge romana, Ego Humberlus qui ni-ofessus sain lege vi\'ere romand. Infatti, i primi re di Borgogna avevano lasciato agli abitanti l'uso delle leggi romane, molto modificate senza dubliio in seguito alla mescolanza di coslumi ed usi cagionata dalla irruzione dei barbari , sebbene costituissero sempre il tondamento della civile legislazione, ed una carta di Luigi il Cieco deir894 cita il codice teodosiano, ed una donazione del io3( in favore di S. Lorenzo di Gre- noble contiene queste parole rimarchevoli . Talitei- concediinus qualiter lex nostra ronniiKi ohcdirc praeccpif (ij. Ma di (pia dei monti , la li Hiildirr liti Oailjilniir. pa<;. i'O. DI GAUDENZIO CLARETTA. 38'^ uiagginr parte delle famiglie prii\cipali, come quelle di Adelaide di Susa e degli Ardiiini, seguirono la legge salica. I principi di Savoia ammettendoli sassoni d'origine, non avevano però potuto serhare la legge salica in un paese in cui, stando alla maggioranza degli autori, ([uesta legge non era seguita, quindi avendo essi adottata la legge comune, secondo Cibrario ai tenqji di Umberto II , secondo Gui- chenon nel 1098, potevano benissimo, in un atto compiuto in Italia, dichiarare di professare la legge romana ex natione niea, dacché da ben cencinquant'anni erano essi o savoiardi o borghignoni. 1^ però necessario di far qui una grave osservazione. Le parole che il Guichcnon lesse nella carta del 1098, colle quali Umberto IT dichiarava di vivere secondo la consuetudine della legge romana , ["Igu Haiìiheitus qui jìi'ofessus suin lege vivere roiiuiiKi ex natione rnea, secondo Napione non sarebbero State riportate dal Guichenon troppo fedelmente : volendo che le espressioni ex natione niea fossero state da lui stesso troncate, affine di lendere di \nn certa piova I argomento relativo all'origine sassone (i). Del resto, conchiudendo con Cesare Balbo, che « ce serait une question » à décider plutót par des documents que par des conjeclures; et les » documents sont épuisés sans avoir pu la résoudre, et sans espérance « d'en trouver des nouveaux » (2), ci'edo che il sin qui detto, si possa ritenere più che sufficiente per far conoscere i sistemi del Guichenon, e rendere avvertito pure il leggitore, che non risparmiò egli fatica per accertare i fatti e ragunare documenti, valevoli ad illustrare il suo rac- conto. Non manca il lavoro di non poche mende . né dimostrossi egli de' più valenti paleografi, e nella pubblicazione di molti documenti ese- guitasi dalla Deputazione di Storia patria in questi ultimi tempi, si ha riscontro di non lievi falli da lui conmiessi, e già il Muratori nella pre- fazione alle Cronache ti' Asti scriveva : Gidchenonius vii- alioqui multae eiuditionis, sed non semper accuratus; quindi, contro la sentenza di questo giudice, non vi può esser forse richiamo, uè nel Guichenon devesi consi- derare il magister dixit degli antichi Pitagorici. Così parimente non attin- gerebbe a pura fonte chi sperasse di trovare nei lavori del Guichenon quella schiettezza, che a mala pena si riscontra ali albeggiare dei tempi (1) Osservazioni intorno ad alcune monete dei Piemonte. (2) Sur l'/iistoire et sur les /tistoriens de tu Maison de Savoie 388 SUI PKINCJPAI.l STORICI PIEMONTESI odierni, e senza dubbio saiebl)e indotto in errore chi vi volesse scorgere quel magistero di critica fdosofica , che sol pii'i tardi cominciava a ma- nifestarsi. Avendo avuto 1 autore per còmpitu d illustrale la Gasa di Savoia, che ave vaio incaricato di pubblicare quellopera, sarebbe fuori proposito se si credesse di trovarvi la precisa esposizione degli avvenimenti seguiti dal regno di Carlo Emanuele I ai slioi tempi, essendogli stato imposto di usar con molto riserbo delle corrispondenz» e negoziazioni diplomatiche, ed omettere quei punti che non conveniva al Governo di propalare. Tante che in una sua lettera autografa scritta da Borgt) il 20 aprile del 1654 alla Duchessa, cosi esprimevasi: u Puisque par raison d'Etat il a falla » retrancher de mon histoire génealogique de la royale Maison de Savoie les » chapilres i3 et i4 de la première partie, j'ai vu que les niatériaux que » j'avais préparés ne devoient pas demeurer inutiles, ni les ouvrages que les >i ennemis de cette couromie ont public, étre plus long temps sans rcplique. » Ayant donc su 1 inlention de M. R. sur ce sujet, j'en ai ebauché un petit » traite anonyme que j'envoye pour avoir son passeport s il en est digne ». Il Guichenon fu però giudicato con molta severità dai suoi contem- poranei e da scrittori di tempi posteriori. Per tenere un'equa bilancia conviene anzitutto avvertire che nella sua storia aveva egli lesa non poco la suscettibilità di molti avversari del Governo, ne reca meraviglia che pel modo suo di raccontare la guerra valdese, si dovesse attirai contro il ministro principale di quel culto, Giovanni Leger. uomo di mala fede e rubella condotta, che per non aggiugnere qui altro, fu in modo ter- ribile fulminato da Carlo Botta in una delle eloquenti pagine della sua Storia d'Italia. L'asseverarsi dunque da costui, che il Guichenon s indusse a falsificare cantre science et conscience quanto attenevasi ai diritti ed alla pretesa incolpabilità dei religionari, e di non aver arrossito d'einplojcr sa piume inercenaive, l'essere trattato da ì-cnegal qui a tif>o.<;tasie rie la vérité pour se vendre au.x intére/s de la inensoìige. dinotano un livore, che vale a mitigare reHicacia della stessa prova che s'invocherebbe contro di lui. Per altri molivi è pure assai sospetto Emanuele Tesauro, il quale non poteva condonare al Guichenon, di non avere nel racconto degli avveni- menti della reggenza di Cristina di Francia, per nulla favorito la condizione de' principi cognati, ed ancor egli riesce a provar poco, mettendo mori (jiici volgare aneddoto, invocato spesso contro tanti autori, che cioè inter- rogato perchè avess<- avuto l'audacia di scrivere cose cimlro il vero, egli DI «.ALDENZIO <:i,ARETTA. SSg rispondesse, che della verità poco curavasi, ma bensì del sussidio che percepiva dalla Corte. Possibile, che anco ammesso il principio, egli si lasciasse indurre a manifestarlo così spiatlellatamente! Ripelo adunque che conviene andai' guardinghi a prestar tede a certe censure, le quali possono provenire dagli emuli di uno scrittore, che era molto lavorilo da prmcipali Sovrani d Europa. I'> ci convince di questo ragionamento un brano di lettera, che ("liambattista Ponte, agente segreto del Duca a Parigi, scrivevagli il ly luglio del 1661. « Finalmente è com- parso in (juesto bel centro della curiosità virtuosa il tanto bramato libro di inonsieur di Guichenon avendone ! autore mandate molte copie da distribuirsi a suoi amici la uKiggior parte da me conosciuti. Monsieur Giustello (i) uno de piii delicati ingegni del nostro secolo, massime in ma- teria ili storia e genealogia, e li signori di Sainte Marthe (2) subito me ne hanno tatto awertito e di cornuti accordo risoluti di andare dai signori di Chesne ed Orsier il giovine, ai quali eraci stato riferito essere stata com- niessii la distribuzione con la lista per essi. Appena usciti dalla porta del Giustello ricontrassimo il suddetto du Chesne che veniva per recar la nuova dell'arrivo de' libri, e siccome ve ne era uno per caduno di loro obbli- gati a rientrar in casa e nella sua libreria si cominciò a discorrere di tutto ciò che di dillicoltoso poteva occorrere in tal opera, rimettendosi caduno a quello che ne risulterebbe dalle prove. In manco d un'ora si ac- crebbe la ciinversazione sino al numero di diciassette de più tainosi soggetti che abbino ora le erudite Im-ij vigilie rese gloriose in questi nostri tempi. Molti parevano più disposti a contraddire e ad impugnare che ad applau- dire al libro supponendo ciascuno dillicoltà insuperabili, le quali con avere stordito Fautore si credevano porgessero ad essi agio di censurarlo. Ma il Diichesne impaziente di più ditFerire la pubblicazione degli avvantaggi dell'amico, mise mano ad una lettera scrittagli dall'autore, e quella let- tera avanti tutto, altro non conteneva che un elogio alla generosità dei nostri reali padroni , alla liberalità di nostra Corte, alla gentilezza de prin- cipali cavalieri e ministri e fece sì forte impressione nell'animo di ciascuno che tutti vollero rileggerla (3) ». d .Juslel, figlio di Crislofmo , eonsiffliorf <> w^rrlaiMi ili I.iii<>i MV. l'aiilorr ridia Gevealogii ilella Casa ri'Juverrjnt e di altri scritti. 9) Cioè i ddtli Francesco e Claudio di S Vlaiilu-. (3"" Fraiiria , Lnlryi-ministri. 3ùo SOI PRINCIPALI STORK.l PIKMONTESI 11 V";inllas, nella prefazione al terzo tomo (IpIT istoria dell'eresia, recò dell opera del Guichenon qnesto giudizio u Reclusit in hoe opere )) inaestimabilenn prorsus thesauruni monumentornm el diplomalum quae )) eius studio in protratto inexhaustuni usum historiae niedii aevi prae- n hent. Dolenduni modo, opus hoc pretiosissinnnn , inventa quoque diffi- » cillinium esse, imo in paucissimis compaiere hihiiothecis , cujus vani- 1) t.itis causam aliqui cani dare volunt, quod operis, sumptibus ducali » impressi distributio a ducali quoque beneficio et liberalilate dcpenderit, « de quo quid certuni, asserere non possumus. Id rertissnnum est. varias » in noslris regionibus invenire, quo etiani factum, ut qui splendidissimi » operis copiam liabuerunt, non dubitarent ex ilio integro diplomate de- » scribere atque reipublicae litterariae , taniquam ex archivis et mann- » scriptis rarissime deprompta commendare. <}uantum alias in nobilissimo » hoc opere praestiterit, testantni' iionorifica elogia, ipiae viri doclissimi « illi tribuere non dubitarunt ». Fra i detrattori meno antichi, che vollero chiosare, con qualche livore le opere del Guichenon, non è ultimo il Denina, il quale nella sua storia deiritalia occidentale riporta il dello attribuito al celebre nostro cardinale GerdiI, che cioè // ne crojait. />iis iju il r eiU persoune aii monde d assez agueni contve. Vennul poni- lire cel aiiteAiv en entiev. Ma è palese che questo frizzo nulla detrae allutilità de' lavori del nostro storiografo, e tutti sanno che la venustà e leggiadria di stile non sempre si conciliano colle opere di gran lena , in cui l'autoi'e sia astretto a riferire tiocumenti rozzi, colle frequenti citazioni e collobbligo di confutare gli errori di prece- denti scrittori. Del resto, tanto il Denina, quanto Ferdinando Pozzo o del Pozzo da Moncalvo, nel suo Saggio sulle antiche assemblee nazionali del PiemoiUe e della Sas'oia non furono abbastanza svincolati dal predominio di certe idee, per poter recare un adequalo giudizio sulle opere del Gui- chenon. Perlocchè piii grave e piìi degno di fede è quello di Angiolo Paolo Cai-ena, il quale, ne'suoi Discorsi stearici, così lasciò scritto: « Con alquanto più di diligenza e di presidii venne poi il Guichenon ad illustrare la genea- logia e le gesta dei nostri sovrani, ma tuttavia presso i giusti estimatori di tali opere non acquistò tutta quella lode di sincerità, diligenza e giudizio che acquistar poteva ai nostri tempi, nei quali abbiamo tanti scrittori e monumenti e discussioni storiche e genealogiche che a' suoi dì non erano ancora in luce; molto si potrebbe aggiungere alla di lui opera. Io non lo riprenderò col Muratori per avere ignorato parecchi fatti importanti, poiché ni CAI TIEN/.K) CI.ARITTA. '6CfI quesli si seppero solamente per via di aulori e monumenti pubblicati dopo i tempi ne' quali egli scriveva, ina ben si desidera in lui diligenza maggiore nel rapportare o far uso dei monumenli e degli autori che ebbe per le mani, maggior sincerila, criterio e giudizio, ordine migliore e quella maniera (li pensare e di narrare nobile e supcriore, la ((/' l'/iisltiirc I-I histofinis tie.< hliitt.' ftr lir M. ilt SifVine, (2) Dociiuirnl" n. \ii. 3q2 sui PniNCIPAr.l STOUKI PIEMOvrF.Sl al miiiistro per rinfrescargli !a promessa ilatagli , ohe il suo lavoro si sarebbe pubblicato, con asseverare che la Casa di Savoia ne avrebbe ricevuto un fulgido splendore, tuttavia, l'aura favorevole essendo svanita, si procrastinò tanto nell'appagarlo . che non si giunse più in tempo, es- sendo egli morto l'anno successivo. Il manoscritto offerto intitolavasi Le Soleil en suri apogéc, oii l' Histoire de la vie de Christine de France, duchesse de Savoie , veine de Chipre, di cui una copia rinvenivasi dall'abate Peyron nella biblioteca dell'Arse- nale di Parigi. Il solo titolo di que.sta scrittura ci pone in grado di definirla un pane- girico, anziché un'istoria, in quantochè un istorico non avrebbe chiamalo la duchessa sans compiai sance, fou%>rage du del, Vefjovl de la naiwe, Hion- neiir de sor?, sexe cf le niiracle de son siede. E bensì vei'o che bisogna avvertire, che il Guichenon viveva nel secolo in cui le iperboli, i con- celtini e lo stile manierato lussureggiavano, né ad essi era indilTerente la Sorella del Re Cristianissimo, la spasimante Sovrana del regno di Cipro. come a lungo abbiamo gjà avvertito. Ma al Guichenon riinairà sempre la gloria delle onorevoli sue fatiche, e dell'avere, in non lunga carriera letteraria, composte opere di lena, e raccolti immensi materiali storici. Infatti, le ente ed i documenti che ap- partenevano a quell'illustre storico formano ben trentacinque volumi, che sommariamente furono latti conoscere in una interessante monografia che vide la luce a Lione nel i85i. Presso gli autori francesi sono pure eitati vaiii lavori del Guichenon, poco noti: come VHistoire des guerres de Savoie depuis iSgy jusquau iGSi. — Il Lelong assicura, che nella biblioteca degli Agostiniani del sob- borgo della Guillotière di Lione eravi l'originale della Storia della Bressa, con molti aneddoti su quella famiglia, che non videro la luce nell'opera stampata. Fra i monumenti principali inediti, vuoisi accennare altresì ì Histoire du pays et souveraineté de Domhes, la quale eragli slata connnessa dalla linomatissima principessa di Montpensier sovrana di Dombes , che però, V non paga del modo con cui l'autore aveva compiuto l'incarico, oppure, con maggiore verosimiglianza, secondo scrisse il signor De-la-Marc nella Bibliothèque des auteurs de Boiirgogne , perchè risultando che quella pic- cola sovranità era parto di altrettante usurpazioni fatte sulla Francia, sulla chiesa di Lione e sull'abbazia di Cluni, aveva stimato meglio di DI GAUDENZIO CLARETTA. SgS ritirare il manoscritto, e chiuderlo in un cofanetto, graliiicandone l'autore col dono di mille scudi. Questo manoscritto fu diligentemente trascritto e fatto precedere da una minuta esposizione della vita e delle opere del Guichenon dal dottor Uclniboltz-Landat, die offrivalo alla maestà del nostro Re, ed or conservasi nella biblioteca palatina. Rimane infine a parlare del libro anonimo, Le Iwre anonjme, che passò inosservato a tutti i biografi del Guichenon, eccetto che al dotto mar- chese Costa di Beauregard, il quale ne die notizia in apposita disserta- zione (i). tcco un pò di cronaca di questo lavoro dello storiografo di Savoia, che scombiccherò rat^ionanienti e buttò via mollo inchiostro per le note frivolezze, di cui già ei^bimo cotanto a discorrere. Quando Guichenon nel r653 pubblicò Le dessein de l histoira généa- logiqae de la R. Maison de Savoie, \ ministri della reggente se ne dimo- strarono tementi, sul riflesso dellimpressione che avrebbero potuto lecare su Genova. Venezia, sul gran duca di Toscana, e sugli elettori di Alle- magna, i capitoli r3 e i4 di quell'opera, ove si trattava del titolo del Re di Cipro, e della precedenza e delle onoranze pretese dai duca. L'autore ebbe ordine di sopprimere quei capitoli, ma chiestasi da lui autorizza- zione di comporre un lavoro speciale su quella materia, essa vennegli consentita, e pochi mesi dopo ei compi il suo libro del Trattato anonimo, che nel marzo del i65r presentava a un dei ministri della nostra Corte, che il Costa suppone lo stesso Capre, allora segretario del conte Filippo d'Agliè. I'> veramente il Capre rispondevagli. che il libro in sostanza aveva piaciuto j)er l'erudizione singolare onde era adorno, ma che tanto il d' Agliè quanto il Pianezza avevano osservato, che eranvi sottrazioni a farsi, sebben ripetesse che a lui toccava I elogio di aver fatto egli solo in brevissimo spazio di tempo piiì di quanto il Monod in dieci anni. Il 6 luglio del i654 poi il Capre avevagli scritto: « Monsieur le comte )) (Filippo) ne cesse de lire votre petit livre, et je vous promets qu'il le » trouve curieux et rare. Nous verrons, quant'à l'impression, si la poli- » tique permettra qu'on aille svegliar la gatta avec les Vénitiens, Florentins » et Génois, qui sont assez bien avec cette royale Maison. Quoiqu'il en soit, » on veut que la pièce soit gardée, et si vous venez jamais en Piémont, (I lieilicnhes sur It livre uiinKyme, niHiaye iiitdii ili CuÌc/iiìiidi. Menijiies ili' l'Aiadf iiiii- ini|icriale des Siirncf s ik- Savoie , T. v. Skp.ii; ir. Tom. \\\. 5o 3q/, SUI PRINCIPALI STORICI PIF.MONTESl » vous saurez les intentions de LL. AA. RR. et de ces messieurs qui vous » estiment tous sur ma foy ». E veramente pare che, smesso il timor(> che la pubblicazione del libro potesse cagionare inquietudini, essa dovesse essere consentita, poiché il 5 gennaio del 1 655 lo stesso Capre scriveva : « Je suis ravy que le petit livre est près detre mis sous presse ». Ma poi il d'Aglic cominciava a lasciar dubitare, che non essendo lontano il riavvicinamento coi Veneziani, sarebbe stala cesa incongrua il permettere la pubblicazione di quello scritto. Anzi il manoscritto stosso stava nello .scrigno de ministri di Torino, ed invano il Guichcnon sollecitava per la restituzione; senoiichè vinse anco questa voltala sua costanza e tenacia; onde riavutolo e ralfazzonatolo, sul cader del marzo del 1659 rinviavalo al d'Agliè. E dalla lettera d'accompagnamento risulta ch'egli avevalo cangiato affatto, e che inducevasi a provare, che Vittorio Amedeo era stato costi-etto ad assumere il titolo regio, in seguito alle innovazioni introdotte da Urbano Vili; che quel titolo non poggiava solamente sul regno di Cipro: che la repubblica non doveva allontanarsi da quanto usavano i gran Re. Egli poi fondava quel titolo sulla nascila regia, sulle alleanze auguste, suU'imporlauza del dominio, sulle antiche distinzioni e sull'antichità de" titoli, sulla precedenza sulla repubblica di \ enezia, sulle pretese a diversi regni e simili quistioni. già abbastanza trite. E secondo l;i sua costumanza egli aveva un bel vantarsi col dire w Je » suis Francois de naissance et de party, enfin je suis personne désintéressée ). qui n'ai point de dépendence ni de commandement d'escrire et qui n'at- » tends point de récompense de mon travail»; ma chi può prestar fede a codesta manifestazione d'indipendenza, distrutta dall'avere scritto in novem- bre del i655. «Je nai entrepris cette pièce (cioè il libro anonimo), que pour » plaire à LL. AV. RR. (sic) et pour défendre les intérèts de leur couronne » je serai toujours satisfai! quand je ferai ce quelles me voudront prescrire ». È però un lavoro ervidito, che rivela l'istruzione estesa del suo autore, il quale vi annestò dotte dissertazioni sui litoli di illustre, illustrissimo, eccellenza, serenissimo, ecc. sugli usi della Corte di Roma e degli altri principali sovrani, in materia di precedenze, ma la sua pubblicazione sarebbe stata inopprotuna, perchè avrebbe ognor piìi inasprito le relazioni con Venezia, già abbastanza rese ostili dal lavoro del Monod. Di questo libro sonovi manoscritti a Torino ed a Parigi, ma ad onta della formale promessa del suo autore di non mai rivelarlo, nella copia esistente alla biblioteca nazionale di Parigi trovasi accennato il suo nome. Di GAUDENZIO CLARETTA. SgS Il Guichenon moil a Borgo il dì otto di settembre del 1664 di soli cinqiiantasette anni con testamento (se pm' questo fu l'estremo) del 22 giugno 1643, in cui anzitutto rallegravasi secostesso di avere abiurali gli errori del protestantesimo, ed aver seguito la religione cattolica. E queste manifestazioni procurarongli contumelie pei- parte dei protestanti, dei quali fu duce quel già accennato ministro Leger, che non lasciò sfuggire la menoma occasione per dileggiare moi'dacemente il nostro storiografo, a cui però non potevano turbare i dolci sonni , i lazzi di un inquieto e malvagio settario. Le s|)oglie del Guichenon furono riposte nella cappella a destra della chiesa dei Giacobini. A" tempi di Guichenon e di iuonsigiu)r Della Chiesa non divulgaronsi tra noi scritti, per critica sagace distinti nelle storiche discipline, e di tioppo ancor lontana era l'epoca, in cui doveva sorgere quella pleiade erudita, capace di emancipare il pensiero e le lettere nostre dal servilismo straniero, e per profondit.'u di erudizione illustrare 1' archeologia, la storia e la geografia antica. Abbondano invece a que' giorni relazioni di feste, descrizioni di battaglie, niatrimonii, funerali o simili fortniti avvenimenti, sturiette di santuari ed accenni biografici su qualche santo patrono d'una città o d'un villaggio, opere di scrittori infetti dei vizii della corruzione letteraria del seicento. Duce di costoro fu fra Pasquale Codrétto da Sospello, dei Minori Osservanti, autore di molte composizioni di simil genere, fra quali, cito la Ghirlanda di alcuni principi e beati della real Casa di Savoia, che vide la luce nel i655, ed il cui frontispizio va adorno di pregevoh lavori del celebre pittore ed intagliatore Boetto di Possano. E una scrit- tura che non ha il menomo valore, e donde non si può ritrarre la benché menoma notizia d'interesse, relativa ai personaggi, le cui gesta l'autore si propose di descrivere e commendare. E notisi che ogni accenno ha un frontispizio speciale, il cui titolo solo oggidì stomacherebbe il più paziente leggitore. (Jos'i la vita dell' infanta Maria , figlia di Carlo Emanuele I è da lui intitolata: La fragranza del f amaranto, histoiia panegirica della sere- nissima infanta suor Maria , partecipata dalla ri\>erenza del m. illusile e m. r. sig. j4ntonio Jgostino Cedreto di Sospello dottore delV una e dellaltra legge all'altezza del serenissimo principe Maurizio di Savoia. Ugual sistema ei seguiva nelle memorie di alcune donne, nate e con- giunte con questa generosa stirpe, che si lesero anche famose nelle per- fieziuiii spirituali del loro sesso. 3q6 sui principali storici piemontesi Compagno in credulità, ma forse di minor buona fede del Cedreto, poi- ché raccontò de' suoi eroi cose impossibili a credersi, fu il padre Arpio, che sfoaaiò in simili stranezze, nella sua yUa dell'infanta Calterina, sorella della Maria or citala. Vogliono però essere distinti dal novero di cosloro alcuni autori, i quali non depressero a simil punto la dignità della storia, né si attennero ad ai-gomenti soltanto superficiali e leggieri. Il padre Luigi Giuglaris di Nizza die saggio di alta coltura e di mente educata ad un ordine superiore d'idee, pubblicando la Scuola della verità aperta ai principi , che vide la luce in Torino nel i65o, la quale fu aggradita dalla duchessa Cristina, che coininettevane la versione in francese all'avvocato generale della re- ligione mauriziana. il savoiardo Favier, desideroso d" illustrarne persino la pubblicazione coi rami che avevano adornata la Storia genealogica del Guichenon. Il Giuglaris fu altresì autore di un elogio di Agostino Solaro dei conti di Moretta, e del vescovo di Possano mnnsigngr Ancina. Dai libri domestici dei Gesuiti, esaminati dal \ernazza, risulta, che fece" dimora nel collegio vecchio di Torino molti anni col Tesauro,coirOrengiano e col Monod, che tutti dilettavansi di storia, e dove insegnò reltorica. Ma uscito nel i63.'ì dalla Compagnia il Tesauro e nel ir)36 l'Orengiano, e fatto prigione nei primi giorni del 1639 il Monod, non eravi tra Gesuiti alcun altro fuorché il Giuglaris, che oltre essere stimato eloquente, avesse nome di unire alla civile prudenza la cognizione della Storia della Casa reale. E negli stessi libri accennati, al r3 settembre del 1648 leggevasi: Instituere coepit Regiam Celsitudinem Caroli Emmanuelis in pietate et virtutibus moralibus. Fu adunque l'istitutore di Carlo Emanuele II sino all'ottobre del i653, in cui parti di Torino, e morì a Messina il i.") novembre del i653. Nel tempo che rimase a Corte pubblicò l'albero genealogico pre- sentato nel 1640, e che pare, la principessa Adelaide sposata all'elettore di Baviera Ferdinando, che fu munifica altrice delle lettere e delle arti, abbia fatto pubblicare a Monaco dal Kassel nel i655. Lievi però furono i pregi intrinseci di quel lavoro, poiché comparsa nei 1660 rome vedemmo, la storia del Guichenon, il marchese Odone cominciò a ritenersi per figlio d' Umberto Biancamano. E qui trovi anco menzione Gian Antonio Bonardo-Mangairla da Mondovì, senatore e consigliere di Stato , il quale oltre le onorifiche iiicuuibenze avute presso la Corte di F' rancia . seppe altresì consacrar qualche ritaglio ni GAUDENZIO CI-ARETTA. ^gn di lempu per coltivare lo lettere. Della sua penna si hanno alcuni com- ponimenti poetici dettati nella ricorrenza delle nozze di Vittorio Amedeo I e della principessa Adelaide: ed intorno all'anno ifiGo compose l'opera, tuttora inedita, da lui intitolata AtchU'io stoi-ico d Italia e di Montevegaìe dal secolo X in poi. e dove fra molte gratuite asserzioni s' hanno però non ispregievoli notizie sulle famiglie mondovite. l'.hln- ai suoi giorni qualche (ama monsignor i'aolo Brizio di Bra, unto nel 1597, figlio di Gabriele, dottore in medicina e di Margherita Bettina, il (juale vestito giovinetto 1 abito dei Francescani, perfezionò i suoi studi a Napoli, e dopo vaiie dignit'i conseguite nel suo ordine, meritò di venii- eletto consigliere e teologo di \ ittorio Amedeo I, e quindi nel 1642 vescovo di Alba, tigli è l'autore dell'opera. Progressi della Chiesa acci - dentale, in sedici secoli distinta, dedicala alla duchessa Cristina, e di cui il primo tomo tu pubblicato nel 1640, ed il secondo si conserva manoscritto negli archivi di Stalo. Ma questo lavoro è im mero rifacimento della storia ecclesiastica del Piemonte del Baklessano , sovra accennala , e rimpinzila di tradizioni che non leggono alla sana critica. Meglio ei riuscì nella Seraphica suhcdpinae dii'i Thoniae pro\'iiiciduzione 3y8 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI degli eretici nelle valli di Piemonte, e le elaborate sue Memorie storiche nelle valli di Lucerna, marchesato di Saluzzu ed altre di Piemonte, che pubblicò a Torino nel i649- Se non che, come d ordinario succede, tutti i prmcipii propugnati nelle sue scritture forse non erano da lui applicati nella piatica della vita, e se non mi distraessi troppo dall'argomento coli' estendeinii su ciascuno degli scrittori menzionati, potrei liveder alquanto le bucce a questo prior Marcaurelio. Egli pur troppo lasciò a desiderare tutla (juella mitezza, di cui riconosceva tanto diletto nei suoi avveisari. Ed un carteggio da me esaminato ci avvisa di esasperazioni, che confinano colla barbarie, usate verso il suo nipote conte Giambattista di Luserna, che non potè liavere la libertà dal castello di Nizza, che sino al iG'J'J, e cosi dopo la morie del priore, il quale avevalo fatto chiudere là entro e mantenere a pane ed acqua parecchi anni, unicamente per (jiialche disgusti) avuto seco, come scrisse la consorte di quello sgraziato, quando morto, come dissi il priore, si era rivolta al (Governo per ottenerne la liberazione. E qui restringerò anco in angusta cornice le avventure di im altro scrittore che fiorì ai tempi della leggenza, vo dire Pier Paolo Orengiano, dei consiguori di Romano, gesuita per qualche anno, poi come dicemmo, nel i636 congedato dalla compagnia, sagace abbastanza per conoscere chi potesse o no convenirle, locchè giovò ad aprirgli la carriera di Corte, presso cui vedemmo potente un altro gesuita che viveva parimente al secolo, il noto padre Monod, e fatto teologo ed elemosiniere del principe cardinale Maurizio^ venne poi anche preposto alleducazione dello stesso duca Carlo Emanuele II , quando per le convenienze della politica stavasene nella Savoia. Non è (juindi a stupire se in tale condizione venivangli prodigati molti favori, e se venissegli conferita una egregia commenda in Torino del doviziosissimo ordine degli Antoniani. Ma egli non aveva saputo con- tenersi, e come, e forse per l'istesso motivo che era stato congedato dai Gesuiti, nel i643 veiiivagli pure dato commiato dalla Corte, litenendosi i suoi discorsi troppo licenziosi e ridondanti di sconvenienti hasi. (hiesto però non impedì che nel ió.54 pubblicasse a Torino il pane- girico sovra le eroiche perfezioni di Carlo Emanuele il Glande, che veniva mollo aggradito dal cardinale Mazzarino , a cui avevane fatto omaggio. Egli era pure slato assai innanzi nelle grazie del conte Filippo d'Agliè, e per compiacergli, nel 1684 aveagli scritto di aver compiuta la storia del Re Arduino: ma di (|uesta sua fatica voleva subito trarre non ordinario DI GAtDENZIO CLARETTA. 899 profitto, come da queste sue espressicmi : « Non ho potuto atfatto descrivere la vita riformata d'Arduino. Ho però descritto tutto quello era necessario, cioè levalo I ultimo foglio poco capace di muta tiene. Le mie fatiche sono state intollerabili ma però gustose per servire V. S. T. al quale devo questo p tulio. E necessario far rescrivere politamente questa vita da me fatta acciò da I utti s' intenda e lasciarla vedere a tutti. Il mandarla al padre Monod mi s;irà favore .Se verranno di Francia o di altrove aggiunte, .sarà facile l'inserirle. M'onori V. S. I. rescritta bene che sia, di leggerla, e s'assicuri le piacerà. Stimerei bene che nobilmente scritta V, S. I. la leggesse a Madama Heale. E giustificala quanto ho potuto ed abbastanza. Non ho messo i fogli precisi degli autori, perchè nelle mie annotazioni rustiche non vi sono e senza li stessi libri non è possibile il farlo. Poco però importa perchè la verità è certa. Al signor Chiesa lispondo coi fatti. Sono ancora mezzo convalescente, onde V. S. I. mi perdonerà .se non vengo, li padre Monod saggiamente disse che mancata S. A. R. ero perso, come anco alTermò a me stesso il presidente Cauda e gran can- celliere. ^ . S. T. come mio padrone tutlo può ma non di potere stabilire la mia fortuna; sarà necessario un miracolo. Creda pure V. S. l. che niente ho né dalla religione, né da parenti, né dagli amici. Scusi la mia importunità e s'assicuri che sarò povero, ma tutto pronto a servire ad ogni cenno di V. S. I. alla quale auguro ogni felicità » (i). Senonchè codesta scrittura ci dimostra abbastanza che l'Orengiano aveva tolto ad argomento delle sue disquisizioni un soggetto, atto solo a solle- ticare l'ambizione di colui che invocava suo mecenate, e che con quel- I affettazione di povertà sollecitava favoi'i, e cominciava la serie di quegli scrittori, che pur troppo in numero assai al)bondante considereremo nel corso di questo lavoro. Il procaccevol abate davasi anco alla politica, e più onorevole se non guasta dallo solite aspirazioni al lucro sareblie una sua lettera inedita (2) (1 A. S. T. LeUcrr di particolari. (2) « . . . Tulli i Imoni .servitori di M. R. r di V. .S. 1. dexono iin|iicgarc cjuanlo di spirito liauuo, acciò l'abboccamento di M. R. col gran Re suo fratello partorisca etTetti degni del sovrumano in- telletto di M. R. e potenza ed afletto del maggior Re di Europa. Hcr (juestn io, il minimo di tutti, ma che non cedo ad alcuno di passione obbligata verso M. U. e V. S. I.. ardi)!co pregarla di lar riflessione al mio brevissimo discorso, quanto più breve, più cordiale. Il L'abboccamento di M. R. col gran Re suo fratello, acciò dopo tanti disagi e spese in accideuti tanto pericolosi non riesca inutile, cioè di puro compimento, deve per necessità apportare uno dei tre effetti, o buona pace, o buona guerra, o tregua di molti anni. ^OO SUI PRINCIPALI STORICI PlKMONTIiSI scritta nell ottobre del 1639 da Grenol>le, in quei supremi iiiomeiUi per la monarcliia di Savoia, quando il Re Luigi XIII, o meglio il Hiclielieu, da quella città vagheggiava potere sulla persona della duchessa Cristina » La pace <■ ilesiderata da liilti quelli che seguono M. 11., da molli per voglia di ritoriioie alle case loro e diletti, da altri per il ben pubblico, purcliè si possa ollenerc con riputazione e sicu- rezza di M. lì. .. Le ragioni sono: la prima, il ricuperare il castello di Nizza, Torino, Trino, Verruii e simili, quali con l'armi sarà quasi impossibile di riavere. La seconda, perchè nell'età pupillare la pace è più utile, tanto più nella discordia de' principi del sangue. La terza, perchè senza la pace il Piemonte andrà in totale ruina, onde sebbene si deva eleggere |iiultoslo la inina ilie la perdila di paesi, tuttavia polendosi ottenere senza ruina, è meglio. « Due difficoltà vi sono noi trattato di pace, l'una per la restituzione delle piazze, e l'altra per la sicurezza di .M. ì\. Quanto alla prima sarà diUicile che gli Spagnuoli \ogliano leslituire Torino, Verrua . Vercelli, e i principi Cuneo e Nizza; tuttavia si guadagnerà i|uesto, che i |i(ipoli. avvisati per un manifesto, la cagione della guerra essere perchè gli Spagnuoli e i principi non vogliono restituire le piazze ricuperate, essendo i Francesi pronti, l'odio che adesso hanno contro i ministri di .M. U. si volgerà contro de" principi. «Ma dato che per la pace si convenisse che tutte le armi pratiche partissero dal l'icmoute, \i ;■ pericolo, come già occorse a D. Giovanni d'Austria nelle Fiandre, che i popoli alTezionati a'principi, partita l'armata francese, non si rivoltino tutti a favor loro, abbandonando .S. A. R. A questo si potrebbe rimediare con permettere «'principi di munire con li suoi oonfidenli piemontesi le piazze di Vercelli ed -\sti , ed a M. H. di Torino e Chivasso con li suoi anco savoiardi e nelle altre piazzo metterci presidio di soldatesca, parte sudditi del pontefice, e parte svizzera , sotto il governo di M.R. » Che se per sorte la guerra fosse più necessaria e fosse senza elezione, non volendolo il marchese di Leganes, sarà più che necessario di farla risoluta e prontamente con forze straordinarie. » È errore popolare il credere di potere eon dieci o dodici mila fanti riacquistare il perduto. >'on sono cosi deboli le forze spagnuolc, che riducendosi nelle fortezze principali non impediscano ogni progresso all'armata francese, se mediocre. L'avere il principe Tommaso il cuore dei popoli ingan- nato, li rende tutto più facile, e per le spie e per i viveri. Vi vogliono ilunque \enticinque mila fanti elTettivi e cinque mila cavalli per metterne cinque mila di presidio in Moncalieri. occupato prima il ponte di Po con mille cavalli per impedire che non si conduca vettovaglie a Torino. Dopo col resto dell'armata riprendere Asti , e lasciatovi un presidio , con nervo di cavalleria andare a Casale per rivillovagliarla e cambiare la guarnigione, e dopo, tingendo di volere assediare o Trino o Torino, attaccare vivamente Vercelli, perchè impostandolo come si può, l'armala francese, oltre che potrà svernare in Lombardia, scorrendo sino alle porte di Milano, sforzerà ;;li Spagnuoli di richiamare alla difesa dello Stato le sue genti, e per conseguenza con forze deboli il Piemonte, onde Torino e le allre piazze senza sangue tornerà alle mani di M. R. » È errore troppo animoso il presumere di attaccare o Torino o Trino o simili piazze ben munite e presidiate, si perderà l'armata senza prolitto, ed ancorché si espugnasse, resterà tanto debole che altro non potrà fare, e sarà la totale distruzione del paese. » Sarà errore non minore il darle tempo e stare solo sulla difensiva questo inverno, perchè il prin- cipe Tommaso non dorme, ed ha i popoli dalla sua parte, onde nell'inverno maneggierà sorprese, e farà venire nuove genti da Stati di casa d'Austria, e si ritrovarà al principio della primavera pronto e più polente dell'armata francese, avendo la commodità vicina dello .Stato di Milano per alloggiarli, l-^acendosi adesso la guerra il principe non è armato, il francese sarà padrone della cam- pagna e porterà le anni sue ove vorrà. /i Che se per sorte non si potesse adesso fare la guerra né oticnere pace, una tregua d'un anno a DI GAUDENZIO CLAP. KTI A. :|Or e del piccol duca. Clie se nei consigli dati al conte d Agliè l'Orengiano dimostrò di avere sagacia ed esperienza negli affari della politica, ducici però sempre io scorgere, come i più eletti ingegni del clero si lasciassero di troppo a quei giorni distogliere dagli ulFizii del loro ministero per servire ai Governi ed alle Corti , e sempre con iscapito del loro abito religioso, come abbondantemente già el)l)imo ad esaminare, e ci toccherà di rivedere nel corso di quest'opera. Un magistrato savoiardo, che nei tempi descritti dimostrò anche atti- tudine a scrivere di storia, fu Alessandro Jolly, il quale, sebbene il Gui- chenon ai suoi giorni compilasse la sua grande istoria, tuttavia non isco- raggiandosene, né contrariandolo, da Giamberì il 2'^ aprile 1662 scriveva al S. Tommaso: « De ce fait je viens iiionsieur à un autre poin- vous faire « savoir, qu'il y a long temps que j ai eu dessein de tiavailler à l'histoire » de Savoie, à la quelle j'ai déjà donne quelque commencement. Je n'en » divertirai pas mon entreprise, quoique je sache que monsieur Guichenon )) soit bien avant en cette étude. S il me devance, commc je le crois, je « ne laisserai pourtant pas de le suivre avec satisfaction , et j'estimerai » beaucoiip l'occasion de concourir avec un sidignehomme qui est monsieur » Guichenon. Il est bien raisonnable, monsieur, que je voue mes actions » et mes études à mon souverain afin qu'un étranger n'aie pas tonte » la gioire de lui donner ce que je lui dois. Il me semble autant que » fon peut juger de l'éve'nement des affaires, qu'un fran^ais ne dira jamais prima visla parrebbe buona, con quel principio politico, ili due mali necessarii doversi sempre eleg- gere il minore, onde parrebbe la tregua, paragonata ad una debole guerra, male minore. »La tregua però prima non piacerà a' Spagnuoli se l'armata francese non sarà potente; 2» bisognerà nutrire amcnduo le armate inutilmente con l'ultima desolazione del paese; 3° sarà più utile per i principi die per M. R. perchè averanno tempo ad armarsi; 4" vi è pericolo che andandosi alla lunga qualche accidente porti che né gli Spagnuoli ne i Francesi vorranno più restituire, ouile il duca di Savoia rosta spogliato de' Stati. «Questo, COSI alla buona, è il mio sentimento; piacesse a Dio che io potessi col sangue mio rime- diarvi. Scusi V. S. I. l'aflctto e servitù mia che mi la essere temerario. «Stando .'\l. U. cjuesta inverno in Savoia, ho pensato, per potere studiare e comporre la storia dei tempi presenti, d'aiularmenc a Lione per la comodità de' libri o maggior quiete. Se M. R. vuole che io vi attenda, è necessario che mi faccia avere una pensione, o i|Halche aiuto di costa pronlamcnte. I. Per vedere la Corte di Francia e potere parlarne più sodamente, sono venuto a mie spese, e stato sinora a mie spese, io, un servitore ed un cavallo, perchè nou essendo nella lista data al maggior- domo del Re, sono stato escluso. V. S. I. si ricordi che gli sono servitore di cuore, e non mi ab- bandoni. I,a mia penna, ancorché rustica . non sarà a V. S. I. ed a M. R. di disonore se sarà indorala! Per comporre, bisogna avere il cuore allegro e quieto, e mentre uno ha da pensare come mante- nersi, ha troppo fastidio ». (Ibidem, luogo citato). Serie II. Tom. XXX. 5i .4oa ■'iUI PKl.NClPAl.i sTORlcr PlEMONTtSI » librement la véritc des clioses coinme elles sont ; mais qu'il se accorderà » ou consacrerà volontiers aux intéréts et aux auteurs parlisans de sa na- » tion )). Intanto questa sua manifestazione cominciava a dargli diritto di chiedere una patente di storiografo di titolo solamente, senza alcun al- lettativo di stipendio, e pel solo fine di poter con tal qualità compulsare gli archivi delle abbazie e delle altre corporazioni dello Stato (i). Nel settembre poi rinnovava la stessa domanda, ma nella lettera scorgasi che già alquanto limitato era il suo disegno di quell'istoria, che avrebbe voluto cominciare dalla restituzione seguita degli Stati, sembrandogli affettazione di separare quella riflettente la reggenza della duchessa Cristina. Carlo Emanuele, con patenti date a Rivoli il primo di settembre del 1661, confcrivagli l' ullicio di mastro uditore della Camera dei conti di Savoia con queste onorevoli espressioni : « Informe de la capacitò, [)ru- » dence et expérience de noble Alexandre .lolly, le (piel après avoir fait » la fonction d'avocat l'espace de cinq ans en nolre sihial et chambre )' dcs coniptes de Savoie avec houneur et réputalion (ut par nous litnioré » de la charge de notre conseiller et secrc-taire d'Etat et de nos finances » de Savoye en lexercice de la quelle nous ajant servi l'espace de sept » ans avec une entière satisfaction de sa punctualitc, fidélitc et capacite » il flit par notre agrément pourvu de la charge de président au conseil » de Genévois par le feu due de Nemours notre cousin, ainsi que par » sa patente du Iroisième mars i65-, de la quelle charge s'étant acquitté » selon notre attente jusqucs au décès du dit due de Nemours, que les » fonctions ont cesse et le dit conseil de Genévois a étc supprimé par » la reunion de l'appanage de Genévois à nostre coui'onne, nous n'avons » pas voulu laisser le dit président Jolly sans employ. Ainsi nous voulant )) servir de sa personne, par ces présentes signées de notre niain. . .(2). Questa dimostrazione però non era tutt' affatto spontanea, ed il Jolly aveva pur chiesto la carica di patrimoniale in camera, per non essere rimirato al cospetto dei suoi nazionali uom inutile e privato dopo l'eser- cizio di considerevoli cariche. Così del pan patteggiava pej- l'acquisto dell' uffizio di mastro uditore la somma di mille ducatoni. Il Jolly nel 1699 sotto gli auspizii della duchessa Giovanna Battista pubblicava a Ciambeiì la Compilation dei anciens édits des princes de la (i) .\. S. I.cltcre (li parlicolari. ^2) A. Camerali. l'aU'iili. Savoia, I(i(jl-I66:i DI CAI'DENZIO CI.ARRTTA. '\o5 Rojale Maison de Savole , ensemble les édits de Madame Rojale Marie Jeanne Baptisle tonchanf la jurisdiclion de la chambre des compie s , la gabelle ge'mlrale , la taille et trésoreric generale et le domaine. Neil' accennare ora agli storiografi ducali di quei tempi, oggetto precipuo di questa dissertazione, ci duole di dover riconoscere, come sieiio stati innalzati a tale ufficio alcuni, i quali nel modo che si dimostrarono me- diocri in ingegno, non sepjjero manifestarsi almen forti in carattere in costumi ed in robustezza ; ed all' esempio di Paolo Giovio ben molti sto- rici prezzolati legarono la loro penna doro, e di essi sventuratamente formicolano (juesti tempi. Il falsar la storia erasi imbrancato fra le arti bieche del governare, ed il corrompere gli scrittori avea preso sfaccia- tamente posto fra i precetti della politica. Ecco il perchè gli inoe »^& ni fieri e robusti languivano dimenticati, laddove i facili e pieghevoli insieme si godevano i lauti favori della fortuna. Ma se taluni seppero cosi ben mascherare di oneste pai-venze l'abbietta realtà, e furono riveriti dai con- temporanei, l'età presente rompendo il vergognoso incantesimo, li chiama alla terribile prova di un giudizio novello. E pur tioppo la catena di costoro si rannoda ai due Governi , di Cristina e del suo figlio Carlo Emanuele TI, come vedremo. Intanto accennerò ora, per seguire V ordine cronologico, a Valeriana Castiglioni, che simultaneamente al Guichenon, fii onorato delle patenti d' istoriograii). Ancor questi .seppe temprar per benino la penna, espie-are tutta quella benevolenza, che fruttavagli un lauto vivere, né per nulla confacente all'abito che vestiva. Nato a Milano il 3 gennaio del cStjS da Francesco, protomedico degli eserciti di Spagna, e da .\nna Ripa, vestiva in giovine età 1' abito bene- dettino, nel qual ordine professò nel iGio presso San Simpliciano. Avendo l'ingegno e la volontà ben disposti, nei silenzio del chiostro potè far rapidi progressi nella letteratura Ialina ed italiana , da meritare che il Richelieu, sulle commendatizie di Teodoro Trivulzio, lo proponesse a Luigi XIII per suo istoriogralb ad honores, ed Innocenzo X lo creasse abate titolare. .Ma il fervido ingegno non era punto accompagnato da ugual bontà J animo e di costumi, come ne die prova nel lungo suo soggiorno in Piemonte. Prima sua dimora fu nel convento de" Benedettini a S. Pietro di Savigliano; e siccome a quei di la disciplina monastica era non poco rilassata, e nei conventi numerosi, molli membri attendevano a cure pro- fane, anziché attinenti ai loro doveri, cosi il Castiglioni, volendo mantenere AqA sui (Rl-NCIPAII S'JIJRU.I PIEMONTESI quel piglio indipendente di gentiluomo, non tardò a sentirne le conse- guenze. Nel i632, ritrovo nei conti camerali essersi dal Duca pagati du- catoni 3oo per soddisfare a debiti dai medesimo contralti ; e questa nota non fa certo onore al monaco letterato. Così pure, lungi dal menar vita dicevole alla sua professione, ei cercava di contrarre relazioni e dimesti- chezze per la città, la quale noverava allora molte nobili famiglie, fra cui cito, come relativa al nostro soggetto, quella dei Pasero. Con questa appunto si addimesticò famigliarmente il (^astiglioni, avendo trovata omo- geneità di carattere e simpatia nel commendatore Gian Tommaso, primo segretaiio di Stato, iioino' attivo, immaginoso e capace, ma astuto, vendi- cativo e maledico, come lo provarono le sue vicende, di cui primo di- scorse Luigi Cibrarid nella sua Storia di Torino. Uoin di tal tempra non poteva veder di buon occhio chi ora al rovescio di lui; onde una cabala, di cui egli era l'anima princi[)ale, non Lardò nel 1G34 a drizzare i suoi strali per preparare la caduta al presidente Lelio Cauda, ministro prudente, indefesso, abile e disinteressalo di Vittorio Amedeo L Ija un procedere, il più indegno che si possa immaginare, es- sendosi ordita con alcuni degli inquisitori una favola di una finta spiritata, affine di rovinare colla pretesa rivelazione di lei il Cauda, accusato per- .shio di malefizi contro il duca, e capace a scoprir con arte magica i se- greti dei gabinetti. Queste accuse cercarono pure di persuadere al Papa i padri Robiolio e Ballada, e da Roma venne facoltà ai medesimi di trarre il Cauda ali" inquisizicHie. Siccome però quella guerra segreta appro- dava a poco, ancorché il Pasero avesse trovato mezzo d' implicar nella ragna il principe cardinal Maurizio e la stessa duchessa Cristina, giovine ancora, né allora molto inclinala inverso il fìnanzieio, alquanto taccagno, di poche e gravi parole , che non sapeva punto addolcire , come usano quanti hanno famigliare l'arte di corteggiare; cosi in breve fu scoperta la trappola, e confusi gli inquisitori cogli avversari del ministro. Scor- gendo adunque il Pasero che perdeva il suo tempo, per non essere il duca uno di c|uei principi di prima impressione, presso cui potesse aver così facile accesso la calunnia, pensò di rivolgere le sue persecuzioni contro gli amici suoi, fra cui teneva primo luogo il presidente Ottavio Ruffino, governatore di Savigliano. Persuaso ad entrar nelle sue mire il Castiglioni, indusselo a scrivere un libello ditfamatorio contro la nobiltà di Savigliano, che sollevò ad indignazione l'eletta di quella cittadinanza; e fece convenire a Torino que' {)rincipali patrizii rivoltisi allo stesso Pa- m GAUDENZIO CLARETTA. ^oS sero, che meglio di tulli, per colorire i suoi disegni, diiuostravasi offeso, affine di avere riparazione dell'insulto ricevuto. Ma delegatosi dal duca ad istruire il procedimento il presidente Bellone, cominciossi ad esaminare il Castiglioni, contro cui era pur sorto qualche dubbio, e questi impudentemente ne accagionò bensì autore, l'abate Ema- nuele Tesauro, ma confrontati stile e calligrafia, il nostro monaco fini per rimanerne convinto. Indettato allora dal Pasero, prese la via di con- fessar ogni cosa, allegando ch'egli veramente nera stato l'autore, ma di mandato del presidente Kuffmo, che vecchio e perduto nelle gotte, dovè rimaner vittima di cosi nera calunnia , e scontar lunga prigionia nel ca- stello di Torino. Qui però si procede con solenne ingiustizia; poiché mentre il vecchio magistrato languiva in una delle torri del castello, lo azzimato monaco, coi favori del Pasero, che ne aveva commendati in modo superlativo i meriti letterarii presso il Duca, veniva sostenuto in be- nigno carcere ne' soli chiostri del convento di S. Domenico, presso cui sedeva il tribunale dell'inquisizione. Intanto il presidente Ruffino chiedeva giustizia, e dolevasi amaramente a ragione, che il suo avversario passeggiasse per gli anditi di quel fiorente cenobio, distinto allora per ampiezza e comodità di edifizi e di orti. Ed allora fu che il duca determinossi di trattare con pari bilancia il Casti- glioni, che fece pur racchiudere nelle stesse torri del castello, e che quando vide oscurarsi le sue faccende, e dover gustar pane inferigno, ed insomma menar la vita del prigioniero, pensò meglio ai casi suoi; e chiamato il presidente Benso, gli svelò ugni cosa, scoprendo il Pasero (i) ed il suo ^1; A liguardi) del l'asero occorre una rettilicaziuiio alla pag. 122, tomo li della Slorin di Toriiiu del Cilirario, il (|uale scrisse clic il Pasero ai tempi de' civili rivolgimenti, fuggito dal carcere, e l'iuscilo a ritrarsi su terra apparlenenle ai Uoria noi Genovesalo, volendo aver i suoi figli rimasti in Piemonte, per trafugarli, uveali latti rincliiudere in certe casse, ma giunte esse a Loauo ed apertele, furono invece tro\ali due cadaveri, e.^-sendo i miseri fanciulli morti soQocali. Or bene, od il Pasero aveva piii clic due soli tigli, o quella è una favola, immaginata da qualche partigiano del Governo avversato dal l'asero, da cui ciecamente la raccolse il Cihrario. Rovistando i volumi del contndlu di Piemonte Ilo trovato colla data IS maggio 1G6S una patente, con cui rivedendosi una primitiva sentenza, clic veniva reiella per aggiudicare al conte (havctla parte del feudo di Villanova Solaro, si accenna al conte Mauro Tommaso, figlio del commenda toro Pasero. clic il 23 aprile 1651 era slato investilo di (juclle ragioni feudali. Dunque questo tiglio era vivo, ed era adulto molti anni dopo la catastrofe a cui accenna il Cibrario, clic sarebbe avvenuta uel 10.38. Nei 1662 poi Irovavasi unclie fra il .seguilo de' cavalieri che ricevevano a Venezia il marchese del Borj^o, primo ambasciatore dopo la rottura di tanti anni, e dichiarava di essere studente all'università di Bologna, e forse maneggiavasi con quelPatto per riconciliarsi coU'aspro Governo de' suoi duchi, non disposti ancora a smuovere dal rancore che conservavano inverso la sua famiglia. AqQ sui PniNClPAI-I STORICI PIEMONTESI degno compagno, conte Baldassare Alesserati generale delle poste, che amendue dovevano poi essere l'anima del pailito avverso al Governo della duchessa , nei burrascosi tempi della sua reggenza. Senonchè il nostro Castiglioni potè in breve uscir di carcere, prima ancora del Pasero e del Messerati ; e sebbene non fosse più degno di alcun favore , dal momento che il suo nome non poteva a meno ch'esser maculato per la calunnia, tuttavia seppe talmenle ingi-aziarsi nell'animo della duchessa, che sotto il suo Go- verno ebbe poi a godere segnalati favori. Nel solo anno 16'jo ritrovo varie ordinazioni a suo vantaggio, le une a titolo di sussidio annuale, le altre pei' aiuto dì costa, comp solevasi esprimere nell'antica nostra can- celleria, affine di allettarlo a sostenere le fatiche, a cui si sobbarcava in servizio della Gasa ducale. E veramente non impoltroniva affatto, poiché il cinque giugno del 1641, a similitudine di quanto facevasi pel Chiesa e pel Guichenon, la duchessa ordinava, che anche a lui l'archivista dovesse sbarrar le porte dell'archivio segreto, perchè potesse conpulsarlo e togliervi le notizie che rej)utasse necessarie alle informazioni di molte cose concernenti alle opere « che gli abbiamo commesso di ridurre in iscritto a perpetua memoria di questa real Casa, epperò vi diciamo che ogni volta che egli vi richiederà di aprire l'archivio ed in presenza vostra ricevere libri, titoli e scritture, che si possino ritrovare in esso archivio. dol)biate rimetterli nelle sue mani mediante sua ricevuta e promessa di restituirli ». Quanta agevolezza^ puossi qui ripetere, e di qual contrasto col rigorismo e regresso di età più recenti ! La Corte impertanlo tenevaselo affetto , poiché mentre Guichenon e Chiesa erano applicati ai lavori di maggior lena e critica storica, a lui invece affidava di descrivere gli avvenimenti festivi, funebri e politici che Parimente riguardo al Pasero vogliono anche essere correUi altri imperdonabili errori in cui sono incorsi i nostri storici , i quali gli attribuirono l'operetta L'arie ilei segretario politico , impressa in Torino nel 1627, e V Essamerone , poema che vide la luce nel 1660, mentre il primo non è ebe una semplice compilazione d'innominato autore, dedicata dal tipo'.;ralo Cavalleris al Pasero, ed il secondo appartiene al monaco cassinesc D. Felice Passero uapulitauo. Quindi fa \eramente specie che il Aovellis nella sua biografia di illustri Savigliancsi abbia scritto altresì « che il Pasero era in carteggio con quasi tutti i letterati d'Europa, i quali nudrivano per lui alta stima, e n'abbiamo l'esempio nel celebre Abramo Orteglio, che dedicava al nostro Saviglianese la sua grand'opera intitolata Thea- truin orbii lerrarum. .Ma il Novellis non fu attento ad avvertire che quella dedicatoria non era altri- menti che antifìssa semplicemente ad un esemplare del suindicato atlante del celebro belga , mandato verosimilmente in dono al Pasero dagli stessi editori di Anversa, e che si conserva nella biblioteca di S. M. Che più, l'Ortcglio era morto dodici anni prima della nascita dello stesso Pasero. — Vedi Adriani, Deila l'ita e dei tempi ili Monsignor Pvnzigìioiie , ecc. pag. 502 e seg. , in nota. DI GAUDENZIO (I.ARFIIA. /^OH succedevaiiu alla giornata iii Torino o nelle reali lesidenze. Quuidi egli pubblicava un panegirico eroico di Carlo Emanuele I ; un altro per la natività del medesimo; I origine, corso e fine del Po, e relazione del Monviso; una lettera a Vittorio Amedeo I per la pace di Cherasco ; un poemetto sul principe infante nella ricorrenza della nascila di Vittorio Amedeo If: un discorso sulla caccia; gli applausi natalizi, e simili scritture di circostanza , che son pur molte. n Castiglioni aveva bel garbo, maniere penetranti e cortesi, un far da gentiluomo, e ciò era più che sufficiente a quella duchessa, che a quei dì proteggeva pure svisceratamente un altro frate di simil conio, il padre Costaguta , ben poco degno d' indossar V abito carmelitano che vestiva. Vedevalo essa dunque con frequenza a palazzo, ed affidavagli l'onore- vole incarico di scrivere la vita del suo estinto consorte %'ittorio Ame- deo I, e successivamente la storia della sua reggenza. Ed intanto, affine di allettarlo, faceva sì che Carlo Emanuele II il dì otto aprile del i652 gli concedesse una patente d'istoriografo, riboccante di elogi a lui ed ai suoi avi, come usavasi a quei giorni, con debole omaggio al vero (i), ed a cui andava unito l'annuo trattenimento di lire tremila. Poi avendogli lordine benodetlino tolta l'abbazia, ella invece nel 1661 incaricava il mar- chese Solaiii del Borgo suo ministro a Roma di far sì, che il papa cas- sasse quel rescritto, perchè « il a toujours vécu avec tant dhonneur et » de réputation et a menò une vie si exeniplaire que sa réligion n'a pu (I rincipessa Adelaide di Savoia coirelettore di Baviera. Venuto a Colino quel cervello balzano della regina abdicataria di Svezia, Ciislina (i), la (|LiaIe, (|iiantunqne esaltala a cielo da certuni pelle sue favorevoli dimostrazioni di lervor cattolico, dopo la fatta abiura del luteranismo, tuttavia dava poco buon saggio di pielà coi barbaro as- sassinio del Monaldesclii; il (jastiglioni In, dico, invitato a descrivere tutte le solenni fèste, clic comune e Corte, quello mal suo grado e t'orzato, que- sta con maggiore spontaneità ollèrsero alla capricciosa sovrana, che ler- cava d ingentilirsi colle sue visite alle jiiincipali Coi'ti d Europa. Pubblicato un opuscolo siili ingresso del duca m rornio, richiedeva indi il comune, da cui torse aveva avuto qucll incarico, di presentarlo alla <]orte ma il consiglio rispondevagli che s'iiii'aricasse egli di qiieiroinaggio; però soddisfacevalo nella parte reale, e mandava al suo tesoriere di pagargli dieci ducatoni per un paio di guanti. lui anche rainministrazione nostra comunale, sull esempio della Corte, dimenticava presto gli antichi lalli del monaco istoiiogiafo, e confèriva^li in aigomento di stima la cittadinanza toi'inese, ed egli grato dedicavale \ina nuova sua produzione. / mi/i imenei de signori pi'inciui. Cosi del paro la citlà di Savigliano, dove aveva dimorato alcuni anni, erasi in- dotta a conlèiirgli uguale attestato, più logicamente però che Torino, poiché anteriore alle vertenze della congiura ilei Pasero, in cui lo vedemmo implicato. \id a Savigliano ugualmente intitolava un'orazione fatta appo- sitamente per ringraziarlo, e j)ubblicata nel iSa-j a Cuneo. Di lui lasciò scritto il Denina -. « Se Valeriano Castiglioni milanese, che fece in To- rino le annotazioni alla storia del Tesaiiro, da un canto ci si presenta come bniiii letterato, d'altro canto piova ti'oppo bene col latto che né la storia né altro genere di letteratura, non gt)deva più che in Piemonte protezione e lav(nc nella Lombardia auslro-spagnuola, dove la corruzione 1^1 Darò i|iii iiiiii noli/i^, hi '|iiali> sino a certo |iiiiito [ii'o\a un itssi'<|iiio a i|iM'lla SoM'ana por parli- lidia noslia Ooiii-. Il ionie Francesco .Varia Senlinelli ile' sinnori tirila Maiella, ^lan ciain- licll.iiici delia lei^iiia CiKliiia ili Svezia, elilie nel suo passa^^gio a 'iiiiiiiii li lavori' ili es.ser lionato il IO .iprile ilei ]('>:>' ili unii |ioizioni! dei feudo di S. Seiiasliano, devoliilii ai )iali iinoiiio per la morte senza prole ilei va.>.sallo Milcliiorre Gaslaldi in risgnardo de' propri i miriti, ed a considera/ione «Iella servilo ila Ini resa a i|nella rci^ìna. Sekii. II. Tom X\X. Sa SUI l'RINC.ll'MJ STOKICI PIEMONTESI del gusto si era propagala largaineiile e più presto, provenendo da Napoli, paese allora spaglinolo, ed anche direttamente dalla Spagna » (i). Il Castiglioni lasciò pur manoscritti varii componimenti, fra cui la de- scrizione del regal palazzo di Torino e la Veneria ; una lettera a Guido Reni sui ritratti delle due sorelle Cristina ed Enrichetta di Savoia : I apo- logia della Casa di Savoia contro il Mercurio del noto abate Sin. Ma il sole di questo mellifluo scrittore volgeva ancor esso a tramonto, morendo la sua protettrice Cristina, e tatto ritorno a Milano, morivasi settuagenario dopo il iti63. Chiuderò la serie de principali storici che fiorirono sotto la reggenza, accennando ancora al heneinerito scrittore Carlo Amedeo, figlio del ver- cellese patrizio, VerccUino Bcllhii, autore della descrizione dell'origine e successi di Serravalie, il quale, aggregato al collegio di leggi della nostra Università, ivi fu anche professore straordinario. Coltivò egli la letteratura, e specialmente gli studi di storia patria, e In autore degli Annali della città di Vercelli, dai tempi antidiluviani allanno i499- Quest'opera rimase manoscritta, e purgata dalle favole, e. corroborata dagli scritti del Modena, è sempre una buona guida alla compilazione della storia politica del Ver- cellese. Scrisse altresì un apologia sull'antichità di Vercelli, la serie degli uomini e delle donne illustri di quella città ; compose un manoscritto sulle iscri- zioni, elogi, epitafii ed altre memorie si antiche che moderne tolte dalle chiese ed altri luoghi pubblici di Vercelli, con una breve esposizione sulle famiglie e persone menzionate in esse epigrafi, ed il discorso sulle qualità della casa Avogadro di Vercelli. E checché al)bia piaciuto al Tiraboschi scriver di lui , accagionandolo privo affatto di quella esattezza e di quel giusto discernimento, senza cui le opere storiche, invece di recar lumi alle vicende de' secoli passati, le confondono ed oscurano maggiormente, non devonsi disconoscere in lui molti meriti, e giova ammettere, che con tutte le imperfezioni e mancanze di critica in risguardo di certi punti ch'esi- gevano altra erudizione, i suoi manoscritti, come dissi, serviranno sempre quale eccellente materiale, utile a venir compulsato da chi voglia scrivere sul Vercellese, come già se ne giovava l'illustre Degregori nella compila- zione della sua pregevole uj)oia sulla vercellese letteratura. (1) Stirriii (UiritiiUii (ici itic//l(tlr . Il, c;i[K> \\i. DI GAUDENZIO CI.Ar.FTTA. 4'^ V. IL REfiNO DI CARLO EMANUELE II. (I 27 dicembre del iG63 inorivasi la duchessa Cristina di Francia, la cui vita, se lu seminata di non poche contraddizioni, che finirono per ledere alquanto la sua faina, ebbe però molte pregevoli qualità, coraggio virile, splendidezza nel promuovere quanto all'incremento dell'arti attiensi, e cenerosa inclmazione a favorire i dotti. Ma sinché visse, non mai avendo ella patito soci nell'impero, ed il duca essendo distratto da sollazzi e da avventure cavalleresche, tli cui se lo lasciava in preda; da questo punto a dir vero comincia solamente il suo regno, e sol qui io pur credo di dover accennare ai pochi storici e storiografi che fiorirono in tale periodo. Sono dessi i fratelli Manzini, patrizi di Bologna, Luca Assarini geno- vese, e Maurizio Bertone. Ancor eglino, meno il Bertone, appartenevano ad altra provincia d'Italia ed alla categtnia di quei tali che allora, in ra- gione della politica circoscrizione, presso noi chianiavansi forestieri. E qui, trovandolo acconcio, non parmi fuor di proposito di avvertire, che se si devono mai sempre aborrire le gare così dette municipali, e quella meschina invidiuzza che serpeggia in alcuni, i quali non saslengono con occhio sdegnoso di mirare al vantaggio ed alle dimostrazioni che ven- gono impartite agli stranieri di inerito ; non credo però di venir tacciato di soverchio amor patrio col farmi a sostenere, che tra due aspiranti di merito eguale, devesi in regola generale scegliere il nazionale a preferenza dello straniero, vuoi perchè giustamente venga reso l'omaggio alla virtiì ed al sapere de' paesani, vuoi perchè non abbia l'ingegno cittadino a lan- guire e venir meno quando perde la speranza di un premio meritatt). Cosi non la ragionavano i nostri principi ne' tempi che descriviamo, ed italiani appartenenti ad altre provincie e soggetti ad altre dominazioni, gli uni senza fama e gli altri senza dottrina , furono onoriiti dell'uffizio d' istoriografi , unicanienle per avere piaggialo inverecondamente qualche polente. Che se, come dissi testé, non usciva a quei di fra noi alcun lavoro sto- rico, frutto di profonde e critiche investigazioni, è d'uopo però ricono- scere, COMIC ni-lle scienze e nelle lettere si distinguesseio non po( hi i-letti 2[i2 SU! !'Rl\f:iPAl.l STOKKI PIKMON'I KSI ingc'iii, i (inali, assaggiata la dolre coppa óc\ sapere, si diiiinstrarono ze- lalori delicati di ogni gentile studio. E Ira questi, alcuni couperaroiio allora alla fondazione della letteraria Accademia degli Incoili. Il torinese Lorenzo Scoto, al)ale commendatario e signore di Chesery fu noni di molta dottrina, e poeta di non duhhia lama, le cui opere ri- scossero le lodi dei letterati di quei giorni, Ira cui cito il cavaliere Marini, che ne fece infiniti elogi, ed il Castiglioni che lo chiamò « soggetto di pulite lettere ed autor famoso di poemi ». Dicasi pure, che quasi per nobile rappresaglia il genio piemontese facevasi più vantaggiosamente e meglio conoscere altntve. (liovanni Bona del Mondovì , di monaco cistercense meritò di venii- creato cardinale da Clemente IX, e fu riputato scrittore di colte ed erudite prose, e di canni latini, degni di commendazione, talché ebbe ad essere generalmenti* tenuto per uno de' più dotti e più eleganti scrittori del suo tempo, e ben a ragione si scrisse, che superò e pareggiò in Roma la riputazione letteraria dello stesso cardinale Pallavicino Sforza. S'accenni anche al commendatore Cassiano del Pozzo, nato a Torino tra il i585 e il iSgo dal giureconsulto Antonio, e da Maria Cacherano, e morto nel i657, che fu maestro di camera del cardinale Francesco Bar- berini e cavaliere di Santo Stefano. Stabilitosi a Roma, fu fautore deli- cato e zelante delle lettere, delle arti figurative e di ogni gentile studio dell'antichità, e molto fece, e largamente spese a Roma e Firenze pei' l'a- vanzamento della buona letteratura, e specialmente per Tillustrazione delle antichità greche e ixjmane. Tralascio poi i molti distinti giureconsulti , onde ben a ragione poteva vantarsi la nostra Università , e fra quali menarono vanto Filippo Mo- rozzo, Lorenzo Nomis, Niccolò GazzeUi. l'.manuele Filiberto Panealbo, amendue anche versati in letteratura; onde alquanto malevolo può sem- brar il giudizio che il livornese Donato Rossetti , stato da Carlo Ema- nuele IT chiamato al suo servizio per dirigere alcune opere di fortifi- cazione a Nizza od a Villafranca, pronunziava di Torino, scrivendo al principe, cardinale Leopoldo de' Medici queste parole: « \i è il mar- chese di S. Damiano (i) che ha una hbreria di forse sei mila libri, e ha molti belli strumenti matematici: fra i libri non vi è alcun moderno ap- (l) >"on confondino m;ii di grazia roloio.acui non sono famigliiiii le genealogie paesane, gli an- tichi conli e marchesi «li S. Damiano, del casato canavesano de" S. iVIartini . coi moderni conti Carlevaris , borghigiani, e poi recentemente conti di S. Damiano. ni (ìACDK.N/.ID r,l.\RK,TTA. 4' 3 partenente alle sciente e quei che vi sono, non credo che gli abbia ve- (liili. N'olle discorrere delle varie costruzioni dei cannocchiali e microscopii, ma prese molti granchi, sebbene dica di favellare secondochò Tanno pas- sato qui l'aveva istruito il D. Oliva. Vi e anche il marchese Parella che ha una mediocre libreria, dove però vi sono credo tutti libri chimici, perchè sta molto intorno ai iornelli e spende molto in fare sperienze chi- miche, ma ncnunoiio in questa libreria vi sono libri moderni a[)partenenti alle scienze, e scjjo vi sono tutte le opere del lìoile, capitatovi Ibrse in com- pagnia del chiniista scettico, o questo marchese dice, di scienze non avere altrf) che i due primi libri degli elementi di Euclide studiali da per sé (piando due anni sono fu prigione di guerra in Geno\a. Del restante la- sciati i Gesuiti, che colle maniere solite trattengono un muuero incredi- bile di logici, fisici e metafisici e lasciati i leggisli, che sono molti e molti, non vi è chi sappia discorrere che di guerra, di caccia e di fabbricare. E chiudo coH'accertare V. A. R. che nemmeno il serenissimo Duca ha un cannocchiale ed un microscopio, e che con tutta la diligenza non lio po- tuto venii- 111 cognizione che m tutta la città vi sieno che due cannoc- chiali, uno appresso il marchese di S. Damiano, assai buono del Divini, di quattro braccia incirca, e l'altro appresso il padre Guarini, ma poco buono n (i). Questa era la ricompensa dell'ospitalità ricevuta ; ed invero se la pro- fessione delle scienze esatte lasciava molto a desiderare fra noi a quei giorni, eravi però modo di non tradire la verità, ina condirla con pili soavi accenti. J\ed il poco amorevole livornese poteva ignorare, esservi a suoi (h in Torino il gesuita Geronimo Sachero, a cui nel j6i)r) un suo disce- polo, (]arlo Edoardo l'^ilippa . torinese, dedicava Eiiclidix /ii'iora elemento sex, e nella cni prefazione, accennando a quel suo parto, soggiugneva: « In eo potius, quam mentis meae, humanitatis tuae opus eliicescet. quem )< unice aclus jampridcm imposituin prorsus, mathematicae disciplinae, quae » te palromim uc lumen agnoscit, od studia prh'atim erudire non es de- ìi dignatus ». Del resto, che il Piemonte a quei giorni fosse più in via di progresso scientifico, che di regresso, oltre la fatta commemorazione de' dotti, che con successo coltivavano lettere e scienze, prova qualche cosa contro la tesi, che parf volesse sostenere il canonico livornese, questo periodo, che tolgo dalla relazione dello stato presente del Piemonte di (1) Lctlerr- iiieilile, pulihlicale da monsigiKir l'abluoni, l. II. /^I ^ SII PRINCIPALI STORICI IMFMONTESf monsignor della Chiesa, il quale cos'i lasciò scrillo; « De Balbi consignori di Revigliasco vive Prospero, dottor di leggi, che essendo non poco versato nelle belle lettere e massime nella cognizione delle lingue ebraica e greca è ornamento di Chieri sua patria, poiché oltie che iia una bella libraria, nella quale sono molti manoscritti di autori classici antichi, non mai venuti in luce, ha parimenti un curioso gabinetto, nel quale conserva molte me- daglie antiche, alcuni vasi sepolcrali, bassirilievi di bronzi antichi, iscrizioni de Romani, diverse conchiglie, pesci, legni, ed altre cose impietrite che jiaite nel contado di (ìhieri e parte in quello d Asti si sono ritrovate ». Bella ghnia di un progeniture del conte Prospero, che hi pur illustre jn-esidente di questo istituto! « Di simili gabinetti, prosegue il Chiesa, sono tliveisi in Piemonte e tra gli altri uno in Savigliano in casa di monsignor della Morra; altro in Torino in quella di Monsi'i Della Comba; altro in Carmagnola in casa de' Novaresi ed altri in altre parli ». Accenna pure lo stesso Chiesa atl una bellissima libreria in ogni sorta di scienze, lasciata da Francesco Scipione della Chiesa suo congiunto, sto- rico, teologo e vicario generale dell'ordine cistercense, e che fu poi ac- cresciuta dal senatore Ludovico suo fratello. Dunque non è vero, come asserisce il Rossetti, che i Piemontesi, in ge- nerale, non attendessero che alla caccia ed al vezzo di edificar case, e fra i molti, cosa attinente ad ogni età, che non si dedicavano ad alcuna ragione di studii, eranvi pur parecchi , cui torna a gloria nostra di qui ricordare , sebbene (ripeto ) io non voglia tentare paragone alcuno del Piemonte con altre nobili provincie italiane, che a quei dì contavano scienziati e lettei'ati di grido. Ma eccomi, ilopo questa breve digressione, a discorrere de' nostri sto- riografi, e primi fra essi dei Manzini, che sinora s'ignorava che aves- .sero sostenuto quell'utlìcitj. Il conte Gerolamo Manzini, patrizio bolognese, da Camilla Vitale aveva avuto Luigi. Giambattista, e Carlo Antonio, che tutti tre si distinsero nella professione delle lettere e delle scienze , e furono ricordati con lode dagli scrittori di quei tempi, e singolarmente poi ilal Fantuzzi nelle sue accurate notizie sugli scrittori bolognesi. E questi fratelli essendo stati decorati del titolo d'istoriograli dai nostri duchi, ne ilarò qui per conseguenza qualche breve cenno, come richiede la natura del presente lavoro. DI GAUDENZIO CI.ARLTTA. 4'^ Il conte Luigi, rialu a Bologna il u) settembre del 1604. giovinetto ancora, vestiva l'abito monastico de' Benedettini nel famoso cenobio di S. Michele in Bosco nell'anno 1620, ritenendo in religione il nome stesso, ohe aveva ricevuto al secolo. Tenuta per alcuni anni cattedra di teologia, andò a Roma, dove contralta dimesti che/./.a col princi[)e cardinale Mau- rizio eli Savoia, gli riuscì accettissimo, ed in jjrova venne nominato suo teologo. Passò indi a \ eriezia, dove si trattenne nel monistero di S. Elena: ed ivi col suo spirito e colle vezzose sue maniere riuscì ad acquistarsi non solo riputazione presso i letterati, onde venne ammesso nellAcca- (lemia degli Incogniti di Gian Francesco Loredano, ina altresì presso la veneta cittadinanza, a cui tu ascritto nel i633, onde m riconoscenza de- dicò alla repubblica il panegirico II Leona coronato. Ma il Manzini, non troppo inclinato alla vita claustrale, volle ricorrere ad Urbano Vili, che gli die facoltà di vestir l'abito di semplice prete secolare, doj)o il che ei fece ritorno a Bologna. In j)atria egli attese a scrivere varii compunimenti. Ira quali accennerò a (juelli \ny\ specialmente riflettenti la Casa di Savoia. Nel j635 dedicava al suo mecenate, cardinale Maurizio di Savoia, un panegirico in sua lode, col titolo di Caduceo, ma siccome per soddisfare all'ambizione de' nostri principi volle immischiarsi in quel ginepraio dei pretesi e contestati diritti sul regno di Cipro, così la repubblica di Venezia finì per muoverne la- gnanze, ed ordinò che si levasse quell'opuscolo da tutte le oilicine librarie, proibendone lo spaccio sotto severe pene. Invece di zittire, cercavasi di provocare, ed il suo fralello conte Gio- vambattista volendo anco prender parte a quella guerra di penne, nel- r interno d'ingraziarsi l'animo dei nostri duchi, pubblicò la lettera ri- poi'tata lì-a le sue opere col titolo: Copia di lettera in risposta scritta, ove fece l'apologia di suo fratello, e tentò coi soliti frivoli argomenti di pro- vare, come convenisse al duca di Savoia il titolo di Redi Cipro. Meglio gU riuscì la sua corrispondenza colla repubblica di Genova, a cui nel 1648 avendo presentato La via lattea pei- la Maestà della serenissima repub- blica di Genova, venne regalato d'una ricca e bella collana con medaglia d'oro, rappresentante lo stemma della repubblica, del valore di cento scudi (j). (I) .Neri, '^ag^' sturici sul C.apiiala <• suUWisannn. p. li. ^l(5 sul PRINCIPALI STOIUCI VIEMONTKSI Pare cl»e il Manzini non t'osse stabile ne' suoi propositi, e ronseguila nel 1642 una cattedra ili lettere umane nello sUidio di Bologna, poco dopo implorava dal cardinal Vlaunzio di Savoia la sua protezione per ottenere, come inl'atli gli riuscì, la prevostiua di S. M.uia Maggiore della Mirandola. Ma nennnen con questa Irovavasi soddisfatto, e nuovamente face\a ritorno a IJologna, dove conseguiva il dottxìiato in lìlosolia. l'oi tosto, seguendo il mutevole suo carattere, volgevasi al duca di Mantova, che nel iG54 lt> elesse presidente del maggiore consiglio di (juella città, e quindi suo istoriogralo. Neiinneno codeste dimostrazioni (inivano per appagarlo, ma era giiiiiLo il momento in cui colei, clic iinj/to /ju/sal /lei/e puupeiiiiii t.abcridis rr- giunijae turres , veniva a scioglierlo da ogni noia. Mentre aihniqiic nel luglio ilei i()57. insieme al conte Nestore Morandi avviavasi a lìologna, navigando sul l'o, guardato da soldatesche h'ancesi e s[)agnuole, a causa de' moti guerresclii di quei giorni, non avendo il noci-liiero pi-ontamente risposto airuilimata lattagli dalle sentinelle di lazione, queste spararono contro la nave arrliibugiate, che colpirono in un occhio il uoslro conte Luigi, il (piale subito cadde morto, e cosi potè quietare. Le sue spoglie l'iirono indi tras[)iii tale a \ alcnza di Lomcllina. nella cui chiesa di S Maria Maggiore ricevettero degna sepoltura. Oltre 1 opuscolo del Caduceo, che aveva destato le ire della serenissima di Nenezia, ei asi ancoi latto a pubblicare gli Applausi festivi in Runui pei' /'eiezione ili /''en/inani/o III al regno ile /ìunnini dal serenissimo pi'incipe Maurizio di Savoia descrivi al serenissimo Francesro il Este duca (h Modena. Da lettera del suo Iratello (larlanloiiio, come vedremo, egli era stato poco prima della sua morte nominato istoriogralo del duca Carlo Ema- nuele Tf, il ipiale avevagli anco dato 1 incarico di scrivere la sloria del suo regno, UI PlilNCIPAI.l MOKKI FlLMOiNTE.SI molte soddisfazioni, Uovandosi in paese cosi favorevole iii^ii studiosi, e re"alinente accollo dalla famiglia sovrana. Né trascorse molto tempo che iMiell Accademia degli Jpatisli non solo T aggregò a sé. ma lo elesse a suo duce, ed egli ragionando in pubblico quasi ogni settimana, oltre le varie composizioni poetiche, latine e toscane lette, scrisse altresì molti discorsi, e varie lezioni accademiche. 11 Manzini lu anche uno de' fondatori dell'Accademia bolognese de' Pe- spertini, ed appartenne agli Umoristi di Roma, ai Gelati di Bologna ed a parecchie altre società, più o meno fecopde di proficui risidtati alla scienza. Coltivando ci però lastninomia, e l'ottica specialmente, come dissi, contribuì non poco al progresso di queste, ed alla sua vdla di Baltandizzo aveva pur eretta una specola per giovarsene nelle astrono- miche osservazioni, senz'aggravio altrui, lavorando egli stesso intorno a vetri e cannocchiali, e componendo quindi varie opere, che lurono assai lodate dal Ricciolio nella geografia riformata : da Ovidio Montalbani nella dendrologia, dall'Aldrovando e dal Legati nel discorso delie comete. Le principali di esse furono Jstroruin siniulacra -^ l'occhiale dell'occhio; dioptrica pratica, dove si tratta della luce, della refrazione de'raggi dell'oc- chio, della vista degli acuti; la regola di fabbricar occhiali a tutte le viste, e cannocchiali per osservare i pianeti e le stelle fisse da terra e da mare, ed altri per ingrandire le migliaia di volte i minimi degli oggetti vicini. Pare, che questo genere d' intertenimento non avesse alcun rapporto colla pretesa di venir crealo istoriografo ; oppure, siccome quel titolo onoiai'io solevasi prodigare a gentiluomini, presso cui fossevi qualche ra- gione che consentisse a poterlo loro conferire, egli palesò il suo vivo de- siderio, invigorendolo coU'esempio dei suoi due fratelli. Primo segno di tali sue voglie ei lo dava , quando da Bologna il dieci dicembre del j664, col solito stile traslato de' suoi giorni, così scriveva al duca: « Si sono smorzati in pochi anni duo lumi alla mia casa, che non arsero che per divozione innanzi agli altari della regia Corte di Savoia: l'uno fu il conte Luigi, che poihi anni sono morì dichiarato poco prima dall'A. R. di Madama vostra madre di gloriosa memoria, istorico della vostra real Prosapia, l'altro era il marchese D. Giovanni Battista, cavaliere e com- mendatore della religione de' gloriosi Santi Maurizio e Lazzaro, che per essermi stati ambi fratelli , vado ambizioso di farmi conoscere loro suc- cessore nella divozione e nelle obbligazioni a V. R. A. Le ne do dunque parte con le lagrime agli occhi , ceito ch'ella sia per compatire non alla DI GAUDENZIO CI.ARF.TTA. \ ig mia casa sola, ma all'Italia tutta, che dopo la perdila della penna del conte Luigi perde quella del marchese, che non ebbe prevenzione nella spiritosa maniera dello scrivere nell'italiana tavella. Piacesse a Dio che io restassi cosi meritevole al succedere loro nella divozione alla regia Casa eli V. A. R. come con la presente con ossequiosissima riverenza me le consacro e dedico » (i). Il 12 dicembre i666 poi spiatlellatamente chiedeva al chu a Carlo Emanuele II il titolo d' istoriografo , a cui quasi sempre andava annessa una buona sovvenzione, così scrivendogli. «Il conte Luigi prima e poi il marchese e commendatore 0. Gio. Battista miei Iratelli, di virtuosa me- moria, ebbero per occasione la carica di storiografi della vostra reale e gloriosa Prosapia, sebben I uno da improvvisa morte scavalcato, l'altro da mortali infermità e particolarmente dall'idropisia impedito, poco poterono dar saggio del valore della loro dorata penna. Io veramente, tuttoché at- tempato e novizio però nel servir principi, non ebbi ardire di supplicarne per la sostituzione della mia persona nella stessa carica, ancorché tutti i miei trattenimenti non consistano in altro che nel governo economico dei miei nipoti e nel maneggio della penna ora in una professione, ora in un'altra, come dalle stampe si é manifesto. Al presente pentito di essermi lasciato sfuggire l'incontro di supplicare che cosi riguardevole impiego in servizio della \ . R. A. restasse pei- fide- comisso alle penne della nostra casa, conosco che morirò povero di cotesto onore per il mio poco ardimento, indegno di chiamarmi divoto (giacché inutile) a codesta vostra real Casa ». Ignoro se i] conte Carlantonio sia stalo veramente soddisfatto nel desi- derio, così esplicitamente manifestato, di venir eletto istoriografo ducale, non avendone trovata menzione ne documenti. Nel 1676 era agli ultimi di vita, sebbene in quell'anno il Leti nella sua [tedia rei^nante avesse scritto. e II conte Carlo Antonio Manzini benché invecchiato alla scienza, tuttavia pochi mesi sono si é ringiovinito col prendere moglie ». Era però una gioventìi ideale, degna della mente im- maginosa e visionai'ia del Leti, poiché l'anno vegnente ei morivasi, e con pompa solenne veniva sepolto nella chiesa di S. Ciaconio di Bologna. L'ordine di questo lavoro c'invita a discorrere ora deWAss/iritio, nome qui lamigliare, avendone già negli atti di questo Consesso discorso per lo :l).\. S, T. Lolli-if ili |iailiccr,ili. — Oinliollo, ii. 144. Ì2Ì SUI HRIXClPAr.l STORICI PIEMONTESI come renidito nostro Neri nell'acciiratissiiiia sua citata monografia tolse dai documenti di quell'archivio. Invero nel dicembre del 1666. per mezzo di Filippo Fiaschi, egli trasmetteva un esemplare dell'istoria al senato geno- vese, unito ad una ossequente lettera, riboccante di frasi, tutte spiranti de- vozione ed omaojgio a quella serenissima, che non solo accettava le pro- poste, ma ne votava i soliti aiuti di costa per averlo segreto relatore; ed appunto nel 166^ alìèrma il Neri , occorrere frequenti nella filza dei segreti, gli avvisi spediti da Torino. Erasi in momenti in iiu la repub- blica avrebbe potuto ricevere immensi servigi da quel suo cittadino , co- minciando omai a rivolgersi nella mente del duca quei disegni, che frutto della più fina ambizione, uìiravanu a sommuovere Genova pei' ap|)rovec- chiarsene, e guadagnar terreno negli acquisti e nelle sognate annessioni di qualche bella provincia della Liguria. Ma egli venne poi meno in sul più bello Pare però che già alla lontana, sin dal 1669 sciorinasse qualche motto relativo a complicazioni politiche ed a co.se misteriose, facendo scor- gere, com'ei avesse intenzione di mandar certe stolfe, oltre ogni dire pre- ziose ed adatte a tutte le stagioni, aggiungendo ancora, che la tragedia avrebbe dovuto scoppiare, appena pubblicato lesito dei negoziali per la pace, alla quale diceva non doversi prestar fede, giovando solo a nascon- dere le intenzioni che altri covava in cuore. E così in detto anno otteneva dai colleghi buona somma di danaro, che era poi il fine a cui tendevano tutte le sue azioni. Potrebbe credersi che di queste mene nulla subodorasse il nostro Governo, poiché alFidavagli l'incarico di una seconda edizione della sua storia d'Italia dal 1619 al i63u, roll'obbligo ben inteso d'inserirvi tutte (juelle modifi- cazioni che il Governo stimava bene vi dovesse innestare. E con questo con- tratto ei trovava ragione di buscarsi una pensione annuale di due mila lire(i), e s'avea il pretesto di allestire or una scusa or un'altra per trar alcun che a suo prò, e chiedere e richiedere favori, che spudoralamen le domandava ai pei-snnaggi più influenti della Corte. Poi attaccava l)righe pel fatto della ristampa deli opera citata, e togliendo a prestanza una certa indipendenza di carattere (che poco si concilia colia probabili ti , e pare nn solo suo artificioso ritrovato per cavarne profitto) fingeva di fu- il ritroso, ne punto volersi adattare a certe osservazioni impostegli. Questo sistema riusciva sempre o quasi sempre: oltre al figurar il suo nome nel codicillo della (1) Sino dai I(i6(j ^'Oilpvasi quello iotrnlleuimrntu. DI CArDENZIO f I.AUF.TTA. :^2^ duchessa Cristina- che legavagli diicatoni cinquecento, il 5 giugno del 1666 emanava l'ordine di sborsargli lire 5^r a complemento delle lire ioc)i per duecento copie dell'istoria delle guerre e successi d'Italia. In riguardo poi al secondo volume della sua storia, già il 11 apiile del iG'jo il duca mandava al ministro marchese del Borgo tniesti precetti. « Illustre cubino nostro carissimo. Avendo il cavaliere Luca Assarini nostro istoriografo compiuto il secondo volume delle sue istorie, desideriamo che sia da voi rivisto prima che si dia alla stainp;i. Ci farete dunque cosa grata d'appi icarvici colla maggiore attenzione che saia compatibile con le altre vostre applicazioni >i. Via a questo volume dovevano toccare varie peri- pezie: il sette maggio del r()^2 trovasi bensì notato il pagamento di aS doppie al lipogratb Zavatta per duecento esemplari del medesimo, senon- chè il 9.'^ marzo del iG'j:') ritrovo questo ordine « L. 3600 allo stampa- toro Bartolomeo Zavatta per la stampa e remissione che ha tatto il nostro archivista Rocca del secondo volume dell'istoria del cavaliere Luca Assa- rini, cioè copie 520 di questo e copie n. 200 del primo volume di detta storia che gli abbiamo proibito di vendere e fatte ritirare nell archivio nostro oltre le doppie 25 d'Italia die gli abbiamo fatto sborsare per detta seconda stampa d. Non credasi però che il racconto dell As.sarino, log- giato secondo le avute ispirazioni, non avesse incontrato a suoi giorni gli stessi oppositori, ed il principe di C^arignano, messo su dal Tesauro, ne mosse lagnanze, onde il celebre marchese di Pianezza stimò, per togliersi ogni noia, di .scrivere il 29 giugno i6'j3 al ministro « per ciò che dissi a V. S. I. circa la pubblicazione dell istoria dell'Assarino , mi fani ben ella grazia e carità grande di flir sapere, ovunque fia di l)isogno, che in essa né con somministrar memorie, né con approvare ciò che contiene, né con l'.iverla né pur \eduta, non ho avuta, né ho parte alcuna. Onde con niun Hmdamento si duole il signor principe di Carignano e suoi con il signor abate Tesam-o di me, che non ho che fare, né col male, né col bene di detta istoria, di cui si dovrebbe rlimandar conto ove vi fosse soggetto di doglienza n revisori. La S. \. 1. sa s'io dico il vero in (juesto punto. Ultimamente poi la supplico di non far motto di ciò che conli- dentemente le dissi toccante la composizione fatta contro la mia persona e circostanze da me sapute in tale negt)zio , poiché mi sarebbe di gran (1) A, S, i.tlltif (li intrtìtnltil'i. '4 Sekie 11. To.M. \.\X. :■,/, A-2(] SUI PRÌM:II'AI.I STOiUCI l'll.MO.\JI;,SI duiiiK) che se ne j)arlasse, e per allro io devo soffrire allegraii^eiite questa invettiva, poiché se non conterrà la verità ai quello che dice, son certo che per altri capi ho meritato hiasuui molto maggiori di (juelli che mi possa dare l'arguta penna dell'autore, e se DoiìUiius incitai einii cantra me, come disse David, udoietui saciijicium menni > (i . Nel tempo di sua dimora tra noi aveva l'Assarino pur composto una compendiosa notizia sull'origine e sulle successioni della Real Casa di Sa- voia sino ad Amedeo III, ma è una scrittui-a che per nulla corrisponde a queste sue parole d'introduzione « .Ancorché tra le più stentose fatiche in cui possa imbattersi un'istorica penna e non sia a nessun altia inferiore quella dell indagar la vera traccia delle antichissime prosapie, noi talvolta non punto atterriti da qualsivoglia travaglio, dopo di aver disotterrate tra le ruine del tempo le più lecondile memorie, troviamo per comun con- senso de più celebri scrittori che la Real Casa di Savoia riconosce i suoi primordi dal sangue altissimo de principi sassoni ». E queste erau le le- condite notizie che osava divulgare al pubblico! Pubblicavansi altresì per conto del duca nel i663 \ Labori (P Ài acne , notevole opusculetto, la cui stampa costava L. 87 pagale nel i665, al- 1 editrice, vedova Lucia Gianelli. Ma a non molto l'ingrata Parca, il due cìi ottobre del 16^3, toglieva il filo della vita al nostro storiografo, clic lasciava im figlio avuto da Ot-- tavia Marini, la (jualc il i5 di quel mese riceveva il dono di L. \no dal duca (2 . I nostri storici scrissero, ed 10 pure sulle traccie loro ho ripetuto (l'I) che l Assarini fosse stato creato cavaliere mauriziano, figurando il suo nome nel ruolo di quei cavalieri all'anno i66i>: ma siccome molti errori notansi in quell opuscolo del Ricci, e riguardo a Ini, anco specialmente, lo sbaglio di dirlo lucchese: co.sl è lecito di dubitare di questa onorifica distinzione, pei' il che può ammettersi che la dignità equestre provenisse dall essere egli ascritto all'ordine gerosolimitano di Santo Sepolcio, siccom è indicato nei libri moituarii della parrocchia di S. Tommaso, sotto cui abitava, ed ove probabilmente non si sarebbe celala 1 onorifica distinzione di cavaliere mauriziano. (1) A. S. Lettere di particolari. (2) Archivi camerali. — Tesoreria di Piemonte. {?t^ Siil/r avventure di hucti Assarivo. ecc. m C.AUDENZIO il.ARF.TTA. i^J Le sue spoglie iuioiio deposte nella chiesa della Madonna degli Angeli, dove nessun marmo ne indica il sito, e sol monumento rimaneva di lui ne'mesihini componimenti di Pier Antonio Arnaldo da VilJafranca di Nizza, il quale nel suo Giardinu del Piemonte dedicavagli alcuni poveri versi, in cui 1 autore tenta un infelice paragone Ira lui e S. Luca, conciiiudendo : E se di Cristo istorico è S. Luca Tu cavalier, tu medico e pittore, Tn evangelista sei del nostro duca. Forse pii\ onorifiche all'Assarini furono questi- espressioni, di cui il ventun di ottobre servivasi il marchese di S. ^laurizio, nello sx-nvere al ministro: « C'est une parte que la mort du clievalier Assarim ; on disait ici de Ini » .8 di ottobre si fece a chiedei'lo direttamente al marchese di S. Tommaso, adulandolo eolio scriveruli che k ove mancaranno le mie debolezze, ivi suppliranno gli in- dirizzi di V. l'I, quali ;i guisa di j)nrissimo sole illuminerà le losche nubi del mio intelletto eil appianerà quella via che tlisastrosa potesse l'itardare il volo della mia penna che \orrel)b(^ dirizzarsi alla gloria». Ma con vera (I) A. S. Francia, LoIIpip .Miiiislii , nuizzo tW. ^aS SUI PRINCIPALI .STORK.l PIKMONTESI eccezione, quesLa volta il marchese dimosUava di tenere poco conto della futura gloria che venivagli promessa da questo postulante, né posponevasi un paesano, per favorire una mediocrità cosi spiegata. Successore adunque all'Assarino neirufficio d isloriografo fu Maurisio JBertoìie che però a dir vero non riuscì ad acquistar la menoma rino- manza, e di cui mi si>riglierò in poche pai'ole. Il Bertone, che dal Cevaschi (i), nobile torinese, e nel Bieviaiiuin hi- sioiicum noìtiiiillonwi illustiium viioiuin congiegationis Somaschae vien detto nobile chierese, nacque veramente dalla nobile, prosapia dei Balbi Bertoni di Chieri, intorno al i638, ed era fratello di quel cavaliere Giara- battista, che aveva avuto nella religione gerosolimitana la dignità di balio di Napoli. Datosi alla Chiesa entrò nella congregazione dei religiosi Soinaschi, ove léce professione nel i65(S. Eletto professore di retorica nel collegio elementare, fu più tardi ele- vato alla dignità di preposito generale del suo ordine. Aveva fama di oratore valente, ma nessuna produzione ei lasciò da at- testare la sua abilità come storico, (juantunquc Carlo Emanuele II cou lettere del diciassette dicembre del i^i'jy, lo avesse scelto a suo storiografo. Tanto bastò per eccitare la povera musa dell Arnaldo a dedicargli tosto alcune rime nel suo Giardino del Piemonte, in cui lo chiama « Penna felice, avventurato iiiciiiostro — Che per colmo immortai d inclita gloria — Scielto tra mille a la regale hisloria — Nascesti a imbalsainar il secol nostro ». Ma questi erain; balzi della laiitasia di un poela cortigiano, che in quel Giardin del Piemonte, e \\e\V Ànfitentio del valore aveva preso ad adu- lare lutti i potenti e lavoriti del regno di Carlo Emanuele II, cominciando dal principe di lutti, il ministro Triiclii, a cui dirigeva in quei suoi opu- scoli pili di mille versi di spudorati elogi. La profezia dell'Arnaldo non ■ dovevasi verificare, ma intanto il Bertone aveva saputo ingraziarsi spe- cialmente nell animo della duchessa Giovanna Battista, che sin dal i6yi intratteneva riguardo all'apertura di un Accademia letteraria, pochi anni dopo veramente da lei instituita in Torino. Dal suo collegio pertanto ei le scriveva, che essendo onorato dell incarico di pronunziare il discorso nella solenne apertura di quell istituzione, credcvasi in dovere di proporle una quantità di argomenti su cui avrebbe potuto lorniularlo. E da quella (1; Soiiiasca giaduata, 38. DI GAUDENZIO CUARETTA. 429 sua lettera scorgesi quanti dovevano essere i riguardi indispensal>ili a quei giorni, non dirò per evitar di olièndeie, ma |iei- poter appagate a sutfì- cienza i potenti. Intatti scriveva die « avrebbe usato il pionibiiio per evitare scogli », anzi che desiderava che la duchessa stessa avesse a tracciargli il soggetto (i). Senonchè lungo tempo iiinanevagli per meditare sulle frasi piìi appro- priate del suo discorso, poiché quell'Accademia non doveva aprirsi che alcuni anni dojni la morte del duca, ed intorno ad essa arrovellarsi, come vedremo fra poco, il successore del Bertone neiruf'fizio d'istoriograto. Non potendo essere utile per lAccademia disegnata, onde soddisfare al suo uHizio aulico, cercava di adoprarsi ai altra materia , e dal collegio di Torino il trenta gennaio del 1673 scriveva direttamente al duca per chie- dergli facoltà di trattare qualche soggetto degno del suo ullizio. Duole lo scorgere, come, mentre così vasto sarebbe stato il campo, costui si proponesse a confutare unicamente i Genovesi, i quali, dicevasi essere ni procinto di pubblicare una stona di quella certa guerra, che con si poco onore del duca e delle sue anni erasi nel i6'j-j guerreggiala nel Genovcsato, sotto finto pretesto, ina in realtà per istbgo della smodata sua ambizione , ansioso qual si era di accrescere lo Stato con una buona porzione della Liguria, a danno senza dubbio de suoi legittimi possessori. Teme vasi naturalmente che la nariazione dei Genovesi non sarebbe stata favorevole al Governo, o coni" egli col suo stile iperbolico diceva « che sarebbe stato ugni foglio di quel libro asperso di veleno, ogni pagina un seminano di menzogne ed intinta la penna in inchiostro di tossico ». Quindi egli supplicava il duca a consentirgli di confiitiire quella pub- blicazione. Prevedendo però che iioii sarebbe stato conveniente in quel momento d inasprire vieppiù gli animi, già abbastanza ellèrvescenti , sugge- riva al duca, che il suo lavoro si sarebbe potuto depositare frallanto nel- rar<;hivio, ben inteso che egli non intendeva di scrivere, al fine di otte- nere doni e vantaggi, ideando di usare « penna d'oro, e pronto di rifiutare qualunque tesoro, come Diogene aveva usato con Alessandro ». E cosi con poca verecondia osava paragonar sé a Diogene, ed il povero Carlo Ema- nuele, scornalo per la fresca disfatta dell'impresa di Genova, ad Alessandro Magno, paragone odiosissimo al vero, poiché lasciando qui altri riflessi, di cui farò uso altra volLa , il tenebroso processo del colile Catalano Alfieri, (1) A. S. Lettere di /lailiinluri. /3o SUI PRIÌSCIPAI.I STORMI PIK'NIONTESl basta a togliere ogni generosità in (jiiel principe, sebben benemeiito dello Stato per altre ragioni. Intanto il Bertone non era Fedele alla ilic-hiarazione latta di non essere mosso da alcun interesse nellattendere a quelle occupazioni, poiché poco dopo facevasi a chiedere una grazia, onde incamminandosi per quella china, lasciava supporre, che le ripetizioni di quelle domande sarebbero succedute non senza frequenza. « Sono più anni, egli scriveva, che io pre- dico, e sono comparso ne pulpiti di Genova , Venezia , Roma e Milano e al suo Duomo in un .ivvento, ora la vorrei supplicare per il (jnadrage- simale venturo » . Il poco da lui tallo non tu conipiutu indarno, poiché il iS marzo del 1678 s'ebbe il vescovato di Possano, della cui diocesi seppe rendersi benemerito, per avere riedificato l'episcopio e la sagrestia della cattedrale, e per aver legato a quel capitolo la sua libreria con cento scudi d'oro, onde potesse venir accresciuta di nuove opere e con un annual cen.so a prò del bibliotecario; legava altresì cento doppie, che equivalevano a un di pres.so a 1 |Oo lire, per l'acquisto di quattro candellieri d'argento ad ornamento ilella cappella di S. Giovenale. Morì il ir novembre del r '701 settuagenario, e di lui rimase un'epigrafe onoraria, in licordo dell'indicata ristorazione del palazzo vescovile, in cui s accenna chiaiamentc! alla sua stirpe con queste parole: Maiiritiiis Bei- toniis de Baìbis C. /?. C. Sonuischae Palì-icius Cheiùerisis Momhelli Be- i'iiiaschi et Selhiviim roiiii's el Salirti Su/v/i/oris Poiniiius. (Questo sloriogralo teneva il solo ul'ficio ut/ honorem, poiché 10 non conosco alcun suf) sciitto, eccetto che la (^orona Deipavae quam Eomae anno i(i66/j/o aniih'eì'Siiria celehritale soiìalinni ejnsdein heatissimae T ir- gifiis nuncupatae in collegio Clementina patruin congregationis Sonuischae eahihuit Ronu/e, ed un altro opuscoletto ascetico, intitolato Cìi elof^i della caiità. Maggioie risultato per gli sludi storici ebbe a quei giorni la puhiilica/.ioue di ini'opera uscita nel iG-jo a Ciamberì col titolo Lii gioire de Pabbaye et vallèe de la Novalaise situe'e au ba.t dn Moiitccnis dn còlè d Ttalie , ensemble un discoms de la S'WOìe et de la ville ile ('haiidiérr sa rapi- tale, de san ancienneté et de plnsieurs aittres re'gionx. Ne fu autore Gian Luigi Rochez, religioso della ctìui^regazione riformata di S. Bernaido L opera dedicata al consiglio civico di Ciamberì contiene alcuni capi , in cui il Roihez trattò degli antichi popoli che abitarono la Gallia Gisal- DI GAUDENZIO (.I.ARETTA. 4^ t pina , e descrisse le Alpi Cozie. Ma senza seguire 1 autore in teorie e prin- cipii fallaci, avendo fra gli altri errori asserito, che Liguria e regno Coziano erano mia cosa sola, è necessario di rilevare come in quest opera, in mezzo a multe gratuite asserzioni, veniva puhhiicato per la prima volta il così detto privilegio del patrizio Ahbone, cioè l'atto costitutivo della nuova fondazione della Novalesa, uno dei più celebri monisteri, che come ben ricorda il lettore, fiorirono prima del secolo X, e secondo le dotte con- ghiettiu-e di Terraneo, verosimilmente fu fondato nell'anno 726. Che se non affatto sincera e fedele è la lezione di (piell'importante do- cumento, (juesto peiò servì assai a recar lume alla storia di quell'anti- chissima congregazione religiosa, e die poi origine ai nostri tempi ad una erudita dissertazione comparsa nel volume XXX. Serie \' delle Memorie di questa Accademia, in cui si pubblicò a miglior lezione l'importante do- cumento anzi accennato. Pochi anni dopo sullo stesso soggetto il monaco cistercense Antonio Caretto pubi)licava la f^'ita e miracoli di S. Eldrado abate delV insigne monastero di S. Pietro della Novalesa, principii ed accrescimenti d esso monastero con Iti serie de' suoi abati, le cui vite de - scrivonsi brevemente, privilegi ed antica cronaca del medesimo, illustrata con notazioni istoriche. Il Governo di Cristina e del suo figlio Carlo Emanuele, più degli altri precedenti, come pur dicemmo, ebbe a macchiarsi non poco dei continui tentativi di corruzione, messi largamente in pratica; ed a conclusione della slori;i letteraria di questi due regni, ncceimei-ò ai principali storici che per questo fine ebbero relazione coi nostro Governo, riportando qui il frutto di spigolature, che in parte seguirono su documenti inediti. La |)(>teMzn della stampa giganteggiando colla sua arcana forza, aveva lornito ai popoli occhi e braccia, come acconciamente scrive Facole Ri- cotti (1), ed in due secoli di dominio già cominciava ad atterrire non poco i principi, i quali ben si accorgevano come pericolasse il principio di autorità, soggetto ormai a quello del libero esame (2). La doppia censura laica ed ecclesiastica potè bensì imporre un argine, che sino a certo punto servi di qualche garanzia, ma non sempre riu- scendo efficace, talora poi tornando difficih^ e pericolosa l'applicazione l\) Della veiadlà Hi alcuni sn'itfori italiant. (2) Apostolo Zino ;u>eili col .Salma.sio, clic trt cose mutaronu (a faccia dell'universo: la slampa in re lilleiaria , T iiiMiiziono ilella polvere e delle armi da fuoco in re bellica, e quella dell'ago in re Uii\-((li(i. S'a^i;iiini.'aii" (ij,'i,'iili il vaprirr, le strado ferralo e il Iclr^rafo, A^2 St" PRI><:IPAI.( STORini PIEMONTKSI «li un sistema di rigore, si ])ensò e si esperimentò, die col mezzo della corruzione e colle lusinghe si sareljl)e ottenuto ugual etfelto, evitando col solletico degli allettamenti di titoli, pensioni e doni quelle repressioni, che potevano partorire non pochi scandali. Plesso di noi questo sistema co- minciò ad essere messo in pratica ai tempi di Carlo Emanuele T. come pur già dicemmo, ma in maggiore proporzione apjilicossi sotto ai regni de' suoi successori, e specialmente in (juesto secolo XVII, le cui vicende stiamo ora svolgeiKl a Francia, da cui aveva co- minciato ad ottenere favori, non guari dimostravasi sollecito a soddistare ad altri, ovvero, (piel che più monta, di servire alla pura verità. Il mano- scritto con cui sguinzagliava non poco la condotta di Urbano ^ III per l'occupazione di Castro fatta dai Barberini, se gli procacciò dal Mazzarino una buona pensione, coi titoli di consigliere ed istoriografo regio, non lo salvò da molti guai, a cui volle andar incontro per piacere a chi lo fa- voriva. Stabilito di consegnare al palio I immaginato lavoro de' Mercurii, il (^ giugno del 1643 così scriveva ali istoriograio di Savoia, Valeriano Castiglioni: (( Non voglio che i Fi'ancesi mi pos.sano rimproverare che io non mi guadagni (juel poco di stipendio che nu danno per istoriografo di S. M. Al principio di luglio meltei'ò sotto la slampa una mia storia delloriginf de' falli de Catalani sino al J2 sotto titolo di Mercurio ed DI CAl'DKNZIO CI.Al'.r.TTA. 4^'*^ Ogni anno ne publjlicherò l isloiia del precedente. Spero incontrare il gusto ed applauso universale se non nello stile, almeno nel soggetto dell o- pera, ripiena tutta di cose recondite ed arcane avute da ministri de piinii principi di Europa. Ho voluto battezzarlo col titolo di Mei-curio pei' in- trodurre (juesto lodevole uso degli oltreniontani in Italia, acciò abbia largo il campo d'innestarvi lutle le scritture, discorsi ed altre cose pii!i curiose date Fuoii dalla penna di scrittoli di chiaro grido e da' principi, e questo primo conterrà più di cenlo tra lettere e scrilhne tutte bel- lissime « . Egli illudevasi troppo dei favoli di Francia, e taceva i suoi conti senza pensare alla revisione veneta. E questa per l'appunto, sollecitata dagli ambasciatori di Toscana , Modena e Parma prendeva a sollevargli non pochi ostacoli, e sol dopo minute obbiezioni finalmente gli tu poi con- sentito di pubblicare presso il veneto tipografo Baglione il volume, non Colla data di Venezia, ina bensì di Gasale, e col nome di quel tipo<n innosciuto, ipiando il marchese \'isconli gli fu portata questa replica per l'/m- primaltif e l'ebbe letta, mi iiuiiidò a dire ijucstp parole: " dite al Tesauro che si apparecchi a ridere, ridere e ridere. Io per il mio iiHicio non ho potuto far di meno di segnare Vtmprimalur per non aver ritrovato cosa contro alla lede cattolica, ma quanto alla questione bisogna ridere. Insomma egli ha piglialo a scesa di lesta questa querela contro di Silvio, come quella che prese contro il principe Trivulzio, ed io mi attengo al parere di monsignor l'nlicelli .... « A. S. Lettere di par - ticolnri. E molto capace a ritrarre l'indole del Tesauro è quest'altra sua che il 22 novembre del 1674 indirizzava al duca ... i Benché a me non convenga d'ingerirmi nella corte se non quanto son co- mandato, nondimeno perché dalla benignilìi di V. A. R. , per singoiar privilegio, non ostante il ca- rattere di chierico, sono stato abilitato al carattere ili feudatario per una parte di S.ilnioiir a me decaduta, Uovonii anch'io legalo dalla fiduciaria obbligazione di contribuire i pensieri. In voce, l'inchiostro, il sangue dove corra il servigio e riiitcrcsse del leal padrone. .\ vendo io dunque udito DI GAUDENZIO ri.ARKTTA. /(St Del resto il Siri, poco stimato da quanti sono capaci a distinguere loro dalla scoria, ma per contrario assai favorito da chi poteva procacciargli molti vantaggi, giunse a provetta età, e si mori in Parigi nel i685, mentre per l'appunto stava meditando un viaggio nel Piemonte. Consideriamo ora le relazioni eh elihe colla noslia Corte, mentre ei dimorava in paese straniero. Esse hanno principio ai tempi della reg- gente Cristina di Francia, con cui non ebbe rapporti guari amichevoli, né seppe appagare nel modo del racccmto della prigionia del conte Filippo d'Agliè. Nel 1668, poi, e così parecchi anni dopo la morte di Cristina, avvenne che banchettato il marchese di S. Maurizio dal maresciallo d'Este. fra i commensali, che erano il ministro di Portogallo ed il vescovo di Laon, si trovasse anche l'abate Siri. Soddisfatto costui di una congiuntura che poteva recargli utile, s'abboccò tosto col marchese, rivelandogli di cono- scere la parte segreta del iamoso trattato di Cherasco, cioè la cessione di Pinerolo , e tutte le divergenze passate tra il Bellezia e suo padre a Munstei . Il S. Maurizio si provò a negar tutto , ed a persuadere il Siri dell' inganno suo. Questi allora gli sciorinò di aver letta la lettera stessa, che il Saavedra, consulente legale di Spagna alle negoziazioni di "Vestfalia, ed amico del Bellezia , aveva scritto a Madrid. Il nostro mi- nistro fu confuso, ed abbandono la lizza, dandola vinta all'astutissimo storiograH) di Francia. Ma intanto trasmettendo a Torino il racconto di il IVeuill" i\vì\;\ puMilica nima ili nini so i|iial<' .scrjlliirii solki forma di ar(,'iiUi ed iiifjpgnoso iliakio-o, ma calunnioso ed infamatorio libello contro ai principali rninislri di V. A. H., ho j^iudicalo poterle essere di mollo servi<,'io una riflessione gran Icaipo fa da me fatta sopra simil sogyetlo ed esposta in iscritto, ma da niun occhio veduta, ^ion per consi|;;liar principi, che hanno Iddio per consigliere, ne per rispondere alla scrittura che io non ho letta, ne credo bisogni altra risposta che le azioni di quei signori, uè per censurare l'autore delle calunnie, che io non .so ((ual sia, né credo esser altri che il diavolo, poiché il nome dinholus altro non signilìca se non calunniatore. Ma in <]uella memoria semplicemente rappresento a <|uai orribili estremi, a ((uali tragiche rivoluzioni, a quali all'anni di principi vadano talvolta a terminare i libelli, le pasquinate, le satiro che cominciano con isclicrzi contro a regii ministri, rammemorando il solo esempio di ciò che avvenne a quel "ran principe dal quale il capo di V. A. H. ha ereditala la prudenza con la corona, f.e penne delle stinfalidi \olendo si mutavano in saette, e dalle infamatorie scritture succedono azioni inrami. Un abisso chiama l'abisso, il corso di simili ingegni scapestrati quando non trova intoppi: altrimenti non ha clic il proprio e l'altrui precipizio. Basta dire che nel petto dell'invitto Vittorio, mai non entrò timore, se non in quella occasione. Se V. A. R. cnniaiidarà rhc i|ii(lli mia memoria le compaia davanti, non mi penlirii di aver trascinato fino a qui la mia vita. Se la giudica soverchia ed im- portuna la meneria nel liiiiiic dell'i. IdiMonc , lacendone felice augurio che niuu sinistro caso le farà desiderare di averla xpilnla ,. III.. 1. e. /38 ''U' l'RlNCIFAI.I STORICI PIEMONTF.SI quell avventura scriveva al duca ; // int^ semole ijiiil faut gagiier ces gens qui ecriveiit V histoire (i). Ed a questo appunto mirava il Siri, che da (jualche tempo andava cercando il modo di contrar dimestichezza col mmistro di Savoia a Parigi ; e lieto dell accidentale conoscenza del S. Vlaiirizio, tosto t'ecesi dall abate Vihò, lesidente a Parigi, condurre dal ministro, onde non venisse a lailreddarsi la relazione di tresco con Ini latta. lui i dispacci del S. Maurizio ci l'ivelano quanta fosse l'astuzia e l'arte onde sapeva inorpellaisi il Siri, poiché questi erasi avviticchiato si bene attorno a lui, col vezzei^giarlu, conoscendo abbastanza di qual pie zoppi- casse (piel fiero savoiardo, polente per gli elevati ullici che teneva e per la sua particolare amicizia col duca. AssicinolU) ch'egli intraprendeva a scrivere la storia dal lOoS al i64o, e che dai documenti aveva ricono- sciuto, come il suo avo, il signor di Jacob, aveva avuto parecchie mis- sioni in Francia ai tempi di Carlo l'ananuele T, e che a lui stava molto a cuore di far lilevarc i suoi meriti e le virMn sti-aordinarie di (pici gran principe. in lai modo obbligava già il ministro a rispondergli, che riiicrescevagli di 111(11 aver a Parigi i documenti e le istruzioni che appartenevano al suo avo, conservandosi le medesime nell archivili domestico di Ciamlieri, ma che avrebbe scritto, per farne una scelta, alla persona deputata alla custodia di quei documenti. Indi il disctirso cadde suU Assarini, che il Siri commendò, sapendolo protetto tlal S. Maui'izio, e poi tolse congedo, lieto di aver lasciato faddentellato a successive visite, in grazia della domanda fatta di compulsare quei ilocumenti tamigliari. Restavano in tal modo legittimate le altre visite ch'ei facevagli, nelle quali già avendo acquistato famigliarità maggiore, sapeva >velargli con non minore astuzia. <-ome egli cominciasse ad essere poco o nulla soddisfatto dei ministri di Francia, e come ormai cagionassegli tedio di menar vita errante nella gran metropoli parigina, desiderando di peregrinar per l'Italia, ancoraché godesse due mila scudi di pensione, ed avesse libero l'acce.sso a tutti i ministri, i quali erano solleciti a comunicargli docmueiiti, istruzioni e negoziazioni anche le più recondite. , Questa era una satira abbastanza palese, aflìne di gettar radici in Pie- monte , e senza stabilirvisi , tirarne almeiMi ijiialche pensione. P'^r \ie (I) k. S. Kranci.i. — Lell. Mlrii<ilt^ si-opcì deirindiueii- denza, non saiebl»evi elogio per lui suflìciente, ma la cosa sta hen altri- menti. E ce \o prova il consiglio stesso die il S. Maurizio credeva di suggeriie alla diuhessa « sii n écrivait pas. il ne laudrait pa\ei' ses eni- » piessemens (jue de niépris ». Via il Siri era degno di spregio, poiché non reggevasi su alcun principio d'onestà. E quel duca, eli' egli dipingeva e qualificava pur così svagato, sapeva hen ri.spondere all'amico S. Maurizio: e L'abbé Siri est le plus grand » cnneini que j ai panni les liistoriens, il le taiil dissimuler et jiienez » garde à ce que vous diles devant Ini, et quoique il vous parie de lène )■> M. R., il est vrai qu'elle avait heaucoup de Fainiliarité avec lui, mais à « son temps elle s'en est desabusé. Je vous avertis de ceci » r). Se nulla si tosse potuto temere, se si Fossero potute smentire quelle certe visite e scappate notturne, quei eerti scontri e quelle certe malattie, non troppo consentite ail un uomo aiiuiiogliato. che rivaleggiava ahjuanto col lussurioso sovrano di Francia, il solo dispiezzt) ed un dignitoso silenzio avrebbero dovuto essere la risposta all'autore di due pseudonimi libercoli, già .sovra accennati, ma coirendo altrimenti la bisogna, laceva mcslieri tenere altra via. ne deve aduiujue eccitare .sorj)resa .se nei conti dei leso- l'ieri trovasi anco accennato il suo nome. La nostra (]orte ebbe alti-esi a quei giorni relazioni col i-onte (liialdo Priorato, nato a Vicenza nel 1606, che già a (juiiuHci anni prese a niili- tai-e in Fiandra sotto la disciplina ilei princij)e d'Orange, insieme al quale fu presente^ allassedio di Breda. Passò poi ai servizi ili Ferdinando TI sotto il rinomato Alberto Valslein , duca di Friedland. Ma non molto in appresso, lasciate le armi, diedesi alla professione delle lettere. Nel 1662 fu chiamato in Francia dal Mazzarino per iscrivere la storia delle rivo- luzioni di quel regno. .Sei'vì anche la bizzarra Cristina di Svezia, cui rappresentò qual inviato al trattato dei Pirenei. Tolto da lei congedo recossi a Vienna, dove rimase sino al iG'jSj anno in cui mori, sebbene la .sua morte sia avvenuta a ^ icenza sua p:ilria. Fu autore di molte opere, fra cui l'istoi'ia del luiiiislero del Mazzarino, la storia degli uomini illustri da lui conosciuti, il trattato della pace dei Pirenei, la relazione della Corte dell'eleltore di Baviera e la vita dei principi della Casa reale di Savoia, dal duca lùnanuele Filiberto a Vit- ^1) A. S. Francia. — l.cUpre Ministri, iuùzzo 81. DI GAUDENZIO CI. ARr.TTA. 4 i ' torio Amedeo II. Il giornale des Savans del i665 giudicò rigorosamente la sua Storia della pace de' Pirenei, aflermando contenere più errori che parole. Nel memoriale autogiafo del duca Carlo Emanuele II, e da me in tutta la sua integrità trascritto e pubblicato, leggesi di lui: (( Come il conte Gualdo Priorati mi ha fatto favore di comunicarmi le minute delle sue istorie, e come si parla di questa mia Casa e di successi passati, bisogna lar rilevare da don Pietro (Gioffredo) tutte le cose che sienvi in quelle che sono contrarie e dopo questo farle vedere al cancelliere per vedere se vanno bene, e se si deve aggiungere qualche cosa di piij, e dopo (atto questo rimandarle al detto conte Gualdo con abbellire le carte con qualche presente ». Ed il Priorato pare che vi si accon- cia.sse, poiché si mantenne in seguito sempre buona relazione tra la sua famiglia e quella dei nostri duchi. Niccolò il g ottobre iS'yS da Vicenza annunziava la morte del Galeazzo suo padre. Poi nell'agosto i68i, avendo chiesto il favore che la duchessa Giovanna Battista avesse a tenere al sacro fonte un suo figliuolino, natogli a quei dì. il Truchi notava sul margine della stessa supplica a M. R. si degna accordar l'onore che le dimanda il signor conte Nicola Gualdo Priorato, historico di S. M., mollo parziale della Casa reale, e mi ha comandato di dir a ^' . S. I. di rispon- derle aHermativamente » (i). La lesineria abituale che facevasi sentire agli ufficiali governativi nel riscuotere le loro paghe , cedeva facilmente alla spensierata generosità, (juando trattavasi di far cangiar quanto ne' racconti storici intaccasse la suscettibilità del principe e del Governo. Nel 1664 il senatore Pietro Carroccio, ministro straordinario in Francia, aveva mandato di contrarre dimestichezza col celebre geografo del Re, Nicolò Sanson, nato ad Ablie- ville , il benemerito ristoratore degli studi geografici in Fiancia , e di trattai- seco, affine di fargli accettare una pensione, con cui averlo docile stromento. .\vendo intanto colui preparato alcimi discorsi per dedicare alla duchessa, il ministro tosto scriveva, che era sicuramente opportuno di riconoscere le carte da stamparsi per evitare gli errori tipografici , e soggiungeva al proposito: « ma stimo essere assai più necessario di vedere se vi sia cosa alcuna da aggiugnere , mutare o togliere nei discorsi e (1) A. S. Lettere di paiticiAaii. Serie II. Tom. XXX. 56 //2 SUI PRINCIPALI STORICI PIKMOMESI IralUti "eiierali e paiticolari quali esso disegua come sovra di dar fuori con le carte, perchè in questi può più essenzialuienle giovare od of- fendere che nella stampa delle carte ». L'avvertimento non cadeva indarno, ed il Ire gennaio del 1666 il duca rispondeva al Carroccio, che avrebbe speso cinquecento o seicento scudi per appagare il Sanson, affine di avere quelle carte e quei discorsi, e che intanto mandavagli subito in anticipazione cinquanta u sessanta doppie. Pare che costui fosse dedito assai alluiteresse, avvegnaché intorno al 1640 erasi stabilito a Parigi, unicanienle per sorvegliare il commercio che facevasi delle sue carte geografiche. Tornagli però a lode di non aver inai usato il titolo di con- sigliere di Stato, per timore che i suoi figli si astenessero poi dal pro- seguire gli studi geografici. Mori a Parigi nel 1667. Degni imitatori suoi liirono 1 figli Nicolò, Guglielmo ed Adriano, com'è noto. Insomma nissun di questi storici avrebbe potuto imitare il felice scherzo del Tassoni, fattosi . ritrarre col famoso fico in mano Pii'i lodevole fu senza dubbio la relazione del duca ^che qui toccherò in breve) con Celestino Mirhello. iiaiicese, già professore di leggi a Francfort sull Oderà, nellUniversità loiidatavi nel 1 J06 da Gioachino, mar- gravio) di Brandeburgo, la cui presenza a Torino fu pure sconosciuta ai nostri storici. Il Mirbello apparteneva ai calvinisti, ma abiurati quegli er- rori a lìoma nel 1670, più non voleva far ritorno a Francfort, ma bensì desiderava di stabilirsi a Tonno. Il mediatore, fra il Mirbello ed il duca Carlo Emanuele li, fu lo stesso padre Giacinto, maestro del sacro palazzo, il quale tenne a (|uel proposito lungo carteggio col duca, ed assicuratolo delle buone disposizioni di quel giureconsulto, e della sua capacita ed av- viamento a scrivere opere di [)olso, potè indurlo ad accettarlo professore all'Univeisilà di Torino, che aveva da poco restaurata. Ei dunque venne in questa nostra metropoh sul cadere del 1671: uè tardò ad essere ado- perato in paiecchie commissioni scientifiche , ned estranee alla storia. Mail suo epistolario ha anche molta analogia con quello del Brusoni. e continue lagnanze, continue domande, come denotano in quei forestieri molta propensione allo interesse, così nel nostro Governo sregolala am- ministrazione, e poca altitudine a soddisfare agli impegni presi. Erano già scorsi tredici mesi dacché il Mirbello stavasene a Tonno, senzachè nulla SI fosse peranco deciso sul suo stabilimento definitivo, né più volendo egli confidare nelle sole parole , amaiamente cominciava a dolersene col noto marchese di S. Tommaso. DI GAUDENZIO (.I.UÌKT7 A. 44^ Intanto per tarsi qualche merito, chiosava l'opera del Gnichenon, ed invece di encomiarl. Le ripulse avute cominciavano già ad inquietarlo, e nel giugno diri- gendosi nuovamente al ministro, supplicava, che si volesse obbligare il mu- nicipio a restituirgli almeno le carte ed i documenti che avevangli tolti e serbavansi in quell'archivio. E come capita a chi ha torti, frammisti ad alcun poco di ragione, se la prendeva cogli uni e gli altri, né risparmiava i Gesuiti, dichiarando che u per la mira che vi hanno presa per sé vanno studiosi di allontanare dalla mia persona l'affetto della città e non istà bene per niim rispetto una storia dove sono le ragioni della corona ». Ma parlava ai sordi : onde dopo avere esaurito il fondo di ragioni, sfode- rava l'ultimo argomento, lasciando addivedere, che colle spese che erangli addossate doveva pensare ad allontanarsi dal Piemonte e vivere altrove, col che forse credeva di ottenere qualche prò, ma con questo provava di non legger ben a fondo in un certo libro che tengono tutti i Governi. ^(58 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Dimessa dunt[ue l'idea di compilare la seconda parte della storia di To- rino, ed animato ancora da qualche filo di speranza di ricevere, od in una maniera od in un'altra qualche avvantaggio, l'infelice scrittore deci- devasi di tener la via, da altri suoi predecessori e contemporanei pur bat- tuta, avviandosi pel malagevole sentiero di farla da agente segreto di quel Governo, che poco premuroso a favorire i suoi servigi ietterarii, forse sa- rebbe stato men restio a premiare gli altri di tal genere. L'offerta fu ac- cettata, e lo storiografo della città di Torino prese a menar la vita errante, e nel i^gt lo troviamo a Milano tutto intento ad invigilare i passi di un tal Lutens di Bruxelles, che a Torino corrispondeva coi Francesi, e che in quel momento erasi recato a Venezia. Di regola questi agenti segreti, pel servizio che rendono, e pei pericoli che devono superare, sono pngati sul serio di buona moneta; non cosi pare che si facesse col Giroldi, che forse essendosi esibito, si lasciava vivere a stecchetto, onde lo troviaivio di bel nuovo a Torino a lagnarsi amaramente col Governo, che fossegli perfino mancata la stanza, che per generosità della duchessa eragli stata assegnata nella casa del Piccone. E fa ribrezzo lo scorgere, come avviatosi per quel mestiere, esercitas- selo con tutto lo zelo possibile onde ricavarne prò; e nel 1691 dimo- stravasi tutto premuroso e sollecito ad informare il duca , come presso i Gesuiti abitasse l'avvocalo Brunengo, fratello di altro avvocato, domiciliato ad Oneglia, amendue nemici dichiarati del Governo; quindi il cattivello suggerivagli di farli tosto cadere nella ragna, e poi col mezzo dei tormenli trovar mezzo di scoprir complici in una congiura, ch'ei predicava da loro promossa. Senonchè anco nell'esercizio di quel vile mestiere ei non trovò fortima migliore, e sfiduciato all'ultimo segno, il sei di settembre amaramente se ne condoleva col duca, scrivendogli : « Ho venduto sino alla tabacchiera, tolto danaro pii^i volte in prestito, e dato al priore le mie pistole per venti lire che v igliono più di quaranta, per sostener meco due persone le quali hanno come io abbandonato ogni cosa per servire V. A. R. Laonde altro più non mi resta che la vita, e questa siam pronti a sacrificarla al suo real servizio, ma troppo duro ci riescirebbe il sacrificio se la fame ne fosse il ministro, come lo sarà se V. A. R. non si muove a pietà del nostro misero stato ». E cosi il Giroldi conchiudeva pressa poco, come aveva fatto il Brusoni, e la seconda parte della storia di Torino non pubblicavasi che trent'anni DI GAUDENZIO CLARETTA. 4^9 dopo la prima, cioè nel i-jii, per cura dell'abate Francesco Maria Fer- rerò di Lavriano. Questo abate Ferrerò, della famiglia dei conti di Lavriano, è il primo che si trova designato col titolo di economo generale regio apostolico nel 170'j. Lasciò manoscritta la storia dell'economato, in fogli 265, che si conserva presso quell'amministrazione, ed oltre la seconda parte della citata storia di Torino, pubblicò la Scuola del mondo, dedicata alt eccel- lentissimo signor marchese di S. Tommaso e V Angustae regiaeque Sabau- diae domus arbor gentilitìa regiae celsitiulinis T^ictorii Amedei Sabaudiae ducis, che ha un frontispizio istoriato con 33 incisioni del Tasnière. Ancor egli venne incaricato di comporre una storia della Casa di Savoia che compilò in latino, ma il lodato archivista Cesare Felice Rocca scri- veva al duca, che prima di approvare quel lavoro, specialmente nella parte concernente il marito dell'Adelaide, il cui contratto di matrimonio diceva non sussistere, si andasse con molta circospezione per non intro- durre discordanza dall'opinione ammessa dagli altri storici precedenti. Nel discorrere del Giroldi avendo accennato al Tesauro, cui sopra già ebbimo a menzionare parecchie volte , sarà bene di dir qui qualche cosa su di lui. Emanuele Tesauro conte di Salmour, originario di una famiglia fossanese, che già si gloriava di un Antonio, distinto poeta , medico , dotto in bo- tanica e storia naturale, suo bisavo, dell'avolo Antonio, che fu presidente del senato di Torino, e ne raccolse le decisioni, e fratello egli stesso di Ludovico e Carlo, amendue professori di leggi nella nostra Università, era riguardato a Torino, come il primo fra i letterati d' Europa a quei giorni. Se il Rossetti che ci tramandò questo giudizio può avere ecceduto, egh è fuor di dubbio che fu dotto assai, ed ebbe molto acume di mente, an- corché il morbo del seicento, che serpeggiava ovunque, abbia infettato altresì i suoi scritti, ne' quali fra grandi e nobili pensieri fanno trista comparsa gli arzigogoli ed i giuocherelli di parole che erano in uso. Lasciando di qui accennare alle sue composizioni poetiche, latine ed ita- liane, alle sue iscrizioni ed ai suoi elogi, nelle quali fu oltre ogni altro dell'età sua celebratissimo, avvertirò, che come storico pubblicò altresì varii lavori, di cui i principali sono; i campeggiamenti del Piemonte; la storia della città di Torino; il regno d'Italia sotto i barbari. Scrisse pur la mag- gior parte della storia delle guerre civili del Piemonte, il cui primo libro, sebbene fosse pubblicato colla data di Colonia i6i3, lascia però scorgere ^no SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI essersi stampato a Torino. Di quest'opera il Carena lasciò scritto « che abbastanza n'è conosciuto il merito perchè io non mi trattenga qui a farne elogio: solamente dirò che questo celebre scrittore avendo scritto quest'opera, vecchio e con maturo giudizio, oltre alla sodezza del pensare ed alla maestria nel maneggiare i fatti, la scrisse anche con quella nobile semplicità che tanto conviene alla storia, deposta quasi intieramente quella tristezza di stile e quei varii ornamenti di eloquenza e quelle aiTéttate allegorie e poetiche Irasi che tanto gli piacquero nella più fresca età. . . . Non mi pare di troppo lodare quest'opera, dicendo che pare uno dei mi- gliori pezzi di storia ». Ma da questo giudizio del Carena io (leggio scostarmi, poiché questa opera sarà sempre censurabile perchè scritta sotto l' impressione del par- tito a cui apparteneva l'autore, caldo e fervente sostenitore dei principi Maurizio e Tommaso, forti oppositori del Governo della loro cognata Cri- stina di Francia. Basta aprire qualche pagina di quest'opera del Tesauro per riconoscere che questo giudizio non è arrischiato, e se a lui incumbeva di sostenere il ramo del principe Tommaso, cioè il ramo di Savoia-Carignano, ei po- teva farlo servendosi di armi meno ostili ai suoi avversari. Come dicemmo discorrendo del Giroldi , il comune di Torino avea decretato di fare una splendida edizione di tutte le opere del Tesauro, e codesto era un beli omaggio alla fama che godeva quest istorico, il quale da quell'amministrazione ebbe altre insigni dimostrazioni, fra cui cito quella con cui si decise che si dovesse far ritrarre la sua figura, e col- locarne il ritratto nell'aula massìfna, e l'altra che gli conferì il diritto di sepoltura nella chiesa insigne del Corpus Domini. Ma mentre questi par- ticolari vengono ampiamente accennati nella storia di Carlo Emanuele II, qui basterà ricordare, che il patrocinatore di così lodevoli determinazioni si fu uno de' più influenti consiglieri del comune, il referendario Calcagni, dei signori il Cavoretto, socio del collegio di leggi dell'Università di Torino, che c{ui voglio ricordare a cagion d'onore. Fiorì contemporaneo a costoro Francesco Gabriele Capre, signor di Megeva, figlio di Pietro, commissario generale dell esercito di Carlo Ema- nuele I, di cui parlo, ancorché appartenga alla Savoia, perchè di lui esistono alcune lettere inedite nell'archivio di Stato, e perchè, sebben avesse fatti gli studi a Parigi, tuttavia si trattenne assai anche a Torino qual segretario del celebre conte Filippo d'Agliè. Di quest ullizio fu premiato colla nomina DI GAUDENZIO CLARETTA. 4?' a mastro uditore della Camera dei conti di Savoia. Pubblicò il Capre nel 1662 co' tipi del Barbier a Lione Le traile historique de la Chambre des comptes de Savoie, a cui va unito un trattatello sul santo Sudario, dedi- cati amendue alla duchessa reggente che aveva gli ordinato quel lavoro, come riparazione dello scandalo che si volle ritener cagionato dalla pub- blicazione del Bien public di Renato Favre, ed arra di riconciliazione tra il Senato e la Camera di Savoia, da lunga stagione discordi tra loro. Fu un lavoro condotto con tutta prudenza, ed in cui sono innestati i soli documenti che parvero favorevoli allo scopo. Nel i654 il Capre già aveva dato fuori Le catalogne des chevaliei's de lordre du collier de Sa^'oie dlt de t Annonciade. Al semplice catalogo egli ideava di far susseguire una più ampia storia di quell'ordine e nel mai'zo del 1680 avevano compiuta la seconda parte, che mandava alla duchessa Giovanna Battista, con preghiera di farla esaminare, avvisandola frattanto che la terza già era molto avanzata. Il lavoro e l'autore venivano aggraditi, inquantochè nel mese di maggio lo si trova a ringraziar la duchessa della nomina ottenuta di consigliere di Stato. Animato da cosi favorevoli successi, alacre egli proseguiva nell'intra- preso lavoro, e nelle ferie del 1683 la terza parte era compiuta, e trasmettevala a Torino, affinchè venisse approvata, ed ove d'uopo, conse- gnata al palio, ma questo risultato non ottenevasi così facilmente, poiché essendo necessarie delle incisioni, cominciavansi a ponderare le difficoltà: né stimavasi fosse troppo favorevole il parere dato dai deputati ad esa- minare quell'opera, Ira cui cito lo stesso savoiardo marchese di S. Mau- rizio, il quale osservava, che in quanto allo stile, la narrazione teneva né del romanzo né di storia galante, ma che era fiacco, onde non poteva calere molto il pubblicare un lavoro, di cui già era sufliciente un solo sommario. Mori il Capre nel \ •joS, col grado di presidente di camera. Suo figlio Giacinto, mastro uditore di camera ebbe pure a distinguersi pel buon gusto nella letteratura e nella poesia. Onorato delle qualità d istoriografo a quei giorni ritrovo Tommaso Blanc, nato ad Allues nella Tarantasia, secondo una recente storia di Savoia; a Moutiers, secondo il Fichet, magistrato di Gamberi a lui contemporaneo. Il nome del Blanc compare necessariamente in questa serie, ma devesi affermare, che i suoi lavori ben poco corrisposero al grado conferi- Ari 2 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI tt)"li, non avendo essi avuto la l)enchè menoma influenza sullo spirito dei tempi. Qiiest'istoriogralò limita vasi ad un semplice sommano della storia della nostra Dinastia, non corroboralo da alcun nuovo documento, o da benché menoma critica analisi, onde il suo lavoro devesi definire un mero compendio del Guichenon, in cui rinnovò tutti gli errori di questo scrit- tore, che bonariamente riprodusse nella sua compilazione, senza il discer- nimento di vagliare il buono, saperli, o volerli confutare. Sotto qualsivoglia forma di governo accade talvolta che le distinzioni vengono accordate ai meno degni, o per le note ragioni, che qui poco cale di addurre, o perchè non Irovansi consiglieri abbastanza leali ed indi- pendenti che osino, quando ne sono richiesti, di astenersi dal favorire coloro, che talora meri successi, giuoco di fortunate congiunture, ripongono su di uno sgabello. Nel novero di costoro devesi annoverare il presidente del Senato di Savoia Fichet, il quale incaricato di esaminare il manoscritto del Blanc, così scriveva al duca il nove settembre del i6(>7 « Monseigneur, » suivant la commission qu il a plus à V. A. R. faire 1 honneur de m'adiesser » pour voir et examiner l'abrégé de Ihistoire de sa maison compose )) nouvellement par le sieur Blanc de Moutiers, j'ai lu cet ouvrage d'un » bout à l'autre et dans le temps que j'ai eu pour le lire, je nai reinarqué )) aucune chose contro la fidélité de Ihistoire ni contre la réputation de » cotte couronne, la quelle comme toutes les choses du monde ayant été » sujette à divers accidents et revers de fortune, ils ont servi à y relever » Téclat et y augmenter la gioire. Le plus beau de ce traile serait l'his- )i toire de V. A. R. si la suite des actions héroiques quelle fera pendant )) des siì'cles devoir que tous ses sujets lui souhailent et celles qu'elle a » déjà failes au commencemenl de son àge n'étaient si éclatanles et en )) si grand nombre qu'elles ne peuvent élre renfermées dans un abrégé tei » que ccluici, le quel à la reserve de ce que lauleur et moi soinmes » demeurés d'accord de relrancher en peu de mols changés selon mon » faible senliment peul élre imprimé mème dans les présenles conjonctures » où tonte la terre sera bien aise d'étre informée plus particulierement » et pour un brief récil de la grandeur et de la gioire de V. A. R. Le » style est clair, l'expression bonne, les malières rangées et disposées en » bon ordre, mais son plus grand mèrito dépend de lagrément et ap- » proba tion de V. A. R. ». E facile supporre che con questa logica non polevasi ottenere un giu- dizio indipendente sulle produzioni altrui, sol bastando per incontrare ag- DI GAUDENZIO CLARETTA. 47^ gradimento, di encomiare a diritto e rovescio, né andar in cerca di teorie nuove, con cui si temesse di vedere scemato quel prestigio dinastico, che cotanto cercavasi di sostenere. Ma poco ciò caleva al Blanc, che ne percepiva frattanto considerevole favore, poiché ne' conti della tesoreria litrovo an- notate, sotto la data ig giugno 1668, lire i5oo dategli in dono. E pochi fra i libri concernenti la storia della Casa di Savoia contano tante edizioni quanto quest opera, che uscita nel 1668 a Lione fu riprodotta nel iG-'j, poi nel 1778 in Torino. Dopo questo lavoro intitolato al duca, il Blanc fissò la sua dimora stabil- mente a Parigi, dove il 21 maggio del 1680 s indirizzava alla duchessa Gio- vanna per olliirle una storia di Baviera, la cui compilazione diceva essergli stata affidata da quellelettrice, ch'era la nota principessa Adelaide di Savoia. Poi cercando di pigliar vantaggio dalla sua posizione, rivolgevasi di bel nuovo alla duchessa, manifestandole il suo divisamento di compilare un esatto stato della real Casa, delie terre, degli ufficiali, e di quanto giove- rebbe a farne conoscere l'estensione. E mentre chiedeva i documenti e materiali atti a potere scrivere quel lavoro, non desisteva dal far sentire, che quando sarebbesi compilato, egli avrebbe avuto a caro di poter essere ammesso a farne omaggio. Insomma non era per l'incremento e benefizio degli studi, ma sol per l'utile proprio, ch'egli attendeva ad applicarsi a quelle composizioni, da cui poco beneficio dovevasi dedurre. Men rette, e di molto simili a quelle esaminate sotto il precedente Governo col Capriata e col Siri, sono le relazioni mantenute dalla du- chessa Giovanna Battista col nuovo Aretino, Gregorio Leti, nato di fa- miglia bolognese a Milano il 29 maggio del i63o da Geronimo, già consigliere di Stato del granduca di Toscana, e da Isabella Lampugnani. Educato costui presso i gesuiti del collegio di Cosenza, lo zio Agostino, vescovo di Acquapendente, com'è noto, voleva ad ogni conto farlo prete, dal che ei ributtando, diedesi invece per poco alia milizia, e l'Italia di quei di era un campo, del continuo aperto per chi vagheggiasse il mestiere del soldato, ma poi dismise anco quel genere di vita, e viaggiando contrasse dimestichezza con un tal signore di S. Lion, agente al servizio del marchese di Vahivoir, generale della fanteria francese, da cui fu persuaso di cangiar credenza religiosa. Deciso intanto di viaggiare, riscontrò per caso Niccolò Santini, senatore di Lucca, che per ragione di matrimonio recavasi a Parigi. Profittò della Serie II. Tom. XXX. 60 474 S^' PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI sua compagnia, e secolui capitò a Torino, ove trattennesi otto giorni, poiché ivi venne gniziosainente accolto dal Nunzio, essendo il Santini nipote del cardinale Spada. Ma indi tolto congedo dai Santini, mosse alla volta di <^inevra, prendendo alloggio in casa di un casalàsco, il canonico Miroglio, sempre proseguendo nella religione avita, che però apertamente sprezzava. Senonchè recatosi a Losanna, e contratta dimestichezza con Gian Antonio Guerin, medico di molla rinomanza, con lui fermò il disegno di cangiar di religione. Nel marzo poi del i6(>o fissò stabile dimora a Ginevra. In quell intervallo di tempo capitati a Torino i due sindaci di Ginevra, Dupan e Pictet, per le note ditlerenze che quella repubblica aveva col duca, dal Morosini ebbero essi eccellenti informazioni sul conto del Leti, onde al loro riturno procurarongli dal gran consiglio la borghesia gine- vrina, raro favore non mai allora, dicesi, accordato ad italiani. Nella sua dimora a Ginevra coltivò l'idea, che tradusse poi in atto a Losanna, dove si congiunse in matrimonio colla figlia di un medico cal- vinista. Da Ginevra mantenne il Leti relazione con dotti e con ministri di altri governi, avendo pei'ò più a cuore 1 interesse proprio che l'avanzamento degli studi. Copioso assai è il carteggio del Leti esistente presso l'archivio di Stato (i) che comincia ali anno 1677, in cui al 22 luglio condolevasi col marchese di S. Tommaso per la morte allora avvenuta di suo padre, e che non senza ragione veniva lagrimata da tutti i letterati, inquantochè a dir vero il marchese Guglielmo Francesco, come pur dicemmo, era in- clinato a favoriili, di quanto fosse poco disposto il figlio, abbenchè ra- gioni particolari s'avessero a tenersi alletto il Leti, a preferenza degli altri. E per ingraziarsi egli scrivevagli allora appunto di inviargli un libro inti- tolato Il lU'ello politico, diviso in quattro volumi, e nel cui primo tomo discorrevasi con politici riguardi della Casa di Savoia. Pochi mesi dopo, col mezzo ilello stesso marchese di S. Tommaso, mandava alcuni esemplari della sua Italia regnante ed un S. agostino, per oili'ire alla duchessa Maria Giovanna. E per farne desiderare il dono sapeva ben soggiungere: u Questa operetta ha trovato nella maestosa corte di Parigi appresso il generoso pezzo di quel glorioso monarca, col mezzo de miei amici e padroni , quella fortuna che io non ho saputo darle con la penna , e di (I) Storia della J{. Casa, Categoria il, storie generali. Questo epistolario, die pel passato tencvasi in gran riserbo, mi venne additalo dall' ornatissimo collega, coiuni. BlA^rHl, zelante direttore del- l'archivio di Stato. DI GAUDENZIO CLARETTA. 4'- 5 ciò tengo viva testimonianza dalla benignissima mano dell' ecc. signor Colbert in nome regio e da più raddoppiate lettere dell'illust. signor abate Galois (i) che si è degnato con istraordinaria bontà proteggere i miei inte- ressi e lar presentare dal medesimo gran ministro Colbert i libri inviati a S, M., oltre che quei ili. signori accademici a' quali è dedicato il terzo volume m'hanno dato in nome di tutto il corpo cosi favorevole risposta, che mi vergogno farla vedere agli amici stessi senza rossore, tanto è piena di benignissime e gentilissime espressioni. Spero ad ogni modo che non sia per trovar minor fortuna in cotesta Corte dove tutto è reale ap- presso il magnanimo cuore della reale principessa col solo mezzo della generosa benignità di V. A. Io parlo della real Casa di Savoia, non già con quei concetti dovuti al suo gran merito, per non aver talenti uguali al desiderio, ma però alla debolezza dell'ingegno supplisce la sincerità e realtà del proprio cuore. Anni sono che tengo una naturale inclinazione verso le glorie di codesta real Casa e Corte, e cosi l'ho fatto conoscere al mondo con termini disinteressati in diverse mie operette, tanto col nome che senza, e Dio che conosce le parti piiì recondite dell animo sa se non ho sempre procurato con ogni ardente zelo d'impedire che non si parlasse né scrivesse cosa che potesse ollèndere il minimo servidore di S. A. R. e sempre più con moltiplicazione di zelo procurerò di farlo per l'avvenire né mai desisterò con la penna e con la lingua di celebrare le glorie ancorché infinite ed inenarrabili di detta real Casa e di lutti codesti ze- lantissimi ministri, e particolarmente della persona di V. E., alla quale professo una particolare riverenza, come spero farla meglio all'universo tutto conoscere nelle occasioni che si presenteranno alla mia penna di celeijrare con la stampa l'alto merito dell'E. V. ». Con tale esordio egli corcava di alfezionarsi unicamente la nostra Corte, per nulla dimostrandosi proclive a scrivere una storia, che dovesse cor- rispondere a quei dettami di verità e giustizia, che ne sono i principali cai'dini. Quindi abitando ancora la stessa Ginevra, un anno dopo, ci(jé agli otto di novembre (1678) tutto lieto informava il marchese di San Tonamaso, che essendo stato colà di passaggio un tale di nome Savil , gen- tiluomo inglese, possessore di un manoscritto intitolato Plta ed amori del (1) Giovanni Gai.ois , abaie di S, Martino di Cores , dislinto teologo, matematico e letterato, che per alcuni anni aveva proseguito la pubblicazione del giornale Des Smants , fu uno dei (juaranla dell'accademia francese. ^r6 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI duca Carlo Emanuele di Savoia e della tanto celebre real principessa Cristina^ aveva instato presso il medesimo per ricercarlo di volerglielo vendere, afllne di distruggerlo, come gli riusciva di ottenere, mediante lo sborso di otto doppie, duplicando così la somma, che colui per ottenerlo aveva dato al Falkenon governatore del principe di Brunswich. Se non di titolo, era in realtà un vero agente segreto di Savoia, e nel suo soggiorno a Ginevra dichiarava di vegliare attentamente a che, né colà, né altrove nulla si pubblicasse di contrario agli interessi della Casa ducale. E senza punto prender pensiero né timore, che si avesse a tramandarla ai posteri, univa alla lettera su di un foglietto a parte una quietanza di pagan.ento di venti doppie, che veramente ho trovata spe- dita, essendovene riscontro nei volumi del controllo, colla data i5 no- vembre 1678 (( L. 3oo valuta di 28 doppie per una lettera di cambio spedita per Ginevra pagabile a Gregorio Leti per servigio di S. A. » . Il lucro era l'unico movente di questo disonesto scrittore, e la sua vita di Filippo II fruttavagli il dono di cinquecento doppie, che riceveva nel- l'aprile a Ginevra. Così pure nello stesso iGtq, il 22 aprile si ordinava altra lettera di cambio di L. ni 2 al banchiere Gian Luigi Garagno, per rimborsargli in Ginevra. Poi, mentre poco dopo, in un loglio unito alla lettera del 3 luglio iS'^g, inviava il racconto, che avrebbe inserito nelle sue storie in riguardo del passaggio del marchese di S. Maurizio in Gi- nevra, allorché era stato delegato a condolersi della morte dell'elettore di Baviera, in altre carte faceva destramente intendere i favori che suo- leva ricevere da altri principi, e così dal Granduca di Toscana, che avevalo regalalo di cento piastre fiorentine, in argomento di grazie per la sua vita di Filippo IT, mentre ben da dieci anni usava ricevere da quel principe cencinquanta piastre a titolo di strenna. Le sue lettere non sono che continue satire, che non avrebbero meri- tato risposta alcuna. A Ginevra essendosi Ibrmalo un partito a lui con- trario (e certo era un partito di onesti e savii , spiacenti dell'ospitalità data a quell'inverecondo scrittore), egli tosto ne traeva vanto presso il nostro Governo, a cui voleva far vedere di essere vittima dell'affetto svi- scerato dimostralo alla Casa di Savoia. Partivasi da Ginevra diri"endosi alla volta di Parigi, e infatti da Gex il 12 ottobre /G-jg scriveva che i principali capi di accusa che stavano contro di lui, erano i seguenti: u Per aver dato nel suo Livello politico alla corte di Roma il vero mezzo d'indebolire il partito dei cantoni protestanti e sollevare quello de' catto- DI GAUDENZIO CLARETTA. 4/7 liei; per aver trattato nel suo viaggio in Isvizzera affari di pregiudizio al partito de' cantoni protestanti a favore de' cantoni cattolici , benché sotto apparenza di riconciliazione; per avere scritto nella vita di Filippo II e neUitineiario della corte di Roma, che il titolo di santissimo appartiene al papa, accusando di perversi quei protestanti che non glielo danno; per aver nello stesso Livello politico, nella F'ita di Sisto F e \\&\X Itinerario della corte di Roma qualificato il papa di vero vicario di Cristo, di capo della Chiesa e di padre comune della cristianità; per avere scritto in quel- l'ultimo lavoro, che l'istoria della papessa Giovanna era un'invenzione dia- bolica degli eretici; per avere distolto un tal Francesco Zini, stampatore fiorentino che si trovava in Ginevra, dall'impiegarsi nella stampa d'un'opera contro l'Inquisizione, minacciandolo di farlo sapere al Granduca, e datogli tre scudi per ritirarsi da Ginevra in Lione, col dirgli che ivi metterebbe meglio al sicuro la sua coscienza; per avere scritto nella p^ita di Fi- lippo II, che Calvino aveva formata una religione per politica, accomo- dandola all'umore dei francesi; per aver consigliato un tal signor Gal ministro, nel tempo che si trovava in Ginevra per dare alle stampe un'opera contro i Gesuiti, di non farlo perchè al sicuro se ne penti- rebbe, indizio questo ch'egli se l'intende coi Gesuiti; per avere in tutte le sue opere qualificato i protestanti col titolo di eretici, e parlato sempre più in favore de' cattolici che de' protestanti ; per aver definito nella F^ita di Filippo II atto di gran pietà e zelo cristiano l'adorazione del- l'ostia fatta dall' imperador Ridolfo d'Austria, e di più che la gran- dezza di questa casa era derivata da tale adorazione ; per avere scritto nella P^ita di Sisto T^, che nell'elezione del papa aveva parte lo Spirito Santo; per aver obbligato diversi frati che andavano per ritirarsi in Gi- nevra di ritornarsene nel loro convento con esortazioni calunniose alla religione protestante, come se fosse peccato l'abbracciarla; per avere te- nuto corrispondenza con diversi abati, cardinali ed altri ecclesiastici della Chiesa romana ». « Queste sono le accuse che compariscono nel processo, ma in bocca non hanno lasciato di dire nel consiglio, che io tenevo corrispondenza con la Corte di Savoia molto stretta, e che in tutte le occasioni avevo procurato di proteggere il suo partito ed esortato sempre con troppo ardore a dar le dovute soddisfazioni a Madama Reale per non cadere in qualche fosso. Di più che non solo avevo scritto più volte sia ne' Segreti de' principi, sia neW Italia regnante, sia nel Livello politico, con eccesso AnS SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI di loJi della Casa di Savoia, ma di più in tutte le compagnie e con liilli i consiglieri tanto dei duecento che dei venticinque avevo parlato sempre delle feste del duca di Savoia facendolo al doppio piìi grande, e ciò per rendere timidi i cuori de' cittadini nella loro difesa, e ciie di piìi avevo fatto lo stesso nel mio viaggio in Svizzera «. Il consiglio dei ducento intanto aveva pronunziala sentenza del bando dallo Stato, e dannato al fuoco il Livello politico e la f'iUt di Sisto V, che dovevano venir abbruciate dal carnefice sulla pubblica piazza del Molardo. Il fatto è, che visto ed accortosi come volgessero le cose in Ginevra, egli stimava bene di abbandonarla, tuttoché scrivendo a To- rino, allegasse, che il consiglio dei venticinque stava per far cassare quella sentenza ad istanza dei principali ugonotti di Parigi, i quali andavano as- sicurandolo, come egli fosse beneviso a quella corte dai cardinali d' liste e Bonzi, e dal duca di Crequi. E per non iscader dalle grazie della nostra Corte , cui troppo preme- vaeli di tenersi affetta , andava sobillando al marchese di S. Tommaso, che in quella avversa congiuntura egli aveva pur avuto agio di esperimen- tare quanto gli fossero stali alletti i principi di Toscana, Parma e Mo- dena, che anzi questo ultimo avevalo regalato di cento ducati d'argento per alleviarlo dai danni, che supponeva avesse soiferto in cpielle persecu- zioni. Ed è bello lo scorgere la baldanza con cui raccontava il suo viaggio trionfale in Francia, scrivendo che a Dijon aveva ricevuto onoranze tali, da arrossir persino a narrarle egli stesso; che il presidente Migieu avevalo voluto visitar nello slesso albergo del Leon (Foro., che i signori Lautien, Mal tè te e Montagni, principali consiglieri del parlamento, l'avevano accom- pagnato nelle loro carrozze alle case loro, dove era stato tratiato splen- didamente. INJa la conclusione era sempre la consueta, che tutte quelle dimostrazioni erano un nulla, a proporzione di quanto sperava dalla Casa di Savoia, a cui legava ogni suo alletto. Ed il nostro Governo, a similitu- dine di quanto praticava cogli storici di quei tempi, teneva ogni cosa per oro di coppella, od almeno ne faceva sembianza, avendo interesse di aver compre le penne degli scrittori che dovevano narrare nei fasti di Savoia la guerra di Genova del 1672 e le relazioni con Ginevra. Tant'è che non molto dopo il mai-chese di S. Tommaso dimostrava di esser impen- sierito, perchè il Leti destramente avesse lasciato perintendere di essere ritentore di tre memorie manoscritte, l'una che era un sunto di materiali, da lui estratti dall'archivio di Ginevra, la seconda che conteneva notizie DI GAUDENZIO CLARETTA. 479 raccolte da amici, relativamente alla guerra di Genova, e la terza un ma- noscritto che concerneva pure cjuella malaugurata guerra , ed alquanto satirico. E l'astuto scrittore sapeva invogliarne sempre più il nostro Go- verno, dicendo che il Perez ne facesse gran conto. Soggiugneva poi tosto, ch'egli era troppo tenero della gloria della Casa di Savoia, e per debito e per inclinazione, per non mai abusarne. Poi distendendosi vieppiù a spiegare quanto contenevano le memorie da lui raccolte , leplicava , che quelle riflettenti Genova nell' ultima guerra accennata, consistevano in una voragine di scritture e lettere rice- vute da amici per servirsene a tempo e luogo « e se non me ne servirò con i dovuti termini e con le necessarie l'iflessioni sopra le glorie della real Casa di Savoia , lo lascio giudicare a V. E. che son sicuro che col suo nobilissimo animo mi renderà giustizia nel restar persuasa della mia sincera divozione verso la real principessa padrona e verso reccellentissima persona di V. E. ». In quanto alle memorie relative a Ginevia, ei spiegava, che esse con- sistevano sulle guerre, dispute, contese, discordie, pretese e tiattati con- chiusisi nello spazio di due secoli e mezzo tra i conti di Ginevra ed i Ginevrini e tra questi ed i duchi di Savoia: « e questo è molto meglio ordinato in lingua francese con intenzione pure a Dio piacendo di servir- mene ben tosto con gloria e vantaggio della real Casa di Savoia, e questo è stato da lungo tempo in corde il mio scopo ». E moì'e solito conchiudeva con elogi in grado superlativo alla reggente Giovanna Battista, definita u la più prudente, la piìi saggia, la più intrepida, la più benigna e la più accorta nel governo, ed oculata nell'amministra- zione della giustizia che abbia mai regnato ne' principati » . E tale pro- babilmente era il formolario che usava con tutti i potenti con cui aveva relazione. In quel tempo egli alternava il soggiorno tra Boissi e Lione , e da questa città il 25 aprile 1680 per 1 appunto scriveva di star compilando diverse opere, in cui si proponeva l'illustrazione della Casa di Savoia, semprei:hè avesse avuto occasione di parlarne, come avrebbe latto senza dubbio nelt origine e grandezza della real casa di Boi'bone, nelle glorie deU indomabile' regno francese, nella nascita, vita, azioni, governo, pro- gressi, vittorie e fortune di Luigi il grande; e fa veramente raccapriccio il dover leggere queste stomachevoli espressioni: « II secolo è un cielo, del quale il re Luigi è un sole, Madama Reale di Savoia la luna, gli altri AQo SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI principi le stelle ». E su tal modello riporta un periodo relativo alla du- chessa di Savoia, periodo in cui a sua confusione voleva tentar paragone con Semiramide, cogli Assiri e cogli Egizii! Il panegirico non rimaneva fra le tenebre, siccome sarebbesi meritati», ma si divulgava a migliaia di esemplari, ed appena uscito dai torchi sol- lecito ne mandava uno al marchese di S. Tommaso, con preghiera di ofìTrirlo a Madama Reale , poi faceva una spedizione di altre 24 copie , affinchè la duchessa ne dispensasse a persone di suo aggradimento. Con quell'opuscolo d'avventura ei cercava di fabbricarsi una fortima e facevano anco omaggio all'arcivescovo di Lione per mezzo del suo medico, e favorito Falconnet, con raccomandazione del Della-Chaise, fratello del celebre padre Francesco, confessore di Luigi XIV. Soggiugneva pure, scrivendo al S. Tommaso, che quel nuovo suo lavoro era ricercatissimo in Lione, e che veniva sollecitato da molti mercatanti di consegnarne loro delle copie, per poterle spacciare in Italia, ma ch'egli a tutte le dimostrazioni anteponeva quella di una buona accoglienza alla Corte di Torino. Frattanto già era a mezzo novembre , ned avendo peranco ricevuto risposta dal nostro Governo, in riguardo del suo panegirico, cominciava ad inquietarsene non poco, e da Londra il diciannove di quel mese toccavano il tasto, scrivendo alla duchessa, con tutta delicatezza però, né così aper- tamente a mo' del Brusoni. Anzi per ingraziarsi, svelava a Madama Reale di aver avuto lunghe conferenze nel real palazzo con alcuni cavalieri, re- lativamente a quelle contese che erano sorte un dì a Parigi m riguardo alle pretese dell ambasciatore di Olanda, e tosto dichiarava, che a Dio pia- cendo, avrebbe pubblicato quanto prima una esposizione dichiarativa delle ragioni che spettavano alla Casa di Savoia. Ecco l'ampolloso frontispizio che stabiliva per il disegnato lavoro: u Raggi di verità istorica sopra il titolo reale, regie preminenze, e reali prerogative giustamente dovute al- l'immortale merito della R. Casa di Savoia per debito di natura, di reli- gione, d'azioni e di consuetudine. Opera approvata dalle istorie e che per render giustizia alla ragione serve di maggior soddisfazione a quelle invincibili corone che hanno ammesso e che vadano alla giornata ammet- tendo per maggior gloria del regio carattere al godimento delle reali im- munità e franchigie la real Casa di Savoia ». Di Londra faceva ritorno a Parigi, e quinci il dieci ottobre del 1680 scriveva alla duchessa, per assicurarla che non mai sarebbe venuta meno DI GAUDENZIO tLARETTA. 4^ ' la sua propensione inverso di lei, ancorché avesse deciso di stabilirsi in Ingliilterra sotto la protezione di quel principe, Carlo II, che dopo la prima udienza avevagli donato mille scudi, promettendo ancora di eleg- gerlo suo storiografo. E da quella nuova sede, tosto scriveva al ministro per condolersi e rallegrarsi ad un pari tempo della grave malattia in cui era caduto, e del ristal)ilimento ottenuto. Conscio di quanto talora possano giovare certe sdolcinature e certi complimenti, che non sono quasi mai l'espressione del vero, manifestavagli la pena provata dalla sua famiglia all'annunzio di fjuel doloroso avvenimento, e come questa ogni sera si raccogliesse in- sieme per ricordarlo nelle comuni preci e supplicazioni. Poi rassicuravalo^ che nella seconda edizione della sua Italia regnante avrebbe procurato (( di scavar dalle ceneri le virtù di un cosi gran ministro per farlo cam- peggiar di nuovo ali eternità tra viventi ». Ma la conclusione di tutto questo ragionamento c]ual era? Essa ci viene manifestata dal fine della stessa lettera : « Io mi sono risoluto di passare in Londra con la mia famiglia avendo trovato il regno di Francia inutatus ab ilio. Al cardinale di Richelieu essendo stato riferto che U signor di Pelley autore celebre si era fatto ugonotto, rispose poiuvu que sa piume et sa langue soient à mon roi, cela me siiffit. Ho speso piìi di ducento doppie in viaggi, dimora nella corte e regali di libri a principali signori, tanto ecclesiastici che secolari, ed in sostanza non mi fu dato mai ima minestra di cavoli, ma bensì un amplissimo giiirdino di belle parole. E vero che il signor duca di Monastier gran protettore de' letterati mi regalò , condusse più volte in caiTozza e raccomandò sentendo dispiacere di veder che le cose se ne andavano in fumo. Non trovai un solo cavaliere, e de' principali duchi che mi parlò un giorno con sincerità e con vero affetto concludendo le precise parole: Signor Leti, mentre la borsa sarà tenuta dal signor Colbert non vi è nulla da far in Francia per gli autori benché celebri. Scrivo in confidenza e basta che pertanto avrò di continuo al cuore ed alla lingua le glorie di S. A. R. n. A confutazione però di tutù gli elogi dati dal Leti al S. Tommaso, questi, convien ricordare, che non era più dell indole di suo padre, né così propenso a favorire chi a lui ricorresse. Tant'è, che ancor sul finire del 1681, il Leti facevasi nuovamente a ricordargli, che s'aveva ancora a rispon- dere a quel suo panegirico, sebbene non fosse per dubitare di un esito favorevole, stante l'assicurazione che aveva del suo animo, inclinato a Serie II. Tom. XXX. 6i 482 SU[ PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI proteggere i suoi servitori, e specialmente i servitori afFezionati alia Casa di Savoia, fra quali egli vantavasi di tenere il primo luogo. Ma il Leti aveva conosciuto abbastanza bene certi argomenti, che ben diversamente da coloro a cui eravi usanza di nemmen rispondere, egli po- teva esser certo di ottenere riguardi particolari. E quel suo sciorinare, che aveva raccolto memorie in Ginevra, che possedeva certi manoscritti su Genova, fruttavagli la desiderata risposta, giuntagli a Londra nel febbraio di quello stesso anno, e forse accompagnata da qualche dono. Onde, poco conscio della dignità propria, ben poteva scrivere il 3i marzo alla duchessa: (( Le giuro con le ginocchia del cuore prostrate a terra, gloriosissima princi- pessa, che quantunque mi vengano fatte da diversi regii ambasciadori amorevolissime otFerte di protezione in nome dei loro principi, ad ogni modo linclinazione non mi porta ad essere particolare nel servizio e nel zelo che ho verso la sola real Casa di Savoia ». Ed è acconcio il riportar qui un altro non men curioso, non so però se verace periodo, in cui descriveva l'amorevole, ed anche oltre ogni cre- dere, entusiastica ospitalità che godeva sulle rive del Tamigi, dove aveva contratto dimestichezza con quel conte di Castelmelhor, già favorito e primo ministro dell'infehce re D. Alfonso di Portogallo, quindi esule e ramingo presso varie Corti d'Europa. « Per la grazia di Dio, egli scriveva, li ministra e quei che servono S. A. R. possono veder con qual affetto son ricevuto da per tutto e ben visto nella Corte: non ho un momento di tempo a me stesso, se non quello che appHco alla composizione della mia istoria, son costretto di promettere tre o quattro giorni prima per goder l'onore di andar a desinare in casa di padroni ed amici, e benché il signor amba- sciatore Pertengo (i) mi ha fatto la grazia di invitarmi piìi volte e di man- dare in mia casa, ad ogni modo non mi è stato possibile sinora di ricevere che una sola volta l'onore, e due me ne fui alle regie spese. In mia casa ho avuto la fortuna di aver sino a tre ambasciatori in una volta a farmi l'onore di rendermi visita: quel di Spagna, quel di Portogallo e quel di (1) Ercole Giuseppe Ludovico Turinetti di Pertengo, che nel 1077 era stalo nominato cavaliere éel .Senato di Torino, divenuto poi ambasciatore conlìdcntissimo a Vienna. Di lui scriveva il Leti che, sebben giovine, era da tutti assai cordialmente amato, avendo.si saputo guadagnare affetto e stima da grandi e da piccioli, onde il residente di Venezia avevagli detto « che il conte di Pertengo e il piìi giovane di anni di tutti i ministri de' principi in questa corte, ma il più assennato di quanti siano. Il Ro l'ama, e tutti mi dicono che ne parla con grandissima lode, insomma si ha cattivato la benevolenza generale ". DI GAUDENZIO CLARETTA. 4^^ Venezia, e non vi è giorno, quasi, che non mi venga l'onore della visita d'alcuno, per non dir nulla di tanti milordi. Che la mia servitù sia aggra- dita, si può conoscere dai presenti che per la grazia di Dio giornahiiente mi capitano, particolarmente di vini preziosissimi, di formaggi, di butirri, di oho e mille altre cose commestibili in abbondanza dalla parte di co- testi signori ambasciadori ; di più in questo principio dell'anno Sua Maestà mi fece pagare 600 scudi dalla Tesoreria; l'ambasciadore di Francia mi mandò 200 scudi di regalo , cpiello di Spagna 1 80, li due d'Olanda in- sieme 100, il residente di Toscana, quel dell'Imperatore 60, quel di Por- togallo 80, quel di Venezia 4» e altrettanti quel di Danimarca. Questi sono testimoni evidenti che la mia servitù non è disprezzata da cotesti benignissimi residenti , che mi rende tanto più confuso, quanto che per molti dei loro principi non ho fatto mai cosa imaginabile. Intanto per dirla in confidenza, mio benignissimo signor marchese, non posso far di meno di non sentire qualche poco di mortificazione, nel vedermi dalla sola Casa reale di Savoia disprezzato eil abbandonato per cosa di s'i poco rilievo e senza causa : forse che di tante spese che fa la Casa reale di Savoia, nessuna sarebbe meglio applicata per la sua gloria? Scrivo cosi, ma del resto non pretendo stimolare gli animi quando non vi è inclinazione. Ho servito in tutti i rincontri la Gasa di Savoia con ogni maggior divozione e zelo. A questo mi ha portato l'inclinazione naturale: che poi la Casa di Savoia disprezzi la mia servitù, non so che fare, mi lamenterò della sola mia cattiva fortuna che non vuole che il mio zelo trovi gratitudine nel- l'animo regio di codeste Reali Altezze » . Egli non iscriveva il vero, poiché era tutt' altro che inditferente alle grazie della real Casa. Anzi non ultimava la lettera, senza far intendere che stava pubblicando la sua storia, la quale si sarebbe contenuta in tre grandi volumi, ed in cui avrebbe discorso della Casa di Savoia in molti luoghi, e particolarmente in quanto concerneva le regie prerogative. Né tralasciava di mimifestarsi in modo ancor più esplicito, soggiugnendo che avrebbe rappresentato i fatti , quanto più avrebbe potuto onorevoli alla real Casa. E come finalmente deve succedere a coloro che vogliono servire tutti , egli finiva di disgustare ed Inghilterra, che avevagli accordato ospitalità, e Savoia stessa, da cui andava ricevendo continui favori. Nella memorabile sua lettera del quattro giugno i683, scritta al marchese di S. Tommaso da Amsterdam, dove erasi rifugiato dopo le disgrazie capitategli a Londra, A^A SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI accennava a queste sue peripezie: « Non potendo prolungare, egli scri- veva, i tratti della mia penna nella descrizione di quelle particolarità che svegliarono una cosi grave tempesta alla povera navicella della ii)ia istoria d Inghilterra, non avendo mai potuto sapere che in generale quale fosse la natura dei venti, e quando ne parlo ad alcuno o amico o nemico, non sa altro rispondermi che sommamente dispiace quel capitolo della Corte nel quale si lodano con troppo smisurato eccesso nobili e plebei d'ogni sorte e d'ogni sesso che ha dato nausea ad ognuno, quasi che fosse delitto il dir bene di tutti , ma assai mi basta di aver da giudiciosi l'appro- vazione )). Nel modo che a Londra aveva spiaciuto il suo Teatro britannico, cosi pure aveva garbato poco alla nostra Corte, e lagnandosene nella stessa lettera col ministro, proseguiva: «> Ora da pochi giorni in qua mi è stato riferito che nella real Corte di Torino si discorre della mia istoria con sentimenti di mala soddisfazione, e quel che più mi ha mortificato è per quanto intendo che questa voce è corsa sino all'orecchio di Madama Reale, per la cui gloria vorrei piuttosto morire mille volte martire, che aver minimo pensiero di macchiarla n . « Confesso che il corso dell'istoria ha obbligato la mia penna a regi- strai'e gli altrui sentimenti sopra quanto è occorso nell'ambascieria del conte di Pertengo , al quale senza dubbio potrebbono riuscir poco grati molti concetti che non possono rendermi colpevole per non esser per- venuti alla mia volontà. Non nego che non mancano mai colori agli istorici così bene che ai pittori quando vogliono colorire con miniature più lucide le ombre che si trovano talvolta nei ritratti , che in questa maniera si sogliono scrivere le istorie del nostro secolo. L'applicazione non ha bisogno di esplicazione perchè so che la cognizione che V. E. tiene degli affari del mondo l'intende da fondo ». Pentito dell'occorso, e confuso della meritata lezione ricevuta, egli tosto proponevasi di ristampare il suo Teatro britannico e farne tre volumi di due soli ond'era allora composto, proponendosi di usar maggior mode- razione nei concetti che riferivansi all'esclusione del duca di Jork ed alla cattiva soddisfazione di qualche ministro, come già aveva fatto intendere a quella Corte. Così pure assicurava, che in quanto alla menzione della Corte di Savoia, fatta in quell'opera, si sarebbe sforzato a raddolcire qualche termine re- lativo al lodato conte di Pertengo. DI GAUDENZIO CLARETTA. 4^5 Quindi per farsi stimare utile e necessario, nella stessa lunga lettera notificava al ministro, ch'ei stava per dar principio alla pubblicazione del suo nuovo libro, che avrebbe intitolato; Cerimoniale istorico e politico sopra quanto concerne i titoli e diritti legittimi dei Principi, degli uni inverso gli altri, del carattere e ufficio e funzioni delV ambasciatore. Insomma, ei conchiudeva « si può giudicare che in quest'opera che è un teatro generale degli interessi di tutti i principi non mancherà di fare un gran personaggio la rea! Casa di Savoia ». y Il poverino non lasciava alcuna via intentata per assicurare ancora la pericolante sua fortuna , ed in pari tempo facevasi pure ad indirizzare uguale lettera alla duchessa, in cui tracciava un quadro generale de' suoi meriti e riguardi usati sempre verso la Casa di Savoia, che qui però poco giova di esporre particolareggiatamente. Ma la sua caduta era decisa, e c[uesta è l'ultima lettera che esista nel lascio di carte comunicatomi. Campò però ancor a lungo, e morì ad Amsterdam solo il nove giugno de! 1701, di settantun anni. Non è qui il caso di accennare, e tanto meno profTerire un giudizio sulle varie opere scritte dal Leti, e basterà aggiungere, che quella in cui ece special cenno sulla Casa di Savoia è L'Italia regnante, cioè la nuova descrizione dello stato presente di tutti i principati e repubbliche d'Italia, pubblicata a Ginevra nel i6'y5, lavoro che colle debite riserve e cautele si può del resto consultare con frutto per la storia de' suoi tempi , né talor senza diletto. Egli parla del Piemonte, specialmente nella parte se- conda, e dopo aver reso mille elogi ai duchi ed ai popoli lor soggetti, e discorso della costituzione della magistratura, dà questo bizzarro giu- dizio su una delle prerogative dell'antico Senato di Piemonte: « L'elezione dei senatori e presidente si fa in questa maniera: il Senato ne presenta due o tre al duca cioè per ciascuno che manca, e questo poi ne sceglie dei due o tre proposti uno a suo arbitrio e talvolta ributta tutti quelli che appresenta il Senato e ne mette un altro a suo gusto, perchè i soprani vogliono esser soprani ». Poi altrove discorrendo della fortezza dello Stato, con millanteria, ma senza ragione, scrive che « le lunghe guerre, le quali avrebbero impoverito qualunque sovrano non avevano punto danneggiato il Piemonte ». Da questo si scorge abbastanza che il Leti non era informato delle continue suppliche che i poveri comuni dello Stato presentavano per essere sollevati dagli eccessivi tributi, l'agricoltura fruttando poco o nulla, AQQ SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI ed i proprietari sendo orribilmente aggravati ed immiseriti dallo scarso prodotto che gittavano i poderi, carichi di angarie, al punto che molti erano costretti per minor miseria abbandonare patria e parenti. Taccio gli esagerati ed esuberanti elogi che rende in altri luoghi al duca ed alla duchessa, la quale definisce « d'animo veramente angelico, virtù e costumi d'angelo e maniere così reah, che si possono dire impareggiabili »; ed in quanto al duca, dopo una filza di lodi di questo genere, finisce per chiamarlo « un Sole nei consigli, un Cesare nelle solennità e fornito di un genio particolare verso i letterati ». Almeno tempera alquanto lo sprezzo di un altro italiano, di cui sovra, vo' dire, il canonico livornese Rossetti. L'altro lavoro, in cui il Leti si profonda in elogi alla Casa di Savoia, è quello pure, di cui occorre frequente menzione nelle sue lettere, cioè la Fama della fortuna, panegirico sopra la nascita, vita, azioni, governo, progressi, vittorie, glorie e fortuna di Luigi il Grande, che vide la luce coi tipi di Gex nel i68o. Esso è dedicato al duca stesso Vittorio Ame- deo II, del cui ritratto ornò in fronte il suo opuscolo. Ripeto che non è proprio di questa memoria di riandare gli altri scritti del Leti, che l'Argilati annovera a ben quaranta, di cui la maggior parte divisi in pili tomi, e chiuderò questo accenno, osservando solamente, essere cosa notoria la poca sincerità ed inesattezza, da lui quasi sempre usata, e quella sua inclinazione alla mordacità e satira, specialmente contro la Corte di Roma; e basti accennare che la Delfina di Francia avendogli chiesto un dì se fosse poi tutto vero quanto aveva scritto nella vita di Sisto V, ebbe per risposta, che una cosa ben immaginata era migliore ed assai pili pregevole che la verità stessa. Nane erudimini. Men nocive alla fama della nostra Corte sono le relazioni avute pure a quei dì col genovese Irà Francesco Fulvio Frugoni, dell'ordine dei Minimi, il quale però era anco stato tentato nel lato dell'interesse e della corruzione, come chiaramente egli stesso da Genova il i4 dicembre i6'j8 rivelava alla duchessa con queste esplicite parole, con cui ricordando le pro- messe avute dall'estinto duca « non solo per le molte che promulgai nelle slampe d'essa, ma anche perchè richiesto non m'ingaggiassi a scriverle contro, il che da me fu osservato con religiosissima fede, benché con avversione del mio principe naturale sino ad allontanarmi lungamente con dispendio dalla patria. Non interpongo altro intercessore che l'animo così giusto di "V. A. R. promettendole che farò risuonare il grido quando si degnerà qualificarmi come schiavo marcato dalla sua reale grandezza ». DI GAUDENZIO CLARETTA. 4^7 In premio della sua astensione a non iscrivere contro alla Casa di Savoia ottenne di compilare un suo componimento, in cui fece tutto lo sforzo dell'immaginazione per rùnpinzarlo di arzigogoli, concetlini e metafore secentistiche, che ci svela la stessa intitolazione: L Accademia della fama tenuta nel gran museo della gloria sopra la magnificenza dell' J. R. di Carlo Emanuele II duca di Savoia, re di Cipro, ecc. et il merito di Madama Reale suo amore. Torino, 1666. Né più felice fu il concetto spiegato nel ritratto critico che ei dava alla luce a "Venezia nel i66g, e che intitolò al suo protettore, il marchese Carlo Emanuel di Pianezza. E duole il dire che il Governo proteggesse un'opera, la cui parte migliore consisteva nell'indice, ove si può ravvisare qualche conclusione, che non si rinviene in tutti) il corso del lavoro. Di gran lunga più onorevoli sono le relazioni con un degno nostro storico che fiorì a quei giorni, e da cui ottennero proficui risultati gli studi storici. Avendo partecipato più al Governo della reggente che a quello del duca Vittorio Amedeo, l'insigne storico di Nizza, Pier Gioffredo, qui pertanto consacrerò alcune pagine a discorrere di questo benemerito cultore de' patrii studi, che per bontà d'animo, schiettezza di principii e veracità di narrazione si avvicina assai, e regge al paragone di monsignor Della Chiesa. Pier GioiFredo era nato a Nizza il io agosto del 1629 da Antonio, sovrintendente alle fortificazioni di quel contado, e da Devota Gerbona. Compiuto il corso degli studi sino alla filosofia, vesti l'abito chiericale, e nel i653 venne ordinato sacerdote. Ma il sacro ministero noi distolse punto dal consacrarsi alla letteratura ed alla storia del paese, attiratovi da note- vole inclinazione, e dal desiderio lodevolissimo di veder illustrati i molti monumenti poco esplicati che esistevano qua e là sparsi nel Nizzardo, e fatti di pubblica ragione i documenti conservali ne' principali archivi. Dopo quattro anni d' indagini pazienti e faticose gli riuscì di far buona messe, e potè pubblicare il primo suo lavoro storico, Nicaea civitas sacris monumentis illustrata, aggiuntevi le Gesta praesulum Cemenelensium et Niciensium, nec non series chronologica abbatum Sancii Pontii. Quest'o- pera racchiude molte notizie su Nizza, sulla sua Chiesa, sui suoi personaggi in ogni virtù eccellenti, ed illustra, senza dubbio quella contrada, che fìi pur teatro di avvenimenti assai rinomati. Nel lavoro poi Ecclesia Inter haereses egli si propose di dare un succinto cenno di tutte le eresie coi principali dissidenti che infestarono la Chiesa. ^88 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Furono quei lavori commendati dai dotti compaesani e stranieri, e posero l'autore in amichevole e scientifica corrispondenza con molti de' scrittori distinti de' suoi giorni, Bouche, Page e gli eruditi autori degli Ada san- ctorum. Per la pubblicazione della sua storia ecclesiastica di INizza egli già era venuto a Torino, dove non tardò a farsi conoscere dal duca Carlo Emanuele II, e con lettere del 20 marzo i663 venne eletto istoriografo, con queste onorifiche espressioni : » Essendo noi informati del talento e capacità del reverendo D. Pietro Gioffredo cittadino di Nizza ed in particolare delle notizie che egli ha di ogni sorta di storia nelle quaU con molta sua lode da molti anni in qua si esercita, ed acciò possi in l'avvenire continuare a pubblico benefizio ed amorevolezza della nostra Corona l'esercizio suddetto, volontieri siamo condiscesi ad eleggerlo, costi- tuirlo e deputai'lo per istorico ordinario della nostra Casa ». Più che l'onore ed il benefizio dell'assegnamento , per uno scrittore sinceramente intento ad illustrare con fecondi lavori il paese, doveva riuscir cara una testimonianza, che mettevalo in grado di poter compulsare e gio- vatasi de' varii archivi dipendenti dalla podestà del Governo, come ce lo indicano le espressioni aggiunte al testo della patente accennata, con cui il principe mandava a tutti i magistrati, ministri, governatori, custodi degli archivi e sindaci tanto di qua che di là dei monti, di riconoscere il Gioffredo per istoriografo ducale, e con questo permettergli il libero accesso agli stabilimenti a loro sottomessi. Ai lavori letterarii intromise altresì gli uffizii del suo ministero, ed accettò la nomina di rettore della parrocchiale di S. Eusebio , patronato della nobilissima casa dei Della Rovere, la quale stava per estinguersi nella per- sona del marchese Carlo e di un suo fratello scemo. Il Gioffredo, essendo d'indole condiscendente, potè appagare un antico desiderio dei padri dell Oratorio, la cui congregazione allora nascente era mollo stimata dai Torinesi, cedendo loro la chiesa di S. Eusebio che era angusta e negletta , e su cui quella congregazione innalzava poi dopo varie peripezie l'odierna chiesa di S. Filippo. Ho, come dico, citato questo fatto, perchè ci palesa l'animo egregio del Gioffredo, che dimostrossi così pronto a spianare quelle difficoltà, che il suo antecessore invece cercava di addensare, impedendo lo stabilimento di un disegno così desiderato dai concittadini. Il duca si servì altresì del Gioffredo in varie missioni affidategli negli anni iG'jo e 1671, commet- tendogh un viaggio in Aosta, Savoia e Barcellona, onde trovo nel set- DI GAUDENZIO CI.ARETTA. 4^9 teinbre 1671 essergli state assegnate L. 3oo a conto delle spese di quel viaggio (i), e nel 16^2 volle onorarlo assai, eleggendolo precettore del principe di Piemonte ^'itlorio Amedeo II, che era intorno ai dieci anni d'età. Come tutti gli altri scrittori, cosi l'esimio nostro Carutli scrisse, non esservi alcun ricordo dei primi anni di quel principe (2}, ma avendo io rinvenuto interessantissime lettere autografe del suo padre, Carlo Emanuele, da queste per l'appunto rilevasi, quanto ardua fosse la missione dell'educatore di un principe, che nell' intelligenza ed in certe inclinazioni, necessarie ad essere sradicate per tempo, dimostrossi precoce, più che qualsiasi altro giovi- netto. E francandolo la spesa, recherò qui per l'appunto un brano di lettera del duca, in cui già dal 16 giugno 1669 scriveva al marchese di S. Mau- rizio « Je commencerai ;\ vous répondre à ce qui me touche le plus, qui » est le prince. Six coups de fouet l'ont déjà changé, et il a perdu » l'excès de sa bizarie. A vous qui dites quii soit plus spirituel , ie ne » suis pas dans ce méme sentiment ». Il marchese di S. Maurizio natu- ralmente rispondeva da Parigi al suo, più amico, che sovrano: « Je l'assurerai » que j'ai ressenti avec douleur que l'on fouette dcjà nionseigneur le prince, » seulement pour le mal qu'on lui fait; ce n'est pas que je ne loue fort » les chàtimens qu'on lui fait pour lui faire perdre son opiniatreté, mais » j'ai peine à croire que l'on lui puisse inspirer le bien et le mal avant » quii soit en àge de le connaitre. Il est bien de lui inspirer la vertu » le plus que l'on pourra, mais les grands coups se devront donner quand » il sera en age de sortir de nuit à l'insu de son gouverneur comnie » V. A. R. faisait pour aller voir les fdlettes, car s'il ressemble à V. A. R. » et sii est de sa vigueur il fera bien du fracas en matière d'amour ». E veramente, come dalla storia del regno di Carlo Emanuele togliesi, ai fu sregolatissimo, e finì per essere vittima di tutte le sue avventure di galanteria , ma essendo qui sull'argomento , non devo tralasciare di muovergli un giusto elogio per l'interesse che prendeva all'educazione del principe e per 1" alletto che dimostrò quando gracilissimo era assoggettato a malattie, che davano assai a temere di una infelice risoluzione. Fra le varie lettere, con cui il povero padre dava sfogo al suo dolore coll'amico S. Maurizio, scelgo questa, con cui il 22 luglio del i66g scrivevagli: « Je » ne saurais commencer cette lettre sans vous parler du prince le quel » a été si mal, que les médecins pour remède donnaient des larmes, et (t) Archivi camerali. — Tesoreria di Piemoalt. (9J Storia del Regno di /'. A., p. 45. Serie II. Tom. XXX. 6a i^QO SUI PRINXIPALl STORICI PIEMONTESI » disaient qu'il falkiit le mettre entre les mains de Dieu, el par un son nii- )) racle, par l'intercession de S. Francois de Sales me Fa redonné la seconde » Ibis et miraculeuseinent, car c'était un petit cadavrc. Je vous laisse à » juger de nion alllixion de toute manière et vous suffit: à catte heure il j) est libre de fièvre et il a été trois jours sans rieu prendre ». Notisi che questa dolorosa incertezza tra un po' di bene e molto di male segui per tutta l'infanzia di quel principe, che per accortezza, per valore e per dispregio della salute e de'pericoli quando il bene della patria richiedevalo, ebbe poi pochi pari. Ad ogni modo difficile doveva essere il compito del GiofTredo nell'at- tendere all' educazione di un principe di tal carattere, né guari secondato dai suoi governatori , conti di Monasterolo e Morozzo . troppo buoni cortigiani di un giovane senza padre, per potersi ritenere accorti istitutori. Comunque, onorifico fu il mandato avuto dal duca, che nel confidar- glielo, encomia vaio, dicendogli: u Persuaso che non meno per le prove che in diverse occasioni nelle quali è stato da noi impiegato ci ha autenticato delle sue virtuose qualità, dottrina, rettitudine ed esemplari costumi, che per le informazioni avute a parte sarà da esso sostenuto un carico di tanta importanza con quel decoro che si richiede ». Ed avendo assai piaciuto il modo con cui iniziò il Gioffredo il suo ufficio: morto a quei di il protomedico Giulio Tonini di Lantosca, anche nizzardo, il quale era pur bibliotecario del duca, si stimò che nessun altri meglio che il GiofTredo avrebbe potuto adempiere a quell'uffizio: quindi il 3i dicembre 1674 veniva eietto bibliotecario, commendandosi assai nell'atto di nomina le belle virtù da lui dimostrate nell' adempiere all'istituzione del principe di Piemonte. Siccome da questo tempo pare che air ufficio di istoriografo andasse unito quello di bibliotecario pala- tino, così non sarà fuori proposito di far qui mia digressione, ragunando in breve alcune notizie, in parte non ancora divulgate, sulla biblioteca ducale, le quali varranno pure a denotare le sollecitudini che i nostri duchi di- mostrarono intorno ad essa, e così la propensione loro a favorire gli studi. Da indagini accurate fatte da Vernazza e Napione togliesi, come già intorno al i433, regnando Amedeo Vili, esistesse presso i nostri duchi una collezione di liijri, a cui ben poteva darsi nome di biblioteca , che poco a poco prese incremento, e divenne stabile sul finir di quel secolo a Ciamberì. Nel breve regno di Filiberto I, che governò dal 1472 al 1482; di un principe dico, che seppe apprezzare quel Ruffino Demorri me- cenate dei dotti, come fu detto nel principio di questo lavoro, la biblioteca DI GAUDENZIO CLARETTA. 49' ducale ebbe a ricevere incremento notevole, siccome lo prova un catalogo di libri esistente agli archivi di Stato. Nei luttuosi anni del regno di Carlo III, in cui Torino fu soggetta a straniera dominazione, la libreria dovette migrare colla stessa famiglia ducale, e fu trasportata a Rivoli, "Vercelli e Possano. Quindi pare che di altra biblioteca voglia accennare Cesare Cesariano, il quale ne' suoi commenti su \itruvio, stampati nel iSai, discorrendo dei frutti dati da quest autore nel costrurre una bi- blioteca, così lasciò scritto: « La biblioteca, cioè la libreria, come è in Papia costituita da Galeazzo Vicecomite, duca mediolanense celeberrimo adunque le provincia si dovessono adottare de grandissima biblioteca siccome in Italia sono Papia, Turino, Bononia , Ferrara, Padova, Pixia, Perusia, Roma et Napoli et altri loci ove si legono la publica lectione de varie et universali scientie siccome in la nostra metropoli mediolanese «. Rassodato lo Stato, Emanuele Filiberto pose mano a riordinarlo anche in quanto alle lettere ed agli studi altenevasi, e così venne da lui pur rico- stituita l'antica libreria, allogata nel teatro, che era Museo in pari tempo e biblioteca, poiché stavano ivi riuniti strumenti ad uso delle scienze, e molte anticaglie preziose, qua e là raccolte. E codesto .si può anche ritenere il nucleo, de' materiali che diedero origine al primo Museo in Torino, poiché tal nome non si sarebbe potuto dare alla raccolta intrapresa da Amedeo, primogenito di Amedeo Vili nel castello di Torino, ove fra il romanzo della Rosa, L'albero delle battaglie, gli Statuti di Vercelli, eranvi un astro- labio; armi di Turchia; una nave d'argento su quattro ruote e simili (i). Governatore a quel teatro era stato preposto da Emanuele Filiberto Luigi Giorgio Molines di Rochefort, che sotto Carlo Emanuele divenne poi con- sigliere di Stato e generale di piazza. E come ne fu il governatore, ne fìi pure 1 architetto, poiché se n'ha menzione nella prefazione all'opera Methodits rustica, pubblicatasi a Basilea nel i5'y6 da Teodoro Zuinger, che avendo intitolato al signor di Rochefort questo lavoro, così ne discorre : «... Museus dixisse videtur accuratam cognitionem, hoc habes cum paucis )i eximium quod cum rerum cognilio sine earumdem constante et nativa » serie manca sit et confusa ad methodum omnia revocare studens, non de » ea otiose disputando, sed toties quantacumque illa esse potest philosophiae (I) Di tal opinione non e Teodoro Mommsen, il quale nelle sue Insciipliones Galliae Cisalpinae latinae, \oluine uscito in questi giorni a Berlino, scrisse, che cadde in errore Carlo Phomis coll'as- serire, clie quel museo si fosse costituito da Emanuele Filiberto, atlribuendolo egli invece a Carlo Emanuele, di cui alTanno 1008 il Chiesi scrisse, avere questo duca collocato le lapidi nel giardino da luì costrutto sotto la galleria del castello. Ma gli autori citati n«l testo ci consentono a tenere le nostre opinioni, avvalorate dall'autorità del prefalo Carlo Promis. /q2 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI » praeceptis et exemplis operose illustrando in magno ilio et vario et eru- « dito rerum simul et conceptuum et nominum theatro non fabulosis ima- « ginibus sed historicis simul et theoricis locis, ordine perpetuo Inter se » connexis, admirando, cujus te serenissimus princeps Emmanuel Phili- )) bertus, Allobroguin dux, clarorum ingeniorum moecenas unicus , jam » per aliquot annos architectum esse voluit ut quandocumque ideam ejus )i a te ingeniose delineatam quaqua poUes facundia, directe explicatara >) mecum ipse considero, Martialis illud exclamare libeat: « AUolirogura cedant cuncta amphiteatra theatro, « Unum prò cunctis fama loqualur opus ». Del teatro trovasi altresì menzione con lode nella dedica fatta nel 1572 al duca, da Gerolamo Campeggio, delle rime di Faustino Tasso, ove espone le ragioni che lo mossero a rendergli quell'omaggio. « La seconda, ei dice, è per la grandissima alTezione che V. A. dimostra alle lettere ed ai vir- tuosi, il che ne dà buonissimo assaggio al mondo con tre cose partico- lari che si veggono chiaramente. La prima è il vedere con quanta diU- genza cerchi di adornare non solo la sua magnifica città di Torino, ma tutto il suo Stato d'uomini virtuosi in tutte le facoltà da diverse parti del mondo. La seconda io fa chiaro al mondo di tal nome il felice principio che ha dato a fare quella degnissima impresa del teatro, nel quale in poco spazio d'ore si potrà vedere tutto quello che sarà stato fatto nel mondo dopo che egli ebbe principio in tutte le cose e con tal magistero che ne resteranno in istupore quelli che verranno dopo di noi. La terza è l'aver con tanta riputazione condotta qui nella magnifica sua città quella stampa che fra le italiane ne ha poche o nissuna che gli ponghi il piede avanti ». La magnificenza di Emanuele Filiberto erasi in breve volger di tempo dif- fusa anche in regioni allor distanti, e Benedetto Arias Montano il 27 marzo del 1573 da Anversa mandavagli una bibbia quadrilingue, d'ordine del Re. Questo principe davasi poi ogni impegno per arricchire il nuovo suo stabilimento. E delle sue sollecitudini fanno altresì prova altre spese da lui fatte a tal riguardo (1). (1) ..." Più sculi 50 di 3 lire l'uno pagati al capitano Gio. Antonio de Levo di Piacenza, sergente maggiore della milizia per venirsene in Piemonte et aspellarli S. A. come per il suo mandalo debita- mente firmato e sigillalo, dato in Amburnaj il 22 agosto. - A. S. camerali. Tesoreria generale 1564. ... Più scuti 200 da 3 lire a M. Cristoforo Peraccbia , ossia Centallo, tesoriere del teatro di S. A. per implicarle nelle cose di esso teatro ... - Ib. 1577. ... Più scuti 200 da lire 3 allo slesso per impiegarli nel medesimo. - Ib. 1576. ... L. 300 per la valuta di scudi 100 per spendere per servizio di detta S. A. nel dello teatro. - Ib. 1579. DI GAUDENZIO CLARETTA. 49^ Il bibliotecario di quei tempi, anzi il primo della biblioteca ricostituita, fu Ludovico Nasi torinese, di cui poche memorie ,s'han no nelle lettere date da Emanuele Filiberto in Nizza il primo gennaio del i5Go, ove accennasi allo stipendio di scudi centoventi di camera che aveva il medesimo come scrittore e custode della libreria ducale. E questa qualità eragli pure stata dal duca conferita con lettere dello stesso giorno che dicevano cosi «... A punto si suol dar la cura de le cose a coloro che di esse più si dilettano, come de l'arme al valente soldato, delle campagne al buon agricoltore, e degli edificii al sottile architetto. Per questo conoscendo cpianto voi Lu- dovico Nasi da Torino siate studioso delle buone lettere e vi dilettiate di leggere e di scrivere in diversi bellissimi caratteri le opere dei pili rari autori - E riguardando alle altre belle parti de l'animo vostro per le quali ci siete caro ed accetto, vi deputiamo custode e guardiano di nostra li- breria, volendo che insieme godiate degli tmori e privilegi de li gentiluo- mini e famigliari di casa nostra e de li salarii ciie vi sono a parte stabiliti a nostro beneplacito ». Il Nasi fu solerte nell'esercizio del suo ufficio, onde ben meri tossi che Giovamljattista Benedetti lo nominasse bibiUothecae referiissimae cuslodem. Anche di lui occorre menzione nei conti della camera, nei cjuali ci vien resa manifesta la sua sollecitudine altresì a vantaggio della bilalioteca palatina (i). Nel i5(3o viene anco annoverato quale uno dei fondatori della Compa- gnia di S. Paolo. I\Iolti benefizi ebbe il Nasi dal duca Emanuele Filiberto, che sin dal i556 avevagli accordato il privilegio della stampa per lo spazio di quattro anni delle ordinanze ducali sui prezzi delle vettovaglie ed altre cose al vivere umano necessarie, e ciò in premio delle fatiche da lui adoperate per correggere e fare stampare le medesime. La sua figlia avendo sposato il libraio Andrea Linguardo, il duca donavagli lire ottocento sessanladue in sussidio della dote. . . . L. 600 che sono per allreUante sborsate, cedute a M. Cristoforo Peracchia, tesoriere del teatro, per spenderli ove yli sarà ordinato da S. A. per conto del detto teatro. - Ib. 1579. ... Più per scuti 200 da 3 lire ducali l'uno, pagali a M. Cristoforo Centallo, tesoriere del teatro di S. A., che sono per spendere nelle cose di detto teatro, come più ampiamente si vede per man- dato di S. A., firmalo di sua mano ...» - Ib. 1578. (1) ...«Più per sculi dieci, pagali a messer Ludovico Nasi, custode della libreria di S. A. , che sono tante per far condurre delta libreria da Vercelli sino a Rivoli, che ancora per spese fatte ia tre viaggi ch'egli ha falli d'ordine di S. A. in detta città di Vercelli - 1561. Tesoreria generale. ... Mandato di L. 16 a Luigi Rizzio di Fossano, che gli abbiamo ordinato per la paga di tre carri e bovari che hanno condotto la libraria di S.A. dal detto luogo di Fossano sin qui a Torino, a ragione di libre cinque, soldi nove, denari nove per ciascun bovaro ...» - Ib. /q^ sui principali storici piemontesi Un'altra sua figlia Laura, morta essendo ancor fanciulla nel marzo del 1674, siccome era di mirabile bellezza e di virtià adorna, non pochi verse'^t'iatori fecero eccheggiare le loro cetre di flebili versi, e sulla sua sepoltura, nella chiesa di S. Dalmazzo, veniva apposta acconcia epigrafe, ove s'accennava altresì al suo padre. Ludovico Nasi morì a Torino, prima del dieci aprile del iSSa, e dopo il dieci dicembre del t58i. Né la munificenza del duca venne meno alla sua fioliuolanza. Nel giugno del i5S6 mandavansi a soddisfare alla sua figlia Catterina, consorte del capitano Francesco Ferrerò, trentotto scudi, da tre lire l'uno, ogni anno, sinché fosse rimborsata della dote promessale. Uguale assegnamento facevasi a Geronimo, figlio di Ludovico. Nel i588 poi la Catterina, più non convivendo col marito, dava supplica per aver gli scudi trecento, stati a lei assegnati per la sua dote. Tennero in seguito al Nasi il governo della biblioteca, Francesco Ri- chiardet, di cui il Vernazza conservava un esemplare deWJugusta Tau- rinovum donatogli dal Pingone colla dedica Richiardeto bibliothecae princi- pis pmefecto. S'ha pure, riguardo al medesimo, un ordine del tre settembre del 1567, in cui venivangli assegnate lire seicento ventitre, in deduzione di maggior somma ed in anticipazione di quanto eragli dovuto. Fu dopo il Ri- cardetto deputato a reggere la biblioteca Lelio Scaffa, probabilmente stato pur araldo dell'ordine supremo della SS. Annunziata, di cui si ha menzione in un mandato del dieci novembre i585 « al veadov generale di milizia ed al contadore, ove viene indicato colla qualità di custode di nostra libreria ». Intanto pare che la biblioteca si fosse notevolmente accresciuta, poiché ravvisavasi necessario di trasferirne altrove una parte, come ci rivela que- st'ordine di Carlo Emanuele I del venti aprile iSSa, ove leggesi: « Avendo il ben diletto controllore di nostra camera dei conti messer Claudio Ca- pello comprata la casa che era del conte di S. Trivier, dove è ridotta una parte di nostra libreria, e desiderando ch'essa libreria si conservi senza che si trasmuti per ora altrove, sì per non causar maggiore spesa, come per altri respetti, certificali perciò dall'affettione e i'edel servitù di esso nostro controllore ci compiacciamo eh' essa libreria li sia consi- gnata e dover rimanere nella casa suddetta e conservata durante nostro beneplacito e sino che altrimenti sia da noi ordinato, per il che man- diamo e comandiamo al diletto nostro Lelio Scaffa in poter del quale la libreria si ritrova e a Bartolomeo Cristini per conto degli scritti dell o- pera del teatro ed a qualsivoglia di loro rispettivamente che debbano con- signare e rimettere a detto Capello i libri, volumi e scritture che gh Dt GAUDENZIO CLARETTA. 49^ appartengono e che saranno in poter loro sotto il deljito inventario sotto- scritto di sua mano «. Codesti Scaffa e Capello però sembra che fossero piuttosto assistenti e custodi senza la prerogativa di bibliotecari!, poiché simultaneamente ritro- vasi menzione dell'uno e dell'altro di essi, mentre il Cristini pur lodato fu poi veramente bibliotecario. Di Bartolomeo Cristini s' hanno notizie in una concessione, di cui discor- reremo inferiormente, e che ci pone in grado di osservare che era figlio di Giorgio, e nipote dell'ingegnere Agostino, e di Michela, dei nobili Provana di Carignano. Già nel i56g anmiesso alla biblioteca, come ama- nuense e leggitore, meritò poi per l'affetto che aveva saputo conciliarsi dai nostri principi, di venir nominato controllore delle fabbriche, re d'armi dell'ordine supremo della SS. Annunziata, tra il i585 ed il i5go bibliote- cario, e nel 1594 matematico ducale a luogo del veneziano Benedetti, morto sul principio del i5go. Ed in tal modo fu anche istitutore delle matematiche discipline ai degni figli di Carlo Emanuele I. Ma la pili certa dimostrazione di stima, di cui non ebbe contezza il Vernazza nel suo pregevole elogio di codesto letterato, fu la nobilitazione, che con patenti del 1 5 gennaio 1 597 vennegli accordata dal duca Carlo Emanuele I, e che qui riferisco ad elogio di questo principe, dimostra- tosi come pur dicemmo, né fia discaro il ripeterlo, inclinato a tavorire gli uomini d'ingegno, ed accordare quel premio, che per l'innanzi con- cedevasi piuttosto ai soli guerrieri (i). (1) ... n EsscDflosi fra questi presentato avanti noi il molto diletto e fedele matematico nostro e de' principi nostri amatissimi figliuoli Bartolomeo Cristini di Carignano, il quale sin da giovinezza dimostrò tal volontà ed affezione al servigio del serenissimo, di gloriosa memoria , padre nostro, che conosciuto da Ludovico Uocliefort , medico d'esso serenissimo signore e della serenissima madama Margherita, nostra signora e madre che sia in ciclo, cominciando dal MDr.xx fu adopralo a scrivere e separare distintamente pei suoi luoghi le materie di quel teatro, di tutte le scienze che il detto fu signor nostro padre faceva far sotto la guida di esso Rochofort, ed indi scoperto sua diligenza e fedeltà, a tutta soddisfazione loro e nostra s'introdusse a leggere gli scritti già raccolti in detto teatro alle tavole de' nostri genitori, ed in loro assenza della nostra; mentre piacque al sommo Iddio di conservare quello in questa vita, e poi fu da noi costituito re d'armi dell'ordine nostro della Nunciata, sopranominato Bonnes Nouvelles , con partecipazione e voto de' cavalieri di dello ordine, il primo gennaio 1582, nel qual ufficio ci ha servito ed ancor adesso ci serve onoralamente, sinché compiacendoci giornalmente più della sua servitù, abbiamo ancora voluto adoperarlo, come ancora ce ne serviamo nell'ufficio di custode di nostra libraria e per qualche tempo ancora se ne siamo serviti di controllore delle fabbriche nostre, e finalmente per la morte delti furono Ottonaio e Benedetto matematici del fu nostro signor padre e nostri, avendo provato la sua dottrina in dette scienze l'abbiamo costituito noiruflScio di matematico nostro e de' principi nostri figliuoli , nel quale ci ha servito dal 1590 in qua, e ci serve con tanto nostro contento che meritamente abbiamo d'aver sempre più cara e grata la servitù sua , e per questo ancora che coll'adoprarlo in tanti ufTicii della servitù nostra e così apresso nostra persona già abbiamo fatto segno per le patenti fattegli di quali 496 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Già sul principio del secolo xvii il Cristini era di età molto avanzata, né dovette giugnere all'anno 1608, in cui con lettere date ad Ivrea il tredici di marzo mandavasi al tesoriere generale di corrispondere ogni mese scudi trenta da tre lire per ogni scudo u al nostro bibliotecario il molto diletto oratore D. Carlo Ravano di Cremona ». Come dunque si sostiene l'asser- zione del male informato monaco Rossotti, che disse il Ravano di Saluzzo? Molte sono le notizie non peranco divulgate che hannosi, e del Ravano, e della biblioteca palatina a que' giorni. Era egli filosofo e conoscitore di varie lingue. Alla pagina i55 delle Invetlwe, e prima contro Felice V antipapa, del Poggio fiorentino, egli faceva questa annotazione: k Ego Ca- » rolus Ravanus nolo cum larvis disputare, ncque libi respondere, cum » omnium mortalium sis mendacissimus - Si viveres, pugione te confode- » rem - Sed non miror, quia Plutonis munus est, florentinis largitum, ut » existimationem principum Sabaudiae indefesse parvipendant, sed caveant » ne unum ex his principibus adversus se videat sic gratuni ». Senza dubbio che eravi livore in codeste frasi, ma l'ufficio dal Ravano tenuto a que' dì, può iscusarnelo. D altronde i tempi del Castelvetro e del Caro non erano di mollo discosti. Della capacità sua in filologia ci dà prova il pagamento che venivagli fatto per la spesa de' figliuoli, ai quali insegnava le lingue caldea ed ebraica, e che seguirono negli anni 1619, 1620, 162 1 e 1622. Nei conti camerali ricorre ancor menzione del Ravano per la spesa di dodici doppie di Spagna, pagategli per il costo di una sfera, due globi, un astrolabio ed alcuni liljri acquistati per servizio dei principi, e per trenta sacca di grano barbariato, accordatigli per aiuto di costa. Sotto il governo di Carlo Ravano la biblioteca subì notevoli progressi, che ci vengono palesati da alcuni coevi. Nella dedica della Primavera di Giovanni Bolero, fatta da Alessandro Tesauro al duca Carlo Emanuele I, colla data tre di novembre 160^ leggesi: «Panni di vedere l'A. V. S. nuovo Alcide, riposta la spada vittoriosa, molli anni con sommo valore ma- neggiata, gustare i frutti delle coronale sue fatiche e spendere le ore che dai gravi alfari dello Stato le avanzano in leggere ed ordinare una ric- chissima libreria, così di stampe come di manoscritti. Da sì onorata impresa invitati i beUi ingegni fanno a gara a dedicarle i loro componimenti ». lo reputiamo nobile, tuttavia acciocché la posterità sua si risenta ancora del buon animo nostro Terso di lui, ed esso godendo con più manifesti segni de'primi condegni scmprepiù accresca in animo di perseverare e suoi posteri e successori ed altri siano invitati seguir questo cammino. Per tenor delle presenti. .. dicliiariamo il detto Bartolomeo Cristini per nobile ecc..» - (A. S. Sez. camerale). DI GAUDENZIO CLARETTA. 497 Nella stanza 56 del ritratto di Carlo Emanuele del cavaliere Marino s'hanno questi versi allusivi alla biblioteca: Portico altier fra gli edifizi primi Pur dianzi eretto, opra pomposa e ricca Con pareti magnifiche e sublimi Qui da pianta eminente al ciel si spicca, E qui rapita al predator de' lustri Mille s'plendon d'honor memorie illustri. Nella « Relatione delle feste e torneo e giostra ecc. fatte nella Corte del Serenissimo di Savoia, nelle reali nozze delle serenissime infanti donna Margherita e donna IsaLella sue figliuole, aggiuntevi le feste di Miraflores, Torino 1608 » leggesi a cart. 201 «... Giunti finalmente et ismontati al castello ducale, S. A. accompagnò il signor duca di Mantova nelle stanze per lui preparate, e quivi poco dimorando, che licentiata luna e l'altra corte, con un sol cavaliere che serviva a portare il lume, se ne passa- rono alla gran galleria da S. A. con tante spese e con tanta maestria e con sì bell'ordine ornata e ripiena d'historie e di favole, di Vùm, di scol- ture e di pitture: dove quasi in un picciolo mondo si scorgono nel sof- fitto le quarantotto imagini celesti, al canto del muro nel più alto in bellissime tavole tutta la descendenza di questa serenissima casa, più al basso entro credenzoni messi a oro numerosa e varia e peregrina quan- tità di libri scritti a mano e stampati, e sopra essi alcuni piedestalli pur messi a oro e statue e teste di marmo e meraviglie dell'antichità ». Anche il poeta, conte Ludovico S. Martino d'Agliè, all'anno i6io così cantò di codesta biblioteca nella stanza 54 del suo poema L'autunno: Noce naio al giorno ne già nocente Come dal nome appar, pianta di Giove, Nel porto tronco a sostener possente Ben mille forme effigiate e nove, Hor d'arca effigiata e hor di lucente Tavola, et hor de le non viste altrove Celle dorate, u' '1 mio signor riserba Di dotte carte altrui pompa superba. Quelle carte, dich' io, sì numerose, SI belle, antiche, varie e peregrine. Che da l'eternitate alme bramose Impressero con note auree e divine. Et hor, gran Carlo, tu da le più ascose Parti del mondo porti al tuo confine Carte fasti d'Italia, eterni lumi Di quel splendor di cui te stesso allumi. Serie II. Tom. XXX. 63 4C)8 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Nella cronaca domestica all'anno 1608 di Giulio Cambiano di Ruflìa COSI leggesi parimente della biblioteca palatina: « 1608, principio di gen- naio. Volendo S. A. fare una libreria universale in Torino, mi è stato scritto dal signor Alessandro Tesauro come a tutti gli altri dottori del collegio di dover cosi cotizzato provveder di tutte le opere del Bucleo dottor francese, et ho mandato Jnnotationes in Pandectas quali io aveva restando a provveder de esse et partibus ejus )\ Finalmente accenni) ancora a due passi di lettera, nel 1609 scritta da Aquilino Coppini, professore di eloquenza a Pavia, che così lasciò scritto: « A castro per pomoerium, boreain versus, excurrit xystus sive specula » centum et octoginta passus longa. Cum enim me Garolus Ravana ducis » bibliothecarius eo duxisset vului ambulando dimetiri omnium pulcher- )) rimum locorum, in quo astrologica instrumenta pretiosissima et innu- » merabiles codices cum impressi tum manuscripti nuceis inclusi scriniis » custodiuntur. Haec auro micantia amplis interjecta fenestris, per qiias in » urbem et hortos, prataque Pado adjacentia, atquc in fertiles, qui trans flu- « nien suaviter attollunlur, colles prospectus patet. Imagines heroum et he- )) roinarum Sabaudae domus ad vivum expressae coloribus, signa perantiqua » militiarum doctorumque hominum auratis imposita basibus , astrorum » omnium in suas sedes dislributorum pictura, qua pretiosuni lacunar fulget, » spectantium oculos mentescpie insati;djili pascunt voluptate. Quicmnque » Taurinum veniunt ex finilimis remotisque provinciis, magnum se benefi- » cium accipere arbitranLur, si videndi hujusce loci facultatem impetrent ». Nellaltra lettera il Coppini descriveva in modo ancor più particolareg- giato la magnificenza della nostra biblioteca ducale « ^ erum hoc te for- >) tasse magis afficiet si dixero hodie , me in speculam et bibliothecam » ducis esse ingressum ; quem locum. Deus immortalis ! quam magnificum ! » qiiain regium! quanta librorum copia locupletatum, qua pictura, quibus » signis decoratum! Quidquid excelluit in ter doctos, quidquid inler pictores » et slatuarios, id omne uno ilio loco videtur esse conclusum. Hoc ly- » caeum fornicata contignatione subnixum admiraijili prorsus est structura, » ut ausim allirmare, nuUuni ejusmodi aedificium in toto orbe cum hoc esse » conferendum. In longitudinem excurrit passus centum et nonaginla tegunt » parietes, scrinia nucea, triplicem contignationem divisa, aureis distincta » segnientis. In iis codices, tum manuscripti tum impressi, et pretiosa » mathematicorum instrumentorum supellex. Signa pluiima videas peran- » tiqua e marmore et auratas bases ». Successore a Carlo Ravano, nell'ufllcio di bibliotecario, fu Pier Ludovico DI GAUDENZIO CLARETTA. 499 Boursier di Ciamberl , consigliere e medico cubiculare del duca Carlo Emanuele I, che, oltre gli ufficii di protomedico e riformatore dellUni- versità, gli conferì anche la nobiltà ereditaria, si e come aveva fatto per il matematico Cristini. Nella sua qualità di bibliotecario il Boursier non fu privo di gravi disgusti. Già nel 1047 malevoli voci accusavanlo di tlispersione di un'opera, di cui facevasi allora gran caso , siccome quella che aveva costato al duca Carlo Emanuele I ottanta mila ducati. Era dessa il manoscritto del romano archeologo Pirro Ligorio, il quale in circa trenta volumi, in foglio imperiale di carta turchina, aveva compreso descrizioni e disegni di monete greche e romane , iscrizioni e statue. Quest'opera era vagheggiata da quanti erano ammessi a visitare la biblio- teca e la sua proprietà fu di grande costo alla Corte, poiché sovente era chiesta da principi, a' quali per compiacenza se ne mandava una copia, come una ne fu pur domandata dalla capricciosa Cristina di Svezia, ed altra s'ebbe altresì il cardinal Mazzarino, il quale, abusando dello stato di dipen- denza della duchessa Cristina da Francia, non aveva dubitato di doman- dare loriginale stesso, che però saviamente gli fu ricusato. Udiamo ora le lagnanze, che, frammiste alla sua giustificazione, indiriz- zava il Boursier nel 1647 '^"'^ duchessa: « J'admire le plus de ceux qui )) représentent à V. A R. la dispersion du Lygorius, car je la supplie très )) humblement de se ressouvenir que par ordre de V. A. R. le controleur » Amico me le vint eniever pour le remettre avec les copies au libraire )i Tarino, lequel les a depuis deux années serrés dans son colTre, où ils ont )) ctc plus assurees que dans la galerie doutant fort que l'on aye fait des )) violences dans les garderobes pour voir si cette pièce y était comma )) il n'y a pas trois jours que l'on décrocheta des clous et débarra toutes )) les garderobes des histoires à la nuit pour y faire des curieuses recher- » ches. Ce qui ne s'est pas pu faire sans de grands bruits et fracas aux » oreilles des gardes. J assure V. A. R. avoir eu plus soin de ses livres » que de mes propres enfans, si bien je n'y aie trouvé que des mauvaises » gràces et des rebutemens, non obstanl le temps employé à la correction » et direction des secrétaires n. La dispersione del Ligorio, di cui volevasi accagionare il Boursier, doveva imputarsi allo stesso Governo, il quale essendo sempre restìo a soddisfare i suoi dipendenti, aveva indotto gli amanuensi che vi scrivevano attorno, a ritenersi ciascuno la parte dell'opera a loro assegnata, sinché non fossero stati rimborsati di quanto era loro dovuto. Quindi ben con ragione poteva conchiudere il povero bibliotecario: « Voilà la dispersion du Lygorius lequel 5oO SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI )) aurait mieux été pour mei de n'avoir jamais été au monde, ayant été )i faussement imputé d'en avoir traile avec les francais auxquels j'avais tant » d'oljligations pour m'avoir demolì une cassine, et mine ma vigne (i) ». La famiglia ducale però, se mai decadde dalle sue grazie, ripristinavalo fra non molto, poiché il 29 gennaio 1649, sulla sua sola considerazione, stabiliva adi eremitani di S. Romualdo di Busca l'annual donativo di du- cento lire sul tasso di Cavallermaggiore, con questo esordio di patente: « Conciossiachè il magnifico consigliere di Stato e medico di camera di S. A. R. e protomedico generale ne' suoi Stati messer Pietro Boursier si sia reso meritevole presso di noi per molte cause e in diverse occor- renze che ci hanno obbligato a corrispondergli con altrettanta gratitudine quanto è stato il zelo del suo servizio, la qual volendo noi in parte ri- mostrargli col gratificarlo nella persona del suo figlio Maurizio religioso del sacro eremo camaldolese quindi è che ». Se il Boursier ebbe disillusioni, provò anche qualche conforto, come il 29 ottobre i656, in cui ebbe l'onore di essere di guida alla notissima regina abdicataria di Svezia Cristina , che condusse alla gran galleria « dove stava la libreria ducale copiosissima in ogni genere di letteratura sacra e profana manoscritta ed impressa, antica e moderna ed in tutti gli idiomi curiosamente desiderabili (2) ». Il Boursier morì intorno al i658, e sebbene il suo figlio esponendo lo stato miserabile a cui era ridotta la sua casa, chiedesse e supplicasse a quanto pare di essere sostituito al padre , tuttavia non si credette per ragioni a noi non pervenute, di secondarlo in quel suo desiderio. Intanto, da lettera del quattro dicembre del i658, ben si appalesa, come parte degli oggetti e dei libri che stavano nella galleria si trovas- sero a casa sua, senza che se ne tenesse gu.iri conto, poiché egli stesso per sicurezza voleva darne la nota (3). Era la conseguenza di sregolala amministrazione , poiché anco Carlo Emanuele II si dimostrò nel breve suo regno sollecito a far acquisto di libri. I suoi agenti a Roma e Parigi (1) Lettere di particolari. f2) Castiglione. Relazione del ricevimeìito della Regina di Svezia. (3) ... « Dans le tcmps que je désirais les benins commandemens de V. A. R. pour les clefs do la galerie à la mort de nion pi^re, monsieur le prince Filibert les a ictirees avec la noie de ce qui •était transporte au logis à cause de la plnie et pour tonte assurance les principaics sont dcs pa- ralleles, quelque tome du Ligoire, un instrument de mathématique en forme d'une petite épce, un miroir de crislal , quantité de livres de droit et autres avec les armes de V. A. R. et liuit caisses d'immages et livres de musique, dont j'aurai tous Ics soins possildes, atlendant les onlrcs de V. A. R. •. ... (Lettere di particolari). DI GAUDENZIO CLARETTA. 5o r n'avevano l'incarico: anzi ritrovo che nel 1667, accadute le note disgrazie allintendente Fouqiiet, un tal Forest trattava per comprare alcuni libri che facevano parte della biblioteca del ricchissimo finanziere. La scelta del successore al Boursier cadde su altro protomedico, Giulio Torrini, nativo di Lantosca nel Nizzardo, il quale aveva cominciato la sua carriera, coll'essere archiatro del principe cardinale Maurizio. Ammesso poi al collegio medico dell'Università di Torino, in questa professò la prima cattedra di quella scienza. E come lasciò opere edite e manoscritte che dimostrano qual fosse il suo valore in quella professione, così altre sue scritture denotano esser egli stato filosofo, poeta e letterato di merito, ragion per cui non deve parere fuori proposito la sua elezione a bibliotecario. La prima nomina che il Torrini ebbe dal duca Carlo Emanuele II data dal 26 ottobre i65i, con cui riceveva le patenti di primo lettore di mate- matica nell'Università di Torino e blasonatore delle armi ed insegne gen- tilizie, in premio « dell'applicazione sua sino da' teneri anni attorno queste scienze e professioni ». Venne quindi confermato bibliotecario con patenti del due gennaio del i663, ufficio che aveva ottenuto qualtr'anni prima, cioè nel 1G59, come ricavasi dalla narrazione inserita in quelle lettere così concepita : « Avendo quattro anni sono conferita la carica di bibliotecario e custode della nostra biblioteca con tutte le cose ad essa appartenenti, al protomedico e medico nostro di camera Giulio Torrini, con intenzione di provvederlo di un dovuto stipendio, abbiamo pensato, massime che siamo informati pienamente ch'egli abbia fatto non poche spese per manteni- mento e ristoro della medesima di non piili differire nell' assegnargli il medesimo, che perciò riservandoci di soddisfare in altra occasione alle spese suddette l'abbiamo confermato ed in quanto sia di bisogno, di nuovo dichiarato, come per le presenti dichiariamo per nostro bibliotecario » (i). Il Torrini venne investito in contado del feudo di Monastero, e degno ei fu di tante testimonianze d'affetto avute da' suoi principi, poiché gli uflìci aulici noi distolsero da quegli studi, che coltivò sino all'ultimo re- spiro, ond'è che nel 1667 il Rossetti nel suo Sillabo, di lui scriveva: « Vivit doctissimus hic scriptor et continuo sapientiae suae signa permidta » ostendit ». Negli uffizii di archiatro e professore gli succedette il fi- gliuolo Bartolomeo, e d'allora in poi questa famiglia, ch'ebbe ancora il feudo comitale di Quincinetto, sempre fu distinta in elevati uftizii, tenuti sino ai tempi odierni. (1) Archivi camerali. — Concessioni. 5o2 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI In quell'anno i66'j però capitava al Torrini una delle più gravi scia- gure, che possano essere maggiormente sentite dai capi di uno slahili- niento scientifico, alla lor vigilanza affidato, poiché nella cronachetta di Pier Francesco Terraneo, avolo dell'illustre storico Gian Tommaso, leg- gesi: « 1667 a di 6 di dicembre giorno di S. Niccolò in martedì alle ore 4 tli notte s'accese il fuoco nella galleria di S. A. R. : si abbruciò la metà cioè del palazzo nuovo sino alla galleria dove si mostra il SS. Su- dario con morte ed abbrucia mento di molte persone e con perdita di tre guardarobe piene di scritture antiche e di libri, e ciò nel mentre che si doveva fare il znpatos (i) ». Qui poi vuol essere notata altra benemerenza dei Torrini, e special- mente del figliuolo stesso del bibliotecario Giulio Bartolomeo, protomedico generale e conte del Monastero di Vasco, che nelle sue disposizioni te- stamentarie legava i suoi libri alla città di Torino, aflìnchè ne istituisse una pubblica biblioteca (3). Ed essendo sull'argomento, rilevisi altra spe- ciale benemerenza di parecchi membri del collegio medico della nostra Università di quei giorni, sinora non avvertita, i quali si distinsero singo- larmente nella cultura degli studi letterarii. Cito ad esempio la famiglia degli Arpini di Poirino, che rinnovò l'esempio de' Bucci di Carmagnola, e che in Giacinto, Lorenzo Carlo e Giacomo Francesco die' rinomati pro- fessori e scrittori. Anzi quest'ultimo, come ci rivela il suo testamento ine- dito del sette giugno del 1677, era anche un antiquario, ed aveva raccolto con infinite fatiche e studii un Museo in casa sua, lasciando al dottor Gian Lorenzo suo secondogenito « i libri, lavori di pittura e scultura, miniature di basso rilievo, lavori in metallo, pietra, legno, istromenti di matematica, antichità, diversi scherzi di natura ed arti e simili curiosità, e finalmente (t) cioè sorpresa , che per cortesia iisavasi di frequente a palazzo per mcnome cagioni. (2) ... u Le<»o all'illustrissima città di Torino i miei libri di medicina, chimica e matematica, ec- cettuato qualclie pochi che il mio erede troverà a proposito di conservarsi per decoro della sua libreria, i quali voglio che siano compensati con altrettanti e filosoG e umanisti , conforme alla me- moria che io glie ne ho dato, pregando la detta iH.^a città di due cose, la prima di rimettersene per la consegna di essi libri alla buona fede del detto mio erede, il quale consapevole della mia volontà confido che non mancherà di eseguirla; la seconda di perdonarmi se la cosa non corrispon- derà forse all'aspettativa che possa avere d'un nomo tanto obbligalo alla medesima. Esorlo pertanto e consiglio il mio erede infrascritto, quando egli venga a morire senza lasciar figliuoli incamminali alle lettere, di lasciare alla medesima città tutti gli altri miei libri non solo, ma anche quelli che «gli avrà acquistalo, notificandoli che in una città così ferace di buoni ingegni , la maggior parie dei quali si perdono per mancanza di libri e di comodità d'accaltarne, non penso che possa farsi un'opera più pia che di concorrere quanto si può a fondare una pubblica biblioteca per l'uso dei poveri lolterali, il che non può ottenersi salvo che qualche anime pie la radino formando poco a poco ». DI GAUDENZIO CLARETTA. 5o3 tutte le mie medaglie di qualunque sorta esse siano, tanto antiche che moderne, tanto le appese al di fuori per ornamento quanto quelle conte- nute nel nuovo scrigno ornato e coperto di legno d olivo. . . con questo però che quanto sopra non possi alienare, né smembrare, e ne tenghi conto come di cose da me cumulale in lungo tempo con grande stento, studio e spesa (i) ». Ma né Bartolomeo Torrini, uè l'antiquario Giacomo Francesco Arpini furono designati a successori del Giulio Torrini, e pare che si comin- ciasse a stabilire la norma che la carica di bibliotecario savesse a con- ferire, come dissi, agli storiografi od archiatri, poiché nel iG'ji , come vedemmo, n'ottenne la nomina il GiolFredo, quindi il biellese patrizio, Giambattista l'antoni, professore di notomia all'Università e medico ordi- nario dello spedale di S. Giovanni, che conseguì le patenti di bibliotecario il primo dicembre del i58i. L'ultimo marzo del i685 Vittorio Amedeo confidavagli la carica di professore di medicina pratica con queste parole: Il Essendo il medico Giambattista Fantoni nostro bibliotecario, dalla lettura di anatomia da lui esercitata per molti anni in questa città con particolare sua lode e universale beneficio, passato a quella di secondo concorrente di pratica, abbiamo voluto testificare la soddisfazione che riceviamo dalle sue virtuose operazioni e la stima che facciamo de suoi talenti col costituire e deputare il medesimo, secondo lettore e concorrente di pratica nell'Uni- versità dello studio della presente città ». Nel i68'y il Fantoni, per obbe- dire al precetto di consegnare gli stemmi gentilizi, provava l'antico uso della sua arma, e dichiarava che il grado di bibliotecario palatino si consi- derava paragonato a quello di gentiluomo di bocca della Corte. Cosi ragio- navasi in tempi di pregiudizii, e pare che un ufficio di suo genere speciale come questo, e d'ordinario frutto delle nobili elucubrazioni dell'ingegno, non si dovesse paragonare con un ullicio di cortigiano, procedente dal caso fortuito di chi si valeva del nascimento per aduggiarsi ad un meschino ozio. Il Fantoni essendo passato nel Delfinato col Duca, mentre stringeva d'assedio Chorges, colpito di febbre maligna, colà lasciò la vita il 22 agosto del 1692 di soli 40 anni. Intanto nella vacanza di quell'ullicio il padre Luigi Sangiovanni, della compagnia tli Gesù, sollecitava perchè venissegli dato successore l'avvo- cato Ferino di Valperga, nipote del padre gesuita Ferino, il quale però non risulla che sia stato eletto bibliotecario. (1) Archivi della Corte d'appello di Torino. Testamenti. 5o4 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Reggendo il Fantoni quell ufiBcio, la biblioteca non fu riordinata, e si lasciò come trovavasi dopo quell'incendio, locchè si riconosce da viaggi d illustri stranieri che lasciarono scritti curiosi particolari sulla medesima. Il celebre Mabillon, nel suo viaggio scientifico fatto in Italia nel i685, essendo capitato nell'aprile a Torino, ci trasmise questa memoria della visita fatta alla biblioteca palatina: « Bibliotheca palatii, inuUis leferta est » codicibus variarum linguarum, sed qui in acervum cum editis comperti » sunt, ob nuperuin incendium quod multos libros corrupit. Inter eos n quos sub auspiciis illustrissimi abbatis Gualterii nobis videro licuit, unum » est opus insigne Pirri Ligorii (i) ». Nel ritorno che faceva il Mabillon di Roma, muovendo nel giugno del 168G alla volta di Francia, sofFermossi nuovamente qualche giorno a To- rino, e nel ricordare l'accoglienza avuta dall abaie de Strada predicatore del Duca, dice di aver esaminato presso i monaci Fogliesi che abitavano il monistero della Consolata, il famoso necrologio di S. Solutore (che ai nostri giorni vide poi la luce ne' volumi dei Monumenta liistoi-iae patriae) a lui comunicato dall' abate Carlo Giuseppe INIorozzo, che occupavasi anche alcun poco di studi storici. E là apprese pure, come lasciò scritto, Insigneni haefeticoi-um bibliothecani qiuie antiquorum J^aldensium erat prope Lucernam igne perisse (2). Dodici anni dopo, la biblioteca veniva fatta conoscere da altro non meno erudito membro della dottissima e laboriosissima congregazione de padri Maurini, Bernardo di Montfaucon, che nel maggio del iCigS intraprendeva pure la sua visita alle biblioteche d Italia. Ecco quanto lasciò scritto della biblioteca palatina di Torino: « Taurinum adventamus, ubi dominum ab- » batem Mezzabarbam, illustrissimi Mezzabarbae comitis filiutn , conve- « nimus. Is, defuncto patre, opus illuni poslumum de nummis graecis » publicandum iilustrandumque cogitabat. Est enim rei antiquariae prae- » sertimque nummariae cum primis peritus. Ad haec coniis ac perurbanus. « Si per eum stetisset, Sabaudiae ducis musaeum et bibliothecam codicum » ad lubitum inspectare fas erat. Veruni monumenta illa nullo ordine « congesta sunt; codices autem manuscripti, qui magno ibi numero sunt w (ad tria millia adesse teslificabatur laudatus abbas) ahi aliis iinpositi, et » parietis more structi, conclavis cujusdam latere occupant. Pari fortuna » usi sunius circa libros Pirry Lygorii, etc (3) ». (1) Iter italicum. (2) Ibidem. (3) Diarium italicum 1711. DI GAUDENZIO CLARETTA. 5oD Più soddisfacenti notizie sulla biblioteca palatina ci sono tramandale dal marchese Scipione Maffei (che parca destinato ad accendere il sacro fuoco della scienza ovunque passasse) in una sua interessantissima lettera ad Apostolo Zeno scrittagli il 26 giugno del 171 i. In essa accenna anzitutto al suo entusiasmo, tjuando giunto a Torino, chiese subito la facoltèi di poter visitare la biblioteca, la quale era in quel momento così ignorata, che gli stranieri anche di riguardo nemmen faceransi ammettere a visitarla. Non accennando punto al bibliotecario di titolo, il Giobbe Fortebracci succeduto al Fantoni, fa elogi di un abate Machet savoiardo « umanissimo gentiluomo, stato pochi anni or sono ministro a Venezia (i), il quale per ordine sovrano va rendendo la sua faccia alla libreria e riordinandola in l'agionevol modo, per fino che il tempo e la pace diano luogo all'esecuzione delle idee che in materia di lettere sono giù qui concepite, per le quali spero che vedremo ancora questa provincia non risplender meno per la gloria degli studii che si faccia al presente per quella dell'armi ». Grazioso vaticinio di un culto italiano, che però non si avverava come vedremo. Ed il Maffei duolevasi che quella biblioteca non conteneva libri mo- derni, al di fuori di una serie di opere di gius pubblico, e specialmente imperiali romano- germaniche molto rare, in Itidia, e la gran bibbia poli- glotta, stampata dal Piantino di Anversa (2). (1^ Canonico Filiberto Machet, che il duca, il 13 dicembre 1703, aveva eletto agente a Venezia. — Archivi camerali. — Controllu. (3) Di cui die notizia I'Andrà nella sua Dissertazione dei (/i'ect giorni, della quale avremo a parlare. (Jucsta lettera dell'illustre veronese è di troppo momento, perchè io abbia a dispensarmi dal ripor- tarne almeno qualclie brano ...« Alla vostra lettera, con cui mi richiedete di qualche nuova eru- dita da questo paese, io credei da principio di dover fare assai succinta risposta, non udendosi qui parlar d'altro che di unir le truppe ed andare in campagna; ma egli è avvenuto poiché io trovi assai più materia di scrivervi di quella a che io potessi por ora adeguatamente supplire. Vero è che le cose da me qui trovale, nuove non sono, ma antiche; io sono certo però che tanto piti vi sarà caro che io ve ne ragioni quanto più antiche sono, essendo per altro, se io non m'inganno, per riuscirvi nuovissima la storia di esse, poiché io non credo che ne voi, ne altri abbiate inteso nominar mai la biblioteca di Torino, ne far menzione de' tesori inestimabili che in essa si racchiu- dono, essendosi all'incontro creduto finora comunemente che questa estrema parie d'Italia fosse atTatto priva di quelle preziose raritii , delle quali abbondano tutto le altre, lo prima di far questo viaggio, ricercando da alcuni Piemontesi se era possibile che in una si grande ed antica Corte non vi fosse libreria, intesi esservi essa molto bene, ma che dopo un grande incendio di 50 anni fa, nel quale tutti i libri erano stati gettati dalle finestre, quelli che si erano potuti ricuperare, non erano più stati posti in ordine, ma stavano in una stanza confusamente. Dimandai come erano legati, e dalla descrizione che mi fu fatta del loro esterno, compresi benissimo esservi quantità grande di manoscritti o almeno di antiche stampe, per lo che mi maravigliai meco stesso, come quegli eruditi oltremontani che hanno fatto il viaggio d'Italia unicamente per fin di studio, e che in queste stanze sono stati introdotti, si fossero potuti contenere dal porvi dentro le mani, e mi deliberai di volerne in ogni modo aver qualche lume. Giunto in Torino, e dato ordine per alquanti Serie II. Tom. XXX. ' 64 5o6 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Successore del Giobbe Fortebracci nell' uificio di bibliotecario si fu Gio- vanni Francesco Verdel, aiutante di camera del principe di Piemonte, elet- tovi il due marzo del i/S'y, ed a cui tenne dietro Ansano Vaselli, nato a Siena il ventinove marzo del 1707, professore di geometria all'Univer- sità, il quale venne nomina'.o biblioteciirio il cinque luglio del 1745, e vi rimase sino al 24 gennaio del 1799, in cui morì. L'Accademia delle Scienze avevalo anco eletto fra i suoi socii. Successe al Vaselli il sacerdote Felice Botta, membro del collegio teologico dell Università di Torino, cappellano della Real Cappella e direttore di spirito del Re. Alla ristorazione del 1814 con lettera del 29 agosto venne riconl'erniato in quell ufficio. Ma i libri che componevano da oltre mezzo secolo la biblioteca pala- tina erano in numero ristretto, poiché buon corredo di essi erasi già dato giorni a quegli all'ari die mi lianno qui condoKo , mi portai alla libreria. Vidi nel primo aspeUo che i libri non più in mussa ne alla rinfusa, ma slavano disposti nelle sue scansie, benefizio che si deve all'applicazione del signor abate Machet savoiardo, umanissimo gentiluomo, stalo pochi anni sono ministro a Venezia, il <[uale per ordine sovrano va rendendo la sua taccia alla libreria, rior- dinandola in ragionevoi modo, perfino a che il tempo e la pace diano luogo all'esecuzione delle auguste idee che in materia di lettere sono già qui concepite, per le quali io spero che vedremo ancora questa provincia non risplender meno per la gloria degli studi che sì faccia al presente per quella delle armi. Osservai loslo che (|uesla biblioteca come antica ch'ella e, e stata assai tempo abbandonala; non ha per ora libri moderni a riserva di una lunga serio di opere di jus pubblico, e specialmente imperiale romano, germanico, le quali in Umilia sono mollo rare. Cavando qua e là più volumi, alquante mi vennero alle mani delle oscure nostre antiche edizioni di Venezia e di Firenze e di Roma, e quantità vi trovai di quelle operette uscile in Italia nel XV secolo e nel prin- cipio del susseguente, che ora son da molti si ricercate, e alcune delle quali si veggono talvolta come vere Fenici (se non che, nome cambiano talora), rinascere in lontane parti, e scosse le Iracìd B rozze spoglie, in bel carattere e fina carta e con vaghe coperte, quasi con aurate piume risplen- dere . . . ". Qui l'illustre autore prende a descrivere la gran bibbia poliglotta ed il Tìieatrum Sta- tuutn R. celsiiudiiiis Subaiijiae, poi intraprende altro periodo che cosi comincia < Ma voi aspet- tate con impazienza che io vi parli dei manoscritti che sono la vostra passione dominante. Io ora non potrò però che dirvcne alcuna cosa in breve e confusamente, perchè per farne un'adeguata relazione vi vorrebbero più mesi, dove io non ho che pochi giorni, e vi vorrebbe mollo sapere, dove io ne ho molto poco. Ve ne ha quantità s'i grande, che ascenderanno senza dubbio ad alcune mi- gliaia, la maggior parte di codici grandi e di importanza, e non pochi di mole si slerniinala, che il cavarli dal suo luogo è assai malagevole, pensate però se vi sarebbe da pescar un pezzo. Da quei ritagli di tempo che ho potuto involare ai miei fastidiosi alTari, io n'ho sacrificato gran parte ad un codice solo, del quale però vi favellerò più a lungo, cioè il libro Sancii Cuiumbani de Bobbio, che lo giudico scritto nel quinto secolo Quantità considerabile si conserva qui parimente di manuscritti ebraici, e ve ne ha con le vocali e senza, e ve ne ha di talmudici e di rabbinici, benché, come è il solito, i più sian bibbie, delle quali alcune senza punti. Ma il forte di questa ibrcriu consiste ne' greci ». Questa è la chiusa principale della letlera ....«Io credo che molto ancora in materia di anti- chità vi sarebbe a raccontare se fosse andato avanti un profondo scavamento principiato mesi sono in .Vesta, dove si cominciarono a trovare antichità e sepolcri e bassi rilievi, e dove si trovarono non poche medaglie, alcune delie quali lio veduto assai bene conservate e non cos'i volgari j)i i;audenzio claretta. 5oy alla nuova biblioteca universitaria, fondatasi quando Vittorio Amedeo II aveva ricostituito quello stabilimento scientifico. La biblioteca reale rag- giimse lo splendore odierno, sol nella metà del nostro secolo, sotto il me- morando regno di Carlo Alberto, per opera dell erudito e coscienziosissimo suo bibliotecario. E poiché discorriamo di biblioteche, non sarà opera sprecata di accennar qui alla biblioteca che aveva il comune di Torino istituito coi lasciti an- zitutto dell' iulanta Maria di Savoia, figlia di Carlo Emanuele I (i) colei, che con non troppo elogio ebbimo a nominare nella Storia della reg- genza, ma che con quest' atto vuol essere condonata di certe sue aspira- zioni politiche. Poi, nel i68'7, il commendatore Gian vintonio Roggiero, mastro uditore della Camera dei conti, originario di Mondovl, lasciava duemila ducatoni per la costituzione di una biblioteca nella nostra città, che doveva essere diretta dal medico Revello, assistito dal gran cancelliere e primo presidente. Ma per varie ragioni, che qui non accade accennare, ogni disegno rimase sfruttato per molti anni (2). Nel 1707 però il Consiglio cominciava a far acquisto della libreria del vassallo, avvocato Gian Michele Perini di Val- perga, ed in seguito a ciò, nel luglio 17 15, aprivasi la biblioteca comunale, di cui primo bibliotecario fu il frate agostiniano, Paolo Pietro Quaglino di Biella. Durò pochi anni, poiché, per secondare il desiderio del re che aveva dato diecimila volumi alla biblioteca universitaria, consegnavasi pure a quello stabilimento la liljreria comimale (3). Dati adunque questi cenni sulla biblioteca palatina , eccoci a compiere le notizie suUistoriografo e bibliotecario ducale, Pietro GiolFredo. (1) Nel leslamento, Il yiugno IGJG, fatto io Roma da questa principessa, leggesi: « Item lascio e voglio che il dello mio erede facci fabbricare una biblioteca in Torino el in vicinanza di S. Dal- mazio, nella quale vi facci comprare et mettere tutte le sorti di buoni libri di tutte le scienze, percliè serva ad ognuno che vorrà andarvi studiare, e massime a religiosi ed a poveri studenti; e di questa biblioteca e libri si dia la sovraintendenza a padri barnabiti di S. Dalmazio suddetto, e di più si fondi un annuo reddito ili ducatoni 340, cioè cento da pagarsi a padri che avranno la detta sopraintcndenza, e li altri 240 per mantenervi tre preti secolari, come voglio che si manten- ghino, i quali abbino cura de' suddetti libri ed assistine a detta biblioteca, cioè ducatoni 80 per ciascheduno annui •>. (2) Vedi l'opuscolelto: La biblioteca civica ili Torino, di Daniele Sassi. (3) Do' libri rimasi alla biblioteca del comune si stampò poi nel 1808 un catalogo: Catalogne de la bibliothique de la ville de Turiti, che si vuol compilato da un tal teologo Cagna. Se il lavoro lascia a desiderare, chi per poco s'intenda di bibliograOa patria, riconosce che fra i libri rimasi al nostro comune eranvi non pochi cimclii. Un'occhiata alla sfuggita mi fece subito ravvisare l'edi- zione del Guichenon, di Lione, Le catalogue des chemliers de l'ordre, del Capre, La l'enaria reale, del Castellainonle, ed il rarissimo Pourpris historique de la maison de Sales. 5o8 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI T favori che il GiofTredo aveva ricevuto, vivendo il Duca, gli furono pro- seguiti dalla reggente Giovanna Battista, che lo volle fra i membri di quella sua Accademia filologica e letteraria , che abbiamo visto , coU'aiuto del Brusoni , da lei fondata , ed in una delle adunanze di quel consesso egli leggeva un suo discorso intitolato : / debiti scambie^'oli del principato e delle lettere. Fece anche parte dellAccadeinia degli Incolti, fondata dall'abate Scoto, la quale noverava il Tesauro, l'Assarini, TArpino, i Torrini, e quell'eletta schiera di eruditi che in Torino coltivavano la letteratui-a. Nel 1688 compariva in Amsterdam la pubblicazione del Theatrum Sta- tiiuin R. celsitudinis Sabaudiae già , come dicemmo, ordinata da Carlo Emanuele II, e ritardata sin'allora per il miserevolissimo incendio a cui fu soggetta la famosa tipografia olandese del Lebleau. La compikizione del racconto, scritto in lingua latina, fu opera del Gioffredo, il quale, se non potè dare che notizie generali, compose però un'opera originale per noi, né scevra di qualche interesse. I meriti del Gioffredo furono ampiamente coronati nel 1679, quando coi favori della duchessa Giovanna ei s'ebbe nel maggio le insegne ca- valleresche dei Santi Maurizio e Lazzaro ; il cpale nuovo attestato forse lo spinse a compulsare l'archivio di quell'Ordine, indottovi dal pensiero di scrivere una storia della religiosa milizia, a cui egli pure era ascritto, e che intitolò Istoria dell'Ordine equestre dei Ss. Maurizio e Lazzaro, in cui si tratta dell'antichità, progresso, decadenza e ristorazione del sacro Ordine di S. Lazzaro Gerosolimitano, e dell'unione a quello di S. Maurizio. Questo lavoro conservasi manoscritto nella palatina di Torino, ma è di poco valore. Pel suo naturale conciliante e mansueto piacendo assai alla Corte, dove mal allignano, e diiFicilmente sono tollerati i genii che dimostrano quella certa indipendenza di carattere, che è sempre un pregio di pochi, giunse ad ottenere segnalate grazie. E cosi le sue occupazioni non consentendogli di trovarsi all'ora della cena alla mensa comune, la pieghevole duchessa con biglietto del 16 aprile del 1678, diretto al consiglio della sua Casa, mandavagli di aumentare al Gioffredo l'annual suo assegnamento in altre lire duecento, le eguali avessero a tener luogo dell'utile che fruttavagli as- sistendo al desco. Forse il nostro storiografo aveva l'inclinazione de' suoi compaesani, pro- pensi assai al tesoreggiare, poiché poco tempo dopo, il venti luglio del 1679, la stessa principessa mandava al consiglio citato, che essendo di DI GAUDENZIO CLARETTA. 5og non picciol momento il servigio che il Gioffredo rendeva alla persona del suo figlio, ella era decisa di dargli nuovi contrassegni di benevolenza, tanto più nell'intento di animarlo a proseguire nella sua missione; onde voleva che venissegli assegnato un inlertenimento annuale di quattrocento lire, oltre i sussidii già da lui percepiti. Pare però che il nostro storiografo non fosse de più facili a venir ap- pagato, poiché alcuni mesi dopo chiedeva che fessegli couimutata la forni- zione della mensa, che aveva uguale a quella de' maggiordomi, in lire 4^0, le quali venivangli concedute. Sicuramente che il Gioffiedo lesinava assai in materia d'interesse, rria è altresì vero che la professione delle lettere non dà mai frutti in para- gone dei disagi e delle avversità, che possano essere compenso all'immenso lavoro; ed il requisito di tranquillo e decoroso stato è senza dubbio in- dispensabile pel maggior loro incremento. Quantunque assai elevato fosse lo stalo che aveva saputo crearsi il Gioffredo, rispettato ed onorato dall'eletta della torinese cittadinanza, e specialmente dalle potenti famiglie dei Beggiami , Lascaris, Buschetti, d'Este, Morozzo, Piossasco, Truchi e Tana, tuttavia, divenuto maggiore d'età il principe Vittorio Amedeo, alla sua cura affidato, sia che ve- nisse meno la lagione del suo ufficio, o la vecchiezza incipiente comin- ciasse a recargli fastidio, oppure non iscorgesse nel regal discepolo tutta quella propensione e gratitudine, che d'ordinai'io non abbonda nei giovani, quanto più elevata è la loro condizione, determinò di rivedere quel patrio lido, che come eragli stato grato ne' suoi anni giovanili, cosi voleva lo ac- cogliesse fra i senili disagi. Dichiarato abate di S. Maria delle Alpi, e commutato il suo benefizio ecclesiastico colla commenda di S. Ponzio, trascorse i pochi anni che ancor gli rimanevano di vita in una amena sua villetta, presso la ridente città di Nizza, ove pose l'ultima mano, ed accrebbe la storia delle Alpi marit- time, monumento insigne che lasciò alla patria sua amatissima, cui seppe altresì giovare , semprechè gli si offrì l'occasione. Ne accennerò un fatto. Quando, in seguito alla guerra scoppiata nel 1689, il famoso maresciallo di Catinat, che fra noi rinnovò le stragi che avevano desolato il Palatinato, aveva nel marzo del i6gi invasa la contea di Nizza; erasi impadronito dei castelli di Villafranca, Montalbano e S. Ospizio, ed aveva stretta di vrgoroso assedio la città ed il castello, che ridotti a male erano per ca- pitolare, il nostro Gioffredo fu uno de' deputati della città per trattare col fortunato maresciallo di Francia la resa alle più miti condizioni possibili 5io SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI Loccliè riusciva ad onore anche del GiofTredo, il quale volle quindi ancora stendere la relazione de' fatti avvenuti durante quelle peripezie. Ma poco sopravvisse a quegli avvenimenti, ed agli undici novembre del 1692 morivasi in età non maggiore di sessantacinque anni, coli animo sereno, e colla fiducia di avere adempiuto onoratamente ai doveri de! suo ministero e del cittadino zelante del vero bene del suo paese. il suo manoscritto della storia delle Alpi marittime, sfidati tempi assai procellosi, si conservò inedito sino ad oggidì, in cui fu giudicato degno di venir pubblicato nei volumi della Deputazione di Storia patria, per cura del compianto abate Gazzera, che secondo l'uso vi inserì una prefazione, contenente molte notizie sulla sua vita, e che ci giovò pure nella compi- lazione di questa Memoria. Quest'opera del GiolFredo ha molti pregi, né vuol essere passata sotto si- lenzio, tanto piiÀ che costò all'autore molta fatica nel raccogliere i materiali per iscriverla, e ben si sa che il Governo di Genova sempre volle negargli le notizie dimandate in servigio della medesima (1). Esordisce l'autore dalla corografia delle Alpi, riportando varie iscrizioni romane, qua e là sparse. Discorrendo de' costumi e delle abitudini antiche e recenti dei popoli che abitavano quella provincia, ne ricorda i pregi e difetti con una certa bonomia e schiettezza, che ben dim)ta non essersi l'autore lasciato un sol momento assorbire dalle idee di stretto munici- palismo. Infatti non ha difficoltà di definire i Nizzardi, suoi compaesani, scaltriti, fatti pel traffico, sebbene non alieni dall'armi e dalle lettere, ma incostanti e doppi. Dipinge gli abitanti di Sospello e Ventimiglin, di bel- l'ingegno, armigeri ed animosi, ma ricordevoli delle offese, quindi man- tenitori di risse e fazioni ; quei delle vicarie di S. Stefano e Barcellona, industriosi, accorti e faticosi. L'intiero racconto poi è scritto con facile stile, scevro dai vizii della corruzione del seicento, né privo di molto interesse per le peregrine no- tizie che racchiude sulla storia di quell'antico contado, sulle sue partico- larità, sulle sue famiglie, sugli uomini distinti che in ogni tempo produsse, e sul commercio marittimo e terrestre esercitato. Il GiolTredo aveva pur coltivate le muse, ed alla nota Accademia degli Incolti \esse alcuni de' suoi componimenti poetici. Nel 1681 pubblicò, de- dicandoli a Vittorio Amedeo, suo discepolo, epigrammi latini, in cui punse sotto pseudonimo, alcuni vani o scimuniti, a' quali garbava di comparire (1) >'ERI, Saggi storici inlurno al Capriata ed a/rAssarino. DI GAUDENZIO CLARETTA. 01 r e di venir riputati dotti, senza mai essersi logorati sui lil)ri. Ed ancorché a' suoi giorni lussureggiasse senza freno una maniera guasta e corrotta quei componimenti vogliono essere encomiati per una cotale festività di pensieri nuovi e non aspettati, e specialmente per una facilità meravigliosa che ben si scorge nell'autore. Non trascorse quasi regno de' nostri principi senza che sorgesse , e si dibattesse la quistione sulla origine e sui diritti da loro pretesi. E così anche riguardo a Madama Reale Giovanna Battista, ci si presenta il giure- consulto Domenico Salomone di Bene, il quale già dal i665 erasi offerto sulle orme del suo compaesano Giulio Cesare Manassero ch'ei chiama « grand' uomo e mio maestro » (i), a confutai-e il più volte citato Gransvin- chello in riguardo alle asserzioni da questo accennate sulla precedenza tra il duca e la repubblica di 'Venezia, del che già ebbimo a discorrere ai tempi del padre INIonod. Ma poi mutato parere, e tacciando lo scritto di colui d'ambizioso, temerario, perfido ed iniquo, decidevasi invece a ri- spondei-gii col mezzo di un trattato legale intiti-ilato De praestanlia Ducis Sabaudiae , che proponevasi di distinguere in tre libri , destinando il primo a trattare della discendenza dei duchi di Savoia dalla Casa di Sassonia; il secondo degli Stati posseduti , valevoli a costituire un regno perfetto ed intero ; il terzo ad accennare alle ragioni del duca sul regno di Cipro. Egli poi, come avviene a coloro che per ascriversi alcunché a merito, non ponderano bene quanto può invece col tempo cadere a loro disdoro, nel 1677 scriveva alla duchessa, che egli era d'avviso di comporre una me- moria genealogica, per provare che Amedeo II era figlio di Amedeo I,.e non di Oddone, come aveva scritto il Guichenon, e senza il conforto di documenti, che non mai avrebbe al certo rinvenuti, opinava che col ra- ziocinio sperava di poter provare la sua tesi. Forse riusciva meglio in un nuovo lavoro, che l'anno seguente avvertiva di aver compilato in riguardo del vicariato perpetuo dei duchi di Savoia, e della superiorità sul feudo di Dezana. Ed ancor qui con una garrulità, pari l'orse alla sua ragion d' interesse, prendeva a spingere il duca a pro- seguire il giudizio, che Carlo Emanuele I aveva istituito avanti l'impera- tore Rodolfo su tal superiorità. E senza dubbio sperava, che, come quel duca aveva dato incarico all'avvocato generale Bagnasacco di stendere un consulto, così a lui venisse conferito pure simile ufficio. (1) Nei libri parroccliiali di S. Agostino, la morie del Manassero, stato pure sindaco di Torino, è indicata cosi : Die 3 octobris 1659 Julius Caesar Manasserius aihmatiis fanwsissimus devote aiinos 6i vixit. Fu però sepolto a S. Domeuico. 5i2 SUI PRINCIPALI STORICI PIEMONTESI E all'uso dei legulei, stuzzicava il duca a dargli ascolto, assicurandolo del buon esito della causa, stante la mancanza di quegli agnati de' Tizzoni, che a lenor dell'investitura di Massimiliano I nel 1610 erano stati chia- mati al feudo di Dezana. Del resto, senz'attendere oltre, offriva un mano- scritto già beli' e composto su tal materia, chiedendo facoltà di poter ac- compagnare a Vienna la marchesa di Rodi, e scriver colà la storia della Casa di Savoia. Né lopera sua era sprecata, poiché il 22 maggio del i683 scriveva, che dopo penoso viaggio di 28 giorni era giunto da Vienna. L'ultima sua lettera del i685 annunziava di aver composto il trattato sul vicariato perpetuo del S. R. I, conceduto ai duchi di Savoia, ed offrivalo alla du- chessa per la stampa. 11 prete Giuseppe Caglieri, nell'ora rarissimo suo racconto storico di Bene di lui lasciò scritto : « Domenico Salomone che dalla cittadinanza di Bene fu proclamato a quella di Torino e passeggia coi lauri in fronte dell'una e l'altra legge quei sacri tribunali in qualità d'avvocato che porta l'ultima mano a quei tomi: De praestantia ducls SabaucUae tractatus ju- ridico-politicus ; De historiis sive quod praebet historia; De favorito prin- cipis; De Augusta. Il secondo de' quali essendo già sotto i torchi della città di Vienna, e vicini gli altri a sottoporsi a quei di Torino, non se ne attendono che lambiccati a prò di virtuosi di nuove e delicate dottrine ». Sebbene a similitudine della duchessa Cristina, Giovanna, nel 1680 ce- desse solo di nome il governo al figliuolo suo Vittorio Amedeo II, pro- seguendo essa ad avere il supremo indirizzo delle cose, che mantenne sino al 1684, perchè accortasi che finalmente il duca già trattava coi suoi confidenti di mettersene al possesso, tuttavia io terrò il 1680 per l'anno vero in cui egli assunse il governo, a lui riferendo la nomina de' due storiografi che fiorii-ono sotto la sua dominazione. (Continua nel Volume seguenle). 5i3 DELL'ESSERE E DEL CONOSCERE STUDII SU PARMENIDE, PLATONE E ROSMINI SI GIUSEPPE BUEONI P. d. M. PROFESSORE DI FILOSOFIA E DI LINGUA GRECA E DOTTORE AGGREGATO DI TEOLOGIA NEL SEMINARIO METROPOLITANO DI TORINO Solo ciò che veramente è, pnò essere oggetto di vera scienza: conosci'biliti ed entità stanno fra loro in ragione diretta : ciò che assolatamente non è , è assolutamente inconoscibile : ciò che tiene nn luogo intermedio fra l'ente e il non ente assoluto, è oggetto di una conoscenza che ha in sé del sapere e del non sapere, e dicesi opinione (SóSa). (Bertiki, negli Atti delia B. Accademia delle Scienze di Torino, voi. a, p. 997). Continuazione, -vedi Volume XXIX CAPO X. Si dichiara la cosa con una sentenza di Aristotele. 217. Aristotele distingue nel 3° de Anima, e. 5, la grandezza e l'es- sere della grandezza, l'acqua e Tessere dell'acqua (ri ixtjiQog, v.m xh [xe~ -{idu dv; » npuiriv oùuiav. Vedi OD i appresso, n. 322, nota 3. (2) Itlte piane dico a mo' di ritraiti e simulacri in pittura. 5i6 dell'essere e del conoscere, ecc. l'essere, in quanto elle esistono in esso d'esistenza assoluta per sé intel- ligibile ... ; la qua! esistenza assoluta come tale è 1' essenza delle cose , e in quanto è oggetto, piglia nome d'idea n. Così per Rosmini l'idea non è il ritratto, ma l'essere della cosa 0). CAPO XI. Si conferma con una sentenza dell'italico Empedocle. 221. Dalle quali cose possiamo anche trar lume a bene intendere la sentenza di un antico sofo italico che Aristotele o non seppe o non volle sanamente interpretare. Empedocle scrisse in alcun luogo de' suoi carmi filosofici ( vers. 32 1- 325, Karsten) che colla terra conosciamo la terra, coli' acqua l'acqua, l'aria coU'aria, ed il fuoco col fuoco (2): le quali parole del filosofo d Agri- gento lo Stagirita intese materialmente come suonano alla lettera , insi- nuando che quegli alla sua volta preso avesse materialmente l'antico effato che il simile si conosce col simile (3) , e però di que' quattro elementi materiali, di cui credevansi composte tutte le cose, aggiuntavi l'amicizia e la discordia, facesse composta l'anima o il principio conoscitivo (Arisi. De Anima, lib. i, cap. 2; Metaph., lib. 2, e 4)- Ma è egli verosimile, osservava il Rosmini fin da quando dettò il Rinnova- mento (p. 586-539, cf. ib., p. 323-324, ^ 47^-47 0» ^^^^ ^^ ""^ materialismo sì sformatamente grossolano, indegno pur d'un bifolco, fosse incorso quel grande siciliano, uomo dottissimo, e che più vale, fiorito dopo Anassagora e dopo le alte speculazioni itali me ? Tanto piìi , soggiugneva poscia con niente pii!i decisa in favore di Empedocle nel voi. 4° della Teos., p. 38 , che si ha da testimonii provatissimi, che, come Platone distingue spesso (1) Vedi più sopra, il capo 1° e capo 2° di questo libro ed in appresso i capi 14-16 seguenti. (2) Tyiirì /J.ÌV y^p yciia'J òit'jjTra/xev, uoaTt o'uòwp, aldipt ò* aWipx Slo'J , àrap Tzvpl nup àtQtiov^ G70p-//ì òè cTopyijv, v£^x05 Si T£ vsi'xet' iupyw. I quali versi cosi leggonsi tradotti in una delle due versioni riferite nel commento di Sin Tommaso {De Anima, lib. 1°, lect.4=): Terram nam terrà, lymphà cognoscimus aquam, Aetheraque aethcre sane, ignis dignoscitur igne, Sic et amore amor, ac tristi discordia lite. (3) Kocl auOivei^ac t; xxi fpoviX-» rv i/ioiu « 3/iOiov (Arist., De Anima, III, 3). DI GIUSEPPE BURONI SiT due mondi, il sensibile e rinlelligibile, cosi pure facevano i filosofi ante- riori, a ragion d'esempio I^iipedocle (<), presso al quale la distinzione tra il mondo M^Qrr.òy e il mondo voì^tov è indubitabile anche per consenso de' moderni eruditi non poco difficili ». Del che cita in nota questa splendida testimonianza dello Stallbaum (in Phaedf. p. 2^6): « Quod quidem dili- genter contemplantibus nobis nunquam dubium est visum quin Plato duos mundos, ut ita dicamus, distinxerit, alterum hunc inferiorem, qui sensibus est subiectus. . ., alterum yor.róv in quo essent species rerum absolutae. Quod ne mireris eum in hac re fabulam t'ecisse, iam ante euni extiterunt philosophi qui vorizóv fingerent mundum . . . Inter eos autem . . . prae- cipue Pvthagorei et Empedocles commemorandi sunt » (21. Onde la interpretazione data da Aristotele di quella sentenza di Em- pedocle è affatto inammissibile. Del che ninno potrei più dubitare chi legga la splendida sposizione che della dottrina di questo antico savio italiano e del suo apoltegma conoscersi il simile col simile dà il Rosmini nel cit. voi. IV della Teos , p. 54-6 1 {Del divino nella natura, num. 4o-4i), all'uopo di stabilire (dice ivi stesso, p. 55) « che anche prima di Platone, e fin dalla più remota antichità, era stato veduto che Puniana mente ha un oggetto immutabile, e non tale che soggiaccia alle vicissitudini de' reali finiti, insensibile, appartenente alle cose eterne, a cui non senza pro- prietà davano la denominazione di divino. Poiché stabilito questo, è con ciò dimostrato essersi conosciuto il punto fermo su cui posa la leva d'ogni umano ragionamento, il seme della dottrina delle idee, che poi da Platone con tanto ingegno fii coltivato, e con eloquenza tanto ma- gnifica celebrato ». 222. Laddove, posto che il filosofo siciliano riconoscesse co' Pitagorici e gli altri italici que' due mondi, l'uno sensibile, l'altro intelligibile, e questo anteriore e tipo di quello : quorilìU illum exeììiplaris (7ic(pc(àst-^IJ.);i;) doll'intelligibile, e puro feno- meno, o ombra dell'idea (Vedi Rosmini, Jrist. Esam., p. 99, nota 2, p. 347, nota 2). Che anzi lo stesso Aristotele , quando s' innalza a concetti più elevati, non riguarda il sensibile che come l'accidente degli enti, il fenomeno, cioè l'apparente (tò faivó/xevov,), e l'essere delle cose (rè à>>i9uj cTvai) ascrive solo all'intelletto (Rosmini, Arisi. Esam., p. 185, SIO, 221, ecc.). Serie II. Tom. XXX. 6d 52 2 dell'essere E DEL CONOSCERE, ECC. che ne fo qui , e alla maniera di esprimerla o di riguardarla , dallo stesso Rosmini. Del che ecco la ragione. Il filosofo roveretano , come è noto , suole esprimersi ben delle volte così che queste sieno due delle tre forme categoriche intime ed ine- renti air essere stesso , il quale sia tutt insieme ideale , reale e morale. Ora a me pare di dovere far qui un' altra distinzione importantissima dell'ordine intrinseco e dell'ordine estrinseco dell'essere, la quale mi è ragione, come dissi, di abbandonare o modificare alcuna volta le espres- sioni del Rosmini che pur seguo. Se le due forme ideale e reale sieno proprie ed intrinseche all'essere stesso, è quistione che eccede il presente stato della trattazione , e mi ris'^rbo di ricercarlo nel seg. libro teosofico. E può ben essere che il grand' uomo, portato dall'altezza dell ingegno e della speculazione, abbia scambiato talvolta, per ciò che spetta ad alcune parti e torme ed espres- sioni che restano secondarie ed accessorie al sistema, quella che io chia- merò trinità neWessere ( recondita e intrinseca) con quella che chiamerò dualità dell' sssere ( estrinseca e creativa ) >') ; la qual seconda , benché analoga ed affine alla prima, pure ne è difierentissinia : e che perciò la sua maniera d'esprimersi sotto questo rispetto cada essa pure sotto quella specie di correzione , per cosi chiamarla , che ho già altrove più volte proposta e dichiarata (vedi lib. 2°, cap. 5; lib. 3°, cap. 8; Prelim. § V). Ma la distinzione di forma 0 modo d'essere ideale e reale, intelligibile e sensibile, che accadde fin qui e ancora continua a questo punto della trattazione (e la quale è essenziale alla teorica rosminiana della conoscenza), non è quella forma di distinzione che è intrinseca ali essere stesso, ma è sola quella che spetta alle cose vedute nell'essere, che partecipano del- 1 essere , e nell' essere e per l' essere son conosciute e percepite , ma sono termini estrinseci di lui, come le chiama acconciamente il Rosmini. Le quali si trovano esistere in due modi ; cioè in idea e nel fatto : e di questa sola distinzione d ideale e reale io intendo parlare al presente (vedi sopra, Pief., § V, nota ultima). (1) A questa guardò priucipaimcnte il Gioberti, e fu bene : senoacliè, come vedremo a suo luogo, non badò abbastanza alla ragion creativa che precede logicamente l'atto crealiTo. Alla ragion crea- tiva spetta l'idea del possibile che giustamente il Rusmioi antepose alla percezione della realità dei finiti; alla «piai ragion creativa, logicamente anteriore all'atto creativo, se più avesse posto mente il Gioberti, come pure fa talvolta, i due grandi filosofi si sarebbero trovati d'accordo; o per meglio dire, il secondo non avrebbe avuto ragione di mettersi in disaccordo dal primo. DI GIUSEPPE BURONI SaS 226. E, prescindendo per ora, come dissi, dalla quistione se le due forme ideale e reale sieno proprie e intrinseche all' essere stesso : dico esser certo ch'elle convengono alle cose le quali partecipano dell'essere, e mediante l'essere son conosciute e percepite. Perocché altra è la forma o il modo d' essere della casa nella mente dell'architetto che l'ha ideata, ed altra è la forma o il mudo d'essere della casa composta di pietre e mattoni che abito ; sebbene anche la prima inchiudesse in idea le pietre e i mattoni di questa, e non sieno già due case, ma la stessa casa in due forme O: onde, siccome notali Rosmini l'architetto dice egualmente al signore mostrandogli il disegno del palazzo da costruire : questo e questo è il palazzo che voi farete fabbricare, come dopo costrutto gli dice : questo e questo è il palazzo che voi volevate ed io vi aveva ideato e disegnato, adoprando lo stesso vocabolo perchè iden- tica è V essenza del palazzo preveduto nell'idea, e Y essenza di quello che vedesi cogli occhi nella realtà {Lez. filos., ^. ^o-^i). E similmente altra è la forma intelligibile che ha nella mente il fiore pensato, ed altra la forma sensibile del fiore che tengo fra le mani e odoro : eppure il fiore che penso ed intendo colla mente è quel medesimo che odoro e di cui parlo e mostro col dito; altrimenti tra l'uno e l'altro ci sarebbe un dissidio inconcilia- bile (2). Ed anche il pii'i rozzo e semplice contadino, osserva il Manzoni sa dire, innanzi che il grano sia nato, questo campo mi potrà dare tante misure di grano, sebbene quel grano noi veda o tocchi o misuri; e matu- rato che sia, vedendo le messi biondeggianti, o avendo già il grano sull'aia e misuratolo, dice , quest' è appunto il grano che mi aspettava, sapendo egli, sebbene non sappia di saperlo, che l'idea del grano o il grano in idea non è nel modo del grano reale, ma pure è ; e che il grano pensato e ideale ed il grano veduto e toccato, cioè reale, è lo stesso identico grano, ma sotto le due forme, molto diverse i' una dall'altra, dell'idea e della realtà [Dial. dell'Invenzione, p. 744-742, ed. di Napoli). (1) Nel libro leosoQco vedremo clic queste due forme d'essere i soli cristiani distinsero dello cose tutte mondiali secondo che sono nel Verbo o nella Mente di Dio, e secondo che sono in gè medesime; e la prima forma d'esistere non è piii superCciale della seconda, anzi più piena e più solida e più vitale: sendo invalsa appo loro come assioma la formola di Agostino, Anselmo e Tom- maso che res verius sunt in f^erbo, quam in seipsis. (2) Quesfè il dissidio che non seppero comporre i megarici, nel che consiste il difetto precipuo della loro dottrina. E l'averlo conciliato è invece il merito precipuo della dialeUica di Platone. Vedi «opra ciò Rosmini, Teosofia, voi. 4°, pag. 400 e seg. (Trattato dell'Idea, parte II, capo 2» : Esposi- zione della dispula tra gli elealici e i megarici dall'una parte e Platone daWallra). Il qual capitolo mi rincresce di non poter qui riprodurre per intiero. gai dell'essere e del conoscere, ecc. La qual distinzione di queste due forme ideale e reale delle cose nel- l'identità dell'essenza, mirabile cosa è quante volte e in quanti modi e con quanta luce 1' abbia illustrata il Rosmini ( vedi per es. le due belle lezioni I" e 2' Ira le sue Lez. filoso/. , p. 5-48), e mostratala conforme al senso comune e alla verità : sicché non dovrebbe omai più esservene alcun dubbio. 227. Il fatto è certamente assai misterioso , ma non per questo si può negarlo, perchè d" irrefragabile verità, e sol degno dell'attenzione del fi- losofo. Aristotele distinse due elementi: la cosa e l'essere della cosa. Em- pedocle pose una terra intelligibile ed una terra sensibile, e così dell'altre cose, cioè la stessa essenza cittadina di due mondi. Queste formolo furono una specie d'indovinamento del vero. Noi ravvisiamo qui col nostro filosofo che l'essere per sé intelligibile ha la virtù magica, non di trasformare i sassi in uomini, come favoleggiarono gli antichi, ma, che è molto più, le cose caduche in idee ed essenze sempiterne, ed il non ente in ente. L'essere è tutto, e divien tutto W , e s' impronta di tutto cui si unisce e si coniuga nella sintesi della mente (2^ ; e tutto cui tocca , in se stesso il trasforma elevandolo al mondo intelligibile, metafisico e sempiterno, non lasciandone fuora che la spoglia caduca e peritura: esso è forma e vita intelligibile ad ogni cosa. In ciò consiste il prestigio dell'ideazione. CAPO XIII. Vero concetto delle idee platoniche, e obbiezioni di Aristotele: non si duplicano le essenze delle cose, ma l'essenza una d'ogni cosa è in due modi. 228. Onde si può trarre il vero concetto che convien farsi del plato- nismo e la natura vera delle idee platoniche , la quale Aristotele non giunse mai ad intendere appieno per essergli mancata questa luminosa distinzione dell'ideale e reale, e non aver penetrata coll'acuta mente questa medesimezza di una stessa cosa ed essenza in amendue le forme. (1) Niuno di quei che sono avidi di panteismo e lo trovano dappertutto nelle altrui scritture, voglia intender qui ne che naesVesseie, del quale parlo, sia lo slesso Dio (e quanto sia da meno vedremo nel seguente libro teosofico), ne che questo divenire solo dialettico, da me più volte spiegalo , sia quello di Hegel. Per alcuni, come dissi già altre Tolte, converrebbe esser l'i a ripeter sempre la stessa cosa con in&nita noia dei lettori, e non basterebbe. (2) E si noti ancora ciò che dicevam già le millanta volte, che la sintesi non è immedesima- meoto, ed anzi è una diade di due elementi ìnconfosibili. DI GIUSEPPE BURONI 525 229. Nelle principali obbiezioni, per es., che lo Stagirita tratta ex pro- fesso contra le idee nel vi (vii) de' Metafisici, cap. i4 e i6 (y.xzo!. tmv ras tùia; leyóvzav ovaia; re xat ya>pi<7zàg ehxt afi.a) , e di nuovo nel xn (xiii), cap. 4; 5 e 9 (óu od i$iai où-a etit), egli muove sempre dal sup- posto (come ben riflette il Rosmini ueWy^rist. Esani., p- 217 e seg.) che Platone , col dir le idee separate da' sensibili , ponesse che quelle fossero essenze separate dalle essenze reali di questi , sicché si avessero di ogni cosa due essenze, luna di costa all'altra; quella chiamata idea, l'altra chiamata cosa (e j)uò anche essere che alcuni platonici franten- dessero, e così male esponessero la dottrina del maestro). Onde il fino dialettico aveva bel giuoco a trarne che ciò non era altro che duplicare il numero delle sostanze ('): — che le sostanze chiamate idee sarebbero •tutt'insieme universali e singolari perchè sussistenti per sé ed in sé divi- samente dalle cose sensibili (2) : — che sarebbero con queste le stesse e non le stesse: — e che in fin de' conti non gioverebbero nulla (ón cùSiv (7i;|y.j3a),X&uOT rà sidr,), perchè conosciute le idee celesti, ci conver- rebbe pure di volgere un altr'occhio ali ingiù per conoscere anco queste cose inferiori, talché saremmo da capo a dovere spiegar il modo di questa cognizione (Metaph., xii (xiii), cap. 5), e via dicendo. — (Le quali obbie- zioni, per dirlo di passaggio, son presso a poco le stesse che Platone fa esporre dal vecchio Parmenide contro Socrate giovinetto nel dialogo che intitolò dal primo). — E piìi speciosamente ancora li assale Aristotele questi platonici nel vi (vii) cap. 16 dicendo a un dipresso cosi : « Se ci fossero veramente queste essenze separate incorruttibili, come pretendono costoro, essi dovrebbero pure saperci dire che cosa esse sieuo, e definir- cele per genere e differenza. Ma interrogati di ciò, non hanno che cosa rispondere (oùx Ìjod-jiv ànoòmvxi rlvsg ai rotavrai ovmai al atpOapzoi napa tàg xa5' ExaTTa x«ì ai'jQr,xàq) : se non che adoprando queste stesse sostanze corruttibili che ben conosciamo, per es. l'uomo e il cavallo sensibili, vi appiccicano cos'i a casaccio un tòcco di per sé facendone un per sé uomo, (1) Tt/sfa yip iiTt ruv xx9' t/.xa^a aij9<]Toiv, ii; EÌntìv, rà £?ò>j [Metaph., TU (xiii), 4). — 11 medesimo dice nel 1* della Metafisica, cap. 7° (qui cilo secondo la vecchia edizione di Lione 1590, che sola ho alle mani ^ altri citano cap. 9**): ot òs rà; ìSéas aìx^a? rtQèjuevet, itpdrov /lèv ^yjtouvtes t&vSe tuv óvtwv Xa^iJv Tàj aÌTi'ai, erspz toutois t^a tòv àpiO/iòv Ixófxt^civ^ wojrep et Tts àpiOfjLrjvtxi j3ouio/xEvo?, 'ùxrràvttiv fi'iv óvTuv oTotro fi/ì SuvóiziBai, iT>Etw Sk itoi>i7a? à.piOfj.ol-1) (Cf. XII (xill), 4). (2) à/*a yàp xaOóiou tìuj oùiiai Ttotouii ràj noti itali» Mi ^upiiràs «al riti x«9' i«a»Tov- [Metaph., IH (mi), 9). 5^6 dell'essere e del conoscere, ecc. un per sé cavallo (aùroav9pwT0v, amotnnov), ed eccoti pretendono d'a- verti definito l'uomo e il cavallo incorruttibili, ossia l'idea dell'uomo e del cavallo. Ma dunque, conchiudeva il valente argomentatore, sono convinti di fare quelle loro essenze incorruttibili della stessa pasta e natura con queste nostre corruttibili, che conosciamo, e di fabbricare que' loro in- telligibili traendoli da' sensibili , come noi diciamo, per astrazione ('): e però non sono più due essenze, ma una sola [noiovaiv ovv za; I) oO/ lyOMziv aTioSoOvat Ttv£? at T^taDrai oùai'at ai àsSupxot jiapà Tà^ xaO' ly.a^roi xai at56/)Tas. Metaph.. VI i^vii), 16. (2) Ed il Rosmini ivi stesso prosiegue; « Gli stessi sensibili e corruttibili dunqae hanno bi- sogno, secondo Platone, di una loro essenza immutabile senza la quale non sarebbero, perchè l'es- sere, per conTessione di Aristotele stesso, non è sensibile ma intelligibile, e non mutabile ma eterno. Se dunque i sensibili sono, se si predica di essi con verità l'esistenza', se per questi si conoscono quelli e si conoscono quali sono in verità, è dunque da dire che partecipino deWessenza; e non senza questa, ma solo con questa e per questa o in questa sieno. Ma posto che sono in questa, niente poi vieta che la mente coll'astrazione ne faccia la separazione e li consideri privi di questa. Se non che i sensibili, privi di questa, restano non pure incogniti, ma si riconosce che divengono assurdi, perchè privi di stabilità e di unità, e del tutto annullati, perchè privi dell'essere. E quando Pla- tone parla della continua mutabilità de' sensibili e della loro fenomenalità, egli parla appunto dei sensibili, cosi astratti e divisi dall'essenza, parla di un astratto che non ha alcuna reale esistenza (che noi chiamiamo non-ente), non parla de' sensibili che sono (cioè coniugali coll'essere e col- l'essenza mediante la sintesi intellettiva) j poiché i sensibili che sono, sono già verità, e sono inst- paral/ili (come tali) dalla loro unica essenza. « E questa io credo in parte una delle cause che condussero Aristotele in errore. Vide egli che i sensibili non possono separarsi dall'essenza senza distruggersi j disse dunque che queste due cose , il sensibile e l'essenza, erano inseparabili (e perciò pose che l'essenza stessa fosse inoltre nello stesso sensibile per se, e di là il cavasse la mente). Ma sono due proposizioni totalmente diverso, che il sensibile non si possa separare dall'essenza, e che l'essenza non si possa separare dal sensibile (o che faccia parte di quello). Questa può stare da sé, perchè è indipendente da quello e da tutti i sensibili : quelli invece non ponno separarsi da questa, perchè da questa dipendono e per questa, havvì l'essere; quest'è necessaria, quelli contingenti >. SaS dell'essere e del conoscere, ecc. teorica rosminiana, che il porre le idee separale, non vuol dire separare le essenze dalle essenze, come fossero due, ma vuol dire distinguere, ed anche in un senso separare, informa intelligibile delle cose dalla loro^rma sensibile. E dissi in un senso anche separare: perchè, sebbene nell'atto della percezione intellettiva de' reali le due forme sieno solo distinte, e non separate, altrimenti non ci sarebbe sintesi e percezione; pure si riconosce che sono separabili, perchè la forma sensibile può perire ed è corrutti- bile, invece la intelligibile si vede essere sempiterna e non peritura. Onde si dee stabilire così: che le cose non ponno stare senza le idee, essendo assurdo che nulla esista se non è pensato; ma le idee ponno stare senza le cose, perchè perendo queste, quelle permangono: di che si scorge la principalità delle idee sopra le cose. Si vuol dire in somma, ponendole idee separate, che la stessa cosa od essenza, uomo, cavallo, pianta o checchessia d'altro, esiste in due modi inconfusibili : quanto all'uno ella è termine del senso e si spande nello spazio e nell'estensione ed occupa un luogo, secondo che si dimostra nella trattazione del senso e del sen- sibile di cui si occupa la Psicologia e la Cosmologia ; e quanto all' altro ella medesima esiste eminentemente nell'essere e nella mente che intuisce l'essere, dove, come i Padri dicevano del Verbo, le cose verius sunt quani in seipsis : e però la mente, come poc'anzi diceva il Rosmini, dai sensibili ascende a contemplarle nell' essere , trasportandolo , come esso anche dice , dal mondo fisico nel mondo metafisico. Anzi , propriamente parlando, i sensibili hanno le loro essenze solo nell'essere, perchè essenza (ovaia) è per l'essere. E come l'essere antecede irrepugnabilmente i sen- sibili (vedi sopra, il libro primo), e perendo questi, e andando e venendo come polviscoli nell'aere immenso, esso permane; perciò anche tali essenze vedute nell'essere, perendo le cose, permangono sempiterne. Ed elle son quelle che il Rosmini giustamente appella le eterne possibilità delle cose, e l'essere in tale rispetto prende a giusto titolo il nome di essere possibile i^), il che giustifica il Rosmini, come già dissi più sopra, dell'averlo così de- nominato. Le quali cose resteranno vieppiù dichiarate da' capitoli che sono per soggiugnere qui appresso della metessi e della mimesi, del mondo me- tafisico degli enti, e degli universali. (I) In qaale senso dicasi dal Rosmioi l'essere possibile, sebbene non esso sia possibile, ma le cose in lai, abbiamo già più volle dichiarato. DI GIUSEPPE BURONI 529 233. Intanto, ravviando le cose ragionate in questo capitolo della dot- trina di Platone a quelle che degli insegnamenti dello stesso Aristotele toccammo in un capitolo precedente (cap. X), ci sia lecito di notare col Rosmini che il secondo, se vuol essere seco coerente, non ha poi tanto ragione di avversare le idee separate del primo. Perocché, non distinse egli medesimo (vedi più sopra, num. 2i'y), tra la carne (cioè il sensibile) e V essere della carne che egli attribuisce al solo intelletto ? E questa distinzione egli ripete ed inculca piiì volte O. Ora qual vi può essere sentenza di questa più consentanea alla dottrina di Platone (2), e massime alla nostra? Perocché l'essere della carne è appunto, secondo noi , l'essenza e l'idea della carne ; l'essere dell'animale , l'essenza e l'idea dell'animale; l'esser dell'uomo, l'essenza e l'idea dell'uomo, e via discorrendo. Ora Tessere é di natura da tutte cose onninamente separato, e immisto ed impassivo, come del suo intelletto, cui l'essere appartiene esclusivamente, disse lo stesso Aristotele; ed esso è l'essenza e VoÙgIo. uni- versale. Dunque nell'essere, che è l'essenza universale, sono pur separate dai sensibili le essenze intelligiliili di tutte le cose, viene a dire le idee pla- toniche. E così colla terra (intelligibile), cioè coll'essere e l'essenza della terra, noi conosciamo la terra (sensibile), e coll'acqua l'acqua, e così delle altre cose, come diceva Empedocle e noi spiegammo più sopra (n. 22 1-223), e tutti i savii si trovano in bella armonia accordati. Ed anclie la maniera che Aristotele adopra costantemente di chia- mare l'essenza di ogni cosa rò zi v:v sìyaj, [quod quid erat esse tra- dussero gli Scolastici), come chi dica il ciò che era essere di quella cosa (3), indica alcunché di anteriore e indipendente dal sensibile, ciò che era prima, e alcunché di sempiterno, perocché quell'rìv, era, significa permanenza e stabilità , e importa il quod est , quod erat , quod futurum est , con cui qualche scrittor sacro tradusse il nome di Dio l'essente, dal qual viene (1) Physic, I, 3; 111, i; viu, 1. — Caleg. 3. - Poster. I, 5; 11,6, 21. — Metaph., ni (iv), 4; v (VI), 4, 6, 10, 16, 17; VII (vili), 3; — vni (ix), 3; ix (x), 1. —DeJn., 11,2, 4, 7, 12; 111,2, 4. — De gen. et con: I, 10. (2) Rosmini, Arislot. Esam., pag. 210 e seg. (3) Su questa singoiar maniera di diro aristotelica e sull'altra già sopra citata, num. 217, scrisse già un'apposita disquisizione il Trondelenburg nel Museo del Reno di Niebuhr e Hrandis (anno 1828, pag. 467 e seg.) col titolo : Dos tò évi iXvixt., tò iyxBSi eìvai, etc. und das tò ti iiv eìvai bei AristotcUs, Ein Beitrag zur aristotelischen Begriflebestimmung und zur griechischea syntax » . Lo slesso De Anim., 1, § 2, scrive: « Quae cura ita sint, tò ti ijv Cani ad eorum naturam accedit quac uniTerie dicuntur (tì xa^óXou), eie. » . Serie II. Tom. XXX. 67 53o dell'essere e del conoscere, ecc. la stabilità a tutte le essenze, e però importa la sempiternità delle essenze, secondo Platone , e le eterne e stabili possibilità delle cose secondo il parlar di Rosmini, o certo importa il fondarsi di tutte le essenze nell'es- sere, come diciamo noi. 234. Gonchiudendo, le idee dunque di Platone non sono essenze se- parate dalle essenze de' sensibili, ma son le essenze de' sensibili in altra forma diversa dalla foima sensibile, e quali sono nell'essere che è essenza universale. Il gran vero die vide Platone si è che i sensibili caduchi e coriuttibili hanno bisogno per essere di una loro essenza immutabile so- prasensibile, senza la quale non sarebbero. Perocché l'essenza è Tessere, l'antico de' giorni, il sempiterno, per confessione dello stesso Aristotele, T5 ZI Tiv siyai, e senza l'essere e l'essenza, niente è. Or l'essere e l'es- senza non è sensibile . ma intelligibile. Se dunque i sensibili .sono , e si predica di loro l'essere e l'esistenza (e si ritenga ciò che s'è già dimo- strato ne libri i° e 3° che solo i sensibili conosciuti sono, i non cono- sciuti non sono), e per questo appunto si conoscono e si conoscono quali sono in verità, perchè si predica di essi l'essere che è verità ; è da dir dunque che partecipano deWessenza; e non senza questa, ma solo con questa e per questa e in questa sono, altrimenti non sarebbero punto. Che se per astrazione della mente questi sensibili si separano o si pensano sepa- rabili dalla loro idea ed essenza e dall'essere, già svaniscono, diventano meri fenomeni e ombre, anzi non-enti, mentre le loro idee ed essenze nellessere e per Tessere sono sempiterne. Onde si prova che le idee e le essenze (non come idee, ma come essenze vedute nell'idee) sono im- plicate ne' sensibili conosciuti , giusta il concetto della metessi che sono per spiegare, ma solo ne' sensibili COnosciuU. Quest'ultima clausola non intese Aristotele, e non seppe capacitarsene, avendo egli anzi creduto che le torme e le essenze delle cose inerissero alle stesse cose sensibili fuori della mente : la qual fu tutta la causa , come acutamente riflette il Ro- smini, dell indirizzo ch'ei prese di filosofare onninamente diverso da Platone. 235. E qui siami appunto consentito, che, per rendere manifesta tutta la mente del roveretano, io soggiunga, a compimento di questo già lungo capitolo, con quale acume da questo punto come da chiave egli abbia spiegato, meglio forse che non siasi fatto prima da altri, in che propria- mente consista il dissidio di Aristotele da Platone, che è pur quello che divide anche oggi i neo-scolastici dalla teorica rosminiana. DI GIUSEPPE BURONI 53 1 Vide Aristotele, dic'egli a pag. 219 e seg. deW Aristotele esaminato W, che i sensibili non ponno separarsi dall'essenza senza rimanere annientati, ed è ciò che dicesi nella sua scuola, che, tolta la forma, la quale è in- telligibile , la materia , che è il sensibile , non può pili sussistere. Disse dunque che queste due cose, il sensibile e l'intelligibile, erano inseparabili. Ma in prima non vide che una tal congiunzione è solo per virtìi della mente, e perciò è solo nel sensibile conosciuto. Credette che anche ri- mossa la mente e il pensiero, le specie (ddr,), cioè le idee, se':'uitino ad essere implicate col sensibile e colla materia, e che sopraggiunta poi la mente a disbrigamele e come dire sprigionarle per la virtù dell'astra- zione. Laddove, nel concetto di Platone, rimossa da' sensibili la mente e il pensiero che ci mette l'idea e l'essenza, e cessati i sensibili dall'essere conosciuti (da qualche mente), essi diventano non solo scuri ed incogniti, ma assurdi ed impossibili, perchè privi di stabilità e di unità, e del tutto annullati, perchè privi dell'essere. In 2° luogo Aristotele credette che linseparabililà della specie ed es- senza (sldog) e del sensibile l'osse reciproca, e come perisce il sensibile rimossa l'essenza o la specie, così, perendo il sensibile, perisse pure la specie o l'essenza in quella incorporata. Laddove, secondo Platone, son due proposizioni affatto diverse, che il sensibile non si possa separar dall'essenza, e che l'essenza non si possa separar dal sensibile. Questa può stare da sé ( nella mente ) , perchè indipendente da quelli : quelli non ponno dividersi un solo istante da questa, perchè da questa hanno l'es- sere : questa necessaria, immutabile; quelli contingenti e caduchi (2). Ma la cosa resterà vie meglio chiarita dal seguente capitolo. (1) Ne ho riferite le parole più sopra, nella nota 2 al nuin. 231. (2) Ancora più acuta è l'osservazione che fa il Rosmini a pag. 220-291. Aristotele, dic'egli, non conobbe che due maniere di separazione: la reale, per cui una cosa si separa da altra cosa; e l'i- deaU per cui un'iVea dividesi da un'altra idea. Ma \e n'è una terza, che è la separazione dell'idea dal reale, alla qual pure è costretto di ricorrere lo stesso Aristotele, quando distingue Vessere della cosa dalla cosa sensibile, come dicemmo più sopra al capo i ; e l'essere non solo si distingue dalla cosa, ma è anche separabile, perchè la cosa sensibile e caduca, ma l'essere resta ed è sempiterno. 532 dell'essere e del conoscere, ecc. CAPO XIV. L'esemplarisiUQ di Platone gli esemplari (^napaScf/iJ-UTO.), la metessi e la mimesi. 236. Rimasto per lungo tempo interrotto nelle menti di molti il filo della tradizione filosofica, non è maraviglia che anche il senso d'alcuni vocaboli, una volta solenni e famosi nelle scuole, ne vada smarrito. Tale accadde de' tre che posi per titolo a questo capo , e che tutti insieme costituiscono ciò che chiamo V esemplarismo di Platone: gli esemplari (TzxpciStlyp.occx), la metessi [jiÉOs^ig) o partecipazione delle idee, e la mimesi ([ii[j.ricng) o imitazione da parte delle cose O : tanto più che Aristotele stesso, come pare, non li comprese nel giusto loro senso subito da prin- cipio, onde ne parlò con disprezzo, trattandoli da vaniloquio e da metafore poetiche indegne di un filosofo (2). E li raccolgo sotto un solo capitolo, perchè sono tanto relativi l'uno all'altro che non si potrebbero como- damente separare. Come essi furono il frutto e l'espressione del puro obbiettivismo di Platone, che tra gli antichi fu il primo, come dice il Rosmini {Arist. Es. p. 4'jj 6 si potrebbe dire anche il solo, « che nella serena quiete della sua mente pose ferma attenzione all'oggetto per sé, cioè al mondo ideale »: così non altrimenti che col puro obbiettivismo del Rosmini, che quell'an- tico rinnovella e di più viva luce rischiara, ponno essere appieno compresi, e viceversa servirgli di espressione adeguata. Intanto la mancanza di questi tre concetti fu la causa, per cui, come osserva il nostro Autore, dovette riuscire sommamente difficile a intendersi e mantenersi in tutta la sua purità il sistema di Platone dell esemplarismo (ib. p. ^6) : onde « il vero carattere che rende unica da tutte le altre la filosofia di Platone, non fii ereditato da' suoi successori, e ben presto non si seppe più vederlo (ib.47)''- (1) Due lunghi capitoli, che fanno insieme ben 250 pagine, si hanno nel voi. 2" della Protologia di Vincenzo Gioberti (opera postuma) sotto il titolo: Metessi e Mimesi, Mimesi e Metessi. Confesso di non averne potuto ricavare un costrutto assai chiaro all'uopo presente. Il che non è colpa di quel grand'ingegno, ma di chi forse quegli abbozzi troppo informi volle insignire del nome di lui. (2) Tò Se iéyeiv itapxZziyiJ.a.'za. aura (rà e'ò>5) £tvat /ai /jt-réx^tv aùruv Toiia, XEvoioysiy isrl xai /xsTXifOpài Xiys.iv TtoirjTizM [Metaph., I, 7). Le stesse parole son ripetute alla lettera nel libro xil (Xlii), e. 5. Ari- ftotele mostra anche d'aver ben poco inteso la metessi di Platone nel capo 6 del libro primo della Metafisica, scambiandola colla mimesi de' Pitagorici, dalla quale vedremo quanto dillerisce, e impu- tandogli d'aver solo mutato nome, ritenuto lo stesso concetto (Vedi Rosmini, 7>oi., voi. l\, p. 306). DI GIUSEPPE BDRONI 533 § 1. Le idee esemplari. 237. In prima qual è la natura propria delle idee esemplari di Pla- tone? « Circa questa quistione, per quanto pare a noi, dice il Rosmini {Arisi. Esam. p. 42), si suol prendere errore anche da' piiì dotti com- mentatori ed espositori ». Il che io penso che derivi dalla causa poc'anzi toccata del non essere abbastanza viva nelle loro menti la nozione del puro abbietto che è la chiave del senso di Platone. Il Tennemann per es. [Sjsth. Philos. Plat. , tom. 2, pag. i3o sq.), se- condo che ne riferisce il sentimento lo Stallbaum [Proleg. ad PÌat. Parm. p. 48), perocché non mi trovo alla mano l'opera del primo, sostiene: (i Platonem ideas suas prò ineris mentis notionibus habuisse, quibus extra ipsam mentem nihil prorsus responderet ». A cui si oppone lo stesso Stallbaum, sostenendo per contrario (ib. p. 49): « Ac profecto, ego si quid video, Plato ideas suas non solum mentis notitias esse voluit, sed etiam species rerum absolutas, externam habentes ■vej'itateni n . E alluna o all'altra di queste due f'ormole si accostano piiì o meno gli altri espositori. Ove parrebbe che il primo (se lo Stallbaum ne riferì esatto il sentimento, perchè in queste materie la più menoma mutazione delle parole può portar grande alterazione del senso) per idee di Platone abbia inteso non altro che nozioni soggettive della mente, al modo dell' idealismo di Fichte, cui non rispondesse nulla di oggettivo : quibus extra ipsam mentem nihil prorsus responderet: l'altro invece abbia voluto che alle idee di Platone rispondesse alcunché à^ estemo e sussistente al modo delle cose reali che sussistono, giusta il volgar modo d'intendere e di parlare, fuori della mente del pensante tO. 238. Se così è, risica di non aver espresso bene il vero senso di Pla- tone né l'uno né l' altro de due illustri espositori. Che anzi amendue quelle sentenze sono espressamente rifiutate da Platone nel Parmenide: il perchè un terzo (2)^ non sapendo veder altro modo di concepire le idee ()) Credo bene di avvertire, che, nel discorso di confutazione che segue qui appresso di queste due maniere opposte d'intendere le idee di Platone, i due nomi di Tennemann e Stallbaum, che trovai segnalati dal Rosmini sotto la presente questione, sono da me presi affatto astrattamente, come sarebbe dir Caio e Sempronio, tirandone anche, se uopo sia, le parole al mio intento di rappresentare quelle due maniero, senza voler nullamente attcstare storicamente i pensamenti di quei due rinomati com- mentatori: che l'opera d'un di loro, come dissi, mi è perfino sconosciuta. (2) Il Socher, Uber Platon's Schriflen, pag. 278-294, appo Steinhart, Parmen. Einleit,, p. St36. 534 dell'essere e del conoscere, ecc. da' due suddetti, venne nella strana opinione che il dialogo fosse non di Platone, ma anzi di un avversario della dottrina delle idee, se pur lo stesso Platone, fatto vecchio, non avesse ivi cantato la palinodia e ritrat- tato così la dottrina, o il sogno di tutta sua vita! La prima il filosofo greco rifiuta a pag. i32 C, mostrando che se le idee fossero nozioni della mente o intellezioni (voi^jiocru), ne seguirebbe che per la metessi o partecipa- zione delle idee alle cose (et ràX/.a or.g twv d§rZv ixtxiyu-j) tutte cose sarebbero intelligenti. La seconda rifiuta subito dopo (p. i32 D): ove, avendo detto Socrate giovinetto, cioè ancora inesperto della vera dottrina, di porre le idee come esemplari stanti in natura, rà [jÀv cid'/i zaùrx àansp nxp(xòiiyiJ.aza. ÈTTcivat iv rFi ^lio-siO, cioè come cose principali sussistenti fuori della mente, cui le altre si assomigliassero, e in questo assimilamento consistere la me- tessi o partecipazione delle idee a loro, fa che Parmenide rifiuti ima tal posizione con molti argomenti, e fra gli altri con questi due: i° che per tal modo non si avrebbe la metessi o partecipazione delle idee alle cose, ma piuttosto assimilamento {òp.oici-: r,q) delle cose alle idee, e però mimesi (2); 2° che se le cose iosser simili a quegli esemplari estanti, anche gli esem- plari sarebbero simili alle cose, e si dovrebbe fra i due concepire una similitudine intermedia, e così via via all'infinito (•^). 239 Ma tutto questo viluppo de' due illustri autori tedeschi, e delle due formole o sentenze opposte da essi rappresentate, procede da quel realistico fuor della mente {exti-a mentem ipsam, externam habere veì'itatem) che s'intromise nella loro interpretazione, e che è del tutto estraneo al senso di Platone; e dal non essersi elevati, almeno quanto all'espressione W, al (1) Si noti come stia vigilante Platone nella scelta delle parole. Non fa dir solo a Socrate che le idee sieno paradigmi o esemplari, che in ciò non sarebbevi stalo nulla di riprensibile, ma esem- plari stanti in natura (ì^z'Mxt h Tf, yJ7£t), che sarebbe come Vexternam habere veritatem dello Stall- baum, e questo fa poscia rifiutar da Parmenide. Il che non rillettono quegli espositori i quali dicono che Platone rifiuti qui il concetto che le idee si abbiano per esemplari {rtxpMiiy/jicnot). (2) Tanto è lontano che Platone intendesse per metessi lo stesso che mimesi, come ne lo accusa Aristotele, e però tanto jv /jtévTOl y£ jj-iOt^u ri Ti]v /jLliiiì^iv , i?Tis à-j t'ri Tùv eiSsiv, àysìuav io xotvù ^«iTeìv l^Metaph., I, 6. ). DI GIUSEPPE BURONl 53^ partecipazione delle idee alle cose. Ma ben l'intese il Hosmini, il quale più volle proclamò questo gran vero platonico, che le idee, le essenze delle cose non convengono alle cose, se non in quanto queste sono pensate dalla mente e per virtù mediatrice della stessa mente : mentre Aristotile dovette cadere in quel suo rozzo realismo che passò come eredità sporca della filosofia pagana al mondo cristiano {Arisi. Es. p. 49) di metter le idee e le specie (rà EÌd^) nelle cose reali. 2i3. Si ascolti il nostro Autore. « Tanto è lungi che le cose reali ab- biano le idee in sé, ch'elle non sono altro che imitazioni di quelle, e però servono alle menti solo di segni delle idee, perchè ne sono il rea- lizzamento (cioè la forma reale scura impressa come mimesi e imitazione ed esecuzion di disegno nella materia). Quanto poi alla partecipazione, prosiegue egli, che le cose fanno alle idee (o meglio le idee alle cose), questa lia luogo solo nella mente umana (intendi quanto a noi) a cui è data la contemplazione delle idee stesse ; e nella nostra mente le realità sensibili certo si copulano a quelle essenze eterne (alle quali molto più e prima, come vedremo, son copulate nella mente di Dio) che le rendono conoscibili. Onde crediamo che Platone il primo ed il solo abbia scosso dalla filo- sofia il pernicioso idealismo de' suoi predecessori, ed abbia conosciuta la singoiar natura delle idee » (Àrist. Esani, p. 44)- E soggiunge: «Era impossibile che Aristotile, avendo udito per venti anni Platone, non ne ritraesse nulla della nuova e sublime dottrina delle idee. Ritenne le idee immateriali, ma in molte maniere le realizzò, ab- bandonandone la parola, e sostituendo quelle di forma e di specie » O. i< Poiché le specie mondiali (secondo lui) sussistono ab eterno negli enti reali del mondo : possono essere separate dalla materia soltanto per opera del pensiero; ma anche nel pensiero umano sono attive, come sono attive nella natura: che nella natura costituiscono insieme colla materia quella causa ejffi- ciente che Aristotele chiama appunto natura, e nel pensiero costituiscono (1) AgL;iungcrò in nota ciò che lo studio della brevità, che già se n'c ita, mi fece omettere nel testo, acciocché s'abbia intiera Pidea che qui il Rosmini ci dà del realismo di .Aristotele, non avendo saputo questi tenersi al puro esemplarismo di Platone. « Le realizzò, dice, le idee immateriali, primieramente confondendo ['oggetto (e le idee nel senso di Platone debbono serbarsi puri obbietti), che solo appartiene alle idee, col subbietto intelligente, ponendo che tutto quello che l'osse senza materia dovesse essere ad un tempo e intelligibile e intelligente. Tale è il Dio d'Aristotele, tale anche la mente umana » . Le real'izzò poscia in un altro modo, che è quello spiegalo qui sopra nel testo, cioè ponendo che le specie fossero realizzate nelle cose (vedi quel che oe dico nel testo}. E di queste due parli par Teramenle che si componga l'intiero sistema ideologico e cosmologico di Aristotele. Serie II. Tom. XXX. 68 538 deli-'essehs' e del conoscere, ecc. causa efììciente ch'ei chiama arte (/è. p. 44-45)»- E questo di Aristotele è il sistema gretto che i neo-siolastici vorrebbero sostituire all'esempla- risino platonico stato sempre caro alle alte menli cristiane, e alla teologia, la quale, nell'universale decadenza degli studi platonici durante il medio evo, almeno ne tenne sempre vivo questo punto principalissimo dell'esem- plarità delle idee, quanto bastava a spiegare la divina sapienza e la crea- zione, e non badano come anche S.Tommaso, cui essi professano di se- guire, quando viene a parlare delle idee in Dio. abbandona al tutto Aristotele (S. I, q. i5), e ricorre agli esemplari, derisi dal fdosofo della Scoia come metafore poetiche, senza darsi cura di conciliarli colla dot- trina aristotelica da sé seguita nel resto [Arisi. Esani., p. /\g): anzi del- l' esemplarisino di Platone e di Dionigi l'areopagita e del luminoso concetto e vocabolo tiella partecipazione e metessi, tanto derisa da Aristotele, egli usa con speciale predilezione in tutti i punti più elevati della sua teologia, discorrendo delle divine perfezioni , della creazione e delle relazioni di assimilamento delle creature a Dio, nelle due Somme, la teologica e quella contro i Gentili, e nelle quistioni disputate de Verllale; e anche la teorica delle idee separate egli professa rispetto all'idea dell'essere universale, che tutte le precontiene virtualmente, e al parlecipare all'essenza universale del- l'essere tutti gli enti particolari: co' quali elementi egli modificò profonda- mente (e non se ne accorgono costoro) l'aristotelismo da averlo quasi trasformato in platonismo. Un tal punto mi penso d'avere messo in piena luce nell'opera altre volte citata Nozioni di Onlologia, che ho or ora ristampata (Stamperia Reale, i8'^8), cui me ne rimetto ('). 244. E su questo gran vero che la partecipazione delle idee alle cose si fa sol nella mente e per la viitìi mediatrice di essa mente, torna il Rosmini nella Teos., voi. iv, p. jo5 e seg. Ove, dopo aver riferita 1 ob- biezion solita d'Aristotile già da noi toccata piìi sopra (n. aSo e seg.) del duplicarsi nel sistema di Platone le sostanze, soggiunge; « Nella quale ob- biezione aristotelica non c'è solamente il continuo equivoco su cui si giuoca della parola sostanza: ma ce una cosa assai più profonda che sfuggi ad Ari- stotele, come a molti altri, cioè, che la meutc è raedialrice Ira le Idee e i reali, e che quando il filosolò, non meno che il volgo, parla di sostanze reali, parla di sostanze reali sì, ma già concepite dalla mente, e però . . . parla di reali (I) Vcili principalaiente i testi in quell'opera citati del santo Dottore a un. 17-29, 31-33, 39-40, 47, 54-55, 60-61, 76-79, 87, 93, 95, 97-100, ecc. DI GIDSEPPE BORONI 53g alle idee congiunti; di reali, dico, già partecipi delle idee ». La qual dottrina nun è a dire quanto sia importante e conforme a quella esposta da noi nei libri precedenti rispetto all'essere e alla sintesi. — « Ma che cosa son dunque i reali finiti segregati dalle idee e da nessun concepiti? Dico, risponde arditamente il Rosmini, che non sono né sostanze, né ac- cidenti, né entità compiute, ma solo sono in via ad esser enti , son ciò che dicesi materia (cioè quella materia prima metafisica, di cui sopra n. 142, nota 2). — '< Ma punno eglino essere in questo modo? Rispondo, dice egli, che in questo modo non sono, né ponno essere, benché si possano in un modo indiretto e astratto, che Platone chiama adulterino, Xo-^^iufia vóQa, concepire. Quei reali che così si pensano, son gli stessi reali, prima pensati e fatti enti dalla mente colla sintesi o metessi della percezione intellettiva, che vengono poi disfatti da lei; la quale se dista coll'astrazione le cose che sono scomponendoli nei loro elementi, non vuol dire che quegli elementi possano sempre esistere separati, ma solo che si distin- guono col pensiero nell'ente su cui la mente esercita l'astrazione (Teos., voi. IV, pag. 3o5 e seg.). Tal è la natura e il concetto profondo della metessi, per cui 1 anima, come già notava il Rosmini neW^rist. Esam., p. 3o4, è descritta da Pla- tone come la mediatrice ed il vincolo del mondo sensibile coH'intelIigibile; ed il gran varco tra le idee e le cose, tra l'universale ed il particolare, è riempito, che era ed è sempre il grande intento della filosofia (Vedi Steinhart, PreJ. al Parm. di Platone, p. 2^2-2^5). § 3. — La mimesi. 243. E a quello di metessi o partecipazione delle idee alle cose, con- segue, come già sé visto, il concetto di mimesi o imitazione delle cose verso le idee ('). Ma si noti Tciò che ben pochi sanno riflettere) che questa. (l)Si noli che qui consiste uno de' principali dissidii, e forse il principalissimo di tulli, fra Platone e Aristotele, per cui Platone arriva alla Sleale e a Dio, Aristotele giace immerso nella na- tura. « Secondo Piatirne, osserva giustamente il IVosmioi (Arist. Esam., pag. 331), le iVec, clie si rife- riscono al mondo come esemplari , sono intuite dalle menti create che cosi ne partecipano (e le partecipano anche alle cose sensibili, intendendo queste colle idee); ma gli enti privi d'intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse idee, ma soltanto esprimono le loro simililudini, dalle quali, ricevute dall'uomo col senso, la mente trapassa alle idee dì cui quelle sono similitudini , ossia alle essenze dei medesimi sensibili, e per queste esse si conoscono. Aristotele invece nega affallo che gli enti reali e sensibili siano similitudini : ma dà a loro stessi \e specie e forme, le quali (secondo lui) diveu- tano intelligibili, toslo che l'anima, che ne abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così 54© DELLESSERK E DEI. CONOSCERE, ECC. cioè la mimesi e imit;izione, non si ravvisa nelle cose se non a patto che sia già seguita la prima, cioè la metessi e parlecipazion delle idee alle cose, e dipendentemente da quella; onde anch'essa non è se non nelle cose già conosciute dalla mente O. Gli è come nelle opere d'arte, la simi- litudine del marmo all'idea dello scultore non è se non dopo che questi avrà coll'idea sua foggiato il marmo, e di quella improntatolo, cioè operata la partecipazione o metessi dell'idea alla materia. La qual cosa il Rosmini col suo solito acume spiega così : « Le idee, secondo Platone, non ponno esser ricevute dalle cose inanimate e sen- sibili, perchè la loro essenza è d essere intelligibili. Non essendo dunque intese da' corpi, non ponno essere da lor ricevute : ma questi ne ritrag- gono solo alcune loro similitudini » {Arisi. Esani., pag. 3o4)- E questa è la ragione, per dirlo di passaggio, per cui i sensibili son solo segni, ri- tratti e copie delle idee e indizii fenomenici delle essenze (tanto è lungi che le idee sien solo copie delle cose). Onde la metessi significa l'interiorità ed essenza delle cose; la mimesi l'esteriorità e apparenza ». « Similitudini poi si dicono, prosiegue il Rosmini, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all'anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti: quelle dunque conducono l'anima (intelligente) a queste» e però si dicono similitudini di queste » {ibid.). V'. di nuovo (ivi, pag. 3o3): u Le idee dunque sono partecipate in un modo dall'anima (o dalla mente), e in un altro modo da' corporei sensibili. . . All'anima, pare a me, spe- cialmente si dee riferire quel modo che Platone chiama napovaia o pre- senza delle idee (perchè ella le partecipa per intuizione); a' sensibili la comunione, /oivwvja (Phaed., pag. loo D). Giacché i sensibili colle loro è che ella conosce gli eiilì reali » (come dicono anche i neo-scolastici). Onde l'idea, secondo Aristotele, è immersa nella materia, e viene ad aver l'essere separalo da questa soltanlo per virtù della mente, che ne la sprigiona. E so l'idea è immersa nella materia e la mente ad essa congiunta, non vi i? più bi- sogno di ammettere alcuna mente separata dal mondo, ma la natura stessa è idea e niente, e Dio non è che la legge della natura, come dicono i moderni ateisti, coi quali, senza volerlo, s'accordano i neo-scolastici. « Dove si vede, dice ancora il Rosmini (ivi, pag. .'W9), la profonda dilferenza che passa da questa dottrina (di Aristotele) a quella di Platone; poiché questi nella natura sensibile non ammetteva la forma (l'idea), ma la similitudine della forma, essendo la forma, l'idea, riservata alla •ola mento. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente che le desse l'ordine e il fino, e a questo la dirigesse. Nel sistema di Aristotele all'incontro, la natura fa da se, avendo la stessa forma (idea) in se stessa " 'Vedi Anche Arisi. Esam., pag. 34*, e nota 2\ (1) Quesfè il solo concotto alquanto più spiccato che domini in quei due lunghi capi della Protologia del Gioberti sulla Metessi e Mimesi che citai più sopra, num. 23S, nota 1 : ma non vi è, per quanto pare a me, bastantemente dimostrato. DI GIUSEPPE BCRONI 5^ t forme imitano, come dicevamo, le loro idee corrispondenti, e le loro im- magini nell'anima nostra culle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all'atto del nostro vedere, cioè un solo og- getto della nostra percezione. L'anima poi, avendole presenti (le idee) senza che con esse si confonda, le intuisce» (^Ar-ist. Esarn.) , pag. 3o3): intuisce, dico, le idee nelle cose, per la metessi o sintesi che diciamo, e le cose percepisce nelle idee. ti4G. Così accade, come dicevo poc'anzi, che la metessi contiene la mimesi, a quel modo che il più contiene il meno, e l'antecedente il con- seguente, e questa non è .senza quella, e le idee contengono le cose. Onde è più vero, come osservò altrove il Rosmini [Arist. Esani., pag. iSa), il dire con Aristotele che i reali sensibili son nelle idee, in quanto che l'in- tendimento vede il reale nel possibile, cioè nell'essenza: iv o'iz siSimv ai np(t)rug ov7ic(t lE'^jòp.vjai vnàpyowji (Categ. 5), che il dire, come scrisse nel 3° de Anim. , cap. g, che le idee siano ne' sensibili, ìv Tof; ddeGiv alcQriroìg rà ^jofi-zà Ègu. Se pur questo secondo detto non s'intenda cosi, che la mente vede gl'intelligibili nelle specie sensibili, non perchè vi siano prima, ma perchè ella intendendole ve li mette, poi ve li trova per astrazione: che è quello appunto che del continuo andiamo dicendo noi. 247. Dalla quale spiegazione della metessi e della mimesi, e dei loro rapporti, si scorge di bel nuovo: 1° Come falsamente Aristotele, per poter più facilmente combattere Platone, abbia scambiato luna con l'altra, affermando che il dire con lui gli enti per partecipazione delle idee, o coi Pitagorici per imitazione dei numeri, fosse il medesimo, mutato solo il nome U) . « Il vero si è, sog- giunge il Rosmini, che nelle due espressioni cade una differenza immensa » (Teos., voi. IV, p. 3o6). Se gli enti fossero per semplice imitazione delle idee, allora sì che le idee e le cose sarebbero due ordini di sostanze, come oppone lo Stagirita, perchè sì l'imitante sì 1 imitato sarebbero due cose: il qual concetto Platone stesso ripudiò nel Parmenide (pag. i32 D), come abbiam detto. Ma la partecipazione dice molto più; dice l'unione di un elemento (1 idea) coU'altro elemento (il sensibile) a formare una sola cosa, un solo ente: e l'obbiezione cade (2). (1) Vedi le sue parole sopra, nuin. 242, nota 2. (2) E sott'allro aspelto Pobbìezlone solita ripetersi contro la sintesi rosminiana, clic por poter registrare la cosa sentita nel novero degli enti converrebbe prima conoscerla e confrontarla col— ^^2 DELL ESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. Nel qual luogo, a pag. 807, in nota, acutamente riflette il Rosmini, come forse Aristotele abbia inteso male anche la mimesi o imitazione dei Pitagorici, la quale può ricevere spiegazione e difesa, e combinarsi colla metessL di Platone, purché si distinguano i momenti dialettici. Perocché, o si tratta degli enti reali già formati, cioè già pensati dalla mente, e allora è vero che essi sono simili alle idee. Questa quistione, come più facile, ragguardaronc) i Pitagorici, e però giustamente posero la mimesi. Ma innanzi a questa si può fare la questione d'ordine antecedente e più elevato, come si formino gli enti reali' A questa s'innalzò Platone, e però ricorse alla metessi e partecipazione, parola felicemente trovata da lui, perchè l'ente reale si forma quando la realità riceve Tessere e l'idea. 2° Ed anche si scorge con quanta po' di ragione, e solo per aver male inteso il senso del maestro, Aristotele opponga del continuo a Pla- tone quel suo sofisma così detto del terzo uomo, che non gli è meno fa- migliare dell'altro della duplicazione delle sostanze O. Perocché, se fra le idee e le cose non ci foss'altro che mimesi, o imitazione e somiglianza, e l'idea e la cosa fossero simili tra loro come due cose pari, per esempio, come un uomo ad un altr'uomo, allora si ci vorrebbe un'altra idea intermedia per veder quella somiglianza, e così all'infinito. Ma la metessi e V esem^ piare è ben altro (2). Il che mi porge occasione di riappiccar questo capo degli esemplari col capo primo di questo libro, ed accordarli. Il che farò nel capo seguente. CAPO XV. Della virtù rappresentativa delle idee e della similitudine. 248. Nel capo prim(j di questo libro abbiam rifiutata col Rosmini l'opi- nione volgare delle idee rappresentative, ossia che le idee sieno immagini e rappresentazioni delle cose nella mente, e mostratala estranea al sistema l'idea dell'eutc per giudicare se la sia de^na di quella classificazione, se la sia proprio un ente, e COSI converria conoscerla prima del ^'iudizio clic Rosmini chiama primitivo. Si risponde che la sintesi non si fa per confronto, come quando trattasi di mimesi e imitazione: si fa per metessi e ag- giugnimenlo dell'essere alla cosa sentila che la fa ente. Il Rosmini l'avea pur prevenuta una tal obbiezione e disciolta nel Nuovo Saggio, voi. 1°, nnm. 337 e seg. (ed. 5', pag. 293). (1) Vedi come Rosmini ritorca l'obbiezione del terzo uomo contro lo stosso Aristotele nelVJrist. £fam. , pag. 341. Ne riferirò le parole più sotto, al n. 250. (2) Vedi come io spiegai queste parole metessi ed esemplarità nelle Nozioni ili Ontologia, a. 106. DI GIUSEPPE BURONI 543 di lui, e preteso che anzi le idee fossero le cose stesse e le loro essenze, e le cose piuttosto copie e ombre di quelle. Nel capo precedente poi abbiamo accettato pienamente collo stesso Rosmini e altissimamente com- mendato quale unica salvezza delia filosofia I' eseniplarismo di Platone , cioè che le idee sieno esemplari (napy.hijixv.rv) delle cose. Ma gli esem- plari, e i tipi e gli archetipi, come si voglian chiamare, non son essi immagini e rappresentazioni delle cose? Non vi ha dunque fra l'uno e l'altro assunto ripugnanza e contraddizione.' Il ri.spondere a una tale diffi- coltà è tutto lintento del presente capitolo, del quale non saprei racco- mandare abbastanza la somma importanza. 249. Tutta la risposta sta appunto in ciò che dicemmo poc'anzi della natura dell'esemplare, che ha verso la cosa ragione di contenente e di prestante, e non di cosa a cosa parallela, sicché fra le due passi una sem- plice relazione di imitazione o di somiglianza o di immagine. Questa seconda maniera di relazione è quella che abbiam rifiutata nel capo primo, laiche le idee non fossero che imitazioni e ritratti delle cose. Ma sendo le idee gli esemplari delle cose, in esse le cose stesse, cioè le loro essenze, si precontengono in un modo ideale ed eminente, secondo che abbiamo poi dette nel capo -i" e nella seguita trattazione. Ma ecco . dice il Rosmini , in quale senso e sotto quale aspetto abbia luogo nell'idea una specie di rappresentazione verso la cosa, avuto riguardo all'uso comune di parlare. E dico una specie di rappresentazione, poiché niuna vera rappresentazione ci cade , ma solo alcunché di somigliante Essa consiste nel servigio che presta l'idea al conoscimento dell'ente reale. « L'idea fa conoscere l'essenza della cosa (ed anzi la contiene); ma non da sé sola la sussistenza. Pure la cosa sussistente non si conosce senza prima averne conosciuta l'essenza, cioè senza averne lidea (si parla d'una prioriti loj;ica, vedi sopra nani. 2o5). Quindi è che si suol dire che r idea , la quale non è certo la cosa sussistente , la rappresenti (') Secondo questa maniera di parlare, il primo immediato termine della co- gnizione è l'essenza, la quale non è, come si diceva, la cosa sussistente, (1) Si noti ben questo, che l'idea si dice tipo della cosa, solo in quanto la cosa si distingue dall'idea, cioè quanto all'oscura realità e alla sussistenza. Ma non mai si dirà che l'idea sia tipo JeU'essenza della cosa, perchè è ella stessa questa essenza, ossia la contiene. L'essere poi l'idea tipo e rappresentazione della cosa, quanto alla sussistenza di questa, non è un esser da meno della cosa, ma anzi un essere da piii, stando solo all'ordine della cognizione e della verità di cui parliamo ia questo libro. La presente nostra lesi è simile a quella dei teologi rispetto alle idee divine, le quali 5^/ dell'essere e dei- conoscere, ecc. ma è solo rappresentativa di questa, ne è, per così dire, il suo ritratto (ma qui il Rosmini ha mal scelto il vocabolo: volea e dovea dire il suo tipo, il suo esemplare; ha confuso il tutiov, la forma originale, con l'Ikrujrov, la forma dedotta. Onde io, seguitando, correggerò). Onde fa bisogno un altro allo, col quale lo spirito passi dal rappresentativo al rappresentato, dal tipo a ciò di cui il tipo è. E questo secondo atto è appunto ciò che noi chiamiamo affermazione, il quale non si può fare senza apprendere la realità sensibile ... Né si dica che essendo T essenza e la sussistenza cose diverse, non può Tuna, come cosa, esser rappresentativa dell'altra, come cosa (qui si dee negare, e infatti il Ro.smini nega che sieno due cose diverse ). Perocché , seguita a dire , la sussistenza non s'intende da se sola, ma unita individuamente coU'essenza (qui ha luogo la metessi poc'anzi spiegata), di maniera che l'essenza intuita da sé è identica coU'essenza del sussistente (intendi del sussistente pensato e affer- mato), quasi direi come la forma della casa è identica nel disegno Tnon intendi il disegno descritto in carta, che è troppo inferiore, ma il disegno contemplato dalla mente in idea) e nella casa reale. Quale dunque sia la natura di questa rappresentazione cogitativa (o meglio ideale) non si deve spiegare (ne adequatamente si può) per via di esempi materiali, ma conoscerlo meditando la stessa relazione {metessica) che unisce l'essenza colla sussistenza » {Teos. , voi. 5°. p. 44-45). Fin qui il Rosmini: il quale soggiunge, che dopo ciò, vale a dire dopo la relazione metessica descritta, sopraggiunge il ragionamento dialettico trascendentale, il qual vede che la cosa sensibile, così percepita, non è l'essere né l'idea: trasporta dunque la cosa sensibile reale all' idea ; ed è allora che quella ( la cosa ) appare una rappresentazione, o più veramente un vestigio, un segno, una copia, un'ombra di questa (dell'idea): nel che dimora la relazione mimetica. I volgari danno più importanza alle cose, ed ecco il perchè pare loro che le idee sieno copie ed immagini delle cose ; mentre è vero piuttosto il contrario, che le cose sien copie delle idee. In somma, la rappresentazione che noi affermiamo delle idee chiaman- dole esemplari, è una rappresentazione metessica, superiore, contenente; precontengono eminenter, e però in modo più perfeUo, le cose creale. Se non che le idee di-vine pre- conlengono eminenter anclie la realità e sussistenza delle cose, come diremo nel seguente libro, e iocclieremo anche noi capo seguente. La sola rappresentazione eminenziale noi dunque attribuiamo alle idee rispeUo alle cose ; e ciò non ripugna a quel che dicevamo nel capo l°di questo libro. DI GIUSEPPE BURONI 545 quella che abbiam rifiutata nel capo primo, è la rappresentazione mimetica, inferiore, propria delle copie quale l'intendono i volgari: e fra i due capi suddetti non v'è contraddizione. 250. E tale essendo la rappresentazione metessica e contenente delle idee esemplari verso le cose, resta del tutto escluso l'inconveniente del terzo uomo obbiettato da Aristotele , il qual non avrebbe luogo se non mettendo tra le idee e le cose una relazione di similitudine, per cosi dirla, collaterale. Una tale obbiezione, siccome osserva il Rosmini [Arist. Esam., pag. 340-341 ) , milita ben più con ragione contro lo stesso Aristotele là ove dice nella Metafìsica, lib. vi ( vii), 7, che la casa senza materia, che è nella mente dell'architetto, produce la casa reale e materiata, se pur non intenda che sieno la stessa specie di casa identica di numero. « E vera- mente, se sieno proprio due specie e forme numericamente diverse, l'ideale e la reale (come in cert' altri luoghi par che egli dica), . . . devono pur avere qualche cosa di comune ; e però ce ne abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro. . . , e cosi all'infinito. Il che si evita nel sistema di Platone, nel qual sistema la specie è una sola, e ne' sensibili c"è soltanto l'imitazione, la quale, nella mente di chi conosce, s'aduna insieme colla specie, su cui è stala esemplata (0. Onde la similitudine, che il sensibile ha colla specie, è la specie stessa imitata : di che anche a noi venne detto {nei N. Saggio, num, ii8o-ii8g) che le idee sono la stessa similitudine » (2). (1) Più volte il Rosmini insiste su questa differenza Ira Aristotele e Platone, la quale e affatto essenziale e caratteristica dei due sistemi, che il primo mette nelle cose reali la stessa specie ed essenza, l'altro invece la specie e l'essenza riserva alla sola mento, e nelle cose non altro mette che la similitudine della specie. « Dove si vede, dice a pag. 339 dell'arisi. Esam. , la profonda diffe- renza che passa da cjaesta dottrina (d'Aristotele) a quella di Platone: poiché questi nella natura sen- sibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma, essendo la forma riservata alla sola mente u (Cf. ikid. , pag. 304, 331, 447-448). « 1" Platone, ne' puri sensibili, in quanto hanno una esistenza separata dalla mente (intendi per astrazione, perchè in verità non la ponno avere, secondo che s'è detto più volte), non pone le idee, ma certe similitudini con queste, onde sono con queste equivoche (ó//.óvu/;.a), e cosi non hanno ancora Vessenza, ma. una apparenza; sono fenomeni a' quali si può applicare in qualche modo l'imitazione (/zi>»)!7is) ; 2° Platone, quando parla àe' sensibili pensati dalla mente, allora congiunge loro l'essenza o idea, che è la partecipazione i iiifli.\ii) : ne i sensibili hanno altra essenza fuori di questa, onde non si dà la composizione di più essenze in una, come suppone sempre Aristotele (nelle sue obbiezioni contro la teorica delle idee), ma si dà nella mente la composizione del fenomeno (del sensibile) con l'essenza o noumeno » (ib. 347, nota 2). (2) Ma son la slessa similitudine e la stessa rappresentazione perchè son le cose stesse rappre- sentate. E mirabile vedere come quest'alte e sottili dottrine fossero esposte dal Rosmini nel Nuovo Saggio al luogo citalo qui sopra nel testo, cui biiogna aggiugaer di seguito i num. 1190-1192, Serie II. Tom. XXX. 69 5/16 dell'essere e del conoscere, ecc. La qual obbiazione, da altri detta anche del terzo piede, veniva presso a poco risoluta allo stesso modo da me nelle cit. Noz. di Ont., n. 106, not. 2. L' obbiezione è questa : — u Se l' idea è simile agli ideati , v" è dunque similitudine fra l'idea e gli ideati; la qual similitudine dovrà essere co- nosciuta con un'altra idea superiore; e così la similitudine fra questi e quelli con un altra idea, e cos'i all'infinito ». — u Si dee negare, rispondevo, che fra l'ideii e gli ideati interceda quella stessa maniera di similitudine che si ravvisa negli ideati tra loro. L'idea 11011 è COllie una delle cose simili, ma è l'istessa similitiidiue soprastante alle cose che son simili tra loro » * • ove rispondendo ad una sottile obbiezione del Kant, ricorre alla mttessi senza dirne il nome. Ma allora non poleano esser capite: e adesso ? Riferirò qui la più profonda spiegazione che ne diede egli stesso nella Teosofia, num. 1^521 ^vol. 3°, pag. 193-194): « Dacché l'idea di una cosa, dice egli, è vera .similitudine della cosa , sebbene imperfetta (perchè, come quivi spiegò poco prima , non rap- presentano mai la cosa intera, e per lo meno non ne racchiudono la sussistenza^ il che è proprio solo delle idee divine), vediamo in che questa similitudine consista. L'idea, noi abbiam detto, ci fa conoscer l'essenza (iV. Saggio, 64G-647): e l'essenza stessa in quanto si manifesta airintendimento. Ma l'essenza della cosa è la cosa stessa: dunque l'idea o essenza è la cosa in quanto si rende a noi intelligibile (A^. Saggio, 1182). Rendersi un'essenza o un ente a noi intelligibile, è lo stesso che divenire oggetto al nostro intendimento. Ma esso esiste anche in se stesso. . . ed è subbietto. La simi- litudine giace nei due modi dello stesso ente: l'oggetto è la similitudine del subbietto. . . IVella simi- litudine in scuso proprio e primo si suppone sempre l'identità dell'ente, e i due modi, l'oggettivo e il subbiettivo, la cui relazione dicesi similitudine » . "L'idea della cosa, avea detto nel N. Saggio, n. 1182, è la cosa stessa priva di quell'atto che la fa sussistere. . . In questo doppio modo d'essere che hanno le cose, nella mente (in idea) e in se (sussistenti), sta la prima origine del concetto di similitudine. .. e la spiegazione di quella sen- tenza antichissima che ogni conoscimento nasce per via di similitudine «. Questo è vero conoscere , perchè è conoscere per tale similitudine che è identità. E conferma la dottrina con parole mirabili di due sommi italiani, san Bonaventura e san Tommaso. Cito solo quelle del secondo perchè più brevi : Similitudo mlelligibilis, per quam intelligittir aliquid secundum suoni substaiitiarn, oportet quod sit eiusdem speciei VEL MAGIS SPECIES EIUS (e. Geitt.,Uh. 3°, cap. 49). Vedi anche nel Rosmini, •iirf., num. 1115-1 1 18, come l'idea e la similitudine sia la verità delle cose. (1) Il gran punto diffìcile ad intendersi, eppur capitale, si è che la sintesi, o sia dell'essere o sia dell'essenza o idea colla cosa, NON SI FA PER CONFRONTO (Teos. , voi. 5°, pag. 480), MA PER METESSI (vedi qui sopra, num. 241 e seg. . DI GIUSEPPE BURONI 547 CAPO XVI. Obbiezione contro l'esemplarismo suddetto risoluta. Di nuovo delle idee rappresentative. 2ol. Ma qiiij per aver io sempre chiamate le idee, che noi abbiam delle cose, col titolo di esemplari, ed averne parlalo sempre con enlasi come se proprio di esemplari delle cose elle avessero la dignità e il valore e meritassero il nome, ci si leverà contro una obbiezione gravissima, la quale ci verrà mossa principalmente da' neo-scolastici coll'autorità poderosa di S. Tommaso d'Aquino che vi si dichiara apertamente contrario, e la quale minaccia di sovvertire nella mente di molti , almeno per rispetto ali as- sunto mio di volerla far passare per identica, con la tlottrina di S. Tom- maso, tutta l'esposta teorica. Io non devo dunque a questo luogo preterire una tale obbiezione, sebbene ella s'avanzi un poco nelle cose divine che erano riservate al libro seguente: tanto piiì che mi porge l'occasione di aggiugnere alle cose dette un ultimo schiarimento ('). Obbiezione. 232. Si dirà dunque: — Ma di quali idee parlate voi? delle idee nostre, o delle idee divine? Le idee divine sì, che hanno ragione di esemplari, come tu dici, ante- cedenti e soprastanti alle cose per esse conosciute da Dio, e precontenenti le cose stesse e le loi-o essenze e nature, perchè sono idee fattive delle cose, e non vi è né può esser nulla nelle co.se create, neppure il menomo lineamento o modo di essere, che non sia preceduto prima nella mente del Creatore: u Siniilitudo alicuius in altero existens, dice S. Tommaso (e. Gentes, lib. 4 ^ cap. xi), habet rationem exemplaris , si se habeat ut eius principium.. ..; quia enim siniilitudo artificiati existens in mente arti- ficis est principium operationis per quam artificiatum est, comparatur ad artificiatum ut exeinplar ad exemplatum » . Ora l'intendere di Dio ha ap- punto ragione di principio fattivo verso le cose create: e però le idee eh egli ha delle cose meritano giustamente il nome di esemplari : « Eius (Dei) intelligere est principium rerum intellect arum ab ipso. . . Oportet (1) Questo sarà di spiegare in qual senso le idee che prendiamo delle cose esteriori si possano dire rappresentative delle cose stesse rispetto al modo che veniamo ad averle dipendentemente dai «eosi, nel qual rispetto ha la sua parte di vero il sistema degli Scolastici, come vedremo. 548 dell'essere e del conoscere, ecc. igitur quod Verbum Dei comparetur ad res alias inlellectas a Dee sicut exeinplar d (ibid.J. E tali sono le idee esemplari di cui tratta S. Agostino nella 46' delle 83 quistioni, e S. Tommaso nella quistione i5 della prima parte della somma teologica. Ma tutt'altro è da dire e dice S. Tommaso delle idee che delle cose abbiamo noi uomini meschini e di corta veduta. A queste conviene piut- tosto ciò che ivi slesso dice il S. Dottore: « Similitudo alicuius in altero existens habet potius rationem imaginis si se habeat ad id cuius est similitudo sicut ad eius principium ». Or tali appunto sono le idee che noi prendiamo delle cose della natura non fatte da noi: elle .sono per noi cavate e dedotte dalle cose stesse mediante le azioni e impressioni che queste esercitano sui nostri sensi: « Similitudo rei naturalis in nostro intellectu concepta, comparatur ad rem, cuius similitudo existit, ut ad suum principium, quia nostrum intelligere a sensibus principium accipit qui per res naturales immutantur » (ibid.J. Può dirsi nulla di pii!i chiaro e di più chiaramente contrario alle vostre asserzioni? Le idee nostre dunque non sono né devon esser chiamate esemplari delle cose, ma solo imagini e copie dedotte e ritratte da quelle. — Fin qui l'obbiezione. 233. Non si può negar veramante che l'obbiezione non abbia, se mai altra, aspetto di gravissima. Io non so se mai il Rosmini se la sia a questo modo proposta, ma lasciò, come vedremo, di che risolverla pienamente. Ma in prima qui non si tiatta di farne una cjuistion di parole. Certo è che se per idee esemplari s'intendono solo le ragioni creaiiVe delle cose, secondo che le definiva l'autore dell'opera celebre De div. Nomin. cono- sciuta sotto il nome di Dionigi l'areopagita : Exemplaria sunt divinae vo- luntates determinativae et effèctivae rerum (cap.5), è inutile disputare se noi abbiamo le idee esemplari delle cose create. Ma dice S. Tommaso (i,q. i5, art. i e 2) che le idee nel senso di Platone si riguardano sotto due aspetti : e come principii di produzione delle cose (ut principia fa- ctionis rerjiraj, al qual aspetto gli scrittori ecclesiastici restrinsero di pre- ferenza il titolo di esemplari ; e come principii della loro cognizione (ut principia cognitionis ipsai'umj. Ora è manifesto che qui non discorriamo del primo che appartiene all'ordine della realità, ma solo del secondo che spetta all'ordine della cognizione O. (I) Perciò il llosmiai ascrive all'idea d'essere ìiianifestativa e non fattiva, e per lui anzi l'idea è per delìaizioae l'essere manifestante (Vedi Teosofìa, voi. 4", p. 336, Trattato dell'Idea). La stessa DI GIUSEPPE BDRONI 5^g Sotto questo rispetto poi le diciamo esemplari, non perchè preconten- gano le cose in quanto alla loro realità causalmente, perchè questo senso appartiene al primo rispetto che, per ciò che è della quistione presente, escludiamo: ma in quanto vogliamo significare che le idee, come prin- cipi! di cognizione, precontengono le essenze conoscibili delle cose che man mano conosciamo, in quanto le conosciamo, e come tali precedono e sovrastano alle cose conosciute, a quel modo che gli esemplari nrecedono e sovrastano alle cose esemplate, e non ne dipendono come copie o ritratti cavate e dedotte da quelle, secondo che abbiamo spiegato. E in questo senso dico, che anche l'autorità di S. Tommaso non ci è contraria, come si vedrà, se non se solo in apparenza. Ciò premesso, vengo alla risposta. Risposta. >^ 234. Di quali idee parliamo noi? Rispondo: 1° Delle idee parliamo assolutamente prese, che sono le forme eterne, incommutabili, prineiples formae quaedam vel ralioiies slabiles alque inconimutabiles,etc. (Aug. 1. cit.), delle cose tutte e di ogni lor modo e costume, quali appari- scono presignate nella faccia eterna dell' essere ideale, obbiettivo, e che delle cose stesse e d'ogni lor atto e costume sono le eterne possibilità, come dice il Rosmini , ed essenze e ragioni e verità. Perocché di certo, d'ogni cosa quaggiiì commutabile e d'ogni suo accidente anche menomis- simo, preesiste nell'ordine eterno la sua possibilità ed essenza e verità. Niun cristiano né fdosofo negherà un siffatto assioma o degnila. 2° Queste idee primamente e originalmente son contenute nella mente di Dio, divina iulclligeiilia conliiieiilur (Aug. ib.), perchè, come dell'essere abbiam veduto nel libro primo, elle non ponno essere altrove che nella mente (lib. 1°, n. 24 e seg.); ma misuratamente risplendono a tutte le intelligenze e misuratamente sono da esse partecipate secondo lor modo e capacità in quella sola guisa, in cui l'essere e le idee sono partecipabili alle menti, distinzione bassi in termini espressi in S. Tommaso, 1, q. 34, a. 3 : « Ad quintum dicendum quod eo modo quo scientia Dei est non entium (cioè de' possibili non reali), ctiam V'erbum Dei est non entium; quia non est aliquid minus in Verbo Dei, quam in scientia Dei, ut Aug.dicit (/)e Trinit. , lib. 15, e. 14 parum a piinc. ]. Sed tamen verbum est entium (de' reali) ut expressivum et factivum; non entium autem (cioè de' possibili non reali) ut expressIvum et manlfestativum ». Or questo è il proprio concetto delle idee secondo il Rosmini, lo quali non riguardano i reali come reali, ma gli eoli solo come possibili. Vedi ancbe S. Tommaso, 1, q. 15, a. 3. 55o dell'essere e del conoscere, ecc. cioè colla loro presenza, napovuia (vedi più sopra lib. 2°, n. io3; e lib. 4°? n. 240 e seg.) e coli' intuito da parte della mente, anima non negatur eas intneri posse rationalis ''\ ea sui parie qua excellil, idest ipsa mente alque ralione, quasi quadam faeie ve! oculo suo interiore atque intelligibili (Aug. ib.). Noi non le diciam nostre propriamente queste idee, perchè non le facciam noi; ma pure le abbiamo, perchè ne siamo partecipi, come siam partecipi della mente e della ragione: homo rationis particeps, e così particeps ideaium. 3° Non le idee son nostre, ma nostro è solo il modo misuratissimo dell intenderle e dell'intuirle noi uomini meschini, come voi dite, ed anzi meschinissimi sopra quello che dite. E questo modo nostro d'intuire le idee eterne delle cose temporali che percepiamo, è misurato da' sensi e dalle immutazioni che su' nostri sensi fanno le cose esteriori, perchè l'in- tendere nostro e il nostro conoscere in questa vita dipende da' sensi e quanto allo stimolo e quanto alla misura, e come insegna il Rosmini noi delle idee eterne delle cose vediamo solo quel tanto, e quel tanto solo ce ne risplende e ci se ne lascia man mano vedere, quanto risponde a nostri sentiti: perocché non le cose proprio come in sé sono conosciamo, ma solo le cose in quanto sono sentite. E qui cadono appuntino le parole che ci opponeste eli S. Tommaso d'Aquino, il qual dottore è sempre vi- gilantissimo ed esattissimo nella scelta delle parole, e noi sono sempre dei pari li suoi interpreti ed espositori: quia, dice, nostrum intelligere a sensibus prin- cipiura accipit qui per res naluraies iramutantur db.). Vedete un po' se dica qui o se dica mai, che l'intelletto nostro prenda da' sensi le idee, le verità delle cose: le idee, lo verità delle cose e anche di qualsiasi modo (si noti hene) in cui esse appariscono o apparir possano a qualsiasi intelligenza, non son altro che eterne, incommutabili: non ponno dipendere dalle cose e da' sensi commutabili: ma da' sensi e dalle immutazioni, che su' nostri sensi fanno le cose naturali, dipende solo il nostro intenderle quelle idee e verità, il nostro conoscerle o intuirle in una data misura: ipsuni nostrum intelligere a sensibus principium accipit. Che se altrove dice anche che da' sensi prendiamo le specie delle cose, species rerum, ma non mai dirà le idee delle cose, le quali non sono che nell'ordine eterno. Ora che cosa sono queste (l) U testo ha: « Anima vero negatur eas intueri posse nisi rationalis, eie. « . Ognun vede che mutando il giro della frase, per far notare che di quest'anima razionale ciò non si nega, non ne muto menomamente il senso. Che poi l'anima santa e pura, di cui Agostino parla nel seguente periodo, non significhi se non l'anima del savio che si elevi sopra i sensi mortali , come dicea la musa a Parmenide, parmi chiaro dal contesto. DI GIUSEPPE BUROM 55t specie delle cose? se non gli aspetti e le guardature limitate sotto le quali noi vediamo le idee eterne; o quel tanto die di esse e dell'essere ci si appalesa ammisurato a' nostri sentiti; o le segnature , come con vocabolo romagnosiano chiamolle in alcun luogo il Rosmini O, delle idee, secondo che fu per noi ragionato più sopra in questo stesso libro (num. 189, 190): sicché ira i due grandi nostri filosofi^ Rosmini, dico, e l'Aquinate, vi ha perfettissima consonanza. 4° Per parte di queste specie o segnature si trova esser verissimo ciò che dice lAngelico, che elle sono dedotte dalle azioni delle cose natu- rali su noi, e però son solo copie ed iniagini, non esemplari di quelle; né noi jirelendiamo altramente. Ma queste non sono le idee, e nemmeno nulla d'ingrediente nelle idee. Qui errano di loro capo i nostri oppositori, e non troveranno mai che questo dica il santo Dottore che essi fanno par- lare, e che egli dica proprio che le idee e le verità delle cose che noi vediamo nell'essere am misuratamente a quelle specie e segnature sieno elle stesse dedotte dalle cose come copie ed imagini di quelle. Le specie e segnature suddette costituiscono solo il nostro modo di veder l'idee, il qual modo è estrinseco alle idee: elle appartengono a' sentiti nostri, come tali. Ora il sentito, come tale, siccome siain venuti dichiarando le tante volte ed in tante guise, non é nulla dell'idea, ma é solo il termine estrin- seco dell'idea; non é causa della cognizione intellettiva, ma solo /«atórta causae , come disse già S. Tommaso (vedi sopra, n. aoi, nota ultima). Dunque, finché dimoriam in esse specie, siam hiori della idea; siam solo nel termine dell'idea, o nel modo che ne prende la stessa idea. 5° Per parte anche di queste specie e segnature diverse delle cose accade quella gran variet'i d'intelligenze che si notano o si ponno sup- porre disseminate pel mondo, e ogni specie di quelle può avere e si può (!) Nel Rinnovamenlo, lib. 3, e. a% p. 604 (cf., ivi, p. 543, nota) e nel voi. 5° della Tcos., p. 125, e al- trove: o Lo spirilo intelligente adunque, dic'egli nel citato luogo della Teos., non potrebbe intuire nel- l'essere in universale i concelti limitali, se egli non percepisse unito il reale (o il fantasma del reale) all'ideale, senza che ne nasca perciò confusione, e quello non segnasse in questo i limiti suoi proprii, e l'intelligenza non apprendesse queste segnature >> . Cbe se il reale sensibile manca, ticn luogo di esso l'immagine sensibile che rimane nell'anima, secondo che dice S. Tommaso. " Ma pure si dirà (prosiegae il Rosminil, allorquando l'immaginazione intelletliva pensa l'ente specifico pieno, ella non ha bisogno che l'ente reale sia presente. Se intendete (risponde) che l'ente reale non ha bisogno d'esser pre- sente ai sensi, lo concedo j ma se intendete che la immaginazione intellettiva possa pensar l'ente senza averne dei segni reali che gliene diano lo stoll'o, lo nego. Or questa facoltà (l'immaginazione intellettiva] ha una realità per sua natura: perchè l'immagine sensitiva è una realità, è una parte dell'organo sensorio interno, eccitata, ecc. » . 55a dell'essere e del conoscere, ecc. dir anco che avrà con certezza il suo modo specifico di conoscere diverso dal nostro, fossero anche centomila specie d'intelligenze corporate fornite d'organi ed organismi diversi dal nostro, che popolassero gli astri del firmamento, o milioni e milioni d'intelligenze puri spiriti, come il senso cristiano crede degli angeli. Tutta la diversità del loro conoscere non sta- rebbe certo da parte delle idee loro soprastanti e di sopra loro rilucenti, perocché le idee, dice S. Agostino, son sempre quelle per tutti, eterne, incommutabili ; ma starebbe da parte delle specie, o acquisite e derivate dalle cose secondo che si spiega nella teorica del senso per riguardo a noi uomini che soli ci conosciamo e ancora in picciola parte ci conosciamo, o loro innate e impresse dal Creatore , come S. Tommaso pensa degli angeli. Che è quanto dire, tutta la diversità di tanti modi di conoscer le cose starebbe da parte dei diversi sentiti, come tali, e de' diversi senti- menti. Perocché il Rosmini dimostrò assai bene nella teorica del reale co- smologico (vedi per es. il voi. 5° della Teosofia che versa intiero su questoj, che nel sentimento in ultima analisi il tutto consiste del reale : ed anche gli angeli o i puri spiriti hanno il loro modo di sentire incorporeo (come per es. sente se stessa con senso incorporeo lanima nostra razionale e spirituale), ed hanno i loro sentiti e i loro sentimenti: e non incongrua- mente il Rosmini estima, che, come le specie nostre acquisite, e come diconsi a posteriori, che pi'endiam dalle cose, son certi nostri sentimenti passivi da quelle; così le specie indite e a priori, che S. Tommaso e i teologi con lui amano di porre negli angeli, siano invece de' sentimenti attivi e prestanti di loro verso le cose (0. Comunque sia, tutta una tale diversità sta da parte del termine estrinseco delle idee, cioè del senso e delle cose sentite, come tali (2), e non da parte dellessere e delle idee che permanendo slabili e incommutabili s'ammisurano a tutti i sentimenti e a tutti i sentiti. 6° Or facciamo, se vi piace, un passo di piìi. Non le sole cose, quali voi ve le fingete là in se stesse nel loro essere assoluto senza verun rapporto a nissun senziente o percipiente (sia vera o non vera una tal vostra finzione), ma le cose proprio in quel modo e con quel modo (1) Vedi Tcoilicea, n. 751, nota. Questi sentimenti variegati degli angeli, egli li cliiama innati, come innato è in noi il sentimento primo e Toiidamentalc che è la recettività di tutti i sentimenti attuali I' dei terminati che riceviamo di poi per l'azione dei corpi. (2) E anche da parte del modulo proprio ad ogni mente, il qual modulo è pure estrinseco alle iflec. Questa distinzione fra le idee e il modo delle idee, o per dir meglio modo di vederle, ha rilevato assai bene il Uosmiui nel più volte cilalo dialogo del Rinnovamento, lib. 3*, cap. 52. DI GIUSEPPE BURONI 553 determinato in cui appariscono ad ognuna di quelle miriadi d'intelligenze, sia pur fenomenico e relativo quanto volete, e tutte le specie e segnature diverse delle cose in esse intelligenze resultanti a posteriori o indite a priori, non hanno esse pure nell'ordine eterno obbiettivo dell'essere ideale, cioè nel mondo delle idee, o se meglio vi piace nella mente di Dio, la loro verità appuntino corrispondente, e la loro essenza rispettiva, e in breve la loro idea esemplare, la qual non sarà lidea esemplare assoluta della cosa in quella sua esistenza solitaria finta da voi, ma pur sarà l'idea esemplare, eterna, assoluta della cosa in quanto così e così e da tale o da tale sentita o percepita ? Certo che sì. — Veniamo alle corte. Quel vivido color verde del prato che apparisce a miei occhi , e ai voslri e agli occhi sani d'ogni uomo, certo senza tali occhi non sarebbe (Teos., voi. 5°, p. Sg). Ma pure l'essenza del color verde, qual è veduto da noi, e anche l'essenza eli quel verde giallognolo che apparirebbe agU occhi intrisi di itterizia, esiste nel mondo ideale, e tra le idee esemplari vi ha pure lidea esemplare del color verde, la quale non sarà certo tutta l'idea esemplare creativa del prato che sola voi pensavate, ma in somma sarà l'idea esemplare del nostro modo di vederlo, della nostra specie , della nostra segnatura ('). Al che s'accorda un articolo di S. Tommaso, poco considerato dai suoi interpreti, ove domanda (i, q. i4, art. i4) se Dio conosca le propo- sizioni enunziabili e composte che noi formiamo delle cose , mentre egli ha un modo di conoscere semplicissimo; e risponde che senza dubbio le conosce, appunto perchè noi le formiamo ; perocché, conoscendo egli pie- namente le creature, conosce anche ogni lor modo: « Cum formare enunlia- » bilia sit in potestate intellectus nostri, Deus autem sciat quidquid est in » potentia sua vel creaturae (Cf ib., art, g); necesse est quod Deus sciat (1) Qui si affaccia una grossa difficollà che fu toccala dal Rosmini nel voi. 5° della Teosofia, p. 58 e seg. , come si possa mai porre nel mondo delle idee esemplari quelle de' colori (e lo slesso dicasi dei dolori ed altre cose simili), poiché i colori sono essenzialmente sensazioni, e nel mondo delle idee le sensazioni non esistono. E la stessa difficollà espone ancora più a fondo o più lunga- mente nel voi. 4" della Teosofia, pag.481 (Trattalo delVhlea, n. 1471. Ma non è qui il caso di risolverla, la quale ritornerà in campo poco appresso nel capo 18, ove si tratterà di spiegare come le cose temporanee e contingenti esistano nell'eterno e nel neces- sario. Per ciò che spetta al presente proposilo ci basii il dire ciò che non ci vien punto negalo da coloro co' quali parliamo qui, che in Dio vi sono di certo le idee esemplari e le essenze delle cose create e di tutti i loro lineamenti e costumi, e che l'essenza e l'idea della sensazione non è la sen- sazione. Il come poi accada questo e si spieghi, sarà un lutl'altro discorso. Serie li. Tom. XXX. 70 554 dell'essere e del conoscere, ecc. » omnia enuntiabilia quae formari possunt ». Che è quanto dire che non le conosce come modo suo , ma pur le conosce come modo nostro di conoscere. Ed è ciò che disse il Rosmini {Rinnov., p. 8og-6io), che le idee nostre (e volea dire le nostre specie, o i modi nostri di vedere le idee), e tutte le idee che avessero quelle miriadi d'intelligenze da noi supposte, debbono esser anche in Dio, cioè presignate nell'essere ideale eterno ; ma che Dio le ha come nostre, non come sue. Onde trae questa bellissima conseguenza, che tutte quelle diverse maniere di conoscere, sebben di grado tanto diverso e limitatissimo, e sebben guardino le cose da un lato solo, pure son tutte vere ed hanno nell'essere le loro eterne verità e le loro idee esemplari appuntino corrispondenti , che sono la verità assoluta de' veri relativi. E consuonano quelle altre parole sublimi di S. Tommaso, che « Sicut ab una facie hominis resultant plures simi- » litudines in speculo, sic ab una veritate divina resultant (in multis intel- » lectibus creatis) plures veritates » (i, q. i6, a. 6); e che viceversa tutte le cose , e tutti i lor modi e entità sono vere d'una soia prima verità, secondo che a quella si rassomigliano, e per questa rassomiglianza (di certo conosciuta) tutte si denominano vere: « Omnes sunt verae una prima » ventate, cui unumquodque assimilitatur secundum suam entitatem; et sic» » licet plures sint essentiae vel formae rerum, tamen una est veritas divini » intellectus secundum quam omnes res denominantur verae n [ibid.). n" Or dopo tutto ciò panni d'essere al fine d'aver risolta piena- mente l'obbiezione. Queste idee esemplari appuntino corrispondenti a quel modo limitatissimo in cui mano mano le cose, con le loro azioni su noi, ci si appalesano, e corrispondenti appuntino alle specie e segnature che noi ne formiamo o riceviamo, son quelle che il Rosmini pone esser da noi partecipate per intuito e presenza, TzupovGiix , all'atto della cognizione. Nel che non v'è nulla di eccessivo, di entusiastico, e cui punto repugni veruna delle opposteci autorità. E ninno dirà che quelle idee per una nuova specie di scienza media risultino nell eterna verità dalle cose temporali, sicché abbiansi a dire imagini dedotte e ritratti di queste, e non loro esem- plari precontenenti le loro essenze, precontenenti dico le essenze delle cose sentite come sentite, e nella misura che sono sentite. Ma comporremo il tutto così : dedotta sono le imagini o specie, come le chiama S. Tommaso, che prendiamo delle cose secondo i sensi O; ma esemplari le idee con cui (1) Si Doti che oou voglio dire con ciò che San Tommaso per f/>eci> intenda solo \e spevie sen- DI GIUSEPPE BURONI 555 secondo quelle specie ed imagini le conosciamo, e non le conosceremmo altrimenti, né quelle idee intuiremmo, se non col sussidio e come dire a traverso di esse imagini o specie. Nel che consiste il platonismo tempe- rato di S. Agostino, spiegato e, come a me pare, anche adottato da San Tommaso nella i", q. 84, a. 5. 253. Ma le idee che veniamo ad aver delle cose, nel modo ora spie- gato, non sono esse rappresentative , e però solo copie e ritratti delle cose stesse, per quella parte almeno che dicemmo dipendere dall'azione che le cose esercitano su noi e sui nostri sensi? — « Qui si debbono distinguere più cose », risponde il Rosmini proseguendo la sua teorica della rappresentazione nel voi. 5" Teos., e. 21, ove naturalmente si pre- suppone la sua teorica del senso e del reale ('). 1° Quel sentimento primo e sempre identico che costituisce la sostanza spirituale , non è già rappresentativo di questa sostanza, perchè anzi è dessa medesima. Onde qui non si dà rappresentazione. 2° Le sensazioni considerate quali modificazioni dello spirito ( anzi del soggetto senziente, spirilo e corpo), non Io rappresentano, appunto perchè sono modificazioni, e però non sono mai sole, ma sempre unite al sentimento sostanziale. 3° Il corpo estraneo sentito da noi è una certa forza diffusa nel- l'estensione che immuta il nostro sentimento. Questa forza per noi sta tutta nell'azione che esercita su noi. Vero è ch'ella suppone un ente sog- getto cui appartenga, ma trattandosi de' corpi questo ente soggetto (qua- lunque sia) si rimane straniero alla nostra percezione, e tutto ciò che ne conosciamo , è unicamente la forza. Questa forza , come prima ed unica cosa cadente nella nostra cognizione, diviene per noi la sostanza corporea, ed è ciò che chiamiamo corpo. Tale è tutta la nozion nostra di corpo, secondo il Rosmini. Ora questa forza nel fatto del sentimento nostro ex- trasoggettivo non si fa rappresentare da qualch' altra cosa, ma c'è ella sibili, perchè so che egli nella sua terminologia ammette le specie sensibili e \e specie intelligibili. Ma le specie intelligibili sono appunto le slesse idee che diciam noi in quanto sono ammisurale alle specie sensibili, o le specie sensibili in quanto sono assunte daiPinlelletlo a misurar la sua visione delle idee, sicché v'è sempre inchiusa una relazione alle specie sensibili. (1) In questo numero 255 dimora quello schiarimento che sopra nel num. 251, nota 1 avevo dello di aggiugnere sulla fine di questo capo alla teorica della rappresentazione. Ma qui non è che accennato, perchè altriraenli escirebbe dall'argomento di questa tratlaziune. Corrisponde a questo argomento la trattazione del Nuovo Saggio, num. 948-960, ove il Rosmini spiega in che senso le sensazioni sono similitudini colle quali noi conosciamo in qualche modo i corpi. 556 stessa. Dunque il corpo, propriamente parlando, lo conosciamo immedia- tamente, non per via di ra|)presentazione. 4° Fin qui pertanto non si trova ancora alcuna rappresentazione. Ma noi, o colla supposizione o colla dialettica trascendentale, passiam oltre a porre al di là della sostanza termine che percipiamo, un ente soggetto e principio di quella. Sotto questo riguardo soltanto il sentito nostro corporeo diviene rappresentativo di quell'ente trascendente, quale un segno vicario di lui, perocché non ne abbiamo nissun' altra notizia, o quale una veste ài cui quello s'ammanta. 5° Al di qua poi della forza e sostanza, termine che percipiamo im- mediatamente e chiamiamo corpo, ci sono le sensazioni organiche o al- trettanti tocchi di sentimento che ne riceviamo. Questi toc hi diversi di sentimento sono effetti di quella iorza, ma non sono essa, né la esauriscono. E tuttavia valgono a significarla e rappresentarla al nostro spirito: come per es. le imagini visive prodotteci dai corpi esterni nell'occhio mediante la luce, ci mettono innanzi allo spirito essi corpi (e così fanno le sensa- zioni tattili, acustiche, ecc.), ma non sono essi corpi. Ci fanno dunque co- noscere i corpi per una cotale rappresentazione. Ma anche questa rap- presentazione è più che quella d'un ritratto: perocché nò il ritratto è l'effetto della persona ritratti, né in quello vi ha imlla dell'attiviti di questa. All'incontro la sensazione organica é l'effetto della forza corpo, e tiene in se stessa una parte di questa, di cui ci fa riconoscer non solo l'imagine, ma la presenza. 6° E finalmente è da aggiungere che nulla di tutto questo è l'idea, ma è solo il termine dell'idea (come é termine dell'idea tutto ciò che spetta al reale) e costituisce la cosa conosciuta o la specie dell'idea di quella ('). Onde si vede quanto abusivo sia, secondo che s'era proposto il Ro- smini di provare, l'allargamento che tanno i tedeschi della lor voce Darstelhmg, i-appresentazione, e il supporre che le idee sieno rappresen- tative delle cose (-). L'idea non è rappresentativa d'altro, perchè contiene ciò che rappresenta, e rappresenta ciò che contiene. Le idee son sempre esemplari nel modo spiegato. (1) Propriamente dunque ciò ctie qui si disse dell'esser copie dedotte conviene alle specie o imagini sensibili; ma quindi indiretlamenle anche alle idee in quanto si riguardano come specie intelligibili, cioè come idee in senso composto col modo in cui noi le vediamo. Quest'avvertenza ebbi già occasione di fare un'altra volta più sopra, non ricordo più dove. (2) Il .Aristotele e la Scuola dissero che nella sensazione noi non percepiamo le cose stesse, ma le DI GIUSEPPE BURONI SS^ CAPO XVII Doppia esistenza de' reali assoluta e relativa : Mondo metafisico degli enti. 256. Con che ci troviam ricondolti a quella che io stimo pur sempre essere la espressione piiì elimata e culminante della teorica rosminiana , d'aver saputo il suo autore con bella e chiara mente distinguere e tenere costantemente distinta (rinnovando anche qui la dottrina a' nostri antichi savii italici ben famigliare de' due mondi sensibile e intelligibile, già per noi più sopra memorata, n. 221 e seg.), una doppia esistenza delle cose che cadono sotto la nostra percezione O; una bassa e relativa , l'altra sovrana ed assoluta, la quale ei chiamò il mondo metafisico degli enti, e che rico- nobbe essere in riguardo a noi (sceverandosi così da' mistici e da' visio- nari) semplicemente ideale; e d'avere notato come nel latto singolarissimo della cognizione accada un subito trapasso dello spirito intelligente, faci- lissimo a tutti gli uomini, ma alla piìi parte di loro sconosciuto, cioè da essi non avvertito, dall'una all'altra. Conciossiachè, per l'intimo sintesismo già pii^i volte spiegato tra il senso e l'intelligenza, i sensibili, venendo dalla mente investiti della luce dell'essere, restano con ciò stesso trasportati nel mondo metafisico degli enti (n. i i5): quasi come (dice in un luogo lo stesso Rosmini, chi non patisca scandalo della similitudine) se agli occhi itterici si presenta un drappo bianco, ed essi ne vedono un giallo (Teos., voi. 5", p. 261). Così accade che la mente trasporta subitamente nel suo mondo metafisico dell'essere (che è per sé luce e verità e non teme dubitazioni loro simililudÌDÌ, le quali liman^ousi suggellale; negli organi uoslri, e per quelli vengono nel nostro spirilo ricevule. Tali sìmililudini o specie sensibili io credo die abbiano IraUo la loro origine dal fonte di errori pur ora accennalo, eioL' dall'avere applicalo quanto accade nel solo senso della vista alla sensitività in generale. Se questi filosoli si fossero dati cura di analizzare le operazioni di cia- scun senso, non avrebbero accomunato quello che è proprio del più nobile e vago ira essi agli altri tutti, ma avrebbero parlato di ciascheduno con parole proprie e adattate > [Nuovo Saggio, 948). E dalle specie sensibili l'errore passò poi alle specie ialclligibili le quali apparvero non altro che rappresentazioni delle cose, aperto cosi il varco allo scetticismo. È da vedere come ben discnopra e dissi| i questa illusione il Rosmini nel luogo citato del Nuovo Saggio, n. 948-9G0. CI) Risica che qui e nei capi seguenti io sia colto in contraddizione con me stesso, approvando qui questa doppia esistenza delle cose della dal Rosmini, che più sopra, nel libro 2" capo 5 (n. 109 e seg.), ho riprovato. Ma si veda anche la noia che quivi ho apposta (n. 109, nota 1 e 2). Sempre s'intenda che l'essere e l'esistere è uno, né ve ne ha due: ma sono due i modi d'essere delle cose finite, l'idealità, che pur contiene la cosa, rem, e la realità sensibile e fenomenica. Meglio direbbesi forse doppia realità delle cose, l'una eminente od assoluta nell'idea, l'altra bassa e relativa nel senso, che non doppia esistenza. 558 dell'essere e del conoscere, ecc. di scettici) i termini che il senso le presenta , e mentre questo non le mette innanzi che copie (le cose sensibili e le loro specie), ella dentro da sé e sopra da sé contempla gli esemplari C): « Accade, dico, soggiugne ivi stesso il nostro Autore, che le sia presentata una cosa, ed ella ne veda un'altra »: sebbene, soggiungo io, dopo tutto ciò che fu ragionato fin qui, non è veramente un'altra cosa che la mente veda, diversa né punto ne poco dalla presentata ; ma quella stessa che le è presentata sotto una forma , ella vede in un'altra: le é presentata una cosa reale sensibile, ed ella contempla una essenza ideale possibile (2)- mentre la realità sensibile resta fuori dell'intuizione della mente, ed è còlta da un tutt'altro atto che è l'alFermazione della ragione (sintesi di senso e di mente). Intanto per questo sintesismo l'intelligenza vien fecondata e ampliata; ella viene ad avere nel suo cielo uniforme delF essere delle intuizioni determinate che prima non aveva. Per aver queste intuizioni determinate ella ha bi- sogno di prendere dalla realità, e per conseguente dal senso, le determi- nazioni; ma queste determinazioni prese dalla realità e dal senso, ella le considera puramente come essenze, e però possibili, non reali: e tuttavia non potrebbe pensarle come possibili, se il senso non gliene j)resentasse un esempio, che è appunto quello che vien da lei universalizzato, cioè contem- plato nell'universale '?). Ma il sensibile, come tale, non è mai veramente il (1) Gli esemplari, dico, ammisurati al modo delle cose come sentite da uoi e alle loro specie, secondo che fu spiegato sopra, al num. 254, G° e 7°. (2) Possibile, dico, rispetto alla realità esterna sensibile che nella essenza ideale è, per cosi dire so\ presignala come possibilmenle futura, non ia atto coulenula quale quella sarà poi al senso e nell'ordine sensibile ; ma pure, si noti bene, questa essenza ideale che dico, è in se stessa sommamente reale della sua realità eminente, ed inoltre in questa sua realità eminente preconliene in modo eminen- liale anche la realità inferiore e sensibile che sarà, siccome spiegammo più sopra nel capo 9 di questo stesso libro, conciossiacliè nulla può essere nel mondo inf'crinre de' sensibili che nel mondo superiore degli intelligibili non sia precontenuto. Senonchè hawi ancora qualche cosa di più da dire, la quale porgerà argomento al seguente capitolo che salirà a un grado maggiore dell'intuizione mentale; e il di più fa aggiunta, ma non contraddizione al di meno. (3) E precisamente ciò che dice ed insegna San Tommaso dopo Sant'Agostino nella 1, q. 84, a. 5 : o Quia lamen praeter lumen intcllectualo in nobis exiguntur spccies intelligibiles a rebus acceptae sd scientiam de rebus raaterialibus habendam ; ideo non per solam participalionem rationum aeler- narum de rebus materìalibus notitiam habemus, sicut Platonici posucrunt, quod sola idearura parti- cipatio sufficit ad scientiam habendam. Unde Auguslinus dicil in 4 De Trinit., cap. 10: Numquid, quia philosojihi documenlis cerlissimis persuaite?it aelanis ralioniòus omnia tempnralia fieri , propterea potuerunt in ipsis rationihus suspicere vel ex ijisis coHigere, (jttoi sint animalium genera , quae semina éingulorum? Nonne ista omnia per locorum et temporum historiam quaesierunt ? che è appunto la ne- cessità di dover essere la mente fecondata dal senso, detta qui dal Rosmini. DI GIUSEPPE BURONI SSq proprio termine della stessa mente, che il termine della mente è il determinato possibile, cioè ideale, e non il determinato reale, cioè sensibile ('); senonchè il determinato reale è un mezzo ali uomo di salir da questo a quello, traspor- tando questo in quello come nel suo esemplare, o piuttosto intuendo l'esem- plare nello stesso tempo che il senso gli porge la copia {Teos., ib. p. 260- 26 r). Che è quello appunto che dicevamo verso la fine del capo precedente (n. 254), che, corrispondenti alle specie relative delle cose sensibili, rilucono alla mente dall'alto le idee : ed è forse quello che dir volevano gli Scolastici, cioè che l'anima, le specie pòrte dal senso, ella col lume dell'intelletto agente (che è Tessere ideale) trasforma in idee. 237. Di questa esistenza sovrana e assoluta delle cose basse e rela- tive; (li questo mondo metafisico degli enti, che era del resto il risultato della teorica esposta nel Nuovo Saggio, lasciò il Rosmini tralucere un barlume al suo interlocutore Maurizio fin da quando dettava il volume del Rinnovamento , dicendo, che fino a tanto che si considera il corpo nel mondo delle sensazioni, cui appartiene il fenomeno dello spazio (si noti che pel Piosmini fenomeno non è negazion di reale, e che anche lo spazio è una realità ; senonchè tutte le realità temporanee non sono che fenomeni ed ombre delle idee ed essenze sempiterne), si ha bisogno d'un luogo ove collocarlo, e però o dentro o fuori di noi: ma che se lo spi- rito s'innalza a considerare il corpo come ente, che è concetto piiì vero, ogni silFatto bisogno di spazio cessa. « I volgari, soggiugneva, stanno nel mondo delle sensazioni, e però non possono uscire col pensiero dallo spazio; ma i savii abitano nel mondo metafisico che è quello degli enti, e non dello spazio, e in questo veggono Io spazio stesso (come ente) fuori dello spazio » (Rinnov. p. 6o3-6o4 : Gf. Jrist. Esani., p. 21 3). Se non che s'interruppe di subito per allora soggingnendo : « Ma io non amo, Maurizio, che noi ci solleviamo tantalio; e se ne avrete vaghezza, vi soddisferò con più agio « (ivi). Or questo egli fece abbondante- mente nelle opere posteriori. 258. NeìVJrisi. Esam. (1. cit.) egU reca a questo difetto precipuo, cioè di non essersi potuto Aristotele innalzar colla mente al mondo metafisico degli enti al di sopra e fuori di ogni spazio, la causa principalissima del non aver anche saputo quel sofo, per altro acutissimo e ingegnosissimo, raggiungere ed alTerrare l'intimo ed elevato concetto della filosofia di Pla- (1) Vedi qui inaaozi la nota ì della pa^'. precedente. 56o dell'essere e del conoscere, ecc. Ione, e segnatamente quello del poter essere le stesse identiche nature, le essenze, ad un tempo universali e particolari, rag ci.màq l GIUSEPPE BURONI 563 come tali sono cause antecedenli ed efficienli delle cose stesse infime e relative. Onde le idee divine non sono manchevoli ^ o similitudini imperfette e superficiali delle cose, perchè son le cose stesse intese nella loro totalità ; ma sono similitudini piene e solide di quelle C'), e sono essenze creatrici, come le chiamano i teologi i'^). Direbbesi quasi che la creazione si faccia simulta- neamente su due piani, l'uno soprastante all'altro. Le cose procedono pri- mamente da Dio come obbietti cogniti da lui, e questa è la tipificazione eterna delle cose, specie di creazion prima ed eminente (impropriamente detta creazione) che Platone nel x della Repubblica chiamò (impropriamente) la creazione delle idee esemplari eterne: e per essa si ha quella che noi chia- miamo l'esistenza assoluta eil eminente delle cose, o il mondo metafisico degli enti finiti (3\ Però le cose procedono a sussistere in se stesse fuori di Dio, come copie di quegli eterni esemplari, e questa chiamiamo la cieazione esterna ed inferiore del mondo, ed è lo stato sensibile e feno- menico delle cose create emergente dal primo. Odasi il Rosmini: « L'ente finito pertanto ha due forme : in quanto è essere oggettivo reale, esso è in Dio pienamente cognito; in (pianto poi egli è puramente forma reale (1) 11 che dice similmente il Vico(ib.): » Quae ipsa ut similitudine illuatrem, verum divinum est imago rerum sulida, tanquam plasma; verum humanuni monoj^ramma seu imago plana tan- quam pictura ». (2) Di questa maniera si vale più volle sant'Anselmo: Creatura in Ferbo est crealrix essenlia. (3) Di questa produzione eminente degli esemplari cbe è come un avviamento alla creazione estrinseca delle cose in se stesse, parla l'Autore del libro De divinis Noininibus nel capo 5. Da prin- cipio del capo lo chiama jnocesso soslantifico (t>;v oùsiottoiòv Tipóoòov) : sulla fine di quel capo lo chiama un eccesso o emanazione dall'Essenza Prima (tvj ràò oùat'a; ezjSaicv) per cui concepisce e produce le essenze sempiterne che sono gli esemplari sostantifici, cioè creatori delle cose inferiori: ènei xcù o'jaixi nupa'/ìi, xarà rriv aitò ojtìxì É/^afftv. 7r«|5«0;i'///.aTa di ^a/xev uvxi toù? Èv Oew twv wvToy oùaionOLo'ji idyou;. E Certamente difficile intendere come la produzione di questi esemplari in Dio non porti in Dio stesso moltiplicità e divisione, sopra che è da veder San Tommaso, nella l^q. 15, De ideis. Anche il Rosmini nel capo della tipificazione eterna si mostra, parmi , più del solito imbarazzalo. Ma la soluzioue dell'enimma sta qui, nel fermar bene l'essenza del conoscere obbiettivo, per cui questi esemplari sono prodotti da Dio come obbietti contemplati, e non come qualità subbiettive della sua essenza. Insomma non sono altro che le cose stesse create estrinseche a Dio in quanto contemplate prima dalla Mente di lui. Ora non è contro la semplicità del divino intelletto ijtiud multa intelligat, come disse San Tommaso. E questo mi par essere il senso che esprime lo stesso santo Dottore nella q. 14, a. 6, e. , circa il fine : Dicemium quud Deus non solum logiioscit res esse in seipso (ciò non ba- sterebbe alla obbiettivazione delle cose), seU per id quod in seipso conlinet res, cognoscit eas in propria natura, et tanto perfectius, guanto pirfectius est unumquodque in ipso. Ora le cose conosciute da Dio in propria eanim natura, ma non si che il modo del conoscerle Dio sia preso da loro e sia lo stesso che il modo che esse hanno in lor bassa natura, sono quelle che io chiamo le cose proprio reali create, ma in quanto son cognite da Dio e obbietti della tua mente: e tale e la loro realità metafisica ed eminente di natura più alta ed elevata di quella che hanno in se stesse materiale e fenomenica. 564 sussislente in se stesso, è fuori di Dio, cioè sostanzialmente altro da Dio. Pertanto ciò che in Dio si concepisce come esemplare è lo stesso essere oggettivo reale dei sussistenti finiti. Quest' essere oggettivo dei sussistenti Jinitl è termine interno dell'atto intellettivo divino. . . ed è l'atto creativo. . . ; appartiene all'atto creativo come sua eterna attualità. . . ; è la stessa causa creante nel suo atto ultimato » {Teos., voi. 3°, pag. 306-207). ^ ^^ nuovo (ivi, pag. 2og): « Ritorniamo a dire che gli stessi enti creati, in sé sus- sistenti, non in quanto sono sussistenti relativamente a se stessi, ma asso- lutamente, sono l'immediato termine dell'atto creativo che è intelletto ver- biforme; ed in quanto sono termine della detta intellezione, all'intellezione stessa appartengono come subbietti oggetti : in quanto poi sono in se slessi sussistenti, in tanto hanno l'esistenza puramente subbiettiva a sé relativa, e però fuori dell'oggetto. I subbietti sussistenti dunque (cioè le cose create) esistono in due modi, cioè: 1° inchiusi nell'oggetto divino; 2° rispetto a sé: che è quanto dire che rispetto a sé son precisi da quest'oggetto, son fuori di quest'oggetto. Come subbietti oggetti si ponno dire similitudini perfettissime dei subbietti puri (son loro esemplari, idee, tipi), e apparten- gono all'intellezione come estremo della sua intellettualità, senza porre in Dio alcuna nioltiplicità 0 distinzione reale, perchè la distinzione è nei sub- bietti puri ». Pel qual modo anche San Tommaso concilia la nioltiplicità delle idee divine colla semplicità dell essere divino (i. q. 1 5. a. 2 e. et ad 3m et 4m). 262. A questa esistenza assoluta, a questo mondo metafisico degli enti, noi dicevamo pertanto che si innalza la mente nostra, allorché le cose sottane contempla nell'essere. Ma un tal modo di conoscere i reali finiti « è solo un barlume, dice il nostro Autore, anziché conoscimento per- fetto di quella esistenza assoluta ». E ciò per due limitazioni, che, non ben distinte nel testo del Rosmini, distinguerò meglio nel mio discorso. Priuniera niente perchè l'uoino per questo modo vede bensì gli enti finiti nell essere ideale, ma sol come li sente; e come li sente, son rela- tivi: vede dunque i relativi o l'esistenza relativa in un modo assoluto ('); mentre Dio invece conosce l'esistenza assoluta deW esistenza relativa in un modo assoluto. . . Questa è la prima limitazione del conoscere umano. (1) Gii) corrisponde a quel che ragionammo nel capo precedente che la mente nostra intuiste sì le idee esemplari di Dio, ma solo in quel tanto che esse sono esemplari del nostro modo di per- cepire le cose per via di sentimenti, cioè le intuisce sotto un rispetto relativo e mollo limitato. DI GIUSEPPE BOROM 565 La mente nostra conosce solo dell'esistenza assoluta degli enti finiti quei tanto che corrisponde al nostro modo assai limitato di percepirli nel mondo reale e sensibile ('). Inoltre, anche per quel tanto che corrisponde al nostro modo limitalo di percepire gli enti finiti, l'uomo nella presente vita non ne coglie l'esistenza assoluta quale questa è in Dio; perchè in Dio, come abbiamo veduto, l'esistenza assoluta è un tale intelligibile che precontiene il reale e lo produce come causa effettiva ed immediata ; l'uomo invece ne vede finteliigibile sol come lume manifestativo e non come causa del reale (2) ; ma il reale lo deve prendere d'altronde, dal senso. Onde accade che la cognizione dell'uomo sia manchevole; e ch'egli veda bensì i sentimenti nell'essere, che è il modo assoluto di conoscere, ma non veda la loro esistenza assoluta in Dio, che sola è atta a spiegare come le cose reali sensibili siano veramente nell'essere, qual nodo le raggiunga all'essere, e come la loro esistenza relativa consegue necessariamente dalla loro esi- stenza assoluta, causa loro immediata. E questa è la seconda limitazione del conoscere umano. Anche quell'esistenza assoluta del modo relativo degli enti i-eali 1 apprende non in modo pieno e assoluto come Dio, ma in modo parziale e relativo alla propria mente che coglie solo l'essere ideale non l'essere reale creante. Che è quanto dire che il conoscere divino, il quale in Dio è pieno, ideale e reale insieme, cioè tutt insieme idea-verbo, intuizione-alfermazione, scienza di semplice intelligenza e scienza di visione, giusta il linguaggio de' teologi, comunicandosi all'uomo si spezza in due: alla mente l'idea, al senso il reale (termine); onde nell'uomo la scienza di semplice intelligenza (intuizione) è altra dalla scienza di affermazione e di predicazione dei reali, e si uniscono nella sintesi primitiva (3). (1) Questo dice il Vico:»Quod Deus omnia elemeula rerum legit, cum extima tum intima, quia ea continet et disponiti mens autem humana, quia terminala est, et extra res ceteras omnes quae ipsa non sunt, rerum dunlaxat extrema (vel cxtima) coactum eat, numquam omnia colli^at, ita ut de rclius co^'itare quidcm possit , intelligere autom non possit, quare particeps sit rationis, non compos » . E similmente è da dire die la mente umana è particeps della esistenza assoluta e del mondo metafisico degli enti, non compos usquequaque. (ì) Il che dice Vico: « Verum divinum est imago rerum solida. .. liumanum vero imago plana lanquam pictura » . (3) Si ascolti eoo qual precisione dica lo slesso San Tommaso nella 1. q. 14, a. Il : • Perfectiones qnae in inferioribus dividunlur, in Deo simpliciter et unite existunt ; unde, licei nos per aliam po- tentiam cognoscamus univerialia et immaterialia, et per aliam singularìa et materialia, Deus tamen per suum simplicem intellectum utraque cognoscit » . 560 « E che la cosa sia così, prosiegue il nostro Autore (ivi, p. 222), vedesi anche da questo, che fino a tanto che l'uomo li intuisce semplicemente, questi sentimenti e questi sentiti, nell'essere, non sa ancora se esistano vera- mente in se slessi; e veduti dall uomo nell'essere, si dicono essenze, non sussistenze, ma non essenze creative come quelle di Dio. Pur quelle essenze son relative alle sussistenze , perchè l'uomo non le vede nell'essere, se non perchè le ha sentite sussistenti, onde non ha fatto altro che vedere nell'essere ciò che nell'essere oggettivo corrisponde a queste sussistenze subbiettive. Trasportò dunque i suoi sentimenti nell'essere ». E qui unendo lelemento relativo ali assoluto, forma, o a dir meglio distingue nell'essere, le idee o specie determinate delle cuse. Ma questi sentimenti reali appartengono al modo di esistere relativo, quando l'essere stesso (intuito dalla mente) appartiene al modo di esistere assoluto. Ora il rela- tivo e l'assoluto sono eterogenei, talché non si ponno congiungere per modo che il relativo sia qualche parte dell'assoluto. Non vedendo dunque l'uomo come si congiungono due elementi tanto eterogenei, «quindi, soggiugne il Rosmini, il punto oscuro dell'umana cognizione <) (ivi, p. 222). Il qual punto oscuro, e come dir lacuna e macchia nera nel campo dell'umana cogni- zione, procede di qui appunto dal non veder noi l'atto creativo per cui il reale finito procede dall'infinito, ed il sensibile esce dall'intelligibile (0. Onde (1) Questo punto oscuro (lell'umaDa cognizione viene anche toccalo e spiegato dal Rosmini nel voi. 4* della Teosofia, ossia nel Trattato deW Idea, num. 170-171, le cui parole citerò qui in nota: « Di poi si rileva, in che senso noi diciamo che le cose create sono termini dell'ente intuito. Esse non sono certamente termini immediati dell'ente, ma mediante la sua azioue creatrice sono termini dell'azione dell'ente. I termini immediali dell'ente sono la sua azione, la quale azione e in parte creatrice. Ora questo termine, l'azione dell'ente, è ciò che costituisce la realità dell'ente, perchè abbiamo veduto che il carattere proprio della realità è l'azione. Dunque, a propriamente parlare, non sono termini dell'ente ideale, ma dell'ente reale, ed anzi dell'azione creatrice di quest'ente. Ma come dunque dicevate voi, che le cose create percepite da noi determinano l'ente Ideale? Se sono determinazioni dell'ente slesso, non appartengono elle all'ente come al loro subbietto? Come al loro subbietto dialettico, lo concedo nel modo spiegato. Ma convien bene intendere che cosa sia questo subbietto dialettico, e incontanente svanisce la difficoltà. Quantunque noi l'ab- biamo già dichiarato, tutta» ia in argomento si sottile, e in cui si travaglia cotanto a trovar nel linguaggio vocaboli e maniere acconcie da comunicare i pensieri senza contusione, non sono perdute alcune parole di più, volte a levare ogni equivoco. E dunque da considerarsi che l'ente, quale ci è dato nell'intuizione, è affatto indeterminalo, cioè privo dì tutti i termini. Quindi accade, che noi non percepiamo punto l'azione creatrice. Ora percependo i termini dell'azione creatrice senza di questa, noi non possiamo raggiungere tali termini a questa azione. Invece adunque di percepirli raj.giunti a quest'azione e con quest'azione, l'uomo li percepisce soli. Ma nulla si può percepire inlelletliva- menle, se non unito all'ente. Egli dunque li considera a dirittura come termini e determinazioni del- l'ente (ideale), per la necessità d'intenderli. Cosi l'ente diviene il subbietto ili questi termini, non perchè DI GIUSEPPE BDRONI SÒT accade che per luna parte il sentimento animale resti di per sé oscuro, e preso da sé solo, sia privo di intelligibilità (nel che consiste la ragione intima della falsità del sensismo, e dovrebbe aversi per una confutazione ontologica affatto perentoria di questo sistema grossolano pur si tenace delle menti); e per l'altra l'intelligibile, quale appare alla mente umana. «la lale, ma perchè lale la nienle il suppone al suo bisogno, e cosi la mente slessa è colei che co- stituisce l'ente qual subbielto di essi; e qnesta colai finzione della niente chiamasi subbicllo dia- lellico. >è la mente perciò cade necessariamenle in errore, perocché, rivolgendosi sopra se stessa ella ben s'accorge dell'anello di mezzo che le manca, cioè dell'azione creatrice e della realità del- l'ente, che le resta incognita. Onde ti giuya dell'ente come di mezzo a conoscere; ma quando per \ia della riOessione esamina questo mezzo del suo conoscere, ella è ben lontana dal pigliarlo come •ubbieUo dei reali da lei percepiti : perocché un'idea non può essere subbielto reale d'un reale. Che se si trattasse non del reale finito, ma della sua essenza, i reali in tal caso si dicono termini del- l'ente in quanto sono intelligibili, non propriamente in quanto sono reali: perocché per noi il reale non è il mero reale, ma il reale conosciuto e percepito, e però unito alla sua inlelligibililà. Da parte dunque dell'inlelligibililà dell'ente, non ripugna che l'intelliglbililà dei reali sia termine del- l'intelligibilita universale; perchè l'ordine intelligibile é ad ogni modo eterno e divino. Del pari non ripugna, che della determinazione ideale si possa chiamare subbietlo l'idea in universale; ma questo è un subbietlo ideale, e non più. Se dobbiamo dunque riassumere la condizione dei reali finiti rispetto all'ente indeterminato, alfine di conoscere in qual senso essi si dicano termini di lui, risulta da tutto ciò che noi abbiamo detto, che essi cos'i si possono chiamare in due maniere: 1' Nell'idea s'intuisce l'essenza dell'ente indeterminato ed iniziale ; 2° Quest'essenza lia un''azione, e in quest'azione sta la sua realità. Noi non percepiamo que- st'azione nell'ordine naturale; essa è Viricognilum in lutti i pensieri umani. Una parte di quest'a- zione, che dicesi anco azione ad extra, é l'azione creatrice ; 3° Termini di quest'azione creatrice sono i reali contingenti. La mente umana adunque raggiugne questi termini all'ente e li dice termini di lui, (rasai- landò l'azione dell'ente, perchè da lei non percepita. Questa è la prima maniera, nella quale si dice che i reali contingenti «ieno termini dell' m- senza dell'ente. — Ecco ora qual è la seconda : Riportando i reali contingenti all'essere ideale o iniziale (all'idea dell'essere), s'intuisce in qucsfessere la loro possibilità. Questa possibilità logica é la stessa idea dell'ente ristretta unica- mente all'uiricio di far conoscere quei dati reali, che a lei si riferiscono. L'idea dell'ente cos'i ristretta chiamasi essenza dei reali. Quando i reali si dicono termini deWessenza dell'ente (prima maniera), allora l'ente propria- mente si fa servire dalla mente come subbietlo, dove il subbietlo é l'ente iniziale e però ideale, e il termine e reale; onde manca l'anello che li congiunga (l'azione creatrice) ; e perciò l'ente dicesi subbietto dialettico. Quando non i reali, ma i loro concelti si dicono termini deW idea dell'essere (seconda ma- niera), allora l'idea dell'essere è come il subbietlo dei concelti speciali; e quindi ella fa l'ufficio di subbietlo ideale. Subbietlo dialettico e sabbietto ideale sembrano due denominazioni acconcie per indicare i due modi, nei quali !'onto|i;go può considerare i reali finiti come termini dell'essere iniziale; il quale nel primo caso è consideralo io se come essenza, nel secondo, in rispetto alla mente cono- icilrice, come idea ». 5G8 DF.LI.ESSFliE E DEE COIXOSCERE. ECC. sia trovato vuoto ed inane senza l'aggiunta e l'integrazione del reale sensibile. Così presso a poco il Rosmini nel luogo citato. Ma l'intiero articolo vuol esser letto (^Teos., voi. 3°, p. 3o3-3'jo). CAPO XVIII. Come la mente pensa le cose temporanee ed estese fuori del tempo e dello spazio, nell'eternità. Come la mente veda l'essenza della sensazione fuor del senso. Un vero conosciuto dal Gioberti, riconosciuto dal Rosmini. tiCS. Ma dove il Rosmini ebbe occasione di addentrarsi più profon- damente in questo arcano mistero dell'esistenza eterna ed assoluta delle cose contingenti e relative, e di ciò che egli chiamò con bella espressione il mondo metafisico degli enti, e di pailarne più exprofesso e distesa- mente, si fu ne' volumi 4° e 5 della Teosofia, essendosi egli scontrato in due ardue questioni (che dinanzi da niuna il suo ingegno acutissimo si arretrava) non prima da lui sì risolutamente tentate, che lo portarono anche ad aggiugnere alla sua teorica un ultimo finimento che, senza nulla mutare delledifizio già costrutto e del disegno già colorito, lo compiva. 2GÌ. Le due quistioni son queste. La prima è il fatto singolarissimo (ed anzi è questa una delle precipue e più arcane e più usitate facoltà ond'è fornita l'anima nostra razionale) della memoria, per cui le cose reali, o passate, o lontane, o future O, le cose stesse dico reali, e i fatti o ricordati o preveduti, non le loro immagini o figure, pensiamo e nel loro luogo o tempo colla mente collochiamo , non avenilole secondo il senso presenti nella loro realità; mentre la mente per sé sola, come di- cevamo, non coglie mai altro che idee ed ideali. La seconda riguarda quella che il Rosmini chiama liiinuiginazione tntellettwa ^•': per la quale noi (1) La previsione del lutuio appartiene alla slessa facoltà che la ricordanza del passato, come notò già Sant'Agostino [De Trinit., lib. 15, e. 7, num. 13; Coiifess., lib. IO, cap. 8, num. 4), e dopo lui San Bonaventura [Itin. mentis in Oeum, cap. 3). Perocché il futuro non è il semplice possibile che spelta solo alla mente, ma entra nell'ordine del reale, e però cade sotto la facoltà conoscitiva del reale. Anche i teologi, trattando di Dio, il possibile fanno obbielto della scienza di semplice intelli- genza; il futuro, come il presente ed il passato, ascrivono alla scienza da essi delta di visione. {i] Uell'iuimaginazione intellettiva, come si distingue dalPimmaginazione animale o semplicemente sensitiva, .liseorrc nel trattato inlilolato // filale, cap. J3 (TfO-t. , voi. 5", p. 50 e seg.}. L'officio del- DI GIUSEPPE BLROrCI 5Gq pensiamo pure colla nipnte l'idea e l'essenza eterna positiva della sensa- zione, per es. del colore e del dolore, la qual pure senza senso non può neinmen concepirsi, mentre nella mente e nell'essere ideale, ch'ella peren- nemente e unicamente contempla, nulla di silFatte cose ha luogo 0). I vol- gari, dice il Rosmini, sprezzano siffatte quistioni e le reputano leggiere e facilissime, e per es. alla domanda come fa il viaggiatore a raccontare i paesi, le città, i capi d'arte e le persone vedute, non altro avrebbero da dare per tutta risposta che un sogghigno di compassione: (( all'incontro il prudente e savio studioso della filosofia reputa d'aver fatto un avanza- mento grande quantlo è pervenuto a ben sentire tutta la difficoltà della quistione die si è proposta, e gode
  • alcuni brevi estratti. (3) Questo vero egli accorda nei citati luoghi quanto alla conoscenza del reale che resta in noi dopo la percezione. .'*Ia ciò vuol dire che anche nell'atto stesso della percezione quella conoscenza Serie li. Tom. XXX. ^2 5-70 dell'essere e del conoscere, ecc. giugne, quell'elemento di verità che tra ride Vincenzo Gioberti » ( Teos. , voi. 5" n. 68). Ma non ne viene da ciò, né che l'uomo veda l'atto creativo nella sua sorgente, né che veda questa stessa sorgente , cioè Dio : e neppur è vero che la mente veda a quel modo il termine della creazione con un giudizio, come il Gioberti disse (il giudizio sottentra solo di poi nell' atto della percezione del reale contingente coH'affermazione) : ma il vede con alto dì semplice intuizione (' ). Il riferire i pensamenti del nostro filosofo sulle due dette quistioni e sul detto risultato, è il tema proprio di questo capo. Ma avendoli l'Autore esposti seguitamente e copiosamente in tre luoghi delle opere sue [Lezioni filosofiche, ^^. 67-82; 7eoi.,vol. iv, Trattato dell'Idea, p. 493-532 ; Teos., voi. v, p. S'y-'^o), a quelli potrebbe anche più comodamente ricor- rere il lettore, e qui invece passar oltre al capo xix degli universali. 51. — Come la mente pensa le cose temporanee ed estese fuori del tempo e dello spazio nell'eternità. 26'i. Da prima conviene osservare, dice il nostro Autore, che l'essenza del contingente la qual vedesi nell'idea, non è contingente. Di più convien distinguere fra la nozione di contingente e quella di temporaneo, e fra la nozione di necessario e quella di eterno. Si dà al- cunché di eterno, eppure non necessario : e si dà alcunché di contingente, eppure non temporaneo. La cognizione che Dio ha de' reali contingenti (quella che i teologi chiamano scienza pratica e di visione, ed è scienza creativa, della quale vedi più sopra il capo 6° del libro 2") é certamente eterna, come eterno c'è, sebbene il Rosmini abliia avuto tutte le ra(;ioni di distinguer l'afférmazione peicettim da quella conoscenza. Del resto che nella memoria delle cose altra volta percepite s'abbia presente allo spirito le cose stesse reali, e non qualsiasi loro immagine o vestigio , sebbene si pensi a quelle mediante l'idea ed anche col sussidia delle immagini e vestigi che lasciarono nella nostra fantasìa, l'avea già detto nel Nuovo Saggio, num. 107. (1) Sotto questo mio capitolo 18° vengono a cadere le precipue obbiezioni del Gioberti contro la teorica del Rosmini. Parrai che dalle cose dette s'inlravveda bastantemente la risposta. 11 Gioberti equivocò troppo spesso tra la realità eminente delle cose che si co-lie dalla mente in idea, e la loro realità infima che cade sotto il senso. Anche non colse bene, come pare, che nel sistema del Rosmini è appunto il reale contingente, che non esiste ma può esistere, quello che si pensa come possibile. È da vedere la risposta che a queste obbiezioni lasciò scritta il Rosmini stesso nella Teosofia, voi. 4°, pag. 559 e seguenti. DI GIUSEPPE BURONI 5^1 è l'atto creativo, avendoli Dio ab eterno conosciuti, e conoscendoli creati (0 ; e tuttavia non si può dii'e che questa cognizione divina, con cui furono creati i reali contingenti, sia necessaria di necessità logica, qual sarebbe per esempio, la deduzione logica di un teorema di geometria, giusta la falsa maniera degli spinozisli e degli hegeliani , e in generale dei pan- teisti (2) . Perocché, non essendo necessaria la creazione, neppure è ne- cessario l'atto creativo col quale Iddio conosce i reali contingenti come sussistenti, e ad un tempo li fa sussistere, li fa esser reali; il che se non facesse, non potrebbe conoscerli come reali; perocché conoscerebbe il falso se conoscesse che sussistono i reali, quando essi non sussistessero, non fosser reali. E non essendo necessario l'atto creativo, lo si può dire contingente, in quanto si conosce che potrebbe esserci e non esserci: eppure non é temporaneo, perocché Iddio crea in sua eternità di tempo fiiova. Rimane dunque a vedere, prima di tutto, se e come si possano conoscere anche da noi i reali contingenti e soggetti al tempo in un modo eterno ed immune dal tempo. 2G6. E dico conoscerli in un modo eterno, non con un atto eterno. Perocché si deve distinguere accuratamente fra queste due locuzioni, fra conoscere un ente in un modo eterno, e conoscerlo con un atto eteìjio. Conoscere in un modo eterno dicesi quando , sebbene l'oggetto del- l' intelletto si conosca esso stesso soggiacere al tempo (ed il medesimo dicasi dello spazio), tuttavia la relazione fra quest'oggetto e l'intelletto che lo conosce é affatto immune dalle leggi del tempo, siccome pure è immune dalle leggi dello spazio. All'incontro dicesi conoscere con un atto eterno, quando l'atto stesso che fa il conoscente è eterno. Ora è manifesto che ninno conosce con un atto eterno, se non Dio il quale è eterno. Ma quanto al modo del conoscere , ogni cognizione intellettiva, anche umana, si fa in un modo eterno, perchè si fa nella luce (Ij San Tommaso nella l.q. 14, a. |3: «Licei contiogentia fiaot in actu successile, non tamea Deus successive cognoscit contingentia, prout sunt in suo esse, sicut nos, sed simul; quia sua cognitio mensuratur aeternitale » . Vedi ti. ad 3>°. (2) Si noti, per chi non è abbastanza pratico delle locazioni di San Tommaso, che nella l.q. 14, a. 3, ad 3", ove sembra dire clic la scienza di Dio rispetto ai futuri contingenti è necessaria, per necessario rvi intende il certo e l'infallibile, o il necessariamente certo. 5^2 DELI.ESSERK E DEI. CONOSCERE, ECC. dell'elerna verità. E cosi diciamo che la inenle nostra conosce i reali percepiti contingenti e temporanei in un modo eterno. 267. Per convincercene, convien prima di tutto persuaderci clie il pensiero umano, quando discorre dei reali che ha percepiti e dei quali conserva la memoria (e lo stesso diremo poi anche di quelli che attualmente percepisce), termina propriamente nei reali; sicché, quando un viaggiatore, a ragion d'esempio, narra delle sontuose moli vedute nelle ampie città da lui visitate, delle montagne e dei piani, o dei mari e dei fiumi da lui percorsi, egli intende parlare e parla elFetlivamente di tutte queste cose reali C'). I filosofi superficiali non trovano alcuna difficoltà a spiegar questo fatto, credendo che possano bastare a spiegarlo le immagini da costui con- servate nella fantasia, o le traccie , qualunque sieno, rimase scolpile nel suo spirito delle cose vedute. Ma senza negare queste immagini e queste traccie, il pensatore non confonderà mai le due questioni: i" di che cosa quel viaggiatore discorra; 2 per qual mezzo o istrumento o sussidio ne discorra. Quest'ultima quistione è allatto diversa dalla prima. Suppongasi pure che il mezzo o T islromento che egli adopera a favellare dei reali da lui percepiti, sieno le immagini di essi; rimane forse con ciò sciolta la prima questione? Quella prima quistione dimanda appunto se il viag- giatore favella delle immagini che conserva nello spirito, ovvero proprio dei reali da lui percepiti ; se quando egli parla, intende parlare di altret- tante immagini di città, terre ed acque da lui vedute, o se vuol proprio far conoscere ai suoi uditori le città, terre ed acque realmente da lui percepite, che egli per fermo non porta nel suo cervello troppo angusto per contenerle E se egli intende, come è indubitato, di parlar proprio di quelle città che or gli sono tante centinaia di miglia discoste, e non di quelle traccie che porla segnate per avventura nelle fibre del suo cervello ; basta questa sua intenzione a dimostrare che egli veramente le pensa. E cos'i i suoi curiosi ascoltatori non son già guari solleciti della storia naturale del suo cervello e della sua fantasia; ma voglion sapere le grandi e belle cose da lui vedute e godute. (1) Chi vo"lia vedere questo esempio del viaggiatore più drammaticamente traltato, legga dello stesso Rosmini la quarta tra le sue Lezioni jilosofichi; intitolale Gioberti e il Fanuismo, num. 33 o legueati. DI GIUSEPPE BURONI 5^3 Dunque convien porre fuori d'ogni dubitazione che l'uomo ha la virili di pensare e di ragionare propriamente dei reali che non gli sono pre- senti, e fors'anco più non esistono, ma solo erano in passato. Qual ser- vizio gli possano prestare a ciò le innnagini sarà una seconda quistione. Ma se lo aiutano a pensare ai reali , esse formano una nuova prova che pensa ai reali. Ed è invero singolare che quelli i quali ricorrono alle im- magini per spiegare come l'uomo possa pensare i reali che non sono pre- senti, non s'accorgano che la stessa parola immagine tradisce la loro spiegazione; conciossiachè l'immagine non sarebbe immagine se non si riferisse ai reali che rappresenta; e però la mente, se non avesse la facoltà di pensare i reali, non potrebbe némmen servirsi delle immagini, né saper pure che sono immagini di cose reali, né tampoco ingannarsi e prenderle per realità. Onde, lasciata per poco e messa in disparte la questione delle imma- gini, è uopo intanto stabilire qui per cosa affatto indubitata, che luomo ha la facoltà di pensare i reali che non sono presenti ai suoi sensi, quelli che hanno cessato di esistere, o che non hanno ancora inco- minciato. 2G8. « Ciò posto, si domandi: questi reali sono soggetti al tempo ed allo spazio? Egli è chiaro che, se si tratta di cose contingenti e temporanee convien dire che sono soggetti al tempo, e se si tratta di cose estese e materiali, anche allo spazio. Tali sono le città, i paesi, di cui narra il nostro ipotetico viaggiatore. « Di poi si domandi: questi oggetti, in se stessi sommessi alle leggi del tempo e dello spazio, sono essi conosciuti dalla niente di quel viag- giatore, e dalle menti dei suoi ascoltatori , in un modo temporaneo, od eterno O? Noi abbiamo detto che conoscere in un modo eterno vuol dire conoscere per sì latta maniera, che la relazione fra l'oggetto conosciuto e l'intelletto che lo conosce sia immune dalle leggi del tempo. Or bene, le menti del nostro viaggiatore e de' suoi uditori, nel pensare che lanno gli oggetti reali, sono esse legate alle leggi del tempo ' « Noi abbiamo veduto che gli oggetti reali, a cui pensano quelle (1) Questa dislìaziuDe tra il modo temporaneo che hanno in se slesse le cose conosciute, e il modo sempiterno che hanno nella mente conoscente e mollo adoperata da San Tommaso in tutta la quistione 14 della parte prima della Somma Teologica per isciogliere molte obbiezioni contro la «cienza divina. Or la medesima distinzione ai adopera qui adattata al conoscere umano in quanto è a similitudine, sebbene infinitamente distante, del conoscere primo. L'intelligibile per tè è eterno. 5"/i dell'essere e del conoscere, ecc. menti, possono essere egualmente passati e futuri; dunque il tempo non entra per nulla nel modo onde sono conosciuti, non dà legge a questo modo, non 1 impedisce. Il modo dunque di tal conoscere è eterno secondo la data definizione. Per simiglievole guisa si dimostra, che un tal modo di conoscere è semplice, cioè immune dalle leggi dello spazio, benché gli oggetti conosciuti soggiacciano alle leggi dello spazio. Le città infatti e le regioni percorse dal viaggiatore, e lutto ciò che contengono, sono nello spazio, son dolale di estensione. All'incontro, che fra la mente e questi oggetti non intervenga spazio alcuno, vedasi chiaro da questo, che la mente li pensa e ne ragiona ugualmente se son vicini o lontani, e che coll'accrescersi la loro lontananza dal corpo dell'uomo che li pensa non si rende pili difficile alla mente di pensarli. Dunque lo spazio che è fra essi, o quello che è fra essi e il corpo dell'uomo pensante, non influisce punto sul modo con cui sono pensati. E però questo modo dicesi sem- plice, inesteso, immune dalle leggi dello spazio. « Conchiudasi adunque, che la mente pensa gli oggetti temporanei ed estesi al tutto fuori dello spazio e del tempo , e questo dicesi pensarli nell'eternità. (( Dicasi ancor di più, che la mente pensa lo stesso tempo fuori del tempo, lo stesso spazio fuori dello spazio. E che? Si dirà forse, che Ira d tempo pensato e la mente pensante possa cader altro tempo di mezzo ? Si dirà, che fra la mente pensante e lo spazio pensato vi sia luogo da collocarvi un altro spazio? Ma lo spazio è uno, come il tempo è uno; perchè la mente può pensare anche tutto il tempo, può pensare tutto lo spazio, onde il modo con cui lo pensa dee essere senza tempo e senza spazio; giacché il modo con cui la mente pensa non cade nell'oggetto pensato, non essendo quel modo allro, come abbiam detto, che la relazione fra il pensante e il pensato. « Ora questa maniera con cui l'umana mente pensa i reali, benché forniti essi stessi di spazio e di tempo, tuttavia fuori d'ogni spazio e di ogni tempo, ci fa conoscere, chi ben la considera, che le cose reali, oltre avere un'esistenza relativa fra loro, la quale soggiace al tempo e allo spazio, hanno altresì un'altra esistenza relativa alla mente: il che noi esprimiamo dicendo, che essi esistono nel mondo metafisico ». Fin qui il Rosmini. Ma intanto il fatto della memoria e del viaggia- tore, da cui prese le mosse il ragionamento, par che se ne sia rimasto là in parte dimenticato esso medesimo ed insoluto. Perocché la memoria e DI GIUSEPPE BURONI StS il discorso del viaggiatore non intende per certo di contare la realità me- tafisica delle cose, ma quella fisica da sé veduta. A questo altro Iato della questione, risponde più appropriatamente il Rosmini nel luogo parallelo citato delle Lezioni filosofiche, ove aggiugne di più l'immanenza, che per- dura nella memoria a modo d'abito, della atFermazione e percezione già avuta nell'atto della percezione. E qualche cosa, ma non è tutto. Io credo che a spiegar questo fatto, come si conoscano i reali soggetti al tempo e allo spazio in un modo eterno ed immune dal tempo e dallo spazio, conviene farci entrare, secondo i principii dello stesso Rosmini, il senso immanente che l'anima nostra ha della durata infinita e dell'estensione infinita, e pensatamente dico infinita, non indefinita, e intendo reale non immaginaria. Onde i reali una volta percepiti stanno là collocati imma- nentemente nel loro ubi e nel loro quando, e quivi li contempla la mente del viaggiatore nel modo stesso che li ebbe allora percepiti, e quivi li contemplano anche li suoi uditori i quali hanno similmente il senso im- manente della durata e dellestensione infinita, e li percepiscono non per sé, ma nella percezione avutane dal viaggiatore, che vien loro comunicata dalle parole di lui. Nel qual modo si spiega anche tutto il nostro cono- scere storico delle cose passate, o previsione profetica e congetturale del- l'avvenire. Ma sempre é vero che tutto ciò non sarebbe possibile, se la mente nostra non avesse quella visione estemporanea delle cose reali e dello stesso spazio e dello stesso tempo nel mondo metafisico che fu spiegata poc'anzi, e che era e seguita ad essere l'obbietto primario di quesUt indagine che ci occupa in questo luogo. 209. Ora qui è da riflettere che questo ragguardamento dei reali nel mondo metafisico, che abbiamo considerato a proposito dei reali passati o fiituri non attualmente percepiti dal senso, accade pure nel fatto stesso della percezione dei reali presenti che toccano il senso i quali perciò vendono da noi affermati reali e sussistenti. « Infatti, prosiegue il nostro Autore, si consideri bene la natura del verbo interiore, cioè dell' alfermazione che fa lo spirito di un reale, la quale è l'atto con cui conosce la sussistenza di lui. Che cosa dice lo spirito, dicendo seco stesso che un dato ente , per es. , un arancio, sus- siste? Traducendo la sua parola in lingua esatta e filosofica, cioè analizzata, ella suona cosi: — L essenza dell'arancio da me intuita é realizzata — (0. (1) E noodimeno va sempre sottintesa la correzione che io accennai più yolle, che non proprio 5-(-3 dti-l'essere e del conoscere, ecc. Se questa è la forma che esprime esattamente l'atrermazione dello spirito quando percepisce un reale, come non è a dubitarsene da chi ha ben meditata quell'operazione; dunque la realizzazione si predica di quella essenza appunto, che prima s' intuiva solo come possii)ile ad essere rea- lizzata, la quale realizzazione è — Tatto, come tante volte abbiam detto, pel quale l'essenza è come operante — O. Dunque il reale è quella stessa essenza realizzataci). Ma il predicato si percepisce nel soggetto. Dove noi vedemmo l'essenza, ivi dunque è uopo che percepiamo il suo realizza- mento. Ma l'essenza da noi s intuiva fuor del tempo e dello spazio (benché, trattandosi di essenza di cose temporanee ed estese, nell'essenza slessa si intuisce il tempo e lo spazio possibile). Dunque anche il suo realizzamento si dee percepire Inori dello spazio e del tempo , nellente slesso intuito, che è appunto il mondo metafisico. E di vero, noi vedemmo che l'idea dell'ente e l'idea del reale sono sinonimi in questo senso, che nell'idea dell'ente cade necessariamente l'idea del reale; ma l'idea del reale è il reale possibile: ora i vocaboli possibile e sussistente sono come due pre- dicati del reale: il reale dunque è il soggetto comune. Questo soggetto è uno appunto perchè è soggetto comune. Se dunque egli si vede nell'idea, e se i predicati si percepiscono nel soggetto, forz'è dire, che cjuel reale che è intuito nell'idea come possibile, quel reale stesso è percepito dal- l'intendimento come sussistente, li sussistente adunque non si può per- cepire se non trasportandolo collo spirito affermante là dov'è la sua essenza, dove è l'ente suo soggetto; e la sua essenza, il suo soggetto è fuori affatto dai limiti del tempo e dello spazio: l'intelletto adunque, anche nella percezione dei reali presenti, percepisce questi reali nell'eternità; e questi esistono come enti nel mondo metafisico. « L'esistenza dei reali nel mondo metafisico è la loro principale e più compiuta sussistenza. E qui convien richiamarsi, che l'uomo nel percepire le cose è condizionato alla limitazione delle diverse potenze colle quali l'essenza nel modo intelligibile viene realizzata, ma piuUoslo il termine di quell'essenza, il qual ter- mine è la cosa reale, la qual cosa reale non è però altro che quella stessa essenza in altro modo clic è il modo reale. Insomma, per quanto ci argomentiamo di essere esalti, non mai ci riusciamo ad esprimere questo vero. Onde io fui troppo severo nel fare al Rosmini una correzione, della quale mi accorgo sempre più che ne abbisogniamo ad ogni passo anche noi. (1) Ma nella sua realità eminente e operante in quanto creatura in yerbo est crealrix essentia, come dicemmo con Sant'Anselmo, oppure io quanto idea est jirincipium faclionis rerum come dice San Tommaso (1. q. 15, a. 1); nella realità inferiore è operante in quanto sentita. (9) Ripeli la correzione qui memorala nella nota I , e la ripetessimo cento volte, sempre ricorre. DI GIUSEPPE BURONI 5"'^ egli percepisce. Convien rammentare, che con nessuna potenza naturale 1 uomo percepisce per intiero l'ente; e rispetto alla realità delle cose esteriori a lui, egli non la percepisce se non in quel tanto che tale realità opera in lui, cioè nelle sue potenze. Quindi noi abbiamo detto che le essenze determinate delie cose, le quali sono date a conoscere all'uomo, non contengono tutta l'attività dell'ente, ma solo quella porzione di attività che l'ente esercita nell'uomo. E poiché le definizioni delle cose sono pro- posizioni che esprimono le essenze, perciò anche le definizioni altro non esprimono che le essenze pei'cettibili e però conoscibili dall'uomo, le quali non contengono tutto lente, ma solo ì'e?ite agente nell uomo (0. Cono- sciuto adunque che il percepito riceve limitazione dalla potenza percettiva, il filosofo dee esaminare luna appresso l'altra le potenze percettive, e rilevare quid sia la limitazione che ciascuna pone al suo percepito (2). Ora le potenze percettive sono due nell uomo, il senso e la ragione, secondo la sua funzione del percepire. Se si considera qual sia la limitazione che impone il senso, trovasi che ella è somma, perchè esclude l'ente (3), e non fa, rispetto ai contingenti, che percepire l'azione viva dell'ente 'A^ e anche questa limitata dalla natura dell'organo sensorio e da quella della spe- ciale facoltà sensitiva; or l'azione viva dell'ente non è l'ente, benché de- termini l'ente rispetto a quel soggetto che lo conosce. E un soggetto che conosce l'ente, è appunto l'uomo il quale ne ha l'intuizione. Onde l'uomo può giovarsi delle azioni vive percepite col senso a determinare l'ente che egli ha presente, e questo è atto della ragione secondo la sua funzione (1) . Questa nota è del Rosmini. Vedi ciò che dicemmo noi pure poc'anzi nei due capi precedenti a questo. (2) (1 L'uomo può far questo, perchè egli ha la facoltà del conoscere assoluto, emendatrice del- l'altre, di cui parlammo nella Psicologia (num. 1665: cf. num. 261-263), colla qual facoltà non intende già tutto, ma ciò che intende colle potenze inferiori, egli il rettifica e appura, e rende asso- luto il conoscere » (Nota del Rosmini). (3) Intende che esclude l'ente come tale, perchè percepisce bensì la cosa che è, ma non ratio dell'essere per cui è ed è ente. Vedi questo punto chiarito più sopra in tutto il libro 1°. (4) Cioè della cosa che è ente, ma senza percepir l'atto dell'essere come tale, come si è detto (nota prec.) il qual si apprende solo dalla mente. Serie li. Tom. XXX. 73 5^8 percettiva. Onde si vede che ciò che percepisce il senso e ciò che per- cepisce hi ragione sembrano cose diverse, perchè sono entità percepite da due potenze diverse, la prima delle quali limita oltremodo il percepito, ed esclude il percepito dall'altra (l'ente): onde il percepito da lui, cioè dal senso, in quanto è percepito da lui ('), rimane al tutto staccato e diviso affatto dal percepito dall'intelligenza v2). Ma questa è limitazione soggettiva, veniente cioè dalla limitazione della potenza percettiva; e però quella divisione che il senso fa dell azione viva dell'ente dall'ente slesso, non è conforme alla verità obbiettiva (3). Quindi è che la ragione, che si solleva al di sopra del senso perchè ha l'intuizione dellente, può ricongiungere le determi- nazioni sentite coll'ente stesso, e cosi percepire e determinare l'ente, cioè affermare che il percepito dal senso è determinazione dell ente da lei in- tuito. Colla quale operazione venendo i sentiti congiunti all'ente come sue determinazioni, vengono considerati nella lor vera esistenza oggettiva na- scosta al senso, senza punto perdere la soggettiva; e questa è la loro esistenza principale e compiuta che dicevamo. Noi esprimiamo questa ope- razione della ragione metaforicamente dicendo , che i sentiti reali sono trasportati dalla ragione nel mondo metafisico, ed in questo esistono più veramente che nel solo senso. Onde procede, ciò che il Rosmini qui non dice, come parmi, assai chiaramente (ma lo dice altrove, voi. 5°, pag. 62 e seg.) che delle cose che noi percepiamo conviene distinguere una doppia maniera di realità: luna interiore, metafisica, eterna, assoluta, còlta solo dalla mente; l'altra este- riore, fisica, fenomenica, relativa, temporanea che tocca il senso, e quella precontiene questa, ma in altro modo, cioè intelligibile. 270. E quindi nascono le seguenti quistioni trattate ivi stesso dall'Au- tore, alle quali parmi che sia da dare tutta lattenzione. « Qui forse si dimanderà, dic'egli, perchè la realità e l'azione sua non si possa percepire direttamente coli intelletto, col quale s intuisce lente? Ma (1) Il luogo che cito del Kosaiiui dice ila lei, rua credo sia errore di stampa, e però correggo da lui, cioè dal senso. (2) Qui è da richiamar ciò che disse San Tommaso più sopra nella noia 3' sotto al num. 963. (3) Qui si ricordi ciò che notammo nel capo precedente, che il conoscere eterno e primo di Dio, comunicandosi all'uomo, si spezza in due, come dice San Tommaso: n Perfectiones quae in in- ferioribus dividuntur, in Deo simpliciter et unitac exislunt (e viceversa). Unde licet nos per aliam potcntiam cognoscamus univcrsalia, et per aliam singularia. Deus tamen per suum simplicem intel- lectum utraque cognoscit (l.'>B5 intellettivo; che senso intellettivo, vuol dire lo stesso intelletto, in quanto, intuendo l oggetto, ne sente collo stesso atto la realità di modo che que- sta venga ad essere compresa neltessenza intuita. Ma posciachè noi di- cevamo, che i reali non possono essere atFermati come enti, se non s'in- tuiscono prima nell'ente come suoi termini; rimane a vedere se almeno così, in questa intuizione dei reali come termini dellente, l'intelletto operi come senso. Ma si dà ella una vera intuizione dei reali come termini dellente? Noi altre volte abbiamo parlato in modo come se dare non si potesse ; come se il reale non si conoscesse che per via di aflermazione. Dobbiamo conciliarci con noi medesimi, e sciogliere aii un tempo la que- stione proposta. Questa questione noi ora l'abbiamo ridotta a quest'altra — se quando l'intelletto intuisce un concetto determinato, allora egli operi come senso, cioè senta la realità — (Ivi, pag. 5i6). E la risposta sarà, come risulta dalle cose dette, che non mai pro- priamente l'intelletto opera come senso, perchè non mai percepisce la realità costituita .dal senso. Ma pure quello stesso reale costituito dal senso, egli lo conosce nel modo intelligibile e nel mondo metafisico. Ed è questo ciò che prima non avea detto bastantemente il Rosmini. 274. « Dopo le quali considerazioni, conchiude (p. 53o), noi potremo rispondere alla suddetta questione propostaci: — Se il senso intellettivo nella vita naturale dell'uomo si estenda alla percezione dei reali — . La ri- sposta negativa, che altrove abbiam data a somigliante quesito, è ella vera / » All'intelletto appartiene la soÌhl intuizione ; la potenza dell' atlermazione o della predicazione consegue ad esso, e però non produce un oggetto novo, ma solo pronuncia la reale, ossia soggettiva sussistenza dell'oggetto intuito. » Il dubbio adunque può nascere solo rispetto all'intuizione delle essenze determinate dei sensibili, dei concetti specifici pieni, ed astratti conseguenti. Cioè si può dimandare : Se questi sensibili sieno intuiti dal- l'intelletto, ed intuendoli, se da ciò ne venga che lintelietto puro per- cepisca de' reali. » Al che si risponde: i° che i detti sensibili non sono sensibili all'intel- letto in questo senso, che l'intelletto sia il principio sensitivo che li costi- tuisce sensibili (giacché il sensibile o il sentito viene costituito dal prin- cipio sensitivo, come da sua causa); i° che il soggetto umano intellettivo apprende il sensibde già formato in lui in quant'è anco soggetto sensi- tivo, lo apprende, non lo forma come fa il principio sensitivo, e lo apprende come entità determinata, il che è quanto a dire come essenza. Serie II. Tom. XXX. ' ^4 586 dei.l'esskue k dki. (.onoscf.re, ecc. » Ora l'essenza, oggetto dell intuizione, non è propriamente il reale e <[uel modo che sta nel senso, che anzi ogni reale contingente considerato a questo modo è fuori dell'essenza, non è l'essenza stessa, come accade del reale necessario (di Dio), il quale, dove si manifestasse all'uomo, si percepi- rebbe nella stessa essenza, oggetto deli intuito, e come essenza egli stesso. )i A questa dottrina, certamente sottile ad intendere (la cui difficoltà consiste ad osservare ciò che si contiene nell'essenza determinata, senza aggiugnervi nulla ad arbitrio), a questa dottrina, dico, che stabilisce non poter mai l'intelletto, preso come senso, estendersi alia intuizione e per- cezione dei reali contingenti (ed altri non sono dati all'intuizione alla na- tura umana in questa vita), si dee tuttavia qui aggiugnere qualche cosa d'altro che la perfezioni e compia. E questo si è, che quantunque l'in- telletto, quando intuisce 1 essenza determinata, non abbia per suo oggetto il sensibile come reale, tuttavia ha per suo obbietto il sensibile nel suo modo di essere intelligibile. Peroccliè il sensibile stesso si può conside- rare: i" o quai è senz'alcuna relazione coH'intelietto, ed in tal caso egli è realità , ma non è ancor ente , né ideale né reale ; è xm ente im- perfetto, incoato, a cui manca la forma dell'ente, è materia, quello che gli antichi dicevano non-ente; 2" o qual è in relazione coH'intel- ietto, ed in tal caso egli diviene ente-essenza, iniziale, ossia ideale; e qui il sensibile, come tale, è bensì supposto qual materia, ma non è la forma stessa, l'essenza stessa; 3° o finalmente qual é in relazione colla ragione alTermante, e solo in quest'ultimo stato egli acquista il nome di ente-reale. Onde si può dire , che quantunque l'oggetto dell'intelletto puro in tal caso non sia l'ente reale, tuttavia è un oggetto che in altra relazione, cioè in relazione al senso, è sensibile (realità non-ente) , e in altra relazione, cioè in relazione alla ragione alFermanle, è ente-reale. Il termine è identico: ma senza relazione all'intelligenza, non è ente : intuito poi dall'intelletto, è intuito solo in quella sua relazione, per la quale è ente- essenza ; percepito dalla ragione, è percepito in quella sua relazione, per la quale è costituito ente-reale. Dove è da notarsi, che si parla di una relazione con una intelligenza in genere, non coU'intelligenzu dell'uomo. Perocché l'intelligenza dell'uomo dà al sensibile quelle relazioni che lo costituiscono ente-essenza ed ente-reale rispetto all'uomo; ma l'intelligenza assoluta e divina è quella che gli dà tali relazioni in modo assoluto e permanente, e cos'i tale lo costituisce » . 273. Il Gioberti, com'è noto, avea mosso grave quistione al Rosmini, DI GIUSEPPE BL'nOM 587 perchè questi separasse di troppo la mente dal reale, ed egli per contro so- steneva che nella intuizione della mente conveniva anche porre la realità. Il Rosmini non era uomo, per certo, da trascurare tutto ciò che potesse far crescere la scienza, sebbene fosse superiore a tutto ciò che nelle obbie- zioni vi ha di personale, di temporaneo e di relativo. Egli dunque prese a meditare queste obbiezioni come si conveniva, e ne colse la parte di vero, lasciato andare il resto. La parte di vero che non contrariava il Sistema della verità, ma lo compiva, è appunto quello che la mente coglie la realità metafisica ed eminente delle cose create, la quale è ter- mine superiore dell'atto creativo; ma non per questo è da dire che si cogliesse coll'intuito della mente questa realità inferiore delle cose create che in noi è solo percepito dal senso. Onde, sceverate le due parti, la prima accettò perchè vera, l'altra rifiutò perchè aliena dalla verità. Il Gio- berti avrebbe voluto che l'intuito della mente attingesse anche a questa realità inferiore mediante il nesso dell'atto creativo. Il che non si può sostenere senza confondere coH'intelligibile il sensibile e coll'ordine divino il creato. Ecco l'equivoco da cui non sempre abbastanza guardossi il Gio- berti. Il che sarà vie meglio chiarito nel § seguente. § 2. — Come la mente eterna veda l'essere deUa sensazione fuori del senso. 276. Ed il medesimo risultato si ha dalla seconda questione che il Rosmini tratta piiì direttamente nel citato luogo del voi. 5° della Teo- sofia (pag. 58 e seg.), ed è cosiffatta. Si domanda: — Vi ha egli, per esempio, il tipo eterno, lidea di un metro cubo di color rosso ? Il color rosso è per essenza sensazione, e se è sensazione, è di natura sua cosa contingente e temporanea. Che cosa sarebbe dunque questa idea o questo tipo etemo del color rosso? E color rosso o non è? E sensazione o non è? Perciò la quistione sembra ine- stricabile: sembra altresì avervi contraddizione fra il dire dall'una parte che l'essenza del color rosso sta nell'idea e quivi è universale, necessaria, eterna; e il dire dell'altra che il color rosso è una sensazione e non può stare altrove che nella sensazione — . In altro modo: — Se non fosse stato da Dio creato l'occhio e la luce, e quindi il fenomeno del color rosso, il sentimento del rosso mancherebbe neir universo. Or ne mancherebbe perciò anche 1 essenza , l' idea del rosso ? In tal caso tale essenza non sarebbe piìi eterna, come pur si pre- 588 DELI, ESSERE E DEI, i:ONOSCERE, ECC. tende. E se quella essenza vi sarebbe tuttavia, dunque ella non dipende dal sentimento del rosso, dal rosso reale; ovvero è da dirsi che anche nell'idea esiste un vero sentimento, tipo del rosso, come sostennero alcuni Platonici ('). (1) Ecco come la stessa dillìcollà avesse egli spiegato nel Ionio 4° della Teosofia, pag. 481 e seguenti {Trattato Jtll'Jdia, niiui. 147 e seg.) : n Veniamo adunque alla dillìcollà che presentano le idee determinate, la quale è questa: 11 Le idee determinale; da una parte sembrano universali ed eterne perchè dimostrano allo spirito le essenze determinale, e le essenze, anche determinate, sono universali ed eterne; per esempio, l'essenza piena di un fiore altro non è che il llore fornito di lutti i suoi accidenti, considerato nella sua possiliililà, ed il fiore possibile e elerno. Uall'allra poi, considerando bene tutte le deter- minazioni delle idee, e bene analizzandole, si ha per risultamento, che in fine tulle si riducono a sentimenli, o parli, vestigi, traccie di sentimento. Fin anco quelle determinazioni che chiamammo negative, involgendo una negazione delle corrispondenti negazioni positive, si riducono ai sentimenli e li suppongono. Ora tulio ciò che appartiene ai sentimenli dell'uomo e cosa reale, contingente e temporanea. Quindi egli sembrerebbe che le determinazioni delle essenze, benché sentimentali, spel- lassero alle essenze eterne; e se cosi fosse, converrehlìC dire che il senso intellettivo non attigne solamente un'idealità eterna, ma, in occasione delle sciuioni, anche una realità eterna. A ragion di esempio, qualora io penso all'essenza piena di una ro.sa, io penso contemporaneamcnle alle foglie di colore incarnalo, alla sua corolla, a' suoi pelali, al sim stelo, alle sue spine, e .nll'allre suo parli di numero, grandezza e figura determinata, insomma a lutti i suoi accidenti. Onde egli sembra, che se io non mi aiuto a ciò colPiramaginazioiie, io non possa pensare ad una tal rosa, di maniera che se prescindo affatto da ogni immaginazione di tali accidcnli, e fin anco dall'immaginazione di altre cose sensibili con cui essi abbiano relazione, io non possa pensare una tale rosa; ma piuttosto mi rimanga un solo vocabolo senza Patlual pensiero della rosa, che mi varrà a richiamarla al pensiero, quando mi piacerà, come i segni ilell'algebra, nel <|ual caso, rlchiaraandomisi il detto pensiero della rosa, tornerà di nuovo a rivivere l'immagine di lei; che è appunto l'osservazione dei Nominali, spe- cialmente di quelli della Scuola scozzese. Or se questo fatto è vero, come egli pare; se l'immagine è necessaria a delcrminarmi l'idea (e l'immagine e cosa reale, transeunte'), come avvien dunque, che la cosa cos"i pensala ed immaginala pos.^a essere un essere, un'essenza eterna, come pur è se la con- sidero siccome possibile, e nulla più ? Vi ha dunque un senso inlellettivo, che percepisca nell'es- senza eterna della rosa anche le sue qualità sensibili?... " L'esperienza sembra ancora concorrere a fermare questa sentenza, dimosliando ella che il cieco nato non ha concetto di colori, ne concreti, ne astraili. Onde pare che l'astratto del sensibile non possa dare un qualche lume alla mente se non ritiene del sensibile, e in una parola, che l'iu- telletto non possa contemplare l'essenza del colore sensibile se non contemplando il colore sensibile. In tal caso l'essenza del colore sensibile sarebbe sensibile ella stessa, e cosi si avrebbe un sensibile intellettuale; rinteìlello attignerebbe di conseguente una realità eterna, in quanto la realità eterna risponde alla realità contingente. Pongasi che, dopo che un uomo l'ornilo dell'uso degli occhi ebbe più sensazioni colorale, e s'ebbe astratto da esse il concetto del colore in genere, egli perdesse gli occhi, e di più smarrisse all'atto la memoria e la traccia immaginaria dei colori veduti, ne più ne meno del cieco naio; e si dica qual valore in (al caso riterrebbe il suo concetto del colore in genere? Non perirebbe anche questo? Perocché qual concetto sarebbe quello che perdesse afiatlo tutte le sue determinazioni? Si potrebbe più chiamare concetto di colori, quello che non si può riferire dalla mente a niun colore reale, da una mente, da un soggetto che ha dimenticata aflatto il colore? Pe- rocché finalmente il colore reale è una sensazione ; e però, dimenticato il colore, non rimane più nell'uomo Iracoia alcuna di sensazione avuta, a cui riferire il suo pensiero " . HI GIUSEPPE BDKOM SSg Ancora : il sentimento doloroso , se non altro, non può certo cadere in Dio. Onde parrebbe che il dolore non potesse avere in Dio il proprio archetipo eterno. 277. Tre sono qui le difficoltà: La prima, come ciò che è contingente, dato che esista, possa essere dalla mente considerato come sempiterno: la seconda, come l'essere necessario, che non esperimenta il sentimento contingente, possa nondimeno possedere il tipo eterno di quello: la terza, come, se il sentimento contingente non esistesse, potrebbe nondimeno stare il tipo di lui eterno, siccome pur deve essere, se il tipo è eterno. Quanto alla questione terza il Rosmini rimanda alla sua opera del Binnoi'amento, lib. 3°, cap. Sa e 53, ove sostenne che i tipi, prescindendo dall'atto creativo, non sarebbero distinti ('). Quanto alla seconda quistione, ella rimane sciolta per le cose ragio- nate nel paragrafo precedente. SI Per uscire di questa difficoltà, dice il Rosmini, e conciliare dottrine così apparentemente contrarie, è uopo riflettere che, quantunque il necessario e il contingente siano cose opposte, come pure l'universale e il particolare, Teterno ed il temporaneo ; tuttavia non vi ha alcuna ripugnanza nel con- cepirli annodati insieme, che l'unione e annodamento non confonde le loro opposte proprietà ; non vi ha ripugnanza a pensare che il contingente sia termine all'atto del necessario, e il particolare sia termine all'atto d'una natura universale; quindi non vi ha neppur ripugnanza a concepire la perce- zione intellettiva come noi l'abbiamo descritta, avente un oggetto composto di un elemento eterno e di un temporaneo: ed anzi che la cosa sia così, ce ne assicura l'osservazione del fatto, la quale ci dice che la percezione nostra d'un corpo, o d'altro essere contingente, è appunto fatta così. L'oggetto adunque percepito dall'intendimento è un ente unico, risul- tante da una parte eterna che è l'idea, e da una parte contingente che è il senso e l'affermazione. Queste due parti sono così individuamente unite, che costituiscono un solo oggetto dell'intendimento; e la parte con- tingente e particolare sta legata colla parte universale come sua conti- (i) Su (|ucsla soUile questione dovremo farci di boi nuovo circa la line del libro 5° trattando dei possibili. Inlanlo mi piace di mandare il lettore all'acutissimo San Tommaso nella questione 14 della parte prima della Somma teologica, art. 9 e 16; e alla quistione 15 delle Idee divine, art. 1, 3 e 3. Se per idee o tipi distinti si intendono gli esemplari fattivi dello cose create, certo non ponno esservi in Dio i tipi distinti di quelle cose che eHcttivamente non crea, siccome il Rosmini ragionò in quel dialogo del fìinnovamtnto. 5go DELLKSSEaE E DEL CONOSCERE, ECC. nuazione ed ultimo atto, avente una relazione seco stesso, per la quale diviene un ente relativo. Non convien dunque dividere quello che è unito, il contingente dal necessario, il reale dall'idea; poiché il farlo sarebbe un disciogliere e annullare l'oggetto dell'intendimento » . Ciò posto, veniamo a risolvere la diflicoltà. « L'essere necessario, si dice, cioè Dio, non è il soggetto della sensazione contingente; e non avendo questa sensazione, come potrà averne il tipo? La risposta si deve desumere appunto da ciò che abbiamo detto innanzi, cioè che fra il reale contingente e l'idea v'ha un anello di mezzo che ci rimane velato, onde l'oscurità della cognizione umana. Questo anello è l'attività dell'essere reale assoluto creante il mondo. Or in questa attività conviene che si accolgano necessariamente tutti i sentimenti che nel mondo sussistono, formanti unità con quella perfezione che esclude ogni difetto e partimento. Ora questo sommo e perfettissimo sentimento è quel reale, che colla sua relazione all'ideale forma l'arche- tipo del mondo, e di tutto ciò che è in esso. Questa è la realità che contiene il mondo reale come suo termine, e però non in quante un ente (^') relativo, ma in quanto è compimento morale dell'assoluto (cioè voluto ed amato liberamente da lui). « Non piccola difficoltà qui si leva circa l'esclusione dei sentimenti do- lorosi da Dio, onde parrebbe che non potessero neanco avere in Dio il loro proprio archetipo. Ma ella si supeia in questo modo. Noi abbiamo veduto che il reale sensibile ha una doppia esistenza, luna nella mente, dove esiste come entità, 1 altra nel senso dove esiste come sensibile reale (2). La prima esistenza ha relazione strettissima alla seconda, di maniera che è la seconda stessa nella sua forma ideale e necessaria; la seconda poi è la stessa nella sua forma reale e contingente. Ora il sentimento, in quanto nella mente esiste, produce od ha seco unito un diletto contemplativo, ma non quel piacere e quel dolore che sta nella realità e che è tutto relativo al soggetto contingente. Quindi il pensiero ed anche l'immaginazione pu- ramente intellettiva del dolore, non è dolorosa, ma dilettevole; poiché il dolore, che è nel suo oggetto, é soltanto relativo al soggetto nella sua esistenza soggettiva (3). Può adunque trovarsi nell'Ente divino il dolore (1) Io sosliluirò sempre nelle parole del Rosmini il vocaliolo ente a quello di essere giusta la regola di parlare già fissata da me. (2) Vedi qui sopra, nel § I di quello capo, in line al num. 269. (3) Si prenda esempio dal pittore o scultore classico che concepisce, per es., il tipo di una Mattr Dolorosa, o di un Cristo paziente. Certo egli si rappresenta al vivo il dolore, eppure nel contem- plarne il tipo perfottissimo. gode. PI GIUSEPPE BURONI Sgi entità (0 (propriamente parlando, privazione di entità), il tipo del dolore, senza che vi si trovi il dolore stesso reale. » Ma la difficoltà consiste, come quest'idea del dolore possa aversi senza la presenza del dolore, ma in tutt'altro modo; come il dolore, essenza e tipo, possa aversi nell'Ente assoluto, quando il dolore reale che gli corrisponde è nell'ente relativo. Se il dolore idea è individua- mente uno col dolore reale , come quello potrà essere in un soggetto , e questo in un altro ? Perocché qui si tratta che il dolore reale e il do- lore idea siano presenti , ma cadano in soggetti diversi. Se il dolore reale non fosse presente, saremmo alla terza delle proposte diflicoltà; dobbiamo ora tenerci nella seconda. Or egli è certo, che nell'uomo il soggetto del dolore reale, e il soggetto che lo intuisce come essenza, è il medesimo; è certo ancora, che l'uomo non potrebbe intuire il dolore essenza, se egli, soggetto unico, non avesse sperimentato il dolore reale. Ma questo non prova che sia cosa ripugnante il pensare, che v'abbia in un sog- getto il dolore essenza, e v'abbia la presenza dinanzi a lui del dolore reale, ma d'un altro soggetto. A concepir tale possibilità, basterebbe supporre che vi avesse un modo, pel quale il dolore reale d'un soggetto si rendesse presente ad altro soggetto (2). Or che questo modo debba essere e sia veramente nel- l'Ente assoluto, ce lo persuade il considerare che l'ente relativo non è fuori di lui come ente, ma soltanto come relativo : di maniera che il termine dell'attività dell'Ente assoluto, che come termine appartiene all'assoluto, come relativo a sé è il mondo, perocché tutto il mondo reale, come ve- dremo in appresso, è il sentimento finito in quanto è finito e racchiuso in se stesso. Dunque l'ente reale relativo e tutti i sentimenti finiti che il formano e tutte le loro modificazioni sono presenti a Dio, benché Iddio non sia il loro soggetto, perciò appunto essendo relativi, perchè hanno un soggetto finito avente un'esistenza propria relativa a se stesso. » Questo concetto si renderà via più facile a penetrare, quando si con- fi) « Vi ha questa dilTereoza importantissima fra il seatimeoti) piacevole e il doloroso, che, essendo il primo realità positiva, può essere sostanziale, laddove il secondo, essendo negazione o privazione di atto, è sempre un accidente i> (.N. di R.]. (2) Ne abhiamo, come dissi, una prova anche nell'uomo arlisla, di cui dicevo, il quale per concepire la Mater Uolnrosa a il Cristo paziente , non ha veramente bisogno di sentirsi esso stesso trafitto il cuore dalla spada del dolore o crocifisso. Contempla quei dolori in un altro soggetto, seb- bene non avrebbe mai potuto indentare quei tipi senza avere sperimentato il dolore in se medesimo. Invece Dio creatore inventò il tipo del dolore in altro soggetto, senza averlo mai provato in se me- desimo, come si spiega in appresso. 5q2 UKl.l. l.SSF.RF. E DEL CONOSCERL, EC.(.. Sideri, clie l'unione che si fa nell'intendimento umano iia Tessere ideale e un sentimento reale, onde ha il concetto dello stesso sentimento, è un'u- nione che si fa nell oggetto, dalla quale anzi si fa l'oggetto. Non è una unione soggettiva per la quale si costituisca un soggetto. Or Iddio coll'atto creativo pone a se stesso l'oggetto, il creato, il quale è formato a dirittura, non già per l'unione dei suoi elenjenti, come lo si forma 1 uomo ; perocché questi non preesistono all'atto creativo, come preesistuno all'atto della percezione umana. Or nell oggetto formato e posto dall'atto creativo vi ha il soggetto senziente, ed il sentimento relativo ad esso, non relativo al Creatore. Così il Creatore ha presente la realità, il sentimento creato, senza che egli stesso esperi- menti questo sentimento come suo proprio ; lo possiede come oggetto del suo conoscere e del suo operare, senza esserne passivo. Chi ha bene inteso questo, vedrà che la difficoltà, che sembrava s\ terribile, è superata. » E in fatti in che consisteva ella? Riassumiamola in altre parole. Il sentimento (piacevole o doloroso) è nell Homo in due modi: i° come suo proprio di lui principio senziente, come sentito realmente ; 2° come cono- sciuto in se stesso, come possibile, essenza del sentimento, concetto del sentimento. E fuor di questione che in questo secondo modo, nel quale il sentimento è oggettivamente presente all'uomo, l'uomo non sperimenta né solfre quel piacere e quel dolore che é proprio del sentimento, perchè, quantunque questo sia di natura soggettivo, tuttavia è presente solo in un modo oggettivo ; e chi lo conosce, in quanto lo conosce, non è il soggetto del sentimento, ma soltanto è il soggetto della cognizione del sentimento. Ora la cognizione del dolore non è dolorosa, e lo slesso dicasi del piacere. Fin qui niuna questione. Ma l'osservazione dimostra , che luomo non può aver presente il sentimento in questo secondo modo come essenza , se non lo sperimenta , o non lo ha sperimentato alcuna volta nel primo modo come realità. Ed egli pare che ciò non debba essere soltanto dell'uomo, ma che vi abbia necessità intrinseca che cosi sia, di maniera che ripugni una cognizione positiva del sentimento senza che il sentimento reale sia «: e qui è dove consiste lo stesso sbaglio del- lobbiezione. « Noi abbiamo risposto (per riassumere qui in altre parole la soluzione della difficoltà) accordando per una parte che vi abbia nesso fra la cognizione positiva del sentimento e il sentimento reale, di maniera che se questo non fosse, quella non potesse essere; ma negando per l'altra la necessità, che il soggetto della cognizione del sentimento sia anche il soggetto di esso senti- DI GIUSEPPE BUKONl SfjS mento piacevole e doloroso. Nell'uomo bensì vi ha questa necessità, ma ella non è intrinseca, procedente dalla natura della cosa ; anzi nasce dalla spe- ciale circostanza che a lui è dato per natura soltanto l'essere assoluto ideale, e non l'essere assoluto reale; ond' è costretto a congiungere la realità finita, ch'egli esperimenta, coll'idea dell'essere universale, unico modo che egh ha di formarsi il concetto di questa realità. Ma Iddio è l'essere asso- luto nelle tre forine, e perciò oltre l'idealità ha per natura la realità asso- luta, totale, dell'essere, e in questa trova l'esemplare anche del reale finito quando cull'atto creativo il produce (il che egli fa ab eterno, quantunque TelFetto relativo sia nel tempo). Ora l'esemplare dell'ente reale, ossia del sentimento finito, è appunto la cognizione, il concetto, l'essenza di questo sentimento, l'oggetto analogo a quello, che l'uomo si forma congiungendo la realità che sperimenta all'idea dell'essere universale. Ma la cognizione, ossia il concetto del sentimento, non è ii sentimento stesso sperimentato, rimanendo il soggetto senziente nell'oggetto conosciuto, e non confonden- dosi col conoscente. Dunque si può dare cognizione positiva del senti- mento finito, senza l'esperienza di questo (non però senza l'esperienza di alcun altro sentimento, né senza la sussistenza reale del sentimento finito); ed ella si dà, non nell'uomo veramente, ma sibbene in Dio ('). » Rimeltiamoci ora in cammino. L'essenza dunque delle realità contin- genti, o dei sentimenti finiti, sta in Dio senza di questi, ed ella è eterna come è eterno l'atto creativo di Dio. Ella ha un'eterna relazione colla realità contingente, che esiste solo nel tempo. L'uomo non vede questa eterna relazione, se non a condizione di esperimentare quel sentimento finito e contingente. Questa relazione gli si scopre tostochè s'accorge che sentire è essere : accorgersi di questo, è conoscere il sentire , è ancora intuire il sentire nell'essere. Intuire il sentire nell'essere come atto di lui, è quanto intuirlo oggettivamente, come oggetto, non più esperimentarlo soggettivamente; è intuire l'essenza eterna del sentire. Quando l'uomo cessa di esperimentare attualmente un sentimento, allora egli non cessa d'in- tuirne l'essenza. » Ma rimane a sapere se egli, per continuare a intuire l'essenza positiva del sentimento, abbia bisogno di un qualche vestigio o rimasuglio del sen- (i) Qoanto alla terza iliCDcoltà, come Iddio possa conoscere quelle realità fiaite, che egli non crea, e che però noa sussistono, il Rosmini, come dicemmo, rimette il lettore a quanto disse nel Rinnovamento (L. Ili, ài, ài); e io vi aggiungo San Tommaso, l.q. 14, a. 9 e 16 e q. 15. Serie II. Tom. XXX. 75 5q4 dell'essere e del <:onoscere, ecc. tiinento attualmente sperimentato: questa è quistione psicologica. Egli pare di sì. Laonde se si tratta di sentimento animale, par verosimile che quando cessasse al tutto ogni vestigio imujaginario del sentimento provato, non po- trebbe più l'uomo positivamente conoscerlo. E però, qualora un uomo per- dendo la vista, perdesse ancora ogni facoltà d'immaginarsi e ricordarsi dei colori veduti, egli si troverebbe ridotto allo stato del cieco nato. Quanto poi ai sentimenti spirituali, sembra che questi abbiano sempre bisogno nell'uomo di essere accompagnati e investiti ne" sentimenti coiporei, giacché se ai sentimenti spirituali non sempre s aggiungono inunagini corporee determi- nate, tuttavia pare che quelli suscitino sempre mai movimenti nella sen- sitività nervosa, o questi movimenti sensibili dian la leva a quei sentimenti spirituali nella pi'esente condizione dell'uomo. Quindi è che l'immagina- zione corporea, e per dirlo più in generale, la facoltà di rinnovare i sen- timenti avuti coi loro vestigi, aiuti l'opera dell'immaginazione intellettiva. » Ma sono ciò non ostante due questioni diverse: se cui pensiero po- sitivo dei reali e dei sentimenti s'associno sentimenti animali quasi stimolo della spontaneità intellettiva, o naturale appendice; e se l'oggetto di quel pensiero è sempre una realità presente, un rimasuglio, vestigio o richiamo del sentimento sperimentato, il qual rimasuglio o vestigio è anch'egli sen- timento attuale, benché più languido del primo. » A sciogliere questa seconda questione viene il fatto, che si può benis- simo pensare al dolore con attuale positivo concetto, senza provare attual- mente alcun dolore; e lo stesso dicasi del piacerei). Quando si pensali dolore oggettivamente senza applicarlo ad alcun soggetto, certo allora si sa che cosa è dolore. Se per saperlo noi avessimo bisogno di avere un vestigio del dolore provato, il quale fosse un rimasuglio di lui, un dolore bens'i minore del precedente, ma però ancora un dolore presente che alletta la nostra sensitività; se questo piccolo dolore riprodotto fosse il vero oggetto del nostro pensiero, in tal caso noi non penseremmo l'essenza del dolore in generale suscettibile ili più graili , ma penseremmo quel dolore parlicolare, e in quel piccolo grado soltanto, nel quale 1 abbiamo saputo riprodurre in noi. Neppure sarebbe possibile a spiegare ratfetto della compassione, per la quale noi compatiamo agli altrui mali, misu- randone in qualche modo colla nostra mente la grandezza , benché noi (1) si ricordi l'esempio degli arlisli che io luccal più sopra nelle aute al oum. 977. DI GIUSEPPE BURONI SqS Stessi non li proviamo attualmente: e non li deploriamo come nostri , ma come altrui; e ne proviamo solo un riflesso, per così dire, che è di tut- t'altra natura da que' mali reali, che soffrono i nostri simili, e che for- mano 1 oggetto del nostro compatimento. » Quando adunque fissiamo la mente nel dolore, qual è l'oggetto positivo del nostro pensiero, se non è alcun rimasuglio o suscitamento del dolore da noi provato.' Perocché, o ci fermiamo nel segno, e allora non pensiamo piìi al dolore; o col pensiero passiamo dal segno al dolore segnato, e allora torna la difficoltà come possiamo pensare il dolore che non ci è attual- mente soggettivamente presente. Certo egli è da porre che sia l'es- senza eterna del dolore. Perocché quando noi pensiamo il dolore (e lo stesso dicasi di ogni altro sentimento come oggetto), allora questo og<^elto di necessità trovasi spoglio d'ogni relazione con noi soggetto; è pensato in se stesso, e tuttavia pensato positivamente nella sua essenza positiva. Che per venire a questo noi abbiamo dovuto prima esperimentare quel .sen- timento ella è un'altra questione. Poiché altra questione è: — come noi ci siamo sollevati a conoscere una cosa — ; altra questione: — che cosa sia la cosa conosciuta. Sia pure che il dolore, nella sua essenza positiva, non l'avremmo mai potuto conoscere senza l'esperimento del dolore reale. Ma del pari deve concedersi che l'essenza del dolore, benché positiva, intuita dalla mente, non è il dolore reale soggettivo. Che cosa è dunque? Noi abbiam veduto che l'oggetto dell'atto creativo rispetto a Dio sono appunto le essenze positive delle cose create, le quali poi sono relative a se stesse e soggettive e in tanto relativamente esistenti, che viene a un dire esistenti fuori di Dio. Se dunque la mente umana, quando pensa l'essenza positiva di un sentimento, pensa cosa eterna e non .soggettiva, è da conchiudersi che ella pensa lo SteSSO Oggetto dell'atto creativo, e così vede le cose come termine di quest'atto. Quest'è quell'elemento di verità, che travide 'Vincenzo Gioberti. Ma non ne viene da ciò, né che l'uomo veda questa sorgente, cioè Iddio: neppure é vero che l'uomo veda il termine della creazione con un giudizio o con un'affermazione ; ma il vede con atto di semplice intuizione. Che anzi quando poi passa all'affermazione, allora arriva al contingente, e movendo col suo pensiero dall'oggetto giunge al soggetto, e quivi si ferma; perocché il termine dell'affermazione é il sog- gettivo dell'essere, e non l'oggetto ». E certamente né il Gioberti né alcun Giobertiano arriverà mai a provare che noi senza il senso possiamo esser consapevoli dell'esistenza reale e sensibile delle cose finite. 5c)6 dell'essere e del conoscere, ecc. 279. « E questo snoda il gruppo più difficile della questione, cioè come sia vero che l'uomo dirige il sentimento renle, da lui sperimentato, in tipo od esemplare. Se il tipo è eterno, come può essere il sentimento tem- poraneo, che cade nella sua esperienza? Qui sta la vera difficoltà. Ma ella è appieno vinta e superata per chi non si lascia sfuggire dalla mente nessuna delle cose dette fin qui. Perocché fu detto, che il termine del- l'alto creativo è il mondo creato. Questo termine, rispetto a Dio, nella sua essenza è oggetto, e come tale è eterno, come è eterno lo stesso atto creativo. Ma questo mondo oggetto ha un atto che riguarda se stesso; ed in questa precisa relazione con se stesso, non è più oggetto, ma è senti- mento soggettivo, poiché tale relazione sta fra sentito e senziente. Ora questa relazione di sentimento, in quanto è tale, è nel tempo, incomincia e successivamente si modifica ; e questa è la realità contingente. Poiché questa soggettività sta nel seno dell'oggetto, non é più difficile intendere, come l'uomo, che appartiene a questa soggettività , possa emergere da essa colla sua intelligenza passando a considerare questa relazione senti- mentale soggettiva in quella condizione oggettiva che ella ha rispetto al Verbo divino. E ciò può far I uomo, perchè gli è dato ad intuire l'essere oggettivo nell'idea, dove appunto sta il soggettivo. Così gli sembra che il soggettivo si trasformi nell'oggettivo. Ma la cosa non è rigorosamente cos'i. Piuttosto il soggetto uomo prescinde dalla soggettività, e dalla rela- zione con sé, e allora gli rimane la realità quale ella é come oggetto, che è quello che abbiamo chiamato lo stofFo del reale (oggettivo), in con- trapposizione dell'atto del reale (soggettivo). E questo il reale oggettivato, il soggettivo veduto nell'ente oggetto, come termine del suo alto; è ciò insomma che chiamammo resistenza assoluta e metafisica degli enti reali. 280. n II che riceve conferma dall'analisi della percezione, che, come abbiamo detto, racchiude due operazioni. La prima è l'oggettivazione del reale, ovvero universalizzazione, ovvero intuizione dell'essenza speciale; e la mente che fa questa operazione cessa d'essere a se stessa soggetto della cosa percepita ; né pensa ancora ad alcun soggetto determinato, ma ad un soggetto universale. La seconda è V affermazione con cui dell'oggetto, intuito nella prima, predica la realizzazione, e con ciò pensa il soggetto determinato relativo a se stesso. Quando dunque si atFerma , che un uomo, per es. , sussiste, allora che cosa si fi, se non predicare la sussistenza dell'uomo ' E che cosa é \uomo se non 1 oggetto ? Che cosa è la sussistenza se non il soggetto^ Si predica dunque il soggetto dell'og- DI GtUSEPPE BURONI SoT getto, la realizzazione dell'essenza, il contingente del necessario, il tem- poraneo dell'eterno. Laonde in qualunque affermazione e predicazione della sussistenza finita vi ha un subbietto dialettico, di natura sua necessario ed eterno, ed è veramente la radice a cui si attiene il contingente. Onde l'uomo nella percezione considera sempre il contingente siccome un atto del necessario, non lo confonde col necessario, ma ve lo innesta, acciocché possa essere , e possa essere conosciuto. È solo da dire, che quest'atto del necessario è relativo a se stesso, e perciò appunto non è il necessario avente natura oggettiva ed assoluta. Ma quello che è relativo a se slesso, cessa di essere relativo se si toglie questa relazione, ed allora rimane il solo necessario ; e cosi accade quando dalla percezione si leva via l'affer- mazione, poiché allora rimane la sola idea positiva della cosa. In questa idea positiva vi ha tutta la cosa in se stessa considerata, cioè considerata come essere; ma la cosa non esiste ancora a se stessa, che è l'esistenza relativa, ossia la realità contingente; ma eli' è la possibilità di questa esistenza. Così il relativo nulla aggiunge all'assoluto, ma egli solo è quello che comincia o cessa di essere, senza che l'essere in se stesso, assolutamente considerato, né cresca perciò, né diminuisca ». Dopo lutto ciò, io non pretendo già di avere sciolto, né che il Ro- smini , del quale, piìi che altrove citai lunghi traiti, perchè non comu- nemente conosciuti, abbia sciolto questo arduo problema della cognizione eterna, per quanto spetta anche a noi, degli enti. Ma parmi che largo pascolo sia dato alle menti speculative da meditarlo, perchè sempre che noi ragioniamo di altissime cose, il facciamo con più corta favella , che d'un fan le Che bagni ancor la lingua alla mammella. (Dante, Paradiso, XXXIII, 106-108). CAPO XIX La controversia degli universali composta. 281. Questa degli universali fu , come è noto, la gran controversia del medio evo. In essa si può dire che s'acchiuda la filosofia tutta degli Scolastici. Il Rosmini ne studiò profondamente e descrisse con acume 5q8 dell'essere e del conoscere, ecc. tutte le vicende e i ripiegamenti dialettici nella dotta Prefazione che mandò innanzi al suo Aristotele esposto ed esaminato (p. 7-71). la quale io non dubito di chiamare un brano modello di storia fdosofica, ed il leggerla non potrà mai non essere di grandissima utilità agli studiosi. Ora il mirabile è come una sì paurosa quistione resti facilmente disciolta, e composta la controversia con equa parte di ragione fra i disputanti, dopo l'esposta teorica del Rosmini, come egli stesso lucidamente dimostra nel voi. 2° della Teosofia, p. i4i e seg. , e come io mi propongo di riferire compendiosamente in questo capitolo, in cinque paragrafi. 5 J. — Della natura degli universali e loro rapporto alle cose. 282. La quistione fu proposta con diversissime formole, ma in fondo è pur sempre la stessa: « Gli universali sono nelle cose o fuori di esse? ». Ed è da notare che si parla di cose reali finite, di quelle di cui l'uomo ha sperienza. La risposta, soggiugne il Rosmini, che deriva dalle cose dette, si è questa : L'universale è nell'end finito, ma non nel reale finito. La distinzione è stata chiarita pii!i volte, e si può anzi dire che sia stata il tema perpetuo della filosofia del Rosmini e del mio discorso. \^ ente finito è la cosa reale finita già pensata dalia mente, e da essa congiunta all'essere e fatta ente. Ora nella cosa reale fatta ente vi è cer- tamente l'essere, e l'essere attagliato e determinato appuntino alla cosa, che è l'idea e l'universale. Vi è, perchè la mente ve l'ha messo. Dunque nell'ente finito vi è l'universale. — Il reale finito è la cosa reale in quanto per astrazione della mente la si considera per sé sola senza l'essere: la qual senz'essere pensata dalla mente e guardata nell'essere non potrebbe esistere veramente come abbiamo veduto , perchè è contraddizione che cosa esista senza l'essere ; ma pure non è l'essere e si distingue dall'essere. Or riguardata come tale non ha l'universale, perchè non l'ha ancora, come si suppone, ricevuto metessicamente dalla mente. « Il non essere stato distinto, come s'avrebbe dovuto, il reale finito à^W ente finito, rese insolubile quella quistione. Da quelli che afFermavano trovarsi l'universale nelle cose particolari, consideravasi l'ente, ed aveano ragione d'afiermare: da quelli che negavano, consideravasi solo il reale ed aveano altresì ragione di negare: credevano di parlar tutti della stessa cosa, non s'intendevano. Mancava un'analisi accurata dell'ente finito. L'ente finito non è né sola l'essenza qual si vede nell'idea, né solo il reale che DI GIUSEPPE BURONI SoQ si sente: « ma l'unione individua di questi due che si fa nel talamo della mente ». Ecco tutto l'arcano O. Nelle scuole l'universale, com era concepii© da Platone, si chiamò uni- versale a«).)oU X"P'» oZaty S/ov i/x' ÉviiTai, xai outoj aìrrò auToO X"P'! '''' ^'l' ^ O^' ^'', e' 7', yà»a!, oTo-j ii ri/jiipx ^(a xxl -li aùrri ojjo; Ttoy).xy_oii àfi £jt( cete oùJiv XI /zxlXo» «ÙTìj auT^! ^.«Jpfj è^Ttv, eì outm zal Èxasrov r&j dòù-j ì-j è» ;t27tv a/xx Tauro» i'n- — liSémi ys, fitca, Zt S'Jtxpxci; , £■/ txÙtò» à/ta itoW.aj;»" itouì;, o'ov se Ì7TÌu zaraniTisa; itoJJoJs àvflpwxou; yat'/js Iv Èiti Ttoìia-ii Etvat óJov ri oO ri tocoutov rr/tì Xi/u-, ; — 'Iiws, yivat . (Parm. , pag. 131 B, C). Sebbene ho da notar qui di passaggio che Socrate giovinetto si lasciò sviare dal vecchio e astuto dialettico alla similitudine del velo o vestimento gittato su molti uomini, la quale, rispetto all'uso che si deve farne, era meno adatta della sua della luce del giorno che è la slessa dappertutto. Ma per noi ciò non conta. 6o6 dell'essere e del conoscere, ecc. vomóg), a cui il savio ateniese ridusse già o lento di ridurre tutte le essenze e tutte le idee (0. CAPO XXII. Anteriorità e indipendenza delle idee dai sensibili. 290. Ma non pare egli a questo modo che le idee molte e diverse risultino nell'essere da' sensibili presso a poco come nel sistema degli sco- lastici le specie intelligibili risultano nella mente o nell'intelletto possibile da' fantasmi, e però sieno da" sensibili dipendenti e ad essi posteriori.' e che si formino per virtii della mente, per quella virtù dico che gli sco- lastici chiamano la virtù dell'intelletto agente, che illustra i fantasmi, e però sieno di nuovo da questa dipendenti e posteriori.' Rispondo che la cosa è molto diversa, quandi) si presupponga, come noi facciamo, dinanzi alla mente l'idea dell'essere, ossia 1 essenza dell'essere perennemente intuita e contemplata: e però a principio del capo prece- dente dicemmo di voler spiegare come si compia l'ideazione e si formino le idee nella mente già foj-ìiita delfidea die sia delVessere (2). Il rilevare l'importanza di c[uesta clausola, rispetto al mantenere l'anteriorità e indi- pendenza delle idee da' sensibili, è il soggetto proprio di questo capitolo. 291. In ogni idea determinata, per es. d'uomo, di cavallo, di pianta, di fiore, si devono distinguere, giusta ciò che fu detto nel capo precedente, due elementi: l'essere e una certa determinazione dell'essere (3\ Questa determinazione, e cosi tutte le determinazioni che formano le diverse idee determinate, sono certe circoscrizioni o contorni o limiti che appaiono circostanti all'essere per determinarlo e limitarlo a un dato grado e modo (1) 'H yàp KXpw/JiaTÓ; Ti xat à5;^-/i/iLàTt!TTOS xal à-jx^r,^ ojaia Óvtws ou?a '^•jx^ìì xo^tp-jr^z/i //óvw 6iaT?i yw ' TTspl >iv TÒ Tni àlriBoii; J7iKT»),ui]5 "/ÉVO; 70ÙT0V Ézet TÒu TÓTiov (Pliaed., pag. 247 C). Come questo luogo iopraceleste, o Ipeiurano, sia l'essere, di cui parliamo, o Voùsix Sviai oZna., dirò fra poco. Vedi intanto Rosmini, Teosofia, voi. 4°, pag. 40 e seg. (2) Qui cadono i due bellissimi dialoghi, die sono un modello di letteratura filosofica italiana, l'uno del Rosmini nel Rinnovamenti), pag. 592-634, e forma l'intiero capitolo 52 del libro terzo; Pallro di Alessandro Manzoni intitolato DeW Imcnziane : ben degni d'esser letti. (3) E cos'i ogni essenza e natura di cosa determinala e determinata e composta di questi duo elementi, cioè dell'essere e di una data determinazione dell'essere; perchè l'essenza di una cosa, come dice il Rosmini, è ciò che sì contiene nell'idea di quella cosa ; ovvero, come dice con termini poco dissimili San Tommaso, l'essenza propriamente è ciò che viene significalo per la definizione, la qual esprime appunto il contenuto dell'idea : « Essentia proprie est id quod significalur per defini- lionem : deUnitio aulem compleclitur speciei principia «(1'. q. 29, art. 2 ad 3"). DI GIUSEPPE BUROM Qoj proprio di quella data idea o di quella data altra O , e si ponno anche chiamare, con vocabolo romagnosiano non mal adatto, altrettante segna- ture dell' essere , come le chiama infatti il Rosmini nel Rinno\i moitoùvTuv q/iwv T9C ^XìKÓfiiva^ àXXà Tà; /xrì S\inàiJ.zva* Tà yàp SÌ£7có/A£va TrpÓTxaipa, tx Si /j-i] ^Xs.nófji&vx aiuviK » (2 Co* rinth. , IV, 18): ed anche qui passeggiere son le forme visibili delle cose; ma le essenze, che stanno al di là del velo fenomenico, sono sempiterne. DI GIUSEPPK BURONI 6oQ 294. Anzi qui è da fare una riflessione importantissima. I sensibili e i fantasmi non entrano né punto né poco nelle idee. Essi fanno l'ufficio di determinanti e limitanti l'essere, ma solo dal di fuori e di lontano, per solo riferimento estrinseco che la mente fa di loro all'essere, ma non entrano per nulla in concrezione e mistione coll'essere che sta su in alto e nel cielo e nel cielo sopraceleste, ed essi sono quaggiij in terra. Essi prestano i loro contorni all'essere di lontano, come i corpi opachi gittano di lontano le loro ombre (le quali son nulla) sulla parete con- trapposta senza punto toccarla. Essi servono soltanto di ammonimenti alla mente che guardi nell'essere, che le sta dinanzi, le idee che son le proprie loro corrispondenti; ma le idee sono nell'essere pure da ogni concrezione terrena, e non ricevono da sotto nemmeno i limiti e contorni che le fanno comparire alla mente, come la carta li riceve dall'inchiostro e dalla matita H); elle v'erano già tali e quali, solo era bisogno di distinguervele collo sguardo ed afiisarle. 295. Per la qual cosa non è nemmeno del tutto propria l'espressione di idee non-pure che adoprò il Rosmini nel Nuovo Saggio ed altrove perchè le idee son tutte purissime da ogni elemento estraneo, e non sono mai altro che l'essere. Ma certo è sbagliata l'espressione che leggesi nel- ilndièe delle materie aggiunto all'edizione torinese del Nuovo Saggio sotto la voce Idee, Idea acquisita, a pag. 365, col. i, ove si dice delle idee acquisite « che constano di due elementi forma e materia » (2). Non mai disse questo il Rosmini: disse hensi forma e materia della co- gnizione, e forma e materia distinse nella percezione, e così disse parte formale e parte materiale della cognizione: ma delle idee non mai (che io sappia), perchè le idee sono purissime forme (3). Ed anche que' modi affatto specifici che le idee prendono dai sensi (1) E nondimeno è da notare che la carta bensì, cioè la materia in cui si tracciano quelle linee oppure si incidono, si può dire clic le riceva, ma lo spazio e l'estensione non già : ed ancorché ta- gliassi tutt'all'intorno la caria, lo spazio e l'estensione non si taglia, resta tal quale era prima im- mutabile, immobile ed impassibile. (2) E da notare die anche San Tommaso, 1. q. , 84, a. 6, dice espressamente, non già che il sensibile entri come materia nell'intelligibile, ma magis est quodammodo materia causaa. Mi accorgo di non spie- gare abbastanza queste parole, ma intanto le scrivo qui per non dimenticarle, e so d'averle spiegate pili sopra in alcun luogo; certo nelle Nozioni di Ontologia, n.63 fpag. 87, nota 1^). (3) Questo Indice delle materie aggiunto al Nuom Saggio fu composto, come io credo, dal reve- rendissimo Don Francesco De-Vit, mio amico, il quale vorrà perdonarmi se trovai questa inesattezza in quel suo lavoro di rarissima diligenza e perspicacia e di immensa utilità per l'uso del Nuom Saggio del suo e mio venerato maestro. Slrie ir. Tom. XXX. nn 6lO DF.LL ESSERE F. DEL CONOSCERE, ECC. nostri e da' fantasmi delle nostre sensazioni, e non sarebbero assolu- tamente, come pare, se queste non fossero, per es. l'idea di colore , di rosso, di verde, di arancio, che senz'occhio è opera perduta di poter pensare die mai fosse (Rinnov. p. 609-670), e cosi quella di sapore che non è né può essere senza relazione a un palato, e quella di suono che non è senza relazione a un orecchio (Teos. v, p. 59, 63), e via discor- rendo per tutti i niodi diversi che le idee delle cose vestirebbero in quelle centomila maniere d' intelligenze diversamente organate di cui ad altri piacesse di far popolati gli astri innumerevoli del firmamento ('), io dico che pur sono e si scuoprono nell'essere in una maniera alUitto eli- mata e pura da ogni concrezione di materia e di sensazioni e di fan- tasmi, i quali restano sempre fuori dal mondo ideale le mille miglia , e solo servono di punii d'appoggio estrinseci allo sguardo della mente per eccitarlo ed ammonirlo a guardare all'insiÀ ed affisare nell'essere le idee corrispondenti: il color rosso certo non sarebbe senz'occhio veggente cos'i e cos'i organato, e il sapore non sarebbe senza lingua, uè senza udito il suono; ma l'occhio e iì palatv> e l'udito co loro modi proprii sono spec- chiati nell'essere, e quindi nell'essere si riconoscono le idee tutte speciali loro corrispondenti, le quali son essere puro, e non altro che essere senza veruna mistura di altri eleuienli. e vi sono, e vi erano già prima, e vi saranno in eterna ; e non si richiedeva nient altro che di dislinauerle e di affisarle. E noi e tutte quelle centomila maniere d intelligenze non mai le avrebbero notate senza le sensazioni, ma intanto ci erano, e non vi si sono aggiunte. Onde !e sensazioni non sono mai parti integrali delle idee, ma solo cause occasionali di riconoscerle: e le idee, qualunque sieno, non mai si creano, o formano, ma solo si trovano e riconoscono nell'essere 2). 29G. Onde risulta quanto importi il titolo di virtuale che il Rosmini attribuisce al suo essere ideale, obbietto primo della mente. La virtualità non va presa' nel senso di potenzialità qual si concepisce quella della materia, la quale è niente in atto e tutto in potenza, e ogni forma deve ricevere dal di fuori per essere posta in alto. La virtualità dell'essere ideale è invece come quella ilella luce del sole la qual precontiene in sé in un modo unito, concentrato, virtuoso, eminente quanto mai va- (1) Vedi Kosuiini, Riiiiiovamenlu, p a g. 000-01 1 . Di qui ri faremo strada a suo leiapo a dire come tulle queste maniero diverse di idee sieno in Dio. Intanto ci basti dir qui come sieno nell'essere. (2) Sopra ciò si aggira con mirabile precisione, acutezza e ordine il dialogo Peli' I>ive?>zione di Alessandro Manzoni già più Tolte citalo. DI GIUShPPE Bl'RONi 6ll ghezza e varietà di torme e colori sia per comparire sparpagliata sur un prato smaltato di fiori , o in una amplissima sala ove fossero raccolti e in bell'ordine disposti ogni fatta e maniera capi d'arte e oggetti de' tre regni della natura di nìille e mille torme e figure, dall'oscuro scarafaggio al cangiante colibrì e all'uccello del paradiso, e dall'atro carbone a' ful- gidi diamanti e rubini '). Che, come la luce ladiante del sole tutto dona e niente riceve dagli oggetti da sé illuminali, e se si vuol dire, da essi non riceve altro che spezzamenti e limiti diversi; cos'i l'essere tutto dà e niente riceve da' sensibili a cui si riferisce, se non limiti e contorni negativi, onde risulta la mirabile varietà delle idee e delle essenze tutte in esso in modo anche più pieno e perfetto precontenute, sicché di lui possa dirsi ciò che del sussistente Essere Infinito disse Dante nel 33° del Paradiso: « — Nel suo profondo vidi che s'interna — Legato, con amore in un volume — Ciò che per l'universo si squaderna. — • Sustanzia ed accidente e lor costume — Tutti conflati insieme per tal modo — Che ciò ch'io dico è un semplice lume. — Sicché essere virtuale, non vuol dire essere manco, ma essere attualissimo e perfettissimo. E tale chiama l'essere, cioè la notizia prima dell'essere. San Tommaso d'Aquino (2)^ che i neo- scolastici s'ostinano di voler trarre al tor gretto sistema. 297. Io mi penso d'avere pienamente risposto all'obbiezione con la quale cominciai questo capitolo, e dimostrato cjuanto la nostra maniera d'ideazione si dilferenzii da quella degli scolastici volgari che poco si ditferenziano da' sensisti , e compiuto quel che nel precedente capo era cominciato del modo in cui si operi l' ideazione e si formino le idee de- terminate. (I) Qui trovo d'aver copialo me stesso in ciò che avevo scritto già prima nelle più volte citalo Nozioni (li Onlolo(jia\ ma non è uopo di mutare per questo. (^2) Ecco alcuni tratti delle sue opere che vagliono per tulli : « l'rimum in cnnceptione intel- lectus cadit ens. ..Undo est proprium obiectum iutcUectus, et sic est primum intelligibile u (l.q.4. a. 1. ad 3"). Qual essere? Ecco: «Esse est aclualilas omnis formae vcl naturae » (1. q.3. a. 4). " Ipsum esse comparatur ad omnia ut actus; nihii enim habel aclualitatem, nisi in quantum est: unde ipsum esse est aclualilas omnium rerum et eliam ipsarum formarum » (1. q.4. a. 7. ). Di nuovo :)v x).-/iBitxv Koc^iyov Tot; ytyvws/o/iévois xal Tòi yf/vwixovTi -rnv duva/jttv inoSioòv •zì^-i TOÙ àya^^y cSéav ya9t etvat , aÌTtav 5 ' eTtiTTii/jtyjs oj7av xat àV/^Qs^as w5 y(yvw!r/.o^sv<7s ^£v òtavoou , outw 5s /ai&iv «/z^OTÉpwv Óvtwv , yvwffioi; ts xal à>>]0e^a5 , a/io xal x: £?£v (PlAT., /?ey).j vi). (6j " Allerdings bezweckl Platon keine eigentliche Eeslinimung des gottlichen We- sens, die er iiberhaupt als cine den Menschen nicht zustehende gern vermeidet ; aber wir diirfen dodi aucli die Ideen, die ihm nicht blosse BegrilTe und subjeclive Ge- danlien, sondern objective Realitaten und Krafte und substantielle Einheilen waren, nicht von den gottlichen Geiste trennen, in weichem allein sia hir Wesen und den Grund ihres Bestehens haben » (Steinhart, Aiopft. , pag. Sf)1-562 ). (e) " Die Lchre des Cardinais (von Cusa) isl daher nicht zu jenem « schwachen Theisnius » zu rechnen, wie ihn Schelling so treffend nennt welcher gegen den Pan- theismus nicht vermag, « weil er nur in absoluter nicht fefcer-sondern Ausser- weltlichkeit (denn das ist ein grosser Unterschied) eine der Gottheit wiirdige zu finden weiss » (Clemens, Giord. Bruno und Nic. v. Cusa, pag. 149, nota 3). PROEMIO. I. Argomento di questo libro: Idea della Teosofia del Rosmini: Opposizioni e controversie. 300. L'essere ideale che tanto grandeggia nella mente su tutte le cose reali che cadono sotto la nostra esperienza e nell'ordine dello sci- bile su tutte le idee, come ne' libri precedenti s'è largamente dimostrato, pure, secondo il Rosmini, non è Dio, si solo l'indizio di Dio, ed il prin- (a) Platone, dopo aver detto o fatto diro da Socrate nel sesto della Repubblica, che, come nel- l'ordine delle cose visibili vi è nell'alto del cielo il sole che dà lutt'insieme agli occhi la virtù del vedere e la visione e agli oggetti la luce per esser veduti, cos'i nell'ordine delle cose intellettuali è da pensar che vi sia un Principio superiore cb'ci chiama // Buono, che alla mente dia la virtù di conoscere e la cognizione, e alle cose la verità come conoscibile per essere conosciute, seguita cosi (e son le parole citate nell'epigrafe soprastante); « Questo adunque che aggiugne la verità alle cose conosciute, e al conoscente dà la virtù (del conoscere), dillo essere la natura del Buono. Or essendo lui causa di cognizione (bada bene) e 6l4 DELL ESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. cipio e rudimento della scienza e cognizione di quello ('). Che, sebbene si confessi che l'essere in Dio è Uio (2) , perchè non vi è uè vi può essere altro che essere, e Dio in suo profondo non è altro che l'istess' essere sussistente (3) , il qual disse: lo sono lEsseiile; e l'essere è uno, né vi è, né si può dire o (1) Nello siile grottesco dell' Hegel, che prende lo sforzato pel grande e Tincredibile jicl vero, ciò direbbcsi piuttosto Pinizio ed il rudimento di Dio o il diventare di quello, per dire semplice- mente l'inizio e rudimento diuhltuo del concetto di Dio, o il formarsi questo concetto nella nostra mente, e il divenire noi nella scienza e cognizione di Lui. // nostro favellar ci è piit latino^ direbbe Dante. Dell'Hegel il nostro Vico avrebbe detto: Tantumdcm est ac Dei se fìeum facere (2) Ciò afferma più volte il Rosmini. Vedi, per esempio, Tcas. , voi. 4", pag. 356, nota; ed in altri luoghi. Ed è cosa questa da ben notarsi, perchè ninno creda che l'essere ideale del Rosmini, che è la verità, sia un essere staccato e dii'erso da Dio, sebbene da Dio disti/Un, come diremo. (3) Vipsutn esse per se subsistcns e la deGnizione di Dio che più spesso ricorre in San Tommaso. di verità come conosciuta (a), e cotanto eccellenti essendo aniendue, la cognizione dico e la verità, ben anco e ben più eccellente di queste lui dover essere estimando, rettamente estimerai. Ma come quivi (nell'esempio toccato del sole) pensar che la luce e la visione sicn simili al sole, è giusto si, ma pensar cli'elle sieno lo stesso sole non è giustizia: cos'i anche qui, cognizione e verità, è giusto SI creder che queste araendue sien simili al Buono; ma stimar che sia lo stesso Buono o l'una o l'altra delle due, non è giusto: ma in sede molto più augusta è da porre la natura del Buono». (Al che Glaucone interlocutore di Socrate, ammirato aggiunse:» Inestimabile bellezza tu predichi, se esso dà cognizione e verità, e queste cose avanza di bellezza! >• ^ l^ii.-fit.a.-ioi /.i'ij.o;, éy/i , /é/£<;, ti iiziiTrijxri'i jx'vj xa't x/.i/ìuyi-j nupi-^ti , «jtò ò'' bnzp zajjxa. y.ày/ii ssTtv). (4) ic AlPintutto non intende Platone di dare alcuna propria dottrina intorno alla divinità, il che egli generalmente, come cosa agli uomini non consentila, volentieri schivava. Ma noi non dobbiam anche alla nostra volta separare mai le idee, che per lui non erano meri concelti e pensieri sub- biettivi, ma essenze obbiettive (,5), dalla divina Mente, nella quale soltanto esse hanno la loro vita e il fondamento di loro consistenza u . (e) « La dottrina del cardinale Nicolò di Cusa (■/) non è quindi da mettere insieme con quel fiacco Teismo, come acutamente lo chiama Schelling, che contro il Panteismo riesce affatto impolente n perchè (com'csso dice) non credendo di trovar posto degno alla divinità nelTassolula truscendema, solo lo trova ncll'assolula scparaziime. (che è cosa ben differente) dal monrlo » . (a) Si noli come Platone non abbia punto scrupolo dir Dio causa e principio (xfriav) della verità come conosciuta, e non temo perciò di sbalzar di seggio la verità stessa e ruinare nello scetlicismo. Cosi nel X della Repubblica descrive Dio come causa e creatore delle Idee, il che come vada inleso, diremo più sotto. ()9) Qui lo Sleinliart, alla foggia de' suoi connazionali, come sopra vedemmo dello Slallbaum (oura. 237-2^0), nm SI designare allramente le idee oggettive di Platone che chiamandole realità^ forze e sostanziali unità, i quali termini, come dimostrò la filosofia del Rosmini, esprimono piuttosto cose subbiettive: e ciò per Pestrema diUicolta che sempre incontra di pensare ed esprimere il puro obbiettivo: per cui anche Platone assai volle tras- corse a simili locuzioni, e certo i platonici dopo di lui. Ma soggiugnendo tosto lo Sleinhart die le idee di Platone non ponno né devono separarsi dalla divina iMenle, ove solo hanno la loro essenza e il fondamento di loro con- sistenza (wir durfen doch auch die Idfen . . . nicht von den gòtllichen fieisle Irennen, in welchem allein sie hir Wesen und den Grund ihres Bestehens haben) significa abbastanza che per realità egli altro non volle dire che obbiettività, e perciò io tradussi solo essenze obbiettive. Ciò che lo Steinhart dice delle idee di Platone, si dica pure delPessere ideale e delle idee del Rosmini. (/) Le parjle, che il Clemens dice qui del Cardinal di Cusa, intendo applicire al Cardinal liosmini (che tale, io mi penso, sarà chiamalo nella storia), il quale, come più innanzi mostrerò, non l'assoluta separazione di Dio dal mondo, ma la assoluta trascendenza ed insieme attiva immanenza di Dio nel mondo insegna, giusta la vitale teologia de' Padri e de' veri Mistici. DI GIUSEPPE BURONI 6i5r pensar che vi sieno due essere O: pure si mantien fermo in questa filo- sofia che questo medesimo essere , quale riluce alla nostra mente , non è che laspetto esteriore e relativo di Dio, e un raggio appena della faccia di Lui (2). [\q|] il [)jo dunque, che abita una luce inaccessibile ad ogni guardo di creatura (•^) , ma solo il divino , rò Qeìov (.^) , che splende in un attimo ed assiste dall'uno alTaltro capo del mondo, e solo il ^ume (5) ed il Nome ^) di Lui che penetra ed impera per ogni dove, e la sua gloria (') di cui è piena la terra (8). Onde al di là della Ideologia che contempla l'Idea, che è la faccia chiara dellEsserc, ed è insieme a mo'd'un ammanto luminoso di cui si circonda e entro cui si cela, si fa luogo a un'altra scienza arcana e nobilissima 9), che, parte per via di ardite conghietture e di sottili ragionamenti, parte dietro la scorta e il sostegno di superni responsi t'*^), avanzandosi oltre la cortina visibile, tenta di penetrarne, dico dell'Essere, quanto ad umana mente è possibile, le inaccesse profondità, e quel che non può conoscere, stupisce e adora. La qual scienza arcana e nobilissima, dal soggetto principale di cui si occupa, e che di quella tenebra luminosa tiene il centro, chiamasi Teoso!ìa("). (1) L'ijìstiiii esse in San Tommaso è sempre uno, la natura universale dell'ente. Lorchè Rosmini scrisse nella Tcos., voi. 4", pag. 355-356 :« Non v'è che un solo essere assoluto per se manifesto: ma ciò non toglie che ci sia un altro essere per se manifesto relativamente, ecc. ", quest'espres- sione un altro essere non parmi da approvare. Invece è lo stesso essere che s'indua. Il modo si dirà più sotto, ove della creazione. E pure a fronte degli ontologisti, sono improprietà quasi necessarie. (2) È noto che molli scrittori cristiani usarono in questo senso le parole: •■ Signalum est super nos lumen vultus tui, Domine >■ (Psalm. iv). (3) « Qui solus habet immortalitatem, et lucem inhabitut iuaccessibilem, quem niillus liomìnum vidit, sed nec videre potest » (Timoth. , vi, 16]. (4) Oiìo-j da diTv, discorrere: Attingit a Qne usque ad Gnem fortitcr et disponit omnia sua- viter (Sap., vili, 1). i_5) Numen da mio. L'essere è l'atto e il cenno di Dio per ogni dove. (C) Nomen da nosco, ■/■i^ijioi. da /vw,"!, /lyvdjwo. L'essere è la conoscibilità di Dio nelle menti, e se ne forma il nome più proprio di Dio, Qui est (l.q. xill, a. 11). 7) La gloria ì; splendor di notizia. Perciò l'essere e propriamente la gloria di Dio. (8) Piena est omnis terra gloria eius (ISAI., Vi, 3). (9) Per l'Hegel, che tutto riduce all'idea e dalPidea tutto deduce, e per tutti coloro che chia- mano Dio l'Idea e non ammettono altro che Dio-Idea, volendo essere coerenti come fu il primo, non v'c altra scienza che l'Ideologia o la Logica, o tutt'al più l'Ontologia. (10) La savia filosofia lascia luogo anche a questi, parchi; riconosce troppo i proprii limiti. Par- menide attinge dalla Musa celeste l'alta sua dottrina. Gli antichi sapienti veneravano i sacri arcani. La scienza, se è tutta e solo demotica, diDluisce. (11) \{VIJeotogia e Teosofia (tripartita questa in Ontologia, Teologia, Cosmologia) si può ridurre, secondo il Rosmini, tutta la scienza dell'essere. Vedi Pref. alla Teosofia, 55 l'I'» "iv. Io qui prendo il vocabolo Teosofia nel senso più ristretto di teologia. 6i6 dell'essere e del conoscere, ecc. 301. Questo del distinguersi l'essere ideale da Dio, e pur servirci esso di scorta e principio bastevole (non dico di scala e di itinerario, perchè propriamente parlando ciò il fanno le cose e i concetti secondarii sotto la luce dell'essere) per ascendere alla cognizione di Dio e costruire la scienza teosofica, è l'ultimo e più elevato punto che mi resta da esporre della teorica di A. Rosmmi; non per dare qui la esposizione della sua Teosofia , come scienza , che come tale è da cercarsi ne' suoi volumi , bens'i per mostrarne, come dissi, e assodarne il principio. Ma è ancor quello contro cui si levò, siccome è noto, l'ultima e più densa battaglia di obbiezioni e difficoltà. Onde il discutere e ventilare quest'ultima con- troversia viene ad essere l'argomento precipuo del presente libro. Il quale adunque avià verso gli altri che lo precedono questa relazione: che quelli riguardarono l'essere principalmente nella sua congiunzione colla mente (lib. 1°), e nelle sue attinenze verso le cose inferiori che sono gli enti reali (lib. 2° e 3°); e verso le uguali e pari, site sur uno stesso piano con lui e colla mente, che sono gl'intelligibili (lib. 4°) '• questo s'innalza a stu- diarne le attinenze superiori coll'Ente infinito e verso le cose divine. L'argomento è grandissimo, le forze tenui, il tempo agli estremi O: non farò più che buttar giù Tun dopo l'altro de pensieri, quanto il tempo mi basterà. II. Termini della quislione circa l'intuito di Dio. 302. Precisiamo prima, per ciò che spetta alla controversia principale dell'intuito di Dio, i termini della quistione, per rimuoverne tutto ciò che sa di pregiudizio, di passionato, di pretensioso, di sprezzante dileggio, in somma di an ti filosofico : che l'argomento è gravn e difficile assai, senza intorbidarlo di elementi eterogenei. 503. Dimmi : pretende ella forse questa filosofia, la filosofia dico del Rosmini , per ciò che allerma subito da principio, che l'essere, quale appa- risce alla nostra mente e quale ci è dato per inizio e punto di partenza del nostro conoscere, non sia l'eccellentissimo Iddio, o lo stesso Buono in persona, come il chiama Platone, pretende, dico, ella con ciò di sminuire né punto né poco l'intuito primo della nostra ragione, o detrarne al- cunché della nat'ia eccellenza e dignità e valore, e d'involar quasi con mano sacrilega ed empia dalla mente degli uomini quel Dio che già si (1) Cioè stava per finire il tempo del concorso accademico, per cui fu composto questo scritto. DI GIUSEPPK BLROM 6 £ 'J predica avervi, talché l'uman genere abbia giusta cagione di richiamarsene dicendo. Cur furatus es deos meos? O si può egli dire che il Rosmini, iniziatore o ristoratore a' dì nostri di questa filosofia, fosse una testa picciola , il qual non sentisse abbastanza tutto quel tesoro di verità e grandezza che nel sommo della nostra mente sta riposto, o un animo vigliacco da volerlo disconoscere e quasi invidiare agli uomini? Che anzi, chi più di A. Rosmini a' dì nostri senti altamente della nostra ragione e della luce di verità che l'irradia, e ne cercò più addentro con mente acutissima tutti i ripiegamenti e recessi? 504. Ma la quistione è tutta qui: Se quel che ci è dato da intuire per natura, e che volentieri si conosce e riconosce, e che punto non si tocca, sia lo Slesso Dio. Dove, come tu vedi, la risoluzione negativa non è a scapito della nostra natura, ma tutta ridonda , se mi è lecito parlare così, a vantaggio della divina, e quindi di ritorno a nostra maggiore sal- vezza. Perocché se quella sarà grande e possente infinitamente al di là di quello che noi intendiamo o possiamo desiderare, supcrabundauler quam pelìnius aut ialL'Iligimus (Ephes. in, 21), potrà rinfrancare anche noi e sop- perire alla nostra povertà e debolezza: laddove sella non foss' altro che quel chiaror d'essere lato e dilluso che vediamo per metessi partecipato a tutte le cose e non aver consistenza in nissuna, correrebbe rischio di non bastare né per se, né per noi, ma d andar ella stessa, come acqua che in terra si versa, insieme con le cose mutabili in perdizione e dileguo ('). 305. D'altra parte, che gioverebbe persuadere all'uomo con paroloni d'una filosofia portentosa d'essere qualche cosa di grande, d'infinito, di portare in sé medesimo lo stesso Dio , se poi in verità fosse picciolo e miserissimo, e sol capace di partecipare a minuzzoli la verità, la bontà, la giustizia, la beatitudine da Chi non è lui, e sta posto infinitamente al di sopra di lui, come i cortigiani che adulano alle Maestà scadute e ai Papi in soglio pascendoli di titoli e di illusioni? Gran peste e pernicie del mondo è l'adulazione verso chiunque adoperata ! (1) Fuor di metafora, si vuol dire che l'iatuizionismo esagerato inchiude il razioDalismo e la negazione del sovrintelligibile e del sovrannaturale, cose queste impossibili ed assurde nella filosofia deirilegelj sì vuol dire che quell'Ente infinito, cui si vuol trovare o per meglio dire cui l'uomo si costruisce stando nell'ambito della mente, non è che l'Ente del Panteismp; si vuol dire che l'es- sere ideale, staccato dalla sua sorgente che é Dio, e solo in se consistente, come si fa reputandolo Dio lui stesso, inaridisce e si spegne, come raggio di luce staccato dal sole. Non so se mi riuscirà di chiarir questi punti nel seguito del discorso. Serie II. Tom. XXX. 78 6l8 DELL'tSSERE E DEI. (;ONOS<;erE, ECC. 306. Vorrà dir tutt'al [jiù che la filosofia del Rosmini, sebbene altis- sima e nobilissima come ne' precedenti libri sé veduto, ci riconduce all'an- lica saviezza e religiosità di quella del divino Platone. Il quale, benché tant'allo sentisse, come si mostra dalle sue parole messe a capo di questo libro 5", della scienza [£7:i7rr,[j.r,g) e della verità qual è da noi conosciuta (y.où (x/xOs'!c<.(Jixivr,g), e tanto ne fosse innamorato (orna di xalàv àiJ. tcj à'/uOoiJ è%cy'j; a quella guisa che infinitamente maggiore e pivi bello ed in luogo \nìi alto collocato, al di sopra del- l'occhio e della luce sparsa sugli oggetti visibili, è il sole. Onde, come poc anzi rifleltea lo Steinhart, il parlar di quella eccellentissima natura , siccome cosa agli uomini non consentita, ei volentieri schivava; e richiesto Socrate da Glaucone in quello stesso libro della Republica di volergli dir qualche cosa del Ouono, se ne scusava per tema di rendersi ridicolo (0. 507. Ma non per questo dobbiam reputare inetta la filosofia del Ro- smini, dovendosi dire a riguardo di lui quello stesso che a proposito di Platone nelle parole poc'anzi citate soggiungeva saviamente lo Steinhart: « Pure anche noi non dobbiam l'essere ideale del Rosmini e le idee, che per lui non sono concetti soggettivi, ma obbiettive verità sempiterne, separare da Dio, ove solo elle hanno la loro essenza e il fondamento di loro con- sistenza (2). 508. Ed inoltre non è ella una necessità per tutti i filosofi savii, con qualunque nome si chiamino, o l\osminiani o Giobertiani, chi non voglia farneticare alla foggia dell'Hegel , e ristrignere tutto 1 immenso Dio alla breve pupilla dell intuito umano, e atfermare che l'Ente supremo non sia nulla più di ciò che al loro sguardo risplende, non è, dico, per tutti una ( I ) . . . àXX ' 0TW5 /jtvj oùx * o^ài T ' Isotxxi , Tipof)-j/ioùij.i-joi Si àcx^.'J-ovu-j yùuzx òy).vìcw {Rep. , VI, 506 I)). (2)...abcr wir dùifcn dodi aucli die Ideen, die ihm nict blosse Begrillo und subjeclive Ge- danken, sonderò objeclivc. . . varoii, niclit von dea i;ollliclien Gcisle treiinen, in \clcliem allein sie ihr Wesen und deo Gruud ihres Bestehens liabea (Steinhart, Ioc. ci(.). DI GIUSEPPF. BUROM 619 assoluta necessità (argomentava altra volta il Buroni nelle sue Nozioni di Ontologia già citate, n. 85) il concedere che dunque da quel tanto che per intuito conoscono di Dio, ed è loro manifestato di quella natura eccellentissima : Quod notum est Dei, manifestiim est in illis, Deus enim illis manifestavit (Bom. i), è pur uopo che arguiscano quel tanto di più che non conosceano, e per es. dalla realità che dicono di vedere, ar£;uiscano l'Essenza divina che non vedono , o dal tanto che vedono dell' Essenza divina (se vogliano anche dire così) argomentino quel tanto più che non vedono, poiché saimo certissimamente che Dio supera infinitamente ogni sguardo e comprensione di mente finita? Ora, accordando questo, ac- cordano che da ciò che è posteriore di Dio (perocché l'intuito che noi ne abbiamo è certamente posteriore all'Essere suo in sé) la mente sale ad arguir ciò che è prima (il che si dice argomentare a posteriori ad prius), e dal meno argomenta il più ('): e insomma devono ammettere essi pure che si dia un processo dimostrativo ascendente a Dio (qual è appunto l'argomentare teosofico del Rosmini, il quale è solito dire che di Dio non si vede l'atto dell'Esserci, ma si conosce che Ci Dev'Essere '■-)). Laddove il negar ciò, sarebbe lo stesso che ridur Dio alla misura della mente, e costituir l'Essere e l'Essenza di Lui nell' esser veduto dalla mente, ossia nell'essere ente-oggetto, o ente-idea^ come lo chiamano: il che riuscirebbe in ultima analisi (e poco varrebbe a scriver con lettere maiuscole Ente-Idea) a negar Dio (3); perocché nega Dio chi non confessa che Dio é infinitamente superiore ad ogni comprensione finita, e non lo pensa come Ente-soggetto per sé e da sé sussistente ab eterno innanzi ad ogni intuito di mente finita, angelica o umana (^). (1) Questo discorso facea 11 citalo scrittore (a niuno farà mera\iglia che parlassi allora di me come di loiza persoca, ove ricordi l'occasione di questo scritto) a proposito di coloro clic negano darsi un processo \eramente dimostrativo di Dio a posteriori, e a proposito di quell'assioma giobertiano (che e tutt'altro che un assioma se non in un senso mollo limitato), che ogni silTalla dimostrazione di Dio non sia se non un mezzo di far rilleltere ciò che già si conosceva o di tradurre nella rifles- sione ciò che già era pria nell'intuito {\qì\ Nozioni di Ont., n.84). Ma di ciò Buovameale più soUo. (2) Vedi Tcnsnfia, -voi. 4", pig. 355. (3) Come a ciò riesce iadubitatamcnte l'Ucgel. (4) Ma quell'alma nel cìei che più si schiara, Quel serafin che in Dio più l'occhio ha fisso, Alla dimanda tua non soddisfarà; Perocché sì s'inoltra nell'abisso Dell'eterno statuto quel che chiedi Che da ogni creata vista è scisso (Dante, Farad. , XXI, 91-96). 620 DEIXESSF.RE E DEI. CONOSCERE, EflC. 309. Ora se è una necessità , per tutti coloro che ammettono il Dio vivo e vero in sé sussistente infinitamente maggiore di ogni nostro intuito o comprensione finita . di dover ammettere per conseguenza questo ra- gionar teosofico, per cui dall'estrinseca relazione e manifestazione di Dio inverso all'intuito della nostra mente, tanto minore di ciò che Dio è in sé beatissimo, si ascende a conghietturare secondo la capacità limitata della nostra mente stessa quel che Dev'Essere in sé, e dal deus contractiis (0. per così dire, che è dinanzi all'intuito nostro, si argomenta al Deus ab- solutus, o dal Dio in quanto Causa o in quanto Esemplare del mondo creato (2), e però in aspetto relativo, si argomenta al Dio in sé; niun siffatto pregiudizio d'inettitudine alle dottrine teosofiche militi innanzi contro la filosofia del Rosmini, perchè dal suo essere ideale pretenda in- nalzarsi aWEnte Beale. Ma se quella manifestazion prima dell'Essere al- l'intuito della nostra mente debba chiamarsi essere ideale semplicemente, i) debba anche chiamarsi con lettere grandi VEnte Reale, ciò dovrà essere il risultato della stessa trattazione, dalla qual credo che uscirà piuttosto una conferma della precedente dottrina, o meglio una conciliazione delle due: e per ora la si può mettere in disparte quale una inutile quistion di parole. E intanto è da applicar l'animo a esaminar tutti insieme paca- tamente quale sia quella prima manifestazione ideale dell'Essere alla mente che ne costituisce l'intuito, e quale relazione es.sa abbia coll'P^nte superiore, o con Dio vivo e vero in sé sussistente. '711. Per la qual cosa, anche quando giustamente si dice che Dio é l'Essere stesso sussistente e l'Essere per natura, sempre ci va sottintesa la correzione fornita da quell' argomentar teosofico che il Rosmini, nel Nuo'^o Saggio e di poi chiamò integrazione, per la quale dobbiamo sot- t'intendere che Dio non è veramente (^weWessere infinito che noi intuiamo, e che è l'istessa essenza dell'essere; ma che esso è infinitamente sopra (1) La mi par questa una l'ormola del Nicolò da Cusa; ma al momento non mi soccorre il luogo e non ho il tempo di cercarlo per citarne le parole. Ma che dico io? Fin dal principio della prima e principale sua opera De docta ignorantia (lib. 1°, e. 9) viene in campo il concetto di ijuesta con- trazione di Dio nel mondo, o meglio nelle menti create. (2) Questa, del vedere noi Dio soltanto in quanto egli e esemplare e similitudine delle cose, è la formola con cui il Gcrdil limitò la teorica del Malebranche sulla visione di Dio, e come tale può ammettersi con benigna interpretazione per ortodossa, checche dicano gli oppositori esagerati del- l'ontologismo, sitibondi di trovar eresie in tutti, fuorché lu se medesimi, che forse ne son zeppi più di tutti, negando il primo lume ideoiDgico che solo ci dà la possibilità del primo teosofico sovranna- turale (Vedi Buroui, Noz. di Ont. , n.65 e 100). Ciò che importi questo in yuanlo, diremo piii sotto. DI GIUSEPPE BUnONI 62 r l'essere in una maniera incomprensibile , e Principio sovrano e sovremi- nente di quello. Laonde quegli scrittori che hanno nome di intuizionisti, o come oggi si dice di ontologisti, per es. TAreopagita nel trattato de Divinis Nominibus, e dopo lui S. Bonaventura nel cap. 7 òeW Itinerarium, avendo detto in qualche modo che Vens, Vessentia, e anche il deus (ciò si deve intendere del deus contractus anzi detto) sia naturalmente intuito dalla mente, chiamano poi il Dio vivo e vero superens, superdeus , su- peressentia: la qual correzione si fa appunto col magistero della dimo- strazione o integrazione fdosofica che fra poco spiegheremo. E che Dio non sia semplicemente \ essenza, ovaia., ma il sopra V essenza (super- essentia), lo dice anche Proclo, il quale, pur volendo che per l'Uno di Platone nel Parmenide si debba intender Dio, accenna però che Dio si- gnifichi e sia vfstJTÓg n, 0 ùnèp rr.v oùtrtxv Éotj'v, perocché, sola divina supra ovaixv elata esse, e' lo tiene per assioma (Vedi Stallbaum in Parmen., p. 75, nota u). E ciò basti aver detto previamente intorno alla quistione previa del- l'intuito di Dio. 111. Congiunzione vitale di Dio col mondo. 3H. Ma ancora un altro pregiudizio vuol essere preliminarmente ri- mosso dalla fdosofia del Rosmini, e segnatamente dalla sua Teosofia. Non bisogna credere, per ciò che il Rosmini pone Dio trascendente alfatto l'intuito della mente e da ogni creata vista scisso, ch'egli il se- pari dal mondo, come fecero gli Scolastici delia decadenza, i quali ab- bandonato (intendo dir solo quanto alla forma scientifica) la vital tradi- zione e il vital concetto e le vitali espressioni, intorno alla divinità, della Bibbia, de' Padri, della scuola Mistica cristiana, e del principe della Sco- lastica S. Tommaso d'Aquino, si costruirono per cos'i dire (intendo sempre parlar solo di quelli della decadenza e solo quanto alla forma scientifica) un Dio composto di vuote formole astratte, e di arbitrarii decreti, e anche di relazioni e congiungimenti col mondo affatto arbitrarii. No: il Rosmini, per questa parte nelle molte opere che scrisse e di filosofia e di teologia, si razionale e naturale, si sovrannaturale e positiva (e di queste molte pili lasciò scritte che stanno tuttora aspettando la luce), si mostra fedele discepolo, come del Cusano disse il Glemens, della mistica filosofia cri- stiana che dopo le opere denominate da Dionigi Areopagita (e molto più in occidente per le altissime speculazioni del grande S. Agostino) gittò 5a2 dell'essere e nEi. conoscere, ecc. profonde radici nella Chiesa, e nel medio evo creò uno speciale indirizzo del pensiero (per es. in S. Anselmo, nella scuola di S. ViLtore, in S. Bo- naventura) che servi di opportuno correttivo e temperamento della Sco- lastica, ed il cui carattere pii!i distintivo era la dottrina dell Immanenza di Dio (*): In quo vivimus , movemur et sumus (Act. xvii, a8) : senonchè il llosmini meglio del Cusano seppe schivarne gli eccessi. .312. Del resto pel Rosmini l'essere, quale a noi apparisce, non è Dio, perchè Dio è infinitamente piìi di quel che a noi apparisce; ma è la presenza e manifestazione e inabitazione (nc/.om7i'y.) di Dio nelle menti (or Dio, come più innanzi diremo, non è presente, né si manifesta, né inabita per altri che per sé medesimo, eppur la sua presenza, napovala., in quanto ricevuta nel finito, è altra da lui); e mediante le menti, siccome più sopra tu più volte dimostrato, esso è la di lui presenza e congiunzione e immanenza in tutte le cose. Perocché insegnò con splendide parole l'Aqui- nate ed il Roveretano ripete, che l'onnipresenza di Dio neU'vmiverso non è altro che l'essere, che é ciò che vi ha di più intimo ad ogni cosa, e che tutte pii!i profondamente le pervade, essendo forma, cioè atto (ma altra da loro), rispetto a tutti gli elementi che in ogni cosa si trovano (2): e I es- sere è l'obbietto proprio dell'intelligeaza che non può esser capito che dalla intelligenza ^^), e però solo nell'intelligenza risiede: anzi quest essere» che sol dall'intelligenza è capito e solo nelle menti risiede, è, come ve- dremo, secondo il Rosmini, l'atto stesso creativo di Dio chea tutte cose incombe e che negli stessi termini creati è dalla mente ravvisato: ed esso é il punto in cui convengono tutte cose « omnia veniunt ad esse » (San Tommaso), e da cui tutte pendon sospese, e però sospese alle menti, ed è il punto di contatto e di rannodamenlo delle menti e delle cose a Dio. 315. Sul fatto della creazione, quantunque il Rosmini ne mantenga da parte di Dio la piena ed assoluta libertà (^), pure ne contempla eziandio (1) K Casa erweisl sicli liirein als dcn àchten Schiiler der mystischen Philosopliie im Cliristcnllium wie sic seit dein angebliclien Dionysius Areopagita in der Kiiclie Wiirzel gelassi, und in Millelalter cine bcsondere, die Scliolastik ergàuzende Richlung des Deukens erzeugt liat, deicn unlersclieidendes Merkmal elien die grosscre Inneilickeit war» (Clemens, loc.cit. ). (2) ...esse enim est ilhid quod est magis inlimuin cuilibet, et (juod profundius omnibus inest, e um sii formale respcctu omnium quae in re sunt (l.q. ^Iii, a. 1). (3). . .ens(esse) est proprium obieclum inlellectus, et sic est primum intelligibile (l.q. 4, art. 1 ad 3"»). (4) So alcuna velia nel fervore del contemplare le eterne convenienze del diffondersi fuori la Suprema Bontà adopra espressioni alquanto dure, simili a quella di Dionigi commendata dall'Ange- lico; Il divinus Amor (cioè Spiritus Sanctus) non pcrmisit ipsum sine germine esse " (e Ge7it. , lib. 4», £ap. 20), giustizia vuole die si intendano nel senso più mite e piìi chiaro da lui altrove insegnato. DI GIUSEPPE BURONI GaS con mente elevata le eterne e necessarie convenienze O; ed i potenti ed eflicacissimi Oportuit di S. Tommaso (2)^ dimenticati troppo spesso o pos- posti da' suoi discepoli, e le sue altissime contemplazioni dell' Ottimo, riprendono nelle opere del Rosmini tutto il loro natio vigore. 514. Nelle sue dottrine morali, giuridiche, politiche e sociali le neces- sità ideali della Legge eterna e delle eterne essenze delle cose prevalgono di molto, com'è dovere, agli arbitrii e decreti pur essi convenienti delle leggi positive; e nella sua contemplazione pia insieme ed ardita, umilis- sima e sublime, del governo stesso della Divina Provvidenza (Teodicea), le leggi dell'eterna Sapienza stanno sempre al timone; e finalmente nelle sue speculazioni di teologia e antropologia rivelata, l'ordine soprannaturale non apparisce, come in molte opere venute in luce da due secoli in qua di predominio del così detto molinismo, cpiasi un fuor d'opera, o a mo' d'una veste gittata a caso sulla a sé bastante natura, ma per vario e mol- teplice addentellato all'ordine naturale intimamenle congiunto (3). 313. Tale è in iscorcio il vasto disegno delle speculazioni teologiche e teosofiche del Rosmini (e non volli neanco memorar quelle altissime che ad esempio e sulle traccie del massimo S. Agostino scrisse sulla Trinità cristiana, perchè all'odierna levità neppur memorabili), non per volerlo io incarnare questo abbozzo, che dovrei rifarmi da capo e ricominciar questo lavoro, e più volte uscirei dai limiti del tema prescritto che è stretta- mente filosofico, per entrare nella teologia positiva: ma per mostrar quanto ingiusto sia il discredito che vollero gitttu* su questo grand'uomo scrittori più vanitosi che sublimi, làcendolo passar quasi per non altro più che un pedestre psicologista. Che del resto, per ciò che spelta al presente pro- posito, io della Teosofia del Rosmini toccherò solo i pochi punti che spettano alla teorica della conoscenza di Dio, e che accennerò nel seguente paragrafo (^). (1} Si noti bene che dico necessarie le conrenieTize, non necessario Vallo, cai quelle, a noslromo' di dire e d'intendere, inclinano, come se le dicessi necessitanti, che è f)en diverso e sarebbe erroneo. C^) Per esempio: n Quod oportuit ad pcrfectionem universi esse aliquas crcaturas intellcctuales >»; (e. Gent. , lib. 2, e. 4G). .( Ad rationem summi boni perlinet quod suinmo modo se creaturac com- municet, quod quidem maxime fit per Incaruatioiiem " (3. q. a. 1). Cfr., e. Gi"«(ej, lib. 4, cap. 54, etc. (3) E questa i; indubitatamente la maniera de' più grandi teologi, da Sant'Agostino a San Tom- maso e San Bonaventura, per non parlare che di quelli della chiesa latina, e da San Tommaso al Petavio e al Thomassin. (4) Sopra i due estremi errori e le due estreme tendenze che dividono perpetuamente l'uma- nità, del razionalismo e del sovrannaturalismo eccessivo, e come entrambi abbiano origine da due 624 deli/ ESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. IV. Divisione e ordine di questo libro: Teosofia regressiva, Teosofia progressiva. 316. (Quella divisione della fdosofia in regressiva e progressiva che il Kosmini adottò dallo Schelling nei Discorso Pi-eliminare alle Opere Ideo- logiche, num. 3i, pag. xxix, si può assumere comodamente anche qui, distinguendo una Teosofia regressiva e una Teosofia progressiva; chia- mando la prima quelli parte della scienza teosofica che costruisce, nel modo che diremo, la dimostrazione dell'esistenza di Dio e il suo primo concetto, e la seconda quella parte ulteriore che da quel primo e fon- damentale concetto di Dio si avanza, per quanto all'umana mente è con- sentito, a stendere una teorica, sia della interna vita e natura della Diviniti) e delle interne relazioni, sia delle relazioni estrinseche verso le creature. Ma di questa seconda parte, lasciata quasi del tutto la trattazione delle relazioni intrinseche, non toccheremo che solo le primarie fra le relazioni estrinseche che sono la Creazione e la Scienza e le Idee creative C^''. NE. A questo punto della mia esposizione io devo confessare di tro- varmi non poco prevenuto dalle citate Nozioni di Ontologia del Buroni, il quale professa appunto d'aver composto il suo opuscolo sulla Teosofia del Rosmini, e proprio per questo stesso proposito a cui mi trovo io di presente di servire d'introduzione allo studio della Teologia propriamente detta, cioè della Trattazione di Dio C>). Per non rifar dunque il già fatto da lui, spero che mi verrà consentito di rimettermi a quel libro piìi spesso che non l'abbia fatto fin qui (se all'autore di quello non ne sappia male), e propriamente a' tre ultimi capi da num. 48 a num. 112. Ben si sa che 1 libri una volta stampati diventano di dritto e uso comune come la luce. Sicché di qui innanzi non farò quasi piìi che una traccia. modi di concepir l'essere che è l'obbictto primo dell'intuito, vuol esser letto il paragrafo che il Rosmini scrisse col titolo: Origine del razionalismo e del soviannaturalismo (intendi eccessivo) nella Teosofia, voi. 2", pag. 159-163. (1) Non perchè io ponga Tra le relazioni di Dio estrinseche anche la scienza e le idee, ma perchè, come vedremo, il discorso della scienza e delle idee di Dio implica necessariamente il concetto della creazione. (2J 11 perchè io dovessi parlare di me come di terza persona, dissi poc'anzi nella nota al n. S"73. Né credetti di dover mutare ciò che allora avevo scritto. DI GIUSEPPE BURONI 626 PARTE PRIMA TEOSOFIA REGRESSIVA CAPO I. Come si formi il concetto di Dio e per qual via si riesca a dimostrarne l'esistenza. 317. E principio di metodo già ben fermato nella filosofia del Rosmini, e da noi già piiì volte memorato, che, ov'anco trattisi delle quistioni più ardue, non è uopo da parte nostra d'accingervisi con sforzo d'ingegno, ma primamente con la cura di paziente e calma e serena osservazione: perocché non trattasi già per noi di produrre il vero con ingegnose e potenti dimostrazioni, ma sol di notarlo e riconoscerlo: onde il solo ac- cingervisi con sforzo pretensioso di mente, inchiude un tacito errore ed una assai pericolosa disposizione. 318. Ciò occorre notare principalmente nella presente quistione di Dio. Pare ad alcuni che sia uopo di qualche erculeo sforzo d'ingegno per co- strurre scientificamente, com'essi dicono, il concetto di Dio, che è il massimo di tutti, e spiccare, per mo' di dire, un salto dal finito all'infinito; ovvero con mezzi finiti, com' essi o altri imputano al Rosmini, produrre l'Infinito. Onde parlano tantosto di dimostrazioni a priori dell'esistenza di Dio, non badando che una tal foggia di parlare, chi vogha prenderla a rigore di ter- mini, cioè da quel che è prima [a priori) dedurre raziocinando quel che ne viene per conseguenza posteriormente (ad posterius), il che gli antichi chia- mavano probare per principium, probare per causam (S.Th., i', q.a. , a. 2), suona empia ed assurda, perocché supporrebbe che ci potesse essere un principio o una causa superiore a Dio dalla qual Dio ne derivasse come ima conseguenza ('): come notava già il nostro sommo Vico: « Atque adeo ìmpiae curiositatis notandi sunt qui D. O. M. a priori probare stu- dent, nam tantumdem esset ac Dei se Deum facere et Deum negare quem (1) M'affretto però di notare che non è questo il senso in cui prendesi oggi la dimostrazione a priori, per la quale non s'intende altro che una dimostrazione la qual proceda solo da dati e principii elle sieno in noi a priori d'ogni esperienza, il qual senso per sé non ha nulla di riproveTole. Se in questo senso si dia una vera dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio, diremo più sotto. Serie li. Tom. XXX. 79 (jjS dell'essere e del conoscere, ecc. quaerunt » ''), prevenendo egli con profetica mente Tempio detto di quel- l'insano professore tedesco che a' discepoli promise un giorno: Domani vi creerò Dio. Lorchè dunque io propongo nel titolo di questo capo di voler cercare Come si formi il concetto di Dio, e per qual via si riesca ad accertarne l'esistenza, non intendo escogitar qualche modo nuovo, ingegnoso e dilH- cile, dettando sulla detta quistione, per mo' d'esempio, un qualche nuovo Monologio o Proslogio ("-'). Che anzi, secondo il canone fondamentale della iilosofia che espongo, prefinisco quale una dote necessaria, che dovrà avere la risoluzione da dare al quesito, la facilità; perocché tutti gli uomini pensano Dio facilissimamente, tanto che a molti la par questa, come no- tava l'Angelico, una verità per sé nota {e. Gentes lib. i^cap. xi); sebbene di certo la diUlcoltà grande pub essere ed é di rilevare con acuta atten- zione lo stesso modo facile del nostro conoscere, che non cessa perciò d'essere molto mirabile, ed accettarne senza riluttanza i misteri. CAPO II. Il primo stimolo e la via prima per ascendere col pensiero a Dio è la dualità e opposizione dell'ideale e del reale. 319. Del novero di questi misteri principalissuno è quello che ci oc- corse "ià più volte, e anzi direi quasi del continuo, della dualità sintetica e individua, ed insieme antitetica e inconfusibile dell'ideale e del reale (3). L'essere ideale e l'idea mostra e illumina la cosa reale, ma non è quella: la cosa è indivisa dall'essere ideale e dall'idea, e non può star senza di lei , eppur è da lei distinta ed eccedente i confini di lei. Quella filosofia che non accettando il fatto misterioso della natura cerca disperatamente di negarlo, fa opera irrita. Una filosofia volgare (la sensistica) predominata dal reale, tenta di negare l'idea, ma non riesce a spiegare il sapere. Una filosofia arcidotta (a' nostri dì la tedesca e l'hegeliana) si sforza di assorbir il reale nell'idea non ammettendo che idea e sviluppo di quella, e (1) De antiquissìma Italoruin sapienlia, cap.3. (2) Niuao crederà che io cosi parli per disistima di questi due sublimi trattali di Sant'Anselmo; ma di quei elio si gitlano al sublime senza esser sublimi. ^3) Sull'importanza di questa distinzione non posso raccomandare abbastanza il bel discorso del Rosmini aiWlntruduzione alla filosofia, da pag 134 a pag. 146 e seg. , e di nuovo a pag. 199 e seg. DI GIUSEPPE BUHONI 637 riducendo il tutto a scienza, e 1 uomo allo scienziato; e trovasi ad ogni passo smentita dalla natura e in contraddizione colla realtà delle cose O. La nostra, che è la vera, accetta il fatto, benché misterioso, qual è dato dalla natura, e fonda la scienza, come scienza, o la teorica del sapere, sulla dualità antitetica dell'ideale e del reale, quale fu innanzi spiegata. Ora da questa ci viene il primo stimolo e la prima via per ascendere al concetto di Dio; talché la costruzione organica della dimostrazione, come la si chiama, dell'esistenza di Dio, parrai che si possa esprimerla così: (< Dalle realità finite che son sotto la mente, mediante la virtualità infinita dell'essere ideale che informa la stessa mente, argomentare che Ci Deve Essere la realità somma e infinita sopra la mente » (21 CAPO III. Dicfaiarazione. 320. Ed ecco come: 1° L'essere ideale che splende alla mente ci presenta questo fatto singolarissimo, che da una parte ei si mostra ricchissimo, dall'altra è tro- vato essere poverissimo, perchè ha tutto in idea, ma è vuoto di realtà; che, anche avendo un monte d'oro in idea, posso poi trovarmi sènza pure un quattrino in tasca da comprarmi un tozzo di pane e provvedere al bisogno della vita. E anche quella realità che più sopra dicemmo contenersi nel- l'idea, benché altissima e nobilissima (lib. 4, e. 9 e i-y e seg. ) , pure è anch'essa una realità meramente ideale, e (per quel tanto, dico che noi colla nostra mente l'apprendiamo), per così dirla di mostra, perchè proprio (1) La filosofia tedesca può perciò chiamarsi un errore sublime, ma quanto può esser sablime l'errore. .. La filosofia tedesca, dice il Rosmini {hurod. , pag. 145), si innalzò per vero dire ad una rlDessione piò elevata di quella a cui trovavasi la filosofia del tempo, quando considerò il reale diviso intieramente dall'idea, e s'accòrse che in questa separazione esso si rimaneva un incognito, e di più diventava un impossibile. Allora ella conchiuse frettolosamente, secondo il costume della sofistica, e coll'entusiasmo proprio delle vane creazioni, che il reale, quindi il soggettivo, si dovea ad ogni patto ricacciare dentro nei visceri dell'idea, cioè dell'oggettivo, e ne comparve immanti- nente la teoria àeWidenlità assoluta e la logica hegeliana che si divora la metafisica come Saturno i suoi figliuoli. Indi le rovine della filosofia e di tutto ciò che è vero e santo e divino » . Vedi anche ivi, pag. 135:.. I filosofi tedeschi caduti in quest'errore (che confonde l'idea colla realità) in cui cadono tanti altri, il raccolsero con quella gioia con cui si trova un tesoro, e colla loro diligoni», colla maraviglia loro famigliare, vi edificarono sopra un gigantesco o piuttosto grottesco sistema, ecc. «. Vedi questi luoghi più ampiamente riferiti più sopra in fine al libro 1, n. 60 e seg. (2) Buroni, Noz. di Ontot., pag. 95. 528 dell'essere e del conoscere, ecc. dell'idea è il mostrare e manifestare; ma non è nulla di quell'altra forma di realità propriamente detta che si percepisce col senso, ed è forza e sostanza. Antilogia, questa che dico dell'essere ideale, simile presso a poco a quella che i Morali trovano nell'uomo (0, il quale per una parte è grandissimo e nobilissimo (e tale è appunto per l'idea), e dall'altra pic- colissimo e debolissimo (e ciò quanto alla realtà), u Uidea (scrive il Ro- smini neW Introduzione alla Filosofia, pag. i86) è una forma vota come dicemmo: non contien Vessere completo (cioè l'ente), ma una cotal sua del itieaz ione: indica all'uomo soltanto 1' enimma dell'essere completo, e non glielo porge, perchè non l'ha in se stessa ». •>" Perciò all'idea va assiunto nell'uomo il sentimento del reale che le serve d'integrazione e le dà un cotal ripieno e compimento. « 11 senso, soggiugne il Rosmini (ivi, pag. 187), cioè la facoltà di sentire le cose corporee, ed anche altre incorporee, come è l'anima, ma finite, viene in soccorso ed in aggiunta all'intelletto, cioè alla facoltà d'intuire l'idea )>. E ognun sente che questa filosofia è conforme a natura. Che, quantunque abbiam detto più volte nei libri precedenti, e abbiam detto vero, che il reale per sé è non ente, perchè diviso dall'essere e dall'idea non è ente ed è impossibile che sia; pure è anche vero che insiem coH'essere e l'idea fa ente, cioè un alcunché di piìi pieno e completo che il solo essere ideale e la sola idea non sia. Si noti bene : il reale non aggiugne nulla all'essere e all'idea in ragione d'essere o di idea o di perfezione i2), perchè nel reale non v'è né vi può essere neppur un filo o lineamento di piiì che non sia nell'essere e nell'idea ; ma pure aggiugne tutto in ragione di forma t3), e dalla sintesi o metessi dell'ideale col reale risulta l'ente completo che prima non era. Chi spingendo tropp' oltre la denominazione di non-ente che demmo al reale per sé preso volesse negare quest' altro vero che (I) Pascal, Pensieri. (^2) Qui io credo clic pecchi l'argomento famoso di Sant'Anselmo tratto dal concetto del pei-fet- tissimo, il quale, dice il santo dottore, se esistesse solo in idea e non nel l'alto, sarebbe suscettivo di maggior perfezione esistendo anche nel fatto, e però non sarebbe più perfettissimo. Questo argo- mentare suppone che l'esistere in fatto sia un cotal lineamento di maggior perfezione che si aggiunge all'idea, mentre invece è tutta quanta la cosa sotto altra forma, e delle due forme ideale e reale non si fa somma. Ma di ciò più sotto. (3) Questo è il punto ben rilevalo e chiarito dal Rosmini, e merito tutto proprio e originale di lui, la distinzione delle due forme ideale e reale della stessa cosa, senza che l'una forma faccia somma coU'altra, ma tutt'inliera la cosa nella forma ideale, e tutta intiera la stessa cosa nella forma reale. Vedi sopra, lib. 4°, capo 8°. DI GIUSEPPE BURONl 629 qui diciamo, cadrebbe nel sofisma della filosofia arcidotta anzidetta in cui inciamparono i filosofi tedeschi, e scambierebbe il non-ente, che è ele- mento dell'ente, col nulla. Noi non sappiam bene ciò che sia questo reale, perchè col senso il sentiamo, colla mente non lo approfondiamo: ma pur sappiamo che è cosa conveniente all'essere {omnia veniunt et conveniunt ad esse), perchè vediamo per esperienza che coU'essere si abbina e com- bina in un solo ente. È dunque cosa certa anche ciò che qui dicevo in 2° luogo che il reale serve di compimento e di integrazione all' essere ideale e all'idea. Ed è perciò che il Rosmini chiama l'essere-idea col titolo di essere iniziale, perchè è l'inizio dell'ente, non è ancora l'ente completo. 3° Ma quanto è povera questa integrazione che il reale da noi per- cepito aggiunge all'idea, e però quanto povero, continua il Rosmini (ivi pag. 187) questo soccorso e compimento che il senso porge all'intelligenza! Poi dietro a' sensi, come dice il poeta, vedi che la ragione ha corte tali ('). Onde risulta quello che il Rosmini chiama di poi (ivi, pag. 193) squilibrio fra t ideale e il reale, ^er cui l'uomo, mentre nell'idea intuisce tutto l'essere, nel reale che gli è dato da percepire non ne sperimenta che una minima particella; e mentre l'idea spazia all'infinito mostrando l'essere universale che è di una virtualità infinita, inesauribile, all'incontro la realità naturale di cui prende esperienza non porge all'uomo che una cotal briciola dell'essere stesso (ivi, pag. 198). E ben vede che, delle cose reali, quelle che son mano mano più perfette, più tengon dell'essere, e più s'accostano all'essere ideale; ma pur sempre ne distano per distanza infinita. Onde non mai si raggiunge quell'equazione, cui pure aspira la mente indettata dall'essere, del reale coU'ideale, che pur si mostrano con- venire e tendere l'uno in verso dell'altro. 4° Da questo squilibrio pertanto stimolata e scossa la mente, è con- dotta per ineluttabile necessità a pensare che ci debba essere una Realità somma, infinita, che adegui pienamente l'infinità dell'essere ideale, la qual realità somma ed infinita ella non vede né sente, perchè troppo all'uom superiore: — « e di vero, dice il Rosmini (ivi, p. 187), non v'ha alcun organo o altra facoltà sensoria nella natura dell'uomo (si noti che pel Rosmini la facoltà del reale si chiama senso o coi'poreo o spirituale, est (I) Dawte, Farad., Il, 56-57. 63o dell'essere e del conoscere, ecc. enim sensus et mentis, dice Sant'Agostino) che senta Iddio; e perciò, rispetto alle cose divine, che sole possono adempiere l'idea, questa si riman vuota ed impotente: » — ma che pure non può dubitare che esista ('). NB. Come a questa via d' argomentare si riduca la dimostrazione quarta data da S. Tommaso dell'esistenza di Dio ^^), e di qui proceda la ragione di tutte le altre, e ciò che dir debbasi delle dimostrazioni a priori, e se Dio sia per sé noto, e dell'idea di Dio, ecc., vedi di seguito il cit. libro del Buroni da n. 85 a n. 112, che trascriverei, se non fosse indiscrezione. 321. Ora il concetto di Dio a cui si riesce per questa via si è quello di Essere Essente, o di Ente infinito, in contrapposizione di quelli che diconsi enti finiti. Dove è da intendere la ragione di questa dualità, e la profonda differenza di significato della voce ente secondo che si dice di quello e di questi (sopra che vedi le cit. Nozioni d'Ontologia, numeri IO I I, 3q, 80, 82, e di nuovo, num. 106). E si vuol dire principalmente che nelle cose finite la voce ente ha valore di participio, qual è secondo grammatica, del verbo essere, perchè hanno e partecipano l'essere, ma non sono mai l'essere elleno stesse; invece Dio è eote od essente in tutta la forza ed estensione dello stesso essere, onde la voce participiale Ente ha valore uguale all'infinito del verbo essere, come chi dica Y istessessere essente, e però è Ente infinito. 322. Come poi l'essere ideale rispetto agli enti finiti dicesi nella filo- sofia e terminologia del Rosmini essere iniziale, per la ragione poc' anzi detta (num. 320, 2"); e per la ragione toccata altre volte esso dicesi la possibilità degli enti finiti , in quanto li precede virtualmente : perciò il nostro Autore, avuto riguardo al modo or ora spiegato in cui formasi nella nostra mente il concetto di Dio, suole anche chiamar l'essere ideale la (1) È al tutto mirabile il discorso che fa a questo luogo il Rosmini, da pag. 186 e seguenti, per dimostrare quanto dunc|ue l'ordine sovrannaturale, che è una comunicazione graziosa fatta all'uomo della realità inGnila e divina, (osse necessario a compiere la natura. Io non lo riferisco, perchè ec- cede i limili del mio tema, ma bene invito a leggerlo quanti v'hanno uomini savii, per conoscere come la sapienza non può essere compiuta senza l'unione dei due ordini. (2) Quarta via sumilur ex gradibus qui in rebus inveniuntur. Invenitur enim in rebus aliquid magia et minus bonum et verum el nobile, et sic de aliis liuiusmodi. Sed magis el minus dicuntur de diversls secundum quod appropinquant diversimode ad aliquid quod maxime est, etc Est igitur aliquid quod est verissimum el optimum et nobilissimum , et per consequens maxime ens. . . Et hoc dicimus Deum « . DI GIUSEPPE BURONI (Ì3 1 possibilità di Dio o anche V inizio ('dialettico) di Dio, come il Cusano, secondo che notai più sopra, io chiama deus contractus, o contractio Dei in mente, onde procede che nella comune locuzione chiamisi Dio VEnte assoluto. Anche cui non piacciano siffatte maniere di dire rosminiane, come non piacciono del tutto a me, almeno sappiasi che nella mente dell'Autore stesso hanno un senso giusto e irriprovevole. CAPO IV Corollarii della prima via spiegata. Corollario I. — Come non si approvi di porre col Rosmini in Dio la distinzione delle due forme ideale e reale. 323. Ma non parmi da accettare egualmente il trasportare che fa il Rosmini anche in Dio la distinzione e dualità delle forme ideale e reale, quale a questo punto ci apparisce, sebbene ve la troveremo poi in altro senso meglio inteso da lui. Perocché il magistero della dimostrazione di Dio e della formazione del concetto di lui nella nostra mente , come fu spiegato nel capo precedente, porta piuttosto a dire che una tal distin- zione resti tutta al di qua di Dio, ed in lui cessi pienamente, come cessa in lui la distinzione di tutti gli opposti, e le due forme confluiscano così da confondersi e immedesimarsi. A quel modo che cessa nel vertice dell'angolo la distinzione de' due lati la qiial resta tutta al di qua. Il Ro- smini invece concepisce la distinzione delle due forme a modo di due linee parallele le quali, giusta il linguaggio de' matematici, si scontrereb- bero correndo per lunghezza infinita, senza tuttavia confondersi, sicché la distinzione duri perpetua. La qual similitudine per vero dire tiene piti dell'infinito che non la mia de' due lati convergenti di un angolo, ma pure non mi capacita. La distinzione ed opposizione di ideale e reale che ci occorre nei finito, parmi la stessa che quella di essere partecipabile e di subbietti partecipanti (come di luce illuminante e di corpi illuminati), e però parmi che essa si fondi sulla opposizione e dualità prima che spiegheremo di Ente creante ed enti creati (') , alla quale nulla di simile può trovarsi in Dio, e la qual resta tutta al di qua di Dio nella sua relazione estrinseca (1) Sa questo appellarmi a cose che si spiegheranDO di poi , vedi la aota 1 a pag. seguente. 633 dell'essere e del conoscere , ECC. al finito , e cessa affatto non appena siam pervenuti col pensiero in sino a Lui. 324. Il Rosmini fa grand'uso poscia della distinzione eterna ed essen- ziale, com'egli crede, delle tre forme ideale, reale, morale nell'essere in molti belli ragionamenti che istituisce sopra la Trinità, di cui darò un cenno qui appresso sul principio della Teosofia progressiva. Ma, senza prevenir qui quel che sarà da dire di poi, cioè che quella distinzione di ideale e reale che egli quivi contempla in Dio non è la stessa di questa da cui muoviamo per ascendere a Lui, basti riflettere che quivi l'ordine delle due forme ideale e reale si inverte; perocché mentre qui l'ideale precede il reale, quivi invece il reale (Padre) precede logicamente l'ideale (Verbo), onde non può essere la stessa distinzione. 32o. Ebbi già occasione più volte ne' libri precedenti di notare nel nostro filosofo quell'inesattezza di espressione per cui dice che l'essere ideale o l'idea si vede realizzato negli enti finiti. Io feci notare che l'essere non mai si realizza o divien reale nelle cose, ma riman sempre di natura distinto, immisto ed impassivo: che se si realizzasse cesserebbe la sintesi e la dualità. Invece parmi che sarebbe ben detto l'esprimersi cosi, che l'essere ideale è realizzato in Dio, perchè com'esso negli enti finiti è solo partecipato senza confondersi , in Dio invece si assolve compiutamente nel modo dialettico della dimostrazione e formazione del concetto di Lui che fu spiegala nel capo precedente. Ma per ciò stesso adunque che esso proprio essere ideale in Dio è realizzato, sicché Dio è l'istess'essere sus- sistente e reale, ogni sitfatta distinzione cessa e finisce nella identità. Corollario 11. — Conghieltura sulla creazione. Che la creazione fa a tuo' d'una scissura dialettica dell'Ente, la qaal si ricompone colla dimostrazione di Dio. 326. Un altro corollario importante della dottrina del capo precedente è una assai singolare ma pur fondata conghieltura che possiamo trarne sulla natura e modo arcano della creazione O. Ed è questa, che avendo voluto l'Ente infinito comunicarsi, come fece, (t) Non mi si imputi a disordine se qui nella Teosofia regressiva do uuo sguardo prospellivo e conghielturale alla creazione che dissi spellare propriamente alla seconda parte della Teosofia pro- gressiva. Perocché è da saper ciò che notò già it Rosmini nella Prefazione alla Teosofia , num. 28, e che io forse ho dimenticato o non trovai modo di notar prima, del nesso circolare (che non è circolo vizioso) in cui si avvolge come scienza perfetta la Tcosolìa. E di nuovo nel num. 996 : n Ma come VI GIUSEPPK, Bl ROM 633 agli enti finiti nel gran dramma (Spàpucz-t, da i5p«w, perchè è l'azione per eccellenza) della creazione O, né potendo comunicarsi al di fuori tuttin- tiero, come fa internamente nelle comunicazioni della learchica Trinità, dovette, a nostro mo' d'intendere e d'esprimerci, scindersi dialetticamente così, da concepire innanzi tutto la partecipabilità o imitabilità dell'esser suo in generale, astraendo questo dalla sua personalità e sussistenza, quasi a quel modo che l'artista, volendo fare il ritratto d'una persona, astrae, contemplandola, da quella persona viva e vera, che gli sta dinanzi, la figura della faccia per trasportarla pui sulla tela o improntarla nel marmo; o come il geometra e l'architetto stacca, per così dire, dalla casa e dal campo che vuol disegnare, la superficie e le linee di contorno e confine, astraendole dal resto, le quali segna poi sulla carta in quelle maggiori o mi- nori proporzioni che gli piacerà: il che noi italiani diciamo appunto , con bella fi-ase e filosofica, fai-le di levare i piani, o di tórre la pianta d'una casa o d'un edifizio. senza la quale operazione astrattiva ogni tal arte sa- rebbe impossibile f2)- e ciò fu un formarsi e produrre, come Platone non avrebbe scrupolo di dire (vedi de fìepubl. lib. x), li nozione dell'essere o dell'essenza (oùaix) universale: e questo è l'essere ideale o iniziale, perchè servirà d'iniziti a tutti gli enti, giustamente perciò detto dal Rosmini un astratto della mente divina. E sei secoli prima del Rosmini avevalo detto S. Tommaso: n Quicumque cognoscit perfecle nliquam naturam univer- » salera, cognoscit modum quo natura illa pòtest haberi. . . Sic igitur Deus /) cognoscendo se, cognoscit naturam universalem entis, etc. »(c. Gent. lib. I, cap. 5o, tutto il qual capo va letto per intiero). La qual natura univer- sale dellente, conosciuta primamente da Dio e partecipabile, è appunto quell'essere ideale e iniziale che, secondo il Rosmini, è dato ad intuire alle menti assunte al consorzio della mente divina; e se si vuole, è lo stesso Dio in quanto esemplare, cioè in quanto idea, come dice il Gerdil (e lo stesso, chi ben riflette, vien a dire il Malebranche, De inquir. verit. lib. 3. ho deUo nella Prefazione della Teosofia, e impossibile separare le Ire ilotlrìne dell'essere, di Dio e del mondo (Ontologia, Teologia, Cosmologia), essendo veramente una dottrina sola che da per tutto s'intreccia « . E questa avvertenza valga a scusarmi per molti altri luogbi e prima e poi. (1) Come questo gran fatto della creazione, libero e liberale da parte di Dio, abbia un fonda- mento eterno e necessario nella natura stessa dell'essere infinito , ciò vedremo qui appresso nella Teosofia progressiva fu. 344 e seg.). (2) Anche qui m'accorgo d'aver copiato me slesso da quel che avevo scritto prima nelle A'e- iioni di Ontologia, a n. 54. Skrie II. Tom. XXX. fio 634 DELLESSKRE E DEL CONOSCERE, ECC. Pari. 2', e. 6, edizione latina), purché si dia il debito valore alla fornnola restrittiva in quanto i^^). E i Giobertiani pure (per toccar una parola della «juislione anche con loro) debbono pur ammettere che Dio si veda solo sotto un in quanto ; se non che essi dicono di vederlo in quanto causa ; noi diciamo di vederlo prima in quanto idea, che logicamente precede, e poi viene il conoscerlo anche in quanto causa nel modo indiretto che si spiega nelle citate Noz. di Ont., n. 66. Di poi Iddio dovette (sempre a nostro ino' d intendere e di esprimerci) divisare nel fondo della sua realità infinita, dietro la guida di quell ideale, tante a mo' d'ombre e figure da proiettar fiiori che sarebbero le cose reali, il che Rosmini, per analogia al nostro modo, chiama immaginazione divina: e l'ideale comunicò dall'una parte alle menti che sole ne erano capaci; le forme poi e figure immaginate e tratte da Dio dal fondo della sua realità sarebbero le cose reali in se stesse dall'altra parte ; nel che consiste la scissura dialettica e lo spartimento dell'ante infinito che dicevo: ma l'essere ideale è tutto l'essere in disegno, le ombre reali non ne potreb- bero essere che porzioni o parti (disegnate), code si fa la voce partecipa- zione; purché altri non prenda grossamente questa partecipazione come fanno i panteisti, perocché é da notare che le cose reali, come dissi, son solo ombre e figure, cioè nnitazioni del reale divino, il che significa che son tutt altra cosa da quello, e site sur un tutt altro piano. Intanto si noti come nell'ideale, che è lessero, sta la parte chiara; nel reale, che son le cose, sta la parte oscura della creazione. La qual operazione pure della inimnginazione divina cos'i fu spiegata prima dall'Angelico: u Quicumque scit aliquam naturani , scit an illa » natura sit communicabilis Divina autem natura communicabilis est » per similitudinem. Scit ergo quot modis eius essentiae aliquid simile esse 1) potest. Sed ex hoc sunl diversitates formaruni, quia divinam essentiam » res diversimnde imitantnr, etc. » (ib. c;ip. 5o); e di nuovo cap. 54: « l't- » potè intelligendo essentiam suain (Deus) ut \mil\\\)ìlem per modum vilae » et non cognitionis, accipit propriam formam plantae; si vero ut iinita- » bilem pei- modum cognitionis, et non intellectiis., accipil propriam Jor- n mani animalis . et sic de aliis ». (Il (Questo che dico, couiu o^iiun vede, con aniniu coiicilialivo, iiou hÌL;iiiUcu clic io sia ne Ma- leliraiu'liKiiio né GerJiliano uè Gioliertiauo, o, come dicono, ontologisla. I>[ GIUSEPPK BUROM 635 Finalmente l'Ente infinito dovette ([uell esseie ideale riteiire a queste ombre reali per se scure, o queste vedere nella piena luce di quello, nel che consiste la sintesi e metessi creativa e V ideazione divina , secondo il RosminiO; e non meno secondo il Dottore d'Aquino: « Plures ideae sunt )i in mente divina ut intellectae ab ipso, quod hoc modo potest videri. . . Vi Sic igitur in quantum Deus cognoscit essentiam suam ut sic imitabilem )) a tali creatura, cognoscit eam ut propriam rationem et ideani hujus » creaturae, et sic de aliis. Et sic patet quod Deus intelligit plures ra- » tiones proprias omnium rerum, quae sunt plures ideae » (i. q. i5. a. 2 . E di nuovo: « Ad tertium dicendum quoii humsmodi respectus, quibus » muItipUcantur ideae, non causantur a rebus, sed ab intellectu divino » comparante essentiam suam ad l'es » (ibid. ad o"). Ma l'Ente infinito non produsse questo jìanorama delle cose create per farne spettacolo a se medesimo; bensì per farne spettacolo alle menti finite distribuite nell'ampia estensione dell'universo per gerarchie e gradi innumerabili, le quali tutte uni tra loro e con se medesimo in quell'essere ideale che abbiam detto essere l'elemento primo della creazione. E però tutte cose furon da Dio create nelle menti e insieme colle menti , le quali con tre atti corrispondenti a quelli che abbiam descritti di Dio, che sono Vintuizione, corrispondente all'astrazione divina, il senso e l'im- maginazione, corrispondente ali immaginazione divina, e la sintesi e idea- zione corrispondenti alla sintesi e ideazione divina, son latte esse pure consorti e partecipi della creazione: i quali atti abbiamo spiegato distin- tamente a suo luoyo (^Noz. di Ontol., n. 5'j e seg.). Non dicano pertanto i Giobertiani con grande lor vanto d'essere spet- tatori dell'atto creativo. Noi, secondo la filosofia del Rosmini, non solo ne siamo spettatori oziosi, ma anche in certo qual senso cooperatori nel modo che abbiamo detttj più volte, e che avrà lorse fatto scandalo a molti, ma che qui comincia ad avere la sua piena spiegazione. 327. Ora che è altro mai il processo dimostrativo di Dio che abbiamo spiegato nel capo precedente, per cui guardando noi le realità finite nella luce infinita dell essere ideale risaliamo ad arguire l'esistenza dell'Ente infinito che adegui e adempia perfettamente in se stesso I idea infinita, (1) L'autore delle cil. Nozioni di Ontologia volle unire [''idetizione coW irnmaginazione divina. A me par meglio di starmene col Rosmini che raggiunse piuttosto l'ideazione colla sintesi difina (Con questa noterella volli correggere me stesso da quel che avevo scritto prima in quel libro, n. 60). 636 i)Ei.i>'esskre e del conoscere, ecc. se non che un rirostriirre dialetticamente quella suprema unità e sempli- cità di Dio che nella creazione s'era scissa dialetticamente per potersi tuora trasfondere e comunicare? Il che mi ero proposto di dichiarare in questo paragrafo. iMB. Si può vedere ampiamente svolto e piiì riccamente confortato di documenti ed autorità il tema di questo paragrafo nelle citate Nozioni di Ontologia composte sulla Teosofia del Rosmini, al cipo terzo, sotto i §§ xvii-xxn, co" titoli: Descrizione della creazione: — Dell'Astrazione divina: — DelTimmaginazione e ideazione divina: — Della sintesi divina: — f)i tre atti nostri rispondenti a quelli di Dio: — Come non nell'intuito primo della mente, ma nella percezione intellettiva delle cose create si apprenda da noi imperfettamente e nel suo termine l'atto creativo O — . Corollario III. — Fondamento teosofico supremo della dimostrazione dell'esistenza di Dio. 528. L^ di qui possiamo trarre per ultimo quale sia la ragione teosofica suprema del pi-ocesso dimostrativo a posterioi'i per cui dalle cose create e finite la niente nostra r.sale a Di^>; il quale ad alcuni non cessa di parere arbitrario, non sembrando loro che si possa mai con giusto fon- ilamento da elementi finiti, o da premesse tanto tenui quali sono l'essere ideale e le cose reali trarre per conseguenza I alFermazione dell'Ente in- finito di tanto supeiiore. E dopo quanto sé ragionaU) fin qui, posso valermi, a chiarir questo punto, d'una similitudine che dopo averla ben ponderata mi pare multo opportuna. La cosa pro.-ede cosi, come se nell'arte dell'architettura si volesse dare da costrurre una vasta e gigantesca mole di edificio. Poniamo che il maestro mostrasse dapprima al discepolo delineato sulla carta con inchiostro o matita il disegno dell'editizio da costrurre, ben tracciato e distinto in tutte le sue parti co' debiti tìmbreggiamenti ; ma il discepolo non avesse mai visto solide e reali costruzioni, e non avesse alcuna idea della forma solida (l) Queste due correriiiiii l'iiUe al sistema ili Gioberti voi>lion essere notale: cioè, noi apprendere bensì l'alto creativo ili l)io: ma I" non apprenderlo nell'intuito primo della mente, bensì all'alto del percepire intellettivamente le cose create; e 2" non vederlo nel suo principio 'l'Eute creante le cose), ma nel suo termine (le cose creale o entilicate dall'Ente). DI GH'SEPPE nUROM 63^ dello spazio ('), e non conoscesse che solo la forma dell'estensione super- ficiale ; egli non arriverebbe mai a capo di rilevare da quel disegno in carta la pianta della costruzione da fare. O poniamo invece che agli occhi del discepolo fossero mostrate alcune colonne o pezzi d'arco, e non fosse posto dinanzi l'intiero disegno dell'opera : neppure in questo caso potrebbe mai indovinarla. Ma se lutt'insieme gli sia proposto in carta l'intiero di- segno, e in realtà una qualche piccola porzione di quello, avrebbe quanto bisogna per procedere al tutto. Or tale è appunto il caso nostro a riguardo della pro[iosta quistione. Se noi non avessimo altro che l'essere ideale nella mente senza nulla di ente reale, oppure avessimo solo degli enti, o per meglio dir delle cose reali sensibili die non sarebbero per sé enti, senza l'essere ideale; noi non potremmo muoverci dialetticamente a veruna dimostrazione. Ma avendo dall'una parte nella mente l'essere ideale, che è come il disegno dell'ente reale infinito, e dall'altra parte percependo delle realità finite che ci mo- strano il sussister solido sebbene limitatissimo corrispondente a quel disegno, noi possiamo costrurre nella mente il concetto del Reale infinito, nel modo che abbiamo detto (•). NB. M'avvedo di non avere espresso con sufficiente chiarezza e pre- cisione il concetto di questo paragrafo, ma parmi che dal cenno dato si possa almeno conghietturarlo. (1) Nel fatto ciò non può essere, perchè, secondo la filosolia del Rosmini, noi portiamo innata la forma dello spazio solido illimitato, in quanto che Pauima ha innato il senso primo dello spazio solido illimitato, e questo è il naturai termine primo del sentimento (Vedi qui appresso V Appendile che vicn dopo questo libro 5° intitolala Schizzo di Cosmologia). Ma nelle ipolesi, si pone anche tal- volta ciò che non può essere nel fatto. (2) Ma quel che né questa, ne altra similitudine potea delincare, si è che il Reale infinito a cui si riesce col dello processo teosofico è di tutl'altra natura dei reali finili, perchè silo sur un tutto altro piano da loro. E però si riesce ad averne, come dicono i teologi, un concetto meramente ne- gativo, il qual basta a farci conoscere che eSSO è {quod est), e non quale eSSO Sia («o« aulcm quid siC. Il pretendere di costrurre dai reali linili un concetto posili\o di Dio, è l'errore del panteismo. 638 dell'ksserf, e del conoscere, ecc. CAPO V. Seconda via d'ascendere a Dio. II sintesismo dell'essere ideale colla mente. 3'29. La prima via di ascendere al concetto di Dio. mostrata nel capo 2°, è comune a tutti gli uomini, e a quella appartengono, come abbiani detto, tutte le dimostrazioni anche più ovvie e volgari dell'esistenza ili Dio, che chiamansi a posteriori. Questa seconda invece è propria singolarmente dei filosofi, ossia di tutti coloro che si elevano a contemplare la natura «lei conoscere; e a cpiella si riferiscono tutte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio che diconsi a priori, sebbene, com'io penso, non siano schietta- mente tali. Della qual dilTerenza tra le due vie e tra i due ordini e modi di dimostrazioni ecco la ragione. L'idea che informa la mente, e però l'essere ideale che è l'idea per eccellenza, può riguardarsi in due modi, come riflettè S. Tommaso, e dopo di lui ripete più volte il Rosmini: o come mezzo di conoscere (sicul id quo inlelligitur) , e come tale tutti gli uomini hanno l'idea e conoscono coll'idea le cose, sebbene non sappiano di averla, e non ne conoscano la singolare natura: o come oggetto del conoscere [tamquam id cj ned in - telligitur), lorchè si riflette su quella, e logliesi ad argomento di studio e di ricerca lei stessa, il che è proprio ulficio della filosofia. Il mezzo pertanto per ascendere a Dio è sempre lo stesso per tutti ed in tutte le dimostrazioni, cioè l'essere ideale, né può esser altro. Ma, se- condo i due modi in cui questa vien riguardata, nascono le due vie che noi diciamo di ascendere a Dio, o i due ordini e modi di diverse dimostra- zioni. Perocché in quanto l'idea è adoperata solo come mezzo di cono- scere , essa , scontrandosi ne' reali finiti , ne là conoscere la deficienza , perchè l'essere ideale è sempre più vasto di tutte le cose finite O: onde (1) Bene dicono gli ontologisti che il finito presuppone l'infinito, e non viceversa, perchè non bì conoscerebbero mai i fini da cui prende nome il finito, se l'occhio non si stendesse più in là al- l'infinito (ed è questa nna prova per cui si dimostra che anche nell'ordine del senso noi dobbiamo avere innatamente congiunto come termino dell'anima lo spazio solido infinito), e non si vedrebbero le deficienze, se non si avesse dinanzi il tipo perfetto. Ma non dicano perciò che noi dobbiamo avere Pìntuito dell'Infinito Reale (come nell'esempio analogo del senso male conchiiiderebbe chi dicesse che l'anima dovesse avere per termine innatamente congiunto un corpo infinito, invece dell'csten- sione solida infinita), perocché il misuratore di tutti i gradi d'essere è l'essere ideale infinito. DI GIUSEPPE BURONI 63g la mente si eleva a pensar cose sempre più peifette di quelle che sono date all'uomo ila percepire, sino a pensai'e il perfettissimo: e questa è la prima via di dimostrazione ovvia e comune a tutti gii uomini, sebbene non tutti ne conoscano e sappiano dir la ragione. In quanto poi l'idea o l'essere ideale si prende esso stesso ad oggetto di cognizione, se ne scuopre la natura, che è di essere oggetto alle menti e di non poter esistere altrove che nella mente (lib. i°, e. 2", n. 24 e seg., e e. 3" n. 45 e seg.). Ed esso ve- ramente è e risiede nella mente nostra : ma la mente nostra è commutabile (ed ecco l'elemento a posteriori, tratto dal reale finito, che comincia ad insinuarsi nella dimostrazione, e senza cui non si potrebbe far nulla, onde la dimostrazione non è schiettamente a priori, ma mista d'un elemento a posteì'iori) , e l'essere ideale è incommutabile; la mente nostra è con- tingente, che può essere e non essere, e l'essere ideale invece è neces- sario, e non può non essere (') (e lo stesso che della mente nostra, di- casi di tutte le menti finite) : inoltre noi il vediamo misuratamente , ed esso è smisurato ed infinito, ed ha uopo d'esser veduto smisuratamente, altrimenti il di più non sarebbe, onde è necessario che si dia una equa- zione perfetta fra l'essere e la mente (2); e ciò che dissi dell'essere ideale, dicasi della verità, la qual non può esser non vera eternamente e incom- mutabihnente (3). e le menti finite son commutabili dal vero al falso, dalla luce alle tenebre, dal pensare al non pensare CO. Dunque Ci Dev'Essere una Mente eterna, infinita, assoluta, all' Essere-Idea e alla verità incommuta- bilmente congiunta, e ad esso perfettamente adeguata : e questa diciamo esser Dio. Si girino e rigirino in mille modi (e sempre si può fare con varietà inesauribile, ed è bello e utile farlo a delizioso esercizio di contempla- zione che è pur sempre contemplazione di Dio) quelle che chiamansi dimostrazioni a prioi'i dellesistenza di Dio, sempre si troverà che si ri- ducono a questa seconda via che noi diciamo di argomentar teosofico. (0 •■• 0TIW5 écTiv T£ [jCvja.i) /ai cu; ojx «Tt juvj itvat ^Parmeo. , v. 35). ■ ì) . . . tÒ yip ajTÒ voeìy èariv te zaè Eivat (Parmen. , V. 40). (3) « Inspice et iatuere : septem et tria decem sunt, et ila scptem et tria decem sunt, nt Donnìsi decein esse possint, et ita verum est decem esse, ut veruni istud dostrui nequeat, sed fuil semper et est incoinuiutabililer, manct inlermiiiabiliter (August., De lib. arb. , lib. 2, e. 8). (4) « Inlelleclus nosler mulatur de verilate in ralsitatem, eie. i^De Tli. , l.q. , 16, a. 8). g/o DELL KSSKRE E DKL CONOSCERE . E(.C. CAPO VI. Corollarii della via seconda. Corollario I. — In Dio cessa la dualità di Oggetto e Soggetto. 330. Ahbiam detto sopra (n. SaS) che in Dio cessa la distinzione e dualilì di ideale e reale , la qua! resta solo al di qua di Dio in verso all'ordine delle cose finite. Lo stesso pare a me che dire si debba della distinzione che notammo da principio (lib. i". n. 2^ e seg.), fra l'essere e la mente, fra loggetto e il soggetto, talché in Dio si debbe concepire non solo il sintesisnio, ma rimmedesimaniento totale del pensare e del- l'essere detto già da Parmenide . rò "^àp «uri voctv eVtiV tó /.cà ùvoci (vers. 4o). il qual detto rispetto a noi significa soltanto sintesismo, come spiegammo sopra al luogo citato (lib. i°, n. 27 e seg.). 33t. Perciò, come sopra (n. 323) dissi di non approvare pienamente che il Rosmini trasporti in Dio la distinzione di ideale e reale facendone applicazione alla Trinità, mentre la pienezza dell'Essere tutt'insieme ideale e reale appartiene all'unità dell'Essenza; così qui non approvo che egli trasporti in Dio, facendone parimente l'applicazione alle relazioni perso- nali delle prime due Persone divine, le denominazioni di soggetto e di oggetto. Ed anche qui come là egli è costretto a invertirne Toi-dme, fa- cendo che l'oggetto (il Verbo) emani dal soggetto (il Padre), mentre in noi accade il contrario, che l'oggetto (l'Idea) crea e costituisce il soggetti) (la mente), segno che non v'è parità. Ma è da dire che soggetto ed oggetto si identificano in Dio nell' uiiilà dell'essenza (Deus se ipsum in- telligens). Le relazioni personali della Trinità si esprimono meglio colle locuzioni adoprate da' Padri e da' teologi comunemente così, che Dio, in- tendendo se stesso, poi si esprima in una Parola e Concetto adequato ^'/, onde risultano le relazioni di Padre e Figlio, Mens e Proles mentis, Mens e f^erbum mentis, e altre simili. (1) E cos'i deve andare la cosa. Perocché come ia noi al concetto o parola interiore, che dicasi il verbo della mente, deve precedere e precede quella clic San Tommaso chiama simplex apprchensio rei, della quale il concetto od il verbo è l'espressione lexprimere e come chi dica i/nemore il concetto dalla mente già informata dell'idea o nozione della cosa): così anche in Dio, a nostro modo d'in- tendere, è necessario che precoda prima la semplice apprensione o nozione di se slesso, che e l'unita della natura divina, la quale e tutta intellezione; e quindi la mente inQnila passi ad esprimersi, e come a dire spremersi tutta quanta nel concetto o verbo adequato di se stessa, ed è solo qui che ni CIUSKPPK BtROM 64 I Corollario 11. ^ Conghiéltara sulla creazione delle menti. L'Ente infinito comunicandosi alle menti s'indua. 532. Questo corollario è simile al secondo esposto nel capo terzo come una conghiettura sul modo della creazione del mondo, onde a spie- garlo basteranno poche parole. Come quivi dicevamo che 1 Ente inlinito, \oìendosi partecipare ad altii enti fuori di lui, e non potendo tutt'intiero (che partecipazione e interezza si contraddicono), dovette scindersi dialetticamente, e la prima cosa con- cepire astrattamente la sua partecipabililà in genere, che tu V essere par- tecipabile unii'ersale ; così qui. volendosi comunicare ad altre menti finite, com'Egli è Mente infinita, dovette scindersi di nuovo così (e dico di nuovo, non perchè sia un'altra scissura, ma è quella stessa nuovamente conside- rata; e non dico nuovamente considerata perchè nell'ordine logico venga dopo dell'altra, che anzi forse la antecede, ma perchè vien dopo di quella nell'ordine della nostra arbitraria e mutabile trattazione) da concepire innanzi tutto la sua conoscibilità astrattamente da sé Mente conoscitiva infinita, e sul tipo di questa immaginare diversi gradi di menti o subbietli conoscitivi (perocché se stesso Mente infinita non avrebbe potuto fuori radduplicare], quella poi tutta quanta ad ognuna di loro obbiettivamente comunicare, per modo che quella infinita conoscibilità (che è l'essere infi- nito ideale, o l'idea per essenza conoscibile e intelligibile) divenisse la forma costitutiva di tutte le menti, le quali la parteciperebbero ognuna, ma indivisamente, secondo loro capacità. Per tal modo l'Ente e la Mente infinita s'indua verso ognuna delle menti, e verso tutte senza numero né fine s'immilla. 333. Tale è la costituzione nobilissima della mente finita secondo il si- stema di A. Rosmini, per cui Dio stesso, come idea, diventa forma e luce della nostra mente. I Giobertiani intendono invece la cosa così, che Dio se ne stia in suo sussiego e nell'interezza della sua Realità maestosa, com'essi dicono, per darsi da vedere a noi. A noi non avrebbe dato altro che tocchio che essi chiaman Cintuito, tutta cosa creata e umana, e nulla di divino. Ma ove la luce per vedere? e la forma divina, e l'essere egli divi- nitatis particeps, che per l'uomo sente in se stesso? O. nasce la distinzione di Dicento e Detto, di Padre e Verbo, la qual presuppone dunque innanzi di se l'intellezione. E vedremo più innanzi clie questo fa lo slesso Rosmini. ^l) Chi beo intenda la forza di questo discorso, non potrà più dubitare, io penso, da qual parte Serie II. Tom. XXX. 8i 542 dell'essere e del conoscere, ecc. Corollario III. — L'essere ideale è l'insidenza e la presenza (rapouafa) di Dio nelle menti e la sigillazione del suo lume in noi. 334. Per questo modo, per cui abbiam detto che Dio comunicandoci la sua conoscibilitii, o se stesso come Idea e verità, in noi s'indua, s'in- tende pure com'egli in noi s' insieda , e si rappresenti in noi, non per mezzo d'altri, che ogni altra rappresentazione di Dio slaccata da lui sa- rebbe per distanza infinita troppo al di sotto dell'originale, ma per se medesimo, immediatamente, nulla interposita creatura, giusta la formola di S. Agostino. E questa insidenza di Dio nelle menti finite, e questa sua presenza, ny.powyia, o adessentia in loro W, è appunto l'essere ideale, come già accennavamo anche sopra (Proemio del lib. 5°. n. 3i4). Ed invero, se non vogliamo contentarci di sole parole o paroloni , dobbiamo pure entrare ne' visceri della quistione a dire il modo intimo con cui si possa concepire che Dio sia presente a noi, non come un corpo dicesi presente e vicino a un altro corpo dal quale sia distante per es. x\n sol digito di spazio. La vera presenza e comunicazione importa che vi sia un che di comune e comuniente fra i due, è uopo intendere che vi sia un atto pe- netrativo, come fosse una scossa elettrica, che dall'ente conumicnnte passi ad esser proprio quello slesso identico atto dellente cui è fatta la comu- nicazione, senza che cessi di essere del primo, solo che nel primo è come dantesi, e nel secondo è come dato e ricevuto (che mi par essere, per dirlo di passaggio, il concetto dell'opuscolo del Cusano De dato Patris lamine). E se Dio s' insiede veramente in noi, ossia nella nostra mente, é pur d'uopo che la sua insidenza e presenza, in quanto da noi ricevuta, sia in noi. Se non che nell'essere in noi come ricevuta, porta una distin- zione dall'essere in Dio come dante, ma pur la stessa. Tale è l'essere-idea, termine comune e comuniente della Mente infinita , e della mente finita, e di tutte le menti finite con Dio e tia loro. 335. A ciò conviene anche l'espressione tanto familiare a' filosufi e stia il mag^'ior sentimento o fondamento vero dclTumana grandezza partecipe della divinità. Ma perchè vi sia partecipazione dall'una parte, couviea porre dalTallra alcunché di partecipabile^ e però obbiet- tivo e ideale. Il Heale di Vincenzo Gioberti e troppo subbiellivo in se slesso ed iiicommunicabilc. La maggior grandezza da lui esibitaci non è che apparente, so pur non voglia che 1' Ente si subtiittivi in noi, come dicono i panteisti, il elio certo gli ripugna. (1) Vedi quel che del vero concetto della presenza (irajoouuca) dicemmo a lungo col Rosmini nel libro ì", uuiu. tO3-107, e altrove. DI GIUSEPPE BURONI 643 teologi cristiani di sigillazione, di Dio nell anima nostra, a proposito di quelle parole del salmo; Signatum est super nos lumen vullus tui, Do- mine, purché la s'intenda bene, e non colla solita leggierezza e superli- cialità, frutto del lungamente regnato sensismo. « La similitudine che piìi si accosta (dice lo stesso Rosmini, Teosofia, voi. 2", p. 2o3) a fare intendere quest intima aderenza e congiunzione del subbietlo coll'essere suo obbietto, è quella tanto usata dai filosofi antichi, d'un sigillo che imprime la sua forma nella cera o in altra materia molle. Ma allineile questa similitudine abbia valore di rappresentare il nudo fatto che noi descriviamo, senz'aggiunte, conviene separar colla mente la cera o l'altra materia su cui s'è calcato il sigillo, dall' impronta rimastavi, e considerar questa sola. Del pari, nel sigillo si deve separare colla mente la materia e le altre parti onde questo stromeuto è composto, e tener solo nella mente la cifra o impresa incisa nel medesimo. Se la cifra si considera nell alto di produrre la sua impronta , questa impronta , che è relFetto (ma elFetto , soggiungo io, indiviso nel farsi dalla causa , e pro- priamente l'atto stesso di quella) , rappresenta al vivo il subbietto intel- lettivo (o meglio, rappresenta, soggiungo io, la forma del subbietto intel- lettivo, perocché il subbietto intellettivo è piuttosto rappresentato dalla cera o altra materia che riceve T impronta) che lia immediatamente presente Tessere come suo obbietto. Laonde il subbietlo intellettivo, come tale, si può appunto chiamare, non senza verità, una similitudine, un'effigie, un'im- pronta, un l'zrujiov dell'essere, nel quale termina latto della sua esistenza (come tale), che è l'intuizione medesima: e l'essere conseguentemente acquista la relazione del suo àp'/srùnoi/ ». Fin qui il Rosmini. Ma alla sua spiegazione della similitudine convien aggiugner di piii questo tratto, che la cifra o impresa del sigillo, astratta che sia, come bene egli disse, dalla cera o altra materia molle in cui viene impressa, e così pure dal rame, o bronzo, o altra materia dura in cui trovasi in- cisa nel sigillo, eila non è già due, luna simile all'altra, ma è assolutamente l'uiia e la stessa in due, nel sigillo dico e nella cera, con la sola diversità di relazione, che in quello, cioè nel sigillo, è imprimenle, in questa, cioè nella cera, è Impressa; ma nel farsi l'impressione la cifra è assolutamente l'nua e la stessa in due (escluso il concetto delle cause occasionali che ri- pudio) ed è il bacia e combaciamento de' due nell'uno , nel che dimora il con- cetto vero di conlallo allivo , il quale importa immedesiniamenlo dei due in nn pnato : e solo la cifra si trova esser divenuta due nelle due materie staccate, QAA DELI.ESSERK 7. DEL CONOSCERE, ECC. per la dualità de' subbielti jii cui s'iodua ; ed è solo allora che l'una si dice copia (e/.wnoy), l'altra originale {ipyzxvnov). Adattando ora la similitudine, l'essere comune e coviuniente tra la Mente infinita e le menti finite, è perfettamente l'uno e identico essere, che fti astratto dalia prima nel modo detto, e viene dato e comunicato tal quale alle secondo, e per la dualità delle menti in cui risiede, s'indua, con la diversa relazione di dante nell'una, e di dato nelle altre ('). 33G. L'analogia de' pensieri mi porterebbe a spiegar qui l'altro concetto affine che poc'anzi accennai del COlitallO allivo qual si concepisce tra causa ed elTetto nel sistema vero delle cause efficienti, e qual si dee per certo concepire nella creazione che è l'azione per eccellenza, alla eguale niuno vorrà applicare il sistema detto delle cause occasionali. Il qual concetto importa che un identico atto dell'Ente creante passi ad esser negli enti creati. Or l'alto dell'Knte è l'essere, dice S. Tommaso, come del sole il lucere (i, q. i3, a. ■j); onde il creare è far enti, enfia facere, e la crea- zione chiamasi dal Rosmini entificazione. Dunque è uopo che l'es.sere sia il punto di contatto comune e comuniente fra Dio e il creato. Ed esso, come dissi altrove, è lo stesso atto creativo. Ma un tal atto non si fa colle mani, sì solo colla mente per via di quella sintesi che abbiamo piiì volte ed anzi perpetuamente memorata , la qual s inizia prima nelle su- preme regioni della Mente, e quindi si ripete e propaga in un attimo per tutti i gradi e le gerarchie delle menti seconde sino agli ultimi confini della creazione. Ma tutte queste cose mi paion si bene spiegate nelle citate Nozioni di Ontologia, che io non potrei che trascrivere da num. 69 a num. 84. Dove è anche da notare peculiarmente il § xxv a num 77: Che tessere virtuale non è ente creato; perocché non si può dire ente creato l'atto creativo, o la stessa creazione, come ben nota S. Tommaso (1", q. l\5, a. 3). Or l'essere, come detto abbiamo, è lo stesso atto creativo (2). 337. E qui dirò per ultimo come vadano errati quelli ihe ogni co- (1) A spiegare poi a fondo questo concetlo mi basti per ora citare la questione 58" della prima parte della Somma Teologica di San Tommaso, De nomine Spiritus Sancii, quud est Do/wm : e ci sa- rebbero anche altri luoghi più opportuni, ma ora non mi soccorrono alla memoria. (2) Nel vol..'^'' della Teosofia, pag. 319, il Rosmini, dopo avere divisato i dodici anelli della ca- tena ontologica, o della catena d'oro com'egli la chiama, che avvincola tulio l'ente, infinilo e finito, nell'ordine suo, soggiunge ((uesto articolo: C/ie cosa ia eausa influisca ncWe/fetto (pag.319-348) che vuol esser letto DI GIUSEPPE BURONI 645 munita e comunicazione fra Dio e le creature sospettano di panteismo, e vorrebbero fra l'uno e le altre un assoluto distacco da potervi passar almeno frammezzo nettanienle con la mano, e il dir che l'essere (rò élvoci) sia assolutamente uno, li spaventa. Eppur non v'è al mondo altra verità pili splendida di questa. Il panteismo non sta (l'intendano bene) neìV unità delf essere, ma neWunità dell Ente e degli eiiti^ cioè nel portar la confu- sione e l'immedesimameuto nelle sostanze e ne' subbietti in cui tessere risiede, come chi confondesse il sigillo colla cera, e la terra col sole: e non è errore il melter 1 unità e medesimezza della cifra e della luce. NB. E qui giunto alla fine della Teosofia regressiva potrei por ter- mine al mio lavoro, perchè ella è infatti l'ultimo apice della filosofia re- gressiva, avendo anche prevenuto ciò che restava principalmente da dire della creazione: onde l'esposizione della teorica del Rosmini, quanto a filosofia, è compita, e parmi che ognuno possa farsi un'idea del sistema di lui. Nondimeno, per compiere il disegno tracciato, indicherò ainieno i punti precipui della Teosofia progressiva. PARTE SECONDA TEOSOFIA PROGRESSIVA CAPO I Cbe Dio è vita ed è il Buono. 3o8. Dissi già prima di non approvare pienamente che il Rosmini abbia trasportato in Dio la distinzione delle tre forme dell'essere ideale, reale, morale, valendosene ne suui rat^ionamenti teosofici, sebbene questi sieno per altro commendevolissimi, e sieno anche, per ciò che spetta alla dottrina, intieramente conformi alla retta fede sulla Trinità. Alle ragioni già toccate aggiungo ora quest'altra, che le tre forme suddette e le tre voci con le quali si esprimono sono quiescenti, e non significano abbastanza nel primo enunciarle l'ordine loro e la relazione dell'emanare e procedere l'una dall'altra. Laddove la Trinità, che una superiore ed arcana dottrina in- (5^6 DELL ESSERE E DEL CONOSCERE. ECC. se»na esservi in Dio, è tutta attuosa e relativa, poiché la soia opposi- zione delle relazioni distingue le Persone divine, giusta il comune parlare de' teologi. 33;). Ma il principio da mettere innanzi alla scienza delle Divine Pro- gressioni, che chiamasi Teologia progressiva, è il concetto molto più attuoso e fecondo della Vita divina, e dell'esser Dio una Natura supre- mamente emanativa e comunicativa: il qual termine Natura (dal verbo nasci, come chi dicesse nascitura) già involge in sé il concetto di vi- talità, di nascimento, di emanazione. « Principium liuius intentionis hinc sumere oportet (dice S. Tommaso, cominciando la sua esposizione razio- cinativa sulla Trinità, nel e. Gent. lib. 4» cap. ii), quod secundum diver- sitatem naturarwn diversus enumationìs modus invenitur in rebus ; et quanto aliqua natura est altior. tanto id quod ex ea emanat, magis est intimum ». 340. Onde il supremo e più proprio nome di Dio a cui si riesce come ad ultimo termine più elevato nella Teosofia regressiva è quello di Ente: « Hoc nomen Qui Est est maxime proprium nomen Dei n (i. q. i3, a. ii). Ma essendo che per noi la voce Esserle ha significato quiescente (ed in questa si aquetano gli Unitarii), il primo e più proprio nome di Dio in ordine alle Divine Progressioni è anzi quello di Buono, come dice Dionigi : « Boni nominatio excellenter est manifestaliva omnium Dei processionum « (De Divin. Noniin. cap. 3), cioè di Vita e Natura supremamente comu- nicativa ('); con la qual denominazione soleva designar la suprema Natura anche Platone ogniqualvolta voleva significarne la parte più arcana e profonda a noi invisibile, adoprando quella di Ente (rò ov) o di Divino (rò Oiiov) a significarne la faccia e parvenza a noi relativa. Ed anche l'Angelico approva che questo di Buono sia il più principal nome di Dio in quanto egli è caus:i e principio di comunicazione: « Ad secundum di- cendum quod hoc nomen Houuni est principale nomen Dei , in quantum est causa » (r. q. i3, a. xi, ad 2'"). 341. Ed invero lo stesso Rosmini, lorché si addentra col suo altissimo ingegno nel vivo di questo argomento sublime della divina e beatissima Trinità, sul quale, come dissi, dettò egli pure, come sempre fecero i più nobili ingegni cristiani, molto elevati ragionamenti, mette, direbbesi quasi, in disparte quella sua tviniformitìi sistematica, muovendo invece (1) Qui è da leggere Rosmini neWArist. Esam. , lib. 2°, cap. 2°, pag. 9GI e scg. DI GIUSEPPE BUUONI 647 dal concetto molto più fecondo da cui muovono gli altri teosofi cristiani della Vita divina, ossia della vitale ed intima attuosità dell'Essere O. Onde il nostro dipartirci da lui in questo punto non è piiì che acciden- tale, e non tocca per nulla la sostanza della teorica di lui. CAPO II. Della Trinità Prima nell'Essere, Mente, Verbo e Amore; e della Dualità Prima dell'Essere : L'Ente e gli enti. 542. Una teosofia d'ordine piiì elevato della filosofica insegna prima- mente che innanzi a tutti i tempi e a tutte le cose la Vita e Natura divina si svolge e s adempie in se stessa perennemente, con moto spon- taneo e naturale, con arcane e beatissime piogressioni , in tre sussistenze che con proprii nomi si chiamano Mente, Verbo e Amore. Conciossiachè, essendo Dio vita, e vita del genere più perfetto qual è la vita intellet- tuale, e però Mente infinita, infinitamente si conosce, e conoscendosi si esprime in un Verbo di tenore infinito, pienamente a sé adequato e però coequale, che emana come Prole e Concetto consostanziale della Mente di lui , nel quale e col quale specchiandosi si compince dslla propria bellezza, ed insieme con lui spira l'Amore, che è il Piacere infinito in cui si quieta e di cui perennemente fruisce. La quale arcana dottrina il sommo poeta rinchiudeva in soli tre versi ( Parad. 33, 124-126): O luce eterea, elio sola in le sidi , Sola t'intendi, e da le intcllclla E intendente, te ami ed arridi! Onde vengono ad essere in Dio la famigliarità, il colloquio, l'amicizia, la socievolezza, le mutue comunicazioni, l'intimità; tutte perfezioni altis- sime che rendono grata e piacevole la vita e la compiono, e non potrei>- bero nullamente trovarsi nella solitaria unità. Ma tanto basti avere toccato, per la sola necessità di non poter lasciare quel che è prima , di un insegnamento che si stenderebbe molto più al di là del tema proposto, e fora maggio Che il parlar nostro, cli'a lai vista cede, E cede la memoria a tanto oltraggio (Dakte, ivi, 55-57). (1) Vedi per esempio Teosofia, vol.S°, pag. 364, voi. S^, pag. 98 e seg., e altrove in molti altri lao"hi. 648 dell'essere e dkl (Onoscere, ecc.. 345. Pure non tornerà inutile, né troppo stranio anche a' filosofi, il notare come una tale dottrina porga alla mente un potente e salutare sostegno che la ritenga dalla ruinosa china del panteismo. Perocché se non fosse già prima noto e accertato per autorità irrefragabili che quella potentissima Vita e Natura che è Dio (supremamente e necessariamente comunicativa, perchè supremamente Buona, ed è natura del Buono l'espan- dersi e il comunicarsi infinitamente : Bonum est cli//usivum sui ) si espande e si compie in se medesima con perenni e supreme comunicazioni a sé adequate e veramente infinite, che altro resterebbe a pensare e dire di Lei, se non che si ditlonda necessariamente nelF infinità dello spazio, e si moltiplichi in mondi innumerabili infinite volte infiniti, de (juali appena poche scintille ci appaiono nella vòlta del firmamento, e giganteggi nella mole delle montagne, e scorra ne' rivi, e muggisca nel mare, e lussu- reggi nella germinazione delle erbe, delle piante, de' fiori, e viva e si muova negli animali, e ragioni e scapestri nelluomo, e infine non sia altro che il diventare e l'agitarsi continuo dell'universa natura? Onde Tessere, la verità, la giustizia che tenemmo saldi sin qui dietro gli inse- gnamenti salutari e nobilissimi della greco-italica filosofia, ne andreb- bero in dileguo come sogni di menti inferme, e lo stesso Buono in per- dizione i'). 344. Or dove si termina e finisce lo sviluppo interno della vita divina, cioè nell'Amore (n. 342), ivi s'inizia il moto espansivo e comunicativo di Dio, cioè del Buono, al di fuori di sé, che è la creazione, onde risulta questa dualità dell'Ente e degli enti di cui possiamo alquanto piiì ragio- nare perchè ne siamo in alcuna parte spettatori , sebbene ce ne resti pur sempre occulto il principio che si inabissa nell'arcano consiglio della Triade infinita. Ma quel qualunque cenno che ce ne vien dato da una scienza superiore (e non ci deve rincrescere), ci torna più accessibile, perchè ne trova il riscontro in que' che i teosofi chiamano i vestigii della Trinità. (1) È questo uno de' molli casi, per non dire innumerevoli, nei quali la scienza divina soccorre alla scienza filosofica, non dovendo amendue (ormare luU'insiemc che una sola sapienza. 1)1 GIUSEPPE BLROM 649 CAPO III- La Creazione è triniforme : le tre forme dell'essere. 345. L'Angelico S. Tommaso, di cui sempre si professò studioso e discepolo il Rosmini, spiegando neirallissima sua teosofia la parte propria e distinta clie ebbero le tre divine Persone a quest'opera stupenda della creazione, ascrive in prima allo Spirito Santo, che è l'Amore sussistente del Buono, d'esserne stato la causa motiva impellente, come il Padre ne fu la causa efliciente ed il Verbo la causa esemplare. E cita in proposito queste belle parole di Dionigi [de div. Aom., e. 4) ■ Divluus Aiuor iioa per- misit ipsuni siile i;eriulue esse : lAmor di Dio, stimolandolo internamente, non gli permise di starsene senza metter fuora questo germoglio della crea- zione , lo incitò a profondere fuori di se la pienezza della sua bontà ine- sauribile, comunicandola alle creature. L'amore pertanto fu il motivo primo della creazione; onde, seguita a dire il santo dottore d'Aquino, alcuni antichi filosofi posero l'Amore esser causa di tulli gli dèi 0). 3i(j. Li tanto di qui procede quel che debba dirsi della libertà della creazione. Il moto del Buono al di fuori non è necessario perchè non è naturale come lo sviluppo interiore, e comincia quando il primo è finito; ma è liberissimo e libcntissimo, perchè amoroso : ma pure per questo stesso è certo a priori ed immanchevole, perchè amoroso, e portato dalfAmore sapiente ("^). Con questi principii si conciliano i diversi luoghi ove il Rosmini parla della creazione talvolta come liberissima, e tal altra par quasi che ne parli come necessaria, perchè la riguarda come eterna- (1) Cantra Gentes. lib. 4°, capo 20 Le parole sue meritano d'essere qui riferite testualmente; (I Ostensum est in supcrioribus (lib. 1", cap. 86) i|Uoti bonitas Dei est ratio volendi quoil alia sint .\mor igitur quo suaiu bonitatem amat est causa crcationis ; unde et quidam antiqui philosophi amorem deorum causam omnium esse posuerunt, ut patct in 1 Metapb., et llionysius dicil quod divinus amor non permisit ipsum sine germine esse (De div. Nomin. , c.4). liabitum est autem ex praemissis quod Spiritus Sanctus procedit per modum amoris quo Deus amat seipsam. Igitur Spi- ritus Sanctus est principium crcationis rerum ■ . (2) Questo tenia della creazione, col qual si collega l'altro dell'ottimismo, ■vorrebbe troppo piii largo discorso che qui non possa capire. Mi basti notare che l'errore del Loibnizio fu quello di antropomorfizzarc un po' troppo ragionando di Dio, e quindi di porre anteriore all'elezione dÌTina , com'è anteriore all'elezione umana o di qualsiasi altra creatura inlelligentc, la ragione del bene e dell'ottimo relativo. Nell'ordine umano la formola è questa: Optimus optima eligere dehet et facere : nell'ordine divino invece è quest'altra di San Tommaso: Optimus optima facit. Checche faccia Dio, fa sempre l'ottimo, perchè lo fa e lo ordina optima potentia, optima sapientìa, optima bonitate, onde è impossibile die non riesca all'ottimo ciò che vien latto e ordinato dall'ottimo Iddio. Chi con la Serie II. Tom. XXX. 82 65o dell' i:SSKUE E DEI. CONOSCERE, ECC. mente certa ed iminanchevole. Ainetidue gli aspetti sono veri. Que' teo- logi pedestri che per mantener libera la creazione, com'è dovere, la pongono come casu;ile e ciecamente arbitraria, non se ne intendono punto, e si allontanano senza saperlo e volerlo dalle splendide tradizioni de' pri- marii teosofi cristiani, pe' quali, tutti, basti la parola di Agostino (Z?f Doctr. Cìirist. cap. 3i) : Quia Deus lioims est, nos siiinus ''^\ 347. E di qui anche (continua a dire S. Tommaso) che lo Spirito Santo procede per via d'amore, ed è pioprio dell'amore l'avere una certa virtù motiva ed impellente, seguita che dallo Spirito Santo si ripela tutto ciò che nelle cose create vi ha d'impulsione e di movimento: » Ex hoc etiam » quod Spiritus Sanctus per modum amoris procedit, amor autem vim » quamdam impulsivam et molivam habet, motus qui est a Deo in rebus » Spiritui Sancto proprie attribuì videtur » {e. Gent. lib. 4» cap. 20). E poiché nel moto principalmente si manifesta la vita ■. Fifa maxime in mota manifestatur (ib.), perciò da lui si ripete principalmente la vita. E cos"i da lui si ripete tutto ciò che è di impulsi), di propensione, di amore, di ordinamento delle volontà finite nel bene e nel fine (2) ; il che tutto nella filosofia del Rosmini chiamasi la forma inorale dell'essere. Ciò quanto alla causa motiva impellente della creazione che si attribuisce allo Spi- rito Santo. 548. Causa efficiente del creato si dice essere più convenientemente uuautllà di otto mi dà il prodotto di sedici, e egualmente ottimo aritmetico di chi cod la quantità di sedici mi dà per prodotto sessaiilaqualtro, perchè sedici e sessantaquattro sono i due massimi prodotti che si possano avere dalle duo hasi di otto e di sedici. La base poi non ha ragione di cli- gibilo, perchè tien le parti di quantità materiale, e l'intelletto non intendo la materia ma la forma. Adunque è da ritener per sola \era la l'ormola della teologia cristiana: Perche Dio e buonu^ il montio e; e perchè Dio è ottimo, è anche ottimo il mondo, e non la formola rovescia: Dio vuole il mimilo perché buono; oppure: Dio elesse questo mondo perche ottimo. È una illusione dialettica il dare al creato o al creabile una qualsiasi ragione di ente o di buono o di ottimo antecedente a Dio, mentre ogni ragione di ente o di buono o di ottimo, anche solo riguardato come possibile esso non l'ha ne può averla altrimenti che da Dio. (1) Tradotta in forma di entimema, questa sentenza vuol dire: Deus bonus est, ergo sumus. Ora è da notare che rantccedente di questo entimema è necessario, ma il conseguente è solo probabile, perchè esso ha solo un nesso di probabile cntivcnien:a con quello. La natura del finito importa non già d'essere un necessario costituti^ della bontà dell'Infinito: se cosi fosse, non sarebbe più finito, ma infinito: ma importa di esserue un consc^aeule probabile e conveniente. Dunque la vera formola è questa: La creazione è iiecessariameule probabile, e però eternamente certa e immanchevole, perchè l'eternamente probabile, come tale è certo; ma non è nullamente necessario. Ecco quanto si può dir di più splendido sulla libertà e ragionevolezza tutt'iusieuie della creazione. (9) Vedi e Gentes, lib. 4", cap. 21-22. m GIUSEPPE BURONI 65 I la prima Persona, la quale essendo la pienezza foiitale dellEssere da cui emanano l'altre due, perciò ad essa s'ascrive Tesser causa e principio anche del crealo, e ad essa compete primariamente l'essere, la possanza, la forza. Onde da essa si ripete quanto spetta a quella forma e categoria rosrainiana dell'essere che dicesi il reale. 349. Ma essendo ella Mente infinita tutta impregnata d'intelligenza (voùj), il cui operare è sapienza e pensiero, perciò ad essa s'ascrive d'essere, non l'operator cieco, ma il Fabbro e l'Architetto sapiente del- I universo; il qual concepisce innanzi nella mente .'^ua la forma e l'idea dell'opera da produrre di fuori. Ora ella disegna la forma e 1 idea dell'o- pera sua nel "Verbo, al quale perciò spetta di essere la causa esemplare del inondo. E qui ha luogo propriamente la ragione d'idea, e la forma ideale dell'essere che sii appropria al Verbo ; la qual dunque non è costitutiva del Verbo, come sembrava porre il Rosmini, perocché il ^'erbo è costi- tuito anteriormente dalla sua procedenza dalla Mente del Padre; ma è conseguente al Verbo già costituito e involge anzi un rispetto logicamente posteriore a quello, e relativo al creato : onde noi dicemmo la forma ideale restare al di qua di Dio nella faccia di lui che guarda alle creature ('). 350. E ciò insegna espressamente S. Tonmiaso dicendo : (( Comparatiu" » igitur Verbum Dei ad Deum inlelligentem sicut ad euni a quo est: « hoc est enim de ratione Verbi » (e. Geni. e. 1 1). E poco dopo: u Oportet » igilur quod Verbum Dei comparetur ad res alias intellectas a Deo sicut « exemplar ( ecco la ragione d'idea ) ; ad ipsum autem Deum , cuius est » Verbum, sicut eius imago n: cioè, secondo che avea poc'anzi definito, (i similitudo alicuius in altero existens, vel habet rationem exemplaris, )' si se habeat ut principium » (e tale non è il Verbo se non rispetto alle creature, onde dicemmo che la distinzione di ideale e reale sta solo per rispetto al finito); u vel habet potius rationem imaginis, si se habeat ad « id cuius est similitudo sicut ad principium » (ib.) ; e tale rispetto ha il Verbo verso il Padre. E di nuovo nel cap. i3 dello stesso libro: u Cuni » Deus, intelligendo seipsum, omnia alia intelligat, ut dictum est; oportet (1) La triniformilà della creazione qui spiegata secondo il concorso delle Ire divine Persone, onde procede la triniformilà dell'essere ideale, male, morale, si può anche esprimere colla trilogia del Vico Nasse, ydle, Posse, dicendo che Dio i; il Pusse (Padre, Nasse (Verbo), relle (Amore) infinito da cui procede nel mondo quel che il Vico chiama il nasse, velie, posse finitum quod tendit ad infinitum, quale è l'aomo, ed ogni intelligenza creata. La trilogia poi del nasse, velie et posse è evidentemente la stessa che quella di ideale, morale, reale. 65?. dell'essere e del conoscere, ecc. )) quod Verbum in Deo conceptiini , ex eo quod seipsum intelligit, sit etiani » Verbum unum et idem omnium rerum. ^Non tamen eodem modo est » Verbum Dei et aliaruni rerum: nani Dei quidem Verbum est sicut ab » eo procedens; aliarum autem rerum non sicut ex eis procedens: non » enim Deus a rebus scientiam sumit, sed magis per suam scienliam res )) in esse producit. Oportet igitur quod Verbum Dei oumium quae facta .) sunt ratio perfecta existat », cioè sia Idea esemplare del mondo creato. 3ol. Ove toccherò di passaggio che qui appunto dimora la ragione dell'inferiorità che tiene il logos di Platone rispetto al logos cristiano e a Dio creatore, ed è che, quel filosofo (né forse mente umana poteva altrimenti senza saperne rivelazioni), ignorando il rispetto anteriore che il Logos tiene verso il Padre, che lo consolida e costituisce, noi concepì che nel rispetto secondario di Idea esemplare del mondo, onde gli ap- parve come un che d'intermedio tra Dio e le creature, e di qui proce- dette poi l'eresia degli Ariani nella Chiesa. Per la qual cosa anche lo stesso Platone nel X della Republica parla delie idee come create da Dio, del che diremo poi. Tanto importa il porre che il Verbo sia costituito da un rispetto anteriore allidea e alla forma ideale, cioè dai rispetto ante- cedente per cui anzi tutto procede come Inunagine del Padre, nel quale troveranno consistenza anche le idee, e cosi appariranno disegnate nel Verbo, e non create, come diremo. 352. E nondimeno in questo capo noi ci troviamo tornali alla stupenda triniformità dell'essere notata dal Rosmini e da lui anzi messa a capo della sua enciclopedia filosofica ('). Se non che egli parve in alcuni luoghi della Teosofia porla nell'Essere riguardato antecedentemente alle stesse divine Persone, che ne sarebbero, com'egli dice, i termini infiniti: noi la troviamo anzi conseguente alla Trinità delle Persone, cui le tre forme si riferiscono come a loro principii, e antecedente solo ai termini finiti^ che è quello che siamo andati divisando sotto il titolo di triniformità della creazione. 353. E tale è né più né meno il concetto che ne dava nella Inlrod. alla Filosofia, pag. 167 e seguenti, lo stesso Rosmini, dal quale, ove (l}Nolai già prima la relazione dì questa trilogia rosminiana dell'essere idmle, reale, morale, con quella di Vico del nossc, velie, jiosse, come qui appresso se iic uola la relazione colle tre filo- sofie auliche, la naturale, razionate, inorale. Tanto è calcata nelle menti questa triniformilà del creai», impronta e vestigio della Trinità. DI GIUSEPPE BUROM 653 anche appaia il contrario, punto non discordiamo: le cui parole bellissime e pienamente conformi al ragionato da noi , vogliono essere qui riferite. u II punto dunque ove termina la filosofia, e onde pure incomincia, è tessere ed il suo ordine intrinseco, cioè le sue tre forme che si riflettono nel mondo, e costituiscono la base delle categoì'ie a cui tutte le cose si riducono, e diventano le ragioni ultime intorno alle quali la meditazione filosofica si rivolge. Perocché nellessere sotto una prima forma è neces- sario investigare la prima ragione di tutte le realità che costituiscono il mondo reale ; nell'essere sotto una prima forma oggettiva è necessario investigare la prima ragione di tutte le idee e cognizioni che costituiscono il mondo ideale e intelligibile ; nell'essere sotto una prima forma del bene è necessario investigare la prima ragione di tutte le esigenze e le leggi, e di tutte le morali attività coi loro alletti che costituiscono il mondo morale. Che l'intrecciamento di questi tre mondi è il creato che pende dal suo creatore, cui somiglia, quasi come im frutto dall'albero. E che nella natura delle cose e nella composizione di questo universo si pos- sano facilmente ravvisare calcate queste tre impronte e quasi solchi di altrettante vie per le quali il pensatore si conduce a trovare le ultime ragioni delle cose, nel che sta il filosofico esercizio, lo dimostra anche la partizione dell'antica filosofia lalta dai migliori filosofi in tre parti, che nominarono Naturale, Razionale e Morale O. Nella qual divisione, non istituita dai filosofi, ma trovata (2)^ Sant'Agostino riconosce un cotal ve- stigio della divina Trinità {De Civit. Dei, xi, aS) (3). (1) Philosopliiae tres parles esse dixerunt et iiiaxiiiii el plurimi auctorcs : Moralein, Naturalcni et Ratìonalem (Seneca, Ep. 89). (2) A questa divisione riducesi pure l'enciclopedia delle opere rosininiane , come egli slesso il Rosmini mostra ivi, pag. 1C9, noia : « Le scienze idtoltigkhi: e logiche costituiscono la parte ratio- naie: le scienze luetafisiclie clie si ponno riilurre a due, cioè alla Psicologia e alla Teosofia, appar- tengono alla parie naturale (ossia del reale) : e le scienze die Irallano delle operaziotti nma/ie, for- mano la parte morale. [3] i< llinc IMiilusophi sapientiae disciplinam Iriparlitam esse voluerunl, imo Iripartitam esse animadyerterc potucrunt; neqiie cnim ipsi instituerunl ut ita essel, sed ila esse jmtius invenei-unt '> . In questa divisione non istituita dai filosofi, ma da essi trovata esistente nella natura delle cose, il santo DoUore riconosce, come dissi, un cotale vestigio della divina Trinità; e vi scorge i tre sommi pro- blemi dell'umana scienza, non mai sciolti, a dir vero , da' gentili filosofi, ma tuttavia proposti j la cui ultima soluzione s'annoda alla cristiana dottrina delle tre divine l'ersone. Peroccbi; dice (ivi): « Aven- dovi in ciascuna di quelle (cioè delle tre grandi e generali quistìoni predelle) una discrepanza mol- teplice d'opinioni, tuttavia ninno esita di afl'ermare clie vi ha qualche causa della natura, qualche forma della scienza, qualche somma della vita » . Ecco dunque, prosieguo il Rosmini, come la cima più alta della filosofia, quasi vétta d'altissimo monte che si perde nella maeslii delle nulli, si con- 654 DELLESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. Ma ancora più splendide e più nobili son le parole che su questa tri- niformità dell'essere e sua dipendenza dalla divina Trinila soggiunge lo stesso Rosmini a pag. 190 e igi dello stesso volume: « Per verità ì essere si fa presente all'uomo in una triplice forma, come reale, come idea, come virtù. Ciascuna di queste forme, siccome in suo ultimo termine di attuazione, si riduce nell'infinito Essere. L'uomo quasi in un cotal sogno divino cerca la realità infinita che non trova in natura, ma ben intende che se una realità fosse veramente infinita, con tutte le sue condizioni, ella dovrebbe essere lo stesso essere infinito » (e tale appunto mostrammo poc'anzi essere la prima via per cui si ascende a Dio): « cerca uno scibile infinito che nell'idea egli non ha che in potenza; ma ancora intende del pari che se un oggetto per sé intelligibile fosse veramente ed attualmente infinito, con tutte le sue condizioni, di nuovo non potrebbe esser altro che l'essere infinito: cerca finalmente queW infinito amore che in lui fnel- i'uomo) non è che una capacità d' amare delusa sempre , sempre tradita dalle lusinghe e dalle infedeltà di tutte le cose naturali; ma finalmente, a mente sana, vede quello non esser possibile, se non v'abbia un reale infinito, infinitamente conosciuto, che ne sia loggetto amabilissimo, ed in- tende che un tale termine dell'amore, qualora ci fosse, non potrebbe essere ancora che Tessere stesso infinito, tutto l'essere, tutto il bene. Ciascuna delle tre forme conduce il pensiero allo stesso termine, allidentico essere infinito. E queste tre vie erano indicate dalle tre su mentovate parti della filosofia. Platone sembra aver veduto che ciascuna di esse dovea terminare in Dio, nel quale riconosceva la causa del sussistere, la ragion deU'mtendere, l'ordine del vivere O. Ma chi gliene dava l'accerto? O chi prestava fede alla parola vacillante d'un uomo che confessava d'aspettar un maestro divino che gli rivelasse di tai cose la verità ! E chi, anche tinua col lume superno custodilo nella cristiana creJenza, e <|nesta metlc iu sul capo a quella una augusta e celeste corona » . (I) A questo proposilo ricalca la distinzione delle tre filosofie SanfAgoslino: « Portasse enim qui Platonem caeteris philosophis gentium longe lateque praelalum aculius atque vcracius intel- leiisse alquc secuti esse fama celebriorc laudantur (cioè i filosofi Alessandrini che essendo vivuli ai tempi cristiani poterono interpretare Platone in modo da parlar più vicino alla cristiana dottrina) aliquid (ale de Deo scntiunl ut in ilio invcniatur et Causa subsistendi, et Ratio inlelligendi , et Ordo vivendi. Quorum Irium unum ad Naluralem, alterum ad Rationalem, tertium ad Moralem par- tem intcUigitur pertinere » {De CiAl. Dei, vili, cap. 4\ E anche appresso nel capo 5° parla dei Pla- tonici: e Qui verum Deum et rerum .\uclorem, et vcrilatis lUustratorem , et beatitudinis Largi- torem esse dixerunt » : e di nuovo, capo 9, li loda d'aver conosciuto che Dio et rerum ereatarum sii Effcctor, et Lumen lognoscendarum, et Bonum agendarum. DI GIljSEP^E BUnONI (i55 credendo e intendendo lalto concett-j di Piatone, poteva appagarsi d'un bene di cui gli si rendeva ad un tempo e nota l'esistenza e sentita la pri- vazione:' Poiché quello non era più che un modo negativo e indicativo di conoscer Dio, non un conoscerlo colla percezione, col sentimento, colla frui- zione ». — « E poi sciolto un nodo, un altro ancora più diflìcile usciva: » — « Se quelle tre cose sono tanto differenti, come si riducono ad una? e se si riducono ad una, come appaiono tanto dilFerenti? ». — « La dottrina dunque della TRIMTÀ, la dottrina cioè dell'essere lino e trino, profondamente, in- tieramente scioglie quel problema dallo spirito umano sempre proposto come un enimma a se stesso, vinto non mai, e comunica all'uomo la dot- trina dell'essere in tutte le sue forme. La dottrina duntpie dell' augustis- simo de' misteri discende dal cielo come una cupola d'oro che si colloca in sull'edificio dello scibile naturale, il quale senz'essa resterebbesi disco- perto e patente alle pioggie e a' venti, e l'uomo, anche il fdosofo, sarebbe condannato a vivere mal pago di sé, siccome colui che cerca del con- tinuo quello che non trova giammai. Ecco il soprannaturale della scienza necessario altrettanto che il soprannaturale della vita». Fin qui il Rosmini. 3o4. E a compimento di questa armonia, che ben si sente dover essere tra la ragione e la fede, tra la scienza naturale e filosofica e la sovrannatu- rale e divina, sarebbe da aggiugnere anche questo, come la seconda di quelle divine Persone, il Verbo, siccome quella che tiene una maggiore affinità e pai'entela colla nostra razionale natura (e dicasi pure lo stesso con tutte le menti che in numero e varietà sterminata son seminate per l'universo), dovette più peculiarmente unirsi con noi e farsi via per condurci al Padre comune, egli primogenito noi secondi, e cosi tutto il finito raggiungere all'Infinito, e farlo entrar proprio addentro nel seno della Divinità: con- cetto altissimo che innamora di sé tutte le più alte e capaci intelligenze, onde Dante, seguitando la sua contemplazione della Luce eterna, scrivea : Quella circulazion clic si coDcelta Pareva in Te come lume reflesso, Dagli ocelli miei alquanto circospella. Dentro da se, del suo colore stesso, Mi parve pinta della nostra effige. Perchè il mio viso in lei tutto era messo. {Parati. XXXUI, 127-132); ma ciò sarebbe un fuorvi;ir troppo dall'argomento della Filosofia. (>56 dell'essere e del cono>>cere, ecc. CAPO IV. Del Possest e del possibile eterno antecedente alla creazione. 316. Fin qui abbiamo considerato la creazione nel farsi (leos. Regi-. cap. 3", coroll. 2°; cap. 4°, coroli 2° e 3"; Teos. Prog. cap. 2° e 3°), perchè noi ne percepiamo il fatto, di cui siamo parte e spettatori. Ma essendo ella un fatto non necessario, bensì libero e contingente, innanzi al fai'la (intendo non di tempo, ma di ragione) ci fu certo in Dio il lìoU'rla fare, ed innanzi all'esistere realmente le cose reali, ci fu questo vero eterno che elle |iotesscro esistere. 5oG. Il primo di questi due concetti, cioè il poter farti, con vocabolo, com' io credo, adoprato primamente da Nicolò di Cusa che ne intitolò un suo trialogo O^ io chiamo il l'ossesi eterno per significare che è un Posse fondato suU'isV^, ovvero V Est relativo al Posse. Nel qual senso è vero ciò che scrive il Gioberti ne[Vl?iti-od. , voi. 2°, p. iSg (edizione di Brusselle), che « il possibile presuppone il reale (intendi il Reale infi- nito), perchè senza qualcosa di reale, non si può concepir nulla di pos- sibile » (lasciato per ora l'equivoco che potrebbe annidarsi in quest'ultima proposizione). Comunque sia, è necessario concepire il Possest anterior- mente all'atto della creazione, se non si voglia porre che l'Ente infinito diilluisca necessariamente e totalmente in creazione, che sarebbe concetto panteista. Quantunque vero sia ciò che scrive ancora il Gioberti {ivi) « che Iddio è atto puro, e nella sua attualità semplicissima s' inchiude il suo infinito potere», ed il Cusano parimente mostra che il Possest è una somma attualità; ed i teologi ad una voce insegnano che il Posse di Dio è fondato sull'Elie, ed è, come questo, onnimodo ed infinito, e in Dio non si distingue l'essere, e il potere, e il fare, perchè è atto puro^ nò nulla vi ha in lui di potenziale: pure, relativamente alle cose fatte o (1) Trialogus de possest. .Nell'edizione che io ten^-o delle opere del Cusano , che "e la prima di tulle, falla a Castro Lanzo (se non erro Cortemaggiore presso Piacenza) nel 150-2 dal March. Ro- lando Pallavicini, esso leggesi nella 3* parie del volume, a mezzo del foglio segnalo EE, senza numero di pagine. Ilawi due altre edizioni paginate delle opere del Cusano, l'una di Parigi in Ire tomi se- parali del 151.3, l'altra di Basilea del 1565 in tre tomi in un volume. Nella prima il Irialogo è il dodicesimo opuscolo del tomo 1°, nell'altra ì? l'undecimo parimente del tomo 1°. ni qui trasse Gior- dano Bruno la sua locuzione del posser esser (Op. Ital. Wagner, tom. 1°, pag. 261 e seg.), senonchi- miitonne in gran parte il significalo. Ma di ciò non è ora il caso di ragionare. DI GIUSKPPE BUKOM 65^ create, tra l'esser Dio e il suo fare o creare il mondo è necessario porre il poter fare come fermata intermedia per non diifluire nel panteismo : e questo chiamo il Possest eterno anteriore ali.i creazione. 357. Il secondo poi, cioè il poter essere le cose reali finite, innanzi che fosser create da Dio e fatte esistere realmente, chiamo // possibile ; e lo dico // possibile eterno, perchè fu eternamente vero ch'elle potessero essere (comunque si spieg'ii questo vero eterno che diremo fra poco), avvegnaché comincino o abbiano cominciato a esistere nel tempo. Or questo possi- bile eterno delle cose finite certissimamente precede (non di tempo, dico, ma di ragione] il loro esistere realmente; ed in questo rispetto equivoca troppo perniciosainenle il Gioberti nel luogo citato negando universalmente che il possibile preceda il reale, come di certo la casa ideata dalfarchi- tetto, ed ancor possibile, precede quella costrutta poi da' muratori ('). Il concetto del possibile anteriore alla creazione è il firmamento saldissimo interposto fra Dio e il mondo che guarentisce la libertà del Creatore e la contingenza del creato, e ci difende, come prima dicemmo del Possest, dalla confusione e miscela del panteismo; ed esso è il campo vastissimo delle idee e della verità intelligibile e la salvezza della fdosofia. Quivi è ove stese grand' ala l'ingegno del Rosmini, e ove sta campato l'intiero suo sistema; il quale perciò ai non filosofi pare campato in aria (2). 358. Il possibile s'intende ancora in due sensi: i" nel senso di cosa reale fattibile, e nel caso nostro creabile; il che involge certamente il concetto relativo della causa atta a produrlo: e questa è quella che il Rosmini chiama possibilità seconda, e anche possibilità Jìsica : 2" nel senso di cosa puramente intelligibile, ed è quella che il Rosmini chiama possi- bilità prima, perchè precede all'altra, conciossiachè prima d'essere fattibile una cosa, deve essere intelligibile, e idealmente ben costrutta. In questo secondo senso va inteso il possibile dell'intuito rosminiano ; e il Gioberti, nelle sue obbiezioni contro quello, sempre s' aggira sul primo. 359. Discorre sottilmente, al suo solito, e veramente il Rosmini del pos- (1) Il pani Ionizzare che fa il Gioberti in quelle quattro pagine e altrove ove parla del possibile, mutando del continuo da una linea all'altra il sifjnificalo della parola reale, m'è sempre parso poco degno del suo inijeijno e del suo yran nome. (2) Alrinlutto mancò al Gioberti il concetto del possibile obbiettivo eterno, e fu il difetto pre- cipuo dell'alta sua mente. Per lui il possibile è una trasformazione psicologica del reale [Wi,f. ICO): il triangolo possibile non è che l'impronta rimasa nella mente dall'aver guardato un triangolo reale, staccata che quella sia da questo, e perduta la sua concretezza, facendosi astratta, .avrebbero da con- tentarsene anche i neo— scolastici. Serie lì. Tom. XXX. 83 658 dell'essere e del conoscere, ecc. sibile nel cap. XT della Parte i' del trattalo dell'Idea (Teos. voi. IV, p. 377-388) che vorrehb'esser qui riferito per intiero. Non potendo piiì, ne darò una breve analisi in nota O. Vedi anche del Rosmini il voi. I della Teosofia, p. 352 e seg. CAPO V. Modo d'essere del possibile eterno e de' possibili. 360. Qui s'affaccia l'ardua quistione del modo in cui è da concepire che esista questo possibile eterno, e generalmente come esistano, distinti o no, i possibili innanzi alla creazione. Un recente scrittore originale di teologia (il P. Parchctti Somasco, autore de' due saggi Novae disquisitiones de Deo e Fragmcnta Cosmologiae , Lucani i843-i844)> sempre per quella grande difficoltà che incontra di concepire l'ideale e l'obbiettivo puro che abbiam altra volta notata, e per quel voler dare stalo e consistenza fuor della mente alle cose pensate, altri- menti paiono nulla, venne in questa sentenza, e si sforzò di appoggiarla d'acuti ragionamenti, che i possiljili sieno enti ab etei'iio in sé stanti fuor della Mente di Dio, che egli contempla e conosce perfettamente, verso i quali ha un'infinita onnipotenza di produrli, ma sono distinti da lui (2); (;he sono per sé in uno stato di mera possibilità, privi di quel modo di essere che dicesi esistenza, ma pur sono al loro modo, e sono eternamente veri; e Dio, quelli che gli piace, dona loi'o l'esistenza, come s'esprime il comune linguaggio, creandoli; ma non li produce totalmente dal nulla. (1) Primieramente! nell'.nrt. 1°, per loglier di mezzo yli equivoci, distingue il concetto licW'ente jiossibile da quello deWe/ile ipotetico, con cui lo hanno confuso il Romagnosi, il Mamianied altri lilo- sofi (pag. 378-381;. Poi viene ad esporre nell'ari. ^2" (pag 381 e seg.) la dottrina dell'ente possibile; e mostrata la diiricoltà di un tale concetto, die è una di quelle cose die Aristotele dicea le più manifeste secondo natura, e le più occulte all'uomo, cioè piii oscure alla riflessione del filosofo, osserva fra gli altri punti; 1° che nel concetto di ente possibile si contiene l'essere, il quale non è già possibile, ma assolutamente è (nel modo ideale); e perciò cbe l'ente possibile ha per sua base ciò che non è meramente possibile, ma che assolutamente e; con che cade l'antinomia che si fon- dava sul nudo concetto di possibilità escludente l'esistenza: 2° che l'essere, il quale forma la base dell'ente possibile, dicesi ente possibile in quanto contiene virtualmente i suoi termini; il che non è propriamente un poter esser esso medesimo, ma un poter avere quei termini, o più veramente un poterli attuare, come la luce attua 1 diversi colori. {'ì) Con che il Parchctti venne a rinnovare la sentenza già attribuita a Platone delle idee-sostanze fuor della Mente di Dio. Questa stessa diUicoltà e questo errore nolamum principalmente in due filosofi tedeschi, primamente nello Stallbaum (lib. 4°, cap. 14, § 1), e ultimamente nello Steinhart (nota (5 alle epigrafi del libro 5°) a proposito delle idee di Platone, le quali il primo vuole che abbiano externam veritalem extra metitem ipsam, e l'altro le chiamò obiectiire Realitdten utid Krafle. DI GIUSEPPE DURONI 669 perchè già erano possihi/H^ . ove il fh. Autore inciampa pine in quella diifì- coltà che abbiamo Ira Itala in tutto il libro 3" di concepire la natura della sintesi la quale ha questo di proprio di essere creativa del proprio subbietto. Una tale sentenza è certamente lalsa e ripudiabile. Nondimeno, poiché anche il Rosmini parla più volte di questo scrittore che egli chiama un forte ingegno, per es. nella Teosofia voi. \° , p. 35'j e seg., ed in più altri luoghi della stess'opera ; perciò stimo bene di dare qui un cenno delle ragioni prò e contro di una tale dottrina. 561. Le ragioni con le quali l'autore suddetto studiasi di confortare la propria sentenza, massime nei suoi Fì'agmenla Cosmologiae, pag. 5o e seg., sono queste: 1° Tutti, volgari e Tdosofi, distinguono tra cose possibili e cose esi- stenti. Dicono che Dio, prima di crearle, lasciò le cose nello stato di puì'a possibilità; creando avei- egli dato l'esistenza agli enti, e poter di nuovo riduì're le cose che sono allo stato primitivo, cioè allo stato di meramente possibili. Con questa maniera di parlare (e non è possibile parlare altrimenti né volgari, né filosofi) tutti professano , sforzandoli la forza stessa della Verità, che i possibili, considerati in se stessi, nella lor natura primitiva di possibili, son cose, sostanze, enti; V esistenza essere un modo di essere cui gli enti hanno talvolta e talvolta non hanno, ma, o l'abbiano o non l'abbiano, nondimeno sono enti, sostanze, cose. Che se i possibili fossero assolutamente nulla, fuorché idee, non sarebbero cose; sarebbero l'assoluto Bulla tanto di essenza quanto di esistenza. Dire i possibili o le cose possibili, questo o quello è possibile, non farebbe buon costrutto ; poiché dicendo tal cosa è possibile, sarebbe come dire lai nulla è, unendo Cessere al nulla, il che involge contraddizione. Similmente non potrebbesi dire: Dio dà l'esistenza ai possibili, poiché sarebbe come dire Dio dà resistenza ai nulla. Eppuie nelle sante scritture si dice che Dio chiama le cose che non sono come quelle che sono (yocat ea quae non sunt, tamquam ea quae sunt)e soggiunge che i .secoli (gli eo/zi) furono per la parola di Dio da invisibili fatti visibili. Non è egli dunque manifesto che si suppone con tutto ciò che i possi!)ili abbiano il loro modo di realità propria al pari delle cose esistenti, quelli invisibili, questi visibili.' Dimque i pos- sibili sono qualcosa di reale, e non si devono reputare per alFatto nulla. (I) Queste cose egli discorre parte nelle Novae disquisitianes de Deo, lib. 2°, cap. 1 (p. 209-228) e più (Il proposilo nei Fragmeiitu Cosmologiae, cap. 1 e -ì (p. 9-53) e nella Disserl. I (p. 151-180). 66o DELL ESSERK E DEF, COKOSCEIIE, ECC. 2" Iddio conosce e comprende colla sua scienza infinita tutti i pos- sibili (almeno i possibili primi); oppure, come altri aman dire più accu- ratamente, egli ha le idee archetipe ed esemplari dei possibili. Ora a tali idee divine deve corrispondere qualche oggetto, altrimenti sarebbero al tutto chimeriche. Or qual è X oggetto di tali idee? Cose realmente esi- stenti, no, perchè non esistono. Dir che oggetto di tali idee sieno le idee, neppure, altrimenti metleremmo idee di idee in infinito. Se oggetto di tali idee fosse afllitto il nulla, ne seguirebbe l'annichilamento della scienza divina, scienza di nulla. Dunque è necessario porre che oggetto di tali idee siano i possibili, e questi sieno qualcosa nel loro stato di possibilità. 3° Ma se i possibili fossero affatto nulla ne seguirebbe ancora l'anni- chilamento dell'onnipotenza divina. Perocché dire che Iddio può tutti i possibili, sarebbe lo stesso che dire che Dio può nulla, se i possibili fuori di Dio fossero il nulla assoluto. 4" Seguirebbe anche l'annichilamento del concetto di creazione; op- pure non resterebbe altro che una creazione panteistica. Perocché che cosa é la creazione .' E un atto per cui Dio dona l'esistenza ai possibili. La creazione attivamente considerata è la stessa divina essenza; intorno a ciò non vi è dillicoltà. Tutta la diflicoltà sta a vedere ciò che sia la creazione considerata passivamente. Cioè si domanda: Qual è il soggetto della creazione passiva? Che cosa è che vien creato? Nella tua ipotesi che non vi sieno altro che le idee divine in Dio, e fuor di Dio il nulla, è da dire una di queste due cose: O si dirà che soggetto della creazione sia il nulla assoluto, ed é contraddizione maniiestissima, perché del nulla assoluto né si dà azione, né passione, né nome qualunque ; o si dirà che soggetto della creazione sieno le stesse idee divine ; e si porrà con ciò passione e passività in ciò che è atfatto inmiutabile. Perocché tutto ciò che é in Dio, é Dio; e le idee divine sono Io stesso Dio, il quale non ammette alcuno sialo di possibilità né alcuna possibilità di mutazione. Ora la creazione o fazione di Dio sulle proprie idee indurrebbe neces- sariamente Io svolgimento di un nuovo stato di quelle, e quindi il pas- saggio dai possibile all'esistenza nella stessa divina essenza; che è del tutto assurdo. Inoltre se l'onnipotenza creatrice dona alle idee divine una esistenza sensibile e materiale fuori di Dio, tutto ciò che esiste sarebbe lo stesso Dio, ed eccoci in pieno spinosismo. E dunque manilésto, che, in qualsiasi modo si prenda, il sistema che pone i possibili esseve formalmente in Dio, cade necessariamente nel panteismo. DI GIUSEPPE BL'ROM 66 f Perocché o sieno essi le stesse idee divine, o sieno distinte dalle idee divine, ma. formalmente esistenti nello stesso Dio, e non veri enti fuori di Dio, in amendue i modi non puoi scampare dal panteismo ; perocché mentre essi vengono ad esistere fuori di Dio per la creazione, sarà lo stesso Dio che viene ad acquistare l'esistenza fuori di sé, e tutto ciò che esiste sarà Io stesso Dio. 5° Inoltre se tu neghi che le essenze de' possibili sieno per sé stanti fuori di Dio indipendentemente e anteriormente alla creazione, verrai a negare ogni verità eterna intorno ad essi, e incorrerai nella sentenza di Cartesio che fa dipendente dall'arbitraria volontà di Dio ogni verità. 6° Adunque non vi è altra via di uscita da questo viluppo di dififi- coltà, che di porre che vi sieno due modi di essere delle cose: duo re- rum modi essendi; l'uno di attuale esistenza, l'altro di pura possibilità; e che si dà passaggio dall'uno all'altro. Lo stato di esistenza reale è accidentale e variabile e dipende allatto dalla volontà e potestà liberissima di Dio; ma l'essenza prima della cosa si può pensare senza l'esistenza reale, ed è sempiterna, e non ha nulla di comune con Dio, ed é al tutto indipendente dalla divina onnipotenza e scienza e da qualsiasi divino attributo, quantunque Iddio ha essenzialmente un potere sugli stessi pos- .sibili, e conosce che sono; ma li conosce perché già sono in se stessi, ma non li costituisce. •^° Si domanderà: dunque questi possibili sono enti a sé? L'Autore di cui discorriamo distingue così: se per ente a sé s'intende ciò che ha l'esistenza a sé, non sono enti a sé, perchè è solo Dio che sia VEnte a sé. Ma come possibili, niente ripugna di dire che sono enti a sé, affatto indipendenti da Dio: « Insolens, at non assurdum est vocare possibilia entia « a se, quatenus sunt in possibilitate ab aeterno, et independenter a causa » quacumque. Cum de Deo dicitur esse Ens a se, intelligitur esse existens a » se. Nescio cur quis abhorreat a concipiendis possibilibus ab aeterno; cum » ita scientia et omnipotentia divina habeat et habere concipiatur subiecta » et obiecta attributorum suorum [Fragm. Cosm., loc. cit., p. 28, nota z). E ciò basti per la esposizione e dimostrazione del sistema suddetto. 302. Ma dal punto stesso a cui pervenne la deduzione del sistema medesimo si fa manifesta la sua assurdità, e che tutto è fondato sopra equivocazioni. È assurdo il dire che i possibili nello stato di pura possibilità sieno enti a sé indipendenti da Dio. Perocché intanto i possibili sono possibili 552 DELL ESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. in quanto che Dio // può, siccome gli enti fatti son l'atti, in quanto che Dio li fa: dunque anche Tessere che hanno di possibili è dipendente da Dio, e suona affatto male il dirli entia a se. Ed anche la ragione dei conoscibili dipende da Dio come da ragione prima dell'ente, ed è affatto giusta la formola di San Tommaso : Deus cognoscendo se , consequenter cognoscit alia a se; ma se stesso conosce per sé e primariamente, le altre cose diverse da sé, o reali o possibili, le conosce secondariamente e conseguentemente {e. Geni., lib. i", cap. 4' e seg ). 2° Se i possibili fossero per sé conoscibili e per sé enti, converrebbe porre in Dio un duplice atto formale di scienza, l'uno con cui conosce se stesso, l'altro con cui conosce i possibili, ed anzi tanti atti quanti sono essi possibili, perocché non più sarebbero inchiusi sotto una sola principal ragione di tutti. Seguirebbe anche che la scienza divina sarebbe causata da essi possibili, e non avrebbe più luogo a riguardo di loro il detto di Agostino ideo sunt quia iwvit, ma l'altro ideo Jiovit quia sunt. Inoltre, se i possibili esistessero da sé da una parte, la mente eterna dal- l'altra, non si saprebbe spiegare onde nasca la relazione di cognizione tra questa e quelH; perocché il principio di una tal relazione dovreblie porsi o nell'una o negli altri. Finalmente, se si pone in Dio come necessaria la relazione conoscitiva verso i possibili, e questi sieno per sé fuori di Dio e da Dio indipendenti, ne seguirebbe che l'essenza divina fosse un certo che relativo ai possibili e un certo che d'incompleto che avesse bisogno di venire integrata da quelli; il che equivarrebbe a un adottare nell'or- dine ideale la relatività di Dio verso le cose finite al modo di Cousin. 3° Nel modo che della scienza divina, si può ragionar anco della divina onnipotenza. Se i possibili son tali da sé e per sé, qual ragione si può dare della relazione che passa tra loro e l'onnipotenza di Dio, sicché quella sia a questi proporzionala? Forse una tal relazione é casuale? Ma qual assurdo più assurdo che di porre il casuale nell'eterno e nel neces- sario? Che se si debbe poter assegnare una ragione eterna di questa relazione, o questa si troverà in un ente superiore a Dio e ai possibili , che li abbia così coordinati, e ciò è contro l'ipotesi; oppure si metterà una tal ragione nell'una delle due parti, cioè o in Dio o nei possibili. Ciò dato, chi non vede esser giusto di porre la ragione di tal relazione in Dio, talché questo si debba concepire come la ragioìie de' possibili? E così dunque é da dire necessariamente. Per la qual cosa non ponno dirsi i possibili, come tali, indipendenti da Dio. UI GIUSEPPE BURONI 663 Inoltre, se i possibili fossero etili per sé indipendentemente da Dio, perchè sarebbero dessi di lor natura soggetti alla divina onnipotenza per esser tratti all'esistenza? Questa subordinazione non la ponno avere da sé, perocché involge contraddizione l'essere una natura indipendente, ed esser tutta nata ad esser soggetta all'altrui potestà. Dunque questa natu- rale subordinazione debbono averla avuta da altro, e perciò ripugna che sieno una natura per se indipendente. Arrogi, che se i possibili fo.ssero enti a sé e per sé come tali, dovreb- bero essere anche come tali immutabili, e perciò non potrebbero subire una tanta mutazione qual è questa di esser fatti passare dallo stato di non-esistenza allo stato di esistenza, e viceversa dallo stato di esistenza a quello di non esistenza o di pura possibilità. Il che è contro l'ipotesi. Onde ci pare la sentenza del Tarchetti involga contraddizioni da ogni lato. 4° Le addotte ragioni già provano che i possibili , dato pure che esistessero in se stessi fuori di Dio e distinti da quello, come suppone la sentenza che esaminiamo, dovrebbero ad ogni modo mettersi da Dio di- pendenti. Ma è da dir di più che è onninamente falso che sussistano ab eterno fuori di Dio per nissun modo in quello stato di possibilità che s'immagina l'autore suddetto. Perocché in tale loro stato di possibilità, o si pone che ci furono tirati dal nulla, o che siano emanati dalla divina sostanza, avendo escluso già prima che ci sieno per sé medesimi. Se si pone il primo, si ottiene il proposito che l'autore non voleva ammettere, cioè il concetto di una vera produzione dei possibili dal nulla assoluto: e perciò rovina il fine per cui quella ipotesi era stata sottilmente escogitata. Se si ammette il secondo, si ricade nel panteismo che volevasi evitare. Perocché , essendo gli stessi possibili que' che diventano esistenti per creazione, ne seguirebbe che subbietto della creazione sarebbe la stessa sostanza divina, e le cose esistenti e sensibili sarebbero la divina sostanza passata a stato di esistenza. Ed altri molti assurdi che seguono da questa opinione, e la dimo- strano mal costrutta e non accettabile. 383. Ma onde è nata dunque una tale sentenza, e le ragioni che paiono confortarla? Ella è tutta fondala, come dissi da principio di questo capo, sopra equivocazioni e illusioni dialettiche, per non conoscere sì la natura della sintesi o del giudizio sintetico, s'i la natura e forza della cognizione obbiettiva. 554 dell'essere k, del conoscere, ecc. 504. — 1° Per ciò che spelta alla natura della sintesi e del giudizio sintetico è da ricordare che in qualunque giudizio sintetico, come notammo più volte (vedi, per es., lib. 3°, cap. 2° e seg.), il soggetto, in quanto tale, tutto ciò che è in quanto soggetto, lo è pel predicato, come la materia per la forma. Onde, se si supponga un soggetto il quale in se stesso non abbia niente più se non se ciò che è in ragion di soggetto, esso non esisterà altrimenti che a patto di avere il predicalo, ed in virlìi dello stesso predicato. Ora nella sintesi cose esistenti {ivs existentes), tutto ciò che è il subbietto cose, lo è pel predicato di esistenti. Onde, tolta l'esi- stenza, niente più alliilto avanza del subbietto cose, ma totalmente peri- scono; e perciò le sostanze creale, prescindendo dalla creazione, non sono per nissun modo. Senonchè la mente nostra, per la virtù analitica di cui è fornita, divide (mentalmente) il soggetto dal predicato, e quello riguarda in sé e per sé, quantunque per sé non possa stare, perocché non sarà mai che si abbia il soggetto di tal giudizio senza il predicato. Ora il soggetto riguardato così dalla mente disgiuntamente dal predicato, si concepisce come una potenza ad avere il predicato, e perciò appar di ragione e concetto pre- cedente il predicato: perocché anche nel giudizio già formato il soggetto è potenza avente il predicato (vedi sopra, lib. 3", num. i4o e seg.). Simil- mente adunque nella sintesi ci'eativa cose create o cose esistenti, la mente considera la cosa o sostanza che si crea, divisamente e antecedentemente dal predicalo della esistenza già avuta, e così foi'ma la nozione della cosa o sostanza possibile e creabile. Ma pur, questa cosa o sostanza, fuor della mente non esiste per niun modo, e non esisterà se non se nell'atto che avrà l'esistenza subbiettiva in se stessa; ed il considerarla come già esistente in se stessa qual cosa possibile, non é altro che illusione dialettica, nella qual cadde il Parchetti, dicendo che i possibili stanno in sé fuor della mente nello stato di possibilità come meramente possibili. E tanto è vero che quella cosa o sostanza, la qual si concepisce come soggetto della creazione e della esistenza, non esiste per niun modo se non sia stata elFettivamente creata ed abbia in atto il predicato dell'esi- stenza, ed in virtù della stessa esistenza, che nemmen dalla mente essa è pensabile se non per l'essere, perocché é impossibile pensar co.sa e sostanza, e non pensarla come ente, cioè come sintesi di cosa-ente, e perciò lo stesso autore i possibili li chiama enti. Ma in questo caso la sintesi é già fatta; se non che è fatta sol nella mente e non fuori di DI Giu.sr:ppH; buroni 665 essa, ma pure il subbietto sostanza resta entificato nella mente, e non fuori di essa. Onde appare che l'equivocazione, su cui si fonda l'opinione suddetta, consiste in ciò di credere che la sostanza della cosa possibile, la qual vien pensata dalla mente previamente all'esistenza attuale, esista anche in se stessa prima di esser creata, il che è assurdo. La maniera poi di parlare colla quale si dice: Dio dà l esistenza alle cose che ancor non esistono, ed altre simili, sul che si fondava la prima ragione dell'autore (vedi qui innanzi, num. 36 1, i"), son vere bensì: ma non soli vere nel senso inteso dall'autore, che le cose non ancor create stieno come lì innanzi la creazione aspettando la creazione stessa come soggetti possibili all'esistenza; ma solo in quanto che si pensano come soggetto con priorità logica di concetto inverso al predicato. Quindi non è da dire, come obbiettava ancor l'autore (ivi, 2°, 3°, 4°), che se le cose possibili fossero affatto nulla, ne seguirebbe che il nulla fosse l'oggetto della scienza ed onnipotenza divina ed il soggetto della creazione passiva. No: il soggetto della creazione passiva è Ja stessa cosa che vien creata, ma nell'atto stesso che vien creata, e non prmia; onde la cosa che vien creata non esiste come soggetto se non in senso composto e sintetico colla stessa creazione. Come poi non il nulla ma i possibili sieno l'oggetto della scienza divina ed il termine della divina onnipotenza, entro a spiegarlo or ora dicendo la natura della conoscenza obbiettiva. 3(jo. — 2° E tanto più si fa palese l'equivocazione se si attenda la miste- riosa ma vera natura della cognizione obbiettiva. Perocché la mente, per mezzo della cognizione obbiettiva e delle idee obbiettive, pensa bensì gli oggetti distinti da se stessa, ma non è necessario che gli oggetti pensati esistano già in se stessi soggettivamente fuor della stessa mente ; il che è difficile da intendere, ma pur vero. Perocché, se una cosa è pensata totalmente come oggetto, e non ancor come soggetto in sé, cioè se esiste solo og- gettivamente alla mente pensante, e non soggettivamente in se stessa (vedi la relazione di oggetto e soggetto nel lib. i, n. 27 e seg.), consegue che essa esiste solo nella mente e per la mente; ma pure nella mente e per la mente oggettivante, la quale, per la virtù dell'obbieltivazione, distingue l'oggetto da se stessa. Quindi il soggetto della creazione passiva non sono le idee stesse di- vine, come obbiettava l'autore, ma sono gli oggetti esemplati e obbietti- vati e contemplati nelle stesse idee, come l'architetto non edifica il disegno Serie li. Tom. XXX. 84 -666 DF.I.I.'knSERE F. dei, CO^OSCERE, ECC. che nella mente concepì della casa, ma la casa obbiettivata in quel di- segno. Ma questi obbietti non esistono per sé fuor della mente di Dio e indipendentemente da quella, ma son sostentati come obbietti nella mente e per la stessa mente. E questi obbietti sono il termine a cui si riferisce 1 onniscienza ed onnipotenza di Dio. 360. Rifiutata pertanto la sentenza suddetta, la qual ci pare insoste- nibile, è da dire col Rosmini e con S. Tommaso (i, q. i4, art. 9 e 12) che i possibili non hanno che il puro modo di esistere obbiettivo nella Mente eterna di Dio coinpai'ante essentiam- suain ad res , secondo l'e- spressione più sopra adoperata da S. Tommaso: e secondo che riguarda alla sua infinita potenza, li vede come fattibili o creabili; e secondo che riguarda alla sua infinita essenza per sé vera e intelligibile, li conosce come enti intelligibili. Il qnal modo d'esistere obbiettivo credo che non possa piiì essere dubbio né oscuro dopo le cose ragionate fin qui in questo scritto. o(}7. Di qui nasce la quistione se i possibili infiniti sieno conosciuti da Dio distintamente : ossia, sieno distinti dinanzi alla JMente di lui in quel modo d essere obbiettivo che dicevamo. Tratta una tal quistione il Rosmini nel Rimiovamento,^. Q>i^ e seg., ove sceglie di dire che sieno conosciuti da Dio solo virtualmente e indistintamente. La sua sentenza è ben chia- rita e confortata di buone ragioni; ma, senza decidermi per ora, panni di poterla lasciare come quistione piij spettante alla scienza di Dio, che al conoscere nostro, e che basti averla accennata. Dirò solo che quella ragione, che il Rosmini trae dall'impossibilità del numero infanto, non ha valore, perchè, quantunque i possibili infiniti stessero distinti dinanzi alla Mente di Dio, non sarebbero numerati (cioè unus post alium, nel che consiste la propria natura del numero), ma simultanei e veduti uno intuitu, onde l'assurdo del numero infinito non seguirebbe punto 0\ 508. La creazione dunque, libera nel farsi, pure ha un fondamento eterno necessario nell Ente quanto al potersi fare: e l'Ente, conoscendo se stesso e la sua infinita potenza, produce ab eterno, concependolo nel Verbo, il possibile, che è l'alli'o dell'essere e l'allro delle idee, che restava a cercare, secondo che dicevamo al libro 4°i capo 4°- (1) Molte belle cose dice .sul teaia di questo nostro capitolo il Cusano in quel suo trialogus de jinssesl. Per esempio queste: « Cam igitur haec sic se liabeant, quod Deus sit absolule potentia et aclus atque utriusque nexus, et ideo sit actu omne possibile esse; patet ipsum complicite omnia DI GIUSEPPE BURONI 66"^ CAPO VI. Delle ragioni eterne e delle idee divine. 509. In quella regione superna del Possest e del possibile eterno an- tecedente alla creazione, che si apre dinanzi alla Mente di Dio, ha inizio e fondamento il mondo delle ragioni eterne e delle idee divine, delle quali il nostro conoscere è una partecipazione obbiettiva per mo' d'intuito, ma molto limitata e relativa, nel modo che fu spiegato nel libro quarto dell Ideazione e delle Idee. Dove noterò, che anche nei tempi della mag- gior decadenza degh studii filosofici, questa trattazione delle Idee divine, che è la parte più vitale del Platonismo, fu sempre tenuta viva nella teologia cristiana, mercè le sul)limi considerazioni di Sant'Agostino e di San Tommaso d'Aquino, il quale in questo punto è schiettamente pla- tonico; onde la teologia fu la sola che conservò il fuoco sacro delia vera tradizione filosofica. f37U. La distinzione che pongo fra ragioni e idee divine è fondata sul- l'art. 3 della quistione xv de Ideis nella prima parte della Somma teo- logica di S. Tommaso, che potreblje esser qui intieramente riferito. Anche le idee sono ragioni, secondo che definisce S. Agostino: Ideae sunt rationes in mente divina existentes. Ma idee si chiamano più specificatamente quelle ragioni nella Mente di Dio che si rilériscono alle cose che fanno pai-te dell'universo creato in qualche luogo e tempo, (juae fuerunt vel sunt vel erunt, e l'insieme di queste idee costituisce l'Esemplare del mondo; e come Iddio crea le cose conoscendole, così le idee son ra"ioni fattive esemplari de' reali. Ragioni semplicemente si chiamano quelle che si riferiscono a' meri possibili che non vengono realizzati in nissun momento del tempo. Siccome dice l'Angelico: u Idea secundum quod exemplar est, » seu secundum quod est pvincipium factionis rerum, secundum hoc se » habet ad omnia quae a Deo fiunt secundum aliquod tempus: secundum » vero quod principium cognoscilivum est, se habet ad omnia quae cogno- » scuntur a Deo, etiamsi nullo tempore fiant » (loc. cit.). E però nella esse. Omnia cnim quaecamque sunt aiit esse possunt, in ipso principio complicantur , et quaecumque creata sunt aut creabunlur, explicantur ab ipso in quo complicile sunt » . Ma queste ultime parole dell'eminentissimo e dottissimo cardinale accennano alla misteriosa quistione dell'esistenza eminente delle cose in Dio che dicono i leoloi;i, intorno alla quale diremo ancora una parola nel sey. cap. 7. 668 dki.l'ksskre e del conoscere, ecc. risposta alla 2" obbiezione dice; « Ad secundum dicendum quod eoruni » quae ncque sunt, neque eriint, neque fuerunt, Deus non habet practi- » cam cognitionem, nisi viriate tantum. Unde respectu eorum non est » idea in Deo secundum quod idea significai cxemplar, sed solum secun- » dum quod significai vadoncm ». 371. Le idee che noi abbiam delle cose ci danno esse cose nella loro eterna possibilità, e la realtà rapprendiamo limitalaniente secondo la per- cezione che ne prendiamo dalle loro azioni su noi. Perciò è da dire che noi partecipiamo colla mente le idee divine in quanto sono ragioni manife- statile, e non in quanto sono idee fattive : solo diventano, direbbesi, idee coniugale col fallo della realità anche dinanzi alla nostra mente nella sintesi percettiva de' reali, ma senza che vediamo il nesso creativo tra esse idee e le cose reali. In ciò, le idee, in quanto noi le partecipiamo, sono inferiori alle idee divine, che le idee in Dio contengono anche la realità delle cose esistenti, le partecipate da noi non la contengono come realità, ma solo la mostrano. Sopra di che ragionammo lungamente nei capi ly e 18 del libro 4- o72. Le idee, come fattive delle cose ed esemplari, non esistono in Dio se non in senso composito colla creazione attuale, e non ab eterno ne- cessariamente: onde l'ideazione propriamente delta è libera in Dio come la creazione. Ecco la ragione per cui da Platone nel x della Repubblica poterono dirsi create le slesse idee O. Ma a noi, che abbiamo dalla rive- lazione la notizia del Verbo, par meglio di dire che non già vengono create, ma sol divisale nel Verbo dalla mente di Dio, e non sono create ;i; l'aria di questo luogo di Platoae il Itosmini aeW'Arist. Esani., paj,'. 272: « Vediamo che cosa deve avere l'idea dell'essere, acciocché esista, cioè sia veramente essere. Egli e chiaro che deve avere in sé tutto ciò che è veramente essere, perchè all'essere non può mancare, essendo perlettamente uno e semplice, nessuna porzione dell'essere; dee dunque aver tulle le idee, poiché, come ahbiamo vedulo, sotto il nome d'idee Platone intende Tessere slesso delle cose, non le loro similitudini, ima- gini ed ombre (Vedi quel che dicemmo anche noi più sopra, lib. 4, capo 1 e seg.). Il che intende quando nel Fedro dice (pag. 249 C) che — Dio e divino perchè è colle idee — . Infatti contenendo le idee lo stesso essere obbiettivo. Iddio non sarebbe Dio, se non avesse in qualche modo tutte le idee, cioè ogni porzione dell'essere. E dico in qualche modo, perchè niente vieta che egli le abbia, non già in modo confuso e indeterminato, ma indistinte tra loro. Onde poi, distinguendole all'occasione di creare il mondo, si dicono da lui creale, come nel X della Repubblica, benché io intenda questo delle sole idee del mondo, ecc. ». Ma nella Teosofia, voi. 3, pag. 153, riflette che a questa specie di creazione delle idee Platone presupponeva una materia ideale che è l'essere, il quale, come vedemmo nel libro 4, è il fondo di tutte le idee. Ecco le parole del Rosmini notabili: « Platone stesso stabilisce una materia ideale, e DI GIUSEPPE BURONl 669 veramente, ma piuttosto creatrici delle cose. Nella qual parte della Teo- logia cattolica è dove trovò la sua piena dilucidazione la stupenda teorica Platonica delle idee, e la quistione della loro natura ('). Non potendo io esporla in questi estremi del lavoro, indicherò gli elementi per farla, che sono il bel discorso che ne fa lo Stallljauin nei Prolegomeni al Parme- nide di Platone, p. 266-268; 269-274, e il compendio che ne fece già l'autore delle cit. Noz. d'Ont. nell'Appendice al cap. 3°, pag. 91-103. Ma gran lume si trarrà dal fdosolò cristiano , e però platonico perfetto, San Tommaso d'Aquino, nei capi 49-55 del libro 1° e. Genles, e nei capi i i-i3 del libro 4°j e nella questione De Ideis tra le disputate De Feritale, ai quali luoghi mando il lettore. 375. Un'ultima quistione intorno alle idee divine si è l'ordine di priorità o posteriorità che esse tengono verso le cose create. A prima giunta parrebbe che, se esse diconsi creatrici delle cose, non possano dirsi altro che antecedenti a quelle. E poi le idee diconsi eterne, e non le cose; dunque quelle devono porsi antecedenti a queste. E tali sono senza dubbio quanto al principio ideatore che è la mente stessa eterna e creativa di Dio. Nondimeno è anche da considerarsi che per un'altra parte la moltipli- cità delie idee in Dio , non essendo subbiettiva e incidente alla sua mente, che ne altererebbe la somma semplicità, non si può altramente ripetere che dalla moltiplicità dei termini che son le cose create. E questo è ciò che sostiene il Rosmini, e per quanto pare a me (contro quel che me ne parve altra volta), consente con lui San Tommaso. Ecco dell'uno e dell'altro le parole: 374, Il Rosmini così si esprime nel voi. 5° della Teosofia, pag. 128 (2); « Che le cose create hanno incominciato e soggiacciono al tempo, e nel libro decimo della Repubblica la le essenze ideali create dal pensiero di Dio. Questa materia ideale, che è certamente Vessere universale , non è il Dio di Platone , ma è, dirò così , un elemento del suo Dio (Vedi qui addietro Tensopa regressiva, cap. 1-5). . . 11 difficile era conciliare queste due cose del pari evidenti: 1° che le esseuze ideali e universali sono eterne: 2° e che sussistessero. Era il mistero della ragione. Ne mai la filosofia potè vincerlo intieramente fino a che non le fu spiegato dalla rivelazione (colla piena dottrina della Mente e del Verbo). Platone per riuscire a sciogliere un tal problema fece lo sforzo maggiore che mai facesse e forse potesse fare umana intelligenza, ecc. ». (1) Vedi del Rosmini la nota precedente. (2) Ma ancora più ex-professo ne discorre nel voi. \" della Teosofia, lib. 2", sess. 4% capo 5°^ art. 8°, che qui non riferisco, perchè di questo primo volume della Teosofia del Rosmini diedi già più ampio ragguaglio nelle mie Nozioni ili Ontologia. Sto dell'essere e del conoscere, ecc. i concetti sono eterni, verissimo. Ma ciò non toglie l'esposta teoria. I con- cetti hanno in sé due elementi: l'essere ideale, e le limitazioni di questo. L'essere ideale è eterno per se stesso. Le sue limitazioni sono poste dal- l'atto creatore, il quale pure è eterno; e perciò anche le limitazioni dei concetti sono eterne di una eternità dipendente dall'alto creatore. Le cose poi soggiacciono al tempo, ed hanno incomincialo, è ancor verissimo, e in questo modo di vedere relativo elleno sono posteriori ai concetti. Ma se si considera la cosa secondo il pensare assoluto, è da dirsi che il tempo, e il principio, il progresso, il fine delle cose sono condizioni relative alle cose stesse fra loro, e non relative all'atto creatore: rispetto al quale le cose tutte sono nel mondo metafisico, e però sono eternamente presenti all'atto creatore, e così involgono una relazione eterna colTessere ideale, la qual relazione determina quelli che noi chiamiamo concetti o idee limi- tate di esse. Onde in questa veduta ontologica i concetti sono logicamente e non cronologicamente posteriori alle cose create, non in quanto le cose sono in se stesse, ma nel loro essere nel mondo metafisico. E quest'è la vera maniera di spiegare come Dio con un atto solo e semplicissimo conosca tutte le cose, senza porre divisione alcuna nel suo pensiero, poiché la relazione che il suo pensiero ha colla moltiplicità delle cose non reca pluralità nel suo pensiero; questa pluralità si rimane nelle cose che sono il termine molteplice della relazione, il cui altro termine è il pensiero semplicissimo di Dio creante; onde la relazione fra quelle e questo è mol- teplice da parte di quelle, e non da parte di questo n. òli. Ed il medesimo dice anche San Tommaso, come osserva lo stesso Rosmini in questo medesimo luogo; « Chi attentamente considera la dottrina di San Tommaso circa la semplicità dell'atto creativo di Dio, chi considera le proprie parole del Santo Dottore in que' luoghi, dove più chiaramente ed espressamente ma- nifesta la sua opinione, dove dalla forza dell'obbiezione è costretto a ma- nifestarla, vedrà che egli non è lontano dalla teoria da noi esposta. Egli riconosce che la moltiplicità delle idee divine altro non è che la molti- plicità dei rispetti che la sua essenza viene ad avere colle cose create, e che questa moltiplicità é prodotta dall'atto della sua intelligenza col quale atto riferisce la sua essenza alle cose: Huiusmodi respectus, dice egli, qulbus raulliplicaiilur ideae iion causantuv a rebus, sed ab intelleclu divino compa- ranle essentiam suam ad res (S. I, xv, art. 2, ad 3'"). Se dunque le idee, cioè i concetti, nascono dal paragonare che fa l'intelletto divino la DI GIUSEPPE DURONI 6^1 propria essenza alle cose; dunque essi sono logicamente posteriori alle cose, perchè i termini della comparazione precedono logicamente la com- parazione medesima. Insegna ancora lo stesso Dottore Angelico, che tali rispetti fra Tunica essenza divina e le cose in Dio reali, ma solo come intesi, come oggetti del suo atto intellettivo, respeclus mulliplicaiiles ideas, non sunt in rebus creatis, sed in Deo : non tamen siint rcales respeclus, sicut illi, quibus distinguuntur personae, sed respectus intellccll a Deo (Ivi, ad 4'°)- Questi rispetti o relazioni che l'essenza di Dio ha colle cose, e che costitui- scono le idee limitate, o concetti, sono dunque Voggetto dell'atto intellettivo, non sono lo stesso atto intellettivo divino, che è semplicissimo. Come poi l'essere tali rispetti oggetti del conoscere divino non ripugni alla semplicità del divino conoscere e della divina essenza, cos'i S. Tommaso lo spiega in modo del tutto coerente a quello che noi esponemmo : Hoc autem quo- modo di\'inae simplicitati non repugnet, facile est videre, si quis consi- deret, ideam operati esse in nientern operantis, sicut quod intelligitur, non autem sicut species. qua intelligitur, quae est forma faciens intellectum in actu. Forma enini donuis in mente aedificatoris est aliquid ab eo intellectum, ad cuius similitudinem domum in materia format. Non est autem contra simplicitatem divini intellectus, quod miilla intelligat; sed cantra simplicitatem eius esset, si per plures species eius intellectus for- ntaretu?- (S.l, x\, 2)(^). Il che è quanto dire: — le cose conosciute pos- sono avere una pluralità, ma l'atto che lo conosce può esser unico — . Ottimamente: questo è quello che vogliamo noi. Ma questa pluralità che si conosce nelle cose conosciute è ella vera ! ossia, come si dice nel lin- guaggio delle scuole, è ella reale, o no ? Certamente deve essere reale, le cose conosciute sono realmente distinte. Ma queste cose conosciute, realmente distinte, dove sono? In Dio non ponno essere realmente distinte, il che porterebbe pluralità nella sua natura. Dunque sono distinte in se stesse. Ma in se stesse le cose quando esistono? Non prima che sieno create. Poiché se esistessero degli oggetti non creati realmente distinti fra loro, queste reali distinzioni non potrebbero trovarsi che in Dio, a meno che non si ricorresse al sistema platonico, che ammetteva le idee eterne fuori di Dio. sistema giustamente riprovato da San Tommaso (S. I, xv, i, ad i"), e a lungo confutato dal P. Ercolano Oberrauch [Theol. Mor. Tract. I). (1) La specie con cui Dio ioleode, è, secondo l'Angelico in quello stesso luogo, i'una e sem- plicissima essenza divina. Qm2 DELL ESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. Gli ocgelli adunque conviene che sieno creati, acciocché siano distinti; e Iddio li crea coli' atto stesso con cui li conosce col suo intendimento pratico, ossia creativo, o, come il chiama San Tommaso , coli' intelletto agente (S. I, xv, i; e xlvi, i)(0. Goll'atto stesso adunque con cui Iddio creò il mondo, produsse anche i rispetti fra la sua essenza e il mondo; i quali rispetti sono le idee limitate, ossia i concetti di cui parliamo. Quindi San Tommaso ricorre all'atto creativo per dimostrare che in Dio vi hanno più idee, cioè più rispetti conosciuti, e però dice che coloro i quali — dissero che Iddio creò solamente un primo creato, il qual creato creò un secondo creato, e cos'i via fino che ne riusc'i la moltitudine delle cose — , non potevano spiegare come Iddio conoscesse tutte le cose, poiché in tal caso avrebbe conosciuto il solo primo creato, secundum quani opi- nionem Deus non haberei nisi ideam primi creati, e che solamente po- nendo che Iddio abbia create le cose si può intendere come egli ne abbia di tutte le specifiche idee: sed si ipse ordo universi est per se creatus ab eo et intentus ab ipso, necesse est quod habeat ideam universi ordinis. Ratio autem alicuius toiius haberi non potest, nisi habeantur propriae rationes eorum, ex quibus totum coustituitur (ivi, q. xv, art. 2). Dal che procede che delle cose che Iddio non crea, che è la scienza di semplice intelligenza, non vi hanno concetti se non iuiiuersi e indistinti nell'unità dell'essenza divina, come noi abbiamo più a lungo dichiarato nel Rinno- vamento, Lib. Ili, Gap. Lii » (2). 37G. Ma le due maniere di vedere, toccate nel n. 873, si conciliano ^1) Il luogo (iella qviislione xv è tale: «Quia iyilur nmiuUis non est casu factus, sed est faclus a Dco per intellectum aijente«: e così io credo che si debba leggere. Ma altri leggono per inlellectum agenlem, come nota l'edizione del Fiaccadori di Parma, e cosi lesse il Rosmini. Il luogo parallelo della ijncslione 46^ non ha nulla di più per decidere la lezione, ed è anzi più favorevole alla prima. Ma la differenza e accidentale. (9) Ed il Rosmini chiude quella lunga nota su San Tommaso con queste parole: « Abbiamo cre- dulo bene di apporre questa lunga nota acciocché apparisca quanto siamo stati male intesi dal sig. Vinc. De Grazia anche su questo punto negli articoli da lui pubblicati nel Progresso di Napoli ed intitolali Esami elei più. recenti sistemi della Filosofia, e specialmcnle in quello inserito nel qua- derno 25 (gennaio e febbraio, l846j. Il qual autore ci muove difficolt.à che cadono sul sistema da lui erroneamente preso pel nostro sistema, ma non sul nostro vero sistema: nuova conferma di quanto abbiamo giii dichiaralo nella prefazione alla Teodicea, num. ?>. Certo la discordia in filosofia nasce, più che da ogni altra fonie, dalla mala intelligenza dei filosofi tra loro ». Fin qui il Rosmini. Le quali parole contengono pur troppo anche ai nostri giorni e ad alcuni pseudolomisli d'oggidì, dei quali si fa organo principale la Civiltà Cattolica di Firenze, i i|uali, meglio che filosofi e teologi di- rebbonsi quasi inlcslalori della filosofia e teologia cattolica sotto la maschera del nome di San Tommaso. 1)1 GIUSEPPE BURONI 6-^3 distinguendo le due esistenze delle cose finite, l'una che chiamammo emi- nente, l'altra bassa e fenomenica (vedi libro 4°> cap. 18), e quindi i due momenti della creazione che noi chiamammo creazione eminente e crea- zione infima, ma è la stessa creazione. La prima creazione eminente è ne- cessaria perchè risulti la pluralità delle idee spiegate da San Tommaso ; ma le idee poi logicamente precedono le cose nella loro realità bassa e fe- nomenica, verso alla quale si dicono giustamente creatrici. 11 che ci apre la strada al seguente CAPO VII. Esistenza eminente delle cose create in Dio. 377. Ma il punto della teologia cattolica che mette l'ultimo compi- mento a questa sublime teorica dell'umana cognizione, e dona la chiave per intendere quel mondo metafisico degli enti, quell'esistenza assoluta ed eterna de' reali sensibili e temporanei di cui parlammo sopra nel libro 4", capo 17 e 18 (n. 256 e seg.), si è quello in cui essa spiega come tutte le cose create reali, e come reali, sono in Dio ab eterno, e con tutti i loro menomi modi e accidenti e condizioni individuanti. Il qual punto fu chiarito specialmente da S. Anselmo nel suo Monologio, e da S. Tommaso e da S. Bonaventura, e da tutti quelli che spiegarono le parole del Vangelo di S. Giovanni, sebbene secondo una falsa punteggiatura, ma secondo un concetto sublime: Quod factum est, in ipso vita erat, nel senso di dire : Tutte le cose fatte moi'tali e corruttibili, in lui, cioè nel Verbo, sono vita ed erano innanzi a tutti i tempi (*'. Il che io chiamo appunto l'esistenza e realità eminente delle cose create in Dio, per distinguerla da questa inferiore e sensibile che appare a' nostri sensi e cade sotto la nostra percezione. E su ciò è l'ondata quella che più sopra nel capo 18° del libro 4% chiamai creazione eterna , secondo che le cose sono create nel Verbo, presso a paco nel senso che Platone disse le idee create. 378. .Ma è proprio della filosofia non solo tentar di risolvere tutte le quistioni e difficoltà, ma eziandio di confessare la propria ignoranza, ove dalle difficoltà medesime sentasi soperchiata. E però qui sull'ultimo con- fesserò anch'io di non poter, no, dubitare di questo ultimo punto di dot- (I) Vedi, per esempio, San Tommaso, e. Gentes, lib. 4°, cap. 13. Serie li. Tom. XXX. 85 (■J^ /J IIEr.I.'ESSKRE E DEL CONOSCERE, ECC. Irina che accenno, ni;i di trovarlo tuttora un |)unto oscuro, che non riesco appieno a comprendere nel campo chiarissimo dell'umana cognizione. Quindi, contentandomi delle molte cose che prima ne dissi nel libro 4°, amo meglio di rimandarlo da risolvere piiì pienamente alla Teologia cattolica, alla quale convien pure che stenda una mano amica e fiduciosa la Filosofia. CAPO Vili. Obbietto primo dell' intuito della mente umana , Conciliazione delle sentenze; Rosmini, Gioberti. 379. Avea ben divinato il Gioberti quando scrisse nella sua Teorica (tei So'^'rannaturale, n. i.\ : « Ogni dualità riducendosi all'unilà , importa un nesso fra i due termini, di cui è composta; e uella percezloue (volea dire iutuizioue) di questo nesso consiste l'essenza dell'alio cogilalivo ». E con la sua lormola che sviluppò pii!i tardi l Ente crea le esistenze, che cosa volle egli fare, se non riconfermare che l'obbietto primo dellintuito era posto nel nesso tra Dio e il mondo .' Fin qui consentiamo pienamente con lui. Se non che si avvisò di determinare più preciso che questo nesso dovess'essere il nesso creativo, e lobbietto primo dell'intuito fosse Y Ente- causa del mondo, o \ Ente-creante (^Introd., voi. 2°, e. 4% P- 201 ediz. di Brusselles). A noi [ìar troppo ristretta una tal formoia; perchè se la mente nostra fòsse così costituita (si noti bene, costituita, perchè trattasi dell'intuito primo costitutivo della mente), costituita cioè dall'intuito del- llùile còlto nel suo rispetto sintetico col reale creato, non potendo niun ente estendersi al di là de' limiti jjrimi della propria costituzione, tro- verebbesi, come dire, volta all' ingiù, incatenata alle cose reali e create, senza potere elevarsi a spaziare per gli steriniuati campi dell ideale e del possibile*''. 380. 11 Rosmini invece erasi elevato a costituire l'intuito della mente umana un grailo più su, cioè nel nesso ideale che l'Ente ha verso tutti i pos- sibili e gli intelligibili; la qual relazione vedemmo più sopra nel capo 4° della Teosofia Regressiva, che antecede logicamente la creazione. E come nell'or- dine divino l'atto creativo viene logicamente dopo la eterna possibilità, cosi. I) Abbiamo ial'atll veJulo più sopra ;^ii. 357, uola 2) die il Oioberli non seppe elevarsi al vero coocetlo del possibile obbicllivo. DI GILSKPPF. BUROM 6-5 disse il Rosmini, anche in noi esso verrà in mi alto posteriore, che è la percezione de' reali corrispondente all'atto creativo di Dio. Con che viene appuntino servato il canone tante volte dal Gioberti inculcato, ma, come pare a me, non pienamente osservato, che lordine del nostro conoscere debba esser conforme all'ordine obbiettivo delle cose: e noi infatti an- diamo dal possibile al reale seguendo l'ordine obbiettivo ed eterno; lad- dove il Gioberti dal reale deve rifarsi indietro risalendo al possibile, dove mal si riesce. 581. Adunque i Giobertiani, o come si chiamano più generalmente gli Ontologisti, vogliano ascendere un grado più su, e invece di stabilire per primo vero e per forma prima: l'Ente causa dei reali, vogliano metter quest'altra più prima e più vasta: t Ente ragione de possibili, e la con- ciliazione non sarà difficile. Sul punto, se la mente vegga, o no, lo stesso Dio, non occorre pur disputarne, perocché è chiaro che in entrambe le supposizioni lEnte vedesi solo per indiretto e di sbieco, relativamente all'wi quanto sotto cui si vede : onde propriamente non si vede Dio stesso in sé terminatii^'amente, come parlano le Scuole. La qual cosa spiegò meglio di tutti Inquinate, dicendo che noi vediamo le cose in Dio, non come in obbietio cognito, ma come in principio della cognizione (t. q. 84, a. 5). L'unica quistione è, se esso si veda primamente in quanto causa del reale, o in quanto ragione del pos- sibile; e dopo le cose ragionate in questo volume, non ci par dubbio che questa seconda formola va preferita alla prima ('). 382. E tal mi pare che fosse il concetto dell'ontologismo temperato del GerdiI, del cjuale mi piace addurre il seguente testimonio che io tolgo dall'opera del mio valoroso amico, il signor Pietro Rossi, professore nel collegio Brignole-Sale di Genova, intitolata II Cristianesimo ed il Razio- nalismo moderno (Genova, Tip. del R. Istituto Sordo-muti, 1876), il quale nella nota i a pag. 107 così parla: — Anche il Cardinal GerdiI, dopo avere provato che Dio è lobbietto immediato della conoscenza dell'intel- letto, dice : « Tuttavia da ciò non segue, che la conoscenza che abbiamo di Dio, sia la visione stessa beatifica, salvo il più e il meno, o ne diffe- risca solo accidentalmente, secondo il linguaggio delle Scuole. Siccome è incontrastabile, che Dio può manifestare di sé medesimo ciò che alle creature ha relazione, ed é l'archetipo di esse; e similmente manifestare alcun dei (Ij Vedi le eitale iXuziani il'Utilolvyia, n. 45-46. 6n6 deli/ ESSERE E DF.r, CONOSCERE, ECC. suoi attributi, senza manifestare la sua più inlima essenza : cosi noi diciamo che la conoscenza, che ha il nostro spinto delle cose corporali, avviene per V unione dello spirito stesso colle divine idee, le quali sono Carclietipo di quelle; e diciamo altresì che la conoscenza che Tuonio ha di Dio, ha per suo termine l'attributo dell'is^^e senza restrizione^^), ovvero della somma perfezione (2) , in quanto è virtualmente distinto dall'essenza divina; donde esso scaturisce (3). Perciocché altro è conoscere in qualche modo la somma perfezione, e l'Ente senza restrizione; altro è chiaramente cono- scere come questa somma perfezione sussista iti se medesima e da se mede- sima (4-, e come l'Ente senza restrizione contenga tutte le realtà possibili, senza alcun pregiudizio delia sua sovreminente semplicità. Eppure tutto ciò si dovrebbe conoscere in singoiar modo e specificamente, affine di poter dire che si conoscesse chiaramente l'essenza divina. Noi per lo contrario non conosciamo tali cose in questa vita, menochè in una maniera generale ed indeterminata, siccome io spiego ne' miei scritti, laddove tratto della conoscenza dei Misteri. Per la qual cosa la conoscenza , che abbiamo di Dio, è quasi (per indicar l'imperfezione) una conoscenza aslratta (^); come quella che ci rappresenta non già l'essenza divina nella sua inaccessibile (1) È quello clie io chiamo l'eSSere sconDnatamenle; che San Tommaso chiama l'ipsum eSSe, o la natura universale dell'ente: Deus cognoscendo se, cocjnoscit naturatll Utliversalis entis (e. Gent.^ lib, 1°, capo 50); che San Bonaventura chiama l'ipsum esse extra omne genus, o l'ipsutti esse sim- pliciter {Ilin., cap. 3° e 5° . (2; Perciò San Tommaso nella l.q.4, ad 3" lo chiama ripsum eSSB perfectissimum omnium. (3) Ma come se ne distingue e come scaturisce? Pare che alcuni Tacciano causa di questa vir- tuale distinzione la nostra ragione raziocinante. Ma i teologi migliori ammettono che la distinzione di (|UCsto e degli altri attributi divini dall'essenza divina è di ragione raziocinata , la quale habet fundamctiluiit in re. Che voglion dire qucsic parole ? Voglion dire che convien dare ad essa un fon- damento obbiettivo. Or questo l'ondamcnlo obbiettivo sta ncll'as(»aj!o»e divina detta dal Rosmini, e da me lungamente dichiarata nelle Nozioni ili Ontologia e nella più recente mia Risposta prima al P. Cornoldi , d. C. d. G , in difesa delle Nozioni di Ontologia secondo Rosmini e San Tommaso per tutto il capo secondo, ed insegnata chiaranienle da San Tommaso, come ivi dimostro. (4) È precisamente quel che io dissi nelle A'oiiow! rfi Onfoioji'a suddette (n. 50) spiegando alcune parole del Rosmini: n E vuol dire in sostanza, lasciando anche, per chi non gli piacesse, la forma propria di parlare del filosofo roveretano, che prima di procedere alla creazione, la quale, al dire di San Tommaso, non è allro che una comunicazione o partecipazione per similitudine imitativa che Dio fa dell'essere suo alle cose finite, l'ente infinito dovrebbe, a nostro modo d'intendere e di espri- merci, concepire innanzi tutto la partccipabilità dell'esser suo in generale astraendo questa sua personalità e sussistenza, quasi a quel modo che l'artista, volendo fare il ritratto di persona, astrae, contemplandola, da quella persona viva e vera che gli sta dinanzi, la figura della faccia per traspor- tarla sulla tela o improntarla nel marmo, ecc. ". (5) Appunto conoscenza astratta, ma non d'una astrazione fatta da noi, bensì per l'astrazione che no fece primamente Dio nel modo spiegato, e la qual egli comunica poscia alle menti. ni GIUSEPPE BURONI Q']'] profondit'i. ma solamente l'attributo per cui questa essenza è l'Enle senza restrizione, ovvero la somma perfezione. Ecco dunque già una differenza essenziale tra la visione beatifica e la conoscenza che abbiamo della Di- vinità, quantunque l' una e l'altra abbia Dio stesso per obbietto imme- diato ». Fin qui il Gerdil. E se di un tal conoscere possa dirsi Dio stesso obbietto immediato, è una quistion di parole. Io crederei che una tale espressione non sia esatta. Ma quel che credo certamente si è che a tutto ciò che disse il Gerdil convien dare per fondamento la divina astrazione della natura unii'ersale dell'ente secondo San Tommaso. Questo è il punto che io credo d'aver dimostrato ad evidenza nelle citate Nozioiii di On- tologia dopo il Rosmini, e più ancora nel mio recente opuscolo intitolato Risposta prima al P. Cornoldi, per tutto il capo 2 della Parte prima. Conclusione dell'Opera. 383. Ed eccomi alla (ine del mio lungo lavoro. Io l'ho intrapreso e continuato con amore, non tanto per rendere un omaggio di ammirazione al grand'uomo, che fu Antonio Rosmini, che gli uomini passano, solo la verità dura in eterno; ma alla verità e alla dottrina da lui illustrata, e dire a questa Italia nostra (sebbene la vasta dottrina del Rosmini io l'abbia in queste carte sol delibata) se sia questo un uomo da dimenti- care, e molto meno da astiare, come pur troppo molti fanno O, e se ab- biamo bisogno di correr dietro smaniosi ad estranie dottrine (2). Ecco la tradizione vera italiana : coltiviamola. 384. Ed a ciò appunto, di richiamare l'attenzione degli Italiani a questa gloria nostra e alla nostra tradizione filosofica, mirava il tema di concorso proposto dalla R. Accademia delle Scienze di Torino per una erudita e razionale esposizione della filosofia del Rosmini, il quale mi sia permesso di qui trascrivere, anche per una testimonianza al compianto Professor Berlini, che come era stato il promotore precipuo di questa proposta, così fu scelto giustamente a dettarne il seguente Programma: « Affinchè una scienza possa prosperare e fare notevoli progressi presso (1) Questi son quelli che io chiamo infestatori della filosofia e teologia callolica odierna, ed hanno per loro organo principale la Civiltà Cattolica (un giornale!), e Tolle mostrarsene ultimamente campione strenuo il P. Cornoldi d. C. d. C, e riuscì inettissimo. (2) Vedi lo stupendo elogio che della filosofia del Rosmini dottò Alessandro Manzoni in tutta la parte seconda del suo Dialogo dell'Invenzione, che mi spiace di non poter tutto trascrivere. 6n8 drll'kssere e del conoscere, ecc. una nazione, due condizioni sembrano necessariainente ricliiesle. La prima è die vi nascano ingegni eminenti, capaci di fare grandi scoperte, di mo- strar nuove vie e nuovi metodi d'investi"azione. La seconda è che la voce di codesti profeti della scienza non risuoni nel deserto, vale a dire che non manchi intorno ad essi un numero ragguardevole di cultori diligenti della scienza stessa, capaci e studiosi di comprendere ed apprezzar de- gnamente r opera di cpielli , di svolgerla con amore ed elaborarla nelle sue parti, di volgerla ad applicazioni pratiche, di dilFonderne insomma, per quanto è possibile, il benefizio fra gli uomini. » All'etTettuazione della prima di queste condizioni poco o nulla pes- simo contribuire le istituzioni umane. Nella serie dei secoli Iddio disse- mina, secondo I arcano consiglio della sua provvidenza, gli uomini di genio, potenti ad iniziare profonde rivoluzioni nell'ordine del pensiero come in quello dei fatti, ed è forse questo il modo precipuo del suo intervento nella storia delle nazioni. » Ben più efficace ad ottenere radcmpimenlo della seconda condizione può riuscire l'opera degli uomini, e specialmente degli istituti scientifici. Coi mezzi d incoraggiamento di cui dispongono, possono questi rivolgere l'atlenzione degli studiosi sulle opere de' grandi ingegni che non siano state ancora degnamente apprezzate; possono far sì che vengano tratti alla luce i tesori di scienza che vi rimanessero occulti, ili guisa che i con- temporanei od i posteri si trovino finalmente in grado di rendere al loro merito una compiuta giustizia. » Se 1 eccitare gli studiosi a questo genere di lavori può tornar utile ad ogni scienza, utilissimo, e, in certe circostanze, necessario apparisce in riguardo alla filosofia, si perchè questa scienza non può. come molte altre, allettare a faticosi studi colla prospettiva di utilità materiali ed immediate, e sì perchè, a cagione dell'indole e dello scopo speciale degli studi spe- culativi, i culttìri di essi inclinano a quel difetto che si potrebbe chiamare ifidk'idualisino, che consiste nell'aspirare prematuramente a novità ed ori- ginalitn, nel voler tutto ricominciare da capo, nel non tenere in alcun conto la tradizione scientifica: difetto che troviamo così pittorescamente descritto da Platone nel Teeteto, là dove ci rappresenta gli Eraclitei del sui) tempo, insofferenti d'ogni discussione pacata e dialettica, e d ogni laboriosa appli- cazione mentale: — Fra costoro non c'è maestro né discepolo; sorgono per proprio impulso, ciascuno in quel momento che è tocco dall'entusiasmo, e l'uno non crede che laltro ne sappia punto — (7ee/., pag. i-jq-cSo). DI GIUSEPPE BUROM 6'JQ 1) Basta dare uno sguardo agli scritli filosofici che si vennero pub- blicando fra noi negli ultimi due decennii, per riconoscere in molti la propensione al difetto sovraccennato, e per arguirne l'opportunità di inco- raggiare quel genei'e di lavori che può esserne preservativo e rimedio. Certo 1 ingegno speculativo non venne mai meno in Italia ; ed una nazione che vide uscir dal suo seno Tommaso d'Aquino, Bonaventura, Dante, Gior- dano Bruno e gli altri filosofi della rinascenza, e quelli che fiorirono nella prima metà del nostro secolo, non potrebbe giustamente lagnarsi che sia stala troppo scarsamente adempiuta in favor suo la prima delle due con- dizioni menzionate più sopra. ÌNla la seconda si è ella avverata ? L'opera di ciascuno de' nostri pensatori è ella stata illustrata, discussa e giudicata con adeguata ampiezza e serietà di studio? Può l'Italia intorno a' suoi filosofi che fiorirono nella prima metà del secolo presente vantare mono- grafie così diligenti e compiute, come, per esempio, quelle che possiede la Germania intorno a Kant, ad Amedeo Fichte, a Schelling, ad Hegel, per tacere di alcuni altri minori, ciascuno dei quali trovò chi richiamasse sopra di lui l'attenzione de' suoi connazionali? Il rimprovero mosso da Tacito allelà sua di essere incuriosa suoruin, è meritato dal nostro paese per ciò che riguarda l'operosità filosofica, e non basta a liberarcene qualche pregevole lavoro complessivo storico sulla nostra filosofia contemporanea. » La Classe di Scienze storiche e morali, convinta che l'importanza delle questioni in cui si occupa la filosofia può bene essere disconosciuta per alcun tempo, ma finisce sempre per farsi sentire in tutta la sua forza: convinta altresì che il miglior mezzo di promuovere la cultura filosofica sia di eccitare gli studiosi a lavori storico-critici su quei filosofi, i quali, per essere più a noi vicini di tempo, trattarono le questioni che per la pacificazione degli spiriti, e per la soddisfazione dei bisogni morali e pe- dagogici delletà nostra più gioverebbe di vedere, se non terminativamente risolute, almeno accuratamente discusse, convinta infine che a voler rifor- mare 1 insegnamento filosofico elementare nelle scuole conviene dar opera a rinvigorire lo studio della filosofia in un ordine superiore: per queste ragioni è venuta nella risoluzione di proporre come tema di concorso una esposizione storico-critica delle dottrine filosofiche di Antonio Rosmini. » Dalle più ardue questioni della metafisica e della teoria della cono- scenza fino alle più complesse e pratiche della politica e della pedagogia non vi ha argomento che non sia stato considerato in modo sottile e originale dalla polente intelligenza del Rosmini. Il suo sistema si Iconnette 68o dell'essere e del conoscere, ecc. per una parte (connessione su cui egli grandemente insiste) colle dot- trine di Platone, di Aristotile e di San Tommaso, e per l'altra si trovò in contrasto con Kant e coi susseguenti filosofi tedeschi , sui fondamenti della conoscenza, non meno che (specialmente con Kant) su quelli della moralità. Il dogma capitale del Rosmini, cioè l'intuizione originaria ed essenziale alla mente umana dell'ente infinito come meramente ideale, non come reale, come un divino, non come Dio stesso, fu gagliardamente im- pugnato da Vincenzo Gioberti, il quale voleva ricondurre la filosofia alla dottrina di Malebranche e del Gerdil, compiendola coli' aggiungere alla intuizione dell'infinito reale una rivelazione naturale che Dio fa alla mente umana dell'atto stesso con cui dà l'esistenza alle cose finite. Di qui ebbe origine una polemica, il cui studio potrebbe recar gran luce sulla questione della conoscenza. n Prima del Gioberti, un altro preclaro ingegno, Terenzio Mamiani, avea proposto obbiezioni circa la connessione che il Rosmini aflèrmava strettissima fra la questione dell'origine e quella della certezza delle cogni- zioni umane, come pure circa la spiegazione ch'egli dava della formazione di alcune principali idee. Di qui un'altra discussione, i cui documenti sono degnissimi di uno studio accurato. » Mossa dalle fin qui esposte considerazioni l'Accademia pone a con- corso il seguente tema: « Dato imo sguardo complessivo allo stato della Filosofia in Italia nei tre primi decenuii del corrente secolo, esporre ed esaminare la Filosofia di ANTONIO ROSMINI , considerandola nelle sue relazioni coi sistemi dell'an- tichità classica e del medio evo, e tenendo conto delle discussioni a cui diede occasione fra i contemporanei ». Come e quanto corrisponda a un tale Programma la mia Memoria, dopo la benigna accoglienza fattale dalla Reale Accademia, ai lettori il giudizio. APPENDICE SCHIZZO DI COSMOLOGIA (Va riferito dopo il libro quarto). Sottilissime speculazioni scrisse anche il Rosmini sul senso e sulle atti- nenze dell anima col mondo reale. Io ne toccai qua e là quant era bisogno per spiegare la sua teorica della conoscenza che m'era tolta ad obhietto precipuo di questa esposizione e di questo esame; nella qual teorica si abbinano, come s'è veduto, indivisamente la mente e il senso, massime per ciò che spetta la percezione intellettiva de' reali su cui versarono per intiero i due libri 2° e 3° soprascritti. Onde non credei cosa oppor- tuna di dettarne un libro a parte, come ne avevo avuto il pensiero da principio, con pericolo di dovere ripetere più di una volta le cose già dette. Tanto più che le principah teoriche del Rosmini anche piiì originali sul senso fondamentale, l'unione dell'anima col corpo per via di sentimento, il determinarsi delle varie sensazioni, il soggettivo e l'estrasoggettivo, l'istinto e i varii modi di quello, ecc., sono state ben capite e accolte con plauso subito da principio ed entrarono a far parte del pubblico insegnamento. Ma vi sono anche alcuni punti, non per anco chiariti quanto era bisogno, ohe meritano una speciale menzione a fine di rendere piìi com- piuta l'esposizione di questa filosofia. I quali io toccherò qui, sotto questo titolo di Schizzo di Cosmologia, togliendoli principalmente dal volume 5° della Teosofia pubblicato solo lo scorso anno 18740 intitolato // /?ea/e, che meriterebbe uno studio tutto suo proprio C'i. (1; Queste cose, come fu detto, io scriveva sulla line del 1875. (2) È un forte volume di pag. 636 in-S". Serie II. Tom. XXX. 86 (582 DELl'eSSKRE e del CONOStEnr, ECC. CAPO I (tetico) Dello spazio solido illimitato (lj termine dell'anima. I. 1. Nel N. Saggio (n. 821 e seg.) il Rosmini aveva ammesso in noi, o per dir meglio trovatavi, liclea di spazio interminabile, immisurabile, con- tinuo ; e spiegata una tale interm inabilità e immensurabilità dello spazio per la possibilità di pensar replicata indefinitamente l'estensione de' corpi da noi percepiti ; la continuità poi dimostratala reale del corpo sentito, in quanto sentito (ivi, n. 824, 858, 864 e seg.). E pensatamente dico del corpo sentilo, perchè, come dimostrò poscia pm chiaramente neìVJntro- pologia n. 94-97, il continuo non può esistere altrimenti se non riferito ad un principio semplice che ne raccolga in sé simultaneamente l'esten- sione uniforme (Teos. voi. 5", p. 159 e 326; Aiist. Esani, p. 281-282): onde il continuo viene ad essere bensì reale del corpo cui appartiene, ma di quel corpo che nella filosofia del Rosmini chiamasi corpo estrasog- g attivo , il quale cioè ha relazione al soggetto senziente. 2. Questa interminahilità dello spazio, dichiarata nel N. Saggio, impor- tava il concetto di uno spazio indefinito, cioè indelinitamente grande, ma non veramente infinito, come egli stesso nota nella Teos. voi. 5", p. 438. Meditando più oltre, venne risolutamente in questa sentenza, che ogni anima sensitiva, ancor prima (in ordine logico) che le sia dato per ter- mine un corpo occupante una porzione limitata dello spazio, debba avere per termine innatamente congiunto e sentito lo spazio solido (cioè lato, lungo e profondo) illimitato o injinito ('). Della qua! sentenza espose pri- (1) Si noli che il porre illimilalo lo spazio, non è lo slesso die porre illiiuiUto l'universo cor- poreo. Anzi ijuesto è cerlamenle limitato, come osserva il Rosmini, Teos., voi. 5°, pag. 294. (2) yui prevedo la solita obbiezione della teologia volgare cbe non vi è altro di infinito che il solo Dio. Ma io li mando a lei^'gere, quei che la fauno, san Tommaso, pel quale anzi ogni angelo e un inliuito. Il proprio di Dio sì e d'essere egli il solo iolinito nella ragione àeWesscre, cioè il solo essere infinito, eSSB inflnitutn, perchè egli è l'istess' essere sussistente; tutte le altre cose han l'essere ricevuto o parttiipato e però finito; ma ciò nulla impedisce che vi sicno altri infiniti secondo altre ragioni, purché sieno fiuiti secondo la ragione dell'essere, cioè e«/! ^hi(i. Vedi peres., l.q. vii, a. 2 : Uespondeo dicenduui (^noiì aliquid praeter Deuin potcst esse infinilitm secuniium quid (cioè seeun- dum aliquid) sed non simpliciter >> . E spiega in prima la cosa in quanto alla materia, la quale ha una specie d'infinità potenziale che è piuttosto l'estremo della imperfezione, e di poi quanto alla DI GIUSEPPE DURONI 683 mamente le prove neW antropologia (n. 164-174)5 e poscia nella Psico- logia (n. 554-559, e nuin. 'J05-706), ma di nuovo altre ne aggiunse in questo voi. 5" della Teosofia o del Reale (p. 438, seg.), e fra l'altre questa così espressa: « Noi abbiamo bensì detto nel N. Saggio {loc. cit.), che il movimento de' corpi, la cui possibilità non cessa giammai, ci dà il con- cetto d uno spazio indefinito. Ma primieramente trattasi sempre qui dello spazio misurato, e però il concetto che ce ne viene non è altro che quello di una misura indefinitamente grande: ma una misura indefinita- mente grande suppone un misurato (io direi piuttosto un misurabile) infinitamente grande ("; onde il concetto della misura rimane sempre distinto da quello del misurato (o misurabile). Di poi lo stesso moto del corpo suppone lo spazio dove il corpo si muova, non potendosi concepir moto nel niente » (Teos. voi. 5°, p. 438, 439)- Inoltre avea già tatto notare neW Antropologia, che non si può percepire una linea senza il di qua e il di là della linea slessa, né il limite d un corpo senza qualcosa più dello stesso corpo {^Antrop. n. i54-i58): perciò « nel concetto di uno spazio corporeo limitato, che sia termine ad un sentimento, s'acchiude già uno spazio illimitato, onde quel sentimento non si può pensare senza di questo » (Psicol. n. 707). "I. I quali argomenti pare a me che provino anche la realità estrasog- gettiva dello spazio. Per quanto misterioso sia un tal ente (o per meglio chiamarlo entità, perocché vedremo nel capo seguente che lo spazio puro è di quegli enti-termine, così detti dal Rosmini, per sé incompleti, che non ponno esistere, cioè non ponno ricever l'atto dell'essere, se non con- giunti agli enti-principio con cui sintesizzano, come si disse nel lib. 3", forma die e allo; e rispetto a quesla pone che tì sieii forme finite, e ve ne sleno anclie delle in- fluite. Ecco le sue parole: « Si autem loquamur de infinito secuudum quod convenil forma e , sic manifeslum est quod illa , quorum formae sunt in materia, sunt simpliciter finita, et nullo modo infinita. Si autem sint aliquae formae creatae non receptae in materia, sed per se subsistentes, ni quidam de angelis opinanlur (e fra (juesti l'Angelico stesso), erunt quidem in/initae secuudum quid, in quantum liuiusmodi formae non lerminanlur neque contraliuntur per aliquam materiam, sed quia forma creata sic subsistens ìiabet esse et non est siium esse, necesse est quod ipsum eius esse sit receptum et coutractum ad terminalam naturam, unde non potest esso iuCnitum simpliciter» ; e ciò basta perchè ella disti da Dio infinitamente come la creatura dal Creatore. (I) « Il Royer-Collard, che frammezzo a diversi errori, per virtù del buon metodo appreso studiando i filosofi scozzesi, dice pure delle saggie cose sullo spazio, cos'i fa avvertire l'impossibilità di imporgli dei limiti: — Quand nous essayons de poser des limites à l'espaee, nous concevons aussilòt par de là l'espaee quc nous avons limite un autre espace qui embrasse ces limites mèmes ; en sorte que nous sommcs forcés de concevoir l'espaee infiul — {Oeuvres compi, de Reid, Paris, 1828, t. IV pag. 341)». Cosi il l'aj^auini, Dello Spazio, pag. 27. 684 DF.LLESSERE E DEI. CONOSCERE, ECC. e che li completano), non è però meno indubitato ('). O vuoto o pieno che sia Io spazio, pure è una reahtà. Il comune linguaggio e il senso lo conferma, dicendo die i corpi sono e si muovono nello spazio : or non sono di certo né muovonsi nel nulla; e anche fatto il vuoto nella cam- pana della macchina pneumatica, la distanza, che ne tien disgiunte le pareti, non è il nulla. II. 1. Ciò ne guida a un alLro concetto illustrato pur dal Rosmini, che mi par molto importante. Questo è che i corpi e la materia corporea sono altra cosa dallo spazio e dall'estensione: sono e muovonsi nello spazio e si ammantano dell'estensione come d'un vestimento, ma non sono lo spazio né l'estensione. La materia corporea è una virtù e forza che si espande nello spazio, e ne prende e occupa una pili o men larga porzione (come a dire in quella guisa che i polpi e le ostriche aderendo agli scogli ne prendono di più o di meno con le lor branche o boccucce), e vien per tal modo a vestirsi qua e là e mostrarsi ammantata di quella tanta o quanta esten- sione ; ma non è esso spazio ed estensione ('). E quella forza così espansa nello spazio e vestita di estensione è ciò che dicesi un corpo ; e cos'i i molti corpi vengono ad esser cose e sostanze poste qua e là nello spazio e nuotanti nelf estensione, ma non mai sono esso spazio ed estensione, bensì costituiscono il pieno dello spazio che altrimenti sarebbe vuoto. Né è da credere che quell'estensione, sotto cui si mostrano, l'abbiano a sé aderente come cosa loro propria, sicché se la portino e trascinino [1} Che la solidità dello spazio, cioè l'esser esso e concepirsi fornito delle Ire dimensioni, di lato lungo e profondo, non sia dato da nissun senso determinalo, ne dall'occhio ne dal (atto, ma solo dalla natura innanzi ad ogni sensazione, dimostra ad evidenza il Rosmini neW Antropologia, num. 161-174; Psic, num. 554-559; 703; 706. Dello spazio ragiona anche ^aeW Arisi. Esani., pag. 213, 281 e scg. (2) Il Leibnizio non dubita punto che altro sia lo spazio ed altro il corpo e la materia, e la- menta che ai suoi di alcuni ingegni preclari ed acuti , massime tra i Calvinisti, si fossero lasciati andare al Cartesianismo che poneva l'essenza del corpo nell'estensione, onde traevano obbiezioni insuperabili contro il domma cattolico dell'Eucaristia : « Quoniam autem egregia quaedam et acuta ingenia, inter Reformalos potissimum, novae cuiusdam ac blandicntis imaginationi pliilosophiac prin- cipiis ìmhuta, dare distinctequc, ut ipsorum stjlo utar, inlelligere sibi videnlur corporis essentiam consistere in extensione ; ulique succurrendum eorum morbo arbitror, etc. ». E prosiegue di- cendo: « Certe si locns a localo, sive spati um a corpore dillert, etiara materia diCTeret ab exten- sione, etc. (Systk. Theotog., pag. 98, 99 et seg., édit. Paris., Adrian Le Clerc, an. 1845). DI GIUSEPPE BURONl 685 dietro muovendosi nello spazio. No: ma ad ogni mutar di passo mutano anche la veste dell'estensione, non essendo altro il muoversi che appunto un mutar di luogo, che è quanto dire un mutar d'estensione. Accade come de' pesci che guizzano agili e vivacissimi nella peschiera limpida o nell'oceano immenso, i quali di certo mutano ad ogni batter di pinne quella parale d'acqua che tutti intorno li abbraccia e li stringe aggiustata alla vita senza far loro male o comprimerli; e gli uccelli svolazzanti per l'etere si cangiano ad ogni istante quella camiciuola d'aria che li circon- cinge, e noi stessi ad ogni passo deponiamo quella come cappa di piombo che ci grava le spalle e ne avviluppa tutta la persona, per vestirne man mano un'altra di egual peso e misura, e non ce ne accorgiamo. Così la palla d'avorio che corre sul bigliardo, ed ogni corpo che si muove, lascia l'estensione di cui era vestita nel luogo dove era prima, e successiva- mente ne trova un'altra, e poi un'altra ancora; e la palla si si muove e muta Inogo, mi il luogo e l'estensione non si muove, ma resta là ov'era prima, e lo spazio in cui tutte cose si muovono, si rimane allatto immo- bile. Ciò che inganna in questo fatto , nota il Rosmini [Teos. voi. 5°, p. 443), si è la confusione che fa la mente poco vigilante fra la quantità e la fisura dell'estensione e l'estensione medesima, di modo che vedendo che il corpo nel suo moto conserva la stessa quantità di estensione e la stessa figura, si giudica tortamente che conservi 1" identica estensione; quando il vero si è che depone continuamente l'estensione, ma nello stesso tempo ne riceve un'altra della stessa quantità e figura » : la quale non lascia accorgerci di quella estensione che ha perduta ('). III. 3. Quindi si rivelano le doti dello spazio ben diverse dalle proprietà della materia corporea e de' corpi. 1° La materia è limitata da ogni parte, ed è perciò il subbietto della quantità cUmenswa; e così son limitati i corpi. Lo spazio invece è illimitato e infinito e immisurato e immisurabile. (1) Ciò vuol dire che la quantità e figura dell'estensione vien data dalla materia e sostanza del corpo che è altra cosa dall'estensione, ma che le si riferisce. Distingue lo spazio dalla materia e dai corpi anche Platone nel Timeo, pag. 51: Il terzo ge- nere, dice, è quello dello spazio (tò xm x'^pxi), che non si corrompe mai (e cosi non si muove), ma presta la sede a tutte le cose che hanno generazione (Upm Si, Ttapsxov Óra iysi yÉvtiiv niitt). 686 , dell'essere e del conoscere, ecc. 2" La materia è una attività variabile, ed ella è il suLLietlo del moto locale: la materia e i corpi si muovono nello spazio. Lo spazio infinito non ha dove muoversi : esso è invariabile ed essenzialmente im- mobile ed immoto. 3° La materia corporea (e cosi il corpo) è modificabile e passiva ; ella è subbietta a varii urli, e modificazioni e passioni. Lo spazio è im- modificabile ed impassivo. I corpi che sono nello spazio colle lor varie l'orme e figure sono come modi dello spazio, i quali sembrano modi- ficarlo variamente : ma esso realmente nulla si modifica, nulla patisce. 4° La materia ed i corpi si dividono , hanno parti ilimensi\'e. Lo spazio non ha parti di sorte alcuna, è perfettamente irnpartibile e uno. 6. I corpi estesi di diversi contorni e figure che sono nello spazio (come estensioni minori contenute nell'estensione maggiore, o come le figure disegnate dal geometra sulla tavola col mezzo di linee per ogni verso tirate su quella, son contenute entro la superficie piiì estesa della tavola stessa, o come le lettere che con inchiostro scrivo sulla carta appariscono qui nel campo della stessa carta) imprestano, o pare, allo spazio che li contiene i loro limiti e contorni; ma senza che io spazio veramente in sé li riceva o subisca, e ne resti comechessia rotto e diviso. Conciossiachè non è da credere che, come i pesci stando e muovendosi nell'acqua o gli uccelli nell'aria scindono l'acqua o l'aria per dove passano, e questa passati che sieno, sen torna unita e continua, così scindano e dilacerino Io spazio e l'estensione infinita i corpi che sono e muovonsi nello spazio. La materia dell'acqua e dell'aria sì patisce scissura intromettendosi per entro a quella un'altra materia eterogenea; ma l'estensione uniforme è sempre la stessa, conciossiachè i corpi non hanno una estensione loro propria diversa da quella dello spazio, sicché con la propria tocchino, e urtino e fendano l'altra; ma si vestono man mano delf estensione stessa dello spazio, né ve ne ha altra. E ancora quando tu non sovrapponi solo dolcemente con inchiostro o con minio le lettere sulla carta , ma profon- damente tu le incidi sul legno, nel marmo o nel bronzo, la materia del legno sì, o del marmo o del bronzo resta dilacerata, ma l'estensione non già, perocché l'estensione del cavo si continua a quella del pieno, sic- come prima, e la divisione non è che relativa e fenomenale, nello stesso modo come quando invece di incidere i caratteri li sovrapjjoni con lastre figurate, anzi com3 se tu facessi comparir sopra una lontana parete varii disegni per mezzo di figure poste fra l'occhio e la parete, che la parete DI GIUSEPPE BURONI 687 niente le toccherebbe o sentirebbe. Cosi l'estensione dello spazio è sempre una, uniforme, unita, continua, indivisibile ed impassiva (Vedi Teosofia, voi. 5°, p. 36o e seg.). 7. Sopra queste mirabili doti dello spazio è fondata 1" analogia che altrove notammo avere con lui l'essere ideale O. Il qual riceve per estrin- seco rapportamento tutti i limiti delle sostanze finite e de' lor modi, che gli si adattano sopra come l'inchiostro ed il minio alla carta, o come i limiti de' corpi varii allo spazio infinito, senza che esso in se medesimo nulla ne patisca o ne resti modificato, ma rimanendosi in se stesso uno, continuo, indiviso ed impassivo. Tale è il modo in cui è da concepire che accada l'ideazione o formazione impropriamente detta delle idee varie sul fondo dell'essere uno, infinito ed impassibile (Vedi sopra il libro 4"? capo 3° e capo 21°). IV. 8. Lo spazio, sendo per natura continuo, non può esistere altrove che nel principio senziente semplice ed uno che in sé lo raccolga simulta- neamente, secondo che abbiam detto poc'anzi (art. t ), altrimenti si scio- glierebbe, e per così dire si squaglierebbe e svanirebbe m niente (2). La è questa un'altra proprietà dello spazio ben degna di essere no- tata, ed essa è anche un altra analogia singolarissima che lo spazio ha coir essere ideale. Perciocché come di questo altrove dicemmo (nel lib. 1", sezione 2°, capo 2°), che non può essere altrove che nella mente, e quivi tiene la sua prima e perpetua dimora; così lo spazio dimora e risiede primamente e perpetuamente nel sentimento, e come ente-termine non può esistere senza aver seco congiunto il suo ente -principio che è il sentimento. 9. Onde deriva ancor questo, che noi possiamo bensì supporre che vi sieno sentimenti più o men virtuosi, i quali prendano piiì o meno del- l'estensione infinita; ma dev'esserci anche un principio senziente adeguato che tutto lo spazio infinito raccolga colla sua virtù, altrimenti quel di (1) Discorre di questa analogia fra lo spazio e l'essenza ideale anche il Rosmini, in più luoghi, ma principalmente nel voi. 5° della Teosofia, pag. 144, 157, 358 e seg., 446-479. (2) Conviene adallar qui, sebbene in altro senso, ciò che dicemmo fino dal lib. 1°, sez. 2^, cap. 2°, ^ 2°, che sinlesìsmo non è subbìettivismo. Il continuo non può esistere se non relativamente all'ano, che è il principio senziente, ma non è l'uno slesso, ni? a lui subbiettivo. Bensì in questo caso dicesi cstraiublìcttivo. 688 dell'essere e del conoscere, ecc. più dello spazio che non fosse sentito si squaglierebbe, come dicevamo e lo spazio non sarebbe più infinito. Ora un tale principio senziente di tutto lo spazio è condizione antecedente a tutti i sentimenti parziali e limitati, e come il fondo ed il luogo comune di tutti, perocché il limi- tato non può se non appoggiarsi ed insistere nell'illimitato; come non si può tirare una linea, o segnare un limite, se non ci sia il più in là infi- nitamente (Vedi Teos. voi. 5°, p. 35^ e seg.). IO. Quindi la materia corporea e i corpi che abbiam detto espandersi nello spazio e vestirsi dell'estensione, si espandono nello .spazio e vestonsi d'estensione in quanto entrano nel sentimento, perchè lo spazio non è che nel sentimento, u La materia, dice ottimamente il Rosmini (Teosofia voi. 5°, p. 444}? è un termine che vien dato ad un principio sensitivo, il quale ha già per termine lo spazio, ossia l'estensione. Il qual principio perciò è nell'estensione in quella maniera che abbiam detto il principio esser nel termine (e viceversa l' estensione è nel principio sensitivo in quel modo che il termine è nel principio). Quindi, dovendo egli sentire dov è, convien necessariamente eh egli senta nell estensione. E dunque lo spirito (cioè il principio sensitivo) quello che veste la materia di esten- sione conformandola per cosi dire alla sua propria natura. Così ogni qual- volta un agente usa ad operare qualche cosa un istrumento, rimane nella cosa operata l'impronta o il vestigio dell' istrumento usato: se l'occhio per es. usa a vedere d'una lente color di rosa, vede tutte le cose rosate. Non è già che la natura del sentito dipenda da questo solo: ella è il risultato di tre concause, ciascuna delle quali lascia nel sentito un ele- mento, le quali sono: la natura dell'agente, la natura del mezzo con cui agisce, e la natura della virtù che lo provoca ad agire. Ora nel caso nostro lo spazio è come il mezzo pel quale il principio sensitivo agisce quando sente la materia n. 11. Ove si scorge ciò che ha voluto dire di vero, ed insieme quanto abbia detto di falso, il Kant col dichiarare lo spazio forma del senso esterno, « Egli è a confessare, dice il Rosmini {Antropol. n. 171), che, intro- ducendo quella sua forma, il filosofo prussiano vedesse meglio di altri la dilTicoltà di spiegare i fenomeni della sensitività esteriore ». Vide cioè che non si può dare allo spazio una esistenza ne' corpi precedente al loro esser sentiti e da ciò indipendente, quasiché avendo essi già lo spazio e 1 estensione in se stessi e a sé aderente , lo comunicassero tal quale ali anima per via del senso esterno: e riconoblje « la necessità di ricor- DI GIUSEPPE BUROMI 689 rere a qualche altro principio non conosciuto fin qui dai filosofi, il quale somministri una ragione sufficiente dei fenomeni mentovati » , e segnata- mente lo spazio; la qual confessione indiretta ch'egli viene a farci di ima tale necessità conviene accettare da lui. Anzi conviene più determi- natamente accettare da lui questa parte di vero, che non essendo lo spazio e l'estensione una proprietà de' corpi antecedente e indipendente dal loro essere sentiti, è uopo riconoscere che alla produzione di un tal feno- meno (1) concorra anche il senso, o il principio sensitivo. Questa pertanto è la parte di vero che conviene riconoscere nella dottrina del Kant sullo spazio. 12. Ma si allontana atfalto dal vero il dichiarare ch'ei fa per conse- guenza lo spazio per una f(.rma del senso esterno, presa la parola ybrma nel significato in che egli l'adoperava di una legge o disposizione naturale e subLieltiva dello spirito, con la quale questo è obbligato a vestire di spazio le sue sensazioni esterne. 1° Perchè, se la cosa fosse così, dice il Rosmini (ivi), vi sarebbero prima le sensazioni da vestirle di spazio, e poi lo spazio che veste le sensazioni; mentre per contrario non vi sono sensazioni esterne se non nello spazio. 2° Perchè lo spirito sarebbe quello che crea (ossia produce ed emette da sé) lo spazio in occasione delle sensazioni. Ora qual prova di ciò :' nessuna alfatto, e però è una affermazione arbitraria. Di piiì la coscienza attesta il contrario: ella ci dice che l'anima non crea lo spazio, ma che anzi le è dato ed imposto. 3" Perchè se lo spazio fosse creazione dell'anima, lo spazio altro non sarebbe che una modificazione dell'anima stessa, e nulla in se medesimo; per conseguente anche i corpi sarebbero illusioni soggettive, avendo essi bisogno dello spazio per essere. 13. Le quali difficoltà, o per dir meglio i quali errori, si evitano intie- ramente ponendo che lo spazio illimitato, puro, sia termine del sentimento fondamentale e primitivo dell'anima. Nella qual sentenza nostra si avvera i" che le sensazioni si abbiano nello spazio, e sieno naturalmente vestite di spazio nello stesso accadere: 2" che lo spazio non sia una emanazione (t) Si noti che per fenomeno in questa Olosofia del Rosmini non s'intende illusione insussi- stente e subbiettiva, ma reale, perchè è fenomeno il sentito come sentito, eppur reale. Si Teda come ciò è parlicolarmenta spiegalo nel \ol. 5" della Teosofia, capo 55, art. 6°, pag. 403 e seg. Serie II. Tom. XXX. 87 /figo dell'essere e del conoscere, ecc. dell'anima, ma uà termine a lei dato e congiunto per natura ; se non che invece di porre che ci venga dato colla sensazione accidentale e transeunte, si pone che ci venga dato permanentemente al cominciare della nostra esistenza dallo stesso Creatore: 3° finalmente non è modificazione del soggetto, non è cosa soggettiva, ma bensì cosa estrasoggettwa , perchè termine realmente distinto dal principio senziente die è il soggetto O. V. 14. Quindi si trae un'ultima analogia tra Tessere ideale e lo spazio e l'ultima linea data al sistema rosminiano della conoscenza. Come l'essere ideale risiede prima nella niente, e dalla mente si riflette su tutte le altre cose le quali lo partecipano dalla mente in quanto sono da essa conosciute ; così lo spazio continuo risiede primamente nel senso e da esse lo partecipano i corpi in quanto sono sentiti, i quali appariscono e sono, in quanto tali, cioè in quanto sentiti, realmente vestiti di estensione. lo. L'estensione è la qualità primaria e permanente de' corpi che serve come di fondamento a tutte le altre qualità (he diconsi secondarie, il dolce e l'amaro, il duro ed il molle, il grave e l'acuto, il celere ed il lento, la fragranza ed il létore, e le varie tinte di colori; perchè quella appartiene al senso primario e sentimentale dell'anima, queste invece appartengono a' cinque sensorii che sono altrettante determinazioni del senso fondamentale, le quali sono variabili, accidentali e transitorie. Onde lo spazio tiene piìi dell' estrasoggettivo, nelle altre sensazioni prevale il soggettivo : e però queste o nel sogno o nella veglia vanno soggette a varie illusioni; circa Io spazio immisurato, come notava il Rosmini [Teos., voi. 5°, pag. 439), non è possibile l'illusione: o nel sonno o nella veglia è sempre lo stesso : e l'estensione serve di subbietto alle altre qualità dei corpi, e chiamasi perciò accidente primario e assoluto C^). (1) " In un senso (spiegato nella J'euMi/ia \ol. ó°, pag. 93-94) si può dire che lo spazio sia una colai forma innata ; e Kant avrebbe còlto una verità, se non l'avesse fatto nascere arbitrariamente dall'anima, invece di attenersi all'osservazione del fatto, la qual dice che lo spazio è cosa diversa dall'anima, è termine di lei, e però non può essere né lei, né produzione di lei, ma dee esserle dato d'altronde, secondo la disposizione del Creatore, giacché nessun principio dà a se stesso il suo ter- mine che lo fu principio, per la stessa ragione per cui niun ente dà a se l'esistenza (Rosmini, Teo- sofia, voi. 5", pag. 94). Delle specie innate discorre anche lungamente il Rosmini nella Teosofia, voi. 5°, pag. 438 e seg. (2) E questo il principio di cui si serve il Leibnizio nel luogo citato, per difendere e spiegare DI GIUSEPPE Bt'RONI OQ ' VI. 16. Con questi principii il Rosmini condusse la stupenda interpretazione del dilTicilissimo luogo del Timeo (pag. 35 A e seg., ove Platone dice, o fa dire a Timeo che il Demiurgo compose l'anima, cioè l'anima del mondo, di tre elementi, il medesimo, il diverso e l'essenza), che egli espose nell'y^/'/- stotele Esaminato, pag. 279 e seg. ; la quale interpretazione, quand'anche non reggesse del tutto come lavoio esegetico, è pur sempre importantis- sima cosa pel concetto fdosofico. Il Rosmini intende che nell'essenza, che è il subbietto stesso dell'anima, si riuniscano i due termini, il medesimo, che è [essere ideale vicinissimo a Dio, e il diverso, che è lo spazio puro, vuoto, illimitato (simile alla materici prima degli antichi detta da Sant'A- gostino prope niliil, vicina al nulla), onde l'anima sarebbe l'essenza me- diatrice de due estremi del mondo, di campo illimitato, per entro ai quali compariscono tutte le forme determinate degli enti. « Questa descrizione dell'anima, dice egli, risultante da tre elemeuli. ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la natura stessa dell'anima, n'abbiamo detto negli Antro- pologici e Psicologici. Poiché l'abbiamo descritta come un principio sus- sistente avente due termini, semplice l'uno (l'essere), esteso l'altro (lo spazio); di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sé le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subbietto stesso dell'anima, cioè quell'ente principio, chiamato anima, che col suo atto finisce d'essere nei due estremi che dicevamo ». Ma è da legger tutto quel tratto, Arist. Esani., pag. 280-298. il conceUo cattolico dell'Eucaristia, secondo il (|uale le qualità secondarie del pane, dopo operato il mi- stero, ineriscono come a subbietto loro immedialo all'estensione che è accidente reale e primario e per se stante : « Et in universum necesse est dari accidcntia realia sive absoluta quao non tantum modaliter a substantia differunl » (ib., pag. 101). E prosiegue dicendo: « Equidem non patilur brevitas nostra ut in philosophiam lonjjius excurramus. Illud tamen obiler atligisse suffecerit, nos quoque non perfun- ctorie studiis malhomaticis meclianicisque, et nalurae experimentis operam dedisse; et initio in illas ipsas sentenlias, quas paulo ante diximus, inclinasse. Tandem progressu niedilandi ad veteris philo- sophiae dogmata nos reciperc l'uisse coactos. Quarum meditationum seriem si cxponere liceret, /or- lasse agnosceretur, ab bis qui nondum imaginationis suae praeiudiciis occupati sunt, non usque adeo confusas et ineptas esse eas cogilationes ac iliis vulgo persuasum est qui receptorum dogmatum fastidio tcoentur, et l'Iatoni, Aristoteli, Divo Thomae aliisque summis viris tamquam pueris insul- taot » (ili., pag. 99). 6q2 dell'essere e del conoscere, ecc. CAPO II (ipotetico). Della concatenazione degli enti reali. 17. Debbo per prima cosa avvertire che il titolo di questo capo eccede di molto la trattazione del medesimo. Per uguagliarne l'ampiezza dovrei riferire i più lunghi capitoli del voi. 5° della Teosofia, dove quell' argo- mento, o le materie che vi si connettono, tiene una larghissima parte, set^natamente il capo 4^ della subordinazione ontologica degli enti (pag. 192-216), il capo 52 dell azione degli enti che si stende da pag. 221 a pag. 340, e i due seguenti sino a pag. 394? e ciò che il Rosmini dice della limitazione ontologica e della relatività degli enti finiti a pag. 53'^ e pag. 556 e seguenti dello stesso volume. Le quali lunghe e profonde trattazioni mi basti aver segnalate allo studio de' lettori, chi voglia intes- sere un'ampia cosmologia. Io mi limiterò a dare in questo capo un cenno di ciò che egli dice nell art. 2 del capo 53 (pag> 345 e seg.) su questa grave e importante quistione: — Se, oltre esservi il comune e l'imiversale nelle idee (il che è indubitato per la natura stessa dell'essere ideale esposta nel libro 4°)i si trovi mai il comune e l'universale anche nell'ordine reale; cioè, se l'uno reale abbia mai quella relazione d'identità coi più, per la quale l'uno riceve il nome di comune o di universale ad essiCh — » E penetrando l'intima natura degli enti reali, seguita il Rosmini, noi siamo venuti a l'isol- vere questa quistione alFerraativamente. Vi ha, secondo noi, un comune anche nell'ordine delle cose reali, ma d'altra natura da quello che si trova nell'ordine delle cose ideali. Perocché l'ordine delle idee è oggettivo, e l'ordine dei reali è soggettivo. Onde anche il comune ed universale del primo è un comune ed universale oggettivo, quando il comune che tro- vasi ne' secondi , cioè ne' reali , è un connine soggettivo. Il comune ed universale della ideala conoscere pili cose in quanto ali idea si riferi- scono: il coiimne de' reali costituisce e realizza più cose in cpiella parte di realità che con esso lui s'identifica ». (1) Il Hosmiai in questo luogo adopra sempre la frase di comune ed tmu'ersale nell'ordine dei reali. A me pare che nell'ordine reale possa essere e dirsi bensì il culmine, ma non Vunirersale che è da riservarsi solo all'ideale. Perciò miilerò in seguito le espressioni. Cosi nelle cose divine si dà tra le persone vera comunicazione e perciò comunanza della natura: la quale perciò dicesi ed e comune alle tre persone , ma non bene direbbosi universale. DI GIUSEPPE BURONI Ogo 18. Intorno alla quistione è da notar prima attentamente ciò che il Ro- smini stabilisce e spiega nel 5 4' di questo articolo (pag. 352 e seg.), che fra quegli enti i quali hanno fra loro quella subordinazione ontologica che è causa della moltiplicazione degli enti, non vi ha veramente nulla di reale comune fra la realità precedente e l'ente relativo che sorge nel suo seno. Dopo le arditissime speculazioni con cui il Rosmini nei capi 48 e Sa tentò di spiegare la uscita de' reali secondi dal Reale primo, le quah a prima apparenza sembrano quasi rasentare il panteismo, è neces- sario di fissar bene la tesi di questo § 4° dell'art. 2" del capo 53 che seguita immediatamente a quelle, ed ogni siffatta rea apparenza ne disperde. 19. La quistione pertanto della comunanza reale riducesi soltanto fra gli enti non totalmente subordinati di subordinazione ontologica, ma in qualche pai-te coordinati, de' quali però l'uno tiene verso dell'altro non una precedenza ontologica, ma una precedenza fisica, come la chiama il Rosmini simile a quella che il fondamento ha verso la casa, o a quella che, secondo il linguaggio degh antichi, la materia tien verso la forma, o a quella ancora che l'incompleto ha verso il più completo, o l'indeter- minato verso il determinato. Ora, seguitando sur una tal quistione le sue ricerche, risolve darsi veramente il comune reale identico in più individui. « La teoria, die egli (ivi, pag. 357), verrà illustrata dalla descrizione fedele del fatto: dobbiam dunque osservare e intraguardare gU enti stessi reali descrivendone fedel- mente la costituzione ». 20. Ed ecco brevemente il risultato di tal sua ricerca: 1° Egli trova che il sentimento dello spazio uno, immisurato, indivisibile è principio antecedente conmne e identico di tutte le anime s'i senzienti che intellettive, il quale non può esser che uno in tutte come è uno lo spazio. « Dunque anche nell'ordine delle realità, dice egli, si trova qualche cosa che è comune, ma questa comunità non è di specie, è molto meno di genere, ma è vei'a identità numerica : il genere e la specie appartiene all'ordine delle idee e costituisce la comunità e universalità spettante alle idee; l'idencità numerica costituisce la comunità propria del reale ■>^. Questo concetto pare ciò che gli antichi chiamarono o finsero l'anima universale del mondo. « Né questo principio comune che noi poniamo a tutte le anime umane, prosiegue il Rosmini, rende le anime identiche, o le fa un'anima sola ; perocché esso non è quello che costituisce l'anima, la quale viene costituita dalla sua individualità per la quale l'una esclude l'altra, 6q4 dell'essere e del conoscere, ecc. l'una non è l'altra ; ma è un principio, come dicevamo, jirecedente all'a- nima individuata di precedenza fisica, e non straniero all'anima stessa; è il primo passo pel quale si viene preparando l'esistenza dell'anima, non è ancor l'atto della sua esistenza. . . Rimangono dunque le anime molte e separate, come molti individui, ma pure hanno tutte un principio reale, comune principio che le pi ecede nell ordine della loro genesi (E che l'atto, onde ciascun'anima sente lo spazio puro, preceda a tutti quelli che vengono in appresso e che ultimatamente la costituiscono, si scorge da questo, che tolto ali anima il sentimento dello spazio puro, è reso impos- sibile il sentimento della materia, e quindi non esiste piìi 1 animalità del- l'uomo, e quindi ancora è reso impossibile quell atto d'intelligenza che sorge nel seno dell animalità umana, e le dà l'individualità intelletiuale). A quel principio si attengono e da esso ricevono le anime una singolare unione. Onde il genere umano non è solamente unito pel legame di quel- l'iacea che si applica a ciascun individuo e cel fa conoscere, nella quale idea luomo è un solo, in quanto ha un solo tipo, un solo esemplare ; ma di più il genere imiano ha un'unione anche reale; perocché tutti gli uomini ossia le loro anime, hanno un atto identico e non moltiplicabile, quale è latto che sente lo spazio puro e immisurato (ivi, pag. SS'-SSg). 2" u Egli è alfatto inutile per la teoria il ricercare se esista un ente principio il qual non abbia alcun altro lermine costitutivo che lo spazio immisurato, e però se ci sia al mondo un ente-soggetto costituito dal sentimento esclusivo dello spazio, senza 1 aggiunta di alcun altro senti- mento ('). Se ci fosse, sarebbe per sé individuo, e non potrebbe essere che uno, come uno è lo spazio immisurato, il che dimosti'a il Rosmini nella Teos., voi. 5°, pag. 358-36 1. Ma a questo sentimento primo e fon- damentale e alfatto indeterminato si può aggiugnere il sentimento deter- minato della materia figurata e circoscritta, ossia dell'esteso continuo materiato. Ed essendo molteplice la materia figurata, cioè potendovi essere un numero indefinito, non mai infinito, di moli corporee luna separata dall'altra, costituente ciascuna un individuo estrasoggettivo, seguita che il principio senziente lo spazio passerebbe a costituire un indefinito numero (1) Il chiarissimo professore Paganini , seguitalore della dottrina rosminiana, scrisse un acuto Saggio cosmologico sullo spazio, ove intende dimostrare appunto die un tal principio si dia in eflelto, e che anzi lo spazio non altro sia che la realità di quel tale subbicllo, in quanto sentita da luì e non altro. Invilo il lettore a leggero le ardite speculazioni del valente professore di Pisa, sebbene io confessi di non averle tutte potute ben seguire. DI GIUSEPPE BURONl 6g5 di individui senzienti tali moli corporee, i quali sorgerebbero in seno al principio dello spazio, ed avrebbero tutti per radice identica e comune, di comunanza non solo ideale ma reale, il principio dello spazio. Qui occorre l'ipotesi del Rosmini della sentimenlazione o animazione elemen- tare di tutte le molecole elementari della materia (0. 3° Procedendo oltre, si può aggiungere al sentimento dell'esteso con- tinuo materiato, anche quello di movimenti intestini entro quell'esteso, o il sentimento che il Rosmini chiama di eccitazione : e inoltre, mediante una pili perfetta organizzazione della materia, rendere un tal sentimento armonico e permanente, per cui si riesce al concetto dell'animale i~\ In tutti questi casi sta sempre fermo, che P individualità giace nella deter- minazione ultima completiva dell'ente (3); il principio dello spazio e le determinazioni man mano più incomplete hanno ragione di precedenti fisici comuni [Teos., voi. 5°, pag. 366). « Il principio dell'individuo ani- male, dunque, è quello che ha per termine sensibile l'eccitazione armonica, ed ha tre fisici precedenti, che sono (noverandoli secondo l'ordine di maggiore prossimità a lui): i° il sentimento eccitato ; 2" il sentimento del continuo materiale; 3° il sentimento dello spazio puro. Questi tre senti- menti sono rispetto all'individuo animale indeterminati e comuni ; e però non lo costituiscono individuo, ma l'individuo animale germina per così dire da essi , come il frutto dal ramo, e il ramo dal tronco, e il tronco dalla radice W . Nel principio animale gh altri tre principii s'identificano e si comprendono come precedenze dispositive alla formazione dell'ani- male (ma non si intendono come principii disgiunti l'un dall'altro, secondo que' che credevano falsamente che un anima sovr' altra in noi s'accenda, poiché detto è che s' identificano). Quindi s'intende come possa acca- dere che in un sentimento eccitato pili individui animali si rinvengano. (1) Questa ipotesi egli tratta in più luoglii delle opere suo, segnatamente nella P.ùcol., voi. 1°, pag. 935 e seg., nell'articolo intitolalo: Prone dirette della vita dei primi elementi die cangiano l'ipotesi pressoché in certezza, e nel voi. 5" della Teosofia, pag. 140 e seg. passim. (2) Questa graduazione di sentimenti dal più semplice al più complicato spiega in più luoghi, segnatamente nel voi. 1° della Psicologia, pag. 2G7 e seg., sotto il titolo : Tre forme, ossia tre gradi di vita sensitiva, ecc.; e nel voi. 5» della Teosofia, pag. 28 e seg.; pag. 425 e seg.; pag. 367-386 8 passim. (3) Cioè della cosa reale che è subbietto all'essere, per cui è e dicesi ente. Perocché non è mai da dimenticare ciò che fu il tema perpetuo del quattro nostri primi libri , che l'alto veramente ultimo per cui ogni cosa è ente non è che l'essere. (4) la altro luogo dello stesso volume adopra la similitudine di quattro cannoncini di un can- nocchiale, che l'uno esce dall'altro. 6g6 dell'essere e del conoscere, ecc. Perocché se in ciuel sentimenlo eccitato si formassero più gruppi di movi- menti armonici disgiunti lun dall'altro, costituendo altrettante armonie separate, vi avrebbero più individui animali in un solo corpo vivente. E questa probabilmente è la ragione degli animali anellati, dei polipi , e m generale qui sta la spiegazione della generazione (ivi, pag. S6n). 4" Finalmente, se al subbietto o principio senziente si aggiunga un nuovo termine che è l'essere ideale, si ha una nuova ulteriore determi- nazione, una nuova individuazione (e tale è il caso dellanima umana). Ma questo termine dell'essere ideale non moltiplica gli individui come i ter- mini precedenti dell'esteso figurato e del sentimento armonico; ma non fa altro effetto che di cangiare un individuo in un altro d'altra specie, di maniera che quel che era un individuo animale diventa un individuo razionale, ecc. » (ivi, pag. 347 e seg.). Come questa teorica si differenzii dalla reità dell'averroismo, si palesa nel seguito della trattazione, ove si dimostra che per morte non si toglie l'individuità di ciascunanima umana (ivi pag. 38 r e seg.). Quindi tutte le anime umane hanno comune il principio dello spazio puro e Fidea intuita, o il termine del senso ideale (ivi, pag. 371). 21. Seguono ardite .speculazioni, come Vio individuo senta innanzi a sé la radice degli altri io : onde l'errore di Fichte (pag. 387). Su ciò si fon- dano sentimenti delicatissimi e innegabili della natura umana: la simpatia, l'unità sociale, il coraggio dell'unione, la solidarietà; l'unità non solo ideale, ma reale del genere umano, comunità reale degli uomini ; il sentirsi i padri nei figli e nella nazione, ecc. (ivi, pag. 387-396). Tanto basti avere notato a mo' di schizzo d'una parte importantissima della teorica rosminiana, essendo impossibile di svolgerne compiutamente tutte le parti senza trascrivere gran numero delle sue pagine. DI GIUSEPPE BVRONl 697 II. CENNO DELLE DOTTRINE MORALI (Va innanzi al libro quinto). 1. Scrive Aristotele nel primo e nel decimo terzo della sua Metafisica, che Socrate spianò la via a Platone di trovar la dottrina delle idee, in quanto egli intese pel primo agli universali pel bisogno di dare alla Mo- rale quell'appoggio fermo e consistente che nelle cose fluenti e mutabili del senso non può avere O. * Che a un tale scopo nobilissimo e sublime di fondar la Morale sopra basi inconcusse e per sé vere, riesca pure la dottrina del Rosmini fin qui esposta intorno alle idee, io non reputo nemmen necessario di scriverne un libro speciale, e quando ciò si reputasse, non saria punto diflicile dalle opere sue Morali il compilarlo. Ciò che importa è solo un cenno della dipendenza che tengono le sue dottrine morali dalla sua teorica della conoscenza, e della mente dell'Au- tore su questa attinenza. II. 2. Dalla congiunzione vitale della mente coU'essere divo, che è verità, egli trae il valore infinito ed assoluto dell'umana persona. L'essere gli serve di misura della stima proporzionale che dee farsi degli enti, e gli (1) Sw/pÌT0u5 Si nipl /ii» Ti iiOiti npay/iaTEUo/iévou , ntpl Si riji òiv); yùjEUS oùOiv , èv /tévTOi toùtoi? TÒ xaSóiou ^>iTouvTOs, xal itipt ópia/iw èmdTviiavTOs ■apùnu tìjv Simoixv, èxììvov ànoSeii/i£vo5 [Uidru], x. t. a. {Metaph., I, 6). £uxpcÌTOU5 Si Tiepì roti ^iSt/às àptTÙi 7tpay/i5t«uo/«Évou , xai ne/j'i toOtov ópt^Eifei xaSó/ou InroivTOS TtpwTou. . . ixil-ia; tiiXóyw è|iJTe^ TÒ Tt èotiv ouJloyi^siSat yàp èi/iru. Alio yap Ictiv , a. tu à-i hmSoiii impéni SuaCui , Toùs T'ÈTtazTixoOs l(jyou5, xcù tò òpl^inBcu xaSó^ov. . . àXk' ò /lìv Suxpirni rà xaSó^ou où )("?<"« inoUi, oùSi Toù; ópij/ioùs- oi Si l^'^piim {e qui Aristotele comincia ad equivocare per ciò che spella a Platone, come notammo sopra nel libro 4°), xai ri roiauTa tùv óvtmv Wéas TtpouYjyópeuaav [Metaph., \n (xni), 4. Serie li. Tom. XXX. 88 698 dell'essere e del conoscere, ecc. fornisce la legge suprema della Morale, che è di dover T uomo ed ogni «nte intellettivo seguir il lume della ragione, e riconoscere praticamente l'essere nell'ordine suo {Principii della Scienza Morale), come pure "li fornisce la norma cui ragguagliare tutti i sistemi diversamente escogitati intorno al principio supremo della Morale e del dovere [Storia compa- rativa e critica dei sistemi intorno al principio della Morale). Di qui l'idea del bene oggettivo ed il punto d'appoggio dell'umana libertà, la quale non mai si palesa in tutta la sua pienezza che quando è posta nel bivio di dover scegliere fra il bene oggettivo, che è universale e di dovere assoluto, ed il bene soggettivo che è interesse e piacere privato dell' in- dividuo. Di qui l'idea del diritto, che è una facoltà del soggetto intelli- gente protetta dalla legge morale, circondata dall'aureola del dovere che la rende sacra e inviolabile agli altri, onde la forza costituisce soltanto la materia del gius, laddove il dovere, che la rende rispettabile, ne costi- tuisce la forma [Filosofia del Diritto , voi. 1°). Di qui essere gli uomini nati alla società con Dio e tra loro in Dio, perchè tutti comunicanti nella stessa verità, tutti avvincolati con mia suprema Provvidenza [Filosofia del Diritto, voi. 2", Diritto sociale, società teocratica, società domestica, società civile). Di qui finalmente studiata e chiarita la legge eterna, come detto avea il Vico , secondo la quale stanno o cadono le umane società e si sviluppano, e o si avanzano o retrocedono sulla lor via, secondo che si accostano o si allontanano dal loro fine, e così contemplata la storia ideale su cui corrono le umane associazioni [Filosofia della Politica). III. 5. E che tale sia stato da principio uno degli intenti precipui propo- stisi dal Rosmmi, quello cioè di rilevare le discipline morali dall'abbiet- tezza in cui erano cadute pel regnato sensismo, e dare al dovere e alia virtù una solida base inconcussa fondata nell'idea e nella verità sempi- terna, lo dichiara egli stesso in quel nobilissimo suo discorso agli amici Sugli studi deU Autore che apre il volume àdV Introduzione alla Filosofia, a pag. 28 e seg., sotto il titolo: Terzo f ne: Dare una filosofia che possa esser solida base alle scienze. Dove, mostrata prima la gravità del male ('), (1)" Dalla sovversione, auzi dall' annieutamento della Filosofia operato net secolo scorso dagli autori del sensismo, guazzabuglio di negazioni e di ignoranze, die sotto il nome assunto (cioè usur- DI GIUSEPPE BURONI "QQ e narrati gli eccitamenti e i conforti che gli vennero da persone alto locate, che molto potevano sopra di lui, prosiegue dicendo : « Cosi fu deter- minata la direzione dei miei studi, e la riforma della filosofia divenne l'intento universale dei lavori fin qui da me pubblicati o promessi (questo scriveva egli nel i85o), a cui consegue di sua natura quella ristiurazione di tutte le altre scienze delle quali la filosofia è madre e nutrice, princi- palmente delle Morali dove ogni decoro ed ogni onore della umanità con- siste n (ivi, pag. 3 1-3 2). E seguitando espone divisatamente come inlese a rislaurare la Mo- rale, il Diritto, la Politica, la Pedagogia, la Medicina, la Letteratura (ivi, pag. 32-42), presso a poco nel modo che segue qui appresso. 1. — La Morale. 4. « Il sensismo e il soggettivismo, che non è, propriamente parlando, una lilosofia, non può avere una Morale; perocché noi non dobbiamo pren- dere i nomi con cui giuocano i sofisti, per le cose stesse. Ninna Morale deriva dall'umano soggetto, il quale è bensì colui che viene obbUgato dal dovere, ma non è, e non può essere colui che obbliga Acciocché dunque questa disciplina si laddirizzi (che se non è diritta non è più dessa), egli è uopo dimostrare che v'ha un oggetto, il quale sia degno di riverenza e di amore: e lo stabilire questa dignità dell'oggetto che im- porti un'esigenza di essere riverito ed amato di maniera che il non farlo sia un disordine, una turpitudine, è quanto rimettere la Morale nella sua naturai posizione, restituendole il suo fondamento. Quest'oggetto è l'es- sere, in tutta l'estensione che prende questa parola, perocché l'essere ha di sua natura appunto quella forma per la quale dicesi oggetto, egli è per sé oggetto, e quindi medesimo non può mai non essere oggetto. Che se l'essere non può non essere, e se non gli può mancare la forma ogget- pato) di filosofia invase tutta l'Europa con più detrimento del vero sapere, che non vi avesse recato giaramai alcuna invasione barbarica, derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Pedagosia, della Medicina, della Letteratura, e più o meno di tutte le altre discipline, della quale noi siamo testimoni e vittime; e questa corruzione, trasfusa nelle azioni « nella vita mentale de' popoli e della slessa società umana, continua a dilacerare, come mortifero veleno, le viscere di quelli, e a minacciar questa atessa di morte »(ivi, pag. 29). Farmi che da qui ad anni non molli, lo stesso che qui dice il Rosmini del sensismo, si dirà di questo giornalismo pseudocat- tolico indisciplinalo che domina oggigiorno e devasta la Chiesa di Cristo, e le reca più danno di ogni invasione barbarica e di ogni colluvie di empi e libertini. 700 DELL ESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. tiva, perchè senza questa non sarebbe pienamente, dunque l'essere ogget- tivo è necessario, e quindi la Morale pure è necessaria. Non si potea dunque rendere alla Morale il suo immobile fondamento, né proteggerlo validamente contro gli assalti di coloro che l'aveano voluto rovesciare nel- lopinione umana, senza ascendere col pensiero fino alla teoria dell'essere oggettivo; il che ci obbligò di principiare la serie dei nostri lavori dal- l'Ideologia, donde ogni sapere umano incomincia » W . 2. — Il Diritto. 5. c( Per la stessa ragione e per una strada ancora più corta il sensismo e il soggettivismo rovesciò la scienza del Diritto, sul quale si reggono non meno le relazioni dell'umana convivenza che quella delle umane società. Poiché il diritto nella sua parte materiale è una facoltà soggettiva che ha per fine l'utilità di chi la possiede e l'esercita, all'opposto della Mo- rale che tutta si racchiude nel riconoscimento volontario e riverenziale dell'oggetto, senza che le conseguenze eudemonologiche formino od accre- scano l'inflessibihtà dell'obbligazione, assoluta come la Verità. E quella facoltà soggettiva, che è come la materia del diritto, rimane anche rimossa la morale; ma colla remozione di questa, che è come la forma del diritto medesimo, essa perde incontanente la dignità e l'essere formale di diritto. La quale dignità morale, che quella soggettiva facoltà d'operare non ha in se medesima, le viene dalla Morale appunto, che la consacra proteg- gendola, coir imporre a tutti gli altri uomini l'obblii^azione di lasciarla intatta e libera a' suoi atti. Laonde, ristabilita la Morale, fermatane immo- bilmente la base, è con questo stesso salvato anche il diritto, e la doppia eccellenza delle azioni umane, cioè l'etica e la giuridica ». Laddove il Diritto dalla Morale scompagnato, o riman preda del più forte, o esso stesso trasmoda in violenze e dispotismo , e la guerra feroce viene ad essere lo stato naturale dell'uomo. 3. — La Politica. 6. « Se col sensismo e col soggettivismo la mente, coerente a se mede- sima, non può riconoscere l'esistenza né di doveri, né di diritti, coll'an- nullamento poi di questi ella non può più concepire alcun'altra politica (1) NoQ è propriamente che dall'Ideologia ogni umano sapere incominci, ma l'Ideologia si oc- cupa di ricercare là, omU vegna lo intelletto delle prime notizie {Purg. xviii, 55-56). DI GIUSEPPE BURONl '^OI che quella che si consuma in frodi e in violenze, e che, come il principe ideale del Machiavelli , è biforme , cioè mezzo volpe e mezzo leone ; quella politica , dico , che ha per suo necessario efTetlo procacciar l'odio a lutti i governi, quell'odio universale che li rende tutti impossibili, e che pur troppo vediamo diffuso in Europa a guisa di un diluvio in cui affo- gano i governanti con esso tutte le forme governative. Solo cpiando sia restituita la Morale (e con questo dico la Religione che è la vita della morale) e colla morale il Diritto (non una larva ingannevole di Diritto), allora è possibile una scienza politica custode della giustizia, tutrice della libertà di tutti, promotrice d'ogni bene, autrice della concordia dei cittadini, fortissima madre della pace. E quantunque questa scienza che presiede al governo delle società civili, non sia che la prudenza applicata a condurre quelle società al loro fine, e però non possa avere per suo proprio scopo ed effetto altro che l'utilità dei governati; tut- tavia, se si considera piiì profondamente, e s'investiga la lunga serie di tutte le cause e degli effetti onde la civile società perviene a quella prosperità che le è propria, nella fine di una tale investigazione e di un tal calcolo la mente riesce ad una conclusione nobilissima, la quale è questa: — Il governo civile, instrutto della dottrina della giustizia nelle sue tre parti, la commutativa, la distributiva e la penale, e dotato d'una perfetta coerenza di ragionamento, può e deve dedurre tutte le regole della prudenza politica dalla sola giustizia — Sarebbe oramai tempo di ben intendere, prosieguo il Rosmini, che la società civile non è una so- cietà universale nel senso che comprenda nel suo seno tutte le altre , e di conseguenza tutti i diritti delle altre ; ma ella è una società partico- lare che vive a lato delle altre, come pure a lato di tutte le individualità, perchè neppur queste ponno essere da lei assorbite colla perdita del loro proprio essere individuale ; è una società che lungi di poter appropriarsi ed invadere i diritti degli individui e delle altre società, ha l'intento di tute- larli, senza distruggerli, senza minorarli. . . ; sebbene per tutelare e pro- teggere i diritti, li modifica altresì nella forma. . . In una parola essa è una società istituita al solo fine di regolare la modalità di tutti i diritti dei suoi membri, lasciandone intatto il valore, ecc. n (1). (I) Sopra ciò discorre più a lungo il Rosmioi noi luogo citato da pag 33-37, che è da vedere. ']702 DELL ESSERE E DEL CONOSCERE, ECC. 4. — La Pedagogia. 7. (( Dacché il senso corporeo, che non apprende la verità, fu procla- mato il solo maestro sicuro, la sola guida ledele degli uomini , e quindi la Morale, il Diritto, la Giustizia, regolatrice della Politica, e ogni altra cosa di natura eterna perì insieme colla Verità nell'opinione degli alluci- nati, anche la voluttà dei sensi divenne, come divenir doveva, il fine della scienza e dell'arte pedagogica; e solo perchè quella, consumando le so- stanze, non consumasse troppo celeremente se stessa, le fu dato per con- trappeso e correttivo la scienza dell'Economia Politica (anche questa scienza per se bellissima e utilissima corrompendosi), alla quale noi Ita- liani imparammo da Melchiorre Gioja ridursi la Morale! aggiuntovi l'odio della verità, la quale co' suoi raggi non cessa di riprendere gli uo- mini de' lor traviamenti. Al piacere dunque, all'economia politica che lo alimenti, e all'astio della verità morale e religiosa, nel sistema di colali educatori, doveano sacrarsi le novelle piante umane destinate a formare la seh'a selvaggia ed aspra e forte che ricopre tutta la terra. Ma se a questo termine dee condurre necessariamente quel sistema ideologico che nega ogni eterno e immobile elemento e che abbandona il genere umano e le sue giovenili propaggini al flusso dei sensi; per lo contrario si raccoglie che la scienza e Iurte dell'umana educazione, qualora non debba essere un'industria dotta e sistematica di corrompere e imbastar- dire i teneri germogli dell'umana famiglia, converrà che abbia per fonda- mento anche essa quell'elemento eterno che costituisce la nobiltà delluomo, e, sollevandolo al disopra del minerale, del vegetale e dell'ente sensitivo, il fa re della terra e scopo della creazione; quell'elementOj a cui il senso corporeo è straniero e soggetto, e che l'Ideologia addita neWidèa che splende con inestinguibile lume alla mente come prima manifestazione dellEssere necessario; la Morale lo mostra nella legge che con autorità assoluta lega la volontà quale seconda manifestazione dellessere medesimo; e la Religione il fa trovare in Dio stesso manifestazione ultima e compila, fonte misterioso e della luce ideale ad un tempo e di ogni legislazione, soddisfacente ogni voto dell'umanità che nell'essere infinito si immortala, si assolve, si bea, si deifica. Al quale subhmissimo fine, a cui 1 uomo col suo intelletto, colla sua volontà, colla sua slessa essenza, aspira sempre di stendersi al di là del DI GIUSEPPE BURONI '] oZ creato O , deve dunque indirizzarsi con perseverantissima industria e con perfetta coerenza anche la scienza e l'arte dell'umana educazione, ad un semplice ed evidente principio tutte le altre parti subordinando, le quali, subordinate cosi, partecipano di quella infinita dignità e contribuiscono alla verace perfezione e alla felicità degli educati » C2) . 5. — La Medicina. 8. « Abolita la dignità intellettiva per opera del sensismo, non ci ha più ragione di non abolire la stessa natura sensitiva e discendere al materia- lismo, come nel fatto è avvenuto In tutti i rami del sapere, non solo in quelli che riguardano lo spirito razionale e morale, ma ancor più immediatamente in quelli che riguardano il corpo vivente, il materia- lismo esercitò la sua dannosa influenza intrudendovi il sofisma del me- todo, l'errore nel risultato. La Medicina, divenuta materiale ( e si parla sempre della scienza, non degli individui, i quali per una felice incoe- renza possono credere alla spiritualità dell'anima), ruppe con orgoglio anche essa il filo della sua tradizione , rinunziò alla eredità de' maggiori Quando si muove dalla supposizione che il principio della vita non sia che materia, allora, non presentando questa, per qualunque studio l'uomo vi faccia, se non fenomeni passivi, è smarrito quel principio attivo onde tutte le funzioni o fisiologiche o patologiche come da loro cause dipen- dono, e quindi è anche smarrito necessariamente il vero principio del- l'arte salutare; né questo si ritroverà più se non quando, tornandosi un po' indietro, si riconoscerà di nuovo che il principio sensitivo, lungi dal- l'esser materia, è anzi quello che agisce nella materia e l'avviva e la domina, come il principio razionale agisce sul sensitivo, e lo modifica, e in qran parte lo signoreggia. Di che consegue che se la medicina vuole influire con utilità sul vivente, è uopo che ella si rimetta in comunica- zione con questi due principii, il sensitivo ed il razionale, dall'azione dei quali il vivente ed il suo stato morboso o normale deriva: e in quest'a- zione benefica confidi assai più che in se stessa, e ad aiutare e coordinare quest'azione tutta la sua industria rivolga » (3) . (1) È la formola stessa del Vico che definÌTa l'uomo: Nasse, velie, posse finitum quod tendit ad Inftiilum, (2) Di pedagogia il Rosmini scrisse diversi opuscoli, sopra i quali primeggia l'opera Del prin- iipio supremo della Melodica pubblicata dopo la sua morte e che rimase incompleta. È un volume in-S» di pag. 3G8. Torino, 1852. (3; Molte cose in servigio della Medicina scriss* il Rosmini aeW antropologia e nella Psicologia, 7o4 6. — Letteratura. 9. i( Ridotto riioino al solo senso, restano le passioni, ma non più rimane la norma intellettiva e morale che le ordina, or temperandole, or ecci- tandole, sempre governandole agli alti fini dell'umana destinazione, a cui debbono servire Quindi esse rimasero sola materia alia letteratura del secolo sensista da Lord Byron a Vittore Ugo Il sensismo dunque, rapendo la parte ideale e divina alla letteratura e a tutte le arti del bello, o le distrugge col legar l'uomo al positivo della sensazione (è questo il positivismo prosaico che anche oggi si vuol far dominare), o certo le igno- bilita lasciando loro il solo ufficio di imitare o rappresentare in un aspetto seducente gli eccessi delle passioni, né altrove si può raccendere la facella del genio, se non al fuoco sacro della verità, della morale e della reli- gione, cui il senso ignora, e sola l'intelligenza consapevole nei suoi pe- netrali conserva « O. NB. — Il Rosmini prometteva anche un'operetta sulla Filosofia delle matematiche [Introd. alla Filosofia, pag. 42), per mostrar l'aiuto che traggono dalla Filosofia le scienze matematiche e fìsiche , che non vide la luce. IV. 10. Tale è pertanto il nobile intento pratico e morale che il Rosmini si prefisse da principio all'alte sue speculazioni, lo quali non vanno riguar- date, come pur fanno molti che diconsi uomini pratici, quali disquisizioni di una mente non altro che metafisica e speculativa, ben sapendo che da quelle supreme altezze dellumano pensiero, o il vogliano o no, come ogni umano sapere si deriva, così ogni errore si propaggina che guasta l'umana generazione. 11. E che un tale intento nobilissimo labbia in gran parte raggiunto, ne fanno fede le molte opere che scrisse di Morale e di Giurisprudenza segnatamente nella seconda parie di quest'opera, libro 5°, pag. 531-774, che tratta ex-professo delle Leyiji ddV auimciliià e delle malattie che le disordinano (1) Una special parte nella Enciclopedia filosofica del Rosmini do\ea tenere la Callotogia. Ma solo fu pubblicato il volume Letteratura e Aiti Belle, Intra, 1870 (un voi. in-8° di p. 350), e molte belle speculazioni sul Bello ha nel voi. 2° della Teosofia, p. 412-509. DI GIUSEPPE BUROM 7^ e tli altre pratiche discipline, come al)biaino veduto; e ne rende onore- vole e autorevole testimonianza quell'altissimo ingegno che fu Alessandro Manzoni, il quale gli si fece discepolo, e ne divenne tantosto caldo ammira- tore O : « Che uno dei grandi elFctli di questa filosofia, scrive egli nel dialogo Deir invenzione, pag. 749, col. 2 (ediz. di Napoli), è appunto di mantenere e di rivendicare all'umanità il possesso di quelle verità che sono come il suo naturai patrimonio, contro de' sistemi, i quali, se non riescono a levarle allatto nemmen dalle menti de lor seguaci, fanno che ci riman- gano come contraddizioni. Qui vi rallegrerete di sentire un vero rispetto per l'intelligenza umana, una fondata fiducia nella ragione umana, ricono- scendo bensì come l'una e l'altra sia limitata nella cognizione della verità, ma sentendovi sicuri che non sono né possono essere condannate a errori fatali, anzi ricavando questa sicurezza anche da quel riconoscimento, giacché i limiti attestano il possesso col circoscriverlo. Un vero e alto rispetto, dico, per l'intelligenza e per la ragione comune, impresse da una bontà onnipotente in tutti gli uomini , e in paragone delle quali la superiorità de-^li ingegni piiì elevati è come l'altezze dei monti in paragone della pro- fondità della terra. E non c'è scapito, se scemando un poco l'ammirazione per alcuni, cresce la stima per tutti ». Il che s'accorda con ciò che nei Preliminari dell'Opera presente noi dicevamo di questa precipua dote della filosofia del Rosmini che è la popoIaìHtà. Ed il Manzoni seguita poi mostrando come sia importante una tale filosofìa per la Morale (pag. 752-756), e come l'intento precipuo di quella sia di far grandeggiare nella mente degli uomini e rendere al tutto in- violabile e sacra l'idea della Giustizia (pag. 758, col. 2 e seg.). 12. E si noti che il Rosmini le sue opere Morali mandò innanzi per or- dine di pubblicazione alle scienze divine, non perchè egli fosse per niun modo seguitatore di quell'assurdo sistema che dicesi della Morale indipendente, (1) È degno d'esser Ietto l'elogio stupendo che il grand'uomo ci lasciò scritto della Filosofia del Rosmini nel dialogo Dell'Invenzione, e che ne forma l'intiera seconda parie, e se ne direbbe lo scopo precipuo, pag. 746, col. H, sino a pag. 760 dell'ediz. di Napoli. Ne -vale a sminuirne l'importanza questa nota appostavi a pie pagina dall'editore napoletano a pag 746, col. 2": <■ Le lodi dato dal sapiente Autore al sistema filosofico rosminiano ci han sembianza d'iperboliche. La libertà poi d'in- telletto che dice richiedersi da quella filosofia, de\e certamente intendersi d'una libertà che sia te- nuta tra i limiti del ragionevole e del giusto, s'i scienlificamcnle, e si quanto all'autorità divina, alla Serie II. To.m. XXX. 89 rjoQ dell'essere e del conoscere^ ecc. conciossiachè la Morale non può ritrarre la sua piena perfezione e per- fetta sanzione se non da Dio ; ma perchè neanco aderiva all'altro sistema assurdo, falsamente denominato teologico, che dall'Autorità divina e dalla Legislazione positiva di Dio deduce l'essenza del bene e del male morale. Ma egli l'essenza della morale pone nella ragione obbiettiva, e propria- mente nelle essenze delle cose che splendono alla ragione e che son divine (^Filosofia della Moi'ale , voi. i", pag. 290), sicché ne siano tenuti come da legge infrangibile anche gli dèi, come detto avrebbero nel loro linguaggio pagano gli antichi fdosofi, e come nel nostro linguaggio cri- stiano più santo e piiì giusto diciamo noi, che da essa non può dipartirsi nemmeno lo stesso Dio qui negare seipsum non potest (II. Tim., 21 3) 0. VI. 13. Onde si vede quanto largo campo fornirebbe di trattazione questa parte della Filosofia rosminiana. Ma perchè in questa esposizione uopo è occuparsi piuttosto dei principii che delle conseguenze benché nobili ed importanti, perchè quelli lèrmati, anche queste restano assicurate; perciò mi contento del breve cenno qui dato di questa materia, per venire al- lultimo punto in cui si dee decidere vdtimatamente la sentenza di questa filosofia, se ella sia atta a condurci, il che alcuni le contestano, alla scienza di Dio in cui dimora la consumata sapienza ; « Nosse enini Te , dice il Savio, consummata iustitia est » (Sap. xv, 3); altrimenti ella sarebbe chia- rita inane: « Vani autem sunt omnes homines in quibus non subest scientia Dei » (ibid., cap. xiii, i). N. B. Vedi sopra il libro quinto delle Dottrine Teosofiche. (|aale conviene che ogni filosolia soggiaccia » j la qual noia troppo si vede imposta dalla sacro-civile ÌDi|uisìzione napoletana d'allora, e composta da qualclie caporione tra i neo-scolastici, che l'umana mente vorrebbero inceppare tra formole cadaveriche di cui essi perdettero lo spirito e la vita. (1) Vedi sopra di ciò l'importante capo VI della Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della Morale nel voi. 1° Filosofia della Morate, pag. 259 e seg. DI GIUSEPPE BURONI 'JO'J INDICE LIBRO QUARTO DELL'IDEAZIONE E DELLE IDEE. Capo X. Si dichiara la cosa con una sentenza di Aristotele PAG. 513 » XI. Si conferma con una sentenza dell'italico Empedocle » 516 i> XII. Come s'intenda la dislinzioue d'ideale e reale " 521 » XIII. Vero concetto delle idee plaloniclie, e obbiezioni di Aristotele: non si duplicano le essenze dello cose, ma l'essenza una d'ogni cosa è in due modi . . " 524 » XIV. L'esemplarismo di Platone, gli esemplari (TO/5aòe' 536 § 3. La mimesi " '•'a » XV. Della Tirtìi rappresentativa delle idee e della similitudine » 542 « XVI. Obbiezione contro l'esemplarismo suddetto risoluta. Di nuovo delle idee rappre- sentative " 547 » XVII. Doppia esistenza de' reali assoluta e relativa: Mondo metafisico degli enti . » 55'7 1) XVIII. Come la mente pensa le cose temporanee ed estese fuori del tempo e dello spazio nell'eternità. Come la mente veda l'essenza della sensazione fuor del senso. , Un vero conosciuto dal Gioberti, riconosciuto dal Rosmini » 568 § 1. Come la mente pensa le cose temporanee ed estese fuori del tempo e dello spazio nell'eternità " 570 § 2. Come la mente eterna veda l'essere della sensazione fuori del senso )■ 587 » XIX. La controversia degli universali composta " 597 § 1. Della natura degli universali e loro rapporto alle cose .... » 598 § 2. Dell'origine degli universali nella mente >' 599 § 3. Sentimento di San Tommaso. — Intcntio universalitatis .... » 600 § 4. Errore precipuo dei neo-scolastici devii da San Tommaso ...» 601 § 5. Concetti secondarli " 602 » XX. Vita e moto delle idee: loro comunione co' reali. Lotta di Platone contro i Me- >. 602 ganci XXI. Come l'ideazione si compia, presupposta la sola idea dell'essere XXII. Anteriorità e indipendenza delle idee dai sensibili 603 606 Conclusione del libro quarto > « ol- LIBRO QUINTO TEORICA DELLA CONOSCEAZA DI DIO O LE DOTTRINE TEOSOFICHE. Proemio. I. Argomento di questo libro: Idea della Teosofia del Rosmini: Opposizioni e con- troversie » 613 II. Termini della quistione circa l'intuito di Dio » 616 III. Congiunzione vitale di Dio col mondo » 621 IV. Divisione e ordine di questo libro: Teosofia regressiva. Teosofia progressiva » 624 -o8 dell'essere e uel coaosceue, ecc. Parte prima Teosofa regressiva. Capo I. Come si formi il concetto di Dio o per qual via si riesca a dimostrarne l'esistenza PAG. 625 )> II. Il primo stimolo e la via prima per ascendere col pensiero a Dio è la dualità e opposizione dell'ideale o del reale n 626 j. III. Dichiarazione s 627 » IV. Corollarii della prima via spiegala: Corollario I. Come non si approvi di porre col Rosmini in Dio la distinzione delle duo forme ideale e reale i> 631 11 II. Conghiettiira sulla creazione. Che la creazione fu a mo' d'una scissura dialettica dell'Ente, la qual si ricompone colla dimo- strazione di Dio 11 632 M III. Fondamento teosofico supremo della dimostrazione dell'esistenza di Dio 11 630 » V. Seconda via di ascendere a Dio. Il sintesismo dell'essere ideale colla mente . » 638 11 VI, Corollarii della via seconda : Corollario I. In Dio cessa la dualitii di Oggetto e Soggetto .... ii 640 1. II. Conghiettura sulla creazione delle menti. L'Ente infinito comu- nicandosi alle menti s'indua » 6il >• III. L'essere ideale è l'insidcnza e la presenza (Tiapoujfst) di Dio nelle menti e la sigiilazione del suo lume in noi .... » 642 Parte seconda Teosofia progressiva. €\?o I. Che Dio è vita ed è il Buono . ... » 645 I) II. Della Trinità Prima nell'Essere , Mente, Verbo e Amore ; e della Dualità Prima dell'Essere: L'ente e gli enti > 647 » III. La Creazione è triniforme: le tre forme dell'essere u 649 11 IV. Del Possest e del possibile eterno antecedente alla creazione .... » 656 i> V. Modo d'essere del possibile eterno e de' possibili u 658 11 VI. Delle ragioni eterne e delle idee divine ii 667 )) VII. Esistenza eminente delle cose create in Dio » 673 Il Vili. Obbietto primo dell'intuito della mente umana. Conciliazione delle sentenze ; Ro- smini, Gioberti u 674 Conclusione dell'opera » 677 APPENDICE I. Schizzo di cosmologia > 681 Capo I (letico). Dello spazio solido illimitalo termine dell'anima • 682 Il II (ipotetico). Della concatenazione degli enti reali i 602 II. Cenno delle dollrine morali » 697 1. La Morale >■ 699 9. Il Diritto » 700 3. La Politica « 700 4. La Pedagogia » 702 5. La Medicina » 703 6. Letteratura ■■ 704 INDICE OEIV£RAL£ ED ALFABETICO DELLE , MEMORIE CONTENUTE NELLA PARTE STORICO -FILOLOGICA DEI TOMI \XI A X\\ SERIE II DELLE MEMORIE DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORimO 7ir INDICE GENERALE degli Autori delle Memorie contenute nei Tomi XXI a XXX ^ Serie II, della parte Storico-Filologica delle Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino. N. B. Il numero romano indica il Volume della Serie II. Il numero romano minore manda alla Nolizia Storica di ciascun Volume^ Il numero arabico segna la pagina. Albini P. L. = Relazione della Giunta incaricata di esaminare il merito delle Memorie presentate al concorso aperto dalla Classe per l'anno 1861. XXI; V. Allievo Giuseppe. = Il problema metafisico studiato nella storia della Filosofia dalla scuola Tonica a Giordano Bruno. XXX, i. BuRONi Giuseppe P. d. M. = Dell'essere e del conoscere; Studi su Par- menide, Platone e Rosmini. XXIX, 287; XXX, 5i3. Carutti Domenico. =: Lorenzo Coster; Notizia intorno alla sua vita ed alla invenzione della tipografia in Olanda. XXVI, i. — Saggio critico intorno a Properzio e ad una nuova edizione della Cinzia. XXVI, 23. — Sulpiciae Caleni Satyra. Recensuit. XXVIII, i. Claretta Gaudenzio. = Sui principali storici Piemontesi e particolar- mente sugli storiografi della Real Casa di Savoia; Memorie storiche, letterarie e biografiche. XXX, 261. (Capitoli I a VI - sino alla Reggenza della Duchessa CIOVANSA BATTISTA). CoNESTABiLE Giancarlo. = Sovra due dischi in bronzo antico-italici del Museo di Perugia, e sovra l'arte ornamentale primitiva in Italia e in altre parti d'Europa ; ricerche archeologiche comparative. XXVIII, 25. De Simone L. G. ■=. Note Japygo-messapiche. XXIX, 207. 712 Egger e. = Etudes d'histoire et de morale sur le meurtre politique chez les Grecs et les Romains. XXIII, 385. Fabretti Ariodante. = Primo supplemento alla Raccolta delle antichis- sime iscrizioni italiche, con l'aggiunta di alcune osservazioni paleo- grafiche e grammaticali. XXVII, 3'y5. — Osservazioni paleografiche e grammaticali intorno alle antiche iscrizioni italiche. XXIX, i. — Terzo supplemento alla Raccolta delle antichissime iscrizioni italiche. XXIX, 109. Flechia Giovanni. = Di alcune forme de' nomi locali dell'Italia supe- riore; dissertazione linguistica. XXVII, 275. Ghiringhello Giuseppe. =: La critica scientifica ed il sovrannaturale. XXII, 269; XXIV, 161. Lattes Elia. = Dell'influenza del contratto enfiteutico sulle condizioni dell'agricoltura e sulla libertà degli agricoltori, specialmente in Italia; Memoria premiata dalla Reale Accademia delle Scienze di Torino. XXV, 53. LuMBRoso Giacomo. ■=. Ricerche alessandrine. XXVII, i83. — Nuovi studi d'archeologia alessandrina. XXVII, 517. Ménabrèa Leon. = Des origines féodales dans les Alpes occidentales ; livre premier. XXII, i; XXIII, 211. Peyron Amedeo. = Illustrazione di una greca iscrizione trovata in Taor- mina. XXI, 211. — Notizie per servire alla Storia della Reggenza di Cristina di Francia, Duchessa di Savoia. XXIV, i. — La prima tavola di Eraclea, illustrata. XXVI, iSg. Peyron Bernardinus. = Psalterii Copto-Thebani specimen , quod om- nium primum in lucem prodit , continens praeter decem psalmorum fragmenta integros psalmos duos et triginta ad fidem Codicis Tauri- nensis, cura et criticis animadversionibus. — Accedit Amadei Peyroni dissertatio posthuma de nova copticae linguae orthographia , a ScHwARTzio V. GÌ. excogitata. XXVIII, 117. Promis Domenico. = La Zecca di Scio durante il dominio dei Genovesi; Memoria. - XXIII, 325. — Monete della Repubblica di Siena; Memoria. - XXIV, 261. — Monete delle Zecche di Messerano e Crevacuore dei Fieschi e Ferrerò ; Memoria. - XXVI, 63. 7i3 Promis Carlo. = Le antichità d'Aosta. XXI, i. — L'Iscrizione Cuneese di Catavigno figlio d'Ivomago, soldato nella coorte III de' Britanni, illustrata ecc., con dichiarazione di al- cune difficoltà nella storia antica dell' Inghilterra e del Piemonte. XXVI, 465. — Architetti ed architettura presso i Romani. XXVII, i. — V^ocaboli latini di architettura posteriori a Vitruvio, oppure a lui sco- nosciuti ; raccolti a complemento del Lessico Vitruviano di Bernar- dino Baldi. XXVIII, 207. ScLOPis Federigo. =: Della vita e dei lavori scientifici del Conte Alberto Ferrerò della Marmora ; Discorso pronunziato il 28 dicembre i863. - XXI, 219. Spano Giovanni. = Tavola di bronzo trovata in Esterzili ( Sardegna ) illustrata. XXV, i. Vallavrivs Thomas. = Animadversiones in dissertationem Friderici Rit- scHELU de Plauti poètae nominibus. XXIV, 147. Vksme {Carlo Baudi Di). = Di Gherardo da Firenze e di Aldobrando da Siena, Poeti del secolo XII, e delle origini del volgare illustre italiano; Memoria. XXIII, 4 19- — Appendice alla Memoria del Canonico Giovanni Spano sulla Tavola di bronzo trovata in Esterzili (Sardegna). XXV, i5. — Dell'industria delle miniere nel territorio di Villa di Chiesa [Iglesias) in Sardigna nei primi tempi della dominazione aragonese. XXVI, aaS. «nTKWOOOa'W» Serie II. Tom. XXX. 90 7.5 INDICE GENERALE delle materie contenute nei Tomi XXI a XXX, Serie lì ^ della parte Storico^ Filologica delle Memorie della B. Accademia delle Scienze di Torino. Archeologia. = Le antichità d'Aosta. Carlo Promis. XXI, i. — Tavola di bronzo trovata in Esterzili (Sardegna) ; illustrata dal Cano- nico Giovanni Spano. XXV, i. — Appendice alla Memoria del Canonico Giovanni Spano sulla Tavola di bronzo trovata in Esterzili (Sardigna). Carlo Baudi di Vesme. XXV, i5. — La prima tavola d'Eraclea, illustrata da Amedeo Peyron. XXVI, iBg. — Ricerche alessandrine; per Giacomo Lumbroso. XXVII, i83. — Nuovi studi d'archeologia alessandrina. Giacomo Lumbroso. XXVII ^ — Sovra due dischi in bronzo antico-italici del Museo di Perugia, e sovra l'arte ornamentale primitiva in Italia e in altre parti d'Europa; ri- cerche archeologiche comparative del Conte Gian Carlo Conestabile. XXVIII, 25. — Osservazioni paleografiche e grammaticali intorno alle antiche iscri- zioni italiche. Ariodante Fabretti. XXIX, i. Atti accademici. = Relazione della Giunta incaricata di esaminare il merito delle Memorie presentate al concorso aperto dalla Classe per l'anno 1861. P. L. Albini. XXI, v. Biografia. = Della vita e dei lavori scientifici del Conte Alberto Ferrerò DELLA Marmora; discorso pronunziato dal Conte Federigo Sclopis il 23 dicembre i863. XXI, 219. — Lorenzo Coster; Notizia intorno alla sua vita, ed alla invenzione della tipografia in Olanda. Domenico Carutti. XXVI, i. Serie II. Tom. XXX. go* -i6 Filosofia. = La Critica scientifica ed il sovrannaturale ; per Giuseppe Ghiringhello. XXII, 269; XXIV, 161. — Dell'essere e del conoscere; Studi su Parmenide, Platone e Rosmini. Giuseppe BuRONi. XXIX, 28'j ; XXX, 5i3. — Il problema metafisico studiato nella Storia della Filosofia, dalla scuola Ionica a Giordano Bruno. Giuseppe Allievo. Voi. XXX, p. i. Iscrizioni. = Illustrazione di una greca iscrizione trovata in Taormina. Amedeo Peyron. XXI, 211. — L'Iscrizione Guneese di Catavigno, figlio d'Ivomago, soldato nella coorte III de' Britanni, illustrata da Carlo Promis, con dichiara- zione di alcune difficoltà nella storia antica dell'Inghilterra e del Piemonte. XXVI, 4^5. — Primo supplemento alla Raccolta delle antichissime iscrizioni italiche, con l'aggiunta di alcune osservazioni paleografiche e grammaticali. Ariodante Fabretti. XXVII, 3y5. — '• Terzo supplemento alla Raccolta delle antichissime iscrizioni italiche. Ariodante Fabretti. XXIX, log. — Note Japygo-messapiche. L. G. De Simone. XXIX, 207. Legislazione. = Dell'influenza del contratto enfiteutico sulle condizioni dell'agricoltura e sulla libertà degli agricoltori, specialmente in Italia; Memoria premiata dalla Reale Accademia delle Scienze di Torino. Elia Lattes. XXV, 53. Letteratura. = Di Gherardo da Firenze e di Aldobrando da Siena , Poeti del secolo XII, e delle origini del volgare illustre italiano. Carlo Baudi di Vesme. XXIII, 419- — Animadversiones in dissertationem Friderici Ritschelii de Plauti poètae nominibus. Thomas Vallavrivs. XXIV, 147. — Saggio critico intorno a Properzio e ad una nuova edizione della Cinzia. Domenico Carutti. XXVI , 23. — Di alcune torme de' nomi locali dell'Italia superiore ; dissertazione lin- guistica di Giovanni Flechia. XXVII, 275. — Sulpiciae Caleni Satyra. Recensuit Dominicus Carutti. XXV'III, i. — Psalterii Copto-Thebani specimen , quod omnium primum in lucem prodit , continens praeter decem psalmorum fragmenta integros psahiios duos et triginta ad fidem Codicis Taurinensis, cura et criticis animadversionibus Bernardini Peyroni. — Accedit Amadei Peyroni dissertati© posthuma De nova Copticae linguae ortìio- grapììia , a Schwartzio V. CI. excogitata. XXVIIl, 117. 7'7 Letteratura. = Vocaholi latini di arcliitettura posteriori a Vitruvio,. oppure a lui sconosciuti , raccolti da Cario Promis a complemento del Lessico Vitruviano di Bernardino Baldi. XXVIII, 207. Numismatica. =: La Zecca di Scio durante il dominio dei Genovesi. Do- menico Promis. XXIII, 32.5. — Monete della Repubblica di Siena. Domenico Promis. XXIV, 261. — Monete delle Zecche di Messerano e Crevacuore dei Fieschi e Ferrerò. Domenico Promis. XXVI, 63. Storia antica. = Études d'histoire et de morale sur le meurtre politique cliez les Grecs et chez les Romains. E. Egger. XXIII, 385. — Architetti ed architettura presso i Romani. Carlo Promis. XXMI, i. Storia. = Dell'industria delle miniere nel territorio di Villa di Chiesa (Iglesias) in Sardigna nei primi tempi della dominazione aragonese. Carlo Baudi di "Vesme. XXVI, aaS. — Des origines féodales dans les Alpes occidentales; livre premier. Leon Ménabrèa. XXII, i; XXIII, 211. — Notizie per servire alla Storia della Reggenza di Cristina di Francia, Duchessa di Savoia. Amedeo Peyron. XXIV, i. Sui principali storici Piemontesi e particolarmente sugli storiografi della Real Casa di Savoia ; Memorie storiche, letterarie e biografiche. Gaudenzio Claretta. XXX, 261. (Capitoli 1 a VI sino alla Reggenza della Duchessa GlOY.ffiA BATTISTA). I]\[DIGE CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE Il Problema metafisico, studiato nella Storia della Filosofia, dalla Scuola Jonica a Giordano Bruno , per Giuseppe Allievo pag. i Sui principali Storici Piemontesi e particolarmente sugli Sto- riografi DELLA R. Casa di Savoia ; Memorie storiche, letterarie e biografiche di Gaudenzio Claretta (Continuazione) . . » 361 Dell' essere e del conoscere , Studii su Parmenide , Platone e Rosmini ; del Prof. Giuseppe Buroni P. d. M. (Fine ) . » 5 1 3 y." Si stampi: PROSPERO RICHELMY, Vice-Presidente ASCANIO SOBUERO i \ Segretam. Gaspare Gorresio \ mi g Si' \i3i l'^ mi mi ?m.i mi Màm ^i^^^SJ^ ì) Xìk / - N W '^ìf. ■/-'^^ MS ^■^■>'^!ir>^'^ '*-. .r\. K»<'> V/ i^fi Wì .orv---^^^' min >^ O^ '■■ '■■^t~5>s' • mim