HARVARD UNIVERSITY. LIBRARY OF THE MUSEUM OF COMPARATIVE ZOOLOGY. Udo 2 \ Sede Fia Da Pg KA3D: CEDELZE DICESSI TIE DEDITI SEI to A EG TEZYZEZ&=3E VEMRZ SENVENVERSNERNIEERZI GEN ARRE i SSEZEZEZ ENENEN De) MAZZA ca i vi di (( (i ì x = DICCD ZIE RAZZI SCIENZE DIVI DE V=TSGXR=SKZABRIRESREREZEZAERKE DI TORINO Via Carlo Alberto, 3. TT CoD) DEI SERIE SECONDA ‘l'omo LXTIIT CD) DELLE Libreria FRATELLI BOCCA Te A 5 \L A PZ IRTE OASIS CRaeiaeta DEIRA esa 3 7 lr sr e re inse lame e E | i i RICCO EIA FOUR MEMORIE DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO DELL REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO SERIE SECONDA Tomo LXII TORINO Libreria FRATELLI BOCCA Via Carlo Alberto, 3. RETTO TL e VE È VERORINO LE o IGO a PRATT 4 i Maio LA n ETA AMICTADDA HAA0 u i; CI Wi PRETESTI DR 4 È EI r ri I sa PSR E | ‘ 3 \ PSE 16 a 1 Torino — | M. e Reali Principi, LE) lemia delle Scienze. î AU SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI d.; AN BAITA IE REIT AIGITI ì INDICE CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI L’ellisse di elasticità trasversale e le sue applicazioni nella scienza delle costru- zioni; Memoria dell'Ing. CArLo Lurei Ricer (con 1 Tavola) o 10%. Le avene piemontesi della sez. “ Avenastrum , Koch; Osservazioni critiche del Dr. G. Gora (con 1 Tavola). e, » Sul valore sistematico del tegumento seminale delle “ Vicicae , ©. 0) Ruino: Memoria della Dott.* Giuria GrarpInELLI (con 1 Tavola) . i 5 Francesco Selmi e la sua opera scientifica; Parte I; Memoria del Socio IciLro GUARESCHI i; 5 £ 3 È È ; 3 5 5 — In. Parte II È : 5 Nuovi studii sulle Rudiste ddeginio (Radiolitidi); Moon del Soa C. F. Parona (con 2 Tavole) 3 5 : 3 Lo Stagno di S.'" Gilla (Cagliari) e la sua vegetazione; Pao II: Coltan ed Ecologia della Flora; Studio del Dr. AnereLo Casu (con 1 Tavola) , Sulle cause del ritmo respiratorio; Rivista critica del Dott. CARLO Foà . 3 Giovanni V. Schiaparelli; Commemorazione letta dal Socio NicopeMo JADANZA , La vegetazione del Bosco Lucedio (Trino Vercellese); Contributo allo studio fito- geografico dell’alta pianura padana; Memoria del Dr. Grovanni NEGRI , Nuova contribuzione all’ Anatomia delle Solanee; Memoria del Prof. EpoarDpo MartEL (con 1 Tavola) 5 ; 7 Sulle cellule interstiziali del testicolo; Ricerche del Prof. Pio Foù (1 2 Tolo) 3 L'equilibrio elastico dal punto di vista energetico; Memoria del Dr. Ing. Gusravo COLONNETTI .. _ a : } 3 ; 3 7 ee... i: o, ci ae tà si | + BRAGG E: iù " AI sad SERA cono aa MIGRFALGIA CIS SRI NEO E TIT LT E 0 pani i | O tn AU ORA INI, x Licio Hub o ori Ario LI ® Ii MEV ii i — dali )6 Mes i i do si parta i Hib: iena Voli: La sorta La) Lr Log L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE E LE SUE APPLICAZIONI NELLA SCIENZA DELLE COSTRUZIONI MEMORIA dell’Ing. CARLO LUIGI RICCI Assistente nel R. Politecnico di Torino. (CON UNA TAVOLA) Approvata nell’Adunanza dell'’8 Gennaio 1911. INTRODUZIONE Le teorie note della Scienza delle Costruzioni, riguardanti i solidi aventi un piano medio di simmetria, ordinariamente studiano soltanto i casi in cui le forze esterne giacciano, o si possano ridurre nel piano medio; questi casi d’altra parte, sì presentano sempre nella pratica, ed i noti procedimenti, analitici o grafici, servono molto opportunamente per studiare le deformazioni e, se si tratta di costruzioni iperstatiche, per dedurre, mediante semplici equazioni di elasticità, dalle deforma- zioni le reazioni incognite dei vincoli sovrabbondanti. Tra i metodi grafici è notevole per eleganza di concetti, e per semplicità e speditezza di procedimenti, quello derivante dalla nota teoria dell’ellisse di elasticità. Può essere degno di qualche interesse lo studio di un solido a semplice curva- tura, sollecitato da forze normali al piano dell’asse geometrico. Compiuto questo studio si sarà in grado di valutare l’azione di forze qualunque agenti sul solido in questione; giacchè una forza comunque diretta si può sempre scomporre in due, delle quali l’una sia normale al piano dell’asse geometrico, e l’altra contenuta in tale piano. In queste pagine ci proponiamo appunto di sviluppare tale studio, e di ricavarne le possibili applicazioni pratiche, le quali possono essere svariate, ed interessare le varie parti della Scienza delle Costruzioni. Anzitutto per la Teoria dei Ponti interessa studiare l’azione di forze orizzontali agenti normalmente al piano di simmetria della struttura, e queste sono, com'è noto, la spinta del vento, la spinta dell’acqua durante le grandi piene, e, quando il ponte è destinato a portare binarii in curva, la forza centrifuga sviluppata dai treni. Serie II. Tom. LXII. A CARLO LUIGI RICCI DO Inoltre in quest’ultimo caso si ha pure da considerare una componente degli sforzi di trazione e di frenamento; infatti durante il movimento di un treno, ogni carrozza risente da quelle che la precedono una trazione diretta nel senso del movi- mento, e da quelle che la seguono una trazione diretta in senso contrario, la quale è uguale alla precedente diminuita della resistenza opposta al moto dalla car- rozza stessa. Se il binario è in curva, queste due forze formano un certo angolo, ed ammet- tono una risultante la quale avrà certo una componente radiale, tanto maggiore quanto più grande è il numero delle carrozze che seguono, e quanto più piccolo è il rapporto tra il raggio della curva e la lunghezza della carrozza. Questa forza, piccola a fronte della forza centrifuga quando il treno ha la velo- cità normale, può essere preponderante se il treno è nel periodo di avviamento, perchè piccolissima la forza centrifuga. Durante il frenamento, se nel treno vi sono delle carrozze non direttamente frenate, si potrà avere una forza della stessa natura, ma di segno contrario, cospi- rante cioè colla forza centrifuga. Inoltre nella costruzione dei ponti, specialmente in ferro, sono spesso usati dei portali, a parete piena o reticolari, ai quali sono collegate delle aste appartenenti alle travature principali costituenti il ponte, od alle travi di controvento; le tensioni di queste aste sono forze oblique al piano dell'asse geometrico del portale, e per valutarne gli effetti potrà servire quanto esporremo. Questo studio può pure applicarsi per tener conto della dissimmetria dei carichi rispetto all’asse longitudinale di una trave o di un arco; per esempio, nel caso di un ponte ferroviario a due binarii dei quali uno solo sia carico, oppure nel caso di marciapiedi o passerelle di sbalzo, ecc. Nella Statica delle costruzioni civili non mancano poi le applicazioni del caso da noi considerato, e senza, enumerare tutte le svariate disposizioni che si possono presentare, citeremo qualche esempio; l’arco sul quale s’imposta un altro arco, od un’'incavallatura spingente il cui piano non coincida con quello dell’arco portante (nel caso più comune questi piani saranno normali); gli archi di sostegno delle volte a vela, a crociera rialzata e simili; in tutti questi casi le spinte orizzontali, concen- trate nel caso degli archi secondarii o delle incavallature, ripartite nel caso delle volte, sollecitano l’arco principale nel modo considerato in questo studio. È degno di nota il fatto che le cerniere cilindriche coll’asse normale al piano dell’asse geometrico, sotto l’azione di forze normali a questo piano si comportano come incastri; giacchè dette forze parallele all’asse della cerniera non possono pro- durre rotazione intorno alla cerniera stessa, e la loro azione viene equilibrata dalla reazione di questa. Quindi un arco con cerniere cilindriche, per il nostro studio non differisce sostan- zialmente da un arco incastrato senza cerniere. Premesse queste brevi considerazioni d’indole generale, possiamo incominciare senz'altro lo studio che ci siamo proposto. L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 5) CapitoLO I. Teoria generale dell’e/lisse trasversale di elasticità. $ 1. — Prendiamo a considerare un solido elastico a semplice curvatura, sim- metrico rispetto al piano dell’asse geometrico, od almeno tale che questo piano con- tenga un asse principale d'inerzia di ogni sezione trasversale. Supponiamo che questo solido sia incastrato rigidamente ad un estremo A, e libero all’altro estremo B, e studiamo gli spostamenti che la sezione B subisce sotto l’azione di forze agenti perpendicolarmente al piano dell’asse geometrico, i cui punti di applicazione si devono intendere rigidamente collegati alla sezione estrema B. Questa ricerca ci potrà servire per determinare le reazioni incognite nel caso di un arco vincolato alle due estremità e staticamente indeterminato; giacchè libe- rato dai vincoli uno degli estremi, per esempio 5, e calcolato lo spostamento di questo sotto l’azione di forze esterne, si può determinare una forza, rigidamente connessa colla sezione B, la quale annulli questo spostamento; tale forza sarà la reazione dell'imposta B; quella dell’imposta A si determina poi colle condizioni di equilibrio dei sistemi rigidi. $ 2. — Indichiamo con n il piano dell’asse geometrico, che assumeremo, secondo il solito, come piano di figura. Sul piano m si segnino le traccie delle linee d'azione delle forze normali a questo piano; si stabilisca sul piano una faccia positiva, quella che appare sul di- segno, e si ritengano positive le forze dirette dalla faccia positiva alla opposta. Una forza passante pel punto X, e normale a T, fa rotare la sezione B intorno ad un asse z, che per ragioni di simmetria è contenuto nel piano di figura. Infatti: una forza f diretta comunque imprime a B un moto, che, data la pic- colezza di tutte le deformazioni elastiche, si può equiparare ad un movimento istan- taneo, e quindi nel caso generale è un moto elicoidale, il cui asse centrale « non giace nel piano t dell'asse geometrico del solido. Siano e # i vettori rappresentativi della rotazione e della traslazione di cui tale moto risulta. Essendo n piano di simmetria del sistema, è chiaro che la forza f', simmetrica di f rispetto a n, imprime a B il moto elicoidale simmetrico del precedente, rispetto a tr, cioè avente per asse la retta a’ simmetrica di 4, il vettore traslazione #' sim- Fig. 1. metrico di #, ed il vettore rotazione y' uguale all'opposto del simmetrico di r. D'altra parte, cambiando di segno la forza, il moto elicoidale cambia esso pure 4 CARLO LUIGI RICCI di segno; ossia la forza —f produce il moto elicoidale di asse a, risultante dei moti rappresentati dai vettori —t e — r. Ora se supponiamo che la forza f sia normale al piano di simmetria, la f e la — f coincidono; quindi il moto elicoidale prodotto da f deve essere tale che il suo simmetrico ed il suo opposto coincidano, e quindi l’asse deve coincidere col suo simmetrico, ossia deve giacere nel piano 1; la traslazione # deve essere uguale alla sua opposta, ossia deve essere nulla. È dunque vero che il moto si riduce ad una semplice rotazione intorno ad un asse giacente nel piano q. Noi possiamo chiamare corrispondente di un punto X del piano t, l’asse x della rotazione prodotta da una forza normale a t, passante per il punto X; e la corri- spondenza che così viene definita è univoca. Nel seguito indicheremo con lettere maiuscole i punti del piano tr, traccie delle linee d’azione delle forze, e colle corrispondenti lettere minuscole gli assi delle rota- zioni prodotte dalle forze stesse. Così le rette x,, xs ..... saranno gli assi delle rota- zioni prodotte da forze agenti in X, X..... Dal teorema di reciprocità, — il quale dice che il lavoro virtuale prodotto da una forza f, applicata ad un sistema elastico, durante l’azione di un’altra forza fa, agente sullo stesso sistema, è uguale al lavoro prodotto dalla forza f» durante l’azione della forza fz, — si deduce che se X, sta su x,, anche X, sta su wo. Inoltre, poichè le rotazioni si compongono come forze, la rotazione prodotta dalla risultante di due forze sarà la risultante delle rotazioni prodotte dalle forze componenti; quindi, se il punto X descrive una retta », il corrispondente asse x ruota intorno ad un punto È, che è il corrispondente di r. Infine è chiaro che un punto X non può mai giacere sul corrispondente asse , giacchè in tal caso la forza durante la deformazione da essa prodotta non genere- rebbe lavoro alcuno. Si ritrovano così le note proprietà che ci permettono di affermare che la corri- spondenza tra i punti X di applicazione delle forze, e gli assi x delle rotazioni da esse prodotte, è una polarità uniforme, la quale quindi si può costruire come anti- polarità rispetto ad una conica, che per ragioni ovvie deve essere un’ellisse. Infatti, se la polarità è uniforme, ogni involuzione subordinata — su una pun- teggiata od in un fascio — deve essere ellittica; quindi in particolare deve essere ellittica l’involuzione dei diametri coniugati della conica fondamentale della anti- polarità. Questa ellisse si può chiamare l’ellisse di elasticità trasversale (o laterale). Riassumendo: rispetto all’ellisse trasversale sono polo ed antipolare il punto di applicazione X. di una forza normale a n e rigidamente connessa colla sezione estrema, e l'asse x della rotazione da essa forza prodotta. $ 3. — L’antipolarità ora definita stabilisce le relazioni geometriche tra le forze e le corrispondenti reazioni; le relazioni quantitative che intercedono tra le intensità di forze e rotazioni, sono stabilite dalle considerazioni che seguono. Una forza f normale a m, passante per il centro G dell’ellisse trasversale pro- duce una traslazione S, la quale è proporzionale all’intensità della forza. Se la forza passa invece per un punto qualunque del piano m, essa si può trasportare in G; quivi L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 5 produce la traslazione S; inoltre il momento di trasporto fa rotare la sezione estrema intorno al diametro dell’ellisse coniugato colla direzione della traccia del piano della coppia; questa rotazione non produce ulteriore spostamento del punto G, poichè questo sta sull’asse della rotazione. Potremo quindi porre: Gis e potremo chiamare peso elastico trasversale il coefficiente ©, ossia # rapporto costante tra la forza e lo spostamento del centro G dell’ellisse trasversale. Risulta quindi il seguente teorema fondamentale : Lo spostamento del centro G dell’ellisse trasversale, prodotto da una forza f, nor- male a ti, rigidamente connessa colla sezione estrema del solido, e passante per un punto qualunque di n, è proporzionale all'intensità della forza, ed indipendente dalla sua posi- zione ed è espresso da: i SE= T ove G è il peso elastico trasversale del sistema. La forza agente in un punto X produce una rotazione r intorno all’asse x, anti- polare di X: lo spostamento S del centro sarà il momento della rotazione r rispetto al punto G stesso, ossia, se d è la distanza (normale) di 2 da G, e ser è la rota- zione, si ha: S= rd e sostituendo: rd= + ossia: f= rd6. Si ha quindi il seguente teorema : La forza £ da cui è prodotta una determinata rotazione r, è uguale al prodotto della rotazione r per il momento statico del peso elastico &, applicato in G, rispetto all'asse della rotazione. Da questo teorema sì possono immediatamente ricavare i seguenti altri: II momento di una forza £ rispetto ad un asse del piano n, è uguale al prodotto della rotazione r per il momento centrifugo del peso 6 rispetto all’asse della rotazione ed all'asse dei momenti. È superfluo osservare che qui si considera il peso @ diffuso nel solido in guisa da avere per ellisse d'inerzia l’ellisse trasversale di elasticità. Il momento della forza £ rispetto all’asse della rotazione da essa prodotta è uguale al prodotto della rotazione per il momento d'inerzia del peso elastico & rispetto al- l’asse stesso. Una coppia normale a t e parallela ad un diametro c dell’ellisse trasversale pro- duce una rotazione intorno al diametro coniugato di c; la grandezza della rotazione è tr= = ove M, è il momento della coppia rispetto all'asse della rotazione (ossia la pro- 8 CARLO LUIGI RICCI iezione dell'asse momento della ‘coppia sulla direzione dell'asse della rotazione), e p. è l'antiproiezione sulla direzione coniugata del semidiametro dell’ellisse disteso sulla vetta e. Questi teoremi sono perfettamente analoghi ai teoremi della nota teoria dell’ellisse di elasticità (che diremo ordinaria) la quale serve a studiare le deformazioni pro- dotte da forze agenti in n; anzi si potrebbero ricavare gli enunciati degli uni da quelli degli altri, scambiando le parole forza e rotazione, e quindi anche le parole coppia e traslazione. È bene notare che il peso elastico trasversale qui considerato non è omogeneo coi pesi elastici ordinarti che di solito si considerano nella teoria della elasticità. Dalla formola: 6 = £ si vede che le dimensioni di questo peso elastico sono quelle di una forza divisa per una lunghezza, ossia: [6] = [MT] e, colle unità usate nei calcoli di resistenza dei materiali, verrà espresso in ca È M ove R è una rotazione ed M un momento; quindi, poichè la rotazione non ha di- mensioni, ossia è un numero astratto, il peso suddetto ha dimensioni reciproche di Il peso elastico ordinario, che indicheremo con W, è definito dalla formola:W = quelle di un momento, si ha cioè: [8] = [ML 7°] e colle solite unità del sistema pratico della resistenza dei materiali verrà espresso - 1 10 tem $ 4. — Per costruire l’ellisse trasversale del solido che consideriamo occorrerà scomporre questo in tronchi che si possano ritenere prismatici. Conviene quindi stu- diare il comportamento di un corpo prismatico, incastrato ad un estremo 4, solle- citato da forze normali ad un suo piano di simmetria passante per l’asse geometrico, e rigidamente collegate all'estremo libero 5. Per la simmetria gli assi dell’ellisse trasversale sono l’uno giacente sull’asse geometrico, e l’altro normale; ed il centro è il punto medio del segmento AB. È facile convincersi, considerando le rotazioni prodotte da forze normali a ©, applicate in punti dell'asse geometrico @, che il semiasse longitudinale dell’ellisse trasversale, è uguale a quello dell’ellisse ordinaria di elasticità relativa al piano pas- sante per a e normale a n; ossia: TV 10 dh, P=|otXGF indicando con / la lunghezza del solido, con F l’area della sezione trasversale, e con Jy il momento d'inerzia di questa sezione rispetto all’asse baricentrico y giacente L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 7 nel piano t di figura; è bene notare che il momento statico ed il raggio d’ inerzia che entrano nell’espressione di y (*) devono essere quelli relativi all'asse y. Se trascuriamo le deformazioni prodotte dallo sforzo di taglio, come si usa per lo più nelle applicazioni, si può assumere: Via ed in questo caso il semiasse longitudinale è uguale pure a quello della ordinaria ellisse di elasticità relativa al piano n. Per trovare l’asse trasversale dell’ellisse cercata consideriamo una forza unitaria agente in un punto Y dell’asse di simmetria y, normale ad @, a distanza d dal centro 0 Questa forza, trasportata in 0, fa subire al punto 0 stesso, il quale si deve, al solito ritenere collegato rigidamente alla sezione estrema libera B, una traslazione normale al piano di figura, espressa da: è = 110? ove I è il peso elastico ordinario del solido, relativo al piano passante per a e nor- male a T, ossia: Il momento di trasporto = 1 X d, è un momento torcente, il quale produce una rotazione della sezione estrema intorno all’asse geometrico a; la quale rotazione è proporzionale al momento torcente: >= KM ossia 9=1.Kd. È bene notare che effettivamente le sezioni di un prisma soggetto a torsione non sì conservano piane, ma, data la piccolezza delle deformazioni che consideriamo, potremo ritenere che rimanga piana la sezione estrema. D'altra parte questi calcoli hanno per iscopo la determinazione di forze (reazioni) esterne, e noi consideriamo le forze rigidamente connesse colla sezione estrema, la quale quindi si deve imma- ginare irrigidita. Dai teoremi dimostrati più sopra risulta subito che, se con g si indica il peso elastico trasversale del nostro solido prismatico, si ha (V. teorema fondamentale): 1 Il Vr ITA Sostituendo a 23 e p i loro valori si ottiene: EA, = (*) Vedi C. Guini, Lezioni sulla scienza delle costruzioni, Parte II. 8 CARLO LUIGI RICCI Inoltre, poichè sappiamo già che la rotazione prodotta dalla forza unitaria appli- cata in Y (punto dell’asse trasverso dell'ellisse trasversale) ha per asse una retta parallela all’asse longitudinale a, se indichiamo con x la distanza dell'asse della rota- zione dall'asse a, si deve avere: = Ma A À UEA e poichè si ha notoriamente: ad = pi sì ricava: Tea i Pa= VE , oppure, ponendo in luogo di g il suo valore: WD =. ed esprimendo p e 98 in funzione delle dimensioni del solido: 13 pla Vaia Se indichiamo con J, il momento d’inerzia della sezione trasversale, rispetto all’asse baricentrico x normale a m, la teoria della torsione fornisce per X l’espressione: a00 Ir t Ty K= al WGIRIAE In questa formola a è un coefficiente, il quale dipende unicamente dalla forma geometrica della sezione; e nei trattati di Teoria della Elasticità si trovano calcolati i valori di a per varie forme di sezioni. Sostituendo il valore di K nell’espressione di p, si ottiene: W.GIxty Ri e ponendo in luogo di p il suo valore, si ha: B.GIIy Pia clisa gir) Sostituiamo in queste formole a 2 il suo valore, e ricordiamo che nei calcoli OE . SII 2 di resistenza dei materiali si prende: G = E. Risulta allora: n alte QUER 50(Jx + Ty) oppure, eliminado p: do ni VESEIA © L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECO. 9 L'asse trasverso è ‘dunque proporzionale all'asse longitudinale, e quindi alla lunghezza del solido, e il coefficiente di proporzionalità dipende soltanto dal rap- Ji - . ; 9-0 porto e dal coefficiente a, ossia solo dalla forma e non dalle dimensioni della sezione trasversale; esso resta quindi invariato se la sezione trasversale varia con legge di omotetia. . Se la sezione è rettangolare, di base 6 e di altezza %, si ha: oppure: MI h Il coefficiente a è funzione del rapporto >. Il De Saint-Vénant ha calcolati varii valori di — per valori abbastanza vicini h h moria sulla torsione dei prismi e cilindri, pubblicata nei Rendiconti dell’Accademia delle Scienze di Parigi nel 1855, ed il Bauschinger ha potuto darne una conferma sperimentale. Può essere utile riportare i valori dedotti dalla tabella del De Saint-Vénant: di È (tra += 1 per cui a=1,18559, e a per cui a= 1|, in una sua Me- , È 1 d 1,00 | 1,18559 1,70 1,17406 4,50 1,10826 1,05 | 1,18549 1,75 1,17277 9,00 | 1,10008 1,10 | 1,18521 1,80 1,17148 6,00 1,08716 1,15 | 1,18491 1,90 1,16378 6,667 1,08716 1,20 1,18423 2,00 1,16609 7,00 1,07695 ES I 1,18354 2,25 1,15920 8,00 1,06882 1,30 | 1,18270 2,50 1,15285 9,00 1,06219 1,99 | 1,18187 2,75 1,14569 10,00 | 1,05670 1,40. | 1,18093 3,00 1,13931 20,00 1,02996 1,45 1,18036 3,393 1,13931 50,00. | 1,01256 1,50 1,17882 3,50 1,12866 100,00 1,00623 LOU 1,17652 4,00 1,11720 (Co) | 1,00000 | | Serie II. Tom. LXII. B 10 CARLO LUIGI RICCI Per la sezione quadrata, essendo a = 1,18559 e += 1, sì ha: SITI AE RRAAA i Na n=? = 0,821441 p. Si può determinare il rapporto >< 1) per il quale si ha: p,= p, ossia: DM: IMSA a DO) o}. ao ; 5 SPORT È ; , Poichè a è funzione del rapporto incognito n questa equazione si deve risol- vere per successive approssimazioni, adoperando la tabella riportata, e si ottiene: pasa va 0,60, ossia: NI 66/140r In questo caso l’ellisse trasversale è un cerchio. L’ellisse trasversale coincide poi coll’ellisse ordinaria per una determinata rela- d : I ; e precisamente ciò accade ; du . 5 37 zione tra le quantità 6, 4, /, ossia tra i rapporti + e BA ANI ari 5 b\2 da sì ricava dalla tabella il corrispondente valore di a, e quindi si quando si ha: si b Se è dato x! 4 ; so 5 3 ? calcola direttamente il valore di 7} Se invece è dato i, non si conosce ésatta- e quindi bisogna mente il valore di a, che è funzione del rapporto incognito è, procedere per approssimazioni successive. Il peso elastico nel caso della sezione rettangolare è: __ 12E hè __ Eh REV RO NO a $ 5.— Scomposto il solido, come già si disse, in tronchi prossimamente prismatici, e descritta per ciascun tronco l’ellisse trasversale nel modo ora indicato, si potrà determinare l’ellisse trasversale relativa a tutto il solido, componendo le rotazioni parziali che una determinata sollecitazione produce per effetto dell’elasticità dei sin- goli tronchi. L'asse della rotazione risultante delle rotazioni parziali- prodotte ha una forza normale a t, applicata in un punto X, sarà l’antipolare di X rispetto all’ellisse cercata. L'’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 11 La risultante delle rotazioni prodotte da una coppia normale a m, avrà per asse il diametro dell’ ellisse, coniugato alla direzione della traccia del piano della coppia. È facile così determinare il centro G dell’ellisse come intersezione degli assi delle rotazioni risultanti dovute a due coppie non parallele. Se È è la grandezza della rotazione risultante prodotta da una forza uguale all'unità, agente in un punto X, e se d è la distanza dell’asse della rotazione dal punto G, il peso elastico trasversale di tutto il solido è: G = si In particolare se calcoliamo la traslazione S prodotta da una forza unitaria pas- sante per il centro G, si ha: @ | mi Se si determina poi la rotazione & prodotta da una data coppia, dalla formola dimostrata al $ 3: M Gps? == si ottiene, risolvendo: n= y DE RS. Si può così individuare completamente l’ellisse trasversale complessiva, calco- lando le deformazioni dovute a tre diverse sollecitazioni. Possiamo osservare che il principio meccanico (composizione di rotazioni) di questo procedimento è analogo a quello che dà luogo alla determinazione dell’ellisse ordi- naria di elasticità di sistemi complessivi; ma la costruzione geometrica che ne risulta non coincide colla corrispondente dell’altra teoria (identica, com’è noto, alla deter- minazione dell’ellisse di inerzia di una figura composta], ma si può considerare come la costruzione duale di quella, giacchè in luogo di determinare gli antipoli di date rette (proprie o no), determina le antipolari di dati punti (proprii o no). $ 6. — La composizione, ora indicata, di due o più ellissi trasversali si fa in modo affatto analogo a quello usato nello studio dei sistemi solidali perla determinazione dell’ellisse ordinaria relativa ad un giunto comune a due solidi i quali siano rigida- mente incastrati all’altra estremità, per esempio, un arco ed una pila (*). Infatti nel caso ora citato si compongono due forze le quali producano la stessa rotazione nel giunto comune mentre l’una di esse interessa l’elasticità dell’arco, e l’altra l’elasti- cità della pila; la risultante delle due forze agisce secondo l’antipolare del centro della rotazione rispetto alla cercata ellisse del complesso. Per comporre due ellissi trasversali, come abbiamo visto, si determinano le rota- zioni prodotte nei due sistemi da una stessa forza, normale al piano t; la risultante (*) Vedi Guini, Op. cit., parte IV (Teoria dei Ponti), pag. 474-477. 12 CARLO LUIGI RICCI delle due rotazioni ha per asse l’antipolare del punto di applicazione della forza rispetto all’ellisse trasversale complessiva. Si scorge così la completa analogia dei due procedimenti. Si può dedurre da ciò, — e si può pure dimostrare direttamente, — che, nello studio dei sistemi solidali, se si vuole l’ellisse trasversale relativa al giunto comune ad un arco e ad una pila, bisogna comporre le due ellissi trasversali parziali, proprio come si compongono due ellissi ordinarie terminali. Infatti a questo scopo bisogna far agire sull’arco e sulla pila rispettivamente due forze, normali a t, le quali producano una stessa rotazione; quindi comporre le due forze; il punto di applicazione della risultante e l’asse della rotazione sono polo ed antipolare rispetto all’ellisse trasversale cercata. È chiaro che in questo caso il centro dell’ellisse del complesso è il baricentro dei due centri delle ellissi parziali, coi pesi elastici g relativi, e che la somma di questi è il peso elastico trasversale del complesso. È quindi dimostrata l’identità del procedimento con quello adottato per la com- posizione di ellissi ordinarie terminali. CapiroLo IL. Applicazioni della teoria dell’ellisse trasversale. $ 1. — Esposta brevemente la teoria generale dell’ellisse trasversale, converrà passare a studiare un po’ più da vicino le applicazioni ai casi concreti, e special- mente alla determinazione delle reazioni iperstatiche, ed esporre esplicitamente, e nella forma il più possibile chiara e spedita i procedimenti grafici più acconci allo scopo. Abbiamo già visto precedentemente che il centro G dell’ellisse trasversale si può determinare come intersezione degli assi delle rotazioni risultanti prodotte da due coppie, — per esempio unitarie, — normali al piano t, e non parallele tra loro. Avendo riguardo alla determinazione dei semidiametri, e per altre ragioni che risul- teranno meglio appresso, conviene che le traccie dei piani delle coppie abbiano di- rezioni coniugate rispetto all’ellisse, il che si ottiene, com’è noto, scegliendo la se- conda coppia parallela all’asse della rotazione prodotta dalla prima. Per ottenere la rotazione risultante prodotta da una data coppia, basta deter- minare le rotazioni parziali dovute all’elasticità dei singoli tronchi: gli assi di queste rotazioni sono i diametri delle ellissi parziali, coniugati alla direzione della traccia del piano della coppia; la grandezza di ognuna di esse si determina colla formola: — Mi gpe? | Per la composizione di tali rotazioni converrà usare il poligono delle successive risultanti. Il peso elastico del complesso si può determinare applicando nel centro G una forza unitaria normale a T; essa, come si sa, produce una traslazione; quindi tutte L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 13 le rotazioni parziali da essa prodotte devono dare come risultante una coppia di ro- tazioni; ossia la somma geometrica di dette rotazioni parziali dovrà, come verifica, risultare nulla. Anche per la composizione di queste rotazioni converrà, come vedremo fra poco, usare il poligono delle risultanti successive. Il momento della coppia risultante sarà la traslazione S cercata; allora il peso S 9 5 : 1 elastico complessivo sarà: G= >. Le lunghezze dei semidiametri dell’ellisse, già determinati in direzione, si pos- sono calcolare mediante la nota formola: Sa LI RG $ 2. — Per la determinazione della reazione dell’incastro B conviene seguire il metodo delle linee d’influenza, giacchè questo ci permette di fare in modo molto semplice il calcolo per qualsiasi condizione di carico, e riesce particolarmente utile nel caso dei ponti, per studiare l’azione del vento sul carico viaggiante; inoltre per il tracciamento di esse linee possiamo utilizzare, come vedremo subito, i poligoni di successive risultanti che ci hanno servito per determinare l’ellisse complessiva. D'altra parte è facile convincersi che il procedimento diretto della determina- zione della reazione dovuta ad una data condizione di carico, condurrebbe ad ope- razioni molto lunghe e laboriose, giacchè richiederebbe la ricerca delle rotazioni parziali che ciascun carico produce in ciascuno dei tronchi che esso sollecita, ed inoltre la composizione di tutte queste rotazioni; il numero di esse può essere no- tevole, con grande scapito della rapidità del procedimento, e della chiarezza ed esat- tezza del disegno. Infine si può osservare che anche nelle applicazioni dell’ordinaria teoria dell’ellisse. di elasticità al calcolo di costruzioni destinate ad un carico fisso, si usano con utilità le linee d’influenza (*). Ci proponiamo quindi anzitutto di trovare le linee d'influenza dei parametri della reazione B per un carico unitario, normale a t, applicato nei varì punti dell'asse geometrico dell’arco. Volendo poi studiare l’azione di forze applicate in altri punti del piano t, se sarà il caso, si potranno costruire le linee d'influenza relative ad una data linea — per es. retta — di t considerata come luogo dei punti di appli- cazione della forza; così, se si tratta di studiare un ponte ad arco, con trave retti- linea soprastante, potrà essere utile costruire le linee d’influenza relative ai carichi applicati alla travata superiore. D'altra parte si potrà valutare l’azione di una forza applicata in un punto qua- lunque, trasportandola nel centro di quella sezione alla quale si ritiene rigidamente connessa; la coppia di trasporto si può scomporre in due parallele a due piani fissi — per es. ortogonali —; e converrà quindi costruire le linee d'influenza dei tre pa- rametri della reazione B prodotta da momenti unitarî, agenti sulle varie sezioni dell’arco, parallelamente ai due piani fissati. ; (#) Cfr. C. Guipr, Op. cit., parte III, pag. 98 e segg. 14 CARLO LUIGI RICCI Praticamente, nello studio dei ponti, basterà costruire le linee d’influenza per una coppia di piano verticale (e normale a ©). Converrà assumere come parametri della reazione B tre componenti tali che ciascuna di esse non produca lavoro durante le deformazioni prodotte dalle altre due; in tal modo le equazioni di elasticità che servono a determinare i tre para- metri prendono la forma più semplice possibile, giacchè ognuna di esse contiene un solo parametro. La reazione B dovuta a carichi normali a t è, come si sa, pure normale a ; essa è determinata quando ne sono note l'intensità e le coordinate del punto d’ap- plicazione. Noi potremo trasportarla ad agire nel centro G dell’ellisse trasversale; il momento di trasporto si può scomporre in due coppie parallele rispettivamente ai due diametri coniugati dell’ellisse trasversale; ed assumeremo come parametri l'intensità della forza ed i momenti delle due coppie; queste tre sollecitazioni com- ponenti soddisfanno alla condizione suesposta, giacchè nessuna di esse produce spo- stamento nella direzione di una delle altre due. Quindi le linee d’influenza di questi tre parametri sono senz'altro le linee d’in- fluenza delle deformazioni ad esse corrispondenti, alle quali i suddetti parametri risultano proporzionali. Basterà dunque tracciare le linee d’influenza dello sposta- mento, normale a t, del centro G, supposto al solito rigidamente connesso colla sezione estrema 5, e delle rotazioni della sezione B intorno a quei due diametri dell’ellisse trasversale che abbiamo scelti. $ 3. — Per la costruzione di queste linee d’influenza si può applicare il prin- cipio di Maxwell, utilizzabile sotto le due seguenti forme particolari: a) Lo spostamento di un punto G, rigidamente connesso con una sezione 5, sotto l’azione di una forza =1 normale a m, applicata in un punto X, rigidamente connesso con una sezione S, è uguale allo spostamento del punto .X, sotto l’azione di una forza =1, normale a n applicata nel punto G. 5) La rotazione di una sezione B, per effetto di una forza = 1, normale a q, agente in un punto X, rigidamente connesso con una sezione S, è uguale allo spo- stamento del punto _X, sotto l’azione di una coppia = 1, normale a , agente sulla sezione B, il cui asse momento sia parallelo all'asse della rotazione considerata. Quindi possiamo affermare senz'altro quanto segue: La linea d'influenza della reazione finita B, è il poligono di deformazione relativo ad una forza =1 agente in G, centro dell’ellisse trasversale, normalmente al piano n. La linea d’influenza del momento My, parallelo al diametro x dell’ellisse trasversale è il poligono di deformazione relativo ad una coppia la quale abbia momento = 1, ed il cui piano sia normale al diametro y, coniugato di x. Per l’altra componente M,, del momento Mg basta ripetere quanto precede, scam- biando x con y. Poichè qui si tratta di forze normali al piano n di figura, non possiamo mi- surare le ordinate delle linee d’influenza sulla linea d'azione delle forze, come si fa sempre quando si tratta di forze giacenti nel piano di figura. Perciò proiettiamo i punti di applicazione delle forze considerate, per esempio i punti dell'asse geome- trico dell'arco, parallelamente ad una data direzione, su una data retta trasversale, L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 15 scegliendo la direzione di proiezione in modo che in un punto della trasversale si proietti un solo punto dell'asse geometrico; sui raggi proiettanti, a partire dalla trasversale, portiamo le ordinate del poligono di deformazione che vogliamo costruire. Per esempio, studiando un ponte od un’incavallatura ad arco converrà prendere come direzione di proiezione la verticale, e scegliere la trasversale orizzontale. $ 4. — A questo punto sì scorge immediatamente come si possano utilizzare per il nostro scopo i poligoni di successione risultanti che ci hanno servito per com- porre le rotazioni parziali, e determinare l’ellisse complessiva. Infatti, scegliamo un punto dell'asse geometrico sul giunto di separazione tra due tronchi consecutivi; lo spostamento di questo punto per effetto di una delle tre sollecitazioni che abbiamo scelte come parametri, sarà il momento, rispetto ad esso punto, della risultante delle rotazioni dovute ai tronchi compresi tra il punto stesso e l’incastro A, e prodotte dalla sollecitazione considerata, risultante che noi cono- sciamo perfettamente, avendo costruito il poligono delle risultanti successive. La determinazione dei momenti delle successive risultanti rispetto ai centri dei giunti sì può eseguire in modo molto semplice e spedito per via grafica. Basta osservare che il momento di una rotazione rispetto ad un punto è dato dal prodotto della distanza del punto dall’asse della rotazione, misurata in una dire- zione qualunque, per l’antiproiezione della rotazione su questa direzione. Nel caso nostro torna comodo eseguire il prodotto della distanza orizzontale del punto dalla rotazione, per la protezione verticale della rotazione stessa. A tale scopo, dopo aver tirate per i centri dei giunti le verticali e le orizzontali, proiettiamo orizzontalmente su una verticale la poligonale delle rotazioni. Fig. 2. Sia O il centro di un giunto, ed 7 la relativa rotazione risultante; sia 0' la proiezione orizzontale di 0 su 7; da 0' caliamo la verticale fino in 0" sulla oriz- zontale di riferimento della linea d’influenza da costruire. Ora da un polo P scelto sulla orizzontale per l’origine della poligonale delle rotazioni, proiettiamo la compo- nente verticale 7" — A'R' della rotazione 7; per 0" conduciamo una parallela al 16 CARLO LUIGI RICCI raggio proiettante PR'; tale retta e l’orizzontale di riferimento intercettano sulla verticale per 0 un segmento n che è l’ordinata della linea d’influenza cercata. Conviene fare in modo che le ordinate delle linee d’influenza diano senz'altro lo sforzo, in una scala comoda per la lettura. Ciò si può ottenere calcolando, anche graficamente, la distanza polare A4'P, basandosi su valori noti a priori, dell’ordinata della linea d'influenza. Per questo basta osservare che quando il carico unitario arriva all'appoggio B, la reazione di questo diventa uguale e contraria al carico. Quindi, se prendiamo per scala delle forze 1'= 10°" l’ordinata letta sotto B, nella linea d’influenza della rea- zione B, deve essere 10°. Poi, se prendiamo come misura del momento il braccio di leva di una coppia le cui forze siano uguali ad 1, le ordinate lette sotto B, delle linee d’influenza dei momenti M., ed M, devono essere rispettivamente uguali alle distanze del centro della sezione B dagli assi x ed y. Si può quindi determinare opportunamente la distanza polare per il tracciamento di ciascuna linea d'influenza. Se l’arco è simmetrico, le linee d’influenza dei parametri della reazione B sono simmetriche di quelle dei parametri della reazione A. È utile inoltre osservare che le ordinate lette sotto la stessa verticale, nelle linee d’influenza delle reazioni A e B hanno per somma 1; inoltre la somma alge- brica delle analoghe ordinate nelle linee M,, ed Mx, deve essere uguale alla distanza del centro della sezione considerata dall'asse «; lo stesso si dica per le linee degli M,. $ 5. — Abbiamo accennato come convenga talora la costruzione di linee d’in- fluenza relative a momenti unitari agenti sulle varie sezioni dell’arco. Anche per queste linee sarà utile applicare il teorema di reciprocità. Scelta una direzione a nel piano m, proponiamoci di costruire la linea d’influenza di ciascuno dei tre parametri della reazione B prodotta da momenti paralleli ad @ e normali a tr. Dal teorema di reciprocità si ricava che lo spostamento del centro G per l’azione di una coppia unitaria parallela ad a, applicata ad una sezione S, è uguale alla com- ponente normale ad @ della rotazione che subisce la sezione .S, per effetto dell’ela- sticità del tratto AS, quando in G agisce una forza unitaria; quindi questa rotazione componente è l’ordinata corrispondente alla sezione S della linea d'influenza della intensità della reazione B, relativa ad una coppia unitaria parallela ad a. In modo perfettamente analogo, sempre applicando il teorema di reciprocità, si possono costruire le linee d’influenza dei momenti Mg, ed Mp,. Le ordinate di queste linee d’influenza si possono senz'altro ricavare dalle poli- gonali delle rotazioni costruite per determinare l’ellisse complessiva. $ 6. — Se l’arco è simmetrico rispetto ad un piano normale a m, le costru- zioni si possono limitare a mezzo arco, giacchè le rotazioni dovute all’elasticità del secondo semiarco sono evidentemente le opposte delle simmetriche di quelle relative al primo semiarco. L’ellisse trasversale ha un asse sulla traccia y del piano di simmetria. La risultante delle rotazioni prodotte nei tronchi del semiarco da una coppia L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. alt parallela al piano di simmetria di traccia y, incontra la y nel centro G dell’ellisse trasversale di tutto l'arco; infatti le rotazioni prodotte nei due semiarchi da detta coppia, sono l’una l’opposta della simmetrica dell’altra, rispetto ad y; quindi i loro assi si tagliano su y, e poichè la loro risultante deve incontrare y nel centro G dell’ellisse trasversale, questo punto si ottiene come intersezione di una di dette rotazioni colla retta y. Una forza, normale a m, agente in G, produce traslazione pura; ossia la risul- tante delle rotazioni parziali deve essere infinitamente piccola e lontana. Le rotazioni dovute all’elasticità dei tronchi di un semiarco ammettono una risultante, che deve costituire una coppia colla opposta della sua simmetrica rispetto ad y — rotazione dovuta all’elasticità del secondo semiarco —; quindi detta risul- tante deve essere parallela ad y; si ha così una verifica delle costruzioni eseguite. La traslazione sarà data evidentemente dal doppio del momento di detta rota- zione rispetto all’asse y. — Può interessare la linea d’influenza dello spostamento di un punto qualunque dell'asse geometrico, per esempio del vertice dell’arco. Tale linea è il poligono di deformazione relativo ad un carico unitario agente nel punto considerato. Determinate le reazioni delle imposte provocate dal dato carico, mediante le linee d’influenza dei tre parametri, conviene osservare che, se S è la sezione nel cui baricentro è applicato il carico, il tratto AS si può considerare come incastrato all'imposta, e sollecitato nella sezione estrema .S dal carico esterno e dalla reazione B, le quali forze possono venir sostituite colla reazione A cambiata di segno; lo stesso si può ripetere per il tratto SB; quindi le rotazioni parziali si calcolano semplice- mente come prodotte da una sola forza. Nel caso di un arco simmetrico il poligono di deformazione per un carico uni- tario agente nel vertice, si può costruire in modo molto semplice, limitando le co- struzioni al mezzo arco in virtù della simmetria. $ 7. — Consideriamo un arco simmetrico e simmetricamente caricato da forze normali al piano mt dell’asse geometrico. La sezione estrema 5, liberata dal vincolo, ruota, come è noto, intorno ad un asse del piano ti; perciò la reazione B che deve annullare questa rotazione è anch'essa normale a m. Quindi nell’arco lo sforzo nor- male è nullo in tutte le sezioni; inoltre le due reazioni che indicheremo con R, ed Rg saranno uguali ciascuna alla metà della risultante di tuttii carichi agenti sull’arco. oltre i punti di applicazione di R, ed Rz si devono trovare simmetricamente posti rispetto all'asse y, sulla normale a questo asse condotta per il punto di applicazione della risultante di tutti i carichi. Quindi il problema presenta una sola incognita iperstatica, cioè il momento di Rx (o R,) rispetto all’asse. Questo si può determi- nare con una sola equazione di elasticità, calcolando la componente verticale della rotazione totale prodotta dai carichi, e questo si fa colla sola poligonale delle rota- zioni, e non occorre determinare l’asse della rotazione risultante, poichè sappiamo a priori che esso coincide coll’asse y. Si può anche procedere in un altro modo; assumere cioè come incognita l’azione che si trasmettono i due semiarchi attraverso la sezione di chiave C. Abbiamo già visto che è nullo lo sforzo normale; sia dall’equazione di equilibrio Serie II. Tox. LXII. c 18 CARLO LUIGI RICCI alla traslazione del semiarco, sia da considerazioni di simmetria si deduce che in € è pure nullo lo sforzo di taglio. Pure per la simmetria si riconosce che in Cl è anche nullo il momento torcente; quindi l’azione che i due semiarchi si trasmettono in C deve essere un momento flettente, e poichè tutte le forze che sollecitano l’arco sono normali a t, anche questa coppia flettente deve essere normale a m. Ciò si può pure dimostrare osservando che la reazione Rz ed i carichi sul semiarco destro costituiscono una coppia il cui piano è normale all’asse y. Consideriamo il semiarco AC ed immaginiamo libera la sezione di chiave C. Hssa, sotto l’azione delle forze che sollecitano il semiarco AC, subisce una rota- ho / Fig. 3. zione ?° intorno ad un asse r di t che noi sappiamo determinare. Il momento M., costituito, come abbiamo visto, da una coppia normale ad y, deve ricondurre la se- zione © a giacere nel piano w di simmetria — di traccia y —; esso fa rotare la sezione € intorno al diametro dell’ellisse trasversale del semiarco, coniugato alla direzione normale ad y (orizzontale); sia s la rotazione così prodotta; lo spostamento finale della sezione C deve essere una rotazione di asse normale al piano w della sezione C stessa; quindi la risultante & di s ed 7° deve essere un segmento normale ad y; con questa condizione viene determinata la grandezza della rotazione s. Dalla rotazione si ricava poi il momento che la produce, mediante la nota re- lazione: M.= sGp_. Questo momento diviso per la metà della somma di tuttii carichi, dà la distanza delle reazioni dall’asse y. Nell’introduzione abbiamo parlato del modo di comportarsi delle cerniere cilin- driche sotto l’azione di forze normali a 1; ora torna opportuno osservare che se in un arco si ha una cerniera sferica (e per l’indeformabilità cinematica del sistema non se ne può avere più di una; se ci sono altre cerniere, queste devono essere cilin- driche), essa, per le sollecitazioni che qui trattiamo, reagisce con una forza unica L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 19 normale a mt, giacchè essa si oppone solo agli spostamenti normali al piano , e non impedisce la rotazione. Se un arco simmetrico e simmetricamente caricato da forze normali a m, pre- senta in chiave una cerniera sferica, è staticamente determinato; infatti i due semi- archi si comportano come indipendenti, e non si trasmettono alcuno sforzo attraverso la cerniera, giacchè questa non impedisce la rotazione e si ha M.= 0. $ 8. — Quantunque sia molto comodo, per le ragioni esposte più sopra, l’uso delle linee d’influenza, può tuttavia interessare il procedere direttamente al calcolo degli spostamenti, e quindi delle reazioni prodotte da una data condizione di carico. Per evitare costruzioni troppo laboriose sarà bene determinare preventivamente la risultante di tutte le forze che interessano l’elasticità di ogni singolo tronco; e poichè si tratta di forze parallele, basterà determinarne il centro col noto metodo della statica grafica, supponendo di far agire le forze nel piano © in due diverse direzioni. Poi della traccia della risultante di ciascun gruppo di forze si prenderà l’anti- polare rispetto all’ellisse trasversale di quel tronco che viene sollecitato da tutte e sole le forze del sruppo stesso, e si avrà così l’asse della rotazione dovuta alla elasticità di detto tronco; la grandezza di questa rotazione si determina poi al solito modo. È ovvio che se si tratta di forze ripartite, converrà sostituire la loro risultante alle forze che agiscono su di uno stesso tronco. $ 9. — Le forze esterne (agenti sull'asse geometrico dell’arco, oppure fuori di questo), si devone intendere rigidamente connesse con una determinata sezione tras- versale dell'arco; se questa non è una delle sezioni di separazione tra due tronchi consecutivi, la forza in questione non interessa l’elasticità di tutto il tronco in cui cade la sezione considerata, ma solo del tratto compreso tra la sezione stessa e la sezione di separazione più vicina, dalla parte dell'estremo fisso. Per evitare il calcolo e la successiva composizione della rotazione dovuta alla elasticità del tratto sollecitato, conviene sostituire alla forza in questione una forza ideale, la quale sia capace di produrre, sollecitando tutto il tronco, la stessa rota- zione che produce la forza data nella sua effettiva posizione; questa forza si com- porrà colle altre sollecitanti lo stesso tronco, e quindi si procederà alla determinazione della rotazione, come è stato indicato più sopra. Conviene distinguere il caso di una forza concentrata, ed il caso del carico uni- formemente distribuito. $ 10. — Se si tratta di una forza concentrata f agente in un punto X, e rigi- damente connessa con una sezione S del tronco considerato MN, possiamo osservare che, essendo l’asse trasverso dell’ellisse trasversale proporzionale all’asse longitudinale, e quindi alla lunghezza del tratto prismatico considerato, l’ellisse relativa al tratto MS è omotetica a quella relativa a tutto il tronco MN, essendo centro di omotetia il punto M, e rapporto di omotetia a È 20 CARLO LUIGI RICCI Vogliamo determinare un punto X' tale che sia l’antipolo rispetto all’ellisse trasversale di MN dell’antipolare di X rispetto all’ellisse del tratto MS. Perciò se 0Q è il ribaltamento del semiasse maggiore dell’ellisse del tronco MN, e se da 0', punto medio del segmento MS, conduciamo la normale all’asse MN fino x ad incontrare in Q' la retta MQ, il segmento 0'Q' è il ribaltamento del semiasse Fig. 4. longitudinale dell’ellisse relativa al tratto MS. Possiamo quindi determinare il punto P, coniugato della proiezione P di X sull’asse MN, rispetto all’ellisse del tratto MS; P, è un punto dell’antipolare di _X rispetto a detta ellisse; quindi la proiezione P' di X' sull'asse MN è il coniugato di P, rispetto all’ellisse del tronco MN. Si osservi poi che l’antipolare x di X rispetto all’ellisse del tratto MS ha la direzione coniugata rispetto a detta ellisse, del diametro 0'X; quindi il diametro dell’ellisse del tronco MN, coniugato alla direzione di x, è la parallela alla OX condotta per il punto 0; questa retta incontra la normale all’asse per P' nel punto X° cercato. In questo punto dovremo poi applicare una forza di intensità: tale forza, sollecitando tutto il tronco MN, produce la stessa rotazione che produce la forza f agente in X e sollecitante il solo tratto MS. Si potrebbe dire che la forza f' agente in X' è la forza data ridotta alla sezione estrema N. Questa forza ideale noi comporremo colle altre forze reali sollecitanti il tronco MN. La costruzione si semplifica notevolmente, come è facile vedere, nel caso, molto frequente nella pratica, in cui il punto X venga a coincidere con S. $ 11. — Consideriamo ora il caso di un carico ripartito uniformemente. Il tronco MN si comporta come una trave prismatica incastrata all'estremo 1 e del resto libera; sotto l’azione di un carico uniformemente ripartito Q la sezione estrema L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECCO. 21 x ruota, come è noto, intorno ad un asse che dista dall’estremo fisso M di " della lunghezza del tronco. Si dimostra infatti nella teoria delle travi inflesse che la tan- gente alla curva elastica nell'estremo libero incontra l’asse primitivo ad i della lunghezza della trave a partire dall’estremo fisso. La rotazione della sezione estrema N, ossia l'angolo che la tangente alla curva elastica nell'estremo N fa coll’asse geometrico primitivo è poi espresso da: olor im Si potrà ottenere la stessa rotazione applicando una forza (rigidamente connessa colla sezione estrema N) nel punto dell’asse geometrico MN, che dista dal centro, l dalla parte di N, di DA in =, ossia che dista di ri dall’ estremo N. Se indichiamo con P tale forza, si dovrà avere: IERI o: greto n da cui sì ricava: sO) L= 2 Si osservi che questo procedimento basato sull’uso delle successive risultanti, e coll’eventuale riduzione delle forze alla sezione estrema, si può utilmente applicare anche quando si tratti di forze agenti nel piano x e si debbano considerare le ordi- narie ellissi di elasticità. CapiroLo III. Ricerca dell’ellisse trasversale di un tronco prismatico reticolare. $ 1. — Proponiamoci ora di determinare l’ellisse trasversale di un tronco pri- smatico reticolare, per potere applicare le cose viste precedentemente, alle costru- zioni metalliche reticolari. L’asse longitudinale dell’ellisse suddetta si determina come l’asse di un’ellisse ordinaria; quindi basta che qui ci occupiamo di determinare l’asse trasverso dell’ellisse, ed il peso elastico trasversale; a questo scopo è sufficiente stu- diare l’azione di un momento torcente sul tronco reticolare. Consideriamo una costruzione reticolare prismatica, come quella indicata in figura, — per es. una pila metallica, — costituita di aste longitudinali o correnti, di aste trasversali normali ai correnti, e di diagonali inclinate tutte nello stesso senso ri- spetto ad un osservatore che guardi ciascuna faccia dall’esterno all’interno. Vogliamo ora studiare l’effetto che un momento di asse parallelo all'asse longi- tudinale del prisma — momento torcente — produce sul complesso delle aste costi- tuenti un tronco compreso tra due successive sezioni fatte coi piani contenenti le 22 CARLO LUIGI RICCI aste trasversali, ove si avverta di considerare le aste di uno solo di questi piani; le aste considerate sono segnate in figura con tratto marcato. Qui consideriamo come elastiche soltanto le aste indicate, e tutte le altre si riterranno rigide. Inoltre per semplicità riterremo che le aste siano soltanto capaci di reagire a sforzi di tensione o di compressione, e che permettano libera deforma- zione sotto l’azione di sforzi di altra natura; il che equivale a ritenere che dette aste, anzichè rigidamente chiodate alle estremità, siano collegate ai nodi per mezzo di cerniere sferiche; l’approssimazione che con questa ipotesi si realizza è dello stesso ordine di quella che si ottiene considerando collegate a cerniera cilindrica le aste di una ordinaria travatura reticolare piana. Supporremo poi che i pannelli opposti siano identici per quanto riguarda le sezioni delle aste. $ 2. — Il momento torcente che consideriamo viene trasmesso alle aste sud- dette dal rettangolo A'B'C'D' che riteniamo rigido. Un triangolo come ABB', secondo le ipotesi fatte, si oppone solo agli spostamenti del vertice B' paralleli al piano ABB', e non impedisce gli spostamenti normali al piano stesso; quindi esso sarà sollecitato da una forza applicata in B' e giacente nel piano suddetto; analoghe considerazioni si possono fare riguardo agli altri triangoli, nelle altre faccie laterali del prisma. Indichiamo con f, ed f,' le componenti della forza applicata in B', rispettiva- mente secondo la B'A' e secondo la B'B. Le forze agenti in faccie opposte del prisma avranno componenti uguali in valore assoluto, poichè abbiamo supposti uguali i pannelli opposti; se f, ed fs’ sono le com- ponenti delle forze che agiscono negli altri due piani opposti, e se è, e ds sono i lati della sezione trasversale del prisma, la statica dei sistemi rigidi fornisce le se- guenti relazioni tra le forze suddette: (1) fd 4 foda = M L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 23 (equazione di equilibrio alla rotazione intorno all'asse geometrico del prisma). ©) fi+fi=0 (equazione di equilibrio alla traslazione lungo l’asse geometrico ; si noti che in questa equazione compaiono due sole forze, giacchè le forze f' agenti in vertici opposti del rettangolo 4'‘B'C'D' sono uguali in grandezza e direzione). Le quattro quantità f,, fa, fr, fo presentano quindi un duplice grado di inde- terminazione statica; si possono ottenere due equazioni di elasticità esprimendo che il rettangolo 4/B'C'D' che noi abbiamo supposto rigido, mantiene inalterata la sua forma. Indichiamo perciò con A; e A;' le componenti dello spostamento del punto B' rispettivamente secondo la B'A' e la BB', che sono uguali alle analoghe componenti dello spostamento del punto D; indichiamo poi con A, e A,y' gli analoghi sposta- menti dei punti A' e C°. La rotazione del rettangolo A'B'C'D' è espressa da: Ai Ao mana 2 2 ossia sussiste l'equazione: NL a (3) di coni dò, È oltre il rettangolo A'B'C'D' deve restare piano, ossia si deve avere: (4) A,=A, (=4) cioè le quattro aste longitudinali (correnti) devono subire lo stesso allungamento A. Le quantità 4,, Ag, A;', A, sono funzioni lineari delle f;, fo, f1/, fe/ e quindi le (3) e (4) sono equazioni lineari nelle forze stesse, e colle (1) e (2) servono a de- terminarle. Ottenute le f espresse in funzione del momento M, si potrà calcolare la rota- zione +, che risulterà espressa da: SiBheMi ove K sarà funzione delle lunghezze e delle sezioni delle aste. Il rettangolo A'B'C'D', oltre la rotazione 3, subisce pure, come si è visto, la traslazione A lungo l’asse geometrico del prisma; ossia compie un moto elicoidale. È ovvio che se s’inverte il momento M, gli elementi del moto elicoidale cam- biano segno. Quindi ad una costruzione costituita di tronchi prismatici analoghi a quello qui considerato, non si può rigorosamente applicare quanto si è esposto nella teoria dell’ellisse trasversale di elasticità; ciò del resto era da prevedersi, poichè una co- struzione così fatta non ammette alcun piano di simmetria. 24 CARLO LUIGI RICCI $ 3. — Se vogliamo trovare l’espressione di K occorre anzitutto determinare A; A;/ A, Ay in funzione delle forze fi fi fa fa. Poichè per le ipotesi fatte il triangolo A.4,D, non impedisca gli spostamenti di A in direzione AB, noi dobbiamo rite uere che il nodo A sia vincolato da un appoggio semplice, capace di agire solo parallelamente alla BB'; il punto B si deve invece ritenere fisso, rispetto all’azione delle forze parallele al piano ABB', giacchè può spostarsi solo normalmente al piano stesso. Ciò posto, per l’azione della forza di componenti fi ed f,' agente in B', questo punto subisce uno spostamento B'(B') che si può costruire mediante un diagramma di spostamenti, com'è indicato nell’annessa figura. Da questa si ricava: A, = As + As) sen a, + (As, + As; cos 4;) cotg a; (ove i As sono i valori assoluti delle variazioni di lunghezza delle aste; si noti che Anz =D Indicando con S, lo sforzo nell’asta s, ecc. si ha: f Si=f,cotg a — fi' Sprea Ss= fi. sen 0 Inoltre, indicando con / il segmento BB', ossia la lunghezza del tronco consi- derato, si ha: Sa 0 = a ss =ltanga,. Sostituendo si ottiene: l tanga 1 cotg a iaia , cotg UTI È ; cotg ai) fr Fi F3c0s 0 F.,sen a Si ha poi: TECA Als IN (fi, cotga, — fil). Possiamo porre: Ai=f hh Ai/= Wwf — Vifi' ove si ha: ___t [tanga 1 cotg a, 1 ) | aa E | Fa ul F3 cos 4 ( F, ala Fs sen cotg Co I cotga l = — È Veg. e TOT zz Ed analogamente si può porre: Az = fo — bofo A; = bofa — Vofa ove le X,, Us, vs hanno espressioni analoghe a quelle di Mx, ui, Vi- L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 25 Quindi le (3) e (4) diventano: 7 Mafi— mf! _ Nofa — Mafa' (3) RnS "Sn (4) mf — Vafi = Mofo — vofe'. Risolvendo il sistema delle (1), (2), (3'), (4°) si ottengono i valori delle f,, f;/, fa; fe’. che ci servono a calcolare le Aj, 4", A3, Ay' e quindi la X, la 3 e la A. $ 4. — Consideriamo ora un tronco prismatico reticolare, il quale presenti dia- gonali e controdiagonali in tutti i campi; potremo ritenerlo quale risultante dall’in- sieme di due tronchi semplici, come quello di più sopra; l’uno colle diagonali scen- denti verso destra, l’altro colle diagonali scendenti verso sinistra. — Poichè le aste trasversali come ABCD nell’un sistema vengono tese e nell’altro compresse, potremo con molta approssimazione trascurarne le deformazioni; analogamente le aste longi- tudinali subiscono pure sforzi di segno contrario nei due sistemi; inoltre si può osservare che, essendo la costruzione simmetrica rispetto al suo piano medio, deve essere verificata la proprietà dimostrata nel Cap. I, $ 2, ed in particolare il momento torcente deve produrre semplice rotazione intorno all’asse del prisma. Perciò il ret- tangolo A'B'C'D' non deve subire traslazione; quindi le lunghezze delle aste longi- tudinali devono restare inalterate; perciò anche queste aste nello studio dei due sistemi parziali si possono ritenere rigide. Resta a considerare solo l’elasticità delle diagonali; quindi potremo studiare le deformazioni di uno dei due sistemi parziali, sotto l’azione di un momento torcente, ponendo uguali a zero, nei calcoli precedenti, quei termini, che esprimono le varia- zioni di lunghezza delle aste, che ora consideriamo rigide. Dovremo porre Aj=A4,y =A=0 e As3=0 da cui risulta: SIE SENSE a EF; cos ay (1-1 cotg? a) — EF, I cos sen? ay p=0 e vaE=10 ed analogamente per X, u, e va e si ha: Ai=\f e Ax= fp. Il sistema delle 4 equazioni lineari considerate più sopra si riduce al seguente : fd 4 fado = M Mfi _ def di do e si ha, com'è naturale: fi = = 0 Risolvendo il sistema si ottiene: 6 da mi Î,= 2 fa di 1 da di To di = li STI paci M 5, + 5, Mi van da 5, Serie II. Tom. LXII. D 26 CARLO LUIGI RICCI e sostituendo nella: S_- VE.SI — fara di da 2 2 sì ricava: MELO " d rie Lei fis 2) d, da + 3, di da cui: Ta 24 ds A do + Adi? | Per Valtro dei due sistemi reticolari componenti si potrà ottenere un’espressione analoga di K. Possiamo contrassegnare cogli indici « e è le quantità relative ai due sistemi parziali; dobbiamo ritenere che il momento totale M agente sul sistema complessivo si ripartisca sui due sistemi parziali in due parti M, ed M; tali che le rotazioni pro- dotte da ciascuna di esse nel corrispondente sistema parziale siano uguali. Cioè si deve avere: M, + M, i M K.,M,= K,M, (= KM) da cui risolvendo: M=xtgM M=gtn! e quindi: ri K= Fix: $ 5. — Nei casi pratici più frequenti le diagonali e controdiagonali di un pan- A °° 2. nello hanno la stessa sezione ”, e così pure le aste di contorno hanno la stessa sezione F. F / ! Sia s la lunghezza delle diagonali dei pannelli paralleli al piano di simmetria (di figura), ed 4 la A larghezza di detti pannelli in direzione normale al- si h » B 3: € l’asse geometrico. Indichiamo poi con d la larghezza D È dei due pannelli normali al piano di figura, e con s' ed F" la lunghezza e la sezione delle diagonali di U detti pannelli. 7 Z B Se consideriamo un pannello semplice, soggetto a forze del suo piano, si può prescindere dall’elasticità delle aste trasversali, come abbiamo già osservato più sopra; e con facili considerazioni si ricava per il peso elastico ordinario l’espressione? 21 G= Fre e per il semiasse longitudinale dell’ellisse ordinaria di elasticità: VAVETI i 0 L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECO. 27 E ovvio poi che il centro dell’ellisse cade nell’intersezione delle due diagonali, e che uno degli assi coincide coll’asse geometrico. Per l’asse trasverso si trova (*): PSNONO / Fs rl Se ora consideriamo il tronco reticolare di cui sopra, scorgiamo facilmente che quando esso è sollecitato da forze giacenti in uno dei due piani di simmetria, rea- giscono soltanto quei due parmnelli laterali che sono paralleli al piano in cui giacciono le forze, e poichè questi parnellî sono uguali, le forze applicate si ripartiscono ugual- mente su di essi; perciò l’ellisse di elasticità del complesso è quella stessa di un pannello, ed il peso elastico è la metà del peso relativo al pannello semplice, cioè si ha: 1 = o Se consideriamo ora l’azione di forze normali a detto piano di simmetria, po- tremo tracciare l’ellisse trasversale del tronco considerato, relativa a detto piano. Com'è noto dalla teoria generale dell’ellisse trasversale, il semiasse longitudinale di questa ellisse è uguale al semiasse dell’ellisse ordinaria relativa al piano passante per l’asse geometrico del tronco e normale al piano di simmetria prima considerato. Detto semiasse si ottiene dalla precedente espressione di p, ponendo F" in luogo di F' ed s' in luogo di s, ossia: Conviene considerare poi il peso elastico ordinario relativo che è evidentemente: 1 — EFb B L’asse trasverso dell’ellisse trasversale viene espresso poi, secondo la teoria generale, da: [pro Pi=P vai , ove X è il rapporto tra la rotazione ed il momento torcente che la produce. Sostituendo a 28 il suo valore, avremo: 1 unit Va ed eliminando p: I E Dia al EFFE ‘ (*) Cfr. W. Ritter, Anwendungen der Graphischen Statik, Il Teil, Das Fachwerk, S. 162-164. 28 CARLO LUIGI RICCI Il peso elastico trasversale è poi dato dalla formola: ossia sostituendo e riducendo: $ 6. — Per ottenere l’espressione di p, in funzione delle dimensioni della co- struzione, occorre esprimere esplicitamente il valore di X. Questo si può fare ricor- KE Ka + IG siderato, essendo uguali le sezioni delle diagonali situate in faccie opposte, si può procedere direttamente in modo molto semplice. Per effetto del momento torcente M i due pannelli di larghezza % sopportano ciascuno una forza f, diretta secondo l’asta trasversale A'B' (o C'D'), e così ciascuno dei pannelli di lato è viene sollecitato da una forza f; pure diretta secondo l’asta trasversale (A'D' o C'B'). Lo spostamento di B' in direzione B'A' è: A,=N\,f, e l'analogo spostamento in direzione normale al piano di figura è A,=M\f. Poichè un pannello, per esempio ABB'A', si può considerare come risultante dalla sovrapposizione di due pannelli triangolari ABB' ed ABA', e poichè le sezioni delle diagonali sono supposte eguali, il coefficiente \,, che si può chiamare sposta-. rendo alla formola più sopra trovata: X = ; ma nel caso speciale qui con- mento specifico (poichè per f, =1 si ha A,=\,), è evidentemente la metà dell’ana- logo X che corrisponderebbe ad uno dei triangoli costituenti, giacchè l’azione di f, si ripartisce ugualmente su detti triangoli. Quindi, ricordando l’espressione più sopra trovata del ) relativo ad un triangolo, supposta elastica la sola diagonale, si ha: Vee l hT7 2EP' cosa; senta, ? ed esprimendo cosa, e sena, mediante /, s, 4, si ottiene: s3 Er hem Per i pannelli di larghezza % si ha evidentemente: \ Li è BEE: Possiamo quindi applicare la formola trovata più sopra: TO 7 Ah + Xodb® ® Sostituendo a ), e » i loro valori si ottiene: FR NSENS: L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 29 Se sostituiamo nell'espressione di p,, abbiamo: (i an se g3 è) od anche: (Re SEG, Si noti che il valore di p, dipende solo dalle sezioni delle diagonali ed è indi- pendente dalle sezioni delle aste di contorno o correnti, come deve essere, giacchè abbiamo osservato che tali aste non subiscono deformazione per effetto del momento torcente. Può interessare l’esprimere le varie grandezze qui considerate, in funzione della lunghezza del tronco considerato, e degli angoli a, ed as che le diagonali formano colle aste di contorno. Si ha: h=ltanga b=Itang as sal s=l î Sa cosa, coso” N EI \ RANA RT 2EF'cosa, sen?a, è — 2EF"cosas sen 09 FRI 1 —— El F'cosa; senza; tang?a, + 7” cosa» sen? a, tang* a, OE a 1 4EF RA i i — 2a 3 e20 p 2 y FP" cost dg BE Gr tang®a, E Ù "cos ERE, 1 =D Nota (E cosa, sen?a, tang*a, + ” cos a, sen?a, tang? a) 5 2 ed eliminando p: SS y F' cosa, senza, tanga, + FP” cosu, sen? ag tanga; PF” coso, sen? ay 3 $ 7. — Talora i ponti in ferro sono costituiti da due travature principali uguali, riunite da un sistema di controvento semplice, ossia disposto in corrispondenza di uno solo dei contorni (superiore od inferiore) delle travi principali; in tal caso dob- biamo considerare il complesso delle tre travature — le due portanti e quella di controvento — come l’insieme di più tronchi prismatici, o quasi, costituiti di tre soli pannelli reticolari; uno di questi tronchi si potrebbe ottenere da quello rappresen- tato nella figura 5 o nella 7, sopprimendo uno dei pannelli, per esempio BCB'C'. In questo caso, come nel precedente, l’ellisse di elasticità ordinaria del tronco (rela- tiva al piano n) è identica all’ellisse di ciascuno dei pannelli' delle travi principali, ed il peso elastico è la metà di quello che compete ad uno di questi pannelli. Per la ricerca dell’ellisse trasversale del tronco dobbiamo ritenere, col grado di approssimazione usato in questi calcoli, che un momento flettente, il cui piano sia normale al piano di simmetria , solleciti soltanto il pannello di controvento; quindi l’ellisse trasversale del tronco prismatico ha per asse longitudinale l'analogo asse 30 CARLO LUIGI RICCI dell’ellisse ordinaria di questo pannello, ed il peso elastico Y% che compare nelle note formole g = mr e pi= ovk è il peso elastico ordinario del pannello stesso. Per calcolare l’asse trasverso p, dovremo poi calcolare K, e perciò studiare l’azione di un momento torcente, osservando che questo viene sopportato completa- mente dai pannelli principali e non sollecita quello di controvento. Colle notazioni usate nel $ precedente avremo: ST VET 1 qs na _2 _ 2EF" p Cra 2 FAZZE nni 2 ] PI = EPLb ge 913 O Se poi M è un momento torcente che solleciti il tronco, ciascuno dei due pan- M 3 diretta secondo un montante; nelli principali viene sollecitato da una forza = quindi si ha evidentemente: M La 2 = KM=TMh:+ da cui: Im \ RI NdO Se i pannelli principali hanno diagonali e controdiagonali, si ha: s3 MS gen: e se hanno solo una diagonale si ha: sì = Gp Nel primo caso si ha: een GI da cui, sostituendo, si ottiene: 2F%1h? PRA sa ossia, eliminando p: pi = | 3 Nel secondo caso: 253 E= pr e quindi: FM MER ossia: 14/ wRS pi = 92 PS . L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 31 Capiroro IV. Relazioni geometriche tra le sollecitazioni e le deformazioni. $ 1. — Possiamo ora sviluppare lo studio già accennato nell’introduzione, dell’a- zione di una forza qualunque, o più in generale di un sistema qualunque di forze, agenti sul sistema elastico, rigidamente connesse colla sezione estrema; e può essere di un certo interesse lo studio delle proprietà geometriche di quei sistemi di forze che producono deformazioni particolari; studio che può procedere di pari passo con quello delle proprietà delle deformazioni prodotte da particolari sistemi di forze. Per ora consideriamo un’unica forza f, comunque diretta (al solito rigidamente connessa colla sezione estrema B del nostro solido); e le sue componenti, fy nel piano t, ed f,, normale a t. La fy fa rotare la sezione estrema B intorno ad un asse normale a mt, e passante per l’antipolo P di f7 rispetto all’ordinaria ellisse di ela- sticità; la f, fa rotare la sezione estrema intorno all’antipolare x della sua traccia X rispetto all’ellisse trasversale. Il punto P e la retta x în generale non si appartengono, e quindi le due rota- zioni hanno gli assi sghembi, e dànno come risultante un moto elicoidale. In parti- colare anche se la forza f è infinitamente piccola e lontana dà luogo ad un moto elicoidale, giacchè, tranne in casi specialissimi (es. il solido prismatico), i centri delle due ellissi non coincidono, e quindi gli assi delle rotazioni prodotte dalle componenti della coppia, risultano sghembi. Verificato così a posteriori — ciò che del resto avevamo già ammesso a priori nel $ 2 del Capitolo I — che la deformazione generica è un moto elicoidale, si pre- senta qui subito degna di qualche interesse la ricerca delle modalità di quelle sol- lecitazioni le quali producono deformazioni particolari, per esempio, rotazione pura ovvero pura traslazione. $ 2. — Per trattare la questione colla massima generalità possibile, considereremo la sollecitazione più generale, ossia la diname (sistema di una forza ed una coppia); e ciò potrà essere utile per applicare il principio di dualità alla ricerca di nuove pro- prietà, giacchè la diname ed il moto elicoidale sono enti omologhi nella già citata dualità meccanica tra statica e cinematica. Dato il modo scelto per scomporre le forze e studiare separatamente le defor- mazioni prodotte dalle componenti, noi rappresentiamo la diname come il sistema di due forze, l’una giacente nel piano n, l’altra normale a m e non incidente alla prima. Per brevità converremo di chiamare polo della dinume la traccia su m della linea d’azione della componente normale a m, e polare della diname la linea d’azione della componente giacente in 7. Analoga convenzione possiamo fare per le rotazioni componenti un moto elicoidale. Sarà utile per il seguito esprimere le relazioni tra gli elementi di tale rappre- sentazione della diname (o del moto elicoidale), e gli elementi della stessa diname (o moto elicoidale) ridotta alla forma canonica; e ciò si può fare ricorrendo al noto procedimento della composizione di due forze (o rotazioni) sghembe. 32 CARLO LUIGI RICCI Sia data una diname mediante il polo P, in cui agisce la forza f, e mediante la polare r, linea d'azione della forza f». La risultante di traslazione si ottiene col solito parallelogramma che noi potremo costruire ribaltato sul piano n (v. figura); inoltre, com'è noto, la traccia O dell’asse centrale è un punto della retta PP' nor- male alla r; e se è, e ds sono le distanze di 0 da r e da P, si ha: Fig. 8. dò, :9, = tanga: cotga = "a ; e poichè: di 0, —:d/=VP Pi si ricava: 0, =dsen?a do, =d cosa. Il momento principale è poi: M= fd sena cosa, Queste relazioni ci permettono di costruire la proiezione c dell’asse centrale, la quale sarà la parallela ad r condotta per il punto P', proiezione ortogonale di P sulla risultante ribal- tata e. i Abbiamo così pure il modo di risolvere il pro- blema inverso, ossia di determinare le componenti f. ed fs, il polo e la polare di una data diname ridotta alla forma canonica. Le stesse relazioni si hanno tra gli analoghi elementi di un moto elicoidale. Dato un asse centrale, sono infinite le coppie di punto e retta (come P ed r), che possano es- sere polo e polare di una diname avente per asse Fig. 9. centrale quello dato. Sia c la proiezione, ed O la traccia dell’asse centrale sul piano i, e sia a l’angolo che l’asse centrale forma col piano n, rappre- L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 33 sentato dall’angolo della retta e’, suo ribaltamento, colla retta c sua proiezione sul piano t. Sia p la normale a c condotta per 0, e 9 la normale, pure per O, alla retta c'. Se Ped sono polo e polare di una diname che abbia per asse centrale la retta data (c, 0, a), P deve stare su p, e la r deve essere parallela alla c; inoltre il punto @, che si ottiene proiettando P parallelamente alla c sulla g, e il punto @‘, intersezione di » colla c', devono trovarsi su una stessa normale alla retta c. Premesse queste brevi considerazioni, le quali, più che altro, sono richiami di cose note, possiamo passare a considerare alcuni casi particolari. $ 8. — Anzitutto ci proporremo di determinare quali sono le dinami che produ- cono deformazioni particolari, o sola rotazione, o sola traslazione. Questo problema, per quanto abbiamo più volte accennato, è correlativo dell'altro: determinare i moti elicoidali prodotti da sollecitazioni particolari; forze o coppie. Quest'ultimo si può trattare in modo perfettamente analogo al primo, e si devono ritrovare gli stessi risultati (geometrici e meccanici) alterati solo secondo la sostituzione: forza coppia diname ellisse 1 ellisse 2 rotazione traslazione moto elicoidale ellisse 2 ellisse 1 Si noti che nel seguito indicheremo, per brevità, con 1 e 2 rispettivamente l’el- lisse ordinaria e l’ellisse trasversale. Consideriamo una diname di polo X e di polare x; la corrispondente deforma- zione sarà una rotazione pura se il punto P, antipolo di x rispetto all’ellisse 1, e la retta p, antipolare di X rispetto all’ellisse 2 si appartengono. Se la retta p, passa per il punto P., il punto X sta sulla retta p,,o antipolare di P. rispetto all’ellisse 2; inoltre x passa per il punto P.,, antipolo di p, rispetto all’ellisse 1: quindi possiamo affermare che producono sola rotazione quelle dinami che hanno per polare la t, ed hanno il polo sulla #3, essendo t, e # antipolari di uno stesso punto 7° rispetto alle ellissi 1 e 2; in tal caso l’asse della rotazione prodotta passa per 7. Si può anche dire: producono sola rotazione quelle dinami che hanno il polo in È, e la polare passante per R,; essendo È, ed È, gli antipoli di una stessa retta r rispetto alle ellissi 1 e 2; l’asse della rotazione si proietta in r. Risulta subito da ciò, che è prodotto da una forza unica agente in 7, un moto elicoidale il cui polo giace in, e la cui polare è ta; ovvero, in altre parole, è pro- dotto da una forza unica proiettantesi in y» un moto elicoidale il cui polo è FR, e la cui polare passa per È. Si noti che i punti R, ed £,;, antipoli di una stessa retta r, e le rette, e fs antipolari di uno stesso punto 7" rispetto alle due ellissi, si corrispondono in una omografia che chiameremo 2, la quale è il prodotto delle due antipolarità rispetto alle ellissi 1 e 2. I risultati ora ottenuti si potranno quindi brevemente enunciare così: Una diname produce rotazione pura se il suo polo sta sulla retta coniugata della polare della diname stessa nell’omografia 2; oppure se la sua polare passa per il coniugato del polo nella omografia Q7. Serie II. Tom. LXII. E S4 CARLO LUIGI RICCI Un moto elicoidale è prodotto da una sola forza se il suo polo sta sulla retta coniugata della polare del moto nell’omografia Q7!; oppure se la sua polare passa per il coniugato del polo nella omografia Q. In particolare una diname produce una traslazione (rotazione infinitamente pic- cola e lontana) se il suo polo coincide col centro dell’ ellisse trasversale e la sua polare passa per il centro dell’ellisse ordinaria. Un moto elicoidale è prodotto da una coppia unica se il suo polo è il centro dell’ellisse ordinaria, e la sua polare passa per il centro dell’ellisse trasversale. $ 4. — Proponiamoci ora di studiare i moti elicoidali che hanno per asse centrale una data retta, e di determinare tra questi, quelli che sono prodotti da sollecita- zioni particolari, forze o coppie uniche. Notiamo che nelle considerazioni qui fatte, due moti elicoidali si devono ritenere geometricamente identici se, avendo, beninteso, lo stesso asse centrale, hanno pure uguale il rapporto tra la traslazione e la rota- zione; in tal caso essi sono prodotti da dinami che hanno le stesse proprietà geome- triche, ossia lo stesso asse centrale, e lo stesso rapporto tra il momento principale e la forza, e quindi si devono pure ritenere geometricamente identici. Quindi, astrazione fatta dalla grandezza degli elementi meccanici costituenti, si possono ottenere tutti gli infiniti moti elicoidali che hanno per asse centrale una data retta, facendo variare detto rapporto tra la traslazione e la rotazione. Cerchiamo ora se tra questi infiniti moti elicoidali ce n'è qualcuno il quale sia prodotto da una forza unica. A. questo scopo ricordiamo la proprietà testè dimostrata relativa ai moti elicoidali prodotti da un'unica forza; inoltre applichiamo le rela- zioni, esposte più sopra, tra il polo e la polare di un moto elicoidale di dato asse centrale. Mentre la polare r di un moto elicoidale avente per asse centrale la data retta descrive il fascio È co, il punto P deserive sulla retta p una punteggiata che dalle costruzioni più sopra esposte risulta proiettiva col fascio Row. Sia r' la retta coniu- gata della » nella omografia 7 sopra considerata; la retta r' descrive un fascio il cui centro R' è il coniugato nella omografia Q-1 del punto Roo, ossia l’antipolo rispetto all’ellisse 1 del diametro della ellisse 2 coniugato alla direzione & co. Il fascio R' sega sulla retta p una punteggiata che è proiettiva con quella de- scritta dal punto P. I punti P, e P. uniti in questa proiettività considerati come poli, colle corrispondenti polari r, ed rs ci determinano i moti elicoidali che hanno per asse la retta data, e tali che ciascuno di essi è prodotto da una semplice forza. Possiamo quindi affermare che tra gli infiniti moti elicoidali di dato asse, quelli che vengono prodotti da semplici forze sono in generale due, e se ne può avere anche uno solo, oppure nessuno; e ciò secondo che la proiettività tra le due punteggiate sovrapposte sulla retta p è iperbolica, parabolica od ellittica. La proiettività degenera quando la retta p passa per il punto R'; in tal caso la punteggiata sezione del fascio R' si riduce al punto R'; perciò il moto elicoidale cercato — prodotto da una semplice forza — ha per polo il punto R', e per polare la retta corrispondente, la quale si ricava da R' colla costruzione sopra esposta. Consideriamo in particolare un moto elicoidale il quale abbia per asse centrale una retta di m, per esempio, la retta c. La rotazione intorno a c è prodotta da una L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 95 forza normale a t applicata nel punto ©, antipolo di ec rispetto all’ellisse 2; la tras- lazione lungo ec è prodotta da una forza, la quale agisce secondo il diametro d, del- l’ellisse 1 coniugato colla direzione normale alla c; quindi in generale tra i moti elicoidali aventi per asse centrale la retta e di t, non ve n'è alcuno che sia pro- dotto da una semplice forza. Se accade che il punto €, stia sulla retta d,, allora ogni forza applicata in ©, e che si proietti su m in d, produce moto elicoidale di asse c; anzi, poichè tali forze sono le sole che producano moto elicoidale di asse €, ognuno di questi moti è prodotto da una sola forza. Se vogliamo ottenere un asse c, parallelo ad una data retta c, il quale goda della proprietà ora considerata, basterà scegliere il punto C, nell’intersezione della retta d, colla retta r,, diametro dell’ ellisse 2 coniugato colla direzione ce; l’antipo lare co del punto ©, rispetto all’ellisse 2 sarà l’asse cercato. Notiamo poi che i punti dell’antipolare rispetto all’ellisse 1 del centro dell’el- lisse 2, godono della seguente proprietà; un moto elicoidale il quale abbia l’asse centrale normale a t, ed avente per traccia un punto 7" di detta antipolare, è pro- dotto da una forza unica la quale passa per il centro G, dell’ellisse trasversale 2 e sì proietta su t nell’antipolare di 7 rispetto all’ellisse ordinaria 1. Le stesse considerazioni, trasformate al solito per dualità, ossia scambiate tra loro le due ellissi, e mutata quindi l’omografia 2-1 nella sua inversa ®, valgono a studiare le dinami producenti rotazione pura; ossia a determinare quali sono tra le dinami di dato asse centrale quelle che producono sola rotazione. Da quanto si è visto alla fine del $ 3 risulta subito che in generale tra gli infiniti moti elicoidali di dato asse centrale non ve n’è alcuno il quale sia prodotto da una semplice coppia. Fissata però la proiezione c, oppure la traccia 0 di una retta, si potrà determinare questa retta in modo che esista un moto elicoidale il quale abbia per asse centrale tale retta, e sia prodotto da una sola coppia. Data la proiezione c, la traccia 0 si trova come piede della perpendicolare alla c condotta dal centro G, dell’ellisse ordinaria, poichè G, è il polo del moto eli- coidale considerato; la polare r di questo è la parallela a c condotta dal centro G, dell’ellisse trasversale. Data invece la traccia 0 dell’asse centrale, se ne può determinare la posizione c conducendo da 0 la normale alla retta G, 0; la polare r sarà poi ancora la paral- lela a c condotta da Gs. La retta r incontra la G; 0 in un punto P'; sul segmento GP' come diametro si costruisea un cerchio, questo incontri la c in due punti P" e P; le rette P'P' e P'P' sono i ribaltamenti, trasportati a passare per P', degli assi centrali dei due moti elicoidali che soddisfano alla condizione proposta. Si vede facilmente che il problema è risolvibile soltanto se il centro G, dell’el- lisse trasversale è esterno alla striscia compresa tra la c, e la parallela a questa condotta per il centro G;; come caso limite, se il centro G, sta sulla c, i due assi centrali vengono a coincidere nella c stessa, e quindi il moto elicoidale si riduce ad una rotazione intorno alla c; se il centro G; sta sulla parallela alla c condotta per G,, il moto elicoidale si riduce ad una rotazione intorno alla normale a t per il punto G.. N Mediante la dualità si possono studiare le dinami producenti sola traslazione, ecc. 36 CARLO LUIGI RICCI $ 5. Veniamo ora a studiare le forze — o coppie — che producono semplice rotazione — o traslazione. La diname si riduce ad una forza unica se polo e polare si appartengono : quindi si ricava immediatamente da quanto si vide al $ 3 che una forza unica produce sola rotazione se la sua proiezione p su t è la retta congiungente il suo punto d’appli- cazione X col coniugato di questo nella omografia 271, oppure in altri termini, se il suo punto di applicazione .X è l'intersezione della sua proiezione p colla retta coniu- gata di questa nell’omografia 2. . Analoghe proprietà sussistono per le rotazioni prodotte da semplici forze. Quindi si deduce che per ogni punto X di m passa una retta p, in guisa che una forza applicata in X e proiettantesi in p produce una rotazione semplice: la cor- rispondenza tra i punti X e le rette p è una trasformazione quadratica, giacchè è facile convincersi che se il punto _X descrive una retta, la retta p inviluppa una conica, ovvero se la retta p descrive un fascio, il punto X descrive una conica. In questa corrispondenza gli elementi omologhi si appartengono. Ad ogni punto X possiamo far corrispondere il punto P,, intersezione delle due antipolari di X rispetto alle due ellissi 1 e 2; la corrispondenza (X — P;) è una corrispondenza quadratica, cioè se X descrive una retta, P, descrive una conica; essa è poi involutoria, cioè coincide colla sua inversa (P, — X) (*). La corrispondenza (X— p) si può considerare come il prodotto della (X— Pi) e della antipolarità (P, — p) rispetto all’ellisse 1. La corrispondenza (X— P.) fu studiata per la prima volta dal PonceLET nel celebre Traiîté des propriétés projectives des figures (1822). Essa è caso particolarissimo delle trasformazioni più generali studiate poi dal Cremona, le quali da lui presero il nome di trasformazioni Cremoniane. Studieremo alcune proprietà della corrispondenza (X— P.), e da queste, trasfor- mando gli elementi del secondo piano mediante la antipolarità (P, — p) rispetto all’ellisse 1, dedurremo analoghe proprietà della trasformazione (X — p); è preferibile procedere in questo modo, anzichè direttamente, sia perchè la trasformazione (X — P.) è già stata studiata, sia per poter utilizzare la proprietà involutoria della corrispon- denza stessa. La trasformazione quadratica (X— P,) ha un triangolo fondamentale che indi- cheremo con UVW, il quale altro non è che il triangolo degli elementi uniti nella omografia £; ossia il triangolo antipolare comune alle due ellissi 1 e 2 (#*). Ad ogni vertice di questo triangolo corrisponde un punto qualunque del lato opposto: le coniche corrispondenti alle rette del piano sono tutte circoscritte a tale triangolo, e costituiscono quindi una rete di coniche; se una retta passa per un vertice del (*) Questa corrispondenza quadratica, ed il relativo triangolo fondamentale servirono anche nello studio di altro problema meccanico, affatto diverso da quello qui considerato. Cfr. M. PaneTTI, Contributo alla trattazione grafica dell'arco continuo su appoggi elastici, “ Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, 1901. (#*) Sulle omografie prodotti di due polarità e sui triangoli autopolari comuni, cfr. SAnnIA, Lezioni di geometria protettiva, Napoli, 1895, pagg. 527-540. L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 37 triangolo, la conica corrispondente si spezza in un’altra retta passante per lo stesso vertice e nel lato opposto del triangolo. Il triangolo fondamentale ha poi un notevole significato meccanico: una forza qualunque applicata in un vertice del triangolo produce sola rotazione; l’asse di questa st proietta sum nel lato opposto al punto di applicazione della forza. Ed analogamente : una forza qualunque la quale abbia per proiezione un lato del triangolo UVW, produce una rotazione semplice il cui asse passa per il vertice opposto. < $ 6. — Si noti che una retta qualunque è sempre secante rispetto alla conica ad essa corrispondente nella trasformazione (X— P,). Infatti le due antipolarità rispetto alle ellissi 1 e 2 determinano su una qua- lunque retta r due involuzioni ellittiche, le quali hanno certamente una coppia comune, la quale è evidentemente costituita dai punti di intersezione di 7 colla corrispondente conica, perchè tali due punti sono i coniugati o reciproci rispetto ad ambe le anti- polarità, situati sulla retta r. oltre se X è un punto di r, e P, è il corrispondente sulla conica, indichiamo con P' e P' le proiezioni di P, su r rispettivamente da È, ed È, antipoli di r rispetto alle due ellissi; i punti P' e P” si corrispondono in una proiettività che è il pro- dotto delle due involuzioni, subordinate alle due polarità, nelle quali si corrispon- dono P'X e XP" — com'è noto, le intersezioni MN di » colla conica sono i punti uniti di questa proiettività. Poichè le due involuzioni sono ellittiche e quindi concordi, la proiettività pro- dotto è pure concorde; perciò le coppie dei punti omologhi non separano la coppia dei punti uniti MN, ossia punti P'P'' sono o entrambi interni, o entrambi esterni alla conica. Ora se P', intersezione delle due corde della conica RP, ed MN = r, è interno, le due coppie di punti della conica £,P, ed MN si separano; l'opposto suc- cede se P' è esterno alla conica. Quindi la coppia MN, o separa entrambe le coppie È,P,, EsP,, o non separa nes- suna delle due; ossia le coppie MN ed , FR, sulla conica non si separano, o, in altri termini, i centri È, ed R, dei fasci generatori della conica stanno entrambi in uno stesso dei due segmenti (archi) in cui » divide la conica stessa. In particolare alla retta all’infinito corrisponde una conica che ha con essa retta a comune due punti (reali), cioè un’iperbole; questa contiene i centri dei fasci gene- ratori, ossia i centri delle ellissi 1 e 2, i quali, per quanto si è dimostrato or ora, stanno in uno stesso ramo dell’iperbole. Le direzioni degli asintoti sono coniugate rispetto ad entrambe le ellissi. Quest’ iperbole passa poi, come sappiamo, per i tre punti singolari UVW. $ 7. — Può interessare un criterio per distinguere le rette, le cui coniche corri- spondenti hanno a comune con una data retta due punti, uno o nessuno; e tale cri- terio ci viene fornito dalla reciprocità della nostra corrispondenza quadratica. Una retta # sarà secante, tangente od esterna alla conica corrispondente ad una retta r, se la retta r è secante, tangente od esterna alla conica ‘corrispon- dente a £. CARLO LUIGI RICCI I (0 e) In particolare la conica corrispondente ad una retta r sarà un’iperbole, una parabola, od un’ellisse secondo che la retta r sarà secante, tangente od esterna alla conica corrispondente alla retta all'infinito, ossia. all’iperbole, di cui abbiamo par- lato più sopra. Possiamo ora cercare un criterio il quale ci serva a riconoscere se un dato punto è esterno od interno alla conica corrispondente ad una data retta. Osserviamo che tra le coniche della rete di base UVW tutte quelle che passano per un dato punto costituiscono un fascio, il quale ha per corrispondente il fascio di rette il cui centro è il corrispondente del punto dato. Consideriamo ora una conica C della rete, ed un punto O esterno ad essa; per O passano due tangenti distinte; nella corrispondenza quadratica e reci- proca (X— P.), alla conica C corrisponde una retta c, ed alle due tangenti per O corrispondono due coniche della rete passanti per il punto 0' coniugato di 0; e queste coniche sono tangenti alla retta c. Quindi, inversamente, data una retta c, la corrispondente conica C avrà due tangenti passanti per 0, — ossia O sarà esterno a C, —, se nel fascio delle coniche passanti per i punti fondamentali UV W e per O' coniugato di 0 esistono due coniche tangenti alla c. Il punto O sarà interno alla conica C se nel fascio UVWO' non esistono coniche tangenti alla c. Quindi il punto O è esterno od interno alla conica € secondo che l’involuzione determinata sulla retta c dalle coppie di lati opposti del quadrangolo completo UVWO' è iperbolica od ellittica. Questa involuzione, com'è noto (*), quando il quadrangolo è tale che ogni ver- tice sia esterno al triangolo degli altri tre, è iperbolica se i quattro vertici del quadrangolo stanno tutti da una stessa banda rispetto alla retta c, oppure sono due da una banda e due dall’altra; è ellittica se dei quattro vertici uno sta da una banda della retta c e gli altri tre dall’altra. Se un vertice del quadrangolo è interno al triangolo degli altri tre, il criterio esposto deve essere invertito. Il punto O starà sulla conica C se la retta c passa per il punto 0'. $ 8. — Stabiliremo ora pure le proprietà della trasformazione (X,— p), e in par- ticolar modo delle coniche da questa generate; e queste proprietà noi potremo dedurre, come abbiamo già accennato, con concetti di dualità (geometrica) nel piano da quelle studiate più sopra, ricordando che la corrispondenza che qui studiamo risulta dal prodotto della trasformazione quadratica sopra studiata e della antipo- larità (P, — p) rispetto all’ellisse 1. In questa antipolarità il triangolo fondamentale UVW si trasforma in se stesso, ossia ad ogni vertice corrisponde il lato opposto. Le coniche inviluppo corrispon- denti alle rette del piano sono tutte tangenti ai tre lati del triangolo fondamentale. Nell’antipolarità rispetto all’ellisse 1, al fascio R;, proiettivo colla punteggiata 7, corrisponde una punteggiata r'; queste due punteggiate generano la conica inviluppo corrispondente alla retta r; si deve inoltre notare che la retta »' è la corrispondente di r nell’omografia Q. (*) Cfr. Srermer-ScaRòrERr, Theorie der Kegelschnitte, Leipzig, 1870, S. 66-67. L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 39 Risulta subito che le rette r ed 7° appartengono all’inviluppo. Avendo dimostrato che una retta » è sempre secante rispetto alla conica luogo ad essa coniugata nella trasformazione (X— P,), si può senz'altro affermare che per l’antipolo R, di » rispetto all’ ellisse 1 passano due tangenti distinte della conica inviluppo, omologa di » nella corrispondenza (X— p), ossia R, è esterno a detta conica. oltre è facile verificare che le due punteggiate r ed »’ toccano la conica in due punti i quali stanno in uno stesso dei due segmenti in cui la conica viene sepa- rata dai punti di contatto delle tangenti condotte da R,. In particolare l’inviluppo corrispondente alla retta all’infinito del piano è una parabola, giacchè deve contenere essa retta come elemento; ed il centro G; dell’el- lisse 1 è esterno a questa parabola. Una retta # sarà secante, tangente od esterna rispetto alla conica inviluppo corrispondente ad una retta r, secondo che il punto 7, antipolo di # rispetto alla ellisse 1, è esterno alla conica luogo corrispondente ad r nella trasformazione (X — Pi), oppure sta sulla conica od è interno. Quindi serve il criterio esposto alla fine del $ precedente. In particolare corrispondono parabole a quelle rette che passano per il punto G;/, coniugato del centro G, dell’ellisse 1 nella trasformazione (X — P.). Ad un’altra retta » qualunque corrisponderà in (X— p) una iperbole od un’el- lisse secondo che è iperbolica od ellittica l’involuzione determinata su essa retta dalle coppie di lati opposti del quadrilatero completo UVW6G;'. $ 9. — Conviene ricordare che siamo stati condotti allo studio di queste corri- spondenze geometriche, propenendoci di determinare quali tra le forze applicate in un punto X del piano t producano sola rotazione della sezione B. Si potrebbe pro- porre il problema di determinare quali forze producano sola rotazione tra quelle le cui linee d'azione si proiettano in una data retta p di m, — ossia stanno in un piano normale a m, di traccia p. Ragionando come più sopra si troverebbe che tali forze sono quelle che passano per il punto X, antipolo rispetto all’ellisse 2 della retta x» congiungente i due anti- poli P, e P, di p rispetto alle due ellissi 1 e 2; e così di seguito si troverebbero corrispondenze e proprietà dualî (geometricamente, nel piano) di quelle più sopra studiate. Alla corrispondenza quadratica (X — P}) si sostituirebbe la corrispondenza (x — ps) pure quadratrica e reciproca. La (X — p) si cambia nella sua inversa (p — X). L’omografia 2 in cui sono coniugati gli antipoli di una stessa retta rispetto alle due ellissi 1 e 2, si trasforma dualmente in se stessa, giacchè per le proprietà invo- lutoria della polarità e lineare dell’omografia, in £ sono coniugate le antipolari di uno stesso punto rispetto alle ellissi 1 e 2. Possiamo in particolare considerare le coppie le quali producono sola rotazione; esse sono evidentemente quelle i cui piani sono paralleli al diametro coniugato della retta GG, rispetto all’ellisse trasversale; in particolare le coppie del piano m e le coppie normali a q. 40 CARLO LUIGI RICCI Producono poi sola traslazione le forze giacenti in m e passanti per G,, e le forze passanti per G, e giacenti nel piano normale a m di traccia la retta G,Gs. — Risulta quindi subito che non esistono coppie le quali producano sola tras- lazione. $ 10. — Nel caso di un solido prismatico le due ellissi hanno a comune il centro, le posizioni degli assi, e, se si trascurano le deformazioni prodotte dal taglio, oppure anche se queste si considerano, purchè i due momenti principali della sezione trasversale siano eguali (7/-=J,) e siano pure uguali i due corrispondenti valori di x, le due ellissi hanno pure a comune la lunghezza dell'asse giacente sull’ asse geometrico del solido; quindi le due antipolari di uno stesso punto X si tagliano nell’antipolo comune della perpendicolare p all’asse geometrico condotta per X ; perciò la corrispondenza degenera; a tutti i punti X della retta p corrisponde lo stesso punto P,, e quindi la stessa retta p. In questo caso le due involuzioni subordinate alle due ‘antipolarità sull’asse geometrico del solido coincidono, ossia hanno a comune tutte le coppie di elementi coniugati. Sono autoconiugati nelle due antipolarità tutti gli infiniti triangoli costi- tuiti dall'asse geometrico e dalle normali a questo condotte per due punti coniugati in detta involuzione. Il significato meccanico di tale risultato è questo: producono la sola rotazione le forze che sono normali all’ asse geometrico del solido, la qual cosa si può dimostrare anche direttamente. Infatti la torsione combinata con flessione pro- duce rotazione pura; e si ha traslazione della sezione B lungo l’asse del solido, solo se questo è sollecitato a sforzo normale, ossia se la forza applicata ha una compo- nente lungo quest’asse; e perciò la traslazione è nulla se la forza è normale all’asse. Nel caso di un solido ad asse rettilineo a sezione variabile, il centro e l’asse longitudinale dell’ellisse trasversale coincidono rispettivamente col centro e coll’asse longitudinale dell’ellisse ordinaria relativa al piano Y passante per l’asse geometrico e normale a n. Questi elementi però in generale non coincidono cogli analoghi elementi del- l’ellisse ordinaria relativa al piano n; infatti i pesi elastici ordinarii parziali relativi al piano m ed al piano y diun tronco elementare qualunque, in generale sono diversi, e il loro rapporto varia da tronco a tronco; quindii baricentri di questi due sistemi di pesi in generale non coincidono; perciò le due ellissi hanno a comune la posizione di un asse ma non il centro. |Si noti che il rapporto di detti pesi è costante per tutto il solido se è costante DA Ty verifica per esempio se le sezioni variano con legge di omotetia; in tal caso le due il rapporto dei due momenti d’ inerzia principali delle varie sezioni, il che si ellissi, ordinaria e trasversale, hanno lo stesso centro]. Nel caso, pure molto frequente nelle applicazioni pratiche, in cui il solido ammetta un altro piano di simmetria il quale sia normale a t, ed abbia per traccia la retta y, le due ellissi, ordinaria e trasversale, hanno entrambe un asse giacente sulla retta y. In questo caso e nel precedente l’asse comune alle due ellissi ed il punto all’in- finito in direzione normale a questo sono polare ed antipolo rispetto ad entrambe L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 41 le ellissi; ossia sono vertice e lato opposti del triangolo antipolare comune alle due ellissi; gli altri due vertici si trovano su detta retta e costituiscono la coppia comune alle due involuzioni di punti della retta stessa anticoniugati rispetto alle due ellissi. Se le due ellissi hanno a comune il centro e le direzioni, ma non le lunghezze degli assi, — come accade per esempio nel solido prismatico, quando si tenga conto delle deformazioni prodotte dal taglio, e non siano uguali i momenti principali d'inerzia della sezione trasversale, — il triangolo antipolare comune è costituito dai due assi e dalla retta all'infinito. $ 11. — Riprendiamo ora a considerare il triangolo antipolare comune alle due ellissi nel caso generale, e teniamo presenti le sue proprietà meccaniche dimostrate alla fine del $ 3. Chiamiamo znZ i tre piani normali a ed aventi per traccie i lati del triangolo rispettivamente opposti ai vertici UV W. Poichè alle forze le cui linee d’azione giac- ciono in & corrispondono come assi di rotazione le rette passanti per U, il noto teorema di reciprocità applicato al solito modo ci permette di affermare senz'altro che tra le linee d’azione delle forze — giacenti in £ — e le traccie su £ degli assi — passanti per U — delle corrispondenti rotazioni intercede un’antipolarità rispetto ad un’ellisse, che si potrà chiamare, per analogia coi casi soliti, l’ellisse ordinaria di elasticità relativa al piano £. Analogamente, alle forze le cui linee d’azione passano per U, corrispondono come assi di rotazioni le rette di Z; e la corrispondenza tra le traccie su £ delle linee d'azione delle forze considerate e gli assi delle relative rotazioni è un’antipo- larità rispetto ad un’altra ellisse, che,° per analogia, si potrà chiamare l’ellisse tras- versale di elasticità relativa al piano &. Si vede subito che per la simmetria, ognuna delle due ellissi avrà un asse gia- cente sulla traccia del piano &, cioè sulla retta VW. Inoltre il centro G:; dell’ellisse ordinaria relativa al piano £, si ottiene proiettando da U il centro Gy, dell’ellisse trasversale relativa al piano mr; infatti il punto Gz1 deve essere la traccia dell’asse della rotazione prodotta da una qualunque coppia di &; il quale asse è il diametro dell’ellisse trasversale di m coniugato alla direzione VW, e quindi deve passare per U che è l’antipolo della retta VW. In modo perfettamente analogo si dimostra che il centro Gs» dell’ellisse tras- versale relativa a € si ottiene proiettando da U il centro G; dell’ellisse ordinaria relativa al piano x; infatti il punto Gz3 deve essere la traccia della linea d’azione di una forza passante per U, la quale produca sola traslazione; tale forza deve passare per il centro G, dell’ellisse ordinaria relativa al piano ©. Gli assi giacenti sulla VW delle due ellissi di & si ottengono facilmente, poichè i due punti VW devono essere coniugati rispetto ad entrambe le ellissi. Gli assi trasversi (normali a ©) delle due ellissi si possono costruire determi- nando due punti coniugati su ciascuna delle normali a t condotte per Gz1 e Gz2, oppure ricorrendo alle relazioni quantitative tra forze e rotazioni fornite dai teoremi a cui accenniamo più innanzi. Serie II. Tox. LXII. UR 42 CARLO LUIGI RICCI Il peso elastico ordinario relativo al piano E si ottiene calcolando la componente R,, normale a , della rotazione prodotta da una coppia unitaria parallela a & ed avremo : Bi — 10 Il peso elastico trasversale relativo al piano € si ottiene calcolando la traslazione S prodotta da una forza agente secondo la UG,G ed avente componente uguale ad uno in direzione normale al piano €, e si ha: Sussistono quindi i noti teoremi dell’ordinaria teoria dell’ellisse di elasticità, ove invece delle rotazioni si considerino le componenti normali al piano & delle rota- zioni prodotte dalle forze agenti in &. Valgono pure i teoremi più sopra enunciati per la teoria dell’ellisse trasversale, ove in luogo delle forze si considerino le componenti normali a £ delle forze con- correnti in U. I teoremi del momento centrifugo e del momento d’inerzia valgono, com'è natu- rale, solo se entrambi gli assi dei momenti stanno nel piano &. Una forza qualunque sollecitante la sezione terminale del nostro solido si può scomporre in due componenti, delle quali l’una giaccia nel piano & e l’altra passi per il punto U; e si potrà così calcolare la deformazione prodotta dalla forza data, come risultante delle due rotazioni prodotte dalle due componenti, in modo perfet- tamente analogo a quello descritto più sopra relativamente al piano n. Lo stesso si può naturalmente ripetere per le altre due coppie Vn e Wz. Si scorge di qui che i tre piani £n 7, a parte la simmetria, godono di proprietà affatto analoghe a quelle del piano t, e costituiscono con questo un tetraedro che si potrebbe chiamare il tetraedro fondamentale del sistema elastico. Questo tetraedro ha un vertice improprio, quello opposto al piano n; abbiamo visto che se il solido ammette un piano di simmetria normale a m, un vertice del triangolo antipolare comune alle due ellissi risulta improprio, e che la traccia y del secondo piano di simmetria è il lato del triangolo, opposto a detto vertice im- proprio; quindi il secondo piano di simmetria fa parte del tetraedro fondamentale, ed il vertice opposto a questo piano è all’infinito in direzione normale a detto piano. In tal caso il tetraedro fondamentale risulta di due piani paralleli, e di altri due piani ortogonali fra loro ed ai primi due. Sia & ilsecondo piano di simmetria; i piani n e Z risultano normali a ted a &. Nel piano & il centro e l’asse, disteso sulla VW, dell’ellisse ordinaria coincidono rispettivamente col centro e coll’analogo asse dell’ellisse trasversale relativa al piano n, ed inversamente il centro e l’asse dell’ellisse trasversale di coincidono col centro e l’asse dell’ellisse ordinaria di m. Nei piani n e Z i centri delle due ellissi coincidono coi vertici W e Y del tetraedro. L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 43 I pesi elastici — ordinario e trasversale — relativi al piano &, e le lunghezze dei semiassi normali a t delle corrispondenti ellissi assumono espressioni partico- larmente semplici, che è bene indicare. Siano p: © pi semiassi dell’ellisse trasversale del piano t, rispettivamente gia- cente in € e normale a E; siano po e po gli analoghi semiassi dell’ellisse ordinaria di m; indichiamo poi con po e pr i semiassi normali a m delle ellissi del piano &; coi noti ragionamenti esposti più sopra si ricava: Mi Spi Be Pro = PoPa VOB 1 —za = Pri = PiPol VGB . CapirtoLo V. Relazioni geometriche tra le sollecitazioni agenti su una data sezione e le corrispondenti reazioni. $ 1. — Lo studio fin qui fatto degli spostamenti della sezione estrema B sotto l’azione di forze ad essa rigidamente collegate, ha particolare interesse, come si è accennato nell’introduzione, per la determinazione di reazioni incognite nei sistemi iperstatici. Sarà quindi utile studiare direttamente le relazioni che intercedono tra le forze che sollecitano una data sezione S dell'arco, e le corrispondenti reazioni dell'imposta 5. Immaginiamo quindi, al solito, il sistema elastico ad asse curvilineo piano inca- strato in A, libero in B, e su esso facciamo agire delle forze rigidamente connesse con una sezione S intermedia tra A e B. Queste forze evidentemente interessano soltanto l’elasticità del tratto AS; in conseguenza la sezione S [e quindi anche la sezione B, che deve ritenersi rigidamente connessa con S, poichè il tratto SB è sca- rico] subisce un determinato spostamento; alla sezione B dovremo poi applicare forze che annullino questo spostamento, mettendo in giuoco, ben inteso, l’elasticità di tutto l’arco AB. Per studiare le deformazioni dovremo tracciare le due ellissi di elasticità, — ordinaria e trasversale, — per il tratto AS. Per trovare le forze applicate alla sezione B capaci di ricondurre questa alla primitiva posizione, dovremo valerci delle due ellissi” relative a tutto l’arco. Indicheremo brevemente con 1 e 2 le ellissi complessive dell’arco, e con 1’ e 2° le ellissi realative al tratto AS. Se nella sezione S agisce una diname, la corrispondente reazione B sarà pure in generale una diname; la polare di questa si ottiene prendendo l’antipolo della polare della diname applicata, rispetto all’ellisse 1’, e poi l’antipolare di questo punto rispetto alFellisse 1. 44 CARLO LUIGI RICCI Si può dire che le due rette polari sono corrispondenti nella omografia, che chiameremo £;, prodotto delle due antipolarità rispetto alle ellissi ordinarie 1’ ed 1. Analogamente i polî della diname applicata e della diname reazione sono cor- rispondenti nella omografia ®, prodotto delle due antipolarità rispetto alle ellissi trasversali 2’ e 2. $ 2. — Consideriamo ora l’omografia X = ®,.957. prodotto di ®, e dell’inversa dis. Se una diname ha il polo sulla retta coniugata della polare della diname stessa nella omografia X, il polo e la polare della corrispondente diname reazione si appar- tengono, e perciò la diname reazione si riduce ad una semplice forza. Occorre notare che in tal caso la polare della diname passa per il coniugato del polo della stessa diname nell’omografia 2. Se la diname applicata si riduce ad una sola forza, il polo e la polare di essa si appartengono; se a questa forza f cor- risponde come reazione B una sola forza, il punto X di applicazione di f è l’inter- sezione della proiezione di f su t, colla retta coniugata di essa proiezione nel- l'’omografia X. In altre parole la forza f si proietta su n nella retta p congiungente X col coniugato di X nella omografia x. Il punto X è l'intersezione di due rette coniugate nelle due omografie Q7* ed L7! della stessa retta p;, proiezione su n della reazione corrispondente ad f. Analogamente la retta p, è la congiungente i due punti coniugati di _X nelle due omografie 2, ed Q.. La corrispondenza tra i punti X e le rette p;, è una trasformazione quadratica analoga a quella studiata più sopra. Allo stesso modo il punto X e la retta p coniugata di p;, nella omografia 27" si corrispondono in una trasformazione quadratica. Producono quindi come reazione B una forza unica le forze delle quali il punto di applicazione X e la proiezione p sono coniugati nella trasformazione quadratica ora definita. $ 8. — L’omografia ® ammette tre punti uniti UVW, vertici di un triangolo i cuì lati sono rette unite. Questi elementi uniti godono di notevoli proprietà mec- caniche; una forza qualunque la quale sia applicata in un punto unito, oppure si proietti in una retta unita, provoca come reazione B una forza unica. I punti UVW hanno per coniugati in entrambe le omografie £;, ed Q, gli stessi tre punti U'V'W' rispettivamente, e questi si possono pure ottenere come punti doppi dell’omografia = = 7.9; e le coppie UU”, VV',WW' sono le tre coppie comuni delle due omografie 2, ed Lo. La reazione B provocata da una forza applicata in U passa per U'; e così pure la reazione provocata da una forza proiettantesi in UV, si proietta nella retta U' V'; e analogamente per gli altri vertici e lati dei due triangoli. Presentano particolare interesse gli elementi uniti della omografia Q, i quali costituiscono il triangolo antipolare comune alle due ellissi 1" e 1; essi godono di questa proprietà: una forza agente sulla sezione S secondo una delle rette unite L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 45 provoca una reazione la cui linea d'azione coincide con quella della forza applicata; il centro della rotazione è il vertice opposto del triangolo antipolare; è poi evidente che le intensità delle due forze sono inversamente proporzionali ai momenti statici dei pesi elastici relativi, rispetto alla comune linea d’azione. In questo caso è evidente che anche la reazione dell'appoggio A agisce secondo la stessa linea d'azione della forza applicata e della reazione B; quindi il triangolo considerato è identico a quello che sì otterrebbe considerando il solido vincolato in B e libero in A. Tale triangolo è quindi antipolare comune rispetto all’ellisse del complesso, ed alle ellissi delle due parti in cui viene scomposto il solido della sezione considerata. oltre è chiaro che le reazioni Ae B provocate da una forza giacente in m e passante per uno dei punti uniti, giacciono in t e passano per il punto stesso. La determinazione della reazione dipende quindi da due solî parametri. Analogamente i punti uniti della omografia ®, costituiscono un triangolo anti- polare comune alle due ellissi 2" e 2; una forza agente sulla sezione S secondo la perpendicolare a 7 in uno dei punti uniti, provoca una reazione B agente secondo la stessa linea d’azione; l’asse della rotazione è il lato opposto del triangolo anti- polare; le intensità delle due forze sono direttamente proporzionali ai momenti statici dei pesi elastici relativi, rispetto all'asse della rotazione. Anche la reazione A ha lo stesso punto di applicazione, quindi anche qui il triangolo considerato è antipolare comune alle tre ellissi trasversali del complesso e dei due tratti in cui il solido viene scomposto dalla sezione considerata. Inoltre si osservi che le reazioni A e B provocate da una forza normale a T, ed applicata in un punto di una delle rette unite, sono pure normali a 7, e sono applicate in punti della stessa retta unita, e perciò si determinano con due soli parametri. $ 4. — Se l'arco è simmetrico, il triangolo antipolare comune all’ellisse (ordi- naria o trasversale) di tutto l’arco ed alle ellissi dei semiarchi è evidentemente simmetrico rispetto all’asse dell'arco; quindi un vertice starà su quest’asse, ed il lato opposto sarà normale all'asse stesso. La costruzione di tale triangolo in questo caso si semplifica, giacchè basta osservare che il lato opposto (coniugato) al vertice che sta sull’asse y di simmetria deve passare per l’antipolo di questo asse rispetto all’ellisse del semiarco; quindi altro non è che la retta perpendicolare all’asse di simmetria condotta da detto antipolo. Trovato questo lato del triangolo, il vertice opposto si trova come antipolo di esso lato rispetto all’una o all’altra delle due ellissi. Gli altri due vertici si trovano ricordando ch’essi devono essere simmetrici rispetto all’asse dell'arco, e quindi, deter- minati sul detto lato due punti coniugati rispetto p. e. all’ellisse di tutto l’arco, è facile ricavare, colla nota costruzione di media geometrica, i due punti coniugati nell’involuzione e simmetrici rispetto all'asse y dell'arco, che è, come sappiamo, uno degli assi dell’ellisse complessiva. Se una forza normale a m e rigidamente connessa colla sezione di chiave, è applicata in un punto S dell’asse y di simmetria dell’arco, essa provoca due reazioni A e B, normali a n, le quali per la simmetria sono uguali alla metà della forza appli- 46 CARLO LUIGI RICCI cata, ed agiscono in due punti situati sulla perpendicolare all’asse di simmetria con- dotta per il punto S di applicazione della forza esterna. L’asse della rotazione pro- dotta dalla data forza è l’antipolare s di S rispetto all’ellisse trasversale del semiarco, la qual retta incontra l’asse y di simmetria in un punto 7. L'antipolare di 7 rispetto all’ellisse trasversale di tutto l’arco è normale ad y, contiene il punto di applicazione della reazione B, e quindi, per quanto si è detto più sopra, passa per S; perciò S e 7 sono coniugati rispetto all’ellisse del semiarco, ed anche rispetto all’ellisse di tutto l’arco. Quindi sull'asse y di simmetria dell'arco le due ellissi trasversali del semiarco e di tutto l'arco determinano una stessa involuzione subordinata di punti anticoniugati. Analoga proprietà sussiste per le ellissi ordinarie corrispondenti. Se rigidamente connessa colla sezione di chiave agisce una forza /, giacente in t e normale all'asse y di simmetria dell’arco, poichè essa è simmetrica della sua opposta, provoca un sistema di reazioni che deve essere simmetrico del suo opposto rispetto a detto asse; ossia le linee d’azione delle due reazioni A e B sono simme- triche e si tagliano nell’intersezione dell’asse y colla linea d'azione x della forza f. La rotazione prodotta da f ha il centro nel punto X, antipolo di «x rispetto all’ellisse ordinaria del semiarco; l’antipolare di .X rispetto all’ellisse di tutto l’arco deve passare per il punto Y intersezione di x con y, e quindi la retta x, e la x’ paral- lela ad x condotta per X, le quali sono evidentemente coniugate rispetto all’ellisse ordinaria del semiarco, sono pure coniugate rispetto all’ellisse ordinaria di tutto l’arco. Ossia: nel fascio improprio delle rette di t normali all’asse y di simmetria del- l’arco, le due ellissi ordinarie del semiarco e di tutto l'arco determinano una stessa invo- luzione subordinata di raggi coniugati. $ 5. — Può interessare la determinazione di quelle dinami di dato asse cen- trale che, applicate alla sezione S, provocano come reazione B una forza unica, o in particolare una coppia. Questo problema è perfettamente analogo, dal lato geometrico, a quello studiato nel $ 4 del Capitolo IV, il quale consisteva nel determinare i moti elicoidali di dato asse centrale, prodotti da una forza unica, e si può trattare in modo identico; basterà nei ragionamenti colà svolti, in luogo del moto elicoidale, considerare la diname applicata, in luogo della forza o coppia applicata, considerare la forza o coppia reazione, ed all’omografia 27 sostituire l’omografia E. Se poi invece del moto elicoidale consideriamo una diname reazione B di dato asse centrale, ed in luogo dell’omografia 27 poniamo l’omografia = = 979, possiamo determinare quali tra le dinami reazioni B aventi per asse quello dato sono provo- cate da una sola forza agente sulla sezione S. Consideriamo ora una coppia agente su una sezione S dell’arco; essa provoca come reazione B una diname la cui polare è la retta p, antipolare del centro del- l’ellisse ordinaria del tratto AS, rispetto all’ellisse ordinaria di tutto l'arco; il polo di questa diname deve giacere sulla antipolare 9g, rispetto all’ellisse trasversale rela- tiva a tutto l’arco, del centro dell’ellisse trasversale relativa al tronco AS. Quindi per ogni asse centrale la cui proiezione sia parallela alla p, si può deter- L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 47 minare nel modo noto una diname reazione B la quale sia provocata da una coppia unica agente sulla sezione S. In particolare le dinami che hanno la polare in p ed il polo nel punto @ inter- sezione di p e 9, ossia le forze applicate in @ e le cui linee d’azione si proiettano in p sono le reazioni B provocate dalle coppie parallele all’antipolare di Q rispetto all’ellisse trasversale di tutto l’arco, la qual retta è evidentemente un diametro del- l’ellisse trasversale del tratto AS. È da notare che le rette p e g sono rette limiti delle omografie L, ed 9, rispet- tivamente. In particolare una forza, reazione B, agente secondo la p è provocata da una coppia del piano t; una forza, reazione B, applicata in un punto della q normal- mente a m, è provocata da una coppia normale al piano n. Se in queste considerazioni si scambiano le ellissi del tratto AS colle ellissi dell’intero arco, possiamo studiare allo stesso modo quelle dinami, ed in particolare forze o coppie, le quali agendo rigidamente connesse colla sezione ,S, provocano come reazione 4 una coppia unica. In questo caso le rette p e g verrebbero sostituite dalle rimanenti rette limiti delle due omografie ®; ed %,. Esempio di applicazione ad un caso concreto. Nella Tavola I° si è compiuto lo studio di un arco a sezione rettangolare; aven- dolo seomposto in 12 tronchi di uguale lunghezza, si tracciò per ogni tronco l’ellisse ordinaria e l’ellisse trasversale; gli assi longitudinali sono eguali per le due ellissi, com'è noto; l’asse trasverso dell’ellisse ordinaria risultò, per ogni tronco, maggiore del corrispondente asse dell’ellisse trasversale. Si determinò poi l’ellisse ordinaria di tutto l’arco col metodo solito e l’ellisse trasversale complessiva col procedimento esposto al $ 5 del Capitolo I. Nella tabella I sono stati calcolati î pesi elastici 23 e g, e gli assi trasversi delle ellissi trasversali parziali. Nelle tabelle II, IMI e IV si calcolarono le rotazioni parziali prodotte dalle tre sollecitazioni unitarie scelte come parametri della reazione B, delle quali si parla nel $ 2 del Capitolo II. Nel calcolo delle rotazioni x” prodotte da una forza 1 agente nel centro G, dell’ellisse trasversale, per alcuni tronchi la distanza d dell’asse della rotazione dal centro dell’ellisse parziale risultò molto piccola; quindi, anzichè la for- mula: ni; si applicò l’altra: r = Zi e perciò si determinarono appositamente le lunghezze D e p.. La somma geometrica delle r"' relative ai tronchi del mezzo arco risultò paral- lela all’asse y, come deve essere per quanto si è detto al $ 6 del Capitolo II. Nella tabella V si calcolarono le rotazioni parziali x!” per la determinazione della linea d’influenza dello spostamento del vertice. La somma geometrica delle r°” risultò parallela all'asse x (orizzontale), come deve essere, poichè per la simmetria la sezione € si sposta nel suo piano. 48 CARLO LUIGI RICCI Furono quindi tracciate le linee d’influenza dei tre parametri della reazione B prodotte da un carico applicato in un punto dell’asse geometrico dell’arco, e la linea d’influenza dello spostamento del vertice. L’ordinata generica delle linee d'influenza di Mx, ed My, si fece uguale al braccio di leva della coppia, supponendo uguali ad uno le forze componenti la coppia stessa. La linea d’influenza della reazione finita B si tracciò ponendo 1= 10". Dette linee in disegno si indicarono come segue: I Linea d'influenza della reazione finita 5. II ; 5 del momento verticale Mp,. III a; 5 del momento orizzontale Mp,. IV È v dello spostamento del vertice. Si determinarono poi le linee d’influenza dei tre parametri della reazione B provocata da una coppia parallela all'asse y applicata nelle varie sezioni dell’arco. La scala delle ordinate si determinò considerando che la Mg,, quando il momento esterno unitario è applicato alla sezione B, diviene uguale all’unità; inoltre osser- viamo che l’ordinata letta sotto la sezione C nella linea d'influenza del para- metro .Mp, deve essere uguale alla componente normale ad y della rotazione della sezione © sotto l’azione di una coppia unitaria parallela all'asse x; e che tale rota- '" relative al semiarco, risul- zione ha per asse la risultante delle rotazioni parziali tante che è già stata determinata precedentemente. La scala della linea d’ influenza della reazione finita B si trovò determinando direttamente il punto di applicazione della reazione B dovuta ad una coppia parallela ad y applicata in una sezione intermedia dell’arco (diversa dalla sezione di chiave €), e deducendo l’ intensità di tale forza, conoscendone i momenti rispetto agli assi x ed y, ricavati dalle relative linee d’ influenza già tracciate; nel disegno poi si pose 0,0001 = 1". i Le linee qui considerate si indicarono così: I Linea d'influenza della reazione B (finita). II 5 5 del momento verticale Mx. TT s 3 del momento orizzontale Mp,. Nella tavola II, disegnato il semiarco AC in scala più grande, si determinarono le due ellissi ad esso relative; quindi si procedette al calcolo diretto della rotazione totale » prodotta da un carico ripartito uniformemente sulla superficie laterale; si determinarono anzitutto le risultanti successive relative ai singoli tronchi, avendo cura di ridurre le forze alla sezione estrema di ogni tronco nel modo indicato al $ 11 del capitolo II; quindi si trovarono le rotazioni parziali, calcolate nella tabella VI, la cui risultante [determinata mediante un poligono funicolare] è la rotazione r sud- - detta. Quindi mediante il triangolo di composizione dei vettori-rotazioni si determinò la rotazione totale # della sezione C nel modo indicato al $ 7 del Capitolo II; resta così pure determinata la rotazione s prodotta dal momento M.. Si tracciò poi il triangolo UVW antipolare comune alle due ellissi (v. $ 5 del Capitolo IV). L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 49 TABELLA I. Pesi elastici ordinarì (28) e trasversali (9). Assi trasversi p, delle ellissi trasversali dei singoli tronchi. (88 1 p=pg PIE=19%85 Vi+(3) Mae dea hb3 jan) t) N° Dim lan DIÙ g mi a Pi 1 46 26 0,000490 . 70,5 1,77 75 5,4 2 43 24,5 0,000624 54,9 ezio 1,173 5,4 3 40,3 21,9 0,001027 38,8 1,89 1,168 5,1 4 38 20 0,001302 30,5 1,90 1,169 DL 5 37 18,5 0,0061692 26,1 2,00 1,166 4,9 6 36 18 0,001855 23,4 2,00 1,166 4,9 TaseLca IL Rotazioni prodotte da un momento unitario parallelo ad y. r= Me ° IPei N° Tr) Pe Mc 7 1 70,5 6,7 0,851 0,000269 2 54,3 6,0 0,875 0,000448 3 38,8 5,3 0,920 0,000844 4 30,5 5,3 0,955 0,001112 5 26,1 4,9 0,985 0,001571 6 23,4 4,9 10.998 0,001775 | Le rotazioni r' furono portate in disegno (tav. 1) ponendo, al vero, 0,0001 = 2 dm. Risultante complessiva (12 tronchi) R'=0,01145. Serie II. Tox. LXII. a 50 CARLO LUIGI RICCI TapeLna II. Rotazioni prodotte da una coppia unitaria normale ad y. N° | g Pi | Mi; 7! 1 70,5 5,8 0,935 0,0003894 2 54,3 6,0 0,894 0,000458 3 38,8 6,1 0,852 0,000591 4 30,5 6,8 0,844 0,000598 5 26,1 7,6 0,863 0,000574 6 23,4 9,0 0,972 0,000513 Per 7°: 0,0001=2 dm. Risultante complessiva (12 tronchi) R"=0,00563. TaseLLA IV. Rotazioni prodotte da una forza unitaria agente in Gy de a E) È ga GR N° g d Pe D iù 1 70,5 — 6,6 156 0,0508 2 54,9 — 7,0 127,2 0,0478 3 38,8 — 53) 102,5 0,0453 4 30,5 0,93 8,9 78,0 0,0355 5 26,1 107; = — 0,0226 6 23,4 4,4 —_ — 0,0097 Per x": 0,001 =1dm. Rotazione risultante (6 tronchi) R'= 0,206. Braccio della coppia: 6 = 219,50. Traslazione: S= R'"% = 0,206 X 219,5 = 45,2. L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 5I Peso elastico trasversale di tutto l’arco: ono _—_ 99 G= = 597 =0,02215. Peso elastico trasversale del semiarco: ; 1 1 973 $i — = = d 63 G = RA 0,206 X 27,3 0,1778. Semiassi dell’ellisse trasversale: ele = 91,54 n=] ne ù e ) 2) OAsX OE 7 See Taenna V. Rotazioni parziali per la ricerca della linea d’influenza dello spostamento del vertice. N° i È n D 1 1 70,5 0,6 8,5 111,0 0,0210 2 54,3 a 9,5 82,5 0,0200 3 38,8 1.6 8,0 47,0 0,0230 4 30,5 1,7 5,7 18,0 0,0170 5 26,1 1,5 6,2 23,0 0,0215 6 23,4 1.6 9,2 57,8 0,0250 Per r": 0,001=1dm. TaseLca VI. Rotazioni prodotte da carico ripartito. N° g d Pe D fi v 1 70,5 2,0 15,6 148,2 11,50 0,09560 2 54,3 2,3 16,2 128,7 9,01 0,07760 3 38,8 2,7 16,4 106,0 6,73 0,06360 4 30,5 4,1 IO) 81,4 4,67 0,03830 5 26,1 6,8 18,8 55,0 2,75 0,01540 6 23,4 16,5 19,0 38,5 0,90 0,00257 Per 7: 00I= 5, —___ccecE=————__— Lf Deb AEREA ODIA 19° okta” E ta). ANN tn, go rest? dotate È (n tag ce i ì Ar Av i ila i. 0 det LA bet Mei i vii iii rn Tosse ibi sm dle, ovissetie e prio uu ua Da ba i Ae solassasazent asilo! ib eg I Rio BAR A O) RS dti "a $ o Big? È ME 3 LA” vi Depia, art Va; METE GA 4 ita Son) mr dci! co [G ! PIA (0012 /PABEBBOS N GET OTRS ICI. 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Le ricerche floristiche, compiute nelle Alpi occidentali in questi ultimi anni dai cultori della Flora piemontese, hanno portato alla conoscenza di stazioni nuove di alcune di queste, finora assai poco note, e mancanti quasi negli erbarii italiani, ed anche alla constatazione di qualche specie finora non indicata per la nostra Flora. To ho approfittato degli abbondanti materiali raccolti negli Erbarii dell’Orto Botanico di Torino, specialmente per opera del sig. E. Ferrari, per studiare questo interessante gruppo di avene. Il mio lavoro non ha la pretesa d’essere una revisione monografica del gruppo, spero tuttavia che potrà interessare come contributo alla conoscenza di un gruppo fin qui poco conosciuto della flora italiana. Oltre che del ricco materiale degli erbarii dell'Orto botanico di Torino, messo a mia disposizione dal Prof. 0. Mattirolo, mi sono avvalso anche di quello degli Istituti botanici di Firenze, Roma, Genova (1), cortesemente comunicatomi dai Chiar. Prof. P. Baccarini, R. Pirotta, 0. Penzig. Ho potuto altresì consultare le collezioni private dei Sigg. Dott. F. Vallino, F. Santi, F. Vignolo-Lutati, A. Noelli, Col. A. Zola. A tutti mi è grato esprimere la mia più viva riconoscenza. (1) Indicherò con HP l’Herbarium pedemontanum di Torino e con HG l’Erbario generale, pure di Torino; con HF l’Erbario di Firenze, con HR l’Erbario generale di Roma, con HC l’Erbario Cesati di Roma, con HGen. quello di Genova. DO 54 G. GOLA La sez. Avenastrum Koch costituisce un gruppo assai omogeneo di specie, carat- terizzato dalla povertà di nervature nelle glume, dalla pubescenza dell’apice del- l’ovario, e sopratutto dalla durata della pianta che è perenne. Non si può certo affermare che le specie di questa sezione siano caratterizzate da un polimorfismo spiccato, ma piuttosto la grande omogeneità dei caratteri di tutte le specie, ne rende difficile la distinzione, nei casi in cui ha luogo una deviazione lieve dal tipo. La stessa ristretta area di distribuzione di molte specie ostacola la possibilità di avere a disposizione materiali di studio in misura tale da dirimere sempre ogni difficoltà. A ciò principalmente si deve la complicata sinonimia che esiste a proposito di qualche specie. Prima di entrare nello studio delle singole forme, mi soffermerò ad esaminare il valore dei caratteri che si sono proposti per differenziarle luna dall’altra. La conformazione della parte inferiore dell’ arista (appiattita nell’A. pratensis, alpina, planiculmis, Scheuchzeri, cilindrica nelle altre specie piemontesi) costituisce un ottimo criterio di suddivisione in due gruppi, tanto più che esso è nel maggior numero dei casi associato a differenze nella quantità dei fiori componenti ciascuna spighetta. Se quest’ultimo carattere, considerato da solo, non ha l’importanza che gli attri- buiscono molti autori, tuttavia associato all’altro testè ricordato, permette di dirimere nettamente ogni dubbio che può sorgere p. e. osservando esemplari opimi. Così pure, molti autori dànno grande importanza al numero delle nervature delle glume. L’innervazione è assai spesso in rapporto collo sviluppo delle glume, e tale sviluppo è talora in ragione diretta col numero dei fiori che costituiscono la spighetta. Per rimanere nel campo della morfologia fiorale, ricordasi ancora il carattere della pubescenza o meno dell’asse dell’ultimo fiore, che è tabido. Molti autori lo indicano addirittura come un carattere distintivo fra specie e specie, ma ad esso non si deve attribuire un valore così grande. La pubescenza di questo organo abortivo, è talora in relazione diretta collo sviluppo del fiore stesso, e spesso anche, a parità di sviluppo, è dato osservare nella medesima specie la pu- bescenza o no di tale asse (p. e. A. Parlatorei, A. montana, A. sempervirens). Pure poco costante è il numero dei fiori in ciascuna spighetta, e quello della presenza dell’arista nel fiore tabido. Assai maggiore importanza è da darsi, a mio avviso, alla struttura delle foglie. Anzitutto la presenza o l’assenza di ligula è un carattere di valore notevolissimo, per la facilità colla quale può essere osservato e per la sua costanza, e va special mente utilizzato nel gruppo della specie ad arista cilindrica alla base. Nelle foglie di tutte queste specie, e, del resto, delle graminacee perenni, è fre- quente l’osservare un dimorfismo spiccato tra quelle basali e quelle culmeali, il quale è del resto facile a spiegare, se si pensa che le foglie basali hanno da sopportare i rigori estremi del clima e per un tempo più lungo che non le foglie culmeali. La durata delle foglie basali è variabile; in qualche specie le foglie basilari sono scarse e di assai breve durata, onde sono quasi sempre scomparse o almeno 3 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 519) morte all’epoca della fioritura (A. bromoides, A. alpina, A. pubescens), in altre invece permangono insieme a quelle dei getti sterili. Di quelle a foglie permanenti, alcune specie hanno le foglie che, dopo morte, cadono rapidamente in marcescenza, specialmente nella lamina, ma anche la porzione guainale è così profondamente alterata all’inizio della stagione primaverile, che i nuovi getti possono perforarla e dare così origine a innovazioni extraguainali. (A. pratensis, A. Scheuchzeri, A. Parlatorei, A. montana). In altre invece la marcescenza delle foglie procede in due tempi. La lamina si separa e si distacca nettamente e precocemente dalla guaina, e cade al minimo urto nella stagione primaverile; la parte guainale essicca e permane poco alterata in causa della forte sclerosi dei suoi tessuti. La durata delle guaine è grandissima, onde le innovazioni sono tutte intraguainali e tutte avvolte da numerosissime guaine rigide, talora (A. sempervirens) di lunghezze differenti, talora (A. sefacea, A. lejocolea) tutte di lunghezze uguali, onde, in entrambi i casi, i cespi di tali piante si fanno gros- sissimi per l'accumulo di parti morte, mentre relativamente piccola è la parte vivente. Questa disposizione è affatto caratteristica nelle tre specie che ho ricordato. La struttura della lamina fogliare presenta due tipi: quello pianeggiante, carat- terizzato da due soli gruppi di cellule bulliformi ai lati della nervatura mediana; e il tipo pieghettato, nel quale le foglie presentano numerosi gruppi di cellule bulli- formi ai lati di tutta o di una parte dei fasci vascolari. Si osserva il primo tipo di foglie in tutte le Avene aventi la parte inferiore della resta appiattita; il secondo invece è diffuso in tutte le altre specie piemontesi della sez. Avenastrum. Di queste però lA. pubescens è dimorfa, in quanto le foglie dei getti sterili ap- partengono al tipo pieghettato, mentre quelle dei getti fertili e le culmeali sono piane. Mm tutte le altre specie il tipo pieghettato è caratteristico sia delle foglie dei getti sterili che culmeali. Le cellule bulliformi sono sempre più o meno evidenti, e meno sviluppate lo sono specialmente nell’A. setacea e A. lejocolea, nelle quali l’am- piezza di movimento da esse determinato è appena percettibile. Ciò è specialmente determinato dalla sclerosi degli elementi sottoepidermici, che in queste specie raggiunge il massimo grado. In complesso io ritengo che nella determinazione delle specie della sez. Ave- nastrum, sì deve dare valore: 1° alla forma dell’arista; 2° alla morfologia della lamina fogliare e della ligula; 3° a tuttii caratteri desumibili dalla morfologia delle glume, delle glumette, e dell’asse delle spighette. A. pubescens L. L’Avena pubescens L. intesa nel suo senso più largo, comprese cioè tutte quelle forme che ad essa, pur essendo assai prossime, sono state distinte come specie a sè o come varietà (A. amethystina, A. pubescens var. alpina Gaud, ecc.), è abbastanza frequente nella catena alpina piemontese. 56 G. GOLA 4 Ma i numerosi esemplari della nostra flora, che io ho avuto opportunità di esa- minare, presentano un polimorfismo così notevole, che possono servire utilmente a portare un contributo alla sistematica del gruppo dell'A. pubescens. L'entità che più d'ogni altra è considerata distinta dalla specie tipica linneana è VA. amethystina D. C. (1) identica, secondo alcuni autori, all’A. sesquitertia L. Ove tale identità fosse provata, la denominazione linneana avrebbe la precedenza su quella candolleana, ma la diagnosi di Linneo (2) può riferirsi secondo alcuni autori ad un’Avena, secondo altri ad un risetum; io adotto perciò la denominazione posteriore, perchè affatto indubbia sul suo significato. De Candolle stesso sospettò che la sua nuova specie non fosse che una varietà di A. pubescens (3), e malgrado che numerosi autori posteriori, Koch (4), Grenier et Godron (5) e tra gli italiani Parlatore (6), Casati, Passerini, Gibelli (7), e Arcan- geli (8), ecc., l'abbiano tenuta distinta, si è recentemente ritornati a considerarla come un gruppo subordinato alla A. pubescens, cioè come sottospecie (Ascherson e Graebner (9)) o come varietà (Fiori (10)). Dei caratteri indicati da De Candolle: portamento, forma della ligula, colora- zione delle spighette, forma e sviluppo delle glume, nessuno è stato tenuto in conto dagli autori che pure hanno tenuto distinta l'A. amethystina dall'A. pubescens. Ciò del resto con ragione, perchè le dimensioni (1-2 dm.) erano state misurate sopra un esemplare mostruoso; la colorazione delle spighette è spesso variabile col grado di maturità di esse (11), e la forma della ligula e delle glume non sono così nettamente distinte da essere utilizzabili per la separazione di due specie. Koch, Grenier e Godron, ecc., accennano ad altri caratteri distintivi: tali p. e. l’essere la gluma inferiore trinervia nell’amethystina invece che uninervia, l'essere nell’a. le spighette 2-3 flore invece che 3-4 flore, l’essere la resta dorsale della glu- metta inferiore del primo fiore situata in basso nell’una (ameth.), e più in alto nell’altra. Koch accenna inoltre alla pubescenza degli angoli della glumetta superiore, ed alle dimensioni maggiori delle glume nell’A. amethystina. i Ma tutti questi caratteri non sono abbastanza sicuri, ed una prova di ciò l’ab- biamo p. e. nell’incertezza del riferimento sinonimico dell'A. lucida Bertol. (12). (1) De Canponne, FI. d. France, T. II, p. 37 (1805). (2) Linné, Mantissa plantarum, I, p. 32. (3) Op. cit., V, p. 260 (1815). (4) Koca, Synopsis Florae germanicae et helveticae, ed. II, p. 918. (5) Grenier et Gopron, Flor. d. France, III, p. 518 (1855). (6) ParLatore, Flora italiana, I, p. 288. (7) Cesari, Passerini e Giserri, Compendio della Flora Italiana, I, p. 62. (8) ArcanceLI, Compendio della Flora italiana. (9) Ascnerson u. GrAEBNER, Synopsis der Mitteleuropiischen Flora, II, 1, p. 245 (1898-1902). (10) Frorr e PaorertI, Flora analitica d’Italia, I, p. 72 (1896). (11) BerroLoni A., Flora italica, I, p. 701 (1833). (12) In generale la colorazione violacea della gluma e della glumetta dell’Avena scompare dopo la fecondazione e talora anche più precocemente. Tuttavia si possono distinguere in generale nelle specie di questo genere due forme, l’una a spighette costantemente verdi, l’altra a spighette che per un certo tempo presentano una colorazione violacea più o meno estesa. “ 5 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 57 Sotto questo nome Bertoloni descrisse un’ Avena a spighette biflore, colle glu- mette glabrescenti sulle nervature, e con le foglie glabre a ligula acuminata intera. Parlatore identifica l'A. lucida Bert. coll’A. pubescens var. alpina Gaud. (1), mentre Ascherson e Graebner la identificano coll’A. amethystina; a mio avviso è assai più rispondente al vero la sinonimia di Parlatore, perchè le dimensioni delle glume indi- cate da Bertoloni (Curae posteriores) (2), fanno ritenere la A. lucida assai più prossima alla A. pubescens che non alla A. amethystina. Anche Arcangeli considera la A. lucida come var. della pubescens, ma indica anche come carattere distintivo tra questa e l’amethystina, l’avere questa entrambe le glume uninervie, e quella l’una (l’inf.) uninervia, l’altra trinervia. In questa affer- mazione l’autore è affatto isolato, perchè le glume entrambe uninervie non esistono affatto nelle due specie controverse. Io ho sottoposto ad accurato esame numerosi esemplari, italiani ed europei, di queste Avene, avuti dagli Erbarii di Roma e di Firenze, e altri conservati nell’Isti- tuto di Torino, nonchè di colleghi ed amici cultori della flora piemontese, ed ho potuto constatare che nessun carattere preso singolarmente può essere utilizzato nella distinzione delle entità che sono state separate dall'A. pubescens, e che anche il complesso di caratteri che potrebbero più utilmente venire ricordati, presentano frequentissimi graduali termini di passaggio dall’una all’altra entità. Il portamento, tenuto in conto da De Candolle, non è molto diverso nelle due specie; le dimensioni e sopratutto la pubescenza delle foglie presentano delle diffe- renze numerose con tutti i termini di passaggio. Si hanno esemplari a foglie irsute su entrambe le pagine e sulla guaina; altri a foglie irsute specialmente sulla pagina inferiore e sulla guaina, altri a pelurie limitata alla guaina, altri cigliati solo in corrispondenza della regione ligulare, altri infine glabri nelle foglie culmeali, e irsuti più o meno in quelle dei getti sterili. Così pure tutti i termini di passaggio si osser- vano nelle dimensioni delle foglie, in ispecie delle culmeali; quivi esse, particolar- mente negli esemplari dei luoghi secchi, sono talora assai ridotte nelle dimensioni del lembo. La ricchezza della pannocchia è pure assai variabile, talora essa appare sub- racemosa, ma anche a questo riguardo si osservano tutti i termini di passaggio, in relazione colla ricchezza di esse; le spighette sono portate da peduncoli lunghi almeno quanto esse, inseriti a loro volta sopra i rami della pannocchia. In un solo caso ho osservato le spighette sessili e geminate sopra i singoli rami della pannocchia. Le dimensioni delle spighette ed il numero dei fiori non sono fra loro in rela- zione ben definita. Nell’ A. amethystina si dovrebbero trovare un numero minore di fiori ed un maggiore sviluppo nelle dimensioni delle spighette; ora anche negli individui, e sono frequenti a osservarsi, che hanno le spighette molto grandi, sono biflore assai spesso quelle dei rami inferiori della pannocchia, mentre quelle dei rami superiori e medii sono triflore. (1) Gaupis, Flora helvetica, I, p. 332 (1828). (2) Op. cit., III, p. 590. Serre Il. Tom. LXII. H 58 G. GOLA 6 Il carattere delle spighette grandi ma pauciflore, dovrebbe essere associato a quello della gluma inferiore trinervia (nell’A. amethystina), ma questa coincidenza non è affatto costante; in generale il maggiore sviluppo delle spighette, e quindi delle glume, corrisponde ad una maggiore innervazione, ma non sempre. Così pure non sempre la lunghezza notevole della gluma inferiore, fino a oltre- passare il fiore inferiore, che da alcuni autori è data come propria dell'A. amethy- stina (1), è concomitante con gli altri caratteri proprii dell'A. amethystina; altret- tanto si dica della posizione dell’arista dorsale del fiore inferiore. Dall'esame di numerosi esemplari io ritengo potersi bensì distinguire lA. ame- thystina dall'A. pubescens e da altre entità a questa affini, ma non col valore di specie, bensì con quello di varietà collegate col tipo da una serie di forme aventi caratteri intermediari]. Nella flora piemontese ho potuto osservare le seguenti entità: A. pubescens L., caratterizzata prevalentemente dalla pubescenza delle foglie, dalle spighette piuttosto piccole, a parecchi fiori, tre, e talora quattro o cinque, x aventi le glume brevi, particolarmente l’inferiore, la quale è assai più breve dei fiori, acuminata, uninervia. L’arista del primo fiore è inserita nella parte inferiore del dorso della glumetta. : Frequente in tutte la catena alpina del Piemonte: Val Sesia a Riva Valdobbia, e Alagna Sesia, Carestia, 1877-1902. Tra i numerosi esemplari di questa valle, esi- stenti nella Collezione Carestia, alcuni hanno le spighette colla gluma inferiore tri- nervia (p. e. uno di quelli distribuiti al 2666 dalla Soc. dauphinoise, 1880); tale sarebbe carattere dell’A. amethystina D. C. Ma la abbondanza di spighette triflore, la posizione della resta sulla glumetta del primo fiore, l’avere la gluma inferiore brevemente acuminata, la villosità delle foglie assai marcata, la ravvicinano assai al tipo. Valle d'Aosta a Gressoney-St.-Jean, 1859, Carestia; a Cogne, 1853, Allis; tra Villefranche e Brissogne, 1899, Ferrari. In questi esemplari sono in prevalenza forme a spighette più o meno macchiate di violaceo, secondo il grado di maturità; non mancano però forme nettamente vire- scenti da giovani e flavescenti da adulte, come in alcuni di Riva e in quello di Brissogne. - Valle di Susa sotto ai Bonnet, 1897, E. Ferrari; a S. Antonino, 1910, Ferrari, Santi, Zola; Colle di Sestrières, 1898, E. Ferrari. Quest'ultimo esemplare è interessante per la curiosa disposizione geminata delle spighette come ho accennato più sopra. Alpi Marittime. Vallone della Valletta sopra Aisone, 1895, E. Ferrari. La varietà che meno si discosta dal tipo è la var. alpina Gaud = var. glabrescens Rchb., la quale non manca nelle Alpi piemontesi. È questa a mio avviso da considerarsi come intermedia tra il tipo e l'A. ame- thystina. La glabrescenza di tutta la pianta è assai spiccata, spesso totale. Le foglie, spe- cialmente le cauline, hanno la lamina assai breve, le spighette hanno delle dimensioni (1) ArcancetI (op: cit.) indica che la gluma superiore è nell’A. amethystina sempre più lunga dei fiori. ” ( LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM n KOCH 59 maggiori, quasi quanto quelle dell'A. amettystina, ma sono per lo più triflore, la gluma inferiore è talora trinervia, ma anche in tal caso brevemente acuminata, la resta è impiantata per lo più in alto sulla glumetta del primo fiore. La ho osservata di Valsesia a Riva Valdobbia e Alagna (Carestia, 1877); di Valle d'Aosta a Gressoney (Carestia, 1871); del M. Cenisio nelle Alpi Cozie (Vignolo Lutati, 1910); della Val Macra (Cuneo) nel Vallone di Ciaramasco (1909, Ferrari, Gola); e delle Alpi Marittime verso Tenda (Ungern Sternberg, 1872), e Frontero (Gennari, 1851). A questa varietà è da riferirsi l'A. lucida Bertol. La var. amethystina è pure molto frequente nella nostra regione; le grandi dimensioni delle spighette, la relativa povertà di fiori in ciascuna spighetta, la pre- senza di due o di tre nervi nella gluma inferiore, la lunghezza di questa che spesso arriva fino all'apice del fiore inferiore, mentre la gluma superiore la oltrepassa co- stantemente: l'essere questa gluma lungamente ovato-acuminata, la posizione della resta della glumetta inferiore, sono caratteri che identificano bene questa varietà, la quale è legata al tipo specialmente da forme riferibili alla var. alpina. La sua diffusione è prevalentemente spiccata nelle Alpi occidentali, dove la ho osservata in numerosi esemplari. Valle d’Ossola in Val Formazza, 1860, Gibelli; Valle d’Aosta nel Vallone St.-Marcel, Ferrari, Gola, 1904, forma a pannocchia povera subracemiforme; Valle di Lanzo a Usseglio nei pascoli sopra Malciaussia; forme interessante pel notevo- lissimo sviluppo della pannocchia e delle singole spighette aventi glume assai lun- gamente acuminate, 1909, P. Fontana; Valle di Susa sopra Bussoleno, 1900, E. Ferrari; Colle del Moncenisio, 1844, Delponte; id., Malinverni; 1909, F. Vignolo-Lutati; pa- scoli d'Oulx, 1847, Lisa; Valle Macra, 1883, Rostan; id., sopra Alma, 1900, E. Ferrari, 1910, Ferrari, Gola; sopra Celle Macra, 1910, Ferrari, Gola; sopra Acceglio nel Vallone di Sautron, 1909, Ferrari, Noelli, Gola; Valle Corsaglia alle Fontane, 1844. Lisa. Una forma affatto opima di A. amethystina è quella stata raccolta da A. Carestia sopra Gressoney verso l’Alpe di Valdobbia, e della quale ho osservato due esemplari, uno dell’Erbario di Firenze, l’altro di quello di Torino. Entrambi, ma in grado assai più spiccato quest’ultimo, presentano delle spighette assai grandi con tre fiori per- fettamente sviluppati, e talora con un quarto pure aristato, con reste assai lunghe, impiantate nella metà inferiore delle glumette; la gluma inferiore non è però tri- nervia, e non supera i fiori. Interessante è la pubescenza delle foglie che manca in entrambe le faccie delle lamine e sulle guaine, e che si manifesta con lunghe ciglia solo ai margini della lamina in prossimità della regione ligulare; è questo un carattere essenziale del- lA. laevigata Schur. Il materiale del quale io ho potuto disporre non è sufficiente per una determi- nazione sicura, ma sarebbe da ricercare se non si tratti dell'A. pubescens L. v. lae- vigata Schur., f. insubrica Asch. u. Graebner. Non ho veduto esemplari i quali potessero chiarirmi la posizione sistematica dell'A. Hugueninii DN. (in Steud. Syn. Glum., I, p. 425, 1885), segnalata dall’Autore pel Moncenisio, e da lui stesso sospettata come una forma depauperata dell’ A. lucida Bertol. 60 G* GOLA 8 Neppure ho potuto farmi un’idea di quanto abbia voluto indicare Allioni (FI. Ped.) sotto A. sesquitertia. Avena Parlatorei Woods (Tour. fl., p. 405, 1850). Woods riconobbe pel primo l’errore nel quale caddero Allioni (1) (pro parte), Host (2), ecc., riferendo ad A. sempervirens Vill. gli esemplari da loro studiati e che non avevano nulla di comune colla specie villarsiana. Tale errore fu specialmente ripetuto dai floristi italiani: Bertoloni, Parlatore, Cesati Passerini e Gibelli riferirono ad A. sempervirens tutte le loro descrizioni di A. Parlatorei Woods; Parlatore la confuse in parte anche coll’ A. setacea Vill.; Boissier e Reuter (3), che riconobbero pure l'errore dei floristi testè ricordati, la denominarono A. Hostii; denominazione che fu usata per molto tempo, ma che si dovette abbandonare per quella di A. Parlatorei Woods che è di data antecedente. Si distingue ottimamente dalle A. sempervirens Vill. specialmente per la minore rigidità del lembo fogliare, per la lunghezza della ligula che è ovato-oblunga, per la struttura delle spighette. Cresce piuttosto frequente nelle Alpi piemontesi, ed è del resto assai diffusa in tutta l'Europa centrale e orientale; è per ciò che occorre molto frequentemente nelle mani dei floristi, all’inverso di quanto si verifica per lA. sempervirens Vill., la quale è molto rara. ai Per rispetto alla flora piemontese io la ho studiata delle seguenti località: A. Marittime. Sopra la Certosa di Pesio, 7, 08, Ferrari Vallino, Gola (HP); Limone Val S. Giovanni, 6, 1893, Ferrari, Belli (HP). Tra le sorgenti delle Fuse e il Colle della Ciusetta in V. Tanaro (Ormea), 6, 1909, Ferrari, Gola (HP); Valle di Corsaglia, 8, 1844, Lisa; S. Anna di Vinadio, 8, 1843, Lisa; 7, 1889, Ferrari; Entraque. alla Cresta Pianard, 7, 06, Ferrari, Gola (HP). A. Cozie. Val Macra al Colle dello Scagno (Acceglio), 7,09, Ferrari, Gola; id. alle Grangie Casali (Alma), 6, 1900; S, 1909, Ferrari, Gola (HP). Alpi di Massel, 1863, Rostan; Valli di Luserna e di S. Martino, 1825, Lisa (HP); id., 1872, Rostan (HFI), Val Germanasca, 1880, Rostan (H.F1); M. Chaberton, 1890, Ferrari (Fiore tabido ari. stato e talora mancante); M. Cenisio, 7, 1883, Morthier (HP); id., Herb. Balbis. A. Graie. Bussoleno alla Cava del Marmo, 7, 1900, Ferrari; Colle della Croce di Ferro, 8, 1909, P. Fontana; Usseglio, Pascoli di Malciaussia, 8, 1909, P. Fontana; Cogne alla Cappella del Cret, 1902, Ferrari, Gola. Anche in questa specie l’asse del fiore tabido che di solito è glabro è talora peloso; questo carattere non può quindi avere il valore che gli attribuiscono Ascherson e Graebner. Gli stessi autori indicano che la gluma inferiore è nell’A. Parlatorei 3-5 nervia; ciò non è esatto, perchè tutti gli autori concordano nell’indicarla uninervia, ed anche lo stesso Boissier nella diagnosi di A. Hostîî la indica uninervia. (1) Anzioni, Flora Pedemontana, TI, 255 (1784). (2) Hosr, Graminaceae austriacae, III, p. 28, t. 41 (1805). (3) Borssier et Reurer, Pugillus pl. afr., p. 121 (1851). “ 9 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. AVENASTRUM , KOCH 61 Avena montana Vill. Hist. PI. Dauph. Il, p. 151 (1787) = A. sedenensis DC (1). Abbastanza frequente nei luoghi elevati ghiaiosi delle Alpi occidentali, dove è dato incontrarla nelle sue forme teretifolia Willk e planifolia Willk (2). Il carattere della pubescenza dell’asse del fiore tabido indicato da Grenier e Godron, De Notaris (3), Fiori, e anche da Parlatore, il quale ne fa un carattere di- stintivo dall’A. sempervirens (Parl. e non Vill. = A. Parlatorei. Woods), non è co- stante, e nella nostra regione si incontrano forme ad asse glabro e ad asse peloso. Osservai esemplari delle seguenti località: Alpi Marittime, Val Tanaro sopra Ormea tra Viozene e Carnino, 7, 1908, Ferrari, Gola (asse del f. tabido glabro, f. tab. aristato). Frontero, 7, 1851 (f. tab. ad asse peloso e aristato). M. Saccarello. Unger Sternberg, 1872. Val Stura a Vinadio, 1848 (Lisa, f. tab. mancante); a Bersezio, 8, 97, Ferrari; al Colle di Pourriac, 7, 1850, Lisa; al Vallone Forneris, 8, 1895, Ferrari. Alpi Cozie. V. Macra sopra Acceglio alla Chiappera (fiore mutico e ad asse peloso), 7, 1910, Ferrari, Gola; al Colle del Losaret (fiore id. id.); 8, 1890, Ferrari, Mattirolo; al Colle dello Scagno (F. tab. ad asse peloso, ed aristato), 5, 09, Ferrari, Gola; alle Grangie Subeyran sotto il Colle Maurin, 7, 1910, Ferrari, Gola (nelle due forme pianifolia e teretifolia); alla Grangia Traversera, 7, 1910, Ferrari, Gola; al L. di Visaisa, 7, 1909, Ferrari, Gola (forma ad asse peloso e ad asse glabro); Valle Varaita, 1847, Lisa, forma planifolia: Bardonecchia, al Colle della Rho, 8, 1847, Lisa, 8, 1890, Berrino, nella f. planifolia; Villarfocchiardo al Colle di Malanotte, 8, 1909, Fontana e Crosetti (asse del f. tabido glabro). dvenu lejocolea n. sp. Quantunque i caratteri fondamentali dell’A. setacea Vill. (4) siano tali da distin- guerla nettamente dalle altre vicine, tuttavia essa presenta negli esemplari italiani ad essa riferiti dagli autori nostri, delle differenze di una certa entità, che male si accordano colla diagnosi villarsiana. (1) Ascaerson u. GRAEBNER, Op. cit., non identificano l'A. sedenensis DC. collA. montana Vill., ma considerano l’entità candolleana come una forma della specie Villarsiana. Nelle Alpi Marittime, dove sì troverebbe, secondo gli autori germanici, questa forma, io ho osservato esemplari a pannocchia con rami esili e fiori piccoli (sopra Carnino, verso il Colle dei Signori, m. 2000 c., 1.7. 08, Ferrari, Gola). Ma ho osservato pannocchie a rami esilissimi anche in esemplari di A. Cozie, senza che in essi si associasse a tale carattere la minore dimensione dei fiori, o l’esilità notevole delle foglie che sì rimarcava in quelli sopra ricordati. (2) WiLctowx et Lance, Prodromus Florae hispanicae, I, p. 68 (1887). (3) A proposito di questa specie, come del resto di altre della sez. Avenastrum, ho rilevato che alcuni caratteri desumibili dallo sviluppo dell’ultimo fiore di ciascuna spighetta non sono da ritenersi per costanti, perchè dipendenti dallo sviluppo maggiore o minore del fiore stesso, talora affatto abortito e ridotto a due squame appena glumettiformi, talora più evoluto e presentante la glumetta inferiore con arista più o meno grossa, talora infine qualche stame abbastanza ben confor- mato, quantunque di rado fertile. Lo sviluppo dell’arista, la pubescenza delle glumette o dell’asse che le porta, sono in relazione con tale variabilità di conformazione del fiore. (4) Virrars, Prospectus de Vhistoire des plantes du Dauphiné, p. 17. 62 G. GOLA 10 Di queste differenze e in generale della variabilità dell’Avena setacea, risentono le descrizioni e le diagnosi degli autori che dopo Villars ebbero occasione di studiarla. Villars definì l'A. setacea come A. folîis setaceis, levibus, culmo basi hirsuto, spiculis trifloris, panicula erecta (Prospectus, p. 17). Nell’Histoire (1) la diagnosi fu modificata così: A. foluis setaceis, panicula pur- purescente, calicibus trifloris, aristis migris recurvis. La figura villarsiana annessa a tale diagnosi, accenna pure alla pubescenza delle guaine fogliari e ad una certa ventricosità di esse. La descrizione che accompagna la diagnosi fa pure cenno di una tale pubescenza, nonchè della pigmentazione della base delle ariste. Tali caratteri furono desunti dallo studio delle piante del Delfinato. Viale raccolse per primo in Italia, nelle Alpi Marittime presso Limone, una pianta che Bellardi (2) pubblicò come Avena setacea Vill.; nella sua descrizione Bel- lardi non accenna alla pubescenza delle guaine fogliari, nè alla pigmentazione delle ariste. Prima di esaminare attentamente le ragioni che mi spingono a dubitare del- l'identità di questi esemplari coll A. setacea Vill., conviene stabilire bene i caratteri distintivi della specie villarsiana. Quelli indicati nel Prospectus: forma delle foglie, numero dei fiori di ciascuna spighetta, direzione dell’infiorescenza, sono costanti e caratteristici: quelli della gla- brescenza o pubescenza della base del culmo (guaina delle foglie culmeali) sono al- quanto incerti. La pigmentazione delle glume e delle glumette e quella delle ariste accennata nella seconda diagnosi sono da tenere in poco conto a causa della loro incostanza; in generale coll’avanzarsi della maturità del fiore tale pigmentazione diminuisce, ed è quindi troppo incerta per poterne tenere conto. Degli altri caratteri addotti da alcuni altri autori, poco conto è da fare. De Candolle (3) vi comprende anche quelli di A. aurata All., che è l’Agrostis alpina B aurata Richt, ed accenna inoltre alla glabrescenza di tutta la superficie della lamina fogliare, la quale non è affatto rispondente al vero, perchè la superficie superiore è sempre pubescente-scabra. Del resto De Candolle aveva avvertito più tardi il poco valore della pigmen- tazione della gluma, ma, secondo Parlatore (4), in quanto egli aveva tenuto conto dell'A. aurata All. L’A. francese non dà valore alcuno alla pubescenza delle guaine fogliari e indica invece la pigmentazione della base delle ariste, carattere questo in relazione unica- mente coll’età del fiore. (1) Vicrars, Histoire des plantes du Dauphiné, II, p. 144, t. 140 f. (2) BeLLARDI, (3) Op. cit., III, p. 37. (4) Op. cit., I, p. 11 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM » KOCH 63 De Notaris (1) dà una buona descrizione, ma non accenna alla glabrescenza o alla pubescenza delle guaine fogliari, e si fonda del resto promiscuamente su esem- plari francesi e su esemplari di Tenda; ciò spiega forse la sua indicazione a pro- posito della figura di Villars: tab. V, mala. Ottime sono le descrizioni di Bertoloni, di Parlatore (2), ma quella del primo si riferisce a esemplari avuti da Persoon (3) e probabilmente non italiani; quella del secondo è fatta su un esemplare il quale è l’unico tra tutti quelli italiani che ho esaminato, che differisca da tutti gli altri italiani, e si avvicini invece completa- mente al tipo di quelli francesi; tutti poi indicano la pubescenza delle guaine, carat- tere che, come dissi, è da discutere. Anche la Flora di Fiori si riferisce alle descrizioni generali dagli autori, fatte, come dissi, piuttosto su esemplari francesi che italiani, che sono rarissimi nei nostri erbarili. Affatto errata è poi la caratteristica indicata da Ascherson e Graebner (4) della presenza di una ligula lunga, ovata, nelle foglie di questa pianta; essa è anzi ca- ratterizzata dalla assenza pressochè completa della ligula, la quale non è neppure sostituita da ciglia. Perciò nell’aggruppamento adottato da questi autori nella loro Synopsis, essa andrebbe allontanata dalla A. Parlatorei e posta tra VA. sempervirens e le A. de- sertorum. Io ho esaminato parecchie diecine di esemplari raccolti da me nei dintorni di Limone, ed ho potuto constatare l'essere essi corrispondenti in tutto alla descrizione fattane da Bellardi. L'aspetto generale di essi, alcuni caratteri speciali delle foglie, portano a differenziarli dalla specie tipica descritta da Villars, e, poichè le descri- zioni di A. setacea dei floristi italiani mi sembrano eseguite tenendo presenti piuttosto esemplari francesi che italiani, ne farò la descrizione accurata. Radice fibrosa, rigida; innovazioni tutte intraguainali, onde risulta un corpo assai compatto, il quale è inoltre ricchissimo di foglie con pochi culmi fioriferi. Foglie basali filiformi setacee, fortemente convolute e striate specialmente nel secco, pro- fondamente canalicolate nel fresco; le foglie sono tutte press'a poco egualmente lunghe, sia riguardo alla lunghezza totale, sia a quella della guaina, onde, caduto il lembo per l'età, i residui delle guaine rimangono tutti terminati alla medesima altezza a costituire un invoglio affatto caratteristico delle specie del gruppo della A. sempervirens. In complesso l’apparato vegetativo di questa specie è molto affine all’A. semper- virens Vill., ma ne è ben distinta per la statura assai minore, per le foglie filiformi- (1) De Noraris, Index seminum R. Horti botanici genuensis, 1847, p. 25. (2) Della descrizione di Parlatore, occorre tener conto solo di quella pubblicata nella Fora Italiana (I, p. 281); quella pubblicata nella Flora panormitana, p. 113, si riferisce a esemplari pro- venienti dalla Francia, da Tenda, dai Monti del L. di Como, dal M. Baldo, località queste due ultime, nelle quali non esiste affatto la specie Villarsiana. Parlatore infatti parla di ligula oblonga acuta, mentre essa è mancante. (3) Persoow (Syr. plant., I, p. 100, 1805) indica che l’A. setacea hab. in Helvetiae, Italiae et Galliae merid. alpibus. Ma egli considera l’A. setacea Vill. come sinonimo di A. aurata All.; egli non ha perciò certamente avuto presenti esemplari italiani di vera A. setacea Vill. (4) L. c., p. 247. 64 G. GOLA 12 setacee, convolute anche nel fresco, mentre nell’A. sempervirens sono canalicolate, per l'assenza pressochè assoluta di ligula, sia nelle foglie basilari che in quelle del culmo, per la minore ricchezza dell’infiorescenza, per la lucentezza più viva delle spi- ghette, per la struttura del fiore abortivo e dell’asse di questo. Le foglie basilari sono affatto glabre sulle guaine e sulla superficie inferiore finamente pubescenti su quella superiore, ciò che non si può vedere nel secco per il fortissimo accartoceiamento, che appare già nel fresco come una fine doccia glaucescente. Il colore della parte rimanente della foglia è di un bel verde vivo. La lunghezza totale delle foglie è di 20-25 cm. Esse sono lunghe quanto il culmo poco prima dell’antesi, e più tardi raggiungono di solito la base della ramificazione della pannocchia. Questa è portata da un culmo cilindrico che porta una o due foglie lungamente guainanti, con lamine brevi, di 5-7 cm., affatto glabre sulla superficie esterna, salvo in corrispondenza della congiunzione del lembo colla guaina; questa è sempre affatto glabra e talora nell’ultima foglia leggermente ventricosa. I nodi del culmo non sono quasi mai visibili, salvo talora il penultimo. Il culmo è affatto liscio. L'infiorescenza è lunga 5-8 cm. e porta 10-15 spighette. I rami inferiori sono gemini, i superiori solitari; sono tutti lisci, salvo appena sotto il punto di inserzione delle spighette. Queste sono lunghe 12-14 mm. La gluma inferiore è di 10 mm., uninervia e acuminata, la superiore di 14 mm., trinervia, acuminata e screziata di violetto da giovane, flavescente coll’età. Il fiore inferiore è pressochè sessile, assai peloso alla base per peli sericei lunghi circa 1/3 della glumetta inferiore, la quale è ovata, acuminata, lunga 11 mm., vio- lacea nella !/, superiore da giovane, bifida all’apice e quivi scarioso-ialina, glabra, salvo che sui margini verso la base dove è cigliata, con una resta dorsale inserita .verso la metà, pigmentata da giovane, lunga 25 mm. La glumetta superiore è bicarenata, fortemente cigliata, per ciglia reflesse, sulla carena, ialina, bifida all'apice, lunga 9 mm. Gli stami sono tre. L’ovario porta due stimmi piumosi. 2 Il secondo fiore è portato da un asse lungo 4 mm., lungamente cigliato verso la parte superiore; le glumette sono conformate come quelle del primo: la resta è lunga solo 17 mm. circa, e vi sono solamente stami; il terzo fiore è portato da un asse poco peloso e lungo 4-5 mm., ed è tabido. Nella metà superiore dell’infiorescenza i fiori sono un po’ più sviluppati, e quindi un po’ più lunga la seconda resta di ogni spighetta, un po’ meglio differenziato il fiore tabido. Tali sono i caratteri del massimo numero degli esemplari raccolti da me, che ho esaminati, e di altri pure raccolti nei dintorni di Limone (1): (1) A proposito di questa località, aggiungo una osservazione per correggere un errore di topo- nomastica. Bellardi indicò l'habitat dell'A. setacea colle parole: in montibus Limoni. Gli autori posteriori tradussero sul Monte Limoni; ora si tratta dei Monti che circondano Limone Piemonte comune di circa 3000 ab., in Valle Vermenagna a metri 1000 c. s. m., alle falde nord del Colle di Tenda. 13 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 65 i) Tra il Colle di Malabera e il Colle della Boaira, 7, 1909, Ferrari, Gola. Vallone della Boaira, 7, 1909, Ferrari, Gola; Pascoli alpini di Tenda verso Li- monetto, m. 1900, Parlatore; Alpi di Carnino, 7, 1843, Lisa. Tutti questi esemplari si possono identificare colla descrizione che dà Bellardi di A. setacea, ma non con quella degli autori francesi, nè con quelle di Bertoloni e di Parlatore, a causa dell’assenza di tomento sulla guaina delle foglie caulinari. Del resto altri caratteri differenziali di minor conto risultano da un esame comparativo tra i nostri e gli esemplari francesi. Dall'esame che ho fatto degli esemplari francesi di A. setacea degli Erbarii di Torino, Firenze, Genova e Roma, risulta che questi hanno le guaine delle foglie cul- meali sempre finamente irsute; ne ho constatato l’assenza in un individuo su quattro componenti un esemplare dell’Erbario fiorentino (St.-Nizier pr. Grenoble), ed in uno dell’Erbario di Roma raccolto sui Rochers du Pas de Ville (Isère). Nell’Erbario Cesati di Roma si trovano due autoptici di Villars e di Mutel aventi entrambi le guaine delle foglie culmeali irsute. Negli esemplari francesi sono particolarmente frequenti le forme di piccola statura. Negli esemplari italiani la glabrescenza della guaina fogliare è un carattere al- trettanto costante. To ne ho osservato l’assenza in un solo esemplare: “ex alpibus Tendae , che De Notaris inviò a Parlatore togliendolo ex herb. H. B. Taurinensi. Sopra questo esemplare Parlatore fece la descrizione per la sua Flora italiana; esso però differisce da tutti gli altri italiani, anche da quello stesso raccolto neî pascoli alpini di Tenda da Parlatore, e si ravvicina invece, come nota Parlatore stesso, a quelli di Col de l’Are presso Grenoble (Hb. Gen.). Lo stesso De Notaris nel descrivere criticamente la sua A. setacea, non accenna alla pubescenza delle guaine, che pure esiste nell’esemplare da lui inviato a Parla- tore. Il cartello di questo esemplare porta la scritta ex Alpibus Tendae e ex herb. H. B. Taurinensi di mano di De Notaris; è quindi una copia di altro, che però non esiste nell’Orto di Torino, e credo di non essere azzardato mettendo in dubbio l’esat- tezza di indicazioni di provenienza segnate su tale esemplare. Quantunque unico, il carattere della villosità e della glabrescenza delle guaine delle foglie cauline è così costante nei due gruppi di esemplari francesi e italiani, da poter valere per distinguerli; e fino a che altri disponendo di più abbondante materiale francese non riesca a delucidare meglio la questione, si debbono a mio avviso distinguere come specie a sè quelle forme italiane finora attribuite ad A. setacea Vill. Propongo la denominazione di A. lejocolea colla seguente diagnosi: Avena lejocolea n. sp. # Perennis, innovationibus omnino intravaginalibus, vaginis “ marcescentibus, limbo foliorum caduco, foliis convolutis, setaceis, vaginis glaberrimis, “ ligula obvolata, culmo erecto, panicula subaequante, spiculis trifloris, floribus inferio- “ ribus aristatis, superiore tabido, ari piloso ,. A. setacea Vill. “ Valde proxima, sed differt vaginis foliorum culmi semper gla- “ berrimis ,. “ Hab. in reg. subalpina Alpium Maritimarum et Cottiarum italicarum ,. Serie II. Tom. LXII. I 66 G. GOLA 14 Oltre che intorno a Limone, questa specie cresce pure assai frequente in Val Macra, al di sopra dei 1600 m., e quivi essa costituisce assai spesso nelle roccie di calceschisti uno degli elementi caratteristici della vegetazione rupestre. Le dimensioni della pianta sono quivi assai maggiori; le foglie non misurano mai meno di 30 ecm. di lunghezza, e talora raggiungono anche i 60 cm.; anche il loro diametro è in generale assai più grosso (u 480, contro 640 circa). Il loro perimetro è subcarenato, mentre è affatto semicircolare o circolare negli esemplari di Limone. Sono talora di un bel verde, più spesso intensamente glaucescenti, lungamente cigliate sui margini in corrispondenza dell'inserzione delle guaine. Le infiorescenze sono spesso assai più rieche e veramente panicolate, con i rami inferiori ternati, portanti cia- scuna fino a 5 spighette. Queste sono conformate come nell’A. setacea, ma talora, negli esemplari più robusti, anche il terzo fiore è staminifero e vi ha un rudimento del quarto; il terzo fiore, in tal caso, pur avendo glumette abbastanza bene sviluppate, è sempre mutico. Il portamento complessivo di questa pianta la fa distinguere abbastanza bene dal tipo delle A. Marittime, sopra descritto, ma salvo la lunghezza prevalentemente maggiore delle foglie, e la ricchezza maggiore dell’infiorescenza, non vi hanno ca- ratteri che valgano a separarla nettamente dal tipo, e la si può considerare come una Var. major. Di essa si hanno, come ricordai più sopra, due forme, l’una wviridis, l’altra glaucescens. La raccolsi abbondante in Val Macra, sopra Alma alla Rocca Pertus, nei Val- loni Tibert e Intersile, tra Albaretto e Celle Macra, presso Prazzo, sopra Ussolo, Acceglio, al L. di Visaisa, nel Vallone di Ciaramasco, ecc., 1900-1910, Ferrari, Gola. Un'altra forma poco frequente, ma pur degna di essere notata, è una f. brevifolia, caratterizzata dalla notevole brevità delle foglie basali, che raggiungono appena 1/3 del culmo, mentre di solito gli sono press’a poco eguali. La osservai proveniente dal Colle Vaccarile (A. Marittime), Ferrari 18 e da Acceglio (V. Macra), 1909, Fer- rari, Gola. Avena sempervirens Vill. Prosp. Hist. PI. Daup., p. 17 (1779). Specie la cui presenza in Italia è stata più volte discussa e recentemente esclusa. Poichè essa è limitata all'Europa occidentale, molti foristi non ebbero opportunità di studiarla bene, onde sorsero confusioni con altre specie. Allioni (1) fu forse il primo fra i floristi italiani a cadere nell’equivoco, perchè indica come stazioni dell’A. sempervirens Vill. tanto quella delle A. Marittime, quanto quella del Cenisio (2); quest’ultima è meno accertata della prima non essendovi quivi che rarissima VA. sempervirens, ed essendovi molto frequente l’ Avena che Host descrisse (1) Auvioni, Auctarium ad Fl. Pedem., p. 45, n. 2258* (1889). (2) Ho osservato invero nell’Erbario fiorentino un esemplare di Huguenin di vera A. semper- virens Vill. raccolto supra Bard. Quantunque non vi siano ragioni per escludere affatto l'esattezza di tale indicazione, occorre tuttavia avere una certa cautela nell’ammetterla, perchè essa non è più stata confermata dai numerosissimi che hanno percorso la Valle di Susa, facendone una delle zone più intensamente esplorate dal punto di vista floristico. 15) LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 67 }l come A. sempervirens, e che è assai comune nell'Europa centrale e ben distinta dalla specie villarsiana per la forma delle innovazioni, pel diverso comportamento delle foglie vecchie nella marcescenza, per la lunghezza della ligula, ecc. Molti altri autori, sull'esempio di Host, ritennero identiche le due specie, quella di Villars e quella di Host. Tra questi Bertoloni e Parlatore. Fu Woods che rilevò l'errore di Host e di Parlatore e denominò A. Parlatorei la specie da questi confusa con A. sempervirens Vill.; Boissier chiamò con A. Hostù la stessa specie distinta da Host. L'A. sempervirens Vill. si distingue dunque dall’A. Parlatorei Woods per i cespi che sono assai più grossi e più ricchi di foglie, e proporzionatamente assai più poveri di culmi fertili, per la forma delle innovazioni che sono affatto intraguainanti; inoltre perchè le foglie delle annate precedenti perdono totalmente il lembo, e per- mangono a lungo colla sola guaina, in modo che si verifica una protezione formata da tessuti vecchi tutti terminati alla medesima altezza, come indicano assai bene Villars (1) e Mutel (2) nelle loro figure; si distingue inoltre per le foglie assai più rigide e più larghe, per la ligula assai ridotta e non lanceolata oblunga, per la statura maggiore, ecc. Secondo De Notaris (3) l'A. sempervirens indicata da Allioni delle Aipi Marittime non appartiene neppure alla specie di Villars con questo nome, ma alla A. fallax R. et S.(4); Parlatore ritenne errata questa determinazione notarisiana e ritenne gli esemplari italiani come appartenenti ad una specie a sè che chiamò A. Notaristi (5). Anche questa specie è conosciuta dai floristi italiani solo per le descrizioni che ne da Parlatore e per pochissimi esemplari di erbario provenienti dal versante sud delle A. Marittime. Quali relazioni esistano tra la specie parlatoreana e la A. sempervirens di Villars; se la sempervirens di Villars esista o no nella flora italiana, sono quesiti che un abbondante materiale raccolto nelle Alpi marittime mi permettono di studiare un po’ ampiamente. La prima diagnosi di Villars (Prosp., p. 17), Avena foltis rigidis, intus striatis, convolutis, spiculis bifloris, panicula ramosissima, è poco precisa e si presta a molte interpretazioni. Quella del medesimo autore pubblicata nell’Histoire: A. paniculata, calicibus trifloris hermaphroditis basi lanatis, folvis rigidis acutis, involutis sempervirentibus, non è pure molto precisa, e differisce dalla precedente specialmente in quanto indica spighette triflore e non biflore. Ma la descrizione che accompagna questa diagnosi è importante, perchè indica i cespi grandi, compatti, affatto caratteristici di questa specie, la glaucescenza delle foglie, la loro rigidità, la scabrosità della pagina superiore e la conformazione pia- neggiante e non convoluta delle foglie caulinari. (1) Vircars, Hist., tav. 5. (2) Mure, Flore de France, t. 82, (3) De NorazrIs, l. c., p. 24. (4) Roewer et ScHurze, Syst. veg., II, p. 672, 12 (1817). (5) Op. cit., I, p. 285. 68 GIGOLA 16 Tale descrizione fu fatta su esemplari del Delfinato, dove fu trovata per la prima volta. Più tardi tale specie fu trovata anche nei Pirenei e De Candolle che la descrisse, fondandosi su esemplari di entrambi i gruppi montuosi, aggiunse ai caratteri già noti: foglie glabre eccetto che in prossimità della guaina dove porta alcuni peli; alcune scaglie fogliacee cigliate in prossimità del colletto della radice; glume lucenti, due fiori fertili aristati ed uno sterile e mutico. Alla presenza di due fiori aristati e delle ciglia in prossimità delle guaine, accenna pure Duby. Mutel (1) in una descrizione assai accurata accenna pure alle foglie del culmo pianeggianti, ma indica come carattere essenziale la presenza d’una sola arista appartenente al primo fiore, mentre quella del secondo assai di rado esiste ed in tal caso è pochissimo sviluppata; egli convalida la sua asserzione riportando una frase di Villars modificante le diagnosi primitive: Calicibus subtrifloris hermaphro- ditis basi lanatis, unico aristato, e citando la figura nuova di Villars nella quale la spighetta è rappresentata uniaristata. Anche la figura bellissima aggiunta da Mutel conferma quanto è detto nella descrizione. Questa però è fondata unicamente su esemplari del Delfinato. Grenier e Godron si riferiscono press'a poco alla descrizione di Mutel e di Villars, e non fanno che riportare sulla fede di De Candolle e di Parlatore la località dei Pirenei. Parlatore, il quale, come è noto, non comprese affatto i caratteri della specie Villarsiana, confondendoli con quelli della specie a ligula oblunga che fu poi chiamata A. Parlatorei Woods (A. Hostiîù Boiss), descrisse come A. striata Lam. una Avena che lui stesso pose come sinonima di A. sempervirens De Candolle, e corrispondente in tutto allA. sempervirens Vill.; egli confrontò la sua specie cogli esemplari d’Erbario di De Candolle e la trovò eguale. La sua descrizione si fonda su esemplari dei Pirenei avuti da Bubani ed in essa fa cenno di un ciuffo di peli che si trovano in prossimità dell'inserzione del lembo fogliare sulla guaina. De Notaris (2), intanto, in uno studio inteso a dirimere le confusioni che si erano fatte a proposito dell'A. sempervirens Vill., aveva identificato con A. fallar R. et S. gli esemplari delle A. Marittime aventi ligula ridotta o mancante, ed affini assai alla A. sempervirens Vill., ma dalla quale si distinguevano per le spighette pluriaristate e non uniaristate come nella tipica specie Villarsiana. Parlatore che aveva già confuso la sempervirens di Villars con quella che è la Parlatorei, non si accorse della stretta affinità tra la fallax DN. e la sua striata, e poichè secondo lui la striata Lam. era identica alla fallax R. et S., fece della fallax di De Notaris una specie a sè, lA. Notarist. Ma mentre egli stesso identificava la sua nuova specie colla fallax D. N., non ne stabiliva però caratteri identici a quelli indicati dall’illustratore della flora ligu- stica. De Notaris insisteva sulla presenza di solo fiore aristato, e Parlatore parla (1) Op. cit., vol. III, p. 58; T. 81, fig. 597. (2) Op. cit., p. 24. 17 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM ,, KOCH 69 invece di “ flosculis 2-inferioribus aristatis, supremo abortivo ,, tuttavia dà come caratteri distintivi tra la sua e la specie dei Pirenei (A. striata Parl.), l'avere le foglie superiori piane o convolute (1), la ligula cigliolata o dentato-cigliata e mai lungamente cigliata, e l'avere l’asse del fiore abortivo poco peloso. Ora, chiunque abbia esaminato numerosi esemplari della sezione Avenastrum, si sarà facilmente convinto che il carattere della pubescenza più o meno spiccata del- l’asse del fiore sterile, è di valore affatto incerto, e che anche quello della presenza di un solo o più fiori aristati, è egualmente poco sicuro. Ho già ricordato come in altra specie (A. Zejocolea) si abbiano talora dei fiori aristati completi o no (ed il terzo costantemente abortivo e mutico); in essa ho tro- vato esemplari con due fiori completi aristati, il terzo staminifero e aristato, il quarto abortivo e mutico. In modo analogo si comportano le specie del gruppo dell'A. sem- pervirens Vill. Sopra 17 esemplari provenienti dal Delfinato ne ho osservati 8 aventi aristati il primo e il secondo fiore, 8 aventi aristato solo il primo fiore, ed uno nel quale l’arista del secondo fiore era debolissima. Di quelli dei Pirenei tre avevano l’arista nel primo e nel secondo, uno anche nel terzo fiore. Si deve osservare che l'esemplare ligure sul quale De Notaris ha fondato la sua determinazione di A. fallar è assai povero ed ha due culmi fioriferi nei quali ic stesso ho potuto osservare spighette biaristate, e che quello della medesima pro- venienza, che Parlatore ebbe da De Notaris, e sul quale egli fondò VA. Notarisii, è ancora più misero, e pure in esso sì osservano spighette uni e biflore. Tolto così ogni valore ai caratteri desumibili dalle spighette, rimangono quelli che si possono dedurre dalle forme delle foglie del culmo e dalla lunghezza delle ciglia situate in prossimità delle guaine. To ho avuto occasione di raccogliere e di studiare in quantità materiale italiano raccolto nell’Alta Val Tanaro tra Carnino (Carlin) e Briga, sopra Viozene, vale a dire ad uno dei vertici del triangolo Carnino, Rezzo, M. Toraggio, dove è stata finora segnalata in Italia la presenza dell’Avena studiata da De Notaris; anzi la località di Carnino presso la Sorgente delle Fuse, sarebbe una nuova da aggregarsi a quella di Rezzo, Frontero, M. Toraggio, finora conosciute. In questa stazione crescono numerosi e grossissimi cespi Gi questa Avena. Un primo esame sul posto indica già la presenza di due forme, l’una colle foglie basali più larghe, l’altra colle stesse foglie più strette, tutte canalicolate più o meno pro- fondamente nel fresco, rigide, ma perfettamente convolute solo nel secco. Raccolta in abbondanza, avendo cura di tenere ben distinti gli esemplari pro- venienti da ogni singolo cespo, essa presentò i seguenti caratteri: Foglie lineari convolute nel secco, ed in tali condizioni del diam. di mill. 1.5 in alcune piante, di 0.9-1 mm. in molte altre, lunghe 40-45 cm. rigide, psammiformi; talora un po’ scabre alla base sulle guaine per asperità volte all’ingiù, coi margini delle guaine stesse cigliato-scabri, con ligula brevissima tronca e ciglia brevi o brevissime in corrispondenza della ligula; e ciglia lunghe 1-2 mm. sui margini della parte inferiore del lembo fogliare e sporgenti fuori anche a lembo convoluto. (1) Già Mutel (op. cit., p. 61) accenna alle foglie culmeali che sono pianeggianti. 70 G. GOLA 18 Culmi alti 80-90 cm., 1-2 volte genicolati, colle foglie lungamente guainanti e pianeggianti, nel lembo anche nel secco, almeno per i 2/3 della loro lunghezza. Pannocchia ricca con i rami inferiori verticillati a quattro, portanti ciascuno fino a quattro spighette; queste sono o macchiate di violaceo, o giallastre a seconda del grado di maturazione, colle glume lucenti. Le spighette sono triflore, il fiore infe- riore ha glumette punteggiate scabre, opache, coll’inferiore aristata, e il secondo fiore è talora aristato, talora no, coll’asse lungamente barbato; il terzo è sterile col- l’asse del fiore o glabro, o appena peloso, o evidentemente peloso. Nello stesso corpo è dato incontrare pannocchie con spighette uni- o biaristate. Un confronto tra questi esemplari e quelli del Delfinato e dei Pirenei, mi ha permesso di accertarmi che pure il carattere della pubescenza dell’asse del fiore tabido è da mettere in disparte; negli esemplari di Gap vi hanno fiori tabescenti con asse peloso, o glabro, o addirittura villoso; gli assi glabri si trovano di prefe- renza nelle spighette uniaristate, quelli pelosi in quelle biaristate. Ho pure osservato che la pubescenza dell’asse tabido è in relazione collo stato di sviluppo del fiore che porta; talora manca addirittura il fiore tabido, talora è ridotto ad un asse con una leggiera espansione membranacea all’apice di 0,5 mm. di larghezza; talora infine si vedono bene accennate le due glumette: è in questi fiori meglio sviluppati che la pubescenza dell'asse raggiunge il massimo di sviluppo fino a differenziarsi in peli brevi patenti lungo l’asse, e in peli lunghi adpressi in prossimità della base dalle glumette. Questo sviluppo diverso delle spighette mi sembra in relazione coll’abito della pianta che le porta. Recentemente Fiori e Paoletti, e Ascherson e Graebner, i primi fondandosi vero- similmente su esemplari dell’Erbario di Firenze, il secondo su esemplari dell’Erbario di Genova, che tutti io ho potuto studiare, hanno indicato i seguenti caratteri dif- ferenziali tra la A. Notarisii e la A. sempervirens. 1° Culmi di 10-15 dm. nella semp. e di 4-8 dm. nella Not. (Fiori). Ascherson invece indica un rapporto affatto opposto (semp. bis 80 dm. - 1 m.; Notar. Pflanze meist kraftig bis 1 M. hoch). 2° Foglie e guaine assai scabre nella semp. e foglie e guaine poco scabre nella Not. (Fiori); Ascherson non fa cenno a tale carattere; io non lo ho constatato che su uno solo dei 32 cespi di Avena raccolti a Viozene e in nessuno di quelli francesi e spagnuoli di A. sempervirens, nè su quelli determinati come A. fallax da D N., o Notarisiù da Parlatore, Bicknell, Burnat, degli erbarii sopra ricordati. 3° Linguetta cigliata nella semp., e linguetta cigliolata nella Not. (Fiori); Ascherson non accenna neppure a ciò, ed io ho osservato che la lunghezza delle ciglia delle ligule è assai notevole negli esemplari dei Pirenei (H. Flor., H. Gen.); in quelli delle Alpi francesi si hanno esemplari a ligula brevemente o lungamente cigliata; e di lunghezza variabile, ma sempre poco notevole, sono le ciglia delle ligule degli esemplari piemontesi da me raccolti, di quelli distribuiti da Bicknell e di quelli autoptici di De Notariis e di Parlatore. Un esemplare di Burnat di Frontero (H. Flor.) consta di un pezzo nel quale le ciglia sono alquanto più lunghe, e ricordano quelle di alcuni esemplari francesi. “« 19 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 71 4° Asse del fiore abortivo barbato nella semper. e appena peloso nella Not. (Fiori). Sul valore di tale carattere mi sono trattenuto più sopra. Tutti questi caratteri differenziali, non reggono, come si vede, ad un esame eseguito su materiale abbondante, e Ascherson e Graebner stessi dicono che una netta distinzione tra sempervirens e Notarisiù non è possibile farla. Da tutto l'esame che ho eseguito su materiale italiano ed extra italiano, io sono portato a conchiudere che nell’A. sempervirens Vill. si possono distinguere tre gruppi di forme caratterizzati da un abito più o meno xerofitico: l’uno a foglie più rigide psammiformi tutte convolute e a ciglia ligulari assai lunghe; un altro a foglie più sottili, più lunghe, meno rigide, poco cigliate in corrispondenza della ligula, ed un po’ convolute anche quelle del culmo; un terzo gruppo a foglie basilari meno rigide anche nel secco, meno strettamente convolute, a ligule glabre o quasi, e a foglie caulinari spianate per Ja massima parte anche nel secco. Al primo gruppo si debbono ascrivere tutti gli esemplari dei Pirenei che ho potuto vedere, e molti di quelli francesi. Nè debbono mancarne individui in Italia, a quanto si può arguire da un esem- plare di Frontero (Leg. Burnat in H. Flor. sub A. Notarisù), il quale consta di due pezzi, l’uno dei quali per le foglie strette, rigide, psammiformi, lungamente cigliate in corrispondenza della ligula, è da ascriversi al primo gruppo che ho testè indicato. Al secondo gruppo appartengono numerosi esemplari francesi e la massima parte di quelli italiani che ho studiato. Quelli studiati da De Notaris e da Parlatore, e alcuni di quelli da me raccolti a Viozene, sono da ascriversi al terzo gruppo. In relazione con tale abito xerofitico più o meno accentuato, stanno talora, ma non sempre, lo sviluppo maggiore o minore dei tre fiori di ciascuna spighetta, quindi la differenziazione maggiore delle ariste del secondo fiore e la diversa differenzia- zione del terzo fiore, colla conseguente diversa pubescenza dell’asse del fiore stesso. Io non pretendo affatto, per la scarsità del materiale osservato, stabilire la posi- zione sistematica degli esemplari francesi e spagnuoli di A. sempervirens; quanto ai nostri io credo di poterne distinguere tre forme caratterizzate unicamente dalle forme delle foglie: a) psammifolia (Pirenei, Alpi francesi), Frontero (un pezzo). Leg. Burnat. 5) longifolia (Alpi francesi), Frontero, Carnino (Ormea), M. Toraggio, Rezzo, Cenisio (1). c) latifolia, Carnino (Ormea), Frontero = A. fallax D N = A. Notarisii Parl. Avena bromoides Gouan Hort. monsp. 52. Le flore la indicano di qualche località del Piemonte, e precisamente dei Colli di Cavoretto presso Torino (2) e dei Colli di Ameno presso il Lago d’Orta (3). (1) Secondo l’esemplare raccolto da Huguenin (supra Bard) HF, vedi nota 2 a pag. 14. (2) Barers, Flora taurinensis, p. 22 (1806); Re, Flora torinese, I, p. 81, 1825. (3) Brrori, Flora aconiensis, I, p. 35 (1808). SI DO G. GOLA 20 Ma in entrambe queste località è molto rara, perchè nelle numerosissime erbo- rizzazioni ivi eseguite in seguito, quantunque, a vero dire, non ne sia stata fatta apposita ricerca, non è mai stato dato raccoglierla. To non ne ho veduti che esemplari raccolti nel 1815 HP; 1827 HF, dei Colli di Torino, ed esemplari con data imprecisata dei Colli di Ameno dall’Erbario Biroli. Anzi in questi ultimi si trovano due forme, l’una con i caratteri proprii dell’ A. bro- moides tipica, l’altra avente tutte le glume 5-nervie e le spighette grandi con 10-12 fiori. Avena versicolor Vill. Prosp. Hist. PI. Dauph., p. 17 = A. Scheuchzeri All. Per non lasciare lacuna nella enumerazione delle specie. piemontesi della sez. Avenastrum faccio cenno anche di questa Avena. Essa è frequentissima in tutta la catena alpina dalla Val Tanaro alla Valle d’Ossola, e si presenta ovunque con assoluta uniformità di caratteri, salvo la statura un po’ variabile specialmente con l'elevazione della stazione. Nulla perciò vi è da osservare a proposito di tale specie. Avena pratensis L., sp. PI., p. 80. È abbastanza frequente in tutta la catena alpina e appennina del Piemonte, dove presenta, anche nelle stazioni più diverse, una notevole uniformità di caratteri, identici del resto a quelli degli esemplari provenienti da varie regioni italiane e europee. Avena alpina Smith. AIl’A. pratensis si debbono collegare alcune forme interessanti, che io ho avuto occasione di studiare negli Erbarii piemontesi e che sono intermedii tra l'A. pratensis L. e lA. planiculmis Schrad. Tra lo sbocco della Valle di Susa e quello della Valle di Lanzo e probabilmente anche nella stessa Valle di Lanzo, vennero raccolti numerosi esemplari che non si possono affatto identificare con alcuni di questi due tipi. Accenno appena ad alcuni pochissimi campioni e per di più incompleti, i quali differiscono dall’ A. pratensis solo per avere le foglie piane, anzichè convolute (mm. 2-3 di largh.), e assai scabre al margine, e per avere qualche spighetta geminata sulla rachide. Essi vennero raccolti sul M. Musinè (Torino) da Ungern Sternberg, 1879, e in località incerte del Piemonte, quali si deducono da un esemplare dell’ Erbario Biroli colla indicazione: Mont Genèvre-Aosta, dans les prés secs des montagnes. Due esem- plari di Avena conservati nell’Erbario di Firenze (sub. A. prat.), e uno della Flora exsiccata austro-hungarica (n. 3496 sub. Avenastrum alpinum), si ravvicinano assai a quelli che ho testè ricordati, specialmente per la povertà dell’infiorescenza. 21 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 73 Assai più spiccati sono i caratteri che si possono ritrovare in un altro gruppo d’esemplari raccolti abbondanti nei dintorni di Torino (181... Bertero ex Hb. flor., sub. A. bromotdes), sul M. Musinè (Torino) da Delponte nel 184..., e sopra a Givoletto (Torino) nel Vallone di Fiano (1892, E. Ferrari). Lo sviluppo di tutta la pianta è assai maggiore: 1 m.-1,20 m.; le foglie tanto basali che culmeali sono assai più numerose, più larghe 4-6 mm., le guaine sono compresso-carenate, specialmente quelle situate alla base del culmo. La superficie poi è liscia sulle guaine, scaberrima sui margini della lamina. La pannocchia è più ricca che negli esemplari precedentemente ricordati, a rami per lo più geminati, di rado verticillati, e di ogni coppia di rami uno è unifloro, mentre l’altro porta tre o quattro spighette; queste sono assai più grandi e più ricche di fiori che non l’A. pratensis (18-25 mm.). L’habitus della pannocchia corrisponde assai a quello figurato da Reichembach sotto il nome di A. alpina (1), e fino a un certo punto può confondersi con quello dell'A. planiculmis Schrad. (2). Anche i caratteri complessivi della pianta corrispondono con quelli indicati da Smith per l'A. alpina (A. planiculmis Smith, non Schrad), e da Koch (3) per lA. al- pina; è vero che in alcuni di essi le guaine sono scabre, in altri liscie, ma, come avverte Hackel, nell’A. alpina questo carattere è assai incostante. Così pure io non ho trovato attendibile il carattere desunto dalla posizione della resta dorsale, al quale alcuni autori dànno importanza. Esemplari simili a questi piemontesi sono abbastanza frequenti negli erbarii. Ne ho osservato delle seguenti provenienze: Alpi Giulie a Vochein, 1875 (exsicc. Soc. helv.) HP. HF. (sub. A. alpina); Transilvania presso Nagy Enyed (Flora exsicc. austro-hung. n. 1498) HF. (sub. A. planiculmis Schr.); Transbaikalia lungo il f. Schilka (sub. A. planiculmis) HF.; Giura svizzero presso Chaumont, Soc. helv. (sub. A. pra- fensîis) HF.; Monti di Scozia H. F. (sub. A. alpina Sm.). Un terzo gruppo di esemplari è quello che provîene anch’esso dalle vicinanze di Torino, e precisamente dai Colli Torinesi presso Superga; essi sono già stati stu- diati e descritti dal Prof. A. Belli sotto il nome di A. planiculmis B taurinensis Belli (4). In essi le guaine fogliari sono un po’ più evidentemente compresse, le lamine sono più larghe (fino a 7 mm.), l’infiorescenza è costituita talora di rami guainati plurifiori, talora di parecchi rametti verticillati, ciascuno però unifloro o assai di rado bifloro. Questa disposizione a verticilli dei rami è caratteristica dell'A. planiculmis Schrad., e gli esemplari di questo gruppo si possono quindi ravvicinare assai all’A. plani- culmis, ma non si possono identificare con essa. L'A. planiculmis Schrad. è, come è noto, assai più robusta, a foglie più larghe e più numerose; queste sono scabre sulle guaine; le guaine sono assai più appiattite. (1) RercaemBAca, Iconogr., vol. I, T. 103, fig. 1702 (1834). (2) ScarapER, Flora germanica, T. I, p. 381, tav. 6, fig. 2 (1806). (3) Koca, Synopsis FI. Germ. et Hel., II ed., p. 918. (4) Berti S., in “ Malpighia ,, IV, p. 363 (1890). Serie II. Tom. LXII. J T4 G. GOLA 22 L'infiorescenza è più ricca, più grossa, la disposizione a verticillastri delle spighette è assai più evidente, e dei rami che se ne partono, alcuni hanno 3-4 fiori. Dell’A. planiculmis Schrad. tipica io non ho osservato l’esistenza in Piemonte, ma essa non manca all’Italia, quantunque non vi sia mai stata indicata finora. Io ho avuto occasione di osservare un esemplare nell’ Erbario Cesatiano del R. Istituto Botanico di Roma, portante l’etichetta seguente: Bromus cincinnatus var. Ten. fr. Neap. ex. eius herb. A. pratensis B Presl. et Guss. Calabria Specim. autent. Auctoris! Quando fit, quod haec stirps a Cl. Parlatore in FI. Ital. I. 283 ex autopsia in specim. ipsissimi Auctoris pro Avena australi me declaretur ? Il dubbio espresso da Cesati è affatto legittimo se si considera l'esemplare da lui annotato, ed invece è assai probabilmente nel vero Parlatore quando identifica il B. cincinnatus Ten. colla A. australis sua, se si tien conto della descrizione e della figura che ne dà Tenore nella sua Flora napolitana (1). L’equivoco si spiega facilmente se si pensa che Tenore ha descritto col mede- simo nome specifico due piante affatto distinte. Infatti nella Sylloge Fl. neap. (2). oltre che del tipo B. cincinnatus, è fatta menzione di una var. C. “ foliîs disticis, lato-lanceolatis, scaberrimis, margine et carina serrulato-ciliatis ,. E l'Autore aggiunge: “ In pascuis montosis Matese ,; Monti di Abruzzo, Gargano, Per.; e inoltre: Obs. Bromi insignis varietas et forsan species propria. Ora l'esemplare dell’Erbario Cesati porta l'indicazione: Bromus cincinnatus var., e corrisponde, per i caratteri, a quelli delle varietà e non del tipo, quale è descritto nella Sylloge, e più diffusamente nel testo e nella iconographia della Flora neap. Non vi ha dubbio poi che quello da me veduto dell'Appennino e proveniente dall’erbario tenoreano non si debba ascrivere ad A. plamiculmis Schrad., specie, come dissi, non ancora segnalata in Italia, frequentissima invece nella Penisola Bal- canica. La presenza nell'Appennino meridionale di tale pianta, è interessante non solo come aggiunta semplicemente statistica al censimento delle piante italiane, ma specialmente perchè è un indice di più dell’affinità che lega la Flora appenninica a quella balcanica. Quanto alla esatta posizione sistematica del B. cincinnatus tipico di Ten., io non ho avuto occasione di esaminare esemplari autentici, ciò che del resto era fuori del compito prefissomi; ed è assai verosimile che sia corrispondente al vero l’opi- nione di Parlatore. Ritornando ora agli esemplari piemontesi, conviene determinarne la posizione sistematica. Sotto il nome di A. alpina Sm. sono state riunite molte forme le quali costi- tuiscono altrettanti termini di passaggio tra l’A. pratensis e lA. planiculmis. Questo lascia anche adito al dubbio se lA. alpina Sm. sia da ritenersi come una vera e (1) Tenore M., Flora neapolitana, vol. III, p. 85, tav. 104. (2) Tenore M., SyUoge plantarum vascularium FI. neap., p. 49. 23 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 75 propria entità specifica, o se le forme ad essa attribuite non siano da riferirsi come varietà alle due specie affini A. pratensis ed A. planiculmis. La difficoltà di avere in gran numero esemplari di A. alpina, la cui area di distribuzione è prevalentemente extraitaliana, non mi permettono di studiare l’argo- mento in modo da risolvere il dubbio. Ma ricordo che anche Hackel avverte che nella Serbia e nella Transilvania sono frequentissime le forme intermedie tra VA. planiculmis e VA. pratensis (1). : Così pure il Vierhapper (2) ricorda come forme intermedie tra queste due, e variamente interpretate dagli autori, le seguenti: A. pratensis del Tirolo in Herb. Kerner. A. planiculmis v. B Taurinensis Belli, 1. c. A. planiculmis (3) di parecchie stazioni della Carinzia e della Stiria. A. praeusta (4) Rechb. del Carso. A. alpina Sm. delle Alpi e dei Carpazii. A. pratensis v. subdecurrens Borbas (5) dell'Ungheria centrale. A. scabra Kit. dell’Ungh. settentrionale. A. adsurgens Schur. (6) della Transilvania. Non avendo per ora ragioni sufficienti per negare autonomia specifica alle forme raccolte sotto il nome di A. alpine, ritengo che tutti gli esemplari piemontesi da me sopra descritti si debbano ascrivere alle A. alpina Sm. (7). Quelli del primo gruppo, che tanto si avvicinano all’A. pratensis, ne potranno forse essere distinti come varietà quando si potrà disporre di materiale più abbon- dante, e meglio conservato di quello da me avuto tra mani. Quelli del secondo gruppo si possono perfettamente identificare cogli esemplari scozzesi e colla diagnosi di Smith, onde credo non vi sia dubbio ascriverli alla tipica A. alpina Smith (A. planiculmis Sm. non Schrad). Quanto a quelli della Collina di Torino, essi non corrispondono, per quanto io sappia, ad alcuna forma stata fin qui indicata nel gruppo dell’A. alpina. Essi vanno quindi distinti come varietà separata, come del resto ha fatto il Prof. Belli, che li ha per primo descritti. Non convengo tuttavia coll’egregio Professore nell’ascrivere tale varietà all’A. planiculmis piuttosto che all’A. alpina. La forma dei Colli di Torino si differenzia dalla A. plariculmis Schrad, oltre che per le guaine fogliari glabre e pel colore delle spighette, anche per le foglie assai più strette sia nella guaina che nel lembo; e più ancora per la forma dell’infiore- (1) Cfr. Berni S., l. c. (2) Schedae ad FI. exsicc. austro-hung. n. 3496. (3) PacHer u. JasornEGG, Flora von Kirnten, I, 1, p. 135 (1881); Mary, Flora von Steyermark, p. 27 (1868); Reisswana, Oesterr. bot. Zeitsch., XXXV (1885), p. 262; Viernapper, Verh. zool. bot. Ges., Wien, XLVII, p. 104 (1898), XLIX p. 398 (1899), LI, p. 552 (1901). (4) RercaemBAca, F/. germ. exsice., I, add., p. 140° (1830-32). (5) Borsas, Oesterr. bot. Zeitsch., XXVIII, p. 135 (1878). (6) Scaur, Enum. pl. Trans., p.762 (1866). (7) Swra, Trans. Linn. Soc., X, p.335 (1811). 76 G. GOLA — LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 24 scenza, nella quale non sempre si osservano le ramificazioni disposte a verticillastri, come è caratteristico della specie, e come ha rilevato Schrader nella sua deseri- zione (1). Si ravvicina invece assai più all’A. alpina per le dimensioni delle foglie, per la glabrescenza delle guaine, per la forma dell’infiorescenza. To propongo perciò di ascrivere tale forma a Avena alpina Sm. var. Belliana mihi = A. planiculmis var. 8 Taurinensis Belli, colla seguente frase diagnostica. “ Differt a typo foliis latioribus, vaginis valde compressis, panicula ramis interdum subverticillatis ,. Assai interessanti sono per la Flora piemontese queste stazioni di A. alpina. Esse rappresentano l'estremo limite occidentale nella valle del Po di una specie avente un’area di distribuzione affatto orientale (2). Nelle stazioni situate tra le Valli di Lanzo e di Susa essa non è sola, ma vi sono parecchie altre specie a distri- buzione nettamente orientale: si trovano nelle vicinanze: Iris bohemica Schmidt, Adenophora liliifolia, Campanula tenuifolia Hoffm., Pleurospermum austriacum, Senecio aquaticus, Orchis papilionacea, ecc. Torino. R. Orto Botanico. Gennaio 1911. (1) Anche ReicHemBacH (1. ec.) accenna a tale carattere dell’infiorescenza: habitu (l'A. praeusta)... A. planiculmis (sed folia multo angustiora, vaginae arctae vix compressae, spiculae non fasciculatae, sed alternatim subracemorae, nec albo hyalinae, bracteolae angustiores)..... (2) L’A. alpina si trova anche nella Siberia Orientale; dell'A. planiculmis ho veduto un esem- plare dell’Himalaja; nell'Europa Settentrionale si trovano stazioni di A. alpina nel Giura, nei Vosgi e nella Scozia. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1. Avena lejocolea mihi. Pianta intiera. » 2. A. planiculmis Schrad., dall’esemplare tenoreano (sub Bromus cincinnatus Ten. vari), dall’Erbario Cesati di Roma. Pianta intiera. . lejocolea mihi var. major. Pianta intiera. . alpina Smith. Pianta intiera. . sempervirens Vill. f. latifolia = A. Notaristi Parl. Sez. trasversale di lamina fogliare. ImerS3/f. . sempervirens Vill. f. longifolia. Sez. id. id. Ingr. ?°/,. . lejocolea mihi var. major. Sez. id. id. Ingr. 98/,. . Parlatorei Woods. Sez. id. id. Ingr. 4°/,. . alpina Smith. var. Belliana mihi = A. planiculmis var. taurinensis Belli. Sez. id. id. asa WE . alpina Smith. Sez. id. id. Ingr. 8°/,. . pratensis L. Sez. id. id. Ingr. 88/,. . montana Vill. f. planifolia. Sez. id. id. Ingr. ®8/,. FS Do bo ba CO OOO» PNE NESTS ri LOL an a PNENTS SE —_ ——r—__T__. G. GOLA - Le Avenae Piemontesi della sez. Avenastrum Koch. Memozie della S. Acc. delfe Scienze di Sozino, Serie Il. Vol, LXII, Fig, 10 Fig.11 Fig, 12 Li "di a; : è x ò Pesa Lin h ai Bra n n ‘ ta \ ET yu = RIN Ù ù SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE DELLE “ VICIBAB® (0.0) ITALIANE MEMORIA DELLA Dott.2 GIULIA GIARDINELLI (CON UNA TAVOLA) Approvata nell'adunanza del 1° Gennaio 1911. La famiglia delle Leguminose è una delle più naturali che annoveri il Regno vegetale. La straordinaria affinità di caratteri, che lega le numerosissime specie in essa riunite, si rende ancora più manifesta se si restringe la comparazione ad ag- gruppamenti sempre meno ampii di questa famiglia. E specialmente nelle Papilio- nacee tutti gli organi di esse, l'apparato radicale per la simbiosi coi bacteroidi, le foglie munite di stipole e a struttura fondamentalmente pennata, i fiori, per la parti- colare disposizione dei loro organi, il frutto a baccello, offrono una serie evidente di caratteri, divergenti assai di poco dall’una all’altra specie. Anche i semi manifestano tutti una notevole analogia fra loro, per lo sviluppo scarso dell’albume, per la grandezza dei cotiledoni, per la forma dei granuli d’amido, e sopratutto per la struttura del tegumento seminale, nel quale è dato osservare una struttura morfologica ed anatomica, fondamentalmente identiche in tutte le specie, e per alcuni caratteri, esclusive alle Papilionacee. — La tribù delle Vicioidee ha anch'essa una notevole omogeneità di caratteri, tanto che la distinzione di alcuni dei generi principali che la formano, è stata spesso oggetto di incertezza, e tutt'ora ad esempio sono parecchi gli autori, che pongono il gen. Orobus sotto il gen. affine Lathyrus, e il gen. Ervum sotto quello di Vicia; e nell'esame della sinonimia, sono parecchie le specie, che hanno doppia denominazione di Vicia e Lathyrus. — Nei semi poi l'affinità di struttura è assai grande, onde se la grandezza e la forma esterna, non lasciano alcun dubbio, nel distinguere ad es. la V. Faba L. dalla V. hir- suta L., o da un Erv. Lens L., occorre molto spesso di non trovare, nella morfo- logia esterna, dei caratteri sufficienti, per distinguere un seme appartenente al gen. Vicia, da un altro, appartenente al gen. Lathyrus. I ì GIULIA GIARDINELLI 2 Tale difficoltà di diagnosi fu quella che consigliò al Professore 0. Mattirolo, l’utilità di uno studio più accurato della struttura dei tegumenti seminali delle specie della tribù delle Viciee, allo scopo specialmente, sia di trovare in un’even- tuale sistemazione del gruppo, nuovi caratteri desunti dalla struttura dei semi, sia per trarne indirizzo ad un riconoscimento delle diverse specie, quando si avessero a disposizione solo dei semi. Tale studio potrebbe del resto avere anche delle applicazioni pratiche, quale il riconoscimento di semi di specie velenose, frammisti a semi di importanza alimen- tare (Leguminose a glucosidi cianogenetici o a sostanze tossiche varie, Lathyrus) e la determinazione della provenienza dei grani, fondata sull’esame delle impurezze (1). Di tale questione mi sono già occupata in altro lavoro. Limitai questo studio alle sole specie italiane, essendo difficilissimo procurarsi materiale completo di tutte le specie esistenti, e ancor più difficile il possedere campioni assolutamente sicuri. Oltre che dalle ricche collezioni di semi dell'Orto Botanico di Torino, ho avuto il materiale di osservazione anche da altri Orti Botanici. — E ringrazio specialmente i Professori Baccarini, Pirotta e Buscalioni, i quali inviarono semi di Vicioidee dalle collezioni degli Istituti da loro diretti. — La massima parte dei campioni la debbo all’interessamento del Prof. Mattirolo, ed a Lui debbo ancora i più vivi ringrazia- menti per il validissimo aiuto di mezzi e di consigli avuti nel corso delle ricerche. — Sentitamente e vivamente ringrazio il Prof. Gola, per la cura assidua colla quale seguì le mie ricerche. Generalità sulla struttura del tegumento seminale. Prima di iniziare lo studio anatomico del tegumento seminale delle Vicioidee, è bene passare in esame i caratteri esterni di questi semi, che, se non sono tanto caratteristici da poter servire ad una distinzione fra le diverse specie, sono in al- cuni casi un valido aiuto per la distinzione stessa (2). — La forma predominante di questi semi è la sferica, comunissima specialmente nel genere Lathyrus, e in- vece fortemente modificata nel genere Vicia, dove, a lato di forme isodiametriche, si notano forme in cui un diametro prevale sugli altri due, determinando così una forma lenticolare, tipica nel sottogen. Lens. — In altri casi, come nella V. Faba L., i tre diametri sono assolutamente differenti, e si hanno forme appiattite, allungate. (!) Grarpinenti G., Sul riconoscimento e sulla determinazione dei semi delle differenti specie di Veccia contenuti nelle crusche, “ Mem. R. Ace. Agrie. ,, Torino, 1910. (®) È affatto fuor di luogo, ch'io mi intrattenga a descrivere le generalità di struttura del tegu- mento seminale delle Lesuminose, che ha già fatto oggetto di molte ricerche, e per le quali rimando al lavoro monografico dei Proff. Mattirolo e Buscalioni su tale speciale argomento (MartIRoLo 0. e Buscationi L., Ricerche anatomo-fisiologiche sui tegumenti seminali delle Papilionacee, “ Mem. della i R. Acc. delle Sc. di Torino ,, Serie II, vol. XLII, 1892). In quest'opera, è trattata in modo particolare la struttura di alcune Viciue: ed oltre a ciò si trovano nella letteratura accenni alla struttura di tali semi, in opere di diagnostica delle sostanze alimentari; ma sopratutto in Harz, Samenkunde, nella quale sono esaurientemente descritte alcune Vicioidee (Harz, Landwirtschaftliche Samenkiinde, BA. II, Berlin, 1885). 3 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 79 Nelle altre specie le forme che spesso si incontrano, differenti dalla sferoidale, si possono spiegare colla mutua compressione che i semi subiscono nel legume; onde semi appiattiti ai due poli, o semi a tipo angoloso. Degna di nota è la V. Ervilia L., di aspetto prismatico piramidale caratteristico. — Del resto si osserva nella forma di questi semi, una grande omogeneità, omogeneità che si riscontra invece ben poco nelle dimensioni loro. — Infatti si passa dai semi grossissimi della V. Faba L. a quelli piccolissimi della V. Rirsuta, e fra questi due tipi estremi si hanno le di- mensioni più varie. — La colorazione è pure variabile, da tinta verdastra alla brunastra. Rari sono i semi di Viciae italiane scolorati, il che si osserva invece in alcune specie esotiche (es. V. Lòveana Steud.). Molto spesso si hanno colorazioni giallastre, o tinte generalmente chiare, dipendenti dalla distruzione della clorofilla, durante la completa maturazione del seme. — Talvolta la colorazione chiara è af- fatto superficiale, ed è dovuta ad un sottile rivestimento granuloso, tolto il quale, ricompare la pigmentazione solita oscura del tegumento. Questa pigmentazione è data da sostanze di natura albuminosa o tannica, che hanno la loro sede nei di- versi strati del tegumento, come vedremo più oltre. In generale la colorazione della superficie del tegumento può servire a caratterizzare alcune specie, ma ciò non è sempre costante, e del resto, è a tutti noto, come nei vicini Phaseolus le variazioni di colore del pigmento non siano in rapporto che con semplici razze. — La super- ficie esterna di questo tegumento appare pure molto diversa. Così si hanno dei semi lisci quasi splendenti, per la terminazione delle malpighiane in punta addirittura tronca (es. L. Aphaca L.). Si hanno dei semi di aspetto opaco, o leggermente vel- lutato, dovuto al fatto che le malpighiane terminano in fini papille ottuse e legger- mente acute. Quando finalmente parecchie di queste malpighiane emergono insieme unite, allora la superficie dei semi è ora più, ora meno rugosa (es. L. annuus L., L. hirsutus L.). Un aspetto particolare si riscontra nel L. heterophyllus L., dove le piccole sporgenze, rappresentate dalle papille, sono separate da piccole rientranze, di modo che la superficie di questi semi si può chiamare solcato-verrucosa. E final- mente è degno di nota il Cicer arietinum L., la rugosità della cui superficie è data da sottili creste lineari, secondo le quali sono orientate le malpighiane. — Ancora sulla superficie del tegumento, disposti in serie longitudinale, in corrispondenza della punta radicale dell'embrione, spiccano i tre organi più caratteristici dei semi delle leguminose: il micropilo, il chilario e i tubercoli gemini. L'esame esterno di questi tre organi non fa risaltare nulla di caratteristico. La linea di commessura fra le due labbra chilariali spicca spesso più chiara sulla superficie scura del seme, oppure si con- fonde col colore complessivo di essa, in generale però è ben visibile anche ad occhio nudo. Essa giace in una depressione, detta appunto depressione chilariale, le cui di- mensioni di lunghezza e di larghezza sono varie. — Da misure fatte risulta in molti casi, che nelle Viciae si hanno delle superfici chilariali molto lunghe e strette, mentre nei Lathyrus sono generalmente corte e larghe. Si crederebbe per questo di poter affermare che esiste in questo campo una differenza tra Viciae e Lathyrus; ma la regola subisce una contradizione decisa, davanti al caso, per es., della V. nardonensis L., con chilario cortissimo, in rapporto alla circonferenza del seme. — La superficie chilariale è delimitata da due linee, le quali, in molti casi, decorrono parallele fra loro, in altre decorrono descrivendo 80 GIULIA GIARDINELLI 4 un’ellissi, e questa forma dell’area chilariale può essere utilizzata come carattere diagnostico. Quanto poi alla posizione, il chilario è posto ora su un lato, ora su una faccia del seme, se questo è appiattito; oppure ad uno dei poli. I tubercoli gemini sono pochissimo visibili, però un po’ più sviluppati nel ge- nere Lathyrus che nel gen. Vicia. Così pure il foro micropilare. L’albume è pochis- simo sviluppato ed è fra il tegumento e i cotiledoni. Un ultimo carattere che merita attenzione, è quello dello spessore del tegu- mento, in cui, sia nelle specie del gen. Vicia, che del gen. Lathyrus, si verificano dei casi estremi (es. V. Ervilia L. u 92, 50. — V. Faba L. u 480). Però, si può dire, con una certa sicurezza, che nel gen. Lathyrus è più frequente trovare tegu- menti di spessore considerevole, quantunque non manchino le specie a tegumento sottile (L. sawatilis Vent. Vis.). Così pure è interessante conoscere lo spessore dei singoli strati, di cui il tegumento si compone. E da ciò risulta che i due strati pre- . dominanti per spessore sono quello delle malpighiane e lo strato profondo. — Nel misurare lo strato delle malpighiane, bisogna fare una speciale considerazione per quelle specie, come il L. annuus L., in cui il tegumento si presenta ondulato. In questi casi, lo spessore varia in corrispondenza della gibbosità e delle vallecole. — E così nell'esempio suaccennato si ha u 339, 85 in media, in corrispondenza della gibbosità, e u 239, 18 in media, in corrispondenza delle vallecole adiacenti. — Lo strato delle cellule a colonna non prevale mai per lo spessore sugli altri due, e in nessun caso segue le ondulazioni proprie allo strato malpighiano del tegumento di molte specie. Il tessuto profondo finalmente, talora è sottile, talora eguale allo strato delle malpighiane, e in molte specie è il più importante per questo carattere dello spessore. Ed ora passiamo a vedere come è fatto anatomicamente il tegumento di questi semi: esso risulta, come è noto, dello strato delle malpighiane, strato delle cellule a colonna e tessuto profondo. — Vario è dunque il loro spessore, ma in nessun caso l’uno di essi è mancante. A) Strato delle cellule malpighiane: esso è costituito di cellule, tutte ravvicinate, a guisa di palizzata, fortemente allungate, a sezione poligonale. Verso l’estremità inferiore sono leggermente convesse, e, verso l’estremità superiore, tronche in alcune specie, in altre più o meno coniche o appuntite. Vario è il loro lume cellulare, ora ampio e visibilissimo, ora assai stretto, e a volte (es. V. Faba L.) presentante dei rigonfiamenti o dei restringimenti, questi ultimi specialmente nella zona della linea lucida. La parte più caratteristica e differenziata di queste cellule è la parte apicale, che ha modi svariatissimi di presentarsi e da cui derivano i vari aspetti esterni, a cui abbiamo accennato. In alcune specie (specialmente nel gen. Lathyrus) il mar- gine dello strato malpighiano appare più o meno profondamente ondulato, per la presenza di grosse papille, formate dalla riunione in gruppi di un numero vario di malpighiane, costituenti appunto delle sporgenze ora arrotondate, ora acute (esempio L. annuus L. o L. setifolius L.). Queste grosse papille sono quelle appunto, che danno al seme una rugosità evidentissima anche ad occhio nudo. Quando le malpighiane terminano in papille singole esse possono essere ottuse o addirittura tronche, e allora il seme presenta, esaminandolo ad occhio nudo, una 5 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 81 superficie esterna vellutata; oppure esse sono acute, e allora il seme si presenta leggermente rugoso, od anche liscio e senza nulla di caratteristico, se le malpighiane sono saldate fra loro fino all'estremo, senza individualizzarsi in papille singole, o almeno così piccole, da non essere avvertibili che al microscopio. — Per questi di- versi modi di terminazione delle cellule malpighiane, il margine superiore dello strato si presenta ora liscio e uniforme, ora finamente inciso dalle papille più fini, ora più o meno regolarmente e più o meno profondamente ondulato per la presenza di grosse papille. E degno di nota è il fatto, che questo carattere della diversa terminazione delle malpighiane è generalmente costante per le diverse specie e co- stituisce quindi uno dei migliori argomenti di distinzione fra esse. Nel suo decorso, la membrana di queste cellule non si presenta tutta egual- mente ispessita; generalmente un maggior ispessimento si nota alla base e all’apice di queste cellule. Completamente occluso è il lume cellulare nella parte situata al di sopra della linea lucida; al di sotto di questa si osserva per lo più un'espansione più o meno ampia, occupata dal corpuscolo del Beck (!); un’altra espansione conica, clavata, od ovoidale, si osserva verso la base, e quivi è quasi sempre riempita di re- sidui plasmatici più o meno colorati. Lo spessore della membrana è modellato sopra questa espansione, talvolta però, pur rimanendo assai spessa, la membrana presenta sulle pareti laterali, delle inca- vature profonde, ricordanti i canalicoli che permettono le comunicazioni plasmatiche. Una linea che attraversa costantemente le malpighiane, è la così detta “ Linea lucida ,, spiccatissima in alcune specie, in altre più sottile e meno brillante, ma sempre visibile senza troppa difficoltà. Fissa è posta generalmente verso l’apice delle malpighiane, talora è un poco spo- stata verso la base, tal’altra coincide quasi col limite superiore delle papille. Nelle specie, in cui lo strato malpighiano decorre ondulato, la linea lucida o decorre ondu- lata, cioè a distanza costante dall’apice delle malpighiane; oppure non ondulata, cioè a distanza costante dalla base delle malpighiane (es. L. Nissolia, L.). Altri ispessimenti degni di nota si osservano nella membrana delle malpighiane. Così talora se ne osserva uno all'estremità inferiore di esse, onde appare come una fascia brillante basale; talvolta tale ispessimento è situato un po’ al di sopra della base, e forma una grossa sporgenza nel lume, che, espanso al di sopra e al di sotto, è in tal punto assai ristretto, onde la fascia brillante che ne risulta è situata un po al di sopra della base. Assai frequente è pure un ispessimento diffuso, nella parte mediana della membrana, la quale in sezione trasversa di un seme appare bicon- vessa. Sono tali ispessimenti assai evidenti in alcune specie, e utili assai nella diagnostica. Queste cellule malpighiane, nell'interno del loro lume cellulare, contengono spesso delle fini granulazioni di protoplasma e una notevole quantità di pigmento, variabile dal verdastro al bruno e di natura albuminoso-tannica. Degno di nota è pure il pigmento proprio della membrana, per lo più citrino, ® Becx G., Vergleichende Anatomie der Samen von Vicia und Ervum, “ Sitzungsber. d. k. Ak. Wiss. ,, Wien, 1878. Serre II, Tow. LXII. i K ) 9 GIULIA GIARDINELLI 6 di rado bruno, che è visibile per lo più nelle parti situate fuori della linea lucida, nelle quali l'assenza di lume cellulare e perciò di pigmento di origine plasmatica non impedisce l'osservazione esatta. La colorazione delle malpighiane, al di fuori della linea lucida, dovuta a questa pigmentazione della membrana, è un ottimo carattere diagnostico. In due sole specie tale pigmentazione è visibile anche sotto la linea lucida (V. sativa, L. e L. Aphaca, L.). In esse il colore bruno nero e bruno violaceo della membrana, spicca sulla tinta più chiara del pigmento plasmatico. Quest'ultimo poi è ora addensato alla base, oppure nella parte mediana, od è egualmente diffuso per tutta la cellula. Ma le cellule malpighiane possono anche essere perfettamente ialine sopra e sotto la linea lucida. Nell’ interno del loro lume cellulare si possono poi trovare ancora i così detti corpuscoli del Beck, il cui insieme costituisce spesso una linea brillante, ben evidente, ora più, ora meno vicina all’apice delle malpighiane. La forma dei corpuscoli è di solito cubica, più raramente piramidale, coll’asse mag- giore parallelo all'asse delle malpighiane, e a volte, sono circondati da un alone pigmentato, onde appare, nel complesso delle malpighiane, una linea bruna (V. lutea L.). B) Strato delle cellule a colonna. — È costituito di cellule di forma abbastanza diversa nelle specie dei generi sopra ricordati, e la cui costanza d’ aspetto fornisce in alcuni casi un carattere diagnostico. In esse sono distinguibili due parti: l’una (l'esterna) in rapporto diretto colla base delle malpighiane; l’altra (l’interna) in con- tatto cogli elementi dello strato profondo. Le due parti sono separate da uno stroz- zamento mediano, che nei casi tipici si presenta come quello di una clessidra, donde il nome di cellule “ en sablier ,; talora la strozzatura mediana si allunga assai ed allora appare come un corpo cilindrico, frapposto fra due estremità allargate, onde il complesso ricorda, specialmente in prossimità del chilario {dove le cellule si pre- sentano molto più allungate, perdendo così ogni loro caratteristica), una colonna col capitello e la base (cellule a colonna). Le dimensioni delle due parti (esterna ed interna) sono per lo più uguali, talora però l’una o l’altra prevale per grandezza. Raramente queste cellule sono così schiac- chiate (come in certi Ervum) da essere difficilmente visibili. Mentre la forma della metà interna è quella di un parallelepipedo, coll’asse mi- nore in senso radiale, quella della metà esterna è assai variabile, cilindrica, obco- nica, cilindrica inferiormente e bruscamente espansa all'apice a guisa di capitello, onde risultano delle forme diverse e degli spazi intercellulari diversi di aspetto. La conformazione di questi spazi intercellulari è determinata anche da un altro fatto. In generale ambo le estremità delle cellule a colonna sono fra loro a contatto, e allora gli spazi intercellulari appaiono, in sezione, ellittici, circolari, semi-circolari. Ma talora queste cellule si toccano solo per la parte basale, mentre per la parte apicale sono più o meno distanti. In questo caso, lo spazio intercellulare, che ne risulta, è delimitato, oltre che dalle cellule a colonna contigue, anche dalla base di un certo numero di malpighiane. A volte non è possibile la distinzione delle cellule a colonna in due parti di- stinte; ed allora esse appaiono come un quadrato coi lati concavi esternamente. I caratteri della membrana cellulare sono pure differenti sulla parte esterna ed interna di queste cellule. Più spessa al di fuori, essa si assottiglia in corrispondenza della strozzatura mediana e della metà interna. Vario pure è il contenuto cellulare, Ti SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 83 rappresentato da residui plasmatici, di natura albuminosa o tannica, ora più abbon- danti nella metà esterna, ora nell’interna. La colorazione di detto contenuto cellu- lare varia dal verde al bruno, ma questo carattere dipende molto dal grado di maturità del seme, e dalle diverse razze. La comunicazione dello strato delle cellule a colonna coi due strati che lo deli- mitano, si fa per numerosi pori-canali. O) Strato profondo. — È costituito di parecchie serie di cellule, allungate tan- genzialmente e collegate da lunghe braccia, delimitanti ampi spazi intercellulari. In tale tessuto, si potrebbe distinguere uno strato superiore di elementi ad ampio lume, ed uno inferiore, in cui le cellule sono molto più schiacciate e meno sviluppate. Il contenuto cellulare, rappresentato da pigmento variabile dal verdastro al bruno, e da plasma, è in alcune specie abbondantissimo, in altre mancante addirit- tura. Degno di interesse, come carattere diagnostico, è lo spessore di tutto lo strato, sufficientemente costante per una stessa specie. Così pure va presa in considerazione la struttura chimica della membrana delle diverse parti del tegumento, specialmente pel diverso comportamento delle differenti parti della membrana di uno stesso elemento, rispetto ai reattivi delle sostanze pectiche. Il rosso di rutenio si presta egregiamente a quest’uopo, ma i diversi gradi di pectizzazione della membrana sono troppo spesso in rapporto colla maturità del seme, per poter utilizzare questo carattere. Conviene anzi, in generale, nello studio diagnostico, servirsi di sezioni non colorate. Riassumendo: i caratteri più importanti per la determinazione delle specie della tribù delle Vicioidee, sono in ordine di importanza i seguenti: il modo di terminazione delle malpighiane, la forma del lume cellulare, le dimensioni e la posizione dei cor- puscoli del Beck, la pigmentazione della membrana, la presenza, la quantità del con- tenuto albuminoso tannico. Vengono poi i caratteri desunti dalla forma delle cellule a colonna, pure abbastanza costanti; ma difficili a valutare. Quanto allo strato profondo, l’unico carattere diagnostico che ci può fornire è quello del suo spessore, abbastanza costante, come già dissi, in una stessa specie. Non sempre però, perchè le cellule che lo compongono subiscono spesso notevoli variazioni di dimensioni, sia rigonfiandosi nell'acqua, sia perchè stirate nell’esecu- zione delle sezioni. Perciò ho cercato, per quanto possibile, di evitare l’uso di tale carattere. Prima di passare alla descrizione delle singole specie, devo ancora far notare, che è assolutamente necessario esaminare delle sezioni molto sottili e perfettamente trasversali. In caso contrario, i caratteri, riconosciuti opportuni, per la determina- zione delle singole specie, non appaiono così evidenti, e talora non sono affatto rile- vabili. Inoltre occorre eseguire le ricerche con una certa uniformità di criterii; sia nello studio delle dimensioni del seme intero, sia in quello delle sezioni del tegumento. Nel primo caso io ho tenuto conto del diametro perpendicolare al piano che passa pel chilario e del diametro parallelo alla commessura chilariale. Nel caso di semi profondamente eterodiametrici misuravo altresì il terzo diametro, vale a dire il diametro perpendicolare ai due precedenti. 84 GIULIA GIARDINELLI 8 Le sezioni vanno sempre eseguite su porzioni di tegumento lontane dal chilario, perchè, come già dissi, sia lo sviluppo dello strato profondo, che quello delle malpi- ghiane subiscono dei turbamenti notevoli. Nelle parti lontane dal chilario è invece indifferente l’orientazione del seme da sezionare. Riserbandomi di esporre al termine del lavoro le considerazioni più importanti, che si possono dedurre dalle mie ricerche, passerò alla descrizione dei caratteri pro- prii alle singole specie. Gen. Gicees (Tourn.) L. C. arietinum L. — d. s. (1) mm. 9,1; sup. chil. mm. 1,6X1,5; Teg. spess. u 315, u280; Malp. 1. u 114-90. Morfologia. — Semi quasi globosi, giallo chiari, rugosi per lo sporgere di piccole creste lineari. Radichetta sporgente e un solco alla commessura dei cotiledoni. Anatomia. — Malpighiane di varia lunghezza e orientate in modo da formare delle creste, caratteristiche di questa specie. Linea lucida affatto superficiale. Lume cellulare abbastanza regolare, con membrana più ispessita verso la base, onde fascia ialina. Cellule a colonna schiacciate, poco visibili. Strato profondo, a elementi ben sviluppati e ialini. Pisum sativum L. — d. s. mm. 5,98; sup. chil. mm. 1,8 X 0,8; Teg. spess. u 120; 42 Malp. 1. u 72,5; n. M. 00: Morfologia. — Semi sferici, lisci, verdi o bruni, con superficie chilariale ovata, più chiara. Anatomia. — Malpighiane appena appena sporgenti in piccole papille ottuse con linea lucida subito sotto la superficie. Al di sopra di essa, le cellule sono ialine, al di sotto, intensamente pigmentate in bruno. Corpuscoli del Beck ben visibili a metà dello strato. Lume cellulare ora dilatato, ora ristretto; alla base di esso la membrana ispessita determina una fascia chiara. Cellule a colonna, schiacciate, vuote e a membrana sottile; appaiono, in sezione, quadrate, coi lati concavi. Strato profondo, intensamente pigmentato in bruno. (4) A proposito di queste cifre, riguardanti le dimensioni delle diverse parti dei semi e dei suoi tegumenti, riporto qui le spiegazioni delle abbreviazioni adoperate: d. s.= diametro (o diametri) del seme; sup. chil.= dimensione dell’area della depressione, nella quale sta il chilario; eg. spess. = spes- sore totale del tegumento [quando il tegumento è rugoso, il 1° numero indica lo spessore in cor- rispondenza delle verruche; la 2* cifra lo spessore in corrispondenza delle depressioni (vallecole)]; Malp. t.= lunghezza delle malpighiane. Anche qui dove sono indicati 2 numeri, questi hanno lo stesso riferimento che nel caso dello spessore totale del tegumento; n. M.= numero delle malpi- ghiane ossia numero delle cellule malpighiane, comprese lungo un tratto di 100 u. 9 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 85 Pisum sativum L. var. arvense (L.) — d. s. mm. 5,88; sup. chil. mm. 1,53 X 0,86; Teg. spess. u96; Malp. 1. u 62,5; n. M. PI, Morfologia. — Semi quasi sferici, lisci, con superf. chilariale ovale scuri e mi- cropilo visibile. Anatomia. — Malpighiane sporgenti in papille a base larga e arrotondate. Linea lucida appena sotto la superficie. Lume cellulare irregolare, con poco pigmento giallo-verde, specialmente verso la base. La membrana ispessita determina alla base stessa una fascia ialina ben visibile. Cellule a colonna colla parte superiore pressochè cilindrica; l’inferiore più espansa ai lati. Unite per ambo le estremità, onde gli spazi intercellulari sono sferici. Poco pigmento giallo-verde si trova nella metà esterna. Strato profondo, nulla di notevole. Gen. Ladffyreas (Tourn.) L. Sez. I. Aphaca [(Tourn.) Adans]. L. Aphaca L. — d. s. mm. 3,37 X 2,72; sup. chil. mm. 0,95 X 0,50; Teg. spess. u116,75; Malp. 1. n 60. Morfologia. — Semi ovali, bruno-neri o variegati, lisci, lucidi, con superf. chi- lariale posta ad uno dei poli, un po’ ovata e più chiara. Anatomia. — Malpighiane tronche, onde margine apicale liscio. Lume cellulare a biscotto, cioè ristretto nella sua parte mediana. Un grosso corpuscolo del Beck è situato poco sopra il restringimento mediano. È visibile sotto la linea lucida la colo- razione violacea della membrana cellulare. Cellule a colonna, espanse nella parte superiore, più schiacciate nell’inferiore, la cui parete più interna, a contatto collo strato profondo, è leggermente concava. Poco pigmento verde posto nella parte esterna. Spazi intercellulari sferici. Strato profondo costituito di elementi piuttosto ampi e regolari. Sez. II. Nissolia [(Tourn.) Adans]. L. Nissolia L. — d. s. mm. 2,4; sup. chil. mm. 0,83 X 0,40; Teg. spess. u 135,62, u 109,37; Malp. 1. u 87,50, u 57,50. Morfologia. — Semi sferici o cilindrici, bruno-neri, rugosi. Superficie chilariale ovata; linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. Anatomia. — Malpighiane di diversa lunghezza e riunite a formare verruche sporgenti. Linea lucida non ondulata e nel lume cellulare, subito sotto ad essa, un grosso corpuscolo di Beck. Cellule a colonna, colla parte esterna cilindrica, con molto pigmento bruno, l’in- terna quasi ovoidale. Strato profondo a poche serie di cellule schiacciate e pigmentate in bruno ver- dastro. 86 GIULIA GIARDINELLI 10 Sez. III. Clymenum [(Tourn.) Adans]. L. Ochrus (L.) D. C. — d. s. mm. 6,28; sup. chil. mm. 3,9 X 1; Teg. spess. u 297,50; 40 Malp. 1. p 136,66; n. M. FT Morfologia. — Semi sferici, lisci, verdastri o bruni; superf. chilariale lunga stretta, giallo chiara; micropilo ben visibile. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche; linea lucida a due terzi dell’altezza. Lume cellulare mancante nella parte esterna, evidente appena sotto la linea lucida, e quindi assai espansa; presenta poi una strozzatura, al di là della quale si allarga in un'ampia ampolla ellittica, per restringersi di nuovo alquanto al di sopra della base, e riallargarsi alfine in una cavità sferoidale, terminale. Il corpuscolo del Beck, posto nell’ampolla superiore, è immerso in un plasma bruno chiaro, che occupa la porzione rimanente del lume cellulare. Cellule a colonna con scarso pigmento bruno verdastro, divise in due parti quasi equivalenti, separate da una strozzatura mediana cilindrica, alta quanto ciascuna delle due parti. Strato profondo a cellule appiattite, con scarso pigmento bruno verde. L. articulatus L. — d. s. mm. 4,86 X 5,59; sup. chil. mm. 2,80 X 0,86; Teg. spess. 187,50; Malp. 1 #70; n M. 20. Morfologia. — Semi pressochè sferici o leggermente appiattiti, bruno neri, lisci, leggermente vellutati. Sup. chilariale ovata, larga; linea di commessura giallo chiara. Micropilo poco visibile. Anatomia. — Malpighiane appena sporgenti in papille fini ed acute. Linea lucida sotto la superficie. Lume cellulare con brusche dilatazioni e restringimenti, e occupato, fin verso la base, da plasma bruno. Nel terzo superiore è un piccolo corpuscolo del Beck, brillantissimo. Un forte . restringimento della membrana determina una linea ialina poco sopra la base. Cellule a colonna colla parte superiore obconica, con plasma bruno verde, l’in- terna a sezione rettangolare, a membrana sottile, e plasma scarso. Gli spazi inter- cellulari sono, in sezione, tondeggianti, ma alquanto angolosi. Strato profondo costituito di numerosi elementi assai sottili e ialini. L. articulatus L. var. Clymenum (L.) Fiori e Paol. — d. s. mm. 3,41 X 6,43; sup. chil. mm. 4,07 X 1,43; Teg. spess. up 159,94; Malp. 1. u 86,66; n. M. di Morfologia. — Semi fortemente appiattiti, con tre diametri molto disuguali. Bruno neri, vellutati. Superf. chilariale lunga, lineare; linea di commessura fra le due labbra chilariali giallo-chiara. Micropilo ben visibile. Anatomia. — Malpighiane ottuse, arrotondate; lume cellulare bruscamente espanso al di sotto della linea lucida, poi lievemente e gradatamente ristretto fin poco sopra la base, dove si restringe ancora, per poi dilatarsi definitivamente in un'ampolla ellittica. La membrana delle malpighiane ispessita determina alla base una fascia ialina. Tutta la cavità cellulare è occupata da abbondante pigmento bruno IL SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 87 chiaro. Corpuscoli del Beck, assenti o appena visibili; la linea lucida è piuttosto distante dal margine esterno. Cellule a colonna, colla parte superiore quasi cilindrica, l’inferiore espansa ai lati; con molto pigmento bruno. Strato profondo sottile e pressochè ialino. Sez. IV. Cicercula [(Dodon.) Moench.]. L. annuus L. — d. s. mm. 4,85; sup. chil. mm. 2,20 X 0,96; Teg. spess. u 288,85, u160; Malp. 1. u 228, p 120. Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o bruno chiari, molto rugosi; superf. chi- lariale ovata e bianca. Micropilo appena visibile; tubercoli gemini invisibili. Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa, e riunite in gruppi, a formare delle verruche sporgenti (15-20 pu). Linea lucida, pressochè costante, rispetto alla base delle malpighiane. Lume cellulare ristretto e vuoto sopra la linea lucida, espanso al di sotto, con una nuova strozzatura poco sopra la base, di modo che la cavità risulta divisa in una superiore ellittica, con plasma bruno e il corpuscolo del Beck, e in una inferiore conica, solo con plasma bruno; il quale viene perciò a costituire una fascia pigmentata basale ad altezza variabile. L’estremità inferiore delle malpi- ghiane è fortemente ispessita. Cellule a colonna fortemente appiattite in senso radiale, a lume evidente solo nella metà superiore, separata dall’inferiore da una strozzatura che riduce a un terzo il diametro cellulare nella parte mediana. Lume ripieno di plasma bruno; membrana ialina e ispessita. Strato profondo a elementi appiattiti, bruni i più esterni, ialini i più interni. L. Cicera L. — d. s. mm. 7,98X7,78; sup. chil. mm. 1,7 XX 1,1; Teg. spess. 1 201,66; 44 Malp. JL u 83,93; n. M. 100° Morfologia. — Semi irregolarmente angolosi, bruni o variegati, lisci con super- ficie chilariale ovata, ampia e più chiara. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche acute; lume cellulare largo fin verso la base, con un corpuscolo del Beck prismatico cubico nella sua parte superiore, e abbondante plasma bruno eccetto che alla base, dove la mancanza di plasma determina una linea chiara. La membrana cellulare verso la metà inferiore presenta delle strozzature evidenti. Cellule a colonna appiattite; la parte superiore è piccola, dilatata all'apice e con pigmento verde; l’inferiore, a sezione rettangolare, è più ampia. Strato profondo di poche serie di cellule appiattite. L. Cicera L., var. sativus (L.) — d. s. mm. 7,45 X 7,68; sup. chil. mm. 1,7 X1; Teg. spess. p 163,33; Malp. 1 p 63,38; n. M. SP22, Morfologia. — Semi angolosi, fortemente compressi, bruno chiari o scolorati, o variegati. Superf. chilariale ovata, ampia. 88 GIULIA GIARDINELLI Ia Anatomia. — Lume cellulare delle malpighiane irregolare, a successivi restrin- gimenti e allargamenti, occupato da plasma bruno chiaro o da ristretti e allungati corpuscoli del Beck. Alla base le malpighiane ispessite determinano una fascia ialina. Le cellule a colonna sono, vuote e in sezione, di forma quadrata, coi lati concavi. Pareti spesse. Strato profondo a elementi sottilissimi, appiattiti, con plasma bruno scarso. L. Cicera L., var. L. Gorgoni (Parl.), non vidi esemplari. L. tingitanus L. — d. s. mm. 5,71 X 6,87; sup. chil. mm. 3,7 X 1,4; Teg. spess. 48-52 u105; Malp. 1. u75; n. M. Ton Morfologia. — Semi molto appiattiti, coi tre diametri disuguali; bruno neri, vel- lutati. Superficie chilariale leggermente ovata e a linea di commessura giallo chiara. Anatomia. — Papille fortemente acute. Lume cellulare tutto ampio, più rigonfio alla base. Tutto il tratto sotto la linea lucida è intensamente bruno, eccetto che l’estrema parte basale che è vuota, onde risulta una linea chiara. Cellule a colonna a parete spessa, con pigmento bruno nella parte superiore, quasi cilindrica; l’inferiore è espansa per l’estendersi delle due porzioni laterali e la sua parte più interna è ora più, ora meno concava. Strato profondo a elementi schiacciati e bruni nelle prime e nelle ultime serie; in quelle mediane le cellule sono vuote e a lume più ampio. L. odoratus L. — d. s. mm. 4,25; sup. chil. mm. 2,20 X 1,01; Teg. spess. p 186,66; 36-40 Morfologia. — Semi sferici, lisci, bruni, colla linea di commessura delle labbra chilariali bianca. Micropilo ben sviluppato. Anatomia. -—— Malpighiane tronche, con membrana fortemente ispessita alla base, onde fascia ialina, spiccante sul fondo intensamente bruno. Lume cellulare regolare, amplissimo alla base. Corpuscolo di Beck poco evidente. Cellule a colonna a sezione quadrata, colle pareti concave, e un po’ di pigmento giallastro, ora più in alto, ora più in basso della cellula. Membrana spessa. Strato profondo a elementi ben sviluppati e giallo verdastri. L. hirsutus L. — d. s. mm. 4,01; sup. chil. mm. 1,7 X 0,9; Teg. spess. u 385, u315; Malp. 1. u 86,03, u 73,36. Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, fortemente rugosi, con linea di commes- sura fra le due labbra chilariali quasi bianca. Micropilo ben visibile. Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare delle ver- ruche sporgenti, in cui la linea lucida, non ondulata, è pressochè a distanza costante dalla base dello strato. Lume cellulare ampio alla base e in corrispondenza del grosso corpuscolo del Beck, posto poco sotto la linea lucida; e occupato inoltre da plasma bruno, che forma una fascia basale pigmentata a margini rettilinei e di altezza costante. 13 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 89 Cellule a colonna colla parte superiore obconica, ricca di plasma bruno-verde, l'inferiore più espansa e vuota. Spazi intercellulari quasi perfettamente sferici. Strato profondo a elementi schiacciati, ricchi di plasma bruno. Sez. V. Eulathyrus Ser. L. sylvester L. — d. s. mm. 4,4; sup. chil. mm. 6,6 X 0,9 (abbraccia quasi metà del seme); Teg. spess. 4 222, 4210; Malp. 1. u 105, p 92,5. Morfologia. — Semi tondeggianti bruni, leggermente rugosi; superf. chilariale lineare, lunga, quasi bianca. Anatomia. — Malpighiane terminate in punta tronco-conica, a base larga; di lunghezza diversa, onde il margine dello strato descrive ampie ondulazioni. Linea lucida pure ondulata. Lume cellulare ampio, con una leggerissima strozzatura nella parte mediana. Talino sopra la linea lucida, pigmentato in bruno al di sotto, e con un grosso cor- puscolo del Beck. Cellule a colonna, in sezione, quadrate coi lati concavi, a membrana specialmente ispessita superiormente, dove trovasi una certa quantità di pigmento verde. Strato profondo a elementi ampi, verdastri, L. sylvester L., var. latifolius (L.) — d.s. mm. 4,24; sup. chil. mm. 2,85 X 0,77; Teg. spess. u240, u 198; Malp. l. u 150, up 66. Morfologia. — Semi bruno neri, rugosi, sferici, con superf. chilariale più chiara. Anatomia. — Margine dello strato leggermente ondulato, per diversa lunghezza delle malpighiane, terminanti singolarmente in papille tronco-coniche appena accen- nate. Lume cellulare ad ampolla, amplissimo per 8/, della sua lunghezza e con abbon- dantissimo plasma bruno. Corpuscolo del Beck assente o appena visibile. Cellule a colonna colla parte superiore alta, obconica, ricca di pigmento bruno e a parete spessa; l’inferiore espansa lateralmente, vuota e a pareti sottili. Strato profondo a elementi ampi e ricchi di plasma bruno. L. heterophyllus L. — d. s. mm. 4,07 X 5,03; sup. chil. mm. 5 X 2; Teg. spess. u 205,75, p 177,12; Matp. 1. u 125, n 95. Morfologia. — Semi ovati o un po’ appiattiti parallelamente al chilario, bruno- neri, rugosi. Sup. chil. posta sul lato più lungo del seme, più chiara; linea di com- messura fra le due labbra chilariali quasi bianca. Micropilo e tubercoli gemini non visibili. Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare delle ver- ruche, il cui margine è leggermente papillato, per la terminazione in punta tronco- conica delle singole cellule. Linea lucida ondulata. Malpighiane ialine all’esterno di essa, e poco al di sotto della stessa portanti nel loro lume cellulare un grosso corpuscolo del Beck. La mem- brana è ispessita a metà delle cellule più lunghe, formanti le verruche, onde risulta una fascia più o meno chiara. Serie II. Tom. LXII. Ti 90 GIULIA GIARDINELLI 14 Cellule a colonna colla parte superiore alta, obconica, con plasma bruno e mem- brana spessa; l’inferiore ovata e vuota. Spazi intercellulari sferici. Strato profondo a elementi bruno-verdastri, schiacciati. L. grandiflorus S. et S. — Teg. spess. u270; Malp. l. u101,5; n. M. SITO, Anatomia. — Malpighiane terminate in piccolissime papille tronche, leggermente rosee all'infuori della linea lucida. Lume cellulare non molto ampio, contenente i corpuscoli del Beck, ed altezza un po’ diversa. Cellule a colonna di forma quadrata (in sezione) coi lati concavi; a membrana spessa; spazi intercellulari sferici. Strato profondo a molte serie di elementi ben sviluppati, ricchi di pigmento bruno, specialmente in quelli più profondi. L. tuberosus L. — d. s. mm. 3,23 X 4,42; sup. chil. mm. 1,6 X 0,8; Teg. spess. u267; Malp. 1. u 129. Morfologia. — Semi bruni o verdi macchiettati di bruno, ovati, leggermente appiattiti perpendicolarmente al chilario. Superficie solcato-verrucosa, chilario, ovato, con linea di commessura fra le due labbra quasi bianca. Anatomia. — Margine dello strato malpighiano quasi liscio, per lo sporgere delle cellule in papille appena accennate. Lume cellulare ad ampolla, più ampio alla base, poi tenuissimo e solo un poco riallargantesi in corrispondenza del corpu- scolo del Beck. Oltre il quale si trovano nell’interno del lume abbondanti granula- zioni plasmatiche. Cellule a colonna, obconiche nella parte superiore, che ha pareti spesse e pi- gmento bruno; l’inferiore è ovoidale, vuota e a pareti più sottili. Strato profondo di numerose serie di cellule a lume ampio e ricche di plasma bruno-verdastro. î Sez. VI. Orobastrum Gr. et Godr. a) ANNUI. L. saxatilis (Vent.) Vis. — d. s. mm. 2: sup. chil. mm. 1 X 0,42; Teg. spess. u 70; 40-44 Malp. 1. u 50; n. M. 100° Morfologia. — Semi sferici, bruni, lisci, con linea chilariale bianca. Anatomia. — Linea lucida posta ad !/; sotto la superficie. Le malpighiane, spor- genti in papille debolissime, sono leggermente rosee al di sopra di essa. Il lume è ampio, sopratutto inferiormente e contiene plasma scarsissimo e corpuscoli del Beck, abbastanza grossi. Cellule a colonna: colla parte superiore quasi obconica, a membrana ispessita e con plasma bruno; fortemente appiattite e quasi obliterate nella più interna. Strato profondo a elementi molto stipati. 15 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 91 L. setifolius L. — d. s. mm. 4,6; sup. chil. mm. 1,86 X 1,20; Teg. spess. u 262, u218,75; Malp. 1. pu 175, p 110. Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o chiari macchiettati di bruno, sensibil- mente rugosi. Superf. chilariale più chiara e linea di commessura fra le due labbra giallo-chiara. Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare dei tuber- coli, dal margine papillato, per la terminazione in punte conico-acute, sub-mucronate, delle singole cellule. Linea lucida pressochè equidistante dalla base delle malpighiane. Sotto di essa si inizia il lume cellulare, diviso da una strozzatura mediana in una parte superiore ellittica contenente plasma bruno ed un corpuscolo del Beck ben evidente; e in una inferiore contenente plasma. Il plasma determina l’apparire di una fascia pigmentata di altezza variabile. Cellule a colonna divise da una strozzatura mediana cilindroide in due metà presso a poco equivalenti, con scarso plasma verdastro, con membrana ispessita, a contorno rettangolare. Caratteristica di queste cellule è la disposizione quasi ad angolo retto di tutte le curvature. Gli spazi intercellulari sono pure sub-rettangolari. Strato profondo di moltissime serie di cellule stipate, in cui il lume risulta pressochè obliterato. L. angulatus L. p.p. — d. s. mm. 2,02 X 1,8; sup. chil. mm. 0,50 X 0,30; Teg. spess. 485, n 67,5; Malp. 1. u 52,5, u37,5. Morfologia. — Semi cubici, brunastri, leggermente rugosi, con superf. chilariale piccola ovata. Per forma e dimensioni questi semi sono assai simili a quelli della V. lathyroides. Anatomia. — Malpighiane di diversa lunghezza e riunite a formare verruche, talora fitte, ma spesso distanti l’una dall'altra più della lunghezza della base di una di esse. Linea lucida ondulata; le malpighiane all’esterno di essa sono ialine; al di sotto intensamente brune. Però un leggero ispessimento della membrana, determina, a metà di questa zona bruna, una fascia più chiara. Cellule a colonna schiacciate, poco visibili. Strato profondo a elementi poco sviluppati, con plasma bruniccio. L. sphaericus Retz. — d.s. mm. 3,78 X 3,43; sup. chil. mm. 0,95 X 0,70; Teg. spess. 4 157,50; Malp. I p90; n. M. È. Morfologia. — Semi bruno neri sferici, più spesso cilindrici per mutua compres- sione, lisci, con chilario posto su uno degli spigoli più lunghi e spostato verso una delle estremità del cilindro. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille deboli, con la linea lucida poco al di sotto dell’apice. Ispessite alla base, onde una fascia ialina. Lume cellulare piut- tosto irregolare, leggermente ristretto verso la parte mediana, e quindi, per l’ispes- simento della membrana, appare una larga fascia chiara. Nell’interno di esso si trova del plasma bruno verdastro e un grosso corpuscolo di Beck. 99 GIULIA GIARDINELLI 16 Cellule a colonna obconiche superiormente e con pigmento bruno. La parte infe- riore ovoidale, per l'enorme espansione dei suoi lati è concava nella parete a contatto col tessuto profondo. Strato profondo a cellule schiacciate, con plasma verdastro. L. inconspicuus L., non vidi esemplari. L. pratensis L. — d. s. mm. 2,94; sup. chil. mm. 1 X 0,5; Teg. spess. u 134,16; Malp. 1. pu 66,66. Morfologia. — Semi bruni o variegati, a fondo giallo con striscie nere; lisci, lucidi e molto simili a quelli del L. Aphaca. Sup. chilariale piccola ovata, chiara, posta a uno dei poli. Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche, onde margine liscio. Ispessite alla base, per cui risulta una sottile, ma ben visibile linea ialina. Lume regolare, con scarso pigmento bruno inferiormente e un grosso corpuscolo del Beck, poco sotto la linea lucida. Cellule a colonna: la parte superiore è obconica e con poco pigmento verde, l’in- feriore quasi sferica, con plasma ialino. Strato profondo a cellule schiacciate e ripiene di plasma verdastro nelle prime serie, di plasma bruno nelle ultime. In quelle mediane gli elementi sono assai più sviluppati. L. paluster L. — Teg. spess. u 157,50; Malp. 1. 4 100. Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche. Lume cellulare ad ampolla contenente un grosso corpuscolo del Beck e abbondante plasma bruno. Le cellule a colonna hanno membrana tutta egualmente spessa. La parte superiore è espansa ai lati e vuota. Combaciano per le estremità inferiori e sono relativamente distanti superiormente, onde si hanno spazi intercellulari irregolari e molto ampi. Strato profondo a cellule schiacciate, ricche di pigmento bruno, specialmente le più profonde. Sez. VII. Orobus [(Tourn.) L.]. L. inermis Reich., non vidi esemplari. L. digitatus (M. B.) N., idem. L. filiformis (Lam.) F. Gray. — Teg. spess. pu 210, u204; Malp. l. p 65, pu 62,5. Anatomia. — Malpighiane tronche perfettamente e di lunghezza un po’ diversa, onde si ha un decorso un po’ ondulato del margine dello strato. Linea lucida pure ondulata. Lume ad ampolla, regolare, ampio, contenente plasma bruno e corpuscolo del Beck. Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, a membrana molto spessa, ricca di pigmento bruno; l’inferiore ovoidale, vuota. Strato profondo a elementi poco sviluppati e pigmentati intensamente in bruno. 17 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECO. 93 L. pannonicus (Jacq.) Garcke. — sup. chil. mm. 6,40 X 1,02; Teg. spess. up 245, u210; Malp. 1. u 100, u 90. Anatomia. — Margine dello strato malpighiano a leggere e ampie ondulazioni e terminazione delle singole cellule in debolissime papille arrotondate e a base larga. Linea lucida pure ondulata. Lume ad ampolla pieno di plasma sotto la linea lucida. Nella parte mediana un ispessimento della membrana origina una fascia chiara. Cellule a colonna divise in due parti di eguale ampiezza da una strozzatura molto accentuata. Spazi intercellulari poco ampi e sferici. Strato profondo a elementi ben sviluppati e ialini. L. Linnaei Rouy. — d. s. mm. 8; sup. chil. mm. 2 XX 0,45; Teg. spess. u105; Malp. 1. u 50. Morfologia. — Semi sferici, lisci, giallastri o bruno chiari; con superfice chila- riale larga, evidente. Anatomia. — Malpighiane ialine e perfettamente tronche; lume cellulare rego- lare, ampio alla base e in corrispondenza del grosso corpuscolo del Beck. Cellule a colonna: parte superiore quasi regolarmente cilindrica, l’inferiore espansa ai lati. Strato profondo a elementi ben sviluppati nelle prime serie, meno nelle ultime. Tutti con scarso plasma verde. L. niger (L.) Bernh. — d. s. mm. 2,8X4,1; sup. chil. mm. 3,15 X 0,8; Teg. spess. u 192,50; Malp. 1. u 76,66. Morfologia. — Semi ovoidali, bruno neri, lisci, con superficie chilariale posta su uno degli spigoli più lunghi, e linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. Anatomia. — Margine dello strato malpighiano perfettamente liscio, con una linea lucida, larga e brillantissima. Lume cellulare ampio alla base e in corrispon- denza dei corpuscoli del Beck, grossi, cubici, evidentissimi. Malpighiane ialine o leg- germente citrine sotto la linea lucida, ispessite alla base, onde si ha una sottile fascia ialina. Cellule a colonna, in sezione, quadrate, coi lati concavi; e un po’ di pigmento bruno, specialmente addensato superiormente. Strato profondo a numerosissime serie di cellule schiacciate, con granulazioni plasmatiche verdiccie. L. Jordani (Ten.) Cess. Pass. et Gib., non vidi esemplari. L. montanus Bernh., idem. L. tenuifolius Cess. Pass. et Gib. — d. s. mm. 5,26 X 2,64 X 6,6; Teg. spess. u120,5; Malp. 1. u90, p. 75. Morfologia. — Semi irregolari, appiattiti parallelamente al chilario. Lisci, vel- ‘lutati leggermente; linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa; onde il margine dello strato è leggermente ondulato e per di più papillato, per la terminazione delle singole cellule, in 94 GIULIA GIARDINELLI 18 papille coniche. Membrana ondulata, quindi lume cellulare ora ristretto, ora più largo, contenente grossi corpuscoli del Beck immersi in un plasma ialino. Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, l’inferiore più ampia, quasi vuota e poliedrica. Caratteristica di queste cellule è la disposizione quasi ad angolo retto di tutte le curvature, sicchè anche gli spazi intercellulari sono sub-rettangolari. Strato profondo, nulla di notevole. L. vernus (L.) Bernh. — d. s. mm. 2,9 X 4,1; sup. chil. mm. 2,20 X 0,46; Teg. spess. u 134,16; Malp. 1. u 63,33. Morfologia. — Semi ovali, bruni o giallo chiari con macchie nere, lisci. Super- fice chilariale su uno dei lati più lunghi del seme e che si continua fino su uno dei poli. Linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. Anatomia. — Malpighiane tronche perfettamente, ialine o bruno chiare sotto la linea lucida, con lume cellulare ad ampolla, occupato da un grosso corpuscolo del Beck, in vicinanza della linea lucida stessa. Cellule a colonna tanto schiacciate, da confondersi con quelle dello strato pro- fondo. Una strozzatura mediana le divide in due parti di forma irregolare, e di cui l’inferiore è più ampia della superiore. Strato profondo a cellule stipate nelle prime e nelle ultime serie e ricche di plasma verde. L. venetus (Mill.) Hall. et Whlf. — d. s. mm. 1,01 X 1,19; sup. chil. mm. 1,87 X 0,50; Teg. spess. u 144; Malp. l. pu 54. Morfologia. — Semi neri, pressochè cilindrici, eguali, isodiametrici, lisci, con chi- lario più chiaro. Anatomia. — Malpighiane tronche; linea lucida poco evidente subito sotto il loro margine esterno. Sotto la linea lucida il lume cellulare contiene abbondante pigmento bruno; è di forma regolare, ad ampolla, appena un po’ ristretto nella parte mediana. Corpuscolo del Beck assente o appena visibile. Cellule a colonna poco ben distinte, divise in due parti di ampiezza quasi uguale; obconica la superiore, ovata l’inferiore. Strato profondo a elementi ben sviluppati, di cui solo quelli delle serie mediane sono pieni di plasma bruno. Gen. Wieia (Tourn.) L. Sez. I. Euvicia Vis. a) PsruporoBus Frori E PAOLETTI. V. oroboides Whlf., non vidi esemplari. 6) Faga |(Tourn.) Adans.]. V Faba L. (!) — d. s. mm. 22X/6 X 16; Teg. spess. u480; Malp. 1. u 132. Morfologia. — Semi fortemente compressi parallelamente al chilario, lisci, bruno chiari o -bruno scuri, con superficie chilariale nera, assai sviluppata. (4) Per maggiori particolari, vedi Ricerche anatomo-fisiologiche sui tegumenti seminali delle Papi- lionacee, dei Prof. O. MartIRoLo e L. BuscALIonI. 19 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 95 Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche, con lume cellulare irregolare. Esso presenta una cavità basale triangolare vuota e quindi una serie di restringi- menti e di rigonfiamenti. Linea lucida poco visibile, posta verso l’apice delle cellule; corpuscoli del Beck poco visibili; membrana fittamente striata nel senso della lun- ghezza dello malpighiane. Cellule a colonna molto sviluppate, specialmente in altezza, divise in due cavità ovoidali, presso a poco eguali, da una terza parte alta e cilindrica. Spazi intercellu- lari irregolarmente angolosi e più alti che larghi. Strato profondo a molte serie di cellule, a lume, relativamente, non molto ampio, di cui solo le più profonde sono ricche di pigmento bruno. V. narbonensis L. — d. s. mm. 5,90; sup. chil. mm. 2,15 X 1,2; Teg. spess. u330; 32 Malp. 1. u132; n. M. 300° Morfologia. — Semi sferoidali, lisci, opachi, bruno neri, con superf. chilariale bianca ovata, non molto sviluppata. Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille acute, con linea lucida a 10-11 u dalla superficie. All'esterno di esse le cellule sono ialine, all’interno inten- samente brune; e il loro lume cellulare è regolare, ad ampolla. Cellule a colonna corte e larghe a parete spesse, gialliccie, striate longitudinal- mente con contenuto bruno verdastro, specialmente nella parte superiore. Spazi inter- cellulari pure assai larghi. Strato profondo a elementi ampi, con plasma bruno solo nei più profondi (per maggiori particolari vedi l’Harz). c) PROTOVICIA. V. sepium L. — d. s. mm. 3,22 X 3,69; sup. chil. occupa l’arco più lungo del seme; Teg. spess. u 459,50; Malp. l]. u 54; n. M. È. Morfologia. — Semi bruni ovati, leggermente vellutati. Una lunghissima super- ficie chilariale, di cui la linea di commessura fra le due labbra chilariali è quasi bianca, abbraccia quasi tutto il seme. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille debolissime, a base larga e arro- tondate. Lume cellulare ampio alla base, più ristretto verso la metà della cellula, e che poi dinuovo si riallarga fino all'estremità. Malpighiane incolori all’esterno della linea lucida, intensamente brune al di sotto. Corpuscoli del Beck piccolissimi e ap- pena evidenti. Cellule a colonna a membrana spessa e divise in due parti, quasi uguali, ambedue espanse. La parte superiore è occupata da pigmento bruno verdastro. Spazi inter- cellulari sferici. Strato profondo, nulla di notevole. À 96 GIULIA GIARDINELLI 20 Vv. pannonica (Crantz.) Jacq. — d. s. mm. 4,62X3,27X4,07; sup. chil. mm. 2,03X(0,7; 0 Teg. spess. u 315; Malp. 1. #90; n. M. da, Morfologia. — Semi oblunghi, ovoidali, spesso compressi parallelamente al chilario. Bruno neri, vellutati, con linea di commessura chilariale, più chiara, quasi bianca. Anatomia. — Papille conico-acute ben distinte; lume cellulare gradatamente più largo sotto la linea lucida, è molto ampio alla base. Poco sopra di questa però, una forte strozzatura della membrana determina una fascia ialina. Malpighiane abbon- dantemente occupate da plasma sotto la linea lucida; ialine al di sopra. Cellule a colonna, quasi cilindriche, cioè appena ristrette alla parte mediana. Plasma scarso, verdiccio, specialmente nella parte superiore, che è a parete più spessa dell’inferiore. Strato profondo a elementi appiattiti, sottili, di cui quelli delle serie mediane soltanto contengono plasma bruno. V. hybrida L. — d. s. mm. 5,53; sup. chil. mm! 2,86 X 0,9; Teg. spess. u205; 69 Morfologia. — Semi sferici, neri o bruni macchiettati di nero, vellutati, con linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche; lume cellulare irrego- lare nella metà inferiore, espanso verso la base, ristretto e irregolare nel quarto inferiore, poi dinuovo espanso e con pigmento intensamente bruno e corpuscoli del Beck poco numerosi. Quindi lo strato appare diviso in due metà, l’una superiore papillata ialina, l’altra inferiore bruna. Cellule a colonna colla parte esterna cilindrica, spessa e con pigmento verde; l’interna più appiattita. Spazi intercellulari angolosi. Strato profondo spesso. V. hybrida L., var. spuria (Raf.) (4) — d. s. mm. 4,07; sup. chil. mm. 2,06 X 0,9; Teg. spess. u200; Malp. 1. u 67,5; n. M. 7 Morfologia. — Semi sferici, vellutati, neri o bruni con fitte macchiette nere, con superficie chilariale più chiara, breve e larga. Micropilo ben visibile. Anatomia. — Margine dello strato malpighiano inciso da papille acute ben distinte e citrino all’esterno della sottile linea lucida. All’interno incoloro. Lume cellulare ampio alla base, ristrettissimo per un buon tratto mediano, e di nuovo più ampio in corrispondenza dei corpuscoli del Beck, piccolissimi e sferici. Oltre a questi si trova nella cavità cellulare del plasma granuloso. Cellule a colonna colla parte superiore obconica, tutta piena di plasma bruno giallastro; l’inferiore espansa ai lati e concava nella parete a contatto collo strato profondo. Strato profondo a molte serie di elementi ben sviluppati, con granulazioni plasma- tiche verdastre. (1) L'’esemplare viene da Catania e non è controllato. 2 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 97 9. V. melaunops S. et P. — Teg. spess. u 122,50; Malp. 1. #80; n. M. E, Anatomia. — Malpighiane terminate in papille conico-acute, citrine fuori della linea lucida, intensamente brune al di sotto. Solo una -piccola porzione di lume cel- lulare, poco sopra la base, è priva di plasma, onde una linea chiara continua. Lume cellulare rigonfiato alla base e in corrispondenza dei grossi corpuscoli del Beck. Cellule a colonna, di poco più espanse nella parte interna, contengono scarso plasma verdastro. Tessuto profondo a elementi schiacciati, con plasma verdastro. V. lutea L. — d. s. mm. 4,99; sup. chil. mm. 2,12 X 0,7; Teg. spess. u 262,56; ‘ 56 Malp. 1. p 130; n. M. 100: Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, vellutati, con linea di commessura chi- lariale bianca. Anatomia. — Terminazione delle malpighiane in punta conica ben distinta; lume cellulare irregolare e non molto ampio, con vari rigonfiamenti, di cui i principali sono: uno basale e uno circa a metà della cellula. Cellule citrine o ialine sopra la linea lucida, poco pigmentate al di sotto. Poco sopra alla base, un’espansione del lume, priva di plasma, determina una linea chiara brillante. Corpuscoli del Beck poco evidenti. Cellule a colonna piene di plasma granuloso; la parte inferiore è più ampia della superiore. Strato profondo a molte serie di elementi schiacciati, specialmente i più profondi. Plasma verde nelle cellule più esterne, bruno verdastro nelle più interne. 7. lutea L., var. hirta — d. s. mm. 4,98 X 2,95 X 4,26; sup. chil. mm. 2,90 X 0,75; Teg. spess. u 227,50; Malp. 1. u 130; n. M. iS Morfologia. — Semi appiattiti parallelamente e perpendicolarmente al chilario, sì da avere la forma quasi di un parallelepipedo. Neri, vellutati, con chilario bianco. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille leggermente coniche; lume cel- lulare assai tenue, che si inizia al di sotto della linea lucida e presenta due piccole espansioni, una a metà lunghezza, l’altra verso la base; occupato da pigmento bruno, più abbondante in presenza delle espansioni. Cellule a colonna, in cui è sviluppata pressochè unicamente la parte superiore, onde esse hanno una forma tipica a clessidra, con pareti di spessore costante; il con- tenuto è verdastro, gli spazi intercellulari pressochè sferoidali. Strato profondo formato di una prima serie di elementi sottili e leggermente pigmentati; ialini sono quelli mediani, ricchi di plasma bruno i più profondi. V. grandiflora Scop. — d. s. mm. 5,5 X 2 X 4,2 (Harz.); sup. chil. occupa la metà o i 3/4 della circonf.; Teg. spess. up 175; Malp. 1. n 70; n. M. TOT Morfologia. — Semi vellutati, eguali, bruno-neri (Harz.). Anatomia. — Malpighiane terminate in papille tronco-coniche, larghe alla base, poco sporgenti, ialine fuori della linea lucida, intensamente brune al di sotto. Ispes- Serie II. Tow. LXII. = M 98 GIULIA GIARDINELLI 22 site alla base, dove è scavata l'estrema cavità del lume, vuoto di plasma, onde linea chiara basale. Lume cellulare a diametro pressochè sempre uguale, un poco più ampio inferiormente, a pareti leggermente ondulate. Corpuscoli del Beck poco visibili. Cellule a colonna a membrana spessa, in sezione, quadrate coi lati concavi e un po’ di pigmento verde superiormente. Spazi intercellulari sferici. Strato profondo di numerosissime serie di cellule compresse, di cui solo le più profonde ricche di plasma. V. Barbazitae Ten. et Guss. — Teg. spess. u 87,50; Malp. 1. 4 50; n. M. De, Anatomia. — Margine dello strato malpighiano inciso da papille ottuse, arroton- date, ialine, sopra la linea lucida; il tratto al di sotto è bruno chiaro. Membrana sempre spessa; maggiormente alla base, indi sottile fascia ialina. Corpuscoli del Beck non visibili. Cellule a colonna ristrette nella parte superiore, allargate e appiattite in quella inferiore e con lume ridotto. Spazio intercellulare angoloso, ampio altrettanto o più delle cellule alle quali intercede. Strato profondo a elementi sottili e con plasma bruno in quelli mediani. V. peregrina L. — d. s. mm. 5,09 X 3,34 X 5,16; sup. chil. mm. 1,1 X 0,7; Teg. spess. p 192,50; Malp. I. p65; n. M. 90, Morfologia. — Semi irregolari, appiattiti generalmente secondo i due piani paral- leli al chilario, bruno chiari con macchie o brevi strie scure disposte senz’ordine; lisci, leggermente vellutati, con linea di commessura chilariale più chiara e micro- pilo scuro, ben visibile. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille acute. Lume cellulare a due allar- gamenti, uno basale e uno vicino alla linea lucida, con contenuto plasmatico scarso e limitato alla sua parte inferiore. Cellule a colonna, più ampie nella loro metà interna: la più esterna è a mem- brana spessa e contiene plasma verde. Strato profondo verdiccio e costituito di cellule molto sviluppate. V. sativa L. — d. s. mm. 4,74 X 4,77; sup. chil. mm. 2,40 XX 0,40; Teg. spess. 4140; Malp. 1. wp 75; n. M, 3890. 100 Morfologia. — Semi quasi sferici, un po’ appiattiti parallelamente al chilario, bruno-neri, lisci, con linea di commessura chilariale quasi bianca. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille leggermente coniche e ialine al- l’esterno della linea lucida. Lume cellulare un po’ più ampio alla base, poi ristretto e quindi dinuovo più largo al di sotto e al di sopra della linea lucida. Corpuscolo del Beck ben visibile. Ciò che caratterizza questa specie è la colorazione propria della membrana, nera o bluastra, che spicca bene in alcune malpighiane, nel tratto sotto la linea lucida. DO (50) SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 99 Cellule a colonna colla parte superiore obconica e con pigmento verde; l’infe- riore è più espansa e a pareti più sottili. Spazi intercellulari irregolarmente sferici, per l’'intima unione delle sole espansioni inferiori delle cellule. Strato profondo costituito di tre o quattro serie di cellule, ampie e pigmentate in verde, e di diverse altre serie più profonde ad elementi schiacciati e bruni. V. sativa L., var. macrocarpa Moris (Bert.) — d. s. mm. 5,88 X 5,19; sup. chil. mm. 2,76 X 1; Teg. spess. u175; Malp. L 483,38; n. M. 2È00, Morfologia. — Semi bruno neri, appiattiti lungo la faccia superiore ed inferiore, nonchè lungo le due facce ortogonali alla direzione del chilario. Lisci, vellutati. Su- perf. chil. bruna con linea di commessura fra Ie due labbra chilariali quasi bianca. Tubercoli gemini poco sporgenti. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille acute, ialine fuori della linea lucida; lume cellulare ad ampolla, pressochè vuoto, con corpuscoli del Beck, carat- teristici, in numero di due o tre per ogni cellula e foggiati a pan di zucchero. Mem- brana spessa, specialmente inferiormente e rifrangente. Cellule a colonna divise da una strozzatura sensibile in una metà esterna più ispessita e con plasma verde, e in una interna, vuota e a pareti sottili. Spazi inter- cellulari sferici. Strato profondo a molte serie di elementi; i primi appiattiti e vuoti; i mediani più ampi e pure vuoti, i profondi stipati assai e colorati in gialliccio. V. sativa L., var. maculata (Presl.) — d. s. mm. 2,87; sup. chil. 1,32 X 0,42; Teg. spess. pu 122,50; Malp. 1. n.70; n. M. Si, Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, vellutati; con linea di commessura fra le due labbra chilariali quasi bianca. Micropilo visibile. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille leggermente coniche, incolori sopra la linea lucida, con pigmento bruno al di sotto. Lume cellulare piuttosto irregolare, ristretto nella parte mediana, onde fascia più chiara. Cellule a colonna in due parti: la superiore quasi cilindrica, a membrana spessa e con pigmento verde; l’inferiore più ampia. Strato profondo a parecchie serie di elementi; i più esterni più ampi e colorati in verde; i più profondi schiacciati e ricchi di pigmento bruno. V. sativa L., var. heterophylla (Presl.) — d. s. mm. 2,89; sup. chil. mm. 1,28 X 0,42; Teg. spess. u 140; Malp. 1. n.60; n. M. da Morfologia. — Semi sferici, lisci, leggermente vellutati con superf. chilariale più chiara. Anatomia. — Malpighiane terminate in punta conica e per tre quarti della loro lunghezza pigmentata in bruno, pel resto ialine. Lume cellulare più ampio alla base e quindi più ristretto fino alla sua estremità superiore. 100 GIULIA GIARDINELLI 24 Cellule a colonna con poco pigmento verde, quasi cilindriche nella parte supe- riore, più espanse e a pareti più sottili nell’inferiore. Strato profondo, nulla di notevole. V. sativa L., var. segetalis (Thuill.) — d. s. mm. 2,96; sup. chil. mm. 1,75 X 0,45; Teg. spess. 495; Malp. l. u55; n. M. Di Morfologia. — Semi sferici, neri vellutati, con superf. chilariale più chiara. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche-arrotondate, con lume cel- lulare a biscotto, in cui l’ispessimento mediano della membrana origina una fascia chiara, spiccante sul fondo pigmentato in bruno. Cellule a colonna a pareti spesse; colla parte superiore obconica, contenente pigmento verdastro, l’inferiore più espansa. Strato profondo a elementi pure a pareti spesse, sviluppato e pigmentato in ver- dastro nelle prime serie, in bruno nelle ultime. V. sativa L., var. angustifolia (L.) Reich. — d. s. mm. 3,73 X 4,03; sup. chil. mm. 2,06 X 0,42; Teg. spess. u 140; Malp. 1. u 66,66; n. M. To Morfologia. — Semi sferici o leggermente appiattiti per mutua compressione, nermalmente al chilario. Bruno neri, lisci, con superficie chilariale più chiara e mi- cropilo ben visibile. Anatomia. — Per tutto il loro quarto superiore malpighiane ialine e terminate in papille acute; nella loro parte inferiore malpighiane pigmentate in bruno, in cui spicca però, poco sopra alla base, una fascia chiara piuttosto larga, dovuta a un ispessimento della membrana. Corpuscoli del Beck poco evidenti, sotto la linea lucida. Cellule a colonna colla parte esterna obconica, contenente pigmento bruno, l’in- feriore espansa ai lati e a membrana più sottile. Spazi intercellulari sferici. Strato profondo a molte serie di elementi, i più esterni verdastri e schiacciati, i mediani ampi, i profondi ancora schiacciati e con pigmento bruno. V. lathyroides L. — d. s. mm. 1,97 X 1,90; sup. chil. mm. 0,52 X 0,32; Teg. spess. u 110, u85; Malp. 1. u 60, u 50. Morfologia. — Semi cubici, colle faccie concave, rugosi, bruno neri, con chilario più chiaro e micropilo visibile. Simili molto ai semi del L. angulatus. Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare delle ver- ruche non molto sporgenti, che distano l’una dall'altra non più della lunghezza della base. Superficie delle verruche continua per la terminazione delle singole cellule perfettamente tronca. Linea lucida ondulata; all'infuori di essa le malpighiane sono ialine, al di sotto pigmentate e il pigmento, di altezza diversa, forma una fascia pig- mentata ad altezza variabile. Cellule a colonna colla parte superiore obconica, ricca di pigmento bruno; l’in- feriore più espansa. Spazi intercellulari semi-sferici colla convessità volta all’infuori. Strato profondo a cellule, alcune a lume ampio, altre a lume stretto, poco pig- mentate. SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 101 LO [3a Sez. II. Cracca [(Riv.) Medic.]. a) OroBELLA (Presl.). V. sicula (Raf.) Guss. -- Teg. spess. u 180; Malp. 1. u 84. Malpighiane terminate in papille coniche ben distinte con linea lucida evidente, decorrente poco sotto il margine papillato. Lume cellulare in generale assai tenue, appena un poco più ampio alla base e in corrispondenza del corpuscolo del Beck, ben visibile. Tutto lo strato è ialino, eccettuato l’estremo margine papillato, che è leggermente giallastro. Cellule a colonna divise in due parti da una strozzatura marcatissima, superior- mente quasi cilindriche, inferiormente larghe in senso radiale e meno ampie. Il lume cellulare contiene abbondante pigmento bruno-verdastro. Strato profondo a numerosissime serie di elementi ben sviluppati, contenenti un po di plasma verde-chiaro. 6) AracHus (Medic.). V. Bithynica (L.) L. — d. s. mm. 4,65; sup. chil. mm. 1,82 X 0,95; Teg. spess. u 297,50; Malp. 1. p 130; n. M. oe Morfologia. — Semi sferici, bruno-neri o un poco variegati, lisci, con linea di commessura fra le due labbra chilariali, bianca. Micropilo ben evidente. Anatomia. — Malpighiane terminate in deboli papille, larghe alla base; ialine all'infuori, pigmentate in bruno sotto la linea lucida. Un ispessimento basale della membrana determina una fascia chiara. Lume cellulare rigonfiato alla base e nella parte immediatamente sottoposta alla zona incolora. Cellule a colonna obconiche superiormente e con un po’ di pigmento verde, più ampie ed espanse inferiormente. Strato profondo a molte serie di cellule, a lume ampio, eccettuate quelle più profonde, schiacciate e con un po’ di plasma granulare verdiccio. c) VICIO-CRACCA. x V. onobrychioides L. (l'esemplare viene da Brema e non è controllato) — d. s. mm. 4,5-5 di lunghezza (Harz.); sup. chil. 1/3 della circonf. (Ascherson); Teg. spess. u 192,50; Malp. 1. 490; n. M. neri Morfologia. — Semi tondeggianti o, per compressione, angolosi, bruno-scuri, mac- chiettati di nero, fino al nero cupo (per maggiori particolari vedi l’Harz.). Anatomia. — H margine dello strato malpighiano, inciso per papille conico-acute, è giallo intenso fuori della linea lucida, evidentissima. Al di sotto è verdiccio. Lume cellulare ampio maggiormente alla base e in corrispondenza dei corpuscoli del Beck, ben evidenti. Un leggiero ispessimento della membrana determina alla base una sot- tile fascia ialina. 102 GIULIA GIARDINELLI 26 Cellule a colonna colla parte superiore obconica e pigmento bruno verdastro; l’inferiore espansa, a pareti sottili e vuota. Strato profondo a elementi ampi nelle prime serie e più schiacciati nelle ultime, con pigmento verde, sparso irregolarmente. V. altissima Desf. — d. s. (semi troppo immaturi per essere misurati); sup. chil. mm. 2,21 X 0,42; Teg. spess. pu 140; Malp. 1. u 60, n 70; n. M. Ti: Morfologia. — Semi globosi, bruno neri, leggermente vellutati; con superf. chi- lariale lineare, un po’ più chiara. Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille coniche, pigmentate in bruno sotto la linea lucida e membrana spessa e linea lucida posta a !/; dell’altezza. Lume cellulare ampio alla base, poi un po’ ristretto e quindi dinuovo più largo fin sotto la linea lucida. Cellule a colonna a pareti spesse, cilindriche e con pigmento verde superiormente, più espanse inferiormente. Strato profondo a elementi molto schiacciati, all’infuori delle due o tre prime serie a elementi più sviluppati. Pigmento bruno. V. dumetorum L. — d. s. mm. 4,74; sup. chil. per lunghezza i 3/4 della cir- conf., mm. 0,7 di larghezza; Teg. spess. u 250, u 87; Malp. 1. u 96,66. Morfologia. — Semi sferici, lisci, vellutati, caratterizzati da un chilario lunghis- simo, che circonda quasi tutto il seme. Anatomia. — Membrana delle malpighiane spessa; delimitante un lume cellulare ampio alla base, ristretto nella parte mediana e di nuovo più largo superiormente, in corrispondenza del corpuscolo di Beck, ben evidente. Il pigmento è bruno. Cellule a colonna a membrana spessa, colle due metà poco ben distinte ed egual- mente espanse, e pigmento verde solo superiormente. Strato profondo colla maggior parte dei suoi elementi con granulazioni plasma- tiche verdicce. d) Ervo-CRAccA. V. pisiformis L. — d. s. mm. 4,23; sup. chil. mm. 7,1 X 0,7; Teg. spess. u 192,50; 43-52 Malp. 1. u 80; n. M. 100° Morfologia. — Semi sferici, bruni, lisci, con lunga superf. chilariale più chiara. Anatomia. — Malpighiane in papille allargate ed ottuse, citrine sopra la linea lucida, con pigmento bruno al di sotto, abbondante specialmente alla base. Lume cel- lulare perfettamente ad ampolla, più ampio alla base e molto ridotto nel resto del suo decorso. Cellule a colonna ricche di pigmento verde nella parte superiore; l’inferiore a pareti più sottili, con espansioni laterali accentuate, e vuota. Spazi intercellulari ampi e sferici. Tessuto profondo, nulla di notevole. 20 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 103 V. sylvatica L. — sup. chil. occupa i 2/3 della circonf. (Ascherson); Teg. spess. 5; 56 u120; Malp. 1. 157,5; n. M. F00 Morfologia. — Semi tondeggianti, allungati e compressi, con chilario ovale, talora lineare, abbracciante la parte anteriore della superficie superiore e talvolta tutta la parte superiore e la posteriore (Harz.). Anatomia. — Margine apicale delle malpighiane ialino e dentato per papille larghe alla base, quasi tronche. Sotto la linea lucida le cellule sono intensamente brune e a poca distanza da essa esiste una fine granulazione, formata dai corpuscoli del Beck. Lume cellulare a diametro quasi tutto eguale; appena un po’ più ampio alla base. Cellule a colonna con spazi intercellulari irregolarmente sferici, cilindriche e con plasma verdiccio superiormente, più espanse e a pareti più sottili inferiormente. Strato profondo a elementi ravvicinati, verdi i primi, bruni i più profondi. V. glauca Presl. — d. s. (semi troppo immaturi per essere misurati); sup. chil. mm. 1 X 0,42; Teg. spess. u 122,50; Malp. I. u 50; n. M. de Morfologia. — Semi globosi o compressi parallelamente al chilario, bruni, lisci. Anatomia. — Una regione delle malpighiane sovrastante la linea lucida, giallo chiara e leggermente incisa da papille acute, e una regione sottostante, brunastra. - Lume cellulare quasi tutto di egual diametro. Cellule a colonna, obconiche, a pareti spesse e molto pigmento bruno nella parte superiore, espanse ai lati nella inferiore. Strato profondo a elementi molto schiacciati e pieni di plasma verdastro. V. argentea Lap., non vidi esemplari. V. sparsiflcra Ten. (1) — d. s. mm. 3,50 X 4,26; sup. chil. mm. 3,9 X 0,9; Teg. spess. u192; Malp. 1. u 72,5; n. M. Doo: Morfologia. — Semi pressochè sferici, o più spesso ovati, bruno-chiari o bruno- scuri, macchiettati di nero. Lisci o leggermente vellutati, con chilario lungo, abbrac- ciante circa l’intera metà dell’arco maggiore del seme. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille ben distinte, larghe di base e arrotondate, intensamente giallo aranciato scure, in questo tratto sopra la linea lucida, mentre al di sotto sono pochissimo pigmentate. Lume cellulare più ampio alla base, limitato da membrana spessa, che maggiormente si ispessisce alla base, onde linea ialina brillante. Corpuscoli del Beck sferici, grossi. Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, ricca di plasma verde; l’infe- riore vuota, espansa in una specie di due alette laterali. Strato profondo a elementi ben sviluppati, con granulazioni plasmatiche verdastre. (4) L’esemplare esaminato viene da Budapest e non è controllato. 104 GIULIA GIARDINELLI 28 V. cassubica L. — d. s. mm. 4 di lunghezza (Harz.); sup. chil. mm. 2,55 X 0,50; Teg. spess. u 174,83; Malp. l. u 87,50; n. M. o Morfologia. — Semi quasi tondeggianti, compressi leggermente ai lati, a fondo dal verde cupo al grigio, macchiettati. Superf. chilariale lineare, larga. brunastra, che circonda quasi tutto il seme. Anatomia. — Malpighiane in papille distinte e coniche, con membrana spessa e lume cellulare più ampio alla base e in corrispondenza del corpuscolo del Beck. Nel suo ultimo tratto si riduce quasi nullo. Pigmento ‘abbondante, rosso bruno. Cellule a colonna obconiche nella parte superiore e con pigmento verde; con ampie espansioni laterali nell’inferiore, per cui due cellule contigue si uniscono. Spazi intercellulari irregolarmente sferici, non combaciando le cellule anche nell’estremità superiore. Tessuto profondo a 6 o 7 serie di elementi, più ampi gli esterni, più schiacciati gli interni; tutti con abbondante pigmento bruno verdastro. V. ochroleuca — Teg. spess. n 192,50; Malp. 1. n 80; n. M. i Anatomia. — Malpighiane in punta conico-ottusa. Un corpuscolo del Beck poco evidente è subito sotto la linea lucida e in sua corrispondenza il lume è un poco allargato. Poi si restringe e quindi è un poco più ampio dinuovo alla base. Plasma scarsissimo, specialmente inferiormente. Cellule a colonna divise in una parte superiore allargata all’apice e contenente plasma verdiccio, e in una inferiore, vuota, e in sezione rettangolare. Strato profondo sottile, senza nulla di notevole. V. Cracca L. — d. s. mm. 2,80; sup. chil. mm. 3,1 X 0,7; Teg. spess. u 160,90; 60 Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, con superfice chilariale più chiara e linea di commessura fra le due labbra, quasi bianca. Tubercoli gemini e micropilo non visibili. Anatomia. — Membrana delle malpighiane spessa, terminata in papille ottuse arrotondate, delimitante un lume ampio in basso, ristretto a metà e più largo in corrispondenza del grosso corpuscolo del Beck. Le sue pareti presentano ispessimenti molto convessi e pronunciati. Cellule a colonna colla metà esterna cilindrica o leggermente obconica e plasma verdiccio, l’interna molto allargata in senso radiale. Unendosi le cellule contigue solo per le estremità inferiori, ne risultano degli spazi intercellulari, a forma di una sfera, tronca verso la base delle malpighiane. Strato profondo a elementi sottili, ampi nelle prime serie, stipati nelle ultime e leggermente pigmentati in verdiccio. 29 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 105 V. Cracca L., var. tenuifolia Roth. — d. s. mm. 2,90; sup. chil. mm. 1,92 X 0,45; Teg. spess. u175; Malp. 1. #75; n. M. Cla 100° Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o bruni macchiettati in nero, lisci, con superficie chilariale un poco più chiara. Anatomia. — Margine esterno alla linea lucida inciso da papille acute e giallo chiare; malpighiane al di sotto di essa, intensamente brune. Lume cellulare gene- ralmente ampio; più rigonfio alla base e in corrispondenza del corpuscolo del Beck. Cellule a. colonna schiacciate, onde poco distinte; la loro parte superiore è meno ampia e con pigmento verde; l’inferiore molto espansa. Spazi intercellulari schiacciati e poco evidenti. Tessuto profondo, nulla di notevole. V. Cracca L., var. elegans Guss. — d. s. mm. 3,92 X 4,15; sup. chil. mm. 1,67 X 0,50; Teg. spess. u 157,50; Malp. 1. u80; n. M. SEO, Morfologia. — Semi globosi o più spesso compressi parallelamente al chilario. Bruno neri, leggermente vellutati, con superf. chilariale appena più chiara e micro- pilo ben visibile. Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille coniche, a lume cellulare quasi tutto dello stesso diametro, un poco più ampio alla base e ricchissimo di pig- mento bruno. Cellule a colonna colla parte inferiore molto alta, stretta, leggermente obconica con pigmento bruno; l’inferiore ampia ovoidale e a parete più spessa. Strato profondo cogli elementi mediani sviluppati e contenenti plasma verdastro, gli esterni e i profondi schiacciati e bruni. V. atropurpurea Desf. — d.s. mm. 4,44; sup. chil. mm. 2 X 0,45; Teg. spess. u 180,83; Malp. L u 86,66; n. M. È, Morfologia. — Semi sferici, bruni, vellutati, con micropilo e superf. chilariale bruno chiari. Anatomia. — Apice esterno delle malpighiane leggermente acuto. Pigmentazione bruno chiara sopra e sotto la linea lucida. Corpuscoli del Beck costituenti una distintissima linea brillante. Lume cellulare, piuttosto tenue, un po’ più ampio per il quarto inferiore della sua lunghezza. Cellule a colonna colla parte superiore espansa all’apice, a parete più spessa e pigmento verde; l’inferiore schiacciata ed espansa lateralmente. Spazi intercellulari sferici. Strato profondo a molte serie di elementi: schiacciati e giallo bruni i più esterni e i più interni; ampi e quasi privi di pigmento i mediani. V. villosa Roth. — d. s. mm. 3,49; sup. chil. mm. 2,22 X 0,70; Teg. spess. u157,50; 52-60 Malp. 1. 190; n. M. 100 Morfologia. — Semi perfettamente sferici, lisci, con superficie chilariale di poco più chiara. Serie II, Tox. LXII. N 106 GIULIA GIARDINELLI 30 Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille acute e gialle sopra la linea lucida. Sotto di essa corpuscolo del Beck ben distinto, posto in un rigonfia- mento del lume, che poi si restringe per riallargarsi ancora un poco alla base. Cellule a colonna identiche a quelle della V. varia. Strato profondo di molti elementi schiacciati e pigmentati in verdastro. Vr. villosa Roth., var. Pseudo-Cracca (Bert.) — d. s. mm. 2,62 X 1,80; sup. chil. mm. 1,40 X 0,37; Teg. spess. u 140; Malp. 1. n 60; n. M. Di Morfologia. — Semi globosi o leggermente compressi parallelamente al chilario. Lisci, bruno neri, con superficie chilariale più chiara quasi lineare. Anatomia. — Malpighiane terminate in punta leggermente conico-arrotondata, con linea lucida a 1/, dell’altezza, molto pigmentate sotto di essa e ispessite alla base. Lume cellulare più ampio alla base e in corrispondenza del corpuscolo di Beck. Cellule a colonna, nulla di notevole. Strato profondo a molte serie di cellule, di cui solo le più profonde poco ampie e intensamente pigmentate in bruno. V. monantha Retz., non vidi esemplari. e) CoppoLeRIA Tod.. V. multifida Valle. — d. s. mm. 4,78 X 1,96; sup. chil. mm. 1 XX 0,37; Teg. spess. 96-100 u 140; Malp. 1. u80; n. M. oo Morfologia. — Semi compressi, leuticolari, neri, vellutati, con superf. chilariale più chiara, quasi lineare e micropilo ben visibile. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille conico-acute, larghe di base, con lume cellulare ristretto per !/, della sua lunghezza; espanso in modo irregolare, di guisa che presenta un'espansione basale e un restringimento mediano, determinante una linea brillante. Sopra di questa si trova un corpuscolo del Beck, conico, evidente e immerso in plasma bruno. Cellule a colonna a membrana piuttosto sottile, fortemente ristrette nella parte mediana e a lume scarso. Spazi intercellulari, in sezione, tondeggianti. Strato profondo a poche serie di cellule compresse, di cui le più profonde ricche di plasma bruno. Sez. III. Ervum L. (Tourn.). a) EuERvuUM. V. leucantha Biv. — d. s. mm. 3,64 X 1,88 X 3,82; sup. chil. mm. 1,61 X 0,45; Teg. spess. u 192,50; Malp. l. pu 90; n. M. deo. Morfologia. — Semi tondeggianti, fortemente compressi parallelamente al chi- lario, neri, vellutati. Superf. chilariale ovata. Il SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 107 Anatomia. — Malpighiane finissime, terminate in punta arrotondata, a lume stret- tissimo regolare, con un piccolo corpuscolo di Beck sotto la linea lucida, avvolto da plasma verdiccio, che, scarso, occupa la restante parte del cavo cellulare. Cellule a colonna del tipo a clessidra. Strato profondo, nulla di notevole. V. tetrasperma (L.) Moench. — d. s. mm. 2,02; sup. chil. mm. 1,12 X 0,42; Teg. spess. 80; Malp. I. #55; n M. Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o verdi giallognoli, lisci, con superf. chi- lariale bruna. Anatomia. — Malpighiane in papille tronco-coniche, debolissime, giallo-verdastre fuori della linea lucida, incolore al di sotto; con lume più ampio alla base in cor- rispondenza del grosso corpuscolo del Beck. Cellule a colonna schiacciate, ma pur distinguibili in una parte superiore, espansa un poco all’apice e con pigmento bruno verdastro, e in una inferiore, vuota ed espansa ai lati. Strato profondo a elementi schiacciati, ricchissimi di plasma bruno verde. V. tetrasperma (L.) Moench., var. gracilis (Lois.) — d. s. mm. 1,55; sup. chil. mm. 4,25 X 0,30; Teg. spess. u 75; Malp. 1. u 60. Morfologia. — Semi sferici, bruni, lisci, con superf. chilariale poco visibile e di poco più chiara. par Anatomia. — Margine liscio per la terminazione tronca delle malpighiane, a lume più ampio alla base e gradatamente ristretto fino all’apice, e occupato da fine gra- nulazione plasmatica verdastra. Corpuscoli del Beck poco o nulla visibili. Cellule a colonna con abbondante pigmento bruno verdastro, del tipo di cellule, a pareti concave. Strato profondo a poche serie di cellule molto schiacciate con granuli di plasma verdastro. V. tetrasperma (L.) Moench., var. pubescens (L. K.) — d. s. mm. 1,76; sup. chil. mm. 0,55 X 0,30, ossia 1/10 della circonf. Morfologia. — Semi sferici, neri, lisci, con superf. chilariale un po’ più chiara. Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche, ialine al di fuori, brune sotto la linea lucida. Cavità cellulare pressochè isodiametrica, occupata verso l’apice da un corpuscolo del Beck pochissimo evidente. Cellule a colonna come le precedenti per forma; con abbondante pigmento bruno superiormente. Strato profondo a molte serie di cellule, le più esterne ampie e ricche di pig- mento, le più interne stipate e vuote. V. hirsuta (L.) S. F. Gray. — d. s. mm. 2,34; sup. chil. abbraccia 1/2 della circonf.; Teg. spess. u85; Malp. Il. u 50. Morfologia. — Semi sferici, più spesso compressi fortemente ai lati, verdastri o bruno chiari, lisci, con linea di commessura chilariale bruna e micropilo appena visibile. 108 GIULIA GIARDINELLI 32 Anatomia. — Malpighiane tronche, con lume cellulare occupato superiormente da un corpuscolo del Beck, cubico e ben visibile, e verso la parte inferiore da abbon- dante plasma bruno. Esso è abbastanza regolare e più ampio alla base. Cellule a colonna del tipo a clessidra, a membrana spessa e abbondante plasma bruno rossiccio. Strato profondo di molte cellule, con abbondante plasma bruno. Vv. disperma D. C. — d. s. mm. 3,68; sup. chil. mm. 2,11 X 0,41; Teg. spess. Ra 104 u176; Malp. 1. wu 72,5; n. M. 70: Morfologia. — Semi sferici, vellutati, bruno chiari o verdastri con macchie più scure. Linea di commessura. fra le labbra chilariali bianca. Micropilo ben visibile. Anatomia. — Malpighiane terminate in fini papille acute, a lume cellulare piut- tosto tenue, appena un po’ più ampio alla base; con una finissima granulazione del Beck a u 17,5 dall’apice. Cellule a colonna quasi cilindriche, appena un po’ espanse all’apice, nella parte superiore, ricche di pigmento bruno. L'inferiore è pressochè vuota, più schiacciata ed espansa ai lati. 6) Ervinia (L. K.). V. Ervilia (L.) W. — d. s. mm. 3,60 X 4,47; sup. chil. mm. 1 X 0,42; Teg. spess. p.92,50; Malp. 1 u50; n. M. SE2S, Morfologia. — Semi a forma caratteristica, prismatico-piramidale, bruno-chiari, lisci, con superficie chilariale più chiara e micropilo ben visibile. Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche, larghe di base, con lume cellulare dapprima gradatamente espanso sotto la linea lucida, poi assai più dilatato e dinuovo ristretto sopra la base, onde si ha una cavità superiore claviforme e una inferiore più breve. Plasma occupante tutta la cavità, salvo che l'estremità superiore, dove si trova un grosso corpuscolo del Beck. Notevole è lo spessore delle malpi- ghiane alla base. Cellule a colonna perfettamente cilindriche nella parte esterna e con qualche granulo di plasma. L’interna è, a sezione rettangolare, sviluppata specialmente in senso tangenziale, e meno in senso radiale. Spazi intercellulari pure, in sezione, ret- tangolari. Strato profondo nulla di notevole. c) Lews. [(Tourn.) Adans.]. V. Lens (L.) Coss. et Germ. — d. s. mm. 5,66 X 2,43 X 5,61; sup. chil. mm. 1,62 X 0,31; Teg. spess. 470; Malp. 1. u 37,5; n. M. Se Morfologia. — Semi bilaterali, discoidali, bruno chiari o bruno verdastri, lisci, con superfice chilariale quasi lineare. Anatomia. — Lume delle malpighiane, allargantesi gradatamente a partire dalla 10) lo) SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 109 O: ( linea lucida, e occupato superiormente da un grosso corpuscolo del Beck, tronco- conico. Nella sua parte inferiore scarsissimo plasma bruno chiaro. Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, appena espansa all’apice, a pareti ispessite e plasma verdastro; l’inferiore, in sezione rettangolare, a pareti più sottili e vuota. Strato profondo a molte cellule a membrana sottile e scarso plasma verdastro. V. Lens (L.) Coss. et Germ., var. Marschalii (Arc.) — d. s. mm. 2,83 X 1,30 X 2,83; sup. chil. mm. 0,82 X 0,42; Teg. spess. u80; Malp. 1. u 40; n. M. Toi Morfologia. — Semi lenticolari, fortemente compressi, bruni, lisci, con super- ficie chilariale quasi lineare e più chiara. Anatomia. — Linea lucida pochissimo evidente, decorrente subito sotto l’estre- mità conico appuntita dalle malpighiane. Membrana ialina, con lume iniziantesi appena al di sotto della linea lucida e gradatamente allargantesi fin verso l'estremità infe- riore, dove vi è un po’ di plasma incoloro. Grosso corpuscolo del Beck. Cellule a colonna assai più larghe che lunghe, con pigmento bruno nella metà esterna, vuote nell’interna. D’aspetto ben distinto da quello delle cellule a colonna delle altre specie; che ricorda invece quello dello strato profondo, a elementi a pareti sottili, lume ampio e pigmento bruno, salvo nelle serie mediane. V. Lenticula (Schreb.) Arc., non vidi esemplari. CHIAVE ANALITICA fondata sui caratteri anatomici del Tegumento. 1. Malpighiane di lunghezza differente e raggruppate in guisa da formare verruche sporgenti anche ad occhio nudo, o in ogni modo da rendere la superficie esterna nettamente ondulata (2). — Malpighiane tutte di lunghezza eguale o quasi, salvo nella regione chilariale; superficie dei semi liscia o vellutata, ma non verrucosa (10). 2. Linea lucida ondulata, cioè decorrente a distanza costante rispetto all’apice delle M.; verruche appena sporgenti e a base assai larga (83). — Linea lucida non ondulata, decorrente a distanza pressochè costante dalla base delle M.; verruche assai sporgenti (5). 3. Apice delle malpighiane tronco; parte situata fuori della linea lucida ialina. L. filiformis (Lam.) J. Gray. — Apice delle malpighiane appena rotondato (4). 4. Parte mediana della membrana delle M., ispessita, onde risulta una fascia me- diana più chiara. L. pannomicus (Jacq.) Garcke. — Parte mediana della membrana delle M., ispessita solo nelle cellule più lunghe, formanti le verruche, onde fascia mediana più o meno chiara. i L. heterophyUus L. — M. molto larghe e a lume molto largo. L. sylvester L. 110 GIULIA GIARDINELLI 34 5. M. in numero di Ta L. Nissolia L. 40-45 100 6. M. aventi il lume cellulare occupato da plasma (che è bruno) di lunghezza diffe- rente, onde fascia pigmentata basale ad altezza variabile (7). — M. aventi il lume cellulare occupato da plasma di lunghezza uguale, onde fascia basale pigmentata, a margini rettilinei e di altezza costante. L. hirsutus L. — M. con altezza di pigmento e disposte in modo da formare delle creste carat- — M. in numero di formanti verruche molto sporgenti (6). teristiche di questa specie. C. arietinum L. 7. Verruche ottuse, rotondate all’apice (8). — Terminazione delle verruche acuta. L. annuus L. 8. Pigmento bruno; M. tronche all’apice (9). — Pigmento rossiccio: M. terminate in punta conico-acuta. L. setifolius L. 9. Verruche sempre distanti l’una dall’altra non più della lunghezza della base di una di esse. L. angulatus L. 10. M. tronche all'apice, onde il margine risulta nettamente rettilineo, oppure roton- date, mai conico-acute (11). M. terminate in punta conico-acuta (47). M. colorate all’esterno della linea lucida (12). M. ialine all’esterno della linea lucida (24). M. finissime, in numero di più di ETA V. leucantha Biv. 100 T00. (13). 13. M. poco pigmentate al disotto della linea lucida (14). — M. molto pigmentate al disotto della linea lucida (21). 14. Colorazione rosea al disopra della linea lucida; corpuscoli del Beck ben evidenti, — M. larghe in numero meno di ma situati ad altezza un po’ diversa; spessore del tegumento superiore a 4 90; malpighiane a lume piuttosto stretto. L. grandiflorus S. et S. — M. citrine o ialine al disopra della linea lucida (15). 15. Corpuscoli del Beck evidenti; pigmento scarso in tutta la lunghezza delle M.; colorazione citrina fuori della linea lucida (16). — Corpuscoli del Beck poco evidenti; pigmento scarso e solo nella parte basale (19). 16. Corpuscoli del Beck disposti tutti alla stessa altezza; lume cellulare delle M. fortemente ristretto (17). — Corpuscoli del Beck disposti ad altezza un po’ diversa; lume cellulare grada- tamente ristretto (18). dI UY 18. 19. 20. SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 11l . Papille ottuse; ispessimenti della parete laterale delle M. molto convessi e pro- nunciati. V. Cracca L. Terminazione delle M. perfettamente tronca. L. Linnaei Rouy pp. Corpuscoli del Beck ben evidenti; terminazione delle M. ispessita, quindi linea lucida brillante; plasma e pigmento scarsi. V. sparsiflora Ten. Corpuscoli del Beck poco evidenti; terminazione delle M. non ispessita; plasma e pigmento abbondante. V. dumetorum L. Spessore totale del tegumento, inferiore a pu 100. V. tetrasperma (L.) Moench. Spessore totale del tegumento, superiore a 4100 (20). Lume cellulare delle M. assai ristretto, eguale allo spessore della membrana; espansione basale priva di plasma; strato profondo, ricco di pigmento. V. lutea L. Lume cellulare un poco più ampio; assenza di espansione basale priva di plasma. V. ochroleuca Ten. Lume cellulare ampio, a clava. V. pisiformis L. . Pigmento rossastro, assai più abbondante in prossimità della base delle M. V. cassubica L. Pigmento presso a poco egualmente diffuso in tutta la parte situata sotto la linea lucida (22). Pigmento più abbondante verso l’apice delle M. L. sazatilis (Ven.) Vis. . M. fortemente ispessite alla base (23). M . non ispessite alla base. V. elegans Guss. . M. aventi la linea lucida, situata a 1/4 dell’altezza. V. pseudo-Cracca Bert. M. colla linea lucida, situata a 1/3 dell’altezza. V. altissima Desf. . Parte basale delle M. assai ispessita, onde il complesso appare come una fascia ialina, che spicca sulla parte rimanente più o meno pigmentata (25). Parte basale delle M. non ispessita (36). . Lume delle M. pressochè regolare (26). Lume delle M. irregolare (32). . M. tronche (27). M. ottuse, rotondate, appena sporgenti (28). . Pigmento bruno, abbondante in tutto il tratto sotto la linea lucida. L. odoratus L. M. ialine o leggermente citrine sotto la linea lucida. L. niger (L.) Bernh. 32. 33. 34. S5. 38. GIULIA GIARDINELLI 36 . Spessore totale del tegumento, superiore a u 200 (29). Spessore totale del tegumento, inferiore a u200 (80). . Pigmento bruno abbondante in tutto il tratto sotto la linea lucida, che è posta subito sotto il margine esterno. V. bithynica L. Assenza assoluta di pigmento in tutto il tratto sotto la linea lucida che è posta a 1/3 dell'altezza. L. Ochrus (L.) D. C. . M. terminate in papille leggermente acute. V. Marschalii Are. M. terminate in papille ottuse arrotondate (31). . Spessore del tegumento, inferiore a u 100. V. Barbazithae (Ten.) Guss. Spessore del tegumento, superiore a u 100. L. Clymenum L. Lume con bruschi allargamenti e restringimenti (38). Lume leggermente ristretto verso la parte mediana, onde, per l’ispessimento della membrana, appare una larga fascia chiara (85). Cellule a colonna colla parte mediana cilindrica il doppio più lunga che larga. V. Faba L. Cellule a colonna molto schiacciate e poco divisibili; semi a forma piramidale; spessore del tegumento inferiore a u 100. V. Ervilia (L.) W. Cellule a colonna piuttosto corte; semi angolosi, fortemente compressi; spessore del tegumento superiore a u 100. L. sativus L. Cellule a colonna piuttosto corte; semi di forma sferica (34). Pigmento abbondante sotto la linea lucida. P. arvense L. Assenza di pigmento. P. sativum L. Numero delle M., meno di da L. sphaericus Retz. Ai). Numero delle M., più di 400° V. maculata Presl. . M. assolutamente tronche all’apice (87). M. coll’estremità appena sporgente (44). . Lume cellulare relativamente regolare, senza restringimenti nella parte me- diana (38). Lume cellulare ristretto verso la metà e irregolare (42). M. in numero superiore a 00, 100 V. Lens (L.) Coss. et Germ. 90 M. in numero inferiore a 100 (89). 43. 44. 45. 46. SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 113 . Corpuscoli del Beck, due volte più lunghi che larghi. L. luteus Peterm. Corpuscoli del Beck presso a poco cubici (40). . Cellule a colonna assai appiattite e difficilmente visibili. V. hirsuta (L.) S. F. Gray. Cellule a colonna poco alte, ma sempre visibili (41). . Semi pressochè sferici, di color giallo chiaro, di mm. 3 di diametro. L. Linnaei Rouy pp. Semi di forma ovata ben definita. L. vernus (L.) Bernh. . Pigmento assai scarso o esistente solo nella parte basale delle M., e molto fre- quentemente donante alle M. un'intensa colorazione bluastra. L. Aphaca L. Pigmento esistente alla base e all’apice del lume cellulare; nella parte mediana, per l’ispessimento della membrana, si vede una larga fascia ialina (438). Pigmento diffuso per tutta la lunghezza delle M. L. pratensis L. Lume ampio, tegumento seminale assai spesso. L. venetus (Mill.) Hall. et Whlf. Lume ristretto, tegumento sottile. L. niger (L.) Bernh. Semi frequentemente macchiati per pigmento nero, che interessa le M. nella parte situata sotto la linea lucida; onde si hanno due colorazioni, una gene- rale bruna e una nera qua e là in alcune cellule. ° V. sativa L. Semi non tali (45). Pigmento più abbondante verso la base delle M.; fascia ialina mediana assai evidente (46). Pigmento scarso in tutte le M. L. tuberosus L. Pigmento abbondante diffuso in tutte le M. V. sylvatica L. Estremità inferiore delle M. ispessita, e in tale spessore è scavata l'estrema cavità del lume, che è vuota di plasma, onde linea chiara basale. V. grandiflora Scop. M. non aventi tale carattere. V. sepium L. M. di color citrino all’infuori della linea lucida (48). M. ialine all’imfuori della linea lucida (54). M. fortemente pigmentate in bruno sotto la linea lucida (49). M. ialine o citrine sotto la linea lucida (50). . Una piccola porzione di lume cellulare, poco sopra la base, è priva di plasma, onde appare una linea chiara continua. V. melanops S. et S. Lume cellulare completamente pieno di plasma, quindi manca una linea bril- lante basale. V. glauca Presl. Serie II. Tox. LXII. ©) ti4 50. 51. 55. 56. 57. GIULIA GIARDINELLI 38 M. di color citrino o verdiccio nella zona sotto la linea lucida (51). M. ialine nella zona sotto la linea lucida. V. sicula (Raf.) Guss. Parte basale della membrana delle M., spessa assai, in modo da formare una sottile fascia ialina. V. varia Host. Membrana basale sottile, perciò la fascia ialina è pochissimo visibile (52). . Semi tipicamente sferoidali. V. villosa Roth. Semi più o meno compressi prismatici (58). . Semi di diametro inferiore a mm. 3. V. tenuifolia Roth. Semi di diametro superiore a mm. 3. V. atropurpurea Desf., V. onobrychioides L. . Corpuscoli del Beck in numero di due o tre in ciascuna cellula e foggiati a pan di zucchero. V. macrocarpa Moris. Corpuscoli del Beck solitari e prismatico-cubici (55). Pigmento abbondante in tutto il tratto situato sotto la linea lucida (56). Pigmento scarso o limitato solo alla parte basale del lume (61). Porzione estrema basale del lume cellulare delle M. vuota, perciò linea chiara basale (57). Porzione estrema basale del lume cellulare delle M. piena di plasma; nessuna linea ialina basale (58). Porzione estrema basale piena di plasma, ma una strozzatura della membrana sopra la base, determina una fascia ialina. V. pannonica Crantz. Jacq. Semi angolosi. L. Cicera L. Semi non angolosi, e in cui i tre diametri sono disuguali. L. tingitanus L. Semi pressochè sferoidali. V. hybrida L. . Lume cellulare delle M. foggiato a biscotto, onde l’ispessimento mediano della membrana dà luogo a una larga fascia chiara (59). Lume cellulare assai irregolare, con brusche dilatazioni e restringimenti (60). . Spessore totale del tegumento, superiore a u 100. V.purpurascens D. 0. Spessore totale del tegumento inferiore a pu 100. V. segetalis Thuill. . Un forte e breve restringimento della membrana determina un'evidente fascia ialina, poco sotto Ia linea lucida, che spicca sul fondo assai pigmentato. V. multifida Wallr. Un forte restringimento della membrana determina una linea ialina poco sopra la base. L. articulatus L. 39 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 115 60. Ispessimento assai meno marcato, ma più esteso, onde fascia ialina basale, un po’ più larga, ma meno evidente. V. angustifolia (L.) Reich. 61. Spessore totale del tegumento, superiore a u 200. V. narbonensis L. — Spessore totale del tegumento, inferiore a u 200 (62). ° 513 ò O LO do SR 00) 62. Pigmento scarsissimo in tutte le malpighiane; M. finissime, più di + 100° V. disperma D. C. 100 — Pigmento più abbondante; M. meno di 100° V. peregrina L. CHIAVE ANALITICA fondata prevalentemente sui caratteri morfologici esterni del seme. 1. Semi a superficie liscia lucente (2). — Semi a superficie opaca (9). — Semi a superficie verrucosa (60). 2. Semi aventi i due diametri perpendicolari all’asse del chilario presso a poco eguali; cioè cilindroidi, onde il seme risulta come un cilindro coll’asse paral- lelo al chilario (8). — Semi aventi i due diametri disuguali, onde i semi risultano lenticolari, coll’asse minore perpendicolare all’asse del chilario (6). 3. M. fortemente pigmentate in rosso bruno (4). — M. ialine o citrine (5). 4. Spessore del tegumento, superiore a u 100. L. luteus Peterm. — Spessore del tegumento, inferiore a p 100. V. pubescens Ten. 5. Lume cellulare relativamente regolare, senza restringimenti nella parte mediana. L. vernus Bernh. — Lume cellulare ristretto verso la metà e irregolare. L. niger Bernh. 6. M. perfettamente tronche, onde margine rettilineo (7). — M. appena appena sporgenti. L. saxatilis Vis. 7. Pigmento esistente specialmente nella parte basale, e spesso determinante in tutte o in parte delle cellule un’intensa colorazione bluastra. L. Aphaca L. — Pigmento diffuso in tutta o quasi la lunghezza delle M. (8). 8. Pigmento diffuso per tutta la lunghezza delle M. L. pratensis L. — Pigmento esistente alla base e all’apice del lume cellulare; nella parte mediana per l'ispessimento della membrana si ha una larga fascia ialina. L. venetus (Mill.) Hall. et Whif. 116 22. GIULIA GIARDINELLI 40 Semi a contorno irregolare, angoloso, mai lenticolare o sferoidale (10). Semi a contorno sferoidale, cilindroide o lenticolare (14). . Chilario nero grandissimo. V. Faba L. Chilario piccolo ristretto (11). . Semi piccoli (meno di mm. 3 di diametro). i L. sphaericus Retz. Semi grandi (più di mm. 3 di diametro) (12). . Lume cellulare con bruschi allargamenti e restringimenti. L. sativus L. Lume cellulare senza bruschi allargamenti e restringimenti (138). . Spessore del tegumento, superiore a u 100. L. Cicera L. Spessore del tegumento, inferiore a u 100. V. Ervilia (L.) W. . Semi decisamente sferoidali (15). Semi più o meno lenticolari, cioè simmetrici secondo il piano passante pel chi- lario, oppure compressi secondo un piano perpendicolare all’asse del chilario (26). . Semi grandi (più di mm. 4 di diametro) (16). Semi di grandezza media (tra mm. 4 e mm. 2) (21). Semi piccoli (meno di mm. 2) (25). . Superficie chilariale larga, ovale (17). Superficie chilariale lineare stretta (20). Superficie chilariale lineare lunghissima. V. dumetorum L. . Cellule a colonna colla parte mediana cilindrica ben visibile e il doppio più lunga che larga. V. narbonensis L. Cellule a colonna colla parte mediana non cilindrica poco visibile (18). . Spessore totale del tegumento, superiore a u 200. V. bithynica L. Spessore totale del tegumento inferiore a u200 (19). . M. perfettamente tronche, ialine nel tratto sotto la linea lucida. P. sativum L. M. appena sporgenti in papille a base assai larga; pigmento bruno, special- mente nel tratto mediano. P. arvense L. . Linea lucida situata a 1/3 delle M. L. Ochrus (L.) D. C. Linea lucida subito sotto la superficie. L. odoratus L. . Chilario lineare (22). Chilario ovato. V. disperma D. C. pp. M. perfettamente tronche. L. Linnaci Rouy. M. terminate in papille ben visibili (28). 41 29. 30. 31. SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 117 . Papille conico-acute (24). Papille ottuse-rotondate. V. heterophyUWla Presl. pp. . M. citrine fuori della linea lucida. V. villosa Roth. M. ialine fuori della linea lucida. V. segetalis Thuill. pp. . M. perfettamente tronche. V. gracilis Loiss. M. leggermente papillate. V. tetrasperma (L.) Moench. . Semi a superficie chilariale lineare, in cui i margini di essa sono fra loro pa- ralleli (27). Semi a superficie chilariale ovata, o in cui i margini di essa decorrono per bre- vissimo tratto paralleli (49). . Semi in cui la superficie chilariale occupa almeno metà della circonferenza (28). Semi in cui la superficie chilariale occupa meno della metà della circonferenza (32). . Semi discoidei, in cui i due diametri sono sub-eguali e prevalgono molto sul terzo diametro. È V. grandiflora Scop. Semi non discoidei, in cui i tre diametri sono di lunghezza assai diversa (29). Semi sub-sferoidali (80). Porzione estrema basale del lume delle M. vuota, onde linea basale chiara do- vuta alla mancanza di plasma. L. tingitanus L. Pigmento scarso e limitato solo alla parte basale del lume. V. peregrina L. Spessore del tegumento superiore a u 200. V. sepium L. Spessore del tegumento inferiore a u 200 (31). Spessore del tegumento inferiore a pu 100. M. intensamente pigmentate in bruno. V. sylvatica L. Spessore del tegumento superiore a pu 100; M. ialine o citrine. V. pisiformis L. . Semi in cui il chilario è più o almeno sei volte il suo diametro (38). x Semi in cui il chilario è meno di quattro volte il suo diametro (46). . Semi grandi (più di mm. 3) (84). Semi piccoli (meno di mm. 3) (43). . Numero delle M. più di 190, V. disperma D. C. pp. Numero delle M. meno di 190 (35). 100 118 GIULIA GIARDINELLI 42 35. Pigmento nero nelle M., onde queste restano tipicamente macchiate. V. sativa L. — - Assenza di pigmento nero (36). 86. Corpuscoli del Beck in numero di due o tre in ciascuna cellula e foggiati a pan di zucchero. V. macrocarpa Moris. — Corpuscoli del Beck isolati e prismatico-cubici (37). 37. M. ialine fuori della linea lucida (88). — M. citrine fuori della linea lucida (40). 838. Spessore del tegumento, superiore a u 100 (89). — Spessore del tegumento inferiore a u 100. V. Lens (L.) Coss. et Germ. 39. Membrana basale delle M. fortemente ispessita, onde fascia basale molto larga. L. Clymenum L. — Membrana basale delle M. non ispessita, oppure così leggermente da dare una fascia basale sottilissima. V. heterophylla Presl. pp. 40. M. terminate in papille ottuse-rotondate (41). — M. in papille conico-acute (42). 41. M. ispessite alla base, onde linea lucida brillante. V. sparsiflora Ten. — M. non ispessite alla base; ispessimenti della loro parete laterale molto con- vessi e pronunciati. V. Cracca L. 42. Semi di diametro inferiore a mm. 3. — Semi di diametro superiore a mm. 3. V. tenuifolia Roth., V. atropurpurea Desf., V. onobrychioides L. 43. M. perfettamente tronche, onde il margine risulta perfettamente rettilineo. V. hirsuta S. F. Gray. — M. leggermente papillate (44). 44. M. fortemente ispessite alla base, onde si ha una sottile fascia ialina, che spicca nel complesso intensamente pigmentato. V. altissima Desf. — M. non ispessite (45). 45. Lume leggermente ristretto verso la parte mediana, onde per l’ispessimento appare una larga fascia ialina. V. maculata Presl. — Assenza, o quasi, di fascia chiara; pigmento scarso e limitato alla parte basale delle M. V. ochroleuca Ten. 46. Semi a forma lenticolare. V. Marschalii Arc. —. Semi non lenticolari (47). SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. . M. ialine all’esterno della linea lucida. V. segetalis Thuill. M. colorate all’esterno della linea lucida (48). . M. grosse e brunicce. V. pseudo-Cracca Bert. M. finissime e citrine. V. glauca Presl. . Semi sub-sferoidali (50). Semi cilindroidi (59). . M. ialine all’esterno della linea lucida (51). M. colorate all’esterno della linea lucida (56). 119 . Parte basale delle M. spessa, in modo da formare una fascia ialina, che spieca sul fondo pigmentato (52). Parte basale delle M. non ispessita (53). . Un forte restringimento della membrana determina una linea chiara poco sopra la base. L. articulatus L. Assenza assoluta della linea chiara sopra la base. V. varia Host. . Spessore del tegumento, superiore a 4200 (54). Spessore del tegumento inferiore a u 200. V. elegans Guss. . M. ialine sotto la linea lucida. V. spuria Raf. M. pigmentate sotto la linea lucida (55). . Numero delle papille 222°, L. grandiflorus S. et S. Numero delle papille più di i V. cassubica L. . M. finissime, in numero di circa do V. leucantha Biv. M. grosse, meno di di (57) . M. ispessite alla base, onde fascia chiara basale (58). M. non ispessite alla base e presentanti un’espansione priva di plasma. V. lutea L. . Fascia basale larga ben evidente. V. pannonica Crantz., V. purpurascens D. ©. Fascia chiara meno evidente, ma più estesa. V. angustifolia (L.) Reich. . M. tronche. L. filiformis (Lam.) J. Gray. M. appena sporgenti. L. tuberosus L. 120 GIULIA GIARDINELLI dd 60. Superficie chilariale lunghissima lineare (61). — Superficie chilariale larga ovata (62). 61. Semi cilindroidi. L. heterophyllus L. — Semi sferoidali globosi. L. sylvester L. — Semi angolosi. L. angulatus L. 62. M. col lume cellulare occupato da plasma di lunghezza uguale, onde risulta una fascia pigmentata a margini rettilinei e di altezza costante (63). — Fascia basale pigmentata, formata da plasma di lunghezza differente, onde di altezza variabile (66). 63. M. orientate in modo da formare delle creste. C. arietinum L. — M. formanti solo delle verruche (64). 64. Semi angolosi. V. lathyroides L. — Semi sub-sferoidali (65). 65. Semi di diametro superiore a mm. 3. L. hirsutus L. — Semi di diametro inferiore a mm. 3. L. Nissolia L. 66. Terminazione delle verruche acuta. L. annuus L. — Terminazione delle M. conico-acuta. L. setifolius L. La struttura dei tegumenti seminali e le affinità sistematiche. I numerosi caratteri rilevati nell'esame dei tegumenti seminali delle Vicioidee, e in parte utilizzati nelle chiavi analitiche riportate, si prestano a risolvere uno dei quesiti, che mi ero proposta nell’inizio di queste ricerche, di verificare cioè, se e in quanto l’affinità sistematica delle diverse specie, coincidesse coll’affinità morfologica e strutturale dei semi. L’assoluta mancanza di caratteri distintivi, tra i diversi generi delle tribù, lasciava già presumere, che nei gruppi sistematici minori sarebbe stato assai difficile trovare delle distinzioni nette, e la seriazione del caratteri utilizzati, fra le chiavi analitiche, mostra quanto siano state fondate queste presunzioni (1). Nelle chiavi, noi vediamo così delle specie, sistematicamente assai affini, situate a distanza notevole, e viceversa troviamo vicine specie o addirittura generi ben distinti. Tuttavia le diverse sottosezioni, nelle quali si suddividono i due più importanti generi, comprendono delle specie, nelle quali i semi mostrano una certa affinità nella loro struttura. Mi limiterò a brevi cenni sopra queste affinità e differenze. (1) Per la sistematica delle specie del sruppo delle Vicioidee, io ho seguito: A. Frorr, G. PAoLETTI A. BeGuinor, Flora analitica d’Italia, Vol. II Vicioidee, pag. 98-122, Padova 1900-1902 e AscHeRrsoNn u. GraeBNnER, Synopsis der Mitteleuropdischen Flora, BA. VI, 1900. 45 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 121 Viciae. Le due specie italiane della Sottosez. Faba (V. Fabda L., V. narbonensis L.) sono affatto differenti per caratteri, del resto, assai facili a rilevarsi. Pure profonde differenze si osservano nella Sez. Protovicia: la V. lathyroides L., costituisce un tipo a sè, per le dimensioni del seme, per le verruche che ne ornano il tegumento, per lo spessore di questo, per la forma delle Malpighiane. La V. sepium L., V. peregrina L., V. sativa L. hanno una struttura delle malpighiane differente, ma relativamente affine per la conformazione più o meno spiccatamente ad ampolla del lume di esse; irregolarissimo è il lume delle malpighiane nella V. hybrida L., ciò che la distingue da tutte le altre. Affini fra loro sono invece la V. pannonica Crantz. Jacq. e la V. melanops S. et S., nelle quali il lume delle malpighiane presenta una espansione brusca a circa !/3 della base, mentre al di sopra di questa la membrana sì ispessisce, onde nella sezione del tegumento risulta una linea ialina a !/3 dalla base, sottoposta ad un’ampia fascia ialina a metà altezza. Una maggiore affinità hanno le specie della sez. Cracca; di questa la V. B:- thynica (L.) L., che costituisce del resto una sotto-sez. a sè, si distingue pel margine esterno perfettamente ialino; tutte le altre, siano della sottosez. Vicio-Cracca, che Ervo-Cracca, hanno questo margine colorato in giallo. Notevole è un'ampia espan- sione del lume, che si osserva alla base delle malpighiane della V. onobrychioides L. e della V. altissima Desf. e che manca nelle altre. Pressochè nulla è l'affinità tra le diverse specie della sez. Ervum, salvo il carattere comune dello scarso sviluppo in altezza delle cellule a colonna, ciò che le rende poco visibili; tale carattere però manca nell'Erv. hirsutum L. S. F. Gray. Lathyrus. In questo genere la presenza delle verruche del tegumento, pur così costante per forma e per struttura nelle diverse specie, non è propria di alcune sezioni, ma la osserviamo nella sez. Nissolia, in due specie della sez. Cicercula (L. hirsutus L., L. annuus L.) e in altre due della sez. Orobastrum: L. setifolius L. e L. angulatus L. Di un certo interesse sarebbe la presenza di un forte ispessimento della parte basale delle malpighiane, che determina nelle sezioni trasversali l'apparire di una linea ialina, appena al di sopra delle cellule a colonna; tale presenza è costante nella sez. Clymenum e Cicercula, ma già nella sez. Eulathyrus troviamo che delle due specie, L. sylvester L. e L. tuberosus L., la prima non presenta questi ispessimenti. Nella sez. Orobastrum è notevole la regolare conformazione del lume delle malpi- ghiane, nel quale cioè non si verificano mai delle variazioni molto importanti del diametro trasverso; la stessa affinità si osserva pure nella sez. Orobus. Nè minori sono le discordanze, talvolta assai spiccate, che si osservano tra specie e varietà, o tra varietà di una medesima specie. Per dare degli esempi, accennerò alle differenze notevoli, che esistono tra la V. grandiflora Scop. e la V. Barbazitae (Ten. et Guss.), tra la V. spuria Raf. e la V. hybrida L., tra la V. villosa Roth. e la V. pseudo-Cracca Bert., tra la V. pu- Serre II. Tox. LXII. i P 122 GIULIA GIARDINELLI 46 bescens (LK) e la V. tetrasperma (L.) Moench. Per vero dire queste specie sono con- siderate solo da alcuni autori come l’una varietà dell’altra; mentre queste differenze così spiccate verrebbero a dar ragione a quelli, che le considerano come specie distinte. Tuttavia non resta meno sorprendente il fatto, che anche tra specie, delle quali i caratteri della pianta sono così affini da dar luogo a discussione nel loro valore sistematico, si verifichi così scarsa analogia fra i tegumenti seminali. Nel gruppo della V. sativa L. le differenze fra le varietà sono pure assai profonde. Piuttosto affini sono invece la V. Lens (L.) Coss. et Germ. e la V. Marschalii Arc. per il carattere comune, raro nelle altre specie, della sottigliezza della membrana delle malpighiane appena al di sopra della base; così pure sono affini la V. Cracca L. e la fenuifolia (Roth.) per la regolarità e l'ampiezza del lume cellulare. Nel gen. Lathyrus, la struttura del tegumento coincide colla posizione siste: matica nelle specie seguenti: L. articulatus L. e L. Clymenum L.; L. Cicera L. e L. sativus L.; L. sylvester L. e L. latifolius (L.); sono all'incontro ben distinti il L. Linnaei Rouy e il L. tenuifolius Cess. Pass. et Gib.; il L. vernus (L.) Bernh. e il L. gracilis Lois. Questa forte discordanza che si osserva nella struttura dei tegumenti seminali di un gruppo, del resto così omogeneo, di piante, mi ha indotto a domandarmi se, per avventura, più che la discendenza comune, non avesse valore per queste specie l’influenza dell'ambiente, nel quale questi tegumenti seminali debbono compiere la loro funzione. Molte ricerche sono state fatte sopra il valore difensivo dei tegumenti seminali; ne ricordo due, che riguardano un numero grandissimo di specie, quelle del Marloth e del Gola (1). Ma affatto uniforme è la protezione meccanica offerta dal tegumento delle Vicioidee, e quanto alla protezione fisico-chimica’, le ricerche di Gola hanno dimo- strato appunto che i semi delle Leguminose, in generale, sono quelli che meno di ogni altro sono protetti a questo riguardo. Allo stato attuale delle nostre condizioni, non è quindi possibile spiegare in alcun modo le discordanze sulla forma e struttura dei tegumenti seminali delle Vicioidee. Tali conclusioni riescono perciò affatto contrarie all’ indirizzo che si è tentato di seguire in un lavoro recente del Ritter (2), il quale cerca di studiare i rapporti tra posizione sistematica e struttura dei tegumenti carpellari e seminali; se le sue constatazioni sono esatte, per quanto riguarda le Papilionacee, quando cerca di dif- ferenziare le diverse famiglie le une dalle altre, esse mi sembrano assai poco fon- date, quando procede alla distinzione dei gruppi minori. (4) Martora R., Veber mechanische Schiitemittel der Samen gegen schàdtliche Einfliisse von aussen. “ Bot. Jahrbiicher f. Sys. Pflanzenges. u. Pflanzengeorg. ,, Bd. IV, 1883, pag. 225. GoLa G., Ricerche sui rapporti tra i tegumenti seminali e le soluzioni saline: © Annali di Botanica ,, IU, 1905, pag. 59. (€) Rirrer, Die systematische Verwertbarkeit des anatomischen Baues von Friichten und Samen, © Beihefte z. Bot. centr. ,, Bd. XXVI, Abt. II, 1909, pag. 132. 47 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 125 Così nel citato lavoro, a p. 148-149, trovo che non ascrive nessuna vicioidea al gruppo: a) che comprende i semi a superficie esterna liscia, e ricorda invece i gen. Vicia e Lathyrus, nel gruppo d) comprendente specie a superficie esterna con ineguaglianze. Ora basta ricordare il L. Aphaca L. o pratensis L., che hanno la superficie addirittura lucente, per convincersi che il carattere della superficie esterna è di poco valore; così i due generi Vicia e Lathyrus sono distinti da lui per la lunghezza delle malpighiane, eguale nelle Viciae, differente nei Lathyrus. È bensì vero che l’Autore indica come esempi la V. pyrenaica e il L. luteus e ne indica espressamente i caratteri citati come propri del genere; ma il fatto di riportare a proposito di ogni suddivisione delle due chiavi analitiche una o più specie di un solo genere, lascia pensare che egli ritenga i caratteri da lui indicati come propri del genere. E non saprei come conchiudere queste ricerche altrimenti che colle parole di Jannicke (*), al termine di un suo lavoro sulla sistemazione anatomica delle Papi- lionacee: “ Noi troviamo così, che nella struttura anatomica, anche tra specie assai affini, si trovano delle differenze, il cui maggiore o minor valore rende possibile un aggruppamento, cioè il collocamento di gruppi piccoli o grandi in gruppi di mag- giore o minore affinità. Tuttavia non è detto con ciò, che tale aggruppamento coin- cida con quello sistematico, e d’altra parte non è ancora stabilito che alcune suddi- visioni sistematiche abbiano una determinata struttura. “ Fim dove si verifichi una tale coincidenza, noi non possiamo prevedere in nessun caso: l'osservazione deve indicarcelo caso per caso. Parimenti noi siamo in grado di dire qualche cosa di più, cioè fin dove e come si verifichi tale coincidenza, ma non più, perchè una tale coincidenza si verifica apparentemente senza regola ,. Torino, R. Orto Botanico, Gennaio 1911. (1) Jannicge W., in Wicanp A., Botanische Hefte, Marburg, 85, pag. 80. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. V. Cracca L. Sezione trasversale del tegumento seminale; obb. C, oc. 8. . L. Ochrus L. Sez. trasvers. id. id.; obb. E, oc. 4. . L. Aphaca L. Sez. trasvers. id. id.; obb. E, oc. 4. V. angustifolia L. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. . L. tingitanus L. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. V. pannonica Crantz. Sez. trasvers. id. id.; obb. ©, oc. 8. . L. sphaericus Retz. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. . L. articulatus L. Sez. trasvers. id. id.; obb. E, oc. 4. . L. Nissolia L. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. È . Sezione schematica del tegumento seminale di una Vicioidea: M, cellule Malpighiane; L, linea lucida; B, corpuscoli del Beck; €, cellule a colonna; T'P, tessuto profondo. >, 11. L. annuus L. Sezione trasversale del tegumento seminale; obb. À, oc. 4. Ss do x O 00 =1. O) Ut Ha LOD [an (>) Le fotografie furono eseguite nel Laboratorio micro-fotografico dell’ Istituto Botanico di Torino. DE, si MIN CRI GIA e) REA lia OR Lita patologie ue ITA (fto: paia: so DNESCNI i di pas Li “ada Giulio Ù GIALLI vu vini ca cigrsant DI LAGOS i: DI cu Mea i G. GIARDINELLI - Tegumenti seminali delle Vicioidee Miemozie della RA. Acc. delle Scienze di Sozino. Serie Il. Vol, LXII, + mattia paraabaso r "epr G. Giardirelli Fot, | Off Fototecnica Ing. G. Molfese Torino IGILIO GUARESCHI - Francesco Selmi e la sua opera scientifica. Memorie della R. Accad. delle Scienze di Torino. Vol. LXII. | FRANCESCO SELMI SUA OPERA SCIENTIFICA MEMORIA DEL SOCIO ICILIO GUARESCHI Approvata nell'adunanza dell'8 Gennaio 1911. PARTE PRIMA IL Introduzione. Biografia. È A Francesco Selmi, chimico di valore grandissimo, si debbono molte ricerche importanti, e basterà che io ricordi la scoperta delle ptomaine ed i suoi studi sulle pseudosoluzioni o soluzioni colloidali, le ricerche sullo solfo, sui cristalli misti iso- morfi, sul ioduro mercurico, sulle soluzioni sovrasature, sui composti organometallici del mercurio, sull’azione dell'acido solfidrico sul gas solforoso, sulla tetravalenza del piombo, sull’azione di contatto, sulla nitrificazione, sui fermenti diastasici, sul potere riduttore dell’albumina e delle muffe, sulle patoamine e quindi sull’autointossicazione, sul sangue, sul latte, le varie ricerche chimico-tossicologiche, ecc. Discorrere di Francesco Selmi (1), dire le lodi dell'animo e dell’ingegno di que- st'uomo è còmpito elevatissimo ed anche difficile; ma tanto più volentieri soddisfo al desiderio dell'animo mio perchè la figura di Francesco Selmi è di quelle poche che il tempo rende più visibili, più belle, più conformi al vero; è una di quelle figure d'uomo e di scienziato il cui valore morale e scientifico ingrandisce col tempo. Gli elogi storici dovrebbero essere sempre scritti non prima di cinquanta o di trenta anni dopo la morte dello scienziato che vuolsi onorare. Amedeo Avogadro e Francesco Selmi oggi trovansi in queste condizioni; essendo morto il primo nel 1856 ed il secondo nel 1881. I (1) Francesco Selmi era Socio corrispondente della nostra Accademia sino dal 29 giugno 1845, quando insegnava la Chimica in Reggio Emilia; però negli Atti e Memorie dell’Accademia non ho trovato che le poche parole colle quali A. Sobrero nel 1881 volle ricordati i meriti del collega ed amico perduto (“ Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino ,, t. XVIII, p. 215). 126 ICILIO GUARESCHI DI E qui mi tornano alla memoria le belle parole del Naegeli pronunziate nel suo discorso De l’individualité dans la nature (Zirich, 1864): Nous ne pouvons nous défendre d’une certaine tristesse auprès de la tombe d’un grand homme. Quelle somme d’expérience et de savoir a été perdue pour la société humaine! Pendant toute une vie son esprit a amassé des trésors de toute sorte, que sa mort nous enlève. L'’homme d’État, l’artiste, le savant, laissent dans leurs ceuvres des monuments de leur génie, de leur activité, de leur science. Mais avec eux meurent la pénétration, l’imagination, l’énergie, le dévoument qui .ont créé ces ceuvres. Les produits restent, l’instrument disparaît. Molti anni fa io scrivevo alla egregia signora Marietta Roncagli vedova Selmi: “ Grata e cara mi è sempre la memoria del nostro Estinto, il cui nome s'ingrandisce “sempre ,. Desideravo già allora scrivere una completa biografia del caro Uomo, e ne avevo già da tempo preparato il materiale, ma volli, e dovetti anche, attendere; volli che il momento fosse propizio per far conoscere, per quanto mi è possibile, degna- mente, la vita e la multiforme opera scientifica di questo chimico geniale, che ha avuto durante la vita tante contentezze nella Famiglia, negli allievi e nell'amicizia, ma anche molte amarezze nella scienza. Egli come altri chiari ingegni del suo tempo, che tanto avevano fatto per la loro patria, come cittadino e come scienziato, non ebbe quelle ricompense, che non chiese mai, ma che avrebbe ben meritato. Appunto nel 1911, il 13 d'agosto, si compiono trenta anni dacchè questo uomo buono, geniale, coltissimo ed a cui la chimica deve tante scoperte importanti, è morto. Ed io desidero che appunto in quest'anno sia conosciuto questo mio scritto destinato alla sua memoria. Il suo nome, il suo ricordo, devono vivere non solo nell'animo dei vecchi amici, discepoli, colleghi e conoscenti, ma nella storia imparziale della scienza. Francesco Selmi è uno di quegli scienziati di gran valore che deve essere cono- sciuto anche come uomo privato e pubblico, perchè la gioventù specialmente, ha bisogno di questi stupendi esempi. Egli ha fatto molto pel proprio paese, sia come cittadino sia come scienziato. Come cittadino ha contribuito dal 1845 al 1870 al riscatto della patria sacrificando le comodità della vita. E di tutto ciò non chiese mai al Governo, direttamente o indirettamente, dei compensi, nè eccessivi e molte. plici stipendi. Soffrì l’ingratitudine di alcuni di coloro a cui aveva fatto molto bene; ma in questi casi egli era solito dare una scrollatina di spalle; ed invero il 7 aprile 1878 mi scriveva a questo proposito : uu Nella sua mi parla di persecuzioni. Non me ne meraviglio. Io, per tutta la mia vita ne soffersi. Unico rimedio è quello di non abbadarvi, o sforzarsi di non abbadarci, stringersi nelle spalle e vincere l’invidia coi lavori. Selmi fu sovratutto un uomo onesto nel più largo significato della parola; egli mai ha fatto del male, pensò sempre a fare il bene, anche a coloro che non erano della sua scuola; era in lui innato il sentimento della giustizia. È stato detto, non rammento più bene da chi, ma assai giustamente, che Francesco Selmi ebbe spesso a provare le punte avvelenate e disoneste dell'invidia e della gelosia. Ha dovuto com- battere contro dei malvagi, ma combattè sempre con armi leali; provava un vero senso di amarezza quando pensava a certe bricconate, come soleva denominare o qua- lificare il modo di comportarsi di taluni verso di lui. Non odiava mai, piuttosto 3 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 277 disprezzava. Scrivendomi il 21 aprile 1875 di un suo collega, invidioso e poco edu- cato, diceva (1): Feci molti sacrifici per mantenermigli amico, ma in fine mi accorsi che tornava lo stesso come insaponare la coda all’asino. 11 senso della giustizia per la memoria dei nostri grandi che non sono più viene talora in ritardo, ma oggi ci sentiamo orgogliosi pensando che le ricerche e le idee del Selmi su svariati argomenti di chimica fisica, di chimica inorganica, di chimica tossicologica, di chimica biologica, ecc., sono state non solo confermate, ma genera- lizzate, e costituiscono dei grandi nuovi capitoli della scienza. Egli era giusto estimatore dei lavori altrui; nei suoi libri non dimenticava mai le ricerche dei chimici italiani, anche suoi contemporanei, e ricorda spesso Malaguti, Bizio, Piria, Ruspini, L. Bonaparte, Sobrero, ecc., e non dimenticava nemmeno i più giovani chimici allievi dei suoi colleghi, quale Bertagnini. Hanno fatto altrettanto alcuni dei suoi contemporanei, che scrissero di chimica? No. Sempre cortese, moderato nella polemica, se vi era trascinato ; sempre con garbo accenna talora alla priorità dei suoi lavori quando avveniva che altri facessero ricerche od osservazioni identiche alle sue. Kra modesto, umile anche, ma dignitosamente; era di quei pochi uomini che temono sempre di non sapere abbastanza e mentre lodano gli amici ed i colleghi, credono di sapere poco. Povero Selmi, sotto certi riguardi assomigliava alla mia Maria, ch'Egli conobbe solamente bambina! E di Lui posso dire coscienziosamente, come già scrissi della indimenticabile mia Maria: Tenace, saldo, fedele era nell’amicizia; avrebbe volentieri sacrificato sè stesso per i suoi amici: mai albergò in quell’anima nobile il benchè minimo sentimento di gelosia, di invidia; Egli amava l'amicizia del cuore, profonda, non l’apparenza. Al suo sapere, alle sue virtù non cercò compensi nelle laudi del mondo e visse essenzialmente per la scienza e per la famiglia, quando la patria non aveva più bisogno di lui. Tutto deve all’elevato suo ingegno ed al suo lavoro. Era alieno dagli applausi del gran pubblico, e non ha mai fatto discorsi o con- ferenze in cui continuamente e ripetutamente ricordasse le proprie ricerche o qualche altra sua benemerenza verso la scienza. Ha fatto delle ricerche numerose ed impor- tanti in quei campi della scienza in cui poteva lavorare senza aver avuto, come si direbbe oggi, un indirizzo; non era di quelli che lavoravano secondo il così detto metodo! Ma aveva l’ingegno e con questo poteva produrre, creare, senza bisogno dell'appoggio di altri. (1) Augusto Laurent in un momento di sfiducia, ed esacerbato dalle ingiustizie e dalla malva- gità umana, scrisse, non rammento bene in quale parte delle sue opere, queste parole: “ Si, le “ matin, on enfermait deux chimistes, le soir on n’en retrouverait que les extrémités, tant ils “ auraient mis de férocité è s’entredévorer ,. Ma bisogna dirlo subito, Selmi non era fra questi chimici; rare volte gli sfuggiva qualche parola amara per qualcuno de’ suoi pochi, ma accaniti, nemici; l’8 giugno 1879 mi scriveva: € .....X. ha due odii in cuore; uno, feroce, contro dello ..... ; un altro, felino, contro di me. “ Posso dire però che mi odia perchè in altri tempi gli fui di giovamento ed è il solo che mi onori “ della sua avversione in compagnia del X”.....,. 128 ICILIO GUARESCHI 4 A Selmi mancava l’arditezza, mancava l’audacia nell'affermare e più ancora nel far valere le sue idee; aveva non molte doti per vincere nella lotta per la vita. Era troppo modesto, come già dissi; ed era modestia vera, non ostentata. Qui, ha un punto di contatto con Avogadro. Profondo conoscitore degli uomini, sapeva tollerarne i difetti, sino a quando erano nei limiti dell’onesto; non era passionale, non impulsivo, e nei suoi giudizii dimostrava sempre quella imparzialità e serenità che è propria del- l’uomo coscienziosamente giusto e di mente elevata. Io che l’ho conosciuto intimamente posso dire tutto ciò con sicurezza anche dopo un trentennio dalla sua morte (1). Vittorio Bersezio conobbe personalmente Francesco Selmi e di lui scrive (2): Modesto, rifuggente da ogni ostentazione, non avido di onori, d’aspetto quasi timido, di poche parole, ma preciso nell’esprimersi, arguto nel conversare, non facendo mai pompa del suo sapere, ma lasciandolo apparire all’occorrenza per un motto, una risposta, un’osservazione, fermo e coraggioso nelle sue opinioni, tollerante delle altrui, lavoratore zelante e instancabile. Francesco Selmi fu amatissimo a Torino, ed Egli la città che l’ospitava e lo onorava, amò quasi come la sua natia. La baronessa Olimpia Savio nelle sue Memorie (3) così scrive di Francesco Selmi: Uomo raro, di gran cuore, di grandi studi, di grande carattere; i cui criteri s’ impronta- vano a quella schietta, ingenua lealtà dei cuori semplici che non hanno transazioni col giusto e col vero; anima candida, limpida, credente, divisa fra l’amore dello studio e quello della famiglia. Era credente, religioso, ma senza esagerazione, nè ostentazione; vedeva nella religione qualche cosa di puro, di elevato, che non è nel comune degli uomini. To avevo opinioni mie diverse dalle sue e sino dai primi anni spesso, o nel laboratorio, o a casa, o per istrada ci intrattenevamo in lunghi conversari relativamente a que- stioni religiose. Avrebbe desiderato che io fossi più vicino alle sue idee, mi faceva anche qualche predica, ma tutto finiva lì; egli era molto tollerante. Parlava con sommo rispetto di Lutero, di Calvino, di Savonarola, di tutti i più grandi riformatori, Egli, che era cattolico! Mai di quelle parole insultanti verso chi ha una religione diversa dalla propria. Ma era di idee larghe; egli credeva, ad esempio, che si possa essere religioso senza ammettere la cosidetta forza vitale. Nella mia commemorazione di Marcelin Berthelot dissi, ed ora amo ripetere: (1) Selmi era amicissimo di mio cugino il prof. Francesco Scaramuzza, celebre pittore, e com- mentatore di Dante; i diseoni a penna della Divina Commedia ideati ed eseguiti dallo Scaramuzza, sono opera notevolissima. Io quando da Parma, dopo il secondo anno di Università, andai nel 1868 a studiare a Bologna feci la conoscenza del Selmi per mezzo dello Scaramuzza; a questo caro uomo dunque debbo la fortuna di avere poi intimamente conosciuto il nostro chimico. (2) IZ Regno di Vittorio Emanuele TI. — Trent'anni di vita italiana. Torino, 1892, vol. II, p. 101. (3) Rare. Ricci, Memorie della baronessa Olimpia Savio. Milano, 1911, t.I, p. 116. Nella nota a pag. 115 è detto che Selmi nacque nel 1827, leggasi invece 1817. La signora Savio discorre poi del Selmi come scienziato e qui mi permetterò una osservazione: non è conforme al vero il dire che Selmi per comprovare o no la velenosità delle materie putre- : fatte, contenenti le ptomaine, adoperava quale mezzo indispensabile di riconoscimento la degusta- zione. Sono di quegli errori che possono provenire da una non esatta interpretazione di qualche frase sfuggita scherzando nel conversare, perchè in realtà, una volta estratto l’alcaloide puro, si può farne il saggio organolettico; ma non sulle materie putrefatte. 5 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 129 Io ho imparato ad esser tollerante, quasi eccessivamente, da un mio maestro che aveva opinioni molto diverse dalle mie, Francesco Selmi; ho ammirato in lui, forse più che la chi- mica, questo ed altri sentimenti elevati dei quali anch'io mi onoro; sentimenti che valgono ben più della scoperta di qualche nuovo composto chimico o di qualche teoria più o meno effimera. Anche in politica era un vero carattere (1). L’animo nobile di questo uomo si manifestò in molte occasioni; voglio ricordare ancora questa. Il suo amico Nie. Bianchi quando era segretario generale del Mini- stero dell'Istruzione Pubblica nel 1864-65 voleva obbligare Celestino Cavedoni di Modena a prestare giuramento al nuovo governo italiano; il Selmi, quando seppe che si voleva costringere quest'uomo ad abbandonare gli studi o a giurare fedeltà, scrisse questa bellissima lettera all’amico suo (2): Caro Bianchi, Da Modena viene la notizia che vuoi costringere D. Celestino Cavedoni al giuramento. È un grande, imperdonabile errore. È una macchia incancellabile al tuo nome. Farini volle che restasse, senza domandargli il giuramento, e volle anzi ch'io l’officiassi perchè accettasse la Presidenza della Deputazione di Storia patria. Farini intese con questo di aver dal Cavedoni il tacito consenso all’ordine nuovo di cose. Cavedoni accettò e tutto fu finito. Se tu non rispetti una delle prime glorie italiane viventi, come Napoleone fece per Arago, ti dico che hai perduto il buon senso. Addio. Il tuo affez. SELMI. Dopo questa lettera, al Cavedoni non fu più chiesto il giuramento. In ogni occasione Egli pensava più al proprio paese che non a sè stesso (3). (1) In una lettera al Terrachini in data: Torino, 2 marzo 1859, dopo aver discorso della Società Nazionale, Selmi scriveva: “ Armi e denari sono a mia disposizione per quando occorrerà da farvi tenere. “ Circa al partito che non acconsente a queste idee fa d’uopo separarsene assolutamente, se “ egli non vuol essere con noi. Non avversatelo; rispettate le convinzioni, giacchè qualsivoglia con- © vinzione, quando sia di gente onesta, merita rispetto; e raccomandate ai nostri di evitare parole © pungenti, scissure ed altro simile ,. E poco dopo: “ Mandate giovani ad arruolarsi. Questo eser- “ cita buona impressione ed anima il popolo e l’esercito piemontese. D'altra parte Cavour ha bisogno © di questo fatto per dimostrare che gli Italiani sono maturi. Si apre la sottoscrizione per il prestito “ Hbero a tutti gli Italiani. Fate che molti sottoscrivano ,. (2) Trovasi nell’opuscolo: Esuli estensi in Piemonte dal 1848 al 1859, di G. Srorza, Modena, 1908, pag. 103. . (8) Bellissima è la lettera che scriveva alla moglie il 14 maggio 1865 da Firenze in occasione del centenario -dantesco: © Oggi fu il primo giorno della festa, la quale fu bellissima e di grande commossione. Tutta “ l'Italia era rappresentata ne’ suoi uomini di lettere e dai più reputati cittadini de’ diversi paesi, “ convenuti dall’un capo all’altro. Quando, raccolti nella piazza di S. Spirito, ci incontravamo, e ci “ riconoscevamo di tante provincie poc'anzi separate ed ora congiunte, spuntavano le lagrime agli “ occhi. Sflammo in lunga processione con bandiere, gonfaloni, bande musicali. Vi erano anche dei “ frati capuccini colla bandiera tricolore su cui scritto: Roma capitale d’Italia. Furono molto applau- “ diti, così fu applaudito molto il Municipio di Torino. Andammo a far capo tutti in piazza di “ Santa Croce. Venne il Re, e lo si vide visibilmente commosso dallo spettacolo di tanti italiani. © Si fece la funzione, si scoperse la statua di Dante, la quale riuscì più bella di quanto si aspet- Serie II, Tox. LXII. e 130 ICILIO GUARESCHI 6 È bene che la storia tenga nella dovuta considerazione anche il carattere e la vita privata dello scienziato; tanto più che nel caso di Selmi si aveva, insieme ad una grande bontà ed onestà, un sapere elevatissimo. Dobbiamo inchinarci reverenti alla memoria di quest'uomo che proprio può dirsi senza macchia. Francesco Selmi nacque il 7 aprile 1817 in Vignola presso Modena e ivi morì il 13 agosto 1881. Suoi genitori furono Spirito Selmi e Domenica Cervi. Ebbe una infanzia, scrive il Cantù (1), stentata e malescia sino a dodici anni; a 13 anni aveva già composti dei versi. Fece i suoi primi studi presso un ottimo zio arciprete di Vignola e parte nelle scuole dei Gesuiti di Modena; poi studiò molto più da sè stesso e, dedicatosi alle scienze naturali, fu licenziato maestro in farmacia a circa venti anni. Egli ebbe precoce inclinazione per la chimica ed ancor giovane volgeva la mente verso i più difficili problemi. Dopo circa tre anni lasciò la pratica farmaceutica e il duca Francesco IV lo mandò aggiunto a Carlo Merosi che era professore di chimica nel Liceo di Reggio Emilia. Dopo un anno morì il vecchio Merosi, che tanto amava il Selmi, e questi lo supplì nella cattedra e poi fu nominato titolare (2). Stette in quel posto sino agli avvenimenti politici del 1847-48, in seguito ai quali fu costretto ad esulare in Pie- monte e si fissò in Torino, ove stette sino al 1867. Il primo giornale politico che si pubblicò in Reggio Emilia fu quello diretto da Francesco Selmi, Strucchi e D. Biagi: Giornale di Reggio, che visse dal 27 marzo al 26 giugno 1848. In una sua Memoria il Selmi scriveva: Avendo durante la guerra dichiarata da Carlo Alberto all'Austria pubblicato un periodico politico in Reggio, detto Giornale di Reggio, in cui sosteneva l’unione dei Ducati col Piemonte, avendo sostenuto questa tesi in concioni pubbliche ed essendo stato tra i promotori delle liste di sottoscrizione e raccoglitore di firme, fui costretto ad entrare in Piemonte quando S. M. Sarda si ritrasse da quelle provincie (3). Alcuni scrissero che quando il Selmi nel 1848 fuggì da Reggio e riparò in Piemonte, era stato condannato a morte. Ciò non è esatto: Egli fu prima esule “ tava. Fui a vederla oggi a lungo e ne sono contento. In somma godo e non dimenticherò mai di “ aver partecipato alla presente solennità. " Vorrei che i miei figli s'ispirassero all'amore del grande Poeta ed apprendessero ad essere stu- “ diosi, pronti a qualsivoglia sacrifizio pel loro paese e per la giustizia ,. (1) Le prime notizie biografiche su Selmi si trovano in I. Cantù, L'Italia scientifica contempo- ranea, 1884, p. 115, e due parole appena in © Ann. di Maiocchi ,, 1844, XII, p. 42, che erroneamente si ricorda come sorgente biografica su Selmi. (2) La cattedra di chimica a Reggio allora era equivalente quasi a quella universitaria di Modena. Rimasto il Selmi orfano in giovane età, si assunse il carico della famiglia composta oltrechè della madre, di due sorelle e di due fratelli: Aureliano che fu poi Presidente di Corte d’appello e Antonio professore di Chimica negli Istituti tecnici. (3) Si vegga anche in E. Manzini: Memorie storiche dei Reggiani più iMustri, Reggio Emilia, 1878. 7 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 131 volontario per accorta previdenza, e fuggì, insieme a Sabatini, Rovigo, Zini e Chiesi, da Reggio la notte del 25 luglio 1848 cioè la sera stessa della sconfitta di Custoza e prima che il duca Francesco emanasse il proclama intonato a sensi di clemenza e di indulgenza. La condanna per lesa maestà era pronta pel Selmi nel febbraio 1849. L'ordine emanato dal Ministero di Buon Governo di Modena, diceva: Al sedicente Comitato dei ducati di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e Guastalla, a cui sì riferisce altra disposizione di questo Ministero, sonosi pure ascritti Luigi Chiesi e Francesco Selmi rei dessi di delitto di lesa Maestà in primo grado, al pari degli altri che già figurano nel Comitato suddetto, ed appoggiata sempre S. A. R. agli incontrastabili diritti di sua sovra- nità su questo Ducato, ha ingiunto al Ministero di Buon Governo di sottoporre li Chiesi e Selmi summentovati alle misure prescritte pei primi nel caso che azzardassero di ritornare negli Estensi Dominii, ordinando pure nel tempo medesimo che altrettanto debba avere effetto inverso quanti altri dei suoi sudditi fossero per far parte del riferito Comitato. In seguito all’amnistia concessa dal Duca, il Selmi fu invitato a tornare a Modena, ma egli rifiutò ed andava ripetendo: Se io non avessi bisogno del pane del duca, tornerei solo per far contenta mia Madre; ma giacchè dovrei vivere di quello non posso, non voglio accettare. Fu allora che il Duca, sdegnato, condannò il Selmi all’esilio con minaccia di condanna per delitto di lesa Maestà se tornava a Modena (ordine del febbraio sopra indicato). Nel 1855 gli fu proibito di vedere la madre ammalata; avrebbe otte- nuto il permesso se egli l’avesse chiesto direttamente al duca, ma il Selmi non volle a quella condizione. Invece ottenne poi dalla duchessa di Parma Maria Luisa di Borbone il permesso di rivedere in Parma la madre sua ancora ammalata, ma al col- loquio assisteva sempre un rappresentante della polizia. Il Selmi, poco dopo arrivato in Piemonte, entrò, con permesso ministeriale, nel laboratorio del Sobrero, ove potè compiere, da solo o insieme al Sobrero, alcuni lavori importanti; e con decreto 7 nov. (0, secondo altri, 1° nov.) 1848 fu nominato professore di fisica, chimica e meccanica al Collegio Nazionale di Torino, con lo sti- pendio di L. 1800; aveva 31 anni. Con decreto del settembre 1849 ottenne la citta- dinanza sarda, ma ancora prima fu riconosciuto cittadino sardo per le leggi allora vigenti, e già nelle elezioni del marzo 1849 egli potè esercitare i diritti elettorali (1). Dal 1850-55 furono pel Selmi anni di gran lavoro ed il Chiesi, nel 1855, scriveva da Torino ad un amico: “ So che il povero Selmi logora la debole salute con fatiche “ eccessive, delle quali purtroppo sarà vittima , (2). Il Selmi ebbe parte attivissima in quella Società Nazionale fondata e costituita a Torino da Giorgio Pallavicino, Manin, Cavour e La Farina (3). (1) Riguardo la naturalizzazione, in un autografo di Selmi del 1855, trovo la nota seguente: © 1849. Chiesta ed ottenuta l’espatriazione legale da Modena, fui con R. Brevetto ammesso alla ‘ Cittadinanza sarda , (2) Esuli estensi in pi Piemonte dal 1849 al 1859, di G. Sforza, Modena, 1908, p. 44. (3) Molte notizie sulla parte politica avuta dal Selmi dal 1850 al 1860, si trovano nell’opera d G. Canevazzi, Francesco Selmi patriota, letterato, scienziato, con appendice di lettere inedite, Modena, 1903, 1 vol. in-8° di pp. 266. 132 ICILIO GUARESCHI 8 La R. Accademia delle Scienze di Torino il 30 giugno 1850 assegnò il premio di L. 2500 pel concorso Pillet-Will ad un lavoro del Selmi, che aveva per titolo: Introduzione allo studio della chimica. La scheda chiusa portava per motto: “ Vai cherché à rendre la lecture de mon livre aussi agréable que le comportait la nature des objets sur lesquels il roule ,. Parole di Berzelius (1). Il 14 settembre 1854 il Comitato presieduto da Camillo Cavour, nominava Selmi anche professore di chimica nell'Istituto di Commercio e d’Industria. Quanto grande fosse la fiducia che poneva il Cavour nell’onestà e nel sapere di Francesco Selmi lo dimostra la lettera seguente già pubblicata dal Canevazzi (loc. cit.) riguardo la Commissione per la Collezione dei Testi: Me° sig. cav. Selmi, Il sig. Zambrini ha mandato a me pure una copia della circolare da premettersi alla Col- lezione dei Testi. Ho già detto al medesimo il mio parere, ed ora mi rivolgo riservatamente e confidenzialmente a Lei. Parmi che convenga spogliare detta lettera da quell’eccesso di frasi adulatrici e di complimenti di cui è rimpinzata e metterla in armonia colle idee libere e ita- liane che regnano oggidì. Guai a noi se compariamo in pubblico chiamando il Farini Nostro Signore (quand’anche sia un personaggio da inginocchiarglisi ogni italiano) e finendo con una quantità di espressioni di schiavitù da disgradarne gli italo-spagnuoli del seicento. Esposti alle frustate dei nemici, renderemmo un servizio non buono all’illustre Farini. Se la S. V.L non ha veduto quella lettera faccia di procurarsela: se le è già venuta sottocchio, sono superflue le mie parole. Ma per carità non voglia far uso mai della libertà che mi sono presa di seri- verle. Mi comandi ove potessi valere. Le sia raccomandata la maggiore possibile accuratezza nella edizione che si farà. Ho l’onore di raffermarmi con distinta stima Dev.mo Caminzo Cavocr. 11 Novembre 1860. Selmi nel 1854 fu incaricato dal Ministero di andare in Sardegna per studiarvi il guano. Là s'ammalò molto gravemente ed il Cavour, che s’interessava della sua salute, gli scriveva in data 13 luglio 1854: Preg.®° Signore, Ho ricevuto con molta soddisfazione la lettera che mi fa certo avere la S. V. superata la malattia che condotto l’aveva alle porte della tomba. Spero ch’Ella ricupererà in breve e salute e forze, e così Ella potrà ricominciare a dedicare le sue rare conoscenze scientifiche allo svi- luppo economico dell’Isola di Sardegna. “ CAVOUR ,. (1) La Commissione per i premi di astronomia, meccanica, fisica e chimica era composta di: Plana, Avogadro, Botto, Giulio, Sobrero e Sismonda; fu conferito il solo premio per la chimica e l’ebbe il Selmi (“ Mem. R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1852, t. XII, p. LXIX e XCIX). Nel 1857 dal R. Istituto Lombardo ottenne il premio di fondazione Cagnola per la memoria: Del laite, del presame e della coagulazione che il presame opera nel latte. Relatore della Commissione era Luigi Chiozza. Un altro premio con medaglia d'argento ottenne dalla Società Medico-chirurgica di Bologna. 9 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 133 I lavori del Selmi sul guano, fatti in parte insieme al prof. Missaghi, furono pubblicati nel “ Nuovo Cimento , e nel vol. VIII degli “ Annali della R. Accademia d’Agricoltura di Torino ,. Il Selmi, come risulta da documenti certi e dalle memorie inedite del Sabba- tini, ebbe una parte importantissima nelle cose politiche dell'Emilia nel 1859 e prima: .....trovandosi in relazione per le cose politiche delle provincie modenesi col conte C. Cavour, con Michelangelo Castelli e poscia con Giuseppe La Farina, ebbe frequenti incarichi di man- tenere corrispondenza cogli amici del Ducato, per spedirvi notizie, giornali, opere a stampa ed altro riguardante la diffusione del principio liberale ed il mantenimento degli animi, da ispe- ranza di una riscossa sostenuta dalle armi piemontesi. Egli favorì la diffusione nel Ducato di Modena del Piccolo Corriere d’Italia, gior- nale fondato nel 1856 dal La Farina. Per sollecitazione del Cavour o del La Farina, ebbe varie missione politiche e il 24 aprile 1859 ebbe l’incarico con altri di promuovere l’insurrezione nel Ducato; e una lettera del La Farina diceva: Il Sig. Prof. Selmi ed i suoi compagni si recheranno a Parma per entrare, potendo, nel Ducato di Modena..... Il Prof. Selmi è autorizzato a promuovere l’insurrezione ovunque si potrà appena scoppiata la guerra. Il Selmi si recò a Parma e il 2 maggio scriveva alla moglie: La Duchessa partì coi figli, il Comitato Nazionale assunse il Governo, la popolazione con bandiera tricolore passeggiò in folla immensa per le contrade e per le piazze con grida gran- dissime di: Viva Italia, Indipendenza, Vittorio Emanuele. Quando era a Parma nei primi di maggio del 1859 scrisse e fece stampare un proclama in foglio volante da introdursi e diffondere nel Ducato di Modena, incitando il popolo alla rivolta. Cominciava colle parole: Modenesi! Reggiani! La bandiera tricolore sventola in Parma da ieri sera in poi. La coccarda italiana è sul petto di tutti. Le nostre braye truppe chiesero esse stesse di andare al campo piemontese e colà mostrare col loro valore che sono degne del nome di milizia italiana, ecc. Poi pochi giorni dopo per incarico del La Farina lasciò Parma e s’avviò verso Massa ove era stato preceduto dal suo amico Zini; colla missione del Governo Sardo di comporre ed ordinare nel Ducato modenese un governo provvisorio, tosto che, come scrive lo Zini, allontanatosi il Duca e gli austriaci, si fosse il paese pro- nunciato per l’unione al Piemonte. Dopo le vittorie del 1859, liberati i Ducati, il nostro Selmi potè ritornare a Modena e subito fu eletto deputato all'Assemblea Nazionale modenese e dai colleghi fu nominato questore. Nominato dal Governo provvisorio Rettore della Università modenese, poco dopo il Dittatore Farini lo volle Segretario generale per la Pubblica Istruzione. In questo ufficio il Selmi si adoprò con animo sereno, e grande solerzia, all’incremento della coltura nazionale e fra le altre cose propose delle ricerche sui testi di lingua e degli studi sui dialetti italiani. 134 ICILIO GUARESCHI 10 Egli fu fra i commissari che si recarono a Torino a portare a re Vittorio Emanuele il risultato del plebiscito per l'annessione delle provincie modenesi al Piemonte. L'Università di Modena deve molto al Selmi; nel periodo in cui egli fu Rettore e Segretario generale al Ministero vennero nominati, fra gli altri, i seguenti profes- sori: Silvio Spaventa, di filosofia del diritto, Alfonso Corradi di patologia generale, C. De Meis di fisiologia, Ariodante Fabretti di storia letteraria ed eloquenza, Fer- dinando Ruffini di calcolo, Pietro Tacchini direttore dell’osservatorio astronomico. Poco dopo fondato il regno d’Italia, Selmi fu chiamato a Torino quale Capo Divisione nel Ministero della Pubblica Istruzione, e nel Ministero Mancini fu eletto Capo Gabinetto del Ministro; ufficio che conservò, pare, anche sotto i Ministri Mat- teucci, Berti e De Sanctis. Poi fu nominato Provveditore agli Studi nella capitale stessa, posto che egli conservò sino al 1867 quando fu nominato Professore ordi- nario di chimica farmaceutica e tossicologica nella R. Università di Bologna. Il Selmi ebbe dunque una cattedra Universitaria solamente nel 1867; mentre alcuni anni prima, sino dal 1860, erano stati nominati professori di chimica in Università primarie delle vere nullità scientifiche, che oggi nessuno più ricorda, o si ricordano per derisione. La cattedra che egli occupava si considerava da ignoranti o da invidiosi come in uno stato di inferiorità relativamente a quella dell’altro collega di chimica, che egli stesso, povero Selmi, aveva tanto contribuito, nel 1860, a far nominare pro- fessore di chimica organica. Selmi a Torino era molto stimato e benvoluto; fu membro corrispondente della nostra R. Accademia delle Scienze, come già dissi, sino dal 1845, socio onorario della R. Accademia di Medicina di Torino, socio della R. Accademia di Agricoltura, e fu pure socio fondatore della Società di farmacia di Torino. In tutte queste Accademie e Società egli portò un buon contributo scientifico, come si vedrà nella bibliografia che darò alla fine di questo lavoro. A Torino ebbe molti amici e colleghi affezionati; qui pubblicò la maggior parte delle sue opere ed avrebbe ben meritato che una via della città fosse onorata dal suo nome. Nel Museo del Risorgimento esistono alcuni ricordi di lui. Tommaso Villa, desiderando pel Museo del Risorgimento qualche reliquia che ricordasse il patriotta, scriveva alla baronessa Adele Savio di Bernstiel: Quando uno si chiama Francesco Selmi le porte del tempio non solo si aprono, ancora se chiuse già, ma si spalancano (in CANEVAZZI, loc. cit., p. 107). La patria: ecco il pensiero e il sentimento che primeggia in Francesco Selmi e nei grandi suoi contemporanei; egli aveva una immensa fede, quella di vedere l’Italia grande e rispettata. Nel 1862 il prof. De Filippi che era membro del Consiglio superiore, fece pro- porre al Selmi la cattedra di chimica generale nella Università di Pisa, ma sebbene il Selmi l’avesse accettata, in effetto fu conceduta ad altri (1). (1) Vedi Canevazzi, loc. cit. 11 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 155 Nel 1865 Nicomede Bianchi, allora Segretario generale presso il Ministero della P.I., offù al Selmi il posto lasciato vacante dal Piria; ma, non si sa bene il perchè, - anche questo posto non ebbe; dicesi che ne fu sconsigliato da amici e colleghi ad accettare (1). Tutto questo però è dipeso, come i rifiuti precedenti, da bassi intrighi, da dietroscena che ora non è il caso di esaminare e di far conoscere. In Italia allora si conferivano le cattedre col sistema francese, quando erano onnipotenti i Dumas, 1 Boussingault, i Milne Edward, i Blanchard. To conservo con affetto e devozione un autografo di Selmi, di quattro grandi pagine, colla data 29 novembre 1855, in cui sono numerati i suoi titoli acca- demici, le memorie ed opere pubblicate, ed un riassunto delle più importanti sue ricerche (2). Forse nessun chimico in Italia poteva presentare allora una così completa e ricca serie di titoli e di ricerche scientifiche; eppure non ebbe un posto universitario, come già dissi, nel nuovo Regno d’Italia se non nel 1867! Vale a dire a 50 anni! (3). Gli anni che passò a Bologna furono anni di grande lavoro scientifico ; egli si dedicò totalmente all’ insegnamento ed alle ricerche di chimica tossicologica, ove lasciò un’orma profonda. Ma l’intenso e continuato lavoro di laboratorio e di tavolo lo fiaccò e morì a 64 anni il 13 agosto 1881. à; (1) È forse a questo periodo 1864-65 che si riferisce una lettera scritta dal Selmi ad un suo superiore del Ministero e nella quale trovasi il brano seguente : © A cinquant'anni d’età, con venticinque anni di servizio, con qualche merito acquistato nelle scienze e nelle lettere, con tre premi da me guadagnati, uno dell’Accademia di Bologna, l’altro di quella di Torino, e il terzo dell’Istituto di Milano; coll’opera data alle cose politiche e undici anni di esilio, sperava di non essere posposto ad altri più giovani di me che servirono meno e fecero meno. Ma dacchè si volle altrimenti, così pur sia. Mi permetta almeno la S. V.Il].®® di non averle a tacere, che è molto doloroso all'uomo onorato che occupò l’intera sua vita negli studi, che non ha verun rimorso sulla coscienza di aver mancato ai proprii doveri come pubblico ufficiale; che preferì nel 1848 di rimanere esule in perpetuo, piuttosto che cedere all’invito fattogli mandare in iscritto dall’ex-Duca di Modena di ritornare in patria ad assumervi la Cattedra di chimica organica, purchè facesse sommessione alla restaurazione estense, è doloroso, io replico, che sotto il Governo del Re d’Italia, io sia stato sempre trascurato e posposto ad altri , !). E fu invero una grande ingiustizia. (2) Questo documento doveva servire per ottenere una cattedra che poi non gli fu conferita. Il riassunto fatto da lui, di proprio pugno, riguarda i lavori suoi ch’egli giudicava i più importanti e questa parte dell’autografo è riprodotta nella pagina seguente. (3) Nel 1903 io scrivevo le parole seguenti, che valgono benissimo pel caso presente (“ Mem. della R. Ace. della Scienze di Torino ,, vol. LIII, p. 85): “.....Verso il 1860, avveniva spesso che per necessità di cose e principalmente pel bisogno di “ numerosi insegnanti, delle vere nullità scientifiche ottenessero splendidi posti. Basti il ricordare “ che a Bologna fu dal Dittatore Farini creata una cattedra speciale di chimica organica, unica in “ Italia, che fu affidata ad un professore chiamato da Parma ove insegnava pure chimica organica; “ e ciò senza che quel professore avesse nessun titolo scientifico, oltre quello di essere stato due o ‘tre anni nel laboratorio di Piria a Pisa, mantenutovi a spese del Governo borbonico parmense; “ ed i colleghi di quel tempo sanno, ed io posso farne certissima testimonianza, che la principale “ occupazione del professore e degli addetti a quell’Istituto chimico, consisteva nel passare il tempo “ in allegra compagnia, essendo assolutamente vietato usare libri del laboratorio o fare esperienze! “ E quella cattedra fu occupata in tal modo per 22 anni!,. Questo mio giudizio d’allora trovo confermato da quello dato dal Piria nel 1862 in una lettera a Bertagnini: “ Piazza è ben collocato, al di là dei suoi meriti ,. 1) Im Canevazzi, loc. cit., pag. 79. 136 ICILIO GUARESCHI 2 ai ERO ZA, DIGITA La tea Spe ceto € AMAMI DELIA: dI de . È È, A: C z O leali n Ù Fira Ù Ve To el Aa - £ A | (fa A o Cet > CA uu I SIA 4 s . 9. 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Ora che Ella è collocata in luogo meritato, sono più tranquillo, dacchè so che avrò un continuatore della via nuova da me tracciata nella tossicologia. 15 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 137 Selmi ha il merito di aver fatto tutto da sè; egli non ha avuto un gran maestro, egli non ha seguito la via comune di coloro che si iniziavano negli studi della chimica cioè incominciare con lavori fatti, si può dire, sulla falsariga d’ altri: ottenere dei composti nuovi, dei derivati, clorurati o no, analizzarli ecc., ece.; lavori talora impor- tanti, ma che spesse volte non aprono un nuovo campo. À Selmi invece piacque occu- parsi di quegli studi dagli altri trascurati, o a cui non si dava importanza. A quei tempi, e sino a pochi anni fa, guai se un chimico studiava un prodotto amorfo, un colloide, ecc. Eppure oggi lo studio di questi corpi è alla moda; il Selmi fu il primo, o certo uno dei primi a studiare, e molto bene, le materie colloidali, che egli chiama pseudosolubili. ; Sempre egli volgeva il suo pensiero a quei grandi fenomeni che più interessano la trasformazione della materia; pensava, discuteva, sulle sostanze colloidi, sulle fer- mentazioni, sulle azioni catalitiche o di presenza, sul potere riduttore dei microor- ganismi, ecc., argomenti tutti che hanno preso un enorme sviluppo in questi ultimi trent'anni; era una mente filosofica per eccellenza. Il suo ingegno, versatile oltre ogni dire, non sapeva concentrarsi in un ordine limitato di idee. Mai si era egli occupato di chimica tossicologica sino al 1868; ebbene, non ap- pena nominato professore di chimica farmaceutica e tossicologica nella Università di Bologna, s’avvide che il largo campo di questa branca della chimica era molto trascurato e che in esso molto rimaneva da fare. Sino a quel tempo se si eccettuino le classiche ricerche di Stas, di Otto, di Mitscherlich e di pochi altri, gli studi di chimica tossicologica non erano fatti da chimici e quindi vi era una gran massa di lavoro che richiedeva una completa revisione. Questa fu iniziata, e in parte compiuta, da Francesco Selmi dal 1868 al 1881. L'operascientifica del Selmi abbraccia un periodo di circa 40 anni, dal 1840 al 1881, periodo che è quello dell’ inizio della chimica scientifica in Italia nel secolo XIX. Faustino Malaguti era già in Francia dal 1831, e quando Selmi incominciò le sue ricerche non vi era in Italia nemmeno un solo laboratorio chimico universitario in cui si potesse studiare con profitto. Lo stato dello insegnamento della chimica nelle Università italiane dal 1815 al 1845 circa e, in generale, anche dopo, sino al 1860 circa, era ad un livello forse inferiore a quello che non fosse nel secolo XVII dal 1750 al 1800. Per capire bene come il Selmi abbia dovuto studiare la chimica da sè, inizian- dosi in ricerche al di fuori delle cosidette scuole e diventasse poi anche un buon autodidatto, bisogna pensare allo stato della chimica in quel tempo. E a questo pro- dosito ecco quanto io scrivevo nel 1903: Quando in Francia fiorivano: Dumas, Laurent, Gerhardt, Cahours, Wurtz, Berthelot, De- ville; in Germania: Mitscherlich, Liebig, Wéohler, Bunsen, Kolbe, Hofmann, Strecker, Kekulé, in Svezia il Berzelius, ed in Inghilterra: Graham, Williamson, Frankland, Odling; in Italia, oltre al Malaguti che viveva in Francia, non avevamo che Selmi, Piria e Sobrero, dei quali uno solo aveva una cattedra universitaria con meschini mezzi di studio, il Piria, prima a Pisa, poi a Torino. Ma anche questi chimici, onore del nostro Paese, non avevano ancora una scuola, lavoravano per proprio conto, con pochissimi allievi; erano come punti luminosi in una notte oscura. In quel tempo la maggior parte delle cattedre universitarie di chimica erano occupate da uomini il cui insegnamento era puramente teorico, o meglio, cattedratico, e anche questo, fatto Serie II. Tom. LXII. R 158 ICILIO GUARESCHI 14 in modo assai poco conforme ai grandi progressi della chimica di quel tempo. A Padova, a Pavia, a Roma, a Napoli, a Bologna, a Palermo, ecc., vi erano laboratori universitari, alcuni dei quali assai vasti e ben forniti di materiale scientifico, come a Padova, per esempio, ma nei quali non sì studiava, non si lavorava; l'insegnamento della chimica era nello stato in cui si trovava negli altri paesi cento anni prima, e forse anche peggio. A Milano insegnava allora la chimica, nella scuola annessa alla Società di Incoraggiamento, il Kramer; il quale aveva viaggiato, studiato a Parigi, era stato amico di Laurent, che aiutò anzi in alcune ricerche. Ma se questo chimico fu benemerito dell’industria lombarda; certa- mente non era da annoverarsi fra i maestri che potessero dare un'istruzione scientifica. Eppure erano tempi in cui in altri paesi la mente dei chimici lavoratori, cioè dei veri chimici, era agitata dalle idee berzeliane e dalle idee gerhardiane; e tutti i giovani chimici più intelligenti abbracciavano le nuove idee che con Dumas, Laurent, Malaguti, Cahours, Wil- liamson, ed altri, dovevano portare al sistema di Gerhardt, di questo grande e sfortunato rifor- matore. Dal 1852 al 1856 Gerhardt pubblicò quel suo classico Traité de chimie organique, che tanta influenza doveva avere sui progressi della scienza. In questo periodo di tempo le più numerose ed importanti opere di chimica si pubblicavano a Torino ed avevano per anima Francesco Selmi: si traduceva la clas- sica opera del Regnault: Corso elementare di chimica in 4 vol. (trad. da Fr. Selmi e Arpesani), si traducevano le Lezioni di chimica agraria di Malaguti (trad. Selmi), e le Lettere sulla chimica di Liebig; Selmi stesso pubblicava nel 1845-47 un An- nuario di chimica e nel 1851 i Trattati elementari di chimica inorganica ed organica e col Maiocchi gli Annali di Chimica, Fisica e Matematica. In quel periodo di tempo si pub- blicava in Pisa il Cimento e poi Il Nuovo Cimento diretto da Matteucci e Piria ed il Trattato elementare di chimica inorganica di Piria. Queste erano quasi le sole pub- blicazioni che tentassero di tenere al corrente l’Italia dei grandi progressi della chimica. Si sentiva però il bisogno di studiare, di imparare, ma presso di noi manca- vano gli insegnamenti sperimentali, non vi erano laboratori in cui si istruissero i giovani. Dopo il 1840 però il desiderio di studiare, di imitare almeno le altre nazioni si andava acuendo collo svilupparsi del sentimento nazionale. Selmi iniziò la sua carriera in questo periodo, in quel periodo cioè in cui l’Italia non poteva prender parte ai grandi dibattiti fra i chimici tedeschi, francesi, svedesi ed inglesi. Come la Spagna, come l’Austria, l' Italia era rimasta spettatrice. Come dal 1840 cominciava sul serio il risveglio politico, così a poco a poco incominciò anche il risveglio scientifico, ed il primo sintomo fu quello dei Congressi degli Scienziati che incominciarono nel 1839. Data questa, memoranda (1). E Selmi benchè giovanissimo prese parte a quasi tutti questi congressi e fu anche nominato segretario della sezione di chimica (2). Ma difet- (1) Inoltre nel 1844 si inaugurò ad Annecy in Savoia un bel monumento al Berthollet e re Carlo Alberto era presidente onorario del Comitato promotore; poco dopo per iniziativa e proposta del Dr. Giovanni Lanza (1844), che fu poi ministro, si erigeva in Torino un monumento anche al Lagrange (Si vegga il mio lavoro: Storia della chimica-in Italia dal 1750 al 1800, Cl. L. Berthollet, pag. 168). (2) Nel Congresso del 1844 a Milano, Selmi presentò le sue importanti ricerche: Intorno al solfo elastico ed alle emulsioni inorganiche; ma allora si diede a questo lavoro poca importanza. Nel Congresso di Genova (1846) presentò i suoi Studi sul latte, ed anche qui ricorda la sua osservazione 15 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 139 tavano gli insegnamenti sperimentali, non vi erano insegnanti adatti ed i giovani volenterosi di studiare la chimica, quali Sobrero, Kramer, Piria, Peyrone, Chiozza, Filippuzzi, Cannizzaro, Pavesi, Frapolli, Ubaldini, Arnaudon, ecc., dovevano andare all’estero: a Parigi, a Giessen, ad Heidelberg. Solo il Selmi non potè, o non volle, andare nelle grandi scuole di Dumas, di Liebig, di Bunsen, di Gerhardt, e rimase in Italia, nella sua Modena e nella sua Reggio, sino a che il movimento rivoluzio- nario liberale lo portò a Torino. Studiò da sè; tutti i lavori che pubblicò sono esclu- sivamente suoi, sbocciarono dal proprio cervello (1). Nelle Università italiane dal 1800 al 1840 e in molte di esse anche sino al 1860, l'insegnamento della chimica era caduto, come già dissi, molto in basso. Gli allievi non potevano frequentare i laboratori; nelle Università di Pavia e di Padova, ad esempio, i professori occupavano un tempo lunghissimo a descrivere gli strumenti grossolani ed ordinari del laboratorio, quali sono i torchi, gli alambicchi, le storte, gli stacci, ecc.; della parte scientifica, delle grandi opere di Berzelius, di Dalton, ecc. nulla, o quasi nulla. Il modesto insegnamento del nostro Selmi a Reggio dal 1840 al 1848 era fra i pochissimi buoni. Che poi verso il 1842-45 e anche dopo non vi fosse proprio nulla nulla in Italia, come asserì qualcuno, non si può dire. Indipendentemente dal nostro Selmi e dal Piria che incominciavano ad insegnare verso il 1842, si può ricordare Antonio Kramer a Milano, che, come dissi nel mio studio su Luigi Chiozza, è stato benemerito dell’industria chimica in Lombardia. Il Chiozza stesso incominciò le sue ricerche verso il 1850 (2). Il Sembenini ed altri colle traduzioni voluminose ed importanti delle opere di Berzelius, di Thenard, di Dumas, ecc. promuovevano la diffusione della scienza in Italia. L’Annuario delle scienze chimico-farmaceutiche e medico-legali incominciato dal Sembenini nel 1842 durò poco tempo. Il Polli coi suoi Annali continuava l’opera di Cattaneo in Lombardia. Quasi nel tempo stesso, vi era a Torino Ascanio Sobrero e a Venezia in un modesto laboratorio privato lavorava Bartolomeo Bizio, a cui si devono degli studi sulla porpora degli antichi, la scoperta del rame normale nei molluschi, ecc., il quale nel 1841 fu chiamato alla cattedra di chimica nell'Università di Pisa, ma non volle accettare; rimase nella sua Venezia. che il latte intacca anche lo solfo provocando un notevole sviluppo di acido solfidrico; presentò inoltre le sue osservazioni sull’amigdalina e sulla sinaptasia, le indagini intorno al solfo ulteriori « quelle che furono comunicate alla sezione di chimica nel VI Congresso, ecc. Nel Congresso di Firenze del 1841 aveva presentato le sue ricerche sull’acido lattico e quelle sull’azione dell’albumina sul calomelano. In generale si può osservare che le comunicazioni fatte in quel tempo dal Selmi ai Congressi erano o le più importanti o fra le più importanti di chimica. (1) Selmi non ha avuto la fortuna, e lo diceva egli stesso, di frequentare per due o tre anni all’estero il laboratorio di qualcuno dei più grandi chimici del suo tempo. Ho detto che ha dovuto fare tutto da sè; per quanto egli, onesto e leale quale era, affermi tutta la sua riconoscenza e gra- titudine al Prof. Savani di Modena, pur tuttavia bisogna riconoscere che questi non era un chimico di molto valore scientifico. Ma il Savani era un uomo intelligente, coscienzioso, di ottimo cuore, e questo è grande merito, che bene supera talora il sapere. (2) I. Guarescat, Notizie storiche su Luigi Chiozza con lettere inedite di Ch. Gerhardt ed altri chimici (£ Mem. della R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1907, vol. LVIII). Qui si vede di quanto aiuto sia stato al Gerhardt il nostro Chiozza. 140 ICILIO GUARESCHI 16 A Torino non solo lavoravano dopo il 1849 Sobrero e Selmi, ma il grande Avogadro benchè vecchio continuava, dopo la pubblicazione delle sue memorie del 1811-1814, a pubblicare lavori importantissimi che riguardavano tanto la fisica quanto la chimica; e basterebbe ricordare le sue classiche memorie del 1821, del 1832, del 1849, ecc. Nè potremo dimenticare Gioacchino Taddei, di Firenze, morto nel 1860; mente assai colta e patriota benemerito. Al Taddei si debbono studi importanti sul glutine del frumento ed altre ricerche. Pier Francesco Ton nel 1841 pubblicava a Padova un opuscolo: Sull’origine ed utilità della teoria atomica. Nel 1847-1855 M. Alberto Bancalari, professore di fisica nell'Università di Ge- nova, si occupava di argomenti attinenti alla teoria atomica, ed il prof. Stefano Pa- gliani nell’art. Stechiometria, scritto nel Supplem. Ann. dell’Enciclop.' Chim., 1893, p. 386, ha fatto giustamente osservare che al Bancalari devesi la stessa legge sul calorico specifico degli elementi nei corpi composti, che si conosce sotto il nome di legge di Woestyn. Secondo Bancalari il calorico specifico dell'atomo composto (ora si direbbe molecola) di un corpo, è espresso dalla somma dei calorici specifici degli atomi semplici che concorrono alla formazione dell’atomo composto. Questa regola poi fu in seguito utilizzata per l'applicazione ed estensione della legge d’Avogadro. Il Bancalari, nel 1855, a Genova, pubblicò anche una nota: Della natura delle forze molecolari di aggregazione. Nè dobbiamo tacere le ricerche di Peyrone sulle basi ammoniacali del platino, di Usiglio sui sali dell’ acqua del mare (ricerche lodate dal van’t Hoff), di Poggiale sulla solubilità dei sali, ecc., di Manzini sugli alcaloidi delle chine, di Ruspini sulla mannite, ece., di Leonardo Doveri di Firenze, che studia l'essenza di timo, scopre il timolo, fa delle osservazioni interessanti sulle proprietà della silice, ecec., di Me- nici (1842) che scopre la asparagina nella vicia sativa germogliata fuori del contatto della luce. Per giudicare della potenzialità intellettuale degli uomini bisogna tener conto dell'ambiente in cui hanno vissuto e della loro produzione scientifica, e non della potenza sociale e politica e dei cosidetti onori che hanno raggiunto. E, che si facesse sentire l’influenza benefica di aver frequentato un buon labo- ratorio sotto una guida quale erano il Dumas o il Liebig non lo scorgiamo, ad esempio, nei primi lavori di Stas, di Piria e di altri? Wéohler e Liebig nel 1836-37 studiano l’amigdalina, savvedono che fra i prodotti di scissione fornisce del glucosio, e scoprono quindi la funzione glucosidica, il primo glucoside: l’amigdalina si scinde in aldeide benzoica, acido cianidrico e glucosio; nel 1838-39 Stas, nel laboratorio di Dumas (e sotto i suoi occhi, come disse il Dumas stesso) studia in modo analogo la /lorizina e scopre che si scinde in floretina e glucosio; e quasi contemporaneamente il Piria, nel medesimo laboratorio di Dumas, e sotto la sua direzione, nel 1838-1840 (e poi dopo da sè sino al 1845) studia la salicina e dimostra che si scinde in sali- genina e glucosio. E, come Wéhler e Liebig considerarono il denzoile quale radicale dell’acido benzoico e derivati, così Dumas e Piria in modo analogo considerarono il salicile come il radicale dell’acido salicilico e derivati. Lo studio dei derivati della florizina e della salicina sono certamente importanti, ma non minore importanza Il?) FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 141 hanno le ricerche sulle sostanze colloidali o pseudosciolte, sullo solfo, sul joduro mercurico, sui cristalli misti isomorfi, sulla coagulazione del latte, ecc. che il Selmi pressochè nello stesso periodo di tempo faceva da solo, senza l’aiuto di nessuno, nel modestissimo laboratorio di Reggio (quale lo mostra la fotografia qui unita); lavori in gran parte fatti a proprie spese e con sacrifici immensi. I lavori del Selmi fatti in quel periodo di tempo si trovano in tutti i periodici scientifici, anche stranieri. Per far conoscere i meriti di uno scienziato non si debbono tacere o nascondere quelli degli altri; l’uomo di scienza deve essere innanzitutto imparziale e se Avo- gadro, Malaguti, Sobrero, Piria hanno = avuto dei meriti, anche altri ne hanno avuto che non è permesso diminuire o misconoscere e che ora la storia ac- coglie nei propriì annali. Non si deve dimenticare che al- lora (1840-1850) viveva un altro il- lustre nostro chimico, Malaguti, il quale benchè abbia fatto la sua più bella carriera in Francia, e sia sempre vis- suto nella sua patria adottiva, ha avuto non poca influenza sull’incremento della chimica in Italia colle bellissime sue Lezioni di chimica e le sue opere di Chimica agraria (tradotte appunto dal Selmi stesso). Le Lezioni del Malaguti erano diventate popolari anche in Italia ed il Piria stesso diceva: “ Tutte le volte che i0 voglio esercitarmi ad esporre lim- pidamente i miei concetti, tutte le volte che voglio specchiarmi in un modello di chiarezza, leggo una lezione di Ma- laguti , (1). ì i Tn Questo grande e modesto chimico italiano teneva in alta considerazione il nostro Selmi già quando questi era nell’inizio della carriera. Ecco quanto gli scriveva il Malaguti da Rennes nel 1851: Stimatissimo Dottissimo Signore, Avrei dovuto ringraziarla, da lungo tempo in poi, delle prime due parti del suo primo volume, che ha avuto la bontà di mandarmi. Ma mi ero proposto di farlo solamente dopo aver letto il lavoro. Posso dunque oggi rendergli grazie dell’onore fattomi, e felicitarlo dell’ardua impresa di cui si è ella incaricata. (1) Micnere Lessona, Commemorazione di R. Piria, citata erroneamente dal Cossa come esistente nel Giornale © L'Opinione ,, 2 agosto 1865. (0,0) 142 ICILIO GUARESCHI 1 Molte cose, non .solo ho letto, ma riletto con lunga e profonda attenzione; ma il di lei libro è tale che non basta il leggerlo; bisogna studiarlo. E per dirle francamente il mio parere aspetterò che l’opera sia compiuta. Frattanto posso dirle, senza tema d’ingannarmi, che qua- lora una critica fosse possibile, l’opera non sarebbe meno perciò rimarchevole, e sufficiente per garantire a lei una meritata celebrità. Giubilo in vedere che un giovine italiano intraprenda un sì grande lavoro. Fo dei voti onde la riuscita sia quale la desidero e quale la promette la parte già pubblicata. L’opera compiuta bisognerà pensare a tradurla in francese onde sia conosciuta dall'Europa intiera (1). La nostra lingua è troppo circoscritta, e non può servire a spandere un gran lavoro. Finisco col reiterarle li miei ringraziamenti e coll’inculcarle coraggio per ciò che le resta a fare. Accetti le mie congratulazioni sincerissime e si assicuri che veruno fra i chimici è sì contento di vedere i di lei nobilissimi sforzi. Rennes, 13 luglio 1851. F. MALAGUTI. Un'altra prova dell’alta stima in cui il Malaguti teneva il nostro Selmi sì è che egli sino dal 1851 mise a parte il giovane suo collega italiano delle ricerche sulle reazioni reciproche fra i sali; ricerche che egli doveva poi pubblicare solamente nel 1853 e nel 1857. Da due lettere del Malaguti, che io pubblicherò col cortese per- messo della egregia famiglia del Nostro, risulta chiaramente che il Malaguti si occu- pava di questi studi sulla meccanica chimica già anteriormente al 1850. Erano tempi in cui in Italia, eccetto nelle memorie accademiche, in quasi nessun giornale si pubblicavano memorie importanti: se si eccettuino gli Annali di Majocchi fondati nel 1841 ed il Cimento fondato da Matteucci a Pisa nel 1844. Il povero Majocchi si sforzava di far conoscere i lavori stranieri ed anche italiani. Nel vol. II del 1841 de’ suoi Annali a proposito di una memoria di Melloni che egli volentieri riproduceva faceva notare: “ il prof. Melloni si è occupato moltissimo dei fenomeni del calorico irradiante: e siccome le sue prime Memorie non si conobbero in Italia (2) che per mezzo di alcuni giornali stranieri, così non deve far meraviglia se in parecchie scuole s'insegnano ancora le vecchie dottrine ,. Selmi dal 1840 al 1857 si occupava di quegli argomenti difficilissimi che face- vano sorridere coloro che erano abituati a fare ricerche unicamente di chimica orga- nica col vecchio metodo: cioè preparazione e studio di composti organici ben definiti e relativa analisi elementare. Egli invece ha trattato, ha iniziato, delle ricerche in quei punti della scienza che un tempo pareva non avessero importanza mentre oggi hanno la massima importanza, vale a dire: sullo stato colloidale, sui fermenti solu- bili o catalizzatori, sulle trasformazioni isomeriche, sul potere riduttore delle muffe, sulla cristallizzazione delle soluzioni sovrasature, sui fenomeni di contatto, sullo stato (1) Io credo che l’opera qui tanto lodata dal Malaguti fosse il primo volumetto (1° e 2° fasc.) degli Studi teorici e sperimentali di chimica molecolare, già pubblicati nel 1846 e che forse il Selmi per eccessiva modestia non gli aveva mandato prima. Non ho potuto conoscere se poi Selmi man- dasse al Malaguti anche il 2° volumetto (fasc. 3°-4°) e se tutta l’opera sia poi stata tradotta in francese come desiderava il Malaguti, ma credo di no. (2) Furono pubblicate negli “ Annales de Chimie et de Phys. ,, 1833-1840. 19 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 143 della caseina nel latte, ecc. Egli è stato uno dei pochissimi che hanno seguito una via propria. Di mano in mano che si vanno meglio studiando queste nuove branche del sapere umano sì rivela sempre più la vera originalità e l'importanza dei lavori del Selmi. Egli in molte questioni, come suol dirsi oggi, di attualità, ha emesso delle idee esclusivamente proprie ed in alcune di esse egli ha veramente precorso il suo tempo. . Per la genialità e originalità delle idee e delle osservazioni, il Selmi non è infe- riore a nessuno dei buoni chimici che l’Italia ha avuto; in quanto poi a coltura let- teraria li supera, di gran lunga, tutti. E come egli fosse sempre e attivamente al corrente dello stato della scienza lo dimostrano le numerose e importanti annotazioni e aggiunte fatte al trattato di chi- mica del Regnault da lui tradotto nel 1851-1852, e tutti gli altri suoi scritti. L'importanza di alcuni lavori di Selmi è poco conosciuta, sia perchè quei lavori sono stati pubblicati in giornali o in memorie accademiche locali, sia perchè il nu- mero di lavoratori moderni è accresciuto a dismisura e si ricordano e si citano più facilmente e più volentieri i lavori dei contemporanei che non quelli vecchi. S'aggiunga il fatto che non rare volte dei lavoratori, anche distinti, tolgono, ad esempio, un'idea, un concetto, esposto sommariamente o in brevi parole, trenta o quaranta anni prima da un altro; e quell’idea o concetto sviluppano, modificano, trasformano, in maniera che il tutto appare cosa nuova ai moderni cultori della scienza. È un'abilità anche questa, ma che va a danno del primo che concepì quel- l’idea. Così accadde di alcuni lavori del Selmi: furono messi sotto nuova veste. Ed io sono pienamente d’accordo con quanto scrive il prof. F. Bottazzi nel suo elogio storico di Pfliiger (1): Non infrequentemente accade nella scienza che un autore faccia sua l’idea. modestamente espressa da un altro e tanto la elabori e tanto vi scriva o polemizzi su, che finisce per credere e far credere che quell’idea sia sorta nel cervello di lui. Ma. il trattatista imparziale deve ricor- dare il motto: unicuique suum. Selmi ha poi l’altro grande merito di aver diffuso con buoni libri le cognizioni chimiche in Italia; e questo còmpito è talora ben più importante che non quello di aver fatto qualche ricerca scientifica di più. Egli sino dal 1850 e 1856 (2? ediz.) pubblicò i suoi: Principt elementari di chimica inorganica e nel 1851 i Principti ele- mentari di chimica organica (opera ora esaurita, quasi introvabile) ; colla traduzione dei quattro volumi del Corso elementare di chimica del Regnault, con numerose annota- zioni ed aggiunte, fece conoscere all'Italia il migliore libro di chimica di quel tempo, che fu poi tradotto anche in inglese ed in tedesco (V. la Bibliografia) (2). Ma l’opera che più contribuì a diffondere le cognizioni di tuttii rami della chi- mica è stata la sua grande Enciclopedia di chimica in 11 vol. in-4° e 3 vol. di Com- plemento e Supplemento (dal 1867 al 1881). (1) “ Atti Accad. Lincei ,, 1910, 1° sem., p. 637. (2) Il merito di aver fatto conoscere questo libro all'Italia, in quel tempo; è grande; in nessun Trattato d’allora sono così esattamente ed. ampiamente esposte le leggi di Berthollet, le generalità sui sali, la parte elementare teorica e pratica della metallurgia, l’analisi dei gas, l’analisi orga- nica, ecc. 144 ICILIO GUARESCHI 20 L'idea di pubblicare una grande Enciclopedia di Chimica venne al Selmi nel 1850 e ne scrisse in proposito a vari chimici italiani nel 1851, ma non trovò molto aiuto; qualcuno avrebbe voluto fare una enciclopedia con grandi capitoli speciali su ogni scienza! Questo era il vero modo per non riuscire nell’ impresa; il Selmi invece voleva un’opera analoga all’ Handwòrt. d. Chemie di Liebig, Wéohler e Poggendorff, ma più vasta, e così poi fece. Egli in ciò ha preceduto di molti anni il Watt ed il Wurtz che pubblicarono poi delle opere analoghe. Il Selmi non potè effettuare il suo grande disegno se non nel 1866, e nel 1867 fu pubblicato il primo volume di quell’opera. Egli pensava che la chimica, come già aveva scritto e predicato il Liebig, do- veva avere una grande influenza sulla prosperità della nazione e non lasciava sfug- gire nessuna occasione per manifestare le sue idee in proposito. Già ne aveva parlato nella sua Prolusione detta nella Scuola chimica di Reggio nel 1844 e meglio ancora torna sulla utilità della chimica nel suo Annuario Italiano di chimica e fisica, 1846, volume II, Prefazione. Nella chimica, egli diceva, affine di ben riuscire nell’arte dell’esperimentare, abbisognano due qualità: la cognizione della scienza in quella maggiore estensione che sia possibile ed il criterio pratico d’instituire e condurre a compimento le esperienze, che si acquistano solo adde- strandosi alle manipolazioni ed operando assiduamente nei laboratori. Il quale criterio pratico non solo guida alla buona riuscita dei cimenti, ma insegna eziandio ad interpretarli giusta- mente, traendone quelle conseguenze che non oltrepassino i limiti del vero, nè lascino inav- vertito nulla d’importante (Fr. Semi, Annotazioni alle lettere di Liebig, pag. 487). Coltura letteraria. — Non spetta a me discorrere dei lavori letterari di Fran- cesco Selmi, ma qualche cosa debbo pure dirne. La coltura letteraria di quest'uomo era grandissima, più ancora che non appaia dagli scritti pubblicati. Egli conosceva benissimo anche le letterature straniere e l’animo suo era pieno di ammirazione special- mente per Shakespeare e per Goethe, dei quali non rare volte discorreva e si com- piaceva farne parallelo con Dante. Selmi era di mente e di cuore italiano; italiano in tutto: nel modo di pensare, di studiare, di sentire; egli era foggiato a modo suo, e perciò grande originalità nelle idee. Egli amava la scienza e l’arte per sè stesse, non per i frutti che possono pro- durre, non per i così detti onori a cui possono condurre, non per raggiungere smodati poteri, ma le amava perchè sono le due manifestazioni più preziose che distinguono l’anima umana. — E qui mi tornano alla mente, anche per il Selmi, le belle parole di Carducci per la inaugurazione di un busto a Morgagni in Bologna: La immagine che discopresi oggi alla vostra venerazione e ad esempio, ricorda quanta parte di scienza qui s’'innovasse e perfezionasse e come alla severità sperimentale si accompa- gnasse l'umanità delle lettere e la erudizione. Il Selmi, oltre a conoscere profondamente la propria lingua, il latino, il greco ed il francese, conosceva benissimo la lingua inglese. Al di fuori della scienza sua prediletta, Egli aveva una coltura letteraria come nessun chimico in Italia ha mai avuto. Questo si può dire per puro sentimento di sa 21 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 145 giustizia; è la verità. Questa sua soda coltura classica ebbe certamente non poca influenza sulla manifestazione delle sue idee generali. Egli conosceva a fondo i migliori nostri scrittori. Pietro Fraticelli, il noto dantista fiorentino, scriveva al Selmi il 21 gennaio 1862: OI mi rallegro poi con Lei, o Signore, in vedendo come ella, quantunque non nato in Toscana, scriva così bene la lingua nostra: lo che porge riprova del suo molto studio sui volumi dei nostri grandi scrittori toscani. Giovanni Prati il 20 gennaio 1855 scriveva: Mio caro Selmi, Ho letto l’Espiazione, Vegliando e Dormendo, e la Sgraziata. Vi scrivo sincero ed in breve. Correggete un po’ lo stile e date maggior sveltezza al dialogo e poi siate lieto di pos- sedere un cuore e un ingegno ben alti. Io trovo in cotesti scritti originalità, colori, finezza e lampi d’energia nuovi e mirabili. Dovete emendare, e poi stamparli in un libro. Il commercio dei tipografi e la schiera dei let- tori son freddi, è vero; ma non dubito che il buon senso e l’onore de’ nostri studî sieno così bassi caduti da non apprezzare le ottime cose, che son rari naufraghi in mezzo al pelago delle passioni. Bravo Selmi, che non vi accontentate solo di distinguervi nella scienza, ma aspirate, e ben degnamente, ad altra fama. G. PRATI. Pubblicò i suoi primi studî letterari nella Iconografia degli illustri Vignolesi, nel Giornale letterario-scientifico italiano, nel Silfo di Modena, nel Solerte di Bologna e nel Museo scientifico-letterario di Torino. Il Selmi ha molto collaborato al famoso Dizionario della lingua italiana di Tom- maseo e Bellini. Già nella prima annata del Museo scientifico-letterario di Torino, cioè nel 1839, il Selmi cominciò a scrivere qualche articolo, e appunto nel vol. 1°, pp. 374-376, trovasi una sua Biografia di Jacopo Barozzi detto il Vignola, che è molto bene scritta. È questo, credo, il suo primo lavoro letterario che si conosca (1). Nel 1857 pubblicò il suo bellissimo “ Favoleggiatore , ad usum serenissimi sec. XIX, il quale, come giustamente scrisse Cesare Stroppa (2): sereo in verità è uno dei più curiosi saggi di quanto possa l’umorismo italiano. In queste favole scritte con stile elegante, ingenuo, sono dipinti tipi di una giovialità ammirabile; vi (1) Nel 1840 a 23 anni scrisse un Canto a Vignola, i cui primi versi sono i seguenti (Giornale Scient. modenese, n. 7, aprile 1840, t. II, pp. 77-80): Salve, o terra natal, Vignola mia Alto-turrita, che prospetti l’onda Dello Scoltenna e i colli Ch'han sì bella sembianza e sì gioconda! Ogn’anima gentil, cortese e pia, Cui patrio affetto il cor tempri ed ammolli, Con me ripeta il grido: Salve, o terra natal, mio dolce nido! (2) Sulla vita e sulle opere di Fr. Selmi, “ L’Orosi ,, anno IV-V, 1881-82. Segre II. Tox. LXII. DI 146 ICILIO GUARESCHI DI hanno satire e sferzate sanguinose contro gli ignoranti ed i vili di tutti gli stampi, e di quando in quando, pensieri delicati pieni di lirodia piacevolissima. In talune sono descritte le sue peri- pezie con fina ironia, che mostra quanto spirito egli avesse per combattere i suoi avversari nascosti o palesi. Egli si interessava con caldo animo a tutto quanto poteva tornare a gloria del nostro paese. Quando già nel 1861 si fecero i primi preparativi per le feste nazio- nali da tributarsi a Dante nel VI centenario della sua nascita (1865) pubblicò nella Rivista contemporanea, della quale era attivo collaboratore, un interessante scritto: Di una edizione della Divina Commedia da pubblicarsi nel sesto centenario di Dante, e poco dopo: Di uno studio da fare per l'edizione nazionale della Divina Commedia. Poco prima delle feste pel centenario di Dante pubblicò un suo studio: L’in- tento della Commedia di Dante e le principali allegorie considerate storicamente, in cui dimostra una grande coltura nella letteratura dantesca. In occasione poi del cente- nario, cioè nel 1865, pubblicò due opere ancor più importanti: I Convito, sua crono- logia, disegno, intendimento, ecc. di Dante, Dissertazione, Torino, Paravia, 1865, e le Chiose anonime alla prima cantica della Divina Commedia, ecc., Torino, 1865, 1 vol. in-8°. Opere queste assai lodate ed apprezzate anche dal Carducci (1). Egli era amantissimo dei classici e in ogni occasione, per quanto era in suo potere ne favorì lo studio; ed a questo proposito scriveva: La gioventù che cresce agli studi letterarii prenda il primo latte e la vivanda sostanziale dai classici, sino a tanto che metta il pelo al mento.....; alla coltura dei classici..... unisca la lingua patria, la quale vuole essere appresa sulle scritture dettate coll’imgenuità ed abbondanza dell’eloquio domestico, caste d’innocenza rusticana e semplicità verginale, fervide, fiorenti, ignare d’artifizio, melodiche nativamente, siccome il canto del fauno solingo, saporose siccome la pesca matura che si spicca dal ramo, serene ed illuminate non meno che il cielo nelle aurore di aprile ridente (2). Ed io sono perfettamente d'accordo col sig. H. Le Chatelier il quale terminò un suo discorso su Regnault colle parole seguenti, forse un poco esagerate (“ Rev. Scient. ,, 1910): SEL il y a là un enseionement profond; si la guerre impie faite aujourd’hui è la culture intellectuelle ne se calme pas, le siècle commengant pourra contribuer au développement de la richesse et méme de la science, mais il ne comptera pas plus, dans le développement de la pensée humaine, que les siècles de barbarie. Il Selmi pubblicò vari lavori nella Collezione di opere inedite e rare dei primi tre secoli della lingua e principalmente I trattati morali di Albertano da Brescia, volga- (1) Il Selmi ed il Carducci, colleghi nell’ Università e nella Deputazione di Storia Patria di Bologna, ma di opinioni politiche opposte, si stimavano reciprocamente. Il Carducci per le idee poli- tiche era più in relazione coll’altro professore di Chimica, il Piazza, il quale quando era professore a Parma dal 1857 al 1859, apparteneva al partito borbonico, o duchista, come allora si diceva; però dopo il 1859 passato a Modena poi a Bologna per merito di Selmi, si dichiarò focoso repubblicano e avverso a Selmi. Nell’intimo suo il Carducci però stimava molto più il Selmi pel carattere, per la coltura e pel valore scientifico. (2) Im Cawevazz, loc. cit., p. 71. e FRAN SI ELA TO; È E ) ENT y. F 23 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 147 rizzamento inedito del 1268 di Andrea da Grosseto, documento antico e molto impor- tante della nostra lingua in prosa letteraria. Questo lavoro del Selmi, preparato ac- curatamente per le stampe, con note e richiami ece., forma un volume intero della detta Collezione. Altre ne pubblicò nella Scelta di curiosità letterarie, di cui era direttore lo Zam- brini, a Bologna. Quando Farini era dittatore dell'Emilia ebbe sempre al fianco Francesco Selmi nel quale aveva piena fiducia. In questo tempo (1860) venne al Selmi l’idea di fon- dare le tre Deputazioni di Storia patria di Modena, Parma e Bologna, e l’idea, favo- rita e consigliata anche dal Montanari, fu accettata e messa ad effetto dal Farini: ... considerando che il richiamare la storia ai suoi veri uffici è opera di governi liberi che lasciano volontieri aperto ogni adito alla verità e non temono di trovar rimproveri nel passato. Allora Selmi era Segretario generale del Ministero dell'Istruzione Pubblica (aveva 43 anni) ed in tale qualità presiedette la prima adunanza della Deputazione di Storia patria di Modena il 19 febbraio 1860. Il Selmi restò poi sempre col titolo di membro della Deputazione di Storia patria modenese. Le tre Deputazioni di Storia patria più vecchie dell'Emilia debbono dunque la loro esistenza a Francesco Selmi. Egli fece parte della Commissione coll’incarico di ricercare i codici e le edizioni più rare dei testi di lingua spettanti ai primi secoli. Questa Commissione fu nominata da Luigi Carlo Farini nel 1860 allora Dittatore dell'Emilia, dietro iniziativa di Selmi. Egli, benchè non potesse per l’ufficio suo a Torino essere presidente di questa Com- missione, pure ne era veramente l’anima, e lo dimostrano le lettere del presidente Zambrini; il quale in una del 22 dicembre 1860 gli scriveva: Insomma io veggo dal complesso delle cose che la Commissione ha nella S. V. un vero patrono e mecenate, il che vieppiù incoraggisce me stesso e mi fa sperare gran bene. Fu poi sempre membro della Commissione deî Testi di lingua. To ho la fortuna di possedere il volume I della Divina Commedia, Vl Inferno, del- l’edizione dello Scartazzini, postillato di mano del Selmi stesso; sono note fittissime. Sino dal 1863 Selmi attendeva a scrivere una Vita dî Dante, ma non ho potuto sapere se e quanto manoscritto abbia lasciato in proposito. La vita scientifica di Selmi che va dal 1840 al 1881 può essere divisa in quattro periodi: 1° dal 1840 al 1848; fai suoi più importanti lavori sullo solfo, sui colloidi, sulla chimica molecolare, ecc.; 2° dal 1848 al 1860; a Torino scrive molte opere, fa dei bei lavori anche con Sobrero, pubblica le ricerche sul latte, ecc.; 3° dal 1860 al 1867; si occupa essenzialmente di cose letterarie; 4° dal 1867 al 1881 scopre le ptomaine e dà una grande spinta agli studi chimico-tossicologici. I due primi periodi sono più ricchi di idee originali, l’ultimo colla scoperta delle piomaine ha pure una importanza grandissima. 148 ICILIO GUARESCHI 24 L’opera scientifica di Francesco Selmi è vasta e moltiforme; le sue ricerche interessano quasi tutte le branche della chimica e possono essere raggruppate come segue: II. Ricerche di chimica fisica. III. Delle pseudosoluzioni o soluzioni colloidali. IV. Studi di chimica inorganica. V. Ricerche di chimica organica. VI. Azioni di contatto o catalitiche, fermentazioni, ecc. VII. Ricerche di chimica biologica. VIII. Ricerche di chimica tossicologica, di chimicalegale e di applicazioni alla medicina. IX. Chimica applicata all’agricoltura ed all’industria. X. Ricerche varie. XI. Trattati — Traduzioni — Enciclopedia di chimica. XI. Epistolario. XIII. Bibliografia. Essendochè molti de’ primi lavori del Selmi si trovano in Giornali, o in Memorie o in Atti di Accademie poco conosciuti o in opuscoli a parte, così ho creduto utile tra- scrivere interi brani delle cose più importanti onde far meglio scorgere quali erano le idee del nostro chimico. II. Ricerche di chimica fisica. Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare. — Cristalli misti isomorfi. — Delle emulsioni inorganiche (cloruro d’argento, solfo, joduro mercurico). — Azione della luce. — Pila a triplice contatto. — Osservazioni ed espe- rienze sulle soluzioni di solfato sodico. — Soluzioni sovrasature. — Tras- formazione del joduro mercurico giallo in joduro mercurico rosso. — Sulla porpora di Cassio. — Della soluzione. Molte osservazioni ed esperienze del Selmi hanno stretta attinenza colla chimica fisica. Egli ha sempre avuto una grande simpatia, specialmente nei primi anni della sua carriera, per quei fenomeni che implicano l'ammissione di movimenti moleco- lari, di vibrazioni molecolari. Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare. — Dal 1843 al 1846 pubblicò i suoi Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare, Modena, 1843-46, in quattro fascicoli, riuniti in due opuscoli, che sono assai preziosi per le molte idee e buone esperienze che contengono (Vedi Bibliografia). Assai bella è la prefazione, della quale trascrivo il brano seguente: L’uomo mosso dall’amore d’osservazione, e sollecitato dall’innato desiderio di conoscere la causa delle cose, ponendosi a considerare i fenomeni naturali che si compiono all’intorno di 25 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 149 lui, ebbe ad accorgersi che questa materia della quale esso pure si compone in parte, e di cui è formata la terra che lo sostiene, l’aria che lo circonda, l’acqua che lo disseta, questa materia, io dico, trovasi in istato di muoversi ed agitarsi continuo, di trasmutazioni, di risolvimenti e di riordinamenti novelli. Se il minerale qua si fa ruggine e sfiora, se là, invece, di polvere diventa duro cristallo; se la pianta e l’animale nascono, crescono e muoiono, ridonando all’aria ed alla terra quelle sostanze che loro tolsero per organizzarsi, se ciò avviene la materia è in moto indefesso, e le particelle di lei, che ora stanno aggregate in una forma, alla dimane tra- passano a vestirne un’altra. I due primi fascicoli contengono le sue ricerche: 1° Sopra l’azione che î cianuri ammonico, calcico, magnesico e baritico eser- citano sull’ammoniuro, clorammoniuro ed idrato d’oro (pag. 1 a 15). 2° Sopra lo stesso argomento. Studio teorico (pag. 15-29). 3° Studi intorno all’azione del jodio sopra il bicloruro di mercurio (pag. 29-80). In quest’ultima parte si discorre del cloruro d’argento emulsionato, delle emul- sioni inorganiche e dell’azione della luce. Gli altri due fascicoli contengono due parti: nell’una il seguito delle ricerche precedenti, le sue £icerche intorno al bijoduro di mercurio e sulla cristallizzazione di clorojoduri, ossia formazione di cristalli misti (pag. 134); la seconda parte uno Studio sulla struttura delle molecole saline (pag. 135 a 176). Da quest’ultimo lavoro, interessante riassunto delle teorie sui sali, si scorge chiaramente che egli era al corrente dello stato della scienza del suo tempo. Questo capitolo da pag. 135 a 176 si legge con profitto anche oggi. Interessa di più la chimica fisica il capitolo che riguarda il joduro mercurico e specialmente i cristalli misti. Cristalli misti isomorfi. — Importanti sono le ricerche che il Selmi fece sino dal 1843-44 sulla cristallizzazione dei cloruri e joduri di mercurio e sulla forma- zione di cristalli misti. Credo utile riprodurre il riepilogo che trovasi a pag. 116-117 dei fasc. III-IV: Restringendo in brevi capitoli le cose narrate alla diffusa, e ricordandole particolarmente nei risultamenti i più importanti, concluderemo: 1° che il bijoduro di mercurio rosso si discioglie nei liquidi semplici e composti senza colorarli in modo sensibile; 2° che separato di repente dalla soluzione alcoolica, col mezzo dell’acqua versata in abbondanza, si presenta nel primo istante della sua precipitazione in forma di particole giallo- citrine, le quali sollecitamente sbiadiscono, e passano al giallo-smorto, poscia al giallo-arancio, e finalmente col tempo al rosso di mattoni; È 3° che raccolto quand’è giallo-smorto o giallo d’arancio, lavato ed asciugato, ha l’aspetto di polvere finissima, che tramuta al rosso per lievi eccitamenti del calorico, della luce, dello strofinamento, ece., e che finalmente ordina le sue molecole a forma cristallina, durante l’ar- rossamento ; 4° che si può ritardare il rapido trasformarsi del precipitato giallo-citrino ai susseguenti gradi di calore indicati, operando a bassa temperatura, servendosi cioè della neve invece di acqua, ovvero di mescolanza di neve e d’acido solforico; 5° che il bijoduro allorquando sia precipitato nelle maniere accennate, tende a mante- nersi suddiviso ed emulsionato nel veicolo, dal quale si giunge a separarlo con mezzi somi- glianti a quelli onde si scompongono e guastano le emulsioni organiche; 150 ICILIO GUARESCHI 26 6° che il bijoduro disciolto nell’alcool, piuttosto debole, a grado di calore conveniente, può essere, col mezzo di una sola stilla d’acqua, d’acido solforico o d’altri liquidi, precipitato quasi in totalità, nella forma giallo-citrina, purchè si procuri la diffusione nell’intero corpo della soluzione di quel poco di precipitato, che la stilla del liquido sovraggiunto produsse al fondo del recipiente; 7° che senza l’aiuto della stilla di liquido, si separa anche da solo, nella soluzione, quando questa sia versata in bicchiere di vetro non riscaldato; 8° che una tenue quantità della soluzione aleoolica di bijoduro mercurico, entro la quale sia incominciata la formazione dei cristalli, è atta a trasfondere il fenomeno in altra quantità di soluzione somigliante, non per anco alterata; 9° che operando con certe avvedutezze si ottengono mediante il suddetto fenomeno cri- stalli nitidi e ben determinati di bijoduro di mercurio citrino, conformati a tavole romboidali, le quali per l'aggregazione loro a due, a tre, a quattro, prendono le sembianze di prismi e di cubi, sebbene non lo siano in realtà; 10° che lasciando svaporare a freddo poche goccie di soluzione alcoolica già raffreddata di bijoduro di mercurio, rimangono in ultimo sul vetro alcuni piccolissimi cristalli, in parte rossi, in parte gialli, i quali osservati con microscopio, mostrano di avere quasi tutti la stessa forma, e di appartenere per la maggior parte al sistema ottaedrico; 11° che scaldato il bijoduro di mercurio secco in cristalli rossi, passa al giallo, e vapo- rizza assai prima di fondersi; colla fusione si trasmuta in liquido giallo-rosso, che manda nel bollire un vapore perfettamente translucido o scolorito; 12° che effettuando lo scaldamento a bagno di sabbia del bijoduro polverizzato e misto a polvere minerale inerte e fissa, si ha alla superficie una efflorescenza del corpo mercuriale con visibili movimenti delle particelle cristalline, le quali s'arrampicano dal basso all’alto per salire alla cima della massa; 13° che alle volte si veggono parecchi dei cristalli ivi radunatisi, spiccare un salto, rica- dendo al basso, ovvero attaccandosi a qualche punto delle pareti interne della bottiglia a breve distanza dal punto d’onde si dipartirono; 14° che disciogliendo il bijoduro di mercurio col bicloruro dello stesso metallo, in acqua, si ha un liquido il quale, concentrato, fornisce cristalli colorati in giallo molto dispa- ratamente, e facili in appresso a rosseggiare; le acque madri collo svaporamento dànno nuovi cristalli, che sono scoloriti, ma tendenti a farsi rossigni, le ultime acque madri dei quali producono una terza qualità di cristalli, scoloriti e diretti ad arrossare; 15° che negli ultimi cristalli si contiene meno di bijoduro di mercurio che nei secondi, ed in questi meno che nei primi, i quali trattati con acqua tiepida e cristallizzati di nuovo, poscia ripresi altra volta con acqua sempre tiepida, si dividono in due porzioni, l’una delle quali solubile è composta di bijoduro e di bicloruro di mercurio, l’altra formata di solo bijoduro di mercurio cristallizzato e rosso. Questi due ultimi brani furono riprodotti dai professori G. Bruni e Padoa nel loro studio: Sulla formazione di cristalli misti per sublimazione (1); essi dicono: Riguardo alla interpretazione di questi fenomeni il Selmi osserva più innanzi (pag. 132-133) che non si possono spiegare coll’ammissione di una combinazione chimica fra i due sali, ma che si deve invece ammettere trattarsi di una formazione di cristalli misti fra sostanze isomorfe. (1) © Atti R. Accad. dei Lincei ,, 1902, t. XI, 1° sem., pag. 569. 27 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 151 È anzi veramente da meravigliarsi, come, dopo osservazioni di una precisione e acutezza mira- bili per lo stato delle cognizioni di quell’epoca, si trovino in trattati di chimica più moderni od anche recentissimi riportati i pretesi clorojoduri di mercurio come veri composti chimici. Bruni e Padoa furono i primi a far notare l’importanza di questi lavori del Selmi. Padoa e Tibaldi poi, in altre ricerche (1): Sulla formazione di cristalli misti fra cloruro e joduro mercurici, confermano ancora le antiche ricerche di Selmi sulla cristallizzazione delle miscele di cloruro di mercurio e di joduro di mercurio. Il Selmi aveva già ammesso che quando il cloruro ed il joduro mercurico cristallizzano in- sieme formano dei cristalli misti e non già dei composti intermedi. Ed a questo proposito credo utile di riprodurre almeno le due pag. 132-134 dei fascicoli INI-IV dei suoi Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare: D'altronde facendosi cristallizzare da un liquido saturo la mescolanza dei due corpi, nota- vasi sempre che i cristalli primi a deporsi contenevano quantità di bijoduro di mercurio supe- riore a quella che rimaneva ai cristalli separatisi in appresso; alla perfine gli ultimi cristalli e l’acqua madre ne riuscivano tanto poveri da rendere necessari delicati reagenti per iscoprirvelo. Nè i primi eristalli risultavano da combinazione stabile e definita dei due corpi mercuriali, poichè lavati coll’acqua perdevano il bicloruro, e ridisciolti, formavano nuove cristallizzazioni, nelle quali verificavasi la successiva posatura delle prime molto cariche e delle ultime molto povere del bijoduro di mercurio. La forma dei composti di bicloruro di mercurio col bijoduro, l’alterazione che subiscono o da soli o per lo strofinamento, od anche per l’azione dissolvente dell’acqua, mi fanno per- suaso che i due corpî mercuriali, nell’unirsi dentro un veicolo e nel cristallizzare, non si com- binino veramente insieme, ma rimangano in mescolanza semplice, almeno il più delle volte, l’uno assumendo la forma cristallina dall’altro, quando gli stia al disotto nella quantità onde gli fu associato. La qual cosa si riconferma da ciò che il bijoduro si svela collo spontaneo arrossamento in un composto ove sia unito al bicloruro nella proporzione di 1:30 atomi, arros- samento che dimostra il passaggio di quel corpo da una forma di cristallizzazione ad altra, e lo stato di violenza in cui rimane durante il tempo che non appariva nel consueto suo colore. Essendoci noto che parecchie sostanze cristallizzano con forme insolite per grandiosità e per ìistruttura, mediante la presenza di materie disciolte nel liquido da cui esse si disgiungono nell'atto della cristallizzazione, non parrà strano che anche il bijoduro di mercurio ed il biclo- ruro assumano reciprocamente la speciale forma appartenente all’uno dei due, quando abbiano a cristallizzare insieme, e l’uno sovrabbondi sopra l’altro. Oltre a ciò si possono risguardare ambedue quasi doppia significazione dello stesso tipo, poichè hanno l’identico radicale, la stessa composizione quantitativa, le proprietà molto somiglianti, e non differiscono se non nella qua- lità del principio metalloidico, differenza, a mio avviso, di poca importanza per la stretta ana- logia che corre fra il cloro ed il jodio. Qual meraviglia adunque che possano mostrarsi isomorfi, cristallizzare uniti, senza l’uopo di vera chimica combinazione, e sostituirsi a vicenda come fanno nei minerali gli ossidi metallici isomorfici ? Qual meraviglia che il cloro surroghi in parte il jodio nel cristallo di bijoduro di mercurio, ed il jodio operi il consimile pel cloro nel ‘cri- stallo di bicloruro, se varî elementi hanno la facoltà di prendere nelle combinazioni il posto di altri elementi abbenchè sian disparati di tanto, e sostituirli senza mutare le proprietà essenziali del composto ? (1) © Atti R. Accad. dei Lincei ,, 1903, t. XII, 2° sem., pag. 159. 152 ICILIO GUARESCHI 28 A mio parere, non si giunge a spiegare chiaramente le reazioni di cristalli misti del clo- ruro e del joduro mercurici, se si suppone una vera associazione chimica fra i due binari, anzi allora s'incontrano parecchie gravi obiezioni, a sciogliere le quali non si riesce con tanta age- volezza. E qui credo opportuno di avvertire che non intendo io già di negare la formazione di composti per affinità chimica fra il bicloruro ed il bijoduro di mercurio; solo ho avuto di mira il mettere in rilievo quanto meglio convenisse il risguardare qualcuno di tali composti come una semplice unione per uguaglianza di forma cristallina, di quello che una combina- zione in tutta la forza del significato attribuito al vocabolo. Comunque però la cosa si consideri, sarà sempre d’ importanza grave l’osservare associa- zioni di corpi intime, alterarsi e disgiungersi unicamente in virtù della tendenza dell’uno dei due a passare da una struttura di cristallo ad altra per l'influenza della temperatura piuttosto bassa a cui rimangono esposte. Il che sembrami corrispondere al concetto seguente: un corpo combinatosi con altro, in modo da essere costretto a rimanere in combinazione ridotto ad una forma dalla quale abborre, mantiene sempre in sè viva la tendenza a ricomporsi, nella forma desiderata, fino al punto di staccare le sue molecole da quelle del compagno, di accozzarle insieme ordinandole a seconda di sua natura; e ciò per movimento intestino, a secco, senza l’aiuto di agenti esteriori, almeno di cognita ed apparente influenza (1). Questa legge insita in varie sostanze, e singolarmente manifesta nelle combinazioni del bijoduro di mercurio, può valere a porre in luce, come certi composti, che parrebbero stabili e duraturi, sì guastino di per sè, con effetti alle volte molto ragguardevoli, cioè dello svolgi- mento di calorico, dello scoppio improvviso, ecc. i Delle emulsioni inorganiche. — Il Selmi già dal 1843-46 rivolse la sua atten- zione alle emulsioni inorganiche, le quali, come egli osservò, hanno molte analogie colle emulsioni organiche. Delle emulsioni inorganiche e specialmente del cloruro d’argento il Selmi ne discorre anche ne’ suoi Studi teorici e sperimentali di chimica molecolare, 1843-46, parte I. Egli attribuisce questi fenomeni a vibrazioni molecolari. A pag. 76 scrive: Affine di bene toccare con mano che l’esistenza delle vibrazioni molecolari dei sali disciolti non è una chimera, ed ha fatti incontrovertibili i quali ne dànno la dimostrazione, io reputo di qualche utilità accennare qui alla sfuggita una serie di prove e di osservazioni da me e da altri instituite, dalle quali traluce tanto splendida ed evidente da non potersi mettere in dubbio. Prendendo una soluzione allungata d’acido cloridrico ed aggiungendovi del nitrato d’ar- gento fino al punto che tutto il cloro sia tramutato in cloruro argentico, questo rimane diffuso nel liquido a modo di sostanza emulsionata. Sopravversando in abbondanza altro nitrato dello stesso metallo, tosto il cloruro raccogliendosi a larghi fiocchi si separa dal veicolo, e questo si rischiara e la precipitazione si effettua con maggiore sollecitudine e perfezione se con un bastoncino di vetro si dibatta rapidamente il liquido. Altri sali, ad esempio, il solfato potassico, il cloruro d’ammonio, il nitrato baritico, il solfato sodico, operano a guisa del nitrato argentico, ma con (1) Ed in nota scrive: “ Non ha guari tornai a visitare il clorojoduro di mercurio, bianco in “ origine, e fattosi rosseggiante in varii punti entro lo spazio di parecchi mesi. Corre già oltre i “ due anni dacchè lo preparai. Mi sono avveduto che il rosseggiamento crebbe con notevolezza nei © sei ultimi mesi, spazio entro il quale aveva trascurato di osservarlo. Probabilmente a capo di altro “ mezz’anno, riveggendolo apparirà eziandio più rosso. È adunque lentissimo lo slegarsi del joduro “ di mercurio dal bicloruro ed il ricomporsi di lui in cristalli distinti e liberi ,. 29 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 153 energia minore, poichè separano il cloruro d’argento in forma di fiocchi più tenui e divisi, e con lentezza maggiore. La posatura e la conformazione a fioechi del cloruro argentico proviene manifestamente dalle vibrazioni prodotte dal nitrato d’argento e dagli altri sali, le molecole dei quali, nell'atto di diffondersi in tutto il liquido, si muovono e percuotono contro le parti- celle del cloruro, le sospingono l’una sull’altra, e le costipano in ammassi più o meno ampî. Il dibattimento avviva e rende più rapido il muoversi delle molecole saline ed affretta perciò la precipitazione del cloruro dimulsionato. Procacciandosi un’emulsione di solfo molle ed affondendo sul liquido emulsivo varie solu- zioni saline si fa posare il solfo in forma di fiocchi, i quali riescono ampi e larghi per alcuni sali, e per altri invece tenui ed esili. Questi ultimi, che alle volte non perdono l’attitudine a ridursi nuovamente in condizione emulsiva quando siano misti ad acqua pura, rimangono tal- mente ammucchiati gli uni sugli altri quando vi si sopravversa una soluzione di sali della prima categoria, da tramutarsi in magma tenace, elastico ed uniforme. Il solfo polveroso dimulsionato si conforma a fiocchi e precipita dal menstruo col mezzo dei medesimi sali. La fecola, gli albuminosi, si disgiungono dai liquidi ne’ quali stavano gonfiati sotto la percossa dei moti vibratorî delle sostanze saline, e si rendono al fondo come coagulati e rappresi. Gli idrati degli ossidi metallici stemperati in date soluzioni alcaline o: saline, senza discio- gliersi, si disidratano e passano dalla condizione amorfica alla cristallina (Fremy). Nelle indicate reazioni tutte, è incontrovertibile e sicura l’influenza delle vibrazioni mole- colari, giacchè i loro effetti tornano siffattamente distinti e ben determinati da non potersi met- tere in dubbio quale sia la causa operante. Dunque i sali disciolti in un menstruo producono movimenti molecolari, l’efficacia dei quali giunge al punto da accozzare particelle di corpi presenti e sospesi nel liquido, e da scomporli ancora e da cangiarne la condizione polimorfica. Delle emulsioni inorganiche egli discorre ancora a lungo, relativamente al bijo- duro di mercurio, precipitato con acqua dalla sua soluzione alcolica, ne’ suoi Studi teorici e sperimentali di chimica molecolare, fascic. III e IV e particolarmente a pag. 96. Azione della luce. — Non sono prive d'interesse le sue osservazioni sull’azione della luce, che trovansi a pag. 69-71 dell’opuscolo sovracitato (fasc. I-II). A proposito della scomposizione del bicloruro di mercurio per l’azione del jodio egli a pag. 69 scrive: Una virtù, una forza attiva e scomponitrice deve esistere perciò nel liquido in cui il jodio sì impadronisce degli elementi dell’acqua, giacchè da solo non sarebbe capace di disgiungere l’ossigeno dall’idrogeno in tempo così breve. La soluzione acquosa di jodio si conserva di fatti a lungo inalterata se viene mantenuta con date precauzioni, ma presto scolora se viene esposta alla luce diretta, producendosi acido jodidrico ed acido jodico. Per quanto la luce coadiuvi la reazione, è certo frattanto che da sola non la produce, giacchè non possiede la facoltà di ridurre l’acqua ne’ suoi elementi, mentre per lo contrario siffatta facoltà appartiene al jodio in grado debole però, e da non poterla esercitare sollecitamente e compiutamente se da qualche eccita- tore non sia sussidiato. La luce, a tutti è noto, si comporta quale chimico agente puro; essa modifica, compone e scompone pel suo contatto le sostanze, invisorendo od affievolendo le forze di aggregazione semplice e di affinità, onde i corpi elementari per influenza sua possano cangiare di stato allo- tropico, unirsi insieme più agevolmente, ed i corpi composti mutare la loro costituzione o la composizione. Gli esempi da citarsi in conferma della riferita proposizione si raccoglierebbero Serie II. Tom. LXII T 154 ICILIO GUARESCHI 30 a centinaia quando piacesse; basti citare il fosforo che al contatto della luce passa da una data condizione allotropica ad altra diversa, il fosfuro triidrico che l’altera e perde la proprietà di ardere spontaneamente, il bijoduro di mercurio che io vidi da giallo farsi rosso sotto il percoti- mento dei raggi solari, il cloruro d’argento, il joduro mercuroso, ecc., che si seompongono nei modi già conosciuti. Una particolarità frattanto noteremo in questo luogo, ed è che la luce sembra fornita in ispeciale maniera della proprietà di scomporre l’acqua a contatto dei corpi affini per l'idrogeno, d’idrogenare anco direttamente quelle sostanze che da sole non lo potreb- bero fare, alle volte separando così l'ossigeno allo stato libero, ovvero riducendolo in combi- nazione poco stabile, alle volte unendolo ad una molecola, che di tal maniera si riduce ad un modo diverso d’essere. Il jodio, il bromo ed il cloro in soluzione acquosa si idrogenano al contatto della luce, e se dalla soluzione clorica soltanto parte dell’ossigeno libero ciò è perchè l’acido ipocloroso nel formarsi si scompone contemporaneamente, mentre nelle altre due vi ri- mane combinato in forma tale da potersi però disgiungere senza grave difficoltà. L’opera della luce in questi casi non può essere che una influenza di puro contatto, o meglio di vibrazioni, le quali agendo sui corpi percossi, li determinano a mutare l’ordine delle molecole, e ad entrare in un modo nuovo di essere. L'azione scomponitrice di contatto non è in certi casi esclusiva alla luce, essa la possiede in comune con altri corpi, e sebbene i fatti ne’ quali tale comunanza si appalesa non siano frequenti, tuttavia non mancano interamente. Quando, per esempio, si espone alla luce diretta una soluzione acquosa di sublimato corrosivo, il liquido dapprima limpido s’intorbida, e si forma, come nota Berzelius, del cloruro mercuroso e dell’acido cloridrico; lo stesso effetto è prodotto da molti corpi organici i quali tramutano il sublimato corrosivo in calomelano ed in acido cloridrico. Nelle mie indagini intorno al solfo emulsionato ho riconosciuto che la luce altera il principio che rende molle il solfo nella stessa maniera onde operano i solfuri alcalini, ossia per semplice contatto, facendo cangiare il solfo di giallo e molle in bianco e polveroso. Per le quali cose non sembrami nuovo e strano l’affermare che alcuni principî possono equi- valere alla luce in varie reazioni e surrogarla operando a maniera della medesima. Pila a triplice contatto. — Il Selmi inventò questa pila nel 1857 (“Il Tecnico ,, Torino, 1857, vol. I, pag. 3 e 81); la Memoria in cui descrive questa pila, che il De la Rive nel 1857 vide in funzione alla stazione telegrafica centrale di Torino, ha il titolo: Pila a triplice contatto e suoi usi nella telegrafia elettrica, nella elettrometallurgia, ecc. Ecco quanto scriveva Aug. Righi nel 1874 su questa Pila (“ Enciclop. di chi- mica », vol. VIII, pag. 842): Ogni coppia di questa pila, dovuta al Selmi, si compone di una lastra di zinco immersa orizzontalmente in una soluzione di solfato di potassa, e di una striscia di rame piegata a spirale, che si immerge per metà nel liquido al disopra dello zinco. Si dà tal forma al rame onde allungare assai la linea ove ha luogo il triplice contatto del rame col liquido e coll’aria atmosferica. L’idrogeno che si porta nel rame allo stato nascente, si combina coll’ossigeno del- l’aria, ed in parte anche coll’azoto formando ammoniaca; in tal modo la polarizzazione è pre- venuta, e la corrente si conserva lungamente costante. Osservazioni ed esperienze sulle soluzioni di solfato di sodio. — Selmi ha fatto molte osservazioni importanti sulle soluzioni di solfato di sodio. Una delle prime è quella che riguarda il cambiamento di volume del solfato di sodio in soluzione (Nouveaux phénomènes que présente la solution de sulfate de soude, par M. Fr. Selmi, professeur de Chimie è Reggio (Modena); “ Jour. de Pharm. et de Chim. ,, 1845, vol. VIII, p. 123; “ Ann. de Millon et Reiset ,, 1846, p. 130; “ Ann. Ital. del Selmi ,, I, 1846, pp. 54-55). 31 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 155 HKeco come il Berzelius, pur tanto severo e parco nei suoi giudizi, riferisce intorno a questo primo lavoro di Selmi sulla soluzione di solfato sodico (“ Rapport annuel sur les progrès de la Chimie , per il 1845, pag. 28 e “ Jahresb. f. Chem. ,, 1843, t. XXVI, pag. 52): Changement de volume du sulfate sodique par la dissolution. M. Selmi a fait sur une disso- lution de sulfate sodique la remarque suivante, qui est digne d’attention. Lorsqu’on dissout le sel cristallisé dans un poids égal d’eau à +50, qu’on verse la dissolution dans un tube de verre, qu'on ferme ce dernier hermétiquement avec un bouchon, et qu'on refroidit ensuite la disso- lution è 0°, le sel ne cristallise pas; mais il cristallise immédiatement dès qu’on enlève le bouchon. Lorsqu’on verse la dissolution chaude dans un ballon de verre è col long et étroit, dans lequel on introduit un thermomètre, qu'on ferme ensuite le col hermétiquement, que pendant le refroidissement, è 0° on fait des traits sur le verre là ou la liqueur s’arrétait è 50°, puis de 5° en 5°, qu’on retire ensuite le ballon de l’eau glacée, et qu'on l’ouvre, le sel commence à cristalliser, la température s’élève à 4 17°,5 ou 18, et le volume de la dissolution augmente de manière à étre au méme niveau qu'il était è + 43°. Si l’on replonge le ballon dans l’eau glacée pour accélérer le refroidissement, le volume de la masse continue è augmenter malgré le refroidissement de telle fagon que, lorsque la température est arrivée è 0°, la masse occupe le méme volume que le liquide occupait è -+ 50°. Maintenant, si l’on réchauffe peu è peu la dissolution de manière à dissoudre le sel, le thermomètre monte, et le liquide baisse. “ Ecco, scrive il Selmi, il primo esempio conosciuto di contrazione o diminuzione di volume avvenuta mediante la soluzione di un sale nell'acqua già previamente idratato all’ultimo punto d’idratazione ,. Sulle soluzioni sovrasature. — Sl Selmi ha toccato anche, e con esperienze ben fatte, uno dei fenomeni più curiosi ed importanti che si conoscono: quello delle soluzioni soprasature. Le sue prime osservazioni ed esperienze sulle soluzioni sovrasature del solfato sodico risalgono al 1845 e trovansi nelle note agli Elementi di chimica dell’ Hoefer trad. da G. Giorgini, t.I, p. 384 e nell’Annuario italiano di Chimica e di Fisica del Selmi, I, 1845, pagg. 54-55 e II, 1846, pag. 15). Nel 1849 presentò una memoria: Monografia sulla cristallizzabilità della soluzione di solfato di soda (“ Mem. R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1851, vol. XI, p. 325 e letta il 20 maggio 1849). Ecco quanto Egli scrive relativamente alla memoria del Loewel da lui riassunta negli “ Annali di Majocchi ,, nel 1850, t. II, pag. 26: I lettori facendo il debito confronto fra l’antecedente Memoria appartenente a me e le cose scritte nei Trattati di Chimica, e questa pubblicata dal Loewel, vedranno tosto, che il chimico francese nulla dice di veramente nuovo, se eccettuino l’osservazione relativa alla passività delle bacchette di vetro e di metallo scaldato. La mia Memoria ha diritto di priorità, perchè da circa un anno fu presentata e letta alla R. Accademia delle Scienze di Torino. Ingiustamente alcuni trattatisti, discorrendo delle soluzioni sovrasature del sol- fato sodico, dimenticano di far conoscere le ricerche del Selmi, mentre ricordano quelle del Lowel, di Schiff, di Gernez ed altri. Le ricerche di Lòwel sono del 1850 CS5IN(VA Che) 29) pag 6206 Jahresb: hg 18507 pi 294: RANCH); t. 33, pag. 334 e “ Jahresb. ,, 1851, pag. 331), mentre quelle del Selmi risalgono 156 ICILIO GUARESCHI 32 al 1845 e 1846 e più estesamente nella memoria presentata alla R. Accad. delle Scienze di Torino, 1849 (1). Anche sulle sue esperienze riguardanti le soluzioni sovrasature egli è tornato più volte; ne discorre a lungo nel vol. X della Enciclop. chimica e a pag. 285 scrive: Si osservò che quando la soluzione satura fosse contenuta in canna di vetro chiusa ai due estremi, uno dei quali affilato e suggellato a lampada, dopo che tutta l’aria era stata espulsa, potevasi avere una specie di martello ad acqua, il quale alle volte poteva essere dibat- tuto con forza e per lungo tempo, senza che il sale cristallizzasse (Fr. Selmi). Osservazioni ed esperienze sulla trasformazione del ioduro mercurico giallo in ioduro rosso. — Sino dal 1844 Selmi studiò con cura il ioduro mercurico ed osservò dei fatti nuovi interessanti che sono lodevolmente ricordati in tutti i più importanti Trattati di chimica. Egli notò che il ioduro mercurico rosso cristallizza bene dall’alcool e che perde la sua facoltà colorante non solamente sciogliendosi nell’alcool, ma anche nelle soluzioni acquose di cloruro mercurico, d’acido iodidrico, dei ioduri e cloruri alcalini; il ioduro rosso passerebbe allo stato giallo e perciò non colora queste soluzioni (“ L’Institut ,, 1844, XII, pag. 102). Queste osservazioni ed esperienze piacquero assai al Berzelius ed io non posso fare di meglio che riferire quanto egli scriveva nel 1845 nel suo “ Rapport Ann. sur la Chimie ,, 1844, pag. 164; o “ Jahresb. f. Chem. ,, 1844, t. XXV, pag. 293): M. Selmi (“ L’Institut ,, N. 534, pag. 102) a fait remarquer que l’iodure mercurique se trove toujours dans la modification jaune quand il est à l’état de dissolution, ce qui explique pourquoi ces dissolutions sont jaunes. Quand on dissout l’iodure dans l’alcool, et qu’on verse cette dissolution dans l’eau froide, elle y produit un précipité jaune; si l’eau est chaude, le précipité est rouge. On obtient méme quelquefois l’iodure mercurique en cristaux jaunes dans la dissolution alcoolique. La couleur des iodures mercuriques doubles est souvent jaune au moment de la cristallisation, et devient rouge plus tard. Quand on dissout l’iodure mercurique dans une dissolution de chlorure, les deux sels cristallisent ensemble; les cristaux sont jaunes le plus souvent, mais deviennent rouges à la longue, et immédiatement si on les broie. Il Malaguti non dimenticò anche questo lavoro di Selmi e nel 1858 scriveva: Si, d’après M. Selmi, on fait cristalliser lentement une dissolution alcoolique de iodure mercurique, on obtient encore la modification rouge; enfin, le temps seul suffit pour opérer ce changement (F. Maracuti, Lecons élém. de chimie, 2° éd., 1858-60, I, pag. 937). E su questo curioso fenomeno, il Selmi stesso scriveva in una nota al Regnault, vo]. III, pag. 452: Ci sia lecito notare a questo punto che Fr. Selmi osservò anni sono, che l’joduro di mer- curio possiede la singolare proprietà, quande si discioglie, di passare dallo stato isomerico rosso al cedrino, e questo fa, non solo a fronte degli agenti di soluzione composti che lo traggono a combinazione, come acido cloridrico, liquidi saturi di eloruri e d’joduri alcalini, ma eziandio a fronte di solventi semplici come alcoole ed acqua. Nelle soluzioni esso suole apparire perfet- tamente scolorito, e quando si depone dai solventi, purchè le circostanze gli siano favorevoli, (1) Però Wilh. Ostwald ricorda il lavoro di Selmi (“ Lehrb. allg. Chem. ,,, II, 2* parte, p. 274). 33 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 157 mantiene lo stato in cui si disciolse, cioè si conserva nella modificazione cedrina. Tosto che le circostanze, nell’atto del coneretamento, siano favorevoli al movimento molecolare, allora l’ioduro passa nel deporsi dal cedrino al rosso, ragione per cui i chimici che non esaminarono il feno- ‘meno a minuto, non se ne accorsero prima. Della soluzione mista di acido cloridrico con biclo- ruro di mercurio, il bijoduro che fu disciolto in certe quantità proporzionali, si depone con forma di magnifici cristalli lamellari gialli, i quali non appena si tocchino o si tolgano dal liquido da cui si deposero passano al rosso scarlatto. In seguito Selmi fece nuove ricerche sul ioduro mercurico e nel 1855 pubblicò un’altra nota: Nuovi fatti relativi al biioduro di mercurio in soluzione (“ Nuovo Cimento ,, 1855, I, pag. 183; “ Jahresb. f. Chem. ,, 1855, pag. 417; Morssan, Traîté de Chim. inorg., V, pag. 265, ecc.). Egli osservò che le sostanze che sciolgono il biioduro mentre fondono, come il fosforo, o quelle che bollono, a bassa temperatura (eccetto il solfuro di carbonio), lo depositano per raffreddamento sotto la forma rossa o una miscela delle forme rossa e gialla; quelle che fondono (come lo zolfo) o bollono a temperatura alta lo depositano nella forma gialla. La solubilità, scrive Selmi, del bijoduro di mercurio in liquidi sì svariati, senza che ne rimanga alterato, in ispecie dal fosforo e dal solfo, ne mostrano la somma stabilità, e ci offrono esempio di uno di quei corpi singolari, nei quali i componenti si tengono congiunti tanto inti- mamente da resistere ai reagenti più gagliardi. Sulla formazione del ioduro giallo di mercurio dal ioduro rosso si trovano molte altre osservazioni anche nella sua Enczclop. chimica, VII, pag. 751. Sulla porpora di Cassio. — Alcuni ammisero che la porpora di Cassio sia una miscela di oro finamente diviso e di acido stannico gelatinoso (vedi ad esempio anche in HoLLeman, Trattato di chimica inorg., pag. 337). Selmi sino dal 1850 si mostrò del parere che la porpora di Cassio fosse una vera lacca d’oro metallico e di acido stannico. Nei suoi Principii elementari di chimica minerale, 1850, scriveva a pag. 375 (e nelle annotazioni al Regnault, 1851, vol. III, pag. 461): Alcuni autori sono dell’avviso che nella porpora di Cassio non si contenga ossido d’oro e che il metallo vi sia unito, per una speciale e forte aderenza, la quale diremo intima e senza diffusione. L'oro aderirebbe adungue all’acido stannico, come all’allumina le sostanze coloranti, al carbone le sostanze suddette, la calce, il jodio. Altri oppongono che la porpora di Cassio è solubile nell’ammoniaca, e ciò dimostra che l’oro siavi combinato e non aderente, non essendo l’oro metallico solubile in quest’alcali. Po- trebbesi a ciò rispondere, che non ripugna di vedere una materia attenuatissima' diffondersi in un liquido colle apparenze di soluzione, perchè si hanno molti esempi di fatti somiglianti nelle pseudosoluzioni. Probabilmente l’oro e l’acido stannico compongono una vera lacca dell’indole delle alluminose. Selmi, tenendo per l’opinione che la porpora di Cassio sia una lacca, tentò di conseguire lacche d’oro coll’allumina e vi riuscì di fatto, provocando la riduzione dell’oro in presenza dell’allumina libera per mezzo di un solfito alcalino. Della soluzione. — Selmi aveva delle idee molto moderne intorno alla natura delle soluzioni vere. Già nella sua memoria: Di alcune reazioni tra l'acido iodidrico e l'acido solforico tanto puro, quanto contenente del solfato di piombo, pubblicata nel 1847 (Raccolta di 158 ICILIO GUARESCHI 984 fisico-chimica italiana, di ZAntEDESCHI, Venezia, 1847), emise delle idee nuove intorno alle soluzioni, che considera come una vaporizzazione 0 vaporazione del corpo solubile nel solvente, e a pag. 42 scriveva (si badi che siamo nel 1847): Io ho replicatamente avvertito nelle mie scritture intorno ad argomenti chimici, qualunque volta me ne capitò il destro, che il fatto delle soluzioni si spiega in maniera molto più lucida e ragionevole, seguendo le dottrine di Gay-Lussac e del Bizio, di quello che attenendosi all’opi- nione comune, imperocchè a me sembra che meglio si intenda la cosa, ammettendo che il corpo solido si disleghi nell’atto dello sciogliersi e si diffonda nel solvente a somiglianza di un gas o di un vapore, rimanendovi veramente gasificato o vaporato, piuttosto che invocare per l’in- terpretazione del fenomeno, il sussidio di una speciale affinità di combinazione, della quale non sì riscontrano ì segni caratteristici appartenenti alla vera affinità. Su queste idee egli tornò nel 1857 nei suoi Principii elementari di Chimica inor- ganica, 2* ediz., 1857, nel capitolo XX intitolato: Della soluzione e della pseudo- soluzione. A pag. 78 scrive: Il soluto si diffonde nel solvente in parti sì tenui ed uniformemente distribuite da essere una vera espansione di molecole disgiunte, paragonabili a quelle de’ vapori nello spazio. Laonde ne venne che si avesse a definire la soluzione: Za vaporazione di un solido in un liquido. Ed è qui, e precisamente a pag. 79, che distingue molto bene le pseudosoluzioni o soluzioni false dalle vere soluzioni (Vedi più innanzi: Delle soluzioni colloidali). Queste idee intorno alla soluzione ed alla pseudosoluzione sono esposte da lui anche in un articolo Soluzione nell’Enciclop. di chimica, vol. X, pag. 276. Tutto questo articolo meriterebbe di essere riprodotto. In nessun Trattato di chimica italiano si trovano, a mio parere, notizie così interessanti sulle soluzioni, come trovansi nei libri del Selmi (1). Altre sue ricerche che toccano la chimica fisica, si trovano in lavori di chimica organica, di chimica inorganica, biologica, ece. (1) Per quanto oggi da alcuni si sia modificato il concetto di soluzione, ammettendo che talune volte i fenomeni di soluzione dipendano da composti che si formano tra solvente e corpo sciolto (il che fu già ammesso dall’Avogadro), il concetto generale che la soluzione sia come una evapo- razione o espansione gasosa della sostanza sciolta nel solvente, rimane ancora. FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 159 dI Ur I. Delle pseudosoluzioni o soluzioni false o soluzioni colloidali. Azzurri di Prussia, solfo, cloruro d’argento e caseina colloidali @). Ora è mio còmpito il far rilevare tutta l’importanza delle ricerche di Selmi sulle pseudosoluzioni o soluzioni false o soluzioni colloidali. È qui dove il Selmi ha meglio precorso il suo tempo; anche in questo campo della scienza ha stampato un’orma profonda; principalmente per avere sino dal 1846 e anche prima e poi molte volte dopo (1847-1849-1851-1857-1870) distinto molto bene le pseudosoluzioni o false solu- zioni (pseudosolutions ou solutions faux dei francesi) dalle soluzioni vere. La storia dei colloidi non può oggi farsi senza mettere in prima linea il nome di Selmi. Prima delle osservazioni generali di Selmi non erano conosciuti che alcuni fatti isolati di metalli che si trovavano in uno stato fisico diverso dal solito ; nessuno vi annetteva importanza e non sì pensava certo a dividere le soluzioni dei corpi in due categorie ben distinte come egli ha fatto (2). Selmi invece scopre dei fatti nuovi (azzurro di Prussia colloidale, solfo colloi- dale, ecc.) e li studia sotto un punto di vista generale, come nessuno aveva mai fatto prima di lui. Molti autori trattando dei colloidi incominciano coll’affermare che le nozioni di soluzioni diverse per le loro proprietà dalle soluzioni in generale, datano dalle ricerche di Th. Graham (1861-1864) che ha stabilito la distinzione di sostanze cristalloidi e colloidi. Ciò non è esatto, nè giusto; Selmi molto prima di Graham emise delle idee generali sulla natura delle così dette soluzioni colloidali, che egli pel primo denomi- nava pseudosoluzioni o false soluzioni. Ora il nome di pseudosoluzioni per indicare le soluzioni colloidali è usato da quasi tutti i chimici, ma sempre senza ricordare il nostro chimico. (1) Questo capitolo II fu fatto tradurre dall’egregio Prof. Wolfgang. Ostwald, e col titolo: Die Pseudosolutionen oder Scheinlòsungen nach Francesco Selmi, fu inserito nel suo “ Zeitschr. f. Chem. u. Ind. d. Kolloide ,, 1911, vol. VIII, pag. 113. Ora vi ho fatto solamente alcune brevi aggiunte. (2) Il sig. The Svedberg nell’eccellente sua opera: Die Methoden zur Herstellung Kolloider Liosungen anorgan. Stoffe, Dresden, 1909, ricorda le Veillard (1789), Berthollet (1798), Berzelius (1808) e Debereiner (1813) come i primi che abbiano ottenuto lo solfo colloidale; a me sembra che in questi casi non si possa parlare di solfo colloidale o pseudosciolto, come invece l’ha ottenuto, stu- diato e differenziato bene Selmi. Per la storia antica de’ colloidi si potrebbe allora ricordare coloro che hanno ottenuti certi metalli allo stato di grande divisione, come Priestley (1802), J. W. Ritter (1804), L. Brugnatelli (1806), ecc.; e si potrebbe risalire a Lemery che descrive la preparazione della tintura d’oro od oro potabile di madamigella” Grimaldi (Cours de Chimie, ult. ed., 1757, p. 57) e ad altri ancora prima di Lemery, come ad esempio al Corso di Chimica secondo î principîi di Newton e di Stahl, Venezia, 1750; e più ancora, l’oro comunemente diviso era conosciuto empiricamente già da Juncker che lo ricorda nel suo: Conspectus Chemiae theoretico-praticae in forma tabularum repraesentatus, 2 vol., 1780-1734 (t.I, p. 882). Anche Macquer (Dictionn. de Chimie) ricorda l’oro potabile, conosciutissimo dagli alchimisti. Ma tutto questo è inutile nello stato attuale. 160 ICILIO GUARESCHI 36 Tra le sostanze colloidali preparate da Graham vi è anche il ferrocianuro fer- rico e il bleu di Prussia neutro, che già erano stati ottenuti e studiati da Selmi. Notisi bene che io, col rivendicare a Selmi quanto gli spetta, non intendo di diminuire in qualsiasi modo i grandi meriti di Graham; solamente dico: wnicuique suum (1). Il Selmi studiò le pseudosoluzioni, degli azzurri di Prussia, dello solfo, del clo- ruro d’argento (2), del joduro mercurico, della caseina, dell’albumina, del joduro d’a- mido, del nitrato didimico ecc. Le prime sue Ricerche intorno al solfo ed alle emulsioni inorganiche risalgono al 1842 e furono da lui comunicate il 18 settembre 1844 alla VI? riunione degli scienziati italiani in Milano (“ Atti ,, 1844, p. 159, e poi coi titoli: Sopra lo solfo precipitato e Fatti per servire alla storia dello solfo elastico ed alle emulsioni inorga- niche negli “ Ann. di Majocchi ,, 1844, XV, p. 88-91 e 235-250. Intorno al solfo ed alle emulsioni inorganiche (2* parte) il Selmi nella Comunicazione che fece al Con- gresso degli Scienziati Italiani in Milano nel 1844 (“ Ann. di Maiocchi, 1844, t. XVII, p. 276, e “ Atti della Sesta Riunione degli Scienziati Italiani , tenuta in Milano nel sett. 1844, p. 160) diceva: z Il solfo preparato in emulsione, facendo gorgogliare dell'idrogeno solforato nella soluzione acquosa o nell’alcoolica d’acido solforoso, quando sia mescolato a diverse soluzioni saline pre- cipita ora in grani giallo citrini, molli, elastici, tenaci, ora in fiocchi polverosi riducibili però a grani col sopraversarvi una delle soluzioni saline atte a congrumarlo. Il calore non decompone l’emulsione di solfo e l’elettrico neppure; la luce diretta ed intensa ne riduce il solfo dallo stato molle e citrino allo stato bianco e polveroso; separandolo dal veicolo, egual effetto si ha coi protosolfuri alcalini. Nel 1845 pubblicò una nota: Considerazioni sopra certi curiosi fenomeni osservati da Fremy negli ossidi metallici (3) e qui sono già chiaramente esposte delle idee sulle false soluzioni. Ap. 245 degli “ Ann. di Majocchi , scriveva: La fecola, l’acido colico, i principi albuminosi, non debbonsi veramente dire disciolti nel- l’acqua a guisa dei sali, poichè vi si trovano piuttosto in istato di sommo rigonfiamento, essendo (1) Selmi era troppo modesto; egli avrebbe dovuto scrivere più tardi una memoria apposita sulle pseudosoluzioni e pubblicarla in un giornale più conosciuto, anche straniero, che noni Nuovi Annali di Scienze naturali di Bologna; i quali del resto contengono delle memorie importanti anche di altri autori e si trovano nelle principali biblioteche. Allora (1847) in Italia di giornali scientifici può dirsi che non vi erano se non gli Annali del Majocchi, perchè il Cimento del Matteucci cessò le pubblicazioni appunto nel 1847. La distinzione fra cristalloidi e colloidi in fondo era già stata fatta dal Selmi sino dal 1846 quando distingueva così bene le soluzioni vere dalle false. Bisogna dar colpa anche ai tempi in cui ha vissuto: i pochi chimici suoi contemporanei davano più peso ai lavori stranieri che non ai pochi, anche buoni, che si facevano in Italia; l’eterna gelosia che divideva un tempo l'Italia in tanti staterelli, si faceva sentire anche nella scienza. (2) Le sue ricerche Sulla dimulsione del cloruro d’argento si trovano nei “ Nuovi Ann. Scienze Natur. di Bologna ,, 1845 (2), t.IV, p. 149-156 e negli “ Ann. di Maiocchi ,, 1846, XXIV, pp. 225-230 e XXV (1847), pp. 43-46. È dunque erroneo quanto scrisse E. Grimaux (art. CoMloîdes nel Suppl. al Dictiorn. de Chimie di Wurtz), che il Graham per il primo abbia fatto conoscere dei corpi coagu- labili di origine inorganica. (3) £ Nuovi Ann. Scienze natur. di Bologna ,, marzo 1845 (2), t. III, p. 197; “ Ann. di Majocchi x, 1845, XIX, p. 239. SL FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 161 le loro cellule o globuli distesi e penetrati dal menstruo, come opina giustamente anche il Liebig intorno all’amido ridotto in colla. Somigliano adunque per alcun lato ai corpi emulsionati, e differiscono solo in ciò che non tolgono la trasparenza al liquido, mentre gli altri impediscono di passare ai raggi della luce e lo rendono opaco. Quando i sali precipitano i primi dalla loro distensione nel veicolo, non fanno altra cosa che produrre delle vibrazioni molecolari nell’atto del diffondersi nel solvente, e sotto la percossa di quegli urti, le membranelle delle cellule distese si raggiungono, sì contraggono, e non potendo più rimanere diffuse, si separano dal liquido e precipitano. Il nitrato didimico basico gelatinoso, non può lavarsi sui feltri che a grande stento, poichè non lascia scolare l’acqua; tornando acconcio il costiparlo, non si ha che a stemperarlo, in soluzione di nitrato ammonico, il quale lo comprime, e toglie la forma vescicolare alle sue particelle..... e dimostra col suo restringersi che non è dissomigliante dalla fecola e dagli albuminoidi. Tutta questa memoria è ricca di fatti e di considerazioni importanti (V. Cap. VI, pag. 13). Idee analoghe emise nello stesso anno 1845 a proposito della fibrina e della caseina in una nota: Alcune cose di chimica fisiologica (1). Ma ancor meglio dichiarò le sue idee nelle successive memorie del 1846-47 e 1857. Il nome di pseudosoluzioni dato ora alle soluzioni colloidali fu proposto la prima volta da Francesco Selmi ed invero, oltre che nella sua: Dissertazione sull'azione di contatto, Torino, 1846, ecco quanto Egli scriveva nel 1847 in una bellissima me- moria: Studio intorno alle pseudosoluzioni degli azzurri di Prussia ed alla influenza dei sali nel guastarle (2): Siccome l’associazione degli azzurri di Prussia coll’acqua pura, ed altre mescolanze analoghe, non appartengono nè alla categoria delle soluzioni vere, nè a quella delle emulsioni o dimul- sioni, nè alle mucilaggini o gelatine, perciò ho riputato non disdicevole appellarle con nome speciale, cioè con quello di pseudosoluzioni o false soluzioni, affine di indicare che non sono vere soluzioni, sebbene mostrino in apparenza di essere loro somiglianti, e perciò riescono facili a confondersi colle medesime qualora non si guardino e studino con accuratezza grande e fisso l’occhio ai caratteri cardinali onde la soluzione reale si distingue dalla fittizia (3). In altro luogo io ristamperò intera questa importante memoria; ora voglio far conoscere solamente i titoli dei capitoli di essa: Introduzione. Cosa sia pseudosoluzione e perchè non debbansi dire veramente sciolti gli azzurri di Prussia incorporati coi veicoli. (1) È Nuovi Ann. di Scienze natur. di Bologna ,, 1846 (2), t. V, pp. 142-152. (2) £ Nuovi Ann. di Scienze natur. di Bologna ,, (II), 1847, t. VIII, p. 404. (3) Altri invero, credo lo Spring, invece di soluzioni colloidali, propose di usare il nome di false soluzioni; come precisamente era stato proposto dal Selmi sino dal 1847. I nomi di pseudo- solutions ou faux solutions sono usati specialmente dai francesi (Vedi in Wurrz, Dictionn. de Chim., 2° Suppl., art. Solutions fausses, pag. 516). I sigg. H. Picton ed Ern. Linder in una interessante memoria dal titolo: Solution and Pseudo- solution (“ J. chem. Soc. ,, 1892, t. LXI, pag. 148) discutono sperimentalmente e teoricamente la questione se le pseudosoluzioni siano veramente sospensioni di sostanza solida nel solvente, ma anch'essi nulla dicono dei lavori anteriori di Selmi. N Serie II, Tox. LXII. U 162 ICILIO GUARESCHI 35 Azzurro preparato con un sale ferrico ed il prussiato giallo di potassa adoperato în esuberanza. Azione dei sali: cloridrato, nitrato e mitrito ammonico, solfato, fosfato ossalato e fosfato ammonico, ammoniaca; solfato, clorato, arseniato, biossalato di potassio; solfato acetato, fosfato, borato, bicarbonato di sodio, sal di calcio, di ferro, di manga- nese, di zinco, cadmio, ece. (1). Pseudosoluzione alcoolica dell’azzurro basico. Sali ammoniacali ed altri sali. Alcune considerazioni intorno ai fatti osservati e descritti. Tentativi eseguiti per avere pseudosciolto l'azzurro comune di Prussia, senza l’aiuto di sostanze dissolvitrici. Preparazione del composto mentovato e prove istituite col medesimo. Caratteri differenziali tra pseudosoluzioni, emulsioni ecc. e le soluzioni vere. In quest’ultimo capitolo fa notare che nelle pseudosoluzioni: 1° non si ha alte- razione della temperatura del liquido nell'atto di pseudosciogliersi; 2° non si nota nè dilatazione nè concentrazione; 3° molte sostanze saline sono capaci di precipitare le sostanze pseudosciolte. E dopo conclude: Ecco dunque dichiarati e fermati tre caratteri differenziali, di facile prova per scernere sicu- ramente le soluzioni vere dalle false ed apparenti; desidero che i miei colleghi ne tengano conto all’opportunità, sì verifichino sopra un numero di liquidi emulsivi o pseudosolventi maggiore di quello che da me si esperimentò affine di suggellare la verità colla riconferma del loro costante riprodursi. Per quanto sappia, sino ad ora nessuno studiò siffatto argomento ex-professo, e ne trattò spiegatamente riducendone i termini a quella precisione in cui feci tentativo di delinearli. E neppure prima di me altri parlò intorno alle emulsioni e tumefazioni delle sostanze solide e molli ne’ liquidi, con quella chiarezza ond’io ne discorsi sino dal 1845. E qui ricorda il brano della sua memoria del 1845 che più sopra ho riprodotto. Le sue idee sullo stato del bleu di Prussia in soluzione furono da lui esposte chiaramente anche molto tempo dopo. Nella sua Enciclopedia di chimica, vol. IV, p. 412, nell’articolo cianuri di ferro, scriveva (1870): Fr. Selmi pubblicò, anni sono, alcune esperienze sulla solubilità del detto composto, e ne dedusse che veramente non si trovi diffuso nel solvente in quella stessa maniera con cui ci stanno i corpi cristallizzabili, per esempio, il cloruro di sodio, il nitro, il solfato di potassa, ece. Egli lo desunse da ciò, che allorquando si prenda una data quantità dell’azzurro in istato umido ancora, per la sua pronta incorporazione nel liquido, vi si diffonde immediatamente senza che avvenga imprigionamento di calorico; come pure da ciò che, avutolo in soluzione concentra- tissima, ed aggiuntovi un liquido saturo di sale, tosto si depone in magma senza che si manifesti inalzamento di temperatura. Oltre a ciò, lo desunse dalla facilità colla quale si depone dal liquido per l’introduzione di tenui quantità di sali diversi non atti ad agire con esso per (1) Io in esperienze che ho fatto sul bleu di Prussia ho confermato in tutto, quanto afferma il Selmi; la precipitazione o coagulazione con KCI, NaCl, NH*CI, solfato di magnesio, ecc. 39 PRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 163 doppia decomposizione. Chiamò pseudosoluzione questo modo di essere dell’azzurro di Prussia nel solvente, supponendo che vi si trovi largamente diffuso, piuttosto che realmente disciolto, quantunque il microscopio non isveli che vi apparisca sparso in membranelle o fiocchi sotti- lissimi, come, per esempio, succede della porpora di Cassio nell’ammoniaca, conforme all’osser- vazione di Mitscherlich. Ecco quanto Selmi scriveva nel 1846 nella sua Dissertazione intorno all’azione di contatto, p. 32 (“ Giorn. delle scienze mediche , pubbl. dalla R. Accad. di Medicina di ‘Corino (2), 1848, anno I, vol. 3°, ecc.): Ragguardevole diventa l’azione precipitante, allorquando si esercita dalle sostanze solubili sopra le materie pseudosciolte, espanse ed inturgidite in un veicolo. L’amido, le gomme, le mucilaggini e gli albuminosi, i saponi non si disciolgono veramente in molecole libere e sepa- rate ad una ad una nei menstrui, ma vi si gonfiano notabilmente, talvolta acquistando mobilità fluidissima, tal altra serbando una certa sodezza, onde comunicano alla tumefazione la consi- stenza degli olii e l’aspetto di colla o di gelatina. Se introducesi nel liquido tumefaciente qualche materia solubile, può accadere che le sostanze gonfiate non se ne risentano e rimangano turgide come prima, od anche inturgidiscano di più; il più spesso però provano molestia dalle molecole eterogenee intromesse al loro contatto, si corrugano, si raggrinzano, e conglomerate strettamente abbandonano il veicolo, in foggia di fiocchi, di globuli o di congelo. Gli azzurri di Prussia, sebbene nell’incorporarsi coll’acqua paiano veramente disciogliersi, non di meno dimostrano al cimento dell’esperienza che semplicemente si diffondono nel liquido, forse in forma di piccole falde, sottili, trasparenti, onde la loro soluzione è simulata e non reale. Diffatto si comportano a fronte dei reagenti, come fanno i corpi emulsionati e tumefatti. E così continua discorrendo delle pseudosoluzioni del joduro d’amido, della albu- mina e caseina, dell’acido colico, dell’azzurro di Prussia, del cloruro d’argento, dello solfo, ecc. ecc. Ed a pag. 33 (dell’ opuscolo separato) scrive (badiamo che siamo nel 1846): La pseudosoluzione non è che una maniera d’incorporarsi di certe materie ad un liquido, analoga a quella onde si genera l’emulsione e la tumefazione. Essa si distingue nitidamente dalla soluzione per i seguenti caratteri differenziali assai notabili: 1° perchè i corpi pseudo- solubili, nell’atto di unirsi al veicolo, non producono freddo od abbassamento di temperatura, come fanno tutti i corpi solubili nello sciogliersi, nè producono corrispondentemente lo sviluppo di calorico nell’atto del precipitare; 2° perchè essa si compie senza costringimento o dilatazione nella somma dei volumi misti del veicolo e delle particole pseudosciolte, mentre nelle soluzioni sì nota sempre un soprappiù od una mancanza di misura nel volume comprendente il volume della sostanza sciolta o quello solvente; 3° perchè si guasta facilmente con posatura nella materia pseudosciolta, qualora si introduca nel menstruo una sostanza salina, indifferente, disaffine sulla materia pseudosciolta, ma capace di alterarne la condizione espansiva in cui permaneva. Cioè le sostanze colloidali o pseudosciolte sono in queste condizioni precipitate meccanicamente dalle loro soluzioni, per l’aggiunta di sostanze indifferenti, senza combinarvisi. KE a pag. 37. Non tutti i sali, non tutti gli acidi posseggono eguale il potere precipitante sulle materie pseudosciolte, dimulsionate ed emulsionate, ma ciascuno dei sali e degli. acidi manifesta una predilezione ad agire con energia piuttosto sopra una data soluzione ed emulsione che sopra 164 ICILIO GUARESCHI 40 un’altra; laonde si conosce avere le singole sostanze precipitanti un modo peculiare e specifico di operare sulle materie precipitabili, le quali, dal canto loro, in particolare si mostrano egual- mente dotate di attitudine particolare a risentirsi della virtù di uno piucchè di altro agente congruatore. H così continua a discutere intorno ai modi diversi di comportarsi delle sostanze veramente sciolte da quelle che sono pseudosciolte, dimulsionate o emulsionate o sospese. L'idea chiara che le sostanze pseudosciolte siano allo stato di particelle picco- lissime in sospensione egli l’ha esposta moltissime volte ed è ora ammessa da tutti e confermata da numerose esperienze. Riguardo alle pseudosoluzioni è ancora più importante e degno di ricordo quanto scriveva il Selmi nel 1856 nella seconda edizione dei suoi: Principi elementari di chimica minerale, Torino, 1856, nel capitolo XX intitolato: Della soluzione e della pseudosoluzione. Dopo aver parlato della soluzione dei corpi in generale (si noti bene da coloro che faranno la storia dei colloidi) a pag. 73-79 trovasi quanto segue: Una maniera di soluzione non fu avvertita dai chimici con sufficiente considerazione, onde trascurandola, sì confusero insieme differentissimi modi di essere de’ solidi ne’ liquidi, come se appartenessero indistintamente alla soluzione di cui. parlammo. Parecchi solidi bagnati da un liquido, possono assorbirne, gonfiarsi, dividersi in una specie di membranelle o pellicelle sotti- lissime, trasparenti, e separate l’una dall’altra, o collegate insieme quasi un reticolato di cellule, di vescichette o di altro somigliante, sparpagliarsi uniformemente nel veicolo, renderlo glutinoso, o nulla togliergli della originaria scorrevolezza, colorarlo o no, e simulare una vera soluzione quando non è in effetto che una espansione, una sospensione di particelle, non di molecole, in un mezzo liquido. In altri casi il solido si diffonde in globettini molli ed opachi, per cui il liquido non conserva la trasparenza e chiamasi emulsione. Sembrò conveniente a me distinguere queste soluzioni apparenti (si badi che siamo nel 1851 e 1857) dalle vere col nome complessivo di pseudosoluzioni; tanto: più che dopo averne esa- minato qualche esempio determinai alcuni caratteri differenziali per discernerle sicuramente. Eccone i più notevoli: Le soluzioni —__ TymoT òTt——tu.___6m_______sr e °° ___ __ Quando il solido si scioglie nel liquido avviene raffreddamento. Le pseudosoluzioni -—-——=<=+—===z 3 n___FP—___ sso _—_——_ Nè raffreddamento nè riscaldamento. Il solido non torna a separarsi dal liquido se non rendendo libero il calorico fatto la- tente nell’atto della soluzione. Il corpo disciolto non è indotto a preci- pitare da minime cagioni, come sarebbero piccole quantità di sostanze eterogenee. Il corpo pseudosciolto precipita senza ma- nifestazione di calorico libero. Tutti i corpi pseudosciolti sono coagulati o precipitati da molti acidi e sali solubili, e nel precipitare traggono seco in aderenza una parte del precipitante. Spesso, quando loro si toglie via coi lavacri, essi tornano a pseu- dosciogliersi. La chimica organica offre assai esempi di pseudosoluzioni, meno la minerale, quantunque non rarissimi. Quando i chimici volgeranno l’attenzione a questo argomento forse si troverà che molte soluzioni tenute vere sono apparenti, ossia pseudosoluzioni. Sono parole veramente profetiche ! Ancora nel 1874-75 in un articolo apposito: Pseudosoluzione, torna sulle sue vecchie idee e le espone chiaramente (“ Enciclop. chim. ,, vol. IX, p. 336): 41 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 165 PsruposoLuzionE. Nome dato da Francesco Selmi a quel modo onde si hanno uniforme- mente diffuse e stabilmente in un liquido certe sostanze le quali vi sì espandono e vi rimangono piuttosto a guisa di particelle o membrane sottilissime, di trasparenza perfetta o quasi, che non di molecole disgregate ad una ad una secondo il loro stato fisico e chimico. La soluzione vera può considerarsi una specie di evaporazione della materia solubile nel mezzo liquido, come un vapore fa nello spazio; la pseudosoluzione è per lo contrario un disten- dimento, un’espansione, senza che si accompagni dal disgregamento molecolare. Quando succede una vera soluzione (purchè non preceduta da una idratazione) si ha assor- bimento di calore, come suole avvenire nel passaggio dalla condizione solida alla gasosa; e per l’opposto quando il corpo sciolto si depone solidificandosi si svolge il calore già reso latente; inoltre fu osservato che lo sciogliersi si compie con qualche mutazione di volume, per lo più di contrazione, onde il volume complessivo del liquido e del solido già sciolto, risulta sempre un poco minore della somma dell’uno e dell’altro, misurati a parte. Nelle pseudosoluzioni ciò non si osserva, per cui hanno per caratteristica: 1° che la sostanza pseudosolubile, quando si diffonde in un liquido, lo fa non mutando punto lo stato termico della mescolanza, come si prova tenendovi un termometro immerso; 2° che non induce neppure un mutamento termico nell’atto in cui sì costringe a deporsi con qualche mezzo appropriato; 3° che non dà segni di contrazione o di dilatazione nel pseudosciogliersi, di guisa che la pseudosoluzione si fece senza modificazione del volume. Un altro particolare fu pure notato rispetto alle sostanze pseudosolubili, ed è quello che bastano piccole quantità di materie solide già sciolte, prive di azione chimica sul liquido o sulla materia pseudosciolta, perchè questa sia indotta a deporsi in fiocchi, in coagulo o in magma, a norma della sua consistenza. Raccogliendo il precipitato e lavandolo con acqua pura la pseudo- soluzione ci ricompone. A sostanze fornite di notevole pseudosolubilità F. Selmi additò il solfo semiliquido che si depone facendo gorgogliare insieme nell’acqua gli acidi solforoso e solfidrico, per lungo tempo, tenendo il primo in eccedenza; l’azzurro solubile, l’albumina ed in genere le materie albuminoidi. Tra le sostanze pseudosolubili taluna non passa per la membrana dializzatrice, e talvolta, per lo contrario, vi permane e passa nel liquido esterno: tale è il solfo pseudosolubile. Una pseudosoluzione quando fu feltrata, non mostra particelle nuotanti nel solvente posto sotto microscopio di forte ingrandimento. In generale le pseudosoluzioni viste alla luce diretta, sotto un dato angolo, appaiono leggermente opaline. Della pseudosoluzione discorre nuovamente nel 1876 nell’art. Soluzione in “ En- ciclopedia chim. ,, X, p. 286 e ripete quello più sopra riportato, e poi prosegue: Le sostanze gsommose, le albuminoidi, le mucilaginose, le gelatinose, l’amido, ece. ed è genere le materie colloidali sono pseudosolubili piuttostochè veramente solubili nell'acqua: il simile sì ripeta per certi composti minerali, salini o no che siano. Vi sono pseudosoluzioni stabili, come quelle dell’albumina, della caseina, dell’azzurro solu- bile; altre instabili, come i solfuri d’arsenico e certi solfoarseniati e solfomolibdati nell’acqua distillata, poichè questi, scorso un certo tempo, si separano dal liquido lentissimamente in mem- branelle esili e pellucide od in fiocchetti leggieri. Sembra che le materie precipitanti o coagulanti che fanno deporre i corpi pseudosciolti agiscano talvolta perchè operino per azione chimica modificando il loro modo di essere; mentre agiscono altre volte perchè contraggono aderenza colle membranelle espanse e le inducono a corrugarsi, a centrarsi e quindi a perdere lo stato di espansione in cui sussistevano. Quando si fa precipitare con un sale un corpo pseudosciolto, si trova che questo nel deporsi trae seco 166 ICILIO GUARESCHI 49 una certa quantità del precipitante ; da cui se col mezzo di lavacri si riesce a separarlo, in allora il precipitato torna a ricuperare la condizione di prima, cioè si pseudoscioglie di nuovo. Questo si osserva per l'azzurro di Prussia (1). Questi fenomeni Selmi li considerava come fenomeni di adesione o di aderenza e ancora nel 1867 (“ Enciclop. di Chimica ,, vol. I, art. adesione), dopo aver discorso della fissazione delle materie coloranti per aderenza, scriveva (p. 402): Da cagione somigliante deriva la singolare proprietà che hanno alcuni sali solubili, intro- messi in un liquido, di determinare certe materie, che vi si tenevano sospese in forma di par- ticole sottili e lente a deporsi, a -raccogliersi rapidamente in se stesse, a maniera di grossi fiocchi o di coagulo, e fare sollecita posatura. Tale, ad esempio, è il caso del cloruro d’argento in istato d’uniforme diffusione nell’acqua pura, allorchè fu preparato coll’acido cloridrico e il nitrato d’argento, operando in modo che l’acido cloridrico abbondi e tutto il nitrato d’argento rimanga decomposto. Il cloruro, sebbene insolubile, nondimeno rimane espanso per un dato tempo nel veicolo, cui dà le sembianze di un liquido latteo; ma se aggiungasi nuovo nitrato d’argento, od anche un altro sale, agitando, il cloruro si condensa in larghe falde, e cade al fondo. Questo fatto, noto già ai chimici, fu spiegato, essendosi riconosciuto che il cloruro d’ar- gento, quando trova in eccesso del nitrato del suddetto metallo, ne trae con sè una data parte, in tenuissima quantità, da cui è difficile sceverarlo col mezzo dei lavacri. Il solfato di bario sì comporta a un dipresso come il detto cloruro rispetto al solfato di potassio ed ad altri sali. Anche l’azzurro di Prussia solubile ed il solfo pseudosciolto, che pur hanno la proprietà di rimanere espansi nell'acqua priva di sali, simulando una soluzione vera e reale, si coagulano prontamente, se nel liquido s’introducono certi sali, e questo non perchè reagiscano con essi chimicamente, da ingenerare composti inabili a restare disciolti, sibbene perchè attirano e fissano sopra di sè una data proporzione del sale aggiunto, e finchè non ne siano spogliati, non si ripseudosciolgono. Se di fatto, con lavatura replicata di acqua distillata, sì giunge a spogliarli del sale loro aderente, essi riacquistano la capacità di unirsi al liquido, come ci stavano prima di essere coagulati. Per differenziare le soluzioni vere dalle false ora si sono aggiunti i caratteri ottici, crioscopici, ebullioscopici, l'osservazione ultra microscopica, il fatto che le solu- (1) £ Ces fines particules en suspension ,, scrive Van Bemmelen ‘), “ peuvent ètre changées en agglomérations grenues, qui se déposent en peu de temps, en rendant la liqueur un peu plus riche en acide, ou en sel (en général la substance qui a provoqué le séparation du colloîde). Il suffit donc de changer encore un peu plus la constance capillaire du liquide. Quand le colloide ne subit pas de modification graduelle après cette agglomération, l’action est réversible; par une dilution les flocons déposés se divisent et rentrent de nouveau en suspension. “ Ce phénomène est la cause pour laquelle un colloide déposé dans une solution, qui renferme une substance cristallisable, peut ètre filtré, et lavé, mais passe ensuite par le filtre et l’obstrue, aussitòt que la substance cristallisable a été enlevée jusqu'è un certain point par le lavage. On y pourvoit en ajoutant è l'eau de lavage une autre substance cristallisable et non nuisible, qui possède aussi le pouvoir de grainer le colloide. “ En général, quand un colloîde se sépare d’un liquide è l’état de gel ou de flocons amorphes, il peut absorber en partie les substances cristallisables qui étaient en solution ,. Può darsi che io m’inganni, ma credo fermamente che queste osservazioni si trovino già molto chiare nel lavoro di Selmi sugli azzurri di Prussia, sul nitrato di didimio e sullo solfo. Selmi aveva detto che quando si toglie coi lavaggi la sostanza cristallizzabile aderente alla sostanza pseudosciolta e precipitata, questa si ripseudoscioglie. R R R 1) Sur la nature des colloides et leur teneur en eau, “ Rec. trav. Pays-Bas ,, 1888, VII, p. 48. 45 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 167 zioni false si comportano come formate da due fasi, ed altri criteri; ma i tre primi caratteri fondamentali ricordati più sopra furono nettamente stabiliti dal Selmi (1847-1857). Egli aveva un'idea molto chiara della vera soluzione, e spesse volte la considera come una estrema espansione gasosa della sostanza solida nel liquido, come la evapora- zione 0 evaporizzazione di un solido in un liquido. Ed invero il Selmi nel riassumere la memoria di Graham: On the diffusion of Liquids (“ Phil. Mag. Feb. ,, 1850) e riguardo alla poca diffusibilità dell’albumina fece la interessante osservazione seguente (“ Ann. di Majocchi , (2), 1850, t. II, pagina 177): Non ci fa meraviglia se l’albumina sia dotata di ristrettissima diffusibilità essendo corpo pseudosciolto, e non però albergante nel liquido in quello stato di attenuazione grandissima, quasi gazosa (1), onde vi si espandono le sostanze che sono solubili per soluzione vera. Sarebbe molto importante che si indagasse la diffusibilità delle sostanze tutte che sono pseudosolubili o tenute per tali, e che sono emulsionabili, imperocchè dalla loro inettitudine alla diffusione si potrebbe trarre buon argomento per definire come sogliono incorporarsi nei liquidi, se disciogliendovisi o pseudosciogliendosi (Fr. Selmi). Chiaro si scorge che nella mente di Selmi il corpo che veramente si scioglie cambia di stato fisico, si espande o si diffonde come un gas, mentre nelle pseudo- soluzioni lo stato fisico non cambia e la sostanza pseudosciolta rimane come in sospensione. Il che è precisamente quanto si ammette oggi. È idea affatto moderna. Selmi aveva un'idea così chiara che i corpi solidi sciogliendosi, specialmente in soluzioni diluite, si espandono come in forma gasosa, che egli osservando le soluzioni violette del jodo nel cloroformio e nel solfuro di carbonio, pensava che entro alle soluzioni gialle o brune nell’alcool, nell’etere, ecc., il jodo vi esisteva allo stato di vapore giallo ed ammise l’esistenza di un vapore giallo di jodo. Ed è molto logico che sia così. Egli nel 1846 scriveva: Il calorico vapora il jodo in un bellissimo fluido elastico di colore violetto, che rappre- senta probabilmente uno stato polimorfo peculiare dell’alogeno; l’etere nitroso discioglie pure il jodio in colore di viola, e ci fa sospettare vieppiù che le soluzioni gialle ottenute coll’alcool e coi solventi salini attendono da tempo che si discopra un vapore di jodio giallo, ottenendolo col mezzo di forte pressura. (Dissertazione intorno all’azione di contatto, “ Giornale delle Scienze Mediche , della R. Ace. di Medic. di Torino, 1846, pubbl. nel 1848, pag. 55). Le ricerche di Selmi sulla esistenza di due vapori di jodio trovansi specialmente in una memoria contenuta nella Raccolta di fisico-chimica italiana del Zantedeschi, Venezia, 1847. Non si può più ammettere come volevano alcuni che le soluzioni colloidali siano delle vere soluzioni, in cui la sostanza sciolta si trovi allo stato di aggregati mole- colari complessi. Ml Selmi sino dal 1842-46 scoprì lo solfo pseudosolubile e nel 1852 pubblicò una (1) Il corsivo è dell'Autore. 168 ICILIO GUARESCHI 44 molto importante memoria: Sur le soufre pseudosoluble, sa pseudosolution et le soufre mou, ove sono brevemente accennate anche qui le differenze fra le soluzioni vere e le pseudosoluzioni. Questa memoria fu pubblicata nel “ Journal Pharm. Chim. ,, 1852 (2), t. XXI, p. 418, tradotta nel “ Journ. f. prakt. Chem. , di Erdmann, 1852 (1), t. 57, pag. 49 ed è ricordata nel “ Jahresb. f. Chem. ,, 1852, pag. 338 e anche in: Osrwanp, Lehrb. d. allg. Chemie, Chem.-Dynam., II, pag. 453 e 457 (1). In questa sua bellissima memoria, ricca di osservazioni nuove ed importanti, il Selmi fa già vedere quali siano le diverse circostanze in cui una soluzione colloidale può precipitare e coagulare. Anche questa memoria sarà da me riprodotta integralmente in un lavoro più completo su Selmi. Naturalmente che quando Selmi ottenne lo solfo pseudosolubile non si usava ancora la parola colloide, ma Egli invece usava la parola pseudosoluzione. Nel mede- simo volume del Gmelin-Kraut's Handb., a p. 356 è ricordato il lavoro di Selmi e Sobrero e si dice: Derselbe bildet mit wenig W. eine Emulsion, mit viel W., eine fast klare FI., die jedoch keine Lss. ist; durch Salzlsgg. wird er als zàhe, elastische M. abgescheiden, die sich sehr lange unverindert erhalt. Cioè i sig. Br. Linne e Fr. Ephraim non si sono accorti che lo solfo colloidale esisteva prima che Graham mettesse in uso la parola colloide. Il che invece fu ben inteso e avvertito dallo Svedberg (2). Anche per la formazione dello solfo molle si ricorda solamente il lavoro del 1852, ma non si pensa che la maggior parte delle esperienze ivi descritte, cioè: formazione di solfo molle per decomposizione dell’acido solfidrico col cloro, jodo, acido nitrico, acqua ragia, ecc. sono di molto anteriori. Lo solfo x o solfo molle insolubile nel solfuro di carbonio fu ottenuto da Selmi per condensazione del vapore di solfo col vapore d’acqua (“ J. Pharm. Chim. ,, 1852 (8), 21, p.418; “ Jahresb. ,, 1852, p. 338). (1) Wilh. Ostwald giustamente ricorda che “ Selmi hat dann 1843 bei der Analyse von Kupfer- “ kiesen mit Kénigswasser einen teigartigen Schwefel erhalten, der wie der durch Abschrecken “ sewonnene nach einiger Zeit fest wird , (° Journ. f. pr. Chem. ,, 57 (1852), p. 49), (in “ Lehrbuch allg. Chem. ,, 1896 902, II, p. 453). E più avanti a pag. 457 scrive: © Auch in Wasser emulsionieren “ sich gewisse Arten von amorphen Schwefel sehr leicht und zeigen den alle charakteristischen € Kigenschaften colloider Lòsungen; ausfiihrliche Beobachtungen dariber liegen von Selmi vor, (“ Journ. f. pr. Chem. ,. 1852, t. 57, p. 49). 3 Nel Gmelin-Krauts Hand. anorg. Chem., BA. I, Abt. I, 1907, p. 861, invece inesattamente è detto: © Kolloidaler Schwefel, èS. Zwehrt erhalten von Debus (Ann. 244 (1888), p. 88) durch Einleiten “ von H?S in eine beinahe gesittigte Wss. Lsg. von SO? etwas iber 0° bis zur vollstàndigen Zers. “ von SO?. Der zuniichts Kolloidal gelòste S, von Debus © è$S , genannt ,. (2) Ora lo solfo colloidale si prepara per usi terapeutici dalla Chem. Fabrik V. Heyden (D. R. P. (1905), N. 164.664). Ed il metodo ivi impiegato è probabilmente quello di Selmi, colla differenza in quelle modificazioni pratiche che sono dovute ai numerosi studi sui colloidi fatti in questi ultimi venti anni. Fr. Selmi sino dal 1844 propose: quale medicamento lo solfo molle ed elastico, in istato di somma divisione ossia emulsionato nell'acqua. Si vegga il suo lavoro: Proposta del solfo emulsionato come rimedio terapeutico (£ Ann. di Majocchi ,, 1844, XV, pag. 212). 45 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 169 Lo solfo molle attaccatiecio, in grumi, vischioso fu ottenuto da Selmi anche decomponendo l’iposolfito di sodio con acido solforico concentrato (“ Ann. di Majocchi ,, 1845, XVII, p. 293); talora osservò solo un tenue intorbidamento. Queste idee sulle pseudosoluzioni sono esposte chiaramente dal Selmi anche nella memoria che pubblicò con A. Sobrero (1) nel 1849 (Mem. R. Accad. delle Scienze di Torino (2), t. XI, p. 407-412) e riassunta col titolo: Sur les produits de décom- posîtion des acides sulfhydrique et sulfureux au sein de l'eau negli “ A. Ch. ,, 1850 (3), t. XXVIII, pag. 210, ove appunto trovasi il brano riprodotto imparzialmente dal sig. Svedberg. Questa memoria del Selmi pubblicata insieme a Sobrero fu onorevol- mente riassunta, citata, ecc. nel “ Jahresh. f. Chem. ,, 1850, p. 264, nel “ Chemist ,, I, 1849-1850, p. 301-303, negli “ Annalen di Liebig ,, t. 76, p. 237, nel “ Journ. f. prakt. Chem. ,, 1850 (1), t. 49, p. 417-421, in “ Arch. d. Pharm. ,, 1850, CII, p. 47. Benchè pubblicata e riassunta in tanti giornali è stata trascurata anch’essa da tutti coloro che si sono occupati dei colloidi, eccetto ora dal sig. Svedberg (2), ed è da me riprodotta in parte alla fine del presente capitolo (V. Appendice A, pag. 49). Wilb. Ostwald nel suo “ Lehrb. d. allg. Chem. ,, 1? ed., 1884, vol. I, p. 527 e 2° ed., 1891, p. 702 fa notare i caratteri distintivi dei colloidi dai cristalloidi: I cristalloidi, egli dice, quando si sciolgono nell’acqua producono una maggiore o minore variazione di temperatura, mentre i colloidi non fanno variare la temperatura, e le loro soluzioni possono riguardarsi come miscugli meccanici. Egli poi (loc. cit.) fa notare che le cosidette soluzioni colloidali si possono riguar- dare non come vere soluzioni, ma come sospensione di sostanze solide finamente divise, espanse nel liquido. Precisamente come era stato varie volte detto assai chiaramente da Francesco Selmi. C. Barus e E. A. Schneider (loc. cit.), C. Wissinger (3), W. Spring (4) e tanti altri che si sono occupati dello stato colloidale mai hanno ricordato Selmi. Lo Svedberg invece nell’eccellente sua opera: Die Methoden zur Herstellung Kolloider Lòsungen anorganischer Stoffe, Dresden, 1909, riproduce testualmente un lungo brano sullo solfo pseudosolubile del Selmi. Per lo studio dei colloidi, scrive Svedberg (loc. cit., p. 240), hanno speciale importanza le ricerche di Sobrero e Selmi, Stingl e Morawski, Debus, Spring e Raffo. (1) L'iniziativa di questa memoria spetta al Selmi che già prima si occupò dello stesso argo- mento, ed invero i due autori incominciano la loro memoria colle parole: “ Lo studio dei prodotti “ che si generano tra i due gas, acido solforico e acido solfidrico, condotti ad agire insieme all’acqua, € fu incominciato da uno di noi, da Fr. Selmi, coll’intendimento di conoscere le qualità singolari “ del solfo emulsionato ,. (2) Nel vol. I del Zeitschr. f. Chem. u. Ind. der Kolloide (1906), a pag. 13, negli Anorg. Referate il primo lavoro che viene ricordato, e brevemente riassunto, è quello di Francesco Selmi e Sobrero: Ueber die Zersetzung der wiisserigen schwefligen Siure durch Schwefelwasserstoff, tolto dagli © A. Ch., (3), 1850, p. 210. Questo lavoro di Selmi e Sobrero sul carattere di sospensione dell’idrosol dello solfo (Suspensionscharakter des Schwefelhydrosols) è accennato anche da A. Miiller nel suo libro: Allgemeine Chemie der Kolloide in © Bredig's Handb. ,, Leipzig, 1907, pag. 148. (3) “ Bull. Soc. chim. ,, 1888, t. 49, p. 452. (4) Serene e De Bock, “ Bull. Soc. Chim. , (8), 1887, t. 48, p. 165. Il sig. Spring (© Rec. trav. Pays-Bas ,, t. 24, p. 253) dalla reazione fra gli acidi solfid ico e solforoso ha ottenuto lo solfo giallo amorfo insolubile nel solfuro di carbonio e che facilmente dà una soluzione colloidale coll’acqua. Crede sia un idrato S8-+ H?0. Serie II. Tow. LXII. Vv 170 ICILIO GUARESCHI 46 Ma dà maggiore importanza alle ricerche di Selmi e Sobrero perchè riporta quasi intera la nota sullo solfo colloidale tolta dagli “ A. Ch. ,, 1850 (3), t. 28, p. 210. Non vi era dunque ragione di tenere come dimenticato anche questo lavoro del Selmi ed ha agito onestamente ed ottimamente il prof. Svedberg col farlo conoscere nel pregiato suo libro. Ma forse anche lo Svedberg non conosceva bene tutti i lavori del Selmi sulle pseudosoluzioni, perchè non ricorda che questo lavoro sullo solfo, pub- blicato nel 1850. Si è detto da alcuni (1) che Barus (2) è stato il primo a far notare il fatto im- portante che le sostanze schiarificanti sono degli elettroliti. Egli appoggiandosi sulla teoria dell’elettrolisi di Clausius attribuisce la causa della sedimentazione all’energia interna che i joni danno ai liquidi. Bodlinder ha poi osservato che la proporzione degli acidi o dei sali deve pas- sare un certo limite, per quanto piccolo, e che questo limite varia colla natura della sostanza intorbidante. Così pure J. Duclaux (3) espone come se fosse un concetto nuovo, quanto segue: Un processo di coagulazione importantissimo consiste nell’aggiungere ad una soluzione col- loidale una quantità, generalmente debole, di una soluzione salina..... e più generalmente una soluzione di un elettrolito (acidi, basi, sali, ecc.). Ma che cosa vi è di nuovo in tutto questo? Assolutamente nulla. Tutte cose che si sapevano da lungo tempo (4). Questo precisamente era stato detto e ridetto in modo chiarissimo dal Selmi sino dal 1847 quando sulle pseudosoluzioni dell’azzurro di Prussia provava l’azione dei carbonati alcalini, dell’ammoniaca, e di un gran numero di sali alcalini e dei metalli pesanti. Si leggano le memorie di Selmi sullo solfo emulsionato, ricordate più sopra, e si vedrà come appunto il solfato potassico sia il sale più adatto a promuovere la coagulazione. Molte e molte volte egli ha detto che special- mente le sostanze saline, cioè degli elettroliti, coagulano le pseudosoluzioni. Anzi, già il titolo della sua memoria del 1847: Studio intorno alle pseudosoluzioni degli azzurri di Prussia ED ALL'INFLUENZA DEI SALI NEL GUASTARLE, più sopra ricordata, dice appunto come egli avesse posta la sua speciale attenzione sul modo di agire dei sali sulle sostanze colloidi. Si vegga anche il brano citato più sopra e tolto dai suoi Principi elementari di chimica minerale, Torino, 1856. È una vera smania questa, di volere far credere come novità delle cose già molto vecchie, e ‘conosciute da chi conosce e legge le opere vecchie. Di più, Selmi osservò molte volte che quando i colloidi precipitano con una sostanza salina trattengono una porzione di questa e non l’abbandonano nemmeno dopo pro- lungati lavaggi. Questo è un fatto ora riconosciuto da tutti coloro che si sono occu- (1) W. Sprime, Sur Za foculation des milieux troubles, in © Rec. trav. Pays-Bas ,, 1900, XIX, p. 207. (2) C. Barus, Ueber das Setzen von feinen festen Massentheilschen in Fliissigkeiten (© Bleiblaetter x, T. XII (1888), p. 563); C. Barus et E. A. Scunemer, Veber die Natur der colloidalen Loesungen (“ Zeits. f. physik. Chem. ,, VIII, 278 (1891)). (3) J. DucLavx, La chimie et la matière vivante, Paris, 1910. (4) Io stesso nelle mie lezioni da più di trent'anni faccio con esperimenti semplici vedere la coagulazione della soluzione di idrato ferrico colloidale detto ‘anche ferro Bravais, per mezzo del solfato sodico, del cloruro sodico, dell'acido cloridrico diluito, ece. 47 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 171 pati dei colloidi. Egli fece questa osservazione in molti casi (V. in Dissertazione sull'azione di contatto, 1846), ma specialmente a proposito dello solfo precipitato, dalla sua pseudosoluzione, col solfato potassico: Nous nous sommes assurés, en outre, que maloré les lavages répétés il retient toujours un peu du sulfate de potasse employé pour la précipitation. Il Selmi afferrò subito tutta l’importanza delle sue ricerche anche per i feno- meni vitali, e pensò di applicare quelle idee sulle pseudosoluzioni a sostanze orga- niche che sono di grandissima importanza per la biologia; egli pensò ai liquidi degli organismi viventi e specialmente al latte ed al sangue che contengono delle sostanze pseudosciolte. Ed in ogni occasione egli ricordava i caratteri di quelle false solu- zioni che correntemente chiamava pseudosoluzioni. Nelle sue belle ed importanti ricerche sul latte (1) il Selmi ammise che la caseina vi esista almeno in due stati: in uno dei quali sarebbe come pseudosciolta e nell’altro come espansa e rigonfiata. L'esistenza della caseina in due stati nel latte fu negata in principio, ma poi fu confermata da F. W. Zahn (1869), da G. Musso (1879), da E. Duclaux (1887) ed è oggi ammessa da tutti. « Nel latte, scriveva egli ancora nel 1869 (“ Enciclop. Chim. ,, III, p. 919), la caseina esiste in tre stati, cioè di caseina disciolta, di caseina gelatinosa e di caseina insolubile, come fu osservato per due da Fr. Selmi e pel terzo da Millon e Commaille , (2). Ho dunque messo in evidenza ed in modo incontrovertibile, che dobbiamo al Selmi le prime e più importanti notizie sulle false soluzioni o pseudosoluzioni o solu- zioni colloidali. Dunque, alla domanda: cosa sono le pseudosoluzioni o false soluzioni (dette poi soluzioni colloidali) ? il Selmi rispondeva: sono apparenti soluzioni di corpi che stanno finamente suddivisi nel solvente allo stato di particelle o di cellule in sospensione non visibili al microscopio. Precisamente come si direbbe ora. Dall'esame che ho fatto di tutti questi lavori risulta molto chiaramente avere Francesco Selmi scoperti gli azzurri di Prussia colloidali, lo solfo colloidale ed altre sostanze che formano soluzioni colloidali, ed inoltre avere egli dimostrato in linea generale: 1° che quando ha luogo una pseudosoluzione non si osserva variazione di temperatura; 2° che nelle pseudosoluzioni non vi ha cambiamento di volume; 3° che molte sostanze saline, in varie circostanze, precipitano o coagulano allo stato amorfo, fioccoso o flocculoso, le sostanze pseudosciolte; 4° che la sostanza pseudosciolta è in istato di sospensione ed in certi casi di emulsione o di rigonfiamento, e che quindi non vi ha cambiamento di stato del corpo pseudosciolto. (1) Ricerche sul latte, in È Ann. di Majocchi ,, 1850, vol. I, p. 33 e II, p. 273, e nella memoria: Del latte, del presame e della coagulazione, premiata dall’ “ Istituto Lombardo , nel 1857. (2) Idee proprie sullo stato delle materie albuminoidi in soluzione, sono da lui esposte nel- l’art. Proteiche sostanze scritto nel 1874-75 per l’Enciclop. chimica (vol. IX, pag. 320 e segg.). 172 ICILIO GUARESCHI 48 Egli ammise inoltre che molti corpi pseudosciolti si possono riguardare come costituiti da specie di cellule in sospensione. Il che oggi è ammesso da alcuni (Doumanski, 1905). 5° quando le sostanze pseudosciolte (colloidi) precipitano con una sostanza salina molte volte trattengono una porzione della sostanza salina stessa con molta tenacità, e non l’abbandonano nemmeno dopo prolungati lavaggi. Questo è un fatto ora riconosciuto da tutti coloro che si sono occupati dei colloidi; 6° che nelle soluzioni vere Ja sostanza solubile si espande, si diffonde, come se si trasformasse in vapore o gas (soluzione gasosa) cioè come la estrema espan- sione gasosa della sostanza solida nel liquido, come la evaporazione o vaporizza- zione di un solido in un liquido, e ha luogo, quindi, un cambiamento di stato; 7° che le pseudosoluzioni o soluzioni colloidali non debbono sempre confon- dersi colle vere emulsioni e colle sostanze rigonfiate in presenza di liquidi; 8° che ciò che fu detto per le pseudosoluzioni può essere applicato non solo alle sostanze organiche ed inorganiche, ma anche ai liquidi di origine animale, e che la caseina esiste nel latte almeno in due forme: come pseudosciolta e come espansa o rigonjiata. i L'illustre Ostwald in un articolo: La science et l’histoire des sciences (1) scrive: Signalons encore un autre enfantillage, que l’on rencontre aux origines de la science et qui s'est perpétué jusqu'è nos jours: il consiste è rechercher quel est l’auteur qui, le premier, a employé tel ou tel mot! On doit convenir qu'il importe peu de savoir où, pour la première fois, est apparue telle expression. Ce qui importe, c’est de connaître les conditions dans les- quelles les concepts ont pris naissance..... ecc. Ora, tutto ciò può essere giusto sino ad un certo punto; ma nel caso nostro importa proprio di sapere chi il primo ha usato la parola pseudosoluzione o falsa soluzione, perchè a questo nome, chi l’ha adoprato la prima volta, vi ha annesso tutto un concetto nuovo ed una serie di esperienze; e non è giusto, non è morale il tacere il nome di colui che nello studio dei colloidi ha precorso il suo tempo. Ci voleva anche del coraggio scientifico, perchè ai tempi di Selmi quei pochi chimici che studiavano delle sostanze amorfe, quali sono i colloidi, facilmente si consideravano, in ispecie da alcuni sbarbatelli della scienza e loro magni maestri, come chimici che non sapevano lavorare! Questa è dura verità, ma è verità. Così alcuni tennero lo stesso atteggiamento dopo la scoperta delle ptomaine; ma ora questa grande scoperta è riconosciuta da tutti, ed è stata utilizzata e sviluppata. Ripeterò, se vuolsi, un po’ troppo di frequente, la frase: 42 tempo è l’unico grande galantuomo. Ed ora, che tutte queste considerazioni, osservazioni ed esperienze del Selmi fatte dal 1844 al 1876 e diffuse nei giornali del tempo: italiani, francesi e tedeschi, tradotti o riassunti in più lingue, non abbiano avuta nessuna influenza sulla mente di coloro che poi si occuparono in modo speciale degli stessi argomenti cioè dei colloidi ? (1) ©“ La Revue du Mois ,, 1910, anno V, t. IX, p. 519. 49 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 173 Appendice A. Sur les produits de la décomposition des acides sulfhydrique et sulfureux au sein de Veau, par Sosrero et SeLmi (“ Ann. de Chim. et de Phys. ,, 1850, (3), t. XXVIII, p. 212-214). Le liquide dans lequel les deux acides sultureux et sulfhydrique se décomposent, donne un précipité très-abondant de soufre; il retient lui-mème beaucoup de soufre, qui s’en sépare toutes les fois qu’on le sature par un carbonate ou une base énergique, potasse, soude, etc. Le soufre qui se dépose pendant la décomposition des gaz est toujours d’une belle couleur jaune, mais tantòt opaque, tantòt diaphane ou presque transparent. Séparé du liquide par décantation, il a une forte réaction acide; si l’on y ajoute de l’eau, il s’y divise en formant une émulsion dont il ne se sépare plus, mème par un repos très-prolongé (plusieurs mois). Si on le délaye dans beaucoup d’eau, il donne un liquide presque transparent. Si, à l’émulsion de ce soufre, on ajoute un peu de solution aqueuse d’un sel neutre de potasse ou de soude, on obtient im- médiatement un précipité de soufre; mais (chose singulière) si l’on a employé un sel de soude pour la précipitation, le soufre n’a pas perdu la propriété de se diviser dans l’eau. Il suffit, pour l’en assurer, de décanter le liquide contenant le sel sodique, et laver le précipité plusieurs fois avec de l’eau distillée; au deuxième ou au troisième lavage, le soufre ne se dépose plus; il regénère l’émulsion. Si, au contraire, on a employé un sel potassique, surtout le sulfate, le soufre précipité a perdu complètement la propriété de l’émulsionner dans l’eau; il a pris une consistance pàteuse, est devenu gluant, élastique comme le caoutchouc, et résiste aux lavages indéfiniment répétés, sans perdre cette manière d’ètre toute particulière. Ce soufre retient avec opiniàtreté une certaine quantité des acides au milieu desquels il s’est précipité: il perd immé- diatement son élasticité par l’action des carbonates alcalins ou des alcalis caustigues. Le soufre émulsionable perd cette qualité en restant exposé longtemps è l’air; il devient fragile, ou, pour mieux dire, pulverulent. Le soufre élastique, précipité par le sulfate de potasse, conserve son élasticité, malgré son exposition è l’air; nous en avons qui est préparé depuis plusieurs mois, et qui n’a rien perdu de cette propriété. Nous nous sommes assurés, en outre, que malgré les lavages répétés, il retient toujours un peu du sulfate de potasse employé pour la précipitation. Nous avons dit que le liquide acide, produit par la décomposition des deux gaz, retient beaucoup de soufre. Pour s’en convaincre, il suffit d’y ajouter un peu d’un sel neutre sodique ou potassique. Nous avons eu de ces liquides marquant 17 è 18 degrés è l’aréomètre, qui se prenaient en masse par l’addition d’une petite dose des sels mentionnés. Cette énorme quantité de soufre est, on dirait, dissoute, car elle n’altère presque pas la limpidité du liquide. Le pré- cipité obtenu dans ce cas présente les mémes differences et les mèmes phénomènes, quant à sa susceptibilité de s'émulsionner ou d’étre élastique et non émulsionable, que nous avons signalée dans le soufre précipité pendant la décomposition des deux gaz. Le soufre peut donc étre mo- difié, dans sa manière d’etre, d’une fagon toute particulière par la présence des corps au milieu desquels il se dépose, et qui y adhèrent avec opiniaàtreté, probablement par simple adhésion, et acquérir tantòt l’emulsionabilité, tantot un état d’agrégation qui l’empèche de se diviser dans l’eau. Il résulte, en outre, que le soufre émulsionable présente des phénomènes analogues è ceux qui s’observent dans beaucoup d’autres corps qui jouissent de la propriété de se disperser et se diviser dans un liquide, sans toutefois s’y dissoudre absolument, tels que le savon, l’amidon et le bleù de Prusse, sur lequel un de nous, M. Selmi, a déjà fait des observations analogues à celles que nous venons d’exposer. Ces faits se rattachent è un ordre de phénomènes que M. Selmi a bien caractérisés, et qu'il a réunis sous le nom de pseudosolution. Il paraît que le nombre des corps pseudosolubles est assez grands. Nous avons déjà entrepris sur ce point quelques recherches: les corps de nature organique nous paraissent surtout présenter un grand intérét sous ce point de vue. 174 ICILIO GUARESCHI 50 IV. Ricerche di chimica inorganica. Studi sullo solfo: solfo molle e vischioso, azione dell’acqua sullo solfo, ecc. — Composti alogenici del mercurio. — Sul piombo e sua tetravalenza. — Della valenza degli elementi. — Valenze occulte. — Jodio cristallizzato. — Preparazione dell’acido jodidrico. — Jodio sciolto nell’acido solforico. — Vapori di jodio: violetto e giallo. — Sui composti d’argento. Le ricerche del Selmi che interessano la chimica inorganica sono numerose ed importanti ed in questi ultimi anni sono state pienamente confermate o ampliate. Solfo molle od elastico. — Azione dell’acqua sullo solfo. -- Selmi ha fatto molte esperienze sullo solfo. Egli avrebbe dovuto raccogliere tutte le sue ricerche sullo solfo e derivati in una sola memoria ed allora avremmo visto più facilmente quale bel contributo ha egli portato allo studio di questo importante elemento. Le ricerche di Selmi sugli stati allotropici dello solfo, sono ricordate con onore dai varii autori che si sono poi occupati dello stesso argomento, fra i quali il Berthelot. Nessun trattato un po’ completo di Chimica inorganica, tace il nome di Selmi riguardo allo solfo; si vegga ad esempio il Gmelin-Kraut's Handbuch der anorg. Chemie; il Morssan, Traité de Chimie inorganique, ecc. Solfo molle per via umida. — Selmi è stato il primo a studiare lo solfo molle preparato da lui per via umida (“ Atti Congr. Scienz. ital. ,, 1844 (pubblic. 1845), pag. 160). Ecco come è riassunto questo lavoro, che è ricordato anche dal Berthelot nella sua memoria del 1849, nell’ “ Annuaire de Millon ,, 1846, pag. 48, col titolo: Sur les différents états du soufre: M. Selmi lit la première partie d’un travail qu'il a entrepris sur les divers états du soufre. Ce chimiste, après avoir constaté que l’eau régale sépare du sulfure de cuivre du soufre mou élastique et de couleur citrine, a étudié l’action de l’hydrogène sulfuré sur l’eau regale, l’acide azotique, le gaz hypo-azotique, le bioxyde d’azote, l’iode, le sulfate de péroxyde de fer, et l’acide sulfureux. Sa méthode consiste, si les corps sont liquides à les faire traverser par un courant d’hy- drogène sulfuré; s’ils sont gazeux, il dirige les deux gaz dans l’eau distiliée. Le soufre qui se sépare dans ces diverses réactions est presque toujours imprégné des corps au milieu desquels il s'est séparé et qui ont effectué son élimination. Il est jaune citrin, mou, élastique, les lavages à l’eau altèrent è peine son élasticité, qui ne diminue sensiblement qu’au bout de quelques Jours. Les alcalis caustiques le rendent dur et friable, son point de fusion est à 112 degrés. L’alcol le dissout è peine. M. Selmi, en faisant arriver l’hydrogène sulfuré et le gas hypoazo- tique dans une liqueur alcaline, a constaté que le soufre qui se séparait au contact de la liqueur alcaline était blane pulvérulent; celui dont la séparation s’effectuait sur les parties du vase non mouillé par ce liquide alcalin, était jaune citrin, mou et élastique. Le soufre blane pulvérulent avait une réaction alcaline, tandis que le soufre jaune et mou était acide. L’état du soufre paraît ainsi en rapport avec la matière acide ou alcaline du milieu. 51 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 175 Egli discorre a lungo dello solfo molle (ScRwefel weicher de’ tedeschi) in una memoria assai poco conosciuta, anzi sconosciuta: Fatti per servire alla storia del solfo e delle emulsioni inorganiche, negli “ Ann. di Majocchi ,, 1844, t. XV, p. 235-250 e in riassunto nel “ Journ. Pharm. Chim. ,, (3), XXI, p. 418; “ J. pr. Chem. ,, t. VII, p. 49 e “ Jahresb. ,, 1852, p. 838. La memoria doveva essere costituita di tre parti, ma l’autore ne pubblicò una sola. Egli ottiene lo solfo molle ed elastico in vari modi e precisamente: ID Per l’azione dell’acqua regia sul solfuro di rame (sino dal 1842). II. Per l’azione dell’acqua regia sull’acido solfidrico. III. Dall’acido solfidrico coll’acido nitrico. IV. Per l’azione del perossido di azoto sull’acido solfidrico. V. Dal biossido d'azoto coll’acido solfidrico. VI. Per azione del jodo sull’acido solfidrico. VII. Egualmente per l’azione del cloro. VII. Dall’acido solfidrico col solfato ferrico. IX. Dall’acido solfidrico col gas acido solforoso. Lo solfo ottenuto in queste condizioni è molle, elastico e di colore giallo citrino, mentre quello molle che si ottiene versando lo solfo fuso nell’acqua è di color bruno. Riuscì però ad averlo molle, elastico e giallo citrino condensando il vapore di solfo, distillato in una stortina, nell'acqua. Lo solfo molle giallo così ottenuto dopo circa un'ora divenne duro e fragile. Il Selmi allora ne trasse la conclusione: La produzione del solfo y di color citrino, ottenuta direttamente, ci assicura senza dubbio dell’esistenza delle due modificazioni dimorfiche, e conduce all’importante conseguenza che un corpo elementare avente diverse modificazioni allotropiche può, senza mutare stato allotropico, assumere vari aspetti poliformici. Sino dal 1842 Selmi osservò che alcune piriti trattate coll’acido nitrico concen- trato, danno fiocchi di solfo che poi si ossida e si trasforma in acido solforico; ma che raccolti in tempo sono molli, elastici, ed hanno uopo di alcune ore per solidi- ficarsi. Ecco quanto egli scriveva nella nota: Sopra è solfo precipitato (“ Ann. di Majocchi ,, 1844. XV, p. 90) (1). Nel 1842 facendo agire l’acido nitrico sopra idrato di solfuro ramico misto ad idrato di solfuro di ferro, notai che a mano a mano che il metallo si discioglieva nell’acido, venivano a galleggiare alla superficie del liquido fiocchi di solfo giallo, puro, di consistenza molle, elastica, che stirati da due parti cedevano allungandosi, e si ritiravano cessando dallo stirarli (Comu- nicazione all’Accad. delle Scienze di Modena, 30 marzo 1842). Più tardi mi interessai di istituire altre indagini affine di chiarire l’origine della forma- zione di quel solfo elastico, e mi posi a studiare il solfo che si separa nelle reazioni dell’idro- geno solforato col vapore nitroso e col biossido di azoto. Col primo di questi gas ed il solfi- drico ebbi solfo elastico, di bel colore giallo citrino, col secondo ed il solfidrico invece non (1) Questa è una breve nota che precede la memoria: Fatti per servire, ecc. Ne è come l’intro- duzione. Vedi la bibliografia. 176 ICILIO GUARESCHI 59 raccolsi che solfo biancastro e polveroso. Facendo gorgogliare l'idrogeno solforato entro solu- zione alcolica di jodio, questa si scolorì a poco a poco, e rimase torbida per solfo sospeso. A capo di qualche ora, il liquido alcolico divenne limpido, ed il solfo unitosi sulle pareti ed al fondo del recipiente costituiva fiocchi larghi collegati insieme da una specie di ragnatela pure di solfo, i quali fiocchi raccolti, lavati e premuti fra pannolini si ridussero in una pasta giallo- citrina, elastica, che si mantenne molle per alcuni giorni. Facendo gorgogliare dell'idrogeno solforato e dell’acido solforoso nell'acqua, i due gas si decomposero, come è noto, e fornirono un solfo bianco, leggerissimo, che rimase sospeso nel- l’acqua formando una specie di emulsione. Coll’intendimento di conoscere se questo solfo era veramente emulsionato, divisi il liquido in vari bicchierini, e versai nei medesimi varie soluzioni saline ed acide; tutte più o meno presto condussero la precipitazione del solfo in fiocchi, e resero limpido il liquido, tanto ad esuberanza d’acido solforoso quanto di idrogeno solforato, e la maggior parte dei precipitati raccolti ed asciugati mostrò essere di solfo elastico identico a quello ottenuto coll’idrogeno solforato e colla soluzione alcoolica di jodo. Il fenomeno apparve più cospicuo affondendo carbonato potassico sciolto, mescolandolo al liquido ed aggiungendovi poscia un acido allungato; al momento della reazione il solfo che stava divisissimo, premuto da ogni parte dallo svolgimento del gas acido carbonico, si adunò in lunghi fiocchi, citrini, elasticissimi, ece. Se in tubo di vetro umido si fanno passare i due gas solforoso e solfidrico, si depone solfo polveroso; bagnando lo strato di solfo depostosi con acido nitrico, si coagula all'istante, e forma una tela di solfo, di bel colore giallo citrino e dotata di certa tenacità. Studiati sotto questo punto di vista i solfi precipitati dai solfuri alcalini, sembrano mostrare qualche diversità. Sarebbero mai i vari solfuri a base dello stesso metallo alcalino, combinazioni del metallo radicale col solfo condensato ne’ suoi differenti stati allotropici? (1). Sarebbe questa la cagione della mancanza de’ gradi d’ossigenazione dello stesso radicale corrispondenti ai gradi di solforazione? È un problema al quale cercherò di rispondere coll’esperienza; quanto ho esposto di volo valga a dare un'idea di queste mie ricerche di azioni molecolari, rivolte spe- cialmente sulle emulsioni inorganiche; ricerche che si connettono alle cose indicate nella mia Memoria pubblicata sull’jodido di mercurio in soluzione; e dalle quali parmi potersi trarre qualche buon partito per chiarire la teoria delle soluzioni ed emulsioni, e fors’anche per spie- gare i fenomeni della coagulazione, ed in ispecialità della caseificazione, come indicherò in un mio Saggio di chimica molecolare. Come si vede Selmi ammette che lo solfo possa entrare nei vari solfuri a base dello stesso metallo, nei diversi suoi stati allotropici. Questa idea fu emessa poco dopo dal Piria nel Congresso di Milano del 1844 ed il Selmi appunto gli fece osservare che egli poco prima aveva emesso la stessa idea (“ Atti Congr. Scienz. italiani ,, 1844, pag. 164), ed il Piria nella stessa seduta riconobbe giusta la priorità del Selmi. L'importanza di questa nota del Selmi, in parte da me riprodotta ora, non può sfuggire a nessuno. Posteriormente il Selmi, insieme a Missaghi, pubblicò una nota importantissima Intorno al solfo vischioso e ad un nuovo modo di ottenere il solfo în grossi cristalli ottaedrici (£ N. Cim. ,, 1855, II, p. 381), in cui sono esposti molti e nuovi fatti. Che lo solfoy sia stato ottenuto da Selmi in varie maniere per ossidazione parziale del- (1) Si notino bene questi due periodi. Non si conosceva ancora l'ozono quale prodotto di con- densazione dell'ossigeno. 3 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 177 (di l'acido solfidrico, si può vedere anche nella sua memoria pubblicata nel 1852 in « Journ. de Pharm. et de Chimie , (8), t. XXI, p. 418. Facendo passare una corrente di gas cloro secco in una soluzione satura di acido solfidrico nel solfuro di carbonio, si ottiene dello solfo molle (SeLmi e MissacnI, SN Gio. >, IL, p.. 981 0 € Jahresb. ,, 1855, p. 802). Selmi e Missaghi (loc. cit.) osservarono che lo solfo solubile nel solfuro di car- bonio poteva diventare insolubile dopo l’ evaporazione del solvente (V. anche in Morssan, Traité de chim. min., I, p. 329). Per condensazione del vapore di solfo col vapore d’acqua Selmi osservò che si ha dello solfo molle (“ J. Pharm. chim. , (3), 1852, XXI, p. 418 e “ Jahresb. ,, 1852, p. 338). Questo lavoro è ricordato varie volte nel Gmelin-Kraut's, ult. ediz., 1907, p. 353-355-356, ecc. Prima ancora di Wohler (1853) il Selmi aveva notato che lo solfo talvolta si separa colorato in azzurro. Altre ricerche interessanti sullo solfo trovansi nella nota: Indagini intorno al solfo, ulteriori a quelle che furono comunicate alla sezione di chimica nel 6° congresso (£ Ann. chim. it. ,, 1846-47, II, p. 1-3 e “ Atti Congr. Scient. Ital. in Genova ,,, 1846). Tra le altre cose dimostra che lo solfo per l’azione del vapor d’acqua si trasforma in acido solfidrico, in acido solforoso e in solfo emulsivo. La formazione di idrogeno solforato in questa reazione, è erroneamente attribuita a Myers (“ J. pr. Chem. ,, 1869, t. 108, p. 123), che studiò questa reazione molti anni dopo Selmi. L’azione dell’acido solfidrico sul gas solforoso con separazione di solfo fu osser- vata la prima volta da Fourcroy e Vauquelin (“ A. Ch. , (1), 1797, t. XXIV, p. 245). Non notarono, però, che lo solfo aveva proprietà diverse da quelle dello solfo ordinario. Selmi invece osservò che si formava dello solfo emulsionato 0, come lo chiamò dopo, dello solfo pseudosolubile, che studiò col Sobrero nella memoria già più sopra ricordata (Cap. II). Sulla formazione dell'acido solfidrico per mezzo dello solfo, dell'acido solforoso € dell’acqua Selmi pubblicò un’altra nota nel 1845 (“ Ann. di Majocchi ,, 1845, XVII, 284). Sulla formazione di idrogeno solforato dagli iposolfiti, oppure per mezzo dello solfo, dell’acido solforoso e dell’acqua, è accennato nella bibliografia. Selmi ha studiato anche la decomposizione del cloruro e del bromuro di solfo mediante l’acqua; reazione che fu poi ripresa nel 1858 da Cloez (“ C. R. ,, t. 46 e t. 47). Nei suoi Principi di chimica minerale, 2* ed., 1856, p. 155, il Selmi ricorda le sue ricerche sui diversi stati dello solfo e scrive: Tra l’acido solfidrico e l'acido solforoso, nel seno dell’acqua, precipita un solfo pastoso, che si stempra nell’acqua stillata e forma la così detta emulsione di solfo, ecc. Questo solfo contiene, da quanto osservai, una quarta varietà di solfo, il vischioso cioè, quasi liquido, del- l’odore del polisolfuro d’idrogeno, solubilissimo nel solfuro di carbonio. Può conservarsi intras- formato ore e giorni; ma comunque sia tenuto, entro un tempo non lungo convertesi in solfo comune. Serig II. Tom. LXII. x 178 ICILIO GUARESCHI 54 Rispetto al così detto solfo liquido dagli iposolfiti, ecco quanto egli scriveva ancora nel 1876 (“ Enciclcp. di Chimica ,, vol. X, p. 180): Talvolta il solfo molle dagli iposolfiti scorre fluido come un liquido denso, poichè contiene del persolfuro di idrogeno. Fr. Selmi osservò in proposito che allorquando si fa agire una solu- zione calda di iposolfito con acido solforico non troppo concentrato si ha un solfo liquido, il quale portato a temperatura di 100°, si solidifica in breve perdendo una traccia soltanto di idrogeno solforato, la quale in peso corrisponde appena a qualche millesimo della massa. Da ciò parrebbe che il solfo liquido degli iposolfiti fosse tale per propria natura, sembrando dif- ficile che la liquidità gli sia conferita da una quantità minima di un corpo eterogeneo. Riassume le altre sue esperienze sullo solfo ottenuto in vari modi, nella “ En- ciclop. Chim. ,, 1876, X, p. 181. Composti alogenici del mercurio (ossicloruri, ossijoduri, ecc.). — Fr. Selmi ha fatto numerosi studi sui composti alogenici del mercurio sino dal 1844. Nel 1827 Liebig aveva ottenuto il composto Hg1?.HgCl? e Selmi nel 1844 (£ L’Institut , 1844, XII, n. 528 e “ Rapp. Annuel de Berzélius ,, 1844, p. 164) ottenne l’altro HgI?.2HgC1? per l’azione del jodio sul calomelano in presenza di acqua e a caldo. Il che fu poi confermato da Riegel (“ Jahresb. prakt. Pharm. ,, XI, p. 396). Egli poi ottenne in seguito degli ossiclorojoduri e dei cloromercurati di potassio quali 5KC1.2HgC12. H?0 e 4KC1.5HgCl?.3H?0 che sono da lui accennati anche nelle sue note al Regnault, Corso di chimica, vol. III, p. 450-452 e nell’Enciclop. di chim., vol. VII, p. 747. Ha descritto inoltre i tre ossicloruri seguenti (1): 5Hg0.8HgC01? + H?0, 3Hg0.9Hg01? + H?0, 8Hg0.6HgC1] + H°0 (Enciclop. di chim., VII, p. 748). Egli però non credeva che questi così detti sali doppi fossero dei veri composti chimici. Nei suoi Studî di chimica molecolare li considera più giustamente come me- scolanze. Delle osservazioni di Selmi sugli ossicloruri di mercurio di Roucher, trovansi negli “ Ann. di Majocchi ,, 1850, t. I, p. 165. Ricerche sul piombo. — Tetracloruro di piombo. — Tetravalenza del piombo e della valenza degli elementi in generale. — Selmi e Sobrero sono stati i primi ad ottenere il tetracloruro di piombo PbCl', cioè la forma massima di combina- zione PbX4. Esposero le loro esperienze in due memorie: Intorno all’azione del cloro sui cloruri metallici nelle soluzioni dei cloruri alcalini. Memoria letta dai professori Sobrero e Selmi il 20 maggio 1849 (“ Mem. R. Accad. di Torino ,, 1851 (Serie 2), XI, p. 245) e Nota intorno alla reazione dell’acido cloridrico sul biossido di piombo e sul minio (“ Mem. R. Ace. di Torino ,, 1852 (Serie 22), XII, p. CXX). (1) Riguardo agli ossicloruri di mercurio o miscugli di bicloruro e ossido dî mercurio, il Selmi nel 1851 scriveva (trad. del Cours de Chimie del Regnault, vol. III, pag. 451): “ Altri ossicloruri di mercurio si ottengono dal bicloruro di mercurio, quando si faccia agire “ sul medesimo il carbonato di calcio ovvero quello di magnesio ;. In questi ultimi anni furono preparati di questi ossicloruri mediante il carbonato di calcio (marmo), ma, naturalmente, senza ricordare Selmi; mentre si citano Roucher, Thimmel, Millon, Donovan, Philips, Taulow ed altri! 55 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 179 Non riuscirono ad ottenere libero il cloruro PbC14, perchè è poco stabile, ma bensì l’ottennero in combinazione col cloruro di sodio, nel composto PbCl4.9NaCI. Ecco come il Selmi stesso riassunse nel 1874 (Enciclop. di chim., vol. VIII, p. 910-911) il suo lavoro con Sobrero, sul tetracloruro di piombo. Tetracloruro di piombo PbCl'. Fino ad ora non fu ottenuto in istato libero; tuttavolta, non potendosi mettere in dubbio che sussista realmente, si cita come uno dei fatti fondamentali per riconoscere la tetratomicità del piombo. Fu scoperto da Sobrero e Selmi, e sì ottiene in soluzione, combinato con un cloruro alcalino, quando si fa gorgogliare un afflusso di cloro nel cloruro di piombo stemperato in una soluzione di cloruro di sodio o di potassio. Il cloruro di piombo si scioglie a poco a poco e se ne ha un liquido di colore giallo cupo, il quale si conserva inalterato fino ad un certo tempo in recipiente ben chiuso, ma che esposto all’aria perde con lentezza del cloro, depo- nendo del bicloruro cristallizzato in begli aghetti. Nicklès l’ottenne in soluzione più concentrata sostituendo al cloruro di sodio o di potassio quello di calcio, od anche l’acido cloridrico concentrato. Gli alcali ed i carbonati alcalini v'inducono un precipitato di perossido di piombo; il cloruro manganoso vi determina immediatamente un precipitato di perossido di manganese; l’acqua di calce agisce come fanno gli alcali; il fosfato di soda vi fa nascere un precipitato bruno, che forse è un fosfato di perossido di piombo. La soluzione gialla del tetracloruro di piombo e di cloruro di sodio contiene tali propor- zioni dell’uno e dell’altro, da corrispondere alla formola: PbC014 + 9NaCI. Quella del tetracloruro col cloruro di calcio contiene i due componenti nelle proporzioni della formola PbCl#+16CaC1?. È un clorurante ed ossidante gagliardissimo. Ossida l’acido ossalico con isvolgimento vivace di anidride carbonica, scolora l’endaco, scioglie parecchi metalli, tra cui l’oro e il nero di platino, precipitandosi in tutti i casi nominati del bicloruro di piombo cri- stallizzato. Il Selmi adoperò la soluzione di questo suo sale PbC14.9KCI come reattivo per distinguere alcuni alcaloidi (“ Berichte ,, 1875, p. 1198). Le esperienze di Selmi e Sobrero furono poi confermate da altri chimici, ed ora l’esistenza del tetracloruro di piombo è ammessa da tutti e la scoperta è dai trattatisti imparziali notata come dovuta a Selmi e Sobrero. È quindi non esatto attribuire la scoperta del tetracloruro di piombo al Friedrich (€ Monatsh. f. Chem. ,, 1893, t. XIV, p. 505); il quale però riuscì ad ottenerlo allo stato libero, e cristallino a — 15° e sotto forma di sale ammonico (NH*)?PbCl?. Altre ricerche sul piombo. — Fr. Selmi osservò che il piombo in limatura, bagnato con acqua distillata e tenuto entro pallone, svolse lentamente dell’ammo- niaca; reazione che attribuì ad un lento sviluppo di idrogeno tra il piombo e l’acqua ed all’ingenerarsi dell'’ammoniaca tra esso idrogeno e l'azoto dell’aria (Enciclop., VIII, cit. Piombo, p. 906). Fece alcuni studi anche sul minio. Della valenza degli elementi. — Queste sue vecchie esperienze sul piombo lo condussero poi ad occuparsi anche della valenza degli elementi in generale, tanto più quando i chimici discussero della tetravalenza del piombo in relazione a quella anche di altri elementi. Egli in varie occasioni emise l’idea che gli elementi possedessero delle valenze suppletive, o, come si direbbe, delle valenze parziali. 180 ICILIO GUARESCHI 56 A proposito della mia memoria: Le densità anomale dei vapori, che pubblicai nelle memorie della R. Accademia delle Scienze di Bologna nel 1876, il Selmi tornò su quest’argomento e il 6 novembre 1877 mi scriveva da Bologna: Non è peranche stato diramato il vol. in cui fu inserita la di Lei Memoria; non appena lo riceva, la rileggerò, tanto più avendo inteso che v’introdusse parecchie mutazioni. To le accennai l’idea di una forza aggregativa speciale della molecola per udirne il parere; ma come le è noto propendo a credere che gli atomi contengano valenze occulte, le quali agiscano in certi casi, attutite le valenze abituali, d’onde i composti di addizione, cioè da molecola a molecola ambedue sature, ed anche tra molecole della stessa natura. Ciò apporta un concetto più ampio dell’idea di affinità, poichè abbraccierebbe qualsivoglia stato aggregativo. Se avrò qualche ritaglio di tempo, stenderò un discorso sull’argomento. Mi sono occupato in questi giorni dei prodotti sublimati dell’albumina messa a putrefare dentro storta per due: anni..... Continua ricordando delle sue esperienze sul fosforo organico. Sino dal 1871 (Enciclop. chim., V, p. 131) scriveva: Il solfo, il selenio si comportano come biatomici, a somiglianza dell’ossigeno a cui s’infa- migliano; nondimeno pajono capaci di sviluppare in certi casi un’atomicità (valenza) doppia della loro consueta, dacchè si conoscono un seleniuro tetraetilico ed un solfuro. Posta adunque la possibilità in essi di procedere come tetraatomici (possibilità che l’ossigeno deve pure con- dividere), non si potrebbe intendere come si dimostrino sempre biatomici, fatta la eccezione accennata, se non ammettendo che contengano due valenze attive e due passive, le prime sempre in operazione, le seconde non manifestabili che per istimolo di qualche radicale (Fr. S.). Egli chiamava gruppi prevalenti i gruppi complessi dei doppiocianuri, ecc. EKcco quanto egli scriveva già nel 1874 a proposito dei perossidi e delle valenze occulte: Alcuni autori hanno supposto che i biossidi di bario, di stronzio, di manganese e di piombo abbiano una struttura rappresentata da Me”(0°)/ e quello di potassio e simili da (Me*)(0°)”, senza che sì abbiano prove in proposito. Rispetto ai primi, si può anche congetturare che ila loro formazione derivi piuttosto dalla capacità di quei metalli di sviluppare quattro valenze in certe condizioni, come pure non è fuor di ragione che anche il potassio non isvolga maggior numero di valenze oltre al consueto, quando si sa che il sodio può comportarsi talvolta come polivalente. Se non si ammettono nei corpi elementari certe valenze occulte le quali si fanno palesi in certe date circostanze, non si potranno mai spiegare tutte le combinazioni alle quali dànno nasci- mento o coi metalloidi o coi radicali organici; come non si potrà spiegare la forza di coesione onde si uniscono in molecole cristalline i corpi saturi, e onde si formano i composti di addi- zione (Enciclop. di chim., VIII, 1874, p. 578). In un articolo sugli: Elementi polivalenti, che scrisse nel 1874-75, vi sono delle idee buone, non molto lontane dalle idee esposte da chimici moderni sulla valenza e sulla combinazione (Enciclop. di chimica, vol. IX, p. 84-91). Egli in varie occasioni ammise che anche l’ossigeno sia tetravalente, come ad esempio nel perossido di etile: (C*H5)?.0 Ni (C*H5)2.0 7 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 181 ur “I Le idee del Selmi sulle valenze abituali e occulte, non sono analoghe a quelle emesse poi da altri, come, ad esempio, quelle di Spiegel (1) sulle valenze parziali, o quelle di Abegg (2) sulle valenze normali e sulle controvalenze, queste meno energiche delle prime? Le affinità neuzre, secondo Spiegel, sono come cariche nega- tive e positive: ad esempio, l’ammoniaca NH? contiene due affinità neutre, da ciò la formazione di cloruro di ammonio NH3(— H) (4 C1). Jodio purissimo cristallizzato. — Francesco Selmi ha proposto il metodo se- guente per ottenere il jodio purissimo e ben cristallizzato (Enciclopedia di chimica, vol. VII, p. 278-279 e 289-290). Si fa una soluzione concentrata a caldo di jodio nell’acido jodidrico e si tiene in boccia chiusa e alla luce. Il jodio si comincia a deporre cristallizzato e col tempo i suoi cristalli vanno crescendo notevolmente, perchè la luce decompone l’acido jodi- drico, rende minore la capacità del liquido per mantenere disciolto il jodio, il quale deponendosi lentamente, ingrossa i cristalli che dapprima si erano formati; in ultimo si lavano con acqua. Preparazione dell’acido jodidrico. — Selmi sino dal 1844 (“ Ann. di Majocchi ,, t. XIV, p. 22, con figura) propose di preparare l’acido jodidrico concentrato, facendo incontrare il vapore di jodio misto a vapor d’acqua con il gas acido solfidrico. Acido jodidrico ed acido solforico. — Selmi osservò fin dal 1845 che nell’azione fra l’acido solforico e l'acido jodidrico concentrato si raccolgono goccioline oleose brune, che abbandonano solfo bianchiccio quando sono trattate coll’acido solforico e nel tempo medesimo sentì svolgere odore manifesto di joduro di solfo. Posteriormente osservò che si svolge anche idrogeno solforato (note alla tradu- zione italiana del Corso elementare di chimica del Regnault, vol. I, Torino, 1851). Si vede da ciò che l’azione riducente sull’acido jodidrico, non è solo degli acidi solforico e solforoso, ma si estende pur anco al solfo nascente che rende libero l’jodio e si impossessa dell'idrogeno (Fr. Selmi in Enciclop. chim., vol. VII, p. 239-290). Jodio sciolto nell’acido solforico. — Fr. Selmi fece conoscere da molti anni come il jodio si sciolga con colore violaceo nell’acido solforico concentrato e ne de- dusse che ivi sussiste in quel modo di essere ond’è quando è vaporizzato. Kraus (3) in seguito trovò l’ugual cosa, estendendo l'osservazione agli acidi nitrico, cloridrico, fosforico, acetico e tartarico. L’acido cloridrico lo scioglie già a freddo in rosso cupo, l'acido fosforico in giallo rossigno. Ma Selmi fece seguire la sua osservazione da considerazioni teoriche non prive di valore anche oggi. Vapori di jodio violetto e giallo. — Sino dal 1846 e nell'adunanza 13 set- tembre 1847 della riunione degli scienziati italiani, il Selmi fece notare come il jodio si sciolga con color violetto nell’acido solforico concentrato, e come passasse al giallo appena lo si diluisse alquanto. (1) “ Zeits. f. anorg. Chem. ,, 1894, V, p.29 e 365. (2) “ Zeits. f. anorg. Chem. .,, 1904, XXXIX, pag. 330; e Arrmewnius, Theorien d. Chem., 1906, pag. 64 e 2° ed., 1909, pag. 78. (3) “£ Bull. Soc. Chim. ,, 1872, t. XVIII, pag. 438. 182 ICILIO GUARESCHI 58 Già nella sua memoria: Intorno all’azione di contatto (1846, p. 55) scriveva: Il calorico vapora il jodio in un bellissimo fluido elastico di colore violetto, che rappre- senta probabilmente uno stato polimorfico peculiare dell’alogeno; l’etere nitroso discioglie pure il jodio in colore di viola, e ci fa sospettare vieppiù che le soluzioni gialle ottenute coll’alcole e coi solventi salini attendano da tempo che si discopra un vapore di jodio giallo, ottenendolo col mezzo di forte pressione. E a questo proposito è assai importante la memoria: Di alcune reazioni tra l'acido jodi- drico e Vacido solforico tanto puro, quanto contenente del. solfato di piombo. (Raccolta di fisico- chimica italiana di Zantedeschi, Venezia, 1847-48). In questa memoria (p. 6) fa innanzi tutto osservare che attenendosi ad alcune opinioni di Gay-Lussac e di Bizio, egli considera la soluzione siccome una vaporazione del corpo solubile nel solvente. Questa memoria contiene molte interessanti osservazioni sulle proprietà del jodio, fra le quali quella che riguarda le diverse condizioni per le quali il vapore di jodio è violetto o può essere giallo. Pare inoltre che il jodio, in particelle piccolissime, abbia colore violaceo. Secondo le osservazioni del Selmi, il jodio quando è in solu- zione violetta non forma joduro d’amido, ma solamente quando la soluzione è gialla. Poi egli si domanda: Il jodio sciolto in violaceo sarà più o meno rarefatto del giallo? I due colori assunti dal jodio nello sciogliersi guidano giustamente ad arguire che esso possegga due vapori, e che esista nei liquidi solventi una virtù interna di aderenza, la quale apporti talvolta mutamenti nella condizione e struttura molecolare di corpi disciolti? E più avanti (p. 15) scrive, dopo varie considerazioni: è .io stimo non istrano, si ammetta che il vapore violaceo ed il giallo rappresentano l'abito elastico di due stati allotropici naturali al jodio. Tutta questa memoria meriterebbe di essere riprodotta. È noto che le soluzioni del jodio violette hanno la colorazione eguale a quella del vapore di jodio e le soluzioni brune hanno la colorazione del jodio solido sotto un lieve spessore (Schultz-Sellak, “ Pogg. Ann. ,, 1870, t. 140, p. 384). Pare che il jodio in soluzione eterea contenga I* (Raoult, van’t Hoff). L’idea di Selmi che il jodo abbia due specie di vapori, uno violetto e uno giallo, non è dunque priva di fondamento. Sui composti d’argento (Veggasi anche a pag. 28, 29 e 42). — Fr. Selmi ha fatto delle osservazioni interessanti anche sui composti d’argento. Innanzi tutto sino dal 1845 ha indicato un metodo per preparare il nitrato d’argento puro dall’argento monetario (“ Ann. di Majocchi ,, XIX, p. 311, vedi Bibliografia). Intorno all’azione della luce sui sali aloidi dell’argento ha fatto delle osserva- zioni che egli stesso riassunse nel modo seguente: Fu già osservato dal Gay-Lussac che quando il cloruro di argento è bagnato da una solu- zione di bicloruro di mercurio, rimane bianco, cioè non imbrunisce, stando alla Juce (1); (1) Io recentemente ho verificato e confermato questo fatto; ho visto anzi che bastano delle traccie di bicloruro di mercurio per impedire l'alterazione del cloruro d’argento per l’azione della luce. 59 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 183 Fr. Selmi, fino dal 1845 (1), avvertiva che ciò avviene, non solo se il cloruro sta immerso nella detta soluzione, ma pur anco quando fu separato dal liquido e seccato, tanto che ne contenga una certa quantità in mescolanza limpida. Avvertì eziandio che altri corpi influiscono sulla prontezza onde si alterano stando alla luce; la soluzione di nitrato d’argento è quella che lo lascia annerire con maggiore intensità e prontezza; le soluzioni di solfato di potassio, di nitrato di bario e di sale ammoniaco non altro permisero se non che si facesse cinereo con qualche tendenza al nero azzurro; l’acido nitrico diluito lo lasciò divenire di un bruno rossiccio. Sottoposto a prova anche l’joduro d’argento, il detto autore (Selmi) notò che fu meno guarentito dallo scomporsi alla luce per mezzo del sublimato corrosivo, poichè si vide a sbiadire sensibilmente nel colore. Nel tempo medesimo notò pure che l’idrato d’argento immerso nella soluzione del bicloruro di mercurio non mostra di reagire se a luce diffusa, mentre alla luce diretta abbandona ossi- geno e sì va imbiancando di mano in mano. Discorre a lungo dell’azione della luce anche sui sali d’argento nel suo opuscolo: Studi teorici e sperimentali di chimica molecolare, 1843-1846, sopracitati (V. pag. 29). Fra le osservazioni fatte dal Selmi sul cloruro d’argento (V. anche pag. 28 e 42), ricordiamo anche le seguenti, quali sono esposte dall’autore stesso (2): Fr. Selmi osservò nel 1845 che il cloruro d’argento fioccoso, preparato col versare a goccie ‘a goccie, una soluzione neutra e allungatissima di nitrato d’argento, in altra diluita di sale ammonico o di sale comune, manifesta alcuni fenomeni degni di considerazione. Di mano in mano che cadono le gocce della soluzione d’argento, quella del cloruro si intorbida; agitando rapidamente con uno specillo, i fiocchetti bianchi si diffondono per tutta la massa e si ha una specie d’emulsione lattea, bianchissima e che si conserva per alcune ore senza deporre. Devesi evitare una eccedenza del nitrato d’argento. Dibattendo più e più volte questa specie di emul- sione, essa non si rischiara; versandovi dell’acido nitrico, tosto il cloruro d’argento si raccoglie in tenui fiocchi non capaci di attraversare la carta da filtro. Col solfato di potassio, ed agi- tando vivamente, l’emulsione si guasta ed il cloruro d’argento si conglutina in fiocchi molto coerenti e che precipitano all’istante. Dànno ad un dipresso lo stesso il solfato ed il cloruro di sodio, il cloruro ed il clorato di potassio, il cloruro ed il nitrato di bario, il cloruro di zinco, l’acetato di piombo ed il sale ammoniaco. Il nitrato d’argento affretta più di ogni altro sale la formazione dei fiocchi grumosi, quasi spinti da forte pressione e ciò tanto meglio, quanto più si dibatte con forza maggiore. Il sublimato corrosivo fa pure deporre il cloruro d’argento emulsionato, tranne che procede molto adagio ed il sedimento è in fiocchi minuti. Per altri lavori di chimica inorganica (depurazione dello zinco, ecc.) si vegga il Cap. VII, Ricerca dell’arsenico e la Bibliografia. (1) Vedi anche Enciclop. Suppl. e Compl., 1879, vol. I, pag. 763. (2) Enciclop. Suppl. e Compl., 1879, pag. 764; Studi sulla dimulsione di cloruro d’argento, in © Nuovi Ann. Se. Nat. di Bologna ,, 1845 (2), t.IV, pag. 146 e © Ann. di Majocchi ,, 1846, p. xx1v, pag. 226 e 1847, XXV, pag. 43 e in Reewaurr, Trattato elementare di Chimica, trad. ital., 1852, vol. III in nota a pag. 461. Sino dal 1846 Selmi aveva distinto l’emulsione dalla pseudosoluzione e dalla dimulsione (loc. cit.) e in questo lavoro fece notare le osservazioni precedenti del Berzelius. 184 ICILIO GUARESCHI 60 V. Chimica organica. Composti organometallici del mercurio. — Preparazione dell’amigdalina. — Pre- parazione dei lattati e dell’acido lattico. — Considerazioni sugli elementi costitutivi delle molecole organiche — Ricerche sull’albumina. Composti metallorganici del mercurio. — Il primo esempio di composti me- tallorganici del mercurio devesi a Sobrero e Selmi, come giustamente fa osservare anche Einar Biilmann (“ Ber. d. Deut. Chem. Gesell. ,, 1902, p. 2587). Nel 1851 Selmi e Sobrero trattando l’alcol etilico con soluzione nitrica di mer- curio e scaldando a 100° ottennero un bel composto cristallizzato (1). Gerhardt (2) preparò il composto di Sobrero e Selmi e lo considerò dapprima come un nitrato doppio di mercurio e di etile in cui l'idrogeno dell’etile è surrogato dal mercurio (nitrato di etilmercurio), poi mutò d’avviso (Traité de chim. org., vol. II) e lo con- siderò come una combinazione di nitrato di etile e di sottonitrato di mercurio C2H5.0N02.HgN?05.2Hg0. Questo composto di Selmi e Sobrero si prepara nel modo seguente: Si versa dell’aleole nel nitrato mercurico in soluzione concentratissima, e tosto si forma, a freddo, un precipitato bianco ed amorfo di sottonitrato mercurico; se il liquido è acido, non avviene precipitazione di sorta. In tal caso scaldando la mescolanza gradatamente sì osserva che prima della ebollizione apparisce un precipitato bianco e cristallino, che è il nuovo sale di cui si parla, il quale continua a formarsi senza più d’uopo di calore. Non isvolgesi del gas; il liquido caldo ha odore di aldeide; l’acqua madre contiene sottonitrato mercuroso. Questo composto fu poi studiato da Copwer (“ J. Chem. Soc. ,, 39, p. 242), da School (1893) e poi più recentemente da Biilmann (loc. cit.) che lo considera come un derivato dell’aldeide proveniente dall’ossidazione dell’alcol, e propose la formola C4H2N4Hg50!5. Sobrero e Selmi ottennero un altro composto sulla cui natura e composizione nulla è bene accertato, ma che si connette col precedente. Si forma quando sciolto il cloruro mercurico nell’alceol concentratissimo, si precipita con soluzione alcolica di potassa, in guisa da avere fortemente alcalino il liquido; se ne ha un precipitato giallo contenente mercurio, carbonio, ossigeno e idrogeno (Sobrero e Selmi, loc. cit. e Enciclop. chim., vol. V, p. 919). Nelle “ Mem. R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1852, Sobrero e Selmi pubbli- carono una memoria dal titolo: Sopra un nuovo sale di mercurio, ove descrissero un altro composto organometallico del mercurio, ottenuto dall’alcol metilico col nitrato mercurico. Il composto che essi ottennero è di color giallo pallido, insolubile nel- l’alcol e nell'acqua. Scaldato, si decompone con viva deflagrazione. Coll’acido clo- ridrico sprigiona acido cianidrico. A questo composto gli autori diedero la for- mola C!4H3026NHg!3 (calcolata coi pesi equivalenti d’allora, e più probabilmente CTHSNHg6012). (1) © C.R.,, XXXIII, p. 67; “ J. pr. Chem. ,, 1851, t. 53, pag. 382; A. 1851, t. 80, pag. 108. (2) A. 80, pag. 111. 61 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 185 To non so se questo composto sia mai stato studiato da altri, come non sap- piamo se proprio proviene dall’alcol metilico o dall’acetone che l’alcol metilico di allora generalmente conteneva. Gli autori non dicono se l’alcol metilico era stato depurato trasformandolo in ossalato di metile. Sarebbero dunque fre i composti organometallici del mercurio ottenuti da Sobrero e Selmi; su due dei quali si hanno notizie incomplete. Metodo per la estrazione dell’amigdalina. — Un buon metodo per la estra- zione della amigdalina dalle mandorle amare è descritto dal Selmi nella sua inte- ressante nota: Alcune osservazioni sull’amigdalina, in “ Ann. Italiano ,, 1847, II, p. 148, e “ Annotazioni al corso di chimica del Regnault ,, Torino, 1851, t. IV, p. 603. Sull’acido lattico e i lattati. — Interessa specialmente la preparazione di alcuni lattati. Considerazioni sugli elementi cardinali delle molecole organiche. — Nei suoi libri anche elementari noi troviamo sempre l’esposizione di qualche idea sua, egli non è mai un semplice compilatore. Non si limita alla parte descrittiva, ma fa sempre vedere quale è il punto debole o importante di una teoria o di certi fenomeni. In quale trattato di chimica organica italiano, o anche straniero, di quel tempo, e anche dopo, si trovano considerazioni così belle come quelle che riguardano i quattro elementi più importanti delle sostanze organiche: carbonio, azoto, idrogeno ed ossigeno, e che si trovano nei suoi: Principi elementari di chimica organica, pub- blicati nel 1851, p. 118-121, e nelle Annotazioni al Regnault, vol. IV, 1852, p. 526-532? Im nessuno. Discorrendo dei quattro elementi C, H, N, 0, egli considera come più importanti il carbonio e l’azoto, che sarebbero elementi organogenetici. Invece l’idrogeno e l’ossi- geno considera come elementi sviluppatori nella formazione delle molecole organiche ed oggi noi li diciamo elementi saturatorî o sviluppatori delle funzioni chimiche. Poi discorre degli elementi accessori nella formazione delle molecole organiche, quali sono il solfo, il fosforo, ecc., ed infine discorre di altre materie minerali che si estraggono dagli esseriî organizzati. Sono considerazioni e generalità di chimica organica quali trovansi in quasi nessun altro trattato. Non vi è mai quell’aridità tecnica che trovasi in altri libri di questa natura. Ricerche sull’albumina. — Secondo Selmi, una soluzione concentrata di albu- mina, coagulata in recipiente chiuso, occupa, insieme col liquido onde si depone, lo stesso volume che occupava prima della coagulazione (Enciclop. di chim., VIII (1874), p. 593). Riguardo l’albumina dell’ovo od ovoalbumina, il Selmi osservò inoltre che: Stemperando dell’albume d’ovo nel latte in certa data proporzione e scaldando, l’albumina nel coagulare fa rapprendere eziandio la caseina, onde si forma un coagulo misto. Per lo con- trario, la caseina quando si fa coagulare col presame non trae seco l’albumina nel rappiglia- mento (“ Enciclop. di Chim. ,, VIII, p. 593). Il precipitato che si forma col sublimato corrosivo e l’albumina d’ovo si ridi- . scioglie completamente nei cloruri alcalini e negli acidi organici (Selmi, Enciclop. chim., VIII, p. 594). Serie II. Toxw. LXII. Y 156 ICILIO GUARESCHI 62 WI Azioni di contatto o catalitiche. — Fenomeni di aderenza o di assorbimento. — Teoria della tintura. — Assorbimento del carbone. — Fermentazioni. — Come agiscono i fermenti diastasici o enzimi. — Attività dei fermenti diastasici in soluzioni saline e a bassa temperatura. — Nitrificazione e influenza dell’ossido ferrico. — Assorbimento o assimilazione dell’ azoto atmosferico. Dell’azione di contatto. — E noto che Berzelius nel 1836, in alcune pagine, “ Jahresh. f. Chem. ,, riassunse le varie reazioni chimiche che avvengono, come si disse, anche per contatto, e creò il nome di catalisi o forza oggi classiche, del suo catalitica che poi è rimasto. Mitscherlich (1834 e 1842), Playfair (1847) ed altri poi si occuparono delle reazioni catalitiche. Selmi fu tra questi primi, perchè già nel 1843 e specialmente nel 1846 al 1848 se ne occupò in modo particolare. Egli in più luoghi considera l’acqua come un agente catalizzatore (1). Nel 1846, cioè appena dieci anni dopo che Berzelius aveva trattato della forza catalitica, il Selmi scrive una lunga ed assai importante dissertazione esposta in forma di lezioni nella scuola chimica del Liceo di Reggio Emilia. Questa disserta- zione col titolo Intorno all’azione di contatto, di pp. 73, fu pubblicata nel “ Giornale delle Scienze Mediche della R. Acc. Medico-Chirurgica di Torino ,, serie 2?, anno I, 1848, vol. III, p. 222 e 372 e anno 1849; ed è divisa in tre parti. In questo lavoro il Selmi raccoglie un numero grandissimo di osservazioni vecchie e nuove e le discute con grande finezza di criterio scientifico (2). Nel capitolo: Azione di contatto per superficie ed aderenza nei corpi liquidi (p. 11), trattando dell’acqua e della soluzione, cerca di provare che i solventi svolgono ed esplicano una azione catalitica, e ciò egli ammise sino dal 1843 (3). I solventi, egli dice, non differiscono punto dai corpi porosi negli assorbimenti che fanno delle materie vaporose o gazose, e nei mutamenti che vi apportano nelle qualità specifiche, allorquando le assorbirono e raccolsero nel loro seno; anzi li superano in parecchi casi, e danno effetti più svariati e meravigliosi, ma de’ quali prendiamo minor sorpresa per l’abitudine d’averli spesse volte sott'occhio. L'azione loro si compie o per superficie senza introduzione della sostanza (1) Il compianto Prof. Augusto Piccini in una bellissima lettera mi accennava a varie questioni che riguardano l’acqua e diceva fra l’altro: © L'acqua è sempre un grande enigma ,. Ed aveva ragione. Chi non sa oggi quale sia l’influenza anche di traccie di acqua nelle reazioni chimiche? Così è dell’azione del vapor d’acqua in molti casi. Ora, in talune reazioni sì ammette oggi che l’acqua agisca come catalizzatore. Si veggano a questo proposito le ricerche di Pringsheim, © Pogg. Ann. ;, (2), t. XXXII, pag. 384; Friedel e Ladenburg, A., t. CKXLIII, p. 124; Dixon (1884 a 1886) e quelle di Baker (1892 a 1894). (2) Questa Memoria meriterebbe di essere riprodotta per intero, tanto è densa di idee, di fatti curiosi ben raccolti, e di considerazioni moderne. * Più in breye il Selmi ha discorso dell’azione di contatto o della catalisi nelle Annotazioni al Regnault, vol. I, pag. 425 e IV, pag. 688 e 694 e nei suoi Principii elementari di chimica inorganica ed organica. (3) Vedi nota apposta a pag. 32 del vol. Il della traduzione da lui eseguita della farmacopea di Henry e Guibourt (Modena, Vincenzi e Rossi, 1843). GIU FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 187 alterata nei loro meati o pori, ossia senza che ne segua la soluzione; 0 per istruggimento dei corpî solidi, che sono suddivisi sino alla rarefazione gazosa e vaporosa, col successivo acco- glimento nei meati del liquido delle particole rarefatte, alle quali si dispiegano tosto o tardi alcune proprietà strane ed insolite di cui non apparivano dotate. È in lui sempre l’idea manifestata in altri lavori, che i corpi quando veramente si sciolgono passano quasi allo stato di gas; vi è insomma l’idea della soluzione gasosa come ammettiamo oggi. A lungo discute la questione dell’alterazione che l’acqua fa subire ai corpi solubili o no, coi quali si mette in presenza; e ricorda con grande chiarezza ed efficacia un gran numero di fatti interessanti, come ad esempio le alterazioni che subiscono per l'azione dell’acqua l’acido opianico, il solfocarbonato potassico, il cloruro di solfo biammoniacale, il bijoduro di mercurio nell’alcol, l’acido ferrocianidrico, il bisolfito di ammonio, il cloruro di jodo, il rodizonato di potassio, l’allossana, il nitrato di am- monio, ecc. ecc. “ Dunque è giuocoforza concludere che i solventi intravvengono a maniera degli agenti catalitici nel modificare le sostanze che assorbirono o disciolsero, della qual cosa si può meglio accertare e convincere ponendo in parallelo i corpi porosi e ca- talitici coi solventi ,. E qui il Selmi espone un parallelo fra i corpi porosi ed i sol- venti (pag. 21). Riguardo l’influenza della natura diversa del solvente nel produrre le reazioni a pag. 22-23, scrive: Io ricorderò in questo luogo, non a pompa d’attribuirmi il vanto di scopritore, non all’og- getto di significare soltanto che da tempo volsi l’attenzione sopra tali cose, ricorderò, io dissi, d’avere fino dal 1848 dichiarata in una mia dissertazione, l’influenza somma della natura dei solventi nell’indurre diverse reazioni nei corpi disciolti, e precisamente allorquando si risguar- davano in generale le curiose anomalie riscontrate nelle soluzioni alcooliche degli acidi, siccome un effetto dell’indissolubilità dei prodotti nascituri (Degli acidi anidri, e degli acidi idratati ecc., Modena, Tip. Eredi Soliani, 1843). Millon nell’anno appresso svolse meglio l’argomento e lo ridusse al srado di evidenza. E parimenti primo d’ogni altro notai le discrepanze ragguardevoli che si trovano nelle azioni di un solvente a seconda della quantità onde s’infrapponga nella reazione. Avendo tro- vato che a poca acqua l’acido solforico e l’acido jodidrico si scompongono con reciprocanza e svolgono acido solforoso e jodio, e che a molt’acqua si ricompongono quali erano in prece- denza; che il tartaro emetico assorbe tenuissima dose di jodio quando sia in soluzione concen- trata, e per lo contrario ne prende abbondantemente se in soluzione allungata; ed avendo conosciuto che la differenza degli effetti derivava solo dalla maggiore o minore copia del liquido, fui condotto a concludere: che un solvente a norma delle proporzioni può esplicare un potere diverso, e tal fiata tutt'opposto al primo osservato (1). E continua ricordando in proposito molt’altri fatti. Nella parte seconda di questa memoria espone ancora un numero grande di curiosissimi fatti che riguardano le soluzioni e le alterazioni delle sostanze sciolte e a pag. 33 accenna ancora alle pseudosoluzioni. Nel capitolo: Azione di contatto nel- (1) © Ann, di Majocchi ,, 1846, fasc. sett., pag. 263. 188 ICILIO GUARESCHI 64 l'interno delle masse liquide, e prima della precipitazione operata sopra materie disciolte, discorre dei vari casi in cui una sostanza aggiunta alla soluzione precipita intatto il corpo sciolto. In una nota a pag. 33, dopo aver discorso dell’amido, delle gomme, degli albuminosi, dei saponi, degli azzurri di Prussia, ecc., scrive sulla pseudosolu- zione quel brano che ho riprodotto più sopra nel capitolo della pseudosoluzione. Poi discorre delle emulsioni del cloruro d’argento, dello solfo, del sangue, del latte, ecc., e tratta a lungo del modo di agire dei fermenti. E dopo enumerati tanti e tanti fenomeni curiosissimi a pag. 51, al termine della seconda parte, scrive: Avanti di chiudere questa seconda parte pregherò i lettori a notare con ponderazione quanti e quali siano i fenomeni meravigliosi prodotti dall’azione di contatto, ed a conchiudere meco che essa non sottostà all’affinità, anzi la superi di gran lunga, almeno nelle operazioni appartenenti alla natura organata. La vita e le cose che servono a sostentarla hanno uopo grandissimo delle azioni di contatto; senza la quale nè l’una si conserverebbe, nè le altre potreb- bero essere preparate e ridotte a stato convenevole. Il grano dei cereali ha bisogno che la diastasia trasformi il proprio amido nello zucchero affinchè questo porga alimento al germoglio; azioni di contatto, secondo ogni probabilità, sono promosse dal tepore che s’insinua e penetra nelle ova fecondate, onde l’embrione si svolge e si compone; azioni di contatto separano dai liquidi circolatori le diverse materie appropriate a ciascuno degli organi dei corpi viventi; azioni di contatto nella digestione dei cibi; azioni di contatto nella respirazione delle piante; e forse da un’azione di contatto deriva unicamente quel mistico impulso, quell’arcano e rigorosissimo eccitamento, per il quale l’aura fecondatrice ed i liquidi seminali muovono nell’interno delle ovaie i piccolissimi ed incompiuti ovuli ad ordirsi in foggia nuova, ad effettuare reazioni sin- golari, sinchè si formi quel cumulo di principii specialissimi, quel tessuto finissimo che in sè può accogliere e custodire latente il soffio della vita, per manifestarlo libero ed operativo non appena le circostanze opportune lo permettano. Azioni di contatto si riscontrano nella generazione dell’alcool dallo zucchero d’uva, nella fabbricazione dell’aceto, nell’associazione delle materie coloranti coi tessuti, nella produzione del formaggio, nella conservazione delle carni col sale, negli scoloramenti, nelle purgazioni delle acque fetide, in molte reazioni inorganiche e finalmente nelle soluzioni e tumefazioni. Questo semplice quadro numerico, imperfettissimo delle opere uscite dall’azione di contatto ci deve dimostrare quanto importi lo studiarle attentamente e quanto il loro studio prometta ubertosi frutti, luminose scoperte. Incomincia la parte terza, pag. 53, colle parole seguenti, che mi piace riprodurre integralmente: Dopo avere indagato in quali e quante maniere l’azione di contatto si esplichi, e quali effetti ragguardevoli produca, credo pregio dell’opera chiamare l’attenzione dei lettori a rico- noscere il nesso di fratellanza che congiunge insieme l’azione prodotta dalle sostanze minerali con quelle che derivano dalle sostanze organiche, e poscia che annoda le une e le altre alle azioni generate dagli imponderabili; poichè mi sembra bello ed importante a considerarsi come le molecole ponderabili, che obbediscono alle forze chimiche, somiglino, in parecchi effetti, agli atomi tenuissimi e vigorosissimi ond’è la materia ridotta quando assunse le forme di calorico, di luce, di elettrico e di magnetico. E noto che Liebig ammetteva che nelle fermentazioni il movimento delle molecole in alterazione del fermento si comunica alla sostanza fermentescibile. Ma Selmi invece pensava che la fermentazione può avvenire anche quando il fermento non sia in via 65 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 189 di alterazione, e qui cita (pag. 66) una propria esperienza relativa alla fermentazione amigdalica (veggasi più innanzi a: Fermentazione amigdalica). Dell’azione di contatto o catalisi, il Selmi discorre in molte altre parti delle sue opere. Assai interessante, e che si legge ancor oggi con soddisfazione e profitto, è il capitolo: Dell’azione di contatto, che trovasi nei suoi Principti elementari di chimica organica, Torino, Cugini Pomba e €. ed., 1851, e che ristampò nelle annotazioni al Corso elementare di chimica del Regnault, trad. it., Torino, 1851, vol. I, p. 422. In questo capitolo discorre anche dei fenomeni di aderenza e della pseudo- soluzione. Fenomeni di aderenza o di assorbimento. — Teoria della tintura. — Assor- bimento del carbone. — Una parte delle reazioni catalitiche almeno, erano dal Selmi attribuite a fenomeni di aderenza o di superficie. Di questi fenomeni egli a lungo ne discorre in quei luoghi ove discorre dei fenomeni di contatto o catalitici (V. più sopra). Egli dava, e giustamente, una grande importanza a questi fenomeni. La struttura della pepsina e delle sostanze congeneri, scriveva nel 1857, è delle meglio dis- poste a contrarre aderenza cogli altri corpi. Vediamo in effetto come gli albuminoidi e le materie di forma glutinosa attraggano con forza sopra di loro i principii coloranti, parecchi sali, parecchi ossidi, e lì mantengano diffusi, con apparenza di essere disciolti, quando anche non lo sono, e come loro impediscano di precipitare. Fissano le sostanze coloranti, i fosfati calcari, ed invol- gono con tale pertinacia i fiocchetti di ossido di ferro e di ossido di rame quando li colgono in istato nascente, da ingannare la vista a farli credere in soluzione. Perciò Thenard riuscì ad imitare coll’allumina ed il perossido di ferro la sostanza colorante del sangue; e Bracconot a fare il simile coll’apiina ed il nominato perossido, e persino a ridurre in forma di particelle minutissime, stemprate o come emulsionate nell’acqua, il mercurio metallico. (Memoria sul Latte premiata nel 1857 dall'Istituto Lombardo). Ciò che Selmi chiamava aderenza o fenomeni di aderenza o di adesione, ora da alcuni si chiamano adsorbimento o adsorbzione. Così non si dice più che il caolino as- sorbe per adesione o per aderenza le materie coloranti, ma si dice che adsorbde, come gli idrati ferrico ed alluminico adsorbono i coloranti acidi. Il talco, il carbone animale, il caolino, gli idrati di alluminico e di ferro, ecc., sarebbero adsorbenti (1). Fi (1) Van Bemmelen diede a questi composti che forma il colloide coll’elettrolito precipitante il nome di composés d’adsorption. È La formation de ces composés d’adsorption ,, scrivono Cottin e Mouton, © d’après ce qu'on vient de voir ne paraît pas différer essentiellement des réactions chi- “ miques ordinaires. L’absence de proportions définies et la variation de la quantité adsorbée avec “ la concentration, n’ont pas lieu de surprendre, puisqu'il s'agit de reactions limitées par un partage “ entre le coagulum et le Jiquide et que, d’autre part, ces réactions n’intéressent qu’une partie du “ coagulum qui peut ètre une faible fraction de sa masse totale , (Les ultramicroscopes, ecc. Paris, 1906, pag. 139). Vignon, che ha studiato l’assorbimento di molte materie coloranti coll’amianto, colla sabbia, ecc. (© Bull. Soc. Chim. ,, 1910, t. VII, pag. 788), scrive: “ L’adsorption, manifestée par l’influence de “ surfaces è peu près chimiquement inertes (amiante, sable de rivières) sur les solutions aqueuses “ des matières colorantes considérées, ne serait qu'un cas particulier de l’attraction moléculaire ,. Tutto questo è precisamente simile a quanto diceva il Selmi dei fenomeni di aderenza. 190 ICILIO GUARESCHI 66 Anche ciò che oggi si dice condensuzione di superficie è in fondo ciò che Selmi chiamava forza di aderenza o di adesione. In questa facoltà di aderenza dei corpi porosi, vi ha qualche cosa di analogo o di identico a quanto era designato dal Chevreul col nome di affinità capillare e che meglio ora Ed. Justin-Mueller chiama affinità colloidale. Selmi aveva delle idee chiare anche in quanto riguarda il potere assorbente del carbone in relazione colla fissazione delle materie coloranti sulle fibre. Dodici o quindici anni fa la teoria della fissazione dei colori nella tintura era essenzialmente una teoria chimica; si ammetteva cioè che i gruppi funzionali acidi e basici ammessi come esistenti nelle fibre animali, formassero dei veri composti salini colle materie coloranti acide o basiche. Però a poco a poco le idee dei chimici cambiarono, e già il Sisley (“ Bull. Soc. chim. , (3), 1900, t. 23, p. 865) fece vedere che le esperienze date come favorevoli a questa teoria, potevano spiegarsi anche in altro modo. Lo sviluppo -preso dalla chimica fisica ha contribuito a far considerare questi fenomeni anche come dipen- denti da cause chimico-fisiche. Freundlich e Loser (“Z. f. physik. Chem. ,, 1907, p. 284), e Pelet e Grand (*# Rev. Gén. d. Mat. Col. ,, Paris, 1907, p. 225) ed altri, in questi ultimi tempi, hanno mostrato l'analogia che vi è fra le fibre tessili ed i carboni decoloranti rela- tivamente all’assorbimento delle materie coloranti. Questa analogia tra la fissazione delle materie coloranti e Fassorbimento delle materie coloranti stesse col carbone, era stata ben chiaramente espressa da F. Selmi sino dal 1851 e nei suoi preziosi: Principi elementari di chimica organica, Torino, 1851, trovasi quanto segue, che egli riprodusse anche nelle note alla traduzione del Trattato di chimica di Regnault, vol. IV, p. 681: Noi non siamo dell’avviso che le materie coloranti si combinino chimicamente colle fibre tessili. Il carbone minerale ed il vegetale ancora scolorano i liquidi contenenti materia colo- rante, scioltasi o pseudoscioltasi per entro. Poichè in questo fatto le materie coloranti dimostrano di aggiungersi alla massa carbo- nosa senza scambievole penetrazione di parti, senza combinazione mutua di molecole, e però il carbone resta dell’apparenza di prima e la materia colorante può riuscirne intatta, solo che vi si adoprino alcuni solventi più forti dell’acqua semplice o dell’alcole solo; poichè insomma non vi ha esercizio di affinità chimica, se ne conchiuse: che il fenomeno trae origine dall’aderenza che le particole coloranti contraggono colla superficie dei granuli o del polviscolo di carbone. L’allumina, l’ossido ed il solfuro di piombo idratati, il biossido di stagno fanno il somi- gliante del carbone; con questa differenza tuttavolta, che nel caso del carbone e del solfuro di piombo il colore si occulta nel nero dei due corpi prevalenti, e nel secondo apparisce intiero, perchè i precipitanti sono bianchi. Nel linguaggio volgare, le materie coloranti, precipitate da un corpo bianco insolubile, hanno nome di lacche. Taluno pretese che le lacche si formino per combinazione vera delle sostanze coloranti col corpo insolubile, e che la parte minerale della lacca vi tenga il posto di base. Per conoscere quanto sia erronea questa sentenza, basta di aver sperimentato alcune volte intorno al modo di generarsi delle lacche e basta ricordarsi, che i precipitanti e le materie coloranti più adatte alla produzione delle lacche posseggono in grado cospicuo le qualità di aderenza e di adesività. Le tele, la carta, le membrane organiche fanno l’ufficio del carbone e dell’allumina quando attraggono sopra di sè le sostanze coloranti, e ne pigliano perciò le tinte: laonde l’arte della 67 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 191 tintura consiste principalmente nell’opera di scegliere i colori di facile e durevole adesività, sulle fibre tessili, e di ridurli alla condizione necessaria, acciò più fortemente possano dai loro solventi scendere ad aderire ed a fermarsi con esse, senza che i solventi comuni valgano più a risepararnele. Walter Crum, che volse da lunghi anni gli studi sperimentali intorno all’arduo argomento della tintura, quando si pose ad indagare coll’aiuto dell’osservazione microscopica, come si faccia la fissazione dei colori sulle fibre del cotone, conchiuse: che l’effetto si compie per azione meccanica della fibra vegetale sulla materia colorante, nè procede da combinazione chi- mica. La quale conclusione conferma pienamente quanto andammo qui divisando. Julius Hubner (“ J. Chem. Soc. ,, 1907, t. 91, p. 1057) ha determinato quanti- tativamente l'assorbimento delle materie coloranti basiche o acide o neutre per mezzo del cotone, la lana, la seta ed altre fibre tessili a diverse temperature e con o senza aggiunta di altre sostanze al bagno di tintura. Misure parallele furono fatte sull’as- sorbimento di più dosi di materie coloranti, col carbone, la grafite, il caolino, il nero di fumo. L'autore ne conclude che: Le fibre animali si comportano colle materie coloranti nello stesso modo del carbone, mentre il cotone si comporta come la grafite. Il cotone e la grafite non sono tinti praticamente dalle materie coloranti acide, tanto a caldo quanto a freddo, mentre che la lana o il carbone assorbono liberamente le sostanze coloranti. Tutto questo conferma nè più nè meno tutto quanto disse e ridisse Selmi; egli era convinto della analogia di comportamento fra carbone e fibre tessili. Idee simili emise recentemente il Rosenstiehl (Du role de l’affinité dans la teinture, in “ Bull. Soc. chim. ,, 1910 e 1911). Per tutto ciò che riguarda i fenomeni di aderenza o di adesione si legge ancora oggi volentieri l'articolo del Selmi: Adesione, nell’ Enciclop. chimica, 1867, vol. I, p. 401 e Dell’aderenza chimica nei suoi: Principi elementari di chimica inorganica ed orga- nica, 1857 e 1851. : Fermentazioni. — Selmi fu uno dei primi e più autorevoli fautori della teoria chimica delle fermentazioni. Egli ammise che tutti i fermenti agivano come cataliz- zatori o per contatto, e ciò sino dal 1846. Fermentazione amigdalica. — Interessanti sono le sue ricerche sulla fermenta- zione della amigdalina per l’azione dell’emulsina. Sino dal 1846 egli aveva dimostrato che, contrariamente all'opinione degli altri chimici, nella fermentazione amigdalica non è necessaria la presenza dell’ossigeno atmosferico. Nella sua dissertazione sull'azione di contatto, descrive l’esperienza seguente: Se si prende dell’amigdalina e si mescola all’ammandina freschissima, estratta or ora dal frutto staccato dall’albero, colle debite cautele affinchè non abbia subito alterazione, inconta- nente l’amigdalina è scomposta in acido prussico e idruro di benzoilo. Se si piglia (come ho esperimentato io per alcune volte) la mandorla di pesco, estratta dall’osso levato di presente dal pericarpio, e poscia s’introduca rapidamente sotto campana della tromba pneumatica, operando il vuoto, e facendola seccare compiutamente col mezzo del- l’acido solforico; e se, ciò eseguito, si trasporta la mandorla in vaso ben asciutto che si chiude tosto, e sia pieno di gas idrogeno, e nel quale trascorra di continuo un torrente dello stesso gas; poscia, quando abbiasi piena certezza dell’assenza dell'ossigeno aereo, si pesti la mandorla con cannello di vetro trapassante a sfregamento nel turacciolo del vaso, non si avrà odore di sorta che indichi la presenza dei prodotti cianici nel gas che sbocca; ma se, allora, si faccia 192 ICILIO GUARESCHI : 68 stillare nel vaso per mezzo di un tubo alla Welter alquanto di acqua bollita, incontanente si formerà un liquido emulsivo, e con esso si sprigionerà un odore cianico manifestissimo, il quale uscirà in compagnia dell’idrogeno. Nel 1852 presentò all'Accademia delle Scienze di Torino (vol. XX, LXXIII, e Annotazioni al Corso di chimica del Regnault, vol. IV, pag. 604) una nota: Intorno ad alcune esperienze dirette a definire la natura della fermentazione amigdalica. In questa nota dimostra di nuovo che la fermentazione amigdalica può aver luogo fuori della presenza dell’ossigeno, contrariamente a quanto si credeva, e fa vedere come l’acido solforoso sia capace di sospendere l’azione fermentante della emulsina o sinaptasia. Altre osservazioni si trovano nell’Annuario, 1847, p. 149-150, sulle pro- prietà dell’amigdalica. Egli fece notare qualche differenza fra la fermentazione saligenica e la fermen- tazione amigdalica, e a pag. 605 delle Annotazioni al Corso di chimica del Regnault, vol. IV, sono delle interessanti osservazioni: i Il tuorlo d’ovo quando incomincia ad imputridire sembra che contenga della emulsina perchè fa svolgere in allora l’odore di mandorle amare dall’amigdalina, se pure non vi si inge- nera qualche altro prodotto di uguale potere dell’emulsina (“ Enciclopedia di Chimica ,, 1871, V, pag. 736). Egli fece sempre ben notare la differenza da lui stabilita prima di ogni altro fra fermentazioni con fermenti organizzati e fermenti chimici propriamente detti. A proposito di una nota di Melsens sulla fermentazione zuccherina (“ Ann. di Majocchi ,, 1850, t. I), in una nota a pag. 142 fa osservare: Melsens cita per termine di confronto della fermentazione zuccherina la fermentazione amig- dalica e paragona il fermento amigdalico a quello che si genera nella canna e nella barbabietola, ammettendo che il primo come il secondo abbia uopo per agire dell’influsso doppio dell’acqua e dell’aria, e con ciò assomma implicitamente l’emulsina ai fermenti che incominciano ad ope- rare quando cominciano ad alterarsi. Melsens seguita in questo l’opinione adottata comune- mente dai chimici, che cioè non abbiasi azione fermentativa, se non vi fu in precedenza azione scomponitrice dell'ossigeno, che investe la materia trasformabile in fermento. Per ora mi restringo a notare che le esperienze instituite sulla fermentazione amigdalica e descritte nella mia Dis- sertazione di contatto, contraddicono pienamente a tale opinione: laonde insisto nel distinguere i fermenti in due grandi categorie, in quella dei fermenti naturali e subitanei, che agiscono senza bisogno di ossigeno e senza essere previamente alterati, ai quali appartiene l’emulsina, e nell’altra dei fermenti di alterazione e lenti, che operano dopo che furono investiti dall’ossi- geno e trasmutati. Quanto prima farò conoscere una serie di esperienze, dalle quali risulterà che l’emulsina può combinarsi coll’acido solforoso (potente dissossidatore, e spegnitore gagliardo della fermen- tabilità indotta dall’ossigeno), senza perdere la facoltà fermentativa, la quale essa sospende, durante la combinazione coll’acido solforoso, come fa con altri acidi, e che ricupera non appena le si tolga l’acido solforoso coll’uopo di un alcali (Nota di Fr. Selmi). Il Liebig ammetteva che la fermentazione fosse dovuta al movimento di alte- razione in cui si trovano i fermenti, cioè che il movimento molecolare prodottosi nell’alterazione del fermento provoca per comunicazione di movimento la decompo- sizione della sostanza fermentescibile. Invece Selmi ha sempre sostenuto che i fer- 69 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENDIFICA 193 menti agiscono per catalisi o per aderenza chimica, e nella sua memoria sul latte, premiata nel 1857 dall'Istituto Lombardo, scriveva: Per noi la fermentazione in genere è un fenomeno di aderenza chimica, che si collega con quei fatti tanto frequenti in chimica minerale, in cui una data materia interviene a provocare o ad aiutare la modificazione o la scomparizione di altra, senza che avvenga reazione tra i due scambievoli elementi. K questo egli aveva già detto nel 1853 in una bella memoria sulle fermen- tazioni pubblicata nel Giornale della Società di Farmacia di Torino. In base a queste idee egli fece una bellissima esperienza, la quale dimostra che nella fermentazione amigdalica la emulsina non ha bisogno di essere alterata per promuovere la fermentazione amigdalica, come invece vorrebbe la teoria di Liebig. Feci notare, sino dal 1848, in un mio scritto Irtorno alle azioni di contatto, che nella fer- mentazione istantanea, quali sarebbero l’amigdalica e la sinapica, può malagevolmente imma- ginarsi, che i singoli fermenti delle mandorle amare e della senapa nera esistano nei semi in istato di alterazione continua; ed anzi citai una esperienza in proposito, da me instituita, colla quale m'impegnai di provare, che la fermentazione amigdalica avviene istantanea senza preven- tivo o simultaneo concorso dell’ossigeno, per cui non avrei saputo trovare d’onde venisse il motore di scomposizione tanto della emulsina quanto dell’amigdalina. Presi pesche spiccate allora allora dall’albero, levai loro la polpa, indi ne ruppi il nocciolo, ne cavai i mandorli che incontanente posi in campana sotto macchina pneumatica operando il vuoto. Questi mandorli secchi furono poscia introdotti in recipiente accomodato in modo che vi trascorresse assiduamente un getto di gas idrogeno, ed avendo in fondo un po’ d’acqua stillata e bollita. Non appena li tritai in detta acqua, valendomi di una verga di vetro, che intromet- tevasi nel recipiente per mezzo di turacciolo bene aggiustatovi, in cui poteva essere alzata ed abbassata a sfregamento, essi diedero tosto un odore cianico manifestissimo che uscì coll’idro- geno e fu riconosciuto anche coi reattivi (È l’esperienza ricordata anche a pag. 67). Sulla zicheasia o fermento del fico. — Fermentazione caseica col mezzo della zicheasia. — Il Selmi riassume le sue ricerche sul fermento da lui scoperto nel lattice del fico comune, nelle Annotazioni al Corso elementare di chimica del Regnault, 1852, IVENpo 0027: La fermentazione caseica operata dal presame si compie direttamente tra caseina e fermento del caglio, come fu dimostrato da me alcuni anni sono; imperocchè ottenni fermentazione istan- tanea, e fermentazione con latti e presami alcalinuli, che conservarono la loro alcalinità durante l’azione, e dopo che avvenne il rappigliamento. Ma non il presame solo mostrasi atto ad indurre coagulo nel latte, perchè vi hanno altre materie, come sarebbero i fiori del cardo selvatico, del galium verum, il sugo latteo del fico. Continua descrivendo la preparazione e le proprietà della zicheusia. Osservazioni teoriche interessanti del Selmi sulle fermentazioni si trovano nel Compl. e Supp. all’Enciclop., vol. II (1880), p. 732-753. Fermentazione butirrica. — Il Selmi si occupò anche della fermentazione butirrica e le sue osservazioni sono esposte nell’Enciclop. chim., vol. III, p. 412, e Compl. e Supp., 1880, vol. II, p. 728. Ricordiamo qui un fatto che può essere meritevole di considerazione. In tutte le esperienze eseguite da questo autore, egli notò che le diverse soluzioni preparate o col glucosio o collo Serie II. Tox. LXII Z 194 ICILIO GUARESCHI 70 zucchero di canna invertito o col miele, e cacio fresco con marmo polverizzato, i liquidi diversi, comunque la fermentazione fosse proceduta, contenevano una specie di chimosina o sostanza analoga al presame, poichè resi neutri, e mescolati con tre o quattro volumi di latte fresco, v'indussero la coagulazione in mezz'ora al calore di 40°, od in 8 0 4 ore a temperatura comune. Una delle soluzioni però, che aveva fermentato a 50° ed in cui il fermento butirrico era copioso e di lunghezza maggiore, si dimostrò quasi priva di coagulazione. Fermentazione solfidrica. — Ecco quanto scriveva Selmi sulla cosidetta fermen- tazione solfidrica, nel 1880, dopo aver ricordato il bacillo solfidrico di Miquel ed il bacillo beggiotoa di Luersen (Encicl. Chim. Compl. e Suppl., 1880, vol. II, p. 732): “ La fermentazione solfidrica era già stata intravveduta da Fr. Selmi, ma non istu- diata al punto da riconoscere quale ne fosse la cagione ,, ecc. E così continua esponendo le sue osservazioni ed esperienze sulla fermentazione solfidrica (V. anche il Cap. VII). Come agiscono i fermenti diastasici o enzimi. — Il Selmi è stato fra i primi a sostenere l’opinione che il modo di agire degli enzimi o fermenti diastasici, rientra nella categoria delle reazioni catalitiche. Egli emise l’idea che il fermento o enzima si unisce alla sostanza fermentescibile per formare un composto intermedio che poi si decompone, occorrendo idratandosi, rigenerando l'enzima intatto ed ancora attivo. La coagulazione del latte col presame avviene, secondo Selmi, per azione di contatto, per un fenomeno di aderenza chimica; il principio coagulante o fermento si appiglia alla caseina, e dopo la coagulazione si distacca conservando l’attività coagulante di prima, e così con questo modo alternativo di attaccarsi e di staccarsi sì spiega come basti una traccia di fermento per coagulare molto latte. Egli ammette che così in generale avvenga per tutti i fermenti. Questa interpretazione del Selmi fu confermata nel 1876 dagli studi del Wurtz sulla papaina o fermento del lattice del Carica Papaya; anche il Wurtz ammette che la papaina si fissi allo stato insolubile sulla fibrina e se ne distacchi in seguito, dopo l’idratazione della fibrina. Hiifner, Artus ed altri hanno poi emesso delle idee analoghe a quelle di Selmi (Artus, Nature des enzymes, Paris, 1896, p. 38). Egli dava gran valore, e credo giustamente, all’azione di superficie, e nel 1879 scriveva: Per esprimere subito e in poche parole il mio concetto: qualsivoglia succedere di fermen- tazione deriverebbe da ciò che il fermento posto in contatto intimo col fermentabile, agisce su di esso per affinità capillare, lo attrae, forse lo fissa, e in questo atto ne squilibra l’edificio molecolare, tanto che viene indotto o a modificarsi od anche a rompersi in diversi prodotti. Quando ciò fosse, le fermentazioni andrebbero a classificarsi con una quantità grandissima di fatti, che spettano tanto alla chimica minerale quanto all’inorganica, e che traggono nascimento da un’azione di superficie (“ Suppl. e Compl. all’Enciclop. ,, Vol. II, pag. 739). Egli mise in un gruppo solo i fenomeni fermentativi organici colle azioni cata- litiche o di contatto che avvengono fra le materie minerali. Egli comparò benissimo le reazioni fermentative organiche a quelle inorganiche. Anche nella recente memoria di Acree, Reazioni catalitiche prodotte dagli enzimi (“ Am. Chem. Soc. ,, 1908, t. 30, p. 1755; e “ Bull. Soc. Chim. ,, 1909, VI, p. 1335), sono esposte molte idee e considerazioni che collimano perfettamente con quanto scrisse il Selmi sessanta anni prima. 71 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 195 Attività dei fermenti diastasici in soluzioni saline e a bassa temperatura. — Il Selmi (“ Rendic. R. Acc. Bol. ,, 1875-76, p. 77) fece delle esperienze, le quali dimostrano che i fermenti diastasici mantengono la loro efficacia anche quando si trovano in una soluzione satura di cloruro di sodio e si operi a 0° ed anche a — 20°. L’emulsina, la ptialina, la mirosina in soluzione salina satura, agiscono benissimo sull’amigdalina, sull’amido e sulla sinigrina, anche alla temperatura di — 20°. Questi fatti dimostrano, scriveva Selmi nel 1875, che l’azione posseduta dai fermenti solubili non può essere attribuita ad uno stato di alterazione nel quale si trovino perma- nentemente, come aveva supposto il Liebig. Il cloruro di sodio in soluzione del 4°/ favorisce molto l’azione della saliva sull’amido (Selmi, Nasse) (in Albertoni, Manuale di Fisiologia umana, 2? ed., p. 253). Egli stesso nel 1879 scriveva: Fr. Selmi, studiando l’azione dei fermenti non organizzati su diverse sostanze, osservò che la ptialina saccarifica l’amido convertito in colla, a temperature molto basse, cioè tra —15° e —20°, impedendo la congelazione del liquido col mezzo del cloruro di sodio, cioè stempe- rando la colla in una soluzione satura di questo sale ed aggiungendovi della scialiva. Su un principio diastasico trovato nell’albume d’ovo Egli poco prima di morire, il 22 luglio 1881, scriveva all’Ercolani quanto segue: Per diverse considerazioni fui condotto a sospettare che l’albume d’ovo contenga un prin- cipio capace di saccarificare l’amido. Trovai di fatto che, sciolto in acqua e feltrato, poi messo a digerire con soluzione di amido solubile, in breve lo saccarifica. Questo fatto confermò adunque la mia congettura, onde mi accinsi ad estrarre il detto principio. E poi prosegue: L'esistenza di un principio diastasico nell’albume d’ovo ha senza dubbio un valore fisio- logico importante che tosto si offre alla mente. Siccome l’albume contiene glucoso e il tuorlo un amiloide, vedesi che questo passando nell’albume si saccarifira, e mediante l’avvenuta tras- formazione si fa alimento. Secondo Selmi questo fatto approssima sempre più l’ovo al seme vegetale in germinazione. - Già sino dal 1853 il Selmi era fautore della teoria meccanico-chimica della fer- mentazione e non della teoria vitalistica di Turpin e Cagniard-Latour. Allora egli pubblicò una memoria, già più sopra ricordata, Fatti intorno all'argomento delle fer- mentazioni (“ Giorn. di farm. e chim. ,, di Torino, 1853, t. II, p. 145-161), ricca di considerazioni ed osservazioni interessanti. Le principali osservazioni di Selmi sulle fermentazioni si possono riassumere come segue: 1° Ha dato una spiegazione scientifica esatta della coagulazione del latte col presame, confermata alcuni anni dopo da Heintz; 2° Ha studiato accuratamente la fermentazione amigdalica, ed ha dimostrato che non vi è bisogno della presenza dell'ossigeno, come si credeva prima, perchè avvenga questa fermentazione; 3° Ha scoperto nel succo del fico comune un nuovo fermento, la zicheasia, che agisce analogamente al presame; 196 TCILIO GUARESCHI 72 4° Ha emesso un'idea generale del modo di agire degli enzimi; 5° Studia l’attività dei fermenti diastasici in soluzioni saline e a bassa tem- peratura; 6° Egli sino dal 1846 e 1853 ha distinto molto bene le fermentazioni con fermenti organizzati dalle fermentazioni con fermenti amorfi o non organizzati. Però confrontò sempre tutte le fermentazioni coi fenomeni catalitici; 7° Scopre il fatto che molte materie albuminoidi, il latte, il sangue, il fer- mento alcolico, ecc., hanno la proprietà di ridurre lo solfo ad acido solfidrico; 8° Queste ultime ricerche lo condussero alla scoperta dell’azione riducente delle muffe o di altri organismi inferiori. Ricerche sulla nitrificazione e influenza dell’ossido ferrico. — Assorbimento o assimilazione dell'azoto. — Non vanno dimenticate le ricerche di Selmi intorno alla formazione dei nitrati in natura ed all'influenza che ha l’ossido ferrico nella nitrificazione. i Egli anche dopo le esperienze di Graham e di Deherain, era sempre di parere che in natura si formino prima i nitriti, e dopo aver discorso dell’ossidazione del- l’azoto e dell’ammoniaca, concludeva (art. Nitrificazione in Enciclop. chim., VII, pag. 179): Ma noi crediamo più probabile che veramente in ambedue i casi s’ingenerino dei nitriti i quali successivamente si convertono in nitrati pel contatto dell’ossigeno direttamente, od anche di un’abbondanza dell’ossidante, poichè le condizioni della bassa temperatura e la coesistenza dei riduttori, i quali non mancano mai nel terreno coltivato, ci fanno credere che l’azoto non sì ossidi al massimo, ma da prima si restringa al primo grado di acidificazione. Ed a comprova possiamo addurre il fatto, che nelle ossidazioni dell’azoto fu sempre riscontrata l’esistenza dei nitriti, che questi si trovano nelle acque di pioggia, nelle acque correnti, nei terreni, nei pro- dotti delle combustioni diverse in contatto dell’aria e nei nitri del commercio, come trovò il D. Pesci in tre nitri naturali e grezzi raschiati dai muri; che basta un breve contatto di un nitrato con materie vegetali umide perchè tosto si abbia la prova del passaggio a nitrito. Non dubitiamo punto che nuove indagini, condotte allo scopo di chiarire il nostro sospetto, non siano per confermarlo. Pesci con ricerche che fece sull’ossido ferrico, estese, modificò e ‘confermò le ricerche di Selmi (art. Nitrificazione in Enciclop. chim., vol. VIII, p. 177 e “ Gazz. chim. ,, V, p. 309) e dalle sue esperienze ne deduce: che il perossido di ferro è capace di nitrificare l’ammoniaca; che giusta l’opinione di Selmi, nella nitrificazione prima dell'acido nitrico si forma probabilmente acido nitroso; che nella nitrificazione il perossido di ferro non agisce come sostanza porosa, ma come ossidante, dacchè esso se sì opera fuori il contatto dell’aria si riduce, e se tale riduzione non avviene quando si opera all'aria, gli è perchè, giusta l'opinione di Kuhlmann, l'ossigeno sot- tratto viene sostituito dall'atmosfera. Anche nelle ricerche del Selmi fatte nel 1878 e comunicate all'Accademia di Bologna, la nitrificazione nei terreni avverrebbe prima per ammonificazione dell’azoto mediante le muffe, i micrococchi, le spore, i vegetali indecomposti, ecc., e poi per ossidazione dell'’ammoniaca in contatto simultaneo coll’aria e coi carbonati alcalini e terrosi. Con ciò si genererebbero dei nitriti e da questi poi i nitrati (Compl. e Suppl. all’Enciclop., vol. II, p. 228). 73 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 197 Qui è bene ricordare che quando Selmi faceva le sue ricerche, non erano ancora scoperti i batteri che producono i nitrati e i nitriti, di Winogradsky, ecc. Il prof. Fausto Sestini in una memoria sulla formazione dell’acido nitroso nel- Varia confinata nel terreno agrario pubblicata nel 1903, confermò le esperienze del Selmi e del Pesci e scriveva: Tanto Francesco Selmi quanto il prof. Leone Pesci (1875) avevano già qualificato il peros- sido di ferro come generatore di acido nitrico. Il primo aveva ammesso come probabile che prima dell’acido nitrico si formasse acido nitroso: il secondo provò che il sesquiossido di ferro nitrifica l’ammoniaca. Le esperienze del Sestini confermarono che l’ossido ferrico agisce cataliticamente. Selmi si interessò sempre anche alle grandi questioni di fisiologia vegetale; egli già dal 1851 discuteva sui modi coi quali l’azoto può essere assorbito dalle piante, e vide con grande simpatia le prime ricerche del Ville fatte nel 1851, le quali di- mostravano essere l'azoto dell’aria assorbito dalle piante, servire alla loro nutrizione e neppure è cereali eccepire a questa regola. i E, già nelle sue note alla traduzione del Corso di chimica del Regnault, Torino, 1852, t. IV, p. 636, riassume e loda le esperienze di Giorgio Ville, che furono tanto combattute dal Boussingault e poi finalmente confermate dal Berthelot molt’anni dopo. Ora sappiamo dalle classiche ricerche di Heillriegel che i microbi hanno la massima importanza nell’assorbimento dell’azoto atmosferico. Quella lunga annotazione del Selmi relativa alle prime esperienze del Ville è molto bella. Egli più volte pensò a questa questione, e finalmente nel 1871, discorrendo con l’amico suo il professore Ercolani intorno all’azione fertilizzante dei lupini am- maccati e sparsi nel terreno o nelle risaie, gli nacque il pensiero, com’egli scrive, che ciò potesse succedere dal germogliarvi che fanno le muffe in abbondanza. Egli allora incominciò ad indagare, eccitato in ciò anche dall'amico Ercolani, se lo sviluppo delle muffe fosse correlativo o no alla fissazione dell’azoto atmosferico. E così fu con- dotto a dimostrare che realmente le muffe hanno potere riduttore e possono fissare l’azoto atmosferico. i Queste esperienze si intrecciano con il potere riduttore delle muffe e sono esposte in una nota: Osservazioni sullo sviluppo di idrogeno nascente dalle muffe, loro azione sul solfo, sui solfuri, sull’arsenico e sui nitrati; conseguenze che se ne possono dedurre per ispiegare l’azione fertilizzante delle medesime, ecc., ecc. (Bologna, 1874). FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA MEMORIA DEL SOCIO ICILIO GUARESCHI Approvata nell'adunanza del 5 Febbraio 1911. PARTE SECONDA ADE Ricerche di chimica biologica. Ricerche sul latte. — Coagulazione del sangue. — Potere idrogenante del latte, del sangue, del fermento di birra e dell’albumina sullo solfo. — Riduttasi. — Azione riduttrice delle muffe dei funghi e di altri organismi inferiori; Riduzione dello solfo, dell’arsenico e suoi composti, e dei nitrati. — Ricerca biologica dell’arsenico. Importanti ricerche del Selmi interessano assai la biologia e la medicina. Fra le prime ricordiamo le numerose sue ricerche sul latte, sul potere riduttore delle muffe e dei funghi, fra le seconde la scoperta delle ptomaine e le ricerche sulle patoamine e l’autointossicazione. Egli vedeva ed intravvedeva le correlazioni fra i diversi fenomeni che studiava. La sua mente non si fermava mai al solo fatto dell’osservazione o della esperimen- tazione materiale, ma cercava di scoprire il nesso fra fenomeni apparentemente diversi. Geniale veramente è la sua osservazione sul potere riducente delle muffe e di altri organismi inferiori. Argomento che si connette colle fermentazioni e colla suc- cessiva scoperta delle ptomaine. Ricerche sul latte. — Numerose ed importanti sono le ricerche di Selmi sul latte. Non si potrà mai trattare con coscienza della composizione e delle proprietà del latte senza ricordare il nostro chimico. Ricerche sulla coagulazione del latte col presame. — Il Selmi ha dimostrato con esperienze esattissime che, contrariamente a quanto ammetteva Liebig, il latte può coagulare col presame anche in mezzo alcalino. “ Liebig, in base alle ricerche di Scherer e di Rochleder e adottando in gran parte il modo di vedere di Haidlen, spiegava la coagulazione del latte col presame 75 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 199 ammettendo che la materia azotata, allo stato di metamorfosi, induce il lattosio a trasformarsi in acido lattico, e nel tempo stesso questo si combina coll’alcali che tiene sciolta la caseina, e questa si coagula. Se ciò fosse vero, non si potrebbe avere la coagulazione della caseina mediante il caglio nè nel latte, che dopo la coagulazione lascierebbe uno siero alcalino, nè nel latte precipitato dagli acidi acetico e ossalico e ridisciolto da un eccesso degli stessi acidi. “ Ma Selmi dimostrò che ciò non può essere, e che il latte può coagulare col caglio anche in mezzo alcalino e non solamente il siero restava alcalino, ma anche la caseina lavata a più riprese, mostrava sempre una reazione alcalina. Se il latte è reso molto alcalino, la coagulazione col presame ha luogo dopo un tempo più lungo. “ Inoltre il presame fa coagulare la caseina anche in soluzione acida, senza pro- duzione di acido lattico e senza fornire dell’acido cloridrico a mezzo dei cloruri che contiene. Selmi precipita il latte con gli acidi acetico e ossalico, e fa ridisciogliere il precipitato in un eccesso degli stessi acidi. I liquidi ottenuti furono divisi in quattro porzioni: nel primo lasciò il latte acido senza aggiungervi nulla, nel secondo vi ag- giunse dell’acido lattico, nel terzo dell’acido cloridrico e nel quarto del caglio o pre- same. Pose i quattro vasi nelle stesse condizioni di temperatura, ecc.; solamente il quarto, dopo poco tempo, diede un coagulo di caseina e uno siero limpido, mentre gli altri saggi rimasero inalterati e il latte non coagulò. Il Selmi quindi ne concluse che il presame dà luogo alla coagulazione del latte non perchè produca dell’acido lattico, ma per la condizione di metamorfosi in cui si trova come fermento e nella quale le sue molecole si muovono con vibrazioni tali che la caseina urtata da questo movimento si riavvicina e passa dallo stato di gonfiamento a quello di agglomera- zione o di coagulo ,. Questo è il sunto del lavoro del Selmi fatto da Em. Kopp nella Rev. Scient. et Indust. del Quesneville, 1846, t. X, p. 273. Questa memoria di Selmi fu abbreviata da lui stesso e pubblicata nel Journ. de Pharm. et de Chim., 1846, t. IX, p. 265-267. Egli ha riassunto bene il suo lavoro anche in una nota nel vol. IV, p. 573, del Regnault: Corso di chimica, Torino, 1851. Malaguti ha voluto nelle sue lezioni di chimica accennare onorevolmente alle vecchie ricerche di Selmi, e scrive: C'est M. Selmi de Turin qu’ a montré, le premier, que le lait, ayant une réaction alcaline, peut se cailler sans étre neutralisé. D’ailleurs, en suivant les indications du chimiste italien, il est aisé de se procurer de la présure sans réaction acide (voir le Journal de Pharmacie et de Chimie, t. IX, p. 265, année 1846). (F. MaracutI, Lecons éém. de chimie, 2"° édit., 1858-60, II, p. 663). Le ricerche di Selmi furono confermate dall’Heintz e da altri. E a questo pro- posito G. Musso, competentissimo in questioni che riguardano la chimica del latte, scriveva nel 1879 (Ricerche di chimica fisiol. e tecnol., eseguite nella R. staz. sperim. di caseificio in Lodi. Lodi, 1879, p. 94): Le ricerche pubblicate dal professore Francesco Selmi nel 1846 ebbero non solo il pregio di demolire la teoria di Liebig che attribuiva la coagulazione della caseina all’acido lattico neoformato nel latte a spese della lattina e di far trionfare la tesi che il fermento presamico 200 ICILIO GUARESCHI 76 coagula la caseina del latte per effetto di un’azione diretta e specifica sua propria, cioè senza intervento di acido veruno; ma quello eziandio, forse maggiore del primo, di attirar l’atten- zione dei chimici sopra un punto della chimica delle fermentazioni rimasto fin allora negletto (1). Le ricerche sue sul latte furono in seguito esposte in una lunga memoria inse- rita nel 1850 negli “ Annali di Majocchi , (I, p. 33 a 48 e II, p. 273 a 290), che comprende: Parte PRIMA. — I. Esperienze dalle quali apparisce che un latte alcalino può essere rappreso dal presame, senza che perda l’alcalinità. Il. Esperienze dalle quali apparisce la coagulazione del latte ridisciolto da un acido. III. Esperienze dirette a conoscere quale sia lazione del presame sullo zucchero di latte 0 lattina, per mezzo della caseina e dell’albumina. IV. Esperienze d'onde è manifesta l’azione modificatrice del sal comune sulle so- stanze del latte. V. Esperienze che provano la coagulabilità del latte, per mezzo del presame, a bassa temperatura. VI. Esperienze dalle quali risulta come agiscano diversi sali disciolti nel latte quando si voglia coagularlo col mezzo del presame. VII. Esperienze dirette ad indagare come gli acidi diversi favoriscano la coagu- lazione del latte. A questo proposito ne trasse la conclusione seguente: Dunque fra gli acidi sperimentati è più potente quello che si ingenera naturalmente nel latte; gli seguita l’altro che gli assomiglia ‘eziandio per qualità chimiche, cioè l’acetico; e suc- cedono ultimi gli acidi minerali forti ed alcuni acidi organici più robusti del lattico e dell’a- cetico. Dunque gli acidi sollecitano la coagulazione del latte operata dal presame, non tanto in ragione del loro potere accrescente, quanto in conseguenza di un’attitudine speciale che è propria della loro natura. PartE seconpa. — I. Esperienze dalle quali apparisce che gli acidi da soli sono dwersi per la forza di coagulare il latte. II. Esperienze che furono instituite affine di conoscere per qual ragione le dif- ferenze di forza rappigliatrice diminuissero negli acidi coll’aumentare della maturanza. (1) Per dare un'idea come certi autori, pur scrivendo libri interessanti sul latte, si dimostrino poco scrupolosi nell’attribuire il merito relativo ai varii scopritori, basterà che io ricordi il recente libro: Chemie und Physiologie der Milch, del Dr. W. Grimmer (Berlin, 1910). L’autore cita e ricorda i nomi di centinaia di chimici e non chimici, alcuni dei quali non hanno proprio fatto nulla che valga la pena di ricordare, mentre tralascia affatto il nome di Selmi. L'Autore ha poi letto tutte le memorie citate, almeno le principali? Ne dubito, perchè avrebbe visto che alcuni degli autori citati, quali il Musso, 1’ Heintz, il Soxhlet, molto onestamente ricordano le ricerche di Selmi. Possibile che l’autore abbia compilato il suo libro senza almeno leggere gli indici dei JaRresberichte f. Chem., del “ Journ. de Pharm. et de Chimie ,, ecc., ece., in cui sono pubblicati i lavori di Selmi? L’Oppenheimer nella sua estesa opera: Die Fermente und ihre Wirkungen (3* ed., 1910) ricorda una sola volta Selmi a proposito del Labferment e dice come egli abbia, contrariamente alla teoria di Liebig, dimostrato che il latte nel caglio coagula, anche quando la reazione si mantiene alcalina; ma poi soggiunge che la scoperta scientifica dell’azione del presame si debba all’Heintz (© Journ. pr. Chem. ,, (2), VI, p. 374), il quale non ha fatto, sotto questo riguardo, che confermare le ricerche di Selmi, che del resto egli non ricorda nemmeno. 1 = FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 201 III Esperienze eseguite con alcuni sali alcalini e collo zucchero, che furono me- scolati col latte bollente. PARTE TERZA. — Esperienze dirette ad investigare se i sali neutri di base alcalina fluidifichino la caseina, come il nitro fluidifica la fibrina. PARTE QUARTA. — L'Autore ne conclude che la caseina, a somiglianza delle sostanze pseudosciolte, si separa dal veicolo senza che il volume complessivo del coagulo e del veicolo differiscano dal volume originario del liquido che non fu coagulato, e senza che mandi fuori parte del suo calor latente. PARTE QUINTA. — Studia l’azione del latte su diverse sostanze, sui vasi, ecc., e ne conclude: E adunque evidente che la materia di parecchi vasi metallici ed il solfo dei vasi di solfo sono corrosi e disciolti dal latte che vi sia tenuto dentro a maturare ed a coagularsi sponta- neamente se la sostanza metallica e la solfurea si uniscono e disciolgono coi principii compo- nenti del latte, di cui od affrettano o ritardano la coagulazione a seconda della natura dei composti ingenerati e dei mutamenti che apportano nella caseina. In altra parte di un lavoro più esteso e non pubblicato, discorre a lungo della caseina. Col titolo: La caseina è un acido? e: La caseina forma mei corpi diversi vere chimiche combinazioni? pubblicò delle osservazioni interessanti nelle Annotazioni al Regnault, vol. IV, p. 670-671. Sullo stato della caseina nel latte. — Il Selmi si occupò sino dal 1850 della natura della caseina, delle sue proprietà e dello stato in cui trovasi nel latte, in una memoria che fu riassunta brevemente negli “ Annali del Majocchi ,, 1850 e dal Selmi stesso nelle sue Annotazioni al Regnault, vol. IV, p. 669. Egli trattò di questo argomento e specialmente discusse la questione se la caseina trovasi sciolta od espansa nel latte o vi esista nei due stati, in una interessante memoria premiata nel 1857 dal È. Istituto Lombardo. “ Egli nota, scrive il Musso (loc. cit., p. 25) riassumendo questa memoria, che di tre porzioni dello stesso latte, poste a filtrare, di cui una sia in istato naturale e le altre due inacidite, in grado diverso, coll’acido acetico, la prima dà un siero più limpido, che contiene minor copia di caseina e che coagula a temperatura più elevata dei saggi 2 e 3; e che la caseina passata al filtro è più cospicua nel 3° saggio che non nel secondo, il quale intorbidasi eziandio a temperatura (23°) più elevata del 3° (20°); la filtrazione è più rapida nel latte inacidito che nel naturale. In campioni di latte trattati con 1-3 goccie di presame, riconobbe tre punti di diversità dal latte natu- rale: 1° una maggiore limpidità del liquido, che filtrò dal latte con presame; 2° una facilità minore a passare attraverso il filtro; 3° un minor contenuto di caseina. Dal siero di latte coagulato a freddo dal presame, Selmi ottenne intorbidamento a 30° e precipitazione di fiocchi caseosi coll’acido acetico. Filtrando del latte fresco attra- verso più doppi di carta, e rigettando sul filtro le prime porzioni più o meno torbide e poi inalbate, si ottiene, da ultimo, un siero, che più non coagula, secondo Selmi, col presame, sebbene contenga caseina, rivelabile dall’acido acetico (Musso, loc. CILMp=625) fa, Selmi, interpretando i risultati delle proprie esperienze, conclude (cap. II, p. 85): Nel latte la caseina si contiene manifestamente sotto due forme diverse: in quella di solu- zione e nell’altra di sostanza espansa o gonfiata; nella prima passa col siero per la carta e per Serie II, Tox. LXII. ai 202 ICILIO GUARESCHI 78 l’albume d'uovo cotto; nella seconda rimane sul filtro, parte fluidificata nel liquido e parte deposta sulla carta coll’aspetto di gelatina. Quando il latte filtra per carta, il grado più o meno notevole di inalbamento con cui si mostra il filtrato corrisponde ad una proporzione più o meno grande di caseina gelatinosa in soluzione. Ed infine dice: Il presame esercita l’azione sua sulla caseina gelatinosa od espansa, e la coagulazione della disciolta devesi attribuire unicamente agli acidi a temperatura conveniente. L'esistenza della caseina in due stati fu negata da alcuni autori, dal Musso stesso prima, da Hammarsten e da altri, ma che vi esista in istato di espansione o di sospensione è ammesso oggi da Musso e da altri chimici e specialmente dal Duclaux, che anch'egli come il Selmi ammette la caseina nel latte in più stati. È merito dunque indiscutibile del Selmi l’aver trovato questi due stati diversi della caseina nel latte. La caseina insolubile, designata da Selmi col nome di galattina, si distingue da quella ottenuta per coagulazione spontanea (Gorup-Brsanez, Traîté de chim. physiol., I, p. 589). Nella memoria: Del latte, del presame e della coagulazione che il presame opera nel latte, premiata dall'Istituto Lombardo nel 1857 e pubblicata nel 1860, il Selmi raccolse le sue principali ricerche sul latte fatte prima del 1860. Presidente della commissione giudicatrice era L. Chiozza. Il Gautier nelle sue Lecons de chimie biologique, 2* ediz., 1897, p. 696, ricorda le esperienze di F. W. Zahn, di Duclaux e le sue proprie, le quali dimostrerebbero nel latte l’esistenza della caseina in istato di rigonfiamento e come di espansione. Ma si noterà che le ricerche di Zahn sono del 1869 (Mit. è. d. Eiweiss. Kbrper d. Milchin “ Pflùger's Arch. ,, 1869, II, 598); quelle del Duclaux (1887) e del Gautier ancor più. recenti, mentre quelle del Selmi risalgono al 1846 e 1857! Il Duclaux poi (Le Laît. Etudes chimiques et microbiologiques, Paris, 1887) discorre a lungo sullo stato della caseina nel latte, ma mai ricorda il nome di Selmi, eppure fa delle esperienze che sono proprio identiche a quelle del nostro chimico. Il sig. Lindet (1) nel suo libro sul latte discorre a lungo della coagulazione, dei dei lavori più o meno importanti di Duclaux; ma tace affatto il nome di Selmi. Altre ricerche del Selmi sul latte riguardano il modo di comportarsi del siero latteo per l’azione degli acidi e a diverse temperature. Sullo stato della caseina nel latte e sulle sostanze proteiche del latte, il Selmi tornò ad occuparsi nel 1874, e pubblicò una breve nota nella “ Gazz. chim. ,, 1874, p. 482. Dopo alcuni anni continuò i suoi studi sul latte (1876), ed arricchì questo argomento di nuove ed interessanti osservazioni, specialmente sulla reazione aufotera o bicromatica. Alcune ricerche inedite sul latte si trovano nel Suppl. e Compl. all’Enciclopedia di Chimica, vol. III, p. 10-18. (1) Le lait, pagg. 250-256. | Jo) (0) FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 20 Sul latte di cagna. — Ecco come riassume egli stesso le sue ricerche sul atte di cagna (Trad. del Regnault, Trattato di chimica, 1852, t. IV, p. 669): Dumas suppose che il latte non contenesse più lattina o zucchero di latte qualora gli animali fossero alimentati con sola carne, perchè attribuiva al solo amido del nutrimento vegetale, la facoltà di produrre detta lattina per metamorfosi. Beusch dimostrò, che una cagna nutrita di carne magra, fornisce costantemente latte con zucchero, ed osservò eziandio che talvolta si trova glucosa in cambio di lattina, perchè i fosfati alcalini per azione lenta trasformano la seconda nella prima. ‘To instituii, contemporaneamente a Beusch, varie indagini sul latte di cagna, ed osservai, che cresce in esso la proporzione dello zucchero e la sua facilità ad inacidire e coagularsi spon- taneamente più presto, quanto più si toglie dal vitto puramente di carne e si passa a quello di pane; che il latte di cagna nutrita di carne, diventa uguale a quello di cagna che si ciba di pane, se gli si aggiunge una tenue cosa di lattina; che finalmente nella fermentazione del latte di cagna si ha un coagulo duro, copioso, pieno di vacui interni, per gas che si sviluppa, il quale, raccolto che fu, mostrò di essere gas acido carbonico. Coagulazione del sangue. — Il Selmi, fino dal 1846, tentò di spiegare come avvenga la coagulazione del sangue, e diede una interpretazione analoga a quella am- messa poi dal Denis, dallo Schmidt e da altri. Egli ammise che la coagulazione del sangue avvenisse per l’azione di un fermento, cioè di una sostanza vibrante che co- munica il proprio movimento alla fibrina disciolta. Egli raffrontò la coagulazione del sangue alla coagulazione del latte per effetto del caglio o presame (Alcune cose di chimica fisiologica, “ Ann. Se. Nat. ,, Bologna, febbr. 1846). L’agglutinazione e la coagulazione del sangue sono oggi considerate come feno- meni fisico-chimici (Arrhenius). Potere idrogenante del latte, del sangue, del lievito di birra e dell’ albu- mina sullo solfo — Riduttasi. — Il Selmi da lungo tempo ha fatto una lunga e variata serie di osservazioni e di esperimenti sul potere riduttore di varie materie organiche e di molti organismi inferiori. È questo un argomento del più alto inte- resse scientifico, che è in relazione con numerosi fenomeni naturali. Queste ricerche hanno avuto in questi ultimi anni una grande estensione. Selmi già nel 1850 e prima (“ Ann. di Majocchi ,, 1850, II) fece delle esperienze sulla coagulazione del latte tenuto entro vasi di diversa natura: di rame, di ferro, di legno, di vetro ed anche di solfo. Ripetendo le prove egli si accorse che il solfo costantemente affrettava la coagulazione, mentre l’antimonio la ritardava in modo notevole. Alla fine di questa memoria il Selmi accenna ad alcune esperienze fatte collo solfo e varie sostanze animali, e a pag. 289 scrive: Azione del solfo colle sostanze azotate. Gli effetti di inacidimento prodotti dal solfo nel latte e l’odore epatico che questo liquido ne assunse, mi condussero ad investigare se mai si ingenerasse l’acido solfidrico tra i principii di esso ed il solfo, o se il fenomeno fosse ristretto al latte ovvero appartenesse ad altre sostanze di origine animale. Trovai che mescolando latte con fiori di solfo, ovvero serbando il latte entro vasi di solfo, ovvero immergendo bastoni di solfo nel latte, a capo di alcune ore comincia a svilupparsi l'acido solfidrico, il quale cresce in tal copia, da annerire in breve la carta coll’a- cetato di piombo, che si tenga sospesa a poca distanza dalla superficie del liquido. 204 ICILIO GUARESCHI 80 Le sostanze proteiche, il muco ed in generale le materie azotate d’indole fermentativa pro- ducono col solfo il medesimo effetto: le sostanze gommose, zuccherine, amidacee non reagiscono col solfo. Egli afferma che sino dal 1846 trovò e pubblicò che il latte, il sangue, le ma- ‘ terie putrescibili in genere, digerite a temperatura ordinaria col solfo, sprigionano in breve un grande afflusso di acido solfidrico, mentre da sole poste in confronto non lo fanno. Nel tempo stesso osservò che le muffe in genere operano in modo uguale, talune rimanendone uccise, e tal’altre crescendo anzi più rigogliose, in ispecie una muffa bianchissima a ciuffi di lunghi steli; ma tali osservazioni non furono mai pubblicate pel sopravvenire degli avvenimenti del 1859. Il Selmi nel 1857 tornò sulla questione dello sviluppo di acido solfidrico dalle sostanze proteiniche collo solfo. In una memoria: Delle ragioni per le quali il solfo distrugge l’oidio, e talvolta commina l'odore d’acido solfidrico al vino delle uve quarite colla solforazione (“ Il Tecnico ,, 1857, vol. I, p. 209-214 e 249-258) si era posto il problema: E perchè mai il solfo distrugge l’oidio e può anche non distruggerlo? A pag. 213 ricorda le sue vecchie esperienze del 1850, e a pag. 213 scrive: L'osservazione alla quale alludo fu la seguente: se tuffansi pezzi di solfo in liquido fer- mentabile, o vi si stempera polvere del corpo medesimo, la fermentazione succede, e per quanto pare, più allegra del consueto, il liquido diventa acido oltre l’ordinario se volga a reazione acida, e sprigiona in questo mentre un effluvio copiosissimo d’acido solfidrico. Io mi sono chiesto: accadrebbe per avventura che il solfo sparso sulle mucedinee rimanesse corroso e tras- formato in acido solfidrico, come negli esempi diversi notati da me in quelle mie espe- rienze ?, ecc. ecc. E a pag. 253: La formazione del mercaptano (durante la vinificazione) o di altro composto analogo, non è tuttavolta in proporzione collo sviluppo strabocchevole di acido solfidrico. Hcco a questo proposito quanto scriveva il Selmi nel 1867, nel vol. I, art. Acque stagnanti, pag. 391, della Enciclopedia di chimica: L’alcalescenza, da quanto si sa, favoreggia la putrefazione delle materie organiche, in ispecie quelle di natura animale, cooperando a che se ne sviluppi ammoniaca e probabilmente ammine volatili, le quali possono diffondersi nell’aria ambiente col gas acido solfidrico... Ma oltre l’alcalescenza, ad agevolare la putrefazione deve senza fallo concorrere il solfo che, come dicemmo, si va deponendo dallo stesso gas acido solfidrico per l’azione dell’ossigeno: quel solfo non è un corpo inerte, come forse si crede, allorchè si trova in contatto di materie organiche azotate, e particolarmente se facili a scomporsi. Francesco Selmi ebbe a riconoscere che il solfo polveroso, e puranco in pezzi, immerso in un liquido animale, come sarebbe latte, sangue, albume, bile, reagisce in maniera da affrettarne le alterazioni: per esempio, accelera la coagulazione del latte; contribuisce alla putrefazione delle altre materie nominate, mentre ad un tempo sprigiona gas acido solfidrico in maniera manife- stissima. Così trovò che il solfo sparso sulle crittogame, quali le muffe che nascono sulla colla di farina, o le fa cessare dalla vegetazione, od in certi casi le rende più rigogliose, ma con sviluppo costante di gas acido solfidrico; come pure ebbe a riconoscere che il medesimo, nel (0.0) pezi FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 205 mosto di uva che fermenta, vi reagisce con formazione del detto gas e di prodotti solfoaleoolici, aventi odore agliaceo. Vide ancora che coll’albume e la carne muscolare dà immediatamente la reazione dell’acido solfidrico (1). Dumas nel 1874 confermò il fatto già annunziato molti anni prima dal Selmi, che cioè lo solfo in contatto del fermento di birra si trasforma in acido solfidrico. E a questo proposito, molti anni dopo Dumas, anche Sostegni e Sannino (1890) stu- diarono questa reazione del fermento collo solfo (2). Queste osservazioni lo condussero anche a studiare la riduzione dello solfo ad acido solfidrico in molte altre condizioni analoghe. E nello stesso art. acque stagnanti, a pag. 391 prosegue: Selmi vide che il solfo sparso sull’oidio, tanto allorchè investe l’uva, quanto se diffuso sopra altre piante, come le foglie della zucca, agisce con rapidità sì mirabile, da mostrarsi lo sviluppo dell’idrogeno solforato a capo di dieci minuti, quantunque non operasse che con un solo grappolo della prima e cinque o sei foglie dell’altra, introdotti in recipienti adatti, dacchè erano stati aspersi del solfo. Fece pure alcune esperienze comparative sopra un equiseto crescente nei piccoli stagni che si formano nel letto del Po, verso le sponde, nei tempi estivi. E poichè non deve parere inutile che qui si notino ad utile dell’argomento, le riferiremo in compendio. Presa pianta fresca, ne mise porzioni presso che uguali in boccie di vetro, e poscia versò acqua in una, e nelle altre, separatamente, soluzioni di solfato di magnesia, di solfato di soda, di cloruro di sodio e di carbonato di soda, contenenti 1 per 100 del sale; replicando l’ugual cosa, in altrettante boccie, con pianta, acqua e le dette soluzioni, in modo da avere l’esperienza in doppio. La pianta entro ciascuna boccia non occupava che i due terzi dell’altezza: il liquido era versato in modo che salisse fino a inzuppare tutta la pianta, ma non a coprirla affatto. Avute così due serie di boccie, preparate ugualmente, lasciò la prima serie senz'altro; e nella seconda introdusse solfo in polvere, agitando in maniera che si distribuisse per la massa con sufficiente uniformità. Ed ecco quello che osservò, in *modo principale. Fu introdotta una car- tolina intrisa con acetato di piombo in ogni boccia di ciascuna serie. Nelle boccie col solfo, dopo dieci ore di digestione a temperatura ordinaria, comparvero segni d’imbrunimento sulla carta piombifera; dopo venti ore l’imbrunimento era progredito in modo da essere quasi nero. Di giorno in giorno lo sviluppo dell'idrogeno solforato andò crescendo, sicchè agitando la bot- tiglia e smuovendo la pianta n’usciva un puzzo ben forte. Ma non era solo idrogeno solforato che sì sentisse; unitamente vi era un altro odore sì nauseabondo da non potersi tollerare a lungo senza che non si provasse imbalordimento al capo. L'esperienza fu ripetuta tre volte, e sempre con risultati conformi; tranne che non si ebbero effetti costanti, per la copia dello sviluppo di acido solfidrico, comparativamente da un sale all’altro: in un caso il solfato di magnesia sembrò attivare la reazione tra la pianta e il solfo, e in altro rallentarla, senza tuttavia che l’impedisse. Ma nelle tre esperienze si vide sempre costante l’attività della pianta sola a (1) Ho ripetuto anche in questi giorni le antiche esperienze del Selmi fatte sino dal 1846: mescolai dei fiori di solfo, lavati, con lievito di birra, con bianco d’uovo, con sangue, freschissimi ed ho osservato che dopo pochissimi minuti si sviluppava dell’acido solfidrico. Col sangue la rea- zione è quasi istantanea. Col latte più lenta. Specialmente col sangue e col lievito di birra sì pos- sono fare delle eleganti e rapide esperienze di lezione. (2) Erroneamente Sostegni e Sannino attribuiscono la scoperta della reazione al Dumas; non conoscevano tutti i primi lavori di Selmi. 206 ICILIO GUARESCHI 82 reagire col solfo, tanto da doverne dedurre che i sali, se non la ritardano nella reazione, certo non la fanno sollecitare. Un’altra osservazione è degna di essere notata, che in ciascuna boccia dove era il solfo e dove per conseguenza si sviluppò l’idrogeno solforato apparvero crittogame alla superficie, e in quella con pianta, acqua e solfo si formò una muffa bianca speciale (notata dal Selmi nelle esperienze fra il solfo e le muffe della colla d’amido), per essere vigoreggiante sotto l’azione del solfo; e che dopo apparsa la crittogama l’odore nauseoso sì rese peggiore, e assai più intenso che nelle boccie senza solfo. La serie delle boccie senza solfo dopo uno spazio di tempo, che fu dai cinque ai sette giorni, diede segni d’imbrunimento sulla carta con piombo. La boccia col solfato di soda fu la prima, e la carta ne venne pienamente imbrunita; quella col solfato di magnesia imbrunì anche la carta, ma un po’ più tardi e un po’ meno della precedente; le due col carbonato di soda e coll’acqua semplice diedero imbrunimento meno intenso che le due coi solfati; l’ultima col cloruro di sodio fu pure l’ultima a dar segni d’idrogeno solforato, e piuttosto leggermente. In tutte apparvero crittogame, ma assai più tardi che nelle boccie col solfo, e si sviluppò un odore sgradevole, che dopo quindici dì parve quasi di sterco; la boccia col solfato di soda aveva una pellicola gialla, che era di solfo ridotto. Partendo da questi fatti, si può congetturare con qualche fondamento che il solfo il quale si fa libero nelle acque stagnanti, quando vi avviene riduzione di solfati in solfuri e sviluppo di gas acido solfidrico, non debba rimarere inerte quando si mescola colle materie vegetali ed animali che si decompongono nel fondo dei paduli, e che ivi in parte torni a trasformarsi in acido solfidrico, in parte concorra a modificare il modo di scomporsi di dette materie, inne- standosi in taluno dei prodotti che vi si vanno ingenerando, contribuendo a renderli di tale costituzione, che, assorbiti dal corpo umano, v’'inducano effetti più o meno perniciosi. E che una tenue quantità di un principio organico od inorganico volatile possa tornare nocivo in qualche modo all’uomo, sebbene respirato in proporzioni tenuissime, si può argomentare da quanto si conosce della mortale efficacia di certi gas, come il gas idrogeno arsenicato e il gas acido cianidrico, e ben anche dalla potente impressione con che agiscono sui nervi certi odori, come quello di muschio, di giglio, di gelsomino e di altri fiori, i quali, se respirati un po’ a lungo, sebbene in dosi infinitesime e senza dubbio imponderabili, nondimeno inducono fiere emieranie, vertigini e perfino un assopimento letale, che senza i soccorsi dell’arte potrebbe finire troppo funestamente. Nessuna meraviglia adunque se alcuni principii gasosi o volatili sorgenti dai corpi organizzati in putrefazione, e particolarmente in date condizioni, possano agire con tale forza, da indurre nei viventi malattie gravi ed eziandio mortali. Sarebbe perciò di somma importanza che si facesse uno studio in grande e compiuto dei prodotti volatili, che si formano tra il solfo e le materie organiche, animali e vegetali in istato di scomposizione, poichè si potrebbero forse trovarne di tali, dalla cui composizione o natura sì avesse a trovare argomento per dedurne quali probabilmente siano la natura o la compo- sizione dei principii miasmatici esalati dai paduli e dai siti maremmani. Sulla riduzione dello solfo il Selmi scriveva ancora nel 1876 (Enciclop. chim., X, pag. 182): Lo solfo mescolato colle sostanze animali dopo qualche ora reagisce svolgendo acido sol- fidrico. Stemperato con liquidi in fermentazione, fa lo stesso; sparso sull’oidio, sui microfiti e sui funghi in genere, sulle parti verdi delle piante, svolge pure gas solfidrico (Selmi, Pollacci, Ercolani). Insiste poi ancora nel 1878 su questi curiosi fenomeni, nel suo pregevole libro: Del vino, conservazione, ecc., Torino, 1878, a pag. 300-301, e ne discorre a lungo. (0.0) (1) FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA i 207 A pag. 301 ricorda come il professore Sestini nel 1861 facesse pure delle espe- rienze consimili, le quali vennero in conferma delle sue precedenti. E discorre ancora a lungo della così detta fermentazione solfidrica nell'articolo Fermenti e Fermentazione nel Complem. e Suppl. all’Enciclop. chim., 1880, vol. II, p. 752, ricordando le sue vecchie ricerche. Ho creduto mio dovere riprodurre questi numerosi brani per far vedere come il Selmi sia tornato più volte su questi fenomeni curiosi di riduzione; i quali furono poi studiati da diversi cultori della scienza, ma nessuno ha ricordato le anteriori ricerche del nostro chimico. Dopo Selmi, credo che il primo ad attirare l’attenzione su questi fenomeni sia stato il Rey-Pailhade (“ C. R. ,, 1888, t. 106, p. 1683 e t. 107, p. 43 e Recherches expérimentales sur le philothion, ece., Paris, Masson, 1891), il quale osservò che nei tessuti animali vi è una sostanza che ha potere idrogenante e la denominò philothion. A questa sostanza, molto imperfettamente conosciuta ancora, si diede anche il nome di idrogenasi o di riduttasi. Rey-Pailhade chiama questo idrogeno riduttore idrogeno filotionico. Egli poi di- stinse un’ albumina con idrogeno filotionico e una senza idrogeno filotionico (Bwll., 1906, XXXV, p. 1030) (1). Hefter (“ Beitrige z. Chem. Physiol. u. Path. ,, 1904, V, p. 213, e “ Bull. Soc. Chim. ,, 1904, t. 32, p. 137) ha trattato pure la questione della produzione di H?S per l’azione dello solfo sulle materie albuminoidi; dà anche una estesa bibliografia, ma nulla dice di Selmi; dà anch'egli il merito della prima osservazione a Rey Pailhade, il che non è giusto. È dunque da me posto fuori di ogni dubbio che le prime osservazioni relative al potere riduttore delle sostanze proteiniche, del latte, del sangue, ecc., sullo solfo a temperatura ordinaria, si debbono a Fr. Selmi. Il Selmi allora non poteva dire che ciò fosse dovuto ad un fermento speciale, ma dimostrò però che la riduzione aveva luogo anche in presenza delle cellule del lievito di birra e di altri molti micro-orga- nismi (2). Che poi il potere riduttore nei casi precedentemente citati sia dovuto ad un fermento piuttostochè alla sola materia albuminosa, non è forse ancora ben dimo- strato; perchè, secondo l’Heffter (loc. cit.), l’albumina precipitata dal fenolo non ha perduto il potere di sviluppare dell’acido solfidrico in presenza dello solfo. Secondo Hildebrandt (25%2., 1908, IV, p. 1589), anche l’albumina precipitata col tannino o coagulata col colore, conserva il potere riduttore; invece una traccia di un ossidante quale il permanganato glielo fa perdere (3). (1) Lo solfo, nel caso della reazione dell’albumina e altre sostanze di origine animale, osservata da Selmi, potrebbe agire come catalizzatore. Ora si sa ad esempio che la decomposizione dell’idro- solfito di sodio per la presenza degli acidi diluiti è favorita, è accresciuta dalla presenza di un liquido che tiene in sospensione dello solfo finamente diviso (FoussereAU, “ A. Ch. , (6), t. XV, pag. 533). (2) Ora l'agente riduttore del latte si chiama /atteriduttasi; il filotion fu trovato nelle cellule del fermento di birra e in quasi tutte le cellule animali, diffusissima è la niîtrasi o agente riduttore del nitro, ecc.; ma nessuno di tutti coloro che hanno fatto queste mumerose ricerche (Vedi in Asperzarpen, Biochem. Handlexikon, V Bd., p. 650) ha ricordato il nome di Selmi. Ma questi ed altri autori banno l’attenuante che queste ricerche del Selmi furono pubblicate in giornali ed in opere poco conosciute all’estero. (3) In una questione come questa, che può avere ed ha grande importanza, spiace vedere come 208 ICILIO GUARESCHI s4 Queste vecchie ricerche fatte dal Selmi negli anni 1846, 1850 e poi nel 1857, lo condussero nel 1874 alla scoperta di un fenomeno più importante e più generale: il potere riduttore delle muffe. Azione riduttrice delle muffe, dei funghi e di altri organismi inferiori. — Itiduzione dello solfo, dell’arsenico e dei nitrati. — Ricerca biologica dell’ arsenico. — Selmi nel 1867, volendo di nuovo studiare l’azione del solfo sull’oidio, nè po- tendo farlo per la stagione troppo precoce, pensò di esaminare quale fosse detta azione sulle muffe comuni. Preparò una colla di farina e quando comparve la muffa la spolverizzò di solfo. In breve tempo riconobbe che si formava dell’acido solfidrico. Egli accennò a queste esperienze nel vol. I (1867) dell’Enciclop. Chim., nell’art. Acque stagnanti, pag. 391. Nella state successiva poi fece esperienze dirette sull’oidio, e anche qui osservò la formazione di acido solfidrico. Nuove ricerche replicò nel 1871 e nel 1874, £ dalle quali tutte, scrive egli, mi venne conferma che le muffe, comunque l’origine ed il terreno su cui vegetano, posseggono il potere di sviluppare idrogeno solforato quando vengono in contatto col solfo ,. Selmi nel 1874 pubblicò una breve ma importantissima nota: Osservazioni sullo sviluppo d’idrogeno nascente dalle muffe, loro azione sul solfo, sui solfuri, sull’arsenico e sui nitrati; conseguenze che se ne possono dedurre per ispiegare l’azione fertilizzante delle medesime e lo sviluppo di un composto arsenicale volatile dalle carte colorate con verdi arsenicali; Bologna, Tip. Gamberini e Parmeggiani, 1874, di pp. 22. Questa im- portantissima nota fu da lui ristampata nel 1875 e trovasi anche nell’opuscolo che ha per titolo: Nuovo processo generale per la ricerca delle sostanze venefiche con ap- pendici di argomenti tossicologici od affini. Bologna, Zanichelli, 1875. Egli iniziò queste ricerche per veder se Ze muffe possono fissare direttamente l'azoto atmosferico. Innanzi tutto egli notò che veramente le muffe possono trasformare l'azoto atmosferico in ammoniaca, come era stato osservato da Iodine e da Lekmann e contraddetto dal Boussingault, poi esperimentò sullo solfo e vide che le muffe svi- luppatesi in svariate condizioni possono trasformare lo solfo in acido solfidrico, con- fermando così le sue vecchie ricerche. Ma egli andò molto più in là e volle vedere se il potere riduttore si estendeva anche ad altri elementi quali l’ arsenico, per poter spiegare come avvenga l’avvelenamento arsenicale per tappezzerie colorate in verde con colori arsenicali. A_pag. 13 della nota sovraricordata scrive: i Se dal solfo e dai solfuri ottenni la formazione dell’acido solfidrico, dall’arsenico metallico ed anche dall’acido arsenioso non avrei dovuto conseguire anche quella dell’idrogeno arsenicato? Natomi il sospetto in animo, mi risolsi di chiarirlo col mezzo dell’esperienza. Presi arsenico metallico ridotto in polvere finissima o piuttosto quella parte slucida e nericcia che si forma col tempo sul metalloide, e la sparsi sopra una muffa vigorosa, crescente su terriccio, già smollito da tempo, e composto di fiamma di cavallo e di un poco di farina, datami dal Prof. Ercolani. Collocai il vaso in cui era contenuta sotto campana, dalla cupola anche in Italia chi scrive a lungo su questo argomento, dimentichi affatto il nome del Selmi, mentre poi espone i minimi particolari delle ricerche posteriori di altri. I giovani debbono abi- tuarsi ad essere coscienziosi e attribuire il merito a chi veramente spetta, e non dimenticare il motto antico: unicuique suum. O sò FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 209 DI della quale pendevano striscie di carta bibula purificata, imbevuta di nitrato d’argento; la cam- pana era tubulata, e portava nella gola un turacciolo con due cannelli, uno per l’ingresso dell’aria e l’altro per l’ uscita; questo stava connesso con un aspiratore, onde l’aria veniva introdotta con lento afflusso. La camera fu mantenuta oscura e l’operazione durò per 5 giorni. La carta non si era annerita, ma fattasi unicamente un poco rossigna. Staccatala dalla campana, l’aggomitolai, l’introdussi in campanella e vi sopravversai potassa caustica. Si svolse ammoniaca e con essa un odore speciale che non potei sopportare a lungo. Estrassi la materia dalla cam- panella, la neutralizzai con acido nitrico, la posi in cassula a seccare, dopo avervi aggiunto acido solforico, distrussi la materia organica e versai il liquido solforico rimastomi nell’appa- reechio di Marsh, già incamminato ed in prova da un'ora. Ottenni un anellino metallico ben distinto, di facile trasporto più innanzi, seguitando la corrente di idrogeno, quando fu toccato colla fiamma di una lampada ad alcole. Trattato all’acido nitrico, vi si sciolse; il liquido eva- porato ed esplorato col nitrato d’argento diede un lieve precipitato di colore rosso mattone, come l’arseniato d’argento. Replicata la prova una seconda volta, con muffa somigliante ebbi risultati uguali ai descritti. Su cinque limoni, tutti ammuffiti, sparsi l’arsenico, e per mantenere l’ambiente umido vi collocai in mezzo un piccolo bicchiere a piede, con acqua. Li copersi con grande imbuto, masticato nel piatto, e che nel collo portava sospesa una carta imbevuta di nitrato d’argento. Due giorni dopo tolsi la carta dall’imbuto (erano trascorse 38 ore dal principio dell’esperienza), la trattai con acido solforico e nitrico per distruggere la materia organica, ed esplorai il liquido risultante nell’apparecchio di Marsh; n’ebbi un bell’anellino arsenicale, più cospicuo che nel- l’esperienze precedenti. In una quarta mi valsi della scorza di limoni ammuffiti, staccata con coltello dai frutti, stesa su piatto e sparsa di arsenico polveroso; si produssero gli effetti già descritti. 3 Da altre cinque esperienze, ripetute con qualche variazione, ottenni l’anello arsenicale costantemente, e più o meno grossetto, ma sempre sufficiente, perchè possedesse lo splendore metallico. In una di tali volte, sciolsi l’anello nell’acido nitrico, che evaporai blandamente, ridi- sciogliendo il tenuissimo residuo in acido cloridrico diluito e poi sopravversandovi soluzione d’idrogeno solforato; apparve immediatamente il color giallo cedrino proprio del solfuro d’arsenico. In una decima esperienza spolverai di anidride arseniosa la muffa nascente sulla colla d’amido, in tre piatti, che copersi con campane, communicanti con un aspiratore, con cui regolai l’affluire dell’aria. La muffa vegetò rigogliosa nei tre piatti; le cartoline, imbevute di nitrato d’argento, che vi stavano sospese al disopra, pigliarono una lieve tinta rossiccia. Scorsi otto giorni, smontai l’apparecchio, staccai le cartoline dalle campane, le trattai come fu descritto di sopra, e ne ottenni un piccolo anellino arsenicale. Sembrami dall’esposto che non possa rimanere dubbio di sorta circa la proprietà posseduta dalle muffe d’idrogenare anche l’arsenico, convertendolo in prodotto volatile; se non che parmi (1) ancora non doversi reputare tale prodotto di natura identica coll’idrogeno arsenicato, non avendo esso annerita la carta col nitrato d’argento, tanto che senza l’indizio di quell’odore speciale svolto dalla carta quando la trattai con potassa, non avrei creduto allo sviluppo di un composto arsenicale gazoso. Probabilmente sarà un’arsina; fatto sta che non precipita argento ridotto od arseniuro d’argento, e quindi non manifesta potere riduttivo. Ciò rimane confermato eziandio dall’esperienza che feci di condurre l’aria, che passava entro la campana, (1) Si noti bene questo periodo, in cui già prevede che deve essere in arsina. Serie II. Tox. LXII. pi 210 ICILIO GUARESCHI 86 a gorgogliare in soluzione di nitrato d’argento, senza che vi scorgessi il più che menomo imbrunimento. La genesi di un prodotto arsenicale volatile dalle muffe in vegetazione fa ragionevolmente supporre, che succeda l’ugual cosa col mezzo delle materie vegetali in atto di decomposizione o di fermentazione, e d’onde sì sprigioni idrogeno nascente, o qualche idrocarburo. Con questo diventa dubbiosa l’asseveranza di alcuni tossicologi, i quali affermarono in modo assoluto che dai cadaveri in putrefazione non avvenga dispersione di sostanza arsenicale; come pure si spiega l'osservazione di Kirchgissner, il quale asseverò avere trovato un composto arsenicale volatile nelle stanze coperte da carta colorata col verde di Scheele o con quello di Schweinfurt. Altri già prima di Kirchgiissner avevano creduto di sentire un odore arsenicale esalante dalle tap- pezzerie coi detti colori; ma altri pure non avevano prestato fede a questa notizia, contrappo- nendo il fatto, che avendo tenuti animali (conigli) in camerette coperte di una tal carta, non avevano visto mai che ne soffrissero. E poi continua discutendo questa questione. Egli s'accorse della grande importanza di questi fatti, e a pag. 17 scrive: Si noti pure che le muffe, mentre producono l’idrogeno, devono produrre effetti di ridu- zione sui componenti del terreno coi quali si trovano in contatto diretto. Vedemmo quello che fanno sull’inchiostro. Per conseguenza convertiranno lentamente ma pure sensibilmente i solfati in solfuri, da cui la formazione di carbonati alcalini o alcalino-terrosi; i nitrati in ammoniaca; l’idrato ferrico in idrocarbonato ferroso; i composti unici in prodotti di disossidazione, i quali nel riossidarsi più agevolmente opereranno a convertirsi in composti azulmici, concorrendovi anche l’ammoniaca che si forma dalle stesse muffe. Per corroborare tali supposizioni in ispecie sui nitrati, eseguii aleune indagini che ora riferirò. Egli qui descrive le esperienze che ha fatto per dimostrare che le muffe che si sviluppano sui limoni hanno forte potere riduttore e trasformano i nitrati in nitriti ed in ammoniaca. Ed a pag. 20 conclude: Adunque il nitro in contatto delle muffe soffre una prima riduzione, in quanto che si converte in nitrito, e questo poi successivamente in ammoniaca. Poi discute la questione dell’assorbimento dei nitrati dalle piante. Queste prime ricerche del Selmi che dimostravano dunque la formazione di una arsina per riduzione delle muffe, furono di poi in fondo confermate da lui stesso per altra via. » In una breve nota: Sopra alcuni prodotti della putrefazione arsenicale (“ Rendie. R. Acc. Bol. ;, 1878-79, p. 111-113), espone delle esperienze fatte col lasciar pu- trefare delle materie animali mescolate con anidride arseniosa e lasciate a sè. L’ingenerarsi di basi fisse e volatili durante la putrefazione, condusse l’autore alle riflessioni seguenti: “ 1° Quando si fa la ricerca tanto dell’arsenico solo, quanto dell’arsenico e degli alcaloidi successivamente, come nel processo generale, importa che si verifichi se si riscontri base arsenicale o fissa o volatile, od in ambedue le forme; “ 2° Durante la putrefazione cadaverica degli avvelenati per arsenico; una parte di questo può essere dispersa in istato di base volatile; “ 3° La formazione di una base volatile arsenicale e potentemente venefica, può dare ragione del perchè le tappezzerie coi verdi di Scheele e di Schweinfurt svol- 87 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 211 gono un composto volatile arsenicale, pernicioso alla salute, e come succeda eziandio dagli uccelli che furono imbalsamati con una qualche composizione contenente arsenico; “ 4° Si può anche spiegare come sia avvenuto che taluno, maneggiando com- posti arsenicali con assorbimento manifesto di arsenico, non ne abbia sofferto della salute, eccetto che per l’azione locale, mentre altri, curati con applicazioni arsenicali su tumori cancrenosi, ne rimanessero avvelenati, sebbene la dose non fosse troppo forte, e consigliare il medico a procedere con riguardo in casi di tale maniera ,. L'osservazione fondamentale del Selmi dello sviluppo di un’arsina per riduzione dei composti arsenicali mediante le muffe, ebbe una applicazione importantissima fatta dal Gosio. Il Gosio in un pregevole lavoro fatto molt’anni dopo sul potere riducente delle muffe, confermò le idee e le esperienze del Selmi e dimostrò che veramente coi com- posti arsenicali si forma un’arsina e non idrogeno arsenicale. Il Selmi con semplici saggi qualitativi riconobbe benissimo che il principale composto gasoso d’arsenico che sì forma in quelle condizioni, doveva essere veramente un’arsina o meglio un composto organico dell’arsenico. Ed ora, pare, sia la dietilarsina (C2H5)2AsH; ma ciò non è per anco dimostrato con sicurezza. Alcuni autori, come l’Autenrieth, a proposito della ricerca biologica dell’arsenico col metodo di Gosio, tacciono affatto il nome di Selmi; ciò è supremamente ingiusto, perchè il Gosio ha fondato il suo metodo su una reazione scoperta dal Selmi. Nessuno prima del Selmi aveva pensato al potere riduttore delle muffe e dei funghi. Il metodo biologico di ricerca dell’arsenico si deve dunque denominare: metodo Selmi-Gosio. Nè Fleck (“ Zeiss. f. Biol. ,, vol. VIII, p. 444), nè Hamberg (“ Nord. Med. Arch. ,, vol. VI, n.3; “ Arch. d. Pharm. ,, 1875, vol. 206, p. 246), possono considerarsi come precursori del Selmi in queste ricerche, perchè essi non fecero che cercare se si sviluppava o no dell’idrogeno arsenicale dalle tappezzerie colorate in verde con colori arsenicali. Mentre che questo non era che una conseguenza del problema più generale propostosi dal Selmi: 4 potere riduttore delle muffe, a cui. nessuno aveva prima seriamente pensato. Del resto, poi, le ricerche del Selmi sono del 1867, 1871, 1874, mentre quelle del Hamberg sono del 1874-75 (1). Alle ricerche del Selmi vennero fatte non poche obiezioni, ma di poco valore, che è inutile qui ricordare; i risultati delle sue esperienze furono dapprima negati, si disse che erano inesatte, ecc. I risultati negativi ottenuti da esperimentatori americani, quale il Chandler, e dal Giglioli, si debbono non solo alla qualità dei germi che capitarono sul terreno di coltura, ma anche al metodo poco esatto col quale gli autori ricercavano l’arsenico nei gas che si sviluppavano. Il Gosio invece conosceva bene la tecnica tenuta dal Selmi, perchè nei primi tempi lavorava insieme al compianto prof. Adolfo Monari, che fu assistente del Selmi. Il bel lavoro del Gosio confermò pienamente le ricerche del nostro chimico, ed (1) In quanto alla data, il Gosio crede che la prima pubblicazione del Selmi in proposito delle muffe sia del 1875; è invece, come abbiamo visto, del 1874; l'opuscolo consultato dal Gosio deve essere la 2* edizione, o meglio ristampa, del primo lavoro pubblicato nel 1874. 212 ICILIO GUARESCHI 88 oggi si ha un eccellente metodo per la ricerca biologica dell’arsenico. Il Gosio potè stabilire quali siano le muffe che hanno potere riduttore sui composti arsenicali, ri- conobbe che le più attive sono il Penicillium brevicaule, laspergillus clavatus e l’asper- gillus fumigatus. Gosio stabili meglio le condizioni del problema collo studio biolo- gico delle muffe, ma il fatto fondamentale è stato scoperto, ripeto, dal Selmi. Interessanti sono sotto questo aspetto anche le altre ricerche del Selmi: Esperienze per riconoscere se i funghi, certi microfiti e le materie vegetali in decomposizione posseg- gono azione idrogenante 0 riduttrice; conseguenze agronomiche che se ne possono dedurre (£ Rend. Acc. Scienze Bol. ,, 1875, p. 81 e Wusserstoffentbildung durch Schimmel und Schwimme, in “ Ber. d. deut. Chem. Gesell. ,, 1875, p. 906 e “ Jahresb. f. Chem. ,, 1875, p. 818). Egli fece delle esperienze per vedere se i funghi riducono anche l’arsenico, ma ebbe risultati incerti. S'avvide invece che i funghi, ad esempio i boleti, hanno il potere di ridurre i nitrati a nitriti e poi ad ammoniaca. Fece poi molte esperienze collo solfo in condizioni diversissime. Le muffe, i funghi, le spore, i micrococchi, ecc. hanno potere riduttore. Nella prima parte di questo lavoro concludeva: 1° Che i funghi reagiscono col solfo e coi nitrati a somiglianza delle muffe, dimostrando cioè un attivo potere riduttore; 2° Che sembrano forniti di uguale proprietà le spore e gli esseri microscopici di natura vegetale; 3° Che la buina fresca, il letame smaltito, il fiorume di fieno, la terra da campo, il terriccio, posseggono azione idrogenante sullo solfo e riduttiva sui nitrati, con questo però, che quando vi è un nitrato, questo incomincia ad appropriarsi l’ele- mento riduttore e fa impedimento alla formazione dell'idrogeno solforato dai compo- nenti della materia sperimentata ; 4° Che il letame smaltito possiede in piccol grado l’azione riduttiva, mentre la possiede in grado eminente il fiorume di fieno, e in grado medio la buina. Le ricerche di Selmi sul potere riduttore delle muffe, dei funghi e di altri esseri inferiori furono fatte quando non si conosceva ancora nulla sul potere riduttore di certi batteri; ed invero il Bacillus sulfhydrogenus di Miquel (“ Bull. Soc. Paris ,, 1879 (2), t. 32, p. 127) fu scoperto molto dopo. Il Miquel incomincia il suo lavoro dicendo: “ Aujourd’hui j'espère démontrer qu'il existe au moins un microbe capable “ d’hydrogéner le soufre et de fournir, dans des conditions faciles è réaliser, des “ quantités considérables d’acide sulfhydrique ,. Ma egli si guarda bene di ricordare le esperienze analoghe precisamente alle sue, fatte da Selmi molti anni prima con altri esseri inferiori che hanno potere riduttore. Crouzel (1892) ed altri hanno poi esteso queste ricerche, ed oggi sappiamo che vi sono molti microbi riduttori dello solfo, dei solfati, ecc., con produzione di solfidrico. Ma se si guardi bene, tutte queste ricerche sono direttamente collegate colle prime del Selmi fatte dal 1850 e 1857 al 1875. Anche Olivier ha studiato la produzione di acido solfidrico dagli organismi della glairina e della baregina, ma solamente nel 1886 e 1888 (“ C. R.,, t. 106 e 108). Nel 1875 il Selmi pubblicò un’altra interessante nota: Sull’azione dell'idrogeno nascente coll’azoto libero e di un composto azotato che si forma calcinando la potassa (0 2) 9 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 213 colle materie idrocarbonate (“ Rendic. Accad. Scienze di Bologna ,, 13 maggio 1875). Esposte molte esperienze per dimostrare che l’idrogeno nascente può ammonificare l'azoto atmosferico, dimostra che il fiorume di fieno bagnato e fermentato, misto con arsenico metallico, produce un composto arsenicale volatile. Poi ricorda altre esperienze fatte d'accordo col prof. Ercolani, le quali dimostrerebbero che Ze muffe ed i funghi sviluppano idrogeno e trasformano in ammoniaca l'azoto atmosferico. A pag. 26 di questa nota fa osservare che egli fin dal 1857 fece studi per spie- gare l’azione dello solfo sull’oidium. VII. Ricerche di chimica tossicologica e di chimica legale. Scoperta delle ptomaine — Prodotti anomali basici nelle urine patologiche — Patoamine — Autointossicazione — Ricerche sugli alcaloidi — Ricerca dell’arsenico, del fosforo, dell’acido cianidrico ecc. — Depurazione dello zinco — Trasformazione del calomelano entro l’organismo — Sulle macchie di sangue e sui cristalli d’amina. L'influenza di Selmi sui progressi della tossicologia e della chimica tossicologica è stata veramente enorme, non solo per avere Egli scoperte le ptomaine e nuovi metodi di indagine dei veleni, o migliorati i procedimenti precedenti, ma per aver dato una potente spinta a promuovere nuove ricerche; dal 1872 invero le ricerche di chimica tossicologica si sono moltiplicate in modo straordinario. Selmi, specialmente in tossicologia, è stato un vero agitatore di idee. I suoi lavori condussero anche altri chimici a studiare meglio i veleni, a stu- diare meglio i procedimenti per la loro estrazione dalle materie sospette, ad esa- minare la formazione di veleni fra i prodotti della putrefazione, ecc. Da ciò le ricerche dovute a Brieger, a Baumann, a Gautier, a Salkowsky, ecc. per tacere dei chimici italiani. Prima delle ricerche di Selmi nè i chimici sovraricordati nè altri che pur fecero importanti ricerche sulle ptomaine, si erano mai occupati di studi di questa natura. Era un nuovo e vasto campo che si apriva. La scoperta delle ptomaine fatta dal Selmi si può senza dubbio confrontare con la scoperta della morfina fatta nel 1805-1816 dal Sertuerner. Colla scoperta delle ptomaine Egli diede una grande spinta agli studi relativi alle sostanze che si produ- cono entro l'organismo animale in condizioni normali e patologiche; da ciò nacquero i bellissimi concetti sull’autointossicazione, sulle basi nelle urine patologiche, ecc.; sì riesaminarono meglio i prodotti venefici che si formano nelle materie alimentari, si riesaminarono e modificarono i vecchi metodi di ricerca degli alcaloidi; e ad esempio, dopo le ricerche di Guareschi e Mosso fu abbandonato affatto il metodo così detto di Dragendorff il quale poteva condurre a conclusioni errate. Dal 1880 circa dei chimici di valore si occuparono anche di chimica tossicologica e questa impor- tante branca della chimica ha raggiunto un bel grado di perfezione. Il Selmi discusse a fondo tutto ciò che riguarda i processi generali per la ricerca dei vari gruppi di veleni ed indicò il modo di procedere quando si voglia DA ICILIO GUARESCHI 90 metodicamente ricercare un veleno qualunque, o tutti i veleni, su uno stesso cam- pione di sostanza da esaminarsi. Fin dal tempo ch'egli era a Modena e Reggio dimostrò abilità nella costruzione di apparecchi, pur disponendo di mezzi molto limitati. E così fece nelle ricerche tossicologiche: modificò i vecchi apparecchi e ne ideò dei nuovi. Assai importanti sono le sue osservazioni sull’uso dell'apparecchio di Marsh e le modificazioni che vi apportò. Scoperta delle ptomaine. — Francesco Selmi scoprì le ptomaine ossia gli alcaloidi che si formano nei cadaveri, nel 1870-71; e la prima sua pubblicazione in proposito porta la data del 25 gennaio 1872 (1). In quel giorno presentò all'Accademia delle scienze di Bologna la Memoria: Sulla esistenza di principi alcaloidei naturali nei visceri freschi e putrefatti, onde il perito chimico può essere condotto a conclusioni erronee nella ricerca degli alcaloidi venefici (£“ Mem. della R. Accad. delle Scienze dell'Istituto di Bologna , (11), 1872, t. II, p. 81-86). Ù questa una breve memoria-di grande importanza anche storica. Applicando il metodo di Stas-Otto per la ricerca degli alcaloidi in casi di vene- ficio, egli trovò una sostanza che dava le reazioni generali degli alcaloidi in due sto- machi di cadaveri di persone morte per sospetto avvelenamento, in uno stomaco alquanto putrefatto di persona morta per morte naturale, in due stomachi freschi, recentissimi, in carne putrefatta conservata nell’alcol, nell’alcol che serve a conser- vare i pezzi anatomici ed anche (in piccolissime quantità) negli estratti delle farine e del pane. Egli subito intuì l’importanza di questi fatti, e attirò l’attenzione sulla possibilità di confondere delle materie non avvelenate con materie avvelenate e da ciò la raccomandazione di essere cauti prima di dichiarare l’avvelenamento avvenuto per alcaloidi. Di questa scoperta fu fatto un breve cenno nei Berichte d. deut. Chem. Gesell., VI (1873), p. 141, nella Corrispond. da Firenze (U. Schiff). Il Selmi però continuò a lavorare, e fecero seguito alcune ricerche sulla picro- tossina, la colocintina e la solanina nei casi di avvelenamento e poi delle ricerche sopra un nuovo processo per l'estrazione degli alcaloidi dai visceri e ricerca della nico- tina, della brucina e della stricnina nei casi di avvelenamento (1873), ed un altro lavoro: Nuovo processo generale per l'estrazione delle sostanze venefiche nei casiì di avvelena- mento (dic. 1873). Nel 1874 pubblicò: Osservazioni nel caso di una perizia legale (aprile 1874), poi delle ricerche su vari alcaloidi, ecc. e sul finire del 1874 una nota: Nuove ricerche fatte da parecchi chimici sugli alcaloidi innocui che si estraggono dai visceri seguendo il processo di Stas-Otto per la ricerca degli alcaloidi venefici. Poi nel 1875 delle ricerche sopra alcuni nuovi caratterì differenzianti e speciali per la ricerca degli alcaloidi venefici, su un nuovo reattivo per la morfina (la bella reazione (1) Il nome di ptomaine deriva da ttÒòua cadavere e in tedesco le ptomaine si chiamano anche Leichenalkaloide; a quelle venefiche il Brieger diede il nome di tossine (tifotossina, tetanotossina, ecc.). | Le patoamine di Selmi furono poi chiamate anche urotossine quando trovansi nelle urine; leucomaine furono denominate da Gautier le basi che trovansi normalmente nell’ organismo (creatinina, xantina, ecc.). 91 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 215 detta poi reazione di Pellagri), a cui susseguirono molti altri lavori, fra i quali: Sugli alcaloidi dei cadaveri, mem. con Pesci e Casali (ott. 1876), Modificazioni al processo per l'estrazione degli alcaloidi venefici dai visceri (2 dic. 1875), La ptomaina o primo alcaloide dei cadaveri (“ Rend. Acc. Scien. Bol. ,, 1875-76, p. 36), Ricerche comparative sugli alcaloidi cadaverici (col Prof. L. Pesci) (1877). Il 12 dic. 1877 presentò all’Acc. delle Scienze di Bologna una Memoria: Genesi degli alcaloidi venefici che sì formano nei cadaveri (“ Rend. Bol. ,, 1878-79, p. 29-33). In questa nota accenna alla scoperta delle ptomaine, alle prime objezioni e inere- dulità, ece., poi ricorda le pretese priorità di alcuni e le esperienze che dimostrano provenire le ptomaine dalla decomposizione delle sostanze proteiniche. Trattò di questa questione anche nel 1878 in un grosso opuscolo Sulle ptomaine od alcaloidi cadaverici e loro importanza in tossicologia con aggiuntavi una perizia per la ricerca della morfina (Zanichelli, Bologna, 1878, in-8° di pp. 110), che fu pubblicato anche nel “ Mon. Scient. ,, 1878, t. VIII, p.499, col titolo: Sur les ptomaines ou alcaloides cadavériques et leur importance, en toxicologie, trad. et analysé de l’italien par A. Vernon. Altre numerose ricerche si susseguirono sino al giorno della sua morte. l'immensa importanza della scoperta delle ptomaine consiste anche, come già dissi, nel fatto di aver dato vita ad un nuovo capitolo della chimica fisiologica. Prima delle ricerche del Selmi nei trattati di chimica fisiologica quasi non si discorreva delle basi organiche contenute nell'organismo animale normale e fra i prodotti della putrefazione; dopo le ricerche del Selmi invece è tutta una letteratura che fiorisce in questo nuovo campo. Gli animali adunque anche nelle condizioni normali o di malattia producono degli alcaloidi come i vegetali. È una nuova analogia che stringe e collega i due regni degli esseri viventi. Questo concetto è indiscutibilmente dovuto a Selmi, perchè egli ha dimostrato che si formano degli alcaloidi: durante la putrefazione dei cada- veri, nell’organismo vivente ammalato, e nell'organismo sano. Per certi uomini di ingegno è un bene che sia loro mancata la così detta scuola, perchè in tal modo da loro stessi hanno potuto fare delle ricerche veramente origi- nali, che forse non avrebbero fatto se avessero pedestremente seguito le orme di altri. Questa scoperta però costò al povero Selmi non poche amarezze; alcuni, specialmente in Italia, velatamente, altri un po’ più apertamente, cominciarono a criticare l’opera sua, rimproverando a lui di non aver analizzato nessuna di queste ptomaine, ecc. ecc. Egli ancora il 6 dic. 1878, cioè dopo che la sua scoperta aveva ricevuto conferma, specialmente all’estero (1), mi scriveva: ma Ho ricevuto da * una copia della perizia fatta da # in favore dell’ # e contro il *. Sic- come l'argomento primo e principale per abbattere il * mosse dal mio scritto sulle ptomaine, ivi dovettero citarmi due o tre volte, ma con quale mala grazia ! Tutto ciò che poterono togliermi di onore lo fecero in modo sì manifesto, da non sembrare credibile. Del rimanente la perizia di quei signori ha parecchie mende..... (1) Era tale e tanto l’interesse che tossicologi, chimici e medici stranieri dimostravano per le ricerche di questa natura, che appena Selmi pubblicava un lavoro subito si cercava di trarne pro- fitto. Appena, ad esempio, egli annunziò che nelle urine spesso si trovano delle ptomaine, il Schiffer ed altri poco dopo trovano anch’essi delle ptomaine nelle urine (* Deut. med. Zeitschrift ,, 1882, e “ Jahresb. f. Pharm. u. Toxikol. ,, 1883-84, ece.). 216 ICILIO GUARESCHI 92 Ma, si diceva, questi lavori non possono aver controllo, non contengono analisi di corpi ben definiti, ecc. ecc. Quasi che non vi potessero essere lavori importanti oltre quelli che contengono analisi di composti definiti. E Marsh e Mitscherlich e Stas coi loro metodi classici di ricerca dell’arsenico, del fosforo, degli alcaloidi hanno avuto bisogno di analizzare dei corpi ben definiti? E Sertuener che ha scoperto la morfina, l’ha forse analizzata? Era in fondo l'invidia di coloro che non avendo idee proprie credevano di fare grandi scoperte col pubblicare qualche lavoretto di chimica orga- nica od inorganica. Che avrebbero detto di tutti i lavori attuali sui colloidi? Vi fu un momento che Selmi fu come scomunicato per certi chimici: et tout cela pour un atome de chlore mis à la place d’un atome d’hydrogène, pour une formule corrigée! diceva il povero Aug. Laurent ricordando nel suo Méthode de Chimie tutte le atroci ingiurie lanciate dai suoi potenti nemici, a lui ed a Gerhardt! Così avrebbe potuto dire il Selmi per le ptomaine: e tutto ciò, tutta questa maldicenza, per una ptomaina più 0 meno, scoperta da me! Il giorno della giustizia venne, ma il povero Selmi era morto; specialmente per parte dei chimici stranieri, ed in particolare tedeschi, fu un vero inno di gloria a Selmi; la scoperta delle ptomaine fu una vera miniera di lavori, molti dei quali bellissimi. Ed ora che io scrivo mi sento pieno di commozione a questi dolorosi ricordi. Egli era conscio dell'importanza della scoperta fatta, eppure ecco come modesta- mente parla dell’opera sua e come prevede l’importanza dei lavori dei suoi continuatori: Per tali ragioni (la tenue quantità di ptomaine, che si ottengono, la loro alterabilità, ecc.), per la difficoltà di procurarsi i cadaveri esumati e pel consumo ragguardevole di materiali costosi, necessari per estrarle, non è da meravigliarsi, se l'argomento fu delibato appena, e se occorrono per anco studi moltiplicati e variati affine di approfondirlo bastevolmente. Il che non so quando potrà avvenire, mancando le condizioni occorrenti, i mezzi necessari nel più dei labo- ratori tossicologici italiani; per cui è a dubitarsi fortemente, che quella luce, la quale succederà ai primi chiarori, ci verrà da altri paesi, in cui chi si applica ad un dato ramo della scienza non è in difetto continuo del bisognevole. Se rimarrà, per conseguenza, all’Italia il conforto, che tra noi per la prima volta ne venne fatta menzione da qualche tossicologo e dimostrato come se ne debba tener conto nelle ricerche periziali, altri però raccoglieranno il vanto di averne spinto lo studio più addentro e chiaritane la genesi e indagatene le proprietà (“ Enciclop. di Chimica ,, 1877, X, p. 627). A varie delle obiezioni fatte al Selmi, specialmente in Italia, poco dopo la sua scoperta, rispose Egli stesso con grande modestia in una memoria: Di alcuni criteri per la ricerca degli alcaloidi vegetali in differenza delle ptomaine, Bologna 1880, p. 11-12: All’annuncio che ne diedi mi furono opposte parecchie obiezioni. Primo: si disse che forse avevo scambiato per alcaloide qualche prodotto di natura e portamento degli albuminoidi. Secondo: che era troppo da meravigliare come nessuno dei molti chimici che mi avevano pre- ceduto nelle ricerche degli alcaloidi non se ne fosse avveduto, e perciò trattarsi probabilmente di un mio abbaglio. Terzo: che quand’anche avessi riscontrato qualche alcaloide, esso poteva provenire da medicamento somministrato all’infermo negli ultimi giorni avanti la morte, e rimasto insediato negli organi e negli umori. Alla prima obiezione risposi dimostrando col fatto, che realmente le sostanze da me tro- vate non potevano essere di natura albuminoide, e ciò perchè possedevano tutti i caratteri dei 93 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA DI, veri alcaloidi, capaci cioè di solificare gli acidi, formare composti cristallizzabili, non che per i reattivi e solventi adoperati nella estrazione. Alla seconda obiezione risposero altri per me, cioè alcuni che avendoli già notati nè attri- buitavi importanza, sì scossero quando seppero del mio trovato, e rammentando le loro osser- vazioni (di cui non avevano mai fatto parola) le pubblicarono, aggiungendo che i fatti già venuti loro in vista coincidevano gran parte coi miei. Per quanto sembri strano che certi fenomeni, sebbene cadano di frequente sott’occhio, nondimeno rimangano quasi inayveduti, pure ciò succede non infrequentemente, come sanno tutti quelli che si occupano di scienze sperimentali..... In ordine alla terza obiezione, io l’aveva già sciolta prima che mi si contrapponesse, ope- rando su cadaveri dissepolti di persone note, a cui ero certo (sapendolo dal medico curante) che non erano stati propinati medicamenti, in cui sussistessero degli alcaloidi. Ma la prova più luminosa fu quella di aver ottenuto alcaloidi, od uguali od analoghi alle ptomaine, dall’albume di ovo, messo a putrefare in condizioni poco diverse da quelle in cui stanno i cadaveri tumulati, ed anche a temperatura non molto distante da quella del corpo umano. La genesi di tali composti (almeno di una parte di essi) fu adunque svelata pienamente; provengono dalla decomposizione della molecola degli albuminoidi, che li producono più o meno differenti, più o meno molteplici, od innocui o velenosi, secondo le circostanze in cui succede il processo putrefattivo. Essendo la loro derivazione quale fu detta, ne consegue che anche gli alcaloidi dei cereali putrefatti, come quello del mais guasto....., debbono trarre origine da taluno degli albuminoidi, che sappiamo pur sussistere nelle diverse parti delle piante ed abbondare specialmente nei semi. Non esiste un Trattato di chimica tossicologica anteriore al 1875-80 che dia importanza o ricordi le sostanze venefiche che trovansi nelle materie animali alterate o putrefatte, che faccia notare qualche dubbio sulla ricerca degli alcaloidi venefici in casi sospetti di veneficio, ecc. Solamente dopo l’allarme dato da Selmi, e non subito, si cominciò a ricercare nelle vecchie pubblicazioni delle osservazioni staccate, nelle quali però non si discorre affatto di veri alcaloidi (Kerner, Panum, ecc.). Invece dopo il 1880 nei Trattati di chimica tossicologica vi è sempre un capitolo dedicato alle ptomaine ed il nome di Selmi non è dimenticato (1). R. v. Jaksch (Die Vergiftungen, 1910, p. 512) discorre della tossicità delle pto- maine e fa notare come abbiano una grande importanza per la chimica forense in causa della probabile somiglianza con la conina, con l’atropina, colla curarina e colla delfinina. Egli poi ricorda in modo speciale la colina, la muscarina, la betaina e la nevrina, cadaverina e putrescina, saprina, ecc., scoperte nelle materie animali o nelle urine in certe malattie dopo le ricerche di Selmi. Chi farà la storia della Chimica tossicologica e della tossicologia dovrà mettere in prima linea i nomi di Marsh, Stas e Otto, Mitscherlich, e Fr. Selmi, come faccio io nelle mie lezioni. ò (1) Tra i più recenti basterà che io ricordi il Gadamer, © Lehrb. d. Chem. Toxik. ,, Gottingen, 1909, ove a pag. 490-495 e 631-662 discorre a lungo delle ptomaine, che classifica in tre categorie: 1° Ptomaine propriamente dette dei cadaveri (Eigentlichen Leichenalkaloiden o. Ptomainen im engeren Sinne); 2° Ptomaine delle urine patologiche; 3° Ptomaine delle urine normali. E dà una tabella completa di tutte le ptomaine ora conosciute. La velenosità dei liquidi putrefatti era già conosciuta da Haller, da Panum, ecc., ma nessuno prima di Selmi pensò all’esistenza di alcaloidi che potessero intralciare le ricerche chimico-tossi- cologiche. Serie II. Tow. LXII. ci 218 ICILIO GUARESCHI 94 J. e R. Otto nell’eccellente Guida per le ricerche dei veleni (Anleitung zur Aus- mittelung der Gifte, ecc., Braunschweig, 1883-1884) nel capitolo: Ptomaine (Leichen- oder Cadaveralkaloide) discorrono a lungo dei lavori scientifici di Selmi e ne fanno vedere tutta l’importanza per la chimica forense. Così fecero e fanno tutti gli altri principali chimici-tossicologi tedeschi, quali Husemann, Baumert, Kobert, Beckurts, Gadamer, ecc. J. e R. Otto vollero nel 1883-84 dedicare la nuova edizione della loro celebre Anleitung sovraricordata, alla memoria del Selmi che era morto da due anni; la dedica dice: Den Manen Francesco Selmi’s, des verdiensivollen Forscher auf dem Gebiete der Piomainen gewidmet von Verfasser. In tutti i trattati moderni sulle urine vi è un capitolo consacrato alle ricerche delle ptomaine (1). La scoperta della cadaverina e della putrescina nell’urina di ammalati di cistinuria fu fatta da Udransky e Baumann nel 1888, in seguito però alle ricerche di Selmi, perchè egli per il primo ammise che in molte malattie, spe- cialmente infettive, si formano delle basi organiche che passano nelle urine. Le ptomaine hanno importanza anche per le materie alimentari, o meglio per la chimica bromatologica; perchè queste basi possono formarsi per l’azione degli agenti fermentativi e putrefattivi su molte materie alimentari ed essere causa di numerosi avvelenamenti, anche: collettivi. Ed invero tutti i più autorevoli scrittori di questa branca della chimica e dell’igiene dànno il merito della scoperta delle ptomaine al Selmi e ne discorrono a lungo nelle loro opere (2). Tutti i trattati di chimica fisiologica o di chimica patologica, quali quelli del Neumeister, dell’Hofmeister, dell’Abderhalden, ecc., hanno un capitolo che riguarda le ptomaine. Il Gorup-Besanez già nel 1880 nel suo 7raité de chimie physiol., II, p.482, ha un breve capitolo sulle Ptomaine, la cui scoperta attribuisce esclusivamente a Selmi. Ora il nome Ptomaine troviamo anche nei trattati di chimica teorica organica e basti ricordare quelli di Richter-Anschiitz, di Holleman, di Krafft, di Roscoe- Schoelemmer (3), e nei grandi trattati di chimica farmaceutica, quale quello di Ern. Schmidt. (1) Ricorderò fra gli altri lo Spaeth nel suo bel libro: Die Chem. u. Mikroskop. Unters. d. Harns, 1903, e principalmente Neubauer e Vogel i quali nella loro classica: AnZetung 2. qualit. u. quant. Analyse d. IHarns, trattano in extenso delle ptomaine, e nella 10% edizione fatta nel 1898 dall'’Huppert si ricorda e riassume anche la memoria di Selmi sulle patoamine pubblicata nel 1880 e ripubbli- cata da Albertoni e da me nel 1888. (2) I Kònig nella 4° ediz. del suo classico libro: Untersuchung v. Nahrungs-Genussu. Gebrauchsg., Berlin, 1910, nel capitolo Nachweis u. Bestimmung d. Ptomaine, a pag. 295, scrive: “ Unter Ptomaine © versteht man eine Reihe basischer Stoffe, die von Selmi zuerst in Leichnamen (mtr@®pa) gefunden “ wurden, die sich aber tberall bei der Fàulnis unter dem EFinfluss von Mikroben bilden und in ihren “ Rigenschaften den Pflanzenalkaloiden (Coniin, Morfin u. a.) àhnlich verhalten ,. Sotto il nome di ptomaine (da mTWwUa cadavere) s'intende una serie di sostanze basiche trovate la prima volta dal Selmi fra i prodotti della putrefazione per influenza dei microbi, e che nelle loro proprietà hanno somiglianza con alcaloidi delle piante (conina, morfina, ecc.). (3) Nel Roscoe-Schoelemmer's, LeAhrb. der org. Chem., 1901, t. VII, pagg. 442-528, vi è un bel- lissimo capitolo sulle ptomaine, scritto da Vablen, ed il primo nome in esso ricordato è quello del o [cha d FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 219 Anche in America subito dopo la scoperta del Selmi le ptomaine furono stu- diate e se ne riconobbe tutta l’importanza. C. Vaughan e Vr. Novy nel loro libro: Ptomaine, Leucomaine and Bacterial proteids or the chemical factors in the causation of disease, Philadelphia, 1888 e 1891, hanno fatto risaltare tutta l’importanza della sco- perta del Selmi ed a p. 27 scrivono: First of all stands the Italian Selmi, who suggested the name ptomaine, and whose researches furnished us with much information of value, and, what is probably of more impor- tance, gave an impetus to the study of the chemistry of putrefaction, which as already been productive of much good and gives promise of much more in the future. To credo di essere stato il primo a rivendicare a Selmi tutti i suoi diritti nella scoperta delle ptomaine. Nel 1883 scrissi nel Complem. e Supplem. dell’ Enciclop. chim., vol. Ill, p. 495-505, un lungo articolo PromAINE in cui chiaramente dimostrai, che unicamente a Selmi si doveva l’idea che si formino nel corpo umano, sano o ammalato o dopo morte, delle sostanze più o meno velenose che in certi casi po- trebbero essere confuse con alcaloidi vegetali, e da ciò la immensa importanza per la chimica tossicologica. In quell’articolo ho fatto notare anche gli errori in cui erano caduti alcuni chimici che si sono occupati di questo argomento. Anche in altre pubblicazioni io ho fatto notare ampiamente tutta l’importanza di questa scoperta (1), come del resto molto lodevolmente fecero i professori Leone Pescì (2), Dioscoride Vitali (3) ed altri. Il Vitali, sia nel suo Trattato di chimica tossicologica, sia nella sua commemorazione del Selmi, sia nell’opuscolo: Alcuni ap- punti storici sulla tossicologia chimica (Soc. Ital. di Storia critica delle Scienze Med. e Natur., Venezia, 1909), ne discorre a lungo. Quell’onesto e coltissimo farmacologo tedesco che fu il professore Theodor Husemann di Gottingen, tenne in alta considerazione le ricerche del Selmi sulle ptomaine, fu il primo all’estero che con animo retto ed imparziale fece notare tutta la grande importanza della scoperta di queste sostanze, e fece conoscere le nuove ricerche ai suoi connazionali traducendo o riassumendo le memorie del Selmi; egli scrisse dei lunghi articoli: Die Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche nostro Selmi. Benchè talvolta siano citate inesattamente o impropriamente, le ricerche di Selmi sono ricordate anche in libri di chimica applicata, che sembrerebbero non in relazione con ricerche di questa natura. Ma le ricerche di Selmi sulle ptomaine interessano non solamente la tossico- logia, la patologia ed altri rami della medicina, ma pur anco le fermentazioni organiche, cioè quella serie immensa di fenomeni complicati che tanto importano alla biologia ed all’industria chimica. A. Colson (L’Essor de la chimie appliquée, Paris, 1910, p. 289) ricorda a proposito delle ptomaine in prima linea il nome di Fr. Selmi e scrive: “ Selmi sut mettre hors de doute le fait que “ l’estomac des personnes ayant succombé à une mort naturelle renferme des substances alcalines “ spéciales que l’on retrouve dans l’alcool ayant servi è la conservation des pièces anatomiques ,,. (1) Introduzione allo studio degli alcaloidi con speciale riguardo agli alcaloidi vegetali ed alle ptomaine, Torino, 1892, 1 vol. in-4°, pag. 404-456 e la traduzione tedesca della stessa opera, fatta dal prof. Kunz-Krause: Einfihrung in das Studium der Alkaloide mit besonderer Bericksichtigung der vegetabilischen Alkaloide und der Ptomaine, Berlin, 1896, in-8° gr., pagg. 550 a 632. (2) Discorso letto dal Dott. Leone Pesci per l'inaugurazione del monumento a Francesco Selmi, Bologna. (3) Francesco Selmi patriota, letterato e scienziato. Commemorazione letta nella Società Agraria di Bologna, 1885. 220 ICILIO GUARESCHI 96 Chemie und Toxikologie negli “ Arch. d. Pharm. ,, 1880, 1881 e 1882. Ed oggi nessun Trattato tedesco di chimica tossicologica o sulle autointossicazioni tace il nome del Nostro. Al lavoro storico-critico di Husemann fece seguito nel 1886 un altro bel lavoro di Beckurts: Die Ausmittelung giftiger Alkaloide bei gerichtlich-chemischen Untersu- chungen mit Bezug auf den heutigen Stand der Ptomainforschung (“ Arch. d. Pharm. , (3) 1886, t. 24, p. 1046-1065) ed anche qui il nome di Selmi è messo in prima linea. Il Prof. Willgerodt di Freiburg nel 1882 fece una conferenza in onore delle ricerche di Selmi: Ueber Ptomaine (Cadaveralkaloide) ece., Freiburg i. B., 1882, e ter- mina colle parole seguenti: Immerhin sind wir besonders Selmi, sowie allen Chemikern, Physiologen, Medicinern und Pharmaceuten, die sich diesem so widerlichen Gegenstande beschiftist und Licht dariber ver- breitet haben, zum gròssesten Danke verpflichtet. Vorziiglich durch die Arbeiten Selmi’s sind unsere Kenntnisse iber Ptomaîne in einer Weise geférdert, dass wir im Stande sind, durch unsere gerichtlich-chemischen Untersuchungen die Unschuldigen zu schitzen und die Verbrecher zu entlarven. Il D. H. Oeffinger nel 1885 pubblicò un bel lavoro: Die Ptomaîne oder Cada- veralcaloide, Wiesbaden, 1885, di p. 42, in cui riassume i principali lavori su questo argomento e specialmente quelli di Selmi, a cui dà tutto il merito della scoperta. Ricorda come il primo fatto importante riguardo le applicazioni della scoperta delle ptomaine fu osservato in Germania nel 1874, in occasione del processo criminale Brandes-Krebs. Anche Linossier in Francia (Les ptomaines et les leucomaines au point de vue de la médecine légale, p. 8) riconobbe poco dopo i diritti di priorità del Selmi. Il “ Moniteur Scient. , riprodusse gran parte delle ricerche di Selmi, come si vedrà nella bibliografia. Anche la storia imparziale accoglie nei suoi annali queste ricerche del Selmi; l’illustre chimico Ern. v. Meyer nella sua Geschichte der Chemie, 3% ediz., 1905, a p. 499, dopo aver accennato ai prodotti della putrefazione scrive: BRE dann aber besonders die der sogenannten Ptomaine in Erinnerung gebracht. Die Ent- stehung dieser starken Gifte, die wegen ihrer Aehnlichkeit mit den Pflanzenalkaloiden auch als Leichenalkaloide bezeichnet worden sind, ist fiir den gerichtlichen Chemiker, wie schon oben hervorgehoben wurde, von der gréòssten praktischen Bedeutung, da tatsichlich Verwechselungen der Ptomaine mit wahren Alkaloiden infolge der ihnlichen Reaktionen beider vorgekommen sind. Der italienische Toxikologe Selmi war der erste, welcher die wichtige Rolle dieser Fiulnisbasen in forensischer Hinsicht klar erkannte; er sab denselben den seit dem eingebiirgten Namen: Ptomaine. Vor ihm halten sich schon viele Forscher bemiht, Fiulnisgifte aus verdor- benen Nahrungsmitteln zu isoliren, z. B. Schlossberger, Panum, Schmiedeberg, Bersmann, Sonnenschein, u. a. ohne jedoch in chemischer Hinsicht Klarheit zu schaffen. Quando Ladenburg dimostrò che la cadaverina C*H!4N? estratta dai cadaveri dal Brieger è identica colla sua pentametilendiamina sintetica (1), e quando Udranszky (1) “ Berichte ,, 1886, p. 2585. 97 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 221 e Baumann (1) scoprirono nelle urine cistinuriche la tetrametilendiamina e la penta- metilendiamina e dimostrarono che sono identiche alla putrescina e cadaverina del Brieger, non diedero forse la migliore conferma dell’asserto del Selmi che nelle urine patologiche si trovano delle basi speciali che egli chiamò patoamine? Tutto questo non fu una bella e vittoriosa conseguenza della scoperta delle ptomaine? Come già dissi, dopo morto il Selmi le ricerche sulle ptomaine continuarono e molti chimici, specialmente stranieri, pubblicarono dei lavori importantissimi che estendevano, confermavano e sviluppavano le prime idee del nostro chimico. Pochi in Italia allora davano importanza a questi lavori. Ricordo benissimo, verso il 1883-84, di un giovane chimico che non aveva fatto se non la preparazione di qualche com- posto bromurato o bromonitrato o solforato di derivati aromatici, il quale colla più bella alterigia, o meglio balordaggine, diceva: Ma che cosa sono queste ptomaine? Queste ptomaine si conoscono? Già, di questi lavori non si sa nulla, perchè manca il controllo (2). Poco dopo uscivano, non dico dei lavori italiani, gli importanti lavori stranieri che ho sovra ricordato. Alcuni dei lavori del Selmi sulle ptomaine hanno il difetto di essere piuttosto prolissi e forse anche troppo pieni di reazioni qualitative date da numerosi reattivi che non sempre producevano reazioni veramente caratteristiche. Questo difetto, se così può dirsi, contribuì a far sì che certi lavori passarono quasi inosservati o si diede loro un valore non rispondente a verità. Ma tutto ciò è spiegabilissimo, perchè erano momenti di lavoro febbrile fatto col vivo desiderio di scoprire la verità in un argomento che era un vero labirinto. Ed inoltre bisogna dire che purtroppo alcuni dei primi così detti difensori delle ptomaine del Selmi erano senza competenza in proposito, erano o medici igienisti o medici legali che di chimica conoscevano ben poco, e mentre giustamente difende- vano la priorità del Selmi dicevano grandi spropositi relativamente alle ptomaine stesse. La questione grave delle ptomaine fu portata dal Selmi in un più vasto campo: la formazione cioè di alcaloidi dalle materie putrefatte nelle varie condizioni. Ed allora studiò anche i fenomeni putrefattivi e già nell’art. Putrefazione scritto per l’Enci- celopedia Chimica, vol. IX, p. 352-353, accennava a numerose esperienze proprie che aveva già fatto prima del 1874. Se la putrefazione, scrive Egli, succede in luogo nel quale l’aria non possa liberamente rinnovarsi durante il processo progrediente, in allora trai prodotti che si ritraggono dalla materia putrefatta si riscontrano parecchi alcaloidi speciali, parte dei quali sono solubili nell’etere e (1) © Berichte ,, 1888, XXI, p. 2744. 5 (2) In tutti i tempi ed in tutti i paesi vi è stata, vi è, e vi sarà, di questa gente che presume immensamente di sapere. Non ho mai dimenticato il curioso fatto seguente, che risale a circa 40 anni fa: un chimico, o meglio un professore di chimica, che già occupava un bel posto per il luogo e per lo stipendio, entrato un momento nel laboratorio di chimica a Firenze, sul principio del 1871, quando io ero intento a fare un’analisi elementare organica, mi chiese ingenuamente quale operazione io facessi! Da queste e da poche altre parole io capii subito che egli non aveva mai visto un apparecchio per analisi elementare! Ebbene, fu poi uno di coloro che pochi anni dopo, salito a posizione più alta, ma borioso e tronfio, derideva i lavori di Selmi, diceva che le ptomaine non erano importanti, perchè erano sostanze amorfe! 222 ICILIO GUARESCHI 98 parte solubili nell’aleool amilico, oltre ai prodotti volatili forniti di potere riduttore, e che messi in contatto del sangue lo anneriscono immediatamente. Taluno di questi prodotti è venefico in alto grado. E dopo avere discorso dei varì prodotti della putrefazione scriveva: Seguendo un processo alquanto diverso, Fr. Selmi riuscì a discernere parecchi alcaloidi estratti dalle materie putrefatte, e specialmente dai cadaveri esumati, determinandone certe re- azioni specifiche, e dimostrando quale di essi risulti innocuo negli animali, e quale possegga azione venefica..... ecc. Come pure assai interessante, per idee ed osservazioni proprie dell’autore, è il lungo articolo: Fermentazione e putrefazione — Considerazioni sui fermenti figurati e non figurati — Putrefazione nel vivente ecc., che si trova nel Complem. e Suppl. al- l’Enciclop. di Chimica, vol. II, pag. 737 a 752. Prodotti anomali basici nelle urine patologiche. — Patoamine. — Il Selmi già prima del 1879 sospettò che in certe malattie si producessero nei tessuti delle sostanze basiche venefiche, le quali, insieme all’alterazione dei tessuti o da sole, de- terminassero la morte dell’ammalato; perciò già nel 1879 intraprese l’analisi delle urine di vari ammalati affetti da malattie varie, quali la paralisi progressiva, l’ileo- tifo, la pneumonite interstiziale, ecc., come pure le urine di alienati; in questo ultimo caso il Selmi aveva la speranza di poter trovare un mezzo per distinguere la pazzia vera dalla falsa. Le esperienze confermarono pienamente le sue supposizioni e dimostrarono che veramente si formano delle basi patologiche (patoamine), come si formano le basi cada- veriche. Ad esempio, dalle urine di un ammalato di paralisi progressiva accompagnata da imbecillità crescente, ottenne una base venefica, somigliantissima alla nicotina, ma diversa da questa e che agisce specialmente sul midollo spinale; vi trovò inoltre una base, in piccolissima quantità, che ricorda la conina. Così pure dall’urina di un ammalato di tetano reumatico. E così in altri casi. Queste osservazioni furono poi fatte da altri: da Bouchard, da Pouchet e Villiers, ecc., senza che però ricordassero le precedenti ricerche del Selmi (vedi in Bibliografia. La conferma più bella delle idee del Selmi si ebbe, come già dissi, quando Udrinsky e Baumann dimostrarono che nelle urine di ammalati di cistinuria si tro- vavano due basi etileniche: la tetrametilendiamina e la pentametilendiamina, identiche colla putrescina e colla cadaverina, trovate nel 1885-86 da Brieger fra le ptomaine delle materie putrefatte. Alcuni poi arrivarono anche all’esagerazione di credere d’aver trovato delle basi speciali, cristallizzate, in ogni speciale malattia; fra questi va ricordato il Griffiths, il quale in ogni malattia avrebbe trovato nelle urine una particolare base cristal- lizzata. Ma specialmente per la poca probabilità delle formole date, e pei risultati negativi avuti dal Dr. Francesco Nicola in un caso di morbillo, è lecito mettere in dubbio almeno buona parte delle ricerche del Griffiths. Autointossicazione. — Il capitolo che riguarda le tossine non esisteva prima delle ricerche di Selmi, mentre ora è uno dei capitoli principali che riguardano gli 99 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 223 avvelenamenti e la patologia. I nomi di tossina, tossialbumina, ecc., non si trovano nei dizionari di medicina prima del 1880. Tossine e ptomaine si generano, ad esempio, dalle uova più o meno guaste e da ciò dei disturbi gastro-intestinali più o meno gravi. Pare anzi che le uova anche fresche contengano giù una piccola quantità di una ptomaina studiata dal Brieger, la neuridina; colla putrefazione questa ptomaina aumenta. Dopo il 1880 specialmente, lo studio dei prodotti della putrefazione attira l’at- tenzione di molti chimici; è un nuovo campo che si apre dopo le ricerche di Selmi. Dopo i bei lavori di Brieger, Nencki, Kossel, Baumann ed altri, si arriva al bellis- simo ed importantissimo concetto dell’autointossicazione. Sotto il punto di vista rac- comandato dal Selmi, si studiano le urine patologiche e se ne traggono delle nuove basi che stanno in relazione collo stato patologico dell'organismo; l’intestino special- mente è la sede della formazione di molti prodotti della putrefazione. Senza la scoperta delle ptomaine non s’arrivava certamente al concetto della autointossicazione. Questo è ciò che noi dobbiamo coscienziosamente far ben rilevare, e che già molti studiosi di oltre Alpi hanno fatto con grande imparzialità e giustizia a favore del nostro geniale chimico. Bouchard, basandosi su fatti vecchi empirici che già si conoscevano e su tutti i lavori fatti dopo il 1872, ha potuto generalizzare il concetto e il nome di auto- intossicazione (1), e nel 1887 pubblicò una importante serie di lezioni intitolate: Lecons sur les auto-intorications dans les maladies, Paris, Levy, 1887, di pp. 348 in-8°. Un libro come questo non avrebbe potuto essere scritto prima delle ricerche di Selmi. Si conoscevano, è vero, molti casi isolati, prima del 1872, si conosceva, ad esempio, il veleno putrido di Panum, i numerosi casi di botulismo, specialmente in Germania, ma non vi si dava una importanza generale per la patologia. Gabriel Pouchet trovò nelle urine normali degli alcaloidi chimicamente simili agli alcaloidi tossici, Gautier fece delle ricerche analoghe, ma tutti questi studi sono di molto posteriori .a quelli del Selmi. Selmi aveva già molte volte insistito sulla formazione di veleni alcaloidei entro l'organismo, specialmente in casi di malattia, e nel 1880 pubblicò una bella memoria: Prodotti anomali, in parte venefici, da alcune urine patologiche, considerati in correlazione colla tossicologia e la diagnosi medica, Bo- logna, 1880 (vedi Bibliografia). Ebbene chi lo crederebbe? Il Bouchard nel suo voluminoso libro non nomina il Selmi. Fu allora che io ed Albertoni ripubblicammo la memoria del Selmi nei nostri “ Ann. di chimica e di farmacol. ,, insieme ad una nota in cui dicevamo: “ I signori Bouchard, Felz ed Erhmann, Pouchet e Villiers ed altri, hanno fatto dal 1882 in poi delle ricerche sulle ptomaine che si trovano nelle urine in diverse malattie; ma nes- suno di loro ricorda i lavori di Francesco Selmi pubblicati nel 1880, e che si rife- (1) Si noti bene che anche la parola autointossicazione non si trova in nessun dizionario di medicina prima del 1880. Il concetto di autointossicazione deriva dalle ricerche di Selmi; ciò è fuori di ogni dubbio. Questo nome — usato la prima volta, credo, dal Bouchard — fu creato, ripeto, appunto in seguito alle ricerche di Selmi sulla formazione di materie venefiche entro l'organismo durante la vita. 224 ICILIO GUARESCHI 100 riscono appunto a quelle ptomaine che egli denominò patoamine perchè si trovano nell'organismo in istato patologico. Quel lavoro di Selmi non è mai stato pubblicato in un giornale scientifico, e perciò crediamo debito nostro di riprodurre l'importante memoria che Francesco Selmi presentò nel 1880 all’ Accademia delle Scienze di Bo- logna (La Direzione) ,. Ed ora infatti questo lavoro trovasi di frequente citato colla data 1888 (1). È Albertoni (1892), in quel suo bellissimo articolo Delle autointossicazioni, inserto nel Trattato italiano di patologia e terapia medica, diretto dai prof. Cantani e Mara- gliano, dà il dovuto merito al Selmi e scrive nell’introduzione : Questo concetto (dell’autointossicazione per prodotti nuovi formati entro l’organismo) acquistò forma concreta e scientifica solamente nei nostri tempi. E mi compiaccio ricordare che le ricerche degli italiani, di Selmi e della Commissione detta delle ptomaine, sulle ptomaine e sull’esistenza di alcaloidi in tessuti normali e patologici contribuirono grandemente a chiamare l’attenzione dei medici sull’argomento. Il Bouchard avrebbe proprio dovuto dare al Selmi il merito che gli spetta, perchè, benchè egli non lo nomini mai, pure è evidentemente vero che tutto quanto dice è fondamentalmente basato sui lavori del nostro chimico e dei suoi continuatori. Il Selmi aprì dunque un’altra nuova via di ricerche: non solamente chimiche, ma anche cliniche, ed il suo nome è quindi indissolubilmente legato a questa parte della patologia, cioè delle autointossicazioni. Da questo momento incominciano le ricerche sulle malattie che possono essere prodotte da sostanze alcaloidee formatesi entro l'organismo vivente. A poco a poco anche in questo campo si è reso giustizia al Selmi. L’Albertoni, giudice competentissimo più di qualunque altro (2), ancora recente- mente (Gennaio 1911) mi scriveva le belle parole seguenti: Il concetto di autointossicazione dell’organismo e della produzione di veleni ben definiti venne per la prima volta formulato con chiarezza da Selmi. Prima d’allora si ammetteva un’in- tossicazione dell’organismo per ritenzione di materiali di disassimilazione destinati ad essere in via normale espulsi colle orine, col sudore, colla bile. La scoperta della produzione di sostanze tossiche nel cadavere e nell'uomo vivente è fra le più notevoli nel campo della tossicologia e della fisiopatologia nella seconda metà del secolo decorso; e merita di essere annoverata fra le idee più originali emesse da italiani nello stesso periodo. Eppure, vivente il Selmi, come già dissi, si tentò di volgere quasi in ridicolo la scoperta delle ptomaine! Io ho visto, e vedo, delle lettere di chimici i quali di- (1) Si legga, ad esempio, il Trattato di Patologia generale di Bouchard tradotto da B. Silva, vol. I, parte 2°, ove si discorre delle intossicazioni e delle autointossicazioni prodotte dalle ptomaine e si vedrà quanto è trascurata la parte avuta dagli italiani in questa questione importantissima; mentre vi si ricordano tanti lavori di nessun valore scientifico! Nei migliori Trattati di Tossicologia, ove si discorre delle cause dell’avvelenamento, si fa ora sempre la domanda: la putrefazione cadaverica può dare origine a dei composti venefici? Si risponde: Sì, questa questione è da molti anni definitivamente risolta grazie ai lavori di Selmi, ecc. (2) L’Albertoni insieme a Lussana, sino dal 1872-73 osservò che gli estratti acquosi dei visceri hanno azione tossica, e quasi nel medesimo tempo scopriva un derivato immediato dei peptoni, velenoso, che denominò peptina e che dal Brieger dopo fu denominato peptotossina (Vedi ALBERTONI, Trattato di Fisiologia). N°] 101 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 225 b cevano sulle ptomaine delle cose incredibili! Per la storia della chimica, e in questo caso, meglio, dei chimici, avrebbe non poca importanza l’epistolario del Selmi, che a suo tempo dovrà essere pubblicato. Trasformazioni che subiscono le sostanze venefiche per l’azione della putrefazione e dentro l'organismo. — Scoperte le ptomaine e studiati i processi putrefattivi, il Selmi fu uno dei primi, se non il primo, a raccomandare lo studio delle alterazioni che le sostanze venefiche possono subire quando sono miste a materie in via di putrefa- zione ed anche quali siano le modificazioni o trasformazioni che il veleno può subire entro l'organismo sano ed ammalato. Egli riconobbe, ad esempio, che la solanina già nello stomaco può sdoppiarsi dando la solanidina e che facendo digerire per 24-36 ore la solanina nel succo gastrico ha luogo la parziale trasformazione in solanidina. Ora sì sa che la solanidina passa nelle urine e che ia solanina anche in presenza di materie putrefatte si decompone in solanidina. L'importanza di questi studi non risiede tanto nelle esperienze che egli ha fatto, quanto, e più, per le ricerche che ha promosso. Da questo momento, cioè da circa il 1874, datano le principali ricerche fatte sulle trasformazioni subìte dalle sostanze organiche nelle materie putrefatte. Ricerche su molti alcaloidi, glucosidi e sostanze amare venefiche. — Selmi ha fatto molte ricerche su un gran numero di alcaloidi ed altre materie organiche di interesse tossicologico, specialmente allo scopo di trovare delle reazioni che possano servire a riconoscerle e a separarle da altri corpi. Interessanti sono, ad esempio, le ricerche sulla stricnina, sulla morfina, sull’atro- pina, ecc., come pure sulla solarina; e già sino dal 1877, ed anche prima, egli aveva notato delle differenze tra le varie solanine e le solanidine che ne derivano. “ Facendo, scriveva, sdoppiare certa solanina di derivazione ignota, ma che pur possedeva tutti i caratteri di purezza, se ne otteneva una solanidina il cui cloridrato cristallizzava arborescente od a stella dall’alcol, mentre con solanidina ricavata da solanina di Merck, il cloridrato si deponeva in grossi cristalli, per lo più isolati ed anche in ottaedri romboidali , (1). Anche queste ricerche di Selmi furono confermate (veggasi A. Colombano, “ Atti R. Ace. dei Lincei ,, 1907, XVI, 2° sem., p. 684). La bellissima e caratteristica reazione della morfina basata sulla trasformazione in apomorfina e conosciuta col nome di reazione di Pellagri, e che più giustamente dovrebbe chiamarsi reazione di Selmi-Pellagri, fu trovata nel suo laboratorio durante alcune ricerche tossicologiche. Il Selmi sino dal 1872 tentò di scoprire delle nuove reazioni chimiche che va- lessero a riconoscere delle piccole quantità di picrotossina e di colocintina, due veleni potentissimi. Se non raggiunse completamente lo scopo, è però fuori di dubbio che contribuì alla ricerca tossicologica di questi due principii (Enciclop. Chim., 1874, VII, p. 816-818). Ricerca tossicologica dell’arsenico. — Numerose sono le osservazioni assai utili che il Selmi ha fatto relativamente alla ricerca dell’arsenico. Innanzi tutto ha esaminato meglio alcune delle principali proprietà dell’anidride arseniosa; ha ricono- (1) Enciclopedia di Chim., vol. X. Serte II. Tox. LXII. D 226 ICILIO GUARESCHI 102 sciuto, ad esempio, che questo corpo comincia ad evaporarsi a 100° e più ancora a 130°; osservò che i dati sulla solubilità nei vari solventi o non si conoscevano o erano poco esatti e determinò la solubilità nell’alcol metilico, nel cloroformio, ecc.; notò che l’anidride arseniosa col solfidrico non precipita se non quando la materia orga- nica sia completamente distrutta. Modificò utilmente l’apparecchio di Marsh raccomandando di scaldare un lungo tratto del tubo per avere gli anelli. A Selmi si deve la prima idea di raffreddare il piccolo tratto di tubo strozzato con una lenta corrente di acqua fredda, che cade dentro uno stoppino involgente la strozzatura, per concentrare in un limitato spazio l’anello arsenicale; la reazione è resa così molto più sensibile; ora questa utile modificazione è adottata da tutti i tossicologi (si vegga ad esempio in Gadamer's, Lehrb. der Chem. Toxikologie, 1909, pag. 159). L'apparecchio così modificato dal Selmi trovasi descritto nelle “ Mem. d. R. Accad. delle Scienze di Bologna , e nel Compl. e Supp. alla Enciclop. chim., vol. I, p. 812. Anche il suo metodo di distruzione della sostanza organica mediante l’azione prima coll’acido solforico e poi distillazione in corrente di gas cloridrico, è ritenuto da molti esperimentatori ottimo metodo, e secondo alcuni anche migliore di quello di Fresenius e Babo. Depurazione dello zinco arsenifero mediante il cloruro ammonico. — I suoi studi sulla tossicologia dell’arsenico lo condussero a trovare un metodo pratico per depu- rare lo zinco arsenifero. Si noti bene che allora (1875-1880) l’arsenico che si trovava in commercio era tutto arsenicale, più o meno. Il metodo consiste nel fondere lo zinco in crogiuolo e nell’immergervi, mediante bastoncino e rete di ferro, ed agitando, dei pezzi di cloruro ammonico. L’arsenico si elimina allo stato di cloruro arsenicale (“ Atti R. Acc. dei Lincei ,, 1879). L’'Hote poi (“ C. R.. ,, 1884, t.98, p. 1491) diede come nuovo il metodo di depurare l’arse- nico sostituendo nel metodo precedente al cloruro di ammonio il cloruro di magnesio! (£ Riv. di chim. farm. ,, 1884, II, p. 444) (vedi Bibliografia). Reazione tra lo zinco e l'acido solforico. — Selmi studiò anche l'influenza delle impurezze dello zinco e quella delle sostanze estranee aggiunte all’acido solforico, sulla rapidità della reazione fra lo zinco e l’acido solforico. Interessanti sono le memorie: Dell’accelerazione che il fosforo e gli ipofosfiti inducono nella reazione tra l’acido solforico e lo zinco (“ Mem. Accad. Bologna ,, 1877) e Di alcune sostanze non metalliche che accelerano la reazione tra lo zinco e Vacido solforico (£ Mem. R. Accad. Lincei , (3), vol. II, 1878). Interessante specialmente è il modo di comportarsi del fosforo e dell’idrogeno fosforato. Osservò poi che alcuni sali sollecitano, altri ritar- dano la reazione fra lo zinco e l’acido solforico (1879). Questi studi del Selmi meri- tano un più attento esame. La velocità di soluzione dello zinco negli acidi, secondo: le impurezze contenute nel metallo o delle sostanze aggiunte all’acido, è stata poi studiata da Ericson-Auren e Palmaer, da Brunner (1905) e da altri. Ricerca tossicologica del fosforo. — Risulta dalle ricerche del Selmi che una parte almeno del fosforo introdotto nell’organismo si elimina, per via delle urine, in forma di prodotti fosforati organici o di acidi minori del fosforo. Prima del Selmi 103 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 227 non si dava molto valore alla ricerca del fosforo nelle urine in caso di avvelena- mento. Il Selmi ha emesso l'opinione che il fosforo nell'organismo animale dia origine a basi fosforate venefiche, ossia a ptomaine fosforate ed anche ad altri composti fosforati, ai quali si dovrebbe attribuire i sintomi del veneficio. Lefort, Brugnatelli ed altri hanno negato che dalle materie in putrefazione si sviluppi dell'idrogeno fosforato. Selmi invece trovò che dai cadaveri esumati e da albumina putrefatta si svolgono dei prodotti fosforati volatili. Anche nelle urine degli avvelenati per fosforo trovò un composto volatile fosforato. La questione dello sviluppo di composti fosforosi volatili dalle materie putre- fatte non è ancora risolta in tutte le sue parti, ma è indubitato che Selmi vi ha portato un buon contributo. Egli ha inoltre modificato e perfezionato il metodo di ricerca tossicologica del fosforo. ; Ricerca chimico-tossicologica dell’acido cianidrico. — Al Selmi si debbono anche molte esperienze relative alla ricerca dell’acido cianidrico, del cianuro di mer- eurio, ece. Per questi lavori rimandiamo alla Bibliografia. Molte ricerche che riguardano la chimica tossicologica sono state esposte e riassunte dal Selmi stesso nell’articolo Tossicologia, nell’ Enciclop. chim., 1877, vol. X, p. 605-665. Trasformazione del calomelano in bicloruro di mercurio entro organismo. — Selmi sino dal 1840 ha discusso la questione se il calomelano può in presenza dei cloruri alcalini entro all’organismo trasformarsi in sublimato corrosivo, e giunse a risultato affermativo. Anche oggi giustamente si raccomanda di non far uso di ali- menti molto salati, quando si è preso il calomelano come medicamento. Egli studiò anche l’azione dell’albumina (vedi Bibliografia). Mialhe quasi contemporaneamente si occupava della stessa questione, ed il Ma- laguti nelle sue bellissime lezioni di chimica ricorda le ricerche di Mialhe e di Selmi: MM. Mialhe et Selmi ont prouvé, chacun de son còté, que la transformation du calomel en sublimé corrosif, par l’action des chlorures alcalins, peut avoir lieu à la température de 38° à 40° (température du corps humain), pourvu que l’on fasse intervenir des matières organiques. Ce fait est grave et doit étre pris en sérieuse considération par les médecins. (EF. MaracutI, Lecons éém. de chimie, 2° éd., 1858-60, I, p. 943). Ricerche sulle macchie di sangue. — Cristalli di emina. — Sulla forma- zione dei cristalli di emina per scoprire le macchie di sangue, il Selmi ha fatto nu- merose ed interessanti osservazioni, che sono state da lui pubblicate in una memoria: Sui cristalli di emina considerati qual mezzo più acconcio per iscoprire il sangue nei casi di perizia legale (£ Mem. R. Acc. Sc. di Bologna , (II), 1871, vol.I e “ Gazz. chim. ,, p.549 e riassunte anche nella Enciclop. Chim., 1871, t. V, p. 720. Ha indicato il modo migliore di operare per avere i cristalli, l'avvertenza di non mettere troppo cloruro di sodio, che può anche impedire la formazione dei cristalli di emina, ecc. Ha fatto vedere che alle volte si hanno cristalli di aspetto diverso. In quanto alla ricerca delle macchie sanguigne nelle stoffe sucide e tinte, fu argo- mento di studi per parte di Fr. Selmi, specialmente in un lavoro pubblicato nel 1879 (Enciclop. chim., Compl. e Supp., 1880, vol. II, pag. 574-575) (vedi anche Bibliografia). Da questo poco che io ho esposto si scorge subito che Selmi ha toccato tutti i punti principali della chimica tossicologica. 998 ICILIO GUARESCHI 104 IX. Chimica applicata all’agricoltura, all’industria, alla farmacia, ecc. Alcuni dei lavori di Selmi interessano l’agricoltura. E basterà che io ricordi le sue ricerche sull’azione dello solfo sull’oîdium, sul guano sardo, la traduzione delle lezioni di Chimica agraria del Malaguti, le ricerche sulla nitrificazione, quelle sul- l’azione fertilizzante delle muffe in causa del loro potere riduttore e dell’assorbi- mento dell’azoto atmosferico. Già nel 1844, quando era ancora a Reggio, lesse a quella Società di Agricoltura un lavoro circa i terreni più o meno proprii alla coltivazione del riso (1). Secondo Selmi i terreni meno atti a questo uso sarebbero i terreni gessosi, perchè da essi può prodursi del gas acido solfidrico derivante non solo dalla putrefazione di sostanze organiche, ma perchè il solfato di calcio ridotto a solfuro per successiva azione del- l’acido carbonico può dare acido solfidrico. Egli primo iniziò nel 1851 la traduzione delle Lezioni di chimica agraria del nostro Malaguti, allora professore nella Università di Rennes; queste lezioni diffusero in tutta Italia le notizie più importanti che riguardavano le applicazioni della chi- mica all'agricoltura. Nel 1855, per incarico di Cavour, intraprese insieme a Missaghi lo studio del guano sardo, e molte delle sue osservazioni egli comunicò alla R. Accademia di Agri- coltura di Torino, della quale il Selmi era socio sino dal 1851. Stabilitosi a Bologna e divenuto socio di quella Società Agraria, insieme ai suoi lavori di chimica tossicologica, ne fece non pochi importanti anche per l’agricoltura. E qui basti ricordare i lavori fatti d'accordo coll’Ercolani intorno all’azione ferti- lizzante delle muffe, le quali per il loro potere riduttore trasformano l’azoto dell’aria in ammoniaca, riducono lo solfo ed i solfuri in acido solfidrico, il nitro in ammo- niaca, ecc. Egli fece anche delle esperienze sui semi di frumento collo scopo di aumentarne la potenza produttiva, e propose di immergere i semi prima in una soluzione di per- fosfato calcico e successivamente in altra di carbonato potassico sino a perfetta neu- tralizzazione. Nè vanno dimenticate le sue ricerche sul caseificio. Assai interessante è ancora il suo libro Del vino, fabbricazione, conservazione, invecchiamento, difetti, malattie, ecc., con appendice sulle falsificazioni. Anche la chimica industriale deve qualche cosa al Selmi, e qui basti il ricordare le sue ricerche sull’elettrodoratura, la pila a triplice contatto, che fu sperimentata anche nei telegrafi dello Stato, ecc. Il suo Manuale dell’arte di indorare e d’inargentare coù metodi elettrochimici, ecc. ecc., pubblicato nel 1844, fu quasi subito tradotto in (1) Qualche riflessione chimica sui terreni e sulle acque che sono meno proprie a formare le risaie per ciò che riguarda lo svolgimento dei gas malefici. Memoria letta nella tornata del 27 giugno 1844 alla Società d’agricoltura di Reggio (vedi anche “ Nuovi Ann. di Scienze natur. di Bologna , (2), II, p. 93). 105 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 229 francese. La sua Chimica elementarissima, Torino, 1855, fu scritta per uso delle scuole d'arti e mestieri. Nel 1857 il Selmi insieme al Clementi fondò un periodico mensile 7 Tecnico, del quale si pubblicarono tre volumi (1857-1861) (1). DE Ricerche varie. Nulla sfuggiva alla sua attenzione, anche in quelle cose che sembrano tanto di- verse dagli argomenti che egli trattava in modo speciale. Nelle indagini intorno alla presenza dell’argento nei minerali metalliferi, ecc., di Malaguti, Durocher e Sarzeaud (1847-48), gli autori fecero notare come l’argento si volatilizzi facilmente in presenza di altri metalli, e come si abbia sempre una per- dita notevolissima di argento. Il Selmi (“ Ann. di Majocchi , (2), 1850, t. I, p. 133) fece subito osservare quanto segue: La facile e copiosa volatilità dell’arsento in compagnia di altri metalli non è fatto tanto nuovo, quanto si vorrebbe dagli autori. Hellot narra di avere osservato che due leghe una composta di 7 parti di zinco con 1 p. di oro, e l’altra di 21 p. dello zinco con 1 p. di argento, quando siano scaldate, vaporano per intero senza lasciare residuo di sorta. Nessuna meraviglia adunque, se perdesi molto argento volatilizzato dalle cadmie: fa piuttosto meraviglia che i metal- lurgici ed î chimici moderni non abbiano tenuto nel debito conto le vecchie osservazioni di Hellot (Nota di Fr. S.). Egli fermava la propria attenzione su tutte quelle reazioni o quei fenomeni di cui non sì sapeva dar ragione e che erano incompletamente studiati. Ad esempio riguardo la trasformazione dell'acido oleico in acido elaidinico, nel 1852 (annotazioni alla trad. del Regnault, Trattato di chimica, Torino, 1852, vol. IV, p. 623), faceva delle osservazioni interessanti, e a questo proposito scriveva: L’azione curiosa dell’acido nitroso sull’acido oleico, e quella trasformazione isomerica in cui lo induce, per cui si muta in acido elaidico, quantunque fosse studiata con qualche accu- ratezza da alcuni chimici, tuttavolta vorrebb’essere indagata più a profondo, affine di conoscere se consiste veramente in un’azione di contatto, o non piuttosto nell’opera di ossidazione in cui involga una parte dell’acido grasso, mentre per quel moto intestino che ne nascerebbe, altra parte, la maggiore, si risenta fino al punto di mutare il suo ordinamento molecolare. Depurazione del solfato ferroso. — A pag. 443 del vol. III del Corso di chimica del Regnault (1851) si trova l'osservazione seguente di Selmi: Quando si fa scorrere un afflusso d’idrogeno solforato in una soluzione di sale di perossido di ferro, l’idrogeno viene combusto da una parte dell'ossigeno del perossido, e però il solfo si (1) F. Selmi tentò di fondere la galena sotto uno strato di borace, di gittarla in istampi, per farne statuette e piccoli ornamenti di poco costo, inalterabili all’aria. Il nome di Selmi è ricordato anche nei più recenti trattati di Galvanostegia o di Elettrodoratura (veggasi, ad esempio, la Galva- nostegia di Gherzi e Conter, Milano, 1909, pag. 5). 230 ICILIO GUARESCHI 106 depone. Fu osservato da Fr. S. che questo solfo, raccolto da principio, purchè il liquido sia ben acido, suol essere plastico. Fu proposto questo mezzo dal suddetto Fr. S. per purgare il vitriolo del commercio, e ridurlo a puro solfato di protossido. L’idrogeno solforato serve come riducente, ed eziandio come scomponente del solfato di rame, che suol essere misto al vitriolo di ferro; si può sostituire l’idrato di solfuro di ferro all’idrogeno solforato, per detta puri- ficazione. Osservazioni sull’isomorfismo. — Non prive di interesse sono le sue osservazioni sull’isomorfismo, che trovansi nelle note alla traduzione del Corso di chimica del Re- gnault, vol. III, p. 456-461 e che il Selmi tolse dalla sua opera inedita Introduzione allo studio della chimica, premiata nel 1849 dalla R. Accademia delle Scienze di Torino. Sui cianuri d'oro. — Selmi ha attirato l’attenzione sul fatto abbastanza curioso che l'oro metallico si scioglie nel cianuro di potassio. Affinchè l’oro si sciolga nel cianuro potassico è necessaria la presenza dell'ossigeno. Selmi osservò la solubilità dell’ammoniuro d’oro nei cianuri alcalini ed alcalino-ferrosi, e dell’oro metallico diviso nei cianuri di ammonio, di bario, di calcio e di magnesio. Oltre al cianuro aurico e di potassio, scrive Selmi, si conosce eziandio il doppio cianuro di potassio e del protocianuro d’oro KCN.AuCN e così i doppi cianuri di sesquiossido d’oro col magnesio, calcio, bario ed ammonio. La formazione di questi cianuri doppi è anzi un esempio notevolissimo della forza di propensione che hanno certi corpi a costituirsi in doppi composti, perchè nascono dalla reazione del cianuro alcalino semplice nell’ammoniuro d’oro, reazione che non si effettua senza lo spostamento di ammoniaca, la separazione di calce, magnesia e basite, libere, e la conseguente cianurazione dell’oro. Fr. S. pubblicò in proposito una memoria negli “ Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino , (V. Bibliografia). XI. Trattati. — Traduzioni. — Enciclopedia di Chimica, ecc. In Selmi è sempre stato vivissimo il desiderio di diffondere le cognizioni chi- miche nel proprio paese. Egli non era di quei chimici che si rinserravano nella stretta cerchia delle loro ricerche sperimentali, sdegnando quasi di far partecipi del loro sapere anche gli umili, e di diffondere gli elementi di una scienza pur tanto utile in tutti i rami dell'umano sapere e della vita pratica. Il Selmi seguì in ciò l'esempio di grandi chimici stranieri e specialmente del Liebig; ed anche sotto questo riguardo va data ampia lode al nostro chimico. Nel 1850-51 pubblicò due manuali di chimica assai preziosi, ed oggi divenuti rari: Principi elementari di chimica inorganica, Torino, 1850, e Principi elementari di chimica organica, Torino, 1851. Del primo si fece nel 1856 una seconda edizione. Fino dal 1844 aveva compilato un manuale di elettrodoratura che fu tradotto in francese dal Valincourt e nel 1856 insieme al Valincourt, Mathey e Malepeyre pubblicò il Nouvel manuel de dorure et argenture par la méthode électrochimique, ecc. Un libro che valse a diffondere le nozioni di chimica più elementari, special- i 107 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 291 mente nella classe operaia, in quel tempo in cui si fondavano in Torino le prime scuole pel popolo, è la sua Chimica elementarissima, Torino, 1855. Nel 1851-1852, insieme all’Arpesani, tradusse il Corso elementare di chimica del Regnault, in 4 vol., Torino, €. Pomba. È questo un prezioso libro che il Selmi ornò con saggezza ed erudizione di numerose ed importanti note ed addizioni. Ed ancor oggi è lodatissimo da chimici di gran valore, quale il Le Chatelier. Questo libro ebbe - notevole influenza sulla diffusione delle cognizioni chimiche in Italia dopo il 1850 (vedi la Bibliografia, n. 259). Ho già detto che Selmi nel 1850 tradusse le prime Lezioni di chimica agraria del grande Faustino Malaguti, allora professore di chimica nella Università di Rennes, e tanto piacquero queste prime lezioni di chimica agraria, che subito dopo altri tradussero le lezioni che il Malaguti di mano in mano pubblicava. Stupende sono le brevi prefazioni che il Selmi scrisse per questi due libri del Regnault e del Malaguti. Pure in quel tempo il Selmi fece delle annotazioni alle celebri Lettere sulla chimica del Liebig, che erano state tradotte da Leone. Però l’opera sua, più vasta e di utilità più generale pel proprio paese, fu la Enciclopedia di chimica scientifica e industriale, in 11 grossi volumi in 4° e 3 vol. di Complemento e Supplemento, iniziata nel 1867 e terminata nel 1881; il terzo volume del Complemento e Supplemento fu diretto dal prof. Guareschi, e tutta l’opera termi- nata nel 1882. Questo immenso lavoro assorbì buona parte della grande attività del nostro chimico. XII. Epistolario. Io posseggo un numeroso carteggio che incomincia col settembre 1870 e termina col luglio-agosto 1881. Molte di queste lettere sono assai interessanti per la storia della chimica e dei chimici, tutte poi importantissime per la spigliatezza e la bellezza dello scrivere; alcuni brani qua e là ho pubblicato nella biografia, ma tutto il resto ora non deve vedere la luce. Rimando ad altro tempo la pubblicazione dell’epistolario. Sarò grato a tutti coloro che avranno la bontà di farmi conoscere o di mandarmi delle lettere del nostro chimico (1). Nella revisione e correzione delle bozze di questo lungo lavoro, mi fu di valido aiuto mio figlio Pietro, che ringrazio. (1) Selmi era socio o membro corrispondente di tutte le principali Accademie o Società, scien- tifiche italiane ed anche di moltissime straniere, come, ad esempio: membro dell’Accademia di Medicina, della Società di Farmacia e della Società d’Igiene di Parigi, ecc. ICILIO GUARESCHI 108 Do I DO XIII. Bibliografia. NB. Questa bibliografia, che posso dire quasi completa, almeno nella parte più importante, fu da me raccolta sino dal 1881-1882, quando un collega del Selmi doveva farne la commemorazione alla R. Accademia dei Lincei, della quale il Selmi era Socio corrispondente da moltissimi anni; ma quella commemorazione non fu mai È mio dovere il dire che la raccolta bibliografica dei lavori del Selmi, special- mente relativa a quelli letterari, pubblicata dal Prof. Tommaso Casini negli “ Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie modenesi , (IV Serie), vol. X, 1901, pagg. 391-416 e che comprende 186 pubblicazioni, mi è stata utile per completare questo mio lavoro. 1. Conservazione dei cadaveri nella loro integrità col naturale colorito ed iniezioni fino ad ora da altri non ottenute. (Giorn. lett.-scient. mod., aprile 1840, t. II, pp. 46-48). 2. Bollettino di chimica farmaceutica, compilato da G. C. DeL Bur, osservazioni. (Giornale letterario-scientifico modenese, sett. 1840, t. II, pp. 462-468). Nel cenno biogr. di Selmi dato da Cantù: L'Italia scientifica contemporanea, Milano, 1844, trovo le seguenti parole: “I suoi studi scientifici non furono semplici ripetizioni di prove già fatte, ma introdus- sero a nuove conseguenze, tra queste voglionsi nominatamente citar l’esistenza di un ossido di ferro, superiore ai conosciuti sinora, sospettato da lui e tentato (“ Bollettino farmaceutico ,) da Del Bue: ma dai tentativi di trovarlo lo scoraggiò quell’indifferenza o piuttosto quel disprezzo che trova fra noi chi esce dalle vie trite; e quattro mesi dopo fu scoperto da Fremy in Francia. Era l’acido ferrico Fe0? ,. 3. Intorno all’azione dei cloruri d’ammonio e di sodio sul cloruro mercuroso. Nota 1°. (Giornale letterario-scientifico mod., dic. 1840, t. III, pp. 222-229). — Ann. di Majocchi, 1864, II, pp. 52-63. Una nota di Selmi su questo argomento fu presentata al Congresso degli scienziati in Firenze 1841 dal D.r Buonamici. La conclusione del lavoro era: “che alla temperatura ordi- naria è cloruri alcalini suddivisati convertono il mercurio dolce in sublimato corrosivo ,. Il Selmi tende a provare che i cloruri alcalini in soluzioni concentrate non solo decompongono a freddo il calomelano, ma ancora che non valgono a sciogliere calomelano indecomposto, come opina il Prof. Peretti (Ann. di Majocchi, 1841, III, p. 276, nei rendiconti del Congresso di Firenze). Il Dott. Semmola, il Piria ed il Cassola in Napoli hanno poi ottenuto risultati con- simili a quelli esposti dal Selmi (Ivi, loc. cit., p. 278). La prima memoria di Selmi intorno all’azione che l’albumina esercita sul calomelano fu pre- sentata dal Cenedella al Congresso degli Scienziati in Firenze nel 1841. Fu nominata una Com- missione composta dal principe Luigi Bonaparte, Peretti e Cozzi per prendere in esame i fatti 109 MRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 239 principali contenuti in quella memoria (Ann. di Majocchi, 1841, f. ITI, p. 268). Su questo argomento tanto importante per l’incompatibilità delle sostanze tossiche e medicamentose il Selmi ha poi pubblicate altre note. Nota 2* e 8° (Giorn. letter.-scient. modenese, f. III, febb. 1841, pp. 371-781 e dic. 1841; Opuscoletto in-8° di pp. 16, Modena, dic. 1841, e Ann. Majocchi, 42, f. VII, p. 706). La nota 2% Intorno all’azione dei cloruri di ammonio e di sodio sul cloruro mercuroso con annotazioni di Abbene, Torino, 1841, opuscolo in-8° di pp. 16, è estratta dal “ Giornale delle scienze mediche ,, ove appunto fu descritta la nota 2° del Selmi colle annotazioni di Abbene. 4. Intorno all’azione dei cloruri alcalini sopra il mercurio dolce (Selmi, Larocoun e MIALAR). (Ann. Majocchi, 1844, XVI, pp. 177-184). Verhalten des Calomels zu alkalischen Chlormetallen. (Arch. d. Pharm., LXXVII, p. 75). (A | 6. Sur l'action des chlorures alcalins sur le calomélas (Lettre de M. Fr. Selmi è M. Mialhe). (Journ. Pharm. Chim., 1844 (II), V, pp. 130-132). Porta nuovi argomenti e nuove esperienze che dimostrano la trasformazione del calome- lano in sublimato corrosivo per l’azione di soluzioni concentrate di NaCl; meglio se in pre- senza di albumina ed anche quando il liquido è acidulato con acido acetico. 6%. Conservazione del latte. : (“ Museo scient. lett. ,, Torino, 1841, vol. III, p. 95). Il manoscritto di questo lavoretto si conserva nella Biblioteca civica di Torino. Già quando era a Reggio il Selmi scriveva degli articoli per giornali piemontesi di indole liberale, quale era appunto il “ Museo ,. V. Bibliogr. letteraria. 7. Intorno ai lattati calcico e ferroso. Nota. (Giorn. letter.-scient. mod., 1841, t. III, pp. 165-469). Annotazioni al Regnault, vol. IV. 8. Nuovo processo per la preparazione dell'acido lattico e suoi sali, ma specialmente dei lattati ferroso e ferrico. (Ann. Majocchi, 1841, III, pp. 242-251). Prepara l’acido lattico dal lattato di calcio coll’acido ossalico, e il lattato ferroso per l’azione dell’acido lattico sul ferro a non più di 40°-459. 9. Intorno all’azione dei cloruri di ammonio e di sodio sul cloruro mercuroso coll’intermezzo dell’albumina. (Foglio di Modena, Anno II, N. 115, 8 agosto 1842). 10. Sopra un nuovo metodo per depurare il vetriolo di ferro. Nota. i (Ann. Majocchi, 1842, V, pp. 329-330. Annotazioni alla trad. del Trattato di Chim. del Regnault, vol. II, p. 443). A questa fece seguito un’altra Nota: Intorno alla depurazione del vetriolo di ferro coll’idro- geno solforato, diretta al ch. Merosi prof. di chim. farm. nel R. Liceo di Reggio da Fr. Selmi sostituto al medesimo. (Foglio di Modena, 1843, Ann. II, 30 giugno, N. 208). Serre II, Tox. LXII. el 234 i ICILIO GUARESCHI 110 11. Studi sopra l’albumina. Indagini intorno la combinazione che forma il cloruro mercurico coll’albumina. Memoria. (Ann. Majocchi, 1842, VI, pp. 3-24). Le conclusioni principali di questo lavoro importante sono dal Selmi riassunte in una nota (9) della sua traduzione del Traité de Chimie del Regnault, Torino, 1852, tom. IV, pp. 540-541. 12. Sulla costituzione dei solfocloruri. (Lettera di arsomento chimico diretta al dott. I. A. Cenedella). (Foglio di Modena, Ann. I, N. 94, 1842). Ha poca importanza. 13. Considerazioni sopra i vocaboli precipitazione e coagulazione e riflessioni sulla diversa signi- ficazione da attribuirsi ai medesimi in riguardo agli albuminosi. Modena, 1843. Già sino dal 1842 (Ann. Majocchi, VI, p. 22) il Selmi giustamente scriveva: “ Io insisto, scrive Selmi, sulla differenza dei vocaboli che si devono adoperare quando si vuole esprimere che una sostanza albuminosa dallo stato di solubilità è passata a quello di insolubilità. In tutti i libri di chimica, quando si ha a dire che l’albumina od un suo congenere diviene insolubile per la reazione di qualche acido, o d’un sale, si serive per lo più indifferen- temente che viene precipitata 0 ‘coagulata. Ciò non è esatto, poichè la parola coagulazione non significa un cambiamento di stato per combinazione, ma per turbamento molecolare. Molti reattivi precipitano e coagulano sostanze albuminose secondo il grado di loro concentrazione, o secondo le circostanze in cui si trovano; altri le coagulano, altri le precipitano solo. Si distingue se la sostanza albuminosa è precipitata o coagulata, quando togliendole il corpo che operò nella mede- sima il cangiamento di stato, essa sì ridiscioglie o rimane pienamente insolubile ,. 14. Considerazioni intorno alla nomenclatura degli ossidi metallici e varie proposte di alcune modificazioni alla stessa. (Ann. Majocchi, 1842, VII, pp. 10-22). Nota di poca importanza. 15. Sulle combinazioni dell’jodio con alcuni corpi binari. (Atti Scienz. Ital., 1842, pp. 421-422). 16. Sopra alcuni cloramiduri di mercurio. (Comunicazione fatta alla R. Acc. il 22 marzo 1848). (Mem. R. Ace. Scienze di Modena, 1858, t. I, parte III e IV, p. xxxI e xxxIII). 17. Sunto di varie esperienze intorno all’azione che reciprocamente esercitano l’iodio, Vacido iodidrico e vari binari. (Ann. Majocchi, 1848, XI, pp. 251-258). 18. Précis d’expériences diverses sur Vaction que l’iode, l’acide iodhydrique et certuins binaires exercent les uns sur les autres. Extrait d’une lettre adressée au rédacteur en chef par M. Frangois Selmi. Reggio (Duché de Modène) 30 nov. 1843. (L’Institut, 1844, XII, pp. 6-7. — Ann. de Millon et Reiset, 1845, pp. 60-61). È pressochè lo stesso lavoro precedente. 19. Lettre en réponse à une phrase contenue dans un récent mémoire communique par M. Millon à l’Acad. des Sciences de Paris. Sur la solubilité de ce corps dans les liqueurs alcalins. (L’Institut, 1844, XII, p. 412). Discorre dell’azione del jodio sul cloruro mercurico e dell’emetico. Cita gli Ann. di Se. Nat. Bol., luglio e agosto 1844. DO (DO) UL 111 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 20. Studì intorno all’azione del jodio sopra il clorido di mercurio. (Atti Congressi di Padova e Lucca, e Ann. Majocchi, VI, p. 207; IX, p. 251; XII, p. 140). 1 (Studî sper. e teor. di chim. mol., fase. I-II, pp. 29-80; 1845). 21. Intorno agli acidi anidri, agli. acidi idratati, all'ufficio che compie l’acqua nelle combina- zioni coi medesimi e cogli acidi in genere, ed alla costituzione del tartaro emetico. Memoria diretta in forma di lettera al sig. Prof. Bartolomeo Bizio, presentata alla R. Accad. delle Scienze di Modena il 24 febbraio 1843. (Mem. R. Ace. Scienze di Modena, 1858 (1), t. II, pp. 106-128). È interessante assai. 22. Memoria di Fr. Selmi sugli acidi anidri e sugli acidi idratati ecc., Modena, 1843, Tipo- grafia Soliani. Questa parrebbe fosse identica alla Memoria del N. 21, ma non credo, perchè il brano di questa memoria citato dal Selmi nelle Annotazioni al Regnault, vol. IV, p. 554, non si trova nella memoria col titolo medesimo al N. 21. Forse è la stessa citata al N. 28 della bibliogr. del Casini, il cui titolo è: Memoria sull’ufficio che compie l’acqua nelle chimiche combinazioni cogli acidi e colle basi, e sulla costituzione del tartaro emetico, Modena, 1843. Il Casini nota: È citata in più altri lavori del Selmi, ma non si è potuto vederne alcun esemplare. 23. Preparazione dell’acido jodidrico. (Ann. Majocchi, 1844, XIV, pp.-20-25). Il metodo consiste nel fare agire il gas acido solfidrico sul jodo suddiviso mediante il vapore d’acqua. L'apparecchio usato è ingegnoso. L’acido che si ottiene è molto concentrato. Il gas solfidrico incontra il vapore di jodo quando esce col vapor d’acqua. 24. Sullo stato del jodo nei joduri jodurati e sullo sviluppo di acido solfidrico per l’azione del- l’acido solforico sull’acido jodidrico. Nota ad una memoria di Labouré. (Ann. Majocchi, 1844, XIII, pp. 205-208). L’autore ricorda come egli sino dal 1848 (Atti R. Ace. Scienze di Modena, t. II e Rendic., anno 1843) aveva dimostrato che nelle soluzioni dei joduri jodurati il jodo vi esiste allo stato libero. Egli afferma che la soluzione di jodo nella soluzione concentrata di joduro di potassio si comporta coll’acqua nello stesso modo della soluzione alcalina di jodo. Il Labouré ha riconosciuto che per l’azione dell’acido solforico concentrato sui joduri solubili si sviluppa dell’acido solfidrico ed il Selmi fa notare come egli nelle Esperienze intorno all’azione dell'acido solforico sull’acido jodidrico (Ann. Majocchi, 1843, XI, p. 251) aveva dimostrato che nelle stesse condizioni appunto si produce anche dell’acido solfidrico e spiega come questo acido possa formarsi. 25. Intorno al jodido mercurico in soluzione (Sur le iodide de mercure en dissolution). (Ann. Majocchi, 1844, XIII, pp. 157-166; 233-242. — L’Institut, 1844, XII, pp. 102-104. — Ann. de Millon et Reiset, 1845, pp. 155-156. — Studi teor. esperim. di chim. mol., fase. III-IV, pp. 91-134). I fatti registrati in questa memoria furono annunziati in due lettere alla R. Acc. di Modena nelle sedute 19 dic. 1843 e 26 gen. 1844. In gran parte questa memoria è riprodotta nei suoi Studi di chim. molecolare. 236 ICILIO GUARESCHI 112 26. Alcune ricerche fatte sulla elettrodoratura, del sig. prof. Francesco Selmi di Reggio. (N. Ann. Scienze Nat., Bologna, 1844 (2°), I, pp. 307-813. — Ann. Majocchi, XIV, 1844, pp. 333-395). E È un lavoro non privo di interesse per la storia della elettrodoratura e per la tecnica. Questo lavoro porta anche il titolo: Qualche ricerca sulla elettrodoratura. (V. anche: Ann. Majocchi, 1845, XVIII, p. 282). DO SI . Sulle varie costituzioni attribuite agli emetici. (N. Ann. d. Se. Nat., Bologna, 1844 (2), II, pp. 84-92. — Ann. Majocchi, 1845, XVII, pp. 172-179. — Aggiunte alla nota sulla costituzione del tartaro emetico, ivi (2), II, pp. 821-327). Le sue considerazioni sulla costituzione del tartaro emetico per quanto vecchie conservano ancora un vero interesse storico (V. anche Annotazioni al Regnault, 1852, t. IV, pp. 564-568). 28. Qualche riflessione chimica sui terreni e sulle acque che sono meno proprie a formare le risaje per ciò che riguarda lo svolgimento dei gas malefici. Nota letta alla Soc. d’Agrie. di Reggio il 27 giugno 1844. (N. Ann. Sc. Nat., Bol. (2), II, pp. 93-95. — Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 268-265). 29. Doppi solfuri ferroso-potassico e ferroso-sodico. Nota. (Ann. Majocchi, 1844, XVI, pp. 190-192. — N. Ann. Sc. Nat., Bologna (2), II, pp. 401-403. — Atti Sc. Ital., 1844 (pubbl. 1845). — Ann. Millon et Reiset, 1846, p. 128). 30. Sopra il solfo precipitato. (Ann. Majocchi, 1844, t. 15, pp. 88-91). Questo lavoro era già stato comunicato sino dal 80 marzo 1844 alla R. Acc. di Scienze, Lettere ed Arti di Modena. Qui già discorre dello solfo emulsionato. Scopre lo solfo molle ottenuto per via umida; l’ottenne nelle reazioni fra l'idrogeno solforato coi vapori nitrosi e col biossido di azoto. 51. Proposta del solfo emulsionato come rimedio terapeutico. (Ann. Majocchi, 1844, t. 15, pp. 212-213). In questo suo lavoro ottenne lo solfo molle ed elastico ossia SY, in istato di grande divi- sione, emulsionato nell’acqua e lo propone come medicamento. 32. Studio sulla struttura delle molecole saline. (Studî sperim. e teor. di chim. mol., fase. III-IV, pp. 185-176). Discorre delle varie teorie sulla costituzione dei sali. 39. Sugli ossicloruri di mercurio. Nota. (Ann. Majocchi, 1844, XVI, pp. 276-278. — Journ. Pharm. Chim., V, 1844, pp. 130-132). Si collega coi N. 34 e 42. Ricorda altri casi in cui ha molta influenza il solvente nelle reazioni chimiche. 34. Alcune considerazioni intorno a certi curiosi fenomeni notati da E. Fremy nella memoria sugli ossidi metallici. (N. Ann. Sc. Nat., Bologna, 1845 (2) III pp. 197-215. — Ann. Majocchi, XIX, 1845, pp. 239-254). el FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 237 È un lavoro che contiene delle interessanti considerazioni teoriche. Accenna all’influenza delle vibrazioni molecolari, che egli chiama anche: Influenza delle particole in movimento nel produrre chimiche reazioni. Gran parte di questa nota è da lui riprodotta nella sua bella Dis- sertazione sull’azione di contatto scritta nel 1846 e pubblicata nel 1848. Il Selmi ha spesso fatto notare le reazioni dirette e inverse che avvengono secondo lo stato di concentrazione dei liquidi, come, ad esempio, le decomposizioni e ricomposizioni che vide effettuarsi nelle soluzioni miste di acido jodidrico e di acido arsenico le quali accadevano in modo diverso secondo il grado di concentrazione del liquido (V. anche “ Ann. Majocchi ,, XII, 1844; e il N. 41 seguente). 35. Fatti per servire alla storia del solfo e delle emulsioni inorganiche. (Ann. Majoechi, 1844, t. XV, pp. 235-250). N. B. È questo il lavoro che in riassunto fu da lui letto al Congresso degli Scienz. Ital. nel 1844 in Milano col titolo: Intorno al solfo elastico ed alle emulsioni inorganiche. (Atti Congr. Scienz. Ital., 1844, Milano, 1845, pp. 159-161. — Ann. Majoechi, 1845, XVII, pp. 138 e 276 (riassunto brevissimo) ). Questo lavoro è riassunto col titolo: Sur les différents états du soufre, in: “ Ann. de Millon et Reiset ,, 1846, pp. 48-49. 36. Reazioni speciali del bicloruro di mercurio. (Ann. Majoechi, 1844, XVI, pp. 318-319). 37. Sur la solubilité de Viode dans les liqueurs salins. (L’Institut, 1844, XII, p. 412). 38. Indagini sulla solubilità del’ammoniuro d’oro e dell’idrato aurico nei cianuri d’ammonio, calcio, bario e magnesio. (Atti Scienz. Ital., 1844, pp. 144-146. — L'’Institut, 1845, XIII, pp. 38-39. — Ann. Ma- jocchi, 1845, XIX, pp. 140-147; 257-264. — Ann. Millon et Reiset, 1846, pp. 379-380. —- Studi sperim. e teor. di chim. mol., I-II, pp. 1-28. — Ann. Italiano, di Selmi, II, pp. 125-136. — Re- enauur, Arnot., II, p. 461. — WarkeR, Zlectr. Mag., IL, 1846, pp. 13-14). Queste ricerche trovansi riassunte da lui anche nell’ Enciclopedia chimica, 1870-71, t. IV, pp. 440-441. Accennò anche ad alcune inesattezze in cui erano caduti vari autori relativamente alla preparazione del cianuro ammonico (loc. cit., p. 397). Le ricerche sulla soluzione dell’ammoniuro e dell’idrato aurico nei cianuri alcalini e alca- lino-terrosi furono comunicate dal Selmi al Congresso di Milano nel 1844 (Atti Congr. Scienz. Milano, 1844, p. 144-146). Anche-i cianuri ammonico, calcico, magnesico e baritico sciolgono l’oro metallico diviso. 39. Studi sopra lazione che i cianuri ammonico, calcico, magnesico e baritico esercitano collm’a- moniuro, clorammoniuro ed idrato d’oro. (Mem. R. Ace. Torino, 1849, X, pp. 93-110). Questa memoria si connette strettamente col N. 38. Vi sono osservazioni interessanti, come quella, ad esempio, -che i cianuri alcalini sciolgono molto più prontamente l’ammoniuro d’oro che non l’idrato aurico. 40. Sul limonino. (Ann. Majoechi, 1844, XVI, pp. 312-313). Ha poca importanza. 23 ICILIO GUARESCHI 114 (0.0) 41. Intorno all’azione dell’acido solforico sull’acido jodico e prodotti che ne risultano. Nota. (Ann. Majocchi, 1845, t. XVII, pp. 47-50). In questa Nota vi sono delle osservazioni interessanti riguardo l’influenza del solvente nel modificare le chimiche affinità. A pag. 48 scriveva: “ 3° Riflessione giustissima e degna di essere registrata nei trattati di chimica è quella che riguarda l'influenza dell’intermezzo nel modificare le chimiche affinità. Qui mi sia. permesso di ricordare che, discutendo sulle esperienze di Pelouze in un mio scritto pubblicato nel feb. 1843 (Memoria sull’ufficio che compie l’acqua nelle chimiche combinazioni cogli acidi e colle basi e sulla costituzione del tartaro emetico, Modena, 1848), attribuii pure all’influenza del menstruo le curiose scomposizioni operate dal Pelouze sugli acetati sciolti nell’alcole, facendovi gorgogliare l’acido carbonico. Inoltre aggiungerò che, a mio credere, non solo la qualità dell’ intermezzo, ma eziandio la quantità, quando trattasi di solvente, esercita un’influenza ben considerevole per modificare le azioni attrattive dei corpi fra loro. L’acqua in copia maggiore o minore può dar luogo a scomposizioni o ricomposizioni degli stessi corpi fra loro, di guisa che con una pro- posizione A si abbia una data reazione, con una proposizione B la reazione inversa. Ben devesi intendere che tali quantità non sono propriamente atomiche, ma solo ristrette a certi limiti. più o meno lati, secondo la natura dei reagenti o dei prodotti della reazione. A molt’acqua, per esempio, l’acido solforoso fa sparire il jodio e lo trasforma in acido jodidrico, mentre esso stesso diventa acido solforico; svaporando parte dell’acqua, il liquido sì colora, e manifesta al colore, all’odore, alla carta d’amido, le qualità proprie all’iodio libero. Operando convenevol- mente, coll’aggiungere l’acqua svaporata, l’ iodio compare di nuovo. Così l’acido arsenioso e l’iodio dividono nei suoi elementi la molecola dell’acqua, ed il primo cangiasi in acido arsenico, il secondo in acido iodidrico: concentrando il liquido, l’iodio ricomparisce e lo colora; allungandolo di nuovo, l’iodio sempre scompare. Dalla diversa quantità del menstruo dipendono adunque le diverse scomposizioni e rieomposizioni, e ciò intendesi non per la semplice sua influenza, ma per quella del veicolo più o meno concentrato che si forma, in mezzo al quale le affinità dei corpi sciolti rimangono modificate, e quindi nasce un nuovo modo di agire. L'influenza della qualità dell’intermezzo non solo, ma anche della quantità dev'essere da qui innanzi tenuta più in conto di quanto si fece fino ad ora, e così avremo eziandio ragione di quelle arcane alte- razioni di certe sostanze disciolte, le quali sebbene composte di principii congiunti da energica attrazione, tuttavia, per la semplice addizione di copia maggiore del dissolvente, si separano nei loro costituenti, come, a cagione di esempio, alcuni sali di perossido di ferro, di protossido e di biossido di mercurio, d’ossido di bismuto, ece. ,. 42. Influenza della qualità e quantità del menstruo nei fenomeni dell’affinità chimica. (Ann. Majocchi, XVII, pp. 48-49). Queste giustissime osservazioni sono quelle riprodotte nel numero precedente. 43. Apparecchio per la preparazione sollecita del carbonato ferroso, del protossido di ferro e di altri composti insolubili dai quali si debba escludere la presenza dell’aria. (Ann. Majocchi, 1845, t. XVII, con 1 fig., pp. 307-309). L’autore scaccia l’aria coll’acido carbonico ed usa un apparecchio semplice che potrebbe servire ancora oggi. 44. Sur la décomposition du biiodure de mercure par le chlore. (L’Institut, 1845, XIII, N. 581, p. 67. — Ann. Millon et Reiset, 1846, p. 218). 115 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 239 45. Svolgimento dell'idrogeno solforato nelle decomposizioni del cloruro e bromuro di solfo al contatto dell’acqua. (Ann. Majocchi, 1845, XVII, p. 288). Esperienze analoghe ha poi fatto il Berthelot (A. Oh. (8), 1857, t. 49, p. 452). 46. Formazione dell'idrogeno solforato e del polisolfuro di idrogeno nella scomposizione degli iposolfiti. (Ann. Majocchi, 1845, XVII, p. 292-293 e XVIII, p. 284). Im questo breve lavoro l’autore dimostra che per l’azione dell’acido solforico più o meno concentrato sulle soluzioni concentrate, di iposolfito di sodio si produce non solamente del gas solforoso e dello solfo, ma si sviluppa anche dell’acido solfidrico e si produce del polisolfuro di idrogeno. Inoltre fa notare che lo solfo che si forma è solfo molle: “ Mescolando, scrive, alla solu- zione concentrata di iposolfito di soda una buona proporzione di acido solforico, agitando rapi- damente la mescolanza, neutralizzando parte degli acidi liberi con alquanto di carbonato potassico puro, e raccogliendo i grumi di solfo galleggianti sul liquido, in seno del quale le varie reazioni furono compiute. Quei grumi di solfo, molle, vischioso, attaccaticcio, lavati con acqua, asciu- gati fra carta..... ,. 47. Sulla produzione dell'acido solfidrico per mezzo del solfo, dell’acido solforoso e dell’acqua. (Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 284-285). È una continuazione della nota sullo sviluppo di H*S nella decomposizione del cloruro e bromuro di solfo coll’acqua, e dell’altra sulla formazione di idrogeno solforato e del polisolfuro di idrogeno nella decomposizione degli iposolfiti. 48. Osservazioni sulla costituzione dei sali neutri (Nota ad alcune osservazioni di Guibourt). (Ann. Majocchi, 1845, XVIII, p. 275-278). 49. Intorno all’azione del’ammoniaca nel protocloruro di mercurio. (Ann. Majocchi, 1845, XX, pp. 186-188). 50. Acido valerianico e valerianati: nuovi lavori sopra questi corpi. (Ann. Majocchi, XVII, 1845, pp. 89-95; 200-205). ol. Alcune osservazioni alla memoria di Cahours: Ricerche sulla densità di vapore dei corpi composti. (Ann. Majocchi, XIX, p. 288). 52. Intorno all’azione dell’iodio sopra il clorido di mercurio. Memoria prima. Parte prima. (Atti Congr. Scienz. It., 1843, p. 220-222. — Ann. Majocchi, 1845, XVII, pp. 243-259). In questa memoria accenna anche alle esperienze fatte sino dal 1842 (Ann. Majocchi, VII, p. 207 e Atti Congr. Padova, 18483). 58. Intorno all’azione del jodio sul sublimato corrosivo. Memoria prima. Parte seconda. (Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 19-27 e 118-131). 54. Intorno all’azione del jodio sul sublimato corrosivo. Memoria seconda. (Ann. Majocchi, 1846, XXI, pp. 49-59 e 123-131). 240 ICILIO GUARESCHI 116 55. De Vaction de Viode sur le sublimé corrosif (Lettre de M. Selmi, de Reggio, à M. Millon). (Journ. de Pharm. e Chim. (3), X, 1846, pp. 346-349). È pressochè lo stesso lavoro che il precedente. 56. Sulla generazione dell’etere. Nota. (Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 203-204). 57. Sulla preparazione del nitrato d’argento. (Ann. Majocchi, 1845, XIX, pp. 311-312). Il metodo consiste nello sciogliere l’arsento monetato nell’acido nitrico e nel tener conto dell’insolubilità del nitrato d’argento nell’acido nitrico stesso concentrato. Il nitrato di rame si scioglie nell’acido nitrico. Si lavano i cristalli su imbuto con poco acido nitrico e a riprese: ed il nitrato d’argento rimane privo affatto di rame. 08. Studi sulla dimulsione di cloruro d’argento. (N. Ann. Sc. Nat. Bologna, 1845 (2), t. IV, pp. 146-156. — Ann. Majocchi, 1846, XXIV, pp. 225-230, 1847, XXV, pp. 43-46. — Enciclop. Chim., Compl. e Suppl., 1879, t. I, p. 764). Distingue la dimulsione dall’emulsione e dalla pseudosoluzione. È questa la prima o una delle prime osservazioni sullo stato colloidale del cloruro d’ar- gento. Sarebbe ciò che oggi si dice un sospensoide. Ecco quanto Egli scriveva nel 1851 in una nota alla trad. del Regnault, Lorso di Chi- mica, vol. III, p. 461, circa il cloruro d’argento: 1° Che il cloruro d’argento stemperato in soluzione di sublimato corrosivo od imbevuto della medesima non muta più di colore, qualora si esponga all’azione diretta dei raggi luminosi. 2° Che se si stempera finamente nell’acqua e vi rimane sospeso quando sia acqua pura; ma certi acidi e sali, e in ispecie il nitrato d’argento, lo fanno raccogliere a fiocchi e preci- pitare rapidamente. Sembra che la ragione stia in questo: che il detto nitrato, come gli altri acidi e sali si appigliano alle particole del cloruro d’argento, come certi corpi solubili all’allu- mina, al carbone, ecc. e però l’inducono a congregarsi. 59. Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare (dall'anno 1843 al 1846), Modena, Tip. C. Vincenzi, 1846, in-8°, pp. xvi-176. Sono due opuscoli molto importanti (v. il capitolo II). Il Selmi nelle condizioni dell’associazione per la pubblicazione di quest'opera aveva accen- nato di voler pubblicare anche i fascicoli V e VI, ma, a quanto io so, non furono mai pub- blicati. “ Nei fascicoli 5° e 6°, scriveva egli, si comprenderanno gli studi sperimentali e teorici intorno al solfo in emulsione ed in dimulsione, al solfo molle e plastico, alla dimulsione di clo- ruro d’argento, ecc. ,. Questi lavori però furono pubblicati nei giornali scientifici. Questi studi di chimica molecolare dovevano essere raccolti in un volume solo di circa 350 pagine. 60. Intorno all’azione di contatto. (Dissertazione scritta nel 1846 ed esposta in forma di lezioni nella Scuola di Chimica del Liceo di Reggio). (Giorn. Scienze Mediche, Torino, 1848, opuscolo di p. 73). È importante ! Si vegga anche Dell’azione di contatto, in Annotazioni al Regnault, 1852, t. IV, pp. 688-694. potcniti ra_ce—raneoa e = i inni | 117 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 241 61. Cenno di alcuni studi sul latte. (Atti Scien. Ital., 1846, pp. 348-349. — Il Cimento, IV, 1846, pp. 240-246 e 537-543). 62. Modo d’azione del solfo allorquando è introdotto nell'organismo. (Ann. Majocchi, 1846, XXIII, pp. 204-205). 63. Assaggi delle potasse, analisi delle sode e cose relative a questi due alcali. (Ann. Majocchi, 1846, XXI, pp. 92-96; XXII, 1846, pp. 313-315; XXIII, 1846, pp. 86-89). 64. Recherches sur laction de la présure dans la coagulation du lait. (Journ. de Pharm. et de Chim., 1846, IX, pp. 265-267 e X, p. 458. — 0. R. des trav. chim. de Gerhadt, 1846, p. 366. — Rev. Sc. et Ind., 1846 (2), X, 373. — Ann. Majocchi, 1846, XXII, pp. 273-274. — Ann. de Millon et Reiset, 1847, pp. 732-733). 65. Alcune cose di chimica fisiologica raccolte e commentate sull’ematosina, a proposito del trat- tato di chimica organica di Gioacchino Taddei. (N. Ann. Sc. Nat., Bologna, 1846 (2), V, pp. 142-152). 66. Qualche altra parola sull’ematosina. (N. Ann. Sc. Nat., Bologna, 1846 (2), V, pp. 269-271). 67. Sulla coagulazione del sangue. (Ann. di Chim. Polli, 1846, t. III, pp. 40-46). 68. Intorno allo solfo ottaedrico. (N. Ann. Se. Nat., Bologna, 1846 (2), VI, pp. 36-37). 69. Indagini intorno allo solfo, ulteriori a quelle che furono comunicate alla sezione di chimica nel 6° Congresso (Comunicazione fatta alla sezione di chimica dell’8° Congresso Scientifico italiano). (Atti Congr. Sc. Ital., 1846. — Ann. chim. ital., II, 1847, pp. 1-3). E assai interessante. 70. Note sur Vacide hypochloreux. (Ann. di Selmi, 1846, p. 45. — Ann. di Millon et Reiset, 1848, p. 28. — Ann. chim. ital., 1847, II p. 5). 71. Préparation de l’iodure de mercure. (Ann. di Selmi, 1846, p. 55. — Ann. de Millon et Reiset, 1848, p. 108). 72. Alcune osservazioni sul latte di cagna (Sur la présence de la lactine dans le lait des carnivores). (Ann. Majocchi, 1846, XXIV, pp. 67-72. — Il Cimento, 1846, IV, pp. 248. — Ann. Chim. Ital. di Selmi, 1846, p. 219. — Ann. de Millon et Reiset, 1848, p. 453). i 73. Sull’allotropia del cloro. Riflessioni. (Ann. Majocchi, 1846, XXIV, pp. 237-239. — Ann. Chim. Ital., 1847, II, pp. 8-5). Vi sono delle interessanti osservazioni sull’idrogeno nascente ecc. Seris II Tow. LXII. ri 242 ICILIO GUARESCHI 118 74. Osservazioni sulla calce. (Atti Congr. Sc. Ital., 1846. — Ann. Chim. Ital. di Selmi, II, 1847, pp. 16-18). 75. Studio intorno alle pseudosoluzioni degli azzurri di Prussia ed all'influenza dei sali nel guastarle. (N. Ann. Se. Nat. Bol., VIII, 1847, pp. 401-431). Questa memoria è assai importante per la storia delle soluzioni colloidali. (V. anche Encielop. di chimica, vol. I, 1867, nell'articolo Adesione, p. 402. — Enciclop. di chimica, vol. IV, nell’art. Cianuri di ferro, p. 412). 76. Influenza dei cloruri alcalini nell’impedire la reazione fra i cloruri di jodio e il solfato d’endaco. (Ann. Chim. Ital. di Selmi, 1846, vol.II, pp. 79-81.— Ann. de Millon et Reiset, 1848, p. 60). 77. Di alcune riazioni tra l’acido jodidrico e Vacido solforico. Memoria. (Raccolta fisico-chim. ital. di Zantedeschi, Venezia, 1847, pp. 18). Qui discorre della soluzione del jodo nell’acido solforico concentrato e delle soluzioni in generale. È importante. 78. Brevi considerazioni intorno agli usi medici del’ammoniaca. (N. Ann. Se. Nat. Bol., 1847 (2), t. VII, pp. 288-292). 79. Considerazioni generali sulle attitudini dell’ammoniaca alla combinazione e sulla natura dei composti che ne provengono. (N. Ann. Se. Nat. Bol., VII, 1847, pp. 328-348). 80. Brevi cenni sui lavori chimici incominciati dal prof. Francesco Selmi. (Corrisp. Scient. It., Roma, 1848, pp. 233-234). 81. Conghietture sulla natura della forza organica. (N. Ann. Se. Nat. Bol., 1848, IX, pp. 153-160. — Ann. chim. Polli, IX, 1849, pp. 44-54). 82. Ricerche intorno alla solubilità del bitartrato potassico negli acidi solforico, cloridrico e nitrico. (N. Ann. Sc. Nat. Bol., IX, 1848, pp. 161-171). 83. Nouveaux phénomènes que présente la solution de sulfate de soude. (Nuovi fenomeni osser- vati nella soluzione del solfato di soda). (Journ. de chim. et de pharm. (2), VIII, ;aoùt 1845, pp. 122-123. — Ann. Ital. Chim. di Selmi, I, 1846, pp. 54-55. — Ann. de Millon et Reiset, 1846, pp. 130-131). Una seconda breve nota in proposito: Nuovi fenomeni osservati nella soluzione del solfato di soda, trovasi nell’ “ Ann. Ital. di Selmi ,, II, 1847, p. 15 e negli “ Elem. di chim. , di Hoefer, t. I, p. 384, trad. ed annot. da G. Giorgini. Questa sua memoria sulla cristallizzazione della soluzione di solfato di sodio fu da lui stesso riassunta in una Nota al Corso elementare di chimica del Regnault, vol. II, p. 399 (1851). 84. Monografia sulla cristallizzabilità della soluzione del solfato di soda (Approv. nell’adunanza del 20 maggio 1849). (Mem. Acc. Torino, 1851 (2), t. XI, pp. 325-344 e t. XII, pp. Lxr-Lx11, la relazione di Sobrero e Cantù. — Ann. di Majocchi e Selmi, 1850, pp. 255-261. — Jahresb. f. Chem., 1851, p. 334). Questo lavoro di Selmi è ricordato anche da Ostwald nel suo “ Lehrb. d. allg. Chem. ,, Cap. II, Chem.-Dynam., vol. II, p. 727. 119 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 243 85. Réclamation de priorité à l’occasion d’une note de M. Goskynski sur la solidification d'une solution concentrée de sulfate de soude au contact de Vair. (C. R., 1851, t. XXXII, p. 909). Selmi si è occupato delle soluzioni sovrasature prima di Goskynski e di Loewel (1855). 86. Osservazioni ad. una memoria di Barreswil sulla chimica applicata alla fisiologia. (Ann. Majocchi, 1850, I, p. 285). È interessante. 87. Sugli ossicloruri di mercurio di Roucher. (Osservazioni di Fr. Selmi). . (Ann. Majocchi, 1850 (2), t. I, pp. 165-166). 88. Comunicazione di due fatti notabili osservati nell’analizzare un'acqua minerale magnesiaco- jodifera di Reggio. (Mem. Ace. Sc. Torino (2), 1851, XI, p. LIV). 89. Nota sopra un nuovo acido dello solfo (con Sobrero). (Mem. R. Acc. Torino, 1851, XI, p. Lv). Gli autori in un lavoro posteriore hanno riconosciuto che l'acido da loro ottenuto era un acido tionico già conosciuto. 90. Alcune osservazioni sull’amigdalina. (Ann. Chim. Ital. di Selmi, 1847, II, pp. 148-150). 91. Nota intorno ad alcune esperienze dirette a definire la natura della fermentazione amigdalica. (Mem. R. Ace. Se. Torino (2), 1852, XII, p. LXXII). Sulla preparazione dell’amigdalina si vegga Annotazioni al Regnault, 1852, IV, p. 603 e Sulla fermentazione amigdalica, ivi, p. 604. 92. Esperienze sul latte. (Ann. Majocchi, 1850, II, pp. 38-48; 273-290). Qui a pag. 189 trovansi le sue esperienze sul potere riduttore del latte, del sangue, delle materie albuminoidi, del lievito di birra, ecc., con sviluppo di acido solfidrico (v. anche 7 Tecnico 1857, vol. I, pag. 209 e 269). 93. Intorno all’azione del cloro sui cloruri metallici nelle soluzioni dei cloruri alcalini. Me- moria 1°, con Sobrero. (Approv. nell’adunanza 20 maggio 1849). (De Vaction du chlore sur les chlorures métalliques en présence des chlorures alcalins (avec Sobrero). (Mem. Acc. Sc. Torino, 1849 (2), t. XI, pp. 345-355 (pubbl. nel 1851). — Ann. Majocchi, 1850, I, pp. 40-45. — A. Ch. (8), 1850, t. XXIX, pp. 161-166. — Jahresh. f. Chem., 1850, p. 314 e 322. — J. pr. Chem., 1850, pp. 305-309. — J. Pharm. Chim. (B), 1850, XVIII, pp. 142-144. — Ann. de Millon et Reiset, 1851, pp. 95-98. — Pharm. Centr., 1850, p. 615. — A. LXXVI, p. 284. — Arch. d. Pharm., CIV, p. 173 (col titolo: Verhalten des Chlors zu Metallchloriden bei Ge- genwart von chloralkali Metallen (mit Sobrero). Wells (Z. anorg. Chem., 1893, IV, pp. 33 e 341) ricorda le esperienze di Selmi e Sobrero, i quali trovarono il rapporto costante 1:9 tra il cloruro piombico e il cloruro di sodio, cioè il composto PbC15.9NaCI. Wells ottenne i sali (NH*)°Pb(015 e K°PbCI" ece., dovuti all'esistenza di PbCl ammessa appunto da Sobrero e Selmi. 244 ICILIO GUARESCHI 120 Già dopo Selmi il Nicklès “ A. Ch. , (4), X, p. 323, ottenne: PbCO1i + 16 CaC1?. Alla fine di questo lavoro Sobrero e Selmi scrivevano: “ Dalle osservazioni istituite risulta adunque chiaramente che il piombo è capace di for- mare un bicloruro corrispondente al biossido: fatto nuovo per la storia del piombo: ed inoltre apparisce manifesto che il bicloruro non si genera, nè dura se non in presenza dei cloruri alcalini, a fronte dei quali esso fa gli uffici di termine elettro-negativo ,. Dal cloruro di manganese non riuscirono ad ottenere un tetracloruro (0, come si diceva allora, un bicloruro). Questo lavoro è riferito nel “ Jahresb. f. Chem. ,, 1850, con due titoli analoghi: Einwd-kung von Chlor auf Manganchlorir in wiisseriger Lòsung bei Gegenwart alkalischer Chlormetalle, p.314, e Einwirkung des Chlor auf Chlorblei bei Gegenwart von Wasser im alkalischen Chlor- metallen, p. 322. 94. Nota intorno alla reazione dell'acido cloridrico sul biossido di piombo e sul minio (con Sobrero). a (Mem. R. Ace. Torino, 1852, t. XII, p. oxx). Questa Nota è una continuazione dello studio precedente sul tetracloruro di piombo. Di- mostrano che quando si tratta il biossido di piombo con HC1 si forma PbC14 e non del HC1? come credeva Millon e che lo stesso tetracloruro si ottiene dal minio coll’acido cloridrico. Il liquido giallo contiene PbCl' e non cloro e non costituisce l’acqua di cloro estemporanea come si credeva. 95. Memoria intorno ai prodotti della reciproca decomposizione degli acidi solforoso e solfidrico (con Sobrero, approv. nell'adunanza del 10 giugno 1849). (Mem. R. Acc. Torino (2), t. XI, pp. 407-412. — Jahresb. f. Chem., 1850, p. 264. — J. pr. Chem., 1850 (1), t. 49, pp. 417-421. — A., 1850, t. 76, p. 237. — Chemist, I, 1849-1850, pp. 301- 303. — Arch. d. Pharm., CII, p. 47 (Ueber die Pentathionsaure) (mit Sobrero). 96. Sur les produits de décomposition des acides sulfhydrique et sulfureua au sein de l'eau (avec Sobrero). (A. Ch. (3), XXVIII, pp. 210-215. — Ann. de Millon et Reiset, 1851, pp. 54-55. — Ann. Majocchi, 1850, t. I, pp. 121-125 (È il testo quasi preciso di ciò che è negli “ A. Ch. ,)). È un riassunto della memoria precedente fatto dagli autori stessi. 97. Intorno ai vari acidi tionici che si generano successivamente come prodotti degli acidi solfo- roso e solfidrico (con Sobrero). (Ann. Majoechi, 1850, II, pp. 157-162). 98. Sur une nouvelle combinaison de mercure (en commun avec Sobrero). (C. R., 1851, t. XXIII, pp. 67-69. — Institut, 1851, p. 234. — Rev. Scient. Ind. (4), I, p.27. — Pharm. Cent., 1851, p. 639. — Journ. f. pr. Chem., 1851, t. LITI, pp. 382-384. — Jahresb., 1851, p. 506. — A., t. 80, p. 108. — J. Pharm. Chim., 1851, XX, p. 270. — Arch. d. Pharm., CVIII, p. 310 ito Quecksilberverbindung)). Nel “ J. pr. Chem. , è quasi tradotta la Nota dei “ C. R. ,. Gli autori trattano la solu- zione alcolica di sublimato con soluzione alcolica di potassa. 121 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 245 In ultimo studiano l’azione del nitrato mercurico sull’alcol etilico, e si riservano di stu- diare anche altri alcoli. 99. Sopra un nuovo sale di mercurio (con A. Sobrero). (Mem. R. Acc. Sc. Torino, 1852 (2), XII, pp. 263-270. — ReenauLT, Trattato elem. di Chim., trad. ital., 1852, t. IV, pp. 586-587). 100. Iatorno al solfo pseudosolubile, alla pseudosoluzione di esso ed al solfo molle. Cenno di esperienze. (Gazz. Piemontese, 1851, N. 262, tip. G. Favale). 101. Considerazioni sugli elementi costitutivi delle molecole organiche. (Principii elem. di chim. organ., Torino, 1851, pp. 118-121. — ReenauLT, Corso di chim., vol. IV (1852), pp. 526-582). 102. Relazioni fra il potere assorbente delle materie coloranti col carbone e nella tintura. (Annotazioni alla trad. del Trattato di chimica del Regnault, vol. IV, pp. 680-681). 103. Sulla chimosina 0 presame, e la gasterasia. (Annotazioni al Regnault, vol. IV, p. 673). 104. Sulla forza vitale. (Principii elementari di chimica organica. — Annotazioni alla traduzione del Regnault, vol. IV, p. 649). 105. Delle piccole quantità di sostanze eterogenee che fanno mutare notevolmente la qualità ad alcuni composti perchè loro rimangono aderenti. (Annotazioni al Regnault, 1852, vol. IV, pp. 694-696). 106. Delle fermentazioni. (Annotazioni al Regnault, 1852, IV, pp. 721-731). 107. Sur le soufre pseudosoluble, sa pseudosolution et le soufre mou. (Journ. Ph. Chim., 1852 (8), XXI, pp. 418-426, tradotto in: Journ. f. prak. Chem., 1852 (1), t. 57, pp. 49-57). È molto importante. 5 Questo lavoro è riassunto col titolo: Ueber weichen Schwefel und seine scheinbare Lòsung in Jahresb. f. Chem., 1852, p. 338, ed è ricordato in Ostwald, LeArbuch d. allg. Chem., Chem.- Dynam., II, pp. 453 e 457. 108. Del solfo pseudosolubile e del solfo molle (Torino, 1852, tip. Favale). È il titolo di un opuscolo che io non ho potuto vedere ; ma dubito che sia identico colla memoria sovraricordata e pubblicata nel “ Journ. de Pharm. et de Chim. ,, 1852, t. XVIII; o, forse, è un estratto dell’articolo scritto nella “ Gazz. Piem. , di quel tempo; ma lo scritto nella “ Gazz. Piem. , è del 1851. 109. Osservazioni intorno alla caseina. La caseina è un acido ? Forma coi corpi diversi delle vere combinazioni chimiche 2 (Ann. Majocchi, 1850. — Annotazioni alla trad. del Regnault, vol. IV, p. 670). 110. Osservazioni sulla caseina. (Annotazioni al Regnault, 1852, t. IV). 246 ICILIO GUARESCHI 1292 111. Fatti intorno all’argomento delle fermentazioni, raccolti da Fr. Selmi. Memorla. (Giorn. di Farm. e di Chim., Torino, 1853, t. II, pp. 145-161). È importante. 112. Fatti per la storia delle sostanze albuminose. Nota. (Torino, 1853, tip. A. Poma e C. Opuscoletto di 7 pag.). 113. Analisi chimica del quano di Sardegna (con Missaghi). (Ann. d. R. Ace. di Agricolt. di Torino, 1855, t. VIII, pp. 249-259. — N. Cimento, II (1855), pp. 25-41). 114. Dell’acqua piombifera e del modo di purificarla (con Missaghi). (N. Cim., 1855, II, pp. 131-133). 115. Sul solfo vischioso, e sovra un nuovo modo di ottenere il solfo in grossi cristalli ottaedrici (con Missaghi). 3 (Nuovo Cimento, 1855, II, pp. 381-387. — Il Cimento, 1855, pp. 1058-1062. —Jahresb. f. Chem., 1855, p. 302). Gli autori ottennero questa modificazione dello solfo prima di Magnus e Weber (“ Pogg. Ann. ,, 1856 (99), p. 145), prima di Berthelot (“ C. R. ,, 1857, t. 44, p. 568). Selmi e Missaghi l’ottennero con metodo diverso da quelli adoperati poi da Magnus e Weber e da Berthelot, cioè facendo passare il cloro secco attraverso una soluzione satura di persolfuro di idrogeno nel solfuro di carbonio. 116. Nuovi fatti relativi al bijoduro di mercurio in soluzione. (Nuovo Cimento, 1855, t. I, pp. 183-187. — Jahresb. f. Chem., 1855, p. 417. — Dammer anorg. Chem., II, p. 870). 117. Pila a triplice contatto. (Nuovo Cim., 1856, IV, pp. 81-87. Non vi è la fig.). 118. Delle ragioni per le quali il solfo distrugge Voidio, e talvolta comunica l'odore d’acido solfidrico al vino delle uve quarite colla solforazione. (Memoria I. “Il Tecnico ,, 1857, vol. I, pp. 209-214. — Memoria II. Ivi, vol. I, pp. 249-258). 119. Pila a triplice contatto e suoi usi nella telegrafia elettrica, nella elettrometallurgia, ece. (con figura). (Il Tecnico, Torino, 1857, vol. I, pp. 3-8. — E in opuscolo separato: Torino, 1857, Pa- ravia, di p. 6). Una seconda pubblicazione Della pila a triplice contatto trovasi nello stesso giornale “ Il Tecnico ,, 1857, pp. 81-90, che probabilmente è identica alla seguente pubblicazione al De la Rive. Il De la Rive di passaggio a Torino nel 1857 visitò la pila del Selmi in funzione alla stazione telegrafica centrale. 120. Sul triplice contatto e sull'azione di esso nella pila che ne porta il nome (Lettera al prof. Augusto De la Rive). (Il Tecnico, Torino, 1857, fase. 2°, opuscolo di 11 pag.). È la pubblicazione precedente in opuscolo separato. 123 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 247 121. Breve nota intorno ad alcune osservazioni di L. Figuier, sul prodotto di ossido di zinco che sì ritrae dalla pila a triplice contatto. (Il Tecnico, 1857, vol. I, p. 180). 122. Pratiche dello scoloramento col mezzo del cloro. (Il Tecnico, 1857, vol. I, pp. 480-482). 123. Osservazioni sugli inchiostri. (Il Tecnico, 1857, vol. I, pp. 482-485). In questa Nota si trova l'osservazione interessante seguente, relativamente agli agenti con- servatori: “ Io tvovai efficace la nitrobenzina, la quale considero come un eccellente antisettico da usarsi in molti casi, perchè non pericoloso alla salute, di grato odore di mandorle amare, e bastevole in tenui proporzioni a produrre effetti di inalterabilità ,. Si sa che oggi la nitro- benzina è molto usata nei musei, per le droghe, ecc. 124. Uso della nitrobenzina come antisettico. (V. la nota al numero precedente). 125. Sui vini artificiali. (Mem. di Fr. Selmi e F. Terrachini). (Il Tecnico, 1857, vol. I, pp. 129-141 e in opuscolo separato in-4°, di pp. 18, Torino, Paravia). 126. Del latte, del presame e della coagulazione che il presame opera nel latte. (Mem. premiata dall'Istituto Lombardo nel 1857). (Atti della Fondazione scientifica Cagnola, vol. II, pp. 65-95; ed in riassunto in: Rivista Contemp., Torino, 1858. — Ann. Chim. Polli, 1857, XXV, pp. 369-376). È una bella ed importante memoria. È quella riassunta e tanto lodata dal Musso (V. Cap. VII). 127. Sopra alcuni cloramiduri di mercurio (presentata il 22 marzo 1843). (Mem. R. Ace. Sc. Mod., 1858 (I), t. I, parte III e IV, pp. xxxXI-xxxXIII). 128. Dell’adesione (0 aderenza). (Art. nell’Enciclop. Chim., 1867, vol. I, p. 402). Qui l’autore espone di nuovo le sue idee intorno alla natura delle pseudosoluzioni. 129. Ricerche varie sulla caseina. (Enciclop. Chim., 1869, vol. III, pp. 917-921). Qui sonvi molte osservazioni che riguardano la caseina e la sua solubilità nelle soluzioni saline, sulla coagulazione, ecc. 130. Ricerca del fosforo nei casi di avvelenamento (letta il 20 aprile 1871). (Mem. R. Acc. Se. Bol., 1872 (8°), t. I, pp. 399-412). 131. Ricerca dell’arsenico nei casi di avvelenamento (letta il 13 aprile 1871). (Mem. R. Ace. Se. Bol., 1872 (8°), t. I, pp. 387-398 con 1 tav. — Jahresb. f. Chem., 1872, p. 901. — Gazz. Chim., 1872, p. 544). 132. Sui cristalli di emina considerati qual mezzo più acconcio per iscoprire il sangue nei casi di perizia legale (letta il 27 aprile 1871). (Mem. R. Acc. Sc. Bol. (3), t. I, pp. 413-429 con 1 tav. — Gazz. Chim., 1872, p. 548). Questa e le due precedenti memorie furono pubblicate a parte in un opuscolo: Studi di tossicologia chimica (1° serie), Bologna, tip. Gamberini e Parmeggiani, 1871, in-49, di pp. 46. 248 ICILIO GUARESCHI 124 133. Nuova maniera semplice e spedita di distruggere le materie organiche nelle ricerche tossi- cologiche dei metalli (letta il 25 gennaio 1872). (Mem. Ace. Sc. Bol., 1872 (III), t. II, pp. 73-80. — Gazz. Chim., 1872, p. 583. — Beriehte, 1873, p. 141. — Jahresb. f. Chem., 1873, p. 898). 134. Sulla esistenza di principi alcoloidei naturali nei visceri freschi e putrefatti, onde il perito chimico può essere condotto a conclusioni erronee nella ricerca degli alcaloidi venefici (letta il 25 gennaio 1872). (Mem. R. Acc. Sc. Bol. (III), t. II, pp. 81-86. — Berichte d. deut. Chem. Gesell., XI, 1873, p. 142). È in questa breve ma importante memoria che attira l’attenzione dei chimici sugli alca- loidi cadaverici, che furono poi da lui detti ptomaine. 185. Nuovo processo per estrarre il fosforo libero dai visceri quando vi sia contenuto, e reazioni speciali per conoscerlo e determinarlo (letta il 1° febb. 1872). (Mem. Ace. Se. Bol. (III), t. II, pp. 87-106). — Gazz. chim., 1872, pp. 546 e 585). Diverse sue osservazioni personali sulla ricerca tossicologica del fosforo si trovano anche nel- l’articolo : Scoperta del fosforo negli avvelenamenti, “ Enciclop. Chim. ,, 1878, vol. III, pp. 738-748. 136. Ricerca della picrotossina e della colocintina nei casi di avvelenamento colla coccola di Levante e colla coloquintide (letta al 1° febb. 1872). (Mem. Ace. Sc. Bol. (III), t. II, pp. 107-116 con 2 tav. — Gazz. Chim., 1872, p. 588). Questa e le tre memorie precedenti furono pubblicate o tirate a parte in un opuscolo: Studi di tossicologia chimica (2* serie), Bologna, tip. Gamberini e Parmeggiani, 1872, in-4° di pp. 46. 137. Toxicologisch-chemischen Beobachtungen. (Berichte d. deut. Chem. Gesell., VI, 1873, p. 141). E un riassunto brevissimo dei lavori precedenti. 138. Ricerca della solanina nei casi di avvelenamento (letta il 6 febb. 1873). (Mem. R. Ace. Sc. Bol. (IID, t. IV, pp. 29-40. — Gazz. Chim., 1874, pp. 1-8). 139. Osservazioni varie sul latte e sul presame e la pepsina. (Enciclop. Chim., art. Latte, 1873, vol. VII, pp. 377-383). In questo articolo sono esposte e riassunte molte delle sue vecchie ed anche nuove ricerche sul latte. Nota fra le altre cose il fatto che il latte cui fa aggiunto del solfato potassico, a b. m., diventò a poco a poco chiaro come il siero, quantunque la caseina non perdesse la precipita- bilità mediante l’acido acetico, e che il coagulo di caseina digerito a temp. ordinaria a poco a poco si sciolse nella soluzione acquosa del detto sale mediocremente concentrata. Il tartrato sì comporta in modo analogo. Osservò che il formaggio di grana vecchio contiene una sostanza capace di far coagulare il latte, e che il latte medesimo in cui era stato sciolto 1,5 gr. di sal comune per 100 gr. di liquido, stando in istufa per 7 giorni, fornì un siero capace di far rappigliare il latte come un presame debole. Ricorda le sue ricerche sulla natura degli acidi coagulanti, sull’azione dei sali di vari metalli, ece. ecc. 125 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 249 Riguardo al modo di agire del presame e della pepsina Selmi fece anche la osservazione seguente : “ Brilcke si avvide che la materia attiva del presame non è da confondere colla pepsina, dacchè questa, allorquando sia pura, non coagula il latte; e già Fr. Selmi sino dal 1853 aveva dimostrato la stessa cosa per altra via, contro l’opinione di Dumas e di Mialhe, provando col- l’esperienza che, mentre il sugo gastrico produce la digestione artificiale dell’albume cotto e della carne muscolare, nè il presame, nè la zicheasia v'inducono il più che menomo spappola- mento, chè anzi la carne, in cambio di illiquidire, divenne dura e corrugata. Ma se, in cambio di porre in digestione carne ed albume nel presame, vi si mette del formaggio o caseina coagu- lata da allora si vede (purchè il presame sia in quantità bastevole) che a poco a poco vi si vanno rifluidificando e sì sciolgono perfettamente ,. 140. Sopra un nuovo processo per l'estrazione degli alcaloidi dai visceri e ricerca della nicotina, della brucina e della stricnina nei casi di avvelenamento (letta il 20 marzo 1873). (Mem. Ace. Se. Bol. (III), IV, pp. 41-51. — Gazz. Chim., 1874, pp. 1-8. — Berichte, 1874, p. 80. — Jahresb. f. Chem., 1874, p. 1020). 141. Osservazioni pratiche per il riconoscimento dell'acido cianidrico nei casi di avvelenamento (letta il 24 aprile 1873). (Mem. R. Ace. Se. Bol. (III), t. IV, pp. 58-55 con 2 tav. — Gazz. Chim., 1874, pp. 1-8).| Questa memoria e le due precedenti furono tirate a parte in un opuscolo: Studi di tossi- cologia chimica (8° serie, Bologna, tip. Gamb. e Parm., 1873, in-4°, di pp. 29. E in riassunto nella “ Gazz. Chim. Ital. ,, 1874, pp.l1a8). 142. Nuovo processo generale per Vestrazione delle sostanze venefiche nei casi di avvelenamento (letta il 4 dicembre 1873). (Mem. R. Ace. Bol. (III), 1874,t. V, pp. 8-49 con 1 tav.— Berichte, 1874, p. 80. — Jahresb. f. Chem., 1874, p. 1020. — Journ. Pharm. Chim. (IV), t. XXI, p. 165). 143. Nuovo studio sul latte (letta il 9 aprile 1874). Sulla caseina sciolta e sospesa. (Rend. Ace. Sc. Bol., 1873-74, Bologna, tip. Gamb. e Parm., 1874, pp. 69-72. — Gazz. Chim. Ttal., 1874, pp. 482-484. — Ber. d. d. Chem. Gesellschaft, 1874, p. 1463. — Jahresh. f. Chem., 1874, p. 933). 144. Necessità di cercare il fosforo nelle urine nei casi di avvelenamento. (Gazz. Chim., 1874, pp. 478-482. — Berichte, 1874, p. 1463. — Jahresh., 1874, p. 939). 145. Osservazioni sullo sviluppo di idrogeno nascente dalle muffe, per ispiegare la loro azione fertilizzante (letta il 21 maggio 1874). - (Rendiconto delle Sessioni dell’Acc. delle Scienze di Bologna, anno acc. 1873-74, Bol., tip. Gamb. e Parm., 1874, pp. 111-112. — Jahresh. f. Chem., 1874, p. 1021). Questo importante lavoro molto ampliato fu nello stesso anno pubblicato a parte col titolo : Osservazioni sullo sviluppo d’idrogeno nascente dalle muffe, loro azione sul solfo, sui solfuri, sull’arsenico e sui nitrati; conseguenze che se ne possono dedurre per ispiegare Vazione ferti- lizzante delle medesime, e lo sviluppo di un composto arsenicale volatile dalle carte da tappezzerie colorate con verdi arsenicali, Bologna, tip. Gamberini e Parmeggiani, 1874, in-8°, di pp: 12. Trovasi pure come appendice nell’opuscolo di Selmi: Nuovo processo generale per la ricerca delle sostanze venefiche, con appendici di argomenti tossicologici od affini, Bologna, Zanichelli, 1875, pp. 97-115. Serie II. Tow. LXII. ci 250 ICILIO GUARESCHI 126 146. Osservazioni nel caso di una perizia legale (lette nella seduta delli 20 aprile 1874 della Soc. Med.-chir. di Bologna). (Boll. Sc. med. di Bologna, 1874, ann. XLV (5), vol. XVII, pp. 401-409. — Berichte, 1874, p. 80. — Jahresb., 1874, p. 1020). 147. Analisi di calcoli vescicali di rottura spontanea (letta il 26 aprile 1874). (Boll. Se. med., Bol., 1874, a. XLV (5), vol. XVIII, pp. 5-12). 148. Studi di chimica tossicologica. Nuovo processo generale per Vestrazione delle sostanze vene- fiche nei casi di avvelenamento. Memoria. (Mem. R. Ace. Sc. Bol. (II), t. VI, e a parte: Bol. tip. Gamberini e Parmeg., 1874), con appendici: 1° Sul composto giallo cedrino che si forma bagnando con acido nitrico il prodotto vero, che s’ingenera tra il fosforo ed il nitrato d’argento in soluzioni alcoliche; 2° Sulla puri- ficazione degli acidi solforico e cloridrico per uso tossicologico; 3° Della necessità di cercare il fosforo nelle urine; 4° Metodo per ottenere l’anello arsenicale quando l’arsenico è ir tenuis- sima quantità). Questo lavoro fu poi l’anno dopo pubblicato in un volume a parte dallo Zanichelli col titolo: Nuovo processo generale per la ricerca delle sostanze venefiche con appendici di argomenti tossicologici od affini, Bologna, Zanichelli, MDCCCLXXV, in-8°, di pp. 1v-120 con 1 tav. Questo volume contiene le memorie ai numeri 142, 145, 146 e diverse appendici, fra cui quella in cui discorre: Della purificazione degli acidi solforico e cloridrico; Della necessità di cercare il fosforo nelle urine in caso di avvelenamento; Metodo per ottenere l’anello arsenicale quando Varsenico è in quantità tenuissima. È in quest’ultima appendice, a pag. 84, che trovasi l'avvertenza di raffreddare la strozzatura della canna in vetro dell'apparecchio di Marsh, me- diante una piccola corrente di acqua fredda, e così concentrare l’anellino in un punto solo. A pag. 26-27, ove tratta della: Ricerca degli acidi minori del fosforo, discorre dei fochi fatui, che non può attribuire a idrogeno fosforato. 149. Nuovi reattivi per riconoscere e discernere gli alcaloidi venefici (Memorie I e II lette il 29 aprile 1875). (Mem. R. Ace. Scien. Bol., 1875 (III), t. VI, pp. 189-200 e 201-210. — Gazz. Chim., 1875, p. 256. — Berichte, 1875, p. 1198). 150. Perizia chimica nella causa Rusconi-Pallavicini (in collab. con D. Santagata e P. Piazza. 28 maggio 1874. Bologna, tip. Cenereli, 1874, in-4°, di pp. 16). 151. Del modo di riconoscere la metilamina e la trimetilamina e distinquerle dalla propilamina (letta il 29 aprile 1875). (Mem. Ace. Sc. Bol. (III), t. VI, pp. 211-215 con 83 tav.). 152. Dissociazione dei sali di trimetilamina. (Mem. R. Ace. Se. Bol. (III), vol. X). L’autore dimostra la dissociazione delle soluzioni dei sali di trimetilamina. Secondo queste esperienze, variando anche l’acido (cloridrico, tartarico, ossalico) messo in presenza della base, la quantità di questa che distilla è sempre pressochè la stessa. Si devono tenere in considera- zione questi fatti per la ricerca delle sostanze venefiche, specialmente, come osserva l’autore, nella ricerca dell’acido prussico, e durante le evaporazioni. 127 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 251 153. Dell’uso dell'acido jodidrico jodurato per riconoscere gli alcaloidi dell'oppio (letta il 29 aprile 1875). (Mem. R. Ace. Se. Bol. (III), VI, p. 217-221). 154. Delle difficoltà che sì incontrano mell’estrarre la morfina dal cervello e di un alcaloide naturale che sussiste nel cervello, nel fegato e nel papavero dei campi (letta il 29 aprile 1875). (Mem. R. Acc. Bol. (III), VI, pp.223-239.— Gazz. chim., 1875. — Enciclop. Chim., Compl. e Suppl., II, p. 505). 155. Nuove ricerche fatte da parecchi chimici sugli alcaloidi innocui che si estraggono dai visceri seguendo il processo di Stas ed Otto per la ricerca degli alcaloidi venefici (letta il 10 dicembre 1874). (Rend. Ace. Sc. Bol., 1874-75, pp. 66-70). 156. Esperienze per riconoscere se i funghi, certi microfiti e le materie vegetali in decomposi- zione posseggano azione idrogenante o riduttrice; conseguenze agronomiche che se ne pos- sono dedurre (letta il 14 gennaio 1875). (Rendic., ivi, 1875, pp. 81-104). In Memorie sopra argomenti tossicologici, con appendici di argomento agronomico, Bologna, 1878 (V. N. 190). 157. Wasserstoffentbindung durch Schimmel und Schwimme. (Ber., 1875, p. 906. — Jahresb. f. Chem., 1875, p. 818). 158. Sopra alcuni nuovi caratteri differenzianti e speciali per la ricerca degli alcaloidi venefici. (Rend. R. Acc. Bologna, 1874-75, pp. 104-107 e 153-154. — Mem. R. Acc. Bol. — Gazz. Chim., 1875, p. 255. — Berichte, 1875, p. 1198 ?). 159. Reagentien auf Allaloide. È (Ber., 1875, p. 1198 (cors.). — Jahreshb., 1875, p. 983). 160. Nuovo reattivo per la morfina. (Gazz. chim., 1875, p. 396 (Mem. letta al XII Congresso degli Scienziati Ital. in Palermo). — Jahresb. f. Chem., 1855, p. 981. — J. Pharm. Chim, (IV), t. XXIV, p. 487). 161. Prime notizie sopra un alcaloide che si riscontra nel cervello, nel fegato e nei capi verdi del rosolaccio 0 papavero dei campi. (Gazz. chim., 1875, pp. 398-402 (Mem. letta al XII Congresso degli Scienziati tenutosi in Palermo). — Berichte, 1876, p. 195). 162. Studio sopra diversi alcaloidi, per uso dei tossicologi (maggio 1875). (Rend. Acc. Bol., 1874-75, p. 155. — Gazz. chim., 1875, p. 257). 163. Sull’azione dell'idrogeno nascente sull’azoto libero e di un composto azotato che sì forma calcinando la potassa colle materie idrocarbonate (maggio 1875). (Rendie. R. Acc. Bol., 1874-75, pp. 157-179). 164. Chi primo ossertò lo sviluppo dell'idrogeno solforato tra le crittogame e lo solfo (13 magg. 1875). (Rend. R. Acc. Bol., loc. cit., p. 180). 952 ICILIO GUARESCHI 129 165. Sulle difficoltà che si incontrano nelle ricerche tossicologiche. (Boll. Sc. Med., Bologna, 1875, a. XLVI (5°), t. XX, pp. 241-256). 166. Ricerca dell’atropina. Studio chimico-tossicologico. (Atti R. Ace. Lincei, 1876. — Gazz. chim., 1876, p. 153). 167. Sulla malattia dei vini filanti. (Scienza applicata, Bologna, 1876). 168. Sugli alcaloidi dei cadaveri (Mem. con Casali e Pesci, 15 ott. 1876). (Mem. R. Ace. Bologna. — Rendic. (5), t. XXII, pp. 256-269. — J. Pharm. Chim. (IV), XXVII, pp. 66). 169. Modificazioni al processo per Vestrazione degli alcaloidi venefici dai visceriì (Memoria 2 dicembre 1875). (Rendie. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 29-81.— Gazz. chim., 1876, 32.— Encicl. Chim., Compl. e Suppl., III, p. 505. — Jahresh. f. Chem., 1876, p. 801). 170. Sul modo di riconoscere traccie di acido fosforico nelle ricerche tossicologiche. (Rendie. R. Ace. Bol., 1875-76, pp. 31-32. — Gazz. chim., 1876, p. 34. — Ber. d. d. chem. Gesell., 1876, p. 344. — Jahresh. f. Chem., 1876, p. 984. — Journ. Pharm. Chim. (IV), XXIV, p. 347). 171. Genesi del nitro naturale. (Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 32-33). 172. La ptomaina o primo alcaloide dei cadaveri. (Rend. R. Ace. Bol., 1875-76, pp. 36-39). 173. Sull’attività di azione di alcuni fermenti solubili, in soluzione satura di cloruro di sodio ed a bassa temperatura. (Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, p. 77). A questa fece sesuito un’altra breve nota: Nota sopra certe fermentazioni a bassa temperatura. (Rend. Ace. Bol., 1878-79, p. 79) e l’altra al n. 180. 174. Sopra un composto volatile fosforato che si svolge dal cervello putrefatto. (Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 89-91. — Berichte d. d. chem. Gesell., 1876, p. 1127. — Jahrs. f. Chem., 1876, p. 982). 175. Sopra alcuni prodotti volatili delle materie cadaveriche. (Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 120-122). 176. Nuove ricerche tossicologiche per riconoscere gli alcaloidi venefici. (Mem. R. Acc. Bol. (III), VI. — Ber. d. chem. Gesell., 1876, pp. 195 e 347. — Jahrs. f. Chem., 1876, pp. 1025 e 1027). 177. Studio chimico-tossicologico per la ricerca dell’atropina quando si applica il processo gene- rale per l’estrazione degli alcaloidi venefici (letta il 2 genn. 1876). (Atti R. Ace. Lincei, 1876 (2°), vol. III, parte II, pp. 29-40. — Gazz. chim., 1876, p. 158). 129 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 253 178. Di aleuni prodotti volatili del cervello putrefatto; un composto fosforato, una materia colo- rabile, la trimetilamina (2 aprile 1876). (Atti R. Ace. Lincei, 1876 (2°), III, parte II, pp. 269-280. — Gazz. chim., 1876, p. 468. — Jahresb. f. Chem., 1876, p. 937). 179. Sul modo di estrarre e riconoscere la morfina nei casi di avvelenamento. (Rend. R. Acc. Bol., 1876-77, pp. 37 e 70-73. — Mem. R. Ace. Bol., 1877 (III) t. VIII, pp. 527-557 con 1 tav.). 180. Intorno allo sviluppo di prodotti fosforati volatili dai cadaveri (6 dicembre 1876). (Mem. R. Ace. Bol. (III), t. VIII, pp. 651-654. — Mon. Scient. (3), 1880, t. X, p. 153). 181. Sui prodotti fosforati volatili che si svolgono durante la putrefazione lenta dell’albume e del tuorlo d’ova (6 dicembre 1876). (Mem. R. Ace. Bol. (III), VIII, pp. 659-670). 182. Dell’acceleramento che il fosforo e gli ipofosfiti inducono nella reazione tra Vacido solfo- rico e lo zinco e sua applicazione alla tossicologia (6 dicembre 1876). (Mem. R. Ace. Bol. (III), VIII, pp. 671-687. — Mon. Scient. (3), 1880, t. X, p. 155). Queste tre memorie: N. 180-181-182 furono pubblicate a parte col titolo: Tre memorie di Fr. Selmi, Bologna, Tip. Gamb. e Parmeg., 1878. 183. Considerazione sui sali e sulla funzione salina dell'idrogeno. (Enciclop. di chim., 1876, vol. IX, pp. 672-674, nell’art. Sala). Le sue considerazioni sulla costituzione dei sali, sull’idrogeno ossidrilico o basico, che tro- vansi nell’art. Salî (Enciclop. di chim., IX, p. 674), scritto nel 1876, sono bellissime ed utili a leggersi ancora oggi. 184. Della soluzione. (Enciclop. Chim., 1877, vol. X, p. 277). 185. Ricerche comparative sugli alcaloidi cadaverici (col prof. Pesci). (Boll. Sc. Med., Bologna, 1877 (V), t. XXIII, pp. 417-464). 186. Della ricerca dell’acido cianidrico, di quella del cianuro di mercurio e di una reazione della stricnina (11 nov. 1877). (Boll. Soc. Med., Bol., 1877 (V), XXIV, pp. 416-428. — Jahresb. f. Chem., 1878, p. 1072. — Berichte, 1878, p. 1672). 187. Sopra alcune ricerche intraprese ad iscopo di certificarsi se la codeina si alteri coi visceri in putrefazione (15 marzo 1877). (Rend. R. Ace. Bol., 1876-77, pp. 73-74). 188. Alkaloide aus Leichen. (Ber. d. deut. chem. Gesell., 1876, pp. 197-198. — Jahresb. f. Chem., 1876, p. 940). 189. Sulle piomaine od alcaloidi cadaverici e loro importanza in tossicologia con aggiuntavi una perizia per la ricerca della morfina. Opuscolo. Bologna, Zanichelli, 1878, in-8° di pp. 110. (Berichte, 1878, p. 808. — Mon. Scient. (3), 1878, VIIL p. 499-509, trad. et analysé de 9254 ICILIO GUARESCHI 130 l’italien pour le “ Mon. Scient. , par A. Vernon, col titolo: Sur /es ptomaines ou alkaloides cadavériques et leur importance en toxicologie). Qui si trovano notizie storiche sulle ptomaine, sulle reazioni differenziali fra i veri alca- loidi naturali e le ptomaine e delle osservazioni del prof. Otto di Brunswick aggiunte alla sua: Anleitung 2. Ausm. d. Gifte, 1875, pp. 69-71. 190. Memorie sopra argomenti tossicologici con appendici di argomento agronomico. Opuscolo. Bologna, Zanichelli, MDCCCLXXVIII, in-8°, di pp. 11-177-50-4. In questo opuscolo sono riunite molte delle memorie precedentemente ricordate : “ Delle difficoltà che s'incontrano nell’estrarre la morfina dal cervello e di un alcaloide naturale che sussiste nel cervello, nel fegato e nel papavero dei campi ,. “ Dell’uso dell’acido jodidrico jodurato per riconoscere gli alcaloidi dell’oppio ,. “ Nuovi reattivi per riconoscere e discernere gli alcaloidi venefici , (Mem. 1°). “ Nuovi reattivi per riconoscere e discernere gli alcaloidi venefici , (Mem. 22). “ Del modo di riconoscere la metilamina ecc. ,. “ Sugli alcaloidi dei cadaveri , (Mem. coi Prof. Pesci e Casali). “ Ricerche comparative sugli alcaloidi cadaverici , (Mem. col Prof. Pesci). Appendice: “ Esperienze per riconoscere se i funghi, certi microfiti e le materié vegetali in decom- posizione posseggano azione idrogenante o riduttrice: conseguenze agronomiche, ece. ,. “ Funghi e solfo ,. “ Funghi e nitrati ,. “ Microzoi e solfo ,. “ Materie di letame e solfo ,. “ Materie di letame e nitro ,, ecc. “ Sull’azione dell’idrogeno nascente coll’azoto libero, e di un composto azotato che si forma calcinando la potassa colle materie idrocarbonate ,. 191. Ricerche per riconoscere se dalle materie cadaveriche, dall’albume e dal tuorlo d’ovo si svol- gono prodotti fosforati volatili e su di un mezzo squisito per riconoscere il fosforo libero in minime quantità (6 dic. 1877). (Rend. R. Acc. Bol., 1877-78, pp. 37-39. — Mon. Scient. (3), 1880, X, p. 154. — Ber., 1879, p. 297 e 1880, p. 206). 192. Intorno ad alcuni fatti di interesse tossicologico (31 gennaio 1878). (Rend. R. Acc. Bol., 1877-78, p. 65. — Mem. R. Ace. Bol., 1878 (III), IX, pp. 133-144). Questa memoria comprende: 1° Delle reazioni dell’arsenito d’argento e dell'anello arsenicale coll’acido solfidrico; 2° Della vaporabilità dell’anidrite arseniosa; 3° Sul processo di A. Gautier per la ricerca dell’arsenio; 4° Sulla maniera di determinare î metalli venefici; 5° Ricerca del sanque nelle stoffe sucide e tinte. 193. Sul processo per estrarre l’acido cianidrico dai visceri (27 gennaio 1878). (Boll. Sc. Med. Bol. 1878 (VI), vol. I, pp. 100-105). 194. Sur les moyens d’extraire et de reconnaître la morphine dans les cas d’empoisonnements (trad. et résum. de l’italien pour le “ Mon. Scient. ,, par A. Vernon). (Mon. Scient., 1878 (3), t. VILI, pp. 877-891. — Jahreshb. f. Chem., pp. 1081-1085. — Ber., 1878, p. 1692, ecc.). Questo lavoro è un lungo riassunto delle memorie precedenti trad. in francese. 151 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 255 195. Quelques faits intéressants de toxicologie. (Mon. Scient., 1878 (3), VIII, p. 1012. — Jahrsb. f. Chem., 1878, pp. 1049 e 1098. — Jour. Pharm. Chim. (IV), t. XXVIII, p. 558). È, può dirsi, il lavoro del N. 292. Questo riassunto comprende: I. Sul modo di riconoscere l’arsenico. II. De la vaporisation de l’anhydride arsénieux. (V. anche “ Ber. d. d. chem. Gesell. ,, 1878, p. 1691). III. Sur le procédé di M. A. Gautier, pour la recherche de l’arsenic. IV. Recherche du sang sur les étoffes teintes et sales. 196. Alcuni fatti ed osservazioni intorno certe sostunze che agiscono nelle reazioni chimiche senza combinazione 0 sostituzione apparente. (Rend. R. Ace. Bol., 1877-78, pp. 127-128). 197. Di alcune sostanze non metalliche che accelerano la reazione tra lo zinco e acido solforico (2 giugno 1878). (Atti R. Ace. Lincei, 1878 (III) vol. II, pp. 172-174). Riguardo all'influenza della temperatura, già studiata da Gladstone e Tribe, in altro caso, Fr. Selmi osservò grandissima differenza nello sviluppo dell’idrogeno tra lo zinco puro e l’acido solforico portato ad un grado notevole di soluzione, come sarebbe da 1 a 5 per 100 allor- quando operò a temperatura di 5° a 6° e di 20° a 25° (£ Enciclop. Chim., Compl. e Suppl. ,, 1879, VOLE gr IS05 198. Osservazioni sull’alcol. (Enciclop. Chim., Compl. e Suppl., I, 1879, p. 208). Ecco quanto egli scrive: “ Se l'alcol contiene un acido non minerale e che si accosti a 90° centesimali e più, non reagisce coll’idrato di stronzio, per quanto polverizzato finamente ed anche stemperato con un poco d’acqua, tanto che il liquido conserva la reazione acida, e se contiene un sale ammoniacale non isviluppa l’ammoniaca ,. “ In certe reazioni che si fanno con soluzioni alcoliche delle sostanze reagenti, l’alcol piglia parte coi suoi elementi alla reazione medesima, tanto che i prodotti ottenuti sono ben diversi da quelli che si ottengono operando colle soluzioni acquose. Il solo caso in proposito studiato con qualche accuratezza, è quello che primieramente fu trovato da Sobrero e Fr. Selmi nella reazione fra l’alcole ed il nitrato mercurico in soluzione concentratissima... ecc. ,. 199. Metodo per preparare Valcol assoluto (con fis.). (Enciclop. Chim., 1868, t. II, p. 704). Fr. Selmi otteneva l’alcol assoluto direttamente da quello a 84° centesimali “ con una sem- plice distillazione, senza d’uopo di protrarne la digestione colla calce per ore e giorni, e me- diante il semplice passaggio del vapore alcolico per una colonna del disidratante alla tempera- tura di 100° ,. — I metodi moderni sono migliori certamente, perchè si ha già in commercio dell’aleol molto concentrato, ma allora costituiva un’utile modificazione. Indicò anche un me- todo per riconoscere l’alcol amilico nell’alcol commerciale mediante la calce a 100° che lascia sfuggire l’aleol mentre tiene fissato l’alcol amilico (loc. cit., p. 706). 200. Osservazioni sopra una delle reazioni caratteristica della stricnina (31 marzo 1878). (Boll. Sc. Med., Bol., 1878 (VI), I, pp. 265-272). 256 ICILIO GUARESCHI 132 201. Di una ptomaina venefica e cristallizzabile estratta col mezzo dell'etere dai visceri di due cadaveri esumati, ed in cui fu trovato l’arsenico in copia (2 giugno 1878). (Atti R. Ace. Lincei, 1878 (III), vol. II, pp. 172-174. — Mon. Scient., 1878 (8), t. VIII, pp. 1400-1402. — Berichte, 1378, p. 1838. — Journ. Pharm. Chim. (IV), t. XXIX, p. 156). 202. Nuove ricerche sul latte. (Enciclop: Chim., Compl. e Suppl., 1879, vol. II, pp. 10-18). 203. Genesi degli alcaloidi venefici che si formano nei cadaveri (letta il 12 dicembre 1878). (Rend. R. Acc. Bologna, 1878-79, pp. 29-33. — Mon. Scient., 1880 (III), X, p. 157). In questa nota accenna alla scoperta delle ptomaine, alle prime obiezioni e incredulità ece., poi ricorda le pretese di Gautier e le esperienze che dimostrano provenire le ptomaine dalla decomposizione delle sostanze proteiniche. 204. Dissociazione dei sali a base volatile durante l’evaporazione e sua importanza sulle opera- zioni tossicologiche (13 febb. 1879). (Rend. R. Acc. Bol., 1878-79, p. 78. — Mem. R. Acc. Bol., 1879 (III), X, pp. 583-593). 205. Sull’azione a bassa temperatura di alcumi fermenti non organizzati (13 febb. 1379). (Mem. R. Ace. Bol. (III), X, pp. 593-600). — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 54). Sono le esperienze già riferite nella nota al n. 173. Con aggiunte. 206. Sopra alcuni prodotti della putrefazione arsenicale. (Rend. R. Ace. Sc. Bol., 1878-79, pp. 111-113). È assai interessante, perchè in questa nota fa vedere come anche dalle materie putrefatte mescolate con composti arsenicali possano svilupparsi dei prodotti volatili o gasosi contenenti arsenico. 207. Di alcuni criteri per la ricerca degli alcaloidi in differenza delle ptomaine. (Osservazioni in occasione di una perizia chimico-tossicologica a Verona. Bol., 1880, opuse. di 47 pp.). (Boll. Se. Med., Bologna, serie VI, vol. VI). 208. Di un processo delicato e sicuro per la ricerca tossicologica dell’arsenico e di alcune osser- vazioni sul detto metalloide (letta il 5 gennaio 1879). (Atti R. Ace. Lincei, 1879 (III), INI, pp. 163-182. — Gazz. chim., 1880, X, p. 39). 209. Delle difficoltà di ottenere perfettamente privo di arsenico Vacido solforico, del modo con che riuscirvi e di altre cose che risquardano Varsenico (6 aprile 1879). (Atti R. Acc. Lincei (III), t. III, pp. 249-257. — Gazz. chim., 1880, X, p. 40). Questa memoria contiene i capitoli seguenti: 1° Modo di riconoscere traccie di arsenico nell’acido solforico e purificazione di questo; 2° Volabilità dell'acido arsenico sciolto nell’acido solforico, quando si distilla; 3° Osservazione sull’acido arsenioso sciolto nell’acido solforico e scaldato; 4° Reattivo per l'acido arsenioso quando in un liquido è carico di acido solforoso; 5° Solubilità dell'anidride arseniosa in diversi liquidi. 210. Tossicologia chimica dell’arsenico. (Sunto di osservazioni edite ed inedite). (Gazz. chim., 1880, X, pp. 431-437. — Zeits. f. analyt. Chem., 1882, XXI, p.308.— Journ. of the Chem. Soc., 1881, t. 40, p. 311. — Wagner's Jahresh. f. techn. Chem., 1881, p. 3731). 211. Tossicologia chimica del fosforo. (Osservazioni esperimentali edite ed inedite). (Gazz. chim., 1880, X, pp. 437-442. — Mon. Scient. (3), XI, p. 51. — Journ. Chem. Soc., 1881, t. 40, p. 309). a] 158 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 25 212. Considerazioni sui fermenti figurati e non figurati. (Enciclop. Chim., Compl. e Suppl., 1879, t. II, p. 737-753). Qui sono molte osservazioni proprie di Fr. Selmi sui fermenti, sulla putrefazione, ecc. ecc. A pag. 751 discorre delle basi che formansi nell’organismo vivente e scrive: “ Frattanto sia lecito a chi scrive, di manifestare come egli, opinando che possa succedere la putrefazione nel vivo senza il concorso di organismi, istituisse parecchie esperienze, le quali provarono che tale supposto coincideva col vero. Le esperienze cui qui si allude, furono già pubblicate in parte, ed in parte sono per anco inedite. Abbracciano. i due casi generali, cioè quello in cui non è dubbio nell’ammalato il sussistere di microbi malefici capaci di produrre la malattia, e l’altro in cui tali esseri non furono mai trovati, e che anche non si può conget- turare che vi siano realmente. Le indagini furono volte specialmente all’esame delle urine, e quando la morte intervenne, sul sangue e su alcuni visceri, nè tanto sull'uomo quanto sugli animali. Le malattie circa alle quali si fecero ricerche, furono, per la prima classe una paralisi progressiva, una pneumonite interstiziale ed il tetano reumatico; per la seconda classe la mi- gliare tipica, l’ileotifo benigno e l’ileotifo mortale. Quest'ultimo nel cavallo ,. E prosegue discorrendo delle basi trovate in queste urine. 213. Dell’influenza di alcuni sali nell’accelerare 0 ritardare la reazione tra lo zinco e Vacido solforico (letta il 1° ciugno 1879). (Atti R. Acc. Lincei, 1879 (III), IV, pp. 36-42. — Mon. Scient. (3), 1880, t. X, p. 156. — Berichte, 1800, XIII, p. 206. — Gazz. chim., 1881, XI, p. 258). Tra le altre cose l’autore dimostra che sullo sviluppo di idrogeno per l’azione dello zinco coll’acido solforico ha influenza l'aggiunta di piccole quantità di sali diversi; l’accelerano delle piccole quantità dei solfati di Mg, Mu e Fe, minore azione hanno i solfati di sodio, potassio e alluminio. Veggasi anche in Gmelin-Krauts “ Handb. anorg. Chem. ,, IV Abt., I, p. 5384. 214. Processo per depurare lo zinco dall’arsenico. (Atti R. Acc. Lincei, 1879. — Mon. Scient., 1882 (3), t. XII, p. 190. — Zeits. f. analyt. Chem., 1883, t. XXII, p. 76. — Jahresb. f. Chem., 1883, p. 1549. — Eco Indust., II, p. 852. — Chem. Zeit., V, p. 934. — Jahresh. Pharm. u. Toxikol., 1881-82, p. 385). Im questo breve lavoro è ricordato come sia dovuto a Selmi il metodo per depurare lo zinco da traccie d’arsenico mediante fusione ed immersione di pezzi di cloruro di ammonio. Col titolo di: Purificazione dello zinco arsenifero col metodo di Fr. Selmi, nel 1884 (“ Riv. di chim., med. e farm. ,, II, p. 444) I. Guareschi rivendicò al nostro chimico il metodo di depurare lo zinco mediante il cloruro di ammonio; metodo che alquanto modificato era stato proposto come nuovo da L’Hòte. Lescceur (0. R., 1893, t. 116), in un lavoro: Sur la purification du zine, ha confermato e perfezionato il metodo di Selmi e di L’Hote. 215. Alcaloidi venefici e sostanza amiloide dell’albumina in putrefazione (1° giugno 1879). (Atti R. Acc. Lincei (III), IV, pp. 75-88). 216. Ricerca del fosforo nelle urine in caso di avvelenamento (1° aprile 1880). (Mem. R. Acc. Bol., 1880 (IV), I, pp. 275-289 con 1 tav. — Riv. sperim. freniatria e med. leg., 1880. — Zeits. f. analyt. Chem., 1882, XXI, p. 481. — Gazz. chim., X, p. 437. — Jahresb. f. Pharm. u. Toxikol., 1881-82, p. 814. — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 51. — Zeits. f. analyt. Chem., 1882, t. XXI, p. 301). Serie II. Tox. LXII ui ICILIO GUARESCHI 134 DO Ut (0.6 A questa fece seguito: Nuovo esame di urine fosforate; fosfine venefiche che se ne ritraggono (20 maggio 1880). (Mem. R. Acc. Bol. (IV), I, pp. 777-792. — Arch. d. Pharm., (8), XIX, p. 276. — Jahresb. f. Chem., 1880, p. 1739 e 1881, p. 975. — Journ. of chem. Soc., 1882, t. 42, p. 845). 217. Esame dell'urina di un itterico grave in correlazione coll’esame di umurina fosforata. (Mem. R. Acc. Bol. (IV), I, pp. 291-293). 218. Sulla fallacia del reattivo di Van-Deen per determinare le macchie di sangue (1° apr. 1880). (Mem. R. Ace. Bol. (IV), I, pp. 295-297). 219. Sulla ricerca dell'acido cianidrico, di quella del cianuro di mercurio e di una reazione della stricnina. Bologna, 1878. 220. Nozioni pratiche sul modo migliore di estrarre gli alcaloidi cadaverici. Bologna, 1880. 221. Sopra due arsine formatesi in uno stomaco di maiale salato con anidride arseniosa (22 aprile 1880). (Mem. R. Acc. Bol., 1880 (IV), I, pp. 299-305. — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 55). 222. Sulla fermentazione butirrica. (Encielop. chim., vol. III, p. 412 e Compl. e Suppl., 1880, II, p. 728). 223. Ricerche chimico-tossicologiche sopra il cervello di uno che si avvelenò con fosforo (letta il 20 maggio 1880). (Mem. R. Ace. Bol. (4), t. I, pp. 793-802. — Mon. Scient., 1881 (3), t. X, p. 54). 224. Ricerche chimico-tossicologiche sul fegato di uno che si avvelenò con fosforo (in collab. con C. Stroppa, letta il 20 maggio 1880). (Mem. R. Ace. Bol. (4*), I, pp. 803-810. — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 54). 225. Riepilogo e considerazioni sulle quattro memorie precedenti. (Mem. R. Ace. Bol. (4°), I, pp. 811-888). 226. Weitere Studien iiber das Vorkommen phosphorhaltiger Basen im Harn und in verschie- denen Organen bei acuter Phosphorvergiftung (xiass. e trad. del prof. Husemann) in: (Arch. f. Pharm., 1881 (8), t. XIX, pp. 276-292). 227. Ricerche intorno ad. alcuni prodotti che si riscontrano nel’urina di un cane avvelenato col- Vacido arsenioso (letta il 18 nov. 1880). (Mem. R. Acc. Bol. (IV), t. II, pp. 3-26.— Gazz. chim., 1882, p.558. — Jahresh. f. Chem,, 1882, p. 1216). 228. Sopra alcuni prodotti di decomposizione dell’albumina a temperatura un po’ minore di quella del corpo umano (comunie. lette li 11 e 16 dic. 1879). (Rend. Acc. Bol., 1879-80, pp. 49-54 e 59-57). 229. Di alcuni criteri per la ricerca degli alcaloidi in differenza delle ptomaine. Osservazioni in occasione di una perizia chimico-tossicologica addotta in una causa di supposto avve- lenamento presso le Assise di Verona. (Boll. Sc. Med., Bol., 1880, a. LI, (VI), vol. VI, pp. 35-51 e 81-109). (A parte): Bologna, N. Zanichelli, 1880, in-8°, di pp. 47. 135 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 259 230. Prodotti anomali in parte venefici da alcune urine patologiche considerati in correlazione colla tossicologia e la diagnosi medica (Memoria presentata alla R. Acc. delle Scienze di Bologna il 16 dicembre 1880). (Atti R. Ace. Lincei, Transunti, V, 1879-81. — Gazz. chim., 1881, XI, p.546. — Jahresb. f. Chem., 1881, p. 1059. — Ann. di Chim. e Farm., 1888 (4°), VIII, pp. 3-44. — Jahresb. f. Chem., 1888, pp. 2429-2430. — Arch. d. Pharm. (3), 1888, t. XXII, pp. 801-802. — Journ. of Chem. Soc., 1882, t. 42, p. 741). Nella tornata dell’11 dic. 1879 il Selmi parlando della putrefazione dell’albume d’uovo, espose chiaramente la convinzione che nelle urine patologiche sarebbersi riscontrati alcaloidi e prodotti della putrefazione nel vivo. I sigg. Bouchard, Felz, Ehrmann, Pouchet e Villiers ed altri fecero dal 1882 delle ricerche sulle ptomaine che si trovano nelle urine in diverse malattie; ma nessuno di loro ricordò i lavori di Francesco Selmi pubblicati nel 1880 e che si riferiscono appunto a quelle ptomaine che egli denominò pato-amine perchè sì trovano nell’organismo in istato patologico. Perciò io ed Albertoni pubblicammo il lavoro del Selmi negli “ Annali di Chimica e Farmacologia ,, 1888 (4°), t. VIII, pp. 3-44. 231. Piomaine od alcaloidi cadaverici e prodotti analoghi da certe malattie in correlazione colla medicina legale (Memorie del Prof. Fr. Selmi pubblicate ad ischiarimento nelle cause per veneficio). (Bolosna, N. Zanichelli; 1881, in-8° di pp. 1v-307). Questo volume è dedicato a Tommaso Villa, allora Ministro di Grazia e Giustizia; è una nuova edizione con aggiunte e correzioni dell’opera segnata al numero 189. TN Governo italiano, nel 1880, su proposta del ministro di Grazia e Giustizia onor. Tom- maso Villa nominò una Commissione apposita, allo scopo di studiare le gravissime questioni che si riferivano alla prova nei reati di veneficio ed i caratteri speciali dei veleni cadaverici. Questa Commissione nominata coi decreti 11 aprile e 4 nov. 1880 era composta dei prof. Fr. Selmi, presidente, G. Lazzaretti, A. Moriggia, E. Paternò, I. Guareschi, P. Spica, A. Mosso, D. Toscani. 232. Cenni cronologici delle osservazioni fatte sulle sostanze d’indole alcaloide che si formano durante la putrefazione, all’illustre Accad. di Medicina di Parigi. (Riv. sperim. di freniatria e med. legale, a. 1881). 233. Sulle basi patologiche (Nota presentata il 6 marzo 1881). (AttiR. Ace. Line., 1881 (III), Transunti, vol. V, pp. 174-179. — Gazz. chim., 1881, p. 546. — Mon. Scient. (3), 1882, t. XII, p. 852). 234. Nuove modificazioni al processo per Vestrazione dell’arsenico (Nota presentata il 1° maggio 1881). (Atti R. Acc. Lincei (III), V, pp. 237-243). 235. Nuove ricerche sulle basi patologiche e d’un fermento saccarificante nell’urina di uno scor- butico (presentata il 1° maggio 1881). (Atti R. Acc. Lincei (II, V, pp. 243-248). 236. Sul fermento saccarificante delle urine (19 giugno 1881). (Atti R. Ace. Lincei (III), V, pp. 300-303). 260 ICILIO GUARESCHI 136 237. Sull’azione saccarificante dei sali neutri (19 giugno 1881), (Atti R. Ace. Lincei (III), V, pp. 330-332). Questo è l’ultimo lavoro pubblicato dal Selmi. 238. Breve esposizione della scoperta di un principio saccarificante contenuto nell’albume dell’ovo, ossia: Principio diastasico trovato nell’albume d’ovo (lettera a G. B. Ercolani e due memorie in data di Vignola 22 luglio 1881). (Rend. R. Acc. Bol., 1881-82, pp. 11-13. — Mem. R. Accad. Se. Bol. (IV), t. III, nov. 1881. — Mon. Scient., 1882 (3), t. XII, pp. 70-71). 239. Tolleranza degli animali domestici per Varsenico e sua distribuzione nell'organismo (Eram- mento di un lavoro inedito del Prof. Fr. Selmi). (Riv. di chim., med. e farm., dir. da Albertani e Guareschi, 1883, vol. I, pp. 321-326). 240. Ein Strychninùhnliches Ptomain. (Zeits. f. analyt. Chem., 1882, XXI, p. 624). 241. Zerstorung d. organ. Substanz bei gerichtlichen Untersuch. besonders zur Auffindung des Arsen. (Gazz. chim., 1880, X, p. 431. — Zeits. f. analyt. Chem., XXI, p.307. — Pharm. Centralb., XXII, p. 80. — Jahresb. d. techn. Chem., 1881, p. 373). Alcuni lavori del Selmi trovansi riassunti nel “ Zeits. f. analyt. Chem. , del Fresenius, ma solamente gli ultimi e vi furono inseriti dopo la morte del nostro chimico. Così pure gli stessi lavori trovansi nel “ Jahresb. i. Forts. Pharm. u. Toxik. , di Beckurts, 1881-1882. — In questi “ Jahresb. , vi è sempre un capitolo intero, sulle Piomaine, che secondo la proposta di Kobert i redattori chiamano Ptomatine. I principali lavori di Selmi sulle Ptomaine furono fatti conoscere in Germania specialmente dall’Otto, dall’Husemann e da Beckurts: Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche Chemie und Toxrikologie (Arch. d. Pharm., 1881 (3), t. XIX, pp. 187-204 e 415-424). Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche Chemie und Toxikologie (Arch. d. Pharm. di E. Reichardt, 1882 (3), t. XX, pp. 270-289). i Die Ptomaine und ihre Bedeutung fi die gerichtliche Chem. und Toxikologie (Arch. £. Pharm., ivi (3), t. XXI (1883), pp. 401-417 e 481 a 488). Die neuesten Studien iiber Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche Chemie u. Toxikologie (Arch. d. Pharm., 1884 (3), XXII, pp. 521-533). Riassume dei lavori sulle Ptomaine dopo la morte di Selmi, cioè quelli di Guareschi, Brieger, ecc. I lavori di Selmi sono stati dall’Husemann riassunti anche nel classico “ Schmidt's Jahr- buchemn ,. Scritti inediti. 242. Fra gli scritti scientifici inediti ricordo: 1° Un voluminoso Trattato di chimica tossicologica, del quale l'Autore lasciò quasi com- pleto il primo volume. 2° Dei miglioramenti opportuni per un più utile insegnamento scientifico sperimentale nell’ Università di Bologna (colla data 6 luglio 1868). L’autografo di questo discorso trovasi a Modena presso gli eredi di Luigi Zanfi, già Capo Divisione al Ministero dell'Istruzione ed amicissimo: del Selmi. 137 3 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 261 Trattati. — Traduzioni. — Enciclopedia di Chimica. 243. Alcuni preliminari di chimica generale nei quali si dà contezza delle recenti modificazioni proposte per la nomenclatura e la classificazione dei corpi, seguiti da una esposizione breve e chiara delle nuove dottrine chimico-organiche del Liebig, fatta dal Dott. Ferd. Hoefer, opuscolo pubblicato a vantaggio di tutti quelli che si accingono allo studio della chimica. Modena, tip. Vincenzi e Rossi, 1845, in-8°, pp. 68. Un cenno in “ Ann. Majocchi ,, 1848, X, p. 188. 244. Preliminari di chimica generale, sequiti da un compendio di chimica organica. Modena, 1843. N. B. Non ho potuto vedere quest’opera. Credo che siala stessa indicata precedentemente. 245. Farmacopea ragionata ossia Trattato di farmacia pratica e teorica di N. G. Henry e G. Guibourt. — Trad. di Fr. Selmi con aggiunte inedite del Guibourt e del traduttore. Modena, 1842-44, 2 vol. in-8°, XXTV-400 e 434 pp., con 12 tav. 246. Atti verbali della sottosezione di chimica del 24, 26, 27 e 28 sett. 1842. (Atti della 4* riunione degli Scienziati Italiani tenuta in Padova nel sett. 1842. Padova, 1843, pp. 467-484). 247. Prolusione detta nella scuola di chimica del R. Liceo di Reggio il giorno XV ottobre MDCCCXLILI, incominciando un corso di lezioni intorno a questa scienza. Modena, tip. del R. D. Camera, 1844, in-8°, di pp. 27. (Dal Giorn. lett.-scient. mod., 1° sem. 1844, t. VII, pp. 5-27). 248. Formole di alcuni liquidi da indorare col processo elettrochimico di Fr. Selmi. Tip. Tor- reggiani e Comp., 10 maggio 1844, foglio vol. Circa la priorità della scoperta del metodo, v. il “ Man. dell’arte d’indorare , ecc., pp. 99-108, e Grimelli, Metodo originale italiano di elettrodoratura, Modena, 1844, p. 10. 249. Atti verbali della sezione di chimica, adunanze del 13, 14, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26 settembre. (Atti della VI riunione degli Scienziati Italiani tenuta a Milano nel sett. 1844. Milano, Pirola, 1845, pp. 135-201). 250. Manuale dell’arte d’indorare e d’inargentare coi metodi elettrochimici e per semplice immer- sione, compilato sugli scritti e sui lavori di Brugnatelli, Bouquillon, Boettger, Bagration, Briant, Dumas, Elkington, Elsner, Frankenstein, Graeger, ecc. ad uso degli artefici italiani. Reggio, 1844, in-16°, pp. viri-174. A questo fece seguito: i Elettrometallurgia. Brevi parole intorno all'articolo bibliografico del “ Manuale d’indorare e inargentare , predetto, inserito nel “ Foglio di Modena , 25 luglio 1844 e ivi, 5 agosto 1844. Questo “ Manuale , fu tradotto in francese col titolo : Nouveau Manuel complet de dorure et d’argenture par la méthode électrochimique et par simple immersion, de Fr. Selmi, traduit de l’italien et ausmenté de toutes les nouvelles décou- vertes par E. De Valineourt. Paris, Roret, 1845. 962 ICILIO GUARESCHI 158 251. Bollettino farmaceutico (redattore principale Fr. Selmi). (Ann. Majocchi, vol. XIII, XIV, XV, XVI XVII, XVIIL XDX, XX, XXI, XXJII, XXIII, XXIV, XXV, XXVI cioè dal 1° trim. 1844 al 2° trim. 1847. In questo bollettino il Selmi, oltre a dare notizie dei lavori fatti in Italia ed all’estero, vi inserì molte osservazioni proprie). 252. Elettrometallurgia. Brevi parole intorno all’articolo bibliografico del “ Manuale d’indorare e inargentare coi processi elettrochimici ,. (Foglio di Modena, 25 luglio 1844). V: N. 250. 253. Quanto la chimica abbia contribuito al progresso delle arti e delle industrie, prolusione detta nel nov. 1844. nel R. Liceo di Reggio. Modena, C. Vincenzi, 1845, in-8°, di pp. 30. 254. Annuario ital. di chim. e di fisica dell’anno 1846, divetto dal Prof. Fr. Selmi e compilato dal medesimo in compagnia dei Sigg. D. N. Vergalli, D. G. Parmeggiani, Fr. Terracchini e Ant. Selmi chim. farmacisti. Modena, C. Vincenzi, 1847, in-8°, di pp. xxx1v-444, con 2 tav. 255. Annuario chimico italiano dell’anno 1845, diretto dal Prof. Francesco Selmi e compilato dal medesimo in compagnia dei signori Dott. G. Parmeggiani, med. prim. nell’ospitale di S. Vincenzo in Reggio, e Giovanni Giorgini, assistente presso la cattedra di chimica nella R. Università di Modena. Anno I. Reggio, presso l’editore proprietario Fr. Selmi, 1846. Modena, tip. A. Rossi, in-8°, pp. xx1-396. 256. Discorso pronunciato dinanzi ai convittori del Collegio di Reggio nel giorno 2 luglio 1846 compiendosi il corso delle lezioni di chimica elementare tenuto ai medesimi nell’anno scola- stico 1845-46. Modena, A. e A. Cappelli, 1846, in-8°, p. 19. 257. Principi elementari di chimica minerale. Torino, Cugini Pomba e Comp., 1850, Stab. tip. Fontana, in-24°, p. 432. Di questa opera fu fatta una 2* edizione col titolo: Principii elementari di chimica minerale per uso dell’'insegnamento ginnasiale, liceale ed universitario. 2% edizione riveduta e rifatta in varie parti dall’autore. Torino, Un. Tip. Edit., 1856, in-8°, p. 516. 258. Principii elementari di chimica organica. Torino, Cugini Pomba e Comp., 1851, in-24°, p. 535. Questa opera è oggi rarissima, quasi introvabile. In questi suoi Principi di Chimica organica e nelle sue Annotazioni al Regnault 1852, t. IV, p. 571, tratta a lungo dei metodi di estrazione degli alcaloidi in modo quale non si trova in nessun libro italiano di quel tempo. 259. Corso elementare di chimica per uso delle scuole universitarie, secondarie, normali ed indu- striali di M. V. Regnault. Prima trad. ital. sulla seconda frane. del Prof. Fr. Selmi e G. Arpesani. Torino, Cugini Pomba e C., 1851-1852, 4 volumi in-8° picc. con figure. Con note dei traduttori. L'importanza grande del libro del Regnault tradotto e commentato dal Selmi e tradotto poi anche in tedesco e in inglese fu da me fatta notare anche a proposito delle leggi di Berthollet (V. Storia della chimica in Italia dal 1750 al 1800, C1. L. Berthollet, p. 347). E mi compiaccio che il giudizio da me dato del libro del Regnault sia stato recentemente confermato dal Le Cha- i e agi lp PRETE - 1 ; MO. 139 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 263 telier nel suo discorso in occasione del centenario di Regnault .(“ Rev. Scient., 1910, 2° sem.). Questo prezioso libro è stato assai utile ai chimici italiani specialmente dal 1850 al 1870 e ne è ancora oggi utile la lettura (V. questa mem., p. 19 [143]). 260. Lezioni di chimica agraria del Prof. Faustino Malaguti. Ed. ital. per cura del Prof. Fran- cesco Selmi. Torino, Cugini Pomba e C., 1851, in-8° pice. Anche questo libro ora è raro. 261. Lettere prime e seconde di Giusto Liebig sulla chimica e sue applicazioni all'agricoltura, alla fisiologia, alla patologia, all'igiene ed alle industrie, nuova edizione condotta sull’ori- ginale tedesco del Dott. Emilio Leone ed annotate dal Prof. Fr. Selmi. Torino, Soc. Ed. della Bibl. dei Comuni Ital., tip. Ferrero e Franco, 1853, in-8°, di pp. virt-519. 262. Chimica elementarissima ossia Nozioni facili e compendiose di chimica colle applicazioni all’igiene, all’economia domestica ed alle arti, esposte da Fr. Selmi. Torino, Paravia e C., 1855, in-16°, di pp. 324. 263. Nouveau Manuel de dorure et argenture par la méthode électrochimique (insieme con Va- lincourt, Mathey et Malepeyre, Paris, 1856). 264. Rassegna bimestrale di scienze e di industrie. (Rivista contemporanea di Torino, vol. III, 1855-56. — Vol. IV, 1855, pp. 653-558. — Vol. V, 1856, pp. 353-362. — Vol. VI, 1856, pp. 238-246). 265. IL Tecnico. Periodico mensile. Anno I-III, vol. I, Torino, 1857. Questo giornale fu fondato e diretto nel 1857 da Francesco Selmi e Giuseppe Clementi, ai quali nel 1858 si aggiunsero come direttori Emilio Bertone di Sambuy e l’ing. Pietro Conti (vol. IM). Il vol. IMI (1861) era diretto ancora da Selmi e Clementi; e poi cessò le pubblicazioni. Era un giornale pratico. 266. Del vino. Fabbricazione, conservazione, analisi, ecc. (con appendice di I. Guareschi). Torino, 1878 (ristampato), 1 vol. in-16°, di 423 pp. 267. Enciclopedia di chimica scientifica ed industriale. 11 vol. in-4° e 3 vol. di complemento e supplemento. Torino, 1867-1881. V. pagg. 19-20 [143-144]. 268. Compendio. storico della chimica. In: Encielop. di Chim., vol. XI, p. 503 a 739. È un lavoro di compilazione non privo di importanza. Per la prima volta in un libro italiano si dànno ampie notizie sulla vita e sulle opere di molti chimici italiani. 268%. Introduzione allo studio della chimica. Torino, 1849 (inedito). Quest'opera fu premiata dalla R. Acc. delle Scienze di Torino. Il manoscritto si conserva ancora nell’archivio della R. Accademia. Non fu, a quanto io so, pubblicata: però il Selmi nel vol. III del Corso di Chimica del Regnault a p. 454 pubblicò il capitolo che riguarda l’iso- morfismo. La parte III del manoscritto servì al Selmi per i suoi Principii elementari di chi- mica organica. i DO (er) sé 269. tera: 270. 271. 273. 274. 275. 276. 278. 279. 280. 281. ICILIO GUARESCHI 140 Bibliografia letteraria. Iconografia de’ celebri vignolesi, edita per cura di Fr. Selmi. Modena, a spese di G. Lappi librajo, 1839, in-8° di pp.4 n. n. e fascicoli sette rispettivamente di pp. VI, III, IV, IV, VII VI, VIII con sette ritratti. Quest'opera, che credo la prima di Selmi, è dedicata da lui a Carlo Garavicini con let- Vignola, 25 dicembre 1838. Biografia di Jacopo Barozzi detto il Vignola. (Museo scient.-lett., anno I, 1839, p. 374). Biografia di Giacomo Tosi (Modena, 3 dicembre 1839); Modena, Soliani, 1840, in-89, di 12 pp. Estratto da: (Mem. di rel., mor. e lett. (2), t. VIII (1839), pp. 391-400). . Biografia della contessa Carolina Forni nata Riccini. Modena, Eredi Soliani, 1840, in-8°, di pp. 12. Estr. dalle: (Mem. di rel., mor. e lett. (2), 1840, t. X, pp. 164-171). Biografia di una donna benefica (Teresa....). (Giorn. lett.-scient. mod., feb. 1840, t. I, pp. 364-367). Del modo che tennero i latini nel tradurre i greci, e gli italiani nel volgarizzare i primi e è secondi, lezione di Lorenzo Mancini, recensione. (Giorn. lett.-scient. mod., marzo 1840, t. I, pp. 419-426). Quando il M. R. P. Gio. Luigi da Castelfranco di Genova, cappuccino, lettore di Parma, dava compimento la domenica in Albis dell'a. MDCCCXL al corso di sue quaresimali fatiche nella chiesa plebanale di Vignola, Sonetto. Modena, tip. Vincenzi e Rossi (1840), in foglio vol. Ricorrendo in Vignola la festività di S. Terenzio martire il dì XXXI maggio MDCCCXL, ode dedicata al merito esimio ed alle preclare virtù di S. E. R. mons. L. Reggianini, tip. Vincenzi e Rossi (1840), in foglio vol. . Jacopo Cantelli. (Museo scient.-lett.-art., Torino, 1840, II, p. 51). Cenni storici intorno a Vignola. (Museo scient.-lett.-art., Torino, 1840, II; pp. 133 e 199). Lodovico Antonio Muratori. (Museo scient.-lett.-art., Torino, 1840, II, p, 281). Biografia di una povera cieca (Giulietta.....). (Giorn. lett.-scient. mod., luglio 1840, t. II, pp. 284-288). Necrologia patria (Dott. Angelo Crespellani). (Foglio di Modena, an. I, n° 24, 23 sett. 1841; firm. Un Vignolese in Livizzano). fe 141 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 265 282. Necrologia di Eva Baldini vignolese. (€ Silfo ,, Giorn. di Modena, n° 23, nov. 1841). Questa necrologia fu ristampata in nota a una canzone di Guglielmo Raisini, a pag. 20 dell’opuscolo seguente: 283. Cenni storici intorno la chiesa plebanale di Vignola. In versi ed epigrafi per le sacre feste celebrate in Vignola nei giorni 21 e 28 agosto 1842 in occasione della riapertura della chiesa plebanale nuovamente ampliata ecc., Modena, tip. Vincenzi e Rossi, 1842, in-8°, pp. 5-14. 284. Commentario sulla vita del prof. Carlo Merosi. (£ Foglio di Modena ,, an. III, n° 235, 2 ott. 18483). 285. 1 primi racconti scritti da un maestruccio di scuola, Modena, Vincenzi, 1847, in-14°, di p. 128. 2* ed., Torino, Paravia, 1868, col titolo: Racconti morali scritti da un maestruccio di scuola, per lettura dei giovinetti italiani. 286. I favoleggiatore ossia Raccolta di favole in lingua volgare, scelte, emendate e purgate, non che opportunamente annotate ad usum serenissimi saeculi XIX, dal M. di S., Torino, G. B. Paravia, 1857, in-16°, di pp. 168. (M. di S. ossia Maestro di Scuola, pseudonimo di Franc. Selmi). 287. Collezione degli atti ufficiali del cessato Ministero della Pubblica Istruzione nel Governo dell’Emilia, Modena, Eredi Soliani, 1860, in-8°, di pp. 1v n. n. e 168. 288. Due nuovi codici dell’Imitazione di Cristo in volgare (Della R. Biblioteca Universitaria di Bologna). (€ Effemeride , della Pubblica Istruzione, Torino, 31 dicembre 1860, an. I, n° 15, p. 253). 289. Di una edizione della Commedia da pubblicarsi nel sesto centenario della nascita di Dante. (Rivista contemporanea, an. IX (aprile 1861), vol. XXV, pp. 62-82). (A parte): Torino, Un. Tip., 1861, in-8°, pp. 23. Cfr. Ferrazzi, Manuale dantesco, vol. I, pp. 768-771. È firmato: “ Uno della Commissione dei testi di lingua, dall’ Emilia, 30 gennaio 1861 ,. Questo, e tutti gli altri lavori danteschi di Selmi sono pregevolissimi. 290. Di uno studio da fare per Vedizione nazionale della Commedia di Dante Alighieri. (Riv. contemporanea, an. IX (luglio 1861), vol. XXVI, pp. 70-87). (A parte), s. note: Tip. Un. Tip., in-8°, pp. 18. È firmato: “ Uno della Commissione dei testi di lingua ,. 291. L’ingegno italiano e convenienza al Governo di assecondarne il rifiorimento. (Rivista contemporanea, an. IX (ag. e sett. 1861), vol. XXVI, pp. 272-284 e 383-401). (A parte): Torino, Un. Tip., 1861, in-8°, pp. 31. 292. La lingua nazionale dell’Italia nuova (all’Eccellenza del Sis. Cav. C. L. Farini, Deputato al Parlamento Nazionale). i (Rivista contemporanea, an. IX (dicembre 1861), vol. XXVII, pp. 342-382). (A parte): To- rino, Un. Tip., 1861, in-8°, pp. 39. Serie II, Tox. LXII ri 266 ICILIO GUARESCHI 142 293. Di alcune ragioni della presente mediocrità in Italia. (Rivista contemporanea, an. X (marzo 1862), vol. XXVIII, pp. 383-428). Torino, Un. Tip., 1862, pp. 46. È un bellissimo discorso dedicato al La Farina, ricco di notizie relative al tempo della maggiore decadenza dell’Italia verso la metà del secolo XIX. Egli che nei primi anni fu costretto ad insegnar la chimica in un collegio retto dai gesuiti, scrive: “ I Gesuiti, cui va mancando vitalità al cuore, cercano avviticchiarsi ai popoli ed impacciarne il respiro, affinchè non siano sopravanzati di giovanile robustezza; si avventarono, non appena istabiliti, alla povera Italia, la avvincolarono tra le branche e le restarono stretti come serpente che si attorcigliò alla vittima, e corrompendola come il cadavere legato da Mesenzio al vivo nemico. Si appi- gliarono a tutte le classi..... , Discorre dei Congressi scientifici, fondati dal principe di Canino Luciano Bonaparte, e deplora la decadenza scientifica e letteraria di quel tempo. 294. Documenti cavati dai Trecentisti circa al potere temporale della Chiesa. (Rivista contemporanea, an. X (luglio 1862), vol. XXX, pp. 91-137). (A parte): Torino, tip. Pomba, 1862, in-8°9, pp. 48. Questa è una stupenda dissertazione sul potere temporale dei papi. Benchè religioso, si sente in lui l’animo libero, l’onestà morale, il vero senso del giusto. A pag. 99 ricorda alcune parole di Fra Domenico Cavalca, il quale dice: “ Perciocchè si legge che allora che Costan- tino diede al papato l’ammanto e il cavallo bianco e la signoria, fu udita una voce che disse: Oggi è messo il veleno nella Chiesa di Dio ,. A pag. 181-132 il Selmi, animo buono e cuor d’oro, descrive gli ultimi momenti di Pietro Derossi di Santa Rosa, Ministro nel 1853 quando fu proposta ed approvata la legge di aboli- zione del foro ecclesiastico, con parole che meritano davvero di essere riprodotte: “ Al parroco di San Carlo di Torino, un frate servita, si mandò 1 ordine non concedesse il pane mistico, se non adempiuto alle condizioni imposte; e padre Pittavino, cieco ‘strumento e pervicace dei comandi arcivescovili, non mancò al bieco assunto. Invitato, andò alla casa dell’infermo, ivi trattenendosi con faccia oscura ed accigliata, non ad arrecare quei soavissimi conforti all’animo abbattuto che tanto fortemente lo sollevano dallo sgomento e le dànno lena al transito, quanto per istarvi ministro di tortura e di un proposito implacabile. Quan- tunque il Santa Rosa avesse dichiarato formalmente di avere nell’ufficio suo concorso in sua piena tranquillità a dar voto col Ministero contro le pretensioni ecclesiastiche; quantunque in allora fosse paruta bastevole una dichiarazione somigliante per consolarlo dell’ostia eucaristica, nondimeno adesso volevasi di più, cioè la ritrattazione pura, esplicita, pubblica, di avere male operato. Contava il frate sullo stremo di forze dell’agonizzante, sulla brama ardentissima che pure andava manifestando, di ricevere il Santo dei Santi, qual ultimo balsamo di dolcezza infinita che tutto spegne l’amaro della morte; laonde agguantavalo, spiavalo, coglievalo in quei momenti ne’ quali gli sembrava più disposto, affine di carpirgli la voluta parola. Non mai fiera selvatica stette così all’assalto della vittima sua. Battaglia fu di crudeltà inimmaginabile; la misera moglie, disperatane, si buttò ai piedi del Pittavino, implorando misericordia; il confes- sore, presente, addoloratissimo, si fece a pregarlo e supplicarlo si commovesse. Il morente stesso implorò pietà, che non gli togliesse quell’estremo alleviamento allo spirito trambasciato; mirasse la donna sua in terribili angoscie; non pretendesse da lui una tal dichiarazione non conforme al sentimento ; aversi già rappacificato con Dio, in umiltà di mente, dinnanzi a chi teneva podestà legittima di scioglierlo. “ E il frate perdurò inflessibile a riproporgli la via di accomodamento; e l’altro, con voce ferma a rispondere, non avrebbe detto cosa contro sua persuasione, non lasciata tal macchia ai figliuoli orfanelli; e il frate di quella dignità non fu punto, come non lo era dallo spetta- 143 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 267 colo di desolazione sterminata che stavagli dinanzi; e pretestando la sua obbedienza all’arci- vescovo, voltò le spalle, neppure accorgendosi nella bestiale caparbietà sua, che il crisma sacer- dotale onde fu consacrato gli ardeva alle mani, e gli si consumò addosso. Oh se non ebbe tanto cuore da pigliarsi in allora piuttosto la dannazione che perdurare agli spasimi di quel pove- retto, o in colui nulla era stato giammai di umano, o meglio la religione mal intesa, agghiaceia ì visceri e rende l’uomo non dissimile degli animali impietriti ,. Questa dissertazione è aecompagnata con lettera del Selmi all’amico suo Luigi Zini. 295. Di alcuni tratti e dell'intero episodio della Francesca da Rimini. (Rivista contemporanea, an. X (dicembre 1862), vol XXXI, pp. 430-467). Cfr. Ferrazzi, Manuale dantesco, vol. II, pp. 575-578. 296. Commemorazione dei fratelli Emilio e Alfredo Savio morti nelle guerre italiane degli anni 1860-61. In Compianto sulla tomba onorata di E. e A. Savio caduti nelle battaglie italiche degli anni MDCCCLX e LXI, alla famiglia diserta, gli amici. Torino, tip. Paravia e 0, 1862, pp. 3-32. 297. Carlo Matteucci. Torino, Un. Tip., 1862, in-24°, pp. 78. E il N. 60 della raccolta biografica: I contemporanei italiani, galleria nazionale del sec. XIX. 298. Del risentimento e della vendetta negli italiani. (Rivista contemporanea, an. XI (febb. 1863), vol. XXXII, pp. 161-199). (A parte) estr. s. note: Torino, Un. Tip., 1863, in-8°, pp. 36. Anche questo è un bellissimo scritto. 299. Dell’antica novella italiana in ottava rima. (Riv. contemporanea, an. XI (ag. 1863), vol. XXXIV, pp. 261-295). 300. Gibello. Novella inedita in 8° rima del buon secolo della lingua. Bologna, G. Romagnoli (tip. Fava e Garagnani), 1863, in-16°, pp. xI11-59. È la dispensa XXXV della Scelta di curiosità letterarie. 301. L'intento della Commedia di Dante e le principali allegorie considerate storicamente. I. Il primo concetto della D. C. — II. Il nuovo intento della Commedia. — III Le tre fiere. — IV. Il Veltro del I canto. — V. Virgilio, Beatrice e le tre donne divine del canto II. — VI. Dell’importanza attribuita da Dante alla sua origine latina. — VII. Cerbero, Plutone, Dite, Gerione. — VIII. Il Desiderato del canto XX del Purgatorio. — IX. I Vendicatore del canto XXX del Purgatorio (Data in cui fu scritto il Convito e comunanza di scopo tra le opere in prosa di Dante e la Commedia). (Riv. contemporanea, an. XII (febb.-giugno 1864), vol. XXXVI, pp. 268-283, 408-419 e vol. XXXVII, pp. 883-101, 245-265 e 439-449). (A. parte). Estr. s. note: Torino, Un. Tip., 5 fasc. in-8°, di pp. rispettivamente 16, 12, 19, 21 e 17. Cfr. Ferrazzi, Manuale dantesco, vol. IV, pp. 278-279. 302. Del concetto dantesco, libero papa in libero impero, del desiderato e del trionfo di Beatrice (con lettera di Torino, 15 nov. 1864, al senatore M. A. Castelli). I. Il Monarca universale. — II. Il Papa e l'Imperatore. — II. Il Veltro e il Desiderato. —IV.1l trionfo di Beatrice. — V. Breve considerazione. (Rivista contemporanea, an. XII (nov.-dic. 1864), vol. XXXIX, pp. 260-283 e 407-424). {A parte). Estr. s. note: Torino, Un. Tip., in-8°, 1864, pp. 41. 268 ICILIO GUARESCHI 144 303. Giuseppe La Farina, cenni biografici. (Riv. contemporanea, an. XII (aprile 1864), vol. XXXVII, pp. 56-82). 304. Chiose anonime alla prima cantica della Divina Commedia di un contemporaneo del poeta, pubblicate per la prima volta a celebrare il sesto anno secolare della nascita di Dante, da Fr. Selmi, con riscontri di altri antichi commenti editi ed inediti e con note filologiche. Torino, Stamp. Reale, 1865, in-8°, pp. xxx11-219. Il Casini nota: Si vedano in proposito: T. Paur, Ueber die von Fr. Selmi herausgegeben Chiose anonime zu Dante’s Inferno in “ Dante Jahrbuch., I, p. 333-361; L. Rocca, Di alcuni commenti della Div. Commedia, composti ne primi vent'anni dopo la morte di Dante, Firenze, Sansoni, 1891; e F. PeLLEGRINI, Le chiose all’Inferno edite dal Selmi, in “ Giorn. Stor. della lett. ital. ,, a. 1889, vol. XIV, pp. 421-431. Questo lavoro è dedicato alla città di Torino. 305. Due componimenti inediti di Dante Alighieri. (Riv. contemporanea, an. XII (senn. 1864), vol. XXXVI, pp. 96-102). Sono un sonetto che comincia: “ To sono stato con amore insieme , e una canzone: “ Era in quel giorno che l’alta reina ,. 306. Un particolare ignoto della vita di Galileo Galilei. (Nel trecentesimo natalizio di Galileo in Pisa, XVIII febbraio MDCCCLXIV. Pisa, tip. Nistri, 1864, pp. 38-42). 307. IL Convito: sua cronologia, disegno, intendimenti, attinenza colle altre opere di Dante. Dis- sertazione. Torino, G. B. Paravia, 1865, in-8°, pp. viri-113. È scritto in ottima lingua; la prefazione o avviso al lettore è un vero gioiello. Questo lavoro è dedicato alle città di Firenze, Verona e Ravenna. 308. Battista Cannatelli ossia Modena nel triennio dopo il 1831. Racconto di Italo De’ Vecchi (pseudonimo di Selmi). Napoli, 1866, in-16°, pp. 245. 309. Canzone inedita di Dante Alighieri. 2* ed., Torino, Un. Tip. Ed., 1868, in-16°, pp. 14, per le nozze Zambrini-Della Volpe. (Edizione di 50 esemplari, con nuove cure, della canzone già registrata al n. 29). 910. Lettera a Pietro Muratori, 31 ottobre 1872. (In Lettere per occasione delle feste centenarie di Lod. Ant. Muratori, scritte da uomini illustri e pubblicate a spese del Municipio di Modena. Modena, tip. A. Capelli, 1873, in-8°, p. 40). 311. Dei trattati morali di Albertano da Brescia, volgarizzamento inedito fatto nel 1268 da Andrea da Grosseto, pubblicato a cura di Fr. Selmi. Bologna, G. Romagnoli (R. Tip.), 1873, in-8°, pp. xviri-396. È il vol. XXXVII della Collezione di opere inedite e rare dei primi tre secoli della lingua, pubblicata dalla R. Commissione sui testi di lingua. Da questo volume è tolto 12 fiore degli ammaestramenti di Albertano da Brescia, raccolto dal Prof. D. Santagata, Bologna, tip. delle Scienze, 1875, in-8°, pp. xxxvI-156, per le nozze Selmi-Manfredi. È questo il suo ultimo lavoro letterario che Egli ha pubblicato. Seritti inediti. 312. T. Casini, Atti e Mem. della R. Deput. di Stor. Patria per le prov. modenesi (IV serie), vol. X, p. 415, ricorda molti scritti inediti del Selmi, di natura letteraria. n 145 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA SOMMARIO INTRODUZIONE . o 5 : 0 . 0 . Pag. Selmi a Torino — ucno Parga _ Edna has sano Lettere a Bianchi, a Terrachini ed alla moglie I. Biografia . Lettere di Gaga Parte avuta nella rivoluzione del 1859 Stato della Chimica in Italia verso il 1840 Lettere di Malaguti Coltura letteraria del Selmi II. Ricerche di chimica fisica Studi sperimentali e teorici di Hifi MIOIecolate) Cristalli misti isomorfi Delle emulsioni inorganiche Azione della luce Pila a triplice contatto Osservazioni ed esperienze sulle solezioni di “olio di Eoaio Sulle soluzioni sovrasature s Osservazioni ed esperienze sulla iran del o tn) mercurico FAO in Jailoo TOSSO Sulla porpora di Giani Della soluzione 9 II. Delle pseudosoluzioni 0 false ssiuzioni (o) Soluzioni colloidali. AzZuITÌ di Prussia, solfo, cloruro d’argento e caseina colloidali . 5 Appendice A. Sur les produits de la décomposition des acides sulfhydrique et ne au sein de l’eau . . IV. Ricerche di chimica imorsanioa Solfo molle od elastico Solfo molle per via umida Solfo vischioso Azione del vapor d’acqua Dolo dò: ece. Composti alogenici del mercurio 7 Ricerche sul piombo — Tetracloruro di a = TRAZIAA ‘del ioni Della valenza degli elementi Jodio purissimo cristallizzato Preparazione dell’acido jodidrico Jodio sciolto nell’acido solforico Vapori di jodio: violetto e giallo Sui composti d’argento V. Ricerche di chimica organica Composti metallorganici del mercurio Metodo per l’estrazione dell’amigdalina; ricerche ama ecc. Considerazioni sugli elementi cardinali delle molecole organiche . VI, Azioni di contatto o catalitiche Fenomeni di aderenza o di assorbimento; teoria dolo ito; ano del Cantone Fermentazioni Come agiscono i Tanaoi and o enzimi c Attività dei fermenti diastasici in soluzioni saline e a Data) io eraiona 7 Ricerche sulla nitrificazione ed influenza dell’ossido ferrico — Assorbimento o assi- milazione dell’azoto » ” n » 269 270 ICILIO GUARESCHI VII. Ricerche di chimica biologica . 5 S È gl 5 5 Pag! Ricerche sul latte e sulla coagulazione col presame o d 3 i B o 7 Sullo stato della caseina nel latte . . 7 ; 5 ò o È " ” : Sul latte di cagna . Ò 6 : È , ; 5 o È 3 . . 7 Coagulazione del sangue . 4 a Potere idrogenante del latte, del sangue, del oo sE dio e CO into mito solfo È, Azione dello solfo sull’oidio — Azione riduttrice delle muffe, dei funghi e di altri organismi inferiori; riduzione dello solfo, dell’arsenico e dei nitrati . . ò Riduzione dell’arsenico ad arsina; ricerca biologica dell’arsenico . 6 o c n VIII. Ricerche di chimica tossicologica e di chimica legale À Scoperta delle ptomaine . i ò c 6 5 o î Prodotti anomali nelle urine Pocho] _ Paposmine 0 5 , , x 7 Autointossicazione . DE Trasformazioni che bono le corona “agito per Sn siiofazione anto l'organo 1 Ricerche su molti alcaloidi, glucosidi, sostanze amare, ecc. 3 Ricerca tossicologica dell’arsenico . ; » . O c ò 5 : > È Depurazione dello zinco arsenifero . 5 o , È . o c 6 o î Reazione tra lo zinco e l'acido solforico . , 5 5 0 c È o o ù) Ricerca tossicologica del fosforo . 0 È i 3 . ò - 5 î Ricerca chimico-tossicologica dell’acido Giani) a 5 ? : 5 3 È 5 Trasformazione del calomelano entro l'organismo . . Ò o ò 5 - È Ricerche sulle macchie di sangue — Cristalli d’emina . ò 5 x si IX. Chimica applicata all’agricoltura, all’industria, alla Vamel è ecc. . È X. Ricerche varie . } x $ ; È . 3 È o c 0 È) Argento nei minerali metalliferi 6 - È c . . ò o o . ; Acido elaidinico . ) 5 SI: . È 3 : c c 0 g Depurazione del solfato fentoenì 0 o ò h È - 5 ; 5 ò È Sull’isomorfismo . . ò o ò . - o c 0 5 o . c ti Sui cianuri d’oro d ; È 3 5 i 5 XI. Trattati — Traduzioni — Enciclopedia ci Chimica ecc. 6 ò STARS È XII Epistolario . 5 x S x 5 3 5 s ì A ò o ò o Pi XIII. Bibliografia 3 È a è 4 % n } 7 È n È d 3 È: Sull’acido ferrico 5 3 i : î 1 o o A 5 Azione dei cloruri alcalini o ono mercuroso . . o 6 È 6 i Ù Differenza tra precipitazione e coagulazione . c ù ò 6 o o b Ò Stato del jodo nei joduri jodurati . . ; 5 7 È > 2 5 ; ù Reazioni dirette ed inverse i 2 A i È ) y Influenza del solvente nel ina le dato affinità 6 . o c ò A Formazione di acido solfidrico e di solfo molle ò ò 6 ò 7 . c 5 Preparazione del nitrato d’argento . . ò 0 o : . î Distingue l’emulsione dalla dimulsione e pari nnne 0 : 7 a c ” Sul solfo vischioso . 3 3 È È A a S 5 È 5 5 è n Nitrobenzene come antisettico . 5 5 5 5 5 9 6 : 6 5 È Varie ricerche sul latte . ò d 0 5 3 Ò È 3 o 3 n Dissociazione dei sali di noi Y : È n % 3 a i 3 ) Accelerazione delle reazioni . ; , 3 : E 5 , 3 5 0 5 Preparazione dell’alcol assoluto E i : 5 ; . , } 0 ò S Sulle basi nell'organismo vivente . ; 0 . È È ò a 5 5 DO Scritti inediti . È È , . : i 4 } N Trattati, traduzioni — Hiccin ica fi ata ò i 5 ‘ ò ; , È Bibliografia letteraria 5 i ; i Di 5 a a 3 3 Sulla morte di P. Derossi di SARTO Rosa È L 3 3 4 7 { : Ss 101 101 101 102 102 102 103 103 103 104 105 105 105 105 106 106 106 107 108 108 108 110 111 1100 114 115 116 116 122 123 124 126 131 131 133 136 137 140 142 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA AUTORI 271 di cui si è citato qualche brano, o fatto un cenno biografico. Abbene, 109. Abderhalden, 94. Abegg, 57. Acree, 70. Albertoni, 71, 99, 100. Arpesani, 107. Arrhenius, 79. Artus, 70. Avogadro, 1, 4, 8, 16, 34. Bancalari Alberto P., 16. Beckurts, 96. Bensch, 79. Bemmelen van, 42-65. Bersezio, 4. Bertagnini, 8, 11. Berthelot, 50, 115. Perthollet CI. L., 14. Berzelius, 8, 31, 32, 59, 62. Bianchi N., 5, 11. Biilman Finar, 60. Bizio B., 3, 58, 111. Bonaparte L., 3, 108. Bottazzi F., 19. Bouchard, 98, 99, 100, 135. Brieger, 90, 98. Brugnatelli T., 103. Bruni e Padoa, 26-27. Buonamici, 108. Canevazzi G., 7,8. Cantù, 6, 108. Carducci G., 20, 22. Casini T., 108, 111, 164. Cavedoni C., 5. Cavour C., 8, 104. Chandler, 87. Chiesi, 7. Chiozza L., 8, 15, 78. Clementi, 105. Cloez, 53. Colombano A., 101. Colson A., 95. Crouzel, 88. Del Bue, 108. (La numerazione è quella dell’estratto). De la Rive, 122. Doveri L., 16. Dragendorfî, 89. Duca di Modena, 7. Duclaux P. E., 78. Duclaux J., 46. Dumas J. B., 79, 81. Ercolani G. B., 71, 73, 88, 104. Erieson-Auren e Palmaer, 102. Farini L. D., 23. Filippi De, 10. Fleck, 87. Foussereau, 83. Fraticelli P., 20. Fremy E., 29, 36. Freundlich e Loser, 66. Friedrich, 55. Gadamer, 93, 102. Gautier Arm., 78, 90. Gay-Lussac, 58. Gherzi e Conter, 105. Gladstone e Tribe, 131. Giorgini, 31. Gorup-Besanez, 94. Gosio B., 87, 88. Gmelin-Krauts Hand., 44. Graham, 35, 43, 72. Griffiths, 98. Grimaux F., 36. Grimmer W., 76. Guareschi I., 2, 4, 5, 6, 7, 11, 13, 14, 15, 18, 19, 22, 23, 45, 46, 47, 48, 51, 54, 56, 58, 62, 76, 83, 87, 89, 95, 97, 99, 103, 107, 111, ecc. Guareschi Maria, 3. Hamberg, 87. Hammarsten, 78. Hefter, 83. Heintz, 75-76. Hildebrandt, 83. Hofmeister, 94. Holleman, 94. Hiifner, 70. Hubner Tulius, 67. Husemann Th., 95. Jacksch v. R., 98. Justin-Mueller Ed., 66. Kerner, 93. Kéònig I., 94. Kopp Em., 75. Kossel A., 99. Krafft, 94. Kunz-Krause H., 95. Labouré, 111. Ladenburg, 96. La Farina, 7,9. Lanza G., 14. Laurent A., 3, 92. Le Chatelier, 22, 107. Lefort, 103. L’Hòte, 102. Lemery, 35. Lessona M., 17. Lettere alla moglie, 5. 5 a Guareschi, 2, 3, 12, 91. 5 a Bianchi N., 5. 5 a Terrachini, 5. » al Ministero, 11. Liebig J. v., 19, 68, 74. Lindet, 78. Linne Br. ed Ephraim, 44. Linossier, 96. Loewel, 35. Luersen, 70. Majocchi, 17. Malaguti F., 3, 13, 17, 18, 32, 75, 103, 104, 105, 107. Manzini E., 6. Melloni M., 18. Melsens, 68. Menici, 15. Merosi Carlo, 6, 109. Meyer v. Ern., 96. 272 ICILIO GUARESCHI — FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 148 Mialhe, 103. Miquel, 88. Missaghi G., 9, 53, 104. Monari A., 87. Miiller A., 65. Musso G., 47, 75, 77. Myers, 58. Nageli, 2. Nencki, 99. Neubauer e Vogel, 94. Nicola Fr., 98. Oeffinger H., 96. Olivier, 88. Oppenheimer, 76. Ostwald Wilh., 32, 44, 45, 48. Ostwald Wolf., 35. Otto J. e R., 94. Padoa e Tibaldi, 27. Pagliani S., 16. Panum, 93. Pelet e Grand, 66. Pesci L., 73, 91, 95. Peyrone, 15. Piccini Aug., 62. Pieton e Linder, 37. Pillet-Will (premio), 8. Piria RR, 3511 .16,,52: 108. Pouchet, 98, 99. Prati G., 20. Regnault, 13, 19, 105, 107. Rey-Pailhade, 83. Ricci Raff., 4. Richter-Anschiitz, 94. Righi Aug., 30. Ritter I. W., 35. Roscoe-Schorlemmer, 94. Rosenstiehl, 67. Ruspini G., 3. Sabbatini, 7, 9. Santa Rosa P. (Derossi), 142. Savani A., 14, 15. Savio Olimpia, 4. Scaramuzza Fr., 4. Schiff U., 31, 90. Schiffer, 91. Schmidt Ern., 94. Schultz-Sellak, 58. Selmi Fr., Autografo. Selmi Marietta V.*, 1, 6. Sertuerner, 89, 92. Sestini F., 73. Sforza G., 5, 7. Sisley, 66. Sobrero A., 3, 7, 8, 15. Sostegni e Sonnino, 81. Soxhlet, 76. Spaeth, 94. Spiegel, 57. Spring, 37, 46. Spring e De Boeck, 45. Stas I., 16. Stroppa C., 21. Strucchi e Biagi, 6. Svedberg, 35, 45. Taddei G., 16. Terrachini, 5. Ton Fr., 16. Udransky e Baumann, 94, 96, 98. Usiglio, 16. Valincourt, 106. Vaughan e Novy, 95. Vernon A., 91. Vignon, 65. Villa T., 10, 135. Ville G., 73. Villier, 98. Vitali D., 95. Wells, 119. Willgerodt, 96. Wurtz A., 70. Zabn W., 78. Zambrini, 22. Zini L., 7, 143. E — NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO (RADIOLITIDI) MEMORIA DEL SOCIO C. F. PARONA m (con 2 TAVOLE E 7 FIGURE NEL TESTO) Approvata nell'adunanza del 7 Maggio 1911. L I calcari turoniani e senoniani a Rudiste nell'Appennino. Le prime notizie sui calcari a Rudiste del Cretaceo nell'Appennino sono del 1839 e si trovano nelle comunicazioni fatte dal Pirra in occasione del Congresso degli Scienziati Italiani in Pisa (1), con accenno agli ippuriti di Monte Cassino, dei Monti di Caserta, della rupe di Gaeta, e nella Nota di TcHmtHATCHEFF sul Gargano (2). No- tizie più estese e più precise datano dal 1855 e sono esposte nella Memoria di Spapa-Lavini e di Orsini (3) sugli Appennini dell’Italia Centrale; ed è in questa Memoria che sono citate due nuove specie di rudiste (rimaste inedite) del Mexz- GHINI, Radiolites pavonina Mgh. e Caprinula neapolitana Mgh. Questi autori distinsero due zone nei calcari a rudiste: zona inferiore del cal- care grigiastro con gran numero di caprotine a Castellamare presso Napoli; zona superiore del calcare bianco assai ricca di fossili. Questa loro suddivisione della serie merita d'essere ricordata, perchè esatta e perchè corrisponde perfettamente, a parte i riferimenti cronologici, alla divisione del Cretaceo nell'Appennino Meridionale ammessa del Di Lorenzo (4) quarant’ anni dopo, conforme a quella proposta dallo StacHe per il Cretaceo della Dalmazia e dell’Istria (5). Della fauna della zona supe- (1) Prima riunione degli Scienziati Italiani, Pisa, ottobre, 1839 (1840), pag. 87. (2) P. TcHimaTcHEFF, Descript. géognostique du Mont Gargano, “ Bull. d. 1. Soc. G. d. Fr. ,, tome 12, 1841, pag. 413. (3) A. Spapa-Lavini et Orsini, Quelques observations géologiques sur les Apennins de l’Italie Centrale, “ Bull. S. G. d. Fr. ,, 2° sér., tome XII, 1855, cap. VII, pag. 1208. (4) G. Dr Lorenzo, Osservazioni geologiche sull'Appennino della Basilicata, È Mem. R. Accad. di Napoli ,, 1895. - (5) G. Sracae, Die liburnische Stufe und deren Grenz-Horizonte, “ Abhandl. d. k. k. geol. Reichs. ,, Wien, Bd. XIII, 1889. Scsi Row LAI a 274 C. F. PARONA 9 riore, che in gran parte, se non totalmente, corrisponde al Turoniano ed al Seno- niano, gli stessi autori dànno il seguente e interessante saggio: Hippurites organisans Des M. Nerinea Pailletteana d’Orb. p dilatatus Defr. 3 subaequalis d’Orb. 5 flexuosus Cat. » pulchella d'Orb. Radiolites angeiodes Lamk. 5 Olisiponensis Sharpe 9 radiata d’Orb. 1 Uchauriana dOrb. 5 polyconilites d’Orb. È Requieniana d’Orb. 3 pavonina Mgh. Actaeonella conica d’Orb. Caprina adversa d’Orb. Fusus royanus d’Orb. Caprinella triangularis d°Orb. Globiconcha Marrotiana d'Orb. Caprinula neapolitana Mgh. Cardium subdinnense d’Orb. Anche O. G. Cosra (1) scrisse ripetutamente sulle Rudiste dell'Appennino; ma si leggono con poco profitto le sue considerazioni sulla natura e posizione sistema- tica di questi fossili, nè sono sempre facilmente interpretabili le diagnosi e le figure delle forme da lui distinte come nuove. Assai più notevoli, sotto il punto di vista paleontologico, sono gli studi del GuiscarDI (2). La Nota su la Sphaerulites Tenoreana è un modello di descrizione accu- rata e dettagliata di un’unica valva superiore di radiolitide, per sè stessa, pur troppo, insufficiente al riconoscimento del genere ed anche della specie cui essa appartiene. Del pari accuratissima, ma più importante, è l’altra Memoria, colla quale il GuiscarDI ha fatto conoscere una bella e grande nuova specie di ippurite, Hipp. Taburni (H. Baylei Guisc. = H. Taburni Guisc.), che risultò poi comune e caratteristica nel Senoniano dell'Appennino e che fu ritrovata in parecchi altri giacimenti della regione mediterranea. È Pochi altri autori (C. De GroreI, G. Di STEFANO, H. DouviILLÉ) si occuparono in se- guito delle Rudiste del Cretaceo superiore nell’ Appennino meridionale, come già ricordai - nei miei lavori precedenti (3), ai quali seguirono le osservazioni del Di StEFANO (4) (1) O. G. Costa, Atti del VII Congresso degli Scienziati Ital., Napoli, 1845 (Parte I, 1846, pag. 839) — In., Paleontologia del Regno di Napoli (Cap. 1X; Ortoceratiti, Ippuriti, Rudisti, Amplessi, Sferuliti, ed altri Rudisti), “ Atti Accad. Pontaniana ,, 1858, pag. 405, tav. 14, 15 del vol. V. — In., Memoria per servire alla formazione della Carta geologica delle Prov. napoletane, “ R. Istituto d’ Incoragg. ;, Napoli, 1864 (Requienia plicata n., tav. VI, fig. 15, Hippurites gracilis n., tav. VII, fig. 1). — Ip., Note geologiche e paleontol. su taluni degli Appennini della Campania, “ R. Istit. d'Incoragg., vol. VII, 28 ser., 1866 (Diceratites elongata n., pag. 34). — In., Studj sopra i terreni ad ittioliti delle provincie meri- dionali d’Italia, vol. II, “ Atti R. Accad. Se. ,, Napoli, 1866 (Tav. I, Requienia parvula n., R. plicata n., Diceratites ?, Hippurites elongata n., H. gracilis n.). ; (2) G. GurscarDI, Sur Za Sphaerulites Tenoreana, “ Bull. S. G. d. Fr. ,, 2° sér., tome XIX, 1862, pag. 1031, fig. 1-3. — In., Studii sulla famiglia delle Rudiste, “ Atti R. Accad. d. Sc. ,, Napoli, vol. II, 1863 (1864), tav. I, fig. 1-3. Î (3) C. F. Parona, Sopra alcune Rudiste Senoniane dell’App. merid., È Mem. R. Accad. Torino ,, ser. II, tomo L, 1900. — In., Le Rudiste e le Camacee di S. Polo Matese, ibid., id., 1900. (4) G. Di SrerAno, Osservazioni geologiche nella Calabria settentr. e nel Circondario di Rossano, “ Mem. descritt. della Carta Geolog. d’Italia ,, Append. al vol. IX, Roma, 1904, pag. 74. 3 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 275 per la Calabria settentrionale, le ricerche del DarneLLI (1) sul Capo di Leuca e le sue interessanti osservazioni sui fossili cretacei della serie da lui riconosciuta. Così si venne in possesso di nuovi dati per la sicura distinzione paleontologica del Seno- niano e del Turoniano nell'Appennino e per la migliore conoscenza della fauna a rudiste del Neocretaceo nella Penisola. Le nuove osservazioni sulle quali ora riferisco, mentre confermano ed accrescono le notizie precedenti, valgono a dimostrare la notevole ricchezza della fauna a radiolitidi del Turoniano e Senoniano e le loro caratteristiche. La fauna Turoniana è costituita da queste forme: Horadiolites cfr. liratus Conr. Bournonia sp. (n. f.) 5 colubrinus n. f. Sauvagesia Sharpei (Bayle) Sphaerulites Dealessandrii Par. n garganica n. f. Radiolites lusitanicus (Bayle) Durania cornu-pastoris (Des M.) E efr. Peroni (Choffat) È Arnaudi (Choffat) Distefanella Salmojraghii n. f. 5 runaensîis (Choffat) > Bassanii Par. a; affilanensis Par. 5 Guiscardi Par. Lapeirousia (2) samnitico Par. A Douvillei Par. Comprende inoltre queste altre Rudiste (2): Hippurites (Orbignya) Requieni Math. Pileochama Cremai Par. Monopleura Schnarrenbergeri Par. I giacimenti fossiliferi nei quali si raccolsero gli elementi di questa fauna sono: Monte Le Quartora (Monti d’Ocre) nell’Abruzzo aquilano, S. Benedetto di Subiaco, la Conca anticolana, Monte S. Polo Matese, Poggio Pannona (Apricena) ed altri affio- ramenti del Gargano, Monte Laceno (Avellino), Ponti di Valle (Caserta-Benevento). Le specie non nuove, che permettono di stabilire confronti con giacimenti tipici tu- roniani, accennano alla presenza delle due zone del piano, e cioè del Ligeriano e dell’Angoumiano; ma finora non abbiamo dati sufficienti per verificare nei giaci- menti ora enumerati la coesistenza delle due zone o per precisare quale delle due sia rappresentata. A costituire la fauna senoniana si hanno questi altri radiolitidi: Praeradiolites Hoeninghausi (Des M.) Durania Martelliù Par. Radiolites saticulanus n. f. 3 austinensis (Roem.) n peucetius n. f. c arundinea n. f. Biradiolites Dainelli n. È. x apula Par. Bournonia ercavata (d’Orb.) 5 hippuritoidea n. f. n Bournoni (Des M.) Lapeirousia Jouanneti (Des M.) Sauvagesia (?) Paronai (Dain.) (1) G. Darsetni, Appunti geologici sulla parte merid. del Capo di Leuca, È Boll. d. Soc. G. It. ,, XX, 1901. — Ip., Vaccinites (Pironaea) polystylus Pir. nel Cretaceo del Capo di Leuca, ibid., XXIV, 1905. (2) C. F. Parona, La Fauna coralligena del Cretaceo dei Monti d’Ocre nell’'Abruzzo aquilano, Mem. per servire alla descriz. della Carta Geologica d’Italia, Roma, vol. V, 1909, pas. 36. 276 C. F. PARONA 4 E ad esse si aggiungono parecchie ippuriti e caprinidi: Hippurites (Vaccinites) gosaviensis Duv. 5 P giganteus d’H. Firm. A È Taburni Guisc. 3 (Orbignya) cornucopiae Defr. È 5 colliciatus Wood. 3 A radiosus Des M. A 5 Lapeirousei Goldf. D (Pironaea) polystylus Pir. Ichthyosarcolites sp. (1) Sabinia sublacensis Par. sinuata Par. n» 5 anienis Par. T più importanti giacimenti fossiliferi senoniani sono quelli del Capo di Leuca; del Castello di Coppo e di Ruvo, di Acquaviva, Putignano nelle Terre di Bari; del Gargano; di Ariano Puglia (Monte Gesso); del Matese (Monte S. Polo e Vallicella, Palombaro di Guardia Regia), di Monte Camino (Mignano in provincia di Caserta). E le forme, cronologicamente caratteristiche, in essi rinvenute, mentre dimostrano l’esistenza del Senoniano inferiore (Emscheriano) e superiore (Aturiano), accennano particolarmente alle due zone del Santoniano e del Campaniano. Riguardo agli elementi costitutivi delle due faune, è da notare la scarsità rela- tiva dei rappresentanti dei generi Praeradiolites, Sphaerulites, Radiolites, in contrasto coll’abbondanza, tanto nel Senoniano quanto nel Turoniano, delle forme riferibili al genere Durania, che viene ad arricchirsi di buon numero di forme nuove. Rari sono anche i Biradiolites e, per quanto spetta al Turoniano, si può dire ch’essi sono sosti- tuiti da forme spettanti al genere Distefanella, per certi caratteri loro affine; ed in particolare è degna di rimarco la mancanza, almeno per quanto mi risulta finora, del Biradiolites lumbricalis d’Orb., sebbene frequentemente citato dagli autori. Sono invero frequenti, e direi caratteristiche del nostro Cretaceo superiore, certe forme di radiolitidi cilindroidi, esili, tortuose, assai allungate, generalmente attribuite al Birad. lumbricalis; ma esse, turoniane e senoniane, sono invece ripartibili in tre altrì generi diversi, Eoradiolites, Distefanella e Durania. Notevole, pel Turoniano, è anche la larga rappresentanza del gruppo della Durania cornu-pastoris, con esemplari di grandi dimensioni, nonchè l’associazione con una forma strettamente affine, se non identica, all’Eoradiolites liratus (Conr.) del Turoniano della Siria. Complessivamente i radiolitidi turoniani e senoniani dell'Appennino, eccettuati quindi quelli che si possono trovare in altri orizzonti preturoniani, sono una tren- tina, e costituiscono nell’insieme una fauna ricca, in confronto di quelle di altre regioni mediterranee. Infatti il Toucas (2), che comprende fra i radiolitidi il genere (1) C. F. Parona, Notizie sulla Fauna a Rudiste della Pietra di Subiaco nella Valle dell'Aniene, “ Boll. Soc. Geol. Ital., vol. XXVII, 1908. (2) A. Toucas, Etudes sur la classification et l'évolution des Radiolitidés, “ Mém. d. 1. S. G. de Fr. ,,, Paleont., tome XVII, 1909. 5 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 277 Agria e che considera tutti i radiolitidi nella loro comparsa, sviluppo e diffusione a partire dall’Eocretaceo (Barremiano superiore), espone nelle considerazioni riassun- tive della sua monografia i seguenti dati statistici: Aquitania 52 forme, su 115 co- nosciute; Provenza 36; Penisola Iberica 27; Ariège 15; Valle del Rodano 14; Cor- bières 12; Bacino di Parigi e della Loira 9. La fauna dell'Appennino Centrale e Meridionale è dunque una delle più ricche. Fra le forme senoniane, richiamano segnatamente l’attenzione la Durania austi- nensis, ben rappresentata da parecchi esemplari e finora trovata altrove soltanto nel Texas ed a Gosau, la Lepeirousia Jouanneti, Bournonia Bournoni, Bourn. excavata e il Praeradiolites Hoeningausi; e fra quelle turoniane il Radiolites lusitanicus, la Sau- vagesia Sharpei, le Durania cornu-pastoris, D. Arnaudiî, D. runaensis, costituenti una riunione di forme decisamente caratteristiche per l’uno o per l’altro piano. Le nu- merose forme nuove dànno a queste nostre stesse faune un’altra impronta partico- lare, oltre quelle su accennate, dipendenti dai particolari raggruppamenti di forme e dalla maggiore abbondanza o scarsità con cui sono rappresentati certi generi. No- terò infine, come fatto non trascurabile, la prevalenza delle grandi forme sulle pic- cole ed in generale il considerevole sviluppo degli individui. Di conseguenza si può dire che, pur essendovi spiccate comunanze di forme, dimostrative nel riguardo cronologico, colle faune a radiolitidi turoniane e senoniane della “ Mesogée , occidentale e più precisamente del “ golfe pyrénéen , secondo i con- cetti di DovviLLÉ (1) (ed, in particolare pel Turoniano, col Portogallo), si hanno tut- tavia caratteristiche proprie, locali in queste faune della fossa tirrenica ed adriatica, e cioè della prosecuzione a sud del golfo alpino verso la Mesogée meridionale ed orientale. Non mancano neppure rapporti diretti con queste regioni, meridionale ed orientale, e sono dimostrati dalla comunanza di parecchie forme coll’Algeria, Tunisia, Tripolitania (2), Egitto, Siria (3), Persia, nella quale ultima regione fu raccolta la Lapeirousia Jouanneti, una delle più caratteristiche specie senoniane. I caratteri delle nuove forme descritte in questo lavoro non infirmano le con- clusioni della monografia di Toucas in quanto riguardano il carattere principale del- l'evoluzione dei radiolitidi, consistente nelle modificazioni subite dalla interfascia, che separa i seni; semplice e stretta nelle forme antiche, essa si divide in due o più coste, allargandosi, nelle forme recenti. Ma non insisto sulle considerazioni e dedu- zioni filogenetiche per i motivi già altrove da me esposti (4); tanto più che, per quanto riflette l'evoluzione dei radiolitidi, i rapporti di parentela fra le diverse famiglie, i diversi generi e le diverse specie, spesso discordano le idee espresse in proposito da DouviLLé e da Toucas, che sono appunto i due autori i quali, nello studio dei radiolitidi e di altri gruppi di Rudiste, si occuparono con cura particolare (1) H. Dovviue, Etudes sur les Rudistes; Rud. de Sicile, dAlgérie, d’Egypte, du Liban et de la Perse, © Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., tome XVIII, 1910. (2) C. F. Parona, Fossili turoniani della Tripolitania, © Rend. R. Accad. d. Lincei ,, 1906. (3) C. F. Parona, Radiolites liratus (Conr.) e Apricardia Nòtlingi (Blanck.) nel Cretaceo sup. della Siria, © Atti R. Accad. d. Se. Torino ,, vol. XLIV, 1909. (4) C. F. Paroxa, Saggio per uno studio sulle Caprinidi dei calcari di Scogliera (Orizz. del Col dei Schiosi) nelle Prealpi venete orientali, “È Mem. R. Accad. Lincei ,, VII, 1908, pag. 4. 278 C. F. PARONA 6 della scelta ed interpretazione dei caratteri diagnostici desunti dalla costituzione della regione sifonale, dall’apparato cardinale e dalla struttura del guscio, ritenendo questa la via più sicura per giungere ad una classificazione naturale. I calcari di scogliera del Cretaceo inferiore e medio, ed in particolare quelli a radiolitidi ed ippuriti del superiore, si presentano in masse formanti quasi corona alla parte interna dell'Appennino Centrale, e spingentisi, almeno quelle del piano superiore, nel versante adriatico fino al M. Cénero (1) e nel tirrenico fino ai monti di Terni e di Rieti. Tale sviluppo si accorda coll’idea dell’esistenza durante il Cretaceo di un geosinclinale appennino (2). Esso risulterebbe formato: da una zona batiale interna, estendentesi nell’Umbria, nelle Marche e nella Sabina, con prevalente sviluppo di scisti argilloso-marnosi, passanti con regolare successione inferiormente al Titonico e superiormente, colla scaglia, all’Eocene; da una zona neritica occidentale-setten- trionale (Appennino Settentrionale, Apuane, Toscana), con sviluppo di arenarie, nella quale sono rappresentati, paleontologicamente, il Cenomaniano (ammoniti) ed il Seno- niano (inocerami); da una zona neritica meridionale-orientale, con sviluppo pressochè esclusivo di calcari a rudiste, assai estesa specialmente nell'Appennino meridionale e sul versante balcanico della depressione adriatica, nella Dalmazia e nell’Istria (3). Esisterebbero quindi per il Cretaceo dell’Appennino delle condizioni analoghe a quelle, che si hanno per il geosinclinale cretaceo delle Prealpi lombarde e venete, sul- l’altro fianco della depressione adriatica, sia per la regolare transizione dal Titonico (Majolica, Biancone) alla scaglia eocenica, sia per lo sviluppo di roccie clastiche in Lombardia, passanti alla scaglia, la quale assume la massima potenza nel veronese e nel vicentino, per cedere il posto più ad oriente, nel Friuli, ai noti calcari a rudiste, dal Col dei Schiosi al Colle di Medea. Le serie turoniana e senoniana presentano nell’Appennino uniformità di carat- teri litologici e paleontologici nel loro sviluppo, e si può asserire che per questo ri- guardo non esistono rilevabili differenze fra i caratteri dei giacimenti del versante tirrenico e del versante apulo-garganico. L'antica questione dei rapporti morfologici tra l'Appennino ed i rilievi del Gargano, delle Murge e delle Serre è ormai risolta nel senso di riconoscere gli stretti legami geologici, orogenetici e morfologici dei rilievi stessi colla maggiore catena, e di considerarli quindi come costituenti il preap- pennino adriatico (4). È bensì vero che la questione non fu ancora particolarmente sottoposta alla prova dei carreggiamenti dai geologi d’oltr’Alpe, che nell'Appennino tirrenico vedono un paese di falde carreggiate sulle catene a pieghe autoctone della costiera adriatica, costituenti il principio delle Dinaridi (5): tuttavia, per quanto (1) C. F. Parona, Sulla presenza del Turoniano nel Monte Cbnero presso Ancona, © Boll. S. G. Ital. ,, 1910. (2) E. Haue, Traité de Géologie, II. — Les périodes géologiques (fasc. 2°), 1910, pag. 1266; 1328. (3) C. De SrerANI, Géotectonique des deur versants de l’Adriatigue, “ Ann. d. 1. Soc. Géol. de Bel- gique ,, tome XXXIII, Mémoires. — C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda sulla costa meri- dionale dell’Isola di Lissa, © Atti R. Accad. di Torino ,, vol. XLVI, 1911. (4) C. Coramonico, Studi corologici sulla Puglia, 2. Sul nome più proprio da darsi all'insieme delle alture pugliesi, Bari, 1911. (5) P. Termier, Les problèmes de la Géologie tectonique dans la Méditerranée occidentale (vedi fig. 1), “ Rev. Génér. des Sciences ,, 30 mars 1911, pag. 225. PS I A N ZIE 7 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 279 riguarda il Cretaceo, la conferma del suo uniforme sviluppo nelle due regioni appoggia l’interpretazione ora accennata dei rapporti fra l'Appennino Meridionale e le dipen- denti masse costiere adriatiche. In altra occasione ho già notato, che in generale fra la serie senoniana e quella turoniana si riscontra una differenza litologica facilmente rilevabile e che, in man- canza di fossili, essa potrebbe servire come indizio di qualche valore per fissare il limite fra le due serie e per distinguerle l’una dall’altra. Nella serie turoniana sono prevalenti, se non esclusivi, i calcari bianco-cerei, compatti, marmorei, spesso nelle condizioni di vere lumachelle, con fauna assai ricca, segnatamente di gasteropodi, soltanto in piccola parte finora conosciuta e studiata (1). Nella serie si presentano delle intercalazioni di calcari brecciosi, in rapporto ai quali stanno d’ordinario i giacimenti di bauxite. Caratteristico del Turoniano è l’orizzonte a Chondrodonta (Ch. Joannae Choff., Ch. sellaeformis Par.), scoperto in parecchi punti dell'Appennino, e che generalmente si presenta con un calcare bianco compatto, nel quale sono più o meno abbondanti le acteonelle. — La serie senoniana, per quanto mi risulta, è costituita in prevalenza di calcari chiari o bianchi, meno compatti, porosi, nei quali mancano o scarseggiano altri fossili, oltre le rudiste. Il DouviLLé nota che una delle particolarità più spiccate del periodo cretaceo è l'opposizione evidente fra i depositi a belemnitelle della regione settentrionale ed i depositi meridionali a rudiste, l'associazione delle quali con faune a polipi ed a grandi foraminiferi indica un clima più caldo, analogo a quello dei nostri mari tro- picali. Per quanto spetta al Turoniano ed al Senoniano dell'Appennino, nello stato delle nostre conoscenze, si può dire che i generi dei grandi foraminiferi, fatta ecce- zione per le orbitoidi senoniane, mancano alla fauna a rizopodi; la quale, come già osservai in altri lavori, è caratterizzata dalle miliolidi trematoforate, ed è in com- plesso, nei due piani, uniforme, ma notevolmente più ricca nei calcari senoniani e spesso associata ad avanzi di alghe calcari (7riploporella), talora assai abbondanti come riconobbi anche nelle sezioni sottili dei calcari di Anticoli. Un altro carattere paleontologico del Cretaceo superiore, che pure merita di essere considerato, è quello dato dalla comparsa, tanto nel Turoniano quanto nel Senoniano, di grandi idrozoi appartenenti agli stromatoporidi (2). Essi vi sostituiscono gli ellipsactinidi, abbondanti nel Titonico e nell’Eocretaceo e più rari nel Mesocre- taceo, ricco invece di altri idrozoi; è tipico a questo riguardo il ricco giacimento fossilifero dei Monti d’Ocre (3). i (1) Un saggio di questa fauna si ha nell’elenco, su esposto, della memoria di Spapa-LaAvinI e Orsi ed in due mie pubblicazioni (C. F. Parona, Appunti per lo studio del Cretaceo sup. nell’ Ap- pennino, “ Boll. d. S. Geol. It. ,, 1905, XXIV, pag. 654. — In., La fauna coralligena ecc. (già citata), 1909, pag. 31 e segg.). (2) G. Osro, Alcune nuove Stromatopore giuresi e cretacee della Sardegna e dell'Appennino, “ Mem. R. Accad. d. Sc. Torino ,, tom. LXI, 1910. — C. F. Parona, Fossili turoniani della Conca anticolana, “ Bell. d. R. Comit. Geol. ,, 1911 (in corso di pubblicaz.). (3) C. F. Parona, La fauna corallig. ece., 1909. 280 C. F. PARONA 8 II. Elenco ragionato dei Radiolitidi turoniani e senoniani dell’ Appennino. L'elenco comprende le Radiolitidi da me già fatte conoscere in lavori precedenti, con eventuali osservazioni e considerazioni, suggerite dall'esame di nuovi esemplari, e la descrizione di alcune altre, o nuove come forme specifiche o per la prima volta rinvenute nell'Appennino. Per questo lavoro di revisione ho potuto approfittare di materiali appartenenti al Museo Geologico di Firenze ed al Museo Geologico dell’Uni- versità di Napoli, particolarmente interessanti quelli della collezione CostA, prove- nienti dal Gargano, pur troppo senza indicazioni precise di località. Ai colleghi ed amici professori Bassani e DE STEFANI, che cortesemente mi comunicarono questi materiali, rinnovo qui i più vivi ringraziamenti. Eoradiolites cfr. liratus (Conr.). 1911. C. F. Parowa, Fossili turoniani della Conca anticolana, Boll. r. Com. Geolog. d’ Italia (in corso di stampa). Foradiolites colubrinus Par. 1911. C. F. Parona, Nota cit. (id.). Praeradiolites Hoeninghausi (Des Moul.). Avi o SslA4A08 1901. Radiolites Hoeninghausi. G. DarneLLI, App. geol. sulla parte merid. del Capo di Leuca, Boll. S. G. It., vol. XX, pag. 647, tav. XII, fig. 2. 1907. Praeradiolites Hoeninghausi. A. Tovcas, Et. s. 1. class. et l’évolut. des Radiolit.,, Mém. d. 1. Soc. géol. d. Fr., Paléont., tome XIV, pag. 34, fig. 14, 15, tav. IV, fig. 11 (ved. sinon.). 1911. Praeradiolites Hoeninghausi. C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda sulla costa meridionale dell'Isola di Lissa, Atti r. Acc. d. Scienze di Torino, vol. XLVI, 1911, pag. 7. Questa specie del Campaniano fu già indicata per i calcari di Acquaviva nel Barese (1), dove si trova associata alla Durania Martelli Par. e del Capo di Leuca. Ad essa appartiene con ogni probabilità un grande birostro (diam. 150 mm.), che fa parte della collezione “ Costa , del Gargano (Museo Geologico della R. Università di Napoli). Presenta spuntato il rostro inferiore corrispondente alla valva inferiore e le estremità dei denti cardinali B, B', dalla caratteristica struttura lamellare; ma nelle altre parti è eccezionalmente ben conservato. Il rostro superiore è un po’ (1) C. F. Parona: in F. Vigeiio, Geomorfogenia della Prov. di Bari (La Terra di Bari), Trani, 1900, pag. 63. 9 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 281 depresso in confronto di quanto sì osserva nelle figure date dagli autori; ben svi- luppate sono le apofisi miofore, ma bassa ed allargata, mp più breve, più alta e prominente, l’una e l’altra con superficie a pieghe, cave internamente e tramezzate da lamine verticali normali alla superficie esterna, evidentissimo all’esterno il solco lesamentare, e prominente all’interno la cresta legamentare L, fra le due fossette accessorie 0 e 0°. Sphaerulites De Alessanarii Par. 1901. Sphaerulites De Alessandrii. C. F. Parona, Le Rudiste e le Camacee di S. Polo Matese. Mem. d. r. Ace. d. Sc., Torino, tom. L, pag. 201, tav. I, fig. 3, a, è, 4, Tav. III ficura 3. S. Polo Matese — Turoniano. Radiolites lusitanicus (Bayle). 1886-1902. Sphaerulites lusitanicus. CHnorrat, Rec. d’ét. paléont. s. ‘I. faune erét. du Port. (Comm. serv. géol. du Port.), pag. 32, tav. IV, fig. 2-8, pag. 144, tav. X e XI. 1905. Radiolites lusitanicus. C. F. Parona, App. p. l. stud. del Cret.-sup. nell’App., Bollett. S. G. It., vol. XXIV, pag. 655. 1908. Radiolites lusitanicus. A. Toucas, Ét. s. I class. et Vévol. d. Radiol., Mém, S. G. d. Fr., Paléont., tom. XVI, pag. 62, tav. XI, fig. 10, 11. Monte Laceno sopra Bagnoli (Avellino). Gli esemplari, riferibili a questa radio- lite del Turoniano medio e superiore, hanno i caratteri della var. rigido Choffat. Radiolites cfr. Peroni (Choffat). 1909. C. F. Parona, La fauna coralligena del Cretaceo nei Monti d’Ocre nell'Abruzzo aqui- lano, Mem. per servire alla descriz. della Carta Geol. d’Italia, vol. V, parte prima, pagina 37. Monte le Quartora (Monti d’Ocre). — Turoniano. Radiolites saticulanus n. f. Tav. I, fig. 1, a, d. Valva inferiore cilindro-conica, di notevoli dimensioni (altezza circa 120 mm., larghezza all'apertura circa 70 mm.), formata da lamine esterne imbutiformi, ivre- golarmente spaziate, ornate da numerose coste longitudinali subeguali, spesso bifor- cantisi, a spigolo acuto e che si interrompono al margine espanso delle lamine successive. Le due fascie sifonali sono liscie ed assai differenti l’una dall’altra; l’an- teriore E larghissima, a luoghi piana o concava, coi margini delle lamine ad ineguali distanze fortemente e largamente incurvate o ripiegate verso l’alto, la posteriore S assai stretta e profonda; sono separate da una larga interfascia costituita da nu- merose coste affatto simili a quelle che decorrono sul resto del fianco. — Struttura cellulare minutissima, margine o labbro dell’apertura semistriato, imperfettamente conservato; cresta legamentare pochissimo sviluppata, appena accennata. — Valva superiore sconosciuta. Serie Il. Tow. LXII. x 282 C. F. PARONA 10 Questa bella forma si distingue agevolmente dalle congeneri sopratutto per la grande differenza di sviluppo fra le due fascie e per l’ampiezza dell’interfascia, per i quali caratteri non può confondersi col Rad. galloprovincialis Math. (1), che pure è la forma che più le si avvicina. L’interfascia formata da numerose coste e lo svi- luppo rudimentale della piega legamentare lasciano credere, che questo radiolite pro- venga da un orizzonte assai alto della serie del Cretaceo superiore, d’età senoniana piuttosto che turoniana. Fu raccolto sul Monte Camino, sopra l’abitato di Galluccio, alla località Cam- panara (Mignano in Prov. di Caserta). Radiolites peucetius n. f. Tav. II, fig. 2, 3, a, db, e. Forma cilindro-conica irregolare, di piccole dimensioni. Valva inferiore ornata da coste longitudinali numerose, diritte, interrotte al succedersi di lamine inegual- mente espanse, acute e qua e là spinose, dove si intersecano colle lamine. — Le fascie sifonali sono subeguali, assai larghe, più o meno prominenti, appiattite e for- temente segnate di traverso dai margini delle lamine; inter- fascia ampia, concava, percorsa da una o due coste, più fine di quelle della. restante parte del fianco della valle. Cresta legamentare non molto sviluppata. — Valva superiore sco- nosciuta. Il più piccolo, ma più completo, dei due esemplari (altezza mm. 45, diametro dell’apertura mm. 25), presenta (fig. 3, c) abbastanza ben conservato il labbro dell’apertura, con ondu- lazioni radiali in rapporto colla costulatura, e con caratte- ristica fossetta, fortemente impressa, alla base della fascia sifonale anteriore E e posteriore $S, corrispondentemente ai due orifici sifonali d’ingresso e d’uscita della corrente nutritizia. Questo esemplare si distingue alquanto dall’altro (fig. 2, tav. II e fig. 1 del testo) per la grande prominenza delle due fascie, selliformi, similmente a quanto si osserva in qualche Eoradzolites e per maggior numero e finezza di coste. È una forma affine al Radiolites praegalloprovincialis Toucas (2), considerati spe- cialmente i caratteri delle fascie sifonali dell'esemplare maggiore; ma ne è diversa la costituzione della interfascia e più ricca e diversamente formata la costulatura. Questi esemplari provengono (VireiLio) da Putignano (Intendi) in Puglia. Biradiolites Dainellii, n. f. Tav. I, fig. 2, a, d. Valva inferiore conico-irregolare, allungata, arcuata; lamine esterne a forma di imbuti, inseriti l’uno nell’altro a larghi intervalli, ornate da coste longitudinali a (1) A. Toucas, op. cit., 1908, pag. 76. (2) A. Toucas, op. cit., 1908, pag. 75, tav. XIV, fig. 8-12 (cfr. specialmente la fig. 8). ll NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 283 spigolo acuto, ineguali, a fascì più o meno prominenti, per cui la sezione trasversa della valva risulta angolosa; fra le coste e sopra di esse talora decorrono fini cor- doncini, questi e quelle intersecate da strie trasverse; al punto di distacco dei suc- cessivi imbuti le coste sono interrotte. La fascia del seno anteriore £ non è molto larga, ma assai prominente, subappiattita, a pieghe trasverse ben pronunciate; la fascia del seno posteriore S è poco distinta, più stretta ed anch'essa prominente; la zona interposta o interfascia è larga ed occupata da quattro coste, delle quali la mediana più sviluppata, più sporgente ed a spigolo tagliente. La struttura cellulare è pressochè indistinta, frattura fibrosa. La valva descritta misura circa mm. 125 in altezza e mm. 55 e 42 ai diametri massimo e minimo dell’apertura. — Valva supe- riore sconosciuta. Per i caratteri delle fascie sifonali e della interfascia questo Biradiolites so- miglia al Birad. Stoppani (Pirona) quale fu figurato da Toucas (1), ma ne differisce per la conformazione ed ornamentazione della valva. Proviene dai dintorni di Bari. Gen. Distefanella Parona (1901). L'esame di nuove sezioni trasversali delle diverse forme di questo genere ed i recenti studi degli autori francesi sul genere Biradiolites, ed in particolare la più esatta conoscenza, che ora si ha, del Biradiolites lumbricalis d’Orb., mi permettono di precisare la diagnosi del gen. Distefanella con differente inter- pretazione della sede e della costituzione delle zone sifonali, di riconfermare le affinità col gen. Biradiolites limitatamente al gruppo del 5. lumbricalis, e di dimostrare nel tempo stesso che, contrariamente a quanto io aveva dapprima ammesso, nes- suna forma del genere può essere riferita alla citata specie del D’ORBIGNY. Fig. 2. Ciò premesso, ecco la definizione corretta del genere: “ Ra- diolitide con valva superiore piccola cupuliforme; valva infe- riore cilindroide allungatissima, uniformemente costulata, con guscio assai sottile; zone sifonali (fig. 2, 3) semplici, subeguali, prominenti, incavate nel mezzo; mancanza di cresta legamentare; ampia cavità dorsale; presenza di un rudimento di dente e di un setto longitudinale, separante la cavità dorsale dalla cavità ven- trale per tutto lo sviluppo della valva al disotto dell’apparato cardinale, e cioè in continuazione della lamina che nell’appa- rato stesso collega i due denti della valva superiore fra le due cavità ora accennate. Per la sottigliezza del guscio questa divisione interna è mani- festa anche esternamente, corrispondendo la cavità viscerale al lato più rigonfio della valva, e la cavità dorsale al lato più ristretto; e talvolta al setto interno cor- risponde anche una rientranza esterna del guscio, di guisa che la valva appare, in Fig. 3. Distef. Guiscardii Par. (1) A. Tovcas, op. cit., 1909, pag. 106, fig. 72. 284 C. F. PARONA 12 sezione, bilobata , (cfr. Distefanella Douvillei). — Abito generale della conchiglia assai diverso da quello di tutti i gruppi del genere Biradiolites, non escluso il gruppo del B. lumbricalis. Al genere si riferiscono le quattro forme dettagliatamente descritte nel lavoro sulle Rudiste e Camacee di S. Polo Matese. Distefanella Salmojraghii n. f. 1901. Distefanella lumbricalis (d’° Orb). C. F. Parona, Le Rudiste e le Camacee di S. Polo Matese, pag. 206 (10), tav. I, fig. 12, tav. II, fig. 2, 3, 4, 5, tav. III, fig.8 a, db, (sinon. escl.). Toucas (1), descrivendo il Bir. lumbricalis (d'Urb.), dice: “ Cette petite espèce a été decrite et figurée d’une manière tout à fait incomplète par d’Orbigny ,, ed osserva che la valva superiore è operculiforme, piana o leggermente concava; che quella inferiore è cilindro-conica, stretta e relativamente assai allungata; che le zone sifonali sono piccole, piane, limitate da due solchi stretti e separate da una piccola costa simile a quelle del fianco. — L’imperfetta conoscenza che si aveva del Birad. lumbricalis quando descrissi questa forma di Distefanella spiega l'errore: da me com- messo confondendola colla specie di D’OrBIienv. Le caratteristiche poi fissate dal Toucas dimostrano, che le due forme non si possono confondere. Oltre le differenze di genere suesposte, si può notare del resto che la nostra è una grande forma, anche per i caratteri esterni facilmente distinguibile dal Birad. lumbricalis, ora ben illu- strato dalle numerose figure date dal Toucas. S. Polo Matese. Distefanella Bassantii Par. 1901. C. F. Parona, Mem. cit., pag. 208 (12), tav. II, fig. 6 a, è, 7, tav. III, fig. 6 (?), 7 a-e. S. Polo Matese e dintorni di Ariano-Puglia. Distefanella Gwiscardii Par. 1901. C. F. Parona, Mem. cit., pag. 209 (13), tav. II, fig. 8, tav. III, fig. 9. S. Polo Matese. Distefanella Douvillei Par. 1901. C. F. Parona, Mem. cit., pag. 209 (13), tav. II, fig. 9, @, 6, c, tav. III, fig. 10 a, db, c. S. Polo Matese. Bournonia excavata (d’Orb.). 1847. Radiolites excavatus. D’OrBIGNY, Paléont. frane., Terr. crét., tom. IV, pag. 215, tav. 556. 1902. Bournonia excavata. H. DouviLLé, Classificat. des Radiolites, Ball. d. 1. S. G. d. Fr. (4), t. II, pag. 472. (1) A. Toucas, Etud. sur la classif. et Vévolut. des Radiolitidés, “ Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., tome XVII, 1909, pag. 99, tav. XIX, fig. 1-14. 13 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 285 1907. Agria excavata, A. Toucas, Classificat. et évolut. des Radiolitidés, Mem: S. G. d. Fr., Paléont., Tom. IV, pag. 27, fig. 11, 12, tav. II, fig. 11-13. 1910. Bournonia excavata, H. DouviLLò, Rudistes de Sicile, d’ Algérie, d'° Égypte, ecc., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., tom. XVIII, pag. 25, fig. 24. Piccolo esemplare compreso nel calcare biancastro, poroso, travertinoide. La se- zione trasversale della valva inferiore non lascia dubbio sul riferimento, per la caratteristica conformazione della regione sifonale, colle due prominenti fascie a costa ap- piattita, corrispondenti, secondo l’interpretazione di Dou- vILLÉ, al sifone d’entrata E ed al sifone d’uscita S. Questo unico rappresentante della specie Santoniana fu raccolto dal VireILIio nella cava Monticella di Putignano. Bournonia Bournoni (Des Moul.). 1900. Bournonia Bournoni. C. F. Parona, Rud. Senon., pag. 19, tav. I, fig. 7, 8 (ved. sinon.). 1907. Praeradiolites Bournoni. A. Toucas, Ét. s. I. class. et l’évol. d. Radiolit., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., tome XIV, pag. 35, fig. 16 e 17, tav. IV, fig. 12. 1910. Bononia Bournoni. H. DouviLLé, Rud. de Sicile, d’ Algérie, ece., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., tome XVIII, pag. 24, fig. 21. 1911. Bournonia Bournoni. C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda, ecc., Atti R. Acc. Sc. Torino, vol. XLVI, pag. 9. Monte Gesso presso Ariano-Puglia. — Specie del Maéstriehtiano superiore. D È Bournonia sp. (n. f.). 1911. C. F. Parona, Fossili turoniani della Conca anticolana, Boll. d. r. Comit. Geolog. d’Italia (in corso di stampa). Sauvagesia Sharpei (Bayle). 1886. Sphaerulites Sharpei. Cnorrat, Rec. d’ét. paléont. s. l. Faune crétacig. du Portugal. (Trav. géol. du Portug.), vol. I, pag. 29, tav. II, III, IV, fig. 1 (ved. sinon.), (tav. VIII, fio. 14, Sauvagesia Sharpei). 1891. Sauvagesia Sharpei. H. DouviLLf, Sur les caractères internes des Sauvagesia, B. S. G. d. Fr. (3), t. XIX, pag. 669, fig. 1. 1900. Sauvagesia Sharpei. C. F. Parona, Sopra ale. Rudiste Senoniane dell’App. merid., Mem. i r. Ace. Sc., Torino, tom. L, pag. 7 (ved. nota). 1909. Sauvagesia Sharpei. A. Tovcas, Études s.1. classific. et Vévolut. des Radiolitidés, Mém. S. G. d. Fr., Paléont., Tome XVII, pag. 88, tav. XVII, fig. 5-7. Confermo la determinazione già da me data di un esemplare di Sauvag. Sharpei, raccolto dall’ing. De Morra nelle cave Belluccio e Capitano, a Ponti di Valle, sulla ferrovia Caserta-Benevento. È un grande esemplare di valva inferiore, che per dimen- sioni, forma e caratteri ornamentali corrisponde esattamente alla grande valva della tav. III di Crorrar; è meno completo e l’erosione e l’incrostazione mascherano in qualche parte i caratteri della superficie. Altri due piccoli esemplari della stessa provenienza, che permettono il controllo dei caratteri interni, confermano il riferi- 286 C. F. PARONA 14 mento. È una forma del Turoniano inferiore che probabilmente esiste anche, allo stesso orizzonte, nei Monti d’Ocre (Appennino aquilano) in Abruzzo (1), e che fu trovata inoltre sotto S. Benedetto presso Subiaco nei calcari gialli, compatti, sottostanti alla pietra di Subiaco (2), e nel Turoniano della Conca anticolana. Sauvagesia garganica n. f. È una forma rappresentata da due grandi esemplari incompleti di valva infe- riore, cilindro-conica, strettamente affine alla specie precedente, alla quale tuttavia non si può ascrivere per un complesso importante di differenze. La figura della se- zione trasversale della parte inferiore dell'esemplare più piccolo, mentre dimostra le Fig. 5. affinità colla Sauv. Sharpei, come il contorno subcircolare, il grande spessore (forse mag- giore) delle lamine, la linea legamentare nitida, colla piega trasversalmente allargata, mette nel tempo stesso in evidenza le notevoli differenze. Le coste dei fianchi risul- tano più grosse e meno numerose; ma il carattere veramente distintivo sta nella costituzione della regione sifonale che è delimitata da solchi laterali e che presenta l’interfascia profondamente incavata, per cui Ja fascia anteriore più larga £ e quella posteriore S sono prominenti e ben individualizzate, anche perchè a ciascuna di esse corrisponde sul fianco della cavità interna una leggera ma riconoscibile rientranza del guscio in relazione al decorso delle linee di accrescimento parallele al margine (1) C. F. Parona, La fauna coralligena del Cretaceo dei Monti d’Ocre nell’Abruzzo aquilano (Mem. per serv. alla descriz. della Carta Geol. d’It.), Roma, vol. V, 1909, pag. 37. (2) In., Notizie sulla fauna a Rudiste della pietra di Subiaco nella valle dell'Aniene, © Boll. della Soc. G. It. ,, 1908, vol. XXVII, pag. 301. 15 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 287 esterno delle fascie appiattite e della depressione dell’interfascia. Un'altra differenza riguardo alle fascie sifonali consisterebbe nel fatto, che non sono percorse da costel- line longitudinali, ma segnate invece fortemente dal rilievo delle sottili lamine che le tagliano trasversalmente, in modo simile a quello che si osserva in generale nelle forme del gen. Radiolites. Mi pare che tale aspetto, per quanto eccezionale nelle sau- vagesie, sia da ritenere originale, non attribuibile ad erosione profonda; ma appunto perchè eccezionale non credo d’insistere su questo carattere e di escludere recisa- mente il dubbio, che sia apparente e conseguenza di imperfetta conservazione. La figura schematica della sezione naturalmente non riproduce la fine, conser- vatissima struttura cellulare nettamente reticolata, caratteristica delle sauvagesinee e l'andamento delle lamine. Esse sono poco inclinate dall’esterno verso l’interno e, come sì osserva sull'’ampio margine dell’apertura, sono pianeggianti nella parte interna, poi flessuose e pieghettate all’esterno, presentando inoltre le impressioni di vasi radianti, similmente a quanto vedremo in modo più evidente nella Durania austinensis (Roem.). Turoniano del Gargano (Museo di Napoli). Sauvagesia? Paronai (Dain.). 1901. Radiolites Paronai. G. DarxenLI, Appunti geologici sulla parte meridion. del Capo di Leuca, Boll. d. S. G. It., vol. XX, pag. 646, tav. XIII, fig. 1. Il DamettI dimostrò la inesistenza del Radiolites Mortoni Mantel (Durania) nel Senoniano di M. Gesso presso Ariano Puglia, rilevando che la forma da me ascritta a questa specie, perchè provvista di piega legamentare, doveva essere interpretata diversamente, e la riferì alla sua n. f. Rad. Paronai, istituita su esemplari di S* Ce- sarea. Può darsi che il frammento da me rappresentato colla fig. 3 @ appartenga alla Durania austinensis (Roem.), come accennerò trattando di questa specie; ad ogni modo è fuori di dubbio la corrispondenza dell'esemplare della fig. 4 colla n. f. del DAINELLI. Questa forma è incompletamente conosciuta, mancando ogni dato sui caratteri dell’ornamentazione della valva e della regione sifonale; ed i caratteri interni, in particolare la struttura del guscio, lasciano ritenere che essa appartenga piuttosto al gen. Sauvagesia, pel fatto del carattere nettamente reticolato del lembo. Sarebbe interessante il poter risolvere il dubbio a questo riguardo, anche perchè la presenza di un rappresentante del gen. Sauvagesia nel Senoniano, quando fosse dimostrata, proverebbe che le Sauvagesine provviste di piega legamentare non cessano col Tu- roniano inferiore, ma persistono fino al Senoniano. Ss Cesarea (parte meridionale del Capo di Leuca) nel Senoniano. Durania austinensis (Roem.). Tav. II, fig. 4. 1852. Radiolites austinensis. F. Roemer, Die Kreidebilungen von Texas, Bonn, pag. 77, tav. VI, fig. 1 (a-d). 1855. Radiolites Mortoni. Woonwarp, On the Struct. a. Affin. of the Hippuritidae, The Quart. Journ. Geol. Soc. of London, vol. XI, pag. 47, fig. 12, pag. 59, tav. V, fig. 1-2. 288 C. F. PARONA 16 1866. Radiolites Mortoni. K. A. ZirteL, Die Bivalv. d. Gosaugeb. in den nordéstl. Alpen, Denk. d. K. Akad., Wien, XXV vol., pag. 148, tav. XXV, fig. 1, 2, 8. 1900. Sphaerulites Mortoni. C. F. Parona, Sopra alcune Rudiste Senoniane dell’Appenn. Me- ridionale, Mem. r. Accademia di Torino, Tom. L (1901), pag. 15, tav. II, fig. 3 (a-b) ? (non 4). 1904. Biradiolites austinensis. H. Douviutg, Mission scient. en Perse par J. De Morgan, Part. IV, Paléontologie (Mollusques fossiles), pag. 257, tav. XXXIX, fig. 2. 1909. Sauvagesia austinensis. A. Tovcas, Étud. sur la classification et l’évolution des Radioli- tidés, Mém. d. 1. S. G. d. Fr., Paléont., Tome XVII, pag. 96, fig. 64. Gli studi recenti hanno messo in evidenza le differenze tra la Durania Mortoni (Mantel), forma antica che ha sede al limite dal Cenomaniano al Turoniano, e la Durania austinensis (Roem.) del Santoniano superiore, forma ormai ben nota e rico- nosciuta in diversi giacimenti nel Texas, in Inghilterra, in Persia e nell’Italia meri- dionale presso Ariano Puglia. Ora posso far conoscere un nuovo giacimento: la collezione “ Costa , del Gar- gano comprende cinque grandi esemplari di valva inferiore, più o meno incompleti, che sicuramente appartengono a questa specie. Il più grande misura 145 mm. al dia- metro trasversale, ed il più piccolo, quello figurato, mm. 115. È una forma facilmente riconoscibile per il guscio di grande spessore, formato dalla sovrapposizione di lamine larghissime, sottili, orizzontali. Le lamine sono se- gnate alla superficie da impressioni di vasi radianti dal margine interno, ripetuta- mente biforcantisi, e da finissima struttura cellulare poligonale; sul margine esterno esse si increspano distintamente, in corrispondenza della costolatura del fianco. Nes- suna traccia di cresta legamentare. La sezione della cavità interna è subovale, più ottusa e più larga sul lato delle aperture sifonali che, sulle lamine, sono indicate anche da forte sinuosità. Il fianco è percorso da numerose coste longitudinali rego- lari, ottuse, attigue, spesso binate. La valva quasi regolarmente cilindrica presenta sul fianco due forti depressioni in corrispondenza dei seni: l’anteriore E larga ed appiat- tita, la posteriore S più stretta della metà circa e concava: l’una e l’altra provviste di coste simili a quelle suaccennate del fianco, ma molto più fine e stipate; l’interfascia è stretta e costituita da una piega prominente arrotondata o subangolosa percorsa da coste uguali a quelle del fianco. Il guscio della valva in coincidenza delle depres- sioni dei seni si assottiglia, e più che altrove dietro alla larga fascia anteriore; di guisa che il posto dei seni o delle due aperture, d’ingresso £ e d’uscita S, è chia- ramente indicato dal minor spessore del guscio, dalle sinuosità delle lamine e dalle impressioni delle due fascie, che interrompono la regolarità del contorno cilindrico della valva. Durania affilanensis Par. 1908. Biradiolites affilanensis. C. F. Parona, Notizie sulla fauna a Rudiste della pietra di Su- biaco nella valle dell'Aniene, Boll. d. S. G. Ital., vol. XXVII, pag. 809, tav. IX, fis. 4 a, bd. Sciolgo ora la riserva sul riferimento generico di questa forma, e, seguendo 1 concetti del DouviLLé, l’attribuisco al genere Durania piuttosto che al genere Sau- vagesia, secondo la classificazione del Toucas. Farò poi osservare che essa, per il der NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 289 carattere delle fascie dei seni liscie e infossate, presenta una spiccata affinità cogli individui della Durania runaensis (Choffat) (1) e della Durazia Gaensis (Dacqué) (2), nei quali le fascie, oltre essere concave, sono liscie e con poche traccie di coste. Questa affinità con forme turoniane ed il fatto, che il calcare giallo e compatto, che ne riempie la cavità interna e parzialmente lo incrosta, è identico a quello della Sauvagesia Sharpei raccolta sotto S. Benedetto (Subiaco), mi convincono che la Du- rania affilanensis non appartenga alla fauna senoniana della piera di Subiaco, ma provenga, come la Sauvag. Sharpei, da strati turoniani. Durania cornu-pastoris (Des M.). 1900. Biradiolites cornu-pastoris. C. F. Parona, Le Rudiste e le Camacee di S. Polo Matese, Mem. r. Accademia delle Scienze, Torino, tom. L (1901), pag. 202, tav. I, fig. 5-7 (ved. sinon.). 1908. Biriadiolites cornu-pastoris. C. FP. Parona, Sopra alcune rudiste del Cretaceo superiore del Cansiglio, Mem. r. Accad. Ad. Scienze, Torino; t. LIX, pag. 154, tav., fig. 14 (a-b). 1909. Sauvagesia cornu-pastoris. A. Toucas, Ét. sur la classif. et Vévolut. des Radiolitidés, Mém. Soc. @. d. Fr., Paléont., tom. XVTI, pag. 94, fig. 61-63, tav. XVIII, fig. 8-9. A questa grande, bella e nota specie, tipo del gen. Duraria Douv. (3), già da me riscontrata in parecchi giacimenti turoniani dell’Appennino e delle Prealpi venete, appartengono quattro grandi esem- i plari mutilati di valva inferiore del Gargano, della collezione “ Costa , esistente nel Museo Geologico del- l Università di Napoli. Ben caratte- rizzati dalla Jarga interfascia a nume- rose coste, essi si distinguono dal tipo per la loro forma cilindroide piuttosto che conica, e quindi per questo ri- guardo corrispondono più alla forma di S. Polo Matese, tuttavia distinta dalla Dur. Arnaudi (Choffat), che non a quella del Cansiglio. Notevole poi la sottigliezza ed il gran numero delle costicine, che corrono sulle fascie, le quali sono, come nel tipo, piane o leggermente concave; ed in ciò questi esemplari si distinguono dalla varietà, di grande taglia ed a fascie concave ed a coste longitudinali assai fine su tutto il fianco, figurata da Toucas (fig. 63). Presento la figura della sezione trasversa di un esemplare nel quale la fascia (1) P. Cuorrar, Rec. d. éud. paléont. sur la Faune crét. du Portug., 1902, pag. 142 (Birad. Ar- naudi var. runaensis), tav. VIII, fig. 3. » (2) H. Douvinré, Rudistes de Sicile, d'Algérie, d'Égypte, ecc., “ Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléontologie, tome XVIII, 1910, pag. 50, tav. III, fig. 4. (3) H. Douviné, Rud. de Sicile, Hgypte, ecc., “È Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., 1910, t. XVIII, p. 23. Serie II. Tox. LXII Th 290 C. F. PARONA 18 anteriore # è poco prominente, leggermente convessa e con numerosissime costel- line, e la fascia posteriore S pure con numerose costelline, meno larga, alquanto più prominente, appiattita ai lati e depressa nel mezzo a guisa di profondo solco; ca- rattere quest’ultimo che non si osserva negli altri esemplari. Un altro grande esemplare di valva inferiore, mal conservato ed in gran parte infisso nel calcare, fu raccolto (Museo di Firenze) dal Dott. RiccrarpeLLI a Poggio Pannona, ad est di Apricena, presso il cimitero (San Severo). Durania Arnaudi (Choffat). 1901. Biradiolites Arnaudi. Caorrat, Rec. d’ét. paléont. sur la Faune Crét. du Portugal (Comm. serv. géol. du Port.), pag. 138, tav. VI e VII. 1905. Biradiolites Arnaudi. C. F. Parona, App. per lo stud. del Cret. sup. nell'App., Boll. S. G. Ital., vol. XXIV, pag. 655. 1909. Sauvagesia Arnaudi. A. Tovcas, Hit. s. 1. class. ct Vévol. des Radiol., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., tome XVII, pag. 93, fig. 60, tav. XVIII, fig. 3-7. 1910. Durania Arnaudi. H. DovviuLt, Rud. de Sicile, d’ Algérie, d’ Égypte, ece., Mem. S. G. d. Fr., Paléont., tome XVIII, pag. 50, tav. III, fig. 1. Monte Laceno sopra Bagnoli (Avellino). — Forma del Turoniano, strettamente affine alla D. cornu-pastoris. Durania runaensis (Choffat). 1911. C. F. Parona, Fossili turoniani della Conca anticolana, Boll. d. r. Com. Geol. d’Italia (in corso di stampa). Durania arundinea n. f. Tav. II, fig. 5 (2/1). K una Durania che ben corrisponde nei suoi caratteri di conformazione e di ornamentazione alla Dur. runaensis, salvo che nello sviluppo della valva inferiore. Infatti, mentre nella forma di Crorrar l'altezza della valva inferiore è di poco su- periore al doppio del diametro dell’apertura o, al massimo, tre volte il diametro stesso, in questa nuova e singolare forma di DuranIA l’altezza della valva è molte volte più grande del diametro della sua apertura. Gli esemplari cilindriformi, flessuosi, sono allungatissimi, presentando un'altezza almeno dieci volte maggiore della larghezza, e raramente toccano i 20 mm. di dia- metro massimo trasversale. Sono esili, associati in gran numero, disposti più o meno vicini l'uno all’altro, talora aderenti per i fianchi, rimanendo sempre libera la re- gione sifonale, ed hanno quasi tutti vuota la cavità interna, di guisa che il calcare bianco che li cementa presenta un singolare aspetto bucherellato. Sopra una super- ficie di 90 centim. quadr. all’incirca vi sono le sezioni trasverse di una trentina di individui. Guscio di notevole spessore, con caratteristica struttura cellulare reticolata, a maglie eccezionalmente grandi, rispetto alla statura della valva, ed evidentissime sulle sezioni trasverse. Queste hanno contorno subcircolare, salvo in corrispondenza 19 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 291 delle due fascie sifonali #, S, assai larghe, e più quella anteriore, appiattite o leg- germente concave od ondulate, con traccie incerte di filettatura, separate da un'unica costa alta ed acuta, e però distinta da quelle basse e generalmente ottuse che or- nano il resto della valva. Nessuna traccia di cresta legamentare. — Valva superiore sconosciuta. Monte Gesso presso Ariano-Puglia. Durania apula Par. 1900. Biradiolites apulus. C. F. Parona, Rud. Senon., pag. 21, tav. III, fis. 1, 2, 3. 1909. Sauvagesia apulus. A. Toucas, Lt. s. 1. class. et V'év. d. Radiolit., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., tome XVII, pag. 97, fig. 65. Castello di Coppa e di Ruvo (Bari). — Senoniano superiore. Durania hippuritoidea n. f. Tav. I, fig. 3, a, d. È questa una forma affine alla Dur. apula per il carattere della regione sifonale costituita da due fascie assai ridotte in larghezza, subeguali, infossate e separate da un'interfascia formata da quattro coste. Ma ne differisce notevolmente per il tipo diverso d’ornamentazione a coste più nu- merose, ottuse, appiattite, talvolta binate, separate da solchi stretti, quasi lineari. Le zone sifonali sono più profondamente in- fossate, in particolare l'anteriore E, con traccie incerte della filettatura longitudi- nale. Come la costolatura ricorda quella di certi ippuriti, così le fascie sifonali ri- cordano i solchi esterni ai pilastri pure degli ippuriti, e la valva inferiore di questa Durania assume per tal modo un’apparenza ippuritica. Colla sezione trasversale, il guscio mostra la struttura reticolata, fine ed a cellule allungate nel senso del piano della lamina, ed il suo rilevante spessore, tranne nella regione sifonale, dove si as- Fig. 7. sottiglia più che nella Dur. apula, segna- tamente in corrispondenza dei solchi esterni. Nella sezione la cavità interna appare subrotonda, con appiattimento nella regione sifonale e con leggere inflessioni del guscio verso l’interno, di fronte ai solchi E, S. Il margine dell’apertura è più forte- mente increspato che nella forma affine ripetutamente ricordata, in dipendenza del maggior numero di coste e porta rare impressioni di vasi radiali ramificati. La valva superiore è sconosciuta. Proviene da un calcare cereo poco compatto (Senoniano) di Vitulano presso Bene- vento, a settentrione del Taburno (Museo di Napoli). 292 C. F. PARONA 20 Durania Martellii Par. 1911. C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda sulla costa meridionale dell’isola di Lissa, Atti r. Accad. d. Sc., Torino, vol. XLVI, pag. 9 (estr.), fig. 1, 2. Senoniano di Cortemartina (Acquaviva), Putignano, Murgia Vallata (Gioia) nella Terra di Bari. Durania (Lapeirousia (?)) samnitica Par. 1901. Biradiolites samniticus. C. F. Parona, Le Rud. e le Camac. di S. Polo Matese, Mem. d. R. Acc., Torino, tom. L, pag. 203, tav. I, fig. 8-11, tav. III fig. 4 (a-d). Già ho fatto notare le affinità di questa forma col Biradiolites cornu-pastoris, tipo del genere Durania, per ciò che riguarda la struttura reticulata delle lamine e la fine costulatura delle fascie sifonali, e col genere Lapeirousia in dipendenza delle protuberanze interne, che corrispondono alle fascie sifonali. Per le recenti osserva- zioni del DouviLLé, sui legami di parentela fra il gen. Durania ed il gen. Lapei- rousia, essa presenta un particolare interesse, quasi come forma di passaggio dal gen. Durania, al quale corrisponde per l’aspetto ed i caratteri d’ornamentazione, al gen. Lapeirousia, col quale ha comune il carattere dello sviluppo assai pronunciato delle protuberanze sifonali interne. Sugli esemplari di valva superiore non ho riscon- trato la presenza degli pseudoosculi, caratteristici della valva superiore, nella Lap. Jouanneti (Des M.) e nella Lap. crateriformis (Des M.); nè mi è dato ora di veri- ficare l’esistenza sul lembo delle suture, messe in luce da Douviccé (1), che delimi- tano in modo affatto caratteristico l’area trapezoidale di ciascuna regione sifonale. Ragioni per cui lascio dubbio il riferimento al gen. Lapeirousia. È inoltre da notare che la Lap. (?) samnitica per la sua valva inferiore allungata e subcilindrica, più che ai due tipi ora citati del genere, ricorda la Lapeirousia Pervinquieri Touc. (2) del Senoniano di Tunisia, di piccola statura (e però considerata dal Toucas, che la de- scrive fra le Sphaerulites, come una rarità del gruppo) ed esternamente ornata da coste longitudinali. S. Polo Matese. — Turoniano. Lapeirousia Jouanneti (Des M.). 1900. Lapeirousia Jouanneti. C. F. Parona, Rud. senon., pag. 17, tav. II, fig. 6-7. 1908. Sphaerulites Jouanneti. A. Toucas, Sur la classif. et Vévol. A. Radiolit., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., tome XVI, pag. 58, tav. X, fig. 4-5. 1910. Lapeirousia Jouanneti. H. DouvinLé, Rud. de Sicile, d’Algérie, ecc., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., tome XVIII, pag. 26, fig. 25 e 26, pag. 81, tav. VI, fig. 2, 3 (ved. sinon.). 1911. Lapeirousia Jouanneti. C. F. Parona, Le Rud. del Senon. di Ruda, ece., pas. 12. Monte Gesso presso Ariano-Puglia. — Specie caratteristica del Maéstrichtiano superiore. (1) H. Douvirué, Rudistes de Sicile, d’Algérie, ecc., È Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléontologie, 1910, tome XVIII, pag. 26. (2) A. Toucas, Etudes sur la classif. et V'évol. des Radiol., “ Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., 1908, tome XVI, pag. 57, PI. X, fig. 1-2. ‘ 21 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL APPENNINO 295 SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Mavale Fig. 1, a, db. — Radiolites saticulanus n. f. (Monte Camino, in prov. di Caserta — Museo di Torino). 1 a, b. — Biradiolites Dainelli n. f. (dintorni di Bari — Museo di Torino). - 3, a, db. — Durania hippuritoidea n. f. (Museo di Napoli). i D Tav. IL Fig. 1, a, è. — Praeradiolites Hoeninghausi (Des Moul.) (?) (*/s del vero), Birostro (Gargano — Museo di Napoli). a — Radiolites peucetius n. f. (Putignano in Puglia — Museo di Torino). - 3, a, b, c. — Radiolites peucetius n. £. (ibid., id.). CE — Durania austinensis (Roemer) (Gargano — Museo di Napoli). Nd: — Durania arundinea n. £. (*/,). (Monte Gesso, Ariano-Puglia — Museo di Torino). De, Tav. | Mozimo T @ Off. Fototecnica Ing. G. Molfese. Torino Serie Il. Vol, LXII ovie dell DITem .F. PARONA - Rudiste dell'Appennino E. Forma Fot. i Forino C.F. PARONA - Rudiste dell'Appennino Memorie della R. Accad, delle Scienze I Serie Il. Vol. LXII Tav. Il E. Forma Fot. Off. Fototecnica Ing. G.Molfese Torino I dar LO STAGNO DI S." GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE PARTE SECONDA COSTITUZIONE ED ECOLOGIA DELLA FLORA STUDIO DEL Dr. ANGELO CASU (CON UNA TAVOLA) Approvata nell’Adunanza del 5 Febbraio 1911. SOMMARIO E INDICE T. Caratteri generali della vegetazione 1. Evoluzione ecologica della fiora 3 2. Costituzione generale della flora e delle sue zone ooozione II. Note ecologiche particolari 1. Zona esterna . Igrofite saline Bai Igrofite comuni Considerazioni 2. Zona palustre . 3. Zona stagnale. 4. Zona sommersa È HI. Considerazioni generali . x d Le due stazioni dominanti — Le zone Sealziohe —_ Fatti SA di elogia _ Fatti particolari — mancanza di specie arboree e sue cause — Struttura littoranea — Azione del mare e valore nutritizio delle infiltrazioni del sottosuolo — Azione del- l’acqua marina sulla costituzione delle zone ecologiche — Azione antagonistica dei fiumi — Adattamento delle piante di fiume= adattamento fisiologico, saturazione salina — Adattamento ecologico, precocità della fioritura — Adattamento morfologico — Riduzione delle piante marine — Azione repulsiva dell’acqua di fiume — Riduzione delle Alofite terrestri= nelle zone palustre, stagnale ed esterna, e loro caratteri nega- tivi di adattamento. IV. Conclusioni generali . Descrizione della Tavola dello Siano Tavola dello Stagno . 37 39 40 296 ANGELO CASU 2 TE, Caratteri generali della vegetazione. 1. Evoluzione ecologica della Flora. Per quanto il ciclo evolutivo-geofisico dello Stagno di S. Gilla sia prossimo al suo completamento, pure la sua vegetazione vi si mantiene ancora con carattere nettamente primitivo, anche in quelle parti che sono più direttamente influenzate dai fiumi. Ricorderò che il fondo ne è ormai tanto sollevato da costituirvi un terrazzo alluvionale uniforme nei due Bacini orientale ed occidentale, confinanti colla Plaja, dove il battente dell’acqua oscilla appena attorno al mezzo metro, e che solo nella parte centrale del Bacino settentrionale si ha una profondità massima di due metri, o poco più. Questa profondità è poi anch'essa insignificante tanto in confronto a quella che l’intero bacino doveva possedere in origine, quanto rispetto all’area dell’attuale specchio acqueo, il quale misura normalmente 40-45 Kmq. La massa dell’acqua si riduce dunque, ed in generale, ad uno strato sottilissimo che si distende dalla foce dei fiumi alla Plaja, ed è tale che in molti tratti non è più possibile la navigazione, neanche coi più leggeri sandali pescherecci dello Stagno. Ma nonostante ciò, la Flora non vi costituisce quelle caratteristiche ecologiche generali che sono proprie della palude comune, e la macroflora fanerogama, che vi dovrebbe già ricoprire tutto il fondo, vi è solo incompletamente rappresentata in una piccola parte della periferia, mentre lo specchio acqueo ne è interamente libero. La vegetazione stagnale e quella palustre (Tamarix sp., Carex sp., Phragmites sp. Scirpus sp., ecc.) si è ridotta alla foce dei fiumi e dei torrenti, mentre lungo gli altri tratti della riva, p. es., sulla Plaja, non si osservano che gracili e sparsi culmi di cannuccia di palude in prossimità di alcuni canali. Il fatto si spiega coll’azione repulsiva che esercita l’acqua marina su queste specie di fiume, poichè ristagnandovi a lungo vi uccide le formazioni vegetali palustri e stagnali. Tuttavia, e per quanto limitatamente alla stagione estiva, una caratteristica ecologica della palude viene offerta qui dalla florida vegetazione crittogamica del fondo allorchè viene posta allo scoperto. Questo fatto, che per molti riguardi è qui del massimo interesse, è determinato da ciò, che le alghe filamentose (Entero- morphae, sp., ecc.) che vegetano sulle ruppie del fondo, o su qualche altro sostegno, formano in modi diversi delle masse che durante il lungo periodo estivo emergono parzialmente dall’acqua, dando l’illusione di tratti del fondo i quali sieno stati pro- sciugati a causa delle eccessive secche; ma non è proprio così, e tuttavia il loro significato geofisico non ne differisce che per gradi. 3 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 297 Colle prime pioggie autunnali, queste masse, già marcite in parte, cadono al fondo dove, dissolvendosi completamente, portano un notevole contributo di limo, ed allora lo specchio acqueo ridiventa libero, e tale permane fino all’estate venturo. Le caratteristiche permanenti della palude le troviamo solo nel Bacino setten- trionale, dove si osservano distintamente: una zona centrale sommersa estesa a rico- prirne tutto il fondo; una zona stagnale ed una palustre. Ma anche qui l’azione repulsiva dell’acqua marina è abbastanza evidente, poichè, nonostante l’insensibilità della pendenza del fondo, la vegetazione palustre si allon- tana di poco dal margine, ed una sola è la pianta stagnale che si estende a vegetare su tutti i punti di questa parte dello Stagno. Ma oltre che sul fondo, la mancata evoluzione della fiora, la si osserva parti- colarmente nella zona esterna circostante, costituita dai prati umidi. Questa zona, per quanto vasta ed ampiamente aperta alla invasione delle acque ed al dominio dei venti, sia dalla parte del mare che da quella dell’interno dell’Isola, e per quanto si trovi perciò nelle condizioni più favorevoli per essere presto popo- lata dalle specie vegetali più diverse, presenta una vegetazione alquanto primi- tiva e costituita quasi totalmente da specie erbacee e da altre poche, suffruticose e fruticose. Le specie arboree, cioè, che dappertutto ove si stabiliscono, rappresentano l’ul- tima fase evolutiva, verso cui tende ogni flora in un qualunque punto dello spazio, mancano quasi completamente, e l'occhio può scorrere questa grande distesa di piano, senza che per molti Kmq. ne osservi alcuna traccia. La Plaja, che è lunga oltre i nove Km., presenta tre gruppi piccoli e radi di alberi coltivati, dei quali uno allo stabilimento balneare Città di Cagliari, l’altro nella località di Giorgino, ed il terzo a La Maddalena. Lungo gli altri 41 Km. del perimetro si notano un boschetto, spontaneo in parte, lungo il Rio di Capoterra, ed altri gruppi di pochi pioppi a S.' Maria, a Piscinas, e nel piano che si distende fra Elmas ed Assemini. Allo sbocco dei torrenti si hanno poi le macchie dei Tama- ricti, spesso impenetrabili, ed in qualche tratto, come sotto Capoterra, si ha la bassa macchia mediterranea in cui dominano Pistacia Lentiscus L., Cistus sp., Ar- butus Unedo L., Erica arborea L., Phillyrea variabilis Timb., ed altre essenze di minore importanza. Dalla parte di levante si hanno poi alberi coltivati lungo i rilevati della strada ferrata, la quale per lunghi tratti attraversa la riva dello Stagno (zona esterna), e vi si osservano varie specie di Pinus, Eucalyptus, Quercus, Acacia, Populus, Salix ed altre meno cospicue; ed al di là della strada, a misura che il terreno si eleva, si ha la coltura a vite, e più oltre, e in alto, il mandorlo, l’olivo ed il frutteto. Tutto ciò dimostra che nelle terre in cui più non arriva l’influenza diretta del mare, la fiora ha quasi compiuto per intero la sua evoluzione, la quale in molti casi è stata aiutata dalla mano dell’uomo. Ma nella prateria umida della zona esterna dello Stagno, ciò non fu ancora pos- sibile, ed i vegetali superiori legnosi ne sono tenuti, perciò, lontani. Intanto, e in dipendenza dell’attuale struttura del bacino di questo Stagno, le regioni ecologiche si riducono a quella della riva, a quella del fondo ed alla elosica superficiale, le quali sono costituite rispettivamente dalle praterie umide circostanti Serie II, Tom. LXII. f mi 298 ANGELO CASU 4 (Zona esterna), dalla prateria del fondo (Z. palustre, Z. stagnale, Z. sommersa), e dalla massa dell’acqua colle sue alghe in sospensione. Si nota subito che, in generale, le specie vegetali che caratterizzano le diffe- renti zone ecologiche, sono, qui, tratte da due grandi stazioni differenti: l« salata colle sue piante saline (terrestri e marine), e quella di acqua dolce, con tutte le gra- dazioni comprese fra le più modeste Porphyreae Id. compressa Grev. i A g) crispa Rabenh. (E. inte- Bangia coccineo-purpurea Ktz. 3 stinalis f.crispa Ag.) . " Mali sa ia Kt Ceramiecae Id. lanceolata Rabenh. . . d Ceramium tenuissimum Lyngh. 1, c) crispata Le Jol. (Phy- coseris crispata Ktz. - Rodomeleae Phye. lanceolata Y rami : Polysiphonia intricata J. Ag... fera Ktz. - Solenia Ber- iolonipA9:)iale to 3 Characeae ATO ra ERE ; d SR i Chara aspera W. 0. . i g) laetevirens Piccone È Ia Td Mitomento ssi ei oe j (Ulva Linza De N.ts). 5 ; : Ico gliene di o eee > Confervaceae Lamprothamnus papulosus Bég. Chaetomorpha aerea Ktz. . . 5 et Hormicg: Vi aa var. Pouzolsiù Bég. et; inizio a. TOLTO SEE AR dario da BIG O 3 o Cladophora fracta Ktz. . . . È Puuisctaccae Id. ramulosa Meneg. . . . = Equisetum ramosissimum Jd>vadorum Kiziug 0. 3 Destro ner AE ZIIOSLENI (7) NB. I nomi delle piante littoranee e marine, preesistenti alla formazione dello Stagno, sono scritti in carattere comune; quelli delle piante migrate dai fiumi, dopo detta formazione (idro- igrofite), sono scritti in grassetto, e quelli delle piante avventizie in corsivo. Rionocotileae Poaceae Aegilops ovata L. . Agropyrum acutum R. et Sch. Id. junceum P. B. . Id. scirpeum Presl. Agrostis vulgaris With. Arundo Donax L. Avena fatua L. . Id. sativa L. ‘Rltee Brachypodium Dro R. s. Briza maxima L. . Td. media L. . Id. minor L.. Bromus madritensis L. Id. maximus Desf. . Id. tectorum L. . Catapodium loliaceum Link. Crypsis aculeata Ait. Id. schoenoides Lam. Cynodon Dactylon Pers. . Cynosurus cristatus L. Id. echinatus L. . , Festuca arundinacea Schreb. Glyceria aquatica Wahlb. Id. distans Wahlb. (Atropis distans L.) . Ar Id. maritima Mert. (G. fe stucaeformis Parl.) Id. plicata Fries. . Holcus lanatus L. . . Hordeum maritimum With. . Imperata cylindrica P. B. Koeleria hispida D.C. Id. phleoides Pers. . Id. setacea Pers. . Lagurus ovatus L. Lamarkia aurea Moench. Lepturus incurvatus Trin. . Td. filiformis Trin. . Lolium rigidum Gaud. Lygeum Spartum L. . Melica Magnolii Gren. et God. . Z. estern. ANGELO CASU Panicum Crus-Galli L.. Id. repens L. Phalaris canariensis L. . Td. nodosa L. Phleum arenarium L. Id. pratense L. Phragmites communis n (Arundo Phragmites L.) Piptatherum multiflorum P. de Beauv. Polypogon IA ORO Desf. Id. maritimum Willd Psilurus nardoides Trin. Serrafalcus mollis Parl. . Setaria verticillata P.B.. Stipa tortilis Desf. Triticum villosum P.B. . Vulpia myuros Gm. Td. uniglumis Reich. Cyperaceae Carex divisa Huds. . Id. extensa Good... . . Id. hispida Schk. . Id. praecox Jacd. . Cyperus badius Desf. Id. longus L. (vernacolo = sessini) Id. Presli Parl. Schoenus nigricans L. À Scirpus lacustris L. (S. Ta- bernaemontani Gmel.) Td. Holoschoenus L. Id. maritimus L. (vernacolo = fenu) . Id. triqueter L. Araceae Arisarum vulgare Targ. Tozz. Z. estern. Arum pictum L. Typhaceae Sparganium ramosum Huds. Z. palust. Typha angustifolia L.. Id. latifolia L.. . Z. estern. . Li. palust. ” » ” k] ” 1 Iuncaceae Tuncus acutus L. . Z. estern. Id. capitatus Weigel. Td. conglomeratus L. . . n Id. effusus L. : Id. maritimus Lamk. . . " Td. multiflorus Desf.. . . S Liliaceae Allium roseum L.. ; a TRL open Ibis ooo È) Asphodelus fistulosus L. . . Pi Id. ramosus Gouan. . . . D Scilla autumnalis L. . . . S Urginea Scilla Steinh. . . . a Aspuragaceae Asparagus acutifolius L. > Tetra bu sali e P ib argini e ano È Id. stipularis Foersk. . . . 5 Snia SperI OI 5 Amaryllidaceae Narcisus Tazzetta Lois. . . 3 Iridaceae Gladiolus segetum Gawl. . . 3 Gynandriris Sisyrimchium Parl. 3 Thelysia alata Parl. . . . . - Xiphion Pseudo-Acorus Parl. Z. palust. Orchidaceae Barlia longibracteata Parl. . .Z. estern. Orchis papilionacea L. . . . ; LO STAGNO DI S.°A GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 301] Ophrys aranifera Huds. . .Z. estern. TASNteo AC av E 5 Id. Speculum Link. . . . 5 Id. tenthredinifera Willd. . n Serapias Lingua L. . . . . 9 Butomaceae Butomus umbellatus L. . Z. stagn. Alismaceae Alisma Plantago L. . Z. palust. Id. ranunculoides L.. . Z. stagn. Damasonium stellatum G. L. Rici zgio eo ia 3 Giuncaginaceae Triglochin Barrelieri Lois. .Z. palust. Potamogetonaceae Potamogeton coloratus Horn. Z. stagn. TACrISpusgit ARR È [GL amame Ie uo ero 5 Td. pectinatus L.. . . . H Id. trichoides Ch... . . 5 Ruppia maritima L. . . . ; Zannichellia dentata W. Idp2lUstris ge Se Najadaceae Najas major Al RA 5 Lemnaceae Lemna gibba L.. . . . . A Tk sastaoie Ile e e eo 3 302 ANGELO CASU 3 Polygonaceae Dicotileae Emex spinosa Campder.. . .Z. estern. Mist Polygonum aviculare L. . . . 9 Salicaceae Id. equisetiforme Spr. 3 Populus alba L.. . . . .Z estern. Id. maritimum L. 2 TO Id. salicifolium Brousson. . 3 8) pyramidalis Roz. . . y Id. Persicaria Te Penso) — ”» an ab IRonaad Ie a, G Ta. babylonica L.. . . . Rumex bucephalophorus L. . . n Id. crispus L. . 5 UrLIGRCERE I Npuleheri siae ta TwHen "979°, n sg Sa Reggiano 5 Mimnarantacene MOLO OI pi licL portarono Io vo do ” Amarantus albus UL. È MARR: 072 SAI A SAT 5 Parietaria officinalis L. . . . ; ; Chenopodiaceae Balanophoraceae Arthrocnemum glaucum Ung. Cynomorium coccineum L.. . Ò ; Sterng see n) Atriplex crassifolia Kock. . . È Haloragaceae TA Ea limu ss eee & TARRh' asta to so Myriophyllum spicatum L. .Z. stagn. Id. laciniata L. (A. Torna- Callitriche stagnalis Scop. . n ber Rin) N È | Ta. obtusangula Le Gall. . È Id. patula L. 5 } Td. rosea L. . 3 Luphorbiaceae Beta vulgaris Moq. % Crozophora tinctoria Ad. de Juss. Z. estern. n Baia SIGRI, Chenopodium album L. Euphorbia Ch TA SRO n 2 Pi dalggri ì ssa Id. murale L. STA Td. dendroides L.. . . . I “clap È je È Id. opulifolium Schrad. . . i Tcl Paesaggio 1 a ea 5 : È Id. urbicum L.. sto 5 TA Replis IENA AR. p ; NILO Td old uns RATE a I a =” L PECE e). i Halopeplis strobilacea Ces... A a Ev RI 1 ; Obione portulacoides Mog.. . a Tok denogasa Ibi ao erica fi È È 3 È Salicornia fruticosa L. . . . 6 Id. pubescens Vahl. . . . 3 ; Ta Mih'erbacca N e Po IL vareeng Ipo o sato 3 AR0 SalsolaS.A 94 re A Mercurialis annua L. . . . } TOS Rra suse ; Daphnaceae TA vermicula Fa NE A Suaeda fruticosa Forsk. . . PI Daphne Gnidium L. . . . . n Id. maritima Dum... . : Thymelea hrsuta Endl. . . . S IGL Seniga, MG 05. n o Plantaginaceae Plantago albicans L. . Id. Bellardi All. Id. Coronopus L. Id. major L.. Td. maritima L. Id. Psyllium L. . Plumbaginaceae Statice articulata Lois. . Id. densiflora Guss. Id. echioides L. Id. dictyoclada Boiss. Id. Limonium L. Id. virgata W. . Lamiaceae Ajuga Jva Schreb. Ballota nigra L.. Lamium amplezicaule L. Lavandula Stoechas L. Lycopus europeus L. . Marrubium Alysson L. Id. vulgare L. Mentha aquatica L. Id. insularis Req.. Id. Pulegium L. Micromeria graeca Bent. Salvia Verbenaca L. Satureja Thymbra L.. Sideritis romana L. Stachys glutinosa L. Teucrium capitatum L. Id. Marum L. Id. Scordium L. Thymus capitatus Hoffm. Ferbenaceae Verbena officinalis L. Id. supina L. Orobancacene Phelipaea ramosa Mey. . . Z. estern. “ n LO STAGNO DI S.A GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 303 Scrophulariaceae Antirrhinum majus L. Bartsia viscosa L. . Celsia cretica L. Linaria Pelisseriana Mill. Id. supina Desf. Id. reflera Desf. Id. triphylla Mill. Verbascum sinuatum L. . Solanaceae Hyoscyamus niger L. . Id. albus L. . Lycium europaeum L. Solanum Dulcamara L. Id. nigrum L. Y) miniatum M. K. Id. Sodomaeum L. . Borraginaceae Anchusa italica Retz. . Asperugo procumbens L. Borrago officinalis L. Cerinthe aspera L. Oynoglossum pictum Ait. Echium calycinum Viv. Id. italicum L. Id. maritimum W. . .Z. estern. b.] b.} » x O ” . Z. palust. .Z. estern. > ” Heliotropium europaeum Guss. : Id. supinum L. . Lithospermum arvense L. Convolvulaceae Cressa cretica L. Convolvulus althaeoides L. Id. arvensis L. 5 Td. pentapetaloides L. . Id. sepium L. Gentianaceae Chlora perfoliata L. Erythraea Centaurium Pers. Id. spicata Pers. 304 Primulaceae Anagallis arvensis L. . 8) Monelli L. (A. coerulea Schreb.) Samolus Valerandi L. . Ambrosiaceae Xanthium spinosum L. . Id. strumarium L. Asteraceae Aetheorhizza bulbosa Cass. Anthemis fuscata Bertol. Id. maritima L. Artemisia arborescens L. Aster Tripolium L. Asteriscus spinosus Gr. et God. Atractilis cancellata L. Bellis annua L. Id. perennis L. Calendula arvensis L. Carduus pycnocephalus L. Carlina corymbosa L.. Id. lanata L. Id. racemosa L. . Centaurea Calcitrapa L. . Id. Schouwii D.C. Id. sphaerocephala L. Cichorium Intybus L.. Cirsium giganteum Spr. Id. italicum Seb. et Maur. . Crepis foetida L. Id. taraxacifolia Thuil. Oynara horrida Ait. . Evax pygmaea Pers. . Galactites tomentosa Moench. Helichrysum angustifolium D.C. Helminthia echioides Gaertn. Hyoseris radiata L. Hypochaeris radicata L. . Id. wethnensis Nob. Imula crithmoides L. . Id. graveolens Desf. Td. viscosa Ait. . ANGELO CASU ‘.Z.estern. Kentrophyllum lanatum D.C. .Z. estern. Lactuca saligna L.. Picridium vulgare Desf. . Pinardia coronaria Less. Plagius ageratifolius D.C. Pulicaria sicula Moris. . Scolymus hispanicus L. Senecio erraticus Bertol. . Id. leucanthemifolius Poir. Id. vulgaris L. Silybum Marianum Gaertn. Sonchus oleraceus L. . Id. palustris L. Id. tenerrimus L. Thrincia tuberosa D. 0. . Urospermum Daleschampii Desf. Id. picroîdes Desf. . Dipsaceae Dipsacus ferox Lois. Id. sylvestris Mill. Scabiosa maritima L. . Rubiaceae Galium murale All. Id. palustre L. Ia. saccharatum Aill. . Loniceraceae Lonicera implexa Ait.. Sambucus nigra L.. Apiaceae Apium graveolens L. . Conium maculatum L. Daucus Carota L. . Id. gummifer Lam. Eryngium amethystinum L. . Id. Barrelieri Boiss. . Id. campestre L. Id. maritimum L. Foeniculum piperitum D. O. b} ”» » 11 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE Helosciadium nodiflorum K. Z. palust. Heracleum Sphondylium L.. Z. estera. Magydaris tomentosa D.C. . Z. ester. Oenanthe crocata L. . . .4. palust. TA SAStUIOSa eo S Pimpinella peregrina L.. . .4Z.estern. Ridolfia segetum Moris . . . 5 Smyrnium Olusatrum L.. . A Thapsia garganica L. . . . - Tordylium apulum L. Torilis nodosa Gaertn. . . . È Mesembrijanihemaceae Mesembryanthemum cristalli- TANPIT 03 Al DES O MNE TE CISL 5 Wafino dito rum Lo et È Mollugo hirta Thunb. . Cactaceae Opuntia Ficus-indica Mill. . Paronyclhiaceae Corrigiola littoralis L. . . . G Herniaria hirsuta L.. . . . 5 Polycarpon tetraphyIlum L.. . 5 Tamaricaceae Tamarix africana Poir. . . i iL agli ih Seo a 7 Cucurbitaceae Ecballion Elaterium Rich. . - |, Onagrariaceae Epilobium hirsutum L. x A Id. tetragonum L. . . . 5 Lythraceae Lythrum Salicaria L.. . . 7 Fosaceae Crataegus oxyacantha L. . È Fragaria Vesca L. Poterium Sanguisorba L. Prunus spinosa L. E Rubus discolor Weih. . Serie II. Tox. LXII Phaseolaceae Ut Anagyris foetida L. . . . .4.estern. Anthyllis Vulneraria L. . Astragalus boeticus L. Td. hamosus L. . Calycotome villosa Link. Doryenium rectum Ser. Lathyrus Cicera L. Id. Clymenum L. Td. hirsutus L. Lotus corniculatus L.. Td. creticus L. . Td. fenuis W. et K. Medicago Echinus D.C. . Id. sativa L. : Td. tribuloides Desr. Melilotus messanensis All. Td. sulcata Desf. Ononis biflora Desf. Id. viscosa L. Psoralea bituminosa L. Tetragonolobus purpureus Moench. Trifolium arvense L. Id. Cherleri L. . Id. procumbens L. . Id. repens L. Id. spumosum L. Id. stellatum L.. Id. suffocatum L. Td. tomentosum L. Anacardiaceae Pistacia Lentiscus L. . Rutaceae Ruta chalepensis L. Tribulus terrestris L.. Geraniaceae Erodium chium Willd. Td. Ciconium Willd. Id. malacoides Willd. . Geranium molle L. Oxalis cernua Thunb. Id. corniculata L. b) D) » 306 Malvaceae Althaea officinalis L. . Lavatera arborea L. Id. cretica L. Malva nicwensis AII. . Id. sylvestris L. . Dianthaceae Alsine procumbens Fuzl. Arenaria serpyllifolia L. Id. tenwifolia L. Cerastium pentandrum Moris Id. vulgatum L.. Lychnis Coelis-rosa Desv. Id. Zaeta Ait. Sagina maritima Don. A Cucubalus Wib. . Sericea All. . eli macrorhyza Gr. di Godr. Id. rubra Pers. . Id. salina Presl. Stellaria media Cyr. . Frankeniaceae Frankenia laevis L. . Id. pulverulenta L. Cistaceae Cistus monspeliensis L. Id. salvifolius L. Helianthemum guttatum Mill. Id. salicifolium Pers. . Resedaceae Reseda alba L.. Id. luteola L. ANGELO CASU , .Z.estern. Brassicaceae Alyssum maritimum Lam. Brassica campestris L. Cakile maritima Scop. Capsella Bursa-pastoris Moench. Coronopus didymus Sm. . Diplotaxis erucoides D. C. Id. tenuifolia D. 0. . Eruca sativa Lmk. Lepidium procumbens L. Id. graminifolium L. Nasturtium officinale R. Br. Z. i, . Z. estern. Stinapis alba L. Id. nigra L. . Sisymbrium Irio L. Papaveraceae Fumaria agraria Genn. . Id. capreolata L. Id. officinalis L. Glaucium flavum Crantz. Id. phoeniceum Crantz. Hypecoum procumbens L. Papaver hybridum L. . Id. pinnatifidum Moris Id. Rhoeas L. Nynpheaceae Nynphea alba L. Ranuncolaceae Anemone coronaria L. Id. hortensis L. . Adonis aestivalis L. Delphinium peregrinum L. Nigella damascena L. Id. divaricata Beaupré . Ranunculus aquatilis L. . Id. fiuitans Lam. . Id. palustris Sm. . - Id. sceleratus L. . 12 . Z. estern. ” ” » » . 5. stagn. . Z. estern. 9 13 LO STAGNO DI S."% GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 307 UE Note ecologiche particolari. 1. Zona esterna. Il profondo ed irregolare frastagliamento che presenta spesso il margine dello Stagno e la facilità e frequenza colle quali molti tratti vengono sommersi nei pe- riodi di piena, o semplicemente di alta marea, non permettono di precisare confini di spazio per questa zona. Ma per quanto irregolare e saltuaria essa sia, è però sempre nettamente distinta e caratterizzata dalla presenza delle comuni igrofite che si stabiliscono dappertutto in tutti i terreni freschi, e per quella ancora più signi- ficativa delle Salicornie, Suede, Salsole, ecc., che sono le igrofite saline, della riva marina. L'estensione è vastissima, ed i suoi confini più esterni, che nella parte meri- dionale sono segnati dalla Plaja, ad Occidente dalle colline di Capoterra e ad Oriente da quelle di Cagliari, sono indefiniti a Settentrione, dove le Salicornie continuano la loro vegetazione per molti Km. ancora verso l’interno, per quanto diradandosi a misura che i terreni si elevano sul livello del mare e le specie comuni vi si sta- biliscono. Molto spesso, poi, come tra Elmas ed Assemini, la vegetazione spontanea di questa zona si alterna con le comuni colture a campo, di cereali o di vite, o con quelle ad orto, le quali tutte sono rese possibili in quei tratti che si elevano di oltre un metro circa, sul livello dello Stagno. Intanto, per comodità di studio, dirò separatamente delle igrofite saline (Alofite) e delle igrofite comuni, avvertendo che la prima denominazione mi viene suggerita dalla lunga esperienza che ho delle piante saline, le quali sono costantemente legate al terreno dall'azione combinata dell’acqua e dei sali disciolti, e più dalla prima che dalla seconda. Igrofite saline (Halophytae). Queste piante sono estese a tutta la zona esterna dello Stagno, ma più parti- colarmente esse vegetano in corrispondenza dei due Bacini orientale ed occidentale. Il littorale della Plaja che confina con l’uno e con l’altro, ne è coperto per tutta la sua estensione, da Cagliari fin oltre la Maddalena, e presenta per questo riguardo la stessa costituzione botanica del littorale marino. Si nota solo la mancanza della Salsola Kali L., e quella di alcune specie ammofile, le quali tutte sono frequenti ed esclusive delle sabbie marine. Le Alofite più comuni e più diffuse che si osservano attorno allo Stagno, appar- tengono, come dappertutto, alla famiglia delle Chenopodiacee, e fra tutte predomi- nano i Chenopodi, le Salicornie, le Suede e le Salsole. Esse riescono qui oltremodo interessanti, poichè danno luogo a fatti di vegetazione molto istruttivi i quali ci mettono in grado di spiegare la loro generale ecologia in tutti gli altri terreni salati. Ne prenderò in esame alcuni fra i più importanti. 308 ANGELO CASU 14 Atriplex Halimus L., Qbione portulacoides Mog. Tand. — Sono specie perenni e legnose i cui fusti giovani e le foglie, senza eccezione, sono ricchi di parenchima clorofillifero carnoso. Queste specie formano macchie frequenti in mezzo ai prati umidi, oppure vengono coltivate a siepe attorno ai campi; e lo è special- mente la prima, poichè, in buone condizioni, assume lo sviluppo degli alti arbusti, ed i suoi lunghi rami vengono allora impiegati per diversi usi, per quanto modesti (Ver. élimu). Salicornia fruticosa L., Halopeplis strobilacea Ces., Arthocnemum glaucum Ung. Stern. — Sono le Alofite più interessanti, perchè sono le più carat- teristiche e le più diffuse. Sono anch’esse, specie perenni e legnose, afille e con giovani fusti muniti di parenchima corticale carnoso-succolento e clorofillifero, il quale dopo qualche anno di vegetazione si riduce e in parte suberizza. L'altezza delle piante si mantiene generalmente sotto il mezzo metro, e solo in pochi casi lo raggiunge o lo supera; e in tutti i modi, la parte basale del fusto è sempre contorta e di colore grigio oscuro. La vegetazione è costantemente sporadica, e le piante, le quali sono perciò lar- gamente disseminate, si comportano come individui solitari, ai quali è incompatibile, non solo il contatto di una specie differente, ma anche quello di individui simili. Il fatto è comune a tutte le A/ofite, ma viene presentato in grado diverso ed in maniera sempre più sensibile, quanto più è accentuata nelle specie vegetali la strut- tura alofitica; epperò, fra tutte, le Salicorzie sono quelle che vi danno luogo nel modo più generale ed evidente. Gli è perciò che la loro vegetazione è particolar- mente localizzata alle depressioni del littorale, dove, a causa della speciale struttura del terreno (1), è impedita la vita delle piante comuni. Si nota, che in questo caso anche esse sono ridotte a poveri sterpi e che questi sono, o possono essere, accom- pagnati da una microflora alofila indifferente (Hordeum maritimum With., Lepturus incurvatus Trin., L. filiformis Trin., Psilurus nardoides Trin., Statice sp., Plantago sp.), la quale offre gli esempi più sorprendenti di nanismo, e tali da non lasciar conce- pire delle forme più ridotte di queste, capaci di fiorire e di fruttificare. Questo eccezionale raggruppamento è, intanto, reso possibile dal fatto che la detta microflora non fa ombra alle Salicornie; ma queste scompaiono sempre ovunque sorga in loro contatto una specie ugualmente, o più, cospicua di esse. Ciò è reso evidente dal fatto che queste diradano a misura che, allontanandosi dalle depres- sioni, si avvicinano ai fiumi ed ai torrenti e si mischiano alle igrofite comuni, e scompaiono del tutto in quei vasti tratti ricoperti, specialmente, dalle graminacee vivaci. Un’ altra maniera singolare di distribuirsi è quella che viene presentata dalla Salicornia fruticosa L. e dall’Obione portulacoides Moq. Tand. È comune il caso che su una data estensione della dassa riva, vegeti solo la prima di queste specie e che poi in una estensione contigua vegeti solo Obione, e poi ancora Salicornia, e così di seguito in tutte le direzioni, tanto da risultarne degli appezzamenti limitrofi, resi (1) Cfr. Casu A., loc. cit., Lo Stagno di S.! Gilla, pag. 296. 15 LO STAGNO DI S."% GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 309 nettamente distinti dal colore glauco-pallido della prima e da quello grigio-glauco della seconda. Il fatto è così inesplicabile e fantastico, da far pensare più all'opera del capriccio che a quella della libera natura. Halopeplis strobilacea L. — È una specie affine alle precedenti, e fra tutte le Alofite è quella che rivela maggiore resistenza alle forti soluzioni saline. E spesso la sola che si osservi nelle insenature più interne, come in quella retro- stante al Ponte di Fangario, in contatto di soluzioni saline di 20°-24° B., e, più spesso ancora, col sale cristallizzato che incrosta la parte basale dei fusti. Salsola Soda L. — È pianta erbacea annua, a struttura eminentemente alo- fitica, fusto e foglie carnose e succolente, ma che però rivela il contegno di un’ Alo- fila indifferente. La sua vegetazione si estende, infatti, dalle sabbie della riva marina fino ai terreni più settentrionali del bacino dello Stagno dove la salinità del terreno discende ad un minimum che è tollerabile anche dalle specie non Alofite. Solo, che, la sua biologia ripete qui gli stessi fatti già notati per le Salicorrie, e, cioè, che le piante intristiscono nei prati dove crescono le igrofite comuni, mentre altrove, come sui rilevati del grande collettore, là dove questo si apre fra detti prati, esse furono le prime, e sono tuttora le sole, a costituire macchie visibili a grandi distanze. Altrove poi, come in alcuni tratti coltivati a grano (Triticum durum Des.) o ad orzo (Hordeum vulgare L.), l’inizio del suo ciclo vegetativo viene ritardato di più mesi, tanto che l'occhio non ne scopre ancora tracce, neanche, nel periodo della mietitura, Giugno-Luglio. Solo qualche tempo dopo, si osserva la comparsa delle piante fra le stoppie, quando, cioè, sulla riva marina e sugli argini del Collettore suddetto, le corrispondenti sono già progredite di molto. Ma in breve anche fra le stoppie assumono tale estensione e rigoglio di forme, che, nel Settembre e nell’Ot- tobre, mascherano ogni avanzo della cessata vegetazione. Cynomorium coccineum L. — È la sola Alofita che si conosca parassita in questo bacino. Si fissa e sviluppa sui fusti radicanti dell’ Obione portulacoides Moq., della Salicornia fruticosa L. e della Suaeda fruticosa Forsk. Osservo che i fusti della pianta parassita compaiono sempre allo scoperto in punti che sono alquanto lontani dalle parti epigee della pianta ospite, e difficilmente in prossimità del fusto. Suaeda maritima Dum., Salicornia herbacea L., Prankenia pulve- rulenta L., F. laevis L., Statice echioides L., S. virgata W., S. limo- nium L., Plantago Coronopus L., P. major L., Spergularia rubra Pers. — Sono diffuse a tutte le parti dello Stagno, e spesso costituiscono, nella zona esterna, un manto verde e continuo che sui tratti più freschi, forma l’anello di con- giunzione colle piante palustri. Inula crithmoides L. — È specie Alofila indifferente, per quanto la carno- sità dei fusti giovani e quella ancor più accentuata delle foglie, le diano l’aspetto di un’Alofita tipica. Essa vegeta prevalentemente nei fossati umidi; ma attorno al Bacino settentrionale, essa si avanza tanto verso l’acqua dello Stagno, da restarvi 310 ANGELO CASU 16 a contatto per qualche tempo, anche nell'estate. In quei tratti, poi, che restano sommersi nell’inverno e parzialmente coperti o acquitrinosi, essa acquista tale esten- sione da imprimere da sola la nota dominante a tutto il paesaggio botanico. In questo modo si comporta come le piante palustri, e forma con esse delle associazioni, a differenza delle altre Alofite tipiche, che vivono solitarie. Aster Tripolium L. — Si comporta analogamente alla specie precedente, però vi è molto meno diffusa e non forma dei cespugli. Igrofite comuni. Favorite dall'azione dell’acqua dolce dei fiumi e dei torrenti, queste piante co- prono estensioni considerevoli della Zona esterna del Bacino settentrionale, costituen- dovi praterie che si distendono in tutte le direzioni per più Km. Esse comprendono igrofite esclusive ed igrofite preferenti. Le igrofite esclusive sono quelle che imprimono la facies a tutta questa zona, non tanto per il numero delle specie, quanto per l'estensione della loro vegetazione, e per la conspicuità delle forme che molte di esse vi assumono. Le specie arboree, pertanto sono pochissime, e si riducono alle seguenti: Po- pulus alba L., P. nigra L., B pyramidalis Roz., Salix babylonica L., S. alba L., cui pos- sono aggiungersi Tamarix gallica L., T. africana Poir. e Sambucus nigra L. La loro deficienza è resa ancor più sensibile all'occhio dal fatto che esse vi sono rappre- sentate da pochi gruppi radi e lontani fra loro. Talchè l'aspetto generale del pae- saggio botanico è dato dalle specie erbacee, e più specialmente da quelle più co- spicue, fra cui: Althaea officinalis L., Xanthium strumarium L., Helminthia echioides Gaert., Plagius ageratifolius L' Her., Lythrum salicaria L., Oenanthe fistulosa L., Heracleum sphondylium L., Cirsium giganteum Spr., O. italicum Seb. et Maur., Senecio erraticus Bert., Euphorbia pubescens Vahl. Nei tratti più umidi ed in vicinanza dell’acqua vegetano particolarmente le Cyperacee e le Graminacee, quali Carex hispida Willd., Agrostis vulgaris Wither., Festuca arundinacea Schreb., Panicum repens L., Agropyrum scirpium Presl., A. acutum R. et Sch., Phalaris nodosa L., e le seguenti specie di forme più modeste, Poly- pogon monspeliense Desf., P. maritimum W., Panicum Crux-Galli L., Carex extensa Good., C. divisa Huds., C. praecor Jacq., Cyperus badius Desf., che in vario modo associate costituiscono pascoli freschi ed ambiti. Crypsis schoenoides Lam. e C. aculeata Ait. — Sono due specie degne di nota particolare. Sono due graminacee di piccole dimensioni, cespitose e pro- strate, le quali vegetano, durante la stagione estiva e parte dell'autunno, sul fondo prosciugato dei fossati e delle gore, nonchè sulla superficie dei pantani, dove, coi loro culmi abbondantemente ramificati alla base e spesso agli internodi (i quali in mancanza di rami sono però sempre spigati), formano fitte rosette di varia esten- sione a seconda della natura del terreno. 17 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 811 Di esse, la prima è specie rara e sporadica, ed ha culmi glauchi e relativamente lunghi (dai 20 ecm. ai 40), con internodi da em. 2 a 7. La seconda, 0. aculeata Ait., è molto più piccola, ma in compenso è più diffusa e forma da sola fitti tappeti, cui le due spate involgenti la spiga, dal colore giallo- oeraceo, e rigide ed acute, danno l'aspetto di residui intristiti che la voracità del bestiame non abbia potuto strappare del tutto al suolo. Ma in realtà le piante sono integre, o quasi, e devono la loro salvezza, oltre che alla loro posizione prostrata, alla presenza delle due spate rigide, involgenti e sopravanzanti la spiga. Juncus sp. e Tamarix sp. — Hanno vegetazione estesissima, oltre che nel Bacino settentrionale, anche a Nord di quello occidentale, dove specialmente si hanno Giuncheti e Tamariceti impenetrabili, e dove l’esplorazione è difficilissima e piena di pericoli. Nell'inverno, le acque di pioggia che vi ristagnano a lungo, ne trasformano il suolo in pantani profondi ed estesi, e spesso insidiosi, poichè molti tratti restano mascherati dai rami dei Tamarici e da giunchi piegati. Anche nella stagione estiva, quando tutto prosciuga, non sì può procedere che per brevi tratti saltando sui cespugli dei giunchi, i quali, pertanto, sorgono su vaste zolle circolari, scalzate alla base dall’azione dell’acqua nel periodo dell’inondazione, e rese consi- stenti dall’intreccio delle radici delle piante. Un giuncheto puro ed esteso, si osserva sotto Capoterra, dove tra i culmi potei osservare solo rari esemplari di Senecio leucanthemifolius Poir., e in qualche tratto scoperto, anche Salicornia herbacea L. e Suaeda maritima Dum. Glyceria maritima Metk. — Fu raccolta la prima volta dal Bellî sul mar- gine dello Stagno dalla parte della Scaffa, ove era stata rigettata dalle acque. Fu indi trovata sugli argini e sulle dune che sorgono nell’ interno del Bacino. Meno frequenti sono le due specie affini già citate dal Gennari (1), e cioè G. distans Wahl. e G. convoluta Fr. Rumex pulcher L., R. crispus L., Chenopodium urbicum L., Ly- copus curopaeus L., Teucrium Scordium L., Eryngium Barrelieri Boiss. — Sono specie caratteristiche dei fossati umidi, e alcune, come le prime due, possono avanzarsi fino ai pantani. Cressa cretica L., Heliotropium supinum L., Mentha Pulegium L., M. insularis Req. e Molltugo hirta Thunb., sono proprie del piano umido, e difficilmente se ne allontanano. Analogamente dicasi di Linaria spuria Mill. e Verbena supina L., per quanto meno rigorosamente delle prime. Le igrofite preferenti sono specie delle stazioni più diverse, dei dintorni e del- l'interno, d'onde le acque, i venti, ecc. le tolsero trasportandole in questo bacino, e dove pertanto esse ripetono in maniera più o meno completa le associazioni originarie. (1) Gexsari P., Repertorium Florae Calaritanae et Horto sicco Accademico. Cagliari, ex Tipog. quondam A. Timon., 1890. 312 ANGELO CASU 18 Gli elementi più preminenti sono: Daucus Carota L., D. gummifer Lam., Dip- sacus feror Lois., D. sylvestris Mill., Atractilis cancellata L., Inula viscosa Ait., La- vatera arborea L., i quali accompagnano dappertutto le igrofite esclusive, di cui as- sumono l’habitus completandone il paesaggio floristico. Le piante di questo gruppo sono generalmente disseminate, ma esse fanno anche parte di piccole macchie che vengono qui ricostituite da elementi caratteristici, quali Smilax aspera L., Rubus discolor Weih., Prunus spinosa L., Crataegus oxyacantha L., Lonicera implera Ait., unitamente a: Melica Magnolii Gren. et Godr., Piptatherum multiflorum P. B., Asparagus albus L., A. acutifolius L., A. AphyUlus L., Convolvolus arvensis L., Lycium europaeum L., Co- nium maculatum L., Smyrnium Olusatrum L., Epilobium tetragonum L., Foeniculum piperitum Gilib., Magydaris tomentosa D. C., Rubia tinctorum L., Artemisia arbore- scens L., Asteriscus spinosus Gren. et Godr., ed altre avventizie. Qualche volta fanno parte di questi gruppi anche l’ Atripler Halimus L., ed, in qualche più raro caso, la Suaeda fruticosa Forsk., ciò che costituisce una vera ecce- zione alla biologia delle Alofite. Così pure, fra queste igrofite preferenti, riesce oltre- modo interessante il contegno del Trifolium repens L. (dai fusti prostrati), il quale unitamente al Plantago Coronopus L. (Alofita dalle foglie a rosetta basale) copre vaste estensioni di questa zona esterna, fra Elmas e Assemini. Dalla parte di Capoterra, poi, e sempre a Nord del Bacino occidentale dello Stagno, si avanzano qualche volta fra le igrofite, alcuni elementi della macchia mediter- ranea, quali Anagyris foetida L., Phillyrea variabilis Timb., Pistacia Lentiscus L., e Cistus monspeliense L., i quali unitamente ad altre essenze che caratterizzano detta macchia, sono da quella parte molto diffusi, coprendo il piano’ che va lentamente elevandosi fino ai piedi dei monti vicini. Cynodon Dactylon Pers., Lolium rigidum Gaud., Brassica cam- pestris L., Ecballion Elacterium Rich., Centaurea sphaerocephala L., C. Schouwsii D. C., C. Calcitrapa L., sono tali igrofite preferenti, che, non solo si localizzano ai prati umidi, ma si avanzano anche in contatto dell’acqua dello Stagno e dei fossati, assumendo dappertutto sviluppo insolito. Considerazioni. La vegetazione di questa zona esterna dello Stagno, considerata nel complesso di tutte le forme che la costituiscono, è molto variata per numero di specie, e per le molte stazioni e sottostazioni botaniche di cui esse sono le rappresentanti. Il grande gruppo delle igrofite saline (Alofite comuni), occupa da solo il littorale della Plaja, e si estende poi a tutte le altre parti della riva dello Stagno, fino alle più settentrionali, làù dove l'influenza dei fiumi e dei torrenti ha fissato le igroffte comuni; solo che ivi esso viene diradato e spesso mascherato. In tutti i casi, sulla Plaja ed a Nord dello Stagno, la loro vegetazione è sempre disseminata o sporadica, e ciò costituisce una caratteristica ecologica importante per queste piante, ed è tanto più manifesta, quanto più nelle piante stesse è accen- tuato il carattere alofitico (fusti e foglie carnose e succolente). Per questa ragione le 19 LO STAGNO DI S.T4 GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 313 Salicornie, le Suede e le Salsole sono le Alofite che presentano, nella loro vegeta- zione, la detta caratteristica nella maniera più tipica e costante, tanto, che piante di una stessa specie, difficilmente si riuniscono a costituire gruppi tra loro, e meno ancora con altre non alofite. Si nota tuttavia, che alcune (Plantago Coronopus L., P. crassifolia Moris, Spergularia rubra Pers., ecc.), le quali hanno un habitus alofitico medio o inferiore, si mischiano e associano, tra loro e con altre igrofite comuni (Pa- nicum repens L., Cyperus badius Desf., Carex sp., Trifolium repens L., ecc.), della stessa entità, e costituiscono con esse il tappeto di vegetazione che ricopre i vasti piani littoranei che si distendono all’altezza di Elmas e di Assemini. Una sola Alofita, l'Inula crithmoides L., fa eccezione alla regola, poichè, posse- dendo anche l'adattamento delle igrofite comuni (fusti ipogei tuberizzati e radicanti), è dappertutto una forte concorrente di queste ultime e delle forme biologiche affini. Intanto si può concludere : 1° La vegetazione della zona esterna dello Stagno è costituita da specie preva- lentemente erbacee, le quali derivano dalle diverse stazioni botaniche circostanti, ma par- ticolarmente da quella marina e da quella di fiume; 2° Le igrofite saline, derivate dal littorale marino, sono presenti in tutte le parti della zona esterna, mentre le igrofite comuni sono localizzate ai tratti influenzati dal- l’acqua di fiume; solo che în questo caso, e per essere queste meglio adatte nella lotta per la conquista dello spazio, le prime si riducono ad occupare è punti littoranei rimasti eventualmente scoperti dalle seconde. 2. Zona palustre. Questa zona di vegetazione è la più interessante fra tutte per il modo come si distribuisce nelle diverse parti dello Stagno, e per la differenza degli elementi che volta a volta la costituiscono. Essa è localizzata alla parte periferica dello specchio acqueo, su di un substrato melmoso o pantanoso, a seconda che resta sommerso, oppure no, per tutto l’anno. È irregolarissima, e presenta dei profondi e vasti addentramenti nella zona esterna circostante; tuttavia, è, pur essa, dappertutto nettamente distinta, oltre che dal caratteristico substrato, anche dalla presenza delle tipiche piante palustri. Nel Bacino settentrionale essa forma una cornice continua, interrotta solo in qualche punto di approdo, od in qualche altro, in cui lo Stagno possiede un argine naturale alquanto elevato (S.# Maria-P.!@ Corru.....). Questa cornice continua poi, ma in maniera molto saltuaria, sul lato Nord del Bacino occidentale (Capoterra-Su Loî); manca completamente lungo tutta la riva della P/aja, e su quella del Bacino orientale confinante col Borgo della città di Ca- gliari. Da questa parte si nota però un gruppo di cannuccie presso la piccola sor- gente di S. Paolo, ed altri gruppi alquanto complessi verso la punta di Cotteruxi (V. Tav.). Ricompare sempre, attorno alle dune che sorgono nel mezzo dello Stagno, e sul lato settentrionale dell’Isolotto di S. Simone. : La vegetazione è costituita da un complesso di specie rizomatose o stolonifere, 1 Serie II. Tox. LXII. (o) SI4 ANGELO CASU 20 le quali, come nei comuni bacini lacustri (1), sì dispongono con un dato ordine di successione, il quale è rigorosamente costante. Così, procedendo dall’esterno verso l'interno, si ha sempre il Phragmitetum, Typhatum e Scirpetum. Spesso gli elementi di un gruppo si associano a quelli di un altro, ed anche in questo caso conservano l’ordine precedente. Ma in generale si ha che i gruppi più interni sorgono dall’acqua come cespugli puri costituiti da una sola specie, distanti tra loro, e tanto più radi e piccoli quanto più sono lontani dalla riva. La massima larghezza della cintura palustre così costituita, è di circa un Km. In tutti questi differenti gruppi, non figurano mai delle Alofite palustri vere e proprie; tuttavia si osserva che nell'estate, molte Alofite della zona esterna, inva- dono i pantani scoperti e periferici. Tali sono: Hordeum maritimum With., Salicornia herbacea L., Suaeda maritima Dum., S. setigera Moq., Atriplex patula L., A. hastatum L., A. crassifolia Koch., Salsola Soda L., Statice Limonium L., S. virgata W., Plantago major L., le quali sono tutte specie annue. Difficilmente si osservano esemplari di Salicornia fruticosa L. e di Suaeda fruticosa Forsk.; e così pure è difficile osser- vare una qualunque forma alofitica in contatto continuo coll’acqua libera; ciò potrà avvenire nei momenti di alta marea, ma in generale si ha, che, esse vegetano sempre su di un substrato emerso. Ma l’alofita, che anche in questo caso costituisce l’eccezione, è l’Inula crithmoides L., già ricordata, la quale assume qui tanta importanza da rivaleggiare in rigoglio ed esten- sione colle comuni piante palustri. In tutti i casi, neanche questa specie si localizza in tratti del fondo che restino per lungo tempo sommersi, epperò anch'essa dev'es- sere considerata qui, come una forma avventizia, derivata dalla zona esterna. Scirpus lacustris L., S. Holoschoenus L. — Sono le due specie che più sì avanzano nell’interno dello Stagno, allontanandosi più centinaia di metri dal lido. La prima costituisce spesso da sola iî cespugli più interni, ma in tutti i casi la pro- fondità dell’acqua non sorpassa che raramente il mezzo metro. Scirpus maritimus L. — È la specie palustre più diffusa e si presenta ora associata alle due precedenti ora da sola a costituire Scirpetà estesissimi sul lido acquitrinoso dello Stagno, o attorno alle dune interne. È conosciuto qui col nome volgare di fenu (fieno), e sul finire dell’estate viene mietuto in grandi quantità e composto in piccoli manipoli che vengono impiegati per la copertura e per il rive- stimento delle baracche di campagna. Cyperus longus L. (0. Preslii Parl.). — È pur esso molto esteso ed è cono- sciuto col nome di sessini. Gli scapi e le foglie, disseccati, sono usati per legami. Tiypha latifolia L., T. angustifolia L. — Sono anch'esse delle specie che si avanzano nell’ interno dello Stagno, e la seconda più che la prima. Tuttavia è (1) Forri e Trorrer, Materiali per una Monografia Limnologica dei Laghi craterici del M. Vulture, Suppl., vol. VII, © Annali di Botan. ,, Roma, 1908. — Ta. Herzo, Ueber die Vegetationsverhdltnisse Sardiniens. Leipzig, “ Engler's Botanischen Jahrbichern ,, 1909. 21 LO STAGNO DI S.F* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 815 comune il caso di vederle vegetare in tratti che nell’estate restano superficialmente asciutti. Anche queste specie hanno una grande utilità locale, poichè, ancor prima della comparsa degli scapi fiorali, vengono mietute dalla base, e indi disseccate sono impiegate per tessere stuoie ed altri rivestimenti coibenti. Arundo Donax L., Phragmites communis Trin. — Sono le specie che sì avanzano meno nell’interno dello Stagno, e generalmente vegetano in tratti che restano scoperti dall'acqua almeno per buona parte della Stagione estiva. Tuttavia, la seconda di esse è la pianta palustre più diffusa e costituisce da ‘sola, o asso- ciata alle altre già viste, la cintura esterna della Zona palustre e quella delle dune e delle isolette dell'interno, dando luogo a fragmiteti, puri o misti, impenetrabili ed estesi più ettari. Spesso i culmi si adagiano sulla superficie dell’acqua, dolce o sa- lata, e vi raggiungono lunghezze insolite (anche di 10 m.), con internodi pure lun- ghissimi e foglie piccole, tanto che nell'insieme, e per il portamento genicolato, assume l’aspetto della Bamdusa. Considerazioni. L'estensione che assume la zona palustre, in questo Stagno, è considerevole se viene considerata nel suo complesso (3 Kmq. circa), ma è relativamente piccola in confronto alla superficie dell’intero specchio acqueo (40-50 Kmq.). Essa, poi, manca completamente, o quasi, sul lido della Plaja e su quello confinante col sobborgo di Cagliari, per una lunghezza cioè di oltre 20 Km., e ciò nonostante il paludismo accentuato dello Stagno, da quelle parti. Ciò devesi, come notai altrove, all’azione repulsiva dell’acqua marina, la quale, però, non è la stessa per tutte le specie, ma essa è massima, p. es., per Zypha latifolia L. e Oyperus longus L., mentre è minima per la Phragmites communis Trin. E se anche quest’ultima manca in molte parti dello Stagno, gli è che la sua resistenza è messa a tutta prova dalle concentrazioni saline ipertoniche che vi rag- giunge nell’estate l’acqua marina. In tutti questi casi non si ha un solo esempio di pianta palustre che vegeti continuamente in ambiente di acqua fortemente salata, ma si verifica sempre che per un più lungo periodo dell’anno essa resta in contatto di acqua di fiume o debol- mente salmastra. Riassumendo si può concludere : 1° La vegetazione palustre è poco estesa in questo Stagno in confronto alla estesa superficie di quest'ultimo ed al suo paludismo accentuato; e pertanto detta vegetazione è localizzata specialmente ai tratti più settentrionali della riva, che è direttamente in- fluenzata dai fiumi e dai torrenti, e ciò a causa dell’azione repulsiva che esercita l’acqua marina nelle parti più meridionali e specialmente su quelle confinanti colla Plaja e colla Città; 2° Le specie palustri rivelano un differente grado di resistenza fisiologica all'azione dell’acqua salata, e, fra tutte, la Phragmites communis Trin. è quella che meglio sop- porta il contatto prolungato delle forti concentrazioni. Però, mentre la loro presenza nelle diverse parti dello Stagno è una funzione di questa differente resistenza, V’ordine di successione rigorosa che le stesse conservano sul fondo dello Stagno a partire dal margine è una funzione dei caratteri specifici di adattamento palustre. DO (iS) 316 ANGELO CASU 3. Zona stagnale. Le specie vegetali che appartengono a questa Zona non sono molto numerose, ma in compenso alcune di esse hanno una vegetazione molto vasta. Si notano: Potamogeton natans L., P. pectinatus L., P. crispus L., Zannichellia palustris L., 4. dentata W., Lemna gibba L., L. minor L., Butomus umbellatus L., MyriophyUlum spicatum L., Callitriche stagnalis Scop., Ruppia maritima L. Queste poche specie sono tutte localizzate al Bacino settentrionale dello Stagno, cioè a quella parte in cui si scaricano direttamente i fiumi, donde pertanto le dette specie derivano. L’area che ciascuna di queste occupa non è la stessa per tutte, e mentre al- cune sono estese a tutto questo Bacino, altre invece si allontanano di poco dalle foci dei corsi di acqua. Potamogeton pectinatus L. — È la specie stagnale che più si avanza verso il mare, allontanandosi oltre 5 Km. dalla foce dei fiumi. La sua vegetazione si ferma all'altezza della punta di Cotteruxi (v. la Tav.), a qualche Km. a Nord dell’Isolotto di S. Simone ed a breve distanza dai gruppi di piante palustri più me- ridionali dello Stagno. La specie in esame è perciò, la prima che si presenta a chi, passando dalla vasta insenatura di Fangario, penetra nel Bacino settentrionale, ove sono poi diffuse a tutte le parti del fondo e donde risalgono indi i fiumi. Il fenomeno biologico cui essa dà luogo in dipendenza delle particolari condizioni di ambiente in cui vegeta, consiste in ciò, che la fioritura delle piante si inizia nel Giugno nel limite più me- ridionale della zona, e poi si propaga, durante i mesi di Luglio e di Agosto, a tutte le altre piante che stanno successivamente a Nord. In questo modo si ha che, mentre le ultime fioriscono alla foce dei fiumi, le prime sono già fruttificate, e spesso scom- parse dalla superficie dell’acqua. Potamogeton natans L., MyriophyWlum spicatum L. — Sono specie che si allontanano solo poche centinaia di metri dalla foce dei fiumi. Anche qui, l’inizio della fioritura avviene nell’Agosto, a partire dalle piante più avanzate nello Stagno, e si continua poi in quelle poste alla foce dei fiumi, costituendo nel Set- tembre, e dappertutto, delle zone violacee più o meno estese alla superficie dell’acqua, con l'apice delle loro spighe galleggianti. Si nota poi, che le piante più meridionali vengono plasmolizzate ed uccise dalle forti soluzioni saline che arrivano in loro contatto, nell'estate. Butomus umbellatus L. — Si osserva per la prima volta alla foce del fiume Manno (Grande collettore), che poi risale e dove si estende. Non ha rappresentanti nel vero specchio acqueo dello Stagno. (9) (00) LO STAGNO DI S.TÀ GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 317 Zannmichellia palustris L., Z. dentata W. — Non si trovano mai nello specchio libero dello Stagno, nè in quello dei fiumi. Le ho sempre osservate nelle cave di prestito del Grande canale collettore e nelle conche o depressioni littoranee, come a S. Paolo e sotto Capoterra, dove l’acqua è tranquilla e poco profonda. Lemna minor L. — Questa specie si può trovare dappertutto ove vegetano piante palustri e l’acqua sia tranquilla. Lemna gibba L., Callitriche stagnalis Scop. — Non si osservano mai nello specchio dello Stagno, ma si fermano fra i folti cespugli di piante palustri che sorgono allo sbocco dei torrenti. Penso che anche queste sieno specie di debole resistenza all’azione dell’acqua salina, poichè nel periodo estivo la superficie del- l’acqua si copre spesso di piantine ingiallite e morte. Ruppia maritima L. — È una forma cosmopolita in questo Stagno, ed è la sola che vegeti indifferentemente in tutte le sue parti, tanto in ambiente di acqua salata, quanto in ambiente di acqua dolce. Solo, devesi notare, che le piante sono più abbondanti in quei tratti del fondo che restano scoperti da ogni altra vegetazione. Considerazioni. La zona stagnale è limitata al Bacino settentr. dello Stagno, e comprende, anch'essa, specie essenzialmente erbacee, le quali provengono dall'interno dei fiumi, e che qui si adattano a vegetare in condizioni molto differenti da quelle dell’am- biente di origine. Sotto questo riguardo, il Potamogeton pectinatus L. è la specie che pre- senta il maggior interesse per la vasta estensione che vi assume (circa 15 Kmq.), e sia perchè, mentre si rivela così la più resistente all’azione delle forti concentra- zioni saline (che nell'estate sono isotoniche a quella dell’acqua marina), ne palesa anche, nel modo più evidente, gli effetti. Tutte le altre specie stagnali vi hanno una estensione minore, tanto che molte di esse non escono dalla foce dei fiumi, dove la salinità massima si mantiene, anche nell'estate. sotto 1° B. Intanto, il fatto più interessante cui dà luogo l'ecologia di queste piante, in un ambiente salino così variabile, consiste in ciò, che la loro fioritura nello specchio stagnale è relativamente precoce e, per tutte le specie, si inizia in tempi diversi a partire da quelle più meridionali, mentre avviene qualche tempo dopo. e simulta- neamente, nell'ambiente normale dei fiumi. Il fatto coincide col graduale elevarsi della concentrazione salina dell’acqua dello Stagno, durante la primavera e tutto l’estate, epperò non si può mettere in dubbio l’infuenza del sale. Basterà ricordare che la salinità dell’acqua, nel Bacino settentrionale, assume tutte le gradazioni comprese fra 0° B e 3°,8 B. dall'inverno all'autunno, e che di- luisce poi e ridiscende a 0°, col sopravenire delle pioggie. 918 ANGELO CASU 24 Posto ciò, le piante, durante il loro ciclo vegetativo ed in qualunque punto si trovino di questa parte di Stagno, sopportano tutte le concentrazioni saline che, gradatamente sempre più elevate, vi si determinano attraverso la primavera e l’estate, ed il massimo di questa concentrazione è evidentemente tanto più alto quanto più il punto che si considera è lontano dalla foce dei fiumi. Concludendo, i fatti più importanti possono essere così riassunti: 1° La vegetazione stagnale è limitata al Bacino settentrionale, ed è costituita da specie tratte dai fiumi, le quali assumono nel nuovo ambiente una diversa estensione in dipendenza della differente resistenza specifica che ciascuna presenta all’azione delle con- centrazioni saline; 2° Un effetto generale ed evidente dell’azione di queste concentrazioni saline sulle piante tutte, consiste nell’antecipazione della fioritura in quelle che sono più meridionali e che vi sono prima esposte. 4. Zona sommersa. Questa zona comprende piante essenzialmente acquatiche, le quali, cioè, com- piono interamente sotto acqua il loro ciclo vegetativo. Vi appartengono molte specie crittogame e poche fanerogame, le quali tutte costituiscono un complesso che si estende a tutto. il fondo dello Stagno, ove si distribuiscono sempre a seconda del- l'influenza dell’acqua del mare o di quella dei fiumi. Il presente esame è, come già scrissi, limitato alle macrofite, poichè la ricerca del fitoplankton si presenta qui di una difficoltà estrema, giacchè, come feci notare altrove (1), la navigazione coi sandali, piccoli e leggeri, è mal sicura nell'inverno essendo la superficie dello Stagno fortemente battuta dai venti, ed è altrettanto dif- ficile e pericolosa nell’estate, per la secca generale di tutto il bacino. I vasti settori compresi fra i canali, o le direzioni dei canali, sono in questo caso ingombri di masse di alghe le quali sono impenetrabili; e in tutti i modi ne pone in sospetto che qualche specie macrofita propria dell’ estate, oppure dell’ inverno, sia sfuggita alle presenti ricerche; se ciò fosse, non tarderà ad essere rintracciata, unitamente alle microfite, nelle esplorazioni che in questo senso mi propongo di continuare. Ulva sp. — Alcuni esemplari furono staccati dalle facce interne delle sco- gliere che arginano e prolungano a mare il canale della Scaffa. Le correnti marine ne trasportano spesso i talli nell’interno dello Stagno, però non ho mai potuto ve- derli fissati ad alcun substrato del fondo. Enteromorpha lanceolata Rabenh. — È molto comune in quelle parti dello Stagno che confinano colla Plaja e che contengono prevalentemente acqua marina, e vegeta attaccata alle pietre del fondo ed alle conchiglie. La specie vi è rappresentata da tre varietà: c) crispata L. Jol., d) angusta Ktz., e) laetevirens Piccone, le quali sono tutte abbondanti. (1) MA CAs ollare: 25 LO STAGNO DI S.'% GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 319 ; E. compressa Grev. — E rappresentata dalla varietà g) crispa Rabenh., la quale si comporta come le precedenti. E. salina Ktz. — È comunissima in tutte le parti dello Stagno, e vegeta fis- sandosi ai substrati subacquei i più differenti. E. intestinalis Link. — E la forma che più abbonda nello Stagno, con un buon numero di varietà, le quali presentano un contegno differente a seconda della salinità dell’acqua. e) marima Rabenh. e d) Corrucopiae Rabenh., sono abbondanti sulle scogliere del canale della Scaffa, su quelle più interne dello Stagno e sui massi della riva e -del fondo, però sempre limitatamente a quelle parti che contengono acqua marina. La vegetazione è per questo fatto molto estesa nell’estate e molto ridotta nel- l'inverno, b) dullosa Rabenh. e c) tudulosa Rabenh., sono le forme più interessanti e più diffuse; vegetano indifferentemente nell'acqua marina e nella salmastra, ma si mostrano ambe preferenti di quest’ultima. La c) tudulosa Rabenh., dal tallo delicato lungo, e ramificatissimo, si osserva già in esemplari sporadici e molto ridotti, nel primo tratto marino dello Stagno, asso- ciata a specie affini, od isolata. Ma più oltre la Peschiera di Sf Gilla, nella grande insenatura di Fangario, dove la concentrazione salina dell’acqua è nella buona parte dell’anno più bassa di quella del mare, questa forma costituisce una vera prateria. i Il suo tallo cespuglioso vi simula piccole balle di cotone attaccate al fondo e mollemente cullate dall'acqua. E del cotone possiedono non solo la forma, ma anche il colore grigio-chiaro, più o meno modificato. Ciò devesi al fatto che i cloroplasti vengono parzialmente disorganizzati dalla forte concentrazione salina che vi assume l'acqua nella stagione estiva, la quale può raggiungere anche i 10° B. L'azione plasmo- lizzante di questa soluzione, è qui molto evidente, e gli effetti sono tanto più sensibili quanto più si osservano esemplari di alghe che vegetano nelle parti più interne della insenatura. Effetti analoghi rivelano del resto tutte le altre forme, ma la varietà in di- scorso è quella che offre il fenomeno in modo più esteso, anche perchè essa si è rivelata fra tutte la meno resistente all’azione dell’acqua marina. Ma oltre l’insenatura di Fargario, extra corrente, e dove la salinità è di molto inferiore a quella dell’acqua marina, le due varietà b) dullosa Rabenh. e c) tudu- losa Rabenh. presentano sviluppo e colorazione normale, e spesso assumono forme vegetative rigogliose. Per questo riguardo è particolarmente notevole la seconda per un fatto cui essa dà conseguentemente luogo e di cui ho già fatto cenno. Il tallo presenta qui l’asse centrale molto allungato, spesso oltre un metro, e con numerose ramificazioni lunghe, filiformi e delicate, le quali tutte, a guisa di coda di cavallo, si piegano sempre nella direzione dell'onda. Questi talli così foggiati sono liberi nei loro movimenti finchè sono piccoli, ma dopo avere raggiunto certe dimensioni succede che molti di essi, piegati nella stessa direzione, si sovra- 320 ANGELO CASU 26 pongano, ed allora avviene che l'estremità libera dell'uno si leghi all’estremità fissa dell'altro, e così per più volte e in modo da costituire un tutto continuo che può raggiungere la lunghezza di 10 m. Avviene pure che in tutti questi movimenti, le ramificazioni si avvolgano attorno all’asse principale legandovi strettamente dei fru- stoli galleggianti, foglie di ruppie, fusti di potamogeton, ecc.; non solo, ma i nuovi talli che si sviluppano su questi primi cordoni, vi si avvolgono, ingrossandoli, e legandoli tra loro in modo da risultarne dei veri cavi. Dissi già che questi cordoni sono direttamente o indirettamente fissati al fondo, e che in tutti i casi, colle loro ramificazioni che si aggrovigliano con quelle dei cordoni vicini, costituiscono dei reticolati fittissimi in cui s'impiglia e viene tratte- nuto qualunque corpo vi arriva in contatto, e particolarmente i talli della varietà affine b) dullosa Rabenh. Si iniziano così, nell'estate, delle masse algose caratteri- stiche, le quali aumentano sempre più in estensione e finiscono coll’occupare i settori stagnali che restano compresi fra le direzioni delle correnti. Esse comunicano all’am- biente un senso di triste squallore, poichè i talli che vengono alla superficie in con- tatto dell’aria muoiono e marciscono annerendo e dando luogo a sviluppo di gas fetidi che ammorbano l’aria. Intanto queste masse vengono conosciute in sito col nome di lupponi, e finchè durano, sono impenetrabili ai sandali; ma in compenso esse diven- tano presto preziosi vivai di crestacei (granchi, gamberi di mare, ecc.). di cui i pesca- tori di anguille fanno tesoro, come esca. Col sopravenire delle pioggie autunnali, o più tardi nell'inverno, queste zone putrescenti vengono ricoperte dall’acqua e cadono al fondo dove si dissolvono, op- pure, meno frequentemente, sono strappate e rigettate dalle correnti sul lido. Il fenomeno è generale ai due Bucini orientale ed occidentale, mentre è poco frequente in quello settentrionale, forse a causa della profondità della sua conca centrale, ed anche perchè il fondo circostante, e meno elevato, è ricoperto da altra vegetazione che si rivela più adatta. Chaetomorpha aerea Ktz. — Vegeta nei due bacini orientale ed occiden- tale in contatto con l’acqua marina. Il suo tallo filamentoso e rigido, pallido o de- colorato alla parte superiore, dà luogo alla formazione di masse caratteristiche che poggiano sul fondo e che per essere le parti verdi basali mascherate dalle parti soprastanti pallide, simulano masse di grosso spago, il cui colore, pertanto, si con- fonde spesso con quello grigio-chiaro del limo del fondo. Queste masse vengono staccate facilmente dalle loro matrici col moto radente dei sandali, e sovraponendosi le une alle altre e aggomitolandosi più strettamente, formano grosse balle su cui i sandali stessi rimangono spesso in bilico. Ciò avviene sovente nella stagione estiva, ed allora il disincagliarsi a furia di remi è spesso impossibile, ed è necessario buttarsi in acqua e spingere l'imbarcazione a braccia; ma anche ciò non è sempre consigliabile, poichè in molti punti si rischia di affon- dare nel limo. Ch. Linum Ktz. e Ch. rigida Ktz. — Presentano contegno analogo alla precedente. Do I LO STAGNO DI S.A GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 321 Cn. crassa Ktz. — È comunissima, ed è caratteristica perchè i suoi talli fila- mentosi staccati dalla matrice e agitati dall’onda si aggrovigliano tra loro impi- gliando ogni altro frustolo e costituendo pallottole caratteristiche che vengono rigettate sulla riva e che ricordano quelle della Posidonia Caulini Kénig. della op- posta riva marina. Cladophora ramulosa Meneg., C. vadorum Ktz., C. fracta Ktz. — Sono frequenti nelle parti settentrionali dello Stagno, in ambiente di acqua dolce. Caulerpa protlifera Ag., e Acetabularia mediterranea Lamour. — Sono specie molto diffuse nei due Bacini orientale ed occidentale in ambiente di acqua marina. Cystoseira sp., Bangia sp., Ceramium sp., Polysiphonia sp. — Si comportano come le due precedenti. Chara vulgaris L., Ch. aspera W., Ch. sp. — Sono le Caracee più diffuse nello Stagno, ma tuttavia la loro vegetazione può dirsi limitata al Bacino settentrio- nale, in ambiente di acqua dolce e di acqua salmastra. Solo nella stagione estiva le piante meridionali vengono a trovarsi in contatto dell’acqua marina, analogamente al Potamogeton pectinatus L. Chara tomentosa. — Trovasi sparsa in tutte le parti del’ Bacino settentrio- nale; la sua forma ricorda quella della Ch. Rispida L., di cui può considerarsi come una varietà a) gracilis. Lamprothamnus papulosus Bég. et Formigg., var. Pouzolsii Bég. et Formigg. — E una Caracea localizzata al solo Bacino occidentale, e quindi in am- biente prevalentemente salato (v. Tav.). Najas major L. — È molto diffusa nel Bacino settentrionale, ma la sua ve- getazione si allontana solo di pochi Km. dalla foce dei fiumi, epperò si rivela meno adatto del Potamogeton pectinatus L. all’azione dell’acqua salata. Considerazioni. La zona sommersa di vegetazione è costituita da elementi floristici provenienti dal mare e dai fiumi, e gli uni e gli altri sono localizzati a quelle porzioni di Stagno in cui nel corso dell’anno prevale l’ influenza dell’acqua marina o di quella fluviale, mentre nella vasta zona di mescolanza di queste ultime vegetano piante salmastre. In generale si ha che le Alghe puramente marine, quali sono le Ulve, non inva- dono mai lo Stagno, e così pure avviene per la Posidonia Caulini K6nig. Anche le altre, quali le Enteromorphae, Confervaceae, Vaucheriaceae, Fucaceae, ecc., vi si osser- vano nella stagione estiva e sempre limitatamente ai due Bacini orientale ed occi- dentale, in ambiente di pura acqua di mare. Serg II. Tow. LXI. pi ito) ro bo ANGELO CASU 28 Le specie migrate dai fiumi, quali sono: Potamogeton sp., Najas sp., MyriophyMlum sp., ece., si rivelano meglio adatte a questo ambiente, e continuano a vegetare anche nella stagione estiva quando arriva in loro contatto l’acqua marina. Nel Bacino occidentale è notevole il fatto della Characea, il Lamprothamnus papulosus Bég. et Formigg., che vegeta in ambiente altamente salato (estate), accantonato in una piccola insenatura (Porto Santadi, efr. Tav.), in fondo alla quale sbocca un rigagnolo che scorre solo nella stagione delle pioggie. II. Considerazioni generali. Le due stazioni dominanti. — Le due grandi stazioni, la salata e quella di acqua dolce, le quali sono qui nettamente caratterizzate, la prima, dall’azione prevalentemente dominante dell’acqua marina, e la seconda, da quella di fiume, costituiscono l’intero bacino dello Stagno, e tutte le altre influenze (quella della sabbia, silice, calcare, ecc.), che le diverse parti possono, in grado differente, ri- sentire, e che altrove potrebbero essere anche decisive, sono qui subordinate e trascurabili. Però, e per quanto queste due stazioni siano preminenti e sempre ben distinte nei loro caratteri chimici e geofisici, esse non sono distintamente separate a segno che ciascuna occupi solo una data parte o date parti del detto bacino, ma si ha che la prima lo comprende tutto, e che la seconda vi si sovrapone in corrispon- denza dei fiumi, dei torrenti e dell’acqua sorgiva. La stazione salata, cioè, non è mai completamente assente neanche là dove la seconda si è costituita, ma essa vi è solo superficialmente mascherata, tanto che le Alofite, le quali ne sono dovunque le costanti e fedeli rivelatrici, vi sono sempre presenti in maniera apprezzabile. Tutto ciò dimostra che l’intero bacino dello Stagno, tanto nel costituirsi, che dopo, ha conservato i suoi caratteri originari salino-littoranei, i quali si mantengono integri, almeno in profondità, anche in quei tratti che appaiono di essere stati mo- dificati dalle nuove condizioni di ambiente che vi si determinarono. Ciò spiegasi osservando che, allorquando per la formazione della Plaja fu ta- gliata in dentro la parte più profonda del Golfo di Cagliari, e fu così trattenuto il mare a Sud, e le acque torbide a Nord, il substrato melmoso che derivò dalla de- cantazione di queste ultime si sovrapose, ma non si sostituì a quello littoraneo preesistente, nelle differenti parti della riva, epperò questa conserva in profondità la sua struttura primitiva. Nè questa potè modificarsi in seguito, poichè l'infiltrazione del mare che ne era la causa determinante nel tempo in cui questo si avanzava fino alla foce dei fiumi, non fu interrotta poi colla formazione della Plaja, ma solo atte- nuata nella stagione invernale o delle piene, riattivandosi però in tutta la sua inten- sità ed estensione nel periodo estivo, quando, cioè, evaporata una gran parte del- l’acqua dolce, quella marina accorre a rioccupare tutto il bacino dello Stagno. 29 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 323 Le zone ecologiche. — È intanto, il nuovo substrato così costituitovi dal- l’azione dell’acqua torrentizia, attirò subito le piante di acqua dolce che fino a quel tempo erano state trattenute nei fiumi e nei terrenì circostanti umidi (igrofite, pa- lustri, fluviali, sommerse), e sì distribuirono nel bacino con lo stesso ordine che le stesse presentano nella stazione di origine, e ripeterono, e ripetono, cioè, rigorosa- mente quelle zone di vegetazione che sono il fatto comune e costante della loro topo- grafia in tutti i bacini lacustri e fluviali dell’interno. Alla sovrapposizione delle due stazioni, considerate nei loro caratteri singoli, seguì, quindi, quella delle rispettive formazioni vegetali, ed all'ambiente fisico, misto e incostante, che ne risultò, corrispose presto una flora promiscua i cui elementi però, tratti dall'ambito del mare e da quello dei fiumi, si conservarono puri, dando esempio di adattamenti sorprendenti, e tali da sorpassare ogni aspettativa Basterà ricordare che l’acqua di fiume e quella marina si sostituiscono qui con vicenda continua in differenti periodi dell’anno (1), e che nel tempo delle piene in- vernali tutto il bacino sì trasforma spesso in ambiente di acqua dolce per una du- rata più o meno lunga, che in ogni caso riesce esiziale alle specie marine che vi sì possono trovare; mentre nel momento più critico della stagione estiva, sono le specie di fiume che vengono a trovarsi in ambiente improprio, poichè l’acqua marina si avanza allora fino alle parti più settentrionali dello Stagno ad occuparne il vuoto che gradatamente vi si determina colla intensa evaporazione dell’acqua dolce. Si noti poi che queste alternanze, che, nelle parti estreme dello Stagno, quelle più vi- cine al mare e quelle più lontane, si verificano solo nelle due opposte stagioni del- l’anno, inverno ed estate, avvengono, invece, con molta frequenza nelle parti inter- medie durante l'autunno e la primavera. In conseguenza di tutte queste condizioni di ambiente, che attraverso il tempo si andarono determinando in questo Stagno, sia per il fatto della stessa sua forma- zione, sia per la sua successiva graduale evoluzione geofisica, la vegetazione preesi- stente e quella che vi migrò poi, diedero e danno tuttora luogo a particolari fatti di ecologia vegetale, i quali con criterio cronologico possono essere così rag- gruppati. Faiti generali di ecologia. 1° Riduzione delle specie marine e contemporanea propagazione delle specie di fiume, a causa del ristagno dell’acqua dolce durante il periodo delle pioggie; 2° Adattamento o meno delle une e delle altre alle soluzioni anisotoniche colle quali vengono, o possono venire, în contatto nell'inverno 0 nell'estate; 3° Invasione delle igrofite comuni nella zona esterna del Bacino setten- trionale e conseguente riduzione delle igrofite saline (Alofite terrestri) preesistenti. 4° Costituzione erbacea della flora, in dipendenza della struttura littoranea di tutto il Bacino. Fatti particolari. Mancanza di specie arboree. — Ma fra tutti, il primo fatto di ecologia vegetale che, a causa della sua forma e della sua grande esten- (1) Cfr. A. Casu, l. c., Sfudio biofisico, pagg. 28-32, 34. 4 ANGELO CASU 30 (w0) sione, si presenta all’occhio dell'osservatore, è quello che viene costituito dalla mancanza delle specie arboree. Queste, come già scrissi, vi sono rappresentate solo da pochi gruppi affatto numerosi e diradati e così lontani tra loro, epperò così in- significanti in confronto alla grande vastità di tutto il Bacino, che ciascuno di essi, osservato dal punto in cui gli altri sorgono, appare come una piccola macchia che si dilegua nell’estremo orizzonte. Per questo riguardo lo Stagno di Sf Gilla si rivela ecologicamente giovanissimo, nonostante la sua progredita evoluzione geofisica. Cause. Fattore antropico. — È da escludere in modo assoluto che ciò sia stato determinato dalla mano devastatrice dell’uomo, poichè se ciò fosse avvenuto, anche in un tempo passato remoto, si sarebbero avute pur qui le testimonianze della vegetazione scomparsa; e perchè, dato il carattere aperto di tutta la zona esterna e la sua facile accessibilità alle acque delle piene e quindi anche a tutti i germi, le dette piante vi si sarebbero sempre riprodotte. Ma questa propagazione non vi fu mai in passato; nè vi sarà in avvenire senza l'intervento di particolari sconvolgimenti naturali, o di altri operati dall'uomo e tali che ne rompano e cor- reggano la compagine in profondità, ne elevino il suolo e che, sopratutto, intercet- tino o attenuino grandemente le infiltrazioni marine. Struttura littoranea. — Il fatto è determinato unicamente dalla struttura spiccatamente littoranea di tutto il bacino, epperò la vegetazione non può essere costituita che da specie erbacee con pochi arbusti e frutici. Si osserva che le stesse Alofite suffruticose, quali Salicornia fruticosa L., Obione portulacoides Moq. e Suaeda fruticosa Forsk., intristiscono in tutti i punti della zona esterna, che pure è la loro abituale dimora. Azione del mare. — Si ha un concetto esatto di questa struttura ricor- dando (1) che la causa fisico-chimica che la determina, è data dalla falda acquifera del sottosuolo, la quale proviene dal mare, direttamente o per mezzo dello Stagno. Essa può essere considerata come una soluzione nutritizia, disarmonica per l’eccesso enorme di uno dei suoi elementi, epperò, colle oscillazioni ritmiche che essa compie nella massa del terreno, non può che impoverire questo, dei sali che essa contiene in di- fetto, e arricchirlo, fino alla saturazione, del cloruro di Sodio che contiene in eccesso. Questa doppia azione fra l’acqua salata ed il terreno è indubbiamente mitigata, in corrispondenza dei fiumi e nella stagione invernale, ma non corretta. L’umidità che il terreno stesso ne ritrae, anche nelle parti superficiali, costituisce per la pianta un vantaggio molto modesto in confronto a tutte le altre condizioni sfavorevoli che le radici trovano in profondità. Ciò spiega esaurientemente il perchè le depressioni littoranee che pure sono molto umide, sieno scoperte di ogni vegetazione. Valore nutritivo delle infiltrazioni del sottosuolo. — Il fatto che dette infiltrazioni sotterranee vengano qui raccolte in pozzi littoranei e impiegate con profitto per l'irrigazione dei campi e degli orti (2), non deve già dimostrare la (1) In., id., pagg. 35 e segg. (2) In., id., pag. 41. 31 LO STAGNO DI S.Tà GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 325 loro bontà nutritiva, ma la possibilità che esse possano essere corrette per mezzo del terreno dissodato e concimato, e, forse anche, trasformate in soluzioni nutritive normali in grazia di quelle azioni reciproche cui le stesse danno luogo allorchè ar- rivano in contatto di substrati ricchi di sali utili. La vegetazione erbacea. — Intanto la vegetazione essenzialmente erbacea che domina in tutte le parti dello Stagno, imprime all’ambiente una facies schietta- mente littoranea, la quale si accentua ancora più per la presenza e per la esten- sione delle A/ofite. Distribuzione. — Il modo come la detta vegetazione vi si distribuisce è nel suo complesso regolato dagli adattamenti specifici che i singoli elementi possiedono all’azione dell’acqua salata od a quella dell’acqua di fiume, epperò si ha una /lora eminentemente alofitica nelle parti dello Stagno confinanti col mare, ed un’altra pre- valentemente non alofitica dalla parte opposta settentrionale. Azione dell’acqua marina sulla costituzione delle zone ecologiche. — L'azione che ha in ciò l’acqua marina è molto intensa ed estesa e si manifesta colla mancanza delle comuni zone ecologiche nelle parti meridionali, e con la loro graduale riduzione nel Bacino settentrionale. Gli è per questa influenza del mare, che lungo la rive stagnali della Plaia non si osservano che radi e gracili esemplari di Phragmites communis Trin. e di Juncus sp., su qualche punto prossimo ai Canali. E non vi è dubbio che questo loro difetto e l'esclusione delle altre specie stagnali e palustri, si debba appunto all’azione repul- siva dell’acqua marina, dal momento che le dette specie ricompaiono sempre, e solo, in prossimità dello sbocco dei torrenti, od in vicinanza di acqua sorgiva. Riduzione analoga si nota pure nella zona esterna corrispondente, ove vegetano le comuni Alofite che sono proprie della contigua riva marina, ed alle quali si mischiano solo poche altre microfite cosmopolite, che vivono a spese dello strato più superficiale del terreno. Ma quest’azione repulsiva dell’acqua marina si attenua grandemente a misura che si passa nel Bacino settentrionale, tanto che quivi si osserva subito ed a grande distanza dalle foci dei due fiumi che vi sboccano a Nord, una vasta vegetazione di Potamogeton pectinatus L., cui si aggiungono poi ed a distanze diverse, le altre specie di acqua dolce. Azione antagonistica dei fiumi. — Ora, quest’azione sempre più decre- scente dell’acqua marina, quanto più la si considera a Nord dello Stagno, no» di- pende solo dal fatto della sua maggiore diluizione, ma anche e sopratutto dalla influenza antagonistica che vi esercita l’acqua di fiume, sia che questa venga con- siderata come una soluzione nutritizia eccellente per la vita delle piante, sia per il ricco substrato che essa costituisce sul fondo colla sua lenta decantazione. Giacchè, è interessante il notarlo, le soluzioni saline vi si diluiscono durante la stagione delle pioggie, quando tutta la vegetazione è in riposo; ma in quella estiva, e quando appunto la detta vegetazione è in pieno periodo vegetativo, esse 326 ANGELO CASU 32 acquistano una tonicità che in molti tratti non è inferiore a quella dell’acqua ma- rina del vicino Golfo. Il fatto, che è del massimo interesse anche se viene considerato dal punto di vista più generale della biologia delle piante, si spiega ricordando che la resistenza fisiologica di queste ultime aumenta in ragione delle buone condizioni nutritizie in cui le stesse si trovano, e del conseguente rigoglio che ad esse ne deriva (1). Adattamento delle piante di fiume. — Il limo che copre il fondo dello Stagno è per questo riguardo un substrato ottimo, e le piante sommerse, quelle sta- gnali e le palustri, vi raggiungono dimensioni insolite. Ma intanto che il loro corpo vegetativo si sviluppa, dalla primavera all’autunno, esso assorbe unitamente agli abbondanti sali utili del substrato, anche il sale marino, la cui percentuale va gra- datamente elevandosi nell'acqua, appunto in quel tempo, ed in modo che nel Ba- cino settentrionale, assume, allora, tutti i valori compresi fra pochi decimi di grado e 3° B. Adattamento fisiologico. — Grazie a queste particolari condizioni di vita, si ha che le piante elevano gradatamente la tonicità salina nei loro succhi liberi e nel plasma, epperò mantengono costante l’equilibrio osmotico fra l’interno e l’esterno del corpo vegetale. E la quantità considerevole del sale che in cotal modo si accu- mula nei tessuti, non solo non riesce nociva, ma utile, poichè provoca nell'organismo quella particolare reazione che porta alla fioritura precoce, e che permette alle piante di chiudere regolarmente il proprio ciclo, ed alla specie di conservarsi nello spazio, nonostante l'estremo accentuarsi della salinità ambiente. Un concetto del fatto, ed anche della sua natura, lo si ha ricordando che tutte le soluzioni saline che si riscontrano nello Stagno durante la stagione estiva, sono tali che ove esse venissero bruscamente in contatto con le piante cresciute in am- biente di fiume, riuscirebbero certamente deleterie. Comunque, la resistenza fisiologica che le dette piante presentano nello Stagno è grandissima, ed appare ancora più nel suo giusto valore, quando si ricordi, anche, che le soluzioni che arrivano in loro contatto agiscono su di esse con tutta l’inten- sità della loro concentrazione, poichè, mancando in questo caso il substrato del ter- reno comune, detta concentrazione salina non viene in alcun modo diminuita, mentre lo è invece quella delle soluzioni che infiltrano il sottosuolo della zona esterna dello Stagno, dove queste diluiscono tanto che, raccolte in pozzi comuni, possono venire impiegate per l'irrigazione. Saturazione salina. — Tuttavia, e nonostante questa influenza della buona nutrizione, il lento assorbimento dei sali, da parte delle piante, non è indefinito, ma ha un limite nel massimo grado di saturazione (2), di cui ogni specie è capace, e nel minimo della durata alla quale può ridursi il suo ciclo vegetativo. Questo diffe- rente grado di saturazione salina nelle diverse specie di piante fluviali, si rende qui (1) Cfr. A. Casu, Contribuzione allo studio della flora delle Saline di Cagliari, “ Ann. di Bot. ,, vol. II, pag. 481. Roma, 1905. (2) Cfr. A. Casu, Circa il valore nutritizio del sale marino nelle Alofite, © Ann. di Bot. ,, vol. VI, fasc. 1°, pag. 21. Roma, 1907. 33 LO STAGNO DI S.°* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 327 manifesto (specialmente nelle zone palustre, stagnale e sommersa), colla diversa esten- sione che esse assumono verso le parti meridionali dello Stagno, dove le concen- trazioni saline che ad esse arrivano in contatto, sono tanto più elevate quanto più le piante stesse avanzano verso il mare. Per le specie più dominanti della zona stagnale, le concentrazioni saline mas- sime, riscontrate nell'acqua, durante la fruttificazione, furono rispettivamente: Butomus umbellatus L. 0,5867 9% di NaCl. alla foce del Manno Potamogeton natans L. 1,227 Pi a circa 200/m. , Myriophyllum spicatum L. 2,036 5 È Gia) dl ira o Potamogeton pectinatus L. 3,000 i a 5 Km. 5 Il Potamogeton pectinatus L. è dunque la specie che qui esalta al mas- simo grado questo adattamento, poichè resiste all’azione di soluzioni saline isotoniche a quella dell’acqua marina, e tali, cioè, che riuscirebbero deleterie, anche alla gene- ralità delle Alofite terrestri, quando su queste agissero direttamente. Adattamento ecologico. — Ma oltre ciò, come già dissi, le piante reagi- scono a un cotale ambiente, colla fioritura precoce, e ciò costituisce il loro adatta- mento ecologico più generale ed apprezzabile. Ricorderò che le piante fanerogame che costituiscono la zona sommersa e quella stagnale, fioriscono tanto più presto, quanto più esse si allontanano dalla foce dei fiumi, cioè, quanto più alte sono le concentrazioni saline che le stesse incontrano nello Stagno. Anche in ciò, il Potamogeton pectinatus L. è la specie che offre il mag- giore interesse, poichè trovasi distribuita su un’area di oltre 15 Kmq., epperò le sue piante vengono a trovarsi simultaneamente in una massa di acqua salata, che nella stagione estiva, e procedendo da Sud a Nord, presenta tutte le concentrazioni com- prese fra quella dell’acqua marina e quella dell’acqua di fiume. Corrispondentemente, esse presentano anche in una data unità di tempo, con ordine rigoroso di succes- sione, tutti gli stadi della fioritura e della fruttificazione. Questo vasto quadro può essere espresso nel modo seguente : Vegetazione del Potamogeton pectinatus L. Giugno Luglio j Agosto Settembre cr" ‘e erronea n—_____— —s-_r____ Uoncentraz. Vegetaz. | Concentraz. | Vegetaz Concentraz. | —Vegetaz. Concentraz. | —Vegetaz. salina salina i N salina ; salina Nord o | | | Foce del F. Manno .{0°,068B. , |0°,345| , |05879| , |1°,221| fiorisce Altezza di Fimas | pra (a m. 2000) 05167455 MINE RIO o Se 1,953 | fiorisce | 2,950 | fruttifica | | Cotteruxi IRSA: | (5 Km. dalla foce) [1,350 B.| fiorisce {1,950 B.{ fiorisce |2,970B.| fmttifica |3,500 B.| scomparsa e frattifica I | Sud | 328 ANGELO CASU 34 La fioritura delle piante del Potamogeton pectinatus L. considerata dal Giugno al Settembre, tanto nella direzione Sud-Nord, che in un punto qualunque del Bacino settentrionale, progredisce. parallelamente all’elevarsi della concentrazione salina del- l’acqua. Posto ciò, e ricordando che qui tutti gli altri fattori di ambiente sono iden- tici (ma non costanti) nei differenti punti dello spazio e nella stessa unità di tempo, e che la salinità è il solo elemento che varia assumendo tutti i valori compresi fra 0° B. e 39,6, non vi è dubbio che il fatto ecologico non sia legato a quello fisico, come l’effetto alla causa. Epperò, mentre la topografia generale di questa specie sul fondo dello Stagno, costituisce il criterio botanico sicuro per dire della estensione che vi assume l’in- fluenza prevalente dell’acqua di fiume, durante la stagione invernale, la progressione della fioritura nel senso anzidetto, costituisce alla sua volta il criterio ecologico, per dire del tempo e del modo come l’acqua salata si avanza ad occupare le parti più settentrionali del bacino, a misura che la prima viene eliminata colla evaporazione. Questo fatto di ecologia illustra dunque, e conferma ad un tempo, la più im- portante delle condizioni fisiche dell'ambiente (variazione graduale e progressiva della concentrazione salina), e ciò che è l’effetto che le piante di fiume ne risentono (pre- cocîtà della fioritura). Ma il chimismo di questa correlazione fra i due fatti, od ordini di fatti, sfugge, almeno per ora, ad ogni spiegazione, e per ciò, ci limiteremo anche qui, alla pura induzione, ammettendo ancora una volta che il sale assorbito da piante tenute in buone condizioni di nutrizione, provochi in queste, o favorisca e antecipi, tutti quei fatti di natura chimico-fisiologica che portano alla formazione del seme e del frutto. Ma indipendentemente da questo meccanismo del fatto intimo, provocato dal- l’ambiente nell’organismo della pianta, qui interessa constatare anzitutto, che il modo particolare col quale essa reagisce, e che si manifesta esternamente colla fioritura e colla fruttificazione, la mettono in grado di sussistere su quel dato spazio e sotto un’altra forma (seme), e di riapparirvi nel periodo in cui si sono ripristinate le con- dizioni di ambiente, per essa normali. Analogamente può dirsi di tutte le altre specie di fiume, stagnalîi e sommerse, che hanno invaso alcune parti settentrionali dello Stagno; però queste vi hanno una estensione molto minore, ed il fenomeno del loro adattamento non ha perciò quella estensione, nè è così sensibile, come nel caso della specie precedente. Adattamento morfologico. — In tutti questi casi, non è da escludere che l'ulteriore assorbimento delle più forti soluzioni saline, da parte delle piante, venga qui attenuato, od anche arrestato dalla riduzione del sistema radicale assorbente, causata appunto dall’azione esterna delle stesse soluzioni. Tuttavia, e per quanto questo adattamento sia comune nelle Alofffe terrestri, non ho però elementi sufficienti per affermarlo anche nelle piante delle zone palustre, sta- gnale e sommersa. Riduzione delle alghe marine. — Tutti questi adattamenti, che, in mag- giore o minor grado, rivelano le piante di fiume, alle soluzioni ipertoniche che tro- vano nello Stagno, le mettono in condizione di favore rispetto alle specie marine, le quali perciò difettano nell'interno del bacino molto più di quanto vi difettano le prime. dI U1 LO STAGNO DI S.TA GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 929 Le alghe di mare mancano completamente nel Bacino Settentrionale dello Stagno, non solo, ma generalmente mancano pure negli altri due bacini, contigui col mare, dove si notano nell’estate solo alcune forme di Enteromorpha e altre di Cystoseira. Le Ulve, però, sono escluse, ed i frammenti di tallo che spesso vi si osservano vagare, vi sono introdotti dalle correnti marine, le quali dopo breve tratto li abban- donano alla deriva, dove presto vengono impigliate tra i filamenti delle Chaetomorphae e indi portati al fondo, ove muoiono. Ora osservo che questa mancanza delle Ulve è indipendente dalla natura del substrato, poichè sebbene il fondo dello Stagno sia eminentemente limaccioso, pure non mancano in molti tratti le pietre calcari e le conchiglie, tanto che anche l’Ace- tabularia mediterranea Lamour. e le varie specie e forme di Enteromorphae che pure amano fissarsi ai detti corpi del fondo, vi sono abbondantissime. L’azione repulsiva dell’acqua di fiume. — Questo contegno delle specie essenzialmente marine, si spiega ricordando che, fino dall'autunno, la salinità dello Stagno decresce rapidamente, e che queste specie non resistono all’azione idrolitica delle soluzioni ipotoniche e specialmente di quelle diluite, o di quella dell’acqua di fiume. Le stesse Acetabularia, Caulerpa, Enteromorpha di cui sopra, scompaiono dal- l’autunno alla primavera, oppure alcune di esse permangono solo nelle parti più prossime al mare, donde si ridistendono poi verso il Nord dello Stagno, quando l’acqua marina vi accorre ad occupare il vuoto determinatovi dall’acqua dolce evaporata. Riduzione delle Najadaceae. — Analogo contegno a quello delle alghe marine, presenta anche qualche Najadacea, e particolarmente la Posidonia Caulini Kén., la quale non penetra mai nello Stagno, mentre nel mare costituisce un’ampia prateria subacquea lungo la riva sommersa e su di un substrato di limo proveniente dallo stesso Stagno. È dunque evidente che anche in questo caso la causa repulsiva non risiede nella qualità del substrato (essendo identico nel mare e nello Stagno), ma nella massa dell’acqua, e consiste nella instabilità della sua concentrazione salina. È suf- ficiente che questa discenda, anche per un breve periodo dell’anno, sotto la tonicità dell’acqua marina, perchè molte specie vegetali che sono proprie del mare, non pro- sperino nel bacino stagnale. Riduzione delle Alofite terrestri. — In generale si osserva poi che alla riduzione delle specie marine nello specchio acqueo dello Stagno, corrisponde anche quella delle A/ofite comuni nelle altre zone biologiche della cintura. Questa riduzione, che è parziale nella zona esterna, diventa generale e com- pleta nella zona stagnale, ed i fatti osservati in merito possono essere così riassunti: 1° Le Alofite della zona esterna scompaiono in quei tratti di piano che sono in- fiuenzati dai fiumi e dai torrenti ; 2° Nella zona palustre le Alofite sono limitate alle parti esteriori che, nella sta- gione estiva, restano emerse, almeno nel momento della bassa marea; 3° Le Alofite mancano completamente nella zona stagnale. Serie II. Tox. LXII. Ch 380 ANGELO CASU 36 Nelle zone palustre e stagnale. — La mancanza delle Alofite nella zona stagnale, e la loro riduzione in quella palustre, si spiega osservando che per quanto queste piante siano eminentemente AR ci E; \ à ZU. ci v 2 PPaIdLIS(. ll & do ; È ) i L0E so BIAGIO I° Fi r. 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CARLO FOA Libero Docente-e Assistente, Approvata nell'adunanza dell'11 Giugno 1911. E Localizzazione dei centri respiratori. In questa mia rivista sintetica non potrò certamente trattare ogni punto del complesso problema e sarò costretto a tralasciare qualche lato, per dare sviluppo maggiore alle questioni più controverse che formarono e formeranno ancora oggetto di discussione. Non mi soffermerò troppo a lungo sul problema della localizzazione anatomica dei centri respiratori. Osservò il Lore (1) a questo proposito che a tutta prima la localizzazione bulbare di questo centro parrebbe formare un'eccezione al carattere segmentale metamerico che è comune alle altre parti del sistema nervoso, perchè il centro respiratorio non domina organi periferici situati nello stesso suo segmento, ma organi diffusi in segmenti soprastanti e sottostanti. LorB ritrova però nello svi- luppo il carattere metamerico del centro respiratorio quando ancora esso innerva gli archi branchiali corrispondenti. A me pare che sia sufficientemente dimostrata l’esistenza di centri secondari del respiro, perchè non si debba ritenere che il sistema nervoso respiratorio sia, come le altre parti del sistema nervoso, suddiviso e scaglionato a comandare i di- versi metameri. Una suddivisione metamerica dei centri respiratori secondari è dimostrata dalla indipendenza che spesso si verifica tra i moti respiratori della faccia, del torace, del diaframma e dell’addome; fatto che venne messo in luce dalle ricerche di Angelo Mosso e di altri autori. To potei osservare che un feto di cane estratto dagli involucri e isolato dal circolo materno faceva energici boccheggiamenti asfittici mentre ancora il torace e (*) Questa relazione venne letta nella 1 Adunanza della Società Italiana di Fisiologia in Napoli nel Dicembre 1910, e poi parzialmente integrata tenendo conto di alcuni lavori pubblicati dopo quella data. 336 CARLO FOÀ 9 l'addome non erano capaci di respirare e lasciavano il polmone atelettasico. Il centro dei moti respiratori del collo e della faccia si era dunque sviluppato prima degli altri. Per dimostrare l’indipendenza del torace dall’addome riproduco il tracciato di una mia esperienza (fig. 1) nella quale l’apnea che si stabilisce dopo una energica ventilazione polmonare in un cane narcotizzato, colpì il torace soltanto e non l’ad- dome, e poi il respiro toracico si fece periodico, mentre il respiro addominale ri- mase continuo. Nessun dubbio che si tratti di centri diversi se uno può essere attivo quando l’altro è inattivo, e se l’uno può funzionare con ritmo semplice quando l’altro fun- ziona con ritmo periodico. Alla questione della metameria del sistema nervoso re- spiratorio si connette quella tanto dibattuta dei centri respiratori spinali. Fu ammesso da RoxITANSKyY (2), da ScHRoFr (3) e da LANGENDORFF (4) che il respiro potesse con- tinuare in un animale nel quale il bulbo fosse stato separato dal midollo spinale, e recentemente WeRTHEIMER (5) e Mosso (6) portarono la conferma di questo fatto. LEMMA Ici nonnina Fig. 1. I tratti meno ampi sono dovuti al respiro addominale, quelli più ampi al respiro toracico. ScHIrF (7) rifiutò di ammettere l’esistenza di centri respiratori spinali, basandosi sopra il resultato da lui ottenuto con l’emisezione del midollo cervicale, che porterebbe alla paralisi completa e permanente dei muscoli respiratori dello stesso lato. Ma questa esperienza non ha il valore che volle darle l'Autore e che fu ammesso anche da Gap (8). KxoLt (9) ripetò l’emisezione in 19 conigli e vide permanere sebbene indebolito il respiro della corrispondente metà del torace. LanGENDORFF (10) già aveva fatto la medesima esperienza ed aveva veduto che se dopo l’emisezione di un lato si taglia il frenico dal lato opposto, la parte del torace che dopo l’emisezione pareva paralizzata, si mette poi a respirare. Per met- tere poi in attività i centri respiratori spinali dopo l’emisezione ammettono GrrARD (11), Brown-Séquarp (12), LAnGENDORFF (13), LANDERGREEN (14) che sia necessario un certo grado di asfissia, e io stesso (15) ho potuto dimostrare l’azione attivatrice che ha . l’acido carbonico del sangue sui centri respiratori spinali. Schiff ammette questo fatto, e appunto perchè riconosce necessaria la presenza dell’acido carbonico in quan- tità più alta del normale, nega l’esistenza di centri spinali normalmente funzionanti. d SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 337 Apucco (16) applicando la cocaina direttamente sul centro bulbare per modo da paralizzarne le funzioni, vide arrestarsi il respiro, nè potè mai constatare l’azione di centri respiratori spinali. Alla stessa conclusione giunse recentemente TrenpE- LENBURG (17) con il raffredìdamento del bulbo. È difficile dire come queste esperienze si conciliino con quelle della separazione del bulbo dal midollo spinale, nelle quali il respiro, sebbene con difficoltà, poteva continuare. È forse possibile, che anche con la cocainizzazione o il raffreddamento del bulbo, si riesca ad ottenere un respiro pura- mente spinale, mantenendo gli animali in quelle condizioni di temperatura e di pro- lungata ventilazione polmonare, che LaAnGEeNDoReFr, WerTHEIMER e gli altri autori trovarono necessarie dopo la separazione del bulbo dal midollo spinale. Certo è che il respiro dopo questa operazione è ben diverso dal normale. Esso è irregolare per ritmo e per ampiezza, le pause sono frequenti, frequenti le espira- zioni attive, e incostanti i rapporti tra respiro toracico e addominale, cosicchè se pure esistono centri respiratori spinali capaci di funzionare anche separati dal bulbo, è certo che il centro bulbare ha sovra tutti gli altri la supremazia, e che in esso soltanto sono accentrati i poteri regolatori e coordinatori dei moti respiratori. Se dunque la divisione metamerica del sistema nervoso respiratorio è dimostrata, essa perde tuttavia molto del suo valore quando ai singoli segmenti si toglie l’au- tonomia, e tutti vengono posti sotto il governo unico di un centro superiore. È questo un caso di accentramento di poteri reso necessario dalla complessità degli ordegni che si debbono mettere in azione perchè un atto respiratorio si compia, e dalla ne- cessità di una precisa regolazione, che si compia fuori del dominio della volontà e della coscienza. È ora nostro compito studiare per quali meccanismi la funzione bulbare si man- tenga così ininterrottamente ritmica e regolare. TL Regolazione del respiro per opera dei ga del sangue. L'ambiente nutritizio ha senza dubbio la maggiore importanza per la funzione del centro respiratorio. L'influenza che hanno i gaz del sangue, se anche si dissenta in qualche punto dalle opinioni di RosenTHAL che la mise in luce, non può essere disconosciuta. La prova più diretta ed evidente è la dispnea che segue alle inala- zioni di miscele gassose ricche d’acido carbonico. Vi fu tuttavia chi credette che l’acido carbonico non agisse direttamente sul centro respiratorio, ma indirettamente e per mezzo delle terminazioni nervose periferiche. Questa opinione ebbe origine dalle esperienze fatte su gli animali inferiori, e in questo caso, come in tanti altri che vedremo, è ben necessario guardarsi dal generalizzare i resultati ottenuti sopra una sola specie di animali. Negli anfibi l’acido carbonico agisce certamente per via riflessa e un'azione di- retta sul centro è molto dubbia. WinrersreIN (18) trovò che la dispnea prodotta dall’acido carbonico sulla rana cessa se si avvelenano con fenolo gli elementi sensitivi del midollo, e PARI trovò Serre II, Tom. LXII. ri 398 i CARLO FOA 4 che essa non si produce dopo il taglio dei vaghi. Nei pesci i fenomeni sono più complessi e vi è contraddizione tra i diversi ricercatori. Berne (19), IstrnarA (20), WesrerLuND (21), Kurprer (22), BABAK (23) negano che un aumento di concentrazione dell'acido carbonico nell’acqua provochi la dispnea nei pesci e non riuscirono che ad osservare un effetto deprimente e narcotico quando la concentrazione dell’acido carbonico era eccessiva, oppure un istantaneo effetto ini- bitorio sul respiro, di natura riflessa. Reuss (24) in un suo recente lavoro accusa i ricercatori precedenti di avere commesso l’errore di sperimentare su pesci fissati in un apparecchio di contenzione, il che basta a provocare un certo grado di dispnea, che rende difficile osservare un nuovo effetto dispnoico dell’acido carbonico. Reuss sperimentò su pesci d’acqua dolce lasciati liberamente nuotare nell’acqua, e vide che se si scioglie nell'acqua una quantità non eccessiva di acido carbonico, essa produce dispnea, mentre una concentrazione eccessiva produce la narcosi. KuLIaBKo (25) aveva del resto già trovato che facendo circolare nella testa isolata di un pesce il liquido di Ringer, ricco di acido carbonico, la dispnea si produce. Se però sui pesci esso reagisca direttamente o elevando l’eccitabilità riflessa, è cosa ancor dubbia. Animali che non risentono affatto l’azione dell’acido carbonico sono le tartarughe ibernanti, nelle quali Fano (26) vide rimanere immutato il respiro anche in un am- biente ricco di questo gas. Nei mammiferi l’azione dispnoica dell’acido carbonico è ben dimostrata. Winx- TERSTEIN in base alle ricerche fatte sulle rane credette dapprima poter generalizzare anche ai mammiferi la nozione che l’acido carbonico agisca sul centro per via ri- flessa, ma egli stesso in un lavoro successivo (27) dimostrò che esso agisce invece direttamente sul centro del respiro, poichè la dispnea si produce anche se prima sono state interrotte tutte le vie nervose periferiche che possono agire pet via ri- flessa sul centro. L'importanza dell’acido carbonico nel regolare il respiro degli animali superiori e dell’uomo fu studiata e messa in luce da HaLpaNE e dai suoi collaboratori (28). Essi dimostrarono che comunque vari, entro certi limiti, la concentrazione dell’acido carbonico nell’aria respirata, quella dell’aria alveolare rimane costante, e il mecca- nismo regolatore è dato dalla ventilazione polmonare che non permette l’accumulo di acido carbonico nel sangue. Basta che esso cresca nell'aria alveolare del 0,2 %/ perchè la ventilazione polmonare aumenti del 100 °/,! Anche l’ossigeno come l’acido carbonico non fa risentire la sua azione sopra tutte le specie animali: quell’azione che noi siamo soliti dedurre dalla dispnea che ha luogo quando vi è deficienza d’ossigeno. Le tartarughe ibernanti che per il loro lento ricambio hanno bisogno di minime quantità di ossigeno, non modificano il re- spiro in un'atmosfera di gaz asfittici (Fano (26)). Anche le rane adulte non risentono l’azione della deficienza di ossigeno (BAB&K (29)), e neppure se ne risente, secondo RaB4Kk e Kilnnovà (30), il centro che presiede ai movimenti respiratori della cavità boccale della salamandra. La deficienza di ossigeno produce invece la dispnea delle larve di libellule (31), nelle larve degli anfibi auuri (29) e se ne risente anche il centro che presiede alla respirazione polmonare delle salamandre (30). ta) SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 339 Fu molto discusso se la deficienza di ossigeno producesse dispnea nei pesci, e molti autori lo negarono (ScHoenLEIN (32), BerHE (19), v. RynBERK (33)), ma essi sperimentavano sopra pesci fissati in un apparecchio di contenzione, quindi già dis- pnoici (BagLionI (34), U. Lomgroso (36), Reuss (24)) (*), mentre chi sperimentò su pesci liberi e normali potò constatare che la deficienza d’ossigeno nell'acqua pro- duce dispnea (IsutrARA (26), KurpER (22), BAGLIONI (34), WinrerstEIN (36), BABAK e Depék (23), BaB&K (37)). Come la deficienza di ossigeno produce dispnea nei pesci, così un eccesso d’os- sigeno nell’acqua dà luogo ad un rallentamento del respiro (20 e 21) e talora anche all'apnea completa (23, 24 e 25). Negli animali superiori il bisogno di ossigeno è molto maggiore e le sue va- riazioni si fanno maggiormente sentire sul respiro. Un animale che respiri un’aria confinata consumando progressivamente l'ossigeno, se anche si eviti l'accumulo di acido carbonico, cade in dispnea (HaLDANE e Pourron (38)). La deficienza di ossigeno è quindi capace di mettere in azione un meccanismo regolatore, atto a compensare l'organismo. Ma come possiamo noi concepire che la deficienza di un elemento possa costituire uno stimolo? Il concetto di stimolo è concetto positivo e ci obbliga ad ammettere la presenza di una sostanza eccitante, chè non basta a darci ragione del fatto, il ricorrere alla spiegazione teleologica dei bisogni dell'organismo. È ammesso in fatti che la deficienza di ossigeno non sia di per sè la causa della dispnea, ma agisca in modo indiretto dando luogo alla produzione di sostanze capaci di aumen- tare la funzionalità del centro respiratorio. Tali sostanze sarebbero i prodotti di ossidazione incompleta, e particolarmente l’acido lattico, che si formano nell’organismo durante l’anossiemia, e che non agi- rebbero, secondo HaLpanE e la sua scuola, come stimoli diretti del centro bulbare, ma lo renderebbero più sensibile all’azione dell’acido carbonico del sangue. Nella anossiemia è infatti necessaria una tensione dell’acido carbonico nell’aria alveolare molto minore del normale per produrre dispnea. I due principali gaz del sangue: ossigeno ed acido carbonico, agiscono dunque sul respiro per modo che le loro azioni si influenzano a vicenda, dando luogo a quel meraviglioso meccanismo di regolazione che fa del centro respiratorio un congegno perfettamente governato. DougLas e HarpaNE (39) paragonano questo congegno ai meccanismi autoregolari conosciuti in meccanica, e trovano che esso è così perfetto da evitare anche le irregolarità tem- poranee e periodiche che dipendessero dall’alternatività di una regolazione eccessiva o insufficiente. Mosso (40) aveva gia notato il fatto che la dispnea che segue alla respirazione di miscele ricche di acido carbonico non solo non cessa col cessare della sommini- strazione della miscela, ma neppure quando la concentrazione dell’acido carbonico nel sangue è ritornata normale. Doveras e HALDANE ripresero a studiare questo fenomeno, e lo analizzarono (#) Wesreetusp (21) sperimentava lasciando defluire l’acqua ricca d'ossigeno dalla vasca, e facen- dovi contemporaneamente penetrare una corrente d’acqua priva di ossigeno. Le due acque quindi si mescolavano, e l’animale continuava ad avere a disposizione ossigeno per qualche tempo. È perciò naturale che la dispnea comparisse con qualche ritardo. 340 CARLO FOÀ 6 meglio. Credo sia bene riferire i loro resultati per dimostrare come funzioni il mec- canismo regolatore del respiro normale. La dispnea che segue ad un arresto volon- tario del respiro nell’uomo, provoca un allontanamento dell’acido carbonico che si era accumulato nel sangue durante la pausa respiratoria, e continua quando la concen- trazione dell’acido carbonico è scesa al disotto del valore normale. Poi lentamente ritornano normali il respiro e la concentrazione dell’acido carbonico. Se il centro re- spiratorio reagisse rapidamente ad ogni cambiamento dell'acido carbonico, l’iperpnea non dovrebbe continuare tanto a lungo, perchè non appena la concentrazione del C0, fosse scesa nel sangue al disotto del normale, il respiro si dovrebbe arrestare, per ricominciare quando si fosse riaccumulato l’acido carbonico in quantità sufficiente. Si originerebbe così il respiro periodico, nè si capirebbe come esso potesse avere fine. Sarebbe pur questo un meccanismo regolatore del respiro, ma condurrebbe ad un resultato molto meno perfetto di quanto non si osservi, e ricorderebbe il mecca- nismo di un termoregolatore che determini o una fiamma troppo alta o una fiamma troppo bassa. Se invece lo scambio gassoso fra il sangue e il centro respiratorio non è istantaneo, l’acido carbonico accumulato nel centro durante la pausa respiratoria impiegherà un certo tempo ad allontanarsene e il centro se ne libererà non istan- taneamente come il sangue, ma con lenta progressione, diminuendo mano a mano il respiro di ampiezza fino a diventare normale. Si evitano così i bruschi passaggi, si evita la formazione di periodi, e il respiro si mantiene regolare. Se dunque consideriamo nella filogenesi come si comporti il centro respiratorio di fronte ai gaz del sangue, troveremo che se dapprima esso ne è indipendente, cre- scendo poi i bisogni dell’organismo, si sviluppano meccanismi regolari nuovi e de- licati così congegnati che a regolare la quantità dei due gaz di cui il centro abbi- sogna, concorrono i gaz stessi o direttamente o indirettamente. Non è questo un caso isolato nell'organismo; troviamo anzi molti altri analoghi casi e in generale vale la legge che i prodotti del metabolismo di un dato organo acerescono la funzione dell'organo stesso. Così i sali biliari aumentano la secrezione della bile, l’urea esalta la funzione renale, e l’acido carbonico stesso che si produce nel ricambio nutritizio di ogni tessuto favorisce molti processi fisiologici, quali tra gli altri la contrazione muscolare e la funzione del miocardio. Se noi vogliamo con- siderare la cosa da un punto di vista teleologico, potremo dire che nell’ organismo si risvegliano quei meccanismi regolatori che sono più adatti ad allontanare i pro- dotti inutili o dannosi. Ma con questo noi non avremo spiegato il fenomeno e resta pur sempre a conoscere per quale intimo meccanismo i prodotti dell’ attività di un tessuto esaltino la funzione del tessuto stesso. LANGENDORFF (41) definisce come pro- cesso automatico quello che avviene per stimoli interni, e tali stimoli sarebbero ap- punto rappresentati dai prodotti dell’attività del tessuto “ Das Lebensprodukt der Zelle ist ihr Erreger ,. Lo stimolo interno per il centro respiratorio sarebbe l’acido carbonico del sangue. Qui siamo giunti al punto più delicato della questione, che è quello di sapere che cosa l’acido carbonico rappresenti per il centro respiratorio: se una condizione che ne favorisce la funzione, oppure uno stimolo. Che differenza stabiliremo tra condizione e stimolo, e possiamo sopratutto stabilirne una? LAnGENDORFF (42) a pro- posito dell’azione favorevole che i sali di calcio esercitano sul cuore ammette che ( SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO S41 alle sostanze capaci di aumentare l'ampiezza della contrazione cardiaca non si debba dare il nome di stimolo, e che questa denominazione debba essere riservata a quelle sostanze che aumentano il numero delle contrazioni cardiache. La base di questa sua distinzione è nella legge di Bowprrc® che stabilisce l'indipendenza della forza di contrazione del cuore dalla intensità dello stimolo. Evidentemente questa distinzione di Lancenporer non ha la portata generale che egli le attribuisce. La legge di Bowpirc® vale per il cuore soltanto, e non ad es. per i muscoli dello scheletro la cui forza di contrazione cresce col crescere dell'intensità dello stimolo. D'altra parte la distinzione di LANGENDORFF non può in ogni caso valere che per i fenomeni che si svolgano ritmicamente nel tempo, così che si possano distin- guere i due elementi: intensità della reazione e numero delle reazioni nell’unità di tempo. L’acido carbonico sarebbe secondo LancenpoREF uno stimolo del centro respi- ratorio soltanto perchè è capace di aumentare il numero dei respiri, non perchè ne aceresca la profondità, e questa distinzione male si accorda col fatto messo in evi- denza da Scorr (43) che in certe condizioni l’acido carbonico aumenta la profondità del respiro lasciandone inalterato o anzi rallentando il ritmo. Con numerose’ espe- rienze io ho potuto stabilire che nella narcosi profonda le inalazioni di acido carbo- nico producono nel cane un aumento delle escursioni respiratorie e un rallentamento del ritmo, e confermai le esperienze di Scorr secondo le quali lo stesso fenomeno si verifica anche nell’animale sveglio subito dopo il taglio dei vaghi quando gli si fac- ciano respirare miscele gassose molto ricche di acido carbonico. Se dunque teniamo presente che, eccezion fatta per l’attività cardiaca, aumen- tando lo stimolo, cresce l'intensità delle funzioni di un tessuto, e che l’acido car- bonico può agire sia accelerando il ritmo respiratorio, sia aumentando la profondità del respiro, e in condizioni normali producendo l’uno e l’altro effetto, la distinzione di LancenporeF apparirà destituita di fondamento. Ma allora sopra quale altro carattere differenziale potremo noi stabilire la di- stinzione tra stimolo e condizione favorevole? La dinamite spontaneamente non esplode, ma un urto basta a determinarne l'esplosione: ecco un esempio di stimolo. In questo caso lo stimolo determinerebbe una liberazione di energia nel sistema in quantità molto maggiore di quella somministrata dallo stimolo stesso. Potrebbe dunque servire questo esempio a definire che cosa s’intenda per stimolo? Se noi as- sumessimo senz’altro questa definizione di stimolo, credo che ci troveremmo forte- mente imbarazzati ad applicarla al linguaggio fisiologico. Consideriamo ad esempio una reazione chimica che non possa avvenire in causa della bassa temperatura che conferisce alli ioni una mobilità troppo scarsa. Un au- mento di temperatura che ne aumenti la mobilità e determini la combinazione degli elementi, deve esso considerarsi come stimolo della reazione? Il caso non è molto diverso da quello dell’urto e della dinamite; anche qui troviamo una sproporzione tra l’energia calorifica somministrata e quella che si svolge nella reazione, anche qui siamo di fronte ad una causa determinante una reazione che spontaneamente non avveniva. Eppure nessun fisiologo ha mai classificato la temperatura tra gli stimoli delle attività fisiologiche, e tutti si limitarono a definirla una delle condizioni favo- revoli all’esplicarsi di queste attività. Consideriamo il caso dei catalizzatori: nella definizione divenuta ormai classica 342 CARLO FOÀ 8 di OsrwaLp, catalizzatore è quella sostanza che determina l’acceleramento di una reazione che avverrebbe anche spontaneamente, ma con estrema lentezza. Qui appare più chiaro che si debbano mettere i catalizzatori fra le condizioni facilitanti una reazione piuttosto che fra gli stimoli; ma non è questo un caso analogo a quello della temperatura che acceleri la velocità di una reazione già incominciata? Quando è dunque che la temperatura cessa di poter essere paragonata all’urto per la dina- mite e comincia ad essere paragonata al catalizzatore? La distinzione fra le sostanze o le condizioni che determinino l’inizio di una reazione e quelle che soltanto ne accelerino la velocità non è dunque tanto facile, e il caso della temperatura si complica ancor maggiormente se se ne considera l’azione sui processi fisiologici, molti dei quali sono da essa esaltati non direttamente, ma in virtù dell'acido carbonico che in maggior copia si sviluppa per un aumento della respirazione del tessuto, o per una maggior distruzione di zucchero provocata dal- l'aumento di temperatura. Cerchiamo di approfondire maggiormente lo studio di questo problema col cercare di scoprire per quale meccanismo l’acido carbonico possa agire sul centro respiratorio. Rosertson (44) dopo aver dimostrato che molti acidi applicati dirrettamente sul centro respiratorio della rana accelerano il ritmo respiratorio, e dopo aver constatato con un particolare indicatore che la reazione del tessuto nervoso che ha funzionato diviene acida, ammette che l’acido carbonico che si produce nell’attività del centro bulbare agisca a sua volta esaltandone la funzione. Si tratterebbe di un processo di autocatalisi nel quale uno dei prodotti della reazione agirebbe aumentando la velocità della reazione stessa. Anche WinrERstEIN (45) avendo trovato che con la perfusione artificiale di liquido di RinGER, nei centri nervosi, si riesce a mantenere il respiro di un coniglio «di pochi giorni di vita, a condizione che nel liquido di RinerR sia disciolta una certa quantità di acido carbonico, ammette che questo agisca come acido, in virtù cioè degli idrogenioni provenienti dalla sua, sebbene scarsa, dissocia- zione; ma come questi agiscano sul centro egli non dice. Più chiaramente si esprimono GilrBER (46) e HoEBER (47) i quali spiegano l’azione eccitante degli idrogenioni ammettendo che essi modifichino la permeabilità della membrana cellulare per quelli ioni che stimolerebbero l’attività della cellula. L’acido carbonico non agirebbe dunque come prodotto di una reazione autocatalitica, ma come causa facilitante lo scambio tra cellule ed elettroliti. Questa teoria mi pare s’avvicini più al vero di quella di RoBERTSON, perchè non ci riesce facile concepire una reazione autocatalitica discontinua e ritmica come sa- rebbe quella che accompagna l’attività del centro respiratorio, nella quale cioè la velocità di reazione subirebbe rallentamenti e acceleramenti ritmici. Le poche rela- zioni autocatalitiche che conosciamo sono reazioni continue. HerLITZKA (48) riassume le più recenti ed attendibili ricerche di autori diversi e le sue, dicendo che lo stato di attività cellulare è accompagnato da un mutamento dello stato elettrico dei colloidi plasmatici, accompagnato da una dissoluzione rever- sibile dei colloidi stessi, considerando come causa di tali mutamenti gli anioni a dif- ferenza dei cationi. È quindi naturale che ogni causa che faciliti l’azione degli anioni modificando la permeabilità cellulare, aumenti l’ attività di un tessuto. Ma nel caso dell’acido carbonico, come si esplica questa sua azione sulla permeabilità cellulare ? 9 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 343 da Alla teoria di Horser che attribuisce tutta l’importanza agli idrogenioni, HerLITZKA ne ha recentemente contrapposta un’altra. Studiando l’azione di diverse sostanze disciolte sull’attività dei centri nervosi, trovò che le sostanze più atte a mantenerne alta la funzionalità, sono quelle dotate di un leggero potere lipoidolitico. L'urea, l’uretano, l’acetamide sarebbero secondo HerLTZzKA e VraLe (49) tra queste sostanze. Anche l’acido carbonico secondo le ricerche di Overton (50) è un leggero lipoidolitico, e non v'è dubbio che anche altri lipoidolitici più forti prima di eser- citare sui centri nervosi un'azione deprimente e narcotica, ne esaltano la funzione. Citerò tra gli esempi più noti il cloroformio e l’etere. L'acido carbonico nella sua qualità di leggero lipoidolitico agirebbe secondo HeruITZKA sia ostacolando l’azione precipitante e inibente dei cationi e favorendo quella dissolvente e stimolante degli anioni, sia modificando la permeabilità della membrana cellulare per gli elettroliti. Sia che si concepisca in questo modo l’azione dell’acido carbonico sul centro respiratorio, sia che la si consideri come quella di un acido qualsiasi, è chiaro che esso deve essere considerato non come uno stimolo, ma come una sostanza che favo- risce indirettamente la funzione respiratoria. Il. Regolazione del respiro per opera dei vaghi e degli altri nervi sensitivi del’apparato respiratorio. Sull’attività del centro respiratorio hanno grande influenza gli eccitamenti portati dai nervi sensitivi. BABAK ha dimostrato che anche quando il centro non risente ancora l’azione delle modificazioni dei gaz del sangue, come avviene per il centro della respirazione boccale negli anfibi urodeli, esso reagisce invece per via riflessa agli stimoli nervosi periferici. Questi esercitano una notevole azione sul respiro dei pesci. VAN RyNBERK (38) provocò energici riflessi respiratori eccitando la cute dei pesci con stimoli meccanici od elettrici, e provocò un riflesso espulsivo simile a quello messo in evidenza da BaetionI (34), con l’eccitamento delle fauci, delle fessure branchiali, delle narici e della cornea. BAGLIONI vide inibirsi per via riflessa il respiro, trasportando i selacei dall'acqua nell'aria; Ugo LowBRoso (51) provocando la stenosi o la insufficienza della bocca o delle fessure branchiali trovò che l’apparato respiratorio modifica per via riflessa i propri movimenti coordinandoli in modo da ovviare agli inconvenienti pro- dotti da quelle alterazioni; DEGANELLO (52) scoperse con appropriate esperienze che sul centro respiratorio possono agire per via riflessa non soltanto le stimolazioni del vago ma anche quelle del nervo mascellare superiore, che già si trova normalmente in eccitamento tonico. Nei mammiferi i vaghi possono dar origine a diversi riflessi respiratori. A tutti è nota la classica esperienza di BreuRr-HrrING secondo la quale per la via dei vaghi ogni atto inspiratorio forzato ne provoca uno espiratorio e viceversa. Nella rana l’esperienza non riesce (SterERT (53)), il che è forse in rapporto col fatto che il nervo vago nella rana non si comporta come nei mammiferi, e il taglio 344 CARLO FOÀ 10 di questo nervo non provoca nella rana gli stessi effetti che provoca, ad esempio, nel cane. Nella lucertola invece SierERT potè ripetere con resultato positivo l’esperienza di Breur-HerING, e ventilando energicamente i polmoni di questi animali, ottenne l’apnea, che più non si produceva dopo il taglio dei vaghi. Nei mammiferi sono noti altri riflessi oltre a quelli provocati dall’eccitamento dei vaghi. R. Du-Bors-Revmonp e HarzENsTEIN (54), trovarono che una compres- sione passiva del torace determina la costrizione della glottide, e che il ritorno elastico del torace alla posizione inspiratoria provoca la dilatazione della glottide. La via sensitiva di questi riflessi sarebbe nell’innervazione dei muscoli e delle fasce tendinee delle pareti toraciche. L’eccitamento del frenico che conduce all’atto inspi- ratorio della contrazione diaframmatica, provoca l’adduzione delle corde vocali che è un atto espiratorio. Secondo Misrawsky (55) l’eccitamento del centro tendineo del diaframma o la stimolazione del moncone periferico del frenico produce l’arresto espiratorio del torace. BaezIonI (56) trovò che una contrazione del diaframma nel coniglio, ossia un atto inspiratorio provoca dapprima la dilatazione poi la chiusura delle narici. Lo stesso effetto si ottiene stimolando il moncone centrale dei nervi frenici che costituiscono dunque la via sensitiva di questo riflesso. JAPPELLI (57) trovò che il ritmo respiratorio può incronizzarsi col ritmo diverso di eccitamenti periferici, quali quelli che provengono dal salto, dalla corsa, ecc. To non voglio maggiormente soffermarmi nella trattazione di tali riflessi che sono descritti in ogni buon trattato di fisiologia e non accennerò che al carattere che essi hanno comune: ogni atto inspiratorio artificialmente provocato, ne desta immediatamente uno espiratorio. Mi riserbo di discutere più avanti il valore che possono avere queste esperienze nell’interpretazione del respiro normale. Al problema dei riflessi respiratori, si riconnette quello delle cause dell’apnea, e nell’analisi di questo fenomeno appare quali importanti rapporti corrano tra l’azione dei nervi centripeti sul centro respiratorio e la tensione dei gaz nel sangue. Non mi soffermo ora su tali questioni, perchè di esse ho trattato in altri miei scritti ai quali rimando il lettore (58, 59, 60). i IV. Le prove dell’automatismo del centro respiratorio. Cominciamo a prendere in esame il respiro dei pesci. Basandosi sopra l'influenza esercitata dagli stimoli periferici sul respiro dei pesci, BeTHE (19) sostiene che esso sia mantenuto soltanto in virtù di quei riflessi destati dal contatto dell’acqua sulla superficie della cute e delle mucose. L'esperienza che dovrebbe portare il miglior contributo a questa dottrina dimostrerebbe che la cocaina, anestetizzando i nervi di senso, arresterebbe il respiro. Scorrendo tutta la letteratura sul respiro dei pesci non ho trovato altra esperienza che questa che avesse la parvenza di essere dimo- strativa — tutti gli altri autori che sostennero il respiro dei pesci non essere che 11 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 345 un riflesso, sì basarono unicamente sull’esistenza di riflessi respiratori, senza poter dimostrare che questi siano necessari a mantenere il respiro. Ma anche l’esperienza della cocaina venne luminosamente contraddetta. V. RynBERK (83) dimostrò che la cocaina non limita la propria azione ai nervi periferici di senso ma viene assorbita ed agisce direttamente sui centri nervosi, Istimara e WersreRLUND (20 e 21) giun- sero alla medesima conclusione e dimostrarono che, se l’azione della cocaina vien limitata alle branchie e alla mucosa delle fauci, il respiro non si arresta. ISHIHARA dimostrò inoltre che neppure l’asportazione della branchie basta ad arrestare il respiro. Che l’acqua e i riflessi destati dal suo contatto sulla superficie del corpo, fosse condizione necessaria al respiro dei pesci venne sostenuto da BerHE, ma resulta dalle esperienze di WesreRLUND che i pesci d’acqua dolce continuano a respirare per qualche tempo anche nell’aria, e secondo Uso LomBroso (35) anche nell’olio. — Chè se il respiro dei selacei si arresta quando il pesce vien trasportato nell’aria, questo arresto non è duraturo, ed esprime in ogni caso un riflesso provocato dall’aria e non la cessazione di riflessi provocati dall’acqua. KurraBKo vide mantenersi il respiro nella testa isolata di Accipenser ruthenus per circa un’ora anche senza fare la circolazione artificiale, e BAGLIONI aveva già osservato lo stesso fenomeno nella testa isolata di Scy/Z4wm, mantenendo intorno al bulbo un’atmosfera di ossigeno. Nessuna esperienza dimostra adunque che gli eccitamenti periferici siano neces- sari per mantenere il respiro dei pesci, e molte tendono anzi a dimostrare che essi non siano necessari affatto, il che conduce a ritenere che il centro respiratorio dei pesci funzioni in modo automatico, come appunto sostengono WestERLUND e KUIPER; pur non escludendo che sulla base dell’automatismo bulbare possano innestarsi cause perturbatrici o regolatrici di origine riflessa. Negli anfibi le prove che si credettero dare dell’automatismo bulbare non son tutte sicure. Il fatto osservato da SokoLow e LucaHsincER (61), da LANGENDORFF e SreBEeRT (62), che il respiro persista e assuma la forma periodica dopo l’allacciatura dell’aorta e la sostituzione di acqua salata al sangue, non esclude che gli stimoli periferici non vengano ancora risentiti dal centro respiratorio e non siano la causa del perdurare del respiro. Nè quest’ipotesi può essere negata dal fatto osservato da BaB&K che il centro respiratorio della rana e quello che presiede alla ventilazione della cavità boccale della salamandra non risentono nè la deficienza di ossigeno, nè l’azione eccitante dell’acido carbonico, perchè il centro potrebbe tuttavia aver con- servato la sua eccitabilità per gli stimoli nervosi periferici. Ma il fatto trovato da Lancenporre (63), da ScHRADER (64) e da KxoLx (65) che il respiro nella rana può continuare quando il centro respiratorio è isolato da tutti i nervi sensitivi e dal midollo spinale, permette di concludere che neppure per gli anfibi gli stimoli nervosi siano necessari a mantenere il respiro e che il centro respiratorio sia automatico. i Che così stiano le cose nei rettili è dimostrato da esperienze sicure. SIEFERT (53) fece sulle lucertole una serie di interessanti esperienze. Mettendo una lucertola in un'atmosfera di idrogeno, dopo un periodo di dispnea, di irrequietudine e di violente contrazioni muscolari, l’animale cade in profondo sopore e non reagisce agli stimoli. Riportato l’animale nell’aria il respiro dopo un po’ di tempo ritorna, e l’animale Serie II. Tow. LXII. st 346 CARLO FOÀ 12 continua lungo tempo a respirare, prima che i riflessi e l’eccitabilità per stimoli peri- ferici, riappaiano. Il respiro non può dunque avere un'origine riflessa e si deve ammettere che continui per un'attività automatica del centro respiratorio. Quest’attività venne poi messa in evidenza dal Siefert con uw’altra esperienza che è tra le più complete che siano state fatte in quest'ordine di studi. Ad una lucertola fece successivamente le operazioni seguenti: il taglio dei vaghi, il taglio trasversale di tutto l’animale al disotto della 4% vertebra dorsale, l'allontanamento degli arti anteriori, dei muscoli del collo, della pelle del tronco e del cervello medio e anteriore. Di tutto l’animale non restava che il bulbo attaccato al midollo cervicale e ad un pezzo di midollo dorsale in connessione con un fram- mento di torace, e ciò non di meno il respiro delle coste superstiti si mantenne di di altezza normale, sebbene molto rallentato. Chè se a questa esperienza ancora si volesse obbiettare che gli stimoli nervosi potessero giungere al centro respiratorio dai pochi muscoli intercostali e dalle poche fasce tendinee superstiti, questa obbiezione sarebbe destituita di ogni fondamento di fronte alle esperienze di FANno (26) sul respiro delle tartarughe ibernanti. Egli osservò che il respiro di questi animali ha un andamento periodico, e che non viene per nulla modificato nè dall’azione dell’acido carbonico, nè da quella di gaz asfittici, nè, ciò che più importa, da alcun eccitamento periferico. Un centro respiratorio che fun- zioni pur non essendo per nulla eccitabile non può trarre la propria attività se non da processi automatici che avvengono nell’intimità del suo tessuto. In questi ani- mali nei quali il ricambio è lentissimo, i gaz del sangue non esercitano influenza alcuna e il substrato automatico del centro respiratorio si rende più facilmente palese. Con queste esperienze sulle tartarughe ibernanti Fano ha posto per il primo una base sicura alla teoria dell’automatismo bulbare, sostenendo che il centro respi- ratorio possa funzionare indipendentemente dalla sua eccitabilità e da qualsiasi stimolo. È Per i mammiferi il problema è reso più complicato dalla difficoltà di dimostrare che i riflessi artificialmente provocabili, non avvengano anche normalmente ad ogni atto respiratorio. Tuttavia alcune antiche e recenti esperienze dimostrano che molti dei movimenti respiratori che si credettero conseguenza riflessa di altri movimenti, ne sono invece indipendenti. Così, se è vero che alcuna contrazione del diaframma provoca la chiusura delle narici (BAGLIONI (56)), è pur vero che i movimenti respi- ratori delle narici del coniglio si compiono anche dopo i tagli dei frenici. Anche la classica esperienza di Breur-HerING e i resultati di SreranIi e SieHICELLI (66) se sono veri per stimolazioni artificiali delle terminazioni polmonari del vago, provocate da energiche insufflazioni od aspirazioni nei polmoni, non dimostrano che i vaghi abbiano la stessa funzione anche nel respiro normale. Gap (67) aveva già affermato che nessuna fibra inspiratrice del vago viene eccitata durante un’espirazione normale, e ScHENK (68) riconfermò questo fatto dimostrando che soltanto un’espirazione for- zata è capace di provocare per via riflessa un atto inspiratorio. La prova più evi- dente di questo fatto è recata dalle esperienze di LewanpowsKy (69), di ALKocH e SEEMANN (70) e di ErnrHoven (71) i quali raccogliendo e registrando col galvanometro le correnti d’azione del nervo vago, trovarono che esse si svolgono nel respiro 13 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 347 normale soltanto durante l’inspirazione, e che l’espirazione non le provoca se non quando essa è violenta come quella che si ottiene facendo una rapida ed energica aspirazione in trachea. Non si può disconoscere che queste esperienze gettano gravissimi dubbi sulla teoria dell’autogoverno del respiro per opera dei vaghi, e in generale sulle dottrine che vorrebbero metter la funzione del centro respiratorio alla dipendenza esclusiva degli eccitamenti nervosi periferici. Ma noi vogliamo ora gettare uno sguardo sulle prove più dirette della insoste- nibilità di quella dottrina. Un'esperienza molto analoga a quella di Srererr sulla lucertola, fecero StewART e Pre sul cane (72, 73). Invece di produrre l'arresto del respiro e la ineccitabilità dell'animale portandolo in un'atmosfera di idrogeno, essi provocarono questi feno- meni coll’occlusione delle arterie del capo. A capo di pochi minuti il respiro si arresta ed il centro respiratorio diviene ineccitabile per stimoli portati sui vaghi, sul plesso brachiale o su altri nervi di senso. Se a questo punto si riaprono le arterie cefaliche e si permette al sangue di irrorare i centri nervosi, il respiro rico- mincia malgrado persista la ineccitabilità del vago e del plesso brachiale e di altri nervi centripeti. In questo periodo anche il taglio di quei nervi o la separazione del bulbo dal resto dell’encefalo rimane senza effetto. In conclusione il respiro per- mane quando ancora il centro non ha riacquistato l’eccitabilità per stimoli nervosi periferici e questo prova che il centro respiratorio deve essere dotato di potere automatico. Recentemente WinrERSsTEIN (74) portò una nuova prova dell’automatismo del centro bulbare. Egli si valse delle esperienze di DirtLER (75) che avevano dimo- strato con l’aiuto del galvanometro di ErnrHoven l’esistenza di ritmiche correnti lungo i frenici e corrispondenti agli atti respiratori. Tali correnti che rappresentano gli impulsi inviati ai frenici del centro respiratorio, persistono secondo WIxnTERSTEIN anche quando col curare si siano immobilizzati i muscoli respiratori di un coniglio e si sia sospesa la ventilazione polmonare. Erano così evitati tutti gli impulsi sen- sitivi che il movimento delle pareti toraciche avrebbe potuto inviare al centro. A dir vero, questa esperienza potrebbe ancora provocare l’obbiezione che gli stimoli possano ugualmente derivare al centro bulbare anche dai muscoli toracici in istato di riposo, e che anche un tale stimolo continuo possa trasformarsi nel centro in uno. stimolo ritmico. In ogni caso l’esperienza di WinrersrEIN nella quale ogni movi- mento respiratorio è abolito e pure il centro funziona in modo ritmico, dimostra tuttavia insostenibile la dottrina di Breur-Hrrine secondo la quale il respiro non ‘sarebbe mantenuto che da un giuoco alterno di moti inspiratori che richiamerebbero per via riflessa moti espiratori e viceversa. La dottrina dell’automatismo del centro respiratorio ha del resto per i mammi- feri la sua piena conferma anche in altre esperienze. Si osservino i tracciati 2 e 3. Si tratta di un cane al quale sono stati recisi i vaghi da pochi minuti e al quale con un soffietto vien fatta la ventilazione artificiale dei polmoni con un ritmo molto più rapido di quello del respiro normale. L'esperienza dimostra che non solo non si produce l’apnea, ma che il respiro spontaneo continua malgrado i movimenti impressi al torace dalla ventilazione artificiale, e a questi si impone per modo che ne risulta chiara l'impronta nel tracciato. Quale più evidente dimostrazione che il centro respi- 348 CARLO FOÀ 14 ratorio funziona del tutto indipendente dagli stimoli nervosi recatigli dalle pareti toraciche ? Se così non fosse, potrebbe il centro non risentire l'influenza di stimoli che per opera della ventilazione artificiale gli giungono con ritmo tanto diverso dal normale? Esso invece conserva inalterato il proprio ritmo, anche se la ventilazione artificiale polmonare viene per lungo tempo praticata (fig. 3). Passiamo ora ad un’altra serie di esperienze (59) con le quali ho dimostrato possibile ottenere l’apnea ventilando i polmoni di un animale narcotizzato, anche quando sia escluso ogni eccitamento periferico, apnea alla quale ho riservato il nome di apnea da acapnia, perchè essa dipende dalla diminuita tensione dell’acido carbo- J UIAREEGRANEREERa RENE SU Rao ENROSSSRRRULEREOÌ ITFTTIIT nico del sangue. Coloro che spiegano l’automatismo del centro respiratorio e fanno dipendere la sua attività esclusivamente dagli eccitamenti periferici, potrebbero pen- sare che l’acido carbonico sia necessario a mantenere il respiro, solo perchè esso mantenga alta l’eccitabilità del centro respiratorio per gli stimoli nervosi periferici, e che l’apnea da acapnia dipenda da questa eccitabilità diminuita. Questa ipotesi non era difficile da controllare: bastava misurare la eccitabilità del centro respiratorio prima e dopo aver allontanato l’acido carbonico del sangue. Quelle esperienze permettono di concludere che durante l’apnea da acapnia, cioè quando l’acido carbonico sia stato allontanato dal sangue con mezzi che non provo- Fig. 3 chino alcun eccitamento di nervi di senso, la eccitabilità del centro respiratorio per stimoli periferici portati da nervi di senso non viene per nulla modificata. La diminuzione dell'acido carbonico non produce dunque l’apnea perchè abbassi l’eccitabilità bulbare per gli stimoli nervosi periferici, ma per un'azione diretta che essa esercita sul centro respiratorio. Se dunque il respiro può arrestarsi quando nè quegli stimoli nè l’eccitabilità bulbare sono modificati, siamo indotti a ritenere che gli eccitamenti periferici non sono sufficienti a mantenere il respiro. Ed ora veniamo a dimostrare che essi ron sono neppur necessari. Tra le prove del- l’automatismo del centro respiratorio vien citata generalmente l’esperienza di RosENTHAL, il quale vide permanere i moti respiratori del naso e della laringe anche dopo aver 15 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO S49 separato il bulbo dal cervello e dal midollo spinale. Ma un’altra esperienza di RosENTHAL (76) pare a me abbia maggior importanza, ed è quella nella quale egli vide permanere il respiro costale dopo aver tagliato i vaghi, separato il bulbo dal cervello, il midollo cervicale dal dorsale, e dopo aver reciso tutte le radici posteriori del midollo cervicale. Questa esperienza non è tuttavia completa, e non tutte le vie sensitive che pos- sono recare eccitamenti al centro respiratorio sono state escluse, poichè non furono recisi il simpatico ed i frenici, e per la stessa ragione riuscì incompleta l’esperienza quale venne ripetuta da MarkwaLD (76°). L'azione esercitata sul respiro dal frenico è ben nota; quella che può esercitare il simpatico è stata messa in evidenza da HaxBureER (77). Era dunque necessario completare l’esperienza di RosentHAL esclu- dendo anche queste vie sensitive, ed è quanto io potei fare con buon resultato, prendendo per la gravissima serie di operazioni, quelle precauzioni che già RosENTHAL aveva detto esser necessarie, sopratutto quelle di mantener caldo l’animale, di evi- tare le emorragie troppo gravi, e di mantenere una moderata ventilazione polmonare. A due conigli e ad un cane sotto l’azione del cloralio, vennero tagliati i vaghi, il simpatico al collo, i laringei superiori ed inferiori, i frenici, vennero recise le radici posteriori del midollo cervicale, venne separato il midollo cervicale dal dor- sale e il bulbo dal resto dell’encefalo (*). Come si modifichi il respiro dopo ciascuna delle operazioni che ho detto, è descritto in parte da RosenTHAL, in parte ho io stesso descritto (59). Esso non solo è più lento del normale, ma è divenuto fortemente irregolare per ritmo, per profondità e per forma e manifesta due dei caratteri che assumono i movimenti dei muscoli degli arti, dopo il taglio delle radici posteriori corrispondenti : è divenuto atassico ed astenico. Atassico perchè disordinato nel ritmo e nella pro- fondità, astenico per il manifesto sforzo dei muscoli del torace ad ogni atto inspi- ratorio, e per la rapidità con la quale, dopo aver sollevato a stento le pareti toraciche essi ricadono nella posizione espiratoria di riposo. Ma sebbene così profondamente alterato il respiro non si arresta, e questo dimostra chiaramente due fatti importanti: che la funzione del centro respiratorio non è dipendente dagli stimoli nervosi periferici, ma che questi hanno una grande influenza sulla regolarità del respiro. L’azione regolatrice dei nervi sensitivi dell’apparato respiratorio è quella che secondo Luciani (78) obbliga il respiro ad assumere l'andamento “ più adatto a pro- durre col minimo dispendio di energia quel grado di ventilazione polmonare che è sufficiente ai bisogni chimici dell’organismo ,. La regolazione del respiro sarebbe, secondo Lucrani, mantenuta in modo diverso dai gaz del sangue e dall’azione dei vaghi, servendo i primi a regolare la profondità del respiro, i secondi a regolarne la frequenza. Una così netta distinzione non mi pare si possa sostenere, se si ponga mente che l'aumento della frequenza respiratoria prodotta dall’acido carbonico, si produce (*) Resterebbero ancora le vie sensitive intrabulbari del glosso-faringeo e del trigemino, ma, come già fecero osservare MarkwaLp (76 bis) e Luciani (79), questi nervi non sono in eccitamento tonico, e d’altra parte la profonda narcosi è sufficiente a metterli fuori d’azione. 350 CARLO FOÀ 16 nell’ animale sveglio e normale, anche dopo il taglio dei vaghi, purchè si lascino trascorrere alcune ore dopo l'operazione, perchè scompaiano i fenomeni irritativi da essa prodotti. Comunque, è certo che il sistema respiratorio rappresenta nel suo insieme un sistema a regolazione automatica, in quanto sull’ordegno principale e centrale si innestano diversi meccanismi regolatori, che ne rendono perfettamente ritmica e regolare la funzione. Ma da questo concetto di automatismo del sistema respiratorio, noi dobbiamo passare a quello dell’automatismo del centro, poichè è dimostrato che la funzione respiratoria non s’arresta se anche vengano a mancare gli ordegni regolatori estrinseci. Se vogliamo adunque sintetizzare i resultati e le considerazioni che siamo venuti fino ad ora esponendo, diremo che il centro respiratorio è automatico, o, per usare la parola di Gap, è autoctono, che a mantenerne la funzione concorrono condizioni di ambiente, quali tra le altre la presenza di ossigeno, e di una certa quantità di acido carbonico nel sangue che lo irrora, condizioni il cui grado di necessità aumenta coll’aumentare della complessità della funzione respiratoria nella scala zoologica, e che infine sovra la base dell’automatismo bulbare possono innestarsi i meccanismi regolatori rappresentati dagli eccitamenti recati al centro, dai nervi di senso del- l’apparato respiratorio. V. Lo sviluppo delle funzioni del centro respiratorio. Vediamo ora come si evolvano le funzioni del centro respiratorio nelle diverse specie di animali e nello sviluppo dell'individuo. Secondo BABAK l’attività del centro respiratorio è originalmente determinata dal bisogno di ossigeno. Le larve delle libellule respirano tranquillamente fino a che nell’acqua vi è un po’ di ossigeno: se questo viene a mancare, si produce la dispnea; se ve ne è in eccesso, il respiro subisce un arresto, che perdura fino a che l’ossigeno introdotto coi precedenti atti respira- torìî, sia consumato. Nello stesso modo si comporta il centro respiratorio della Sala- mandra, che presiede alla respirazione polmonare, mentre quello che presiede alla ventilazione della cavità boccale non risente i mutamenti dell’ossigeno. La differenza che è fra questi due centri, è pure tra quello della rana adulta e quello della larva di rana. Il primo non risente nè l'eccesso, nè la deficienza dell’ossigeno, il secondo sì. Secondo BagAx la ragione di queste differenze sta nel diverso consumo di ossigeno nell'organismo, in rapporto alla quantità disponibile. Il centro della respirazione boc- cale della salamandra deve funzionare di continuo, e portare l'ossigeno alla mucosa orale che ha funzione respiratoria; il centro della respirazione polmonare non deve funzionare se non quando sono deficienti la respirazione orale e cutanea, cioè quando vi è deficienza di ossigeno. Così la larva di rana che ha bisogno di molto ossigeno e non ne ha molto a disposizione nell’acqua risente l’azione della deficienza, mentre la rana adulta in cui le ossidazioni sono scarse e l'ossigeno a disposizione nell’aria molto abbondante, e 17 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 951 forte la respirazione cutanea, non ha un centro respiratorio dotato di quel mecca- nismo di autoregolazione. Il caso più evidente di un centro che non funziona se non quando la deficienza di ossigeno lo spinge, è quello offerto dal cobytis fossilis, pesce di acqua dolce, il cui respiro venne a fondo studiato da BapAK e Depfk (23) e da CaLuearrANU (80). È questo un animale che possiede due distinti ed attivi sistemi respiratori, uno rap- presentato dai polmoni, l’altro dalla mucosa intestinale. Questo pesce si porta ogni tanto alla superficie dell’acqua, deglutisce un po’ d’aria, poi ritorna sul fondo del vaso e la respirazione branchiale è sospesa. Consu- mata la riserva di ossigeno le branchie cominciano a muoversi ed il respiro branchiale continua fino a che l’animale non deglutisca altra aria, e se questa è ricca d’ossi- geno, l’apnea branchiale può durare molto a lungo, mentre se poco ossigeno è nel- l’aria e nell'acqua, il respiro branchiale diventa dispnoico. La possibilità di un respiro vicariante conferisce al centro respiratorio di questo animale la proprietà caratte- ristica che esso ha comune soltanto con quello delle larve delle libellule e con quello che presiede alla respirazione polmonare delle salamandre: la proprietà cioè di sospen- dere il proprio funzionamento, quando l'organismo abbia ossigeno a sufficienza. To credo che ci troviamo qui di fronte al solo caso conosciuto di apnoea vera nel senso di RosentHAL e di MrrscHER, poichè in tutti gli altri animali il solo eccesso di ossi- geno non basta ad arrestare il respiro. Nè si può più oggi sostenere che la cosi- detta apnea fetale dei mammiferi sia una apnoea vera, e che il primo respiro del neonato sia originato unicamente dal bisogno di ossigeno come RosENTHAL sostenne. Come nello studio sull’apnea sperimentale dell'animale adulto, così in questa dottrina RosentHAL tenne troppo poco in conto l’azione dei nervi di senso sul centro ‘ respiratorio, lo stato di eccitabilità del centro stesso e la tensione dell’acido car- bonico del sangue. Luciani (81) pose la questione dell’apnea fetale nei suoi termini più esatti: “ È certo — egli dice — che se il feto non respira ciò dipende dal fatto che ai bisogni “ fisiologici dei suoi tessuti provvede a sufficienza lo scambio gassoso utero-placen- “ tare; ma bisogna anche ammettere che l’eccitabilità dei centri respiratori sia minore “ di quelli della madre, l’attività dei quali è mantenuta da un sangue che ha lo “ stesso grado di venosità di quello che circola nel feto ,. Come dunque si risveglia da questo stato di attività, il centro respiratorio dopo la nascita? Ricordiamo un’antica esperienza di Burron, che viene troppo di rado citata. Egli sommergeva un feto a termine di cane nel latte tepido o nell’acqua tepida e ne lo estraeva vivo dopo mezz'ora. Portato all’aria respirava e rimesso nel- l’acqua tepida cessava di respirare, ma si manteneva vivo malgrado una nuova som- mersione di mezz'ora, e l’esperienza poteva venir ripetuta più volte sopra lo stesso feto senza che esso morisse. LegALLOIS ripetendo la stessa esperienza sopra animali già nati vide che la resistenza alla sommersione dura sempre meno mano a mano che i giorni procedono e che al 10° giorno essa è minima ed uguale a quella del- l'adulto. Ricordiamo un’altra esperienza di ScHwaARTZ (82) ripetuta da MayER e da ZwrrreL (83): L’asfissia acuta della madre per strangolamento o per introduzione di liquidi in trachea fa diventare scurissimo il sangue della vena ombelicale, e può condurre 392 CARLO FOÀ 18 a morte anche il feto senza averlo fatto respirare, purchè il feto sia mantenuto immerso nel liquido amniotico o nell’acqua tepida. Da queste esperienze potremo noi concludere che l’acido carbonico del sangue non esercita alcuna influenza sul centro respiratorio del feto? Questa conclusione non appare affatto giustificata per l’esperienza di Burron, se si pensa che per la lentezza del ricambio respiratorio del feto, l’acido carbonico si produce nei suoi tessuti in quantità molto scarsa anche se il respiro subisca un arresto di 1/, ora. La prova di ciò è nelle esperienze di ConnsrEIn e Zuntz (84), i quali trovarono che il ricambio respiratorio del feto non rappresenta che la quarta parte di quello dell’adulto (84, 85). HassELBACcH (86) trovò che se la madre col feto emette per Kg. e per ora 509 ce. di acido carbonico, dopo l'asportazione del feto ne emette 462 cc., e che quindi il feto produce una minima quantità di acido carbonico. Quanto alle esperienze sull’asfissia della madre bisogna tener presente che questa produce bensì un forte accumulo di acido carbonico anche nel sangue fetale, ma gli toglie in pari tempo l'ossigeno, il che può produrre nel delicato centro respiratorio fetale, alterazioni così gravi, da renderlo insensibile all’azione dell’acido carbonico. È noto del resto che la morte della madre può produrre quella del feto senza che questa, malgrado il periodo d’asfissia che deve aver traversato, sia stato indotto a respirare. Se dunque alla funzione del centro respiratorio del feto non basta l’acido car- bonico contenuto nel sangue arterioso della madre, non è detto per questo che una maggior tensione di acido carbonico non possa riuscire a farlo funzionare. Alcune recenti esperienze di WinrERsTEIN (45) dimostrano invece tutto l'opposto. Facendo la circolazione artificiale di liquido di RincER nei centri nervosi di un coniglio di 8 giorni di vita, egli vide che la vita dei centri poteva essere a lungo mantenuta, ma che l’animale non respirava se il liquido circolante non teneva disciolta una certa quantità di acido carbonico. Questa esperienza dimostra che l’acido carbonico è neces- sario e sufficiente a mantenere la funzione del centro respiratorio nel coniglio neonato. Vediamo ora che parte spetti agli eccitamenti nervosi periferici nel produrre il primo atto respiratorio. PrevEeR (87) dimostrò che un feto ancora congiunto alla madre, essendo inalterato il circolo placentare, si pone a respirare se, non appena rotti gli involucri, venga esposto all’aria. Questa esperienza è sufficiente a farci ritenere che il primo respiro possa anche essere determinato esclusivamente da un eccita- mento periferico, senza alcuna modificazione del gaz del sangue, ma questo non ci deve far ritenere che il neonato respiri esclusivamente in virtù degli eccitamenti periferici. Se questi possono servire a produrre un primo eccitamento del centro respiratorio, non possono mantenerne a lungo la funzione, perchè, come abbiamo detto, il respiro non si mantiene se il sangue non contiene una certa quantità di acido carbonico. Si potrebbe pensare a tutta prima che l’acido carbonico del sangue serve soltanto a mantenere alta l’eccitabilità per gli stimoli nervosi periferici, e che a questi soltanto sia dovuto il respiro del neonato. Per controllare il valore di questa ipotesi, ho ripetuto l’esperienza di WixrerstEIN sopra feti a termine di coniglio, appena estratti dall’utero e completamente sommersi nell’acqua tepida. Il respiro in questi animali non incominciava se non quando il liquido di RinceR conteneva cigi 19 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 353 acido carbonico, chè altrimenti il cuore continuava a pulsare ma il feto non respirava. In questa esperienza nessun eccitamento agiva sulla superficie del corpo, e l’acido carbonico non poteva agire se non per un’azione diretta sul centro respiratorio. Ma vi è un’altra prova indiretta che l’acido carbonico non induce in attività il centro respiratorio del neonato in quanto ne deve l’eccitabilità riflessa, e questa prova si può trarre dall'esperienza stessa di WINTERSTEIN. Infatti, mentre durante l’apnea basta un leggero pinzettamento di una zampa per provocare oltre ad uno o più atti respiratori, anche numerosi atti riflessi della zampa stessa e di altri muscoli del corpo, quando invece circola liquido di RincER, ricco di acido carbonico, l’eccitabilità riflessa del midollo spinale, diviene estrema- mente bassa, cosicchè gli stimoli prima sufficienti divengono insufficienti. Parrebbe molto strano che mentre tutti i riflessi vengono in tal modo, se non aboliti, certo molto ridotti, proprio l’eccitabilità riflessa del centro respiratorio venisse invece innalzata. Dobbiamo dunque concludere che gli eccitamenti nervosi periferici non sono affatto necessari a mantenere il respiro del neonato. Sulla base delle considerazioni svolte fin qui siamo condotti alla conclusione seguente : Fino a che il feto è nell’utero materno esso non respira perchè nessun eccita- mento periferico lo colpisce, e perchè l’acido carbonico del sangue materno non è sufficiente a determinare l’attività del suo centro respiratorio. Nell’atto della nascita, un po per l’azione eccitante dell’ischemia prodotta dalla compressione del cordone ombelicale, negli atti ecbolici del parto, un po’ in virtù dell’eccitamento portato dall'aria e dai contatti cui il feto è soggetto, il centro respiratorio entra in funzione. Da questo momento divien sempre minore la quantità di acido carbonico neces- saria a mantenere il respiro e, secondo le esperienze di LeGALLOIS, la cosidetta eccita- bilità del centro respiratorio per l’acido carbonico del sangue, raggiunge al 10° giorno quel massimo che si manterrà nell’adulto. Da quel momento l’automatismo del centro. è stabilito. WIE Analisi della funzione automatica del centro respiratorio. Così definita la funzione automatica del centro respiratorio cerchiamo ora di addentrarci nel difficile problema delle origini di tale automatica attività, e non vha dubbio che la via da seguire per compiere questo studio, stia nel ricercare le reazioni chimiche ed i mutamenti chimico-fisici che succedono nell’intimità del centro respiratorio. Che in generale tutte le funzioni dei tessuti traggano origine da reazioni chi- miche si deduce dal loro comportamento di fronte ai mutamenti di temperatura. La legge di Van’'t Horr che stabilisce come muti la velocità di una reazione chimica col mutare della temperatura, fu trovata valevole per moltissimi fenomeni biologici. Essa vale per le correnti protoplasmatiche delle cellule, per il geotropismo delle radici, per le pulsazioni dei vacuoli degli infusori, per lo sviluppo delle uova della rana e degli echinidi, per la contrazione muscolare, per le contrazioni spon- Seere Il. Tow. LXII. ni 354 CARLO FOÀ 20 tanee dei muscoli lisci, per la eliminazione dell’acido carbonico nel coniglio, ed entro limiti abbastanza ristretti anche per la pulsazione del cuore. Anche per il respiro vale la stessa legge, il che venne confermato da SwyDER (88) per il respiro delle marmotte e da RoBERTSON (44) per quello delle rane. La regola di Van'r Horr che permette di distinguere i processi chimici da processi di altra natura, ci fornisce dunque la prova che anche l’attività del centro respiratorio è legata a reazioni chimiche. L’ossigeno senza dubbio deve avere gran parte in queste reazioni e BABAK e Roéeg (89) hanno infatti dimostrato che il coefficiente termico per la frequenza del ritmo respiratorio delle larve di libellule, muta un poco a seconda che l’aria è ricca o povera di ossigeno, essendo uguale in un caso a 1,8, nell’altro caso a 2,2, dal che si deduce che i processi chimici che avvengono nel centro sono diversi a seconda che vi prende parte molto oppure poco ossigeno. L'importanza di questo gaz è pure resa evidente dalle esperienze di RoBERTSON (44) che constatò un forte rallentamento del respiro della rana, in seguito all’applica- zione diretta di agenti riduttori sul centro respiratorio, e un acceleramento per azione di agenti ossidanti. RoBERTSON giunge alla conclusione che l’attività del centro respiratorio dipenda da processi ossidativi, sui quali uno dei prodotti della reazione — l'acido carbonico — agisce come catalizzatore. Noi conveniamo che si tratti di processi ossidativi, ma — come già dicemmo — crediamo che a spiegare l’azione favorevole dell'acido carbonico, sia pure come prodotto della reazione, meglio che l'ipotesi che si tratti di una reazione autocatalitica, valga il considerare l’azione faci- litante che esso esercita sulla permeabilità cellulare in virtù del suo leggero potere lipoidolitico. Ma con questo noi non abbiamo toccato ancora il punto più difficile della que- stione: quello che riguarda il meccanismo per il quale le reazioni chimiche che avvengono nel centro respiratorio diano luogo ad una funzione ritmica. Il ritmo è fenomeno molto più frequente che non si creda nell’organismo vivente, e giusta- mente affermò BorrAzzI (90) che qualsiasi funzione automatica legata al metabolismo cellulare, non possa essere che ritmica, perchè soggetta inesorabilmente con ritmo più o meno frequente, più o meno palese, alle due fasi assimilativa e dissimilativa. Un ritmo è infatti nella contrazione tetanica apparentemente continua, nella fun- zione glicogenetica e glicogenolitica del fegato, nella secrezione dei succhi digestivi e così via. Spesse volte là dove appare a tutta prima un ritmo semplice si tratta invece di due o più ritmi che si sovrappongono, o di un ritmo periodico, come nel- l’avvicendarsi del sonno e della veglia che è un ritmo sul quale si sovrappongono tutte le altre ritmiche funzioni dell'organismo. A questa categoria di ritmi composti appartiene pure quello del centro bulbare, se si tien conto che ogni impulso respi- ratorio non è continuo, ma si rivela ad es. sul nervo frenico come una serie di rapidi impulsi susseguentisi con la rapidità di 60 al 1” (DirtLER). E se queste ritmiche cor- renti d'azione hanno la loro origine nel centro nervoso come alcuni ritengono, esse esprimono altrettanti ritmici mutamenti chimici o chimico-fisici nell'interno della cel- lula, ai quali sarebbe dovuta la funzione del centro, se sussiste per il centro respiratorio ciò che fu trovato per il cuore: che cioè la corrente d’azione precede la contrazione c sarebbe l’espressione più evidente delle attività chimiche che entrano in azione. 21 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 355 Ritmi semplici, ritmi doppi e ritmi periodici sono frequentissimi tra i fenomeni fisici e sarebbe lungo enumerarli tutti. Sono ben noti i due modelli proposti da RosenTHAL (91) e da HERMANN (92) per intendere i fenomeni ritmici dell'organismo, ma essi ebbero un’interpretazione errata. Il modello proposto da RosentHAL è così costituito: un tubo di vetro ver- ticale in cui penetri continuamente acqua, è chiuso alla sua estremità inferiore da una lamina sostenuta da una molla. Questa lamina si abbasserebbe, secondo RosENTHAL, quando il peso dell’acqua vince la resistenza della molla e appena l’acqua è uscita, la lamina tornerebbe a chiudere il tubo. RosenTHAL ne conclude che il ritmo si sta- bilisce quando di fronte ad una sorgente continua di forza sempre crescente si opponga una resistenza pure continua e costante. Ma questa asserzione riposa sopra una osservazione sperimentale errata. OrHRWALD (93) obbietta con ragione che così com'è stata enunciata l’esperienza di RosentHAL non conduce ad alcun ritmo nel deflusso dell’acqua, ma che questa quando ha raggiunto un peso sufficiente apre un poco la lamina e sfugge in modo continuo dalla piccola fessura che si è aperta. Perchè il ritmo si stabilisca, occorre che lamina e vetro vengano a contatto con una superficie larga e liscia per modo che si sviluppi una forte aderenza. La pressione dell’acqua deve allora vincere questa nuova resistenza, la quale non appena vinta cesserà di esistere, e dopo il deflusso dell’acqua, la forza della molla basterà a far risollevare la lamina. La resistenza non è dunque continua e costante, ma periodicamente crescente e decrescente, e questa periodicità è la causa del ritmo. Ugualmente ritmici sono il crescere e lo scomparire della resistenza rappresentata dalla tensione superficiale di un liquido, nello schema di HERMANN che considera il caso di un gaz che gorgogli bolla a bolla in un liquido, o nel caso di un liquido che cada a goccie da un tubo sottile. In questi e in altri numerosi esempi vale la regola che una forza continua può dar luogo ad un effetto ritmico, quando le si opponga una resistenza che varii ritmica- mente di intensità. Un modello elegante e preciso di una siffatta origine del ritmo è nella catalisi pulsante scoperta da BrEDIG (94), ove lo svolgimento delle bolle di ossigeno dall'acqua ossigenata in contatto col mercurio metallico, non è continuo ma ritmico e dovuto al formarsi periodico e al periodico scomparire di una mem- brana di ossido di mercurio. Anche in questo caso lo svolgimento di ossigeno è continuo, ma le bolle non appaiono se non quando la loro forza ascensionale, rompe la esile membrana che cessa così d'un tratto di fungere da resistenza, per riformarsi poco dopo. Anche la scarica oscillatoria dei condensatori dipende da un flusso continuo di energia elet- trica che incontra ritmiche resistenze nell’aria circostante, la quale periodicamente si rarefà e si condensa per opera della scarica stessa. Se due fenomeni ritmici entrano vicendevolmente in rapporto si può formare un doppio ritmo, come avviene in un orologio a soneria in cui distinguiamo il ritmo del pendolo e il ritmo della soneria. Nello stesso rapporto stanno fra loro le con- trazioni dell'atrio di tartaruga con le oscillazioni del tono illustrate da Fano e da Borrazzi. Se invece un fenomeno ritmico è soggetto a periodiche diminuzioni di intensità o addirittura a periodici arresti, si produrrà il fenomeno del ritmo perio- dico, e a questa categoria appartengono il respiro periodico, il periodico aggruppa- 356 CARLO FOÀ 29, mento di contrazioni del cuore, scoperto da Luciani, lo svolgersi periodico delle bolle di un gaz quando esso gorgogli in un liquido ad alto peso specifico (95) e numerosi altri esempi (90, 93). Per giungere a scoprire quali intimi processi succedano nel centro respiratorio, quando esso funziona in modo ritmico o periodico, converrà rifarsi a modelli cono- sciuti, e un primo tentativo in questo senso venne fatto recentemente da Borrazzi (96). Dovremo tener presente la possibilità che accanto al procedere di reazioni chimiche, e accanto al formarsi di veri o falsi equilibri, possono aver una parte importante anche la precipitazione e la ridissoluzione di colloidi, il formarsi o il disfarsi di membrane, il mutare della loro permeabilità, e altri fenomeni chimico-fisici. Malgrado una così grande complessità di fenomeni, il paragonare la funzione del centro respira- torio con altre funzioni ritmiche o periodiche ben conosciute è per ora la sola via che possiamo seguire. Hertz (97) scrive: “ Ein materielles System heisst dynamisches Modell einen zweiten Systems, wenn “ sich die Zusammenhinge des ersteren durch solche Koordinaten darstellen lassen, “ dass den Bedingungen geniigt ist: I° dass die Zahl der Koordinaten des ersten “ Systems gleich der Zahl der Koordinaten des anderen Systems ist; II° dass nach “ passender Zuordnung der Koordinaten fiir beide Systeme die gleichen Bedingungs “ gleichungen bestehen ; III° dass der Ausdruck fiir die Gréòsse einer Verriickung in “ beiden Systemen bei jener Zuordnung der Koordinaten ibereinstimme , [citato da ZWAARDEMAKER (98)]. I fenomeni oscillatori conosciuti nella fisica sono retti dalla equazione diffe- renziale dove y e # designano le variabili del fenomeno; w, p, q sono costanti. Fra i feno- meni che seguono la legge espressa da questa equazione sono: il movimento del pendolo, le variazioni di un pendolo semplice elastico, la scarica di un condensatore elettrico, e il movimento di un liquido in due vasi uniti da un tubo orizzontale molto corto. Le lettere che indicano le variabili e le costanti trovano per ciascuno di questi fenomeni un valore perfettamente determinabile e conosciuto. Gli elementi di questi diversi fenomeni, che si corrispondono tra loro, sono racchiusi nella tabella seguente (99, p. 12): 23 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 957 CosrantI FunzioNI IRE: | dy dy Fenomeno Variabile y | m | q m aI3 TE qu Il == Movimento " | 3 rapporto del compo- di un pendolo È ì massa peso del pendolo forza . nente semplice pesante | allungamento) jg) pendolo alla di inerzia attrito | orizzontale Din in LCA | sua lunghezza del peso resistente | | rapporto Vibrazioni momento della REL) di un pendolo |allungamento| di inerzia forza elastica MO attrito forza : 2 di inerzia elastica semplice elastico del pendolo alla | deformazione Scarica 6 forza forza forza di un carica | GERA l’inverso elettro- contro- elettro- condensatore elettrica | toi di ò della capacità motrice elettro- motrice elettrico AULOICUZIONE di induzione | motrice | Coulomb Movimento di un liquido massa totale rapporto fi n Di "e. orza peso _ In due vasi differenza della del peso totale RAZZE attrito |delliquido riuniti da un tubo| di livello colonna della colonna DEA È E del liquido spostato orizzontale oscillante | alla lunghezza molto corto I principî che determinano la periodicità sono, secondo NeRNsT, l’inerzia, l’au- toinduzione e la metastabilità. Quest'ultima è con tutta la probabilità la causa del ritmo di molti fenomeni biologici, e contribuisce a mantenere la proprietà che essi hanno di sistemi stazio- nari, il cui carattere essenziale è l’autoregolazione, sia che questa porti ad un ritmo semplice, oppure ad un ritmo periodico [W. Osrwarp (100)]. Con lo studio comparato di modelli offerti dalla fisica e dalla chimica potremo forse spiegare il ritmo dei fenomeni biologici, poichè spiegare non è in fondo che uno speciale modo di descrivere, caratterizzato solo da ciò, che in esso noi facciamo più largamente uso, da una parte di processi di comparazione e dall’altra di argo- mentazioni deduttive mediante le quali riesciamo a far rientrare in una stessa cate- goria fenomeni che, a chi li esamini superficialmente, appariscono come affatto diversi e non aventi tra loro alcun legame. Chè se fra questi fenomeni riusciamo a riconoscere un’analogia tanto intima da permetterci di dedurre il loro modo di comportarsi da uno stesso gruppo di leggi generali, noi diciamo di aver trovato una spiegazione dei fenomeni dell’altra classe per mezzo di quelli della prima (102). Dal Laboratorio di Fisiologia di Torino. 358 CARLO FOÀ 24 BIBLIOGRAFIA (1) Lors, Ueder den segmentalen Charakter des Athemzemrums in der Medulla oblongata der Warmbliiter, “ Pfliger's Arch. ,, XCVI, 1903, 566. (2) Ro€ItANsKI, “ Wiener med. Woch. ,, XXX, 1874. (3) ScaRrorr, “ Wiener med. Wocb. ,, COCXXIV, 1875. (4) LancENDORFF, “ Arch. f. (Anat. u.) Physiol. ,, 918, 1880. (5) WertHELMER, “ Journal de l’Anat. et Physiol. ,, 1886, 458-507. (6) Mosso, “ Atti R. Ace. Lincei ,, XII, 585, 1903. (7) ScHIer, “ Gesammt. Beitrige zur Physiologie ,, I, 1-13 e 101, Lausanne, 1894. (8) Gap, “ Arch. f. Anat. u. Physiol. ,, 1893, 181. (9) Kwxotx, “ Sitzungsb. d. Kais. Akad. d. Wiss. in Wien ,, XCVII, 1888, 1. 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A nomenque erit indelebile nostrum. VirGInio Giovanni BarTISTA ScHIaPPARELLI nacque a Savigliano il giorno 14 marzo 1835 dai genitori AnTtoNIO e CATTERINA SCHIAPPARELLI (*); frequentò le scuole elementari, il ginnasio ed il liceo nella città natia e nel novembre 1850 fece l'esame di ammissione alla Classe di Matematica nella Università di Torino. Il 14 luglio 1851 fece l’esame del 1° anno (Algebra — Trigonometria piana e sferica — Geometria analitica — Architettura); il 15 luglio 1852 fece l'esame del 2° anno (Analisi infinitesimale — Geometria descrittiva — Architettura); il 14 luglio 1853 fece l'esame del 3° anno (Meccanica razionale e macchine — Geometria pratica — Ar- chitettura); il 2 Agosto 1854 fece l’esame del 4° anno (Idraulica — Meccanica — Costruzioni — Architettura) e nel giorno 11 dello stesso mese di agosto fece l’esame (£ Vedi nota (@) in fine. Non so per qual ragione il cognome Schiapparelli sia in seguito diventato Schiaparelli. Una sola tra le sue memorie: Le variazioni dell’eccentricità del grand’orbe ed i climi terrestri nelle epoche geo- logiche, presentata al R. Istituto Lombardo il 3 dicembre 1868, è segnata col cognome Sehiapparelli. La famiglia Schiapparelli è di origine Biellese. Serie II, Tox. LXII. u! 62 NICODEMO JADANZA 92 (36) pubblico di INGEGNERE IDRAULICO ed ARCHITETTO CIVILE, ottenendone l'approvazione a pieni voti (*). Uscito dall'Università si diede all’ insegnamento privato delle matematiche ed allo studio delle lingue moderne e dell’astronomia a cui era stato invogliato dal Teologo Dovo che dall'alto del campanile di S. Maria della Pieve in Savigliano gli aveva più volte indicato il modo di procedere alla conoscenza del cielo stellato. A Torino fu allievo di Lorenzo BrLortI (**) che nelle modeste pareti del suo studio privato dava lezioni di matematiche a pochi ma eletti discepoli con efficacia non inferiore a quella dei più celebri professori di Università. Nel novembre del 1856 fu nominato insegnante di matematiche elementari nel Ginnasio di Porta Nuova a Torino, ma nel febbraio del 1857 lasciò quel posto avendo ottenuto dal Governo di essere mandato a Berlino a studiare astronomia sotto la direzione del celebre ExncKE. A Berlino seguì nel 1857 i corsi di astronomia dell’Encke, di meteorologia del Dove, di magnetismo terrestre dell’Ermax, di matematica del WeIERsTRASS, di storia della fisica del Poecenpore. Nel successivo 1858, oltre l’astronomia, studiò mate- matica col KummeR e coll’ArnpT, fisica coll’OÒm, geografia antica e moderna col RirreR e col KIEPERT. Il 14 aprile 1859 fu ammesso all’osservatorio di Pulkova presso Pietroburgo, dove si recò nel giugno successivo a far pratica astronomica sotto la direzione di Orto Struve e di WINNECKE; ivi rimase fino al 31 maggio 1860. Alla fine di giugno 1860 arrivò all’osservatorio di Brera a Milano, dove fin dal 81 agosto 1859 era stato nominato 2° astronomo. Nel 29 agosto 1862 morì Frax- cesco CARLINI direttore di quell’osservatorio e con Decreto dell’8 settembre succes- sivo lo Schiaparelli fu nominato Direttore dell’osservatorio di Brera. Quarant'anni dopo la sua entrata, il 30 giugno 1900, egli si ritirò dalla direzione dell’osserva- torio di Milano. In tale occasione gli astronomi italiani pubblicarono un opuscolo intitolato: All’astronomo G. V. Schiaparelli, omaggio; in esso è narrata con tutti i particolari la storia della sua vita scientifica ed è data la lista completa delle sue pubblicazioni. Il senatore Celoria, degno successore dello Schiaparelli alla direzione dell’osservatorio di Brera, ha completato l’elenco delle di Lui opere fino alla data della sua morte; esso si trova nella magistrale: Commemorazione del Socio senatore Giovanni Virginio Schiaparelli fatta nella seduta del 6 novembre 1910 dalla R. Ac- cademia dei Lincei (***). L’opera scientifica dello Schiaparelli si può paragonare ad un campo ubertoso di frumento le cui spighe ben colme e mature non aspettano altro che la mano del coltivatore che di esse deve nutrirsi. Alcune, che si ergono al di sopra delle altre, sono più appariscenti; son quelle che hanno reso celebre il di Lui nome non solo tra (*) Vedi nota (®) in fine. (#*) Vedi nota (c) in fine. (#**) Nessuno meglio di Giovanni Celoria poteva commemorare più degnamente lo Schiaparelli. Allievo, amico e compagno per una lunga serie di anni, ha potuto, più di ogni altro, conoscerne la vastità e la grandezza della mente. Di qui la ragione di quel culto speciale, che Egli ha sempre dimostrato e dimostra in qualunque occasione si parli dello Schiaparelli. COMMEMORAZIONE 363 = GIOVANNI V. SCHIAPARELLI gli astronomi del mondo intero, ma lo han reso popolare ed universale anche fra la gente mediocremente colta. Mi sia lecito parlare alquanto diffusamente degli argomenti che più di tutto hanno contribuito ad estenderne la fama consultando le stesse sue opere e toglien- done dei brani che sarebbe difficile sostituire con parole diverse da quelle da Lui adoperate. IE Le stelle cadenti (*). # Una fiaccola luminosa appare subitamente in una parte qualunque della sfera “ stellata, rapidamente corre subendo per lo più una costante direzione, e poi si “ estingue, talora scoppiando a modo di razzo, più spesso perdendo per gradi la “ propria luce. Niente si vedeva nel luogo dove la fulgida meteora è comparsa; “ niente è rimasto nel luogo dove cessò. Donde è venuta e dove è andata ? “ Nei tempi, per fortuna quasi interamente passati, in cui si badava poco ai “ fatti, ed in cui con un’abile combinazione di parole si credeva di render ragione “ di qualsiasi più arduo problema, furono fatte eruditissime e vanissime discussioni “ sulla natura delle stelle cadenti. “ Soltanto nel 1798 due studenti di Gottinga, Branpes e BENZENBERG, giunsero “a comprendere che per sapere alcuna cosa intorno ad esse era necessario prima “ farsi un'idea esatta del luogo dove esse appaiono. A nessuno fino allora si era pre- “ sentata l’idea, pur così semplice e naturale, di applicare alla misura della loro “ altezza e della loro distanza quelle medesime regole di geometria elementare delle “ quali fa uso qualunque topografo per determinare la distanza di una torre o l’al- “ tezza di una montagna ,. Dalle loro misure e da altre che sono state fatte in tempi posteriori furono dedotti i seguenti fatti: 1° Che le stelle cadenti si accendono nelle regioni più elevate della nostra atmosfera. 2° Che la velocità loro è la più grande delle velocità di cui si abbia esempio nei corpi materiali terrestri. Tale velocità varia dai 16 ai 72 chilom. al minuto secondo; vi sono dunque meteore che si muovono 200 volte più rapidamente del suono. 3° Che esse cadono effettivamente, cioè piovono dall’alto in basso; e che quindi esse o vengono dagli spazii planetari, o almeno dagli strati più sublimi dell’atmosfera discendono più basso con subitaneo passaggio. 4° Che col loro rapido muoversi nell’atmosfera resistente sviluppano il ca- lore necessario alla loro conflagrazione, e la luce spesso molto vivida che le rende visibili. (*) Cfr. Le stelle cadenti, tre letture di G. V. Schiaparelli Direttore dell’Osservatorio di Brera, con due tayole litografiche (Milano, fratelli Treves editori, 1873), vol. 164 della Biblioteca utile. 364 NICODEMO JADANZA 4 Altri risultamenti più importanti e più fecondi sì sono ottenuti colla guida della Natura stessa ed in prima la frequenza eccezionale, con cui le meteore si mostrano di tempo in tempo. Mentre nelle notti ordinarie un osservatore attento può appena contare 15 o 20 meteore ogni ora, vi sono delle epoche in cui avvengono delle vere piogge meteoriche, durante le quali sì contarono più di 10.000 stelle cadute in un’ora. In seguito fu confermata la nozione della periodicità di tali piogge meteoriche e che il loro ritorno non è legato colle stagioni terrestri e colle vicende dell’atmosfera, ma corrisponde ad una determinata posizione della Terra nella sua orbita; circo- stanza assai più favorevole alla ipotesi che le stelle cadenti siano un fenomeno cosmico, che all'ipotesi opposta della natura terrestre. Oltre questa periodicità, che dicesi annuale, ve ne è un’altra, la quale consiste nel ripetersi del fenomeno dopo un determinato numero di anni. Questi fatti accer- tati condussero all’abbandono della ipotesi della origine atmosferica delle stelle cadenti e si ritenne come cosa dimostrata che esse sono corpuscoli cosmici vaganti negli spazi planetari, i quali incontrando l’atmosfera terrestre con grandissima velocità si accendono in essa, e dopo un periodo brevissimo di conflagrazione si disperdono in vapori od in un pulviscolo impalpabile. Al trionfo completo della ipotesi della origine cosmica delle stelle cadenti giunse opportuna la scoperta della radiazione fatta nel 1833. Nelle grandi piogge meteoriche la maggior parte delle traiettorie prolungate idealmente all’indietro si vanno ad in- contrare in un punto unico o meglio in uno spazio ristretto della sfera celeste; questo punto fu detto radiante e segue la sfera celeste nel suo movimento diurno. Così si pervenne a stabilire che le piogge meteoriche provengono da infiniti corpu- scoli, i quali dallo spazio planetario cadono sopra la terra in direzioni parallele tra loro; essi sono riuniti con maggior densità in certe regioni speciali dello spazio celeste, e piovono sulla Terra quando essa nel suo corso annuale intorno al Sole attraversa la nube da essi formata. La Terra girando intorno al suo asse espone successiva- mente diverse parti della sua superficie alla caduta di tali corpuscoli, i quali ven- gono arrestati dall'atmosfera, e in essa disfatti e dispersi. Variando la posizione dell'osservatore sulla terra potrà. vedere le meteore luminose, ora sul suo capo cadere con grandissima velocità e brevissimo corso, ora penetrare in direzione obliqua negli strati superiori dell’atmosfera e percorrere una lunga traiettoria con minore velo- cità. I radianti sono molti; per le piogge meteoriche che si ripetono a determinate epoche, il radiante è sempre lo stesso e per la sua stabilità serve a caratterizzare una dall’altra le piogge meteoriche, le quali molte volte sono state chiamate col nome della regione del cielo in cui si trova il loro radiante. Così, p. es., le meteore del 10 agosto sono state chiamate Perseidi perchè il loro radiante si trova in prossi- mità della stella 7 di Perseo, quelle del 14 novembre hanno il nome di Leonidi perchè il loro radiante si trova nella testa del Leone. Al prof. Newton di Newhaven spetta il merito di aver additato una nuova via nelle ricerche relative alle stelle cadenti. Egli, nel 1864, consultando diligentemente le antiche narrazioni di piogge meteoriche ed interpretandole rettamente dimostrò che l'apparizione delle Leonidi si rinnova ogni 33 anni ed ; ; nel 1865 fu il primo a stabilire con molta probabilità che le orbite delle meteore non sono prossimamente dat tela vo RE cd I PES I 5 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 365 circolari come quelle dei pianeti, ma che esse si avvicinano a quelle delle comete. Una simile investigazione fatta poco dopo dallo Schiaparelli indipendentemente -dal Prof. Newton condusse ad un risultato più categorico, alla identità cioè delle orbite delle comete con quelle delle stelle cadenti. La Natura ha risposto nel modo più incontrastabile, offrendo in quattro casi meglio determinati e conosciuti altrettante comete recenti e ben determinate che percorrono con quelle pioggie orbite identiche nello spazio celeste. Il primo caso constatato fu la relazione trovata dallo Schiapa- relli tra le Perseidi del 10 agosto e la cometa III del 1862, il secondo, notato dal Peters delle Leonidi del 14 Novembre con la cometa I del 1866, il terzo notato da Galle e da Weiss che accenna ad un legame tra la cometa del 1861 e la pioggia meteorica del 20 aprile; il quarto notato da d’Arrest e Weiss fin dal 1867 riguarda la celebre cometa di Biela e la pioggia meteorica del 27 novembre e che fu splen- didamente confermata dalla celebre pioggia del 27 novembre 1872. Adunque lo Schiaparelli ha dato come cosa molto probabile che: Le correnti meteoriche sono il prodotto dellu dissoluzione delle comete, e constano di minutissime particelle che certe comete hanno abbandonato lungo la loro orbita in causa della forza disgregante mecca- nica che il Sole od i pianeti esercitano sulla materia rarissima di cui sono composte. In altri termini le stelle cadenti non sono altro che polvere o farina di comete. II. Il pianeta Marte. Il 29 aprile 1861 Schiaparelli scoprì il pianeta Esperia, il 69° degli asteroidi. Tale scoperta fu una fortuna per l'osservatorio di Brera; il Ministro della Pubblica Istruzione Carlo Matteucci ed il Segretario generale Francesco Brioschi s’indussero a provvedere quella specola di uno strumento più moderno ed avente un potere ottico più potente di quello che aveva lo strumento con cui era stata fatta la scoperta di Esperia. Nel 1862 fu decretato l’acquisto di un Refrattore equatoriale di Merz di $ pollici d'apertura (218 millimetri). Esso giunse a Milano nel 1865, ma non fu messo a posto che molto tempo dopo, talchè le osservazioni cominciarono soltanto - nel febbraio del 1875 (*). Con tale istrumento nel 1877 furono iniziate le osservazioni sul pianeta Marte. Questo pianeta percorre intorno al Sole un'orbita ellittica il cui semiasse è all’in- circa una volta e mezza quello dell’orbita terrestre. Tale orbita è percorsa presso a poco in 687 giorni; esso perciò può trovarsi a distanze molto differenti dalla terra. Nelle grandi opposizioni cioè quando è alla minima distanza dalla terra si trova distante da questa circa 55.000.000 di chilometri. Ai 5 di settembre del 1877 ebbe luogo una di codeste grandi opposizioni che si rinnovano ogni quindici anni, e fu in tale circostanza che l’astronomo AsapH HALL (#) Cfr. Pubblicazione del Reale Osservatorio di Brera in Milano, N. XXXIII, Osservazioni sulle stelle doppie. Milano, Ulrico Hoepli, 1888. Sulla base piramidale di tale istrumento vi è la seguente iscrizione: PARATUM AERE PUBLICO ANNO MDCCCLXII — C. MATTEUCCI ET F. BRIOSCHI REM LITERARIAM GERENTIBUS. 366 NICODEMO JADANZA . 6 nell’osservatorio di Washington scoprì col cannocchiale avente l'obbiettivo di 02,66 di diametro i due satelliti del pianeta Marte la notte del 17 agosto. “ Io pertanto (è lo Schiaparelli che parla) (*) feci la risoluzione di profittare «“ della grande opposizione del 1877 per esperimentare fino a qual punto, coll’aiuto « del piccolo, ma ottimo refrattore equatoriale della specola di Brera in Milano, si « potesse avanzare le nostre cognizioni sul pianeta. Io desideravo pure di verificare “ per propria esperienza quanto nei libri di astronomia descrittiva si suole narrare «“ della superficie di Marte, delle sue nevi, della sua atmosfera, e delle sue macchie; “e qual grado di fede si meritassero alcune carte del pianeta, che oggi corrono per “le mani di tutti. Io devo confessare, che i primi saggi non furono molto incorag- «“ sianti. Trovai le carte così diverse dalla verità, che per molto tempo non riuscii “ad orientarmi su di esse, e a riconoscere l’identità di alcuno dei loro tratti coi tratti “ corrispondenti sul pianeta. Abbandonai dunque le carte, e cominciai a paragonar le “ mie osservazioni con quelle, che nella ultima grande opposizione del 1862 avevano “ fatto i sommi astronomi Secchi, Kaiser, Lockyer, Dawes, lord Rosse, Lassel, ecc. “ Ritrovai infatti nei loro disegni una parte dei miei; mi convinsi della completa “ stabilità dei contorni e del sito delle regioni da loro e da me delineate; le diffe- “ renze si potevano spiegare nella somma difficoltà delle osservazioni e colle nuvole « di cui or una or l’altra parte del pianeta è ingombra. “ Uno studio più accurato mi fece tosto comprendere, che nei lavori di quegli “ eccellenti osservatori, sebbene in parte fatti con strumenti maggiori del mio, molto ancora si poteva aggiungere e correggere; e da quel punto risolvetti d’intrapren- “ dere sul pianeta il sistema più completo e più preciso d’osservazioni, che mi fosse « possibile di fare col dato istrumento.... » “ Per applicare il calcolo e raggiungere la formazione di una carta veramente “ geometrica occorrono misure, ed io, senza negligere i disegni, mi applicai a quelle come a cosa di prima importanza ,. Così ebbe origine il più gran lavoro che sia stato fatto sul pianeta Marte costi- tuito dalle 7 memorie pubblicate nei volumi della R. Accademia dei Lincei (la prima nel 1878, la seconda nel 1881, la terza nel 1886, la quarta nel 1896, la quinta nel 1897, la sesta nel 1899, la settima nel 1910). Nella memoria prima presentata il 5 maggio 1878 trovasi il planisfero di Marte costruito secondo la proiezione di Mercatore. Codesta carta, frutto di un lavoro pa- ziente e di un metodo rigoroso di osservazione, ebbe un’accoglienza straordinaria nel mondo intellettuale; nessuno degli osservatori che lo precedettero aveva imma- ginato la possibilità di fare una cosa simile. A rendere più popolare lo studio del pianeta Marte pubblicò nel fascicolo XI della “ Nuova Antologia , del 1878 un sunto di quella memoria col titolo: Il pia- R neta Marte ed i moderni telescopi, dove sono riassunte tutte le sue osservazioni fatte sulla costituzione fisica di Marte, che per certi rispetti è tanto analoga e per altri è tanto differente da quella della terra. (*) Cfr. I pianeta Marte cd i moderni telescopi (“ Nuova Antologia ,, fase. XI, 1878). Yi GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 367 «“ Ma lo studio accurato di Marte domanda una potenza ottica assai maggiore di quella che fino ad oggi vi sia stata impiegata. La carta annessa a questo arti- colo, sebbene più copiosa di particolari e più esatta delle altre finora pubblicate, è stata fatta con un istrumento eccellente sì, ma di dimensioni assai modeste..... “ Un altro istrumento più forte avrebbe potuto dare una carta anche molto più esatta “ e più ricca di particolari, mentre coll’equatoriale di Milano un oggetto non può x n “ essere visibile in Marte, se almeno non è grande come la Sicilia, e non se ne può « distinguere la forma, se almeno non uguaglia in misura l'Islanda o Ceylan. Questo “ limite, forzatamente imposto alle mie ricerche, più d’una volta mi ha condotto a considerare, se non vi sarebbe modo di togliere, o almeno di diminuire la troppo “ srande inferiorità nella quale noi osservatori italiani stiamo in confronto delle altre CS “ nazioni progressive, per quanto concerne la potenza degli strumenti destinati a «“ penetrare la profondità dei cieli ,. Ma che cosa si può ottenere con strumenti di maggiori dimensioni? è illimitato il loro potere? che cosa si può sperare di vedere coi più potenti telescopi? “ Sopra questo argomento ho fatto durante le mie osservazioni su Marte un “numero abbastanza grande di esperienze, che mi sembrano concludenti, perchè non “ dipendono da alcuna specie di teoria... ,. - Con un cannocchiale avente l'obbiettivo di 70 centimetri di diametro. Sopra un disco planetario simile a quello di Marte, una macchia oscura in fondo chiaro, o una macchia chiara in fondo oscuro si può ancora distinguere (supposte condizioni perfette nell’istrumento e nell'atmosfera) quando il suo diametro sia ala 1 o B 500.000 della distanza, si può anche aspirare a conoscere in grosso la forma di quella macchia e dire se è qua- drata o rotonda. Questo equivale al vedere un pezzo da 10 centesimi nella distanza di 20 chi- parte della sua distanza; e quando questo diametro arrivi ad lometri nel primo caso e a distinguerne la rotondità nella distanza di 12 + chilo- metri nel secondo caso... In Marte sarà visibile ogni oggetto che giunga a 70 chilometri di estensione, se esso fosse circoscritto in ogni senso. Quando si tratti di linee o di strisce allungate, basta che la larghezza sia la metà delle dimensioni assegnate pel diametro limite sopra detto; cosicchè su Marte un canale di 35 chilometri di lar- ghezza sarebbe visibile. Ogni perfezionamento dell’arte ottica sarà per Marte un nuovo progresso della sua carta, e una nuova fonte di nozioni sulla sua costituzione fisica. Dopo aver accennato ai diversi problemi di astronomia che aspettano la loro solu- zione soltanto dai grandi refrattori dice : “I grandi telescopi di cui sopra si è parlato, sono, e per qualche tempo saranno “ ancora molto rari a cagione del loro costo, che si novera per centinaia di mila “ lire. La moltiplicazione di questi e di altri simili dispendiosi apparati scientifici “ avverrà soltanto quando le nazioni, cessando dallo sprecare il meglio delle loro “ forze nel nuocersi reciprocamente, potranno occuparsi alquanto della loro felicità e € del loro perfezionamento. Allora forse sentiremo parlare un po’ meno di Armstrong “e di Krupp, e un poco più di Herz, di Cooke e di Alvan Clark ,. 368 NICODEMO JADANZA 8 Il giusto desiderio espresso con sì eloquente e modesto dire fu appagato; con l'appoggio efficace dell’Accademia dei Lincei e specialmente del suo Pres. QuintINo SeLLA, il 7 luglio di quell’anno 1878 Re UmBERTO, essendo Ministro della Pubblica Istruzione il De-SAncrIS, sanziona e promulga la legge con la quale Senato e Camera approvano la spesa di Duecento cinquantamila lire per l'acquisto di un refrattore equatoriale con obbiettivo di 49 centimetri di apertura, munito di tutti gli occorrenti accessori, e per il suo collocamento nel R. osservatorio di Brera. ERI Ogni volta che lo consideriamo esso richiama a noi la memoria di quel- “ l’uomo non facilmente dimenticabile, che fu Quintino Sella, ai cui uffici la Specola “ di Milano deve questo suo principale ornamento. La lente obbiettiva, lavorata in “ Monaco da Merz successore di Fraunhofer, ha 49 centimetri di diametro nella “ parte libera; la macchina che porta il telescopio e permette di dirigere con tutta “ facilità in cinque minuti la gran mole verso qualunque punto del cielo, è un “ vero prodigio della meccanica moderna e fu lavorata in Amburgo dai fratelli “ Repsold , (*). Dei due strumenti di cui si è parlato lo Schiaparelli si è servito per la costru- zione della mirabile carta di Marte; l’emisfero australe, che si presenta in condizioni migliori nelle grandi opposizioni, è stato rilevato negli anni 1877-79 con quello di 22 centimetri e coll’ingrandimento 360 o poco più; l’emisfero boreale è stato rilevato con quello di 49 centimetri nelle opposizioni meno favorevoli del 1888 e 1890 con ingrandimento da 500 a 650 ed anche più. Nella carta di Marte si vedono delle macchie oscure che sono state qualificate come mari e delle macchie rosseggianti che sono state qualificate come continenti. L’emisfero boreale del pianeta è quasi tutto formato da continenti, fatta eccezione da un gran lago; l'emisfero australe è un gran mare che è sparso di molte isole e spinge entro ai continenti golfi e ramificazioni di varia forma. La vasta estensione dei continenti è solcata per ogni verso da una rete di numerose linee o strisce sottili di colore oscuro il cui aspetto è molto variabile; sono desse i famosi canal di Marte su cui si è tanto discusso e si discuterà ancora per molti anni, fino a che lo studio diligente e minuto delle loro trasformazioni condurrà alla conoscenza della loro natura. Il fenomeno più sorprendente dei canali di Marte è stata la loro gemi- nazione che consiste nel loro sdoppiamento in due linee o strisce uniformi, per lo più parallele tra loro. L'osservazione delle geminazioni è una delle più difficili e richiede strumenti di grande potenza. Esse sono state vedute da parecchi osservatori, da altri (4) Cfr. G. ScarapareLLi, Il pianeta Marte, nella Rivista “ Natura ed Arte ,, fascicoli 5° e 6° (1° e 15 febbraio 1898). A pag. vi della pubblicazione N. XLVI del R. Osservatorio di Brera: Osservazioni sulle Stelle doppie, eseguite col Refrattore equatoriale Merz-Repsold negli anni 1886-1900 da G. V. Schiaparelli, sì trova, in nota, quanto segue: “ Ricorderò sempre con gratitudine il vivo interesse che per il buon esito di questa cosa mo- “ strarono le Loro Maestà il Re Umberto I e la Regina Margherita; a cui, ricevuto in privata udienza, “ ebbi l’alto onore di spiegare ciò che allora si sapeva del pianeta Marte e di indicare quel molto “ di più che si sperava di saperne dopo le osservazioni fatte col nuovo grande istrumento. Ed avendo “ fatto vedere le mie carte del pianeta dovetti stupire udendomi interrogare dalla Regina sulle pro- “ prietà delle proiezioni stereografica e di Mercator, che io avevo usato nel disegnarle; dalle quali “ interrogazioni appariva, che questo argomento non era nuovo per l’Augusta Signora ,. 9 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 369 sono state negate quali fenomeni reali, sicchè quelli che le hanno osservate sono stati anche tacciati d’illusione. Non è qui il caso di parlare della speranza di poter dimostrare mediante osser- vazioni dirette l’esistenza della vita e dell’intelligenza sul pianeta Marte, che è il solo astro che possa giustificare, fino ad un certo punto, tale aspirazione della mente umana. Passerà ancora molto tempo, si spenderanno ancora somme favolose per costruire telescopi sempre più potenti per spiare se qualche voce di simpatia e di fratellanza possa venire fino a noi dalle profondità cosmiche! Speriamo dunque e studiamo (#). [II. Le stelle doppie. Si dicono doppie o multiple quelle stelle che mentre ad occhio nudo sembrano semplici, osservate con cannocchiali sì trovano essere composte di due e talora di tre e più, vicinissime tra loro, di grandezze talora eguali, talora diversissime. La vicinanza di due stelle può derivare o da un semplice effetto di prospettiva, o da una forza qualunque che le tenga unite; nel primo caso si dicono doppie ottiche, nel secondo doppie fisiche. Lo stabilire se vi sia un tal legame è opera di delicate osser- vazioni e calcoli laboriosi. Fu W. HerscHEL che nel 1802, dopo che ebbe perfezionato i suoi strumenti in modo da poter penetrare più di tutti i suoi predecessori nella profondità del cielo, annunziò al mondo scientifico la grande scoperta: che realmente alcune stelle avevano dei satelliti luminosi che giravano loro attorno in tempi relativamente assai brevi. Assicurata l’esistenza di tali sistemi, lo studio deve rivolgersi a determinare il moto relativo di una stella rispetto alla sua compagna; e nel caso che questo moto relativo sia abbastanza veloce per diventare sensibile alle osservazioni in pochi anni, occorre seguirne le fasi con frequenti misure, onde poter costruire l’orbita che una stella descrive intorno all’altra e determinare il tempo della rivoluzione. Lo Schiaparelli fu attratto allo studio delle stelle doppie specialmente in causa dell’aver studiato sotto la guida di Otto Struve e dall’amicizia col barone Dem- bowski (*). Per coloro che conoscono le sue abitudini di perfezione, di attività per- severante e di attenzione alle più piccole particolarità non è sorprendente che tanto la quantità quanto la qualità del suo lavoro in questo campo lo mettano a pari con Guglielmo ed Otto Struve, con Dembowski, con Burnham come uno dei più grandi osservatori di stelle doppie del secolo decimonono. Circa dodicimila osservazioni di stelle doppie sono state fatte da lui in venticinque anni di lavoro con l’equatoriale di Merz di 8 pollici dal febbraio del 1875 al maggio del 1886 e con l’equatoriale di (*) Chi voglia conoscere quanto finora è stato osservato sul pianeta Marte consulti l’opera: La planète Mars di CamrcLo Frammarion (Paris, Gautier-Villars, 1892). Questo dotto ed immaginoso scrittore si è proposto di togliere alla fantasia dei poeti il problema della pluralità dei mondi abitati, circondandolo di tutto l'apparato scientifico possibile. (**) Vedi nota (d) in fine. Serie Il. Tom. LXIL vi 370 NICODEMO JADANZA 10 Merz e Repsold di 18 pollici dopo il 1886. Nel suo programma di osservazione egli ha sempre incluso i più importanti sistemi accessibili ai suoi strumenti, misurando i più interessanti dieci e perfino quindici volte in un anno. È difficile stimare l'alto valore che questa gran massa di lavoro possiede per gli studiosi delle stelle doppie, valore che crescerà ancora con l’andar del tempo. IV. Mercurio e Venere. “ Per quanto concerne Mercurio e Venere, tutto è ancora da fare; e neppure siamo ben certi della loro rotazione intorno ad un asse qualunque. Quanto si trova indicato sulla loro costituzione fisica nei libri popolari non è tutto fondato sopra osser- vazioni abbastanza degne di fede. Le difficoltà di osservare questi corpi, sono tal- mente grandi, da non lasciar molta speranza per l'avvenire , (#). Le osservazioni dello Schiaparelli su Mercurio furono fatte coi due strumenti di Merz di cui si è parlato precedentemente; con quello di 8 pollici negli anni 1881, 1882 e 1883, e con quello di 18 pollici dopo il 1886. Dalle numerose osservazioni è risultato (contrariamente a quanto era fino allora ritenuto) che Mercurio ruota intorno al Sole presso a poco nello stesso modo che fa la Luna intorno alla Terra, presen- tando cioè al Sole (in generale e non senza qualche oscillazione) costantemente il x medesimo emisfero della sua superficie. La durata quindi della rotazione di Mercurio è uguale a quella della sua rivoluzione siderale cioè a giorni 87,9693 (**). Essa si esegue intorno ad un asse che non si scosta molto dalla perpendicolare al piano dell'orbita. Nel volume XXIII (1890) dei Rendiconti del R. Istituto Lombardo sono state pubblicate 5 note sul moto rotatorio del pianeta Venere. In esse sono state esaminate e discusse le osservazioni fatte dal 1666 (Gian Domenico Cassini) ai nostri giorni per determinare la rotazione del pianeta Venere che è uno dei punti più incerti dell'Astronomia. Da tali discussioni lo Schiaparelli ha conchiuso che : 1° La rotazione di Venere è lentissima ; 2° Dalle poche osservazioni di macchie ben definite sì ottiene come risultato molto probabile che la rotazione si fa in 224,7 giorni, cioè in un periodo esattamente eguale a quello della rivoluzione siderea del pianeta, intorno ad un asse presso a poco coincidente colla perpendicolare al piano dell'orbita. Non è però esclusa una certa deviazione dei veri elementi da quelli su indicati; 3° Rotazioni di periodo poco differente da 24" sono affatto escluse. Le osservazioni di Domenico Cassini si spiegano meglio con un periodo di 224,7 giorni che con la rotazione di 24°. (*) Cfr. ScaraparELLI, Il pianeta Marte ed i moderni telescopi, pag. 27. (**) Cfr. G. V. ScniapareLLi, Sulla rotazione di Mercurio. Nota pubblicata nel N. 2944 delle “ Astr. Nachr. , e nel vol. XIX (1890) delle “ Memorie della Società degli Spettroscopisti italiani ,. ll GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE S71 La rotazione di 23° 21% (o di 23° 22%) proposta da Jacopo Cassini e che gli astronomi Schroeter e De Vico credettero di trovar confermata dalle loro osserva- zioni, è il risultato di una serie di paralogismi e di circoli viziosi. La soluzione esatta e definitiva si otterrà continuando le osservazioni con stru- menti adatti e con diligenza. Ve Lo Schiaparelli fu professore straordinario di Geodesia nell'Istituto tecnico supe- riore di Milano; vi fu nominato nell’ottobre del 1863 e cessò volontariamente da tale insegnamento alla fine del 5° anno (1867-68). Egli ebbe tutte le qualità di un ottimo professore e specialmente l’attitudine a ben esprimere le proprie idee; ma il dover attendere alle lezioni assorbiva molto del tempo che egli voleva consacrare all’astronomia. Ha però molto contribuito ai lavori geodetici fatti in Italia. Nell'ottobre 1864 assistette, a Berlino, in qualità di delegato del Governo ita- liano, alla prima conferenza generale geodetica per la misura dei gradi nell'Europa media insieme al generale Ricci, al colonnello De-Vecchi ed al Prof. Donati; fu nomi- nato membro della Commissione permanente dell’Associazione geodetica internazionale e vi rimase fino all'ottobre 1867. Costituitasi la Commissione geodetica italiana (*), Egli vi prese parte fin dalla prima seduta, che ebbe luogo a Torino dal 3 al 7 giugno 1865. L’ ultima riunione di tale Commissione a cui prese parte lo Schiaparelli fu quella che si tenne a Milano il 26-27 e 28 giugno 1900. Solenne riuscì la chiusura delle sedute. Avendo lo Schia- parelli fatto sapere alla Commissione che il Ministro aveva accolto la domanda di collocamento a riposo e che col 1° novembre venturo avrebbe cessato dalle funzioni di Direttore dell’osservatorio di Milano, il Presidente generale FeRRERO pronunziò commesso le seguenti parole: EereGI COLLEGHI, “ Im questo momento sento il bisogno di esprimere con tutto il cuore i vostri e miei sentimenti di gratitudine, di rispetto e di ammirazione per uno dei nostri “ colleghi, che forma il vanto nostro e che può chiamarsi, a giusto titolo, il fonda- “ tore della Commissione geodetica italiana. Alieno dal mettersi in evidenza, questo «i “ nostro collega nondimeno è stato l’anima della nostra Commissione, i cui presidenti “ si valsero largamente dei suoi consigli. “ Pur partecipando col mondo intero all’ammirazione per il grande astronomo, ho “ la presunzione di esprimere la convinzione che nessuno può aver potuto apprezzare “ più completamente il nostro maestro ed amico, quanto noi della Commissione geo- “ detica italiana, che abbiamo avuto il privilegio, a non tutti concesso, di poter indo- “ vinare ed apprezzare i tesori del suo cuore. () I primi membri della Commissione geodetica italiana furono: il generale Ricci (presidente), il colonnello De-Veccui (segretario), Doxari, De-GAspARIS, SCHIAPARELLI, SCHIAVONI. 3172 NICODEMO JADANZA 12 “ Il Prof. ScHIAPARELLI, per quanta sia la sua modestia, non può ignorare che il “suo nome è scritto a caratteri d’oro nella storia della scienza. «“ In questi giorni questo nostro maestro ed amico sta per compiere quarant'anni “ di luminosa carriera astronomica: ed io vi propongo che noi che l’abbiamo avuto “ per Mentore da oltre trentacinque anni, e che ne abbiamo accettato, con grato e “ devoto animo, i sapienti consigli nell’interesse di una grande impresa scientifica, ci “ procuriamo l’onore di dargli una pubblica dimostrazione dei nostri sentimenti di “ alta ammirazione e di profondo affetto. i “ Chiedo venia al Prof. ScHIAPARELLI se, violentando la sua modestia, domando ai colleghi di chiudere nel miglior modo possibile l’attuale sessione della Com- “ missione geodetica, con esprimergli i sentimenti comuni di affetto e di vene- ES R razione , (*). Queste parole esprimono nel modo più eloquente la convinzione di tutti i com- ponenti la Commissione geodetica nell’attribuire a Lui una gran parte del merito su quanto è stato fatto da essa. Ciò del resto risulta leggendo i verbali delle adunanze di detta Commissione pubblicati dal 1865 al 1900. Le memorie dello Schiaparelli che hanno maggiore attinenza colla Geodesia sono le seguenti : 1° Delle operazioni fatte negli anni 1857-58-64 alla R. Specola di Brera per determinare il rapporto del klafter normale di Vienna col metro legale di Francia e colle pertiche impiegate nel 1788 per la misura della base del Ticino (Relazione pre- sentata all'Istituto Lombardo nell'adunanza del 25 agosto 1864); 2° Relazione sulle operazioni fatte negli anni 1857, 1858, 1864 alla R. Specola di Brera per comparare fra di loro diversi campioni di misure lineari, con alcune riflessioni circa la vera lunghezza della base del Ticino ; 3° Sulla compensazione delle reti trigonometriche di grande estensione (#*) (Nota presentata all'Istituto Lombardo all’adunanza del 28 dicembre 1865); 4° G. V. ScHIAPARELLI e G. CrLorIA, Fesoconto delle operazioni fatte a Milano nel 1870 în corrispondenza cogli astronomi della Commissione geodetica svizzera per determinare la differenza di longitudine dell’osservatorio di Brera coll’osservatorio di Neuchatel e colla stazione trigonometrica del Sempione ; 5° Il movimento dei poli di rotazione sulla superficie del globo (Discorso letto il 30 agosto 1882 al XV Congresso degli alpinisti italiani in Biella); 6° De la rotation de la Terre sous l’influence des actions géologiques (Mémoire présentée è l’observatoire de Poulkova è l’occasion de sa féte semi-seculaire, par J. V. SCHIAPARELLI, St.-Pétersbourg, 1889); 7° Sulle anomalie della gravità (Discorso letto alla Società Italiana di Scienze naturali in Milano, il 1° marzo 1896). (*) Cfr. Processo verbale delle sedute della Commissione geodetica italiana, tenute in Milano nei giorni 5 e 6 settembre 1895 e nei giorni 26, 27 e 28 giugno 1900, pagg. 22 e 23. (**) In questa memoria, intesa a rendere meno penoso l’immane lavoro della compensazione di reti geodetiche molto estese senza perdere molto in esattezza, trovasi la curiosa osservazione seguente: il lavoro necessario alla risoluzione di m equazioni di primo grado con m incognite è (per valori molto grandi di 72) proporzionale ad mì. 13 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 373 Non sarà inopportuno ricordare qui le speciali attestazioni di merito ottenute dallo Schiaparelli da diverse Società scientifiche: 1° La Società italiana detta dei XL assegna allo Schiaparelli una delle due medaglie d’oro istituite col Decreto reale 13 ottobre 1866 per i due autori italiani delle più importanti Memorie di matematiche e di scienze fisiche e naturali di questi ultimi tempi (4 gennaio 1868); 2° L'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia conferisce allo Schiapa- relli la medaglia della fondazione Lalande, per i suoi lavori sulle stelle cadenti (18 maggio 1868); 3° La “ Royal Astronomical Society , di Londra conferisce allo Schiaparelli la medaglia d’oro per le sue ricerche sulla connessione fra le orbite delle comete e delle stelle cadenti (9 febbraio 1872); 4° L’Imperiale Accademia tedesca Leopoldina Carolina dei Naturalisti confe- risce a Schiaparelli la medaglia d’oro Cothenius per i meriti che egli si è acquistato con la sua opera: Note e riflessioni sulla teoria astronomica delle stelle cadenti (81 luglio 1876); 5° L'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia conferisce allo Schiapa- relli il premio Lalande per le sue belle osservazioni sulla rotazione di Mercurio e di Venere (29 dicembre 1890); 6° La Società astronomica del Pacifico, la cui sede è a San Francisco, ha conferito allo Schiaparelli la Medaglia Bruce (*) per segnalati servigi resi all’’Astro- nomia (29 marzo 1902). VI. « ..... l’Astronomia non è una scienza matematica, come volevano gli antichi e “ alcuni moderni ancora vogliono; ma una scienza naturale, la quale come scienza “ naturale vuole essere trattata. L’indole semplice dei suoi problemi la rende più “ accessibile al calcolo, che le altre scienze naturali, e per questo è avvenuto, che “ l’analisi e la geometria hanno riportato nel suo campo così luminosi ed insperati “ trionfi. Ma l’analisi e la geometria qui sono mezzi di studio, non essenza del sapere “ astronomico ; aiuti utilissimi anzi indispensabili, non completa ed unica misura dei “ fenomeni , (**). Così ha definito lo Schiaparelli la scienza da lui prediletta e coltivata con tutto l’ardore di una volontà ferrea che non gli è mai venuta meno fino all'estremo della sua vita. Si rimane meravigliati della quantità e qualità dei suoi lavori sopra argo- menti differenti l’uno dall’altro, ma quando si apprende che Egli aveva l’abitudine di riposarsi cambiando occupazione la meraviglia diventa ammirazione. Questa ammi- razione si prova maggiore quando si legge la serie dei lavori sulla Storia dell’Astro- nomia antica. Chi si accinge a scrivere la Storia dell'Astronomia antica dovrebbe poter leg- gere nella lingua originale i pochi frammenti che son pervenuti fino a noi, poichè (*) Vedi nota (e) in fine. (#*) Cfr. Le stelle cadenti. Tre letture di G. V. ScanapareLti (pagg. 79 e 80). 974. NICODEMO JADANZA 14 le traduzioni fatte nella lingua latina e nelle lingue moderne non sempre sono state fatte da persone competenti e nella scienza astronomica e nelle lingue antiche. Per tal ragione molte volte è accaduto che i traduttori abbiano detto proprio il contrario di ciò che era detto nelle opere originali. Lo Schiaparelli invece si preparò fin dalla giovinezza agli studi delle lingue clas- siche greca e latina ed a quello delle lingue moderne; negli ultimi anni della sua vita studiò anche l’Arabo e l’Ebraico dell'Antico Testamento. Le memorie più importanti sulla Storia dell'Astronomia antica sono: / precur- sori di Copernico nell'antichità, ricerche storiche di G. V. ScHraparELLI (N. II delle pubblicazioni del R. osservatorio di Brera in Milano) (1873). Le sfere omocentriche di Eudosso, di Callippo e di Aristotele (N. IX, idem), 1875. Origine del sistema planetario eliocentrico presso î Greci, 1898 (Memorie del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, vol. XVIII). Quest'ultima non è che un complemento della prima, la quale fu presentata all'Istituto Lombardo il 20 febbraio del 1873 in occasione del 400° anniversario della nascita di Copernico. Lo scopo di essa è detto nelle seguenti parole con cui inco- mincia la memoria: aa; Ho scelto di narrarvi per quali difficili e recondite vie, negli aurei secoli « dell'antica coltura greca, l'ingegno umano tentò di avvicinarsi alla cognizione del “ vero sistema del mondo ; e per quali ostacoli la potenza speculativa degli Elleni, “ dopo d’aver raggiunto il concetto fondamentale di Copernico, non ha potuto traman- “ dare ai nipoti, invece di un monumento durevole, altro che un debole eco di sì ardito “ pensiero. Rammentando questi tentativi degli antichi padri della scienza sulla via “ da Copernico percorsa, e mostrando le difficoltà che in essa incontrarono, si renderà “ maggiore onore a Lui, che seppe vincerle colla sola forza del proprio ingegno ,. Si suol dire ordinariamente che Pitagora fosse il primo a professare il movi- mento della terra o intorno al suo asse, od anche intorno al Sole nello spazio; ciò non è conforme alla verità. Da diligenti studi fatti su documenti antichi dallo Schia- parelli e da altri si può con tutta probabilità assegnare l'ordine seguente al pro- gresso delle cognizioni umane sul sistema del mondo. 1° A Frcovao pa Taranto, vissuto tra il 500 ed il 400 a. C. quando già era stata dispersa la società fondata da Pitagora in Crotona, fu attribuito il sistema cosmico più celebre delle scuole pitagoriche. Esso è il seguente : «“ L'armonia è il fondamento del mondo, o la sola forma sotto cui il mondo “ poteva generarsi. Non esiste che un mondo solo, il quale cominciò a formarsi nelle “ sue parti centrali. Intorno al centro è collocato ciò che egli chiama il fuoco, il “ focolare dell'universo, ecc., dove risiede il principio dell’attività cosmica. “ Il mondo è terminato esteriormente dall’Olimpo, al di là del quale esiste l’in- determinato o l’indefinito. L'’Olimpo è presentato come una sfera cava di fuoco, ed in esso stanno gli elementi in tutta la loro purezza. Or, come dalla mescolanza degli elementi derivano i colori dei corpi, la materia dell’Olimpo e il suo fuoco sono incolori e quindi invisibili. “ Fra la sfera dell'Olimpo e il focolare dell’universo, collocato al suo centro, si muovono in giro dieci corpi divini; primo e più esterno quello che porta le stelle K “ KW “ 15 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE DI 85) “ fisse; poi i cinque pianeti Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio ; indi il Sole “© la Luna, e finalmente la Terra: da ultimo e affatto vicino al fuoco centrale, l’Antiterra. “ L’Antiterra è, come la Terra e gli altri corpi, uno dei corpi divini; è collo- R cata fra la Terra e il fuoco centrale, al quale è costantemente rivolta. Al con- “ trario la Terra guarda sempre verso la parte esterna, cioè verso l’Olimpo ; con “ questa ragione, non essendo in quel tempo ancora molto estese le cognizioni «“ ceografiche, si spiegava perchè dalla Terra non si poteva vedere l’Antiterra. Il “ circolo descritto dalla Terra intorno al fuoco centrale nel medesimo senso che il “ Sole e la Luna (quindi da Occidente verso Oriente), è obliquo rispetto ai circoli A descritti da quei due astri: seguendo il primo l’equatore, gli altri lo zodiaco. Il G giro della Terra intorno al fuoco centrale si fa nello spazio di un giorno: e questa “ stessa condizione, unita all’altra, che la faccia della Terra è sempre rivolta all’in- “ fuori, produce il giorno e la notte e la rivoluzione diurna di tutti gli astri, com- n presi il Sole e la Luna ,. 2° Prarone nel Zimeo ha svolto le sue idee sulla struttura dell'Universo. La Terra sferica ed immobile nel centro dell'Universo è circondata dalle orbite dei sette pianeti, regolati nel loro corso e nelle loro diverse velocità dai motori celesti, formanti parte dell'anima del mondo. Sulla natura però dei loro movimenti, e sul modo di rappresentarli geometricamente si avevano idee vaghe ed indetermi- nate. Pare però che agli ultimi anni della sua vita avesse avuto cognizione delle idee pitagoriche e si fosse convinto della verità del movimento della Terra. 3° EracLipe Pontico (da Eraclea Pontica), uno dei pensatori più profondi e più indipendenti del suo tempo, aveva adottato l'ipotesi della rotazione diurna della Terra; supponeva grandi le distanze degli astri, ed infinita addirittura l’estensione del mondo. Egli sapeva ancora, che in questa ipotesi la durata della rotazione ter- restre, per soddisfare ai fenomeni, non deve essere di un giorno solare esattamente, ma alquanto più breve. Mentre i filosofi che lo precedettero si erano industriati di dare una spiega- zione approssimata dei movimenti celesti con rivoluzioni circolari e concentriche intorno al centro del mondo, Eraclide Pontico fu il primo a riconoscere che per i due pianeti inferiori, Mercurio e Venere, il migliore e più semplice modo di rappre- sentare le fasi osservate era quello di farli circolare intorno al Sole come centro, con periodo uguale a quello della rivoluzione sinodica e nel senso diretto, cioè secondo l'ordine dei segni. Così fu introdotto per la prima volta il concetto di far circolare un corpo celeste intorno ad un altro corpo celeste, girante esso medesimo intorno al centro dell'Universo. Analoghe indagini furono originate per spiegare le grandi variazioni dello splen- dore del pianeta Marte, le quali erano indizio sicuro di corrispondenti variazioni nella distanza del pianeta dalla Terra; si pervenne così ad estendere il sistema di Eraclide Pontico a Marte e quindi agli altri pianeti superiori Giove e Saturno. Tutti i pianeti diventarono satelliti del Sole, descrivendo intorno ad esso le loro orbite secondarie, nel periodo delle rispettive rivoluzioni sinodiche ; il Sole, centro comune a tutti, portava in giro intorno alla Terra sè medesimo e quelle orbite, con periodo di un anno. La Luna conservava la sua orbita geocentrica indipendentemente 376 NICODEMO JADANZA 16 da tutti gli altri corpi celesti. È questo il sistema che fu poi chiamato ticonico dal nome dell’astronomo Ticone Brahe che lo inventò una seconda volta. Il sistema di Eraclide Pontico era però più perfetto perchè ammetteva la rotazione della Terra, mentre Ticone la respingeva. 4° ArIsrARco DA Samo. À raggiungere il sistema Copernicano non rimaneva più che una cosa sola, comprendere eioè, che, dato il Sole per centro dei pianeti, i feno- meni si possono rappresentare egualmente, sia facendo girare il Sole intorno alla Terra immobile (sistema di Ticone), sia facendo girare la Terra intorno al Sole in un circolo obliquo, giacente nel piano dello zodiaco (sistema di Copernico). Tale passo definitivo si compiè ancora durante la vita di Eraclide Pontico, e forse da Eraclide stesso (morì verso il 320 a. C.). ArIstARco pA Samo che visse fra gli anni 310 e 240 a. C. ebbe il vanto non solo di aver riconosciuto l’eccellenza del concetto copernicano, ma anche di averlo adottato come ipotesi sua propria e di averne pubblicata la spiegazione. Le orbite dei pianeti intorno al Sole erano tutte circolari concentriche al Sole, punto centrale dell'Universo, ad eccezione di un solo epiciclo, descritto dalla Luna intorno alla Terra e con essa aggirantesi di moto annuo intorno al Sole. La seconda delle memorie: Le sfere omocentriche, ecc., è una rivendicazione di Euposso da Cnido il quale si era proposto mediante semplici costruzioni geometriche di soddisfare alla domanda proposta da Platone: “ con quali supposizioni di movi- menti regolari ed ordinati si potessero rappresentare le apparenze osservate nel corso dei pianeti ,. Non è qui il caso di esaminare questa memoria, la quale mette in rilievo minu- tamente il sistema delle sfere omocentriche di Eudosso ; voglio soltanto citare due brani coi quali è messa in evidenza la inesattezza delle Storie dell'Astronomia antica di Barry, NonrucLA e DELAMBRE, e la obbiettività e la serenità dei giudizi dello Schiaparelli. agi gli astronomi, che si accinsero a scrivere la storia della loro scienza, non solo si occuparono assai leggermente delle speculazioni degli Jonii, dei Pitagorici “e di Platone: ma di tutti i lavori della scuola di geometria, che fiorì in Grecia “ fra gli anni 400 e 300 a. C., o parlarono inesattamente e succintamente, o tacquero affatto. Eppure in questo intervallo, e prima che cominciasse la scuola di Ales- sandria, si elaborava in Grecia il materiale degli Elementi di Euclide, si inventa- vano e studiavano le sezioni del cono, e si imparava a risolvere i problemi per mezzo della descrizione meccanica di linee curve. Allora fu fatto un grande e memorabile tentativo per rappresentare i fenomeni celesti con ipotesi geometriche, e queste ipotesi furono messe a cimento colle osservazioni, e rettificate ove occor- reva. Da queste investigazioni, a cui non mancò alcuno dei caratteri che costitui- scono una ricerca scientifica nel più stretto senso che i moderni sogliono dare (13 K “ ES questa espressione, era nato il sistema delle sfere omocentriche, per cui tant’alto si levò presso gli antichi il nome di Eudosso da Cnido. Del quale sistema, sebbene non rimanga più alcuna esposizione completa ed ordinata, tuttavia, dai cenni che ne fecero Aristotele ed Eudemo di Rodi, e Sosigene e Simplicio peripatetici, è ancora possibile ricostruire con certezza le linee principali. Ma vedi forza del pre- ES R R giudizio! Eudosso non fu uno degli Alessandrini, e fu anteriore ad Ipparco; perciò 5 D ’ 17 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE SII gli fu negata la qualità di astronomo, anzi anche quella di geometra. Tanta ori- ginalità di concetto, tanta sottigliezza di costruzioni geometriche, tanti ingegnosi sforzi per avvicinarsi al risultato delle osservazioni, tanta ammirazione dei contem- poranei, non trovarono grazia presso coloro che s’incaricarono di narrarci la storia dell'astronomia; e le sfere omocentriche procurarono ai loro autori assai maggior somma di biasimo che di lode ,. E più oltre: n n “ Nella presente memoria io mi sono proposto di completare e di correggere l’opera d'Ideler, e di mostrare infine agli astronomi ed ai geometri quale somma d’ingegnose combinazioni sta nascosta in ciò che ad altri è sembrato ridicolo, o non degno di attenzione alcuna. Noi vedremo messa per la prima volta in chiaro la natura di quella elegante epicloide sferica detta da Eudosso ippopeda, che è il cardine fondamentale di tutto il suo sistema. Investigheremo entro quali limiti di esattezza le ipotesi eudossiane potevano adattarsi a rappresentare le osserva- zioni; e da questo studio ricaveremo qualche luce (sebbene non tanta, quanta si potrebbe desiderare) per conoscere la natura delle riforme che Callippo e Polemarco v’introdussero posteriormente. E comprenderemo ancora la necessità e la ragione di quella grande moltiplicità di sfere, che a torto fu rimproverata da chi non ne intendeva l'ufficio, e che parve cosa degna di riso e di compassione alla nostra epoca, la quale, senza saperlo, nelle teorie planetarie fa uso degli epicicli, a decine e a centinaia, nascondendoli sotto il titolo di termini periodici di serie © infinite. “ Nel prender a meditare su quei monumenti dell’antico sapere, inspiriamoci, o lettore, a quel rispetto ed a queila venerazione che si devono avere per coloro, che, precedendoci in un’ardua strada, ne hanno a noi aperto ed agevolato il cammino. Con questi sentimenti impressi nell’animo ben ci avverrà d’incontrare osservazioni imperfette e speculazioni lontane dalla verità come oggi è conosciuta; ma non tro- veremo mai nulla nè di assurdo, nè di ridicolo, nè di ripugnante alle regole del sano ragionare. Se oggi noi, tardi nipoti di quegli illustri maestri, profittando dei loro errori e delle loro scoperte, e salendo in cima all’edifizio da loro elevato, siamo riusciti ad abbracciare collo sguardo un più vasto orizzonte, stolta superbia nostra sarebbe il credere per questo d’aver noi la vista più lunga e più acuta della loro. Tutto il nostro merito sta nell'essere venuti al mondo più tardi ,. VI. Le ricerche dello Schiaparelli non si limitarono all’astronomia greca; nel 1903 pubblicò l’ Astronomia deli’ Antico Testamento (#), in cui è esposto quanto si è potuto sapere circa le conoscenze degli Ebrei in fatto di astronomia. Il volume si compone di otto capitoli (I. Introduzione; Il. Il Firmamento, la Terra, gli Abissi; III. Gli Astri; IV. Le Costellazioni ; V. Mazzaroth ; VI. Il Giorno e la sua divisione; VII. Mesi (*) Manuale Hoepli, N. 332 (Milano, 1903). Serie II. Tox. LXII. xt 378 NICODEMO JADANZA 18 ed Anno; VIII. Periodi settenari). I primi cinque contengono ciò che è puramente teorico, gli altri tre riguardano le applicazioni alla cronologia ed alle pratiche religiose. Tale ricerca è, per sè stessa, irta di difficoltà per molte ragioni, fra le quali le principali sono: 1° L’indole stessa del popolo Ebreo, che non gli ha consentito di occuparsi dei principii delle scienze ma di dedicarsi soltanto a purificare il senti- mento religioso e di preparare le vie al monoteismo. Assorto dal culto di un Essere Supremo onnipotente, dal cui arbitrio, spesso mutabile, faceva dipendere l’esistenza del mondo e le variazioni di esso, non ebbe mai la concezione che le operazioni della natura materiale si facessero secondo norme invariabilmente stabilite. Di qui una cosmologia semplice, in perfetto accordo colle idee religiose, atta a soddisfare interamente uomini di tipo primitivo, pieni d’immaginazione e di sentimento. 2° L’Antico Testamento è stato opera di parecchi scrittori vissuti in epoche molto differenti, e non sempre aventi del mondo e delle cose celesti un concetto asso- lutamente identico. Il sistema cosmico degli Ebrei è stato rappresentato dallo Schiaparelli nella figura qui annessa; essa è molto propria ad aiutare l’immaginazione del lettore colle seguenti spiegazioni : B N cielo, la terra, gli abissi, secondo gli scrittori dell'Antico Testamento. ABC rappresenta il cielo superiore, A DC il contorno dell’abisso, AE C il piano della terra e dei mari; SS sono diverse parti del mare, EE E diverse parti della terra. In GHG si ha il profilo del firmamento o cielo inferiore, in XK i serbatoi dei venti, in L Li serbatoi delle acque superiori, della neve e della grandine. M è lo spazio occupato dall’aria, nel quale corrono le nubi. In NN le acque del grande abisso, in xxx le fonti del grande abisso. PP è lo Scheol o limbo, Q la sua parte inferiore, l’inferno propriamente detto. Intorno al firmamento si aggirano gli astri e prima il Sole e la Luna, posti, a quanto sembra, a distanze poco differenti l’uno dall'altra. Il loro ufficio era di rego- lare il tempo; e benchè tale ufficio richiedesse una certa regolarità di movimenti e 19 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 379 di periodi, pure non si considerava come impossibile che arrestassero il loro corso od anche tornassero indietro al comando di Giosuè e di altri uomini prediletti da Dio. Al di sopra del Sole e della Luna si estendeva il cielo delle stelle il quale era considerato come qualche cosa di sottile e di flessibile. Il potere di conoscere tutte le stelle, di numerarle e di distinguerle col loro nome era riservato a Dio solo. Le cognizioni astronomiche relative a qualche pianeta ed alle costellazioni principali furono importate probabilmente dai Babilonesi insieme al culto degli astri e ad altre superstizioni; però è merito del popolo Ebreo di aver saputo vedere l’inanità dell’Astro- logia e di tutte le altre specie di divinazione. Presso gli Ebrei il mese incominciava dall’istante in cui la falce luminosa della Luna incominciava a rendersi visibile. Di conseguenza ne derivò che il giorno inco- minciasse colla sera mezz'ora circa dopo il tramonto del Sole. Il principio dell’anno fu primieramente collocato in autunno dopo finite le rac- colte; fu poi trasportato in primavera all’epoca di Salomone. I mesi anticamente avevano nomi speciali e poi tali nomi furono surrogati dai numeri naturali dall'uno al dodici. In epoca posteriore furono adottati i nomi dei mesi adoperati dai Babilonesi. L'istituzione della settimana è stata senza dubbio fatta dagli antichi Ebrei : “ Il suo uso si può rintracciare fino a quasi 3000 anni addietro e tutto fa credere “ che durerà nei secoli avvenire, resistendo alla smania di novità inutili, ed agli “ assalti degl’iconoclasti presenti e futuri. « Gli Ebrei non davano nomi speciali ai giorni della settimana, fuori che al Sab- « bato, il quale era considerato come l’ultimo dei sette, come ben si conviene al “ riposo, che deve succedere al lavoro ,. Nel 1908 pubblicò due memorie aventi per titolo: I primordi dell’ Astronomia presso i Babilonesi (#) ed I progressi dell'Astronomia presso i Babilonesi (#*). “ Dell’aver scoperto e additato alla pubblica attenzione i documenti di ciò che “ veramente può chiamarsi Astronomia babilonese il merito è dovuto principalmente « al celebre assiriologo Padre Srrasswarer della Compagnia di Gesù. Questi, esplo- “ rando le copiose collezioni di tavolette raccolte nel Museo Britannico, ne scoprì “ parecchie riempite quasi esclusivamente di numeri, disposti in molte colonne. Non “ tardò a riconoscere in quelle i lungamente desiderati saggi delle osservazioni e “ delle tavole astronomiche, per cui tanto alta si era levata la fama dei Caldei nel «“ mondo Greco-Romano, e che invano si era sperato di trovare a Ninive..... “ Strassmaier si associò per la parte astronomica il suo compagno P. EpPine, e « dal loro comune lavoro uscì nel 1889 il primo saggio delle loro interpretazioni, “ sotto il titolo Astfronomisches aus Babylon, e fu per gli storici e per gli astronomi “ una vera rivelazione ,. Dopo la morte di Epping fu dato dai Superiori dell'Ordine l’incarico di prose- guire le ricerche al P. Kverer che seppe rendersi capace di trattare tutta questa spinosa materia come astronomo e come assiriologo. Egli ha già pubblicato due lavori (£) Cfr. 5 Rivista di Scienza, Scientia ,, vol. II, anno II (1908), pag. 213. (#5) Id., vol. IV, anno II (1908), pag. 24. lo) 380 NICODEMO JADANZA 20 uno nel 1899 sui principali sistemi di calcolo lunare usati dai Babilonesi, l’altro nel 1907 relativo allo studio delle tavole planetarie. “ Qui tutto è nuovo; ovo appena cavato dalla miniera, e già perfettamente “lavorato e lucente. Il P. Kugler è ora occupato ad esplorare altre parti del nostro “ argomento: l’astrologia, il calendario, le relazioni intime dell’astronomia e dell’astro- “ logia colla religione e colla mitologia; e colle parti già stampate avrà così com- “ piuto un’opera monumentale , (*). Lo Schiaparelli espone quanto di più interessante è stato pubblicato dai suddetti esponendo le varie fasi delle ricerche astronomiche presso i Babilonesi, che si possono ridurre a due periodi separati dalla catastrofe di Ninive (607 a. C.). Nel primo periodo le cognizioni erano poche; si riducevano ad una conoscenza approssimata della via del Sole cioè della linea percorsa dal Sole tra le stelle in un anno, ad osservazioni di alcuni pianeti e specialmente di Venere. Era però conosciuto con notevole grado di precisione il moto medio della Luna e gli osservatori erano giunti a trovare qualche espediente per arrivare, con qualche buon successo, alla previsione di eclissi lunari. In quel paese aveva preso uno sviluppo enorme ogni specie di superstizione divinatoria. L’Astrologia (e quindi l’Astronomia) non fu che un ramo particolare di scienza divinatoria. Ai fenomeni celesti fu data speciale attenzione appunto perchè erano osservabili sopra un gran tratto di paese e ciò dava occasione di trarre pro- nostici di effetto più generale. Nel secondo periodo, che si è svolto non indipendentemente dalla influenza elle- nica, gli Astrologi Babilonesi hanno proseguito le osservazioni sul Sole, sulla Luna e sui maggiori pianeti ed hanno calcolato empiricamente i loro movimenti, sicchè non era difficile predire le eclissi di Luna ed i luoghi di alcuni pianeti. Le loro cognizioni geometriche erano però molto limitate e non si elevavano all’altezza di quelle dei Greci. Dopo le conquiste di Alessandro il Grande, si misero a contatto i vecchi ed indefessi calcolatori ed osservatori Babilonesi col genio filosofico dei Greci; e “ dall'unione dei tre elementi: osservazione, teoria speculativa, calcolo, nacque “ nella scuola di Alessandria l’edifizio dell’Astronomia geocentrica, che dominò in “ Oriente ed in Occidente tutte le scuole fino ai tempi di Copernico. “ Sommando in breve ogni cosa, diremo che il vero merito dei Babilonesi fu di “ avere, coll’osservazione assidua e coll’arte di calcolo, stabilito sotto forma empi- “ rica le prime basi di un’Astronomia scientifica. Partendo da questa, i Greci crea- “ rono l’Astronomia geometrica, cioè la descrizione dell’ordine e delle forme dei “ movimenti celesti. Questa ebbe il suo culmine e la sua perfezione in Copernico ed “in Keplero; dopo del quale, Newton, partendo dai principii meccanici di Galileo, insegnò a derivare tutte le leggi di tali movimenti da una causa fisica, la gra- » “ vitazione. ; “ Quest’Astronomia meccanica sembra ora giunta al suo compimento, quanto ai “ principi; ma nell’applicazione rimane lunga via a percorrere, perchè si tratta non “ più del solo sistema planetario solare, ma di tutto il sistema stellato. Problema (*) Cfr. F. X. KueLer, Sternkunde una Sterndienst in Babel. Minster, Aschendortf, 1907 e segg. 1 00 Qi GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 9 “ formidabile di cui appena adesso cominciano a determinarsi le prime linee. A «“ questo terzo stadio si è di già aggiunto il quarto, l’Astronomia fisica, che degli “ astri indaga la composizione chimica e le proprietà fisiche. Al principio di questa “ scala stanno sul primo gradino i calcolatori intrepidi, i vigili assidui delle Specole “ di Babele e di Borsippa, di Erech e di Sippara, di Ninive e di Nippur. Onore a “ voi, padri antichi della nostra scienza! “ Onore anche a quei dotti e pazienti uomini, per cui opera voi risorgete nella “ memoria dei posteri! , (*). VIII. Non alla sola Astronomia lo Schiaparelli dedicò il suo vasto intelletto, ma a molte altre questioni di filosofia naturale. È meritevole di essere ricordato lo scritto che ha per titolo: Forme organiche naturali e forme geometriche pure (#*), dedicato al Prof. Tiro ViewoLi, Direttore del Museo Civico di Storia naturale in Milano. L'origine e lo scopo di tale lavoro si trova nella Prefazione-Dedica, che qui tra- scrivo quasi interamente. “ Dedico a Voi questo opuscolo, che a Voi deve d’essere stato scritto e di “ essere ora pubblicato. L’idea di scriverlo, ben Vi ricorda, me la deste il 22 aprile “ passato in un colloquio, del quale conservo tuttora la più viva e la più gradita ricordanza. “ Si discorreva dell’ordinamento sistematico negli esseri della natura organica. Voi diceste allora che non potevate adottare l'opinione espressa già (colle usate cautele però) da Carlo Darwin, secondo cui tutte le specie della natura animale deriverebbero per evoluzione da un unico tipo. Che consideravate come vera e dimo- “ strata la derivazione di tutte le specie, ma però di ciascuna soltanto nel campo “ proprio dei quattro tipi fondamentali fissati da Cuvier e da Baer. Essere vostra “ intima persuasione che la materia vivente non potesse in origine ordinarsi che “in quelle quattro forme; come le sostanze minerali non cristallizzano in più che “ sette sistemi di figure poliedriche. E concludevate che la causa di tale divisione “ sia da cercare in rapporti necessari della materia vivente con definite forme geo- “ metriche di struttura. “ Colpito da queste riflessioni, Vi confidai allora che da molto tempo anch'io era giunto a congetturare relazioni fra le strutture organiche e quella Geometria, “ che tutto informa il Cosmo, così nel grande come nel piccolo. Considerando l’or- dinamento sistematico che dovunque regna nel campo degli esseri viventi, e le “ correlazioni e connessioni manifeste che si rivelano in ogni parte, io era stato condotto ad assimilare l'insieme delle forme organiche ad un sistema di forme R n I DI D LI (£) Cir. * Rivista di Scienza ,, vol. 4°, 1908, pag. 54. Cfr. anche Gino Loria, l’interessante arti- colo avente per titolo: Giovanni Schiaparelli quale storico dell'antica Astronomia in BreLiornEcA Marnematica (“ Zeitschrift fiir Geschichte der Mathematischen Wissenschaften ,, dritte Folge, X Band, 4. Heft, 15 novembre 1910). (#*) Cfr. il volume della “ Biblioteca Scientifico-letteraria ,, avente per titolo Tiro VienoLi e G. V. ScarapareLti, Peregrinazioni antropologiche e fisiche; Studio comparativo tra le forme organiche naturali e le forme geometriche pure (Milano, Hoepli, 1898). 82 NICODEMO JADANZA 22 I « pure geometriche, nella classificazione delle quali si manifesta in modo anche altrettanto evidente la disposizione logica e la connessione delle singole parti. Io I “ ne avevo concluso, che come in un sistema di forme geometriche l’infinita varietà “ di queste deriva dalla variazione dei parametri (od elementi discriminatori) di “ una medesima forma fondamentale, così possano i tipi organici della natura (o “ almeno di un regno di essa) derivare tutti dalle variazioni di un certo numero di “ elementi discriminatori secondo una formola o legge unica; per modo che alla for- “ mola sian dovuti tutti i caratteri comuni, alla diversità di detti elementi tutti i “ caratteri speciali ed individuali. “ Questa idea Vi parve degna di qualche attenzione, tanto che voleste farne pub- “ blico cenno in una conferenza poco dopo da Voi tenuta nel Museo; e mi esortaste “ vivamente a svilupparla per iscritto. E aggiungeste un benefizio, del quale Vi sarò “ grato in eterno; mi deste cioè a leggere le opere immortali di Carlo Darwin. “ Nuovi orizzonti si apersero alla mia mente; ciò che prima appariva sotto forma “ nebulosa e mal definita, acquistò precisione, consistenza e rigore. Vidi con grata “ sorpresa che quelle mie idee non solo non erano (come da principio sospettavo) “ contrarie alla teoria dell’evoluzione organica; ma che anzi potevano servire forse a sciogliere od almeno a rischiarare diverse difficoltà di questa teoria, davante DI alle quali lo stesso Darwin s’era arrestato ,. Questo scritto si fa leggere volentieri da ogni persona colta e specialmente sarà letto attentamente dai naturalisti, dai quali, come persone più competenti, l’autore attende il verdetto. Se dall'esame risulterà che questo insieme d’ipotesi scientifiche non sarà altro che fumo “ faremo conto che non ne sia stato nulla, e considereremo il tutto come sogno di una notte d'estate , (*). Questa, per sommi capi, è l’opera scientifica di GrovannI VIRGINIO SCHIAPARELLI; essa si è svolta tutta durante il primo cinquantenario della indipendenza della nostra Patria. In quest'ora solenne l’Italia commemora con gratitudine tutti i suoi figli, che in diversa guisa Le fecero onore; chi versando il proprio sangue sui campi di battaglia per espellere il nemico straniero, e chi, meditando e lavorando silen- zioso nei laboratori scientifici per svelare i segreti della natura ed espellere il più temibile dei nemici interni, l'ignoranza. Tra questi lavoratori solitari, e forse in primo posto, va annoverato il sommo astronomo, cui, ora è un anno, si schiuse la tomba nella città di Milano. Il suo nome è scritto a caratteri indelebili sulla volta celeste: ivi gli astronomi del mondo intero lo troveranno nei secoli venturi (#*). Torino. Giugno 1911. (*) Alla fine del capitolo IV: Variazioni individuali ed accidentali nei tipi organici, Variazioni correlate. Selezione casuale, Mostruosità, si trova quanto segue: “ .....la presenza di un secondo ele- “ mento »m nella generazione, ha per effetto una tendenza maggiore del tipo a ritornare verso la “ normalità, tutte le volte che se n’è allontanato alquanto. È in certa guisa una forza centripeta, “ che finisce per impedire le grandi deviazioni che le cause accidentali potessero (come nel caso “ precedente) produrre nel decorso dei tempi. E la conclusione definitiva è questa: che a parità di circostanze, nella generazione bisessuale le digressioni dal tipo normale derivanti da cause accidentali “ sono relativamente più difficili a prodursi, e sono contenute in limiti più angusti che nei casì in cui un solo individuo basta all'atto generativo ,. (#*) Il chiarissimo Prof. Borserti Francesco, genero dello Schiaparelli, m'inviò i due ritratti che lo rappresentano all’inizio ed alla fine della sua vita scientifica. Ringrazio l'egregio Collega della R R sua squisita cortesia. 23 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE APPENDICE Nota (a). PARROCCHIA DI S. PIETRO (SAVIGLIANO) Atto di nascita e battesimo. Dagli atti di Nascita di questa parrocchia risulta che il giorno quattordici marzo del mille- ottocentotrentacinqgue nacque da Schiapparelli Antonio e da Catterina Schiapparelli un figlio, il quale fu battezzato il giorno seguente e gli fu imposto il nome di Virginio Gio. Battista. Sottoscritto all'originale M. D. Ruecero BLunpo. P. Parroco Occero D. SEBASTIANO delegato. Savigliano, 15 marzo 1911. Visto: Savigliano, 16 marzo 1911. Il Sindaco M. Virra. Nota (0). REGIA UNIVERSITÀ DI TORINO Addì 11 del mese di Agosto 1854 ed alle ore 10 4/, di mattina nel palazzo della Regia Uni- versità, ivi avanti l’Ill.mo Sig. Comm. Brunari V. Preside della Classe di Matematiche, e dei Sigg. Membri della Classe medesima, si è presentato il Sig. ScniappareLri Giov. Battista da Savi- gliano figlio di Antonino nato il 14 marzo 1835 per prendere l’esame pubblico di Ingegnere idraulico ed Architetto civile, al quale esame è stato ammesso essendo munito degli opportuni requisiti. Il candidato fu esaminato verbalmente sull’Idraulica ed Architettura, e per mezzo dei temi propostigli dai rispettivi Sig. Professori, non che sugli argomenti tratti a sorte dall’ Idraulica, Mec- canica, Costruzione e Geometria pratica. Estratti a sorte per argomentare Presenti i Sig. C.e Giulio i Sig. Erba 1° C.e Promis 4 Giulio 2° Richelmy Richelmy 83° Erba Promis 4° Ferrati C.° Menabrea Assenti C.° Talucchi i Sig. B.2° Plana Martini C.° Pollone Bruno Terminato l’esame, dato giusta il prescritto, si è proceduto alla votazione, colla quale il can- didato è stato approvato a pieni voti. Del che Il V. Preside BRUNATI. Spedito il Diploma li 12 Agosto 1854. (Ul) (0.0) Ha NICODEMO JADANZA 24 Nota (c). Lorenzo BrcLorti nacque a Pollone (Biella) verso il 1820 e vi morì il 27 Marzo 1884. Laureato in medicina nell'Università di Pisa, verso il 1845 e tornato in patria, fu assalito da una terribile malattia, l’atrofia muscolare progressiva, che per tutto il resto della vita gli impedì (e in misura sempre crescente) l’uso libero delle membra; restando però sempre intatta la potenza della mente. Così, impedito nell’esercizio della medicina, si diede (1850) in Torino all'insegnamento privato delle matematiche, che aveva appreso da sè insieme alla Fisica durante il suo soggiorno a Pisa, inco- raggiato dal celebre Professore Mossotti. Lo Schiaparelli fu, come ho detto, allievo del Billotti, le cui lezioni non erano accademicamente elaborate, ma erano spiegazioni perspicue e ben ragionate dei problemi proposti, corredate di continue indicazioni istoriche sui progressi anteriori e su ciò che restava a fare per condurre quel dato argo- mento alla sua più desiderabile perfezione. Sotto l'influsso di quella chiara intelligenza e di quella con- vincente parola, le nostre menti si aprivano a poco a poco e quasi senza sforzo alla comprensione delle verità più difficili. La sua matematica non era una scienza astrusa, arida e repulsiva; era semplice- mente il buon senso e la logica comune, applicati allo studio dei numeri e delle figure. Più tardi, aggravandosi il male, si ridusse a Pollone, dove rimase per tutto il resto della sua vita. Quivi elaborò e condusse a termine la Teoria degli Strumenti ottici che fu stampata a Milano nel 1883 fra le Pubblicazioni della Specola di Brera in un grosso volume in quarto. È questo il solo monumento che ci resti di quell'uomo insigne; ma vale per molti. (Da un articolo di ScurarareLti pubblicato a pag. 51 nel libro: Il Biellese, pagine raccolte e pubblicate dalla Sezione di Biella del Club alpino italiano in occasione del XXX Congresso nazio- nale in Biella [Milano, Turati, 1898]). Nota (d). Ercore Dexsowskt (*), figlio del Generale Giovanni Dembowski e di Matilde Viscontini, nacque in Milano il 12 gennaio 1812. Rimasto orfano di padre e di madre in età ancora immatura, entrò a 13 anni nel Collegio della marina austriaca a Venezia: dal quale uscito, prese parte durante alcuni anni a diverse crociere nel Mediterraneo, per difendere il commercio dai pirati che lo infe- stavano ancora in quel tempo. Più tardi fu destinato a diversi viaggi in America ed in Oriente. Nel 1843, in età di 31 anno, dava le sue dimissioni dal servizio della marina austriaca. Rientrato nella vita privata, egli si stabilì a Napoli, e sciolto da ogni impegno profittò della sua libertà per completare la sua istruzione scientifica e letteraria. In Napoli attese più seriamente che prima non avesse fatto agli studi astronomici, giovandosi principalmente degli aiuti e dei con- sigli di Don Antonio Nobile, astronomo dell’Osservatorio di Capodimonte [marito della celebre poetessa Giuseppina Guacci]. Stabilitosi nel villaggio di San Giorgio a Cremano presso Napoli, alle falde del Vesuvio, vi costruì una piccola Specola nella quale pose un telescopio di 13 centimetri e mezzo di apertura del costruttore Plòssl di Vienna. Con tale istrumento Dembowski nel 1851 intraprese una serie di misure sulle stelle doppie, che continuò fino al 1858. Avendo abbandonato Napoli per tornare a Milano, ordinò a Merz di Monaco un Refrattore equa- toriale dell'apertura di 19 centimetri, munito di micrometro completo, e mosso da meccanismo parallattico: indi scelta a piccola distanza da Gallarate sopra un'eminenza una posizione amena e comoda, vi edificò un secondo Osservatorio, di cui quel Refrattore era il principale istrumento. Colà, libero, padrone di tutto il suo tempo, e non soggetto ad alcuna delle infinite vessazioni che distur- bano chi coltiva la scienza per incarico ufficiale, ei non visse più che col cielo. Nel 1862 cominciò (*) Da un articolo di Schiaparelli che si trova a pag. 65 e seguenti del periodico: La Natura, Rivista delle Scienze e delle loro applicazioni alle industrie ed alle arti, diretta da Paolo Mante- gazza, vol. 1°, 1° sem. 1884 (Milano, fratelli Treves editori). 25 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 385 e continuò per 17 anni quella colossale serie di osservazioni sulle stelle doppie, che è finora unica nell'Astronomia e che non sarà sì presto superata. Il grado di perfezione da lui raggiunto appena è uguagliato (seppure lo è) dai risultati ottenuti con strumenti di gran lunga maggiori dai più abili osservatori posteriori. Questo suo gran merito come osservatore fu da lui medesimo completamente ignorato; tanto fu eccessiva la sua modestia che egli non pensò a dare in luce la ricca collezione delle sue osser- vazioni. Pochi frammenti pubblicati nelle © Astronomische Nachrichten , bastarono a fare, che al Dembowski fosse aggiudicata nel 1878 la medaglia d’oro, che la Società Astronomica di Londra suole concedere ogni anno ad uno fra quelli che con recenti lavori meglio meritarono dello studio dei cieli. Dopo breve malattia morì il 19 gennaio 1881 in età di anni 69, dei quali consacrò 30 intie- ramente allo studio delle stelle doppie. T due strumenti fatti tanto celebri dai suoi lavori furono acquistati dal Ministro della Pubblica Istruzione, quello di Plòssl per l'Osservatorio del Collegio Romano e quello di Merz per l’Osserva- torio dell'Università di Padova. Gli eredi del Dembowski fecero dono all'Osservatorio di Brera di tatti i registri e dei giornali di lui, colla sola condizione che se ne ricavasse tutto il possibile vantaggio per la scienza. La R. Accademia dei Lincei pubblicò le osservazioni del Dembowski sotto il titolo: Misure micrometriche di stelle doppie e multiple fatte negli anni 1852-1878 dal Barone Ercole Dembowski. Tale pubblicazione fu curata da Otto Struve e G. V. Schiaparelli (Roma, Salviucci, vol. I, 1883; vol. II, 1884). Nota (e). Miss Caterina WoLre Bruce, nata nel 1516 e morta nel 1900 a Nuova York, fu donna di grandi meriti e contribuì largamente a molte utili imprese nel campo della carità, dell'educazione e della scienza. Suo padre, Giorro Bruce, fu un famoso fonditore di caratteri tipografici, ed essa, naturalmente, s'interessava molto all'arte della stampa, da lei definita come l’arte preservatrice di tutte le arti. Era valente pittrice e inoltre possedeva una vasta coltura letteraria. Sapeva il latino, il tedesco, il francese e l'italiano, avendo familiari anche le letterature di questi idiomi. Fondò e dotò larga- mente una biblioteca pubblica a Nuova York, dedicandola alla memoria di suo padre. Sono poi generalmente conosciute le cospicue elargizioni che fece a profitto dell'Astronomia. Molti progetti di ricerche astronomiche sarebbero finiti nel nulla senza il suo pronto e generoso intervento. In totale, le contribuzioni di Miss Bruce a favore dell'Astronomia sorpassano un milione di franchi. I suoi doni non rimasero limitati agli Stati Uniti, ma ne profittarono persone ed instituzioni in Inghilterra, in Germania, in Austria e in Danimarca. Le sue alte benemerenze furono riconosciute con distinzioni speciali: l'asteroide 323, scoperto dal prof. Max Wolf di Heidelberg il 22 dicembre 1891, ricevette il nome di Brucia, e quando più tardi, nel 1898, essa fece dono di un grande equatoriale fotografico al nuovo Osservatorio sul Konigstuhl presso Heidelberg, dove la sezione astrofisica è diretta dal medesimo prof. Wolf, il Granduca di Baden le conferì un'apposita medaglia d’oro. Nel 1897 Miss Bruce elargì un capitale di circa 13 mila lire alla Società astronomica del Pacifico, i cui interessi sono annualmente destinati ad essere convertiti in una medaglia d’oro, in premio di segnalati servigi resi all’ Astronomia. Tale medaglia non può essere data due volte alla stessa persona. (Da un articolo, pubblicato nella Perseveranza il giorno di lunedì 16 giugno 1902, avente per titolo: Nuove Onoranze al Professore Schiaparelli). — ra. u' zi. rio Serre II. Tom. LXII. x! ik del tuo LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) CONTRIBUTO ALLO STUDIO FITOGEOGRAFICO DELL'ALTA PIANURA PADANA MEMORIA Dott. GIOVANNI NEGRI Approvata nell'adunanza del 25 Giugno 1911. 1. Una recente pubblicazione riassuntiva, alla quale ho avuto occasione di col- labo rare, raccomanda lo studio della vegetazione della Pianura Padana troppo tras- curato sin qui, almeno con intenti e procedimenti moderni (1). La presente memoria intende portare un contributo a tale lavoro, illustrando un settore della pianura vercellese, in corrispondenza del quale circostanze di varia natura hanno permessa la conservazione di tratti di vegetazione spontanea influenzata bensì, e senza dubbio profondamente, ma non ancora trasformata dall’azione dell’uomo in modo tale, che non ne traspaiano le linee essenziali della fisonomia primitiva. Le stazioni di questo genere presentano ordinariamente una flora abbastanza varia, che vanta qualche elemento a distribuzione sporadica, qualche specie in posizione eterotopica, qualche esclusione interessante: e nello studio dell’origine e della natura dei terreni sui quali sono stabilite, esse trovano la loro spiegazione, riassumendo abbastanza completamente, su breve area, i tipi ecologici, in complesso non molto numerosi, offerti dalla pia- nura padana alla vegetazione che la riveste. Per tutte queste ragioni pubblico i risultati della minuziosa esplorazione della flora del bosco di Lucedio, sembrandomi che essi possano condurre a qualche conclusione interessante sull’origine degli ele- menti costitutivi della vegetazione padana. ; L’unico lavoro botanico dal quale io abbia potuto trarre dati sulla flora della regione è una nota del Ferraris sulla florula del Crescentinese: del resto, fatta astrazione (1) Lo stato attuale delle conoscenze sulla vegetazione dell’Italia e proposte per la costituzione di un Comitato permanente “ pro Flora Italica ,, per la regolare sua esplorazione. Relazione alla Società italiana per il progresso delle scienze dei Dott. A. Béguinot, Adr. Fiori, A. Forti, G. Negri, R. Pam- panini, A. Trotter, L. Vaccari, G. Zodda; Atti della Seconda Riunione. Firenze, ottobre 1908. 388 GIOVANNI NEGRI 9 dalle flore generali, non rimangono da ricordare che la Flora Aconiensis di Biroli e due vecchie note sulla Flora Vercellese del Cesati nelle quali ho trovato qualche dato di confronto (1). Molto ricco invece è il materiale floristico del quale ho disposto, in parte già conservato nelle collezioni del R. Istituto Botanico di Torino, in parte frutto di ripetute erborazioni personali (1908-1910) e delle comunicazioni dei colleghi ed amici raccoglitori. A loro ed ai proff. 0. Mattirolo, C. F. Parona e F. Sacco, alla cortesia dei quali debbo le comunicazioni di parecchie fra le pubblicazioni consultate, esprimo qui la più sentita ricenoscenza. Di vivi ringraziamenti sono pure debitore alla Amministrazione della tenuta di Lucedio, pel permesso di libera circolazione nella Riserva che ne dipende, favoritomi cortesemente. 2. Nella parte più bassa della pianura vercellese a pochi chilometri di distanza dalla sponda sinistra del Po, che, in questo tratto del suo corso, costeggia la base diru- pata delle colline terziarie del sistema Torino-Valenza, l'uniformità del piano è inter- rotta da una lunga costa sopraelevata la quale, considerata nel suo assieme, si stende, talora poco distinta dalla pianura circostante, dal comune di Monte a quello di Rive, diretta presso a poco da O. ad E. per una lunghezza di circa 27 chilometri ed una larghezza di poco più di due nel suo punto più largo (Trino). La linea di vertice di questa piega della pianura, nota già nei vecchi documenti col nome di Montarolo o col più antico di M. Salio, è rappresentata dalle quote seguenti: Monte 164 m. s/m.; M. Kirie 166; S. Grisante 159; S. Genuario 153; Cascina M. S. Pietro (Favorita) 154; Madonna delle Vigne 183; Cascina Ariosa 158; Op. Grignolio 150; Rive 126. Più chiaramente ci si rende conto dell’ondulazione del suolo procedendo dal Po verso la pianura in senso normale al Montarolo: a) Po (m. 150); Crescentino (m. 154); S. Grisante (m. 154); M. Kirie (m. 166); Lamporo (m. 165); 6) Po (m. 140); Fontanetto (m. 143); Cascina M. S. Pietro (m. 154); C. Apertole (m. 156); c) Po (m. 130); Palazzolo (m. 137); Mad. delle Vigne (m. 193); Lucedio (m. 149); d) Po (m. 126); Trino (m. 130); Montarolo (m. 142); Tricerro (m. 140); e) Po (m. 114); Balzola (m. 119); Torrione (m. 129); Saletta (m. 129); Costanzana (m. 129). Come si vede, è soltanto sul versante padano che la salienza del Montarolo ap- pare evidente in tutta la sua estensione; sul versante vercellese il suo pendìo si confonde gradualmente con quello della pianura. Come poi si rileva dalle cifre ripor- tate, il piano geometrico del Montarolo presenta una generale pendenza nel senso del fiume al quale decorre sensibilmente parallelo. Il territorio appartiene ora a parecchi comuni, Crescentino, Fontanetto, Palazzolo, Trino, Tricerro, Rive: è, nella parte (1) Ferraris T., Florula crescentinese e delle colline del Monferrato, 1° e 2* Contribuzione, “ Nuovo Giorn. Bot. ,, Nuova Serie, vol. VII, N. 4, ottobre 1900 e vol. X, N.4, ottobre 1908. — Biror1 G., Flora Aconiensis, Novara, 1808. — Crsati V., SyWabus plantarum quas in ditione Novariensi lectas ad floram aconiensem offert pro appendice prima, p. 306-312, Linnea X. — In., Die Pflanzenwelt im Gebiete 2wischen dem Tessin, dem. Po, der Sesia und den Alpen, “ Linnaea ,, XXXIII, 1863. Bb) LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 389 piana, tutto occupato da risaie; nella sopra elevata, ridotto, specialmente ai due estremi, a cultura di grano, vite ed anche riso nei punti a rilievo meno accentuato. È solo nella porzione media, in corrispondenza della tenuta di Lucedio e dei terreni della Partecipanza di Trino, che le formazioni boschive perdurano tutt'ora in pro- porzione notevole, estendendosi anzi sul versante vercellese e sulla pianura per un piccolo tratto. Per fissare sul terreno (Carta d’Italia all’1:25000, Foglio 57 1° S. O. Trino) i limiti del presente studio, dirò che l’area in esame è limitata da: R. Canale di Rive (da quota 153 a quota 150), Canale R. del Calussano, Roggia Lamporo-Acqua- nera, Cavo della Regina — ha una forma grossolanamente trapezoidale, un asse maggiore, da quota 153 a C. Brusata, di m. 6500 ed uno minore, da C. Ronchi al confluente di Roggia Lamporo col canale passante per C. Valbischiera, di m. 2925 ed un’area totale di m? 16.500.625. Come si rileva dalla carta, questa superficie è stata (recentemente) invasa dalla cultura risicola per m? 7.210.625, tantochè la parte incolta, comprendente complessivamente i boschi della P. di Trino e quelli delle T. di Lucedio, rimane ridotta a m? 9.290.000. Su quest’area si eleva, sino a m. 182, il vero Montarolo, la superficie occupata dal quale sta racchiusa dalla curva alti- metrica di m. 160 ed ammonta a m? 2.771.875: poco più di un quarto quindi di terreni di costituzione più antica in confronto al rimanente degli incolti, risalenti, in parte almeno, ad una fase più recente. In fine la minima distanza del Mon- tarolo dal Po è di m. 3375, misurati in linea retta dal punto più N. del corso del fiume fra Palazzolo e Trino e la €. Ronchi. Nel basso Vercellese la costa collinosa descritta, rappresenta, almeno nella sua parte media, il Montarolo, e per un certo tratto del piano che le sta a N., un lembo residuo della pianura diluviale anteriore all'ultima grande glaciazione e precisamente di una antica conoide deposta dalla Dora Baltea. A tergo si stende verso Vercelli il diluvium più recente, anteriormente, fra 11 Montarolo ed il Po, l’alluvium antico, mentre il fiume scorre ai piedi della collina sulle proprie recenti alluvioni. A destra ed a sinistra del Montarolo, sino a Monte e sino a Rive, cessando il terreno dilu- viale medio, lo slivello, che sulle carte topografiche figura come un prolungamento della costa. è costituito dal terrazzo fra il diluvium recente e l’alluvium antico; cosicchè, riassumendo, siccome la parte centrale del Montarolo è stratigraficamente sincrona delle barragie biellesi che le stanno a tergo ai piedi della catena alpina, sì può ragionevolmente dire che, dal punto di vista della costituzione del suolo, questo piccolo tratto del basso Vercellese, da questo punto più elevato al greto del Po, distante come ho detto poco più di 3 chilometri, riproduce in piccola scala i varii tipi di terreno della pianura padana (1). 8. Questi dati ci forniscono la spiegazione del comportamento del terreno per rispetto alla vegetazione. Sta anzitutto il fatto che la provenienza dei ciottoli e delle sabbie che costituiscono le alluvioni della pianura vercellese, esclude di per sè la presenza (1) Sacco F., La pianura padana (° Ann. della R. Accad. d’Agricoltura di Torino ,, anno 1900, vol. XLIII). — Prever P. L., I terreni quaternari della Valle del Po dalle Alpi Marittime alla Sesia (© Boll. della Soc. Geologica italiana ,, vol. XXVI (1907), fase. III). 390 GIOVANNI NEGRI 4 in mezzo ad esse di materiale calcare in proporzione apprezzabile. Le ricerche com- piute del resto sul tenore del contenuto calcare nei terreni della pianura piemontese confermano direttamente questa presunzione (1); i campioni di terreno superficiali provenienti dal basso Vercellese, o non contenevano carbonato di calce in quantità determinabile (Fontanetto Po, Trino, Balzola, Rive), o si mantenevano ad un tasso inferiore all’1°/, (Fontanetto altro campione 0,18; Trino 0,28; Balzola 0,19; Villa- nova 0,19). D'altra parte, anche nelle acque scendenti alla pianura dall’arco Alpino corrispondente (2), quelle dei bacini della Sesia e del Cervo possono considerarsi come dolci, quelle della Dora Baltea presentano ad Ivrea, stazione inferiore fra quelle esaminate, una durezza di 7° gradi tedeschi, anche questa poco notevole se si tien conto che il tasso più elevato comportabile col mantenersi di un terreno geloide è già di 5°. Infine le acque assai dure scendenti dalla catena dai colli monferrini vengono intercettate dal corso del Po che corre lungo il lembo estremo e più basso della pianura terrazzata. Senza quindi tener conto dell’azione dilavante complessiva che si verifica in corso della’ degradazione meteorica attuale, anche sui terreni alluviale e diluviale recenti in cui manca la ferrettizzazione, l’aloidismo del substrato è naturalmente e generalmente assai basso. Fatta astrazione dai greti attuali di fiume dotati di flore caratteristiche, l’al- luviale recente, compreso entro il limite del letto di piena delle correnti fluviali, ed anche quello più distante dalle sponde ed elevato sulla falda acquea e sprovvisto ancora di un rivestimento forestale o di cotica erbosa continua, rientra nel novero dei terreni incapaci di fornire al sistema radicale delle piante che vi crescono un apporto notevole o per lo meno permanente di sali osmoticamente attivi (8). Ciò per l’accennata natura petrografica del suolo e per la poca salinità delle acque della falda, quando queste sieno abbastanza superficiali per raggiungere per capilla- rità la zona di espansione della radice; ed inoltre per l’alto grado di permeabilità che rende rapido il passaggio delle acque meteoriche attraverso il terreno col mas- simo di effetto utile pel dilavamento. Nel suolo alluvionale recente, ricoperto di fitte associazioni boschive riparie, entra in giuoco l’azione dell’Rumus nel determinare un substrato di natura caratteristica e ben nota: nelle aree paludose ed acquitrinose sono le proprietà dell’acqua inzuppante e ricoprente il substrato — in questo caso scarsamente aloide — quelle che ne determinano la natura. Infine, in corrispondenza delle aree abbastanza lontane dai corsi d’acqua od elevate sulla falda sotterranea (1) Fino V., Sulla deficienza di calce nei terreni della pianura piemontese (€ Ann. della R. Accad. d’agricoltura di Torino ,, XXXVII, p. 107. Torino, 1892). (2) Porro B., Sulla composizione chimica delle acque dell'alta Valle padana (ibid., parte 1% e 22, XLI, 79; XLIII, 171. Torino, 1898-1900). (8) Per quanto riguarda la spiegazione dei rapporti della vegetazione col terreno, mi sono atte- nuto alla recente teoria edafica del Gola, ed alla terminologia corrispondente; riscontrando, nel- l'ambito delle ricerche attualmente presentate, come già nel corso di altre già pubblicate, la per- fetta corrispondenza dei singoli fatti coi concetti dell'Autore. Cfr. Gora G., Studii sui rapporti fra la distribuzione delle.piante e la costituzione fisico-chimica del suolo (* Ann. di Bot. del prof. R. PrrottA ,, vol. III (1905), p. 455-512). — In., Saggio di una teoria osmotica dell’Edafismo (ib., vol. VII (1910), fasc. II) — In., Osservazioni sopra i liquidi circolanti nel terreno agrario (£ Ann. della R. Accad. di Agricoltura di Torino ,, vol. LIV (1911)). (Citati nel testo: Gola 1°, Gola 2°, Gola 3°). 5 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUOEDIO (TRINO VERCELLESE) 391 abbastanza per non risentirne un'influenza esclusiva, ma non tanto da non conser- vare un certo grado di umidità permanente; inoltre tali per la composizione del suolo, naturalmente od artificialmente commisto di materiale argilloide e d’Rumus, da possedere proprietà assorbenti abbastanza spiccate, le soluzioni circolanti riescono a mantenere una certa costanza di concentrazione molecolare. In questi terreni che sono specialmente quelli precedentemente rivestiti da un mantello vegetale da un tempo abbastanza lungo perchè vi si potesse formare una cotica erbosa continua (Gola 1°), predominano assolutamente piante appetenti una media concentrazione molecolare, ma sopratutto eustatiche, cosicchè al loro sviluppo è necessaria, come qui, una com- posizione prevalentemente acalcica del suolo od una preventiva decalcificazione degli strati superficiali quand’esso sia calcare. Diverse sono le condizioni dei terreni ferrettizzati. Questo processo di altera- zione, che risulta contemporaneamente disgregante e decalcificante, con abbandono di un residuo argilloso e ferruginoso, si è verificato in corrispondenza degli altipiani diluviali i quali, come è noto, sono rivestiti di una formazione di brughiera. In una pubblicazione che data da qualche anno (1) ho già definito le nostre brughiere come formazioni eliofile stabilite su terreno povero: intendendo come tale un substrato nel quale manchino sali solubili tali da elevare sensibilmente la pressione osmotica delle soluzioni circolanti. Le ricerche più recenti del Gola, che già sino d'allora aveva classificato come tipicamente geloide il terreno di ferretto mostrando come per vie diverse un terreno argilloso ed uno ghiaioso potessero condurre alla costituzione di una vegetazione gelicola, permettono di attribuire al terreno di brughiera un nuovo carattere, quello dell’eustatismo (Gola 2°); onde più precisamente la brughiera può defi- nirsi una formazione eliofila su terreno geloide eustatico. Chi conosce un poco però le nostre stazioni brughierose della valle del Po, sa come in esse la formazione di brughiera costituisca soltanto il tipo ecologico domi- nante. Osserva lo Stella che, nella pianura padana, solo su di un suolo del tutto piano è possibile riscontrare il ferretto vergine al disotto della pellicola superficiale del suolo agrario. Ma sugli altipiani diluviali, costituiti da materiali clastici, a superficie meno regolare e rivestiti da una coltre di terreno impermeabile, e quindi tanto più esposto alla erosione meteorica, le acque di scorrimento superficiale determinano ben presto una rete di rivoli e torrentelli che ne rende alquanto più tormentato il piano. Avviene così che, in corrispondenza dei tagli naturali, lo strato superficiale non appare formato da ferretto vergine, ma da una formazione variamente sabbiosa, ghiaiosa, ciottolosa, ferretto tanto più rimestato quanto maggiore è l’accidentalità del suolo. Che, se si esamina in particolare la natura del terreno in corrispondenza delle vallette scavate dai ruscelli, si seorge come la massa clastica del ferretto vergine, dopo essere stata per un certo spessore disgregata dagli agenti meteorici, vien distribuita a seconda della diversa resistenza di trasporto dei suoi elementi, in modo che le parti più fine e sgretolabili tenderanno a guadagnar i punti declivi, le più grossolane a spostarsi il meno possibile dalla sede originaria. “ Basta una leggera infossatura del ter- (1) Necri G., Sulle stazioni di piante microterme della pianura torinese (Atti del Congresso dei Naturalisti italiani in Milano, 1906). 392 GIOVANNI NEGRI 6 reno, scrive lo Stella, per determinare un leggero cappello di terra fine in un’area ghiaiosa: basta un salto di pendenza un po’ forte per determinare, in un’area di terreni medii, lo smagrimento del terreno, che diventa piuttosto ciottoloso; e ciò senza che il carattere generale dell’area cambi effettivamente in modo notevole... , (1). La vegetazione non può tuttavia mancare dal risentirsi di questo semplice cambia- mento. In corrispondenza delle aree ghiaiose si costituisce infatti un substrato ana- statico nel quale le oscillazioni di concentrazione possono condurre addirittura ad una condizione di aloidismo tale, che la brughiera non può più mantenervisi ed è sostituita da una formazione xerofila di gerbido, mentre, nei punti declivi, la filtra- zione dai fianchi della depressione di acque di dilavamento leggermente saline deter- mina o può determinare un aloidismo del substrato che si rispecchia, in grado vario, sulla costituzione del bosco ripario naturalmente igrofilo, ove le specie caratteristiche di brughiera sono soverchiate e talora affatto escluse da altre, più o meno alicole, di piccola mole e conseguentemente eliofobe. Queste le condizioni edafiche generali della regione, le quali possono facilmente essere applicate al caso del Montarolo. Da quanto è stato detto si comprende come l’area ferrettizzata sia quasi esclusivamente limitata alla porzione più elevata del terreno, più precisamente quella racchiusa dalla curva altimetrica 160. Su questo rialzo diluviale l’intensa attività meteorica del clima corrispondente all’ ultima espansione glaciale ha agito, come su tutto l’antico piano alluviale di cui essa è un relitto, degradandone profondamente i materiali costitutivi. Attualmente, come tutti i depositi dello stesso genere, esso presenta una costituzione sabbiosa-ciottolosa: e, come è carattere gene- rale pei depositi piuttosto lontani dalle falde alpine, manca di grossi elementi roc- ciosi. E tutto l’assieme, in seguito a quel complesso di azioni fisico-chimiche che costituiscono il fenomeno della ferrettizzazione, ha assunto una colorazione spiccata- mente ocracea che lo distingue dai terreni della pianura circostante. Nell’una come nell’altra manca, per tutto quanto si è detto, un vero aloidismo: ma si verificano tuttavia nel suolo escursioni abbastanza late fra un eustatismo, che può essere pra- ticamente considerato come assoluto, ed un certo grado di anastatismo. Sul deluvium ferrettizzato ciò sta in dipendenza del rimaneggiamento del ferretto e dell’accennata distribuzione dei suoi materiali, nonchè della denudazione meteorica od artificiale del terreno profondo che il terreno riveste: sul diluvium recente e sull’alluvium non degradati, permeabili e più prossimi alla falda acquea, sono i movimenti di quest’ul- tima quelli che, dall’eustatismo dei terreni inzuppati conducono all’anastatismo dei terreni aridi. Nell'ambito di tali condizioni edafiche generali sono naturalmente comprese le leggere oscillazioni in più od in meno nella statica delle soluzioni circolanti nel terreno, analoghe a quelle che si osservano nelle formazioni corrispondenti di tutta la pianura padana ed hanno piuttosto importanza come fattori determinanti le sin- gole associazioni od anche soltanto il facies differente che un’unica associazione può presentare: fenomeni locali che trovano localmente la loro spiegazione. Nello stesso (1) SveLrA A., Descrizione Geognostico-agraria del Colle Montello (Prov. di Treviso). Mem. descritt. della Carta geologica d’Italia, vol. XI. Roma, 1902, pag. 17. Ud LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 393 modo un'importanza strettamente circoscritta hanno i forti aumenti di aloidismo che si osservano nelle stazioni ruderali, sepiarie, arvensi, stradali, antropiche in genere, i quali naturalmente non mancano neppure in questa regione. 4. Considerazioni edafiche di questa natura stanno alla base di una classifica- zione generale delle stazioni vegetali di una pianura alluviale in genere e della pia- nura padana in particolare. È utile lo stabilire la natura di queste stazioni, anche perchè, in corrispondenza di ciascuna di esse, il clima generale della regione subendo una modificazione caratteristica, il loro riconoscimento costituisce in certo qual modo la premessa necessaria al retto apprezzamento delle condizioni climatiche offerte alla vegetazione. Non credo quindi di allontanarmi dall’argomento ponendone qui il prospetto generale, per riferirmici poi quando si tratterà di assegnare alle stazioni di cui il lavoro si occupa, la loro reale posizione ed importanza. A riscontro delle singole stazioni, che sono disposte secondo una classificazione che è quasi esattamente quella proposta dal Merril (1) per lo sfatticcio superficiale, stanno i gruppi ecologici in cui può distinguersi la vegetazione delle nostre regioni temperate, e per ciascuno di essi è indicata la parte che prende nella costituzione delle singole florule stazionali. Dovendo riunire in gruppi di tal natura la vegetazione della pianura padana, sorge tuttavia la difficoltà di distribuirla nelle categorie proposte sin qui dagli Autori, dato il fatto che esse sono informate a criteri multipli e disparati. Anche la clas- sificazione recentissima proposta dal Warming (2) non va esente da un tale incon- veniente, e già Gola (2. p. II), nel dare una classificazione ecologica dei terreni, ebbe a rilevare l’eterogeneità dei criteri adottativi nel definire ciascuna delle tredici classi proposte. In un lavoro che esce contemporaneamente a questo, il Gola (3) ed io ora pro- poniamo una modificazione alla primitiva (2? ed.) disposizione adottata dal Warming, che ci sembra affatto omogenea e sufficiente a comprendere tutti i casi che si pos- sono presentare, almeno nelle zone temperate e fredde. La distinzione prende le mosse da due gruppi maggiori, determinati dalla presenza o dall’assenza di un eccesso di acqua nel terreno, in conseguenza del quale i processi respiratori di una parte almeno dell’individuo vegetale non possono compiersi se non mediante particolari disposizioni morfologiche che si riassumono nella comparsa, nel caso dell’eccesso d’acqua, di tessuti aeriferi. I rapporti della nostra colla classificazione edafica del Gola (Gola 2°) sono necessariamente molto stretti: alle Idrofite corrispondono le Pedo- idrofite; alle Elofite, comprendenti le due suddivisioni delle Clizofite e delle Spon- gofite, le Pedoelofite; alle Xerofite, le Pedoxerofite. Quanto alle Mesofite, noi le (1) Merrit G.P., Rocks, rock-weathering and soils. Cfr. anche, per qualche dettaglio nelle pagine precedenti e seguenti: Van Hise C. R., A Treatise of Metamorphism (© Monographs of the United States Geological Survey ,, vol. XLVII. Washington, 1904 e Sanarer N. S., The origin and nature of soils (£ Twelfth Annual Report of the U.S. Geol. Survey ,, 1890-91. Washington, 1891. (2) Warmne E., Oecology of plants. An introduction to the study of plant-communities. Oxford, 1909 pag. 136. È noto come VA. abbia in questa terza redazione notevolmente modificata la classificazione adottata nella precedente edizione tedesca (II, 1902, trad. Graebner). i (3) Gora G., La vegetazione del versante piemontese dell’ Appennino settentrionale (“ Annali di Bo- tanica del prof. R. PrrortA ,, in corso di stampa). Serre II. Tox. LXII. È Va 394 GIOVANNI NEGRI 8 distinguiamo, a seconda della insolazione a cui vanno soggette, in Sciafite ed Eliofite, due classi che non trovano nessuna corrispondenza nell’edafismo, essendo determi- nate dalle condizioni dell'ambiente epigeo. Naturalmente poi, in seno alle varie formazioni vegetali comprese in queste classi, l’azione di molteplici fattori ecologici, morfologici e storici determina il costituirsi delle singole associazioni. Le sei classi sono così caratterizzate: 1° Idrofite. Piante immerse o sommerse provviste di tessuto aerifero di gal- leggiamento e di respirazione. 2° EHlofite, Clizofite (da xA55e1v, bagnare, allagare), sommerse per la parte infe- riore e provviste, almeno in questa, di tessuti aeriferi. Terreno prevalentemente mi- nerale, sabbioso o limaccioso, aereazione scarsa o nulla. 3° Elofite, Spongofite (da 07r6yyos, spugna). Piante riunite su di un substrato permanentemente inzuppato, ma non innondato e provviste, nelle parti inferiori almeno, di tessuti aeriferi più o meno sviluppati. Terreno prevalentemente torboso per feltro vegetale vivo o morto: aereazione scarsa. 4° Mesofite, Sciafite (da ox.d, ombra). Piante viventi in terreno umido, ma leggero ed aereato, senza tessuti aeriferi. Apparato aereo sprovvisto di disposizioni difensive contro l’eccesso di traspirazione in quanto questo è ostacolato dalla costante umidità e dalla scarsa insolazione dell'ambiente. 5° Mesofite, EVofite (da i{A0s, sole). Piante viventi in condizioni di ambiente non mai estreme rispetto alla insolazione, temperatura ed umidità dell’aria e del suolo. Questo è aereato e mantiene un certo grado di umidità indipendentemente dalla sua struttura meccanica. 6° Xerofite (da Én96s, secco). Piante viventi in condizioni estreme per rispetto alla insolazione, alla temperatura ed alla secchezza fisica dell’aria, fisica o fisio- logica del terreno. Questo è costantemente aereato e, per periodi anche lunghi, as- solutamente secco, indipendentemente dalla sua struttura meccanica. Premessi questi dati generali, ai quali, come ho detto, dovrò ripetutamente riferirmi in seguito, e che riassumo per chiarezza nella tabella alla pag. seguente, lo studio ecologico del distretto in studio può essere proseguito coll’esame del- l’elemento climatico. 5. Particolarmente delicato è lo studio delle condizioni climatiche. In primo luogo infatti la rete delle stazioni meteorologiche della pianura padana è ben lontana dall'essere nè molto fitta, nè completa e Ie osservazioni provenienti dalle singole fonti non sono tutte in egual grado attendibili, minute ed estese ad un periodo suf- ficiente di tempo. Poi, risalendo anche al tempo della nota discussione del De Candolle sul valore dei dati climatici forniti dagli osservatori meteorologici per la biologia vegetale, poco si è fatto in genere e nulla affatto nel nostro paese nell’indirizzo suggerito dal grande botanico ginevrino. In terzo luogo, quando anche queste condi- zioni fossero adempite; quando pure le ricerche fitogeografiche fossero compiute esclusivamente da botanici stazionarî in grado da completare per conto proprio le osservazioni necessariamente mancanti per località isolate, l'applicabilità dei dati dovrebbe sempre essere considerata come relativa. Per definizione infatti l’associa- zione vegetale è l’espressione di condizioni d'ambiente limitate alla stazione da essa 395 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (ERINO VERCELLESE) QNPrI _ mWwugI INS *pj |e]mns oprsseag —_ i —_ SR e AT Ro A ONIER BURT GA LIÙ —_ QIOOLIO IV Q]OOLIOIY _ — = SERIO SE e a Eee TFT TIA pia] MC TRO OLO enbor p '0ogI ; EMO Ri oo i eaio di oo co o 9 SE TIOISSEUI e]1Op LG, queuseIs | è = = = oprurdanma © i dA 0 0 oe O ta) || I Quegqr. anboy arusvgIs ‘9990 A quid Logo 3 7 S È gunp {© SToro ‘qqes a osctetqa "Rina QUOTAN][e,p AOILUI = 07919 "BIuSiy TEU IpId19-%) 0080g Hetd otesti ‘tpajeg ve] 0917ue 0u9uI Q[erAn]]e E O CROCI ONTO! 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Ogni pianta infatti ha il suo ambiente limitato alla zolla di terreno su cui cresce, un margine di adattabilità abbastanza lato alle variazioni possibili in seno ad esso: e del resto, senza spingere sino a questo estremo che sfugge ad ogni classificazione l'indagine, non vi è alcuno che abbia pratica di rilievi botanici sul terreno che non sappia quanto facili e frequenti sieno le interferenze fra le associazioni anche meglio carat- terizzate. Anche allo stato attuale delle nostre cognizioni in fatto di ecologia vegetale è possibile tuttavia discutere i singoli reperti delle ricerche botaniche dal punto di vista climatico prendendo come indici alcuni degli elementi del clima, le medie e le escursioni termiche, la piovosità, l'umidità, la serenità, i venti dominanti nelle regioni; ed esaminando quale indizio dell’azione di questi elementi ci presenti la vegetazione delle singole stazioni. È qui, però, che l’accennata adattabilità delle forme vegetali entra in gioco come una causa d'errore importante per l'osservatore, le visite del quale alla regione in studio sono necessariamente limitate in durata ed in numero. Così il sottobosco erbaceo ed arbustaceo di una associazione forestale può spesso mantenersi nel maggior numero dei suoi elementi floristici e nelle sue linee carat- teristiche nei casi di sostituzione graduale per opera dell’uomo, di una essenza arborea nuova alla primitiva: e, per attenerci alla vegetazione silvatica, è noto come, in caso di sboscamento, la scomparsa della specie del sottobosco sia soltanto graduale e come anzi, grazie alle nuove condizioni di insolazione e di umidità, qualcuna di esse acquisti sulle concorrenti meno adatte alle condizioni ecologiche bruscamente mutate, un grande predominio anche se in definitiva essa stessa non riuscirà ad occupare stabilmente la stazione. Nello stesso bosco Lucedio, per esempio, ho osservato lo scorso anno, in seguito al taglio di un largo appezzamento di querceto nelle proprietà della Par- tecipanza di Trino, la costituzione di una associazione estesa parecchie centinaia di m? e quasi affatto pura di Convallaria majalis (1): associazione che naturalmente non si manterrà e della quale non può essere quindi tenuto conto nello stabilire l'evoluzione della fisonomia della vegetazione regionale, la quale è molto più lenta. Lo stesso si dica, pei terreni ferrettizzati come il Montarolo di Trino, dell’alternanza che si verifica nei cedui di quercia, fra il querceto a ceppaia munito di un sotto- bosco di specie erbacee variate ed il calluneto, vera brughiera che si sviluppa negli anni in cui, essendo recente il taglio, i piedi di Calluna disseminati laddove manca l’ombra degli alberi, assumono, col favore delle condizioni mutate, uno sviluppo ca- ratteristico. Questa successione però che si ripete regolarmente e che rappresenta del resto l'espansione periodica della vegetazione normale di radure permanenti sul terreno nuovo costituitosi in seguito al-taglio, entra, a differenza delle precedenti, nella definizione del paesaggio botanico della regione. (1) Il fatto eccezionale stava in ciò che la Convallaria, specie mesofita eliofita, s'era, su que- st'area esposta a piena insolazione, sviluppata in modo da costituire un vero consorzio chiuso e quasi affatto omogeneo. Ù È la ila LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 397 È del resto indispensabile fissare, dal punto di vista della distribuzione attuale dei climi, la posizione del distretto in esame anche per rendersi ragione del grado di possibilità, per gli elementi vegetali delle regioni circostanti, d’invaderlo. Poichè se la intensità dell’invasione di un distretto dipende dal rapporto fra la mobilità dei disseminuli delle specie invadenti e la loro attitudine a svilupparsi nelle stazioni invase (Clements), sta però il fatto che, nel caso in cui il distretto di provenienza e quello di arrivo non siano contigui, le condizioni delle regioni interposte possono creare alla migrazione ostacoli insormontabili. Ora è noto che, anche astraendo dal fatto generale dell'aumento dell’escursione termica procedendo dal mare verso l'interno della terra, e della piovosità, avvici- nandosi al piede delle catene montuose, le condizioni climatiche della pianura padana, malgrado la sua apparente uniformità, sono tutt'altro che omogenee. Nel senso del suo asse infatti, si dispongono due aree, l’una di minima, l’altra di massima tempera- tura, le quali non coincidono che su di una zona ristretta, rimanendo per la maggior parte l’area del massimo caldo spostata ad oriente, quella del maggior freddo ad occidente. Si comprende come la zona di sovrapposizione, che si estende dalla base dell’anfiteatro morenico del Lario sopra Monza, ai piedi dell'Appennino parmigiano, rappresenti un’area di massima continentalità che sbarra completamente la pianura padana e segna, lo si può verificare facilmente, il limite occidentale di diffusione di molte specie planiziarie orientali (1). La regolarità dell'aumento dell’escursione termica annuale dall’Adriatico verso l’alta pianura padana non subisce, del resto, questa sola eccezione interessante dal punto di vista fitogeografico. Chi ben guardi, riconosce come, dato l’adattamento della nostra vegetazione al riposo invernale e la scarsa importanza, dal punto di vista della capacità migratoria, della temperatura inferiore al punto nullo di vegetazione per ciascuna specie, l’alta pianura padana, esclusa dall’area dei massimi calori estivi, venga a godere botanicamente parlando, di un clima di una continentalità relativa. Ed anche questo fatto spiega come al limite orientale della pianura piemontese molte specie sì arrestino o non proseguano che lungo la linea della collina, le condizioni ecologiche della quale, come ho già avuto campo di dimostrare, sono affatto speciali e profondamente diverse da quelle del piano. La pianura rappresenta perciò un distretto botanico perfettamente individuato. Infatti le condizioni climatiche della zona immediatamente prealpina, le quali, come hanno recentemente dimostrato Wilezek e Vaccari (2), vanno estese a tutto il Piemonte orientale almeno, sono profondamente diverse. Ciò è dimostrato, oltre che dall’escur- sione termica minore nella regione prealpina e dal grado di serenità che vi è maggiore per buona parte dell’anno, in modo affatto speciale dalla distribuzione della pioggia, fat- tore di così grande momento nel determinare la fisonomia del rivestimento vegetale. (1) Roster G., Climatologia dell’Italia nelle sue attinenze coll’igiene e coll’agricoltura. Torino, Un. Tip.-Ed., 1909, p. 150 e fig. 32. (2) Vaccari L. e Wirczer E., La vegetazione del versante meridionale delle Alpi Graie orientali (Valchiusella, Val Campiglia e Val di Ceresole), (£ Nuovo Giornale Botanico ,, Nuova Serie, vol. XVI, Firenze, 1909). 39 GIOVANNI NEGRI 12 (0.0) Con poca mutazione sul primitivo lavoro di Schouw, il Millosevich (1) appoggiato ad un materiale di gran lunga più copioso, distingue nella pianura padana, procedendo dal piede delle Alpi al piede degli Appennini, quattro zone: una immediatamente preal- pina ad alta piovosità (più di 1300 mm. annui), una seconda attigua a questa (a piovosità superiore ai 1000 mm. annui), una terza fra la seconda zona ed il Po (mm. 750-800 annui), presso a poco corrispondenti alla transpadana di Schouw, infine una quarta subapennina (mm. 650-700), la cispadana di Schouw. Anche dalla carta pluviometrica del Gherardelli che accompagna l’edizione italiana del libro del Fischer sull'Italia appaiono queste quattro zone (mm. 1500-1200 di precip.; mm. 1200-1000; mm. 1000-800; mm. 800-650 rispettivamente). Il clima della zona cispadana appare anzi accentuare sia la scarsezza della precipitazione, sia l'estensione dell’escursione termica in corrispondenza della regione collinosa compresa fra il Tanaro ed il Po, in corrispondenza della quale le precipitazioni scendono sotto ai 500 mm. annui. Nel Veneto e subito ad occidente di Pavia, per buon tratto, il tipo pluviometrico cispadano passa sulla sinistra del Po: a monte di Torino poi esso domina l’alta pianura padana mentre fra Torino ed il Ticino predomina il tipo transpadano (2). Per quanto riguarda la migrazione delle specie in senso normale all'asse della pianura, si può ritenere, senza entrare per ora in distinzioni dei vari elementi floristici della flora insubrica e della loro mobilità, che la pianura rappresenti un campo poco adatto, anche dal punto di vista climatico, agli elementi di tipo mediterraneo adattati alle stazioni prealpine, a clima mediamente assai mite, con escursione ter- mica non molto estesa, alta piovosità nel periodo vegetativo e limpidità notevole dell'atmosfera. Qua e là la pianura potrebbe bensì offrire ospitalità limitata agli elementi xerofili della regione submontana, e se ne trovano effettivamente in stazioni, nelle quali tuttavia non si può escludere, l’immigrazione sia avvenuta piuttosto dalle propaggini collinose del subapennino, che non dalle prealpi. Ciò tanto più se si con- sidera che questi elementi xerofili non sono in ogni caso termofili ed hanno una distribuzione piuttosto orientale che mediterranea, indice della loro preferenza per un clima più continentale, di quanto non regni lungo le coste ed in genere anche nella regione insubrica: e che, nell'àmbito della nostra flora, essi sono comuni alle stazioni piuttosto aride che calde, tanto della regione subalpina che della subappenina. Invece essa si presta molto acconciamente e con varii tipi di stazione — come può farlo supporre anche quanto è stato detto sulle sue generali condizioni edafiche — all'immigrazione di elementi submontani e montani, specialmente mesotermi, ma in qualche caso anche microtermi. Ciò è tanto vero che essi costituiscono difatto la grande maggioranza della sua popolazione vegetale. Quanto del resto è stato detto sulla larghezza colla quale bisogna apprezzare i dati climatologici generali di cui possiamo disporre, deve essere ripetuto qui per giu- stificare il reperto sporadico, in tutte le formazioni vegetali della pianura padana, di elementi floristici eterotopici che sembrano in contraddizione colla condizione d’am- (1) Scnouw, Tableau du climat et de la végétation de l’Italie, Copenhagen, 1839. — Mirrosevica E., Sulla distribuzione della pioggia in Italia (“ Ann. Uff. Centr. meteorol. Ital. ,, vol. III, p.I, 1881. — Id., 2° Mem., Appendice, ecc., ibid., vol., V, p.I, 1888). (2) Fiscaer T., La Penisola italiana. Carta della distribuzione annua della pioggia in Italia, di A. Gherardelli, a pag. 362. Torino, 1902. » 13 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 399 biente di cui la formazione stessa è l’esponente. Queste condizioni si trovano ad essere in difetto sull'area limitata su cui il raccoglitore incontra le specie suddette, ospiti accidentali o relitti di formazioni scomparse, le quali hanno localmente trovato il mezzo di conservarsi o di acclimatarsi: ed il rilievo della presenza delle quali ha il valore documentario a tutti noto. Queste considerazioni varranno a far intendere nella loro reale importanza i dati climatologici seguenti e ad appoggiarne la discussione. Elementi meteorologici per Casale Monferrato, Lat. 45.7, Alt. m. 121 (1). CRI ee MESI SS| S| sal gal el os SdlZE| | a|2| 8 IR ata) ai ea eat Nesi RES ES Ralesni fe d i Rss ha Seta | (bara Sl SA At MiA arida TO a CI | | | | Dicembre 03 ZA 91 A6:8 L4055) ALO] ALELA M81759 5A (| 150033 Gennaio . a LS: Sa 020,726 INCI sz 63:45) Le 5 10:53 Febbraio . 3A! 15.7|—4.3| 2010 M63t9 MINT RSA 745 MINO LO 9| 0.50 Marzo. 7.2) 20.5|—2.8| 23.3|170.1| 9 | 14 | 72.0| 10) 11| 10 050 Aprile L32220 20200 539 GI | 46208 | az 0.SE Maggio 15:2| 278 77/6100] 137 Mio 72:85 12 TAN 085 Giugno 200 09 oe vo Sl I Luglio 22.9) 31.8! 13.8! 18.0) 54.501 o! 4|70.31 11! 18 2 0.64 Agosto 23.4| 31.9) 13.7] 18.2/101.6] 7 8 | 70.21 6) 20 | O Settembre . . | 18.2) 28.8] 6.8) 22.0) 60.5] 4 ARI MO 3 ECO MIS DE K0153 Ottobre eee 2A: 5227 MEA 2183 556007 480.9 8 | 14 9. | 0.48 Novembre 5.4| 14:9--3.4| 18.3/117.2| 10| 8|83.1| 3) 13 | 14|0.30 Elementi meteorologici per Torino, Lat. 45.4, Alt. m. 276 (2) MESI EE Gelee Eee e eee REGGE leer ala See ee rie ee | | | | Dicembre 1:2 10.5|—6.6| 17.1| 418| 7| 5828} 7) 14| 10 045 Gennaio . O.di 9.3|/—7.7) 17.0) 43.8) 7 5 | 7 15 9. | 0.46 Febbraio. . . 3.8) 13.1/—4.3| 17.4| 23.7) 5 Slo da 8 | 0.50 Marzo (0 7.3) 18.2) 1.o| 16.7) 62.0 8 ta MO 240 MS 9 | 0.48 Aprile. 17/2214] 1322] 19/21/2211 did db 664] (604 ao, 0743 Maggio 16.2) 25.3] 7.5) 17.8/108.8| 12.) 13 | 66.2) 6 16 9 | 0.45 Giugno 20.2) 30.3] 10.8| 19.5] 79.5) 10 O e 7.16 (A B0550, Luglio 22.6! 32.1| 13.8! 18.3! 58.5] 8 (A Sl RENOIR 6! 0.52 A gosto 21.8) 30.7) 13.5] 17.2| 68.3) 8 8 | 64.1) 10 | 18 3 | 0.61 Settembre 18.0| 27.3] 9.9] 18.4] 68.5) 8 8702 7.| 15 8 | 0.48 Ottobre | 11.9) 21.3) 3.23] 18.0] 83.6] 9 | 10 | 74.5) 8 | 14 9 | 0.48 Novembre . .| 5.6) 14.7.—1.8| 16.5] 69.1) 8 Zi zo 9 | 0.48 (1) Per questa tabella e le seguenti, eccetto che per Torino, sono stati utilizzati i dati raccolti per cura dell’Osservatorio meteorologico di Moncalieri nel quinquennio luglio 1875-luglio 1879 e pubblicato nel “ Boll. del Club Alpino italiano ,, vol. X-XIV. (2) Rizzo G. B., IZ clima di Torino (° Memorie R. Accad. delle Scienze di Torino ,, Serie II, Tomo XLII, 1893). 400 GIOVANNI NEGRI 14 CU E) on e fil RS | = | z Z ze Sa fo DG È oE| Sa = E 5 È #5|g5| #8| 3a) ®°| &®| 55/35] 8| #| S|& IS ‘asa le Sil & Vercelli, Lat. 45.19, Alt. m. 150. | | | | | Dicembre | 14 9.6/=7.1| 167] 78.7) 6| 8|822) 6 | 18 | 704/0058 Gennaio . . | 0.84 9.874 17.2) 67.13 7) 7817 4/19] 8 | 04 Febbraio . | 4.2| 15.9|-3.9| 19.8| 36.71 7| 4|7901 1] 23| 4|o4& Marzo. . | 7.8] 20.0/_2.2] 22.2] 940] 8| 10/685] 2|21| 8|02%0 Aprile. 12.0) 22.7] 3.7| 19.0|153.9] 13 | 16| 80.9] 3| 21| 6|045 Maggio | 15.5] 28.4]. 7.0) 20.6] 87.7] 14 | -9| 774] -2| 25| 4 | 046 Giugno | 21.6] 31.9] 12.3] 19.6| 62.6| 11| 7|744) 3 26| 2 |oSss Luglio | 23.2| 32.3] 13.6] 18.7| 69.7) 8| 8|690) 7]|23| 059 Agosto | 25.7) 32.9] 13.9 19.0] 643] 6| 7 | 72.6] 5 | 23 |RMMINE® Settembre | 18.5| 29.9] 8:0| 21.9] 484 6| 5|77s| s|25| 20062 Ottobre 1 12.9] 22.9 3.9| 190 62.5] 7| 7|850 5| ast 3406 Novembre | 5.7| 15.2/—2.1| 17.3|105.3) 10| 11| 85.3] 2 | 20 | 8 | 0.40 | | I | | Biella, Lat. 45.34, Alt. m. 434 | Î | | Î | | | Î Dicembre | 1.7| 8.2/46| 12.8/ 41.7] 4 iz 80.71 11| 12) 8|05£ Gennaio . aL 13.4] 802! 6| 51752| 10} 13 | 8053 Febbraio . | 49) 140|—2.4| 164) 27.9] 6| 2|719 9 17] 2] 062 Marzo. .| 7.1 17.7/14| 19.0/132.3) 7| 8|68.8] S| 16 | 7 | 058 Aprile. . | 11.4) 19.8| 3.5) 16.3243.7) 12| 16|70.9 3| 18| 9040 Maggio . | 14.7) 23.9] 6.4| 16.5|237.91 13 | 15] 719 3| 19 | 9 0.40 Giugno - | 20.6] 28.3] 13.9) 14.4/149.1|] 9| 9|66.7| 3|22| 5 |046 Luglio . | 21.8| 27.9| 13.8) 14.1| 92.9] 8| 6|661) 7|19| s|058 Agosto | 22.8| 28.8] 15.3] 13.5/2120) 8 | 13| 67.8] 6|24| #1 058 Settembre | 15.0| 26.8] 10.7| 16.1[117.3) 5.| 7|741) 6| 22 |//M2MN0Ga Ottobre . | 12.5) 19.8] 4.6| 12.61158| 9| 7|769 7| 17) 7 Novembre . .| 5.5) 12.20.3] 12.8 82.6| 6| 6 | 787 TAGE | 8 0.53 | Alessandria, Lat. 44.54, Alt. m. 98. | | | | | | Dicembre —17 82-93 17.5113.1| ni 10 | 878) 6 18 | 7|048 Gennaio . —0.4| 6.5/—7.2) 13.71259.8| 8} 24|886 8| 11| 12|043 Febbraio . 3.2] 12.6|—5.7 183 22.5) 6| 2798) 7] i4| 7/05 Marzo. | 7.6] 19.7|—2.4] 22.4|132.5| 7| 12|661| 9|13| 9|050 Aprile. 12.1j 22.1] 2.9) 19.2/104.0| o 10 | 67.1] 3| 12 | 150058 Maggio - | 16.0] 27.4] 7.7) 19.7| 53.2) 13| 5|629 5| 16] 10 | 022 Giugno . | 21.1] 31.9] 13.0] 18.9] 43.6| 8| 4|582| 5|20| 5|050 Luglio .- | 22.8] 33.9| 13.3] 20.6] 430| 7| 4|536| 7|22| 2 |068 Agosto . | 24.1) 33.2) 14.4) 18.8| 44.71 6| 4|65.1| 7|21| 3|056 Settembre | 19.0 30.7) 5.9| 248] 312) 4| 366.71 7|17| 6|0Osf Ottobre . | 12.8 23.8] 2.0j 21.8] 72.01 6| 6799) 6, 16| 9|045% Novembre | 3.9] 143|—2.5 Lee 12 | 11| 82.2] 6| 10| 14| 0.35 0.50 15 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 401 Il Montarolo di Trino essendo posto presso il Po fra Casale e Torino, può inte- ressare anche il riferire gli elementi climatici di quest’ultima stazione in quanto essa, quantunque più lontana dal bosco Lucedio di quanto non sia Casale, ha una situa- zione analoga ai piedi della collina, è climatologicamente ben conosciuta e può ser- vire come tipo del clima di queste stazioni situate nel piano a poca distanza dal fiume e probabilmente soggette ad una certa influenza anche da parte del sistema collinoso. Riporto anche gli elementi meteorologici di Vercelli pure prossima al Montarolo e quelli di Biella e di Alessandria, l'una nella zona prealpina, l’altra nella cispadana. E raccogliendo in una tabella riassuntiva i dati stazionali più interessanti per la vegetazione delle cinque stazioni precedenti abbiamo: Inverno Primavera | sg | È “RR < < — —. e. |—_-LkR Lr Temperatura media . RZ ZI Za 27 Oz | 101571158 [OLIO Escursione termica . . .|18.1|/17.2 17.9 14.2|16.5.|21.0|17.9|20.6 | 17.3|19.1 Percentuale pluviometrica. | 33 | 13 | 19 | 10 36 | 35 | 35 | 35 | 39 | 19 Prerpeze, posso e dI 22 19] 206209 Serenità . . . . . . .|0.39|0.47|0.45|0.56|0.47|0.40|0.44|0.44|0.44|1.41 Estate Autunno 2 Ci = i N e e [= a | Sue o Sean | | | 2: Temperatura media. . .|22.2|21.4|23.5|21.7 22.6 |\12.0|12.8|124|110 119 Escursione termica . . .||28.6|18.3|19.1|14.0 | 19.4|/20.9 (17.7 | 19.4|13.5.|21.1 Percentuale pluviometrica. | 17 | 24| 22] 28| 12] 16] 26) 23| 20| 20 Frequenza pioggia . . .| 20| 26] 25] 25° 21| 21| 2523 | 20 | 22 Serenità. . . . . . .|0.55|0.54|0.56|0.53 0.55 ||0.44|0.48|0.48 | 0.53 | 0.44 Si noti lo spiccato carattere di continentalità del clima di Casale. La temperatura media è una delle più basse d'inverno e di primavera, una delle più alte d'estate, mantenendosi anche piuttosto alta in autunno; l'escursione termica è la maggiore delle riportate in inverno, primavera ed estate ed una delle più alte in autunno. Della pioggia, cade a Casale una delle percentuali più elevate d’inverno e di primavera, una delle minime d’estate e la minima d’autunno. Infine la serenità è minima in inverno e primavera, bassa d’autunno e, invece, una delle più pronun- Serie II. Tow. LXII. a? 402 GIOVANNI NEGRI 16 ciate durante l’estate. Il confronto colle altre stazioni riportate permette di asse- gnare a Casale un clima di tipo piuttosto cispadano e vedasi in proposito l’affinità coi dati climatici così estremi di Alessandria; invece quanto ho avuto occasione di dire sul clima della zona prealpina risulta confermato dal paragone dei dati relativi rispettivamente a Casale ed a Biella; notevole specialmente in quest’ultima stazione l'estensione sempre modesta dell’escursione termica, la bassa piovosità invernale che si contrappone all’altissima primaverile continuata dall’estate assai piovosa, mentre l'autunno lo è poco, cosicchè la precipitazione annua rimane localizzata specialmente nei mesi di maggiore attività vegetativa, relativamente temperati ed umidi. Infine l’effetto dell'alta temperatura estiva viene anche mitigato dal grado di serenità, in questa stagione inferiore a Biella a quello delle altre quattro stazioni, mentre in primavera ed autunno e specialmente in inverno è costantemente più elevato. Secondo la già citata carta del Gherardelli, Casale e Vercelli sarebbero com- prese entrambe sull’area soggetta ad un clima di tipo transpadano. I dati della ta- bella: precedente parlano piuttosto in favore dell’attribuzione della prima stazione ad un clima cispadano: invece la seconda ed anche Torino sono davvero transpadani. In ogni modo il Montarolo di Trino dista da Casale ad occidente una quindicina di chilometri a volo d'uccello; in mancanza di dati climatici direttamente raccolti, alcune considerazioni possono tuttavia essere fatte sulle possibili differenze clima- tiche, in base alle carte climatologiche della pianura ed alle condizioni topografiche locali. Nella carta IX del libro del Roster l’isoterma annua di 12° comprende nella sua area Casale mentre il basso Vercellese rimane nell’ambito di 11°; la linea di demarcazione è segnata dalla cresta della collina di Gabiano-Camino. Questo dato non deve tuttavia essere preso come indice di un clima più mite perchè l'esame delle carte speciali del gennaio e del luglio ci mostrano come il basso Vercellese presenti un grado di continentalità superiore al territorio che circonda immediata- mente Casale. Le isoterme dello 0° infatti e quella del 24°, rispettivamente la più bassa ed una delle più alte della pianura padana, lasciano Casale all’esterno e com- prendono invece il basso Vercellese. Analogamente per quanto riguarda la piovosità, se, come ho detto, il Casalese deve considerarsi piuttosto come parte dell’area cispa- dana, non v'ha dubbio che il basso Vercellese non sia soggetto ad un regime di pioggia del tutto transpadano. E questo è molto importante specialmente di fronte alla maggiore continentalità sopra rilevata per la temperatura, perchè corrisponde (vedasi la tabella riassuntiva sopra riportata) bensì ad una minore piovosità inver- nale, ciò che per la vegetazione delle nostre regioni ha valore solo limitatamente alle condizioni edafiche, ma una assai maggiore piovosità estiva ed autunnale, una uguale piovosità primaverile ed infine una percentuale ed una frequenza di precipi- tazioni atmosferiche molto superiore lungo tutto il periodo vegetativo. Se esaminiamo le tabelle parziali precedenti, il confronto delle cifre assolute delle precipitazioni rispettivamente di Casale e di Vercelli nei mesi del periodo vegetativo e nei tre mesi estivi appaiono alquanto contraddittorie, Casale figurandovi più piovoso di Vercelli. Ma, anche tenuto conto che ciò può essere dovuto a condizioni strettamente locali e forse anche ad imperfezione di osservazione, gli stessi specchi ci permettono di rilevare una umidità relativa dei periodi corrispondenti notevolmente superiore a 17 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 403 Vercelli, che del resto presenta una superiorità anche rispetto alla frequenza; dei giorni piovosi (marzo-novembre, Vercelli 83, Casale 74) (1). Le condizioni strettamente locali del bosco Lucedio poi concorrono a mitigare quanto può esservi di eccessivo nel clima generale della regione. Anzitutto una vasta distesa di risaie circonda il Montarolo: l’acqua vi è immessa in marzo ed è tolta in settembre e concorre quindi a mantenere una umidità notevole e permanente con tutti i vantaggi che ne derivano allo sviluppo della vegetazione nei mesi in cui questa svolge la parte essenziale del suo ciclo annuale. Esponente di queste favo- revoli condizioni igrometriche è il rigoglio della vegetazione tanto legnosa che erbacea nel bosco Lucedio, tanto più notevole in quanto, in tutta la sua area, esso riposa su terreni ferrettizzati e quindi sovra substrati argillosi tali da imprimere un carattere piuttosto xerofilo alla vegetazione forestale; e del resto, almeno nella sua porzione collinosa, notevolmente sopraelevato sulla falda acquea della pianura, che passa sotto al Montarolo, come lo dimostrano le frequenti resorgive nelle risaie a valle di esso. Questa costituzione di una folta associazione boschiva, se per un lato è la conseguenza del clima umido locale, fornisce d'altra parte a tutta la vegetazione erbacea e sciafila del distretto una stazione in cui le condizioni di continentalità del- l’ambiente subiscono la massima attenuazione. È noto come le associazioni forestali presentino un clima loro proprio, in complesso più costante e più temperato di quello delle aree scoperte che la circondano (2). Per quanto riguarda la temperatura dell’aria infatti, la media è alquanto più bassa nell'interno che non all’esterno e la differenza può importare sino ad 1° C.; tale differenza poi è massima nell’estate, raggiungendo durante i maggiori calori anche i 2° ©. Anzi se si tien conto dell'andamento della temperatura nelle 24 ore, risulta che l’aria all’interno del bosco, costantemente più fresca di giorno e più calda di notte, presenta d'estate, nel corso della giornata, sino a 8° €. di differenza coll’esterno. Nell’interno delle associazioni boschive sono adunque meno sentiti gli estremi di temperatura e particolarmente i freddi precoci d’autunno ed i geli tardivi di primavera. Lo stesso vale per la temperatura del ter- reno, essendosi osservato che, sotto il bosco, d’inverno, essa è più calda (sino ad 1° C.), d’estate più fredda (sino a 5° C.), e che il gelo vi penetra fino a profondità minore. (1) Un quadro schematico delle condizioni della vegetazione nella pianura padana in rapporto col clima, è dato dalla distribuzione delle culture che vi dominano. L’osservazione è del Brunhes: © Il mais è proprio delle zone più umide e più calde che cingono verso sud la zona della cultura del © srano; ...il riso è per eccellenza il cereale delle regioni del globo molto calde e nello stesso tempo molto umide (oltre alle sue regioni d'origine è coltivato in qualche altra, soggetta ad estati secche e calde, nella quale le condizioni di suolo e di abitazione sono favorevoli, e dove ad ovviare alla “ siccità dell’estate è stato provveduto coll’irrigazione — così nella pianura padana); il mais, per le condizioni di distribuzione geografica della sua cultura, rappresenta in certo qual modo una zona intermediaria fra quella del grano e quella del riso. In due casi particolari questa disposizione si è concretata in un modo molto espressivo: nella pianura del Po, dove il grano, il mais ed il riso si succedono in proporzione dell’ amidità ed in zone approssimativamente concentriche, e nella grande valle Nord-Sud del Mississipì... ,. Cfr. Browues I., La Géographie humaine (Paris, Alcan, 1910), pag. 336. 3 (2) Perona V., Foreste, idrologia ed igiene (£ Nuova Antologia ,, anno 42°, fase. 854, pp. 302-304. Roma, 1907). [3 a « “ 404 GIOVANNI NEGRI 18 L'aria dell'interno del bosco poi è tutto l’anno, tanto relativamente quanto assoluta- mente, assai più umida di quella della campagna aperta, presa ad egual altezza sul livello del suolo e l’azione si estende anche alle radure circondate da aree alberate, e si risente sino ad una certa distanza dai margini. Queste circostanze spiegano come la vegetazione del bosco Lucedio possa aver assunto un tipo microtermo e montano poco in accordo colla sua situazione geografica ed altimetrica e come in particolare possano farne parte elementi quali il Majanthemum bifolium o la Caltha palustris in sede del tutto eterotopica. All'incontro le condizioni climatiche generali della con- trada, quando non vengano mitigate dall’azione antagonistica di fattori ecologici locali, sono tali da spiegare la presenza in altre stazioni del bosco di specie xerofile come il Dianthus Carthusianorum e xerofile-orientali quale il Rhus Cotinus. Così si dà che il bosco Lucedio abbia assunta una particolare fisonomia, dovuta all’incontro di questi elementi disparati; fisonomia che il presente studio metterà in maggiore evidenza più innanzi, ma che colpisce di primo acchito l'osservatore che inizî le sue ricerche nel distretto in studio. 6. Le condizioni di suolo e di clima non bastano a caratterizzare la vegetazione di una regione così anticamente e densamente popolata come la pianura padana. Il fattore antropico entra infatti nella definizione dell'ambiente, sia per la sua azione diretta, sia in quanto è capace di modificare quella dei primi due; e, sulla regione in discorso, dura sino da tempi preistorici e si è, come del resto dovunque, espli- cato secondo modalità assai varie, tanto che si può con sicurezza affermare non esistere in essa stazione sulla quale profondamente e ripetutamente non abbia agito l’uomo. Anche i terreni alluvionali di più recente deposizione ed inadatti ad ogni forma di sfruttamento, si risentono infatti di quell’azione di presenza e di passaggio che l’uomo ha comune cogli animali, pure esercitandola in una scala più vasta; per essa tutte le associazioni vengono, sia inquinate di forme vegetali estranee importate passivamente e che possono anche in qualche caso prendere il sopravvento sulla ve- getazione originaria; sia impoverite o private addirittura di specie ad importanza economica. Più tardi lo sfruttamento delle risorse regionali si farà più profondo ed, in vista dell’abitabilità della regione, verranno prese disposizioni (sboscamento, cana- lizzazione delle acque, ecc., agricoltura estensiva, ecc.) mercè le quali, non soltanto nuove forme vegetali verranno ad occupare aree di terreno disponibile, ma sì cree- ranno numerosi tratti di terreno nuovo aperto alla libera concorrenza delle specie invadenti, turbando così profondamente l’equilibrio primitivo della vegetazione. Lo stabilirsi di culture regolari attorno alle abitazioni fisse, infine, rappresenta un terzo stadio dell’azione antropica, caratteristica del quale, oltre ad una ulteriore modifi- cazione del suolo per la permanenza dell'occupazione umana e per le operazioni an- nesse ad una cultura intensiva, è la lotta pel mantenimento di queste modificazioni contro la tendenza a ripristinarsi della vegetazione spontanea. Infatti, per esempio, la florula degli arginelli limitanti le risaie recentemente stabilite su di una porzione declive del Montarolo, conserva tutt'ora alcuni elementi delle precedenti associazioni brughierose; similmente all'ombra dei boschi di Zobinia permane, nei punti più ripa- 19 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 405 rati, la vegetazione eliofoba precedente del bosco di Ontano, di Noceciuolo e di Car- pino, e via dicendo (1). A questa successione cronologica nell'azione dell’uomo sulla vegetazione originaria manca evidentemente un termine, esprimente lo stato di transizione, fra la vegeta- zione di un terreno trasformato dalla cultura ed il ripristino della vegetazione pri- mitiva, che fatalmente, in un tempo maggiore o minore, si dovrebbe verificare quando «cessi la tutela dell’uomo sull’opera sua. Da questo concetto appunto è partito il Ber- natzky (2) introducendo nella sua classificazione delle associazioni antropiche, una classe comprendente i casì di costituzione di formazioni vegetali abbandonate (&derlassene) in stazioni precedentemente occupate dalla cultura; tre essenzialmente, le ruderali, le così dette formazioni di transizione (Uedergangsformationen) e le formazioni termi- nali (Endformationen) rappresentanti la stabilizzazione su suolo, un tempo coltivato, di nuove associazioni esclusivamente spontanee. Ma l’A. stesso, a proposito di questa ultima sezione, riconosce che il ripristino può avvenire anche per mezzo di forma- zioni naturali differenti dalle originarie, in seguito ad alterazioni della natura del suolo o di fenomeni d’immigrazione; ripristino quindi del tipo di vegetazione, ma non delle associazioni originarie; noi ne abbiamo nel nostro paese esempi evidenti nello stabilirsi delle associazioni boschive della Robdinia, dell’ Eucaliptus, probabilmente persino nell'Italia settentrionale del Castagno, nonchè nel ripristino, mancato quasi completamente dopo il periodo glaciale, della associazione dell’ AMloro. E del resto (1) Per attenermi ai due esempi citati, ho raccolto sull’arginello di risaia (9. vr. 1910) le specie seguenti, fra le quali contrassegno con * i relitti della brughiera precedente: Zuncus conglomeratus, Stellaria graminea”, Malachiwn aquaticum, Lychnis alba, L. Flos-cuculi, Silene nutans*, Ranunculus acer, R. nemorosus", Hypericum perforatum*, Potentilla Tormentilla*, P. argentea”, P. collina*, Rosa gallica, Cytisus hirsutus*, Geniîsta germanica”, Medicago lupulina, Trifolium incarnatum, T. repens, Lotus uliginosus, Vicia hirsuta, Lithrum Salicaria, Pastinaca sativa, Rhamnus Frangula*, Calluna vulgaris, Linaria vulgaris, Mentha rotundifolia, Thymus SerpyUum*, Galium vernum*, G. palustre, Eupatorium cannabinum, Inula salicina*, Leucanthemum vulgare, Centaurea maculosa*, Cirsium arvense. Riferisco invece la florula di sottobosco (9. v. 1910) di due appezzamenti del bosco Lucedio ridotti, per guanto riguarda l’essenza arborea, a pura FRobinia: il primo su pendìo unito, rivolto a N. e poco accentuato, il secondo su di un valloncello d’erosione presentante i caratteri di scoscendimento recente. I. Melica nutans, Carex pallescens, Convallaria majalis, Polygonatum multiflorum, Moekringia trinervia, Dentaria bulbifera, Anemone nemorosa, Orobus niger, Tilia cordata, Euphorbia dulcis, Vinca minor, Symphitum tuberosum, Melittis melissophyIllum, Doronicum Pardalianches, Hieracium murorum. II. Poa pratensis, P. nemoralis, Melica uniflora, M. nutans, Brachypodium sylvaticum, Carex pallescens, C. pilosa, C. silvatica, Luzula multiflora, Asparagus tenuifolius, Convallaria majalis, Polygonatum mul- tiflorum, Tamus communis, Humulus Lupulus*, Phytolacca decandra*, Rumex obtusifolius*, Lychnis alba”, Arabis Thaliana, Anemone nemorosa, Ranunculus Ficaria, Rubus Caesius*, Geum urbanum*, Crataegus Oryacantha, Peucedanum officinale, Evonymus Europaeus, Euphorbia dulcis, Ligustrum vul- gare, Primula acaulis, Vinca minor, Pulmonaria officinalis, Melittis melyssophyUlum, Galium Aparine, Sonchus oleraceus”. Ho riportato i due elenchi, composti l’uno di piante tutte nemorali ed eliofobe, l’altro comprendente inoltre parecchi elementi alicoli (*); la presenza di questi ultimi sta in rapporto colla plastica del snolo della stazione, coll’asportazione degli strati superiori e quindi più dissalati del terreno, coll'azione emungente che la superficie d’erosione esercita sulle acque d’ infiltrazione superficiale, le quali contengono in soluzione una proporzione di materiali salini tanto più elevata, in quanto le condizioni speciali di ambiente favoriscono la nitrificazione. La robinia del resto, come tutte le altre leguminose, arriechendo il suolo di materiale azotato, aumenta per parte sua l’inten- sità di questo processo. (2) Bernarzxy I., Anordung der Formationen nach ihrer Beeinflussung seitens der menschlichen Kultur und der Weidetiere, È Engler's Jahrb. ,, etc., Bd. XXXIX, p. 8. Leipzig, 1905. 406 GIOVANNI NEGRI 20 questo concetto di originarietà delle associazioni e persino dei tipi di vegetazione è perfettamente relativo. Le nostre nozioni sulla variazione nell’estensione rispettiva dell’area occupata dalle associazioni forestali ed erbacee dal periodo glaciale all’inizio dei tempi storici, anche limitatamente all'Europa, sono molto vaghe. Come quindi il tipo che noi assumiamo come primitivo nello studio della vegetazione di un determi- nato distretto botanico ha per limite probabile nel passato l’ultima alterazione clima- tica generale alla quale la stazione è stata sottoposta, così noi non possiamo a priori asserire che, all'opera di ripristino delle associazioni vegetali che lo caratterizzano, quando vengano distrutte, non s'oppongano ulteriori modificazioni del clima. Si ag- giunga che, dato il nesso strettissimo che intercede fra le condizioni climatiche e le condizioni edafiche di una stazione, è presumibile che, alterata la natura del suolo, venga a mancare un altro importante elemento alla ricostituzione della vegetazione primitiva, tanto più che, e suolo e vegetazione, reagiscono alla loro volta sul clima. Che se poi, trattandosi di aree limitate, si credesse più rapida e più facile l’opera di ripristino di una vegetazione spontanea identica a quella di cui l’opera dell’uomo le ha spogliate, debbono ancora essere considerate alcune difficoltà di dettaglio. Come ho già detto, l’opera dell’uomo per preparare il terreno alla cultura ricorre a tras- formazioni di superficie di terreno più estese assai di quanto non sia l’area diretta- mente coltivata; bonifica, irriga, apre strade, regola il corso delle acque, lavori tutti che, quand’anche dall’incuria o dalla spopolazione vengano ridotti inutili allo scopo diretto che li aveva determinati, lasciano tuttavia traccie nella fisonomia del paese aprendo l’adito a trasformazioni della vegetazione precedente. Ora se ogni turba- mento nei delicati rapporti che intercedono fra suolo, clima e vegetazione si risolve immancabilmente nella creazione di aree maggiori o minori di terreno nuovo, im- mediatamente invase da disseminuli vegetali il cui apporto è continuo e di gran lunga superiore alla possibilità di sviluppo (1); esso crea contemporaneamente una condizione di malessere anche in una parte almeno della vegetazione circostante, incapace di adattarsi alle nuove condizioni e con ciò un momento di minore resi- stenza nella compagine della vegetazione în situ, una possibilità di soverchiamento da parte delle specie immigrate. In questo fenomeno, che è di rado repentino, ma nel cui verificarsi continuo e lento risiede il meccanismo delle successioni che si ve- rificano nelle vegetazioni di tutti i paesi, tendenti ad uno stato di equilibrio che la lenta vicenda dei climi rende in ogni caso temporaneo, sta il segreto della quasi impossibilità della ricostituzione esatta delle vegetazioni distrutte. Ricostituzione che, quantunque possibile in teoria, praticamente rappresenta soltanto un caso della infi- nita serie delle combinazioni probabili fra gli elementi preesistenti e quelli continua- mente immigranti, tanto varii di esigenze quanto è il loro numero e quindi associabili in una infinità di maniere, in stazioni che, una volta rotta la compagine della vege- tazione che le rivestiva, il combinarsi degli altri fattori dell'ambiente rende pure infinitamente varie. Non credo quindi di accettare la terminologia di Bernatzky, a primo aspetto così semplice e logica. Chi riduce ai processi normali di successione delle asso- (1) Crexents F. E., Research metods in Ecology. Lincoln (Nebraska U. S.) University Publishing Company, 1905. 21 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 407 ciazioni vegetali le trasformazioni indotte nella vegetazione dalla presenza e dal- l’opera dell’uomo, constata come nella sua azione lo si debba considerare, sotto a questo punto di vista, come un agente più o meno, talora molto attivo, di formazione di suolo nuovo per una parte, di disseminazione per l’altra. Le due azioni diventano intenzionali, si sommano nel caso delle culture, associazioni che, per le condizioni di anastatismo del terreno e di difesa contro l’invasione di specie estranee in cui l’uomo le mantiene, quando vengano abbandonate perdono la loro individualità in breve ter- mine di tempo. Ma appunto per questo le specie coltivate e le specie strettamente rude- rali non interessano direttamente il fitogeografo; esse rappresentano per lui, piuttosto che un documento, un istruttivo esperimento di ambiente (1). Allo stesso titolo della vicinanza delle abitazioni, i luoghi calpesti, le siepi, sono la sede di associazioni antropiche che debbono essere rilevate, in quanto si sono prodotte spontaneamente, ma sono strettamente legate alla presenza dell’uomo, sue commensali per dir così ed analoghe in complesso alle precedenti, pel loro sviluppo sul suolo permanente- mente anastatico e quindi per la loro impossibilità di fissarsi altrimenti che in rap- porto coll’attività dell’uomo, che le ha del resto passivamente introdotte. Esse com- paiono infatti solo sporadicamente e transitoriamente fuori dell’immediato contatto colle abitazioni o colle culture, laddove per un certo tempo si determinino le con- diziori edafiche necessarie (2). Un caso meno spiccato di azione umana: è quello in (1) Nei terreni che circondano il Bosco Lucedio e specialmente nei tratti del Montarolo elevati sul piano delle risaie e ridotti a cultura, ho annotato quali piante prettamente arvensi o segetali: Equisetum arvense, Sorghum halepense, Setaria glauca, Poa trivialis, Cynodon Dactylon, Ornithogalum umbellatum, Gagea arvensis, Muscari comosum, M.racemosum, Alliwn vineale, Chenopodium album, Polycarpon tetraphyllum, Portulaca oleracea, Spergularia rubra, Alsine tenuifolia, Stellaria media, Cerastium glomeratum, C. semidecandrum, Stellaria holostea, Agrostemma Githago, Lychnis Flos-Cuculi, Silene vulgaris, S. gallica, Viola arvensis, Brassica nigra, Br. campestris, Br. Napus v. oleifera, Raphanus Raphanistrum, Rapistrum rugosum, Bunias Erucago, Draba verna, Chamaelina sativa, Lepidium campestre, Fumaria officinalis, Papaver Rhoeas, P. dubium, Ranunculus acer, R. arvense, Trifolium arvense, T. campestre, Lathyrus Aphaca, L. Nissolia, L. hirsutus, L. pratensis, Vicia lutea, V. sativa, V. hirsuta, Acthusa Cynapium, Scandix Pecten-Veneris, Anagallis arvensis, Lithospermum arvense, Myosotis arvensis, v. stricta, Convolvulus arvensis, Linaria vulgaris, Veronica arvensis, V. per- sica, Melampyrum arvense, Stachys arvensis, Galium parisiense, Sherardia arvensis, Asperula arvensis, Valerianella olitoria, V. dentata, Knautia arvensis, Specularia Speculum, Erigeron canadense, Matri- charia Chamomilla, Anthemis arvensis, Centaurea Cyanus, Cirsium arvense, Sonchus arvensis. È come specie proprie delle associazioni ruderali: Urtica dioica, U: urens, Parietaria officinalis var. judaica, Polygonum aviculare, Rumex crispus, R. conglomeratus, Atripler hastatum, Chenopodium murale, Ch. album, Ch. ambrosioides, Amaranthus retroflexus, A. ascendens, A. deflexus, Phytolacca decandra, Portulaca oleracea, Lychnis alba, Brassica Erucastrum, Lepidium Iberîis v. graminifolium, Capsella Bursa pastoris, Chelidonium majus, Geum urbanum, Trifolium repens, Conium maculatum, Malva rotun- difolia, Pastinaca sativa, Daucus Carota, Euphorbia Chamaesyce, E. helioscopia, Borrago officinalis, Datura Stramonium, Solanum nigrum, Physalis Alleekengi, Lamium purpureum. Ballota nigra, Sambucus nigra, Verbena officinalis, Artemisia vulgaris, Xanthium spinosum, Arctium ninus, Cirsium lanceolatum, Cichorium Intybus, Tararacum officinale. (2) Ne consegne l’importanza pei nostri paesi, così profondamente influenzati dall'azione del- l’uomo, dello studio accurato, dal punto di vista fitogeografico, anche delle associazioni antropiche: ed ho già avuto occasione di accennarvi altrove (Cfr. Necri G., La vegetazione della Collina di Crea, “ Mem. della R. Accad. delle Scienze di Torino ,, Serie II, vol. LVI (1906), p. 387). Nella pianura padana i luoghi in permanente contatto colle falde acque sotterranee e non direttamente influenzati dalla cultura, tendono a rivestirsi di una vegetazione boscosa, di tipo eustatico e gelicolo, forma- zione per sua natura stabile e geloidale, fimchè le condizioni idrografiche ed edafiche non mutano, DÒ 408 GIOVANNI NEGRI 22 «cui, invece di aversi una trasformazione del suolo tale da rendere possibile soltanto lo stabilirsi di una associazione molto caratteristica, avviene la semplice introduzione di una specie capace di acclimatarsi facilmente, in modo che essa può essere abban- donata alla libera concorrenza colla specie indigena, colla quale si associerà col tempo a formare consorzi nuovi di tipo per la regione. È il caso di introduzione di essenze forestali al quale ho già accennato, le quali, per la loro mole, per la loro attività vegetativa, finiscono col diventare le forme caratteristiche delle associazioni di cui sono entrate a far parte; o quelle di altre resesi molto comuni fra di noi e veramente caratteristiche di certi paesaggi vegetali, senza però assumere una impor- tanza fisionomica così grande; tale, per esempio, l’Agare americana, l'Opunzia nana, la Galinsoga parviflora, Vl Erigeron canadense. Quando la specie dominante dell’associa- zione sia esotica e tale da creare alle specie compagne un habitat abbastanza parti- colare perchè esse costituiscano un consorzio caratteristico; quando specialmente alle specie dominanti se ne aggiungano altre pure esotiche e di provenienza affine, si potrà parlare non più di associazioni commensali come nel caso delle piante segetali o ruderali, ma bensì di associazioni acclimatate. Ho già citati i boschi di Robinia; ricordo come, in Piemonte per lo meno, essi presentino spesso un caratteristico sottobosco di Sambucus nigra. Nella stessa regione che studiamo del resto, lungo il Po, fra Trino e Palazzolo, alla boscaglia spontanea di sponda di Populus alba e nigra si è recentemente sosti tuita una associazione di Robinia pseudoacacia, all'ombra della quale prospera un sede preferita di relitti microtermi di associazioni vegetali un tempo più diffuse. Ma l’evoluzione del clima per un lato e l’azione di sistemazione idrografica da parte dell’uomo, essendosi esercitata nel senso di favorire l’estensione delle stazioni xerofite a scapito delle igrofite nella pianura padana, ne consegue che, mentre la vegetazione microterma restringe ogni giorno la sua area, la termofita si diffonde sempre più e costituisce nella sua maggioranza il materiale d'invasione; tanto più che, per quanto ho detto sopra, i terreni nuovi disponibili. aloidi, le si adattano esclusivamente. Ciò è mostrato anche dall'elenco che faccio seguire delle specie dei luoghi incolti, asciuiti e soleggiati che — circondano il bosco Lucedio: fra ie quali sono segnate con * le più caratteristiche. Notevole come può presumersi è la proporzione delle terofite, mentre le emicriptofite formano la quasi totalità della vegetazione microterma sciafila: Andropogon Ischaemon”, Chrysopogon Grillus*, Setaria viridis, Digitaria sanguinalis, Tragus racemosus”, Anthoranthum odoratum, Phleum pratense, war. bulbosum®, Alopecurus agrestis, Holeus lanatus, Aira caryophyllea*, A. capillaris*, Avena sterilis. Cynodon Daciylon, Eragrostis inegastachya*, E. pilosa, Cynosurus cristatus”, Briza media. Poa bulbosa, Festuca ovina w. ca- pillata”, Vulpia myurus”, Bromus tectorum”, Br. sterilis, Br. mollis, Hordeum murinum, Rumex pulcher, R. Acetosella, Thesium linophyllum v. divaricatum, Scleranthus annuus, Polycarpon teiraphyUum*, Sagina — procumbens, Alsine tenuifolia, Arenaria serpyllifolia, Cerastium glomeratum*, C. semidecandrum*, Silene vulgaris, Tunica sarifraga., Helianthemum Chamacystus®, Reseda lutea*, Arabis Thaliana*, Diplotaxis tenuifolia, Alyssum calycinum*”, Draba verna”, Ranunculus bulbosus, Saxifraga tridactylites*, Potentilla argentea”, Ononis spinosa”, Medicago lupulina. Melilotus officinalis, Trifolium arvense, T. fragiferumî, T. elegans, Astragalus glycyphyllos, Hippocrepis comosa*. Eryngium campesirè, Pimpinella Sarifraga, Foeniculum vulgare, Peucedanum Oreoselinum*, Tordilium marimum, Euphorbia Cyparissias*, Cynan- chum Vincetoricum, Lithospermum officinale”, L. arvense, Echium vulgare”, Heliotropium europaeum?, | Verbascum phlomoides*, V. blattaria, Linaria vulgaris, Scrophularia canina, Rhinanthus major, R. minor, Euphrasia officinalis, Thymus serpyUum, Origanum vulgare, Mentha rotundifolia, M. Pulegiam, Dipsacus laciniatus, D. silrestris, Scabiosa columbaria. Chrysanthemum Leucanthemum, C. vulgare, Artemisia campestris*, Achillaca tomentosa”, Filago Germanica, Guaphalium luteo-album, Inula Coyza*, Pulicaria vulgaris", Xanthium italicum, Centaurea amara”, C. paniculata x. maculosa*, C. Calcitrapa, C. Scabiosa, Carthamus lanatus”, Onopordon Acanthium, Hypochaeris radicata, Picris hieracioides, Tragopogon majus”, Cychorium Intybus, Chondrilla juncea*, Lactuca saligna, L. scariola, Hieracium pilosella”. Do 3 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 409 sottobosco di Phytolacca decandra, Amorpha fruticosa, Oenothera biennis, Erigeron ca- nadense, E. annuus, Solidago glabra, tutte specie dell'America settentrionale tempe- rata. Quando queste specie crescano isolate o non siano capaci di assumere un’im- portanza così notevole; quando sopratutto la loro presenza non alteri sensibilmente la fisonomia vegetale delle associazioni indigene, allora si potrà parlare, dal punto di vista antropico, solo di associazioni inquinate. La scala dell’influenza umana sulla vegetazione va quindi dalle associazioni originarie alle culturali, per termini dell’in- quinamento, dell’acclimatazione, del commensalismo; condizioni che, pure rappre- sentando fatti attuali, corrispondono anche ai modi sopra accennati secondo i quali l’azione dell'uomo si svolge nel tempo; fase di passaggio, fase di sfruttamento, fase di abitazione stabile e di cultura. Mi sono diffuso su queste distinzioni in quanto esse possono preparare una clas- sificazione delle associazioni vegetali in cui si distribuisce la vegetazione padana. Qui, per quanto riguarda il bosco Lucedio e il distretto al quale appartiene, basti rilevare che, mentre mancano le associazioni originarie, il bosco rappresenta un’asso- ciazione inquinata; attorno ad esso i dintorni delle abitazioni ed i campi albergano florule prettamente commensali; le risaie ed i prati, florule ancora commensali, ma caratterizzate dal iargo contributo alla loro costituzione di elementi indigeni. Final- mente i tratti di bosco, in corrispondenza dei quali la quercia è stata sostituita dalla robinia e le boscaglie suddescritte delle alluvioni recenti del Po, sono asso- ciazioni acclimatate. 7. È opinione degli storici (1) locali che i popoli che si sono succeduti prima della dominazione romana nella pianura fra la Dora Baltea e la Sesia, le Alpi ed il Po e dei quali, da un punto di vista fitogeografico, è tutto al più utile ricordare l’immediata provenienza dal littorale mediterraneo, non abbiano potuto, per l’alter- narsi continuo delle migrazioni, mutare la fisonomia della vegetazione più di quanto non lo consenta un certo grado di inquinamento. All’inizio dell'occupazione romana infatti (III sec. a. Cr.) il piano vercellese risulta nella sua parte superiore costi- tuito da una estesissima landa incolta circondata da foreste da ogni lato. Un’estesa foresta era il Brianco comprendente i territori di Salussola, Carisio ed in parte Santhià; una vastissima selva, che aveva principio nel territorio di Crescentino e si estendeva sino a Cortanzana, divideva poi l’alto dal basso Vercellese. Parte di essa erano appunto la silva Palazzolasca e la silva de Lucejo comprendenti le terre attual- mente dipendenti da Fontanetto, Palazzolo, Lucedio, Tricerro, Saletta e Rive. I vecchi nomi locali di Montarolo, Montarucco, Monti, Costa, le numerose indicazioni di valli alludono ab antiquo all’accidentalità di questo tratto del basso Vercellese; mentre già nelle più antiche informazioni toponomastiche e documentarie è conservata la menzione della grande ricchezza d’acqua di questa regione. Causa non ultima questa dell’ab- bandono in cui essa era lasciata, mentre attigue zone della pianura padana e più ancora della fronteggiante collina del Monferrato venivano attivamente coltivate dalle popolazioni, liguri prima e romane dipoi. (1) Droxisorti C., Studii di Storia patria subalpina. Torino, Roux e Frassati ed., 1896, pp. 9 sgg. Serre II. Tox. LXII. Bì 410 GIOVANNI NEGRI 24 In ogni modo è colla occupazione romana che cessa, per la vegetazione del basso Vercellese, il periodo di inquinamento puramente incidentale e passivo ed aumenta il numero e l’importanza delle sedi fisse di abitazione e con esso quello della cultura e dello stabilirsi delle reti stradali. Di queste c’interessano principalmente tre arterie, ammesse, con variazioni di dettaglio nel percorso, che per noi non hanno importanza, dagli autori; l’una parallela e poco distante dalla sponda sinistra del Po per tutto il basso Vercellese, l’altra attraversante il medio e l'alto Vercellese secondo la linea Novara, Vercelli, Ivrea; la terza, meno importante ed anche meno nota nel suo decorso, dal Po (Pontestura = Ad Pontem?) a Vercelli (1). Il periodo romano si può considerare, per l'agricoltura della pianura padana e quindi sotto il punto di vista dell'influenza dell’uomo sulla vegetazione autoctona, come un’epoca di aumentata inva- sione da parte di elementi estranei, non stabilitisi però definitivamente, almeno in tutte le loro sedi. Ciò vale anche pel basso Vercellese, a proposito del quale e per quanto riguarda l'intensità della occupazione romana, si potrebbe citare l'opinione del Dioni- sotti (Studi, ecc., op. cit., p. 25) che in molte località di esso, oltre che alla cultura del suolo, si procedesse all’estrazione dell'oro dalle alluvioni; a queste antiche miniere, l'esercizio delle quali doveva provocare un forte concorso di popolazione alloctona, alluderebbero molte indicazioni toponomastiche duranti tutt'ora. In ogni modo le testimonianze storiche concordano nel dimostrare che, cessata la dominazione romana, nel corso del medio-evo il lungo abbandono e le mutate condizioni della proprietà determinarono una estesa ripresa della vegetazione spontanea. Fatto che per la pia- nura piemontese, territorio di passaggio e devastato da continue guerre, si verificò in iscala minore, ma ripetutamente anche negli ultimi secoli. Nel caso speciale del bosco Lucedio, la conservazione dell’associazione forestale primitiva ininterrotta, per quanto certamente assai alterata nei frammenti residui, sino ai giorni nostri deve attribuirsi, pei tempi romani, ad una protezione parziale o totale a fini di culto (2), poi al suo successivo passaggio, avvenuto sino dai tempi di mezzo, in proprietà di enti religiosi durati sino all’inizio del secolo ultimo scorso. Prima infatti la chiesa di Vercelli, poi due abbazie, quella di S. Michele e quella di S. Maria in Lucedio (3), fondate rispettivamente nell’ VIII e nell’ XI secolo, ne ebbero la proprietà. Le prime carte che parlano del convento di S. Genuario, poi di S. Michele attribuiscono ad esso la Wualda Montadea, ossia la brughiera boschiva (Wualda ev. = Vauda, nome tutt'ora in uso in Piemonte per questo genere di for- mazioni) comprendente i due già accennati territori di Montarueco e di Montarolo; particolare interessante quale indice dell’estensione — dodici secoli addietro — e probabilmente originaria, della associazione della Quercia e della Calluna a tutto il territorio diluviale, sopraelevato sulla pianura circostante e ferrettizzato. (1) Duranpr I., Schiarimenti sopra la carta del Piemonte antico e dei secoli mezzani (© Mem. R. Ace. delle Scienze di Torino ,, Serie I, vol. XIX. — Casaris G., Dizionario geogr. ein. degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Torino, 1837-1856, voci Crescentino, Fontaneto, S. Genuario, Palazzolo, Trino, Vercelli. — Dioxisorti, Op. cit. — Sincero C., Trino, i suoi tipografi e l’Abbazia di Lucedio, Torino, Bona, 1897. — Droxisorti C., Memorie storiche della città di Vercelli, Biella, Amosso, 1861-64. (2) Cfr. Casanis G., Op. cit. (3) Cfr. Sixcero C., Op. cit. — Dionisorri C., Ilustrazioni storico-geografiche della regione sub- alpina. Torino, 1898, pp. 36-48. 25 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 411 Tutto attorno al bosco Lucedio il basso Vercellese si trasformava assai lenta- mente. Il disboscamento e la riduzione a cultura di gerbidi, pruneti, roveti ed altri terreni non coltivati si svolse con lentezza in Piemonte fra l'XI ed il XIII secolo (1). Nel caso speciale del basso Vercellese le difficoltà generali di scarsa popolazione, comunicazioni malagevoli, cattive condizioni economiche per lo stato di guerra con- tinua, erano aumentate dalle necessità di lavori di bonifica tanto più necessari in quanto, oltre agli straripamenti frequenti e disastrosi delle grandi arterie fluviali, il Po, la Dora Baltea, la Sesia, ancora nel XII secolo il Cervo e l’Elvo lo attraver- savano direttamente, mettendo separatamente foce nel Po fra Trino e la Sesia (2). Il regolamento idrografico della regione sta in rapporto, per una parte col così detto canale del Rotto, derivato dalla Dora Baltea presso Saluggia, scavato in parecchi tempi nel corso del secolo XV e spingente le sue propaggini sino a Balzola con diramazioni nei territori di S. Genuario e di Fontanetto, mercè le quali si mette in rapporto colla roggia Stura. Per altra parte con questa roggia stessa, originantesi da fontanili siti presso l’abitato di S. Genuario alimentati da polle minori e da coli di varia provenienza e scaricantesi. dopo aver attraversati i territori di Fontaneto, Palazzolo, Trino, Balzola e Villanova, nella Sesia. Prima dell’escavo di questi corsi gli avvallamenti interposti fra le ondulazioni del terreno di questa regione, valle Orcaria, valle di Credo, ecc., costituivano altrettanti tratti di bosco acquitrinoso in- tercalati nella formazione di brughiera. Anche dopo l'esecuzione di queste opere, l'agricoltura praticata intensivamente rimase limitata ad alcuni centri, regolarmente citati come esempi nelle statistiche che cominciavano ad ordinarsi da parte dei governi, ma poco imitati. S'era infatti introdotta nel Vercellese tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo la cultura del riso, la quale, praticata estensivamente, dava un forte reddito con moderato impiego di mano d'opera e non era tale da indurre variazioni notevoli nè nella composizione, nè nella estensione rispettiva delle associazioni naturali (3). Il riso infatti non veniva dapprima seminato che nei luoghi umidi ed acquitrinosi, non suscettibili di altra cul- tura; inoltre non si praticava la monda, e sino dalla metà del XVI secolo i governi ebbero piuttosto a combattere od almeno a limitare l’estensione delle risaie, consi- derate come altamente malsane, perchè, causa la cattiva distribuzione delle acque, il creare nuovi campi di riso equivaleva ad estendere le paludi. Tutte le primavere torme di contadini scendevano alle terre basse, quasi deserte ed invase da perio- diche inondazioni, e, dopo una scarsa lavorazione, seminavano il riso nelle paludi e nelle bassure suscettibili di venir facilmente irrigate, indi se ne partivano abbando- nando i luoghi sino al momento della raccolta. Le terre si lasciavano poi alternati- vamente a maggese, ed in queste condizioni si comprende come la fiora delle risaie si sia, sino ai giorni nostri — una cultura intensiva non si pratica da molto più di mezzo secolo — conservata assai ricca, aumentata anzi di specie d'importazione cul- turale senza perdere i propri elementi originari. a (1) Gasorro F., L'agricoltura nella regione saluzzese dal sec. XI al sec. XV, È Bibliot. della Soc. Stor. Subalpina ,, XII, 1. Pinerolo, 1901. (2) Drowisorti C., Memorie storiche ecc., Op. cit., vol. I, pp. 31, 32, 33, 37. (3) Pueriese S., Due secoli di vita agricola. Torino. Bona, 1908, pp. 41 e 48. 412 GIOVANNI NEGRI 26 Una cultura più varia, accompagnata da una notevole riduzione delle associa- zioni vegetali spontanee e da una forte infiltrazione di elementi avyentizi nelle aree rimaste incolte, esige anzitutto un’occupazione più intensa del territorio; ed i dati demografici, per quanto non si possedano oltre la metà del XVI secolo (1), mo- strano di quanto si sia aumentata la popolazione in un periodo affatto recente e perfettamente corrispondente all’estendersi dello sfruttamento agricolo presso a poco a tutta l’area disponibile. Quanto all'estensione rispettiva delle varie culture e del- l’area coltivata in rapporto all’area incolta, il più antico catasto completo è quello fatto eseguire da Carlo Emanuele II alla metà del secolo XVIII (2). Il Pugliese (op. cit., p. 41) distingue, usando una divisione territoriale alla quale ho ricorso più sopra io pure, nella pianura vercellese una porzione ‘centrale che può conside- rarsi come delimitata a N. dal corso attuale del fiume Elvo, a S. da una linea teo- rica che vada da Saluggia a Caresana; fra questo confine meridionale ed il corso del Po è compreso il basso Vercellese. In esso, nel corso di 150 anni, come risulta dal confronto dei dati dell’accennato catasto sabaudo con quelli riferiti da Dionisotti sul 1860, i boschi risultano assai diminuiti e ridotti, fatta eccezione pei boschi della Partecipanza di Trino, a macchie isolate od allineate lungo il corso dei fiumi. Si- milmente i gerbidi ed i pascoli naturali si possono considerare come scomparsi. Non è variata sensibilmente l’area occupata da culture campestri o prative, cosicchè si può ritenere che gli incolti utilizzati sieno stati quasi esclusivamente sostituiti da risaie. Di qui l’estensione sempre maggiore della fiora palustre, la quale tuttavia nell’ul- timo cinquantennio ha cominciato a risentirsi anch'essa, impoverendosi, dei più eyvo- luti metodi di cultura e della monda eseguita metodicamente (3). Nelle condizioni (1) Per quanto riguarda le ricerche demografiche cfr. Prato G., Censimenti e popolazione in Pie- monte nei secoli XVI, XVII e XVIII, È Riv. it. di Soc. ,, anno X, fasc. III e IV, maggio-agosto 1906. — Poueuiese, Op. cit. — Casaris G., Op. cit. — Dioxisorti C., Mem. stor., Op. cit. Da queste fonti è tratta la tabella seguente che dà la variazione, presso a poco cinquantennale, della popolazione nei Comuni del basso Vercellese per gli ultimi quattro secoli: | | | | | | Comuni 1° Menzione | 1571) 1612 1663 1700-02) 1752 I ud 1848| 1901 | I | pra resp) er Saluggia Str.rom.Vercelli-Torino, poi XIIsec., — = = 1210 | 1956) 12400) 3ILT 4245 Lamporo XVII secolo. . . o aa = — | 706| 920] 1109) 1529 Crescentino } | Avanzi romani. XI secolo » serra DE | | S. Genuario $ | Ceste? (rom.). XI secolo Ma 2835,(2058.|, —..| .15710|:2864/ (4480) ui 6745 Fontanetto XI secolo. . DE tei cene ez Sa za 11279 \1751| 2265] 2883 Palazzolo X secolo Palaciolum) è — {= |= | = |_979|1024/1677/02920 Trino VI sec. (ap. Rigomagus) Luced. VIII. | — | — | — | 2024 | 3294/6605) 849012013 Morano XII secolo . . È = pe == \1160| — | 3326 Balzola | XI secolo (Carentia?) (com) = ee \1250| — | — | 3685 Rive | | — | 526j — | — 525 | 779 991 1441 Villanuova — | VI secolo. 0 > cutter lella 2 (MR Mottadei Conti — = Wi =. = 708! 977] 1333! 2062 Caresana ACCOLTI 98) — (1542 (es se 3720 (2) Cfr. Praro G., La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII. Torino, STEN, 1908. — Puserisse S., Op. cit. — DroxIsortI C., Mem. stor., Op. cit. (3) Può interessare, allo scopo di tener dietro alla ulteriore evoluzione della vegetazione del bosco Lucedio, nel quale specialmente nella parte bassa non mancano, come appare dallo specchio 27 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 413 attuali anche una larga parte del Montarolo è invasa dalla cultura campestre e risi- cola, le quali del resto lo circondano da ogni lato. Il nucleo più importante di vege- tazione boschiva tutt'ora conservata è rappresentato dai boschi di cui ho descritto più addietro l’ubicazione e le condizioni ecologiche e che nel loro complesso rappre- sentano l’avanzo dell’antica Silva Lucedia. 8. Al quadro d'ambiente, di cui ho cercato di tracciare le linee generali, corri- sponde una formazione forestale della quale faccio seguire il catalogo floristico. Il bosco viene in parte tenuto a ceduo, in parte lasciato crescere a fustaia. Secondo osserva- zioni risalenti alle vecchie inchieste forestali piemontesi, la perfetta crescita della quercia, che nella stazione è l’essenza dominante, richiede dagli otto ai nove anni per lo sviluppo dei cedui, dai settanta ai novanta per quella delle fustaie; vengono così dall'evoluzione completa dell’ associazione, individuati quattro facies che nelle tabelle seguenti sono rappresentati dalle specie inscritte nelle prime quattro colonne: A. vegetazione erbacea eliofila immediatamente successiva al taglio delle fustaie; B. vegetazione cespugliosa eliofila (ca. 2 m. d’altezza); C. vegetazione macchiosa elevata (ca. 6-8 m. d’altezza) con sottobosco più o meno ricco di specie sciafile; D. vegetazione di fustaia adulta con sottobosco arbustaceo sporadico e vegetazione erbacea uniforme e povera. Nelle tre colonne successive sono rispettivamente elen- cate: £. le specie vegetanti nei punti acquitrinosi, specialmente nella parte bassa del bosco sul versante vercellese del Montarolo, in corrispondenza del quale la vicinanza della falda acquea imprime un carattere sensibilmente igrofito e qua e là alicolo ruderale alla vegetazione, ed offre alle specie nettamente spongofite o anche clizofite, floristico che segue, stazioni acquitrinose, l’elenco delle specie di igrofite, clizofite e spongofite, da me annotate nelle risaie che lo circondano da ogni lato: cfr. anche a questo proposito il citato catalogo del Ferraris: Salvinia natans, Marsilia quadrifolia, Panicum Crus Galli, Oryza sativa (var. Birmania, Chinensis, Giapponese nero, Melghetto), O. clandestina, Phalaris arundinacea*, Alopecurus geniculatus*, Calama- grostis arundinacea*, Phragmites communis*, Glyceria fluitans, GI. aquatica, Cyperus serotinus, C. fla- vescens, C. fuscus, C. difformis, C. glomeratus, C. longus, Scirpus silvaticus*, Sc. maritimus, Sc. Holo- schoenus, Sc. lacuster, Se. mucronatus, Heleocharis palustris, Carex muricata*, C. remota, C. coespitosa v. stricta*, C. coespitosa v. acuta, C. verna typ.* e v. longifolia, C. pallescens*, O. glauca*, C. silvatica*, C. pendula*, C. pseudocyperus, ©. vesicaria, C. riparia*, ©. hirta*, Typha minima*, T. angustifolia*, T. latifolia, Sparganium ramosum, Lemna polyrrhyza, L.trisulca, L. minor, Potamogeton pectinata, P. pusilla typ. e var. trichoides, P. graminea, P. natans, P. lucens, P. crispa, P. perfoliata, P. densa, Zannichellia palustris, Najas minor, N. graminea, Anacharis canadensis, Hydrocharis Morsus-ranae, Sagittaria sagittaefolia, Alisma Plantago typ.* e var. graminifolium, Juncus conglomeratus, J. effusus$, J. lamprocarpus*, J. bufonius”, Iris pseudo-Acorus, Polygonum Hydropiper, P. minus, Rumex Hydro- lapathum, Malachium aquaticum*, Myricaria germanica, Elatine herandra, Nasturtium officinale, N. am- phybium, Ranunculus aquatilis, var. fluitans e var. trycophyUus, R. Flammula*, R. repens*, Nymphaea alba, Nuphar luteum var. fluitans, Ceratophyllum demersum, Spiraea Ulmaria*, Lotus uliginosus*, Lythium Salicaria*, L.hyssopifolia, Epilobium Dodonaei, E. parviflorum*, E. hirsutum*, Ludwigia palustris, Myriophyllum verticillatum, Sium erectum, Peucedanum palustre”, Oenanthe silaifolia*, Althea officinalis, Callitriche stagnalis, Lysimachia nwnmularia, L. vulgaris, Myosotis palustris*, Scrophularia nodosa*, Gratiola officinalis", Lindernia pyridaria, Veronica Beccabunga, V. Anagallis, Scutellaria gale- riculata, Stachys palustris, Lycopus europaeus*, L. exaltatus, Mentha aquatica, Utricularia dubia, Galium palustre, Valeriana dioica, Eupatorium cannabinmn*, Petasites officinalis*, Bideus cernuus, B. tripar- titus”, Cirsium palustre”. Con * sono segnate le specie di questo elenco che ho raccolte anche nell’interno del bosco Lucedio. 414 GIOVANNI NEGRI DIS relitti termofughi. per lo più, le prime ed immigrate dalle risaie circostanti, le se- conde, opportune e frequenti stazioni: F. le specie crescenti nel sottobosco di sosti- tuzione, costituito qua e là dalla Robinia introdotta da non molti anni pel ripianta- mento delle aree franose, colla consueta incuria dello svalutamento al quale, pel suo progressivo estendersi, andranno rapidamente incontro i boschi dell'intera tenuta; G. le specie delle aree scoperte. calve, in corrispondenza delle quali la degradazione meteorica, esportato lo strato superficiale di humus, ha creato piccole stazioni xerofile argilloso-ghiaiose secondo il già descritto procedimento. Nelle singole colonne della tabella è indicata anche la frequenza relativa delle specie costituenti le singole fiorule, secondo cinque gradi che corrispondono alle sigle: D (dominante); C (copiosa): S (sporadica); R (rara); Sol. (solitaria). Quanto ai quattro facies principali è pure da notarsi come, rimanendo nelle linee essenziali costanti, le variazioni anche piccole nel contenuto salino del suolo determinino la comparsa di tratti fisionomici secondari della formazione, tale da conferirle una no- tevole varietà. E questo non soltanto fra la parte più elevata e la più bassa del bosco, rispettivamente. cioè il Montarolo e la pianura retrostante, ma anche fra aree comprese nella porzione sopraelevata, la quale. secondo la descrizione che ne ho — fatto, appare percorsa da solchi e da rilievi a condizioni idrografiche ed edafiche opponentisi, per quanto con variazioni di non grande estensione. 29 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 415 Nome delle Specie A B (0; D E G 1 Polypodium vulgare L. R 2 | Nephrodium Filix-mas Rich R 3 | Asplenium Filix-foemina Bernh R 4 | Pteris aquilina L 3 | S 5 | Equisetum maximum Lam . S 6 | Juniperus communis L IS SA NARRA RL 7 | Andropogon Ischaemon L C (0; 8 | Setaria viridis L dyd: Cal C 9 | Digitaria filiformis Koel. . R 10 | Anthoxanthum odoratum L . CANC 11 | Phleum tenue Schrad. R R 1123) MAGNO asperum Jacq . MS S 13 a pratense L v. nodosum (Jacq) . S 14 | Alopecurus pratensis L . ARONNE S 15 È geniculatus L (0; 16 | Agrostis canina L. (0, a alba 3. CHIC S 18 | Calamagrostis arundinacea Roth . 5 19 Phragmites communis Trin . S 20 | Holcus lanatus L . . OS S 21 | Aira caryophyllea L . C (0, 22 | Deschampsia coespitosa PB S 23 | Cynodon Dactylon Pers . (0, (0, 24 | Molinia coerulea Moench CAO 25 | Koeleria cristata Pers SAR S 26 | Eragrostis megastachya Lk . S (0; 27 | pilosa PB . R C 28 Melica nutans L 7 (0) 29 Hi uniflora Retz . C 30 | Briza media L . . . S (0; S1 | Dactylis glomerata L. CC 32 | Poa bulbosa L S 0 33 |, annual. C (0, 34 | , nemoralis L ST 35 | , pratensis L CAINC 36 civas gine C 87 | Festuca ovina L . . C Cc 38 3 capillata Lam C | C 39 5 heterophylla Lam . (OI 40 | Vulpia myurus Gmel . S 41 | Bromus sterilis L . (6) C 49 ta mollis L 3 0 € 43 | Brachypodium silvaticum PB . S| S 44 pinnatum PB SAS 45 | Hordcum murinum L . S Cc 46 | Carex muricata L . S| C 47 » brizoidesL . SMS 48 - leporina L S| S 49 » montana L . S|S|S 50 s verna Chaix CASS 416 GIOVANNI NEGRI 30 Nome delle Specie A B (0) D | EF F G DIRO ar FOLLA SIE SR SEO | S 52 SiufipallescensMni piera cha S CES Ball 23 posa gScop iena ant S S 54 » pendula Huds . IS INCILE S 55 s nitida Host . ERIN ES NITÒ RR i ai arie Inno te 5 et ao ani [lo:S'aet Cas 57 isilvaticaRE A SER e S.SÙaS 58 s riparia Curt S 59 irta bl (0, 60 | Scirpus silvaticus L c 61 | Typha angustifolia L . S 62 | Alisma Plantago L S 63 | Iuncus effusus L S 64 n bufonius L. . S 65 | lamprocarpus Ehrh . | (0; 66 | Luzula pilosa W rat. S| S 67 » Forsteri DC SUSA: 68 s Silvatica Gaud SS 69 3 min IDO 1 S| S d 70 multifiora Laj . i S S 71 | Colchicum autumnale L . S S 72 | Ornithogalum umbellatum L (0; 73 narbonense L . . . .|S S 74 Allium paniculatum L' . . . . .. | R 75 mesi IS S S 76 | Muscari comosum Mill SEE S 77 | Asphodelus albus Mill S R 78 | Anthericum Liliago L STR 79 | Hemerocallis flava L . | | R R 80 | Convallaria majalis L D'asdast a SCUO SO 81 | Majanthemum bifolium DET R 82 | Polygonatum multiflorum AE ESE SAS S S30|VAsparagusivenuifollus DON 4° 0 EST SAROS S 84 | Ruscus aculeatus L VASIMR RS DINO 85 | Tamus communis L PRATI CAN c EG Lene veni Io o sea STA ENArcisSUSNpocti cus pit I CÒ 88 | Iris pseudoacorus L siii S 89 | Gladiolus imbricatus L . S 90 | Platanthera bifolia Rich . S|R 91 | Cephalanthera ensifolia Rich SS | C 92 | Salix alba L. È È (0, 93 » Caprea L. | Sia|rtiS,ieeSA Ss 94 | Populus nigra L_ . STNMISA SAS 95 2 tremula L | S S 96 | È Abito ICSANISEESI SS 97 | Alnus glutinosa Gaertn . S| Cc Cc 98 | Betula alba L . . R 99 | Carpinus Belulus L STUSÙES 100 | Corylus Avellana L SNTSONOS Serie II. Tom. LXII. c 2 Sul LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 417 Nome delle Specie A B Cc D E F G 101 | Quercus pedunculata Ehrh . Si ea REDIRI AED) 102 ” pubescens Willd SS 103 | Castanea sativa Mill . ST US RESA RS 104 | Ulmus campestris L . RA USA OS 105 | Humulus Lupulus L CS C 106 | Urtica dioica L. ; S S S 107 | Asarum europaeum L. . R 108 | Aristolochia Clematilis L S| S S 109 7 pallida WK R 110 | Polygonum dumetorum L CMS C 111 Pi Persicanri te (0; 112 È Hydropiper Huds . (0; 113 aviculare L . © S (0) 114 | Rumex conglomeratus Murr SBINS S 115 obtusifolius L . SS S 116 1 Acetosella L . (0; (0; 117 s Acetosa L . GS 118 | Chenopodium album L S S 119 | Phytolacca decandra L S| S S 120 | Scleranthus annuus L C|R C 121 perennis L . CRIME Cc 122 Alsine tenuifolia Cratnz . CR (0, 123 | Arenaria serpyllifolia L . CR C 124 | Moeringia trinervia Clairv . CER S 125 | Stellaria media Cyr CNG, C 126 5 graminea L . GS 127 3} holostea L , SC 128 | Holosteum umbellatum L S R 129 | Malachium aquaticum Fries S 130 | Cerastium glomeratum Thuill . (0; S 131 4 semidecandrum L C S 132 manticum L S 133 Lychnis Flos-cuculi L CIS | Cc 134 È alba Mill . SACRI SUS 135 | Cucubalus baccifer L . Si NR: S 136 | Silene vulgaris Gark . CANCER BRE CRE ESA SAS 137 italica tPersit S S 138 > uan dh cc C| S 139 | Gypsophyla muralis L S S 140 | Tunica Saxifraga Scop C (0; 141 s prolifera Scop S S 142 | Dianthus Armeria L . . . S| S 143 È Carthusianorum L Ta || IR S 144 A Seguieri Chaix S| S S 145 | Hypericum tetrapterum Fries . (0; S 146 5 perforatum L C 147 È humifusum L C S 148 7 montanum L . : CAS 149 | Helianthemum Chamacistus Mil . (0, 150 | Viola canina L. f. nemorum C 418 GIOVANNI NEGRI 99 | | Nome delle Specie Alì Binp @ | DIE|F|G 151 | Viola tricolor L v. arvensis (Murr) ere, NG c 152 | Atabisielapra@Bernh ee S | TR IATA 1A AR SCOPI IS | S 154 | Alliaria officinalis . e Ghia 155 | Cardamine amara L . . . . S S 156 | s Matthioli Morr . - (0) 157 | A hirsuta L . COMO S 158 A impatiens L . S 159 | Dentaria bulbifera L . CRIS 160 | Draba verna L.. 5 (0; i C 161 | Capsella Bursa- Pastoris Moench . COUS (0; 162 | Clematis Vitalba L > CEEILE CS 163 | Thalictrum aquilegifolium TALI | S R 164 | Anemone nemorosa L CAR C SIMO 165 È Hepatica L. . RMCOAI | c 166 | Ranunculus flammula L. . . .. . C 167 È Rica SAMO Cc 168 3 auricomus L USO - Sol i 169 | z repens L . S Cc 170 È nemorosus DC . SUCRE S 171 s SCOLMI RO E O GuiluS als : 172 3 bulbosas@Ia 0 Ei ce SAC as | c 173 sardous L SIAE aloe Cala 174 | Caltha PAlUStrISsRER Acea ese si Sol i 175 | Epimedium alpinum L_. . . .. . Sol i 176 | Saxifraga tridactilites L .....|S S i 177 > bulbifera L S| 0 S 178 | Sedum maximum Hoffm. . . . . . | i 1/98 RErunuskCerasns ti RT R È, 180 » SpinosaL. . toa CH SAS E 181 | Spiraea Filipendula L S| S 182 O Ulmaria L C 183 | Geum urbanum L . CIS CS 184 | Potentilla alba L . ; C | C 185 È erecta Hampe S| C | S 186 È reptans L . S | (6; 187 3 verna L S| S | S 188 È argentea L S|S | S 189 3 collina Wib SAS 190 È rupestris L S 191 | Fragaria vesca L ; Sali È 192 | Rubus discolor Weihe CS a 193 | Rubus caesius L ; S|jC|S c 194 | Agrimonia Eupatoria I CASA NR c 195 | Poterium Sanguisorba L. S| R 196 | Rosa arvensis Huds S|S 197 » gallica L. CSR 198 s canina L . Lg S 199 | Crataegus monogyna Jacq - SUS S ; 200 | Mespilus Germanica L R 33 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 419 Nome delle Specie A B Cc D E G 201 | Pirus torminalis Ehrh R 202 | Cytisus sessilifolius L MCIRREC R 203 3 hirsutus L 0 204 i, capitatus Scop C 205 | Genista tinetoria L CANG S 206 | n germanica L. CANC S 207 | Ononis spinosa L S S 208 | Medicago lupulina . C|S S S 209 | Melilotus officinalis L S S 210 | Trifolium arvense L . CS 211 | È pratense L . (0; SaS 212 È medium L . C 213 | 5 rubens L C 214 | a elegans Savi S| S R 215 | 5 repens L . STESSE SANS 216 5 patens Schreb . CS 217 È campestre Schreb CIC S 218 | Lotus corniculatus L . CC S 219 » uliginosus Schk . . Cc 220 | Astragalus glycyphyllos L . SMEG Cc 221 | Galega officinalis L .c. . (0; S 222 | Robinia pseudoacacia L . 223 | Coronilla varia L . SMS 2924 | A Emerus L C 225 | Lathyrus silvestris L. CIS 226 » latifolius L . S 227 ; niger Bernh S|S 228 È montanus Bernh . S 229 vernus Bernh . S 230 | Vicia saepium L S 231 s lutea L S 232 n, sativa L. SMR S 233 , CraccaL. S S 234 s hirsuta Graes (0) S 235 | Lythrum Salicaria L . . ; C 236 | Epilobium parviflorum Schreb . S 237 È hirsutum L 7 S 238 | Circaea lutetiana L S 239 | Hedera Helix L 3 Sti AC MC 240 | Eryngium campestre L . S Cc 241 | Pimpinella major L S 242 | È Saxifraga L . S (0; 243 | Angelica silvestris L . S 244 | Pastinaca sativa L È S|S 245 | Peucedanum officinale L ; S 246 | 5 palustre Moench . 247 | A venetum Koch S | R 248 | Tordylium maximum L . SIR 249 | Daucus Carota L È CE MG S 250 | Laserpitium prutenicum Lot S R 420 GIOVANNI NEGRI 34 | | | | | Nome delle Specie A | B | GLi: | ‘Edie | | | | | | 251 | Torilis Anthriscus Bernh . . . . . c | | S|S 252 | Anthriscus silvestris Hoffm. c|Ss|s 253 | Oenanthe pimpinelloides L . . S 254 ° v. silaifolia Qu). 255 | Cornus sanguinea L i. CANSMES 256 | Rhamnus cathartica L S| S 257 È Frangula L S.S 258 | Evonimus europaeus L RS S 259 | Acer campestre L . S| G S 260 | Rhus Cotinus L. i Sol 261 | Polygala vulgaris L Cc | C i S Cc 262 | Geranium Robertianum L C| Cc S 263 5 molle Rini C S 264 È columbinum L GS 265 3 dissectum L Cares 266 n sanguineum L C | 267 A nodosum L. . (6) S 268 | Erodium cicutarium L’Herit (06) (0; 269 | Oxalis corniculata L . C | C S 270 s Acetosella L | S 271 | Linum gallicum L.. c | | 272 | Malva Alcea L. . S|,S | 273 n Silvestris L. SUS S 274 | Tilia cordata Mill . S| | S 275 | Euphorbia verrucosa Lam . G_|_C I S 276 DS dulcis L (0) Cc 277 5 helioscopia L . c | 278 Cyparissias L CRIS 279 | Calluna vulgaris Salisb Coal RieS AE 280 | Primula acaulis L . S|C| Cc S 281 | Lysimachia vulgaris L : S | S| 282 a nummularia L . S| | Si 283 | Ligustrum vulgare L. G, | CH WS | S 284 | Fraxinus excelsior L . 9 US 285 | Vinca minor L . . SS. GAS ae 286 | Cynanchum Vincetoxicum Pers Cc (SMS 287 | Erythraea Centaurium Pers C|C \ESAIUS. 288 | Myosotis palustris Lam . Cc 289 È silvatica Hoff . . SAINGS 290 h hispida Schlecht . c | Cc 291 | Pulmonaria officinalis L . IRE | CS (0) 292 | Symphitum officinale L. . . . . . | CIS] 293 È tuberosum L | C | | Cc 294 | Convolvulus arvensis L . CAIRG | | S 295 saepium L . . C| C| 296 | Cuscuta Epithymum Mur . S | 297 | Solanum Dulcamara L | ST {UR 298 5 nigrum L S | S 299 | Verbascum phlomoides L S | | S 300 5 Lychnitis L . S|S| | S LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 421 Nome delle Specie A B Cc D E F G 801 | Linaria vulgaris L S| S 302 | Serophularia nodosa L Si MR IS 303 canina S S 304 Gratiola officinalis L . C 305 | Veronica spicata L SMS 306 s Chamaedris L SAS S 307 î officinalis L . NSIINS 308 3 serpyllifolia L . ISSTCS 309 persica Poir. S 310 Digitalis ambigua Murr . CSR MS 311 Melampyrum nemorosum L SAC 312 pratense Tausch . Gi | S 313 | Euphrasia officinalis L Cas 314 | Ajuga reptans L Ch MS SS MSAC 315 | Glechoma hederacea L (GG 316 | Brunella vulgaris L COSTE NSA S 317 È laciniata L. . . (O, S C 318 | Melittis melissophyllum L . CS (0, 319 | Galeopsis pubescens Bess Sa 320 di Ladanum L SMS 321 | Lamium purpureum L S 322 : maculatum L SAS 323 5) Galeobdolon Crantz S| Cc 324 | Ballota nigra L. . . SUS. 325 | Betonica officinalis L. S| C R 326 | Stachys silvatica L (CAI GR S 327 | Salvia glutinosa L. C| R 5 328 » pratensis L. CSAR S 329 | Melissa officinalis L . . . SUS 330 | Satureia Calamintha Scheele CS 331 n Nepeta Scheele S 332 n Clinopodium Cav . SG R S 833 | Thymus Serpyllum L. (0; 334 | Origanum vulgare L . CRC S 335 | Lycopus europaeus L. . C 336 | Mentha longifolia Huds . S 337 5 arvensis L o S S 338 È Pulegium L S S 339 | Verbena officinalis L . S S 340 | Plantago major L . C Cc 341 È. media L . CIC 342 3 lanceolata L GG 343 | Galium cruciata L. S S 44 » Vernum Scop . GG 345 È verum L . (0; 346 5 Mollugo L. (0; C 347 a silvestre Poll . S| R 348 Aparine L. CIS S 349 | Sambucus nigra L. SR TCS 350 | Viburnum Opulus L CECA NS GIOVANNI NEGRI Nome delle Specie Lonicera Caprifolium L . Valeriana officinalis L E Valerianella dentata Pollah Dipsacus silvestris Huds 5 laciniatus | Succisa pratensis Moench Knautia arvensis Coult . = silvatica Duby . Scabiosa Columbaria L . Bryonia dioica Jacq . Tasione montana L 2 | Campanula glomerata it 3 Rapunculus L A rapunculoides L . d Trachelium L | Eupatorium cannabinum L . 7 | Tussillago Farfara L. Petasites officinalis Moench Senecio vulgaris L 5 Jacobaea L | Doronicum Pardalianches t 2 | Bellis perennis L _. Solidago Virga-Aurea L . Erigeron canadensis L > annuus Pers 5 acer L . Chrysanthemum Leucanthemum T: È pallens Gay . 3 vulgare L. Artemisia vulgaris L. Achillaea Millefolium L . 5 nobilis L | Filago germanica L . Gnaphalium luteo-album L . silvaticam L i Inula ‘salicina L » Conyza DC E Pulicaria vulgaris L . . È dysenterica FI. Wett Bidens tripartitus L - Carlina vulgaris L. Lappa minor DC Serratula tinctoria . Centaurea Jacea L 5 amara . : Z vochinensis. Bernh 3 5 maculosa Lam = Scabiosa L | Carthamus lanatus L . - | Cirsium lanceolatum Scop . ana 207% QQ QMNNRNI DWODNA Phu Lele ie) QRaANnNnNAIAQ QQIOMOINAaaLQa Qa NE n _ ATDA RUI Ri RR RITI NATA DU dp i (el pd ll (lil deheA) arie a (021) aQnRaOa a 37 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 423 Nome delle Specie A B Cc D KH G 401 | Cirsium arvense Scop. CRIMS | S 402 | 3 palustre Scop S| S 403 | Cichorium Intybus L . CSO | C 404 | Lapsana communis L. . ICAO ESTAS 405 | Hypochaeris radicata L . (O; | 406 | Leontodon hirtus L CC 407 3 autumnalis L. C (0; 408 a hastilis L . € |0S 409 | Picris hieracioides L . CASCO ST ACRI 410 | Tragopogon pratensis L . (0; 411 |) Taraxacum officinale Wit (0) SA IS 412 | Sonchus asper Will COS C 413 - arvensis L (0) C 414 | Lactuca saligna L. S Cc 415. | 3 Scariola L S C 416 | Crepis vesicaria (0; S 417 s setosa Hall. S S 418 A Viren sl O Cc S 419 | Hieracium Pilosella L CAS C 420 È Auricula L , S 421 | È auriculaeforme Fr sad R 422 | A 5 v. Schultesii Sch R 493 | ì prealtum Vill Mica S| S 424 D mona ID Su CECO 425 3 » V. microcephalum Gr . CRC 426 | 5 » V.subcaesium Fr . CO 427 2 umbellatum L G CAS 428 È boreale Fr SS 9. La distribuzione della vegetazione del bosco Lucedio nelle categorie biologiche proposte dal Raunkiaer (1) come guida alle analisi fitogeografiche, permette di ca- ratterizzarla brevemente e da un punto di vista generale. Le specie elencate nello (1) Cfr. RaunzisER C., Types biologiques pour la géographie botanique (“ Acad. roy. de sc. et lettres de Danemark ,, Bull. 1905, N. 5, p. 347-437, 41 fig. — In., Statistik der Lebensformen als Grundlage fur die biologische Pflanzengeographie (* Beihefte zum Bot. Centralblatt. Original-Arbeiten ,, Bd. XXVII, II Abth., Heft. 1, 20. vi. 1910). Per le sigle delle tabelle, do qui il significato: S= succulente; E=epifite; MM= mega- e mesofanerofite; M= microfanerofite; N= nanofanerofite; Ch=chamefite; H=emicriptofite; G= geofite; HH= idrofite; Th= terofite. 424 GIOVANNI NEGRI 3g specchio che precede, possono infatti essere distribuite, seguendo questo metodo, se- condo il modulo (1) seguente: DISTRIBUZIONE PERCENTUALE DELLE SPECIE NELLE CATEG. BIOLOGICHE Numero delle specie | Bosco Lucedio. . .}427|0.2|0.2)0.7] 4) 6 3 |54)|15|09| 16 Modulo tipo (2) -. -|.400| 101 3 | 6 | 17:|-20] ‘(9 er] Re L’esame dello specchietto suggerisce subito aleune considerazioni. Prima di tutto, malgrado la loro scarsità, sono rappresentate le due categorie delle succulente e delle epifite, rispettivamente le prime dal Sedum maximum, nelle stazioni soleggiate in cui il ferretto è commisto ad abbondante pietrisco, le seconde dal Polypodium vulgare, su di un tronco di quercia in stazione particolarmente umida. Poi il numero delle terofite si eleva al disopra della percentuale tipica, ciò che sembra poco corrispon- dente all’indole della stazione, questa forma vegetativa rappresentando il migliore adattamento ad un ambiente in cui la condizione avversa è piuttosto data dalla riduzione dell'umidità che da quella della temperatura. Nel caso speciale la percen- tuale abbastanza elevata deve piuttosto essere considerata come un indice dell’inqui- namento delle associazioni originarie, poichè, come giustamente osserva il Raunkiaer, nel secondo dei lavori citati, le terofite, che sono essenzialmente piante adattate ai climi con estate secca e calda, vengono diffuse dalle culture più facilmente delle specie di qualunque altra categoria, e, quando sieno eventualmente distrutte, rein- vadono pure colla maggior facilità: ed il perchè si capisce. Nondimeno è anche da notarsi che lo stesso Autore commentando una delle tabelle della detta memoria (Tab. 6. p. 183 e 184) osservi come probabilmente il limite fra il clima a terofite, che regna ancora nell’Arcipelago Toscano, ed il clima ad emicriptofite, studiato da lui nelle Alpi per la vallata di Poschiavo, venga a cadere sull'Italia Superiore; ritengo però che bisognerà cercare questo limite nelle Prealpi, nel Preappennino, negl’inclusi della pianura padana, in corrispondenza dei quali i dati climatici richiesti si verificano, non certamente sulla pianura vera e propria, ove l’eccessività non rara del fattore climatico viene regolarmente compensata dall’azione dell'elevato contenuto acqueo del suolo. Del resto le forme caratteristicamente predominanti in confronto al modulo tipo sono le emicriptofite e le geofite. Anche per quanto riguarda queste ultime il Raunkiaer raccomanda molta precauzione nell’apprezzamento dei dati statistici, perchè assai spesso è difficile l’accertare con sicurezza se una specie sia realmente geofita od emicriptofita. Che un certo numero di specie recensite come geofite debba passare (1) Vegetationsspe£ktrum di Raunkiaer. (2) Normalspektrum Id. 39 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 425 ad ingrossare il numero delle emicriptofite ha relativamente poca importanza per queste ultime, perchè la loro proporzione nella flora corrispondente è in genere così elevata che non può essere alterata da qualche centesimo in più od in meno; invece anche una piccola variazione nel computo delle geofite ha la sua importanza, poichè la loro percentuale è piccola anche nel modulo tipo. In ogni modo, quando, come nel caso in questione, il loro numero supera di molto il normale, non se ne può non tener conto, ricordando che, delle geofite, specialmente quelle a bulbo sono assai comuni nei paesi asciutti ed a clima continentale temperato caldo. La flora del bosco Lucedio corrisponde essenzialmente ad un clima ad emicriptofite, cioè proprio della zona temperata fredda o di una zona montana corrispondente. e pre- senta, quale traccia d’invasione da parte di elementi caratteristici della zona tem- perata calda, la proporzione notevole delle geofite e delle terofite, le prime assegnabili con verisimiglianza ad una invasione spontanea, le seconde piuttosto ad una invasione culturale. Non escludo la possibilità, sebbene mi manchino pel momento gli elementi sta- tistici sufficienti di giudizio, che, in tesi generale, nel passaggio dalla flora della pianura alluvio-diluviale a quella degli inclusi collinosi terziari od anche più recenti, vulcanici, si accentui la proporzione delle geofite, quasi preludendo ad un clima di tipo più francamente continentale; e che, in quello alla flora della fascia insubrica di vege- tazione termofila, si verifichi un aumento nella percentuale delle ferofite, delle quali abbiamo veduto l'importante sviluppo nella flora mediterranea. Ma lo specchio sopra riportato ci offre anche una classificazione delle Fanerofite che, per essere limitata al carattere dell’altezza delle gemme ibernanti sul livello del suolo, non è per questo meno naturale, data la subordinazione generale dei fenomeni biologici dell'individuo vegetale alla necessità di difesa dalle condizioni ecologiche sfavorevoli della stagione di riposo. Necessità che, nel caso speciale, si svolgerà con adattamenti diversi, diverse essendo le esigenze delle micro e nanofanerofite eliofile della macchia e delle mesofanerofite del bosco, da quelle del sottobosco, naturalmente sciafilo e composto di elementi in prevalenza termofughi. Osservo inoltre che, come nel modulo tipo, la percentuale delle fanerofite progredisce in ragione inversa delle loro dimensioni, ciò che può ancora spiegarsi, per la specie sciafite, colla protezione del coperto arboreo, per le eliofite, coll’effetto utile del più regolare riscaldamento degli strati dell’aria in contatto col terreno, grazie all’irradiazione notturna ed in- vernale; e che la percentuale complessiva delle fanerofite della stazione in studio, paragonata ai dati riferiti dal Raunkiaer per le diverse zone nella vallata di Po- schiavo, corrisponde a quella della zona montana media (10 °/,), vale a dire a quella zona di massima piovosità e di minima escursione termica, in cui la vegetazione arborea ed arbustacea assumono il loro massimo sviluppo. Delle poche mesofanerofite della fiora del bosco Lucedio i due Populus spora- dicamente diffusi, con un certo e comprensibile aumento nelle aree più depresse, costituiscono un elemento affatto subordinato e la comparsa del quale si comprende facilmente in una stazione che non è la loro caratteristica, data la sua permanente umidità e la prossimità delle estese associazioni che essi formano sulle alluvioni padane. Il castagno e la robinia, entrambi artificialmente e recentemente introdotti, si mantengono tutt'ora allo stato di elementi sporadici e piuttosto della macchia che della fustaia. La quercia rimane adunque, come avviene di solito sugli altipiani dilu- Serie II. Tow. LXII. DÎ 426 GIOVANNI NEGRI 40 viali, la specie dominante e caratteristica dell’associazione, conferendole un facies che l’avvicina alla brughiera boschita. Dal punto di vista delle sue attitudini ecologiche il Quercus pedunculata trova, per quanto riguarda il terreno, sugli altipiani diluviali in genere, e quindi anche sul Montarolo, il suolo argilloso, mediocremente fresco e profondo, e povero di calcare che gli si conviene, e ne fa fede l’abbondanza ed il vigore dei rimessiticei che pul- lulano nel sottobosco, e la fioridezza della ceppaia nei tratti in cui il bosco è colti- vato a ceduo. La quercia, come osserva il Busgen, tollera bene una grande escur- sione termica dall’estate all’inverno, ma soffre facilmente pel gelo, che determina nel suo legno gravi screpolature (1); ora è da ritenersi che, come ho detto parlando del clima del basso Vercellese, l’alta umidità della regione mitighi alquanto la rigidità dell'inverno e la secchezza dell'estate avvicinandone, localmente, il tipo climatico a quello della regione insubrica, della quale sono appunto proprie le fioride brughiere boschite a quercia; e di queste il bosco Lucedio può considerarsi come una propag- gine, nello stesso modo che il Montarolo che esso riveste è geneticamente legato agli altipiani diluviali e che lo era, per esempio, anche l’altipiano novarese, occu- pato, sino a tempi recenti, da associazioni della stessa natura. Nella brughiera boschita è molto agevolmente rilevabile il noto e stretto rap- porto fra le condizioni idriche del suolo e la distribuzione della quercia. Malgrado infatti che questa specie sia una delle più esigenti in fatto di luminosità dell'ambiente, noi la vediamo, a seconda dell’ondulazione del terreno, addensarsi notevolmente negli avvallamenti, costituendo un'associazione a sottobosco ricco, denso, proteggente a sua volta una vegetazione erbacea spiccatamente sciafila; man mano poi che da queste stazioni più declivi ed umide procediamo verso le più salienti, asciutte e sco- perte, la vegetazione arborea si dirada tanto da assumere, per la disposizione spora- dica degli individui, il facies particolare della brughiera pura e disalberata. Nei punti piani, in condizioni ecologiche intermedie, nei quali, anche in uno stadio avanzato di sviluppo della vegetazione arborea, larghi spazi rivestiti di Calluna sono intercalati ad essa, sì fa piuttosto l'impressione di due associazioni strettamente ‘interferenti che non quella di un consorzio unico. Sotto altri climi, nei paesi tropicali, e con una com- posizione floristica affatto diversa, la Savana, formazione vegetale similmente sta- bilita su di un fondo asciutto e parimente eliofila, dà una impressione fisionomica analoga, anche pel corrispondente costituirsi, in vicinanza delle raccolte d’acqua per- manenti, di consorzi vegetali particolari e perfettamente distinti dalla fiora circostante. Sul Montarolo, causa la permanente elevata umidità relativa dell’aria nel corso dei mesi dell'attività vegetativa, manca la genuina brughiera boschita; la calluna vi cresce. ma non in formazione permanente di cui sia la specie dominante e carat- teristica, bensì in tutto il bosco nei primi anni consecutivi ai tagli, poi nelle radure che rimangono scoperte a sviluppo avanzato della specie arborea, riducendosi sempre più, anzi quasi scomparendo all'ombra di questa. La fustaia di quercia rappresenta quindi in questo caso la vera associazione originaria, salvo a costituirsi secondo i (1) Krrcaxer S., Loew und Scaròrer C., Lebengeschichte der Blutenpflanzen Mittel-Europas. Genève, 1904 e seg., fasc. 12 (1911). LA 41 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 427 due facies sopra descritti rispettivamente, per quanto riguarda la vegetazione subor= dinata, sciafilo mesotermo e microtermo. A questa differenza di facies ed alla interferenza fra consorzio e consorzio dovuta al notevolissimo variare della sensibilità, dirò così, ecologica della specie, è dovuta l'estrema varietà della vegetazione del bosco Lucedio; varietà che colpisce l’osser- vatore sino dalla prima visita e che ne distingue la fisonomia da quella, pure così affine, della brughiera boschita occupante la fascia subalpina degli altipiani diluviali. Ritengo anzi che tale sia stato tutto il margine della pianura diluviale, quand’essa, più estesa e subcontinua, si stendeva assai più avanti a S. delle Alpi; e ciò appunto analogamente a quanto, in fatto di sviluppo florido e disordinato di vegetazione, si osserva nelle stazioni ad estesa escursione termica associata ad una forte umidità relativa. Il fatto trova del resto una corrispondenza anche nella maggior ricchezza e nel vigore della vegetazione lianosa (Tamus communis, Humulus Lupulus, Polygonum dumetorium, Cucubalus baccifer, Clematis Vitalba, Lotus uliginosus, Lathyrus sylvester e var. latifolius, Vicia saepium, V. sativa, V. lutea, V. Cracca, V. hirsuta, Hedera helix, Convolvulus saepium, Galium Aparine, Lonicera Caprifolium, Bryonia dioica), nonchè del già accennato epifitismo del Polypodium vulgare. Dal punto di vista della sua origine, gli studi dell’ Andersson sulle torbiere del- l’Italia superiore, hanno mostrato che l'espansione del bosco di quercia vi è rappre- sentata da avanzi copiosi in uno strato superiore, sotto al quale ne giace un altro caratterizzato da abbondanti residui di Pinus sivestris. Qua e là, nello strato supe- riore, compaiono anche traccie del faggio che attualmente non incontriamo vivente che ad un livello assai più elevato s/m. Queste osservazioni sono assai importanti, ma per la loro interpretazione è necessario ricorrere alle estese ricerche compiute fuori d’ Italia sull’evoluzione della vegetazione dal periodo glaciale in poi, ricerche di cui riassumerò i risultati secondo me applicabili nelle condizioni particolari del nostro Paese. 10. Tutti i dati raccolti sinora sui relitti della vegetazione spontanea della pianura padana, possono riassumersi nella conclusione, che, qualora l’azione modificatrice dell’uomo, che vi si esercita da un tempo così lungo e con una attività tanto pro- fonda ed estesa, non fosse entrata in giuoco, la regione, abbandonata al libero con- trasto dei fattori ecologici che vi dominano, sarebbe tutt'ora uniformemente rivestita dalle associazioni forestali costituitesi primitivamente. Queste associazioni assumono, considerate nei loro residui, essenzialmente due tipi: uno più xerofito rappresentato dalla quercia (Quercus pedunculata) e che abbiamo visto essere caratteristico degli altipiani diluviali; l’altro più igrofilo rappresentato dal pioppo (Populus alba e P. nigra) e, secondariamente, dall’ontano e dal salice, proprio della pianura alluviale, dove, -anche attualmente, costituisce numerosi boschi di sponda. Ad alterare il tipo non valgono, data la loro estensione di gran lunga inferiore, nè la florula igrofita delle paludi e degli acquitrini, rispettivamente comuni sull’alluvium e sul diluvium, nè quella xerofila delle ghiaie scoperte, rivestite di gerbidi o dei sabbioni, dotati di una vegetazione sporadica e peculiare; esse costituiscono tuttavia altrettante stazioni ete- rogenee intercalate un tempo nella foresta, oggi nelle culture padane, le quali, prima che l'estensione di queste ultime a scapito della prima ne mascherasse l’azione colla 9 0) 49; GIOVANNI NEGRI 49, ( propria di gran lunga preponderante, debbono aver funzionato quali altrettante sta- zioni d’invasione, altrettanti focolai, se mi è permesso esprimermi così, d’inquina- mento della grande formazione forestale nei punti in cui, per spontanea od artificiale degradazione, la difesa dei consorzi preesistenti contro le specie immigranti diveniva meno attiva (1). Nel caso della pianura padana una forte riserva di specie d’inva- sione, oltre a quelle che vi possono giungere dal littorale e dalle zone perimetrali subalpina e subappennina, è data dalle isole di terreni terziari incluse in essa; regioni accidentate, a terreno di varia origine e composizione e molteplici stazioni le quali conservano, a disposizione dei terreni nuovi che per avventura si formino nell’attigua pianura, una copia ed una varietà di disseminuli tali da aumentare in grado note- vole la probabilità di attecchimento su di essi di elementi eterogenei, ad onta della concorrenza esercitata dall’invasione di specie locali dalle aree. attigue rimaste in- disturbate. Come, anche recentemente e giustamente, ha osservato il Fiori (2), la flora della pianura del Po ha un carattere prettamente submontano. Del resto di una flora pa- dana, intesa come entità fitogeografica, sarebbe meglio non parlare: noi sappiamo troppo poco, da una parte sull'origine e sulla distribuzione delle pochissime specie che vi figurano come endemiche, per poterne sostenere l'origine locale e quindi poco (1) Sull’'importanza di tali stazioni per spiegare l’attuale distribuzione dei vegetali e sulla loro antichità e stabilità ha insistito anche il Grapmawx (cfr. BezieRungen 2wischen Pflanzengeographie und Siedlungsgeschichte, in ° Geographische Zeitschrift ,, Bd. XII, Heft 6, 1906, pp. 305-325). Fondan- dosi sullo studio delle specie steppiche, anch’egli fa dipendere la conservazione di nuclei di tale vegetazione, non mai interrotta, per quanto in certi periodi ridottissima, da un clima stazionale risultante dal cooperare dei varii fattori ecologici, talora su di un’area estremamente limitata, a mantenervi le condizioni d’esistenza indispensabili alle specie in questione. L’A. si è pure posta la domanda dell’estensione che dovevano presentare le stazioni delle piante steppiche, perchè le specie caratteristiche potessero raggiungerle e stabilirvisi al momento della loro invasione. Dal fatto che le superficie occupate oggidì dalle loro colonie, presentano una estensione insignificante e s’incon- trano specialmente in corrispondenza delle roccie e dei pendii più o meno ripidi, se tutte le nostre nozioni concordano in ciò che, dato un clima come l’attuale, non potrebbe supporsi sprovvista di ve- getazione boschiva una superficie maggiore della presente, intendendo naturalmente come tale anche la somma delle aree ridotte a cultura, rimane fuori questione, che dati i mezzi di disseminazione delle specie che c’interessano, perchè l’invasione ne diventasse possibile, le radure debbono essere state più estese e più numerose (la scomparsa completa delle associazioni arboree non è necessaria e, nella nostra regione neppure probabile), e spingersi nel piano, il che non può avvenire che dato un clima più continentale ed in genere più asciutto. Il Gradmann discute anche la realtà o meno del nesso causale, che sembra intercedere fra la distribuzione delle piante steppiche e quella delle abitazioni preistoriche. Il problema è di grande momento, data anche l'opinione del Penck e del Brockmann, alla quale accenno più avanti, secondo me ingiustificatamente favorevole alla quasi esclusiva introduzione antropica degli elementi termoxerofili della nostra flora. L'A. esclude pure questa diretta dipendenza, ritenendo come altrettanto plausibile il riferire la causa dell’accanto- namento di numerose specie steppiche in stazioni antropiche, alla fertilità del suolo (più esatta- mente al suo aloidismo ed anastatismo — efr. Gola 3° — il quale del resto può, oltre che da cause artificiali, dipendere anche da cause naturali e valer quindi, dato l’alicolismo generale della vegeta- zione termo-xerofila, come predisponente all'invasione di stazioni vergini di azione umana), senza escludere neppure una semplice coincidenza dovuta all’aver le antiche popolazioni ricercate, appunto come le piante steppiche, le località aperte e sboscate od almeno non rivestite dalle foreste primitive e chiuse, e quindi liberate, per azione degli agenti atmosferici, della coltre geloide di terreno ori- ginale di foresta. (2) Cfr. Frorr A., Paorerti G. e Bicuinor A., Flora analitica d’Italia, Introduzione, pag. rvu. Padova, 1908. <<» 43 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 429 probabile, data la recente costituzione della stazione, piuttosto che l'immigrazione dopo l’alluvionamento del golfo padano durante il periodo glaciale, ed il loro successivo isolamento nelle stazioni che oggi occupano allo stato di relitti. Esse sono poi in ogni modo troppo scarse, troppo sporadiche, troppo scarsamente sviluppate per assumere un valore caratteristico. D'altra parte i due tipi di vegetazione boscosa citati, sono appunto la continuazione delle due formazioni nemorali submontane mesofite, la sciafila e l’eliofila, rispettivamente di vallone e di pendìo soleggiato, notissime a tutti gli studiosi della nostra vegetazione e quali io stesso ho avuto occasione di descrivere in corso di ricerche sulla vegetazione delle colline terziarie piemontesi (1). Natural- mente, dato il facile eustatismo delle stazioni occupate da spongofite e da sciafite e la conseguente maggior latitudine fra i limiti altimetrici estremi delle loro specie; data la protezione più attiva contro le escursioni termiche estese, degli elementi del sottobosco, da parte del coperto di fogliame, e di quelli degli acquitrini, da parte del- l’elevata umidità relativa degli strati atmosferici più prossimi al terreno ; una copia mag- giore di elementi microtermi prenderà parte alla costituzione della florula dei boschi di alluvione e delle aree acquitrinose, conferendo loro un tipo più spiccatamente mon- tano di quanto non presentino i tratti asciutti delle brughiere: Inversamente la dispo- sizione pianeggiante di queste ultime e la potenza della coltre di materiale detritico ferrettizzato sul quale sono costituite, le rende meno esposte ad un intenso e con- tinuo rimaneggiamento superficiale da parte delle acque meteoriche di quanto non siano i pendii submontani attigui; e più raro in corrispondenza ad esse, l’affiorare di roccie in posto o l’accumularsi di residui ghiaiosi, substrati adatti alla invasione di specie termofile delle rupi della zona submontana o dei greti recenti dei fiumi. Anch'esse quindi, e pel predominare alla superficie della coltre di ferretto, e pel non raro costituirsi di acquitrini dovuti, non alla falda freatica che è profonda, ma al raccogliersi delle acque di precipitazione nelle bassure del terreno quasi impermeabile, sono piuttosto adatte all’attecchire di associazioni di specie eliofile bensì ed anche xerofile, ma piuttosto mesoterme o parzialmente microterme che termofile. Questi dettagli di distribuzione. che trovano la loro spiegazione in fattori stazionali, spie- gano la costituzione da parte di elementi termofughi delle associazioni boschive e, da parte di elementi termofili, l'invasione di quelle sole stazioni scoperte, che sono abba- stanza lontane dalle falde acquee per mantenersi asciutte; elementi propri e prove- nienti, sempre in un caso e spesso nell’altro, dalla regione submontana. In tesi generale, quando si tratti di forme delle quali non possa dimostrarsi l’ invasione recente, il carattere che permette di considerarne la presenza nella flora padana come normale, cioè durante sino dalla sua costituzione nelle sue linee attuali, è l’ uniforme distri- buzione, la costante comparsa ogni qualvolta si verifichino le condizioni, sia pure d'eccezione, loro favorevoli. In queste condizioni si trovano la maggior parte delle specie submontane ed è questa la ragione per la quale noi le consideriamo come caratterizzanti la flora della pianura del Po. Finchè l'inquinamento delle associazioni naturali da parte di elementi alloctoni non è così pronunciato da diventare testimonio (1) Neeri G., La vegetazione della collina di Torino, ©“ Mem. della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, Serie II, vol. LV, anno 1905, p. 33 (145) e seg. 430 GIOVANNI NEGRI 4 di uno stato di trasformazione molto avanzata per deciso mutamento del clima, la sporadicità di specie sicuramente stabilite è segno di variazioni pregresse nelle con- dizioni di ambiente, principalmente nelle condizioni climatiche; la loro costante com- parsa nelle stazioni adatte, l’indice della loro corrispondenza alle condizioni ecologiche generali attualmente in atto e della immutata natura di queste condizioni dalla loro comparsa nella regione in poi. Ma, come ho già detto, se noi consideriamo come assenti le estese culture che hanno ormai quasi completamente accaparrato il piano padano, nelle attuali con- dizioni climatiche, la brughiera boschita a quercie ed il bosco d’alluvione costituito essenzialmente di specie dei generi Populus, Salix, Alnus lo rivestirebbero del tutto, rispettivamente pei terreni diluviale ed alluviale, o presso a poco, tenuto conto di qualche variazione dovuta ad eccezionale allontanamento od avvicinamento della falda acquea dalla superficie del suolo: e, quando si escludano, oltre a questa massa di vegetazione di tipo submontano diffusa nel piano per continuità topografica, le specie microterme delle quali è evidente la discesa ad un livello inferiore al nor- male per via fluviale, o quelle la cui eventuale disseminazione a distanza per mezzo di altri agenti è ben dimostrata, nulla ci soccorre nella spiegazione dell’Raditat delle specie isolate e non disseminabili con mezzi propri, se non ricorriamo all’ ipotesi sopradetta della loro natura di relitto di una vegetazione precedentemente diffusa. Lo stesso si dica nel caso delle stazioni xerofile di cui ho gia fatto menzione, sab- bioni, gerbidi, affioramenti argillosi nudi e simili, dei quali possa dimostrarsi l’esi- stenza, anche nei limiti circoscritti attuali, durante da un’alta antichità: senza una oscillazione climatica, in senso naturalmente inverso a quella precedentemente sup- posta, non è possibile spiegare la localizzazione in esse di specie ad area disgiunta, che non possono esservi giunte per trasporto attuale o disseminate con mezzi propri e che non compaiono neppure costantemente in tutte le stazioni dello stesso tipo e pros- sime a quelle in cui la loro presenza è stata ripetutamente e da tempo accertata (1). (1) In un recentissimo lavoro il Beeuinor (Le colonie di piante microterme sui terreni torbosi della provincia di Padova, pubbl. del Comitato © Pro Flora Italica ,, 1°, in ° Nuovo Giorn. Botan. Italiano ,, Nuova serie, vol. XVIII, luglio 1911) ha concluso che “ le torbe padovane post-diluviali, col complesso della loro vegetazione, documentano recentissime vicende del geologicamente recente bassopiano padano , (pag. 374). Le specie orofile che attualmente vi appaiono localizzate avrebbero verosimilmente raggiunto il piano per disseminazione a più o meno grandi distanze, facilitate anche da stazioni intermediarie fuori della formazione torbosa. Parecchie di esse sono infatti tipiche anemocore, ed altre, che costituiscono il fondo della vegetazione torbicola, possono essere state disseminate, oltre che per via acquea, anche dagli uccelli acquatici. In nota l’egregio A. aggiunge che anche Negri non ha escluso di recente avvento ed introduzione, per le comuni agenzie disse- minatrici di elementi microtermici nella brughiera ed in altre stazioni dell’Agro Torinese, mentre più recisamente De Lorenzi e Gortani hanno interpretati questi elementi come relitti glaciali. Ciò può valere sino ad un certo punto pel Friuli, dati gli stretti rapporti che le espansioni glaciali vi contrassero colla collina ed il piano, non per la pianura padovana e tanto meno per le regioni poste a S. di questa, dove pure esistono su larga scala giacimenti torbosi. Per quanto riguarda l’alta pianura Padana, della quale ho più sicura conoscenza, a me pare che l'immigrazione quaternaria di molti relitti termofughi sia indiscutibile, e del resto recisamente affermata anche nella mia comunicazione al Congresso dei Naturalisti del 1906, alla quale il Béguinot; sì riferisce (p. 12 e 13 estr.). Il recente avvento e distribuzione per opera delle comuni agenzie disse- minatrici è suggerito come una possibilità, verificantesi senza dubbio con frequenza diversa nelle varie ao 45 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 431 Siamo giunti così alle variazioni precesse nel clima ed all’azione sulla vegeta- zione delle sue condizioni nei tempi geologici immediatamente precedenti l’attuale. A proposito dei quali fatti, la grande massa di ipotesi, di teorie, le molteplici inter- pretazioni dei fatti fitogeografici, venuti in campo in questi ultimi anni, debbono essere apprezzate partendo da due considerazioni preliminari. La prima che molte conclusioni troppo schematiche e non sufficientemente autorizzate dal confronto con fatti geofisici attualmente osservabili e coi dati della fisiologia vegetale sono state tratte sui rapporti fra l'estensione delle glaciazioni e le condizioni corrispondenti della vegetazione. La seconda, che, sotto la suggestione dei numerosi e bellissimi studi compiuti dai naturalisti d’oltralpe sulla flora silvatica dell'Europa centrale e setten- trionale, si sono troppo dettagliatamente applicate alla nostra vegetazione, che è quella di una zona marginale dell’area interessata dalle glaciazioni quaternarie, osservazioni e deduzioni che questa sua stessa posizione rendeva solo in parte corrispondenti. Fondandoci su dati glaciologici che trovano la loro corrispondenza nei residui vegetali fossili o nelle traccie delle variazioni di estensione e di distribuzione subite stazioni ed associazioni, che deve però essere presa in esame caso per caso, prima di concludere pro o contro (p. 15). Per esperienza mia, fatta eccezione per la flora alveale dei fiumi, nella quale del resto le specie microterme, che compaiono in corrispondenza delle alluvioni recenti, sono rela- tivamente poco numerose e quasi sempre le stesse, ritengo si verifichi troppo raramente per farla entrare in linea di conto nello spiegare la vegetazione termofuga della pianura. Maggiore impor- tanza assumono certamente i fatti di trasmissione a piccole tappe, per via di stazioni intermediarie, e mi pare anzi che in esse si compendi tutta la storia della vegetazione della pianura padana, stabilita su di un suolo così incessantemente rimaneggiato, prima che l’opera dell’uomo ne fissasse i dettagli topografici a beneficio dell’agricoltura, mediante opere di bonifica che risalgono ai tempi preistorici. Ma anch’essa, dopo l’ultima oscillazione del clima in senso oceanico (periodo silvatico di Briquet. fase postglaciale di Daun?), deve essersi piuttosto esercitata fra stazioni padane e sta- zioni padane, che fra di esse e le montane, salve, bene inteso, le eccezioni. L'analisi della vegetazione microterma del bosco di Trino (95 specie su 428= 22.2 °%/) presa anche nel suo complesso, dimostra del resto come i suoi mezzi di diffusione sarebbero stati insuf- ficienti a permetterle di raggiungere il Montarolo dopo il suo distacco dalla pianura diluviale, per trasporto dei semi a distanza. Le condizioni topografiche della stazione escludono la disse- minazione idrocora e la scarsezza delle forme microterme clizofite e spongofite, un’attiva azione in questo senso degli uccelli palustri. Le specie di cui la fiorula microterma si compone, mesofite per lo più, con qualche xerofita, sono pel 39% prive di disposizioni atte a favorire la disseminazione, per l°8 ed il 5°, rispettivamente bolocore e mirmecocore, il che, ai fini della nostra dimostrazione, presenta la stessa importanza. A questo 52 °/ di specie a disseminazione lontana impossibile, se non intervenga un trasporto passivo, poco probabile, almeno su vasta scala, data l’ubicazione e la natura della stazione, può essere contrapposto il 39%, di anemocore (9% per leggerezza dei semi, 12% per appendici tricomatose, 18% per apparecchi in forma di ali), ed il 9° di zoocore (2 °/ per attacco e 7° per ingestione). Del resto anche queste ultime percentuali rappresentano una notevole infe- riorità di fronte a quelle fornite dal complesso della flora del bosco Lucedio, la quale conta il 47 °/p di anemocore ed il 14 °/, di zoocore. Un calcolo analogo potrebbe essere stabilito per le brughiere del tavoliere torinese. A dimostrare il reale isolamento del Montarolo, nelle condizioni attuali geologiche e topogra- fiche della pianura padana, considerato come stazione botanica, vale anche la localizzazione di aleune specie e la mancanza di alcune altre. Così vi si raccoglie il Ranunculus auricomus estre- mamente raro in Piemonte, e l’Epimedium alpinum, limitato in Piemonte alle brughiere comprese fra il lago di Viverone ed il Ticino, vi aveva una stazione disgiunta ora distrutta (es. in Erb. pe- demontano). Invece alcune specie sciafite (Paris quadrifolia, Scilla bifolia, Helleborus foetidus, Sani cula europaea, Heracleum Sphondilium, Phyteuma betonicaefolium e simili) dei boschi delle prospicienti colline terziarie di Gabiano e Camino, parimenti stabilite su suolo ferrettizzato, vi mancano affatto. 432 GIOVANNI NEGRI 46 dalle formazioni vegetali contemporanee, noi possiamo considerare i periodi di mag- giore espansione dei ghiacciai alpini come quelli in cui, nel clima, s'è più accentuata l'evoluzione verso un tipo oceanico freddo ed umido per sensibile diminuzione della temperatura media estiva e notevole aumento nelle precipitazioni atmosferiche. Alle contrazioni delle aree glaciate, proprie delle fasi interglaciali, corrisponderebbe una variazione del clima in senso inverso, cioè verso un tipo continentale, per eleva- zione della temperatura estiva media e forte diminuzione delle precipitazioni atmosfe- riche. Così, senza grande divario nella media temperatura annuale, senza, d'accordo col Penk, ammettere per le fasi interglaciali un clima propriamente caldo, potreb- bero essere spiegati i fenomeni distributivi della vegetazione, che si possono dedurre dai residui vegetali scoperti sinora in terreni quaternari. ‘ i Il Penck stesso ha recentemente proposto una classificazione geofisica dei climi (1) che, come si adatta alle condizioni attuali delle varie zone terrestri, può essere utilmente applicata alle variazioni che i climi hanno subite nel tempo. Egli osserva che i ghiacciai, originatisi nella regione a clima nivale, si spingono neces- sariamente fuori di essa, nella regione subnivale, ove essi cominciano a sciogliersi. I caratteri di una origine glaciale del suolo compaiono quindi anche lungi dalla regione a clima nivale ed i confini di una precedente glaciazione non coincidono ne- cessariamente colla estensione corrispondente del clima nivale. Questo fatto, formulato precisamente in una classificazione generale e prettamente geofisica dei climi, trova la sua giustificazione nella osservazione già antica della discesa del fronte di ghiacciai in regioni a clima tutt'altro che nivale e la sua spiegazione nelle condizioni speciali in cui si stabilisce il rapporto rilevato dal De Marchi (2) fra le precipitazioni atmo- sferiche che riforniscono i ghiacciai nella loro parte superiore e l’ablazione che li spoverisce dal basso. Quand’esso venga tenuto presente si comprende come, nello stesso modo che l'indice principale del clima nivale, il ghiacciaio, può nelle regioni di limite, spingersi anche laddove sono venute a cessare le condizioni climatiche che ne hanno permesso e ne mantengono la costituzione nella zona superiore da cui discende, così, a più forte ragione, il rivestimento vegetale, che sta in rapporto con un numero ben più grande di fattori ecologici (l’azione dei quali, considerati su di uno spazio ristretto, può anche sostituirsi e compensarsi in modo da fornire in modo assai diverso alla vita vegetale la quantità necessaria e sufficiente di luce, di umidità, di calore, di nutrimento), può variare grandemente, anche su di uno spazio molto ristretto. anche sotto condizioni generali di clima relativamente contrarie; e come il concetto di periodi glaciale, xerotermico, silvatico, debba essere inteso con molta discrezione, considerando ciascuno di essi come un periodo in cui, pur essendo probabilmente presenti nella regione tutti gli elementi floristici, tutte le formazioni vegetali che vi si riseontrano attualmente, è variata rispettivamente l'estensione degli (1) Pescx A., Versuch einer Klimaklassification auf physiogeographischer Grundlage, “ Sitzber. d. kòn. Preuss. Ak. der Wiss. Phys.-Math. Classe ,, 1910, XIL (2) De Marcri L., Nuove teorie sulle cause dell’Epoca glaciale (con riferimento ai lavori precedenti dell'A. sullo stesso argomento), © Atti della Soc. Italiana pel progresso delle Scienze ,, IV Riunione, Napoli, Dicembre 1910, pag. 217 e seg. 47 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 433 uni, la diffusione degli altri, mutandone corrispondentemente piuttosto la fisonomia vegetale che la flora. Per quanto riguarda la regione a sud delle Alpi ed in parte anche il loro pendìo meridionale, esposto a solatìo e scoperto dalle formazioni glaciali almeno sino a 1300 m.s/m, ad eccezione ben inteso delle fronti di ghiacciai, non può quindi valere in senso assoluto l'affermazione del Briquet (1), non interessare alla storia della vegetazione attuale tutto il tempo anteriore al ritiro dell'ultima grande espansione glaciale, la Wurmiana. Il Briquet stesso, in un lavoro posteriore ha riconosciuto come la foresta, coll’intermezzo di una zona di vegetazione di tundra, si sia man- tenuta a S. ed all’esterno dell’inlandsis alpino durante tutto il periodo glaciale. Questa vasta formazione silvana, nella quale anche attualmente noi riconosciamo, come dissi, le traccie di lacune, occupate da paludi, da sabbioni, da gerbidi, e del resto parecchie associazioni arboree di tipo ed esigenze ecologiche assai diverse, non può non aver subito, in rapporto colle variazioni climatiche, alternanze comples- sive di espansione e di ritiro seguendo l’avanzata e la ritirata delle fronti dei ghiacciai, senza però scomparire mai completamente; e, nella sua compagine stessa, variazioni nella estensione reciproca delle associazioni di cui consta, con corrispondente facili- tazione nella migrazione attraverso tutta la regione delle specie proprie alle asso- ciazioni predominanti. In una recensione del libro del Penck anche il Biasutti (2) ha affermato la contemporanea esistenza, durante il periodo glaciale, di tutte le for- mazioni vegetali che noi vediamo figurare con rapporti differenti di estensione e d'importanza a seconda del tipo climatico prevalente. Il suo concetto però, dell’al- ternarsi della posizione entroalpina ed estraalpina per la vegetazione boschiva, a seconda dell’estendersi rispettivo della tundra o della steppa, non vale, secondo me, in senso assoluto. Anche laddove, infatti, per deficienza nei due fattori, calore od umidità, viene a mancare la costituzione di associazioni arboree, la vegetazione in rapporto diretto coi corsi d’acqua permanenti, mantiene il tipo igrofita legnoso e l’attività vegetativa continua. A sud delle Alpi, quindi, e specialmente nella pianura padana, la vegetazione di tundra periglaciale, la vegetazione di steppa delle aree sottratte all’azione diretta della falda acquea, e quella boschiva, nei facies differenti delle sue associazioni xerofile ed igrofile, può benissimo aver coesistito, come coesiste ora, anche durante il periodo glaciale e le fasi interglaciali, assumendo tuttavia cia- (1) Cfr. Briquer Jonn, Le développement des Flores dans les Alpes Occidentales avec apergu sur les Alpes en général (° Rés. scientif. du Congr. Intern. de Botanique ,. Vienne, 1905; Jena, 1906, pp. 130-173). — In., Les réimmigrations postglaciaires des Flores en Suisse (@ Actes de la Société Hel- vétique des Sciences Naturelles ,, 90° Session, 28. 31. vir. 1907, vol. I, Conférences et Procès Verbaux des Séances). (2) Brasurri R., Glaciali ed interglaciali nel quaternario europeo (“ Arch. per l’Antropologia e l’Etnologia ,, vol. XXXVII, Firenze, 1906), pp. 204-206. L'intera oscillazione climatica fra una gla- ciazione e la successiva, viene ad essere così composta nella regione circumalpina: clima europeo- nord-orientale-subartico, poi europeo-occidentale-oceanico, poi europeo-suborientale-continentale ed infine di nuovo subartico; ai quali termini corrispondono dal punto di vista della vegetazione i termini tundra, foresta, steppa e di nuovo tundra. L’A. crede tuttavia che essi non debbano essere presi in senso assoluto e che depositi di foresta, a parte considerazioni d’indole paleontologica o stratigrafica, possano a rigore coincidere colle altre due fasi di tundra e di steppa. Serre II. Tom. LXII. E? 434 GIOVANNI NEGRI 48 scuna formazione una estensione diversa e mutando, pel variare delle interferenze fra associazioni ed associazioni, il loro aspetto e l'aspetto generale della regione. Questo modo d'intendere la reazione della vegetazione alle condizioni assai mutevoli del clima durante e dopo il quaternario, oltre al tener conto dei dati delle osser- vazioni recenti, permette di coordinare anche le osservazioni degli autori che si sono occupati di questo argomento. in accordo con quanto giustamente osserva il Brockmann- Jerosch, che cioè mentre ì giacimenti geologici non valgono che ad orientarci sul modo col quale si sono svolte le variazioni climatiche, la loro natura, il loro carat- tere, non ci vengono svelati che da documenti biologici. Dalla teoria più antica di Kerner, Nehring, Briquet dei periodi xerotermico e silvatico, alle molteplici fasi d’invasione e di ritirata delle specie appartenenti aî cinque gruppi da lui descritti ammesse dallo Schulz, alla concezione forse iroppo semplicista del Brockmann, pel quale, dal quaternario in poi, non è avvenuta altra mutazione climatica che quella da un clima prettamente oceanico ad uno di tipo inter- medio fra l’oceanico ed il continentale, tutte le idee che possiamo formarci sui rap- porti fra la vegetazione ed i climi di cui essa è l'esponente, debbono partire dal concetto fondamentale della inassimilabilità del clima stazionale col clima generale. Le nostre osservazioni, tanto su materiale vivente che su materiale fossile, riposando sempre su dei relitti, prima di trarre qualunque conclusione, dobbiamo aver presente quanto fre- quenti nella vegetazione attuale sieno i contrasti in piccolo, dovuti. come già ho accennato, tanto alla natura strettamente locale delle condizioni ecologiche usufruite o subite dalla pianta. quanto all’azione vicariante che i vari elementi dell'ambiente esercitano per procurare al vegetale la quantità di energia che occorre allo svolgi- mento delle sue attività vitali, e che fino ad un certo punto, è indifferente gli per- venga pel funzionare di questo o di quel meccanismo dell'ambiente esterno. Così, per quanto riguarda i numerosi lavori dello Schulz (1), pare a me, giudicando dalle specie addotte da lui come esempio dei vari gruppi proposti, e delle quali l'A. studia con tanta diligenza la distribuzione attuale, che tali gruppi, se possono essere ecologi- camente giustificati, non corrispondano però, da un punto di vista fitogeografico generale, ai tipi che gli altri autori hanno chiamati xerotermici o silvatici, eurasici, pontici, o mediterranei: piante di tipo continentale o piante riferibili invece ad un gruppo oceanico del quale, dopo che l’importanza ne è stata segnalata dal Nageli (2), (1) Scavtz A., Das Klima Deutschlanas wahrend der seit dem Beginne der Entiwicklung der Gegen- wirtigen Phanerogamen Flora und Pflanzendecke Dewischianas verfiossene Zeit (“ Leitschr. der Deutschen Geologischen Gesellschafi ,, Bd. 62, Jahrg. 1910, Heft 2). Cfr. anche, fra i numerosi ed estesì lavori nei quali l'A. con molto spirito polemico ha sostenuio le sue idee, per quanio riguarda il metodo: Ueber die Eniwicklungsgeschichte der gegenwariigen phanerogamen Flore und Pflanzendecke der nora- deuischen Tieflandes, in © Ber. der Deut. Botan. Gesellsch. ,, Bd. 25 (1907), S. 515 e 536 e seg.; e per la discussione, dal suo punto di vista, delle idee di Briquei: Ueber Briqueis zercihermische Periode, “ Ber. der Deut. Bot. Gesell. ,, Bd 22, 25 e 26 a, anni 1904, 1907 e 1908. (2) Cfr. Nazext1 0., Ueber oesiliche Florenelemente in der Nordosischiceiz (“ Berichte der schwei- zerischen Botanischen Gesellschaft ,, Heft XV, Bern, 1905, pp. 14-25). Questo elemento è, nella fiora dell’Italia settentrionale, assai diffuso e comprende, appunto come l’elemento orientale, specie xerofite e specie mesofite (cfr. rispettiv. sp. pontiche e sp. pannoniche); esso meriterebbe uno siudio a sè, che non sarebbe senza interesse per determinare la genesi della nostra fiora. Intanto nella fiorula det bosco Lucedio possono considerarsi come occidentali: Alopecurus praiensis, Fesiuca capillata, Carex 49 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 435 i fitogeografi cominciano ad interessarsi: elementi infine più propriamente termofili, che, molto opportunamente, dopo le ricerche dell’Hegi (1), del Gradmann, del Beck e di altri si vogliono ora generalmente distinguere dagli elementi puramente xerofili, quantunque anche negli ultimi lavori il Briquet tratti tuttavia la vegetazione termo- xerofila come un tutto unico. Mi sembra perciò, malgrado l'opinione espressa ripetuta- . mente in contrario dall'egregio Autore, che alle categorie dello Schulz si debba asse- gnare piuttosto un valore biologico che un valore fitotopografico, che esse, anzichè gruppi ben caratterizzati ed assumenti fra di loro le relazioni molto varie da lui descritte pel continuo migrare in rapporto colle variazioni climatiche, rappresentino piuttosto la popolazione vegetale di aree ecologicamente ben caratterizzate, tendenti come tutta la flora ad espandersi con una attività che non è uguale per tutte le specie e che dovette variare molto sensibilmente, è vero, a seconda delle vicende dei climi postquaternari, delle quali l’estendersi ed il ritrarsi dei ghiacciai possono considerarsi l'indice e fino ad un certo punto la misura. È certamente un grande merito dello Schulz quello dell’avere, con una copia imponente di osservazioni e con una vasta dottrina perfettamente al corrente di tutti i risultati della moderna glaciologia, mostrato quanto vario e complicato sia stato questo movimento, quanto continua Vin- terferenza delle singole formazioni, quanto instabile l’equilibrio della nostra flora. Ma, secondo me, alle sue conclusioni sulla successione delle vegetazioni, dal quater- nario ai nostri giorni, non può essere data l’estensione che è nella opinione dell’Autore. Meno accettabili mi sembrano le conclusioni del Brockmann (2). Anche recente- mente infatti, per limitarci alle regioni che ci interessano direttamente, il Taramelli ha seritto che (3) “ uno dei migliori risultati della lodata opera dei signori Penck e Briickner è certamente quello di avere dimostrato come il ritiro dei ghiacciai alpini sia avvenuto per gradi, almeno con tre stadi di fermata, che furono anzi tentativi di avanzamento ,, e più oltre che “ dagli studi di Andersson sulla flora delle torbiere postglaciali dell'Alta Italia, risulta che in esse si ravvisano le prove di due climi preistorici. uno ancora rigido conseguente all’ultima glaciazione — (clima del Pinus pilosa, Luzula nivea, Narcissus poeticus, Quercus pubescens (mediterr. occ.), Hypericum humifusum, Rosa arvensis, Cytisus sessilifolius, C. capitatus, Trifolium patens, Lathyrus montanus, Primula acaulis, Coronilla Emerus, Geranium nodosum, Scrofularia canina, ecc. (i) Heer G., Mediterrane Einstrahlungen in Bayern (° Verandl. der Botan. Vereins der Provinz Brandenburg ,, Bd. XLVI (1904), pp. 1-60. — Grapmanx R., Das Pflanzenleben der Schwabischen Alb, 2° Aufl., Tiibingen, 1900. — Beck von Manmacerra (G.) und LercuenAau G., Vegetationsstudien in der Ostalpen, 1 e Il (“ Sitzungsber. der Math. Naturwissensch. Ak. der K. Ak. d. Wissenschaften ,, Bd. CXV-CXVI, 1907-1908). (2) Cfr. l’utilissima inchiesta: Die Verhanderungen des Klimas seit dem Maximum der letzen Eiszeit. Eine Sammlung von Berichten herausgegeben von dem Esecutivkomitee des 11. Internationalen Geologen-Kongresses. Stockholm, 1910, colla memoria di H. Brocxmanw-Jerosca, Die Anderungen des Klimas seit der letzten Vergleischerung in der Schweiz. Inoltre dello stesso Autore: Neue Fossilfunde aus dem Quartar im deren Bedeutung fiùr die Auffassung des Wesens der Eiszeit; e Das Alter des schwcizerischen diluvialen Lòsser; entrambi in “ Vierteljahrsschrift der Naturforschenden Gesellschaft in Ziirich ,, Jahrg. 54, 1909; nonchè: H. und M. Brockmanxn-Jerosca, Die naturlichen Walder der - Schweiz, © Ber. der Schweizerischen Botan. Gesellsch. ,, Jahrg. 1910. — Neuweicer È., Untersuchungen ziber die Verbreitung prihistorischer Holzer in der Schweiz, “Vierteljahrschrift, ecc. ,,1. cit.,Jahrg.55,1910. (3) Taraxerti T., L'epoca glaciale in Italia (IV. Riunione della Società Italiana per l'avanzamento delle Scienze). Napoli, dicembre 1910. 436 GIOVANNI NEGRI 5 silvestris), l’altro probabilmente alquanto più temperato dell’attuale — (clima della Quercus pedunculata) in corrispondenza dell’epoca delle palafitte. D'altra parte le frammenta- zione o l’estrema contrazione delle aree di molte specie della nostra vegetazione sub- alpina non può essere spiegata che come una riduzione in aree ristrette e partico- larmente favorevoli, nel corso di una alterazione del clima abbastanza accentuata per rendere loro inabitabili le stazioni che collegarono precedentemente gli haditat attuali; senza la presenza delle quali poi, non è possibile spiegarne l’ubicazione attuale, neppure ricorrendo al trasporto da parte dell’uomo, del quale mezzo di disseminazione, un tempo troppo poco curato, mi sembra si faccia oggi un abuso ingiustificabile. Così io non posso consentire col Penck (1) e col Brockmann nelle applicazioni, troppo estese, che, secondo me, essi fanno di questa agenzia. L’isolamento di molte specie nelle nostre valli subalpine e di qualcuna nella pianura padana è bensì un dato di fatto, ma lo è altrettanto la loro inadattabilità ad uno dei tanti mezzi di trasporto antropico, o l'impossibilità che questi siano stati messi in opera, o, dato che ciò fosse avve- nuto, che il loro effetto non sia stato una diffusione più efficace, a tante stazioni similmente adattate. Una certa contraddizione di termini sembra intercedere fra il rilievo nelle nostre torbiere delle due sole alternanze accennate di clima rigido e di clima un po’ più caldo dell’attuale, ed il fatto che anche nei nostri paesi la esistenza di almeno tre avanzate postglaciali dei ghiacciai alpini (le fasi di BuAf, di Gschnitz e di Daun) ha finito coll’essere accettata. Come anche recentemente ha scritto il De Marchi, avanzata dei ghiacciai equivale ad abbassamento della tempe- ratura, specialmente della media estiva, ed, almeno nelle nostre regioni non molto lontane dai mari, anche ad una maggior nuvolosità e piovosità: le oscillazioni attuali dei ghiacciai rispondendo, con ritardo, a periodi freddo-umidi che ne determinano l'avanzamento, alternati a periodi caldo-asciutti che ne determinano i ritiri. Non vi è ragione che altrimenti — ed in scala maggiore — non sia avvenuto durante le gla- ciazioni quaternarie. Sempre limitandoci alle condizioni che si verificano nella nostra regione — che, ripeto, fu regione marginale delle grandi espansioni glaciali —, e ram- mentando il rapporto che intercede fra un clima piovoso e la costituzione di asso- ciazioni forestali, fra un clima a stagioni asciutte e l’espansione della vegetazione erbacea xerofila, possiamo dunque, senza staccarci dai dati della fisiologia e dell’osserva- zione attuale, ritenere che, agli accennati fenomeni glaciologici e climatici, sia andata congiunta, come una contingenza necessaria, anche la variazione già accennata nella estensione rispettiva delle formazioni di xerofite e mesofite. Nel caso di una pianura alluvionale come la valle del Po, come causale di queste variazioni deve essere entrato in gioco anche l’innalzarsi e l’abbassarsi della falda acquea sotterranea per rispetto alla superficie del suolo ed il dilatarsi ed il restringersi degli acquitrini, fenomeni ca- paci, come s'è visto; di influenzare alla lor volta il clima locale delle stazioni con essi direttamente in rapporto. Io non so come di fronte a variazioni nella vegetazione che debbono essere state abbastanza grandiose per spiegare tutti i fenomeni attuali di distri- buzione delle specie isolate e che, come ho detto già, debbono avere necessariamente mutata la fisonomia vegetale della regione se non la sua flora, si possa parlare di una (1) Pexcx A. u. Briicener E., Die Alpen im Eiszeitalter. Leipzig, 1909, vol. III, p. 822. 51 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 437 transizione graduale e senza alternanza di climi. Il Biasutti (1) anzi osserva acconcia- mente che le tre fasi di avanzata postquaternarie dei ghiacciai, ci informano proba- bilmente del modo tenuto nel ridursi da tutte le glaciazioni, anche cioè dalle pre- cedenti alla Wurmiana; e l’ammettersi la ripetizione del fenomeno in tutte le sue modalità, ha un valore speciale nel caso della pianura a Sud delle Alpi, nella quale noi sappiamo che le conseguenze sulla vegetazione di ciascuna glaciazione e della fase interglaciale seguente, non sono state che parzialmente abolite dalla variazione climatica che ha determinata la glaciazione successiva. In questo senso deve essere intesa anche la distinzione fra la data d’immigrazione delle piante pontiche sempli- cemente xerofite e quella delle piante mediterranee spesso pure xerofite, ma sempre presentanti un carattere termofilo. Non c'è infatti ragione di pensare che l’immi- grazione interglaciale sia stata limitata alle specie della prima categoria; soltanto esse, grazie alla loro maggiore adattabilità a climi rigidi, hanno potuto attraversare il periodo della glaciazione o delle glaciazioni successive nelle stazioni rimaste sco- perte e, per la natura del loro terreno e per la loro esposizione, asciutte, mentre le piante mediterranee vere e proprie perivano, cosicchè quelle che incontriamo attual- mente sono tutte d’immigrazione posteriore alla fine del quaternario e la loro even- tuale disgiunzione d'area è dovuta alle alternanze di clima postglaciali. Questo vale bene inteso per le prealpi, ed a più forte ragione per le alluvioni padane; non certo per gli inclusi terziari nella pianura, per esempio per le colline monferrine, sulle quali non c'è ragione di credere che le glaciazioni abbiano potuto abolire del tutto l'elemento mediterraneo termofilo (2). Quale valore conserva d’altra parte il concetto più antico del periodo xerotermico e silvatico unici e con caratteri ben distinti, posteriori al periodo glaciale? Da quanto ho detto risulta che questa limitazione esclusiva al tempo postwurmiano non può valere per le nostre regioni, come non potrebbe valere l’assegnamento delle piante ter- moxerofile unicamente ad immigrazioni interglaciali. Tuttavia, quantunque l’ unicità delle fasi rispettivamente caldo-asciutta e umida postglaciale, neppure dal punto di vista della glaciologia e della climatologia, possa essere ammessa; dal punto di vista botanico può essere utile lo studio complessivo dell’elemento corrispondente, specialmente quando l'elemento xerofilo venga distinto da quello termoxerofilo; ed anche fino ad un certo punto giustificato, in quanto l'estensione assai differente dei vari ghiacciai e la durata assai diversa del loro ritiro dopo il massimo avanzamento, deve aver reso in qualche caso poco distinto il trapasso da un.tipo floristico all’altro e comunque non sincrono anche in regioni non molto distanti fra di loro. Questo criterio, in ogni caso pratico, nella trattazione dei singoli elementi floristici che compongono la nostra vegetazione è del resto ammesso anche dal Briquet (3) e mi pare tanto più legittimo in quanto le considerazioni precedentemente svolte ci mostrano con quale discrezione debbano essere accettate le distinzioni troppo minute sulla distribuzione topografica delle singole specie. Distinzioni sulle quali appunto lo Schulz mi sembra essersi trattenuto con più dottrina che fortuna. (1) Brasurri R., Glaciali ed interglaciati ecc., loc. cit., pag. 204. (2) Neri G., La vegetazione della collina di Crea, loc. cit., p. 22 (208) e seg. (3) Briquer J., Le développement des Flores, ecc., loc. cit., p. 173. 438 GIOVANNI NEGRI 52 11. Il Penck (1), dalla considerazione del complesso delle specie vegetali rico- nosciute nei depositi interglaciali del versante meridionale delle Alpi. deduce che vi regnasse, durante le fasi interglaciali, quale associazione caratteristica. un bosco di quercia corrispondente a quello che è tuttavia dominante nella regione balcanica. Osserva poi il Korzchinsky (2) che, data l'estensione nell'Europa occidentale della steppa diluviale, Ja prima specie che vi potesse prosperare era la quercia, capace di costituirsi dapprima in vegetazione cespugliosa, poi di svilupparvisi in associazioni boschive rivestenti tutto il territorio. I risultati degli studi più recenti — e F'ae- cennato studio delle torbiere dell'alta Italia, mostra come le conclusioni debbano essere per noi analoghe — non hanno affatto contraddetto questo modo di vedere. Alla vegetazione di Pinus silrestris accompagnante il grande sviluppo dei ghiacciai all’esterno della loro zona periferica, ridotta ad una vegetazione di tundra, succede, per l'evoluzione del clima verso un tipo più continentale, il diradamento della vegeta- zione boschiva ed, in caso estremo, la sua riduzione in prossimità delle scarse raccolte di acque superficiali stagnanti o correnti e sulle alluvioni a falda acquea sotterranea non molto profonda. Il ritorno ad un clima. bensì sensibilmente più caldo, ma ad umidità più elevata con notevoli differenze climatiche stagionali, è segnato dalla ri- presa della vegetazione boscosa rappresentata questa volta dalla quercia, senza esclu- sione tuttavia del Pinus (3) ‘del quale è nota la forte tolleranza ecologica; è a questo (1) Paxcx A. u. Bricsssz E., Die Alpen, ecc. Le., p.822-23. (2) Koazcamssr S.. Ueber die Enisichung und das Schicksal der Eichenwalder im mitileren Russland (° Englerî:s Jahrb. ,, eic., Bd. XII (1891), pp. 471-485). (3) Del resto, anche laddove il Pinus silresiris è scomparso, sono rimaste a partecipare all’as- sociazione della Quercia, come elementi di notevole frequenza. parecchie delle sue specie accom- pagnatrici. Cito nel caso del Bosco Lucedio, contrassegnando con * le specie per le quali il rapporto è più chiaro: IJuniperus communis”, Poa praiensis, Festuca ovina, Majanthemum bifolium, Populus ire- mula. Beiula alba”, Gypsophyla muralis*, Dianthus Carihusianorum*, Helianthemum Chamaecysius var. culgare”, Spiraca Filipendula*. Euphorbia Cyparissias”, Calluna vulgaris’, Veronica spicata”, Thymus Serpyllum, Scabiosa Columbaria*, Campanula glomerata”, Solidago Virga aurea, Carlina vul- garis*, Hieracium umbellatum (cfr. Sròcx F., Begleitpflanzen der Kiefer in Norddeutschland, © Ber. d. deutsch. Bot. Gesellsch. ,, Bd. XI, Berlin, 1893, pp. 242-248; Grxsx, Ferzeichniss der in Witim- Olenkma-Lande, von dem Heron G. S. Polrakow und Baron G. Maydell gesammelie Pfianzen). È note- role come questa specie e le congeneri, che s'incontrano in altre simili stazioni della pianura padana, o che si accompagnano ancora al Pino dove questo s'è conservato od è stato ripiantato, prendano larga parte alla costituzione delle brughiere, le quali hanno del resto quale specie domi- nante, nell’alta pianura del Po, la Calluna. È pure interessante di rilevare come esse presentino fra di loro affinità tanto edafiche che climatiche, essendo per una parte quasi esclusivamente gelicole, per l’altra sia termofughe, sia tolleranti di grandi variazioni termiche; condizioni che fanno pensare —. che esse, unitamente al Pinus silresiris abbiano potuto sostituire la prima vegetazione di bosco e sottobosco periglaciale. Sull’alto grado di dilavamento dei terreni in diretto rapporto con espansioni glaciali in atto o di poco precesse, è infatti inutile insistere. Quanio al clima, malgrado le discus- sioni tuttora vive sulle condizioni termiche del quaternario, e la probabilità che tali condizioni rappresentassero in genere piuttosto un’accentuazione del tipo elimatieo oceanico, che un abbassa- mento molto pronunciato della media termica, è innegabile il fatto che in prossimità delle fronti glaciali, esse dorerano essere assai ingrate: “ inverni non molto rigidi, ma estati assai fredde, in media una temperatura molto bassa, nebbie frequenti, pioggie e nevi abbondanti, frequenti bufere , (cîr. Da Marcar L., Le cause dell'epoca glaciale, Pavia, 1895). Anche il Lozisssi (Ueber die mechanische Verrcitterung der Sandsterne in gemassigien Klima, “ Bull. de l'Ac. des Sciences de Cracovie ,, CL Math. et Sc. nat., Janvier 1909) dalla decomposizione intensa delle roccie, rilevata in prossimità delle regioni già rivestite di grandi massi ghiacciati, deduce che yi regnasse nel plistocene un clima 53 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 439 punto che avviene la costituzione del querceto di tipo balcanico, mesofito bensì, ma con caratteri di xerofilia abbastanza salienti. Una ulteriore evoluzione è poi avve- nuta in tutta la zona silvatica dell'Europa; la sostituzione cioè delle essenze sciafile alla quercia, i rigetti della quale non possono reggere alla concorrenza di quelle, per es., del faggio, nell'ambiente poco illuminato del sottobosco. Così, senza giungere alla distruzione completa delle foreste di querce, che sono rimaste a rappresentare la vegetazione boscosa xerofila, il predominio nelle regioni temperate fredde è stato assunto dal faggio e dall’abete. Le regioni periferiche all’area interessata dalla grande invasione glaciale non hanno compiuto completamente quest'ultima evoluzione, ma se ne trovano in esse gli accenni, rappresentati dall'invasione più o meno frequente e pronunciata di elementi termofughi, eterogenei alla associazione della quercia od in qualche luogo del castagno che l’ha sostituita. Basta scorrere, per convincersi di ciò, gli elenchi della vegeta- zione dei querceti della regione balcanica, quali ci sono dati dalle recenti opere d’as- sieme del Beck e dell’Adamowich (1). Pure interessante è uno studio pubblicato dal Bernatsky (2) sulla vegetazione arborea della pianura ungherese, nel quale egli mostra come il clima ed i residui della vegetazione naturale non vi corrispondano affatto al tipo steppico comunemente ammesso dai fitogeografi. Nel caso speciale anzi, gli elenchi molto rigido, che indica anzi come clima periglaciale. Sino a che distanza dalle calotte di ghiaccio sì stendesse l’azione di questo clima, non è possibile dire in generale, perchè essa probabilmente variò molto in funzione delle più diverse circostanze locali. Certo si è che l’Anpersson (Beitrége zur Kenniniss des Spùtquartiren Klima Norditaliens, in Die Vervanderung des Klimas seit dem Maximum der letzen Eiszeit ete., op. cit., pp. 92-98) dall'esame delle torbiere della pianura padana, nelle quali ho messo in evidenza, come ho già detto, la costante presenza di un orizzonte a Pinus silvestris, anteriore a quello della Quercia, è giunto alla conclusione che vi dominasse un clima caratterizzato da una media estiva non superiore ai 13°-15° C.: ricordo però a questo proposito quanto ho detto sul valore strettamente stazionale da darsi ai dati climatici in rapporto colla com- posizione della vegetazione. Le osservazioni dello stesso A. portandolo a discutere pel nostro paese anche la dibattuta questione della successione o della contemporaneità della Betulla e del Pino, lo inducono a concludere che i ghiacciai quaternari, al margine meridionale della regione dei laghi insubrici, fossero circondati da una zona di boschi, verosimilmente costituiti, nella porzione più pros- sima ai ghiacciai, di sole betulle, però all’esterno certamente frammiste ad una forte proporzione di pini. Il fatto che la betulla è diffusa nella nostra brughiera padana (cfr. Appendice, 2°) e che si spinge nella pianura sino all'isola diluviale del Montarolo, associata tutt'ora ad un certo numero di elementi della vegetazione del pino, mi sembra fornire un argomento fitogeografico per ammet- tere l’associazione di queste due essenze nelle formazioni boscose immediatamente periglaciali. Quello della ricchezza della brughiera in elementi residui della stessa formazione depone per stretti rapporti fra di esse; mentre ricordo d’aver accennato all’impressione che mi fa la brughiera boschita a quercia della compenetrazione di due associazioni distinte, piuttosto che di una associazione unica. Nel Montarolo gli elementi stessi permangono piuttosto come residui, che come una vera formazione di brughiera, sebbene il Pinus non vi sì trovi più, nè si conservi memoria di individui relitti. Infine la giustificazione ecologica dell’essersi mantenute nella flora del bosco Lucedio le specie xerofile della vegetazione del Pinus silvestris è la stessa che per altri tipi xerofili viene data più avanti (pag. 56, cfr. testo e nota). (1) Exerer A. u. Drupe 0., Die Vegetation der Erde. IV. Die Vegetationsverhiltnisse der illyrischen Linder, von dr. G. Becx von Maxxacetta, Leipzig, 1901, p. 223 e seg.; XI. Die Vegetations verhiilt- nisse der Balkanlinder, v. dr. L. Apamovica, Leipzig, 1909, p. 253 e seg. (2) Berwamsxy J., Ueber die Baumvegetation der ungarischen Tieflandes (Festschrift zur Feier des siebzehnten Geburtstages des Herrn Professor Dr. Patr Asczerson. Leipzig, 1904, pp. 73-86). 440 GIOVANNI NEGRI 54 di piante da lui riportati come caratteristici, mostrano appunto quella miscela di elementi orientali subxerofili e di elementi silvatici che distingue anche il facies del bosco Lucedio da quello della stessa brughiera tipica della pianura padana. Per quanto l'alterazione profonda dovuta all’azione umana permette di rilevarlo, questo consorzio lascia l'impressione di una formazione veramente spontanea, di un accenno, nella lotta continua delle associazioni vegetali, al predominio di elementi testimoni di un clima pregresso, meno continentale e più umido. Infatti, senza diffondermi qui su di una questione che mi propongo di svolgere separatamente, io ritengo che di una diffusione postglaciale del faggio possa parlarsi anche nei nostri paesi. Lo provano la presenza scarsa bensì, ma ormai indiscutibile, dei suoi avanzi nello strato superiore delle torbiere; la frequenza di esemplari spo- radici di questa specie in stazioni assai più basse sul livello del mare del suo nor- male limite inferiore di distribuzione: qualche dato toponomastico e storico accen- nante alla presenza di faggete nella pianura del Po: l’abbassarsi della vegetazione del faggio nelle regioni, come il Friuli, ad alta piovosità e clima spiccatamente ocea- nico: infine, l’accennata invasione delle formazioni di mesofite sciafile della pianura e dei suoi inclusi da parte di elementi della florula accompagnante normalmente il faggio. L’Hock ha accennato alla affinità delle due florule di sottobosco del faggio e dell’ontano ed ai loro continui scambi; io ho, per conto mio, rilevata l’esistenza della florula concomitante al faggio sulla parte più alta della collina torinese dove il faggio ha esistito e s'incontra ancora sporadicamente (1). Pel bosco di Trino è notevole come questo elemento sia riccamente rappresentato. Attenendomi ai dati del citato Autore, così competente in materia, elenco qui le specie del bosco di Trino carat- teristiche della vegetazione del faggio e dell’ontano, segnando con * quelle che più esclusivamente si possono dir proprie delle faggete: Nephrodium Filix mas., Asplenium Filix foemina, Pteris aquilina, Equisetum maximum, Melica uniflora*, M. nutans, Dactylis glomerata, Poa nemoralis, Festuca heterophylla, Brachypodium sylvaticum, B. pinnatum, Carex muricata, C. brizoides, C. montana, ©. pallescens, C. sylvatica, Luzula pilosa, Majanthemum bifolium, Convallaria majalis, Polygonatum multiflorum, Platanthera bifolia, Cephalanthera ensifolia*, Carpinus Betulus*, Asarum europaeum*, Moehringia trinervia, Stellaria holostea*, Silene nutans, Hypericum montanum*, Alliaria officinalis, Cardamine amara, C. impatiens, Dentaria bulbifera*, Anemone Hepatica*, A. nemorosa, R. Ficaria*, R. nemorosus, Pyrus torminalis*, Genista tinetoria, Astragalus glycyphyllus, Vicia saepium, Lathyrus niger, L. montanum, L. vernus*, Trifolium medium, Circaea lutetiana, Hedera Helix*, T'ilia cordata*, Polygala vulgaris, Euphorbia dulcis, Vinca minor, Pulmonaria officinalis, Myosotis silvatica, Scrophularia nodosa, Digitalis ambigua, Melam- pyrum nemorosum, Ajuga reptans, Melittis melissophyllum, Lamium maculatum, L. Ga- leobdolon, Stachys silvatica, Satureia Clinopodium, Sambucus niger. Viburnum Opulus, Galium silvaticum*, Gnaphalium silvaticum, Campanula Trachelium, Lapsana communis, Hieracium boreale. Fino ad un certo punto la definizione di questa espansione forestale (1) Hoòcx F., Brandenburger Buchenbegleiter ($ Verhandl. des Botan. Vereins der Provinz Bran- denburg , (1894), XXXVI Jahrg., p.7 e seg... — In., Studien uber die geographische Verbreitung der Waldpfianzen Brandenburgs (ibid., XXXVII-XLIV (1893-1902)). — Neri G., La vegetazione della col- lina di Torino, loc. cit., pag. 40 (152). È 55 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 441 mesoterma rientra nella terminologia del Briquet, che ne classifica gli evidenti relitti nel suo periodo silvatico postglaciale. Periodo che, come il periodo xerotermico, va però inteso colle riserve esposte più addietro circa la sua estensione e la continuità della sua formazione. Nella pianura padana, in particolare, è opportuna quest’avver- tenza perchè la condizione palustre postglaciale della sua formazione si è mantenuta, nella porzione più bassa e precisamente alluvionale sino ad epoca storica. Una tale con- dizione, contraria colla costituzione di estese associazioni steppiche, vi ha determinata la costante permanenza di quelle particolari associazioni forestali di sponda alle quali ho già accennato e che debbono essersi assai poco risentite delle mutazioni clima- tiche generali. Associazioni nelle quali un notevole contingente di piante montane, trasportate in basso dalle correnti in epoca postglaciale e mantenutesi nelle stazioni più fresche, può aver costituito una riserva di materiale microtermo d’invasione per le finitime associazioni degli altipiani diluviali ed averne a sua volta ricevuti scambi, dei quali bisogna sempre tener conto nell’apprezzamento del valore documentario di ipotetici relitti nella flora della regione. È invece sugli altipiani stessi, sottratte all’azione diretta delle falde acquee, che vengono ad affiorare soltanto al loro piede lungo la linea delle risorgive, che le variazioni climatiche debbono essersi fatte essen- zialmente sentire sulla vegetazione, nello stesso modo che particolarmente influenzati ne sono stati i pendii esterni e più salienti delle catene montane. Anche sugli alti- piani diluviali tuttavia io non credo alla scomparsa completa della vegetazione arborea durante le fasi steppiche, per la facilità colla quale anche oggigiorno vi si incontrano acquitrini e ruscelli circondati da folte macchie; nè ritengo d'altronde possibile la loro completa ed ininterrotta occupazione da parte delle associazioni forestali, data la diffi- cile disseminabilità della quercia e la difficoltà colla quale essa ripristina i tratti di associazione distrutti dagli agenti fisici o dall'uomo. Tutto ciò riesce a conferma del- l'opinione già espressa, che la reazione della vegetazione al clima debba essere stata rappresentata dalla dilatazione e dalla contrazione di associazioni complessivamente stabilite in modo permanente nel distretto in questione. Le traccie di questo fatto sarebbero più facilmente rilevabili qualora le culture non avessero ridotta la vegeta- zione originaria alle condizioni di frammentarietà surricordate. Chi segua, del resto, nei suoi vari stadi la costituzione di una fustaia di quercie, constaterà come la vege- tazione della brughiera nuda si mantenga nelle sue radure e la sostituisca automa- ticamente quando essa venga abbattuta, salvo a cederle nuovamente il passo se le condizioni ecologiche si mantengano tali da permettere la ricostruzione dell’associa- zione forestale. Ed anche sotto questo punto di vista appaiono notevoli le condizioni intermedie già rilevate pel bosco Lucedio, la vegetazione del quale, partecipando pure piuttosto dei caratteri di quella d’altipiano diluviale che di quella dei boschi di allu- vione, assume di questi ultimi la fisonomia lussureggiante, l’aspetto e gli adattamenti più spesso mesofili che xerofili e la frequenza di microterme sciafile: della quale anzi qualcuna è propriamente caratteristica e piuttosto palustre che boschiva, ricordando, colla sua presenza, l'osservazione già fatta dal Gortani (1) per la flora friulana, della tendenza eliofoba delle specie montane che discendono al piano (Agrostis canina, Deschampsia coespitosa, Caltha palustris, Cirsium palustre, Hieracium auriculariaeforme). (1) Gorrani L. e M., Flora Friulana, vol. I, p. 163 e seg. Udine, 1905. Serie II. Tox. LXII. F° 442 GIOVANNI NEGRI 56 D'altra parte nelle radure del bosco stesso, cioè fra le specie eliofile, non man- cano forme montane, quali noi siamo avvezzi a raccoglierne in stazioni in cui, se per la natura del suolo e le sue condizioni di recente costituzione e di scarsa irrigazione, l'escursione termica è certamente molto estesa, le condizioni meteoriche generali compensano in parte l'eccessiva continentalità del tipo climatico stazionale. Nell’uno come nell'altro caso le disposizioni xerofile di cui queste specie sono provvedute, testimoniano del loro avanzato adattamento alla instabilità dei fattori ambientali: mentre, nel caso speciale del Montarolo, il basso grado di - salinità del suolo, anche denudato della coltre di ferretto, ed il tenore elevato dell’umidità relativa, mantengono necessariamente in un limite modesto l’anastatismo della stazione. Delle specie riferite nell'elenco floristico precedente cito: Koeleria cristata, Asphodelus albus, Anthericum Liliago, Leucoium vernum, Narcissus poeticus, Gladiolus imbricatus, Sele- ranthus perennis, Dianthus Carthusianorum, D. Seguieri, Hypericum humifusum, H. mon- tanum, Cardamine impatiens, Epimedium alpinum, Potentilla alba, P. erecta, P. rupestris, Cytisus sessilifolius, C. hirsutus, CO. capitatus, Trifolium medium, Tr. rubens, Calluna vulgaris, Satureia Calamintha, Serratula tinctoria, Centaurea Scabiosa (1). 12. La varietà nella composizione fioristica del bosco di Lucedio è, del resto, resa più evidente dalla presenza anche in esso, malgrado la natura e la posizione della stazione, di un certo contingente di elementi meridionali ed orientali. Dalla tabella precedentemente riportata estraggo le specie che mi sembrano appartenere (1) Queste specie sono considerate come termofughe, per rispetto alle condizioni elimatiche della pianura e quindi da un punto di vista puramente ecologico. Non dovrà quindi recar meraviglia il veder ricomparire il nome di parecchie di esse, negli elenchi dati più avanti di specie mediterranee ed orientali appartenenti alla fiorula del bosco Lucedio; in quel caso è il criterio geografico che viene preso a guida, indipendentemente dall’altitudine alla quale le forme citate prosperano. Sì comprende come nella invasione, durante il quaternario, del terreno nuovo rappresentato dalle alluvioni padane, l'elemento immigratore non potè essere dato che dalle regioni confinanti, almeno nella sua gran- dissima maggioranza; e che, fatta eccezione pel littorale adriatico, dalla flora assolutamente specialè e diffusibile verso l’interno quasi esclusivamente nelle stazioni sabbiose, tali regioni erano tutte montane — Alpi od Appennini — e quindi tali da fornire al piano specie migranti, solo in quanto le condizioni ecologiche speciali di questo, lo rendevano favorevole ad elementi propri di zone altitudinari più elevate. Limitandoci alle specie che solo eccezionalmente scendono al disotto della zona submontana e fatta eccezione per le ubiquiste, che nel nostro caso non hanno impor- tanza, e per le specie proprie delle stazioni rocciose o scoperte, sempre aride e soleggiate (alle esigenze delle quali il bassopiano risponde poco e male e fra cui del resto le specie xerofile citate sì possono considerare come una scelta, alla quale fu possibile occupare aree limitate del bosco Lucedio, per le condizioni ecologiche speciali in cui esso si trova), è legittimo il considerare queste specie complessivamente come elementi termofughi. In un caso simile ha giudicato analogamente anche il Beguinot. Nel suo studio sui colli Euganei egli ha considerato: “...come elementi di clima freddo, sia quelle specie la cui origine deve ricercarsi in regione nordiche e la cui massima attuale dispersione coincide appunto con questi territori, sia quelle che hanno un'evidente origine in paesi di clima caldo, ma che sono note come più comuni o più proprie di zone altitudinari elevate, che spesso servono a caratterizzare. La termofobia di queste specie è inoltre rivelata, sia dalla man- canza o rarità delle stesse, man mano che avanzano da distretti continentali a distretti littoranei, come dall’innalzamento della zona di vegetazione, procedendo da Nord a Sud , (Becuisor A., Saggio sulla flora e sulla fitogeografia dei Colli Euganei, È Mem. della Società Geografica italiana ,, vol. XI, p. 143, Roma, 1904). 57 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 445 più caratteristicamente a questi due gruppi, raccogliendole anch'io sotto i due nomi d’uso di mediterranee e pontiche (1). Possono essere considerate come mediterranee: Andropogon Ischaemum, Phleum tenue, Cynodon Dactylon, Muscari comosum, Asphodelus albus*, Tamus communis*, Aspa- ragus tenuifolius*, Quercus pubescens, Tunica Saxifraga, Dianthus Carthusianorum$, Genista tinctoria, Trifolium rubens*, Coronilla varia, C. Emerus (?), Peucedanum offici- nale, P. venetum, Gratiola officinalis, Melittis melissophyUum*, Satureia Nepeta, Mentha Pulegium, Dipsacus laciniatus, Doronicum pardalianches*, Achillea nobilis, Carthamus lanatus. Debbono invece considerarsi come tipi pontici: Digitaria filiformis, Phleum asperum, Carex brizoides, C. pilosa*, C. nitida, Anthericum liliago*, Aristolochia pallida, Gypsophila muralis, Tunica prolifera, Dianthus Armeria, Arabis glabra*, Epimedium alpinum*, Potentilla alba, P. collina, P. rupestris*, Genista germanica, Lathyrus vernus$, Laserpitium pruthenicum, Malva Alcea, Euphorbia verrucosa, Cynanchum Vincetoricum, Digitalis ambigua, Galeopsis pubescens, Salvia glutinosa, Lonicera Caprifolium, Inula salicina, Centaurea Scabiosa, Lactuca scariola. Una semplice scorsa a quest’elenco basta a mostrare come la natura stessa della stazione ha fatto sì che l’invasione di specie mediterranee e pontiche fosse limitata in numero ed anche per lo più ai tipi meno spiccatamente xerofili ed a forme montane ad esigenze termofile ridotte e spesso sciafile. Nondimeno non man- cano neppure i tipi propri di stazioni asciutte, localizzati nei punti in cui, non sol- tanto il rivestimento arboreo ed erbaceo si sono fatti discontinui, ma ciò è avvenuto per la lontananza della falda acquea, la facile ventilazione della superficie del suolo per la posizione saliente delle stazioni e la distruzione della coltre argillosa del fer- retto; punti nel Montarolo molto rari, come è facile comprendere, ma esempi tanto più significativi di costituzione di climi stazionati estremamente localizzati pel concorso di circostanze ecologiche contrastanti in piccolo dall'ambiente. Come ho già detto, queste piccole stazioni sono tappe di migrazione delle specie che vi si adattano, conservatori di materiali d’invasione ai quali un mutamento generale di climi può dare un’espan- sione notevolissima con alterazione del tipo floristico prima delle associazioni che le rinserrano, poi di tutta la regione. Ma nel caso del Montarolo, isolato frammento del- l’antica pianura diluviale, completamente circondata un tempo da terreni paludosi, oggidì dalla distesa delle risaie, e quindi dotato di una umidità relativa media tale da favorire il costituirsi ed il mantenersi di una vegetazione arborea ed il pronto formarsi, quando venga distrutta, di un denso rivestimento cespuglioso, le oscillazioni delle aree coperte e scoperte debbono essere state minori, le seconde anzi essenzial- mente dovute a disturbi, dirò così, meccanici della compagine della vegetazione arborea riparate al più presto possibile. È quanto, del resto, avviene per la vegetazione delle alluvioni recenti, in corrispondenza della quale l'abbondanza e la vicinanza di una ricca sorgente di umidità agisce come equilibratore dell'ambiente, ne determina una specie di eustatismo, grazie al quale il rivestimento vegetale tende ad occupare (1) Sulle differenze fra le esigenze ecologiche di queste specie, vedasi la nota a pag. prece- dente: con * sono contrassegnati i tipi più precisamente orofili. 444 GIOVANNI NEGRI 58 tutto lo spazio disponibile, rimanendo scoperte, e quindi accessibili all'invasione di specie particolarmente adattate, soltanto le aree, per le ragioni accennate, capaci di mantenersi permanentemente asciutte, o quelle in cui le dette cause meccaniche — così le inondazioni regolari del letto di piena nel caso delle alluvioni — impe- discono la costituzione di associazioni vegetali chiuse e perenni. Nelle rimanenti stazioni più numerose ed estese, la popolazione sì fa da parte di specie che entrano in concorrenza fra di loro colla maggiore attività possibile, escludendo ogni nuovo elemento dalla formazione strettamente chiusa che ne risulta. Solo una forte muta- zione climatica od una causa distruttiva eccezionale o l’azione decisa dell’uomo (boschi di Rodinia citati) possono rompere questa compagine e mutare la fisonomia della vegetazione favorendo decisamente l’invasione di qualche nuovo elemento che sfrutti, sia le nuove condizioni di ambiente, sia la particolare protezione che riceve, coll’aiuto anche di disposizioni biologiche particolarmente adatte. 59 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 445 APPENDICI ® 1%. Floruia dei boschi d’alluvione del Po fra Crescentino e Trino (Appunti ed erborizzazioni personali) (2). Equisetum arvense L., E. ramosissimum Desf., Selaginella helvetica Spring., Tuniperus com- munis L., Andropogon Ischaemon L., Setaria glauca P. B., Panicum Crus-galli L., Tragus ra- cemosus Hall., Digitaria sanguinalis Scop., Alopecurus agrestis L., Phragmites communis Trin., Holeus lanatus L., Cynodon Dactylon Pers., Melica uniflora Retz., Eragrostis megastachya Lk., E. pilosa, Dactylis glomerata L., Poa nemoralis L., Festuca capillata Lam., F. heterophylla Lam., Vulpia myuros Gm., Bromus tectorum L., Br. sterilis L., Br. mollis L. e var. nanus, Brachy- podium silvaticum P. B., Agropyrum repens P. B., Cyperus flavescens L., C. fuscus L., C. glo- meratus L., Scirpus Holoschoenus L., S. lacuster L., S. mucronatus L., Carex stricta Good., C. verna Chaix., C. longifolia Vill., C. nitida Host., C. glauca Murr., Typha minima Funk., Potamogeton natans L., Iuncus conglomeratus L., I. lamprocarpus Ehrh., I. bufonius L., Allium vineale L., Asparagus tenuifolius, Iris Pseudoacorus L., Orchis tridentata Scop., O. militaris L., Listera ovata R. Br., Salix alba L., S. viminalis L., Populus nigra L., P. alba L., Alnus gluti- nosa Gaertn., Quercus pedunculata Ehrh., Humulus Lupulus L., Urtica dioica L., Parietaria officinalis, Thesium divaricatum Jacg., Aristolochia Clematitis L., Polygonum dumetorum L., P. viviparum L., P. lapathifolium L. e var. Persicaria (L.), P. aviculare L., Rumex conglo- meratus Murr., R. obtusifolius L., Chenopodium album L., Ch. Botrys L., Ch. murale L., Ama- ranthus retroflexus L., A. adscendens Lois., Phytolacca decandra L., Portulaca oleracea L., Stel- laria media Cyr., Holosteum umbellatum L., Malachium aquaticum Fr., Cerastium semidecan- drum L., C. glomeratum Thuill., Silene vulgaris Garke, Cucubalus baccifer L., Lychnis alba Mill., Saponaria officinalis L., Myricaria germanica Desv., Hypericum acutum Moench., H. perfo- ratum L., Helianthemum vulgare Gaertn., Reseda lutea L., Viola arvensis Murr., Arabis Tha- liana L., Nasturtium silvestre R. Br., Sysymbrium officinale Scop., Dentaria bulbifera L., Brassica Erucastrum L., Diplotaxis tenuifolia D. C., Alyssum calycinum L., Draba verna L., Hutchinsia petrea R. Br. (? Ferr.), Papaver Rhoeas L., Clematis Vitalba L., C1. recta L., Thalictrum flavum L., Berberis vulgaris L., Sedum acre L., Spiraea Ulmaria L., Geum urbanum L., Potentilla reptans L., Rubus discolor Weihe, R. caesius L., Poterium Sanguisorba L., Rosa canina L., Crataegus mo- nogina Jacq., Ononis spinosa L., Medicago lupulina L., Melilotus albus Desv., Trifolium arvense L., T. repens L., T. montanum L., T. pratense L., T. campestre Schreb., Anthyllis vulneraria L., (1) Data la necessità di confronti fra la flora del bosco Lucedio e quella delle formazioni più prossime di bosco ripario e di brughiera, riferisco qui gli elenchi inediti, frutto di ricerche perso- nali sul terreno e negli erbarii dell'Istituto Botanico di Torino. Per la collina fronteggiante di Gabiano-Camino, yedasi oltre al lavoro citato dal Ferraris, anche la mia memoria, pure menzionata più addietro: Sulla vegetazione della collina di Crea. Ho constatato personalmente la estensibilità dei dati riferiti in quest’ultimo studio, alla regione in discorso, del resto vicinissima. (2) Cfr. anche Ferraris T., Florula del Crescentinese, ecc., loc. cit., passim. 446 GIOVANNI NEGRI 60 Astragalus glycyphyllos L., Robinia Pseudoacacia L., Amorpha fruticosa L., Coronilla varia L., Hippocrepis comosa L., Onobrychis sativa Lam., Lathyrus silvester L., Vicia lutea L., V. sativa L., V. Cracca L., Lythrum Salicaria L., Epilobium Dodonaei Vill., Oenothera biennis L., Myrio- phyllum verticillatum L., Circaea lutetiana L., Eryngium campestre L., Angelica silvestris L., Aethusa Cynapium L., Pastinaca sativa L., Peucedanum Oreoselinum Moench., Torilis Anthriscus Bernh., Anthriscus silvestris Hoffm., Conium maculatum L., Cornus sanguinea L., Rhamnus Fran- gula L., Polygala vulgaris L., Geranium columbinum L., Oxalis corniculata L., Malva silvestris L., Euphorbia plathyphylla L., E. Cyparissias L., Lysimachia nummularia L., L. vulgaris L., Li- gustrum vulgare L., Erythraea Centaurium Pers., Chlora perfoliata L., Echium vulgare L., Myo- sotis silvatica Hoffm., M. palustris Lam., Symphitum officinale L., Convolvulus saepium L., Da- tura Stramonium L., Solanum nigrum L., Verbascum Blattaria L., V. phlomoides L., Linaria vulgaris Mill., L. supina Desf., Scrophularia nodosa L., Sc. canina L., Euphrasia officinalis L., Rhinanthus minor Ehrh., Teucrium Chamaedrys L., Scutellaria galericulata L., Brunella vul- garis L., Lamium maculatum L., Ballota nigra L., Stachys recta L., Salvia glutinosa L., Satu- reia Nepeta Scheele, S. Clinipodium Caruel., Thymus Serpyllum L., Orisanum vulgare L., Lycopus Europaeus L., Mentha longifolia Huds., M. rotundifolia Huds., M. Pulegium L., Ver- bena officinalis L., Globularia vulgaris L., Plantago major L., PI. lanceolata L., Galium Mollugo L., G. Aparine L., Dipsacus silvestris Huds., Knautia arvensis Coult., Scabiosa Columbaria L., Bryonia dioica Jacq., Campanula Rapunculus L., C. Trachelium L., Eupatorium cannabinum L., Petasites officinalis Moench., Tussilago Farfara L., Senecio erraticus Bert., Bellis perennis L., Solidago ca- madensis L., Erigeron canadense L., E. annuus Pers., Matricharia Chamomilla L., Chrisanthemum Leucanthemum L., Ch. vulgare Bernh., Arthemisia vulgaris L., Achillaea Millefolium L., A. tomen- tosa L., Filago germanica L., Bidens tripartitus L., Xanthium italicum Moretti, Arctium minus Bernh., A. nemorosum Lej., Centaurea Jacea L., C. scabiosa L., Carthamus lanatus L., Cirsium arvense Scop., Onopordon Acanthium L., Lapsana communis L., Cichorium Intybus L., Hypo- chaeris radicata L., H. maculata L., Leontodon autumnalis L., Picris hieracioides L., Trago- pogon dubius Scop., Taraxacum officinale Web., Sonchus arvensis L., S. asper Hill., Chondrilla juncea L., Lactuca scariola L., Hieracium Pilosella L., H. Florentinum L., H. umbellatum L. 2. Florula delle brughiere fra Arborio e Gattinara (Appunti ed erbora- zioni personali e materiali dell’'Erbario Malinverni in “ Herb. Pedem. R. Isti- tuto Botanico di Torino ,). Polypodium vulgare L., Nephrodium Filix-mas Rich., Asplenium Filix-foemina Bernh., Pteris aquilina L., Juniperus communis L., Andropogon Ischaemon L., Chrysopogon Gryllus Trin., Phalaris arundinacea L., Anthoxanthum odoratum L., Alopecurus geniculatus L., Agrostis canina L., A. alba L. var. vulgaris With., Holcus mollis L., Aira caryophyllea L., Danthonia provincialis D. C., Triodia decumbens P. B., Molinia coerulea Moench., Cynosurus cristatus L., Eragrostis pilosa P. B., Melica nutans L., Briza media L., Dactylis glomerata L., Poa annua L., P. nemoralis L., P. pratensis/ L., P. trivialis L. var. glabra Dòll., Festuca glauca Lam. var. Pe- dancana Belli n. v., F. pannonica Wulf. var. Barragina Belli n. v. (1), F. capillata Lam., (1) Festuca glauca Lam. var. Pedancana Belli n. v. Glaucissima, foliis setaceis longissimis culmo subaequantibus, spiculis pubescentibus. — Belli ex schedis Herbarii Pedemontani R. Horti Botanici Taurinensis. Festuca pannonica Wulf var. Barragina Belli n. v..Culmo et rachide superne laevibus; floribus et gluma fertili 5-6 m. longis. His notibus differt a typo, cui ceterum convenit (Il:tipo è stato rac- colto dal Ferrari in Piemonte, anche sulla Vauda di Leynì, e da F.Crosetti e P. Fontana alla Rocca di Cavour). Belli, loc. cit. x 61 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 447 F. pratensis L. var. angustifolia Auet., F. heterophylla Lam. var. lejophylla Haekel, F. rubra L. var. fallax Haekel, F. pratensis Huds. var. genuina (f. depauperata ad Fest. pseudololiaceam vergens), F. arumdinacea Schreb. var. genuina Haek., Gliceria fluitans R. Br. var. plicata Fries (1), Vulpia myurus @mel., Nardus strieta L., Bromus mollis L., Br. erectus Huds., Brachypodium pinnatum P. B., Scirpus silvaticus L., S. Holoschoenus L., S. setaceus L., Heleocharis carniolica Koch., H. ovata R. Br., Rbynehospora fusca Dryand., Carex brizoides L., C. leporina L., €. mu- ricata L., C. strieta Good., C. vulgaris Fries., C. pallescens L., C. panicea L., C. silvatica Huds., C. flava L., €. hirta L., C. vesiearia L., Typha latifolia L., T. angustifolia L., Alisma Plan- taco L., Iuncus conglomeratus L. e var. effusus (L.), I. lamprocarpus Ehrh., I. bufonius L., Lu- zula pilosa W. e var. Forsterii D. C., L. albida D. C., L. multiflora Lej., Veratrum album L., Lilium bulbiferum L., Anthericum Liliago L., Hemerocallis flava L., Convallaria majalis L., Majanthemum bifolium D. €., Polygonatum multifloram All, Leucoium vernum L., Narcissus poeticus L., Gladiolus imbricatus L., Gl. paluster Gaud., Iris Pseudoacorus L., Orchis maculata L., Gymnadenia conopsea R. Br., Platanthera bifolia Reichb. e var. montana Reichb., Spiranthes aestivalis Rehb., Cephalanthera ensifolia Rich., Salix alba L., S. purpurea L., S. Caprea L., S. repens L., Populus tremula L., P. alba L., Betula alba L., Alnus glutinosa Gaertn., Corylus Avellana L., Quercus pedunculata Ehrhb., Q. sessiliflora Salisb., Castanea sativa Mill., Humulus Lupulus L., Thesium divaricatum Jaec., Polygonum Persicaria L., Rumex Acetosella L., R. Ace- tosa L., R. erispus L., Seleranthus annuus L., Illecebrum verticillatum L. (?), Arenaria serpil- lifolia L., Stellaria holostea L., Malachium aquaticum Fr., Cerastium glomeratum Thuill., C. se- midecandrum L., C. manticum L., Agrostemma Githago L., Lichnis Flos-cuculi L., Silene vul- garis Garke, S. rupestris L., S. nutans L., S. italica Pers., Tunica saxifraga Scop., Viola hirta L., V. canina L., f. nemorum, Hypericum perforatum L., H. humifusum L., Helianthemum vulgare Gaertn., Arabis arenosa Scop., Barbarea vulgaris R. Br., Capsella Bursa-Pastoris Mench, Tha- lictrum aquilegifolium L., Anemone ranunculoides L., A. nemorosa L., Ranunculus Flammula L., R. nemorosus, D. C., R. repens L., R. acer L., R. bulbosus L., Epimedium alpinum L., Drosera intermedia Hayn., Prunus spinosa L., Spiraea Filipendula L., Sp. Aruncus L., Sp. Ulmaria L., Geum urbanum L., Potentilla alba L., P. erecta Hampe, P. reptans L., P. verna L., P. recta L., P. argentea L., Agrimonia Hupatoria L., Fragaria vesca L., Rubus discolor Weihe, R. caesius L., Rosa gallica L., R. arvensis Huds., Crataegus monogyna Jacq., Sarothamnus scoparius Koch., Cytisus hirsutus L., Genista Germanica L., G. tinetoria L., Ononis spinosa L., Medicago lupu- lina L., Trifolium campestre Schreb., Tr. pratense L., Tr. medium L., Tr. repens L., Tr. mon- tanum L., Lotus corniculatus L. var. uliginosus Schk., Robinia Pseudoacacia L., Hippocrepis comosa L., Lathyrus montanus Bernh., Vicia lutea L., V. sativa L. var. angustifolia (Reich.), Lythrum Salicaria L., Ludwigia palustris Ell., Astrantia major L., Sanicula europaea L., Pasti- naca sativa L., Peucedanum Oreoselinam Moench., Oenanthe pimpinelloides L., Cornus san- guinea L., Rhamnus Frangula L., Evonymus europaeus L., Polygala vulgaris L., Geranium pusillum Burm., G. columbinum L., Linum catharticum L., L. gallicum L., Oxalis corniculata L., Euphorbia Lathyris L., E. palustris L., E. dulcis L., E. Cyparissias L., Calluna vulgaris Salisb., Primula acaulis Jacq., Lysimachia nummularia L., L. vulgaris L., Centunculus minimus L., Ligustrum vulgare L., Fraxinus excelsior L., Vinca minor L., Cynanchum Vincetoxicum Pers., Gentiana Pneumonanthe L., Cicendia filiformis Delarb., Myosotis palustris Lam., M. stricta Lk., Pulmonaria officinalis L. f. saccharata, P. angustifolia L., Symphitum officinale L., Convolvulus arvensis L., €. saepium L., Cuscuta epithymum Murr., Solanum Dulcamara L., S. nigrum L., (1) Gliceria fluitans R. Br. var. plicata Fries 0. Floribus majoribus, 7 mm. longis. Gluma fertilis fortissime nervata, 7. nervis; apice obtusissimo scarioso-sphacelato. Belli, loc. cit. 448 GIOVANNI NEGRI — LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO, ECC. 62 Verbascum phoeniceum L., Serophularia nodosa L., S. canina L., Gratiola officinalis L., Vero- nica spicata L., V. serpyllifolia L., V. arvensis L., Melampyrum pratense L., M. nemorosum L., Rhinanthus Alectorolophus Poll, Odontites lutea Rehb., Orobanche Rapum-Genistae Thuill., Ajuga reptans L., Brunella vulgaris L., Br. laciniata L., Glechoma hederacea L., Melittis melis- sophyllum L., Galeopsis Tetrahit L., G. pubescens Bess., Lamium Galeobdolon Crantz., L. al- bum L., Ballota nigra L., Stachys officinalis Trevis, S. silvatica, Salvia pratensis L., S. gluti- nosa L., Satureia Clinopodium Caruel., Thymus Serpillum L., Lycopus europaeus L., Mentha rotundifolia Huds., M. arvensis L., M. aquatica L., Verbena officinalis L., Plantago major L., P. laneeolata L., Galium vernum Scop., G. verum L., G. Mollugo L., G. palustre L., Vaillantia muralis L., Lonicera Caprifolium L., Viburnum Opulus L., Valeriana officinalis L., Knautia arvensis Coult., K. silvatica Duby., Jasione montana L., Phyteuma betonicaefolium Vill., Cam- panula patula L., Eupatorium cannabinum L., Senecio vulgaris L., S. nemorensis L., S. al- pester D. C. e var. Gaudini Greml., Arnica montana L., Solidago Virga-Aurea L., Erigeron annuus Pers., Matricharia Chamomilla L., Chrysanthemum Leucanthemum L., Ch. vulgare Bernh., Arthemisia vulgaris L., Achillea Millefolium L., Gnaphalium sylvaticum L., Inula salicina L., I. hirta L., L montana L., Xanthium italicum Moretti, Carlina vulgaris L., Arctium minus Bernh., Serratula tinctoria L., Centaurea Jacea L., C. vochinensis Bernh., Cirsium palustre Scop., Hypochaeris radicata L., H. maculata L., Leontodon hispidus L. var. danubialis Jacq., Trago- pogon dubius Scop., Hieracium Pilosella L., H. prealtum Vill., H. fiorentinum All, H. Auri- cula L., H. murorum L., H. vulgatum Fr., H. murorum L. e var. microcephalum Gremli, . H. boreale Fr. Torino. R. Istituto Botanico. Giugno 1911. NUOVA: CONTRIBUZIONE ALL'ANATONIA: DELLE SOLANEE MEMORIA Prof. EDOARDO MARTEL (CON UNA TAVOLA) Approvata nell'adunanza del 18 Dicembre 1910. PRIMO QUESITO Dell’ufficio devoluto al libro interno nelle Solanee in relazione coll’anatomia del fusto. In una memoria precedente presentata alla Accademia dei Lincei, essendomi trattenuto esclusivamente su l’anatomia del fiore, ho pensato continuare i miei studi col trattare ora dell'anatomia del fusto, fermandomi in modo speciale sulla questione tanto discussa dell’origine e dell’ufficio del libro interno. Convinto che nei lavori di anatomia sono le illustrazioni grafiche ricavate dai preparati microscopici, quelle che più giovano per formarsi un concetto esatto dei fatti e trarne le debite conseguenze, mi sono applicato a corredare le mie brevissime descrizioni col numero maggiore di disegni. I generi e le specie di cui mi servii in questo lavoro furono le seguenti: Nicandra physaloides Cestrum Parquei Lycium carolinianum Solanum tuberosum Atropa belladonna 5 esculentum Atropa arborea 5 lycopersicum Datura stramonium 5 nigrum Datura Metel 5 glaucescens Physalis alkekengi 5 argenteum Alkekengi somniferum Nicotiana tabacum Hyosciamus niger Petunia nyctaginiflora Cestrum pendulinum Verbascum blattaria. Serie II. Tox. LXII. (E° 450 EDOARDO MARTEL 2 Avrei desiderato di fermarmi assai più lungamente di quello che ho fatto, sulle varie teorie emesse degli autori riguardo agli argomenti di cui questa memoria si occupa. ma il tempo di cui posso fruire per lavori di laboratorio è troppo ristretto per permettermi di entrare in lunghe discussioni. Nulla trascurai però per mettere in rilievo i punti culminanti delle varie con- troversie e specialmente le conseguenze che i varì autori credettero trarre dalle loro osservazioni. Mi sia concesso prima di terminare questo breve lavoro di porgere alla Dire- zione dell'Orto Botanico della R. Università di Torino i miei più sinceri ringrazia- menti per gli aiuti in materiali ed in opere di cui mi fu larga nel corso delle mie ricerche. T Tessuti meccanici. Numerosi sono i gruppi vegetali nei quali spiccano differenze talora considerevoli nelle qualità del fusto fra le varie specie. Questi gruppi però offrono anche per altri versi, tali particolari, da aver costretto i sistematici a suddivisioni più o meno numerose, e si comprende che in questo caso la descrizione anatomica del fusto possa acquistare certa importanza nel definire i limiti fra le varie sottodivisioni. La famiglia delle Solanee invece, a consenso di tutti. forma per la omogeneità dei caratteri, uno dei gruppi vegetali più naturali, ma quella omogeneità non è però tale da escludere che anche nel fusto non vi siano differenze superficiali così spiccate, da richiedere corrispondenti variazioni di struttura, interessanti a rilevare, special- mente per lo scopo a cuì miro. Fra gli autori che in modo speciale si occuparono dei tessuti meccanici nel fusto delle Solanee, vanno ricordati in particolar modo: Vesque, Chalon, Herail du Sablon, Méller, Wettstein-Boris, De Toni e Paoletti. Le indagini compiute dagli scienziati sono ai nostri tempi così numerose da rendere difficile l'aggiunta di altri fatti a quelli già noti. M'è duopo dire però che il più gran numero dalle osservazioni vennero com- piute su’ generi esotici e che i lavori per essere stati compiuti indipendentemente gli uni dagli altri e sparsi in opere numerose, non sempre facili a procurarsi, per- mettono difficilmente a chi lo desidera di formarsi un concetto sintetico dell’ana- tomia del fusto e dello sviluppo prevalente che acquistano alcune parti di esso in relazione con determinate condizioni speciali. A colmare, in parte almeno, questa lacuna ed anche a scopo di accrescere in una certa misura il materiale scientifico già acquistato, dò qui un quadro delle par- ticolarità osservate in ognuno dei tessuti meccanici del fusto e delle specie in cui queste particolarità vennero rilevate. ErmermpE. — Nulla di particolare che valga di essere menzionato, se non la persistenza del nucleo nell’epidermide del Solanum glaucescens. 3 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL’ ANATOMIA DELLE SOLANEE 451 Iponerma. — Nel gen. Cestrum pendulinum, le cellule dello strato sotto-epider- mico che nel periodo giovanile della pianta poco si distinguono da quelle! degli strati sottostanti, coll'andare del tempo si allungano così da acquistare nella sezione una forma schiettamente rettangolare e di notevoli dimensioni. Alla segmentazione di questa cellula va dovuta, come dirò, la formazione del fellogene (fig. 1). CoLLeNcHIMA. -— Tutte le Solanee in genere sono provvedute di uno strato di collenchima interposto tra il sistema epidermico ed il parenchima corticale. Questo strato, meno spesso di quello che si osserva nelle Borraginee, varia alquanto di potenza nei diversi generi. Nella Salpichroma rhomboidea, il collenchima, al pari di quanto avviene nelle vicine Labbiate, si concentra in quattro cordoni che trasmettono alla sezione la forma quadratica. Nel Solunum Lycopersicum (fig. 2) potei osservare la presenza in strati succes- sivi, delle due specie di collenchima distinte da Karl Miiller, coi nomi di platten collenchym e knorpel collenchym, la prima delle quali si distingue pel solo ispessimento tangenziale, il secondo per ispessimento in varie direzioni. Nel Solanum glaucescens, specie annuale coltivata nell’Orto Botanico di Torino e che giunge a discreta altezza, l’intero spazio compreso tra l'epidermide ed il libro è occupato da una massa unica di collenchima le cui file più esterne son ricche di materiali di riserva. PaRENCHIMA CORTICALE. — Notevole è quello del Solanum esculentum al quale questa specie deve le sue qualità commestibili e del Lycium carolinianum per la pre- senza in esso di due strati di cellule presto vuote, di straordinarie dimensioni e con pareti mediocremente ispessite. Queste cellule, senza nulla togliere alla corteccia delle sue qualità meccaniche, sembrano comportarsi specialmente da coibenti pel calore (fig. 3). SrraTO su@HEROSo. — Quantunque raggiunga uno sviluppo completo solo nelle specie perenni, pure si rende già sensibile in varie specie annuali e fra queste nella Nicotiana tabacum (fig. 4). Osservai formazione di fellogene : 1° A spese dell’ipoderma nel Cestrum Parquei e della Nicotiana tabacum, contrariamente a quanto asseriscono De Toni e Paoletti, i quali nella loro memoria Zur Kenntnis der anatomischen Baues von Nicotiana Tabacum (1) negano alla Nicotiana tabacum formazione di sughero. È probabile che quei scienziati si siano serviti per le loro osservazioni di pre- parati troppo giovani. 2° A spese dell'epidermide: nel Solanum argenteum (fig. 5). Finalmente nel- l’Alkekengi somniferum osservai la produzione di fellogeno negli strati più profondi del parenchima corticale, immediatamente a contatto coll’endoderma. Il Solederer asserisce di aver scorto un fellogeno dermatico nella Nicandra Phy- saloîdes. Le mie osservazioni a questo riguardo giunsero a risultati negativi. (1) © Berichte der Deutsch. Bot. Ges. ,, IV Band, 1871. 452 EDOARDO MARTEL 4 Rilevai pure nell’Alketengi somniferum la formazione di lenticelle, cosa assai rara nelle piante annuali. Questi organi però non offrono nella loro struttura nulla che valga a essere particolarmente menzionato. FiBRE PERICICLICHE (1). — Fibre di questa specie fortemente selerenchimate, for- manti insieme un anello quasi continuo, trovai nel Cestrum pendulinum (fig. 1) e nel Solanum argenteum (fig. 5). Notevoli pure per ispessimento quelle dell’ Atropa ardorea e Belladonna (fig. 6), del Capsicum annuum, nel Petunia (fig. 8) mediocri, poi in un gran numero di altri generi. XrremA (2). — Mentre in esso, come osserva Solederer, abbondano fibre con pun- teggiature di due sorta, scarso è invece il parenchima lignoso. Raggi midollari generalmente stretti; regola alla quale fa eccezione il gen. Ver- bascum (fig. 7), il quale anche per altri motivi è da molti classificato nelle Sero- fulariacee. Se in un gran numero di generi, com'è facile verificarlo dalle figure unite a questo lavoro, lo xilema raggiunge uno sviluppo notevolissimo e ciò specialmente nei generi Lycium, Cestrum, Solanum, Atropa, Capsicum, Nicotiana, Petunia (fig. 8), ecc., all'opposto nel Solanum glaucescens già ricordato per lo spessore straordinario del collenchima e nel Hyosciamus niger le fibre lignose sono in numero scarsissimo o mancano anche del tutto. Fibre sclerose a difesa del libro interno, sì trovano in un certo numero di generi, ma sono particolarmente da notarsi quelle del Solanum argenteum, del Cestrum, della Datura, del Capsicum. SCLERENCHIMA MIDOLLARE. — Notevole specialmente nel Cestrum pendulinum (fig. 1). Nella Nicastra Physaloides ebbi occasione di osservare delle linee di otricoli con cristalli di ossalato di calce. Dalla esposizione che precede, si viene a concludere che l’apparato meccanico del fusto nelle Solanee è, a parte poche eccezioni, assai più sviluppato che nel più gran numero delle piante annuali degli altri gruppi vegetali. Nel periodo che precede la fioritura, l'apparato meccanico è rappresentato essen- zialmente dal collenchima cioè dal tessuto che meglio sì presta a reggere alla flessione senza opporsi all’accrescimento. Nel secondo periodo e cioè dopo che la chioma del vegetale ha acquistato l’intero suo sviluppo e che la pianta sta per caricarsi di fiori e di frutti, l’appa- rato meccanico anch’esso si rinforza colla formazione di uno xilema talora potente colla sclerotizzazione delle fibre pericicliche e talora con quella del parenchima midollare. Neppure manca totalmente la formazione del sughero. Un fatto da essere rile- vato è quello che presenta la Nicandra physaloides, la quale, povera di mezzi mec- canici, supplisce in parte a questa deficienza, disponendo la periferia del suo fusto a festoni. (1) Comprese cioè nella zona del periciclo. (2) Zona dei fasci vascolari e delle fibre legnose. NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 453 ur Le Solanee perenni, per la maggior parte esotiche, non oltrepassano le dimen- sioni di un arboscello con rami esili. La rigidità necessaria si ottiene in quelle piante non tanto per mezzo dell'estensione dello xilema, quanto per la potente sclerotizza- zione dello xilema stesso, del periciclo e del parenchima midollare. I rami rimangono perciò alquanto snelli. Im molte Solanee la radice propriamente detta è straordinariamente ridotta ed è allora sostituita dalla parte inferiore del fusto, che in quella regione si modifica sensibilmente nella sua struttura così da reggere con facilità alle pressioni laterali. Conformemente ai principî stabiliti da Schwendener (Das Mechanische Prinzip,1874) si vede infatti il midollo del rizoma ridursi ai minimi termini, mentre lo xilema ed il parenchima corticale acquistano uno sviluppo straordinario (fig. 9). II. Del libro e della zona meristemale. Nel principiar questo secondo capitolo mi è duopo premettere alcune parole riguardo al significato del libro. Il Van Tieghem in un articolo inserito nel “ Journal de botanique ,, An. V, T. XXXIII, pag. 117, 1886, scrive: “ Nel linguaggio anatomico moderno, il libro è “ quella parte del fusto o della radice dove si trovano i tubi cribrosi, ma è da “ notarsi che questi possono mancare mentre vi possono figurare altri elementi. Vi “ sono poi tubi cribrosi fuori del libro e vasi fuori del legno ,. Bisogna secondo i casi distinguere tali elementi coi nomi di midollari-periciclici- peridesmici. Per Van Tieghem il libro è semplicemente una regione di posizione determinata della quale possono far parte elementi varî. Per l’eminente scienziato cioè la definizione del libro anzichè fisiologica dev'essere morfologica, e rammenta quella dello stomaco che alcuni vogliono consistere in una dilatazione del tubo digerente anzichè sede delle glandole pepsiche. Quantunque varî possano essere i componenti del libro pur tuttavia nessun vorrà negare che ai tubi cribrosi ed alle cellule compagne è riservato un compito di tale importanza da costringerci a considerarli quali elementi caratteristici del libro stesso. Eliminati che siano i vasi cribrosi si ha bensì un avanzo del libro ma non più il libro. Per questo motivo, credetti bene unirmi a quelli che accettano una definizione del libro informata al concetto moderno, e nelle linee che seguono, la parola libro verrà adoprata ogni qualvolta si tratterà dell’asse vegetativo, caratterizzato dalla presenza dei tubi cribrosi. La presenza nell'interno dell’anello lignoso di fasci liberiani in varie famiglie vegetali, quali Cucurbitacee, Melastomacee, Primulacee, Acantacee e Solanee, fissò l’at- tenzione di molti botanici, dediti a ricerche di anatomia vegetale, ma il significato fisiologico di quei fasci rimase, malgrado gli studi sinora fatti, ancora indeterminato. Dopo che Hartig nel 1854 ebbe scoperta nell’anello lignoso la presenza di fasci liberiani, il De Bary diede all'insieme del libro esterno, dello xilema e del libro 454 EDOARDO MARTEL 6 interno, il nome di fasci bicollaterali, lasciando così supporre, che le tre parti aves- sero origine comune. Il Petersen, nel 1882, in un suo lavoro avente per titolo: Ueber das Auftreten bicollateralen gefassbundel (1), sostiene che il libro interno fa parte integrante del sistema lignoso e prende origine da cellule particolari poste sul limite interno dello anello d’ispessimento. Tre anni dopo e cioè nel 1886, Herail du Sablon nella sua bella memoria Éfude de la tige des dicotylédones (© Ann. Sc. Nat. ,, I, Sez. VII, 1883), sostiene invece che i fasci liberiani posti all’interno dell'anello lignoso hanno origine dal midollo, che essi nascono dopo dei fasci normali e che alcuni di essi sono non solo periferici ma addirittura midollari. i Van Tieghem nel suo Traifé de botanique, 2° édition, pag. 755, dice di condivi- dere le idee di Herail du Sablon, colla restrizione però, che il libro interno deriva non dal midollo propriamente detto ma dallo strato perimedullare ed insiste sulla distinzione tra fasci liberiani periferici, interni e centrali. Ii Lamourette pure nella sua memoria Recherches sur l'origine morphologique du livre intérieur (© Ann. St. Nat. ,, 1891). si rannoda alle idee di Herail du Sablon. — Léon Flot nel suo lavoro Recherches sur la zone périmedullaire (© Ann. St. Nat. ,, 7 série, 1883) ammette che il fascio lignoso è sempre coperto dal lato del midollo da alcuni strati cellulari for- manti una specie di guaina al fascio dermogeno. guaina alla quale l'A. dà il nome di zona perimedullare. Questa zona darebbe sempre secondo lo stesso A. origine in certi casì a soli fasci di fleoma ed in altri a fasci vascolari. Il Lignier, Recherches sur l’anatomie comparée des Calycanthées, des Mélastomées et des Myrtées, asserisce che il libro interno può secondo i casì formarsi dalle cellule le più interne del fascio desmogeno oppure da quelle del midollo. Se la discussione intorno all’origine del libro interno, come si vede dalla esposi- zione che precede, è lontano di essere chiusa, incerto rimane pure l’ufficio fisiologico devoluto a quella regione del fusto. Così mentre per l’Haberlandt (Physiologische Pflanzen-anatomie, pag. 273) al Hbro interno è riservata una funzione protettrice, per Strasburger (Leitungsbahnen, pag. 474 und Lehrbuch der Botanik, 6 Aufl., pag. 93) la presenza del libro interno significa maggiore divisione di lavoro fisiologico. Per l'A. infatti il libro esterno avrebbe semplicemente l'ufficio di trasportare alle giovani foglie i materiali di costruzione, mentre il libro interno sarebbe ineari- cato di trasportare alle varie parti della pianta le combinazioni azotate formate nelle foglie. M'è duopo ricordare pure che i così detti fasci bicollaterali vennero raggrup- pati intorno a due tipi e cioè a quelli delle Cucurbitacee in cui il libro interno fa corpo col fascio desmogeno, non essendo questo separato da quello da nessuno strato particolare di parenchima, ed a quelli del gen. Vitis in cui il fascio desmogeno ed il libro interno rimangono fra loro indipendenti per essere separati da parenchima. A quest’ultimo tipo si rannodano le Solanee. (1) * Botanische Jahrbicher fiir Systematik ,. NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 455 =] Nulla di speciale, nelle tante opere che consultai, ho trovato, che si riferisca alla zona cambiale (1) fra libro esterno e legno, ed anzi rimasi non poco meravigliato che una parte così interessante per la soluzione della questione fosse stata in tal modo trascurata. Dal punto di vista puramente anatomico, un problema importante da risolversi era quello di sapere se il libro interno è una dipendenza del fascio desmogeno oppure ne è indipendente. È possibile, anzi probabile, che varî fra gli autori che si sono occupati dell’ori- gine del libro interno nelle Solanee, abbiano ricorso nelle loro indagini a sezioni dell’apice vegetativo, ma di essi, solo Leone Flot ha fornito di quella sezione un disegno dettagliato. Avendo io, per quello che riguarda le Solanee, dovuto operare in fine di sta- gione, su preparati troppo meschini per ottenere risultati concludenti, pensai ricorrere all’Acanthus mollis, nel quale pure è spiccatissimo un libro interno, dello stesso tipo di quello delle Solanee. L'esame dell’apice vegetativo in quel genere e in una sezione verticale mi dimostrò che il fascio desmogeno ed il libro interno non ancora differenziati nei loro elementi, formano un solo tutto. Nell’internodio seguente però, si vede il libro interno scostarsi dal fascio desmogeno, rimanendo lo spazio interposto occupato da parenchima (fig. 10). La sola conseguenza logica che io possa trarre da questa mia osservazione è che il libro interno ha col fascio desmogeno comunanza di origine e che solo dopo certo tratto si rende da esso indipendente, conservando però nella sua via una dire- zione parallela alla sua. La separazione del libro interno dal fascio desmogeno non è per altro sempre ugualmente spiccata e potei accertarmi che nello stesso genere vi può essere un divario sufficientemente grande. Non mancano poi esempi specialmente nelle Solanee esotiche in cui il parenchima di separazione è così sottile da lasciare dubbi sulla sua presenza (Atropa arborea). Come al solito è probabile che si sia esagerato il valore del carattere offerto dal parenchima interposto fra fascio desmogeno e libro interno e che fra i due tipi di fasci bicollaterali vi siano passaggi. L'esame isolato dell’apice vegetativo non mi pare sufficiente per chi voglia for- marsi un'opinione precisa riguardo alla indipendenza del libro interno dal fascio desmogeno e ciò per la ragione che le parti non sono in quella regione differenziate e che lo spazio di cui possono giovarsi è troppo ristretto per essere certi del loro modo di comportarsi. A controllo delle conclusioni ricavate dall'esame dell’apice vegetativo, pensai procedere a quello di una serie di sezioni trasversali che dal livello corrispondente al colletto nella radice risalisse nel fusto a quello in cui l'anello libro-vascolare si trova completamente costituito. Serie A (Fig. 11°, 11°, 11°, 11°). La figura 11° della serie rappresenta una sezione della radice in vicinanza (1) Cambium di Grew e Duhamel. 456 EDOARDO MARTEL 2 del colletto, dove cioè i fasci libro-vascolari posseggono ancora una disposizione rag- giata. I due gruppi vascolari fra loro a contatto assumono nell’insieme una configu- razione romboidale coi vertici estremi posti alla periferia. Lateralmente al rombo vascolare sono due masse di libro /.e così disposte da trasmettere all’intera figura forma circolare. Manca ogni traccia di libro interno. Più in alto i due gruppi primordiali si sdoppiano ed î quattro sottogruppi che ne derivano, si dispongono nella sezione in due curve fra loro a contatto per la parte convessa o se sì vuole come i due rami di un X che poi si separano, lasciando fra loro uno spazio libero sul quale appaiono due isolette di tessuto liberiano (Fig. 11°). Le due masse di libro esterno pure si suddividono in quattro gruppetti, ciascuno dei quali viene a collocarsi alle estremità delle curve vascolari, cosicchè da questo punto i fasci da raggiati sono diventati collaterali. Nelle sezioni che seguono (Fig. 11° e 11°) i quattro gruppi vascolari prosieguono a scindersi e le parti che ne provengono vanno graduatamente disponendosi a cerchio e nello stesso modo sì scindono e sì dispongono i gruppi di libro esterno. Mentre i fasci vascolari ed i fasci del libro esterno si distribuiscono nel modo predetto, le due isolette di libro interno che occupavano il centro della sezione, anch'esse si suddividono. Le suddivisioni si dispongono prima in due archi (Fig. 11°). che dopo di essersi congiunti formano un cerchio che rimane incluso in quelli dei fasci vascolari e di libro esterno. Di regola i gruppetti di libro interno vengono a disporsi dinnanzi ai fasci vasco- lari, ma siccome in natura è difficile di ottenere una regolarità perfetta, così avviene che alcuni gruppetti rimangono indietro nel midollo oppure vanno a finire fra î gruppi vascolari anzichè rimpetto ad essi. Herail du Sablon prende argomento dal fatto che non tutti i gruppetti di libro interno sono posti dinnanzi ai fasci desmogeni, per asserire che il libro interno è indipendente dal fascio desmogeno; ora è probabile che quell’autore non sarebbe giunto a questa conclusione, se al pari di me avesse proceduto colle serie. Se poi si restringe il significato di libro a quello dei tubi cribrosi, è facile assi- curarsi che la corrispondenza fra libro esterno e fasci vascolari non si opera più esattamente di quella osservata fra quei fasci ed il libro interno. Dopo che i gruppetti di libro interno si sono collocati dinnanzi ai fasci vasco- lari, le sezioni, astrazione fatta dai tessuti di rinforzo (collenchima, sclerenchima), sono teoricamente complete, poichè l'anello vascolare è ora formato dal libro esterno, dai vasi e dal libro interno. Noto di passaggio che il libro interno si esaurisce alla base del fusto, e cioè non oltrepassa il colletto. Questo fatto, già posto in chiaro dalla serie A, è poi posto particolarmente in rilievo da una sezione praticata alquanto al disotto del colletto. Ebbi cura, nel mentre compivo le mie osservazioni, di confrontare fra loro la struttura anatomica dei fasci di libro interno con quella del libro esterno, entrambi considerati nello stesso periodo di sviluppo, e posso affermare di essere giunto a risul- tati identici (fig. 12°, 12°). Le divergenze sorte fra gli autori riguardo all’origine del libro interno, dipen- dono secondo me principalmente da ciò che i metodi d’investigazione per essere uni- laterali non si prestavano ad un autocontrollo e che le sezioni da esaminarsi, per A ti P 9 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 457 essere state prelevate a livelli diversi per esemplari di stessa età o da uno stesso livello per esemplari di varia età, dovevano necessariamente condurre a risultati divergenti. L'armatura libro-vascolare del peziolo delle foglie ha origine dal fatto che uno o più fasci libro-vascolari dell'anello lignoso del fusto si portano alla periferia, con- ducendo con sè le parti di cui erano accompagnate nel fusto: cioè epidermide, col- lenchima, parenchima corticale, endoderma e periciclo, e perciò è evidente che l’ana- tomia del peziolo deve riprodurre quella del fusto, colla differenza però che nel peziolo l'anello vascolare è ridotto ad un arco. L'origine del peziolo quale l’ho descritta e per conseguenza l’identità di strut- tura fra peziolo e fusto, possono rilevarsi dalla Fig. 13 che unisco a questa memoria. Potrei fare a meno, per lo scopo cui miro, di insistere su questo argomento, se non credessi di chiamare l’attenzione sulla continuità singolare che esiste nel peziolo fra la catena dei gruppi delle due specie di libro. È innegabile che una continuità così perfetta parla pure altamente în favore della comunanza di origine, e perciò, tenuto conto di questa osservazione, dei risultati forniti dall'esame dell’apice vegetativo, di quelli ricavati dall’esame della serie delle sezioni trasversali e finalmente dall’identità di struttura fra le due specie di libro, ho motivi per credere che il De Bary fosse nel vero, quando chiamò bicollaterali i fasci libro-vascolari delle Solanee. La figura 9 rappresenta il passaggio degli elementi anatomici, dalla parte rizo- matosa del fusto ad una ramificazione sotterranea. Quello che più spicca in questa figura è la straordinaria differenza fra la quantità di libro esterno quasi scomparso in questo esemplare, già avanti nell’età, e la quan- tità notevole di libro interno. Questa differenza fra la quantità e la qualità del libro esterno e del libro interno che è nulla nei primordi della pianta va sempre rendendosi maggiore a misura che il vegetativo procede verso la vecchiaia. La progressione di cui parlo è posta in rilievo dalle Fig. 14, 15, 16, dalle quali risulta chiaramente che coll’andar del tempo il libro interno prende il sopravvento sul- l'esterno e mentre quest’ultimo tende a sparire in mezzo alla massa del parenchima che lo avvolge (figg. 14-15) od a trasformarsi in modo da rendersi irriconoscibile (fig. 16), il libro interno invece mantiene per lungo tempo inalterati i caratteri che lo distinguono. La figura (15), ricavata da un esemplare vecchio di Datura Stramonium, è anzi a questo riguardo interessante, inquantochè mostra che mentre il libro esterno non appare nella sezione, l’interno invece è rigoglioso e difeso da una guaina di cellule ispessite. Le sezioni trasversali del fusto provano nel loro complesso, che contraria- mente a quello che avviene in genere nel più gran numero delle specie annuali dove il meristema secondario non appare ed è ridottissimo, nelle Solanee invece può raggiungere uno sviluppo considerevole. Mentre dal lato interno la zona generatrice o meristemale dà origine allo xilema, dalla parte esterna origina poco o niente libro secondario. Questa essenza del libro secondario si spiega secondo me pensando che le Solanee Serie II. Tom. LXII. H° 458 EDOARDO MARTEL 10 sono bensì piante annuali ma con tendenza alla perennità. Non poche specie di questa famiglia infatti sono perenni. Le specie annuali, in genere, prolungano la loro esistenza molto avanti nell’au- tunno e raggiungono in un tempo relativamente limitato delle dimensioni ed acqui- stano una consistenza insolita nel maggior numero delle piante di stessa durata. Ora quelle dimensioni e quella consistenza che talora va sino alla rigidità (tabacco) non possono nel primo periodo della vita andare disgiunte da un potente sviluppo di collenchima e di parenchima corticale, nell’ultimo da una sclerotizzazione più o meno profonda di alcuni tessuti. Siffatta sclerotizzazione, come ebbi occasione di dirlo prima, non si limita sempre alle fibre lignose, ma il più delle volte raggiunge pure le fibre pericicliche, isolando in questo modo il libro esterno dall’endoderma, vero serbatoio di materiale di riserva. Il libro esterno posto fra uno xilema che lo comprime da una parte ed i tessuti corticali straordinariamente sviluppati ed irrigiditi dall’altra, isolato per sopraggiunta dal serbatoio del materiale di riserva col quale dovrebbe mantenersi in relazione continua, si trova da quel momento in condizioni così disastrose da non potere più esercitare le sue funzioni. A questa inettitudine del libro esterno a compiere le sue funzioni, fa riscontro naturale il deperimento che potei rilevare. G. Haberlandt (op. cit., pag. 323) spiega la presenza del libro interno nel midollo col pretesto che in questa posizione esso si trova al riparo dalle forze che potrebbero danneggiarlo ed in special modo dalla trazione e dalla pressione. Questa spiegazione non mi pare del tutto soddisfacente per la ragione anzi- tutto che le forze che agiscono sulle Solanee e su poche altre famiglie vegetali. munite di libro interno, agiscono pure nello stesso modo e colla stessa intensità sulle altre famiglie molto più numerose che ne sono sprovviste, e si deve notare inoltre che non è nell’ultimo periodo della vita, quando cioè la pianta ha acquistato tutti i suoi mezzi di resistenza, che l’effetto delle forze di cui è parola è da temersi. bensì nel primo e propriamente nel periodo in cui primeggia il libro esterno. Lo Strasburger ricordato da Haberlandt (op. cit., pag. 322) interpreta la pre- senza del libro interno quale prova di maggiore divisione nel lavoro fisiologico. Rife- rendosi agli studi di Fischer, Sfudien ber die Siebròhren der Dicotylen-blatter (“ Berichte der math. Class. der sachs. Akademie der phys. Wissensch. ., 1885), lo Strasburger ammette infatti che il compito del libro esterno sia limitato a quello di trasportare alle foglie i materiali di costruzione. mentre al libro interno sarebbe invece affidato il com- pito di distribuire alle varie parti della pianta i materiali elaborati nelle foglie stesse. La teoria sostenuta dallo Strasburger è di certo molto ingegnosa, ma però vul- nerabile in vari punti. Non si vede anzitutto per quale ragione il benefizio di quella divisione del lavoro debba essere riservato a sole poche famiglie, nè si conoscono le osservazioni dirette per mezzo delle quali si venne a distinguere non solo quel sistema di doppia circolazione, ma bensì pure quella differenza di materiali trasportati dall'uno e dal- l’altro libro. Alla teoria dello Strasburger si può obiettare inoltre che l’attività del libro esterno essendo limitata al primo periodo della vita vegetale. effimera deve essere la durata di quella, tanto ben trovata, divisione del lavoro. 11 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 459 Finalmente il vario modo di funzionare e la varia qualità dei prodotti posti in circolazione, sembrano richiedere qualche differenza di struttura degli elementi con- duttori; ora questa differenza non esiste. Alle due teorie che precedono, si potrebbe, secondo me, aggiungerne una. terza fondata sul fatto che il libro esterno ha una durata di attività fisiologica non corrispondente alla longevità della pianta. Tenuto conto che nessun tessuto vegetale si trova nelle condizioni di sostituirsi, nelle funzioni circolatorie, ai vasi cribrosi ed alle cellule compagne, elementi essen- ziali del libro; tenuto conto d'altra parte che non esiste parte del fusto, all’infuori del midollo, che possa albergare un altro tessuto conduttore; così è naturale che al libro che sta per mancare se ne sostituisca un altro e questo occupi il solo posto disponibile e cioè una zona fra l’anello vascolare ed il midollo. Questa teoria semplicissima che, fisiologicamente parlando, fa del libro interno una continuazione di quello esterno, ha il vantaggio di avere per base un fatto posto fuori di discussione ed è quella che mi pare meglio adattarsi ad una cate- goria di vegetali che segnano un passaggio tra le piante schiettamente annuali e le perenni. SECONDO QUESITO Sul rovesciamento del calice nel fiore del ‘ Datura stramonium ’. Il calice del Datura stramonium presenta due fenomeni ben noti a tutti quelli che si occupano di sistematica, ma finora, che io sappia, non studiati. Il calice di quella pianta, poco dopo dell’apertura della corolla, si scinde in due parti, una delle quali, la superiore, di forma tubulosa, avvizzisce e cade, mentre l’inferiore, prima fog- giata a coppa con orlo rivolto all'insù, non solo si accresce sensibilmente ma col tempo si rivolta all’ingiù, assumendo così l'aspetto di un collaretto o breve guaina ricuoprente il pedicello florale, immediatamente al disotto del frutto. La causa che provoca la separazione delle due parti del calice si deve sempli- cemente al fatto che mentre nella parte superiore, di debole spessore e di rapido accrescimento, le cellule al momento dell’ apertura della corolla, non solo hanno raggiunto il loro completo sviluppo ma sono entrate in un periodo regressivo posto in evidenza dalla dissociazione degli elementi e dalla formazione di numerose lacune, gli elementi della parte persistente del calice invece continuano a-crescere ed a mol- tiplicarsi, donde uno squilibrio di tensione che determina il distaccamento e indi la caduta della parte superiore (1). Il secondo fenomeno, quello cioè che si riferisce al rovesciamento del calice, è alquanto più interessante e va dovuto a varie cause di carattere meccanico. Ricordo anzitutto che l’androceo è nelle solanee, come in genere in tutte le corolliflore, saldato alla corolla, così da formare con questa apparentemente un solo verticillo. : (1) Vedi E. MarreL, 1° Contribuzione all'Anatomia del fiore delle Solanee. 460 EDOARDO MARTEL 12 Esaminando la fig. 1 sì scorge che mentre nel fiore giovane e prima della scissione del calice, questo verticillo e la corolla che gli sta vicina sono posti quasi allo stesso livello, più tardi la corolla si trova spinta visibilmente ad un livello superiore ed il calice all'infuori. Questo primo spostamento dei due verticilli va dovuto all’ accrescimento note- vole del parenchima fra loro interposto (fig. 2). A questo primo spostamento ne succede un altro per cui la corolla a sua volta per essere spinta all'infuori, viene così a sovrapporsi al calice e quest’ultimo in seguito alla pressione cui è sottoposto obliquamente dall’insù all’ingiù, descrive un arco e da verticale che era, si dispone orizzontalmente. Inutile ch'io dica che nel momento in cui avviene questa serie di fenomeni il calice è già dimezzato. 3 Questo secondo spostamento va attribuito, in parte, è vero, alla divergenza sempre maggiore dei fasci f. vascolari che formano l'armatura superficiale del ricet- tacolo, ma in massima parte alla pressione che lateralmente alla corolla viene eser- citata dalla base dell’ovario (Fig. 3). Le pareti dell’ovario infatti, specialmente alla base, acquistano un enorme spes- sore, dovuto alla formazione di un parenchima spugnoso di natura sugherosa (fig. 4). Dopo della caduta della corolla, si verifica un ultimo spostamento. La corolla che era posta al vertice di una specie di piramide, da verticale ch’era descrive un arco di circa 90' e si dispone orizzontalmente. Nel mentre si produce questa rotazione della base della corolla il calice che già sì era, come dissi poc'anzi, disposto orizzontalmente, in seguito allo spostamento della corolla che gli è sovrapposta, s'ineurva all’ingiù (fig. 3). Questo terzo spostamento insieme della corolla e del calice va dovuto all’accre- scimento enorme della base dell’ovario, la quale spingendosi all'infuori preme late- ralmente sulla piramide che sosteneva la corolla, l’obbliga a rotare su sè stessa ed anzi col tempo si stende al disopra di essa comprimendola di tutto il suo peso. La pressione che si esercita sulla corolla viene poi, per mezzo del parenchima, trasmessa al calice sottostante, il quale, già in parte spostato, sì rovescia come dissi addirit- tura all’ingiù. La passività completa del calice nel decorso dei fenomeni di cui mi sono trat- tenuto e più ancora la struttura anatomica di esso, lasciano in chi osserva, il dubbio che cioè nel Datura stramonium il calice sia un semplice prolungamento fogliaceo del ricettacolo. L'esame microscopico delle sezioni tanto longitudinali che trasversali del calice, provano infatti che il tessuto che ne forma lo spessore è in perfetta continuità con quello del ricettacolo ed è costituito da un parenchima omogeneo i cui elementi debolmente allungati sono disposti parallelamente alla superficie. Manca ogni traccia di stomi. 13 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 461 SPIEGAZIONE DELLE FIGURE 1° Quesiro — Dell’ufficio devoluto al libro interno nelle Solanee in relazione coll’anatomia del fusto. Fig. 1. Cestrum pendulinum: e epidermide - ip ipoderma - p.c parenchima corticale - f.p fibre pericicliche - /.e libro esterno - xi xilema - Z.i libro interno - sc? sclerenchima - scl.m sclerenchima midollare. » 2. Solanum Lycopersicum: p.c platten collenchym - %.c knorpel collenchym. 3. Lycium Carolinianum: c.s cellule speciali del tessuto corticale. » 4 Nicotiana Tabacum: t.s tessuto sugheroso - e libro interno. 5. Solanum argenteum: e epidermide in via di divisione (fellogene) - f.p fibre pericicliche - sc sclerenchima midollare. 6. Atropa Belladonna: f.p fibre pericicliche - sc selerenchima midollare. 7. Verbascum Blattaria: r.m raggi midollari. s 8. Petunia nictiginiflora: f.p fibre pericicliche - xi xilema. 9. Nicotiana Tabacum: p.c parenchima corticale - xi xilema - /.î libro interno. 10. Acanthus mollis: m meristema - d biforcazione del meristema per la formazione delle due specie di libro. La serie delle fig. 11 a, 115, 1lc, 114 serve a mostrare i cambiamenti di posizione ai quali vanno soggetti il libro esterno, i fasci vascolari ed il libro interno dal colletto della radice sino al livello in cui i fasci bicollaterali hanno nel fusto raggiunto la loro posizione normale. In ognuna delle figure: Z.e libro esterno - /.î libro interno - f.v fasci vascolari. Fig. 12. Nicotiana Tabacum: a isola di libro interno - è isola di libro esterno. 13. Sezione trasversale di una gamma fogliacea: P peziolo - F fusto — nel peziolo: p peri- ciclo - Z.e libro esterno - Zi libro interno. Da notarsi che nella sezione del peziolo i fascetti liberiani delle due specie for- mano una curva senza soluzione di continuità. Nel fusto v.f. zona vascolare. 14. Datura stramonium (esemplare giovane): Z.e libro esterno - l.î libro interno. 15. Datura stramonium (esemplare adulto): f.p fibre pericicliche in via di sclerotizzazione - te isola di libro esterno in via di distruzione - Z.î isola di libro interno in pieno sviluppo. 16. Datura stramonium (esemplare vecchio): Z.e libro esterno sclerenchimato. » 17. Alkekengi somniferum: fc fellogene. 2° Quesito — Sul rovesciamento del calice del fiore del Datura stramonium. Nelle fig. 1, 2, 3, 4, 5: # calice - co corolla - 0 ovario. di Torino, CL se. fia. nat. e nat.— Serie 2"Tomo LXII \cieuze sh er È à nee eosola } pATEL-ANuova contribuzione a anatomia sE Il Lit. Salussolia, Torino. 122" “BIEN son Verse 3a) LESS oe & 141 S Lig. A | Fig.5 v Fig. 3 EI D SR db 395 dt Dè: 30 J i [Kte: AE voce lasts NT [ta ® 0383 co» "o : Fig! sn recenti SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO RICERCHE DEL SOCIO Prof. PIO FOÀ (CON DUE TAVOLE) Approvata nell'adunanza del 26 Novembre 1911. La letteratura contemporanea intorno alla presenza, alla struttura e alla pro- babile funzione delle cellule interstiziali del testicolo è già molto ricca, e non è presumibile che su tale argomento si possano trovare dei fatti fondamentalmente nuovi seguendo gli ordinari metodi di ricerca. Tuttavia, vi sono alcuni dati parti- colari che meritano un’indagine più accurata, come ad esempio quello della relazione esistente fra le cellule interstiziali e la sostanza fibrillare del connettivo, oppure quello della capacità delle cellule interstiziali di traslocarsi, o quello della parte che esse prendono nelle infiammazioni semplici o specifiche, o anche quello del loro com- portamento di fronte a corpi estranei. Per mettere in luce i fatti riferentisi ai suddetti particolari, possono adottarsi i vari metodi della tecnica istologica moderna come già hanno fatto diversi autori, ma un metodo fu particolarmente introdotto in questi ultimi anni che mi è sem- brato dovesse riuscire molto profittevole, voglio dire, quello della colorazione intra- vitale col mezzo di sostanze che Ehrlich ha scoperto, e che sono il bleu di pyrrolo e isanamina (pyrrholblau, isanaminblau, B). Il pyrrolo si forma colla condensazione di tetrametil-diamino-benzoydrolo e pirrolo e ha proprietà di sostanza basica; l’isana- minblau appartiene alla serie delle sostanze sulforate e manifesta le proprietà di una sostanza acida. Entrambe queste sostanze si sciolgono facilmente nell’acqua in qualunque pro- porzione, e non precipitano per l’azione degli ordinari liquidi di fissazione (alcool, sublimato, formol, acido cromico, acido osmico, molibteno). Da numerose esperienze eseguite col bleu pirrolo e colla isanamina, dal Prof. E. Goldmann di Friburgo */8r. (1) è risultato che nei diversi organi e nelle diverse parti degli stessi s'incontra sempre (1) Die aussere und innere Sekretion des gesunden Organismus im Lichte der “ vitale Fàrbung ,, von Prof. Dr. Edwin Gorpwans. Tibingen, Verlag der H. Zaupp’schen Buchhandlung, 1909. 464 PIO FOÀ Do un determinato elemento che domina il campo. Si tratta di una cellula di una gran- dezza che sta fra quella di un piccolo e d’un grosso linfocito, generalmente tondeg- giante con un grosso nucleo ricco di cromatina, e con un protoplasma finemente gra- nuloso. I granuli sono colorati in bleu chiaro, sono rotondi, di grandezza uniforme e di numero vario secondo gli elementi, ma non mai così grande da coprire il nucleo. Le suddette cellule possono secondo la località in cui si trovano presentare la forma più diversa, e cioè: sono rotonde nel peritoneo, fusiformi nel connettivo intermusco- lare, rotonde e finemente granulose nel testicolo, stellate e a grossi granuli nel fegato. Per conoscere la ripartizione e la genesi degli elementi in discorso è necessario fissare gli organi e procedere ai tagli microscopici. A tale scopo serve ottimamente il formolo (10%). nel quale liquido possono anche gli organi rimanere a lungo senza alterarsi. Reputo conveniente cambiare il liquido un paio di volte, e dopo 5-6 giorni si possono i pezzi porre direttamente in alcool senza passaggi in acqua, conservandosi il colore sugli elementi in cui si è fissato. Al più segue che dopo poche ore dalla prima immersione in aleool il colore si diffonde un poco; allora si cambia l’alcool, e occorrendo, anche una seconda volta, poi si ha il pezzo ben fissato che può durare molti mesi inalterato. Come termine di confronto è opportuno allestire anche dei preparati con pezzi fissati in formolo col mierotomo a congelazione, colorando i tagli con allume carmino e completando la colorazione con una leggera soluzione di orange. il quale colora bene il protoplasma e fa meglio risaltare i globuli rossi entro i vasi dell’organo. In mezzo ad altri elementi spiccano in modo molto evidente per un forte contrasto di colore le cellule su cui si è fissata la materia colorante azzurra. Per avere una colorazione della cute, delle membrane sierose e dei vari organi a scopo di studio si adoperano topolini o ratti cui si pratica l'iniezione di 1 c. c. della materia colorante diluita all'1°/ sotto cute. ripetendola ogni 5-6 giorni per 6-8 volte e anche più. Nei topi e ratti maschi si può studiare bene, ad esempio, il testicolo in cui solo le cellule interstiziali assumono la colorazione azzurra onde appariscono facilmente i loro accumuli negli spazi intercanalicolari, intorno alle sezioni dei vasi sanguigni. Volendo io studiare il diportamento delle cellule interstiziali di coniglio nei pro- cessi patologici ad arte provocati, mi occorrevano animali di maggior taglia, e quindi conigli, cavie e cani, ma se avessi dovuto adottare il metodo delle iniezioni sotto- cutanee, in attesa che tutto il corpo dell'animale si fosse colorato avrei dovuto impiegare ingenti quantità di sostanza, onde ho preferito ricercare se fosse stato pos- sibile limitare la colorazione ad un organo solo. Dapprima, riferendomi alle ricerche che avevo compiuto l’anno precedente intorno alle alterazioni che si potevano produrre nel fegato per la via della milza, ho ten- tato di ottenere nel cane e nel coniglio delle colorazioni specifiche delle cellule di Kupfer, iniettando appunto nella milza la materia colorante, e sul principio credetti la cosa possibile. Senonchè col proseguire le esperienze sopratutto nel cane ho potuto persuadermi che la materia colorante restava precipitata nella milza al posto della iniezione di dove lentamente si diffondeva a colorare qualche granulo di qualche ele- mento della polpa o del reticolo, e solo casualmente qualche granulo colorato in bleu sì vedeva anche nel fegato intorno ai vasi, onde ho dovuto tralasciare queste espe- 3 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 465 rienze. E anche riuscì infruttuoso ogni tentativo di iniezione parenchimatosa nel fegato, perchè la colorazione poteva prodursi nelle cellule di Kupfer solo isolatamente in una breve estensione. Anche al rene non era il caso di pensare, perchè anche nelle lente preparazioni generali nei topi, il risultato che si ottiene non è costante ed eccezionalmente si colorano anche le cellule epiteliali dei canalicoli. Più opportuno ho trovato di spingere la materia colorante nel testicolo, e sulle prime ho tentato di farlo nel cane, nella cavia, nel ratto e nel coniglio; poscia per varie ragioni ho trovato più adatto a questo genere di esperienze il coniglio. La pelle dello seroto è sottile e si può più facilmente perforare coll’ago-canula, la albu- ginea non è molto resistente, il volume dell’organo è abbastanza grande per potervi praticare a distanza di tempo parecchie iniezioni di seguito. Infatti, adoperando solu- zioni all’1°/, io iniettavo nel parenchima del testicolo 1 c.c. di liquido, e facevo seguire all’iniezione un po’ di massaggio e dopo una settimana ripetevo spesso l’inie- zione e poi lasciavo a riposo l’animale, riservandomi di fare nei testicoli già pre- parati quelle esperienze che avessi creduto. Esse hanno consistito in varì traumatismi nella introduzione di certe sostanze nel parenchima stesso, o nella circolazione ge- nerale. Lasciato a sè l’animale dopo l’operazione per qualche tempo, gli veniva estirpato il testicolo operato e tosto veniva immerso nella formalina al 10 °/. Dopo alcune ore di fissazione si praticavano tagli col microtomo a congelazione, e li si coloravano coll’allume carmino e con orange allungato; indi venivano montati in balsamo. Spesso i tagli fatti col microtomo a congelazione erano colorati col sudan III e venivano montati in levulosio. Dopo qualche giorno di fissazione nel for- molo rinnovato un paio di volte, il rimanente dell'organo veniva passato diretta- mente in alcool e dopo circa un giorno l’alcool veniva rinnovato. Il colore non si diffondeva oltre nel liquido e dopo un soggiorno breve nell’alcool assoluto, si pro- cedeva all’impregnazione in paraffina secondo il solito procedimento, e i tagli veni- vano colorati come sopra, e posti così in confronto colle sezioni naturalmente più grossolane fatte col microtomo a congelazione. Il bleu d’isanamina colora splendidamente e solamente i granuli delle cellule interstiziali del testicolo, i cui nuclei si colorano in rosso coll’allume carmino. Per ottenere la fissazione della materia colorante nelle dette cellule, occorre qualche tempo. Infatti, se si asporta il testicolo poco dopo aver fatta l’iniezione si trova che la materia colorante si è diffusa dappertutto nello spazio intercanalicolare occupandolo come una massa omogenea intensamente azzurra. È solo estirpando il testicolo dopo un certo tempo che si osserva la presenza di cellule granulose azzurre nello spazio interstiziale e lungo i vasi, mentre tutto il resto dell’organo è rimasto incoloro. Talora si trovano granuli colorati o piceoli blocchi di sostanza colorata anche nel lume dei canalicoli seminali, ma col tempo tutto scompare eccetto la bella colorazione delle cellule interstiziali. Se l’iniezione si fa direttamente nel testicolo non si colora che la parte compresa dalla iniezione; ossia la materia colorante non passa mai direttamente nell’epididimo, onde se si vuole che si colorino anche le cellule intercanalicolari dello stesso, bisogna iniettarlo direttamente. Per avere il reperto netto, è necessario lasciare l’organo iniettato per qualche giorno nell’animale prima di asportarlo. La materia colorante si diporta nel testicolo a un dipresso come nella cute per iniezione sottocutanea; cioè, essa stenta a dif- Serie II. Tox. LXII se 466 PIO FOÀ 4 fondersi, tanto che è raccomandato di fare dopo l'iniezione un po’ di massaggio; ma a poco a poco dal posto dell'iniezione si estende alle parti più lontane e colora il suo elemento specifico, che per il testicolo è la cellula interstiziale. Quando la materia iniettata sia molto densa e abbondante, è meno facile distin- guere le parti onde si compone l'elemento cellulare; esso appare come un grosso cumulo di granulazioni grossolane intensamente colorate. Una molto ricca letteratura tratta delle cellule interstiziali del testicolo che la maggior parte degli autori ascrive oggidì al tessuto connettivo, e aventi particolar- mente in alcuni animali un’apparenza di cellule epiteliali. Nell’uomo appariscono abbondanti nell'età fetale e sono ricche di grasso nei neonati; scompaiono nel fan- ciullo per riapparire abbondanti nella pubertà, indi diminuiscono nell’età adulta per tornare ad aumentare nella tarda età. In alcuni stati morbosi generali, diminuisce la spermogenesi e aumenta la quantità delle cellule interstiziali. È forte l'aumento nei testicoli criptorchici, e nei casi di pseudoermafroditismo mascolino. Waldeyer, v. Hansemann, Diirck, Kauffmann e U. Stoppato (1) hanno accuratamente descritto tumori del testicolo a carattere sarcomatoso e provenienti dalle cellule interstiziali. Si sono pure descritti casi di pigmentazione abbondante delle cellule interstiziali nel- l’anemia perniciosa progressiva e nella emocromatosi, e v. Hansemann rilevando in esse la presenza di gocciole adipose anche in casi perfettamente normali e in attività di sviluppo ne concluse che esse non dovessero reputarsi solo elementi di un tessuto di sostegno, ma sibbene elementi destinati a compiere una funzione. In processi pato- logici può trovarsi una degenerazione grassa o una loro progressiva scomparsa nei casì di processi infiammatori che conducano a formazione di ascessi o di necrosi nel testicolo. Spesso le cellule interstiziali si moltiplicano e dànno luogo a una più o meno considerevole iperplasia, come quella che v. Hansemann (2) ha veduto nelle marmotte parecchio tempo dopo il risveglio dal sonno letargico, e che paragonò alle cellule inter- stiziali grosse e numerose del testicolo del cignale, così da paragonarle ad un sar- coma a cellule grandi. Numerose cellule interstiziali si riscontrano nei tisici, nelle cachessie cancerose e sifilitiche, nel tifo addominale, nella lebbra, nello stato timico- linfatico, nell’atrofia senile, nei testicoli sottoposti all’azione dei raggi X o a quella del radio, al dintorno di focolai tubercolotici del testicolo, alla periferia di focolai infiammatori, nei casi di legatura del dotto deferente. In genere si ha l'aumento delle cellule interstiziali accanto alle gravi lesioni dei canalicoli seminali, siano esse in forma di processi degenerativi delle cellule germinative o in forma di una reale atrofia dei canalicoli. Sull’andamento e sull’esito delle ferite dei testicoli diversi autori hanno fatto ricerche sperimentali. Così il Jacobsohn (3) ha visto che dopo l'esportazione di un pez- (1) Vedi la letteratura nel lavoro di U. Sropparo, Ueber Ziwvischenzellen der Hoden (“ Beltuages zur Path.-Anat. u. zur Allgem.-Path. ., von AscHorr u. MarcHanp, Bd. 50, 1911). (2) v. Hansemanx, “© Virchow's Archiv ,, Bd. 142, 1895. Uedber die sogenannten Zwischenzellen des Hodens. (3) Jacossons, “ Virchow’s Archiv ,, Bd. 75, 1879. Zur Path. Histologie der Traumat. Hoden Entzindung. 5 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 467 zetto di parenchima e di pelle si formava una crosta bruna, caduta la quale appariva un tessuto di granulazione, da cui si produceva la cicatrice che copriva il difetto di sostanza. Colla introduzione di un filo attraverso il testicolo vedeva formarsi in 48 ore un accumulo di cellule rotonde e di eritrociti. Le cellule interstiziali erano aumentate, ma poi andavano distruggendosi nel tessuto di granulazione. Sanfelice e prima di lui il Griffini (1) ricercarono particolarmente la rigenerazione dei canalicoli seminiferi, concludendo in senso positivo. Maximow da ultimo ricereò minutamente il processo di guarigione delle ferite nel testicolo di diverse specie di mammiferi e di rana. Trovò che immediatamente dopo la ferita segue la necrosi e l’infiltrazione di sangue e di fibrina. Al 2° giorno comincia la reazione attiva colla poliferazione degli elementi connettivi e colla formazione di un ricco tessuto di granulazione, dal quale vengono compressi i canalicoli seminiferi. Più tardi apparisce l’ingrossamento delle cellule interstiziali e la loro moltiplicazione per cariocinesi. Alla periferia del tessuto necrotico si accumulano leucociti, e nel tessuto necrotico stesso penetrano cellule connettive e vasi. Alla fine della prima settimana apparisce il tessuto connettivo fibrillare; alla fine di un mese è formata la cicatrice. Le cellule di Sertoli e gli sper- matogonii resistono di più di ogni altro elemento alla lesione, la quale invece pro- duce variazioni negli spermatidi e negli spermatociti. Le mie esperienze furono fatte, come sopra ho detto, sopra testicoli previamente operati di iniezione parenchimatosa di bleu di isanamina. I testicoli così operati si presentano all'osservazione dopo vari giorni dalla iniezione unica, o ripetuta una volta, senza modificazione del loro volume e della loro forma, e colorati uniforme- mente in azzurro o pallido o intenso, secondo il numero delle iniezioni e la quantità di sostanza introdotta. Dove ha luogo il traumatismo quivi segue la necrosi circo- scritta, ma tutto intorno la materia colorante si diffonde lentamente e colora solo, come si è detto, il tessuto interstiziale. In questi testicoli così preparati ho intro- dotto colle debite cautele un filo assettico oppure un filo impregnato di bacillo Friedlànder, oppure un filo impregnato di coltura netta di bacilli tubercolari. Il ba- cillo Friedlinder fu da me adoperato perchè a causa della poca recettività che il coniglio ha verso di quello, si ottengono più facilmente in esso delle infiammazioni interstiziali a lento decorso. Il bacillo tubercolare era di tipo bovino e dotato di sicura virulenza. L’asportazione del testicolo operato fu fatta dopo un minimo di 7 giorni di tempo fino ad un massimo (per il filo assettico) di 2 mesi. Di tutti questi furono fatti esami a fresco (formolo e microtomo a congelazione) e sui pezzi fissati e imparaffinati. Esperienze: Ad un coniglio del peso di gr. 2000 si fa una prima iniezione di 2 ce. c. di una soluzione di bleu d’isanamina all’1 °/ direttamente nei testicoli. Dopo 7 giorni si ripete la stessa operazione; dopo altri 6 giorni si opera la introduzione di un filo assettico attraverso il testicolo sinistro, e dopo 14 giorni si pratica la castrazione dei due testicoli. Il coniglio pesava 1900 gr. e non sembrava aver sof- (1) L. Garerisi, Sulla riproduzione parziale del testicolo, ©“ Archivio delle Scienze mediche ,, Vol. II, 1887. 468 PIO FOÀ 6 ferto dalla operazione. In altri casì si sagrificò l’animale e si trovò che appena qualche piccolo ganglio linfatico prelombare aveva assunto una tinta azzurra e qualche volta si trovava leggermente colorato anche l’omento, ma d’ordinario l’animale non presentava altro di notevole. Il testicolo operato appariva uniformemente azzurro ed era di consistenza normale e al posto di ingresso e di egresso del filo eravi un po’ di tessuto di granulazione d’aspetto rossiccio. Fissato il testicolo in formolo al 10% per 24 ore, ho eseguito parecchi tagli col microtomo a congelazione e li colorai col- l’allume carmino e coll’orange; oppure immersi il resto del testicolo in alcool a 97° per un giorno e poi cambiai l’alcool e ve lo lasciai altri tre o quattro giorni, e col solito metodo l’imparaffinai e lo sezionai in tagli di 5-10 u col mierotomo. In altri casi ho fissato il testicolo in liquido di Zenker o direttamente, o previa una perma- nenza di alcune ore in formol, e poi in alcool rinnovato di spesso nei primi giorni. In tutti i casi simili ho trovato un reperto corrispondente. Fatta astrazione’ da un gruppo di canalicoli necrotici dove è penetrato l’ago-canula e con esso la massa d’iniezione che talora era ancora in gran parte addensata e colorava tutto uniforme- mente, penetrando anche nel lume dei canalicoli, tutto all’intorno e più lontano dove la massa colorante era venuta a poco a poco diffondendosi si scorgevano cumuli di cellule colorate negli interstizi di canalicoli normali e naturalmente poco discoste dai. vasi pieni di sangue, o addirittura a ridosso delle loro pareti. Dove il filo assettico era passato aveva destato una infiammazione interstiziale produttiva, e si vedevano molto abbondanti e di varia grossezza le cellule azzurre tondeggianti od elittiche, e insieme abbondante il connettivo fibrillare e le rispettive cellule fibroblastiche (Vedi Fig. 2). Eseguendo tagli di pezzi di testicolo operato allo stesso modo che fu sopra descritto che era stato fissato in liquido di Zenker e poi in alcool, si seorgeva l’identico reperto, perchè il suddetto liquido fissativo non altera affatto la colorazione vitale delle cellule interstiziali, ma appariva anche più spiccato il connettivo intersti- ziale. Colorando i tagli col liquido di v. Gieson le fibrille si rendevano assai evi- denti, e così pure i nuclei delle cellule fibroblastiche, mentre le cellule interstiziali come blocchi di granulazioni azzurre sembravano applicate al connettivo. Dai miei preparati mi è parso sempre risultasse con evidenza l'indipendenza delle cellule interstiziali dalle fibre e dalle cellule del tessuto connettivo, di cui quelle erano elementi concomitanti, ma non direttamente costitutivi. Un coniglio i cui testicoli furono preparati alla solita maniera colle iniezioni d'isanamina, e in cui pure era stato introdotto un filo assettico, fu lasciato a sè per 75 giorni, e fu trovato aumentato di peso, e in piena apparenza di salute. Operata la castrazione, e usati i soliti metodi di preparazione, è risultato all'indagine microscopica che negli in- terstizi dei canalicoli seminiferi d’apparenza normale esisteva una rete vascolare molto ampia e i vasi erano ingorgati di sangue, e le loro pareti erano elegante- mente accompagnate o fiancheggiate da grosse cellule interstiziali intensamente azzurre. In talune sezioni appariva che le cellule interstiziali rafforzassero le pareti dei vasi dilatati, come fossero vere cellule perivascolari, mentre era scarso il con- nettivo fibrillare coi rispettivi fibroblasti (Vedi Fig. 2 bis). In altre esperienze il filo che traversò il testicolo già preparato con iniezioni di isanamina, era stato prima dell'operazione impregnato di una cultura in brodo di stafilococco. Dopo 10-14 giorni si è trovato molto ampia e congesta la rete va- 7 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 469 scolare interstiziale, e in vicinanza del filo si sono trovati dei cumuli fittissimi di piccole cellule, come tanti piccoli nodi infiammatori, in mezzo ai quali si trovavano pure delle cellule azzurre, alcune ben conservate; altre che evidentemente andavano frantumandosi, così che non restava altro di esse che qualche blocchetto di sostanza azzurra. Più lontano dai nodi infiammatori, il tessuto interstiziale si era fatto abbon- dante; distinta vi era la sostanza fibrillare con fibroblasti, e numerose e grosse vi erano le cellule interstiziali rappresentate da cumuli di granulazioni grosse inten- samente azzurre, e per lo più mascheranti il nucleo, il quale dove si vedeva appariva colorato in rosso dall’allume carmino. Ancora altre molte esperienze furono fatte passando attraverso il testicolo pre- parato un filo impregnato in una cultura pura in brodo di bacillo di Friedlinder. È noto che il coniglio è assai poco recettivo al suddetto bacillo, il quale se imman- cabilmente uccide la cavia, molto spesso invece risparmia il coniglio. Questo ha una discreta recettività locale, onde il bacillo Friedliinder è un mezzo prezioso per pro- vocare delle infiammazioni subacute in organi parenchimatosi, come ho dimostrato nelle mie ricerche sull’infiammazione del rene. Ho potuto seguire i risultati prossimi e remoti della infiammazione interstiziale prodotta nei testicoli di coniglio iniettati previamente di isanamina e ne ebbi i seguenti risultati. Se il testicolo viene esaminato troppo in prossimità del tempo in cui fu operato, non si può discernere esattamente quanto sia dovuto all’azione fagocitaria contro j bacilli e quanto alla reazione successiva del connettivo interstiziale, ma esaminando il testicolo operato dopo 4-5 giorni dall’introduzione del filo si osserva già la pro- duzione di una decisa infiammazione interstiziale che parte dalla zona intorno al filo e si diffonde più o meno lontano. Dove ebbe luogo il trauma necessariamente si produce necrosi dei canalicoli; ma più intorno ad essi e meglio ancora più da lontano si scorge la produzione di un tessuto connettivo fibrillare ricco di cellule fibrobla- stiche, e tra esse stanno le cellule azzurre senza alcun evidente rapporto colle fibrille. I testicoli operati possono anche essere fissati in liquido di Foà (sublimato-Miiller), o in liquido di Zenker e poi colorati con carmino o con ematossilina, e v. Gieson; allora spicca assai bene il tessuto connettivo fibrillare coi nuclei delle sue cellule fibroblastiche, mentre da esse indipendenti si scorgono le cellule azzurre come grossi accumuli di granulazioni grossolane colorate intensamente e raccolte intorno a un nucleo reso evidente dal carmino. Se il testicolo operato viene esaminato dopo più di 14 giorni, allora si scorge sugli interstizi un vero tessuto di granulazione fornito di una rete di vasi capillari di nuova formazione e il connettivo fibrillare che li circonda è molle, quasi retico- lato e fra le sue cellule fibroblastiche contiene le grosse cellule azzurre. Queste talora si raccolgono di preferenza accanto alle pareti vascolari, così da parere cellule peri- vascolari. La stessa apparenza abbiamo scorto in testicoli che da molto tempo (2 !/s mesi) erano stati operati col filo assettico; anche in quelli era resa evidente un’ampia rete vascolare e un quasi addossamento di cellule azzurre lungo la loro parete. Non è l’unica interpretazione possibile quella che si tratti di cellule peri- vascolari, perchè nel tessuto interstiziale normale dei testicoli le cellule interstiziali sono bensì necessariamente vicine ai vasi, ma tuttavia abbastanza discoste da non figurare come vere cellule avventiziali. 470 PIO FOÀ 8 Può darsi adunque che le cellule interstiziali in questi casi si dispongano accanto alle pareti dei vasi dilatati o dei vasi di nuova formazione, e li accompagnino nel loro percorso. Finalmente se si esaminano testicoli operati di più vecchia data, si scorge che il tessuto interstiziale è divenuto omogeneo sclerotico, povero di cellule fibroblastiche, mentre le cellule interstiziali o isolate o a gruppi si distinguono sempre in mezzo al tessuto fibroso, ma esse pure subiscono lentamente un processo di disgregazione che le diminuisce di volume e di numero. Se quando il testicolo è in piena infiammazione interstiziale si esaminano i tagli fatti col microtomo a con- gelazione e colorati col sudan II, allora si scorgono altri particolari interessanti. Molto grasso si trova accumulato negli epiteli dei canalicoli seminali, e intorno ai canalicoli necrotici vi è molto grasso negli spazi intercanalicolari. Le cellule intersti- ziali non si alterano affatto; anzi parecchie di esse presentane-delle goccioline adi- pose, e in alcune cellule azzurre le goccioline tinte in rosso dal sudan sono più numerose: in altre poche le goccioline aumentano così da occupare quasi tutta la cel- lula mentre si riducono i granuli azzurri; finalmente vi sono cellule interstiziali di cui non si vedono che cumuli di gocciole adipose intorno al nucleo leggermente azzurro. Il fenomeno della trasformazione delle cellule interstiziali, in elementi che sem- brano solo composti di un accumulo di gocciole adipose intorno al nucleo, con frap- posto qualche rarissimo granulo azzurro come ad attestare l’origine dell’elemento, si riscontra anche più accentuato in altri casi in cui si è operato nel testicolo un’inie- zione di liquido fisiologico, o una emulsione di sperma. Questi liquidi provocano una larga distruzione di parenchima, ossia forma delle isole in cui tutto è necrotico, ma alla periferia della massa necrotica si trovano canalicoli circondati da connettivo interstiziale accompagnato da cumuli di cellule azzurre. In alcune parti in cui il taglio comprende rami arteriosi si vede che intorno all’avventizia si accumulano in ordine seriato le cellule azzurre. In taluni spazi interstiziali più larghi sì scorgono molti elementi azzurri forniti di gocciole di grasso; e isolatamente si trovano delle cellule totalmente composte di gocciole di grasso con qualche granulo azzurro, oppure anche senza di questi. Tale reperto si è ottenuto sia iniettando il liquido in testicoli già preparati colle iniezioni di isanamina, sia in testicoli senza alcuna preparazione, e iniettando, invece, la soluzione colorata dopo 4-3 giorni dalla operazione. L’aspor- tazione dei testicoli veniva fatta dopo altri 6-7 giorni, e in questi come nei casi precedentemente descritti, i tagli colorati col sudan dimostravano il graduale pas- saggio delle cellule azzurre in cellule costituite da gocciole di grasso e simili affatto a vecchi corpuscoli purulenti. La reazione interstiziale intorno alle masse necrotizzate dalle iniezioni di liquidi fisiologici, apparve molto viva e dopo 7-8 giorni in pezzi fissati in Zenker e colorati con carmino e v. Gieson vi scorgeva una ricca quantità di fibrille -sottilissime e numerose le corrispondenti cellule fibroblastiche, mentre si trovavano ad accumuli le cellule azzurre voluminose col loro grosso nucleo tinto dal carmino. Un'altra piccola serie di esperienze fu fatta coll’iniezione in testicoli preparati o non, di una sospensione di pelviscolo di carbone nella soluzione fisiologica. Nei testicoli non preparati, cioè che non avevano subìto preventivamente l'iniezione di isanamina, era sorprendente il vedere gli identici risultati che si ottengono ordinaria- mente colla iniezione di quest’ultima soltanto, cioè, le cellule interstiziali completa- 9 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 471 mente impregnate di carbone così da celarne il nucleo e la struttura protoplasmatica, seguivano il tratto di tessuto connettivo i cui fibroblasti e le cui fibrille erano come d’ordinario semplicemente colorati col carmino. Le cellule interstiziali facevano corona in serie regolare alle sezioni trasversali dei vasi accanto all’avventizia dei medesimi, oppure se ne scorgevano in serie sotto la capsula (Vedi Fig. 3). somma se si toglie il colore e la sostanza che le impregnava, il reperto, come si disse, era identico a quello che si aveva da una iniezione di bleu di isanamina. Se il testicolo era stato preventivamente preparato coll’iniezione di sostanza colorante, e in seguito, cioè dopo qualche giorno, sì iniettava la sospensione di carbone animale finemente triturato, si scorgeva facilmente che in ciascuna cellula azzurra si conteneva uno o più blocchetti di carbone (Vedi Fig. 3). Anche se prima si iniettava carbone e dopo qualche giorno si iniettava sostanza colorante, si dimostrava la colo- razione azzurra nelle cellule che già avevano arrestato le minute particelle di car- bone. Anche queste iniezioni, come è naturale, determinavano qualche area di necrosi, intorno a cui si produceva una leggera infiammazione interstiziale, e le cellule fibro- blastiche non trattennero il carbone. Per meglio apprezzare la importanza della estensione della necrosi operata dal traumatismo della iniezione di liquidi nel testicolo nella produzione della infiamma- zione interstiziale, si sono fatte delle semplici ferite traversando il parenchima di un testicolo preparato, coll’ago-canula della siringa da iniezione, oppure praticando prima la ferita e poi la iniezione di isanamina a distanza di qualche giorno, e lon- tano, in ambi i casi, dal luogo della iniezione o rispettivamente della ferita. Si ottenne allora una reazione assai limitata e rappresentata da qualche striscia di ispessimento del connettivo interstiziale, il quale col tempo si faceva sempre più fibroso e alla fine sclerotico, accompagnata da cellule azzurre o a gruppi o isolate, e che col tempo divenivano più scarse di numero. Un’altra serie di esperienze fu fatta colle iniezioni di licopodion sospeso nella soluzione fisiologica di NaCl, nel testicolo di coniglio già preparato col bleu d’isa- namina, oppure questa ultima si faceva qualche giorno dopo l’iniezione del licopodion. Conviene non esagerare nella quantità del licopodio iniettato e l'iniezione conviene sia fatta lentamente. Può in caso contrario seguire il caso che la materia troppo abbondante e iniettata bruscamente rigurgiti nel sacco della vaginale, ove si raccoglie in una specie d’essudato che contiene il licopodio. Operato convenientemente, non è difficile di scorgere negli spazi intercanalicolari i grani di licopodion circondati da un anello di cellule azzurre. Queste sono accumulate tutto intorno al corpo estraneo e sì presentano talora inalterate col loro ammasso di granuli azzurri e col loro nucleo caratteristico. Altrove si trovano piuttosto dei detriti di cellule azzurre intorno al licopodion esso stesso in disgregazione. Si ha così l’impressione di una progressiva distruzione delle cellule azzurre e nello stesso tempo di un assottigliamento e pro- gressiva scomparsa del licopodion (Vedi Fig. 5). Osservando i tagli più sottili ove i corpi estranei sono meglio conservati e sono ancora circondati da un cumulo di cellule azzurre integre, si ha la riproduzione quasi identica della figura che Marchand ha pubblicato nel 1° Vol. dei “ Verhandlungen d. Deutsche Pathol. Gesellsch. , (Berlin, 1899, pag. 75), in cui è rappresentato un grano di licopodion circondato dalle cellule che egli ha denominato leucocitoidi. 472 PIO FOÀ 10 Più innanzi sarà detto del significato che potrebbe essere attribuito ai risultati di queste due ultime serie di ricerche. Ancora un’altra lunga serie di esperimenti fu fatta rendendo tubercolosi i testi- coli preparati colle iniezioni di isanamina. Alcuni casi si sono prodotti accidental- mente, perchè per errore fu adoperata ad iniettare i testicoli una siringa che aveva servito a iniettare in alcune cavie della materia caseoso-tubercolare. Altri invece furono operati in due modi: o introducendo attraverso il testicolo un filo che era stato dianzi immerso in una sospensione di bacilli tubercolari in liquido fisiologico, oppure iniettando nella vena auricolare di conigli robusti 1 c.c. di sospensione di un’ansa di coltura di b. tubercolare in 2 c. c. di soluzione fisiologica. Ne seguì una tubercolosi generalizzata, e si trovarono spesso dei noduli recentissimi di tuber- colosi intorno ai vasi del tessuto intercanalicolare dei testicoli, che erano già stati preparati con una o con due distanziate iniezioni di isanamina. I risultati ottenuti furono vari secondo il metodo adoperato per rendere tubercolosi i testicoli, e certo non furono privi di importanza per la questione di cui ci occupiamo. Un coniglio grosso, del peso di 2200 gr., ebbe due volte alla distanza di 7 giorni due iniezioni parenchimatose nel testicolo sinistro, di isanamina. Una di tali iniezioni fu fatta molto vicina alla testa dell’epididimo, il che è da rilevare perchè nei casi in cui l'iniezione cade esclusivamente sul corpo del testicolo, essa non penetra mai nell’epididimo. Lasciato a sè l’animale, si trovò che il testicolo era divenuto molto grosso, caldo e duro, e si suppose che fosse avvenuta accidentalmente una infezione comune, probabilmente da piogeni. Invece, quando dopo circa 14 giorni si è tolto il testicolo operato (l’altro era singolarmente atrofico), si vide che esso era in parte infiltrato di sostanza caseosa. Fissato in formol per 8 giorni, indi trasportato in alcool, si sono fatti molti preparati da pezzi inclusi in paraffina affine di controllare con maggiore finezza di particolari quei tagli che dopo sole 10 ore di fissazione in formolo si erano fatti col microtomo a congelazione, e che avevano dimostrata l’esi- stenza di una affezione tubercolare. Questa poi era anche più confermata dall’esi- stenza di granulazioni tubercolari nel rene, nella milza, nel fegato, nei gangli lin- fatici della pelvi, nel ganglio retrosternale, che aveva anche assunto la colorazione azzurra, e abbondantissime nei polmoni. La robustezza pregressa dell’animale faceva escludere che si fosse iniettata la materia colorante in un soggetto già affetto da tubercolosi; invece, parve più logico ammettere che questa si fosse accidentalmente prodotta coll’iniezione mediante una siringa inquinata. Dall'esame microscopico è risultato che nel testicolo esistevano vari focolai costituiti da una massa centrale caseosa densa, circondata da un abbondante tessuto di granulazione in cui prevalevano piccoli elementi linfatici. All’infuori delle masse caseose e grunulomatose, si osservava il fatto singolare che i canali seminiferi erano invasi nel loro lume da cumuli di cellule azzurre (Vedi Fig. 7). Queste erano grandi a granuli grossi e si scorgeva un bel nucleo colorato in rosso dal carmino. In mezzo ad esse erano elementi appartenenti evidentemente all’epitelio germinale, ma non era facile il dire quale ordine di elementi essi rappresentassero. In talune parti si osser- vava bensì il canalicolo seminifero penetrato da qualche gruppo di cellule azzurre, ma qualche elemento azzurro si trovava ancora impegnato nella parete, e altri pochi ancora si vedevano nel tessuto interstiziale. Il quale in verità era esso pure rap- 11 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 473 presentato da una infiltrazione di piccole cellule linfatiche e solo eccezionalmente vi si scorgeva frammezzo qualche cellula azzurra. Esaminando l’epididimo, si scorgeva che molti canalicoli non presentavano alcuna particolarità, o non era facile lo scorgerla; invece, in taluni altri gruppi di cana- licoli si trovava che la materia colorante era penetrata nell’epididimo colorandone alcuni elementi interstiziali, mentre le pareti dei canalicoli stessi dell’epididimo, addimostravano la presenza di alcune cellule azzurre nella parete e di altre che smagliando le fibre più interne erano penetrate nel lume stesso del canalicolo. I fenomeni suddescritti non erano limitati ad alcune parti, ma erano visibili in tutti i preparati, col contrasto evidente fra la sostanza intercellulare povera o mancante affatto di cellule azzurre, mentre ne era zaffato il lume dei canalicoli, e le cellule in questa contenute erano grosse, a granuli voluminosi e a nucleo molto evidente. In un’altra serie di esperienze fu, come si è detto più sopra, espressamente introdotto nel testicolo di coniglio un filo di seta impregnato di una coltura pura di bacilli tubereolari. Là dove il filo passava determinava necrosi di canalicoli e un fitto accumulo di piccoli elementi intorno ad esso, ma un po’ più discosto si scor- gevano dei noduli microscopici composti di piccoli elementi, tra i quali erano pure penetrate parecchie cellule interstiziali azzurre col loro aspetto caratteristico. Finalmente più lontano ancora, dove il virus tubercolare non era penetrato, si scorgevano come in un testicolo normale le cellule azzurre intercanalicolari; solo esse sembravano più numerose e più grosse dell’ordinario, il che per vero dire avrebbe anche potuto essere determinato dalla copiosa iniezione di materia colorante fatta due volte di seguito, e dal lungo tempo passato fra l'iniezione e l’esame dell’organo. Finalmente si operò un’altra serie di conigli con una iniezione nella vena auri- colare di una tenue e omogenea sospensione di bacilli tubercolari virulenti. Essi penetrarono in tutti gli organi e anche nei testicoli, determinandovi la produzione di numerosi noduli microscopici costituiti da cumuli di piccoli elementi addensati alla periferia del nodulo, e già in incipiente necrosi nella rispettiva parte centrale. Anche in questi noduli, come in quelli ottenuti col filo attraverso il testicolo, si osservava che quando erano recentissimi presentavano nella periferia del nodulo dapprima, e poi fino alle parti centrali, una ricca quantità di elementi azzurri volu- minosi e bene conservati (Vedi Fig. 6). Man mano il nodulo invecchiava e le parti centrali cadevano in necrosi, sì trovava anche l’impallidimento, la disgregazione e la scomparsa degli elementi azzurri, i quali qui e là erano solo più rappresentati da residui di granulazioni. Il parenchima del testicolo fuori dell’ambito di questi noduli pre- sentava l'aspetto normale con numerose cellule azzurre nel tessuto intercanalicolare. A chiudere la serie degli esperimenti, viene ora quello di iniezioni di bacilli tubercolari nell’addome di topolini, resi universalmente azzurri col mezzo di molte- plici iniezioni sottocutanee di bleu di isanamina, a distanza di tempo l’una dall’altra. I topolini, ai quali era stata fatta nell’addome l'iniezione di 1 c.c. di sospensione di un’ansa di bacilli tubercolari nel liquido fisiologico, sopportarono indifferentemente l'operazione, e fu per ‘curiosità che li ho sacrificati dopo 30-45 giorni dall’iniezione affine di esaminare che cosa era seguito nel peritoneo e sopratutto nel fegato e nella milza della materia iniettata. È noto dalle belle esperienze di E. Goldmann (I. c.) che il fegato dei topolini a lungo trattati con iniezioni sottocutanee di isanamina si pre- Serie Il. Tow. LXII I? 474 PIO FOÀ 12 senta macroscopicamente senza grande variazione di colore, ma nei preparati micro- scopici, esso offre costantemente colorate intensamente in azzurro le sole cellule di Kupfer, ossia gli endoteli dei capillari intralobulari. Era pertanto interessante il conoscere quale aspetto avrebbe potuto presentare il fegato di topo dopo l’iniezione dei bacilli tubercolari e di altri microorganismi. Il primo esperimento fu fatto sopra un topo maschio al quale furono fatte in 100 giorni dieci iniezioni sottocutanee di 1 c.c. di soluzione 1° di isanamina. Il topo sopportò assai bene le iniezioni, tanto che fu trovato di peso leggermente aumentato, e fu scelto fra altri topi ugual- mente preparati e che dovevano servire allo studio della struttura normale, per iniettargli nella cavità peritoneale mezzo c.c. di sospensione di bacilli tubercolari di tipo umano, fatta con un’ansa di coltura stemperata in 2 c. c. di soluzione fisio- logica. L'animale apparentemente non ne ha risentito affatto, onde dopo 25 giorni fu sacrificato. Un altro topo pure preparato con ripetute iniezioni sottocutanee di isa- namina fu operato coll’iniezione di mezzo c.c. di cultura di bacilli di tubercolosi come il precedente, ma fu sacrificato in apparente buono stato dopo 30 giorni dalla iniezione; finalmente un terzo topo ugualmente trattato fu sacrificato dopo 25 giorni. Il reperto anatomo-patologico macroscopico parve negativo se si eccettua nel 2° e nel 3° un notevole tumore di milza. Ciò che ha più particolarmente colpito nell’in- dagine microscopica degli organi è stato il fegato, le cui cellule di Kupfer erano colorate intensamente in azzurro e le cui cellule epatiche ben conservate presenta- vano-ora un grosso nucleo, ora due nuclei, oppure forme di scissione nucleare in corso, ma ciò che era veramente interessante, era la produzione di numerosi noduli costituiti da un cumulo di piccole cellule i cui nuclei si tingevano vivamente in rosso col carmino e fra queste un gruppo di grosse cellule azzurre che le coprivano in gran parte (Vedi Fig. 8). Accanto ai noduli era facile scorgere alcune singole cellule di Kupfer più grosse e più intensamente colorate delle altre congeneri, e appariva una gradazione di volume fra le cellule singole intralobulari, e quelle che penetrando nel nodulo ne costituivano la parte più caratteristica. L'esame del fegato di quei topolini che erano stati uccisi più lungo tempo dopo l’infezione, presentava ugualmente la presenza di molti noduli, ma si distinguevano dai precedentemente descritti per essere meno numerose le cellule azzurre e più pallide, onde era più evidente il cumulo delle piccole cellule che si coloravano col carmino. Se queste differenze fossero da ascri- versi a variazioni individuali, oppure al più lungo tempo decorso tra l’infezione e la morte dell'animale, o al numero di bacilli che hanno determinato la formazione di noduli è cosa che non si potrebbe decidere, anche atteso il numero troppo scarso degli sperimenti; tuttavia sembra più logico ammettere che la maggiore o minore copia di cellule grosse e colorate, nello spessore dei noduli, possa dipendere dal nu- mero di bacilli, perchè in un medesimo taglio di fegato si possono talora trovare dei noduli carichi di cellule grosse intensamente azzurre e degli altri prevalente- mente costituiti di visibili piccole cellule inframmezzate da poche e sottili cellule di Kupfer. I noduli sono disseminati tra le cellule epatiche, e spesso accostano i vasi sanguigni le cui pareti separano i noduli dal lume del vaso. È singolare che identico reperto si è potuto ottenere in fegati di topi preparati come i precedenti, ma infettati di pneumococchi, sì che ne morirono in tre o quattro giorni. In questi casi il fegato presentava una rete sanguigna molto larga e congesta, e solo intorno ai 13 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 475 vasi quasi a ridosso della loro parete si trovavano cumuli di cellule grosse azzurre e di piccole cellule come nei noduli precedentemente descritti. L'esame di molti fegati normali di topolini azzurri, e di fegati di topolini che dopo la preparazione coll’isanamina ricevettero infezioni di altri bacteri, come lo stafilococco e il dacillus coli, ha però rilevato che nel fegato di topolini normali si trovano abbastanza di frequente dei piccoli noduli costituiti da piccole cellule, e anche inframmezzate da scarse e sottili cellule azzurre, onde il reperto avuto nei topi infetti da tubercolosi e da pneumobacillo potrebbe indicare solo una esagerazione dello stato normale. Nella milza dei topolini morti di tubercolosi non esisteva che una iperplasia dei follicoli linfatici, e una grande abbondanza di elementi della polpa, ma nulla che potesse ascriversi effettivamente alla tubercolosi. Rileggendo la descrizione che del fegato dei suoi topolini azzurri ha fatta il Prof E. Goldmann nell'opera citata, e nella figura da lui presentata nelle tav. IV, fig. 1°, e V, fig. 2°, non risulta che l’autore abbia rilevata la presenza dei noduli suddescritti. Egli ha descritto invece dei casi abbastanza frequenti nei topi, di pre- senza di vermi nel fegato con netta separazione della capsula che li circonda dal- l'organo circostante, e vide nella capsula la presenza di molte Mastzellen colorabili col rosso neutro. i Se vuolsi ora prendere in considerazione tutto quanto si è venuto descrivendo in merito agli esperimenti eseguiti col mezzo della colorazione intravitale, si rileverà innanzi tutto la capacità che hanno le cellule interstiziali di moltiplicarsi rapida- mente anche quando abbiano fissato nei loro granuli la sostanza colorante. I testicoli preparati col bleu di isanamina, mostrano le cellule interstiziali azzurre in propor- zione e per forma normali come con qualunque altro metodo. Ma se si attraversa il testicolo con un filo assettico oppure impregnato di germi virulenti, si osserva una rapida moltiplicazione degli elementi interstiziali preesistenti, sebbene col metodo della colorazione intravitale non si possa esaminare il procedimento di tale molti- plicazione; se, cioè, per scissione diretta, oppure indiretta. Il Maximow a tale riguardo ha coi metodi ordinari dimostrato che le cellule interstiziali possono proliferare per scissione indiretta. Proliferano anche le cellule del connettivo interstiziale e si vede che l’esito ordinario sia di una ferita semplice assettica come quella che si produce col passare un’ago-canula attraverso il testicolo, oppure l’esito di una irritazione assettica provocata da un corpo estraneo, come un filo di seta, è sempre quello di una parziale mortificazione del parenchima, e di una proliferazione del connettivo interstiziale e delle cellule interstiziali propriamente dette. Queste sono anche spesso molto grosse se la preparazione colla isanamina fu ripetuta con abbondate quantità di soluzione, e sono numerose sopratutto nelle infiammazioni recenti. Il connettivo è dapprima squisitamente fibrillare; più tardi diventa sclerotico, e allora diminuisce ad un tempo il numero delle cellule fibroblastiche e quello delle cellule interstiziali. L’orchite interstiziale che si provoca con un filo impregnato di b. Friedlinder, pro- voca dei grandi accumuli di cellule interstiziali, e anche la neoformazione di abbon- dante connettivo areolato fibrillare intorno ai canalicoli seminiferi; oppure se l’in- fiammazione data da più lungo tempo si produce un’orchite interstiziale sclerotica, con grosse cellule interstiziali o accumulate o isolatamente sparse lungo la sostanza fondamentale. Ciò che col metodo delle colorazioni vitali spicca in modo particolare 476 PIO FOÀ 14 è la differente disposizione, il differente ufficio delle cellule connettive e fibroblastiche propriamente dette, da quello delle cellule interstiziali. Quello fabbrica sostanza fon- damentale e fibrillare; queste invece ne rimangono indipendenti, nè ho mai potuto avere alcun indizio sicuro della trasformazione delle cellule interstiziali in cellule connettive propriamente dette, in nessuna fase del loro sviluppo. È interessante nella produzione di infiammazioni assettiche, il rilievo che quello che potrebbe essere intitolato l’essudato, oppure l’infiltrazione infiammatoria, non ha nulla a che fare con elementi sanguigni. Infatti non si scorgono leucociti nè lin- fociti, ma solo cellule interstiziali proliferate. Ed è pure interessante in certi casi l'osservazione di preparati colorati col sudan II e fatti sopra testicoli intensamente infiammati per introduzione di fili imbevuti di soluzione di bacteri oppure per inie- zione abbondante di liquido fisiologico o di emulsione di sperma, provocanti una necrosi piuttosto estesa del parenchima. Allora si osserva la presenza di cellule interstiziali azzurre con pochissime gocciole adipose, il che potrebbe essere anche fisiologico, e insieme molte altre che vanno così caricandosi di granulazioni adipose che i granuli colorati scompaiono, si disgregano e non se ne scorge che qualche residuo nel protoplasma della cellula. Si direbbe di avere sott’occhi dei corpuscoli purulenti in piena infiltrazione grassa, mentre si tratta di elementi istiogeni d’ori- gine locale e da causa flogogena. L’infiltrazione, o il prodotto cellulare infiamma- torio, può essere dunque, come nei casi suddescritti è molto evidente, un prodotto puramente istiogeno ossia da proliferazione degli elementi locali, bene conservati o in totale infiltrazione adiposa, senza intervento alcuno degli elementi circolanti nel sangue. Si tratta di elementi, nei casi descritti, che appartengono bensì ai tessuti connettivi, ma indipendenti dalle celle fibroblastiche e dalla rispettiva sostanza inter- cellulare. Essi, anche secondo Goldmann (1. c.), partecipano attivamente alla cica- trizzazione delle ferite. Dalle esperienze eseguite colle iniezioni di carbone nei testicoli preparati, o colla iniezione di azzurro di isanamina in testicoli che già avevano ricevuto iniezioni di carbone, è risultata la facoltà che hanno le cellule interstiziali di arrestare le par- ticelle di carbone, le quali si vedono come corpuscoli neri in mezzo alle granula- zioni intensamente azzurre del protoplasma. Certo che il metodo in discorso non basterebbe a dimostrare che le cellule interstiziali compiano una vera funzione fago- citaria, perchè esse rimangono sempre come sono coi loro corpuscoli di carbone, ma intanto rivelano la loro qualità di cellule d’arresto di fronte a certi corpi estranei. Un simile reperto ha descritto il Goldmann nei polmoni dei topi preparati coll’az- zurro d’isanamina, avendovi egli trovato che si coloravano in azzurro anche le cellule contenenti le particelle di carbone. Un qualche cosa di più addimostrano le espe- rienze fatte col licopodio, perchè vi è reso evidente che intorno a quei corpi estranei le cellule azzurre si accumulano come un anello, e man mano passava il tempo dalla eseguita iniezione gli elementi accumulati si disgregavano e si scomponevano, mentre anche si assottigliavano e sembravano distruggersi granuli di licopodio. Le esperienze col bacillo tubercolare casualmente introdotto in un testicolo che ricevette varie iniezioni di azzurro, hanno dimostrato che il blocco caseoso è cir- condato da un tessuto composto di piccoli elementi linfocitari o linfocitoidi, e che tutto intorno i canalicoli seminiferi furono invasi dalle cellule interstiziali penetrate 15 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 477 nel loro lume. Sia nella parte testicolare sia nell’epididimo si potè scorgere la gra- duale penetrazione delle cellule attraverso le pareti dei canalicoli, e la loro pene- trazione nel lume rispettivo, mentre il tessuto interstiziale non conteneva più gli elementi azzurri caratteristici. La capacità delle cellule interstiziali ad emigrare nel lume dei canalicoli am- messa da Bardeleben e da Spangaro, fu con particolare evidenza in singoli esemplari raffigurata da Goldmann nella sua opera citata. Ora, nelle esperienze suddescritte è risultata la penetrazione in massa delle cellule interstiziali nei canalicoli, in casi patologici e particolarmente intorno a focolai caseosi. Diverso fu il risultato della infezione tubercolare del testicolo per mezzo di un filo di seta impregnato di.una sospensione di bacilli tubercolari nel liquido fisiologico, perchè in questi casi si ebbe una produzione di noduli recenti di tubercolosi, a com- porre i quali si accumularono le piccole cellule linfocitoidi, ma insieme vi concorsero le cellule interstiziali, le quali erano evidenti e ben conservate nella zona periferica del nodo, mentre andavano sempre più disgregandosi nella parte centrale, che è la prima a subire la degenerazione caseosa. Finalmente è riuscita singolare la produzione e la presenza di noduli nel fegato di topi lungamente iniettati coll’isanamina, e da ultimo trattati colla iniezione di bacilli tubercolari, o di pneumococchi nell’addome, perocchè essi manifestavansi pro- dotti da grossi accumuli di cellule azzurre coi quali erano mascherati i cumuli con- trapposti di piccoli elementi linfocitari. I casi più recenti presentavano gli accumuli più grossi; i casi più vecchi presentavano i cumuli più diradati di cellule azzurre, oppure nel medesimo taglio di fegato si trovavano entrambi.i tipi a cellule grosse e numerose, e a cellule piccole e scarse, di un azzurro intenso, e identiche per forma e per volume, oppure più grosse e più tondeggianti delle cellule di Kupfer, che lontano dai nodi si presentavano normali o a vari gradi progressivi di ingros- samento. Eccetto che nei casi di infezione col diplococco pneumonico per cui gli animali morirono in pochi giorni, quelli trattati col b. tubercolare non soccombettero affatto, ma furono espressamente uccisi dopo 15-20 giorni e nessuna apparenza di malattia si poteva macroscopicamente rilevare. In fegati apparentemente nor- mali si poterono però osservare, più radi è vero, ma pure esistenti, dei noduli a piccole cellule con qualche elemento azzurro, onde rimane sospesa l’interpretazione del fatto, se esso debba essere attribuito almeno in parte all’azione dei bacteri iniettati nella cavità del peritoneo, oppure se si tratti di variazioni individuali. In via sintetica si può concludere che le cellule interstiziali, distinte dalle cellule con- nettive propriamente dette, non fabbricano esse il tessuto fibrillare, sono capaci di moltiplicarsi e di costituire da sole la massima parte di un’infiltrazione interstiziale infiammatoria, con o senza infiltrazione grassa dei suoi elementi e indipendentemente dagli elementi circolanti del sangue. Le cellule interstiziali sono elementi d'arresto di corpi estranei, e forse compiono anche una vera funzione fagocitaria. Sono dotate della facoltà di traslocarsi e possono penetrare in massa nel lume dei canalicoli seminiferi; infine possono accumularsi in nodi flogistici probabilmente costituiti da bacteri, senza che si possa accertare col metodo adoperato, se esse vi compiano un’azione fagocitaria o difensiva. 478 PIO FOÀ — SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 16 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1. Rappresenta le cellule interstiziali azzurre per iniezione parenchimatosa. d’isanamina ne] testicolo normale di coniglio. Fig. 2. Rappresenta la reazione interstiziale del testicolo di coniglio traversato da un filo asset- tico con proliferazione delle cellule azzurre interstiziali, e delle cellule fibroblastiche. La sostanza fibrillare è indipendente dalle cellule azzurre. Fig. 2 bis. Un testicolo di coniglio preparato coll’iniezione parenchimatosa di isanamina e tra- versato da filo assettico, asportato dopo 75 giorni. Una larga rete di vasi è fiancheggiata da grosse cellule azzurre interstiziali. Fig. 3. Cellule interstiziali di testicolo di coniglio in cui fu fatta un’iniezione di polvere di carbone animale sospesa nel liquido fisiologico. Fig. 4. Iniezione di minutissimo pulviscolo di carbone a lungo triturato, nel testicolo di coniglio. Reazione interstiziale connettiva: le cellule azzurre trattennero un blocchetto di carbone. Fig. 5. Iniezione parenchimatosa nel testicolo di una sospensione di granuli di licopodion nel liquido fisiologico. Reazione interstiziale. Licopodion circondato dalle cellule azzurre. Fig. 6. Nodulo di tubercolosi periarterioso d’origine ematogena. Le cellule azzurre partecipano in principio alla formazione del nodulo; più tardi impallidiscono, si disgregano e scom- paiono. Fig. 7. Penetrazione delle cellule azzurre interstiziali nei canalicoli seminiferi in caso di tuber- colosi sorta accidentalmente durante la preparazione del testicolo di coniglio con inie- zione di azzurro di isanamina. Fig. 8. Noduli parvicellulari, con accumuli di cellule azzurre, e cellule interstiziali (Kupfer) azzurre nel fegato di un topolino reso azzurro con iniezioni sottocutanee di bleu d’isa- namina, e successivamente iniettato di tubercolosi nella cavità peritoneale. Tav, 1:92 Memorie dR.Accad.d. Scienze di Torino Ser. IT Vol IXII mea Lit. Tacohinardi e Fernari-Favia L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO MEMORIA DEL Dott. Ing. G. COLONNETTI Approvata nell'adunanza del 3 Dicembre 1911. Difficilmente in tutta la teoria dell’elasticità potrebbe trovarsi un teorema il quale abbia sollevato attorno a sè discussioni più lunghe e più vivaci di quelle a cui ha dato luogo il noto principio del minimo lavoro. Le prime difficoltà, le quali datano dall’epoca stessa in cui il principio in discorso venne per la prima volta enunciato dal Menabrea, si mutarono infatti in un vero e proprio disaccordo tra matematiei ed ingegneri allorquando, per opera del Castigliano, esso si affermò definitivamente nel campo delle applicazioni. Ed il dissidio non è per anco cessato; il principio del minimo lavoro fa oggi parte dell’insegnamento della Scienza delle Costruzioni nelle Scuole di Ingegneria, ma viene sistematicamente escluso dai più accreditati corsi di Fisica Matematica e di Teoria Matematica dell’Elasticità. Nell’accingermi qui a presentar la questione sotto un punto di vista nuovo, che mi sembra non del tutto privo di interesse, non starò a dire di quanti mi hanno preceduto nello studio di questo argomento: all’opera loro accennerò via via che mi se ne presenterà l’occasione. Soltanto delle dotte Memorie del Prof. Donati (1) mi sembra doveroso far fin d’ora parola, come di quelle a cui io farò nel seguito più frequente ricorso. Premesse (?). In un primo studio approssimato dei fenomeni che si manifestano in un mezzo qualsiasi, questo si può paragonare ad un sistema di punti materiali ciascuno dei (1) L. Dowxami, £ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna ,, serie IV, t. IX (1888), pag. 345; serie IV, t. X (1889), pag. 267; serie V, t. IV (1894), pag. 449. (®) Ad ovviare ogni possibile equivoco, ed a definire nel modo più preciso la portata dei teoremi che in seguito verranno dimostrati, si riportano qui brevemente poche nozioni note sulla parte che, al concetto di energia, spetta nella teoria dell’elasticità. 480 G. COLONNETTI 92 quali è completamente definito dalla sua massa invariabile e dalle tre sue coordinate, in generale variabili. Se le forze che sollecitano i singoli punti di un cosiffatto sistema sono cen- trali e dipendono soltanto dalle distanze mutue dei punti stessi, il lavoro da esse forze eseguito durante una qualsiasi deformazione non dipende da tutti gli stati pei quali il sistema passa successivamente nel suo movimento, ma bensì soltanto dalle due configurazioni iniziale e finale: sussiste allora il principio della conservazione dell'energia, il sistema si dice conservativo ed il lavoro in discorso viene espresso sotto forma di differenza dei valori, relativi a quelle due configurazioni, di una funzione uniforme, finita e continua di quelle variabili da cui dipende la forma del sistema dato. Lagrange, pel primo, ha, nella classica sua “ Mécanique analitique ,, insistito sulla importanza di questa funzione (3) che sta oggi a base di ogni teoria meccanica così dell'equilibrio che del movimento dei corpi. Ma sarebbe evidentemente impossibile limitarsi, nello studio dei corpi quali effettivamente si trovano in natura, a considerare soltanto sistemi materiali così semplici; il fisico è pertanto inevitabilmente condotto a considerare i corpi continui, a caratterizzare i quali non bastano più le sole coordinate di certi loro punti. Perchè un corpo continuo sia infatti completamente definito occorre conoscerne, in ogni punto, la densità, la temperatura, nonchè un certo numero di parametri dipendenti dal suo stato fisico, chimico, ecc. I principii della meccanica non bastano più allo studio di simili corpi; ed anche quando si escludano, come qui vogliam fare, tutti i cambiamenti di stato sia fisici che chimici, è pur sempre e soltanto alla termodinamica che possono chiedersi i principi fondamentali (4). Si ritrova così che ad ogni stato del sistema corrisponde un valore ben definito di una funzione U detta potenziale termodinamico totale, la quale appare costituita da due parti fra loro ben distinte: l’una TT nota sotto il nome di energia potenziale delle forze esterne ed eguale ancor qui al lavoro eseguito da tali forze quando il sistema passa dalla sua configurazione attuale a quella particolare configurazione per la quale si ammette che il potenziale si annulli; l’altra ® che denomineremo potenziale ter- modinamico interno, funzione uniforme, finita e continua dello stato del corpo. Noi studieremo soltanto problemi nei quali ciascuno degli elementi del corpo che si considera è definito da un certo numero di caratteri che gli sono proprii, senza che si debba fare intervenire nella sua definizione la natura degli altri elementi che compongono lo stesso corpo nè la posizione loro per rapporto al primo. Il potenziale termodinamico interno del corpo avrà dunque per noi la forma: (1) ®=|@dS, (9) Ad essa Gauss ha dato il nome di potenziale delle forze; W.Tnoxsox e Rankine l'hanno chia- mata energia potenziale; la stessa funzione, ma cambiata di segno, è stata detta funzione di forza da Hamrrron e da Jacosi. (4) W. Taoxsox, Thermo-elastic properties of matter, # Quarterly Journal of Mathem. , (vol. I, 1855). Vedi anche Taoxsow et Tarr, Treatise of natural philosophy, t. 11, pag. 462, ovvero E. BertI, Teoria della elasticità, È Il Nuovo Cimento ,, serie 2*, t. VII (1872), pag. 15. Bj L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 481 l'integrale essendo esteso a tutto lo spazio S (connesso) occupato dal corpo, e © es- sendo una funzione uniforme, finita e continua dei parametri che definiscono lo stato della materia nell’interno dell'elemento di volume dS. Abbiamo già detto che questa forma del potenziale termodinamico interno è ben lungi dall'essere la più generale che possa immaginarsi. È da rimarcarsi anzi che la dipendenza del potenziale elementare @. di un elemento dS di volume, dallo stato della materia che occupa gli altri elementi del sistema, ovvero dalla posizione di questi elementi per rapporto a dS, non è affatto una concezione puramente ideale: essa si verifica, ad esempio, in tutti i fenomeni di capillarità, di elettricità, di ma- gnetismo, ecc. Limitata per altro, così come abbiamo detto, la questione, incominciamo col precisare bene che cosa dobbiamo intendere per deformazione di un corpo, e in quali casi lo studio di una deformazione può farsi coi mezzi di cui più innanzi vogliamo occuparci (?). ; Immaginiamo, a tal fine, suddiviso il corpo in tanti elementi: Se tali elementi esistessero soli nello spazio indipendentemente gli uni dagli altri, essi possederebbero certi ben determinati potenziali elementari: che, sommati, debbono, per le ipotesi fatte, fornirci il potenziale termodinamico interno dell’intiero sistema: d=p' Lp" + + REESE Immaginiamo che il corpo sia stato preso in considerazione in una prima sua configurazione perfettamente definita, che noi chiameremo stato naturale, senza per altro introdurre, pel momento, alcuna ipotesi sulle particolari sue caratteristiche. In questo stato naturale quei certi elementi del corpo possederanno ben deter- minati potenziali elementari: e ni dio se La quantità: ®o = Plot Dod Pi mantenendosi costante qualunque siano le modificazioni a cui il corpo viene assog- gettato, e l’espressione del potenziale termodinamico interno del sistema essendo sempre e soltanto definita a meno di una costante, noi possiamo assumere come nuova espressione dello stesso potenziale la differenza: d_-d®b= (9 — po) + (pie Po) + (9! — ee (3) P. Dunex, Hydrodynamique, élasticité, acoustique (Paris, 1891, litograf.), t. II, pag. 205. Serre II. Tow. LXII. E° 482 G. COLONNETTI 4 Ciò premesso, si dirà che il corpo ha subita una semplice deformazione, senza cambiamento alcuno di stato fisico o chimico, se, per conoscere il valore di una qualunque delle differenze elementari: I ni = ah de Be che corrispondono ad un dato stato arbitrario del corpo, basta conoscere: 1° lo stato naturale dell'elemento a cui tale differenza si riferisce; 2° gli spostamenti che occorre dare ai diversi punti materiali che compongono l'elemento stesso per condurre ciascuno di essi dalla sua posizione nello stato natu- rale alla nuova posizione che esso occupa nel corpo deformato. La teoria dell’elasticità, entro i cui limiti noi intendiamo contenere le conside- razioni che stiamo per esporre, si occupa di queste deformazioni semplici, cioè non accompagnate .da cambiamento alcuno di stato fisico o chimico nè da alterazione di temperatura, soltanto subordinatamente ad una condizione essenzialissima: essa sup- pone che il passaggio del corpo dallo stato naturale allo stato attuale non richieda alcuna deformazione finita. In tal caso ciascuna di quelle differenze elementari può esprimersi in funzione di un numero finito di parametri variabili: gli ordinari mezzi dell’analisi bastano allo studio del comportamento del potenziale termodinamico interno il quale prende allora più frequentemente il nome di energia elastica o lavoro di deformazione come quello che rappresenta, sia il lavoro che il corpo può svolgere nel restituirsi dallo stato attuale allo stato naturale, sia fautato-di-seeno) il lavoro che hanno dovuto compiere le forze esterne per condurre il corpo stesso dallo stato naturale all'attuale suo stato di coazione elastica (*). 81. Come stato naturale del corpo si sceglie sempre lo stato di equilibrio che esso assume quando i diversi elementi di volume che lo compongono ed i diversi elementi di superficie che lo limitano non sono soggetti ad alcuna forza esterna ad essi diret- tamente ed esplicitamente applicata. Nell’ordinario modo di presentare la teoria, si suppone che, nello stato naturale, tutti gli elementi del corpo si trovino allo stato naturale, di guisa che ogni sua por- zione, anche supposta isolata e sottratta all’azione del resto, conservi invariata la propria forma. Dette allora x, y, 2 le coordinate cartesiane ortogonali, dei punti del corpo o sistema preso in considerazione, nello stato naturale So si indichino con: a+ y+v z+w (9) BeLrramI, Sulle condizioni di resistenza dei corpi elastici, “ Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere ,, 11 giugno 1885. 5 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 483 le coordinate dei medesimi punti materiali nello stato deformato $, denotando, come di consueto, con «, v, w le componenti dello spostamento del punto generico, com- ponenti che si suppongono funzioni continue delle coordinate. Indichiamo poi con a, è, c, f, 9, % le sei componenti della deformazione nel- l'intorno del punto (x, y, 2): gore = I se Dida fia dy de dv du dw (2) dy de dr Or a Sus e Li de dy È da queste sei grandezze, e da queste sole, che può farsi dipendere quell’energia elastica elementare che abbiamo testè contrassegnata colle lettere @, o meglio, colle differenze @ — gp. Chè anzi nel caso particolarissimo delle deformazioni infinitesime, da noi assunto come unico oggetto del nostro studio, si può senz’altro asserire che tale energia elastica elementare è una funzione omogenea di 2° grado (") di quelle componenti di deformazione: (a, d, c, f,9, 1) essenzialmente positiva e che solo si annulla per: cioè in corrispondenza dello stato naturale So. Tale funzione permette notoriamente di esprimere le componenti di tensione, secondo Kirchhoff, X,, Y,, Z., Y.,4,, X, (8) come forme lineari delle componenti di deformazione mediante le relazioni: dp dp \ er — Da Wa= 5 ) dp —_ DE 8) Tall z,=3 dg dp L= de KyT dA (*) Sono assai importanti a questo riguardo le note ricerche del Prof. SowieLiANA, “ Rendiconti della R. Accademia dei Lincei ,, serie V, vol. 3° (1894, 1° sem.), pag. 238 e serie V, vol. 4° (1895, . 1° sem.), pag. 25; “ Annali di Matematica pura ed applicata ,, serie II, t. VII (1902), pag. 129. () Si riterrà qui al solito: Z,= Y: Xx= Zx Ya=Xy. 484 G. COLONNETTI 6 laddove per contro le componenti di deformazione possono venire espresse come forme lineari delle componenti di tensione per mezzo delle relazioni reciproche: ZIAR0 SNO, se lia —_ DO ZIONI (4) es Siniozz _ dy RIO sn NZ: OS essendo: w(X., Vr Zi Vi ZA X,) la forma quadratica reciproca della @. La variazione dell’energia elastica elementare può adunque, in virtù delle (3) e delle (4), essere scritta sotto due forme fra loro reciproche: (5) do = X.da + Y,db + Zac + Ydf + Z.dg + X,ih tre (6) dy = adX, + bdY, + coZ. + f0Y.+ 9dZ, + hdX, a cui corrispondono due espressioni pure reciproche della variazione del lavoro di deformazione: (7) do = [(X.da + Y,dbb + Zde + Y.df + Z.dg + X,5h) ds e (8) d0 = [(adX. + 50Y, + cdZ. + f6Y. + 9dZ, + hd.X,) dS delle quali avremo in seguito occasione di trarre profitto. Noi abbiamo così stabilita a mezzo delle (8) e (4) una corrispondenza biunivoca tra le componenti di deformazione e le componenti di tensione, corrispondenza che noi implicitamente presupporremo sempre nel seguito, ed in virtù della quale dato arbitrariamente il sistema delle a, bd, c, f, g. &, ne risulta determinato il sistema delle X., Y,, 4, Y.,Zz, X, e reciprocamente. $ 2. Non è però affatto detto che, dato a priori un sistema, sia pure continuo, di sei funzioni a, ò, c, f, g, a delle coordinate x,y, = dei punti del corpo nel suo stato natu- rale, debba tale sistema di componenti di deformazione necessariamente rappresen- tare una vera e propria deformazione di quel corpo; chè anzi perchè ciò avvenga, cioè perchè esista un sistema continuo (v, v,w) di componenti di spostamenti da cui 7 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 485 si possano far dipendere le a, d, c, f, g,} giusta le (2), è necessario e sufficiente che siano soddisfatte le sei equazioni: Msi db dc dy de de? IPO (9) da IIOIA0f dg Li 3 \ dyde t 2 de D dy de ae che risultano dalle (2) eliminandovi le «,v,w per via di derivazione (?). Notiamo però che se, per un punto (x,y, 2) si considera un intorno o particella elementare che si riguardi come isolata ed indipendente dal resto, si può sempre intendere che le a, è, c, f, g, f arbitrariamente date in quel punto, rappresentino una deformazione della particella considerata, e le X., Y,, Z,, Y., Z., X, dedotte colle (8), rappresentino le componenti di tensione che ne derivano: e reciprocamente date ad arbitrio le X., Y,, 4, Y:,Zx, X, si può sempre imaginare che ad esse corrisponda, in virtù delle (4), una ben determinata deformazione della particella, atta a riprodurre, colle tensioni a cui dà luogo, i valori dati. Le sei equazioni testè scritte esprimono le condizioni che debbono essere veri- ficate se si vuole che tutte queste deformazioni parziali siano conciliabili insieme, fondendosi a costituire una deformazione continua di tutto il corpo connesso. Noi chiameremo pertanto le (9) condizioni di congruenza, denotando col nome di congruente ogni sistema di componenti di deformazione il quale rappresenti una deformazione del corpo effettivamente realizzabile se questo, soggetto a forze tutte esplicitamente date, è, o si rende, del tutto libero nello spazio (19). È noto però che i corpi della natura, intorno al cui comportamento vertono le nostre ricerche, sono di solito soggetti a vincoli atti a limitare più o meno la ca- pacità loro di deformarsi. Può darsi pertanto che il sistema degli spostamenti w, v,w che corrisponde ad un dato sistema congruente a, d, c, f, g,f conduca ad una nuova configurazione del corpo incompatibile coi vincoli ad esso imposti, epperò praticamente irrealizzabile. Noi chiameremo adunque possibile una deformazione quando, il sistema delle (°) Cfr. ad esempio: A. E. H. Lowe, A Treatise on the Mathematical Theory of Elasticity (Cam- bridge, 1906), Ch. I. ovvero: R. MarcoLoneo, Teoria Matematica dello equilibrio dei corpi elastici (Milano, 1904), Cap. III, $ 6. Queste relazioni erano del resto già state rilevate da Barré de Saint-Venant; Cfr. Navier, Résumé des legons ete. (Paris, 1864), App. III. Esse vengono a volte sostituite da altre nelle quali compaiono le componenti di tensione in luogo delle componenti di deformazione. Pei corpi isotropi, detto 7 il coefficiente di contrazione, e posto T= Xx +Yy + Z:, esse prendono allora la forma: 1 PT CIAOO E TE È Se mt 1 dgr 2 1 d°T 2V_ — È dir meli dyda i indicata dapprima senza dimostrazione dal Bertram [% Rendiconti della R. Accademia dei Lincei ,, serie V, vol. I, pag. 142] e più tardi dimostrata da E. Armansi, “ Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, serie II, t. XLVII (1897), pag. 115. © Rendiconti della R. Accademia dei Lincei ,, serie V, vol. XVI (1° semestre 1907), pag. 23. (49) L. DowarI, £ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna ,, serie IV, t. IX (1888), pag. 345. 486 G. COLONNETTI 8 a, b, c,f,g,h essendo congruente, il sistema v,v, w che ne deriva soddisfa alle equa- zioni dei vincoli. Queste equazioni possono essere assai varie a seconda dei casi: nella necessità di ridurle ad un unico tipo, onde meglio fissar le idee, noi introdurremo una volta per tutte le ipotesi seguenti: 1° Ogni vincolo imposto ad un punto di coordinate x,,Y,,z1 può esprimersi mediante una o più eguaglianze del tipo: f(c» Y1 z)=0 come se il punto in questione fosse costretto ad appartenere ad una o più superfici aventi equazioni della forma: f(2,4,2) =0; 2° Nel muoversi sopra ciascuna di queste superfici, reali od ideali che siano, il punto non incontra resistenza alcuna di attrito. In altri termini la reazione incognita di ciascun vincolo semplice ha per compo- nenti secondo gli assi: | df (10) op dr VEST + (26) + (25) df de i Segni di | (di | (dè | IRE Dalle quali ipotesi segue che ogni vincolo semplice, mentre introduce una inco- gnita nel sistema delle forze, determina una delle variazioni delle coordinate, impo- nendo al sistema di spostamenti (v,v,w) una condizione del tipo (11): Of ei OA EA da, (11) e an GE. Riprendiamo ora in considerazione un qualsiasi sistema continuo di componenti di deformazione insieme col suo corrispondente sistema di componenti di tensione; dopo di aver ricercato a quali condizioni il primo sistema deve soddisfare perchè la deformazione risulti compatibile colle condizioni geometriche imposte al problema (4!) Naturalmente nelle espressioni delle derivate de, D, L si devono intendere qui sosti- tuite le coordinate generiche x,y,2 colle particolari coordinate x, %1,z1 del punto che si considera. 9 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 487 dell’equilibrio, dovremmo proporci di indagare in quali condizioni lo stato di tensione elastica definito dal secondo sistema risulti in equilibrio colle forze esterne esplici- tamente date. Riescirebbe però una inutile ripetizione di cose note, qualsiasi deduzione teorica delle equazioni generali dell’equilibrio, che qui perciò ci limitiamo a riportare (12): 20% dI, q d& 7 da NE DE MO STR 9 == > » (12) Yz gone dy | de OZ ED dZ: \ Z= dr nto dy ale dz \ —L=X;cos(nx) + X, cos (24) + X: cos (ne) (13) < — M=Y.cos(rx)- Y, cos (ny) + Y.cos (nz) | —N=4Z;cos(nx) + Z, cos (ny) + Z; cos (ne) indicando, al solito, con X, Y, Z e con L, M, N le componenti unitarie, rispettivamente della forza esterna agente sulla massa dei singoli elementi di volume, riferita all’unità di volume, e della pressione esterna applicata ai singoli elementi della superficie (di normale x), riferita all’unità di superficie. S'intende che tali forze e pressioni sono date in ogni punto così dell’interno che della superficie del corpo sempre quando esso sia del tutto libero nello spazio, rite- nendosi come data la forza zero in tutti quei punti sui quali non agisce forza di sorta. Ogniqualvolta poi il corpo in esame è soggetto a vincoli, vengono, come già si è detto, a mancare tante equazioni di equilibrio quanti sono i vincoli semplici imposti, cioè quante sono le condizioni che legano le componenti di spostamento (18). (12) Cfr. ad esempio A. E. H. Lowe, A Treatise on the Mathematical Theory of Elasticity (Cam- bridge, 1906), Ch. II, ovvero R. MarcoLonco, Teoria Matematica dello equilibrio dei corpi elastici (Milano, 1904), Cap. III, $9 e 10. (4) La cosa può esser facilmente precisata nei singoli casi particolari. Così per es.: se il punto che si considera è fisso nello spazio (ciò equivale a supporlo ritenuto da tre superfici generiche fisse, cioè ad imporgli tre vincoli semplici nel senso sopra definito), debbono ritenersi note (e pre- cisamente nulle) le tre componenti di spostamento, mentre per contro, restando incognita così in grandezza come in direzione la forza (reazione) ad esso punto applicata, vengono a scomparire le tre equazioni generali dell’equilibrio che ad esso si riferiscono. Che se invece trattasi di un vincolo doppio, se cioè il punto in questione è ritenuto da una linea fissa senza attrito, resta indeterminata la sola componente dello spostamento tangente alla linea e deve considerarsi come nota la analoga componente della forza applicata. Due delle tre equazioni generali dell’equilibrio relative ad un tal punto possono farsi scomparire, in quanto sono imeognite la grandezza ed uno dei coseni di direzione della reazione, ma vengono sostituite, agli effetti della determinazione del problema, dalle due relazioni fra le componenti di deformazione, che esprimono l’annullarsi di ogni spostamento normale alla linea data. Ed infine ove si consideri un punto ritenuto da una superficie fissa senza attrito (vincolo sem- plice), la sola grandezza della reazione (componente, normale alla superficie, della forza applicata) resta incognita, epperò le tre equazioni generali dell’equilibrio relative a quel punto possono essere ridotte a due sole. In compenso l’annullarsi dello spostamento normale alla superficie stessa ci per- mette di scrivere una relazione fra le tre componenti di deformazione, con che il problema si con- serva sempre completamente determinato. 488 G. COLONNETTI 10 Noi denomineremo d’or innanzi, per brevità, equilibrata una deformazione allor- quando le componenti di tensione che la caratterizzano soddisfano alle (12) ed alle (13), e ciò indipendentemente dal fatto che essa sia, o non, possibile, od anche soltanto congruente. Con ciò il teorema dell’unicità della soluzione del problema dell’equilibrio ela- stico (!4) può venire enunciato brevemente dicendo che esiste sempre uno ed un solo sistema di deformazioni di un corpo dato, soggetto a forze esterne ed a vincoli pure dati, che sia ad un tempo possibile ed equilibrato. Questo unico sistema di deformazioni risolvente deve adunque potersi determi- nare per due vie diverse: 1° considerandolo come l’unico sistema equilibrato fra i varii possibili; 2° ricordando che esso è l’unico possibile fra gli eventuali sistemi equilibrati. Un'applicazione ed una discussione diretta dei due procedimenti potrebbe facil- mente metterne in evidenza pregi e difetti. Ma il paragone può divenir più istrut- tivo e, sotto l’aspetto teorico, più interessante se si osserva che dal punto di vista energetico tali procedimenti fanno capo a due ben distinti teoremi di minimo. 8 4. Consideriamo infatti il corpo dato nel suo stato di equilibrio sotto l’azione delle forze date; e cerchiamo il valore della variazione d® dell’energia elastica da esso posseduta, prodotta da un sistema: Da.) sbbefNiOc , Sdf 0g dh di variazioni delle componenti di deformazione atto a far passare il corpo dallo stato di deformazione: a d e f g h possibile ed equilibrato per ipotesi, ad un altro stato di deformazione: a+ da b+ db c+ de f4 df g+ dg hH4 dh ancora possibile, per quanto non più equilibrato. Affinchè ciò avvenga occorre e hasta che esista un sistema dx, dv, dw di varia- zioni degli spostamenti tale che si abbia: / __ dd) _ dd) d(do) \ ti dr di dy ill dz Ì _ dd») __ ddu) d(dw) (2) e Oi aa de — db ph= 20) L ol (4) Cfr. ad esempio E. Cesàro, Introduzione alla teoria matematica dell'elasticità (Torino, 1894), pag. 38. ì i È È 11 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 489 e che inoltre questo sistema soddisfi, nei punti soggetti a vincoli, a condizioni del tipo: A df df O TETI (GU) = du + > dv —| % dw = 0. Applicando allora alla (7): dd = f(X.da + Y,db + Zde + Y.df + Z.dg + X,5h) dS un noto processo di trasformazione, si ha: pen (4 3E 4 dae dYx dY, OY: È L Y E( i dy sla de ) do L de batto IS — fl }X, cos (n2) + X, cos (24) + X, cos (nz) } du + + )Y. cos (na) + Y, cos (ny) + Y. cos (nz) } de + +}Z., cos (nx) + Z, cos (ny) + Z. cos (ne) { dw] do. Tenendo presenti le (12) e (13), ed osservando che tutti i termini che si riferi- scono a forze incognite, cioè derivanti da vincoli, sono della forma: Rdu + R,bv + E.dw epperò si annullano per la coesistenza delle (10) colle (11°), si avrà pertanto la rela- zione semplicissima: do —=f[Xdu + Yov + Zow] dS + { [Ldu + Mdv + Ndw] do il cui secondo membro rappresenta il lavoro eseguito dalle forze esterne esplicita- mente date durante la considerata variazione di deformazione, epperò, preso col segno cambiato, è eguale al differenziale esatto dell’energia potenziale TT di quelle forze. Ora l'equazione: (14) d(©4T)=dU=0 che così si è condotti a scrivere, coincide con quella a cui soddisfano i massimi ed i minimi della funzione U. Se pertanto si mette in relazione questo risultato col- l'ipotesi, implicita nei casi della pratica, che la configurazione di equilibrio cercata sia stabile (1), si può concludere che: tra tutte le configurazioni possibili, l’unica equi- librata è quella per cui il potenziale termodinamico totale è minimo. Questo teorema rientra, come caso particolare, nella nota legge generale di (4) Cfr. P. AppeLr, Traité de Mécanique rationnelle, t. II (Paris, 1911), pag. 329-332, ovvero anche G. Morera, Lezioni di meccanica razionale (Torino, 1903-04, litograf.), pag. 365-367. Serie II. Tow. LXIL ne 490 G. COLONNETTI 12 equilibrio enunciata per la prima volta da Lagrange (!5) e, più tardi, rigorosamente dimostrata da Lejeune-Dirichlet (1°). È perciò da tenersi ben presente che esso è assai più generale di ciò che la deduzione qui espostane non lasci supporre; e precisamente esso non dipende che apparentemente dalle particolari ipotesi relative alla forma della energia elastica, che qui sono state messe innanzi al solo scopo di istituire un parallelo fra questa proposizione e l’altra che ora passiamo a dimostrare. $ 5. Riprendiamo, a tal fine, in esame il medesimo corpo dato, in quello stesso suo stato di equilibrio sotto l’azione delle medesime forze date; e proponiamoci di deter- minare il valore della variazione è® dell'energia elastica da esso posseduta, prodotta da un sistema: on] uetaloz ar oz ose di variazioni delle componenti di tensione atto a far passare il corpo dallo stato di coazione elastica caratterizzato dal sistema: È > CM RAI pri lr per ipotesi equilibrato e possibile, ad un altro stato di tensione caratterizzato dal sistema: X4bXsg, Wok 0, V4,-Ld4) Vo dY ZZZ ancora equilibrato per quanto non più possibile. Per il che è evidentemente necessario e sufficiente che le variazioni dX, dY,, dZ,, è Y., dZ.,0X, soddisfino alle condizioni: Ito (DX) d(bX) dx) \ de di dy A DZ 0 Lap argine (12’) rire va | OZ) + dOZ) | dz) _ de ni dy nie dz 0 \ \ (dX.) cos (nx) + (d.X,) cos (2) + (d.X.) cos (ne) = 0 (13/) ‘ (0Y.)cos(nx) + (dY,) cos (ny) + (dY.) cos (n2)= 0 | (dZ.) cos (ne) + (dZ,) cos (ny) + (dZ.) cos (22) =0 (4°) LacranGe, Mécanique analytique, 1° partie, section II. (!*) Leseune-Drricarer, Ueber die Stabilitàt des Gleichgewichts, “ Crelle's Journal,, t. XXXII (1846), pag. 85. 13 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 491 in tutti quei campi, rispettivamente interni o superficiali, del corpo nei quali la forza esterna è data. In virtù del solito processo di trasformazione la (8): d® = f (adX, + 8dY, + cdZ_ + for. + 9dZ. + hdX,) dS diviene allora: ___ [{[/26Xa) (OX) | dI) ie Îl( TT dy +e d(òYa) d(dY,) d(d Yz) + (Pie po oe, d(dZx) d(òZ,) d(òZ.) Pai +( dr * Òy ZIP dz )w| as — [[) ©X2) cos (12) + X,) cos (ny) + ©X,) cos (nz) } u + +} (®Y.) cos (22) + (dY,) cos (24) + (dY.) cos (n2) { v + + { (dZ.) cos (ne) + (dZ,) cos (24) + (dZ.) cos (nz) { w] do. Nel secondo membro tutti i termini relativi a campi non vincolati son nulli in virtù delle (12’) e (13'), mentre tutti quelli che corrispondono ad un vincolo assu- mono la forma: udR, + vd, + wdR, con (101) dR,=dR 2) dr dr. =dR —_—_ Da, TA I \ VA) +(55) (55) epperò si annullano essi pure per la coesistenza delle (10’) colla (11). L'equazione a cui si è così condotti: (15) d®= 0 è quella stessa a cui soddisfano i massimi ed i minimi della funzione ®; se pertanto si riesce a dimostrare che la variazione seconda di © è essenzialmente positiva (19), si è condotti a concludere che: tra tutte le configurazioni equilibrate, l’unica possibile (45) Si confronti a tal fine: L. DowamI, “ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna ,, serie IV, t.IX (1888), pag. 362. 492 G. COLONNETTI 14 è quella per cui la funzione d, CONVENZIONALMENTE DETTA LAVORO DI DEFORMAZIONE, è minima (1°). i In questa proposizione, annunciata per la prima volta dal Menabrea (2°) alla R. Ace- cademia delle Scienze di Torino nel 1857, sotto il nome di principio di elasticità 0 del minimo lavoro, noi abbiamo conservato il nome di lavoro di deformazione alla quantità ®, sebbene, quando non si tratta di una vera e propria deformazione del corpo, essa ® non abbia più alcun significato fisico, nè possa riguardarsi come un reale incremento di energia dovuto alla deformazione. All’espressione lavoro di deformazione dovrà in tal caso attribuirsi soltanto un significato astratto di somma ideale delle energie elastiche dei singoli elementi del corpo considerati come indipendenti. Tutto al più si potrà attribuire, nelle applicazioni, un significato fisico più concreto alla funzione ®, immaginando il sistema convenientemente diviso in un certo numero ben determinato di parti (21), e considerando delle variazioni corrispondenti a defor- mazioni possibili di ciascuna parte presa separatamente; con ciò ® verrà a rappresentare la somma delle energie di deformazione possedute dalle singole parti riguardate come indipendenti. Si è però sempre soltanto nella configurazione di equilibrio, unica possibile tra tutte le equilibrate, che ® rappresenta un vero e proprio lavoro di deformazione del sistema preso nel suo insieme. Il teorema dovrebbe perciò, a rigore, enunciarsi dicendo che #l sistema di com- ponenti di tensione che definisce la configurazione di equilibrio fra tutte le configurazioni equilibrate, è quello che soddisfa alla relazione (15): dp = 0. Il valore della funzione ® è allora precisamente eguale al lavoro di deformazione del sistema (?°). (5°) Nell’unico enunciato a cui qui si perviene, risultano compresi, come casi particolari, entrambi i teoremi in cui il Donati aveva creduto di dover scindere il principio di Menabrea: quello cioè riferibile a variazioni non congruenti che lascino invariate le forze in tutti i punti, e l’altro, per sistemi soggetti a legami invariabili, riferibile a variazioni congruenti che lascino invariate le forze nei punti liberi. Cfr. L. Donati, “ Memorie della R. Accad. delle Scienze dell'Istituto di Bologna ,, serie IV, t. X (1889), pag. 273. (2°) Mewagrea, “ Comptes rendus de l’Académie des Sciences ,, t. XLVI (Paris), 31 maggio 1858; ‘ Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, serie II, t. XXV (1871), pag. 141 (letto nella seduta del 21 maggio 1865); © Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, vol. V (1869-70), pag. 686; “ Atti della R. Accademia dei Lincei ,, serie II, vol. II (1875), pag. 201 (Memorie). (£4) Ai tagli ideali, a cui qui si allude, possono, a volte, sostituirsi opportune variazioni nelle condizioni di vincolo. Non si escludono del resto con ciò altre eventuali interpretazioni fisiche della funzione ®. Così per es.: nel caso di travature reticolari ad aste sovrabbondanti essa è stata anche interpretata come il lavoro di deformazione che nel sistema potrebbe effettivamente prodursi qualora all’azione delle forze esterne date si sovrapponessero gli effetti di variazioni di temperatura diverse da asta ad asta. Cfr. 0. Monr, Abhandl. aus dem Gebiete der Technischen Mechanik (Berlin, 1906), pag. 385. (2) Il primo tentativo di precisar le idee in questo senso è dovuto al BerrRAND: di esso si ha traccia in una sua lettera al generale Menabrea, pubblicata negli © Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino , [vol. V (1869-1870), pag. 702]. Tra gli studii posteriori è notevole quello del Vrora, “ Ann. della Soc. degli Ingegneri e degli Architetti Italiani , (Roma), 1890, pag. 193 e 439. Vedi anche S. Cawevazzi, “ Il Politecnico , (Milano), 1889. pag. 107 e seguenti. (ve) 15 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 49 $ 6. Poche osservazioni bastano a mettere in rilievo la identità di questa proposi- zione con quella che l’opera di Castigliano (28) ha resa tanto diffusa nel campo delle applicazioni. Allorquando infatti noi ci proponiamo di determinare lo stato di equilibrio ela- stico di un corpo considerandolo come l’unica configurazione possibile fra le confi- gurazioni equilibrate noi implicitamente presupponiamo che di configurazioni equili- brate ne esistano infinite. Ora non sempre ciò si verifica; può avvenire che di configurazioni equilibrate ve ne sia una sola: in tal caso l’asserire che essa corrisponde ad un minimo della funzione ® è privo di ogni significato. Per compenso il problema dell'equilibrio risulta in tal caso implicitamente risolto, perchè la configurazione cercata deve necessariamente coincidere con quell’unica con- figurazione equilibrata, certamente anche possibile. I sistemi cosiffatti, pei quali le sole leggi della statica dei corpi rigidi, indipen- dentemente da ogni considerazione di elasticità, bastano a caratterizzare l'equilibrio, furono detti pertanto sfaticamente determinati. } Per essi non ha alcuna ragione di sussistere il teorema del minimo lavoro, il quale dipende necessariamente dalle ipotesi fatte a proposito della natura e della forma dell'energia elastica epperò appartiene alla teoria dell’elasticità nello stretto e preciso senso che fu definito fin da principio. Il teorema interviene utilmente ogni qualvolta di configurazioni equilibrate ne esistono co (£= 1). Si possono allora infatti riferire tali configurazioni, in modo biunivoco, a % parametri indipendenti convenientemente scelti: , Na; Neon esprimendo il lavoro ® come funzione (certamente quadratica) di essi. Quei valori delle \ che caratterizzano la configurazione di equilibrio cercata risulteranno allora, a mezzo del teorema in discorso, completamente determinati dal sistema di % equazioni lineari nelle incognite: d® gi 3 _ JO DIR: Dar 0 Oi 0a, Praticamente come incognite iperstatiche convien sciegliere precisamente le ten- sioni interne relative a connessioni sovrabbondanti e le reazioni dei vincoli non determinabili in base alle sole leggi della statica dei corpi rigidi. (2) A. CasriGLIAno, “ Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, t. X (1875), pag. 380; Théorie de Vequilibre des systèmes élastiques et ses applications (Turin, 1879). Sulla questione di priorità si confronti “ Atti della R. Accad. dei Lincei ,, serie II, t. II (1875), pag. Lix (transunti). Î Sui difetti delle dimostrazioni di Menabrea e di Castigliano, vedi Cerrumi, “ Atti della R. Accad. dei Lincei ,, serie II, t. II (1875), pag. 570 (Memorie). 494 G. COLONNETTI 16 È in questo senso, ed in questo solo, che può giustificarsi l’enunciato che di solito si incontra nei trattati di ingegneria secondo il quale i valori delle incognite iperstatiche sono quelli che rendono minimo il lavoro di deformazione del sistema. Delle riserve e delle limitazioni subordinatamente alle quali esso si avvera, non viene d’ordinario fatto cenno alcuno; tutto al più esse vengono adombrate dicendo che il lavoro di deformazione è minimo compatibilmente colle forze date. Ma il rimedio è peggiore del male, perchè, non accompagnata da ulteriori schia- rimenti, questa proposizione è affatto priva di significato (24). Infatti, considerato il sistema come un tutto unico soggetto inevitabilmente a dati vincoli, il suo stato di equilibrio sotto l’azione di date forze esterne è piena- mente determinato ed unico; nessuna sua deformazione è più compatibile coi dati del problema, epperò non è lecito, anzi non ha senso, parlare di minimo del lavoro compatibilmente colle forze esterne date. Solo la circostanza, già rilevata a suo tempo, che l’espressione della funzione ® si presenta spontaneamente nei casi pratici, come una somma di termini spettanti alle singole parti costituenti il sistema distintamente prese, spiega perchè, pur fa- cendone l'applicazione, il senso vero della proposizione passasse generalmente inav- vertito, a volte anche fosse frainteso. Ma, rimesse le cose nei loro veri termini, il teorema del minimo lavoro è degno di figurare, nella teoria dell’elasticità, accanto all’altro principio che potrebbe per analogia chiamarsi teorema della minima energia potenziale. Fsso non ha, è vero, la grande generalità di quest’ultimo nè può ad esso attri- buirsi quella interpretazione finalista che, abbandonata oggi, ha avuto però una parte assai importante nella storia della Meccanica ed ha dato a certi principii fisici una forma che essi, malgrado tutto, hanno conservato (29). Ma, sotto il punto di vista della pratica risoluzione dei problemi che si presen- tano nella Scienza delle Costruzioni la superiorità del teorema del minimo lavoro sul teorema della minima energia potenziale è fuor di dubbio. Si riesce, coll’aiuto di quel principio, o di altri che ad esso equivalgono (2°), a determinare direttamente, spesso in modo semplicissimo, la distribuzione di equilibrio delle tensioni interne dei sistemi elastici, senza passare per lo studio delle deforma- zioni, laddove un tale studio potrebbe riescire, in base al principio della minima energia potenziale, così complesso da essere praticamente irrealizzabile. La cosa dipende essenzialmente da ciò, che nei sistemi elastici che più frequen- temente si presentano all’ingegnere il numero delle incognite iperstatiche è assai inferiore al numero delle incognite geometriche 0, se così si vuol chiamarlo, al grado di libertà elastica del sistema. (**) Cfr. ad esempio Wernearten, “ Zeitschrift fir Architektur und Ingenieurwesen ,, t. LIMI (1907), pag. 107-110. (25) Cfr. a questo proposito: E. Jouuet, Lectures de Mécanique, t. I (Paris, 1908), pag. 198, e t. II (Paris, 1909), pag. 265. (8) Si tenga presente la particolare forma data al teorema dei lavori virtuali da H. Muccer BresLau, Die Neueren Methoden der Festigkeitslehre (Leipzig, 1904) ovvero Die Graphische Statik der Baukonstruktionen (Stuttgart, 1905-1908). 17 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 495 Così ad esempio la risoluzione del problema dell’equilibrio di un sistema reti- colare costituito da p punti o nodi collegati fra loro ed a dati punti fissi da » sbarre od aste articolate a cerniera senza attrito agli estremi e sollecitate soltanto a sforzo assiale, comporta, in generale, 3p incognite geometriche ed n — 3p incognite iper- statiche, quest’ultimo numero essendo, d’ordinario, assai minore del primo. Ciò non esclude, ben s'intende, che eccezionalmente possa verificarsi il caso contrario: di esso sì farà anzi speciale cenno nell’applicazione che dei teoremi suesposti verrà fatta, più innanzi, al caso particolarmente semplice ed istruttivo in cui è p= 1. SU Per ora, al fine di esaurire la questione dal punto di vista teorico, è opportuno prendere in considerazione anche quei sistemi i quali nel loro stato naturale, pur essendo liberi da ogni forza esterna data, in virtù dei vincoli a cui sono soggetti, ovvero anche soltanto in causa della connessione esistente fra le loro diverse parti, non soddisfano alla condizione precedentemente supposta, che cioè gli elementi del corpo siano tutti allo stato naturale e-le tensioni siano nulle dovunque. In tal caso (2) le quantità a, 5, c, f, 9, è definite dalle (2) non rappresentano più la deformazione assoluta o totale nell'intorno del punto (x,y, 2), ma bensì la nuova de- formazione che, per effetto del sistema di spostamenti (v, v, w), viene a sovrapporsi a quella già preesistente nello stato naturale So di equilibrio. Limitandoci a considerare il caso che questa ultima sia dello stesso ordine di grandezza della prima, potremo porre al posto delle a, 8, c, f, g, & le differenze: a- do, b_b, C_ Co, îf-fo, I-Io0; h — ho dove i nuovi simboli si riferiscono alle deformazioni assolute, che, invertite, servi- rebbero a ricondurre allo stato naturale ogni particella del corpo considerata sepa- ratamente. Accanto alle componenti di deformazione: a—=a@A — Aq, b=b—b docs 000 h=h— hoy prenderemo naturalmente in considerazione anche le componenti di tensione: Xx= Xx -(Xo)o; v= = (Yo - Ay= XA Xyo legate alle prime dalle relazioni: __ dIP(A,dy ... To) __ dP(A90,... ey) __ dP(a0 do... To) = to (Te (e ta __ d9(ad... h) __ d9(a d... h) __ dp(ad... h) eta A ti AIA Ta dIY((Xz)o (Yo vee (X)o) = IW((Xx)o ( Yy)o (Ty) = Iwo (Yao na (Xy)o) des: Axa E eg IVao Aaa AAy)o a _- dA Yy Dr) X,) = UA YV, — My) h Ed dI Y, 320 D.@) na dX, 7 "® og A dXy SIA €?) Cfr. L. Doxari, È Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’Istituto di Betogna ,, serie IV, t.IX (1888), pag. 345. 496 G. COLONNETTI 18 essendo rispettivamente (00 do ... To) = W((Kao (Lo)o -.. (X,)o) pad... h)=y(X, Y,...X,) i valori dell'energia elementare di deformazione nei due stati S, ed S. Introducendo la funzione D(@D 00 0) = WGI 000 d6) quelle relazioni danno luogo alle seguenti, più semplici e perfettamente identiche alle (3) e (4): PUB O (DISTA) __ d9(abd... h) __ dP(ed... h) x = Pty, = A, 3 SRI = dW(Xx Vy Xy) d= DUE Yy ns Xy) De dy(Xx Yy so Xy) DX 3 i} dYy, e A ITTT dXy i È da tenersi ben presente che questa funzione: Pad... MM =y(X Y,...X) non rappresenta affatto, come forse a prima vista si sarebbe tentati di credere, la variazione di energia dell’elemento di volume nel passaggio dallo stato S, allo stato S. Si ha infatti (28): p(a d...h)= (a, 4a, do + db, Moth) = =@(A00... IM) + (ad...) + IPA do... ho qa L dP(A) do ... To) Bloo dP(Ao do ... Teo) = da0 do dro = p. (00 do ... ho) + 9(4 8... 1) + (Xo)o@ + (Yo b +. + o hi dalla quale si ricava per la cercata variazione di energia l’espressione: Pad... h) — p(a0 bo... Io) = (ad...) + (Xe + (Lod +... + (o. Ma se si integra a tutto il corpo è facile constatare, in base al solito processo di trasformazione, che dev'essere: [}(Aa)oa + (E)ob +... + (A) A} dS=0 epperò: [o(ad...h)dS-{o(@0bo Mo) dS=|@(ad... h) dS | (?8) Cfr. L. Dowart, “ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna ;, serie IV, t. IX (1888), pag. 352. 19 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 497 o sotto la forma reciproca: Suo Hi... LAS Su((Kao (Lo (To) = fu Vr... X) ds ciò che noi esprimeremo brevemente dicendo che la funzione ®, che in passato con- siderammo sempre come l'energia di deformazione del corpo nello stato $, rappre- senta ora l'eccesso di energia dello stato S sullo stato Sy epperò può assumersi ancor qui come misura del lavoro di deformazione nel passaggio da Sp ad S. Ciò premesso, sì consideri il sistema in un suo qualsiasi stato di equilibrio e si ricerchi come varii l’energia elastica: ®P=fp(ad... n) ds da esso posseduta, per variazioni : da = da, 0510070 ON possibili delle componenti di deformazione. Ripetendo identicamente il procedimento già esposto nel $ 4 si ritrova inalte- rato il primo teorema di minimo colà dimostrato, o teorema della minima energia potenziale : d(P_LTM=0 come era del resto da attendersi, data la già ricordata generalità di tale principio. In particolare applicando questo risultato al caso in cui tutte le forze esterne son nulle si trova che nello stato naturale So l'energia di deformazione: Po=SP(40d ... fto) dS ha il minimo valore che è compatibile coi vincoli imposti e colla compagine del sistema. Questa proposizione può essere utilmente applicata nello studio dello stato na- turale di equilibrio di quei sistemi iperstatici nei quali esistono tensioni interne non dipendenti dai carichi dati. Dopo di che nulla impedisce evidentemente di considerare l'energia ®, (energia latente 0 vincolata, come di solito vien detta), come conglobata nella costante che è inerente al concetto stesso di potenziale termodinamico scrivendo il principio della minima energia potenziale sotto la usuale sua forma: U=©-+IT= minimum valida indifferentemente in ogni caso. La stessa libertà d’azione non è concessa dal teorema del minimo lavoro. Nel procedimento che ha servito a stabilirlo ($ 5) si presuppone infatti di par- tire da un sistema di componenti di deformazione possibile ed equilibrato e di pro- durre una variazione equilibrata. i Se pertanto si prende in considerazione il sistema a, d, €, f, g, che caratterizza un qualsiasi stato S del corpo quale ora intendiamo considerarlo, quel procedimento Serie II. Tox. LXIL 2 M° 498 G. COLONNETTI 20) non può venire applicato perchè il sistema ron è possibile, nel senso da noi dichia- rato, come non è possibile il sistema &, do; Co: 70; Yo; o che caratterizza lo stato naturale in quanto che il ritorno dei singoli elementi allo stato naturale non è, nè în un caso nè nell’altro, compatibile colla compagine del corpo e coi vincoli a cui esso è soggetto. Soltanto può dirsi possibile, nel senso sopra definito, il sistema a, b, c, f. g, h che caratterizza la nuova deformazione derivante dal sistema u, r,w di spostamenti; da ciò segue che per una qualsiasi variazione equilibrata delle componenti di tensione si può dimostrare che deve essere: dp 0. La distribuzione delle nuove tensioni X,, Y.,, ..... X.,, che per effetto delle forze esterne si sovrappongono a quelle che già preesistevano nel sistema, è dunque, nello stato di equilibrio, quella che rende minima la funzione: 0 = [lp AS) Il valor minimo che essa assume è poi, come si è già detto, eguale al lavoro di deformazione del sistema nel passaggio da S5 ad $, cioè all’eccesso di energia dello stato S sullo stato Sp. ; Questa estensione, che non trovasi generalmente nei trattati, è perfettamente analoga a quella proposta dal Siacci pel teorema delle derivate del lavoro (#9): essa giustifica completamente l’uso invalso nella pratica di calcolare gli sforzi prodotti dai carichi come se nello stato naturale le tensioni fossero tutte nulle, salvo a tener conto separatamente degli eventuali sforzi preesistenti. A pplicazione. Sia 0 un punto materiale collegato ad » punti fissi da » aste elastiche, retti- linee, omogenee e senza massa, articolate a cerniera senza attrito agli estremi epperò sollecitate sempre e soltanto da sforzo assiale. Supponiamo, al fine di rendere il problema sicuramente possibile, che si abbia n> 3. Ammettiamo dapprima, per semplicità, che nella configurazione naturale del sistema tutte le tensioni siano nulle o, in altri termini, che la posizione che il punto 0 assume naturalmente quando il sistema non è cimentato da alcuna forza esterna disti dai punti fissi dati di lunghezze identicamente eguali a quelle delle singole aste. E proponiamoci di determinare come si comporti il sistema quando in 0 agisca una forza esterna P che riterremo data e costante così in grandezza che in di- rezione. Riferito il sistema a tre assi coordinati ortogonali aventi per origine la posi- zione naturale del punto 0, indicheremo con «, y, 2 le coordinate dello stesso punto (®) Cfr. Sraccr, © Rendiconti della R. Accademia dei Lincei ,, serie V, vol. 3° (1894, 2° sem), pag. 214-215. 21 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISDA ENERGETICO 499 dopo la deformazione e con XY, Y, Z le componenti secondo i tre assi della forza _data P. Le configurazioni possibili del sistema, cioè congruenti (a norma delle ipotesi fatte sul comportamento elastico delle aste) e compatibili coi vincoli (punti fissi dati) sono ovviamente in numero triplamente infinito e possono tutte ottenersi facendo assumere ai tre parametri x,y, tutti i possibili valori, purchè sufficientemente piccoli. A ciascuna configurazione possibile del sistema corrisponderà pertanto un lavoro di deformazione che noi seriveremo sotto la forma: . ran 1 1 à d= 3 DI (et By + 1,0)? el denotando con €, l'allungamento prodotto nell’asta y-esima da una tensione unitaria, e con @,, 8,, Y, i tre coseni direttori della stessa asta r-esima, da ritenersi costanti in vista della, piccolezza delle , y, 2. Alla stessa configurazione generica corrisponderà poi un’energia potenziale della forza esterna, che, mediante opportuna scelta della costante, può scriversi: Mes l@= = La condizione che caratterizza tra le 0c0° configurazioni possibili quella che è anche equilibrata: U=®+TT= minimum dà luogo pertanto, nel caso attuale, alle tre equazioni: Duan ug DO — ceci 0 dy 0 OE o ovvero sostituendo: DS <= (0484 +1)=X = (a) i x 1a (cx + By+ 12) = Y ail Di T (ax + By +12) = Z. =l Queste tre equazioni, lineari nelle x, y, 2, epperò atte a determinare quei valori di questi tre parametri che caratterizzano la configurazione di equilibrio, possono evi- dentemente essere interpretate come le condizioni da soddisfarsi affinchè le tensioni, che nelle aste del sistema si producono quando il punto 0 dall'origine passa nel punto di coordinate «, y, 2, siano in equilibrio colla forza esterna P data. Constatato così come il teorema della minima energia conduca alla risoluzione 500 G. COLONNETTI 29 del problema proposto a mezzo di 3 equazioni lineari fra 3 incognite, indipendente- mente dal numero n delle aste che compongono il sistema, passiamo ora a vedere a qual tipo di soluzione si giunga quando, utilizzando il teorema del minimo lavoro, si tenti di determinare la configurazione di equilibrio come l’unica possibile fra le eventuali equilibrate. Si osservi a tal fine che, nelle ipotesi fatte, l’equilibrio del punto O alla tra- slazione può essere assicurato mediante tre sole delle » aste purchè non complanari, qualunque siano i valori delle tensioni esercitate sul punto stesso dalle altre n — 3 aste. In altri termini le configurazioni equilibrate sono in numero c0** e possono essere riferite ai valori di n—-3 parametri indipendenti, per esempio delle n —3 ten- sioni Ny; ....- Na. Il sistema di valori di questi parametri che definisce la configurazione risol- vente cercata sarà pertanto quello che rende minima l’espressione: r=n 1 “R 2 Men = somma dei lavori di deformazione delle n aste supposte opportunamente sconnesse in 0 (59). Espresse le N,, N., N3 a mezzo delle variabili indipendenti N,, ....., N, la condi- zione da realizzarsi può scriversi: i=n ®=® + 3 \e.N°— minimum T=4 dove ®' è la forma quadratica delle X, Y, Z, N,, ..... N, che rappresenta il lavoro di deformazione delle tre aste principali chiamate a mantenere in equilibrio il punto 0 supposto sollecitato non soltanto dalla forza P ma altresì dalle n» — 3 tensioni arbi- isa Neg NE I valori di queste tensioni relativi all’equilibrio cercato saranno pertanto quelli che soddisfano alle n —3 equazioni lineari: dd on 0» 2 RRVOIE 0 ovvero sostituendo: i e e N, F (5) Rn Si può dimostrare che queste esprimono precisamente le condizioni necessarie perchè lo spostamento del punto 0, considerato come estremo comune delle tre aste. (5°) Le considerazioni accennate nella nota (2!) potrebbero trovare qui facile ed opportuna ap- plicazione. 23 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 501 principali, nella direzione di ciascuna delle n» —3 aste sovrabbondanti sia eguale rispettivamente alla variazione di lunghezza di quell’asta. L'essere pertanto più raccomandabile, dal punto di vista della pratica applica- zione, l’uno piuttosto che l’altro dei due procedimenti generali da noi presi in esame, dipende qui soltanto dall'essere n = 6. La stessa libertà di scelta non sussiste invece più quando nel sistema esistano tensioni indipendenti dai carichi epperò proprie dello stesso stato naturale. In tal caso la stessa posizione naturale del punto 0 è incognita. Sì scieglierà pertanto come origine di un nuovo sistema di assi 9, y, una qua- lunque, arbitrariamente scelta, delle posizioni che il punto 0 può assumere. Alla configurazione che così si viene a definire, e che chiameremo, per intenderci, col nome di configurazione iniziale, spetterà un lavoro di deformazione che scrive- remo sotto la forma: EE) Ly nè 2 Er r=1 denotando con n, l'allungamento dell’asta r-esima relativo alla considerata configu- razione iniziale. Ad una qualsiasi altra configurazione possibile, definita al solito dalle coordi- nate 2, y, # della nuova posizione di 0, spetterà in conseguenza il lavoro di defor- mazione: r=n DE j = (n.4 0,90 + By + r70)?. E = La configurazione di equilibrio naturale del sistema dovendo soddisfare alla nota condizione: r=n D, = ; 00] Si (n. + C,%Io + B,.Yo + Yr#0)? = minimum g=sil risulterà definita da quei valori 20, Yo. # delle coordinate di 0 che soddisfano alle tre equazioni lineari nelle coordinate stesse: dDo sa dD, al Dn no OVVero: > = (n-4- 0,960 + B-Yo + Yo) = 0 (0) VE MH 0004 840 +16) =0 VE Mm + 4,000 + Bo + 180) = 0. (2 502 G. COLONNETTI — L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 24 Esse avrebbero potuto, al solito, scriversi direttamente imponendo l’equilibrio alla traslazione del punto 0 supposto sollecitato dalle tensioni delle n aste deformate. Le coordinate ,, della posizione che 0 assume sotto l’azione della solita forza P di componenti X, Y, Z sono, in modo analogo, determinate dal sistema: VE M+a0+8y+14)=X al =) (d) za Pe (N. + a,% + By +1.) = Y = r=% VE M+ ax +89+r2)=Z = Che se poi si conosce a priori 0, ciò che fa lo stesso, si è determinata in pre- cedenza una volta per tutte, la configurazione naturale del sistema, la ricerca delle componenti: r=3I—- Ko Yy=YU—-%Uo REA xo dello spostamento che il punto 0 subisce sotto l’azione della solita forza P ad esso applicata, può eseguirsi a mezzo delle tre equazioni che si ottengono col sottrarre le (c) dalle (4). Questo procedimento ci riconduce, come era da attendersi, alle (a) così come l'applicazione, qui novellamente lecita, del teorema del minimo lavoro non potrebbe che condurci a determinare gli incrementi: NINAZN EIN NZZÙ\NA che per effetto della stessa forza si verificano nelle n —3 tensioni staticamente inde- terminate, a mezzo delle equazioni (8). Torino, Ottobre 1911. SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE Serie Il. Tom. LXII. INTE CE CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE Le fazioni politiche di Bologna e i signori di Lombardia (1298-1299); Memoria del Socio CARLO CipoLLa : 5 3 : , NOE ag: Blossio Emilio Draconzio; Studio biografico e letterario del Dr. Errore PROVANA La Logica aristotelica, la Logica kantiana ed hegeliana e la Logica matematica con accenno alla Logica indiana; Memoria del Socio PasquaLe D’ERcoLE , Partiti politici e lotte politiche in Bisanzio alla morte di Manuele Comneno; Memoria del Dr. Francesco Coexnasso . È IL E FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA SIGNORI DI LOMBARDIA (1298-1299) MEMORIA DEL SOCIO CARLO CIPOLLA Approvata nell'adunanza del 14 Maggio 1911. I Le Signorie dei Visconti e degli Scaligeri nella seconda metà del sec. XIII si costituiscono e vanno poco a poco preparando quella condizione politica, da cui trarrà vantaggio di lì a pochi anni Enrico VII. Una delle caratteristiche che coloriscono l’opera congiunta di Matteo Visconti e di Alberto della Scala apparisce nella sempre crescente unione degli interessi dell’una e dell’altra riva del Po. Come le relazioni fra Bologna e Firenze si moltiplicano, come i contrasti fra Bologna e la Signoria d'Este si estendono, così avviene che le due giovani Signorie, che vanno formandosi a Milano e a Verona, sentono il bisogno di espandersi verso il mezzogiorno per rassodare la loro influenza, collegandola colle tendenze generali della politica nell'Italia superiore e nella media. Fu in mezzo a questi avvenimenti che Alberto Scaligero formò il disegno di costruire un ponte sul Po, dove esso è larghissimo, a Ostiglia. Tale disegno ardito nei riguardi della politica come in quelli dell'ingegneria, allora non si realizzò, nè lo poteva essere; ma è già un fatto notevole che tale progetto sia stato pensato. II. Negli ultimi giorni del 1280, dopo una lunga serie di urti, di vittorie e di scon- fitte, i Guelfi di Bologna riportarono vittoria sopra i Ghibellini, così che le famiglie, che costituivano il gruppo dei Lambertazzi, presero la via dell’esilio: essi si raccol- sero a Faenza il 29 dicembre 1280 (1). Com'era naturale, gli esuli si accostarono ai (1) V. Vrrate, Il dominio della Parte Guelfa in Bologna, Bologna, 1901, p. 59. Serre II Tow. LXIL x 2 CARLO CIPOLLA nobili romagnoli (1). Quelli che erano rimasti in Bologna, non rifuggirono da pensieri d'accordo, e ne fanno prova alcune disposizioni prese nel 1292 (2). Bonifacio VM fece qualche tentativo di pacificazione, per mezzo dell’abbate dei Santi Nazaro e Celso a Verona (1295) (3). Ma nel mentre queste disposizioni pacifiche non riuscivano a buon esito, le com- plicazioni crescevano; l’Estense da una parte, dall’altra le Case dei Visconti e degli Scaligeri volgevano la loro attenzione verso questo centro di agitazione. Che anzi Riccardo da Pirovano, quale capo di guerrieri, fu mandato a Bologna da Matteo Visconti, Ghibellino in Lombardia, ma alleato dei Guelfi di Bologna contro l’Estense, sostenitore dei Torriani (4); cercava tutte le vie per allargare la cerchia delle regioni su cui facesse sentire la sua influenza e per combattere anche di lontano i suoi. nemici (5). Nella storia di Bologna le relazioni colla Casa d’Este intrecciansi coi turbamenti causati -dalle fazioni; essa rispecchia i contatti colla politica delle città dell’Italia di Oltrepò. Siretta e combattuta da Obizzo d'Este, Bologna si rivolse come ad “ àncora di salvezza , a Bonifacio VIII (gennaio 1297). cercando nel medesimo tempo di strin- gersi a Firenze. Quest'ultimo Comune, seguendo le traccie segnate da Bonifacio VII, pubblicò il lodo del 16 novembre 1298: un altro lodo promulgò il papa addì 27 di- cembre 1299 (6), e questo fu in vantaggio di Bologna. Ma l’Estense si affrettò a riprendere le ostilità. Alma Gorreta (7). che narrò dottamente ie vicende in poche parole qui riassunte, a questo punto stabilisce il punto di osservazione in questo modo: “ Solo un momento pare che la sua (di Bologna) ambizione di dominio debba “ rimanere soffocata: allorquando il laudo pronunciato dallo Scaligero e dal Visconti, “ per le città nemiche di Romagna, univa in concordia Guelfi e Ghibellini, sì che i “ Lambertazzi, deposte le armi che poc'anzi brandivano a fianco del Marchese, se “ ne tornavano, dopo 19 anni di esilio, a rivedere la patria terra ,. L'esilio dei Lambertazzi e i combattimenti di questi colla fazione dei Geremei diedero persino occasione ai poeti di scriver versi. C'è il “ serventese , dei Lam- bertazzi e dei Geremei, che stampato per la prima volta nel 1841. venne parecchi anni or sono ripubblicato e largamente illustrato da F. Pellegrini (8), che se ne giovò a narrare gli avvenimenti svoltisi dal 1274 al 1280 a Bologna. (1) Vrrace, Op. cit., p. 59. {2) Ibid., p. 65. (3) F. PeuLecai, Un documento inedito delle lotte fra Lambertazzi e Geremei nel sec. XIII. < Att e Mem. Deput. Romagna ,, 1896, XIV, 119. (4) Viraze, Op. cit., p. 69. (5) E. Jonpax (Les origines de la domination Angervine en Italie, Paris. 1909, p. 53) parla delle nostre città nel sec. XIII; dice addirittura che passavano da un partito all’altro per motivi di inte- — ressi; se con questo non si escludono anche altre cause, la proposizione è accettabile; ma non sî può certo lasciar da parte il fatto che i partiti politici esistevano e violenti assai. (6) A. Tarmer, Coder Diplom. Sanctae Sedis, I, 350. n. 526. (7) La lotta fra il Comune Bolognese e la Signoria Estense (1293-1303), Bologna. Zanichelli, 1906. Cfr. Vrrace, Op. cit., p. 72. 8) Il serventese de’ Lambertazzi e de’ Geremei, © Atti e Mem. Deputaz. Romagna, 1891, IX, 196 sge. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 3 I Lambertazzi avevano cercato requie ad Imola e appoggio nell’alleanza con Faenza ed altre città di quella regione. Nelle trattative che con Bologna si negoziarono per la pace coll’opera di frate Agnello da Faenza, l’una e l’altra parte contendente chiesero l’arbitrato di Matteo Visconti e di Alberto della Scala. Questo è abbastanza noto nelle sue linee generali, giacchè furono molti i documenti già pubblicati o riassunti, più che tre secoli or sono, dal Ghirardacci (1); chè anzi a lui dobbiamo essere assai tenuti anche per questo, ch'egli diede conto di documenti che ora più non si tro- vano o che almeno non furono posteriormente segnalati. Il Verci (2), da una privata raccolta bolognese, vari documenti mise in luce. Nonostante queste dotte ricerche pur qualche cosa di nuovo mi pare di avere ancora racimolato, spigolando special- mente quello che interessa piuttosto ai fatti del Visconti e dello Scaligero, che a quelli, largamente studiati, dei Lambertazzi (3). Le fonti documentarie alle quali feci ricorso nell'Archivio di Stato di Bologna sono le seguenti: 1° Anziani, Consigli minori, Riformagioni, 1245-1300. Grosso volume perga- menaceo, composto di libercoli un dì staccati e poi insieme rilegati. Lo studiai nel 1902. Il fascicolo, che si riferisce allo scopo nostro, arrestasi alle trattative del 1° maggio 1299 e chiudesi colla sottoscrizione del notaio: (S. T.) Eso Petrus condam Francischi imperiali auctoritate notarius interfui et de mandato dictoruam dominorum Potestatis ac Capitanei, Ancianorum et Sapientum scripsi et in publicam formam redegi. 2° Pergamene sparse riguardanti i “ Diritti del Comune, 1299 ,. Me ne occupai nel 1910. Grandi cose non ho davvero trovato, ma non mi pareva inutile riassumere quanto fu detto e aggiungere qualche briciola nuova. III. La parte dei Lambertazzi era stanca ed esausta, come impariamo espressa- mente da una lettera dei Bolognesi a Matteo Visconti del 9 maggio 1299 (4). Il primo passo decisivo che la parte fece per giungere alla conclusione dell'accordo col Comune di Bologna fu compiuto ad Imola il 31 ottobre 1298 (5) col scegliere Uguc- cione de’ Principi a segnare il compromesso in Matteo Visconti, capitano generale di (1) Della historia di Bologna, libr. XII, Bologna, 1596, tomo I. (2) Marca Trevigiana, IV. (3) Di scarso giovamento riesce, per lo scopo indicato, il Codex diplomaticus Bononiae (sec. XVIII), vol. LXXVII (Monumenta civitatis Bononiae, XLI [1294-1300], che si conserva nella Biblioteca Uni- wersitaria di Bologna. I documenti in questo volume inserti, rispetto al nostro argomento, proven- gono tutti dalla citata Historia del Ghirardacci. Raffronto i numeri dei Monumenta coll’edizione del Ghirardacci: LXV = Ghir. I, 387-8 — LXVI= I, 388-9 — LXVII=1,390 — LXVII=1I,391 — LXIX= I, 391 — LXX=I, 392 — LXXI=1, 392-3 — LXXII=1I,394 — LXXII=1I,3945 — LXXIV= I, 396-9 — LXXV=1I, 400 — LXXVI=1, 400-1. (4) GatraRDAceT, I, 400. (5) Verci, Marca Trevigiana, IV, doc., p. 122, n. 405. Griragpacci, I, 360 (sunto in italiano). 4 CARLO CIPOLLA Milano, e in Alberto della Scala, capitano generale di Verona, rispetto alle questioni ch’essa parte aveva con Bologna. Questo atto ne presuppone uno consimile stipulato il 31 ottobre (1) colla nomina di Rozzo dei Rozzi, quale procuratore di Bologna. E per ciò addì 10 novembre 1298, a Milano, nel palazzo vecchio del Comune, i due ricordati procuratori rimisero la decisione delle controversie loro nel Visconti e nello Scaligero (2). Le nostre notizie intorno al modo con cui queste pratiche si svolgevano a Milano e a Verona sono lacunose, nè a me riuscì di trovar nulla di nuovo. Che qualche difficoltà siasi presentata, forse si può congetturarlo da quanto segue. Una lettera infatti scrissero i Bolognesi sotto la data del 12 gennaio 1299 a Matteo Visconti (3), in risposta ad altra da lui ricevuta. Il Visconti comunicava di aver risposto ai nunzi di Alberto della Scala, che i propri ambasciatori destinati a Venezia si sarebbero soffermati a Verona per abboccarsi con Alberto e con suo figlio(4): la risposta che avrassi dagli Scaligeri sarebbe poi dal Visconti partecipata ai Bolo- gnesi. I Bolognesi manifestano quindi gratitudine, ringraziano il Visconti delle sue buone disposizioni e promettono di seguirne il parere. Par manifesto che questo documento altri parecchi ne lasci sottintendere, che appena possiamo immaginare, piuttosto che congetturare. Solo possiamo asserire che i negoziati furono lunghi ed attivi, e possiamo comprendere come la perdita di parecchi documenti ci nasconda fatti che molto chiarirebbero una pagina storica pur troppo molto sbiadita. Per buona sorte almeno le carte bolognesi possono recarci qualche aiuto. LIVE Dalle Riformagioni degli Anziani e dei Consigli Minori trascrivo vari documenti che ci permettono di conoscere ben addentro i maneggi diplomatici. Il primo documento che vuol essere qui preso in esame è del 17 maggio 1299: In Christi nomine, anno [nativitatis] eiusdem millesimo ducentesimo nonagesimo nono indi- cione duodecima, die septimodecimo marcij. Dominus Octolinus de Mandello honorabilis potestas Bononie, esistens in camera ipsius, una cum domino Blaxio de Tholomeis capitaneo Populi Bononie et cum quaiuor Ancianis dicti mensis, quibus per Conscilium et massam Populi Bononiae super factis guerre generalle arbitrium est concessum, audiverunt et inteleserunt quedam verba eisdem exposita et narata per fratrem Agnellum priorem fratrum et conventus Ordinis Predicatorum de Faventia, super responsione eidem priori facta per ipsos dominos Potestatem et Capitaneum — et quatuor Ancianos ad domum fratrum Predicatorum de Bononia. La deliberazione della risposta da darsi a frate Agnello spetta al giorno seguente: Die vigesimo secundo marci]. In Christi nomine, sancte et individue Trinitatis Patris et Filii et Spiritus Saneti amen. Ad portata et relata per reverendum et relisiosum virum d. fratrem Agnellum priorem (1) È citato nell’atio 9 maggio, con cui il procuratore di Bologna confermò il compromesso 9 maggio 1299. Vzzci, IV, doc., p. 138, n. 414. (2) Verci, Marca, IV, doc., p. 126, n. 409. Grmrazpacor, I, 361. (3) Gamsazpacci, I, 369-70. Di lì dipeude Vazci, Marca, IV, doc., p. 129. n. 407. (4) Bartolomeo correggente al padre nel Capitanato. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 5) capitulli et conventus fratrum Predicatorum de Faventia ex parte magnificorum virorum domi- norum, .. Potestatis, .. Capitanei, quatuor Angianorum Populi Civitatis Bononie et Sapientum quos super hijs habere voluerunt, respondetur et deliberato consilio in generalli Parlamento Ami- corum provincie Romaniolle datur responsum..... Placuit dictis dominis Potestati et Capitaneo, Ancianis et Sapientibus essequendo conscilia predictorum dominorum Capitanei, Bonincontri, Dominici et Guidotti, partito facto inter eos de sedendo ad levandum, quod intendent procedere in predictis, dum modo negocium Lamberta- ciorum in predicta scriptura et pace facienda non comprehendatu» nec inteligatur, cum Co- mune Bononie et ipsi sint compromissi in dominos Capitaneum Mediolanensem (1) et Albertum de la Schala. Di qui apparisce che a Bologna si accettava la mediazione di frate Agnello per quanto riguardava le città di Romagna, ma da questo affare si distaccava quello dei Lambertazzi, poichè questo riserbavasi esclusivamente alla mediazione dei due Signori di Lombardia (2). Identico criterio prevale nel seguente documento, dove pure si tiene distinto l’affare dei Lambertazzi da quello delle città di Romagna. In Christi nomine, ad aportata secundo loco die [vigesimo] (8) secundo marcij per fratrem Agnellum priorem Ordinis et conventus fratrum Predicatorum de Faventia ex parte domini Cappetini (cioè de Ubertinis) capitanei generalis amicorum suorum provincie Romaniolle et alliorum in cedula contentorum, adest responsum dominorum Potestatis, Capitanei, quatuor Angianorum et Sapientum, solempni per eos deliberatione premissa. d In primis, videlicet super primo capitullo, quod bonam et puram pacem intendunt cum ipsis Capetino, Maghinardo Pagano de Soxenana (4) potestate et capitaneo civitatis Faventie (5) et Galusso comite Montisferetri et cum civitatibus et locis Forollivii, Favencie, Cesene et Ymolle et Castrocharij et cum eorum amicis de dicta provincia Romaniolle, secundum quod per eos oblatum fuit fratri Agnello predicto et (1) Proprio in data del 20 marzo 1299 il Comune di Bologna pregava Matteo Visconti ad aiu- tarlo con tutte le sue forze. Repertorio diplomatico Visconteo, edito dalla Società storica Lombarda, Milano, 1911, I, 8. (2) Da G. Villani (VIII, c. 46) dipende sostanzialmente il seguente passo, che riproduce la frase grande tiranno in Lombardia , attribuita dal celebre cronista ad Alberto della Scala, in corrispon- denza a quella del “ gran Lombardo , (Parad., XVII, 71). Sant'Antonino (Chronicon, ed. Lugdunensis, 1587, III, 249) scrive: “ Inter Veronenses etiam et dominum de T[rid]Jento fuit durum bellum; in “ quo proelio Veronenses fuerunt profligati et devieti. Et paulo post obiit d. Albertus de Scala, ° magnus tyrannus in Lombardia, cui successit in dominio seu tyrannide Veronae civitatis dominus ° Canis. Sed ante quam moreretur, fecit milites filios suos, licet parvulos. In processu post tem- © poris inter se rixantes, ut mus et rana..... (3) Nel ms. è qui omessa questa parola. (4) Inf., XXVII, 50; Purg., XIV, 118. (5) Mainardo Pagano da Susinano fu “ grande e savio tiranno , per quanto ne dice G. VicranI, VII, 147. Uno schizzo della vita di questo energico ghibellino, che morì nel 1302, scrisse Paget Torxsre, A dictionary of proper names and notable in the works of Dante, Oxford, 1898. — Su questo personaggio veggasi T. Casmi, IZ e. XIV del Purgatorio, Firenze, 1902 (p. 20, e p. 31-2: “ di Maghi- nardo non m’indugierò, perchè già altra volta furono qui esposti i suoi fatti e i suoi torti ,). MrcneLe Barsi nel “ Boll. Soc. Dantesca ,, 1899, p. 228, 20, 31, 32, desume dalle Consulte Fiorentine pubbli- cate con tanta maestria dal compianto A. GrerarpI, un manipolo di notizie sullo stesso argomento. Il citato Casmi, Dante e la Romagna, © Giorn. dantesco ,, I, 19, 112, 303; IV, 43, iniziò un lavoro che se fosse stato condotto a termine sarebbe riuscito veramente utile. Si ricordino ancora G. Mini, I nobili Romagnoli e la Div. Comm., Forlì, 1907; P. BermranIi, La Romagna di Dante nel c. XIV del Purga- torio, Fermo 1904. 6 CARLO CIPOLLA secundum responsionem alias factam ipsì fratri Agnello. d Ad secundum articullum, qui incipit quod intendunt ipsum tractatum pacis fieri etc. ex eadem deliberatione datur responsum, quod cum Lanbertacijs civitatis Bononie extrinsecis singullaris tractatus pacis factus est inter eos et Comune Bononie, ex compromisso facto per ipsos Lanbertacios et Comune Bononie in dominum capitaneum Mediolanensem et dominum Albertum de la Schala, et ideo non intendunt quod in ipso presenti tractatu pacis includantur vel comprehendantur dieti Lambertacii..... Il congresso dei nobili di Romagna radunato addi 29 marzo (1299) accondi- scese a dividere l'affare loro da quello dei Lambertazzi, e di tale decisione frate Agnello diede informazione ai Bolognesi, che risposero con carta del 31 di detto mese. Die ultimo marcij. d Infrascripta scriptura, fuit per dictum fratrem Agnellum domino Potestati, Capitaneo et Angianis et Sapientibus presentata, cuius tenor talis est. In nomine sancte et individue Trinitatis, Patris et Fili et Spiritus Saneti, Amen. Ad portata et relata ultimo, scilicet die vigesimosexto marcij per reverendum et religiosum virum d. fratrem Agnellum priorem Capitulli et Conventus fratrum Predicatorum de Faventia ex parte magnificorum virorum dominorum, .. Potestatis, .. Capitanei, quatuor Angianorum Populi [cijyitatis Bononie et Sapientum, quod super hijs habere voluerunt, deliberato conscilio, in generalli Par- lamento Amicorum Provincie Romaniolle celebrato in civitate Faventie die vigesimonono mensis marcij, datur responsum per dominos Cappetinum de Ubertinis Capitaneum generalem Ami- corum suorum de dicta provincia et potestatem Forollivii, Gal[ussum] comitem Montisferetri potestatem et capitaneum civitatis Cesene, Machinardum Paganum de Soxenana potestatem et capitaneum civitatis Faventie et capitaneum civitatis Ymolle, necnon per ambaxatores civitatum et terrarum Forollivii, Favencie, Cesene, Ymolle et Castrocharii. In primis, videlicet super primo capitulo, quod incipit: in primis ete. (1), quod bonam et puram pacem habere intendunt et cupiunt cum Popullo et Comuni Bononie et omnibus eorum amicis de Provincia Romaniolle, secundum quod alias per eos oblatum fuit per dietum fratrem Agnellum et secundum responsionem factam alias predicto fratri Agnello. T Ad secundum articullum quod incipit: ad secundum articullum ete. (2) eadem delibe- ratione datum responsum quod propter tractatum pacis inter Comune Bononie et Lanbertacios ex compromisso facto in d. capitaneum Mediolanensem et in d. Albertum de la Schala, in quo tractatu proceditur prout retullit dietus prior, condescenditur quod in presenti tractatu dicti Lanbertacii non conprehendantur et procedatur in ipso presenti tractatu, sicut dictum est. Ad tertium et ultimum articullum... Existentes predicti domini Potestas et Capitaneus, quatuor Anciani et Sapientes quatuor superius nominati... In refformatione quorum dominorum Potestatis et Capitanei, Ancianorum et Sapientum et preconsulis et preministralis, essequendo consilium domini Guidotis de Camandinis... V. Così la sorte dei Lambertazzi rimase decisamente staccata dalle trattative coi nobili Romagnoli e attribuita soltanto all’arbitrato dei due ricordati Signori di Lom- bardia, dei quali è bene aggiungere che pochi mesi innanzi avevano stretta paren- (1) Corrisponde all’inizio della risposta dei Bolognesi ai nobili Amici di Romagna 22 marzo 1290, che testè ho riferito. (2) Ezuale corrispondenza col secondo paragrafo del documento del 22 marzo. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 7 tela fra loro. Infatti alla festa di S. Michele (29 settembre) del 1298 si tenne in Verona una solenne “ curia militum ,, e in questa occasione Alboino figlio di Alberto della Scala sposò Caterina figlia di Matteo Visconti (1); nell’anno 1289 (2) Costanza figlia di Alberto della Scala aveva sposato Obizzo d’ Este. Tuttavia per quanto le due pratiche, per motivi politici e per ragioni giuridiche sì volessero tenere separate, l’ una e l’altra si incontravano inevitabilmente; e il processo dei fatti ce ne darà le prove. Le relazioni fra Matteo Visconti e Bologna erano così intime, che quegli chiese a questo Comune un aiuto militare, e Bologna accondiscese; per il che il Visconti ringraziò i Bolognesi con lettera datata da Milano, 20 marzo 1299 (3). Die sabati quarto aprilis, in terra Conpletori]. D. Rogerius Tragla ambaxiator domini Capitanei Mediolani, 4 d. Nicolaus de Regio am- baxator d. Alberti de la Scala redientes de partibus Romaniolle retullerunt ex parte dicti fratris Agnelli prioris Faventie (4) et predictorum nobilium partis adverse provincie Romaniolle, quod tractatus coloquii et ratiocinarij, qui haberi debet cum eis differebatur usque ad diem mercurii octavum mensis aprilis presentis faciendum. Subito dopo comparirono a Bologna, siccome appare, gli ambasciatori del Visconti e dello Scaligero, che erano stati nella Romagna occupandosi anche delle cose dei nobili romagnoli, quantunque le intenzioni di questi fossero state espresse in modo diverso e distinto da quello che seguivasi nella questione dei Lambertazzi. Due giorni dopo, cioè il 6 aprile, a Castel S. Pietro (5) recaronsi i magistrati di Bologna per le cose dei nobili di Romagna. Gli ambasciatori dei Signori di Milano e di Verona recaronsi egualmente colà, ma essi si occuparono piuttosto delle cose dei Lambertazzi che non degli Amici, pur comprendendo che i due affari non pote- vano procedere interamente dissociati. Il giorno antecedente (e quindi il 5 aprile) nel Consiglio del Comune di Bologna era stato approvato il richiamo dei Lamber- tazzi, cioè erasi deliberato di mettere finalmente un termine al lunghissimo periodo di lotte e di dolori. Millesimo ducentesimo nonagesimo nono, die lune sexto aprilis. D. Ottolinus de Mandello potestas Bononie, d. Blaxius de Tholomeis capitaneus Populi Bononie fecerunt Antianos et Consules dicti mensis et infrascriptos Sapientes ad cameram ipsius d. potestatis more solito congregari, in qua quidem congregatione affuerunt ultra due partes Antianorum et Consulum, et ipsi Sapientes, ambaxatores [iverunt ?] cum d. potestate predicto ad castrum Sancti Petri, ochasione tractatus coloquii habendi cum Romaniollis adverse partis... Inter quos ipse d. potestas legi fecit quamdam litteram ex parte fratris Agnelli prioris fratram Predicatorum de Faventia d. Potestati, Capitaneo et Antianis et Sapientibus trans- missam, in qua inter allia continetur, quod parlamentum tractatum differtur usque ad diem mer- curij octavum mensis aprilis et quod inibeatur ex parte comunis Bononie illis de Massa et (1) SyIlabus Potestatum, in “ Ant. cron. Veron. ,, I, 401-02. A queste nozze accenna la Chronica illorum de la Scala, nel citato volume, p. 500. (2) Syllabus, p. 399; De Romavno, p. 434. (3) GarrarpAceI, I, 381-2 (parte per tenore e parte in sunto). (4) Quale rappresentante di Cappetino de Udertinis capitano generale della lega degli Amici di Romagna. (5) Nell’Imolese. 8 CARLO CIPOLLA Thauxignanum (1) et de Corvaria et alliis terris comitatus Bononie ad confinia existentibus, quod durante dicto parlamento et essistente d. Hoc... giprato Feliciani in partibus Romaniolle quod non debeant adversus partes inimicorum comitare seu facere aliquam lesionem. Inter quos etiam dominos Potestatem, Capitaneum, Antianos et Sapientes d. Rugerinus (?) Tragla ambaxator domini Capitanei Mediolani, qui nuper de partibus Romaniolle cum d. Nicholao de Regio ambaxatore d. Alberti de Scala rediit, exposuit et dixit quod Lambertatij, Ymolle essistentes, de refformatione pridie faeta in Conscilio Populi, quod ad mandata Comunis Bononie reciperentur, repleti fuerunt gaudio magno, valde agentes gratias Christo Jesu et omnibus Sanctis eius, et quod fecerunt fieri cridam, quod nulus de dicta parte vel eorum sequacibus in comitatu Bononie dampnum dari deberet, pena haberis et personarum, de qua crida fides [daretur ?] predictis dominis Potestati, Capitaneo, Antianis et Consulibus et Sapientibus per publica instrumenta et quod ipsi Lambertatij fecerunt fieri syndicum dictis dominis Capitaneo et Alberto..... et a Comuni Bononie petebant illud idem et quod intendebant..... ad tractatum (2) faciendum et habendum cum adversarijs Romaniolle, nomine anbaxatoris (8) dicti domini Alberti et ipse idem si de dictorum dominorum processerit voluntate. Item d. comes Bernardinus de Cunio..... Qui dominus Potestas, predictis lectis et expositis et naratis, de consensu et voluntate d. Capitanei Populi antedicti, proposuit inter dictos Angianos et Sapientes et conscilium petiit, quid sit super predictis et quolibet eorum presentialiter faciendum. In refformatione quorum Angianis et Sapientibus placuit omnibus, nemine discordante, partito facto per dictum dominum Potestatem de sedendo ad levandum et essequendum conscilium..... ; ; Item facto partito eodem modo et forma et essequendo conscilia predictorum Bonincuntri et Dominici (4) placuit eis quod per Comune Bononie constituatur syndicus Comunis Bononie d. Roycus de Roycis notarius ad presentandum se coram d. Mediolanensi et ad sententiam audiendam ab eo, et consensu domini Alberti de Scala predicti, et quod instrumentum sinda- catus formetur, et fiat de consilio Sapientum virorum per Johannem d. Anthonij Auliverii not., et quod ante quam dictus Roycus se a civitate bene asentet, quod per sapientes viros et per d. Johannem de Calcina et Roygum videantur et examinentur omnia capitulla vel articulla pro- nuncianda per dictum d. Capitaneum Mediolanensem, et refformatio pridie super facto Lanber- taciorum in Conscilio Populi bene facta et instrumentum syndicatus nuperrime per Lanbertatios in civitate Ymolle cellebratum ita et taliter quod in dictis negociis esse non possit et quod Comune Bononie oblicum non recipiat in predictis et quod sindicus predictus plene instruetus ad omnia accedat, prout dietis Sapientibus videbitur expedire (5). Le due pratiche procedevano quindi parallelamente, da una parte quella della pacificazione da conchiudersi tra Bologna e i Signori di Romagna, pacificazione che trattavasi direttamente, e dall'altra quella dei negoziati per il ritorno dei Lamber- tazzi in città, dove i Signori di Lombardia continuavano a trattare per mezzo dei loro oratori. (1) Thaux. Cioè Tossignano in quel di Imola. (2) Più di una volta in questi documenti, e in questo luogo in particolar modo forse, la parola tractatum si usa in un senso piuttosto vicino all’uso nostro, che non a quello dell’atto di trattare, di negoziare. L'uno e l’altro significato stanno fra loro accostati, così che non sempre riesce agevole il separarli. (3) anbax. (4) Cioè: Dominici Tholomei preconsulis. (5) Un sunto di questo documento può leggersi presso il GaIrarpacci, I, 384. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 9 L'affare dei Lambertazzi fece ancora un nuovo passo addi 7 aprile, per opera dei magistrati di Bologna, come appare da quest'altro documento che si continua ai riferiti, nel citato volume delle Riformazioni degli Anziani. Millesimo ducentesimo nonagesimo nono, indicione duodecima, die septimo aprilis, essistente domino Octolino potestate Bononie ad castrum Sancti Petri, In primis, quid videtur Ancianis et Sapientibus faciendum super eo quod Priores partis Lanbertaciorum, Ymolle civitati commorantes, petunt eis per Comune Bononie dari formam quomodo et qualiter facere debeant inter eos formam refformacionis quod d. Mafheus (1) Capi- taneus Mediolanensis et d. Albertus de la Schala procedant ad pronumciationem laudi ferendi per eos (2). Addì 4 aprile, siccome vedemmo, gli ambasciatori del Visconti e dello Scaligero, ritornando dalla Romagna, avevano riferito da parte di frate Agnello e dei nobili di quella regione, che il colloquio era rimandato al giorno 8. Ci resta (3) il testo del docu- mento del giorno 8 aprile con cui Ottolino da Mandello podestà, gli Anziani e i Savi di Bologna convennero con Zappetino Ubertini capitano della Lega degli Amici di Romagna promisero di dar mano sinceramente alla pace. L’atto fu stipulato a Castel S. Pietro, nel distretto e comitato di Imola. Sono presenti frate Agnello da Faenza, Eartolomeo da Farina dottore in decreti e Nicolò da Reggio notaio ambasciatori di Alberto della Scala; Ruggero Traglia ambasciatore di Matteo Visconti. Al medesimo tempo ascriveremo un documento (4), senza data, nel quale leggiamo la deliberazione presa dalla parte dei Lambertazzi, residente ad Imola, di ricono- scere che il Visconti e lo Scaligero erano autorizzati a pronunciare il loro lodo, il che significa implicitamente ch’erano invitati a farlo. Tale deliberazione presa dai Lambertazzi era in piena armonia colle concilianti disposizioni manifestate, come vedemmo, dal Consiglio di Bologna. Riproduco, sebbene edito, il documento, importante e breve nel tempo stesso, seguendo la lezione del manoscritto. In Christi nomine amen. Coadunata generali Parte Lanbertaciorum civitatis Bononie, ad sonum canpane et voce preconia, in ecclesia ete. de civitate Ymolle, et ipsa Parte et homi- nibus dicte Partis coadunata et coadunatis in predicta ecclesia, ut moris est, et proposita inter eos ambaxata prudentum virorum dominorum Rugerini Tragle anbaxatoris domini Mafhei (ste) capitanei Mediolani et Bartholomei Farine decretorum doctoris et Nicholay de Regio ambaxa- torum d. Alberti de la Schala Capitanei civitatis Verone et audita refformaccione Populi et Comunis nuper facta ad requisitionem predictorum ambaxatorum eorumdem et proposita per eos ... de voluntate dominorum Duodecim, qui presunt aliis de dicta Parte Lanbertaciorum, et per ipsos dominos Duodecim et Priores eorumdem quod placet provideri super dicta anbaxata facta per dictos anbaxatores dictorum dominorum Mafhei (séc) et Alberti et super reformacione Conscilii Populi Bononie facta die ultimo marcii suprascripti, manu d. Gozadinis notarii Angia- norum et Consulum, diligenti examinatione prehabita et auditis voluntatibus singullorum, qui (1) Sie. (2) GriraRDACCI, I, 386. (3) GairaRDACCI, I, 387-8. (4) GatraRDAccI, I, 386 al 7 aprile: Veci, IV, doc., p. 135, a. 412 (al 7 aprile). Nel manoscritto delle Riformagioni degli Anziani c'è il documento. Serre II. Tox. LXII. 2 10 CARLO CIPOLLA super predictis arengare et consullere voluerunt, et partito facto inter eos, placuit omnibus de dicta parte Lanbertaciorum [nemine] (1) discrepante, quod per dominos Capitaneos antedictos yel per d. Mafheum (sic) antedictum, de voluntate dicti d. Alberti vel eius procuratoris, procedatur et procedi possit ad decissionem eorum que per syndicum dicte partis et per sindicum Comunis Bononie deducta fuerunt in compromissum per dictos sindicos in predictos dominos Capitaneos, secundum formam refformationis predicti Conscilij Populi, scripte manu dicti Benni not. et in tantum ipsa pars Lanbertaciorum, nemine discrepante, dictam refformacionem et omnia contenta in ea reformatione aprobant, amolagant et confirman[t] in omnibus et per omnia. Que quidem forma refformationis fuit per dictos Sapientes et Ancianos sive ambaxatores deliberata[a] (1) Conscilio aprobata in totum. Addì 10 aprile Bologna si rivolse ancora a frate Agnello (2). la cui opera con- tinuava tanto efficace, quanto accorta. Ma nel mentre ogni cosa pareva procedere pacificamente, così che la stipula- zione della pace dovesse riuscire facile, sicura e rapida, un ostacolo si sollevò da parte dei Bolognesi. Infatti i magistrati del Comune di Bologna, radunati a Castel S. Pietro, vollero che, a pace fatta, venisse loro consegnata la città d’Imola. forse sotto la veste ch’era necessario ch’'essa rimanesse nelle mani dei Bolognesi, come pegno di pace. Tale grave richiesta fu dai Bolognesi fatta non solo per mezzo di frate Agnello, ma anche colla partecipazione, del resto amichevole, degli oratori dei Signori Lombardi; e fu presentata agli Amici di Romagna, forse perchè se Imola era la residenza dei Lambertazzi, apparteneva pur sempre alla Romagna e agli Amici di quella lega. I nobili di Romagna di tale domanda si impensierirono, e in data del 14 aprile chiesero un giorno di tempo per preparare una risposta. L'affare dei Lambertazzi si mescolava ancora una volta con quello dei nobili di Romagna, e questo avveniva probabilmente perchè Bologna ne traeva il proprio vantaggio. die mensis quartadecima aprilis. Essistentibus dominis Octollino de Mandello potestate predicto, Ancianis, Sapientibus et Anbasatoribus apud castrum Sancti Petri receperunt litteras a domino Cappetino predicto, tenorem infrascriptum in se specialiter continentem. 4 Magnificis viris dominis Ottollino de Mandello potestati, Angianis et Sapientibus civitatis Bononie in Castro Sancti Petri congregatis, Capetinus de Ubertinis capitaneus generalis Amicorum suorum de Romaniolla, Galassus comes Montisferetri, Maghinardus Paganus de Soxenana, Ubertus de Malatestis comes de (sic) et alii Sapientes Lige ipsorum, Ymolle congregati, salutem et comunem prosperitatem. Intelles- simus votum vestrum a religiosso viro fratre Agnello priore fratrum Predicatorum de Faventia cum testimonio fratris Jacobi de Bononia eius consocii, et iurisperiti d. Bartholomei Farine de Verona et prudentis viri domini Rogerii de Mediolano anbaxatorum, quod volebatis, pace facta inter syndicos vestros et nostrum vice vestri et nostri, et factis firmationibus pactorum statu- torum, ordinamentorum et sacramentorum, secundum quod melius pro securitate nostra et comuni utilitate et pace videbitur expedire, habere dominium, guardam et potestatem civitatis Ymolle ut per hoc publice utilitati nostre et provincie tocius scilicet Romaniolle possetis comodius pro- videre, quod factum et propter novitates et multa que possent contingere decrevimus consultius et plenius deliberato conscilio diffinire. Unde rogavimus predictum fratrem Agnellum et socium (1) L'inserzione di questa parola è richiesta dal senso. (2) Gamrarpacer, 2, 388-9: Monum. Civitatis Bononiae, n. 66. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA it et memoratos dominos quod differant usque in crastinum et tune vobis per eosdem plenam dabimus responsionem. Quapropter dominationem vestram rogamus attente quatenus vobis placeat usque ad prefinitum tempus, scilicet die crastina, in loco ubi manetis, predictos fratres et dominos expectare. Data Ymolle die . x1y . Aprilis. Frate Agnello e gli ambasciatori dei Signori Lombardi riferirono ai magistrati Bolognesi, i quali risiedevano sempre a Castel S. Pietro, che i nobili di Romagna non intendevano affatto di consegnare Imola in potere loro, ma i detti magistrati per parte propria, nella radunanza del 15 aprile, chiaramente dichiararono che essi rite- nevano il possesso di Imola necessario per la conservazione della pace. Die . xv . aprilis, venientibus predicto fratre Agnello et socio et anbaxatoribus a civitate Ymolle ad dictum dominos potestatem, et Angianos et Sapientes ad burgum Castri Sancti Petri, ubi erant, et refferentibus ex parte dictorum nobillium Cappitini, Galassi et Machinardi et alliorum sequacium eos nolle tradere civitatem Ymolle in manibus Comunis et Populi Bononie, ipse d. potestas proposuit inter dietos Ancianos et Sapientes quod et quale responsum dandum esset predictis et super hoc petiit conscilium exhiberi. In refformatione quorum Angianorum et Sapientum, partito facto per dietam dominum Potestatem de sedendo ad levandum, essequendo conscilium d. Ubaldini de Malavoltis, placuit omnibus, nemine discordante, quod responsum detur dicto fratri Agnello et ambaxatoribus et illis qui eos miserunt, quod non potest provinciam pacificari nisi per modum Imolle petitum non separando se dieti domini Potestas Anciani et Sapientes a verbis tractatus nec a tractatu. Que quidem responsio predicto fratri et anbaxatoribus per dictum d. Ubaldinum subicto facta fuit, dicendo insuper eis quod exponant et narent predictis nobilibus et alliis provincie quod cogitent et deliberent yeterum in predictis. I magistrati di Bologna, ricevuta questa dichiarazione, non si dimostrarono av- versi ed aderirono a trattare, pur dichiarando che essi avevano parlato a frate Agnello della consegna di Imola, collo scopo di assicurare la pace. In questa occa- sione non si parla affatto degli ambasciatori dei Signori Lombardi. Abbiamo soltanto ricordati gli ambasciatori di Forlì, Faenza, Cesena ed Imola che vengono a Castel S. Pietro per esporre i loro pensieri al Podestà, agli Anziani ed ai Savi di Bologna e a riceverne la risposta. Die sextodecimo aprilis, anbaxatores civitatum Forollivii, Faventie, Cesene et Imolle ad burgum Castri Sancti Petri ad dominum Potestatem, Angianos et Sapientes predictos venerunt, inter quos d. Aliotus iudex de Forollivio naravit et dixit, de voluntate alliorum qui Imollam remanserant, quod unquam per fratrem Agnellum eis civitas Imolle petita non fuit, et quod quilibet pacem faciens cum suis adversariis eam facit ad meliorandum suum statum et condi- cionem, et quod placeret ipsis Potestati, Ancianis et Sapientibus pro eodem super tractatu pacis et esse iterum ad parlamentum, remanendo civitas Imolle Amicis lige eorum, sicut est. Qui dominus Potestas, separacione facta per ipsos anbaxatores de dicto loco, inter dictos Sapientes et Ancianos proposuit atque dixit quid eis videbitur super recitatis et expositis per dictum d. Aliotum. Im refformatione quorum Sapientum, essequendo conscilium d. Alberti Bonacapti, placuit omnibus quod respondeatur et dicatur dictis anbaxatoribus quod pluries fratri Agnello de facto Ymolle fuit impositum atque dictum, et quod erat intentio d. Potestatis, Sapientum et Ancia- norum quod eisdem disiset, et quod placet d. Potestati et eis quod provincia pacifieret et quiescat per vias ordinatas et per allias, et quod ea que dicta sunt super facto Ymolle videntur eis 12 CARLO CIPOLLA conveniencia et quod acceptant ea que offerunt, dum tamen redeundum ad tractandum et ad ea que ordinari et examinari debent per utramque partem sit ad eorum voluntatem. Que quidem resposio per dictum modum et formam eis per d. Potestatem facta fuit. E da Forlì risposero i nobili di Romagna sotto la data del 17 aprile, e poi le trattative ancora continuarono. Anche nei documenti nei quali non compariscono gli ambasciatori del Visconti e dello Scaligero, noi possiamo sentirne la loro azione, incessante ed energica. Pietro Catinelli, cronista degno di fede, ci fa ben compren- dere che essi non se ne stavano inoperosi (1). Il fascicolo delle Riformagioni degli Anziani e dei Consigli Minori, donde ricavai così numerosi documenti, si arresta al 1° maggio 1299, quando i Romagnoli nega- rono la consegna di Imola a Bologna, rifiuto dato perchè essi speravano di essere sciolti dall’interdetto ecclesiastico, che li colpiva, cedendo Imola alla Chiesa; tuttavia, dicevano, studieranno di dar soddisfazione ai Bolognesi, acconsentendo che in Imola rientrino gli estrinseci ai quali saranno restituiti i loro beni. VI. La Pasqua fu solennizzata nel 1299 addì 19 aprile. Sotto la data del 20, i ma- gistrati di Bologna convennero di incontrarsi coi sindaci delle città di Romagna il secondo giorno dopo l’ottava di Pasqua (2), il che vuol dire il 28 del mese stesso. Finalmente il 4 maggio 1299 (3) si stipulò la pace fra Bologna da una parte e dall’altra i nobili e le città della lega degli Amici di Romagna, cioè Forlì, Cesena, Faenza, Imola e Castrocaro. Nel primo capitolo si scioglie la questione di Imola, che quasi metteva in forse la stipulazione dell’ accordo, e lo si fa dando parte non piccola ai Signori di Lom- bardia. Infatti si determina così: In primis, quod civitas Imole sit et debeat esse sub guardia et custodia magnificorum virorum dominorum Mathei de Vicecomitibus capitanei civitatis Mediolani et Alberti de la Scala capitanei civitatis Verone, per ipsorum custodem custodienda et salvanda, quousque diete partes erunt in concordia, quod dicta custodia ulterius non fiat. Item quod dicti custodes habeantur et esse debeant in civitate Imole extra communia et universitates diete Lige. Item quod no- minandi per dietos dominos Matheum et Albertum eligi debeant per Commune Imole et debeant esse Potestates dicte terre toto supradicto tempore et ipsam terram regere in officio Potestarie (1) Chronicon ed. Franc. Torraca, Città di Castello, 1902, p. 90 (Rer. Italic. Script., XXVII, pars 2.: © .... die martis xxr mensis aprilis, in civitate Faventie convenerunt simul ad presentiam “d. Maghinardi Pagani de Sosenana, tunc potestatis et capitanei civitatis Imole, anbaxiatores “ d. Mathei de Viscontis capitanei Mediolani et d. Alberti de la Scala domini civitatis Verone et “ dominorum Aconis et Francisci marchionum de Ferraria, et comunis Bononie causa tractandi “ concordiam inter Bononienses intrinsecos et extrinsecos et super aliis que habebant in mandatis ,. Anche il Catinelli per altro attribuisce a fra Agnello di Faenza il merito dei negoziati per la con- cordia; su di che veggasi anche la lettera dei Bolognesi a frate Agnello, 26 aprile; GHirARDACGI, I, 395; Monum., n. 73 (ms.). (2) Grirarpacer, I, 393; Monwm., n. 71. (3) GurrarpaAccI, pp. 396-399; Monum., n. 74. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 13 et non alii in dicto officio et habere debeant guardiam et custodiam dicte civitatis Imole cum custodibus eligendis per dictos dominos Matheum et Albertum et cum salario et familia consuetis. Item quod sì contingeret Ecclesiam Romanam exposcere seu postulare restitutionem civitatis Imole sibi fiendam... Item quod nominatio confirmandorum dictorum extrinsecorum civitatis Imole, numerus, tempus et loca confinium remaneant in deliberatione, provisione et dispositione dictorum Matthei et Alberti; et ceteri alii de civitate et comitatu Tmole, adherentes comuni Bononie, libere revertantur et reverti possint in dicta civitate Imole..... V. Vitale (1) riassume così gli avvenimenti di cui ci occupiamo: “ Le trattative “ coi Romagnoli iniziate nell'aprile del ‘99 condussero in breve all’accordo, che fu “ conchiuso in Castel San Pietro (2); quelle coi Lambertazzi cominciate nel ‘98 dura- “ rono per buona parte anche dell’anno seguente, finchè il lodo di pace fu pronunciato “ da Matteo Visconti e Alberto della Scala nominati arbitri , (3). E sostanzialmente, questa esposizione storica è esatta, salvo che gli ambasciatori dei due Signori di Lombardia, trovandosi nella Romagna, ebbero talvolta in cura anche le cose dei nobili romagnoli, non mai del tutto dissociabili da quelle dei Lambertazzi. VII. Per quello che riguarda il lodo chiesto al Visconti e allo Scaligero, abbiamo sicure notizie dall’ atto datato da Verona 24 aprile 1299, col quale Alberto della Scala nominò il giudice Bonmesio Paganotti a collaborare con Matteo Visconti nella preparazione del lodo. In questo documento si dice ancora che la città di Bologna aveva eletto il suo ambasciatore, Rozzo dei Rozzi, e la parte dei Lambertazzi aveva nominato con simile mandato Uguccione dei Principi; questi due giudici anda- rono ad affidare a Matteo Visconti, e in lui anche ad Alberto della Scala, il sud- detto arbitrato. Il documento ci fu conservato in originale (4), e da esso ricavo alcuni brani di maggiore interesse, trascurando le formule sovrabbondanti, secondo lo stile notarile del tempo. Fra i presenti leggiamo del dottore di leggi Nicolò de Altemanno, che pure chia- mavasi de Lege, ben noto come professore, come giurista e come diplomatico, il cui nome s'incontra con molta frequenza fra quelli dei più fidati e più illustri fra i servitori degli Scaligeri. Ha sempre uno speciale interesse quel documento che descrive come era ammi- nistrata e governata una fazione, che espulsa dalla sua città, si ordina come una (1) Op. cit., p. 73. (2) E qui rimanda al Cantinelli e al Ghirardacei. (3) Questo fu affermato esattamente dal Garrarpacci, I, 385: “ Et perchè in questo medesimo “ tempo si trovarono in Bologna Ruggero Treglia oratore del Capitano di Milano et Nicola da Reggio “ ambasciatore di Alberto della Scala che haveano trattato col Consiglio della suddetta causa, ritor- “ narono addietro, apportando la felice novella a’ Lambertazzi ,. (4) Fra le Pergamene sparse. Sul verso della pergamena, d’altra, ma pur antica mano, si legge: “ Instrumentum sindicatus Comunis Verone est in membranis Comunis Verone registratum per... Borchexani notarii sub m°.Jy°.Ixxxxvim] “ die ultima septembris, vi f°. ,. Quest'ultima abbreviazione significa probabilmente: “ nono folio ,. In tanta scarsezza di dati sulla cancelleria scaligera anche queste poche parole meritano d’essere tenute in considerazione. Il documento fu pubblicato dal Verci, IV, doc., p. 136, n. 413. 14 CARLO CIPOLLA specie di Stato a parte, una forma di Comunità che vive senza il proprio territorio, nella speranza di ritornare in patria, mentre più o meno conserva ancora la sua autonomia politica, attendendo il momento o di nuove sconfitte o di decisiva vittoria. Nel documento che segue, l’organamento della parte dei Lambertazzi è con sufficiente larghezza esposto e chiarito, ancorchè non tutte le oscurità siano tolte, non tutte le incertezze siano eliminate. (S. T.) In nomine Domini amen. Die veneris vigessimo quarto aprilis, Verone, in guayta Sancte Marie Antique, in palacio magnifici viri domini Alberti Capitanei generalis Co- munis et Populi Verone, presentibus prudentibus viris dominis Nicolao de Altemanno legum doctore, Conrado de Ymola Comunis Verone iudice, ac nobilibus viris dominis Gerardo de Castellis de Tarvisio, Castellano del Mesa, Silvestro de Gabaldianis, Bocca domini Cavalcachani, Nicolao de Bertramo notario et Bonaventura notario de Sancta Sophia testibus vocatis rogatis et aliis. b Magnificus vir dominus Albertus de la Scala Capitaneus generalis Comunis et Populi Verone arbiter et arbitrator et amicabilis compositor, una cum magnifico viro domino Matheo Vicecomite Vicario generali sacri Imperij in Lombardia, et Capitaneo Populi Mediola- nensis, electus a discreto viro domino Roygo de Roycis cive Bononiensi misso sindico nuncio speciali et procuratore dominorum,.. Potestatis,.. Capitanei,.. Ancianorum et Consulum et Consilii DCCC virorum et Comunis et Populi Bononie, nomine predictorum ex parte una, eta nobili viro dominio Hugutione de Principibus filio quondam domini Bartholomei, certo misso sindico et nuncio speciali et procuratore dominorum,.. Priorum, .. XX Sapientum, Consilii Cre- dencie, Universitatis et Partis Lambertatiorum extrinsecorum de Bononia et dominorum,.. qui sunt de dietis XX Sapientibus Consilii Credentie supradicti et domini, .. Prioris, XIJ Sapientum presidentium Consilio generali dicte Universitatis et Partis domini [Vicarij] et .., qui sunt de dietis XIJ Sapientibus et Consili generalis dicte Universitatis et Partis, nomine et vice predictorum et Universitatis et Partis, et omnium illorum de ipsa Parte de Lambertatijs extrinsecorum civitatis Bononie et eius diocesis et districtus et cuiuscumque eorum ex altera parte, electus utigue una cum dicto dominio Vicario, ita quod unus eorum cum nuncio alterius ad hoc specialiter depu- tato possit precepta facere inter partes ad audiendum, diffiniendum et terminandum, iure vel usu vel amicabili compositione, omnes guerras, lites, questiones et controversias, que yertuntur vel verti et esse sperarentur et posse inter Comune civitatis Bononie ex una parte, et illos de Lambertatiis et de parte sua et quemlibet de illa parte extrinsecos civitatis Bononie ex altera parte, occasione offensionum, assaltuum, feritarum, percussionum, vulnerum, homicidiorum, damp- norum, guastorum, robariarum, incendiorum, maleficiorum et iniuriarum omnium, cuiuseumque maneriei dici possent... Dictus quidem dominus Albertus cum audientie diffinitioni et erimi- nationi gsuerrarum, litium, questionum et controversiarum predictarum presentiam suam acco- modare non possit, fecit constituit et ordinavit ac specialiter deputavit prudentem virum dominum Bomesium iudicem, domini Bonapaxij de Paganottis, civem Veronensem presentem — et suscipientem, suum certum nuncium et procuratorem ad audiendum, diffiniendum et termi- — nandum cum domino Vicario memorato iure vel usu vel amicabili compositione omnes guerras, lites, questiones... Dans et concedens eidem procuratori et nuncium generalem et liberam pote- statem in omnibus et singulis supradictis... sub ypotheca bonorum suorum, semper tamen salva et repetita protestatione premissa. } Anno Domini millesimo ducentessimo nonagessimo nono. ind. duodecima. EGo Bonmassarius quondam domini ('ambonini notarii, auetoritate imperiali notarius, Ve- ronensìis civis, interfuy et rogatus et (sic) scripsi (1). (1) In sunto, il documento si legge presso il Gargarpacci, I, 393, e anche a pagina 358 col- l'anno 1298. ; LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 15 VII. A Milano nel palazzo vecchio del Comune, si compiè l’ultimo atto del com- promesso. Infatti, avvegnachè Roizo de’ Roizi nominato procuratore di Bologna con atto del 29 settembre 1298 e Uguccione de’ Principi costituito procuratore dei Lam- bertazzi con atto del 31 ottobre, avevano stabilito il compromesso nel Visconti e nello Scaligero, Roitzo conferma il predetto atto di compromesso. Ha il nuovo docu- mento la data del 9 maggio 1299 (1). Ci è pervenuto in originale (2) il lodo pronunciato da Matteo Visconti e Bon- mesio dei Paganotti, per mettere termine alla lunga controversia vertente fra Bologna e i Lambertazzi. Infatti si venne alla promulgazione dell’arbitrato, pubblicato a Milano nel palazzo del Comune, addì 9 maggio 1299 (3). Fra i presenti ricomparisce Nicolò de Altemanno, che abbiamo incontrato a Verona il 24 aprile precedente, per prender parte all’atto con cui Alberto della Scala nominò il suo procuratore. È probabile che l’Altemanno, venendo a Milano, si sia seriamente occupato della stipulazione di una convenzione, per la quale era indispensabile la compartecipazione di uomini legali, dotti e pratici, che sapessero trattare gli interessi politici, quanto gli affari per i quali la conoscenza del diritto era indispensabile. E fra questi è evidentemente da comprendersi l’Altemanno. Il documento, che qui pubblico quasi nella sua integrità, c'insegna che fino dal 10 novembre 1298 (4) le trattative coi Signori di Lombardia perchè accettassero l’arbitrato fra Bologna e i Lambertazzi erano cotanto avanzate da dare luogo ormai alla redazione delle prime carte. La pergamena non è bene conservata, in qualche luogo è consunta. Milano, 9 maggio 1299. Premesso che dai Bolognesi e dai Lambertazzi era stato fatto compromesso nel Visconti e nello Scaligero, con atti 10 novembre 1298 e 6 aprile 1299, il Visconti e il rappresentante dello Scaligero stabilirono quanto segue: 1) pace e remissione delle offese, da giurarsi dalle parti interessate; 2) reciproca liberazione dei prigioni; 3) i Lambertazzi siano reintegrati nei loro beni e diritti; 4) come si decida nei casi in cui sorgano questioni sul diritto di possessione; 5) siano annullati i processi e bandi emanati dal Comune di Bologna contro qualsiasi dei Lambertazzi dopo la loro espulsione; 6) il Popolo di Bologna possa collocare a confine alcuni dei Lambertazzi; 7) l’esiglio non alteri il tempo dei pegni, e ciò tanto peri Lambertazzi come i Geremei; 8) i Lambertazzi siano esenti dall’obbligo di pagare le colte per (1) Vercr, IV, doc., p. 188, n. 414. (2) Diritti del Comune, 1299. (3) Brevissimo cenno di questo documento si fece nel Repertorio diplomatico Visconteo edito dalla Soc. Stor. Lombarda, Milano, 1911, t.I, p. 89. — Gli Annales Veronenses di Ubertino de Romano (Cron. Veron., I, 456) dicono: “ Eodem anno et mense (giugno) lata fuit sententia per d. Capitaneum Medio]. “ de voluntate d. Alberti de la Scala de pace facienda inter Commune Bononie et Lambertacios “ extrinsecos ,. Cfr. Maffeo de’ Griffoni ap. Muratori, R. I. S., XVII, 132. (4) Varo, Marca Trevigiana, IV, doc., pp. 126 sgg., n. 407. Cfr. quanto dissi nel $ 3. 16 CARLO CIPOLLA il tempo in cui furono espulsi; 9) 10) sul modo da contenersi rispetto ai contratti, veri e simulati; 11) se contro qualcuno che chiedesse la restituzione venisse opposto ch'egli non è della parte dei Lambertazzi, la decisione si faccia da quattro Savi dei Lambertazzi e da quattro dei Geremei scelti dai Bolognesi; 12) Come questi capitoli si applichino verso i Geremei; 13) i Lambertazzi, ora espulsi da Bologna, debbano prestar giuramento al Podestà e al Capi- tano di Bologna. (S. T.) In nomine Domini nostri Jesu Christi millesimo ducentesimo nonagesimo nono, indietione duodecima, die sabati nono die mensis madij. Cum discordia, guerra, inimicitia essent et diutius stetissent inter Comune et Populum civitatis Bononie ex parte una et Uni- versitatem seu Partem Lambertatiorum de Bononia extrinsecorum civitatis prediete ex parte altera et verti et esse maiores sperarentur (sic) occaxione offensionum homicidiorum insultuum feritarum vulnerum robariarum incendioram dampnorum guastorum maleficioram et iniu- riarum hine inde illatorum et illatarum seu que illate et illata dici possent in predictis partibus seu in aliqua vel aliquibus predictarum partium, alteri parti seu alicui vel aliquibus alterius partis, et placuisset predictis partibus, ad preces et instantiam amicorum Comunium compro- mittere et se compromisissent (1) in magnificos et potentes viros dominum Matheum Vicecomitem Vicarium sacri Imperii in Lombardia generalem et Capitaneum Populi Mediolanensis ete., et dominum Albertum de la Scalla Capitaneum generalem Comunis et Populi Verone tamquam in arbitros et arbitratores et amicabiles compositores, penna apposita decem milium marcharum argenti boni et puri, videlicet discretus vir dominus Royzus de Royzis civis Bononie, sindicu dominorum Potestatis, .. Capitanei, .. Anzianorum ete., .. Consulum et Consilij octocentum virorum et Comunis et Populi Bononie ad hoe spetialiter constitutus, et dominus Ugutio de Principibus sindicus et procurator Sapientum Consilii Generalis, Credentie, Universitatis et Partis Lamber- tatiorum extrinsecorum de Bononia ad hoc specialiter constitutus, hoc acto inter cetera, quod unus predictorum arbitrorum cum nuntio alterius ad hoc specialiter deputato, possit precepta et arbitramenta facere inter partes predictas, ut constat per instrumentum unum traditum per me notarium anno proxime preterito die lune decimo novembris, et postmodum predictus dominus Royzius sindicus Potestatis Capitanei Anzianorum et Consulum et Consilii Comunis Bononie, ut constat per instrumentum unum scriptum per Johannem Antonij de Auliveriis no- tarium civitatis Bononie hoc anno, die sexto aprilis, ratifficasset et confirmasset dictum compro- missum alias factum per eum ut supra, ut constat per instrumentum hodie paulo ante editum per me notarium, modo predictus illustris et magnificus vir dominus Matheus Vicecomes et diseretus vir dominus Bomesius iudex domini Bonapaxij de Paganotis civis Verone nuntius prefati magnifici viri domini Alberti de la Scalla ad hoc specialiter constitutus, ut constat per instrumentum unum rogatum et scriptum per Bomasarium condam domini Zambaneni notarium auctoritate imperiali civitatis Verone hoc anno indictione duodecima, die veneris vigesimo quarto aprilis, ad honorem Dei et beate Virginis et sanctorum Petri et Pauli, Ambroxij et Petroni, Dominici et Francischi diffensorum et protectorum Comunis et Populi Bononie et totius Curie Celestis et ad honorem sanctissimi patris et domini domini Bonifatij sacrosanete Romane Ec- clesie summi pontificis et ipsius Ecclesie Romane et sacri Imperii, et ad honorem et bonum pacificam et tranquilum statum Comunis et Populi Bononie et ad honorem et exaltationem omnium amicorum, Christi nomine invocato, concorditer et unanimiter fecerunt et fatiunt infra- dicta precepta et arbitramenta pro bono pacis et concordie perpetuo et inviolabiliter inter pre- dictas partes observanda. [1] In primis dicunt precipiunt et arbitrantur seu arbitramentantur et laudant quod prediete partes seu eorum sindici, nomine eorum, ad invicem faciant bonam, (1) Di prima mano fu aggiunto interlinearmente: È de predictis et aliis generaliter... , LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA Ir veram et perpetuam pacem et finem et remissionem de omnibus homicidiis asaltis feritis per- cusionibus vulneribus robariis incendiis dampnis guastis mallefitiis et offensionibus hine inde illatis, seu que illate et illata dici possent a predictis partibus seu ab aliquo vel aliquibus pre- dictarum partium alteri parti seu alicui vel aliquibus alterius partis et de omnibus pennis in quibus predicte partes seu aliqua earum possent dici incurisse, et generaliter de omnibus que pre- dicte partes seu aliqui predietarum partium petere vel requirere possent alteri parti seu alicui vel aliquibus alterius partis, occaxionibus suprascriptis, vel alique earum, et quod predicta pax et finis et remissio iuretur ad sancta Dei Evangelia tactis Scripturis per legiptimos sindicos partium predictarum. [2] Item quod capti per predictas partes seu per aliquem de dictis partibus libere relaxentur hine inde, sive sint de civitate Bononie et eius districta, sive de sequacibus partium predictarum vel alicuius earum. [8] Item quod illi de parte Lamberta- tiorum restituantur per Comune et Populum Bononie integre in omnibus eorum bonis et iuribus, que tenebant et possidebant vel quasi, tempore prime expulsionis vel postea, Statutis, Refor- mationibus, Ordinationibus quibuscumque aliis non obstantibus, nisi probetur quod legiptime teneantur vel possideantur, vel quasi, per aliquem vel aliquos civitatis Bononie vel districtus, eorum nomine, salva tamen vendicatione, seu actione cuiuscumque habenti[s] ius, et pre- dicta restitutio fatiendi inteligatur tam in clericis quam in laycis, et tam in civitate quam in diocesi vel distrietu Bononie. [4] Item quod si questio oriretur de possessione seu detten- tatione, credatur ei qui petierit sibi (1) restitui de amissa possessione vel quasi, cum duobus testibus, nìsì probetur quod legiptime teneantur vel possideantur vel quasi, vel aliquis vel aliqui (2) de civitate Bononie et districtu (et) inteligantur tantum legiptime tenere et possidere si habuerint iustam causam seu titulum ab ipsis vel ab aliquo eorum vel ab aliis qui habuerint iustam causam seu titulum in predictis vel eorum nomine. [5] Item quod omnes processus et banna facta vel lata de iure vel de facto per Comune Bononie post dictam expulsionem, cuiuscumque conditionis existant, contra aliquem de dicta parte Lambertatiorum vel eius occa- xione, pro irritis habeantur et in totum anulentur; et hoc si processus vel banna facti vel lata sunt occaxione partis; et si dubitatio tuerit que banna data sint occaxione Partis, remaneant in arbitrio dictorum dominorum arbitrorum et arbitratorum. [6] Item quod illi de Parte Lambertatiorum, quos Populus Bononie duxerit elligendos, teneantur et debeant stare et morari ad mandata ipsius Populi et ubi ipsi Populo placuerit, ad ipsius Populi liberam voluntatem. [7] Item si aliquis contractus pignoris seu venditionis foret factus alicuius rei per aliquem de Parte Lambertatiorum, in quo esset certum tempus appositum infra quod dicte res deberent exigi vel redimini et illud esset cursum post expulsionem (3) de eis factam, quod dictum tempus resti- tuatur tantum quantum supererat quando facta fuit expulxio (4) et illud idem servetur illis de parte Geremensium contra illos de parte Lambertatiorum. [8] Item quod illi de parte Lambertatiorum qui restituentur (5) ut supra, non cogantur per Comune Bononie ad solutionem aliquam colectarum hactenus impositarum, munerum vel gravaminum, seu debitorum contractorum per homines intrin- sechos civitatis Bononie nomine Comunis dicte Civitatis vel per aliam personam nomine dicti Comunis seu Hominum civitatis predicte, a tempore dicte expulsionis usque ad diem reversionis eorum, et super immunitate onerum seu munerum futurorum, reliquantur arbitrio et discretioni Populi Bononie. [9] Item quod illi de parte Lambertatiorum non possint conveniri personaliter nec realiter occaxione alicnius debiti vel contractus hactenus facti usque ad annos quinque post (1) Ms. se. (2) Ms. aliquem vel aliquos. (3) Ms. expusionem. (4) Ms. expusio. (5) Ms. restituerant... Serie II. Tox. LXII. 3 1 (0.0) CARLO CIPOLLA eorum reversionem, agere et consequi tamen possint sibi debita ab omnibus eorum debitoribus, ita tamen quod si voluerint agere infra dictum tempus possint et[iam] conveniri. [10] Item quod omnes contractus simulati vel per vim facti aut factitiis facti post eorum expulsionem, in totum tollantur et anullentur, et eorum cognitio fiat sumarie et expediatur infra mensem, ad cognitionem quorum contractuum per littigantes eligantur quatuor Sapientes comunaliter. [11] Item quod si aliquis qui dictam restitutionem peteret, negaretur esse de dicta parte Lam- bertatiorum, super hoc credatur quatuor Sapientibus Partis Lambertatiorum et quatuor Sapien- tibus Partis Gerimensium super hoc eligendis per Potestatem et Capitaneum Civitatis Bononie. [12] Item quod omnia et singula sepedicta capitula inteligantur tangere tam in Gerimiatos quam Gerimenses amicos super restitutione bonorum vel quasi facienda contra in Gerimenses et non ut Gerimiati restituantur contra Gerimenses antiquos. [13] Item quod omnes banniti et; rebeles de parte Lambertatioraum, qui nunc sunt expulsi et sunt inimici Comunis et Populi Bononie, debeant promittere et iurare quod stabunt et obedient mandatis et preceptis dominorum .. Potestatis et... Capitanei Comunis et Populi Bononie, qui nunc sunt vel per tempora erunt, et habere et tenere inimicos Populi Bononie pro inimicis et amicos pro amicis. Salvis et reser- vatis predictis dominis arbitris et arbitratoribus et amicalibus compositoribus omni facultate et potestate addendi diminuendi mutandi corrigendi et emendandi et omnia alia faciendi eis con- cessa per predictos sindicario nomine, secundum in compromisso facto séemel et pluries et totiens quotiens eis videbitur expedire; et salvo semper et reservato quod sì aliqua questio seu dubium oriretur inter predietas partes super predictis seu aliquo predictorum, quod predicti domini arbitri et arbitratores seu unus eorum... Actum in palatio veteri Comunis Mediolani, presentibus ser Notario Lazarino domini Tixij de Insulo Verone notario et Philipo de Affuri et Thomasino Usbergini civis Mediolanensis not. Interfuerunt testes dominus Robertus Vicecomes archipresbiter ecclesie maioris Mediolanensis et dominus Matheus Vicecomes ordinarius eiusdem ecelesie ... et nobilis vir dominus Thomasius de Ramponibus de Bononia potestas Comunis Mediolani et dominus Nicolaus condam domini Ber- nardi de Altemano doctor legum, et domini Gasparrus de Garbagate, Maynfredus de Cropa, Stephanus de Vicomercato..... Ibigue in contenenti in presentia predicti illustris et magnifici viri domini Mathei Vice comitis, et discreti viri domini Bomensis iudicis domini Bonipaxi] de Paganotis civitatis Verone? nuntij prefati magnifici domini Alberti de la Scala ut supra et in presentia testium et nota- riorum suprascriptorum, predictus discretus vir dominus Royzus de Royzis civis Bononie, sin- dicus dietorum dominorum Potestatis Capitanei Anzianorum et Consulum et Consilii et Comunis Bononie ad infradicta constitutus, ut plenius fit mentio in quolibet instrumento ibi viso et lecto, scripto per Johannem Antonij de Auliveriis not. de Bononia hoc anno, indietione duodecima, die sexta aprilis... Quapropter predieti sindici promiserunt et guac...m dederunt, obligantes omnia bona pre- dictorum quorum sunt sindici et procuratores videlicet.... Insuper quoque predicti sindici iura- verunt ad saneta Dei Evangellia tactis Seripturis predictam pacem et omnia predicta et singula attendere et inviolabiliter observare. (S. T.) Ego [Franciscus filius quondam d. Leonis de Brioscho] civis Mediolanensis... (1). (S. T.) Ego Jacobinus filius Gulielmi Panis notarius civis Mediolanensis... (2). (1) Due tratti assai consunti e illeggibili. (2) Anche questa firma è poco leggibile. L’atto è scritto da questo secondo notaio. Sul verso d'altra mano, del sec. XIV, si legge: Concordia inter Gerimenses et Lambertacios. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 19 IDG Secondo i patti combinati per la pace di Romagna (1) era stabilito che Imola venisse a trovarsi sotto la custodia dei Signori di Lombardia, e ancora che le con- danne a confine dipendessero dai detti Lombardi, sia rispetto al numero dei Lamber- tazzi, sia riguardo al luogo ed al tempo. In corrispondenza a questa convenzione, Ottolino Podestà, Blasio Capitano, gli Anziani, i Consoli e i Savi della Credenza di Bologna si rivolsero, 1299, 9 maggio (2), a Matteo Visconti pregandolo a voler sce- gliere, d'accordo con Alberto della Scala, alcuni pochi dei loro amici di Imola e di segnare il luogo del loro confine, stabilendolo in Bologna, per aver riguardo alla loro povertà. In questa lettera si trovano infatti le parole seguenti: “ ...secundum pro- “ visionem et deliberationem vestram ac etiam magnifici d. Alberti della Scala alti- “ tudinem igitur et potentiam vestram omni qua possumus prece requirimus ac pre- “ camur, quatenus vobis placeat brevem numerum confinatorum nostrorum amicorum “ civitatis Imole, prout commode potestis eligere et ordinare, ac etiam confinia desi- « gnare solummodo in civitate Bononie propter eorum indigentiam et securitatem “ ipsorum... ,. Le trattative circa il ritorno dei Lambertazzi, per quello che riguardava i Signori di Lombardia, ebbero compimento colla lettera che Alberto della Scala inviò “ no- “ bilibus et magnificis dominis Ottolino de Mandellio Potestati, Blasio de Tolomeis “ Capitanio, Antianis et Consulibus, Consilio Octingentorum, honoratissimo Populo et “ Communi Bononie , (3). L'inizio non è senza valore anche per la soluzione dell’intricata questione intorno alla data della compartecipazione di Bartolomeo della Scala al potere, mentre poi tale questione si collega a quella della data della nascita di Cangrande e delle rela- zioni di Dante colla corte Scaligera. Il documento presente non ci dà proprio nulla di nuovo, poichè da un documento mantovano già risulta che almeno dal 20 maggio 1293 Alberto e Bartolomeo erano insieme Capitani generali del popolo e del Comune di Verona (4). Ma ogni prova nuova conta per qualche cosa, in cose di simil genere. L'atto di cui-ora mi occupo comincia adunque così: “ Albertus della Scala et Bartholomeus primogenitus eius penes eum Communis et Populi Verone Capitaneus Generalis salutis et felicitatis applausum. Divina imminentibus casibus clementia prompta succurrere et tam periculis hominum, quam rerum providere, nec passa guerrarum incommoda ulterius pervagare, cedente dissidii turbine et odii rancore propulso, vestros et extrinsecos vestrorum animos n » “« »R (1) Garrarpaccei, I, 396-9; Monumenta, n. 74. Cfr. sopra $ 6. (2) Garrarpaccr, 1, 400; Monumenta, n. 75. Donde estrasse questo documento il Verci, IV, doc., p. 139, n. 415. (3) Gammazpacci, I, 401; Monumenta, n. 76; Verci, IV, doc., p. 140, n. 416. (4) Lo pubblicai fra i Documenti per la storia delle relazioni diplomatiche fra Verona.e Mantova, Milano, 1901, p. 259. 20 CARLO CIPOLLA « pacis lenimento composuit et dissidia cordium redegit et concordie unionem..... Annuncia quindi l’arbitrato promulgato, confermato e sancito coi giuramenti da Matteo q to) 1 to) Visconti e proprio sotto la data del 9 maggio. Ma si lagna perchè i Bolognesi non “ CI si erano comportati come era a pensare: “ expectavimus igitur et expetivimus, quod “a laudatissima vestra prudentia et eminenti iustitia tanti boni acceleretur impletio “ et civium vestrorum ac nostris desideriis executionis commoda preberetur..... Que “ enim dabitur discordantibus pax, si nec legitimis acquiescatur sententiis ?... , E dopo altre parole amare, viene lo Scaligero a chiedere che il lodo sia eseguito: “ ..... ex “ corde requirimus et affectuose rogamus, quatenus prefatam pacis sententiam cele- “ riter, qua decet, quatenus honori vestro congruit ac civibus et nobis spes indu- “ bitate suadet, exequi, prosequi, observare et adimplere vellitis ,. Dopo di che la lettera chiudesi colla datazione: “ Data Verone, die iovis undecimo iunii ,. Nel 1299 il giorno 11 giugno scadeva appunto in giovedì. Fra i Lambertazzi e il Comune di Bologna continuarono ancora per qualche mese le trattative. Il Vitale (1) ricorda a tale proposito le Provvigioni del 21 set- tembre e del 23 ottobre, e quindi conclude dicendo che finalmente, raggiunto l’ac- cordo, i Lambertazzi usciti diciannove anni innanzi, cioè al cadere del 1280, ritor- narono in città quasi tutti. Alberto della Scala proprio nei giorni stessi in cui stendeva la sua azione e dif- fondeva la sua influenza a Bologna e nelle terre di Romagna, preparava la caduta di Tagino e Bardellone Bonacossi a Mantova e li sostituiva per mezzo della elezione di Guido Bonacossi a Capitano perpetuo e generale di quella città (2 luglio 1299) (2), col quale strinse subito alleanza (6 luglio 1299) (3) mercè l’opera di Nicola de Alte- manno di cui si parla anche qui varie volte. Questa lega venne raffermata colle nozze fra Guido Bonacossi e Costanza figlia di Alberto della Scala (30 luglio 1299) (4). Forse il motivo per cui Alberto della Scala non si recò a Milano in occasione della promulgazione dell’arbitrato il 9 maggio 1299 è da cercarsi appunto in questo che i suoi maneggi contro Mantova procedevano allora con molta alacrità. Oltre a quanto dissi or ora, mi pare utile ricordare come egli stava eseguendo alcuni lavori in legno e l'impianto di pali, appresso ad Ostiglia, lavori che riuscivano sospetti ai Mantovani, mentre invece venivano palliati come opera di semplice difesa da parte di Alberto; quei pali erano collocati nel Po “ non ad ripe sustentationem, set ad instar pontis , (5). Fin d'allora alla corte Scaligera si aveva riconosciuta la somma importanza del ponte sul Po ad Ostiglia, ed era ben questo un affare grave perchè Alberto se ne preoccupasse. Ma Alberto morì poco dopo (18301) senza aver avuto tempo di realizzare il suo progetto, che fu raccolto da suo figlio Cangrande, il quale nel 1327 ottenne da Lodovico il Bavaro il consenso imperiale per tale costru- (1) Op. cit., p. 74. (2) Documenti per la storia delle relazioni, ecc., p. 331 sgg. (3) Op. cit., p. 343. (4) Op. cit., p. 357. Sopra questi avvenimenti, veggansi anche gli Arnales di Ubertino da Ro- mano, Ant. Cron. Veron., I, 456. (5) Documenti per la storia delle relazioni, ecc., pp. 293-319. LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 21 zione (1). Ma le vicende politiche e militari resero anche questa volta impossibile eseguire quell’opera, che solo adesso sta eseguendosi, in tutt'altra maniera da quella che gli antichi costruttori volevano, e con uno scopo, non politico nè militare, ma pacifico e commerciale. Matteo Visconti stabilì definitivamente la sua potente e gloriosa dinastia a Milano, dove rientrò dopo che i peccati dei Torriani soperchiarono i propri (2), e preparò il giorno in cui si maturò il dominio visconteo in Bologna. Se l’epiteto di “ Gran Lombardo , volessimo impersonarlo in Alberto della Scala commetteremmo un errore di cronologia dantesca, ma di certo non pronunceremmo un errore di storia; quanto più lo si studia, tanto meglio apparisce il suo valore politico e militare. La nascita delle due Signorie vicine e alleate costituiva un pericolo per le Signorie e i Comuni dell’Italia media, e a poco a poco predisponevano gli animi alle grosse Signorie; che caratterizzano la vita politica del sec. XIV. (1) Cfr. Documenti, pp. 284-5. (2) G. Viccani, VII, 61. BLOSSIO EMILIO DRACONZIO STUDIO BIOGRAFICO E LETTERARIO DEL Dr. ETTORE PROVANA Approvato nell'adunanza del 28 Maggio 1911. Le parole colle quali il Monceaux chiude il terzo volume della sua storia della letteratura latina cristiana in Africa, esprimono in rapida e sicura sintesi il programma di quello che sarà il suo studio di quella letteratura nel quinto secolo (1): “ Les “ dernières Muses , — egli dice — “ s’enfuient devant l’invasion des Vandales. Cepen- “ dant, quelques générations plus tard, sous la domination de ces mémes Vandales, “ puis au début de l’occupation byzantine, on verra se dessiner en Afrique une véri- “ table renaissance littéraire. La poésie y tiendra le premier rang, avec Luxorius “ et les poètes de l’Anthologie de Carthage, avec Dracontius, avec Corippus et Vere- “ cundus. Sauf des rares et obscures exceptions ce sera une poésie de forme toute “ classique, et non sans mérite, infiniment supérieure aux médiocres essais du IV° siècle. “ Par une suprème ironie de l’histoire littéraire, l’ Afrique chrétienne produira ses “ meilleurs poètes, et les plus respectueux des antiques traditions, pour honorer les “ rois ariens des Vandales et les empereurs théologiens de Byzance ,. Tutti i tratti caratteristici di quella rifioritura poetica, tanto curiosa e interessante sia per il luogo sia per il modo e le circostanze nelle quali si è manifestata, sono segnati dal Mon- ceaux acutamente e nitidamente. Ma il fenomeno di una rinascita letteraria in con- dizioni apparentemente così sfavorevoli resta ancora inspiegato; e a me pare che la via migliore per giungere a tale spiegazione sia quella di studiare uno per uno questi poeti, che seppero ricondurre per qualche tempo le Muse nell’imbarbarito suolo africano. Il maggiore di essi è senza dubbio Draconzio, al quale, non saprei veramente il perchè, il Monceaux premette il nome di Lussorio, e accompagna quelli di Corippo e Verecondo, alquanto posteriori di tempo e inferiori assai di valore. Se non vè nome in tutto quel circolo di numerosi e loquaci poeti che possa essere accostato a Draconzio (e ciò non è posto in dubbio da nessuno, nemmeno da chi lo ha letto e considerato soltanto alla sfuggita), a lui senza dubbio è dovuta la lode maggiore; in lui dobbiamo cercare la sintesi di tutti gli elementi migliori, senza chiudere gli occhi dinanzi ai difetti pur molto gravi che guastano la sua poesia, e che lo riannodano alle tradizioni letterarie della sua terra, al suo tempo, ai suoi (1) Monceavx, Histoire littéraire de V Afrique Chrétienne, vol. III, Paris, 1905, p. 524. DI ETTORE PROVANA É 2 contemporanei o precursori immediati (1). Ma io non sono certamente d’accordo col Manitius(2). quando dice: “ Heutzutage dirfte das Epos des Dracontius, ganz abgesehen “ von seinem dichterischen Werte, als ein sehr Wichtiges Denkmal fiùr die Kultur- “ geschichte anzusehen sein ,. È stranissimo davvero che il Manitius venga a questa conclusione, dopo di aver riconosciuto che nel poema De laudibus dei di Draconzio noi abbiamo uno dei più maturi e dei più attraenti prodotti della prima poesia cristiana, che l'elemento soggettivo ed oggettivo vi sono sapientemente fusi, che l’espressione lirica in particolare, limpida e sincera, conferisce al poema non scarsa attrattiva. L’elogio del Manitius così preciso, per quanto rapido e sommario quale doveva necessariamente essere in un’opera d’indole generale come la sua, appare veramente la smentita della sua affermazione. ed è l’incitamento migliore a studiare l’opera di Draconzio dal punto di vista letterario, non dirò con esclusione degli altri, ma a preferenza di essi. Parecchie interessanti notizie si ricavano senza dubbio dal- l’opera di Draconzio per la storia della cultura; ma queste risultano anche da parecchi altri del suo tempo, dei quali sì può dire veramente che tali notizie costituiscono tutto il valore e tutto l'interesse. Ma dal poeta della misericordia divina sì ricava assai meglio l’espressione limpida e sincera di un’ingenua pietà e di un lungo dolore, che hanno ispirato la sua arte, gli hanno dato un’individualità così caratteristica, l'hanno sollevato al di sopra della pleiade dei versificatori. In questo, e non soltanto in questo, è il contenuto vero, intimo della sua poesia: quanto alla forma, vale per lui più che per ogni altro l'osservazione del Monceaux che essa è tutta classica, o per lo meno si sforza di essere tale. Anzi l'elemento classico, fatto naturalmente tutto d’imitazione, penetra anche in gran parte del contenuto poetico dell’opera di Draconzio, perchè non v'è, si può dire, poeta classico latino, da Lucrezio a Clau- diano, che non abbia lasciato nell'opera sua traccie numerose. Non è un fenomeno nuovo; è anzi fenomeno comunissimo e generalissimo negli ultimi secoli della lettera- tura latina: ma non per questo mi pare che debba esserne trascurato lo studio a proposito di Draconzio. Appunto perchè egli ci appare poeta vero, noi non possiamo concepire la sua poesia come un aggregato artificioso e puramente meccanico dî elementi estranei. Può benissimo il fenomeno comune, che ha naturalmente come tale cause comuni, colorirsi e trasformarsi in lui in modo caratteristico e nuovo. Il compito è agevolato moltissimo dalle ricerche compiute in un lungo periodo d’anni da parecchi dotti tedeschi, i quali serutarono e spigolarono ogni frase, ogni parola di Draconzio, che sapesse anche lontanamente dell’espressione altrui: lavoro lun- ghissimo. i cui risultati raccolse e completò Federico Vollmer nella sua edizione delle opere di Draconzio, che è la più recente e senza dubbio la migliore (3). (1) Se si eccettuano i repertori e le opere d'indole generale, non sono state pubblicate finora trattazioni speciali riguardanti Draconzio, se non a proposito di questioni e di punti molto parti colari. Noi le citeremo man mano, quando se ne presenterà l’occasione, tralasciando di ricordare i numerosissimi articoli, sparsi per le riviste tedesche, che trattano questioni critiche riguardanti il testo, essendo essi estranei allo studio che noì intendiamo di fare. (2) M. Masrrios, Geschichte der Christlich-Lateinischen Poesie, Stuttgart, 1891, p. 331. (3) FI. Merobaudis Reliquiae, Blossii Aemilii Dracontiî Carmina, Eugenii Toletani Episcopi Car- mina et Epistulae, ed. Frid. Vollmer (Mon. Germ. Hist., Auct. Antiguiss., XIV, 1905). Per le citazioni di Draconzio e di Eugenio di Toledo mi riferirò sempre a questa edizione. 3 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 25 La considerazione degli elementi estranei che sono penetrati nell’arte di Draconzio ci conduce a quella della conciliazione, anzi della fusione avvenuta nella sua poesia di elementi cristiani e pagani. Non è una conciliazione identificabile con quella di altri che vissero assai prima di Draconzio: il periodo della vera lotta fra Paganesimo e Cristianesimo è ormai quasi terminato, e la fusione degli elementi contrastanti è avvenuta coll’assorbimento da parte del Cristianesimo di tutto quanto v'era nella paganità di utile e di assimilabile. Im Draconzio non troviamo la tragica e simpatica lotta di S. Gerolamo tra l’affetto antico e le credenze nuove, non troviamo nemmeno l'accoglienza dapprima alquanto peritosa, poi via via sempre più libera e sicura degli elementi pagani, come in Ambrogio e in Agostino (1). Draconzio è poeta ed accoglie ciò che può dar vita alla sua poesia senza serupoli dogmatici, senza riflessione di sorta: e in ciò va compagno a tanti altri poeti che non si comportano altrimenti. Tuttavia, se tale fusione è avvenuta spontaneamente nei suoi versi, essa non è se non il riflesso della fusione avvenuta nella sua anima: egli scrive poesie pretta- mente pagane di spirito, di forma, di contenuto, e poesie cristiane che portano non deboli traccie di spirito pagano. È questo un fatto letterario che giustifica lo studio psicologico che si può e si deve fare del poeta africano. In questi caratteri e pro- blemi fondamentali che l’opera di Draconzio ci offre sta, mi pare, tutta la ragion d'essere di uno studio su di lui: e anche astraendo da essi, mi pare che non sia davvero opera vana il divulgare la voce sincera e accorata (sia pur una tra le infinite) di un dolore umano. Ben diversamente dal Monceaux, sentenziava l’ Ebert (2), quando forse la lettera- tura africana del quinto secolo era meno nota e più superficialmente studiata, che si deve escludere l'Africa da quel territorio dell'impero romano nel quale la cultura antica aveva trovato un ottimo asilo. Ma poche pagine prima egli faceva un’osserva- zione acutissima: quella che la lotta combattutasi fra elementi incompatibili nella educazione e il pericolo morale che risultava da questa lotta, avevano prodotto un elevamento straordinario nella vita dell'anima. Di questa nuova forza spirituale che si manifesta nell'opera di Draconzio per i motivi che l’ Ebert adduce ed anche per altri ch'egli tace od esclude, ho cercato di fare l’argomento fondamentale del mio modesto lavoro. (1) Fra le numerose trattazioni generali storico-letterarie riguardanti la vita del mondo romano e cristiano nel periodo che c’interessa, citerò le seguenti: a) Storiche: G. Boissier, La fin du Paga- nisme, Paris, 1891; id., L’Afrique romaine, Paris, 1901; A. Bury, A history of the later Roman Em- pire, London, 1889; S. Diu, Roman Society in the last century of the Western Empire, London, 1906; L. Duc®eswe, Histoire ancienne de VEglise, Paris, 1910-1911; E. Gisson, History of the decline and fall of the Roman Empire (Ed. W. Youngmann), London, 1830; Ta. Honexin, Italy and her Invaders, Oxford, vol. I e II, 1892-1893; D. LecLerco, L’ Afrique chrétienne, Paris, 1904; F. Marrroye, L’Occident à l’époque byzantine: Goths et Vandales, Paris, 1904; F. Ozanaw, La civilisation au V° sièele, Paris, 1862; L. Scamipr, Geschichte der Vandalen, Leipzig, 1901; id., Allgemeine Geschichte der germanischen Vòlker bis zur Mitte des sechsten Jahrhunderts, Minchen, 1909. — 5) Letterarie: 0. BarpeNnHEWER, Patro- logia (Trad. Mercati), Roma, 1903; D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, Firenze, 1896; A. EseRT, Histoire générale de la littérature du M. A. en Occident (Trad.), Paris, 1883-89; M. MawITIUS, Op. cit.; P. MoxnceAUX, Op. cit. (2) V. op. cit., vol. I, p. 380. Serie II. Tox. LXIL 4 26 ETTORE PROVANA 4 La vita del poeta. La scarsità e l'incertezza dei cenni che Draconzio ci dà della sua vita nelle sue opere a noi pervenute e il silenzio quasi assoluto dei contemporanei e dei posteri intorno a lui, hanno condotto da principio gli studiosi all’errore di considerarlo non africano, ma spagnuolo di nascita. L'errore che passò dall’Arevalo (1), il primo editore del poema De laudibus dei e della Satisfactio, breve componimento in verso elegiaco, fino al repertorio dello Chevalier (2) e al Dictionary of Christian Biography di W. Smith e H. Wace (3), derivò molto probabilmente dal fatto che entrambi questi componi- menti ebbero più tardi una parziale rielaborazione per opera di Eugenio di Toledo. Se spagnuolo di origine, doveva esser vissuto quando i Vandali non erano ancora passati dalla Spagna in Africa (4), perchè risulta all’evidenza dai suoi poemi che coi principi Vandali egli ebbe relazioni importanti. Un passo della Satisfactio, nel quale il poeta narra la colpa per la quale fu posto in carcere, ne esprime il motivo con le parole (vv. 21-22): ut qui facta ducum possem narrare meorum nominis Asdingui bella triumphigera..... Egli accenna dunque in plurale ai suoi principi; e ciò indusse a pensare che egli sia vissuto in tempo nel quale i Vandali non erano sotto il dominio di un solo, ossia quando, circa l’anno 425, regnavano sui Vandali Guntario e il fratello Gen- serico, che succedettero insieme al padre Godigisdo. Ma basta osservare che il verso 22 indica che Draconzio si riferisce qui in generale a tutte le vittorie dei principi Vandali e non soltanto a quelle dei regnanti d’allora. Del resto altrove egli allude ad un principe solo: e quindi nessun appoggio trova in questo passo l’ipotesi fantastica ch'egli vivesse nella Baethica appunto quando i Vandali passarono colà dalla Gal- laecia, e che, condotto prigioniero in Africa, sia poi stato liberato e si sia recato in Italia. Non c'è davvero bisogno di una tale ipotesi per spiegare il viaggio com- piuto dai codici di Draconzio fino al monastero di Bobbio, e le imitazioni stesse di S. Colombano: sopratutto perchè se è vero, come dice il redattore dell’articolo su Draconzio nel Dictionary citato, che S. Colombano nella epigrafe dei suoi Carmina (5) lascia intendere ch’egli si giova di “ Vetera dicta ,, noi tutti sappiamo che S. Colom- bano visse alla fine del VI e in principio del VII secolo e non al principio del VI, come (1) L'edizione dell’Arevalo è del 1791; essa seguì la scoperta del codice Vat. Urb. contenente il De laudibus dei, e del Vat. Reg. contenente la Satisfactio. (2) CaevaLier, Répertoire, 2* ed., vol. I, col. 1237. (3) A Dictionary of Christian Biography, edited by W. Smith and H. Wace, vol. I, London, 1877. (4) V. Hydatii Lemici Continuatio Chronicorum Hieronymianorum (M. G. H. Auct. Ant., XI, 1893), ed. Th. Mommsen; ad olymp. 229, a. 419. — Cfr. pure Isidori Historia Vandalorum (M. G. H., vo- lume citato, p. 296). (5) V. Miexe, Patr. Lat., vol. LXXX, col. 285-6: Quae facere meliora nequii, utor pro meis Nam dicta vetera invertere impietas mera est. 5 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 217 asserisce il redattore di quell’articolo. Del resto basta un solo passo (tralasciando î dubbi che possono sorgere dalla subscriptio della Satisfactio e del V° carme minore) per escludere che Draconzio sia vissuto prima dei regni di Unerico, Guntamondo e Trasamondo : ed è quello dove Draconzio ricorda il perdono concesso da Genserico al dotto Vincomalo (1), in grazia della sua eloquenza (Sat. 299 e segg.). Non ha dunque valore alcuno l'affermazione del Dictionary che nulla vi sia nei carmi di Draconzio che contraddica alla sua origine spagnuola e alla sua antica cronologia. Sbarazzato così il terreno da queste vecchie ipotesi, che nessuno s'era mai curato di abbattere con argomenti decisivi, potremo ricostrurre la vita del poeta ex novo, per quanto è possibile, movendo immediatamente da quei dati che il poeta stesso ci offre (2). Se dalle opere del poeta soltanto ci è dato di ricavare notizie biografiche, molto gioverà senza dubbio a fissarne la cronologia e le vicende il fissare contem- poraneamente la cronologia delle opere sue: una cosa non può andare disgiunta dall’altra. Draconzio nacque certamente in Africa; ciò risulta sia dalla subscriptio della Satisfactio: “ Explicit Satisfactio Dracontii ad Guthamundum regem Guanda- “ lorum dum esset in vinculis , (3), sia da quella del carme V° dei cosidetti Ro- mulea: “ Controversia statuae viri fortis quam dixit in Gargilianis thermis Blossius “ Emilius Dracontius vir clarissimus et togatus fori proconsulis almae Carthaginis “ apud proconsulem Pacidegium ,. Dunque Draconzio, se non nacque a Cartagine (cosa difficile ad asserirsi con sicurezza), certo vi passò lungo tempo della sua vita, e fiori al tempo del re Guntamondo, il nipote di Genserico, che regnò sui Vandali dal 484 al 496. Naturalmente egli, vir togatus, esercitò l’avvocatura (4), e ciò si può desumere anche da numerosi altri passi (5): fu una fenice di avvocato, perchè seppe conciliare lo studio del diritto e il culto delle Muse, cosa rarissima in ogni tempo; e noi dobbiamo forse interpretare la frase curiosa e modesta colla quale egli chiama sè stesso “ exiguum inter iura poetam , (6) non tanto come espres- sione di umiltà; quanto giustificazione e scusa di aver scritto poco per colpa delle molte occupazioni professionali. E se molto attinse per la sua poesia alla propria ispirazione e alla propria sventura, tuttavia anch'egli, come tutta la miglior gioventù d’allora, incominciò ad esercitarsi in una scuola di retorica nell’arte delle Muse. Noi conosciamo il suo maestro, il grammatico Feliciano, al quale egli dedica con grande lode e con affettuose parole i carmi II e IV con due brevi prefazioni (carmi I e III) (7). Sono particolarmente notevoli i versi 12-15 del carme I: “ Sancte pater, o magister, taliter canendus es, qui fugatas africanae reddis urbi litteras, barbaris qui Romulidas iungis auditorio, cuius ordines profecto semper obstupescimus. (1) Generalmente è detto Vincemalo, ma ottime ragioni porta il Vollmer nella sua edizione di Draconzio (p. 812) per tale dizione. (2) L'ultima parola a questo proposito ci è fornita dal Vollmer, sia nell’ articolo Dracontius della R. E. del Pauly (2° ediz., a. 1905), sia nella prefazione alla sua edizione di Draconzio. (3) Così pure l’izscriptio della stessa Satisfactio: Incipit Satisfactio Traconi ad Gunthamundum regem. (4) V. FriepLinDER, Sittengeschichte Roms, Leipzig, 8° ediz., 1910, vol. I, p. 329. (5) Cfr. ZLaud. d., 3, 630-654 e segg. (6) Rom., VII, 123. (7) V. le inscriptiones ai carmi I e III, Vollmer, p. 132 e 137. 28 ETTORE PROVANA 6 Draconzio amava il suo maestro, e lo ammirava per aver egli fatto risorgere le lettere in Cartagine non solo, ma per averle persino rese gradite ai barbari. Non era un complimento quello che il poeta romano indirizzava ai terribili dominatori, ed io dubito molto che Draconzio potesse pubblicare questi versi, non certo rispet- tosi verso i Vandali, sia pure sotto il regno di Trasamondo, che si piccava di essere il più valente letterato del suo tempo. Ciò è bene rilevare sin d’ora di fronte all’as- serzione del Vollmer, che il supporre che i Romulea non siano stati pubblicati tutti insieme e nell'ordine a noi tramandato dal codice napoletano sia un “ evertere “ fundamentum artis notitiaeque , (1). Da Feliciano appunto il poeta apprese l’arte del ;erso, ed egli lo riconosce con le magniloquenti parole nel carme III (2), che alludono solamente a carmi di argomento e di spirito pagano. Io non so davvero donde lo Chevalier abbia ricavato la notizia che Draconzio fosse prete, non solo per l’intima indole dell’opera sua, ma anche per accenni espliciti del poeta: così alla fine del. libro 3° del poemetto De laudibus dei, egli dice nell’ultima preghiera che rivolge a Dio (vv. 746-47): sit mihi longa dies felici tramite vitae sit bona vel perpes felix numerosa propago. Così nella Satisfactio lamenta che non egli solo, ma anche i suoi subiscano le dolorose conseguenze della sua colpa (vv. 283-84): ed è troppo naturale che alludendo ai suoi egli voglia alludere alla moglie ed alla prole. Visse da principio, come risulta dalle sue parole (3), una vita tutta felice per materiale benessere e per ambitissimi onori. Nè del resto, se egli non fosse stato personaggio di alto grado, se non avesse avuto un impiego importante presso il proconsole di Cartagine Pacidegio, avrebbe dovuto scontare così duramente e lungamente (4) la colpa imputatagli dal suo sovrano, nè sarebbe sorta l’invidia che l’esagerò ore maligno (VII, 123 e segg.). Dalla condizione altissima ed agiatissima precipitò d'un tratto (5), colpito dall'ira del re, per aver scritto un carme in lode di un principe straniero. Volle taluno che ciò accadesse negli ultimi anni della sua vita (6), ma dai suoi carmi risulta che riuscì poi a riacqui- stare gran parte dell’antica fortuna, che passò lunghi anni in carcere, che liberato da Trasamondo, mentre era stato incarcerato da Guntamondo, compose per lo meno ancora un carme in onore di lui (7), e un epitalamio (Rom. VI); del resto la Satisfuetio stessa fu scritta dopo lungo tempo di pena (8), e d’altro lato il poeta stesso negli ultimi versi del De laudibus dei chiede al suo Dio la grazia di esser virtuoso fino alla vecchiaia (3, 724: “ sit virtus usque senectam ,), e di condurre ancora lungamente un vita felice (“ sit mihi longa dies felici tramite vitae ,). Nè d’altra parte poteva (1) Vollmer, p. V. (2) Versi 16 e segg. (3) Lo si sente nei lamenti che gli vengono sul labbro al pensiero di quanto egli ha perduto e ancora va man mano perdendo. Cfr. L. d., 3, 600-601, 605 e segg.; 724, ece. — Pare per sua stessa confessione che la sua fortuna non fosse dovuta tutta ai mezzi più onesti; cfr. 3, 654 e segg. (4) Cfr. L. Scamipr, Geschichte der Wandalen, Leipzig, 1901, p. 184-185. (5) V. 3, 653: me miserum! quanto ceeidi de culmine lapsus. (6) V. F. Banr, Geschichte der Ròmischen Literatur, vol. IV, p. 34. (7) V. B. Corro, L’Historia di Milano (edit. Paolo Frambetto), Padova, 1646. (8) V. 120: tempore tam longo non decet ira pium. 7 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 29 essere giovane ancora egli, padre di numerosa prole, avvocato di grido, salito già ad un’alta condizione sociale. Quale fu la sua colpa? Il Manitius (1) crede che essa si possa ritenere un de- litto di tradimento ; colpa gravissima tanto più in chi copriva, come Draconzio, una carica pubblica. Sotto un qualsiasi governo un delitto di tal genere sarebbe punito colla massima pena; da un re vandalo, sia pure relativamente buono e mite come Guntamondo, colla morte. La gravità eccezionale della colpa di Dra- conzio fu desunta dal verso 94 della Satisfactio: “ ignotumque mihi scribere vel dominum ,, interpretato erroneamente, mi pare, da tutti nel senso che Draconzio abbia realmente celebrato quale suo signore un principe straniero. Nel verso 94 il vel posto dal Sirmond, accettato dall’Arevalo, e ultimamente anche dal Vollmer, fu cor- retto in nec dal De Duhn (2); il quale a torto immagina che sia caduto un nome proprio, o un ceu, perchè dappertutto Draconzio evita di proferire quel nome, ben sapendo che non si ode mai di buon animo il nome di persona che ci fu preferita e che si ebbe le lodi da noi ambite. A me pare che stia benissimo il vel, ma che non gli si debba dare il significato di quasi o di quale: i versi 93 e 94 si possono tradurre benissimo : “ La mia colpa era stata quella di aver taciuto le lodi di principi miti e di aver cantato addirittura un principe a me ignoto , (3). Il vel quasi dapper- tutto nei versi di Draconzio non ha se non il significato di et, se mai con una leggiera forza intensiva. Ma qui appare evidente il chiasmo (figura molto amata da Draconzio) di dominos... modestos con ignotum... dominum, e quindi non si deve considerare dominum come attributo di ignotum, ma come sostantivo : in sostanza il significato di vel è qui come altrove quello di persino, addirittura (4). È vero che subito dopo Draconzio chiarisce l’indole della sua colpa per via d’un paragone (5): egli si para- gona a coloro che pur conoscendo il vero Dio “ idola vana colunt ,, come fece il popolo ebreo quando “ deum oblitus flans vitulum coluit ,. È senza dubbio un con- fronto impressionante, che indurrebbe realmente a credere che Draconzio abbia cantato quale suo signore un principe straniero. Nè può trattarsi di un principe vandalo, che Draconzio non conobbe, e che era in odio a Guntamondo, come fu da altri sup- posto; lo escludono chiaramente i versi 21-26 della stessa Satisfactio: ut qui facta ducum possem narrare meorum nominis Asdingui bella triumphigera, unde mihi merces posset cum laude salutis munere regnantis magna venire simul, praemia despicerem tacitis tot regibus almis, ut peterem subito certa pericla miser (6). (1) V. op. cit., p. 327. Veramente il Manitius non dice che tale fosse in realtà la colpa di Dra- conzio, ma che come tale la considerò Guntamondo; il che per la nostra discussione è tutt'uno. (2) Dracontii Carmina Minora plurima inedita ex codice Neapolitano, ed. Fridericus De Duhn, Lipsia, 1873. — Veramente il Von Duhn toglie il rec dal rimaneggiamento di Eugenio di Toledo, ma (lo vedremo meglio parlando di proposito di tale rimaneggiamento) la correzione di Eugenio derivò dal fatto che egli non comprese bene il testo di Draconzio. — L'edizione del Sirmond è nella redazione di Eugenio. (3) Quale altro esempio in Draconzio di vel che occupa nel verso posizione analoga ed ha ana- logo significato, V. L. d., 1, 559: mors mundanorum requies vel certa laborum. (4) Cfr. VI, 36; VIII, 77 e altrove. (5) Versi 95-98. (6) Cfr. anche VII, 70: Sut.,, 44. 30 ETTORE PROVANA 8 Ma forse il poeta ha scelto qui male egli stesso i suoi confronti (cosa che è del resto frequente in lui) (1), perchè, come si rileva dai passi citati, ciò che gli era anzitutto ascritto a colpa, era di non aver cantato le glorie degli Asdingi; d'altra parte nel confronto stesso che egli fa cogli Israeliti, il più specifico ed il più grave, non dice che abbiano rinnegato il vero Dio, ma che lo hanno dimenticato. In sostanza egli aveva più che altro suscitato l’invidia di Guntamondo, al quale nella stessa Sazisfactio ricorda, per solleticarne l’orgoglio, i trionfi sulla terra e sul mare (vv. 213-214). Ma v'è un argomento assai forte per ritenere che la colpa di Draconzio non fosse tanto grave. Ce l’offre l'Epithalamium Joannis et Vitulae (2) dov’egli prega, a quanto pare, i potenti amici a intercedere per lui, dicendo che la sua colpa non è stata tanto grave, nè tanto grande da principio l'ira del re, ma che fu l’opera di persona maligna quella che lo spinse alla crudeltà. Sarebbe impossibile che Draconzio potesse affermare tutto questo, se davvero avesse celebrato quale suc signore un principe straniero, e già l'avesse riconosciuto egli stesso. Se nella Satisfactio, dove pure avrebbe dovuto cercar di attenuare la gravità della sua colpa, l’afferma invece candidamente e crudamente, altri motivi lo dovevano consigliare: forse il suo scopo era quello di magnificare la bontà e la mitezza del principe e di commoverlo; ma certamente era pur quello di scongiurare un grave, imminente pericolo, di fronte al quale dissimulare o attenuare la colpa poteva nuocergii piuttosto che giovargli. Nessun critico s'è accorto finora di questo speciale significato della Satisfactio, e della luce che ne può derivare sui suoi rapporti cronologici col De laudibus dei. Ma converrà forse porci prima la domanda: a quale principe straniero rivolse Draconzio le sue lodi? La risposta è già stata data dal Vollmer, e io sono per questo lato pienamente d’accordo con lui nel ritenere che si tratti dell’imperatore d’ Oriente Zenone, che regnò dal 474 al 491 (3), sia perchè l’imperatore rappresentava natural- mente allora la romanità ed il cattolicismo, sia perchè Zenone si adoperò per otte- nere la pacificazione religiosa nel suo impero e per aiutare come poteva i cattolici soggetti ai barbari. Era infatti l'abitudine dei cattolici sottomessi ai Vandali e da essi vessati, di ricorrere all’aiuto degli imperatori bizantini: lo dimostra chiaramente il testo di un giuramento che il predecessore di Guntamondo, il re Unerico, imponeva al clero cattolico per assicurarsene la fedeltà verso il figlio Ilderico (4). Del resto tanto fugace è l’accenno di Draconzio a questo principe, e tale è la mancanza di ogni determinazione precisa dei suoi intendimenti e dei suoi motivi, che siamo costretti (1) Ad es. nella stessa Satisfactio il confronto di Stefano con una serie di tiranni (V. 171 e segg.). (2) VII, 127-131: non male peccavi nec rex iratus inique est, sed mala mens hominis quae detulit ore maligno et male suggessit tunc et mea facta gravavit. poscere quem veniam decuit, male suscitat iras et dominum regemque pium saevire coegit. (3) V. Cassiodori Chronica (M. G. H. Auct. Ant., XI, 1894, ed. Mommsen), p. 158-159; J. B. Burr A History of the later Roman Empire, vol. I, p. 250-260. (4) V. Victoris Vitensis Historia persecutionis africanae provinciae (Corp. Script. Eccles. Lat., VII, ed. Petschenig), I, 51; III, 19; L. Scam, G. d. Wandalen, p. 203; F. GoòrrEs, Kirche und Staat im Vandalenreich, in Deutsche Zeitschrift fiir Geschichiswissenschaft, vol. X (1893), p. 14. 9 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 21 a sorvolare affatto su tale questione. Il silenzio di Draconzio è spiegabilissimo: o i motivi erano troppo gravi e inconfessabili, oppure (e questo è più probabile) non valevano affatto a giustificare la mancanza di riguardo verso la casa regnante. È tuttavia da deplorare che rimanga così oscura una questione, la cui soluzione gette- rebbe tanta luce sui rapporti dei cattolici di quel tempo con l’impero. Noi abbiamo invece il “ terminus ante quem , per fissare la data della composizione della Satisfactio nell’accenno dell’elegia alle vittorie di Guntamondo su Ansila e sui Mori. Quanto a questi ultimi si sa non soltanto da Draconzio, ma anche dalla Vita Fulgentii (cap. 9) (1), che sotto il suo regno essi cominciarono a fare delle scorrerie entro i confini della Byzacena e obbligarono molti abitanti alla fuga in luogo più sicuro. Se anche è un po’ esagerata la lode di Draconzio: “ Maurus ubique iacet , (2), e Guntamondo non riuscì a vincere definitivamente i Mauri, certo riuscì a ricacciarli nelle loro sedi, oltre i confini. Questo avvenne forse ad intervalli: certo in tempo non ben deter- minato: un'iscrizione scoperta nella Mauritania Caesarensis e datata coll’anno 495 (3), prova che ancora in quel tempo i Mauri guerreggiavano coi Vandali. Giustamente però rilevò lo Schmidt che il cambiamento di politica verificatosi sotto Guntamondo in favore dei cattolici nel decimo anno del suo regno, potè essere stato determinato almeno in parte dal fatto che il re aveva bisogno del loro appoggio per combattere vi Mauri, perchè non si può davvero pensare ad un intervento in loro favore dell’im- peratore Anastasio I, che aveva ben altre preoccupazioni a casa sua (4). Quanto ad Ansila, si sa che Guntamondo tentò di approfittare della lotta di Odoacre e Teodorico in Italia per occupare la Sicilia; ma il tentativo non riuscì; anzi Guntamondo fu costretto non solo a desistere dalle devastazioni nell’isola, ma anche a rinunziare al tributo che essa fino a quel tempo pagava, e questo avvenne, secondo il racconto di Cassiodoro, l’anno 491 (5). Prima di quest'anno adunque le truppe di Guntamondo ottennero quel piccolo successo sopra un Ansila, luogotenente (per ragione crono- logica) di Odoacre, non, come vuole il Vollmer, di Teodorico; anzi prima di tale anno fu composta la Satisfactio, perchè altrimenti Draconzio non ricorderebbe certo al re un effimero trionfo, seguìto da una grave sconfitta. Nè d'altra parte potè la Satisfaciio essere stata composta appena il poeta fu posto in carcere o poco dopo. Non solo con le parole già citate (v. 120): “ tempore tam longo non decet ira pium ,, egli accenna alla sua colpa come a cosa lontana, e più oltre dice ancora (v. 312): “ pristina sufficiant verbera, vincla, fames ,, ma tutta quanta l’elegia non appare un grido di dolore strappato al poeta dalla punizione recentemente inflitta, nè un tentativo di difesa, nè una riparazione. Vi traspare piuttosto, ed io richiamo l’atten- zione su questo punto al quale sinora nessuno ha badato, la preoccupazione di scon- giurare un male più grave di cui si legge tra le righe la minaccia: si direbbe che (1) V. Miexe, Patr. Lat., LXV, col. 117. (2) Sat., 214. (3) Cfr. Scammr, Gesch. der Wandalen, p. 112-114; Herx, Rhein. Mus., LIV (1899), p. 126 seg. (4) Cfr. Bury, op. cit., vol. I, p. 290-303; R. KrumsacHer, Geschichte der Byzantinischen Litteratur (23 ediz.), Minchen, 1897, p. 920 segg. (5) V. Cassiodori Chronica (ediz. citata), p. 159; Cfr. pure Ennodii Panegyricus dictus Theoderico (M. G. H. Auct. Ant., VII, 1885, ed. Vogel, p. 211), XIII, 70; Ta. Hopexix, Italy and her Invaders, vol. III, Oxford, 1894, p. 218 segg. 32 ETTORE PROVANA 10 il poeta tema la morte o qualche forte aggravamento di pena. Dopo di aver con- fessato la gravità della sua colpa, dopo di aver detto: “ ast ego peccando regi “ dominoque deoque peior sum factus deteriorque cane , (vv. 41-42), aggiunge: “ Iddio comanda e comanderà al mio signore ut me restituat respiciatque pius, servet avi ut laudes dicam patriasque suasque perque suas proles regia vota canam. E qui sorge naturale la domanda: non poteva Draconzio celebrare anche in carcere le lodi del suo sovrano ? non era anzi questo il modo migliore di meritarne il perdono? perchè mai dice: “ servet avi ut laudes dicam , ?. Più innanzi il poeta ricorda al re la sua mitezza, e si paragona in certo modo al nemico prigioniero, insistendo sopratutto sul fatto che questi ha sempre in grazia la vita (1); solo il ribelle incontra la morte: “ captivus securus agit ,, egli dice; “ nessuno cada per ordine tuo di morte sanguinosa; sa che vivrà chiunque vorrà essere tuo ,. E adduce l'esempio del leone che non infierisce più se il cacciatore desiste dalle insidie; e così via via l’idea dominante è sempre quella che a chi si sottomette e confessa la propria colpa è perdonata Ja vita. È vero che in seguito cogli esempi di Cesare, di Augusto, di Tito, viene a parlare di un perdono ancora più magnanimo e generoso ; ma poi ritorna alla primitiva idea, attribuendo i trionfi del re ad un premio di Dio, per non voler egli macchiarsi di sangue (v. 211: “te deus aspiciens effundere nolle “ cruorem ,). E dopo la lunga divagazione sul tempo, dopo il ragionamento abba- stanza strano, che la colpa deve servire a palesare la magnanimità di chi la perdona, dopo aver ricordato al re le belle parole della Scrittura (2): “ etsi peccavi sum tamen “ ipse tuus ,, finisce con un paragone che allude se non proprio alla pena di morte, certo ad una punizione molto grave (vv. 313-316): 3 sessorem dum carpit iter si cornua pulsans ungula concutiat quadrupedantis equi, vertere corrigitur culpa plectente flagello: non simul abscisi crura pedesque iacent. Dunque il poeta è disposto ad accettare una pena, ma non troppo grave, non irrimediabile. Del resto anche altrove noi troviamo accenni a questo pericolo, più grave certo della prigionia, che minacciò per un certo tempo Draconzio: nell’ Epi- thalamium Joannis et Vitulae lagnandosi di essere stato abbandonato dice (vv. 125-26): Quid prodest servasse hominem post tanta pericla et clausum liquisse diu sub clade salutis? e accusa un maligno di aver aggravata la sua colpa (vv. 130-31): Poscere quem veniam decuit, male suscitat iras — et dominum regemque pium saevire coegit. Quindi, mentre qualche maligno invidioso aveva aggravato agli occhi del re la colpa del poeta, Giovanni e Vitula l'avevano salvato “ post tanta pericla ,. L’ina- (1) Versi 125 segg. (2) Sapient., 15, 2: Etenim si peccaverimus, tui sumus, scientes magnitudinem tuam: et si non peccaverimus, scimus quoniam apud te sumus computati. 11 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 09 sprimento dell’ira del principe contro di lui derivò forse da un’interpretazione più grave ch'egli diede, per istigazione altrui, al carme di Draconzio; forse anche da mutate disposizioni d’animo verso i cattolici: cose passeggiere delle quali non pos- siamo più ora darci conto, ma che pure possiamo supporre pensando all’instabilità del carattere di Guntamondo. Altrimenti quale movente potrebbe avere la Satisfuctio ? Non quello di ottenere il perdono non appena, o poco dopo inflitto il castigo, perchè il testo dell’elegia, come vedemmo, lo esclude. D'altra parte Draconzio, mite e pie- ghevole assai più del suo signore, non avrebbe certamente atteso tanto ad implorarne il perdono, sapendo che una poesiola poteva procurarglielo, o mitigarne l’ira. Se però la nuova ipotesi che noi abbiamo fatto giova a spiegare la composizione della Satisfactio, e ad illuminarne il significato, non serve d’altra parte affatto a stabilire se essa sia anteriore o posteriore al De laudibus dei. A proposito di tale questione ha forse ragione l'Ebert (1), quando afferma che è impossibile formarsi un’opinione che non sia affatto personale. La difficoltà aumenta, se noi consideriamo attentamente alcuni indizi interni, che hanno forse maggior valore di ogni altro. Sia nella Satis- factio, sia nel De laudibus dei troviamo descritta la triste condizione del poeta e talora anche quella dei suoi cari. Nella .Satisfaczio si sente l’eco di uno stato più doloroso non tanto del poeta stesso, quanto della sua famiglia (vv. 282-284): ecce etiam insontes noxia poena petit. Si ipse peccavi, quaenam est, rogo, culpa meorum, quos simul exagitat frigus inopsque fames? Nel De laudibus dei invece dice di essere “ exutus magna de parte bonorum ,, e si lamenta dell'abbandono non solo dei servi, dei clienti, degli amici, ma persino dei parenti più prossimi. Ma d'altra parte non v'è nella Satisfactio quella dispera- zione, quella stanchezza profonda che traspare dal terzo libro del De laudibus dei ; notevolissimo anzi è il verso 643: “ ergo, deus, miserere mei; iam te rogo solum ,. Si può pensare, è vero, che non soltanto al re colla Sazisfactio, ma anche a potenti amici Draconzio si sia rivolto per la sua liberazione (2), ma è difficile che il poeta, scrivendo: “ iam te rogo solum ,, non pensasse al suo principe, al quale aveva pure rivolto una preghiera. In conclusione io ritengo che vi sia qualche indizio migliore per stabilire la precedenza della Satisfactio sul De laudibus dei, pur ammettendo che una parola decisiva non si può dire. Esaminerò ora in breve gli altri argomenti addotti dall’Ebert, dal Lohmeyer, dal Vollmer (3). non tanto per trarne conclusioni cronologiche, quanto per fare alcune considerazioni d’indole letteraria. Metto anzitutto assolutamente da parte l'argomento, caro al Barwinski (4), dell’imitazione più o meno grande di autori precedenti, nel senso che l'imitazione significhi priorità sull’ispirazione, legge questa quasi generale, quando l'ispirazione si sostituisca in tutto o in parte all’imitazione — e tale non è (1) A. Esser, op. cit., vol. I, pag. 408 segg. (2) L’Epithalamium Joannis et Vitulae stesso lo prova. (3) C. Lonmever, De Dracontii carminum ordine (Schedae Philol. Herm. Usener oblatae, Bonn, 1891, p. 60-75). i (4) B. Barwixsas, Quaestiones ad Dracontium et Orestis tragoediam pertinentes: I. De genere di- cendi, diss., Gottingen, 1887, p. 10. Segre II, Tox. LXII. 5 (SO) 4 ETTORE PROVANA 12 davvero il caso di Draconzio —; e neppure nel senso opposto. Cercheremo a suo luogo di studiare un po’ meglio il fenomeno; ma non certo per trarne deduzioni di questo genere, anzi piuttosto per distruggerle. A proposito dei carmi cristiani pos- siamo osservare soltanto che un tale criterio può valere meno che mai, per il fatto “ verbera, che non si può pensare davvero che il poeta in carcere, dove soffriva vincla, fames ,, avesse a sua disposizione una biblioteca e potesse dalle letture trarre nuovi elementi d’imitazione. Poteva bensì Draconzio conservare anche in carcere le innumerevoli reminiscenze delle letture fatte nella scuola e fuori, ma allora io non vedo il perchè egli debba essersene giovato piuttosto in un dato momento della sua attività letteraria, o piuttosto in un dato componimento che nell’altro. L'Ebert crede che la Satisfactio sia anteriore al De laudibus dei, perchè tratta press’a poco lo stesso argomento, e si può aggiungere che lo tratta con le stesse idee fondamentali e ad- ducendo quasi gli stessi esempi (1): ora l’Ebert ritiene che sia più naturale il sup- porre che il poeta abbia sviluppato in un carme maggiore le idee appena accennate nel minore. Il Lohmeyer invece pensa tutto il contrario, ed asserisce che è appunto l'abitudine di Draconzio quella di ripetere idee e cose già espresse; e per spiegare la strana e certo assai sconnessa composizione della Satisfactio si appella al facile e da tutti citato giudizio del Teuffel (2), che la Satisfactio appare lavoro buttato giù alquanto in fretta. Sono tutte cose verissime, ma che non conducono a nessuna con- clusione. Sarebbe veramente cosa meno strana sviluppare più ampiamente idee con- tenute in germe in altro componimento, che non da un’opera maggiore fare un tale transunto senza scopo e senza sugo. Importa invece più di tutto lo scoprire tale scopo, e con esso motivare l’opera nuova: questo io ho cercato di fare pocanzi, os- servando che appunto da questo particolare intento derivava il colorito della Satîs- factio assolutamente nuovo e diverso da quello del De laudibus dei. Se il poema minore è composto tanto in furia, ciò dipende dall’imminenza del pericolo; e sotto questo punto di vista parrebbe invece più naturale che il poeta si servisse di idee e di immagini già espresse, piuttosto che cercare del nuovo. La stessa lunga divaga- zione che per quasi cinquanta versi (219-264) parafrasa ed esemplifica le parole : “omnia tempus agit, cum tempore cuncta trahuntur, tempora sunt vitae tempora mortis eunt ,, sarebbe pienamente ingiustificabile se non si ponesse mente al pensiero che domina in tutta la poesia: quello d’inculcare l'orrore per una fine violenta ed immatura (3). E non ha valore neppure l’altro argomento dell’Ebert che nel De Zau- (1) Cfr. Sat., 7-9, L. d., 2, 595; Sat., 81, L. d., 8, 718 (donde risulta però che l’esempio è molto più svolto nella Satisfactio che nel De laudibus dei); Sat., 39, L. d., 2,616; Sat., 57, L. d., 1, 292 segg.; Sat., 67, L. d., 2. 282; Sat., 99, L. d., 2, 565; Sat., 102, L. d., 1, 29; Sat., 171, L. d., 2,582; Sat., 235, L. d., 1, 733 segg.; Sat., 307, L. d., 3, 617. (2) TeurreL-ScawaBe, Geschichte der ròmischen Literatur (5° ed.), Leipzig, 1890, p. 1220-1225. (3) Sono d’accordo col Vollmer nel ritenere che questa “ de tempore sat molesta declamatio , non riesca alla conclusione: “ a tempo opportuno cadrà anche la tua ira ,; conclusione non troppo consolante per Draconzio stesso; ma trovo molto artificiosa la spiegazione che il Vollmer ne dà (p. 128, in nota). I versi 211-219 non possono secondo me interpretarsi che nel seguente modo, che è anche il più ovvio e il più naturale: “ Iddio vedendo che tu non volevi spargere sangue, affinchè tu ne avessi lode .senza colpa, ti concedette, benchè assente, trionfi sulla terra e sul mare... Che periscano i nemici, è ritenuta una fortuna del re, che la gente perisca, dipende dall'ordine del 13 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 95 dibus dei il poeta arriva sino alla minaccia, mentre nella Satisfactio prega ed implora soltanto. Difficilissimo è il determinare in un caso simile se sia più probabile il passaggio dall’abbattimento all’irritazione e alla minaccia, o il passaggio opposto; e non è vero del resto che dalla Satisfactio sia esclusa ogni forma di minaccia. Basta leggere i versi 123-24 : puniat ut sit quod Christus, tu parcis iniquis, vindice quo regnas, quo vigilante viges. Si pensi ancora che il poeta ha nel De laudibus dei molta più libertà di parola, rivolgendosi non al suo sovrano direttamente, ma a Dio stesso, che anche il suo persecutore riconosce ed adora. Ma se una certa maggior libertà si deve ammettere in questo caso, riesce assai difficile a spiegare come il poeta, incarcerato per un carme in lode di un principe cattolico, forse appunto perchè tale, abbia osato proprio mentre sperava e forse indirettamente chiedeva la liberazione, scagliarsi violente- mente contro la fede religiosa del suo sovrano (2, 98 e segg.), fino a chiamare Ario “ insipiens, omnis rationis egenus ,. È vero che altri cattolici di quel tempo pubbli- carono opere apologetiche ed aggressive; basti l’esempio di Vittore di Vita, che compose circa il 486 la già citata Historia persecutionis africanae provinciae tempo- ribus Geiserici et Hunirici regum Vandalorum (1), nella quale dipinge a vivissimi colori le crudeltà di quei due principi, sul conto dei quali non risparmia acri giu- dizi. Ma occorre osservare che Vittore, il quale pubblicò la sua opera non più tardi del 489 (2), scrisse sotto il regno di Guntamondo, avversissimo alla casa dello zio Unerico, alle cui persecuzioni aveva dovuto sottrarsi colla fuga, insieme col fratello suo primogenito Godagis, che era appunto morto in esilio. Da principio sappiamo che anche Guntamondo perseguitò i cattolici (8), ma presto mutò a loro riguardo in meglio richiamando parte del clero e dei vescovi esiliati da Unerico. Può darsi però che la pubblicazione dell’opera di Vittore non sia avvenuta in Africa (Vittore di Vita compare tra i vescovi africani nel sinodo romano del 487 o 488), e che Vittore vi sia ritornato soltanto nel 494, quando Guntamondo richiamò ancora dal- l'esilio molti che vi erano rimasti, e, secondo lo Schmidt (4), sopratutto vescovi. Ad ogni modo, le tendenze di Guntamondo verso i cattolici erano tutt’altro che costanti; tant'è vero che verso la fine, spinto dalle rimostranze del clero ariano, pare che sia ritornato ad una politica ostile. Affatto particolare era poi il caso di Draconzio, che, trovandosi in disgrazia, doveva evitare qualunque cosa che offrisse pretesto ad un tempo; poichè se fosse la debolezza quella che allontana la morte, non potrebbero cadere i fan- ciulli e le donne. Invece è il tempo quello che opera ogni cosa, insieme col tempo tutte le cose sono trascinate ,. Evidentemente qui il poeta contrappone la morte dei nemici, che ridonda a gloria del re, a quella dei cittadini, che deve dipendere dall’arbitrio del tempo. (1) V. BarpenzEWER, op. cit., vol. III, p. 111-112. Confronta l’enumerazione di tali opere pole- miche (non molto numerose del resto) in D. H. LecLerco, L’Afrique Chrétienne, vol. II, p. 153-154, in nota; cfr. anche ScamIpr, op. cit., p. 198. (2) V. Herzoc, Realencyklopidie fim protestantische Theologie und Kirche, art. Victor von Vita, vol. XX, p. 612-613. (3) Cfr. Vict. Vit., I, 1; III, 64 segg. (4) Op. cit., p. 113. Cfr. Latereulus regum Vandalorum et Alanorum (M. G. H. Auct. Ant., XII: Chron. min., ed. Mommsen, p. 456), parag. 9 e 10. 36 ETTORE PROVANA 14 prolungamento od aggravamento della pena. Se noi pensiamo che il successore di Guntamondo, Trasamondo, seguì una politica molto meno ostile ai cattolici, e che anzi Fulgenzio di Ruspe potè liberamente discutere con lui attorno ai punti di diver- genza fra Cattolici ed Ariani, si potrebbe piuttosto pensare che Draconzio abbia scritto il De laudibus dei non soltanto dopo la Satisfactio, ma in tempo molto poste- riore sotto il regno di Trasamondo: e tale opinione sarebbe confermata dal fatto che Draconzio fu liberato da Trasamondo, ed a lui diresse quel carme panegirico al quale abbiamo già accennato. Nè a ciò si oppone l’Epithalemium Joannis et Vitulae, il quale è certamente scritto ancora sotto il regno di Guntamondo, ch'egli chiama con lo stesso appellativo della Satisfactio “ dominum regemque pium , (v. 131) (1); ma nulla induce a credere che Draconzio sapesse allora già prossima la sua libera- zione, come vogliono il Lohmeyer e il Vollmer. Non hanno certamente tale significato i versi 134-136: at cum liber ero domino ignoscente reductus, dum tacet os vestrum nec nos sermone iuvatis, nomina vestra reor praeconia nulla manebunt, i quali del resto potrebbero anche esprimere una speranza mal fondata. Mi pare piuttosto che non così acerbamente si lagnerebbe il poeta dell'abbandono in cui è lasciato, in un componimento di carattere giulivo, e verso di chi aveva fatto tanto per lui. Anzi i paragoni del soldato che al suono della tromba risente il desiderio della guerra, del cavallo che anela di nuovo alla corsa “ hinnitus si forte sonent strepitusque rotarum ,, dell’uccello che, preso nel laccio, “ silet intus habens captiva dolorem, libertatis amans auras nemorumque cacumen ,, e al gorgheggio degli altri uccelli “ ingenuos dat capta sonos quasi libera, vernans — ut credatur avis ramo ceci- nisse virenti ,, tali paragoni, dico, non alludono certo ad una condizione migliorata, e illuminata da ragionevoli speranze. Però questa ipotesi di una redazione tardissima del De laudibus dei è non solo infirmata dalle considerazioni già fatte più innanzi, ma anche è resa superflua dall’osservazione che i tre libri poterono essere, se non pubblicati, composti anche integralmente prima della Satisfactio e prima dell'avvento al trono di Trasamondo; in particolare poi il libro primo che uon contiene nuila contro l’arianesimo. Troviamo infatti un indizio della pubblicazione separata dei due poemetti nel fatto che essi ci sono giunti in codici separati. In sostanza se la discus- sione intorno al rapporto cronologico tra la Satisfactio e il De laudibus dei ci ha condotto a importanti rilievi intorno all’opera letteraria e intorno alle vicende del nostro poeta, non ci può condurre ad una risoluzione definitiva, risoluzione che del resto importa poco, dopo l’esame compiuto di tuttii lati interessanti della questione. Resta a dire alcune cose sull’ordine di composizione e di pubblicazione di quei carmi minori di Draconzio, ai quali non abbiamo ancora sotto questo rispetto accen- nato: mi limiterò a brevi osservazioni, rimettendomi nella sostanza allo studio citato di Carlo Lohmeyer. È evidente che i carmi I-IV appartengono alla giovinezza del (1) Cfr. Sat., vv. 191-193: ne facias populum mendacem, qui tibi clamat vocibus innumeris “rex dominusque pius ,. 15 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 87 poeta, perchè, come abbiamo veduto, il primo e il terzo (che non sono se non la pre- fazione al secondo e al quarto) sono rivolti dal poeta al grammatico Feliciano come all'attuale suo maestro. Inoltre il contenuto dei carmi II e IV ha tutta l'apparenza di quelle esercitazioni scolastiche che si facevano dai giovani d’allora, benchè noi vedremo a suo luogo come essi non siano tutta retorica, com'è stato detto e soste- nuto da tutti. Sono essi regolarmente incorniciati in una serie continua di înserip- tiones e subscriptiones, onde è lecito supporre che siano stati pubblicati insieme, e certamente prima della prigionia, perchè, come già abbiamo incidentalmente osser- vato, il poeta non avrebbe più potuto sotto il regno di Trasamondo pubblicare, senza urtare le suscettibilità vandale, le parole che rivolge al maestro (1). Prima della prigionia pubblicò la Controversia de statua viri fortis, ossia il carme V dei Romulea ; ce lo dice la subscriptio, dalla quale risulta che tale declamazione egli recitò in pub- blico, quando già godeva rinomanza e copriva un alto impiego (2). Se si possa rite- nere che anche il carme V sia stato pubblicato insieme coi primi quattro, come vuole il Lohmeyer, non so, perchè certamente dobbiamo collocare un intervallo di tempo non indifferente tra le prime esercitazioni giovanili, e questa prova oratoria molto posteriore; e non si possono spiegare i carmi I e IIl se non come composti in occa- sione dell'edizione dei carmi II e IV. È a parer mio affatto insostenibile che la raccolta dei carmi minori, quale ci è conservata nel codice napoletano, derivi direttamente da Draconzio: è quasi certo, ad esempio, che l’Orestis tragoedia doveva essere uno dei carmi intitolati Romulea, per la sua grande somiglianza col De raptu Helenae e con la Medea; ma il fatto che essa ci giunse in codici separati, il fatto che nell’attuale raccolta dei Romulea man- cano alcune poesie (De mensibus e De origine rosarum) edite nel secolo XVI da Bernardino Corio (3), e così pure un frammento inserito nel F/orilegium Veronense (4) sotto l'indicazione “ Bloxus in Romulea ,, il fatto che non c’è nell’attuale raccolta alcun ordine nè cronologico, nè logico (l’accostamento logico fatto dal Lohmeyer fra il carme VII e il IX in base ad una relazione di causa ed effetto, non mi pare felice), credo che dimostrino all'evidenza, contro l’opinione del Vollmer, che è affatto im- probabile che la raccolta dei Romulea, quali ci sono pervenuti, risalga a Draconzio stesso. E l'ipotesi del Vollmer che l’antica raccolta fosse divisa in quattro parti, in seguito alle nostre precedenti considerazioni, mi pare insostenibile. Il meglio è forse rinunciare a far la storia della collezione di queste poesie minori, accontentandoci, come del resto fa ottimamente il Vollmer, di raccogliere ciò che ci è pervenuto così frammentario e sparso. Nulla poi ci dà il diritto di supporre che il carme rivolto al principe straniero potesse essere unito ai Fomulea piuttosto che separato, o associato ai carmi cristiani, perchè dovette essere d’indole letterariamente affatto diversa da (1) V. I, vv. 13-14. (2) Explicit Controversia statuae viri fortis quam dixit in Gargilianis thermis Blossius Emilius Dracontius vir clarissimus et togatus fori proconsulis almae Chartaginis apud proconsulem Pacidegium. (3) V. Historia di Milano, Venezia, 1554, p. 18. — Nell’ediz. citata del Frambotto (Padova, 1646) si trova a pag. 25. (4) Questo Florilegium Veronense è stato consultato direttamente dal Vollmer a Verona. V. ediz. di Drac., p. xx. { S ETTORE PROVANA 16 (3) quella degli altri Romulea (1), e specialmente perchè, essendo rivolto all'imperatore d'Oriente, è assai probabile che fosse di contenuto cristiano piuttosto che pagano. Interessante a determinarsi sarebbe la cronologia dei carmi VIII, IX e X (2). Il IX è per l'indole dell'argomento molto simile al IV, e questo può far pensare che sia pur esso un carme di gioventù; ma bisogna osservare che con tali gingilli letterarii si trastullavano allora uomini di ogni età e di ogni condizione. Molta luce su tale questione potrebbe gettare la ricerca linguistica, stilistica ed estetica del carme in rapporto con la rimanente produzione letteraria di Draconzio. Il Lohmeyer asserisce a questo proposito che la musa giovanile di Draconzio differisce in più cose dai carmi dell’età più adulta; per quanto possa sembrare un paradosso, io non credo affatto che ciò sia vero, o per lo meno che lo si possa esattamente verificare. Bi- sognerebbe anzitutto sapere con certezza quali siano i carmi giovanili di Draconzio, per non cadere in un circolo vizioso, in secondo luogo bisognerebbe riscontrare una profonda differenza fra i carmi che sono certamente dell’età più matura (il V ei due epitalamii) ed i rimanenti: e questo non è assolutamente. A me pare anzi che sia, ad esempio, molto più ricco di spunti originali e vivi di fantasia e di sentimento il carme II che non il V. Esamineremo in seguito il valore estetico dell’opera di Draconzio, ma possiamo dire fin d’ora che, se è innegabile la superiorità dell’espres- sione e dell’arte nei carmi cristiani e nell’epitalamio di Giovanni e Vitula, ciò dipende più che altro dalla nota personale che predomina sul resto, e assai meno da una maggiore maturità di studi, da una più profonda conoscenza di classici, dall’imita- zione più o meno spiccata o più o meno dissimulata, e nemmeno da una maggiore perfezione linguistica (3). Sono senza dubbio fenomeni interessanti anche questi, ma noi cercheremo di considerarli sotto un aspetto diverso e, noi crediamo, più vero di quanto non sia stato fatto finora; sopratutto dovremo discernerli ed eliminarli da ciò che veramente costituisce il poeta. L’infelice poeta che ritrovò sè stesso non nella scuola e sui libri, ma nella solitudine e nei dolori del carcere, e nell’amarezza dell'abbandono ; che non immaginò certo la fastidiosa anatomia dell’opera sua, quando il suo verso, non più studiata riesumazione di reminiscenze stantìe, gli sgorgò limpido dal cuore; e pianse tanto, a lungo, come un fanciullo. (1) Nessuno dei Romulea infatti ha carattere panegirico. (2) Quanto ai carmi VII e X, e quanto alla loro composizione hanno senza dubbio valore le osservazioni del Lohmeyer; ed anche noi li confronteremo sotto lo stesso punto di vista. Ma io non ho nessuna fiducia sul confronto letterario di un singolo episodio per stabilire la cronologia di due o più opere. Dato il carattere di epillii dei due carmi, dato che non cì possono illuminare affatto sulle vicende del poeta, non ha nemmeno importanza di sorta lo stabilirne la cronologia. (3) Le differenze linguistiche e grammaticali tra le varie opere di Draconzio sono insignificanti. Basta dare uno sguardo al materiale raccolto a tale scopo dal Vollmer in fondo alla sua edizione per vedere come le peculiarità linguistiche di Draconzio sono sparse quasi in egual misura un po’ dappertutto. Così è anche per il caso di licet, citato dal Lohmeyer, che si trova coll’indicativo, non solo nei carmina minora, ma anche ad es. in 3, 398-493-623; d'altra parte si trova col congiuntivo anche nei carmina minora: VII, 466; IX, 81, 229; X, 9, 65, 164, 196; Or., 146. ILY/ BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 99 Draconzio e la cultura del suo tempo. Abbiamo già avuto occasione di notare che l’opera di Draconzio ci fornisce informazioni non certo molto abbondanti, ma preziose tuttavia sulle condizioni della cultura al suo tempo. In generale si cercano di preferenza le traccie della civiltà romana in Italia o in Gallia o nell’Oriente, lasciando piuttosto in disparte l'Africa e la Spagna (1), e certo più la prima che la seconda. A ciò può contribuire il fatto che nuove e assai più vandaliche invasioni dopo quella dei Vandali, spazzarono via violentemente da quelle terre quasi ogni resto della civiltà antica, e l’ombra della barbarie su di esse non è ancora dissipata ai nostri giorni. Ma non è nemmeno giu- stizia il dimenticare il grande contributo alla civiltà, che venne dall’Africa nei suoi anni più felici: basti il ricordare quelle grandi anime che raccolsero in sè in una sintesi meravigliosa e simpatica tutti i migliori elementi della romanità decadente e del cristianesimo nascente: Tertulliano ed Agostino. Il Monceaux ha risuscitato tutto quel mondo, dimostrando che la storia della letteratura latina Africana si può quasi considerare come la storia della letteratura latina negli ultimi secoli dell’im- pero. L'invasione vandala portò un grande scompiglio in quella società africana: essa non perdette però tutti i caratteri e tutti i pregi antichi. Forse perchè giunti in Africa dopo un lungo pellegrinaggio attraverso le terre romane, forse perchè già indeboliti e minacciati, non solo ad oriente dall'imperatore bizantino, ma anche ad occidente e a nord dall’immenso e sempre crescente sviluppo della potenza dei Goti, è certo che i Vandali seguirono in Africa una politica relativamente temperata, e non distrussero quanto vi era di romano, e lasciarono che si compiesse una certa assimilazione. La crudeltà raffinata che loro attribuisce nella sua storia Vittore di Vita è alquanto esagerata, e del resto proveniva forse più da fanatismo religioso che da odio contro la civiltà romana. Fra tutte le manifestazioni di questa civiltà ebbe a soffrirne meno quella che in generale ne soffre di più, ossia la cultura. Nel mantenimento di essa non contribuì tanto la Chiesa, che fu, generalmente parlando, la grande conservatrice di molti elementi di romanità nel mondo occidentale, quanto forse lo spirito tenacemente conservatore e tenacemente regionalista di quelle popo- lazioni: a tutta la cultura esse avevano dato un colore particolare, e avevano le loro preferenze regionaliste persino nella scelta e nel gusto dei classici (2). I Vandali non furono tanto alieni dalle arti della pace forse anche perchè in questi tempi più tardi cessarono, a quanto pare, di essere tanto valenti nell'arte della guerra. Ce lo dice persino uno straniero, il gallo Sidonio Apollinare, il quale fa l’osservazione cu- riosa che la vecchia lotta fra Cartagine e Roma rivive nell’invasione vandala, ma (1) Per il contributo che l'Africa portò alla diffusione della civiltà, sia pagana, sia cristiana, vedi le due opere del Moxcraux, la citata Histoire Littéraire de V Afrique chrétienne, e Les Africains, Élude sur la Littérature Latine d’Afrique. Les Paîens, Paris, 1891; V. anche G. Boissier, L’Afrique Romaine, Paris, 1901. i (2) Così gli Africani avevano una certa preferenza per Terenzio e per quelle parti dell’Eneide che parlano dell’Africa e di Didone. 40 ETTORE PROVANA 18 che ora Roma e il mondo sono in balia dei Vandali insidiosi (1). Si aggiunge un’altra causa particolare del momentaneo risorgere delle lettere in Africa nel fatto che gli ultimi re vandali, da Unerico in poi, furono personalmente d’animo molto mite, e compresero che non potevano fare astrazione dall’elemento romano, pure tenendolo in uno stato di inferiorità rispetto ai sudditi vandali: qualcuno fra essi anzi si pie- cava di proteggere i letterati, e ne accoglieva e ne sollecitava le lodi. Così fu di Trasamondo, levato alle stelle in una poesia di un tal Florentinus a noi pervenuta in quell’antologia latina del codice Salmasiano, che è il documento più importante della rinascita letteraria in Africa (2). Scorrendo le pagine di questa antologia, si vede come fosse in generale una rinascita molto effimera: sono versi sopra futilis- simi argomenti, epigrammi sboccati e mordaci, centoni virgiliani, panegirici dei prin- cipi vandali, e sopratutto poesie di argomento assai libero, talora oscenissime. Una ultima causa infatti di quel persistere di certe forme della letteratura antica si può scorgere nell’indole sensuale di quelle popolazioni, nell’immoralità veramente spa- ventosa, la quale risulta non solo da questi documenti diretti, ma anche dagli seritti di Agostino (specialmente le Confessiones e il Sermo de tempore barbarico), di Salviano (De gubernatione Dei), di Vittore di Vita, i quali attribuirono tutti l’invasione vandala ad una punizione di Dio peri cattivi costumi degli Africani. Ed in sostanza Vinva- sione vandala non mancò di portare per questo rispetto dei buoni frutti. Genserico represse energicamente i costumi disciplinando persino i pubblici giuochi, che per colpa delle fazioni dei Verdi e degli Azzurri (3) erano continuamente causa di disor- dini. Ma ben presto il clima insidioso di quelle regioni, il contatto con una civiltà raffinata trascinò pure i Vandali nella stessa corruzione. Procopio stesso ci dice che fra tutti i popoli dei quali egli ha udito parlare nessuno è più sensuale dei Van- dali (4). Non sono certo i costumi immorali quelli che possano alimentare una let- teratura grande e forte; ma di essì si alimenta la letteratura decadente ; e la deca- denza delle lettere e quella del costume vanno molto spesso unite. Quando poi l’espressione di tendenze volgari e di istinti non buoni andò congiunta in tutto il corso di una letteratura a certe forme tradizionali, è naturale che presso una società corrotta queste forme sopravvivano anche quando quella letteratura è morta; o potremmo anche dire che sopravviva la letteratura per il sopravvivere di quelle forme. Così avvenne, nel campo delle usanze popolari, dei giuochi del circo, i quali durarono a lungo, perchè durarono a lungo nel cuore del popolo le passioni più volgari e più feroci. Nella letteratura la forma tradizionale era l’epigramma, o la breve elegia: e nel codice Salmasiano epigrammi ed elegie prevalgono assoluta- mente sopra qualsiasi altra forma poetica : così l’immoralità del costume serviva in certo modo a mantenere il culto della civiltà antica, ma questo culto della gran- (1) Carm., VII, 441 segg. (2) V. Barnrens, P. L. M., IV, 530: in questa poesia è anche lodata esplicitamente Cartagine (vv. 28-36), il che è una riprova del grande amore di quegli Africani per la loro terra. Cfr. la Vita S. Fulgentii, cap. 21-23 (Micne, P. L., LXV, col. 117 segg.) (3) A proposito dei Verdi e degli Azzurri V. Anthol. Lat. (Riese), 293, 306, 324, 327, 328, 336. (4) De bello Vandalico, I, 5, 16; De Aedificiis, VI, 6; Cfr. Smnon. Aport., Paneg. Maioriani, IV, 327 segg. a — PEER 19 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 41 dezza letteraria passata compiva il triste ufficio di coprire la bassezza e la corru- zione presente. Draconzio, il quale si eleva molto al di sopra di questa letteratura frivola e scioperata, senza contenuto e senza elevatezza di forma, si tiene sempre molto lontano dall’oscenità, pur avendo anch’egli vivissimo, come vedremo, il senso e il sentimento. Insieme con tutte queste cause particolari della rinascita letteraria in Africa, se ne potrebbero addurre più altre comuni a tutto il mondo romano; ma di esse sono pieni i libri che presero a studiarne lo sfacelo, e noi le accenneremo soltanto in quanto ci condurranno a fare qualche rilievo particolare concernente il nostro territorio. La cittadella della cultura romana rimaneva, come lo era stata per tanti secoli, la scuola, con i pochi pregi e i molti difetti; essa personificava il culto cieco del passato, e mentre conservava la memoria dei grandi, inaridiva le fonti di qual- siasi produzione nuova, fresca ed originale. Frutto della scuola era la conoscenza vasta, ma frammentaria e caotica della letteratura passata, e non sempre della migliore; insegnamento supremo l'imitazione e con l'imitazione la retorica. La scuola, la retorica, la grammatica avevano in Africa una tradizione gloriosa: Frontone di Cirta, Apollinare di Cartagine, Aulo Gellio (probabilmente), Numeriano, Terenziano Mauro, Nonio Marcello, Vittorino, Carisio, Aurelio Vittore, Marziano Capella costi- tuiscono una bella lista di nomi, la quale ci testifica quanto fosse in onore presso gli africani lo studio della grammatica e dell’eloquenza, studio che aveva la scuola come punto di partenza e come punto d'arrivo, da allievo a maestro. Poche e mi- serabili invece erano state durante tutto il periodo pagano, e anche in principio di quello cristiano, le manifestazioni poetiche degli africani (1); onde appare tanto più strano che la poesia abbia avuto un certo sviluppo sotto il dominio dei Vandali. Altra causa generale della sopravvivenza della civiltà romana fu il grande attacca- mento dell’aristocrazia alle tradizioni di cultura del passato. Credo opportuno citare a questo proposito le belle parole del Dill (2): “ Si può ammettere, egli dice, che lo studio della cultura nel quinto secolo non è affascinante. L’idolatria della pura forma letteraria congiunta con la povertà delle idee, il culto entusiastico dei grandi modelli, senza un soffio dello spirito che diede loro una durevole attrattiva, l’im- mensa ambizione letteraria senza il potere di creare una singola opera di reale ec- cellenza artistica, non è un soggetto che prometta molto interesse... [Ma gli epigoni della letteratura antica] possono richiamare una certa attenzione appunto per questo loro amore. La storia offre pochi esempi di un’aristocrazia più devota alle lettere che alla guerra, o allo sport, o alla politica. E con tutta la loro vanità e la loro affettazione letteraria, i grandi nobili del quinto secolo conservano una certa distin- zione nella loro fedeltà alle cose dello spirito ,. Bella e verissima quest’ultima os- servazione del Dill, alla quale si può aggiungere, come causa del fenomeno che egli nota, che mai quest’aristocrazia conservò sotto i barbari gli antichi privilegi. Presso i Vandali i Romani furono posti al disotto del diritto comune e considerati come soggetti: la nobiltà ne fu sopratutto colpita, sia per la differenza di nazionalità, sia (1) Il solo degno di nota è Nemesiano di Cartagine. (2) Op. cit., p. 390, Serie II. Tox. LXIL 6 42 ETTORE PROVANA 20 per la lotta religiosa. Anche i matrimoni fra Vandali e Romani erano rigorosamente vietati (1): e se nel complesso le disposizioni fino allora vigenti non furono tutte soppresse anche dopo l'invasione vandala, e alte cariche furono lasciate in mano ai Romani, ciò avvenne solamente perchè i Vandali si sentivano incapaci di una nuova organizzazione della cosa pubblica. Draconzio apparteneva certamente alla più alta nobiltà romana; lo dimostra non solo il fatto che un Dracontius era stato Vicario imperiale in Africa nel terzo secolo, ma anche il fatto ch’egli possedeva una grossa fortuna, nonostante le spogliazioni commesse dai Vandali al tempo della loro inva- sione. E vivissimo è il suo sentimento, il suo orgoglio romano, nonostante la mi- tezza del carattere; non solo egli dice al suo maestro: “ barbaris qui Romulidas iungis auditorio , (I. 14), ma non tralascia mai occasione di ricordare le glorie ro- mane, anche se talora, come nel De laudibus dei, un momentaneo soffio di misticismo gliele presenta offuscate. Del resto se la poesia di Draconzio è per noi documento dell'amore all’antica cultura sopravvivente in modo particolare in seno alla nobiltà romana, essa ci serve non meno di documento sicuro ed interessante per tutto ciò che sopra la civiltà e la cultura del suo tempo abbiamo sinora affermato. Nulla più dell’ira di Guntamondo, perchè il poeta aveva cantato un principe straniero, e non le glorie nazionali degli Asdingi, dimostra come i principi Vandali non ostacolassero sempre la cultura ro- mana, ma desiderassero anzi che essa si mettesse al servizio dei nuovi dominatori. E Draconzio sapeva certamente che non era tanto ostico il nome romano al re vandalo, se ne chiedeva il perdono, ricordandogli insigni esempi di mitezza degli imperatori romani (2). Da Draconzio noi rileviamo che non solo continuavano le scuole fedeli alla tradizione romana, ma cominciavano a frequentarle i barbari stessi. La notizia di Fulgenzio (3) (che lo Schmidt (4) stranamente riferisce al caso di Dra- conzio), che i barbari fossero così avversi ad ogni facoltà letteraria, da porre alla tortura, senza interrogatorio, chiunque sapesse scrivere il suo nome, è una vera e curiosa esagerazione. Assai importante per la storia della cultura è il carme V dei Romulea, la Controversia de statua viri fortis. È una controversia autentica sul tipo di quelle che si usarono in Roma dal primo secolo dell'impero in poi, condotta per- fettamente secondo i modelli di Seneca e le regole di Quintiliano: futilissimo il soggetto, ridicole e declamatorie le argomentazioni pro e contro la tesi sostenuta. La declamazione fu recitata dal poeta nelle terme Gargiliane, in età matura; e se noi la confrontiamo coi carmi cristiani composti non molto dopo, e coi primi carmi pagani che incontriamo nella silloge dei Romulea, scritti probabilmente in età molto giovane, ne risulta sempre più quanto sia fallace il criterio. che parte dall’imi- tazione o dal valore estetico, per la cronologia delle opere del nostro autore. Nè Draconzio è solo a provarci come la declamazione fiorisse anche sotto i Vandali. L’antologia latina ci conserva una declamazione, dovuta probabilmente ad un tal (1) Cfr. Vict. Vit., III, 62. (2) V. Sat., vv. 175-190: esempi di Cesare, di Augusto, di Tito, di Commodo. (3) Mythologiae, p. 9 (Ed. Helm, Lipsia, 1898). (4) Gesch. d. W., p. 196. 21 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 43 Ottaviano (1), che si pone questa questione: Sacrilegus capite puniatur. De templo Neptuni aurum pertt . interposito tempore piscator piscem aureum posuit et titulo in- scripsit — de tuo tibi Neptune . — reus fit sacrilegii . contradicit. Si tratta quindi di una suasoria, la cui somma oziosità e miseria di contenuto e di forma non appare soltanto dall’ argomento, ma da tutta la trattazione. Basta leggere gli ultimi . versi (292-285): Hic tamen [in riva al mare] exesis tumulos conponite membris Et titulum facite et versu hoc includite carmen: © Piscibus hic vixit, deprensus piscibus hic est, Piscibus occubuit. Spes crimen poena sub uno est ,. Altre declamazioni di Draconzio, al quale pure, tante volte poeta vero e spon- taneo, un tal genere di poesia era caro, sono i carmi IV: Verda Herculis cum vi- deret Hydrae serpentis capita pullare post caedes, e IX: Deliberativa Aclillis an corpus Hectoris vendat. E se del primo di essi sappiamo che fu esercitazione scolastica (2), non possiamo certo asserire con sicurezza altrettanto per il carme IX, che nulla c'induce a credere che sia stato pubblicato insieme cogli altri Romulea, occupando il posto che gli assegna il codice napoletano. Nulla più di quanto abbiamo brevemente accennato noi possiamo desumere dai carmi di Draconzio sulle condizioni generali della cultura al suo tempo e nella sua regione: un ambiente letterario guasto e isterilito nel culto della forma, forma più ingegnosa che splendida, più varia e ricca che perfetta, senza un lampo d’origina- lità e senza un soffio di vita, se si eccettua qualche volgare motto di spirito e qualche frizzo osceno. Questa rinascita letteraria, agonia prolungata, consentita ap- pena dalle speciali condizioni storiche che abbiamo esaminato, era certamente poca cosa, ma non era l’imbarbarimento completo. Tutti coloro che vi hanno accennato, più speditamente e superficialmente di quanto noi abbiamo cercato di fare, si sono compiaciuti (non eccettuato il Monceaux) di chiamarla rinascenza della poesia di forma classica: e, generalmente parlando, hanno ragione. Certo, se noi cerchiamo altre manifestazioni di quella civiltà, entriamo nel campo teologico, religioso, pole- mico, nel quale risplende l’intelletto di Fulgenzio di Ruspe; e questo non è affatto il nostro campo, nè si può a tal proposito parlare di risurrezione di civiltà romana propriamente detta; oppure entriamo nel campo della storia, nel quale c’imcontriamo con Vittore di Vita; ma se l’opera sua è molto preziosa come documento, non ha valore affatto dal punto di vista letterario. Per parte sua Draconzio manifesta una conoscenza veramente strabiliante di tutta la letteratura anteriore classica e post- classica, pur potendosi porre la questione, che non è qui il caso di risolvere, se egli abbia conosciuto direttamente gli autori, dei quali si trovano reminiscenze nell’opera sua, o se non si sia servito anch'egli, come altri hanno fatto, delle antologie molto in voga al suo tempo. Insieme con la cultura letteraria va strettamente congiunta la cultura mitologica, che è pur essa grandissima; ma avremo occasione di trattarne a parte, secondo il concetto e il colore della mitologia in Draconzio, secondo la sua evoluzione, eventualmente anche secondo le sue fonti, trattando delle poesie d’argo- (1) V. Barnmrens, P. L. M., IV, p. 244. (2) V. la inscriptio del carme IM: Incipit praefatio ad Felicianum grammaticum cuius supra in auditorio cum adlocutione. 44 ETTORE PROVANA 22 mento pagano. Le cognizioni scientifiche di Draconzio sono molto poche e molto imperfette (1): sovente esse si confondono con quelle mitologiche (come per il caso della leggenda della Fenice) (2); in parte sono superstizione. Draconzio crede nella virtù profetica del sonno e degli animali, crede ai mostri di natura (3), e sopra- tutto crede all’influenza degli astri; nel che ubbidisce ad una tendenza in quel tempo comune, ma predominante nell'Africa, la vera patria degli indovini. Sappiamo che la magia e la divinazione di ogni forma, già poste al bando dall'impero, vi ri- tornarono ben presto, e non soltanto alla chetichella, di contrabbando, ma per opera degli stessi ufficiali imperiali (4). Negli ultimi anni dell’impero occidentale gl’ indo- vini d'Africa praticavano la loro arte fra i cristiani di Aquitania (5). Non v'è quindi da far meraviglia se anche Draconzio, sinceramente cristiano, cede talora alle ten- denze del tempo, più per difetto di cultura scientifica che di sentimento religioso. Migliore è la cultura storica ch'egli dimostra con frequenti citazioni di Storia ro- mana. Le sue fonti sono generalmente poetiche, in particolare Virgilio, Silio Italico e Lucano: conosce inoltre gli epitomatori di Livio, Valerio Massimo, Giustino, e l’opera degli Seriptores Historiae Augustae. Da buon africano ricorda di preferenza ciò che in qualche modo riguarda la sua patria, manifestando anch’egli in questo modo, molto blando e molto innocente del resto, il regionalismo caratteristico degli africani (6). Ma fra le cognizioni storiche del nostro poeta s'incontrano anche gravi errori. Nella Satisfactio, ad esempio, dimostra di non sapere che Cesare è morto di morte violenta: infatti quale commento al verso 174: “ Vir sine morte gerens nil habet ipse necis ,, cita il caso di Cesare, che perdonò ai nemici; “ et quod erat peius, — osserva Draconzio, — civis et hostis erat ,. Ma egli (vv. 177-178): sponte facultatem redhibens reparavit honores, inde vocatus abit, dignus honore, deus. Nella stessa Satisfuctio adduce più innanzi (vv. 189-190) l'esempio di Commodo al quale attribuisce le parole: “ nobile praeceptum, rectores, discite post me: sit bonus in vita qui volet esse deus ,, parole che molto probabilmente vanno se mai attribuite a Marco Aurelio (7). Ad ogni modo Draconzio possedeva certamente una disereta cultura storica, (1) V. ad es. ZL. d., 1, 639-640: 1 cervi riproducono le loro corna ramificate mangiando serpenti; 1, 212-213: l’aquila ringiovanisce battendo il becco troppo adunco sui sassi. — Cfr. S. Gamer, Le livre de la Genèse dans la poésie latine au V° siècle, Paris, 1899, p. 73 segg. (2) V. L. d., 1, 653-660. (3) V. L. d., 1, 56 segg. Altrove (L. d., 1, 519 segg.) giunge a dire che Iddio non ci vieta, anzi ci esorta a cercare di conoscere il futuro: cur exempla damus homines prescire futura — cum testante deo doceatur nosse quod instat? — “natio viperea ,, clamans mortalibus inquit — “ signa poli nostis, praedicitis “ imminet imber, — et veniet, nec fallit hiems nec tardat adesse , — ecce genus hominum ventura scire probatur. — nec mirum, Christi si sensit imago futurum, — cum nos ven- turum moneant animalia muta. Il poeta fa qui un'applicazione un po’ troppo lata di un passo del Vangelo: MarrE., 12, 34; Cfr. 16, 2-4. (4) V. Dixt, op. cit., p. 52-53. — Per quanto riguarda l'astrologia, vedi il breve articolo di A. E. Housman, Astrology in Dracontius, The Classical Quaterly, 1910, IV, 3, p. 191-195. Draconzio, come molti altri antichi, chiama il Cancro sede della luna (De. mens., 13; Medea, 400), e oroscopo del mondo (Medea, 400; giustamente lo Housman legge: cui Cancer domus est, Rore clarissima mundi); la luna poi è anche per Draconzio corporis domina (Medea, 403). (5) Cfr. Sip. ApoLt., Ep., VII, 11. (6) Cfr. V, 109 segg., 148, 208 segs.; VI, 80. (7) Cfr. Script. Hist. Aug., IV, 18, 2-3. 23 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 45 e se ne servì nell'opera sua un po’ alla brava, senza criterio, e dando talora inter- pretazioni curiose. Citerò un solo esempio tipico, quello del libro terzo del De lau- dibus dei, v. 419, dove il poeta rimprovera a Regolo l'infedeltà della parola data ai Cartaginesi di perorare per la pace. Mai un romano puro sangue avrebbe dato un’interpretazione tanto sfavorevole a quella leggenda gloriosa. Ma in Draconzio noi abbiamo pure il cartaginese, che in tono d’ironia e di scherno si domanda: “ quid Romana fides? , quasi a vendicarsi della taccia di slealtà che la tradizione romana aveva lanciato contro i Cartaginesi. Del resto più ancora che il romano dei tardi tempi, troppo lontano di nazio- nalità e di tempo per sentire ancora romanamente, noi abbiamo in Draconzio il cristiano. Il Teuffel (1) osserva che la sua dottrina giuridica non è più pro- fonda del suo cristianesimo. E cita per quanto riguarda la prima un passo del carme V (v. 250). Io non so veramente come al Teuffel sia caduto in capo di fare una citazione simile: se il poeta dice nella sua declamazione: “ quid plebs nostra taces? dives praeiudicat urbi — et pariter tua iura negat, praescriptio surgit — quae populo vitam libertatemque negabit ,, ciò non vuol dire affatto ch'egli non conosca il principio dell’eguaglianza di diritti fra i cittadini, ma tutto il contrario. Lo dimostra anche il fatto di Virginia e della ritirata del popolo sul- l’Aventino, che il poeta cita subito dopo (vv. 253-259). Del resto non è davvero da una controversia di quel genere che si possa desumere la cultura giuridica del poeta: su di essa è quasi impossibile dare un giudizio sicuro. Si può dire soltanto che Draconzio dovette essere avvocato per i suoi tempi valente, se egli stesso at- tribuisce gran parte della sua passata fortuna all’esercizio di una tale professione. Quanto alla poca profondità del cristianesimo di Draconzio il Teuffel cita alcuni passi. Così Sat. 263: “ horam quaesivit faciens miracula Christus ,; Rom. VIII, 466, dove un augure interpreta il volo dei cigni e dello sparviero osservato da Paride, e dice: “ licet hora peracta — tertia quippe sinat Phoebo candente volucrem — vera per immensum praesagia ferre rapacem ,; om. X, 600: “ sitque nefas coluisse deos, quia crimen habetur — relligionis honos, cum dat pro laude pericla ,. Io 0s- servo che, se è molto strana l’affermazione che Cristo abbia compiuto i suoi mira- coli ad un’ora determinata (2), non si può su questo solo indizio dire che la cultura cristiana del poeta fosse tanto scarsa, e molto meno che fosse debole il suo senti- mento cristiano. Il riaccostamento che il Teuffel vuol fare col passo dell’epillio VIII è affatto illegittimo, perchè l’affermazione della Satisfactio è di Draconzio stesso, mentre quella del carme VIH, posta in bocca ad un augure pagano e in tempi assolutamente mitici, sarà da attribuirsi alla sua speciale cultura mitologica, ma non certamente ad una mancanza di sentimento cristiano. Tanto meno poi ha valore l’ultima cita- zione, la quale se mai ha il significato opposto di uno spunto cristiano in una poesia tutta pagana: è una vera requisitoria che il poeta fa in tono del resto più retorico e declamatorio che profondamente sentito contro tutte le aberrazioni della mitologia. (1) TeurreL-ScewAEE, op. cit., p. 1221. (2) Non mancano del resto nella Scrittura passi che possono aver suggerito al poeta la strana idea. Cfr. Joann., II, 3-4: Et deficiente vino, dicit mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est mulier? nondum venit hora mea. Cfr. ancora Juann., V, 25 segg.; Luc., XXII, 53. 46 ETTORE PROVANA 24 Se l’imprecazione di Draconzio ci può ricordare molto alla lontana quella assai più sublime e sincera di Lucrezio (1), si rileva subito che Lucrezio condanna ogni sorta di religione, in nome di un alto ideale umano, mentre Draconzio condanna il culto degli dei e della religione soltanto in un caso: “ cum dat pro laude pericla ,. Se mai, si può vedere in queste parole un accenno all’atteggiamento particolare del suo sentimento religioso, alla sua simpatia per le manifestazioni religiose più miti, più serene, alla sua limitata ammirazione per gli atteggiamenti di lotta, di eroismo, di martirio. Draconzio è tutt'altro che un eroe, egli ama troppo la vita, e nella reli- gione ama tutto ciò che favorisce e celebra e dà valore alla vita. Il suo misticismo non è mai troppo di buona lega; ma il suo cristianesimo è senza dubbio profondo e sincero. Se qualche cosa di pagano, o meglio di profano gli sorrise, quando la fortuna lo favoriva, o anche quando nel colmo della sventura lo richiamava alla vita, fu forse l’amore, un amore animato forse più di sentimento pagano che subli- mato dall’austerità cristiana. Io non mi fermo per ora a studiare la psicologia di Draconzio, e a vedere come mai sentimenti e principi opposti abbiano trovato per avventura una conciliazione nello spirito suo. Ma per convincersi che egli abbia avuto anche sentimento sinceramente cristiano, basta leggere il De laudibus dei e la Satisfactio. Da entrambi i poemi risulta che Draconzio non solo fu cristiano, ma cattolico: non solo gli assalti contro gli Ariani, che già abbiamo avuto occasione di ricordare, ma anche il carme al principe straniero, motivato forse più da ragioni religiose che politiche, e l'ira del re verso di lui, mentre la politica vandala favoriva piuttosto l'elemento romano pur di trascinarlo all’eresia, lo dimostrano già a suffi- cienza. Ma Draconzio ci offre la sua esplicita dichiarazione di fede nel secondo libro del De laudibus dei (vv. 60 e segg.) (2): quo libuit genuisse deum ante omnia Christum, semine quem verbo conceptum corde ferebas. quo sine non ungquam fuerat mens sancita parentis, ergo deum deus auctor eructuat ore. corde sacer genitus mox constitit ipse parenti, et consors cum patre manens, et spiritus unus, trina mente deus deus auctor temporis expers (3). È una vera affermazione nella credenza della dottrina cristologica dell’ ovaie contrariamente alla dottrina ariana che sosteneva la creazione e la non eternità del Figlio, e negava la sua identità di sostanza col Padre. Profondo anzi doveva essere il sentimento cristiano di Draconzio, perchè non si prende così decisamente posi- zione pro o contro di due determinate fedi che hanno una stessa radice. quando non si ammettono i postulati fondamentali dell’una o dell’altra: tanto più quando, (1) De rerum natura, I, 56 segg. (2) V. A. Hasnacx, Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. II, Freiburg, 1909, p. 186 segg. — I versi di Draconzio sembrano ripetere in tutti i punti essenziali la formula cristologica di Alessandro, il più noto avversario e contemporaneo di Ario: “Asì deds, deè vids, Gua mero, Gue vids, cvvvadoget 6 viòs ayevritos tO deg, dGeryevijs, ayevntoyevijs, où troie, où arduo tivì apogyer 6 deds toù viod, del Beds, deì vids, #5 adroù toù deod 6 vids. Cfr. anche vol. HI, p. 165 segg. (3) V. anche 2, 101 segg. 25 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 47 come nel caso di Draconzio, tale professione aperta ed esplicita può essere perico- losa. Strana davvero questa ardita professione di fede in un poema quale il De lau- dibus dei da parte di un poeta come Draconzio. Noi potremo dare un giudizio sin- tetico sul suo carattere soltanto quando avremo analizzato l’opera sua; ma il modo di comportarsi nella sciagura, quel suo passare tanto facilmente dalla preghiera alla minaccia, dalla lode al biasimo, la varietà stessa del suo giudizio sull’indole e la gravità delle sue colpe, ci palesano sin d’ora nel nostro poeta un carattere debole e incostante. Alcune volte i mistici ardori, altre volte la febbre del senso, talora l'affermazione recisa delle proprie idee e l’assalto violento dei suoi avversari, talora il prudente silenzio intorno a questioni spinose. Del resto anche negli altri egli ap- prezza in modo particolare la mitezza, la bontà, non di rado la debolezza. Iddio stesso è concepito sempre da Draconzio sotto l’aspetto mite e pietoso di chi bene- fica e perdona (1): cosa naturale nel poeta che voleva celebrare la misericordia di- vina, come insegnamento ed esempio della implorata pietà del suo principe. Ma Draconzio riscatta le deficienze del suo carattere col pregio raro della sincerità : egli è sincero quasi sempre, anche quando ne darebbe a dubitare il suo ibridismo poetico, quel suo modo di comporre tutto a brani, a pezzetti spesso mal collegati tra loro. Piene di cose altrui sono le sue opere: ma ha saputo egli fondere tutti i vari elementi in poderosa unità artistica ? O ha cercato semplicemente di farsi bello della veste altrui? O fu soltanto la piccola ambizione di sfoggiare dell’erudizione letteraria? È tutta una serie di problemi generalmente trascurati da coloro che si accontentano di osservare il fenomeno e di fermarsi ad una spiegazione meccanica e superficiale. Noi cercheremo di dare ad essi una soluzione, penetrando per quanto è possibile nell'anima dell’autore ; persuasi che riesce fatalmente vana e inconcludente ogni ricerca letteraria, che voglia essere prettamente storica, sdegnando lo studio psicologico, mentre nello spirito è la radice vera di ogni forma di letteratura, come di ogni forma di attività umana. Osservazioni sull’autenticità delle opere di Draconzio. Intorno all’autenticità delle opere ora generalmente attribuite a Draconzio vi fu lunga disputa, e l’attribuzione a lui di alcune poesiole e di alcuni frammenti non è ancora definitivamente certa. Capitò a Draconzio come a tanti altri la sventura di un rimaneggiamento che fece dimenticare le opere originali, le quali risuscitando per le investigazioni di qualche dotto, si trovarono attribuite nei manoscritti ad autori di maggior fama. Così l’opera maggiore di Draconzio, il De laudibus dei, è attribuita ad Aurelio Agostino (2); ma la falsità dell’indicazione dei codici e la retta attribuzione a Draconzio risultarono subito dal confronto con la recensione di Eu- genio di Toledo e dalla scoperta dei frammenti del poeta tra i centoni di un codice (1) Affermazioni in contrario come quella di L. d., 1, 690-691, sono subito mitigate nei versi seguenti dalla solita idea della bontà divina. L'appellativo terribile di Tonante non è che un vezzo, una reminiscenza mitologica. (2) V. Vorruer, ed. di Draconzio, pref. p. xr-xI1. 48 . ETTORE PROVANA 26 berlinese illustrati da Guglielmo Meyer (1). Del resto abbiamo anche testimonianze di scrittori antichi: così Isidoro di Siviglia (De vir. ll, 37) (2): “ Dracontius com- posuit heroicis versibus Hexameron creationis mundi, et luculenter quidem com- posuit et scripsit ,. Così S. Ildefonso, vescovo di Toledo, nel cap. XIV del suo Liber de viris illustribus (8), enumera le opere del suo predecessore Eugenio, e fra l’altro dice: “ Libellos quoque Dracontii de creatione mundi conscriptos, quos antiquitas protulerat vitiatos, ea quae inconvenientia reperit subtrahendo, vel meliora conii- cendo, ita in pulchritudinis formam coégit, ut pulchriores de artificio corrigentis, quam de manu processisse videantur auctoris. Et quia de die septimo idem Dra- contius omnino reticendo, semiplenum opus visus est reliquisse, iste et sex dierum recapitulationem singulis versiculis renotavit, et de die septimo, quae illi visa sunt eleganter dicta subiunxit ,. Lasciando per ora da parte il modo certo troppo bene- volo col quale S. Ildefonso giudica l’opera di Eugenio di Toledo, è certo che non si può dubitare dell’autenticità del De laudibus dei. Nè per l’identico motivo della re- censione di Eugenio, e anche per motivo del suo explicit, può correr dubbio sull’au- tenticità della Satisfactio. Del resto v'è tra il De laudibus dei e la Satisfactio una tal parentela di contenuto e di forma che, quand’anche nessun indizio esterno ce ne informasse, non vi potrebbe essere il menomo dubbio sull’identità dell’autore dei due poemi. Quanto ai Romulea il solo codice che ce li conservi, se non tutti, almeno in buona parte, il Neapolitanus, li attribuisce chiaramente a Draconzio, anzi ci for- nisce alcune informazioni che non potremmo attingere da altra fonte. Il titolo che probabilmente fu dato (non a tutti, ma ad una parte di essi) dal poeta stesso, non si legge nel codice Neapolitanus ma nel Florilegium Veronense della biblioteca. capi- tolare di Verona, che porta alcuni frammenti (due del carme IX, v. 5, vv. 8-9; uno dell’ VIII, vv. 131-132; e uno di un carme ignoto) sotto l'indicazione “ Bloxus , 0 “ Blosus in Romulea ,. Lo stesso Florilegium ci dimostra che la silloge dei carmi minori a noi pervenuta non è completa; ma è a parer mio molto incerto, anzi molto improbabile che ad essa appartenesse il carme in lode del principe straniero, o quello in lode di Trasamondo, e che si possa stabilire una divisione qualsiasi di un arche- tipo dei Romulea, per spiegare il distacco dell’Orestis #ragoedia (dato che nel loro numero la considerasse Draconzio stesso), come crede di poter fare il Vollmer. La nostra ipotesi non è che Draconzio abbia fatto egli stesso un’edizione complessiva di tutte ie sue poesie minori, ma ne abbia pubblicato piccoli gruppi a parte, e nulla si oppone all’ipotesi che egli abbia pubblicato a parte anche la sola Orestis tragoedia. La stessa subscriptio del carme V mi parve che difficilmente possa risalire a Dra- conzio stesso (4). Il titolo poi allude puramente al carattere pagano di tali poesie contrapposto a quello cristiano, e si deve quindi supporre che sia stato posto dopo (1) W. Merer, Die Berliner Centones der Laudes Dei des Dr., Sitzungsberichte der Berliner Aka- demie, 1890, p. 257 segg. (2) Mine, P. L., LXXXIII, col. 1101. (3) Mrewe, P. L., XCVI, col. 204. (4) Anche ‘astraendo dalle osservazioni già fatte a questo proposito, è troppo naturale che Dra- . conzio non abbia aspettato la vecchiaia, o quasi, per pubblicare le sue prime poesie; nè avrebbe potuto chiamarsi sia pure exriguum inter iura poetam. 27 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 49 la composizione delle poesie cristiane, cioè dopo la prigionia, senza ammettere però che sotto quel titolo Draconzio comprendesse tutta intera la silloge delle sue poesie di argomento pagano. I carmi minori di Draconzio, pubblicati prima parzialmente da Cataldo Jannelli e da Angelo Mai (1), apparvero per la prima volta in edizione completa per opera di Federico Von Duhn, edizione forse troppo aspramente giudi- cata dalla critica tedesca. Ad essa infatti ritorna in alcune cose il Vollmer (2), che pubblicò anche i carmi minori insieme con le poesie cristiane di Draconzio, esten- dendo però ingiustamente, come io credo, a tutti il titolo di Romulea. Sono dieci, e furono pubblicati, seguendo il codice napoletano, sia dal Von Duhn sia dal Vollmer nell'ordine seguente: “ I. Praefatio Dracontii discipuli ad grammaticum Felicianum ; I. Hylas; II. Praefutio ad Felicianum grammaticum; IV. Verba Herculis cum videret Hydrae serpentis capita pullare post caedes; V. Controversia de statua wiri fortis; VI. Epithalamium in fratribus dictum; VII. Epithalamium Joannis et Vitulae; VIII. De raptu Helenae; IX. Deliberativa Achillis an corpus Hectoris vendat; X. Medea. A. queste opere minori va aggiunta la cosiddetta Orestis tragoedia, la quale ebbe nel medio evo miglior fortuna che tutte le altre opere di Draconzio (3): l’edizione più recente di essa non è quella del Vollmer, ma quella di Cesare Giarratano che la pubblicò a parte nel 1906. Il medesimo Giarratano in un altro suo lavoro dello stesso anno tratta brevemente dell’autenticità per tanto tempo discussa dell’Orestis tragoedia (4): egli non fa che esporre le conclusioni, nè davvero l’autenticità di quest'opera ha bisogno oggi di essere dimostrata. Io desidero piuttosto di fare qualche osservazione sui criteri seguiti dal Barwinski per la sua dimostrazione. Il Barwinski (5) fa uno studio certamente lodevole delle peculiarità linguistiche di Draconzio, fermandosi specialmente su quelle comuni all'Oreste e agli altri carmi: e senza dubbio l’ugua- glianza del vocabolario, la somiglianza degli elementi volgari nella lingua dei due autori, i caratteri di latinità africana, le voci usate solo dai due autori, o solo in quel determinato significato, sono tutti buoni indizi per concludere all’identità di essi; sono anzi i soli, quando manchino, come nel caso attuale, le prove esterne. Ma v'è una prova più forte ancora: così nell’Oreste come negli altri carmi di Dra- conzio ricorre un'infinità di espressioni perfettamente uguali per le immagini e i pensieri affini; per questo lato la corrispondenza è addirittura sorprendente (6), ed ha tanto maggior valore di prova per Draconzio in quanto egli ha appunto l’abitu- dine di ripetersi frequentemente. A tutto questo s'aggiunga il fatto dei numerosi poeti classici e postelassici imitati sia da Draconzio, sia dall’autore dell’Oreste, non (1) D JanweLLi pubblicò soltanto i carmi VIII e X, ossia il Ratto d’Elena e la Medea nel 1813. Vent'anni dopo il Mar ripubblicò il solo carme VIII. (2) Frammezzo apparve l’edizione del BAnrens, P. L. M., vol. V, p. 126-261. Il Bahrens si di- stingue per l’audacia delle emendazioni. ; (3) V. VoLuxer, p. x, nota 15. (4) Blossii Aemilii Dracontii Orestes recognovit Caesar Giarratano, R. Sandron, Mediolani-Pa- normi-Neapoli, MCMVI. Il G. non conosce l’edizione del Vollmer anteriore di un anno; C. Grarra- tano, Commentationes Dracontianae, Napoli, 1906; IV. De Dracontio Orestis auctore. (5) B. BarwinszI, Quaestiones ad Dracontium et Orestis tragoediam pertinentes; Quaestio I: De genere dicendi, Dissert., Gòttingen, 1887. (6) Cfr. BarwInsxI, loc. cit., p. 18-33. Serie II. Tox. LXII. 7 50 ETTORE PROVANA 98 perchè sia impossibile che due autori differenti abbiano avuto le stesse preferenze, o pressochè la stessa cultura poetica, ma piuttosto perchè in parecchi casi si tratta di locuzioni particolarissime ripetute in casi analoghi (1). Del resto non è chi non pensi subito che questa corrispondenza si può spiegare benissimo anche con un’imi- tazione più tarda dell’opera di Draconzio da parte d'altri; e che perciò assai più che questi materiali confronti possono giovare a riconoscere in Draconzio l’autore dell’Oreste le considerazioni più generali sullo stile, sull'arte, sul carattere di quella poesia. E questo noi vedremo a suo luogo; ma se non si può dire davvero che l’Orestis tragoedia sia una grande opera d’arte, e nemmeno un’opera d’arte, è certa- mente ingiustificato il disprezzo in cui il Barwinski involge non solo l’Orestis tra- goedia, ma tutta l’opera di Draconzio. Sarà invece forse qualche scintilla di quel sentimento poetico che è proprio di Draconzio, quello che ci può far riconoscere nell’autore dell’Orestis tragoedia il poeta del De laudibus dei. Un’altra poesiola di un certo interesse si è voluto attribuire a Draconzio, ed è quella intitolata Aegritudo Perdicae, scoperta nel codice Harleianus 3685 del sec. XV e pubblicata dal Baehrens (2). Si vede chiaro che già il Baehrens, per quanto non si risolva pienamente, è tentato di attribuirla al nostro poeta; ma più di lui il Vollmer (3), che si fonda sopratutto sulle particolarità linguistiche, metriche e pro- sodiche. Ma, a dire il vero, queste sono alquanto scarse (come la misura quoque dei vv. 91 e 209; quella regreditur del v. 21, cfr. Or., 179 reperdere, 397 recerpite; vel invece di et nel verso 286 — poco davvero in 290 versi (4) mentre in Draconzio tale uso è frequentissimo —; secum invece di cum eo): e d'altra parte lo stesso Vollmer osserva che i riscontri coi rimanenti carmi di Draconzio sono piuttosto rari, mentre sono, ad esempio, numerosissimi per l’Orestis tragoedia. Senza dubbio non è questo argomento che abbia forza grandissima: talora è appunto l’imitatore servile quello che si giova a man salva del materiale altrui; mentre è più facile che un compo- nimento nuovo del medesimo autore tradisca con qualche rara frase la comunanza d’origine con le opere anteriori. Ma se noi pensiamo che la Satisfactio stessa, sulla quale non è possibile il dubbio, è piena di riscontri con il De laudidus dei, e che lo stesso ultimo libro dell’opera maggiore è ricco di reminiscenze dei primi due, dob- biamo credere piuttosto che per Draconzio sia avvenuto il fatto inverso. L'ipotesi che l’Aegritudo Perdicae fosse uno dei Romulea non è inaccettabile: non tutti i carmi che andavano sotto quel nome ci sono pervenuti, anzi molti più essi dovettero essere, data la professione di poeta dell’autore, e dato il titolo altisonante da lui imposto (1) A proposito di questo elemento imitativo in Draconzio, si trovano nei ricercatori più minu- ziosi esagerazioni veramente deplorevoli. Ricorderò fra i passi citati dal Barwinski quello di Ov., Metam., I, 772: “ Nec longus patrios labor est tibi nosse penates ,, che il B. confronta con l’Or., 661: © Nec labor ullus erit mulierem sternere turpem , e con L. d., 2, 200: “ Omnia cum fierent, sic nee labor ullus erit, iam ,, e 1,445: “ Nec rubor ullus erat, cum staret origo pudoris ,; onde l'imitazione incomincia dalla parola labor (e non ve n'era altra migliore per esprimere tale concetto) per pas- sare all’aggettivo w//us, e finire in una forma del verbo sum. (2) Il Baehrens la pubblicò due volte: prima nella raccolta Unedirte Lateinische Gedichte, Leipzig, 1877, e poi nei P. L. M., vol. V, p. 112-125, immediatamente prima delle poesie di Draconzio. (3) V. articolo Dracontius nella R. E. di Paury-Wissowa, vol. V, col. 1644. (4) Si trova però anche vel in luogo di et al y. 98 (numerazione del BarnrEns, P. L. M.), ma qui forse con leggiero significato avversativo. 99 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 51 ad una sua raccolta particolare. Ed a favore di tale ipotesi (1) sta il confronto impres- sionante che si può fare dell’epillio di Perdicca con quello di Hylas. L'uno e l’altro incominciano con l'esaltazione del gran potere di Amore che spinge gli uomini alle passioni contro l'onestà e contro la natura, ambedue narrano il caso pietoso di una vittima di Amore. Di più c'è nello stesso epillio d’Hylas un accenno esplicito alla favola di Perdicca, quale appunto ce la narra la poesia del codice Harleianus, vv. 36-44: sive, parens, optas homines his ignibus ustos inlicitos violare toros, ut non pia patris oscula nata petat nec natus matris amator dulce nefas cupiat, frater vitietque sororem privignoque suo potiatur blanda noverca: alter erit Perdica furens atque altera Myrrha, Tuppiter alter erit terris de fratre maritus, (parva loquor) tauro, si iusseris, altera regis fiammetur coniunx, reddetur et altera Phaedra (2). E evidente che nei versi 41-44 Draconzio intende di esemplificare quello che ha detto nei versi precedenti: se questa esemplificazione sia ordinata, e se corrisponda ad un determinato criterio, è altra questione; ma troppo noti sono i nomi che Draconzio mette in bocca a Cupido, e troppo note le loro imprese, per non veder subito a quale sorta di amore illecito servano di esempio. Così se Mirra è la figlia amante del padre, Giove della sorella, Fedra del figliastro, è naturale che Draconzio intenda por- tare Perdicca quale esempio di il concetto che della leggenda di Perdicca s'era fatto Draconzio, e la luce viene ap- “ natus matris amator ,. Ne resta quindi illuminato punto dall’epillio Aegritudo Perdicae. L'origine di questa favola di Perdicca è ricer- cata dal Rohde (3) e dopo di lui dal Baehrens e dal Vollmer nella biografia di Ippocrate, falsamente tramandata sotto il nome di Soranus, ma attinta, secondo il (1) Si può osservare che l’esagerazione e l’altisonanza è propria di Draconzio come di tutti gli Africani; e che d’altra parte non si può considerare nemmeno troppo altisonante il titolo di Ro- mulea, se esso deve servire di contrapposto alla produzione cristiana del poeta. — Quanto alla forma Perdica con un solo ec cfr. Barnrens, Uned. Lat. Gedichte, p. 12, in nota; e Vorrmer, p. 307. (2) Il Baehrens sì preoccupa molto del fatto che gli esempi dati nei vv. 41-44 non corrispon- dono ordinatamente ai fatti adombrati dai vv. 37-40, e propone l’audace emendazione: Alter erit Perdica furens atque altera Myrrha, Tuppiter alter erit, reddetur et altera Phaedra. Parva loquor: tauro, si iusseris, altera regis flammetur coniunx Cretis iungatque maritum. Certamente vi sarebbe in tal modo un ordine logico perfetto; ma, a parte la correzione già ardita di “ Cretis iungatque ,, questo scambio di due emistichii saltando un verso medio, è diffi- cilmente ammissibile; appena lo sarebbe se i due versi fossero contigui. Del resto osservo che se ha un senso .il dire: “ alter erit Perdica furens atque altera Myrrha ,, perchè qui basta il nome a ricordare il fatto, non ha più senso il dire semplicemente: “ Iuppiter alter erit ,. È anzi un errore il voler mutare ferris in Oretis, perchè terris è pure ablativo di luogo, secondo l’uso più costante di Draconzio che tralascia la preposizione (cfr. VIII, 566; IV, 38; V, 146, 277, 284; IX, 26, 31, 59, 201; X, 116, 183, 186, 190, ecc.); ed ha questo senso: “ capiterà anche in terra ciò che è avvenuto in cielo ,. Quanto al venire l’esempio di Fedra dopo quello più grave di Pasife, derivò forse dal fatto che Fedra fece ricordare al poeta Pasife per ragioni di parentela. Comunque a me pare che si possa ammettere benissimo un piccolo spostamento nell’ordine degli esempi. (8) E. Roanne, Der Griech. Roman, Leipzig, 1876, p. 52 e 54. — Per la Vita Hippocratis dello Pseuposorano vedi WesrermanN, Broy., p. 450. 52 ETTORE PROVANA 30 Rohde, a buone fonti. Secondo lo Pseudo-Sorano, Perdicca, figlio di Alessandro, si sarebbe invaghito della concubina del padre, Fila. Dopo di lui Luciano nel “ Z7@g de iorogiav 0cvyyodpew , (cap. 35), parla già dell'amore di Perdicca non per una concubina del padre, ma per la matrigna, che egli chiama Stratonice. Più interes- sante a tale proposito, trattandosi di un africano contemporaneo di Draconzio, è l’accenno a Perdicca di Fulgenzio, nel terzo libro delle sue Mythologiae: “ Perdicam ferunt venatorem esse; qui quidem matris amore correptus, dum utrumque et inmo- desta libido ferveret et verecundia novi facinoris reluctaret, consumptus atque ad extremam tabem deductus esse dicitur ,. Fulgenzio dunque parla non più della ma- trigna, ma della madre; egli non ricorda, come l’autore dell’ Aegritudo Perdicae, Ip- pocrate, il medico che scopre l’origine della malattia di Perdicca nella sua passione; inoltre chiama Policaste e non Castalia la madre (1): “ Matrem etiam Policasten habuit quasi Policarpen, quod nos Latine multifruetam dicimus, id est terram ,. La- sciamo da parte l’interpretazione curiosa che al nome stesso dà Fulgenzio, in rela- zione del resto con tutto il colore della sua Fabula Perdicae. Noi rileviamo subito che, se la redazione di Fulgenzio fa un passo innanzi su quella dello Pseudo-Sorano e di Luciano, d'altra parte v'è nell’Aegritudo Perdicae una combinazione di elementi tale, e un tal progresso di redazione, che c’induce a ritenere posteriore di qualche tempo la sua composizione a quella delle Mythologiae di Fulgenzio. È troppo naturale che se questi avesse potuto attingere al poemetto scoperto da Baehrens, opera tanto recente di un africano, si sarebbe attenuto ad esso più fedelmente. Ora risulta che Fulgenzio, piuttosto che contemporaneo, è alquanto posteriore a Draconzio: il Teuffel (2) pone la sua vita fra il 480 e il 550, e lo Skutsch nel suo articolo della Realeney- klopiidie del Pauly (3), mantiene pressapoco gli stessi limiti, e crede anzi di poterlo identificare con Fulgenzio, vescovo di Ruspe dopo il 507. Questo mi pare un indizio molto importante per togliere a Draconzio la composizione dell’ Aegritudo Perdicae. Del resto i pochi riscontri con gli altri carmi di Draconzio, il vocabolario forse alquanto più libero (vi sono parole affatto ignote a Draconzio, come il tristificus del v. 116), la mancanza infine di ogni spunto fortemente e sinceramente sentimentale, che s'incontra sempre anche nelle composizioni più aride del poeta, m’inducono a credere che l’Aegritudo Perdicae non sia opera sua. Sono tanti i poeti che si occu- parono di tale genere di versificazione fino agli ultimi tempi di quella fioritura poetica, ossia fino al primo quarto del sesto secolo, e tale è la loro parentela di lingua e di stile, che ben difficilmente si può assegnare un componimento anonimo piuttosto all’uno che all’altro di essi. Non andremo se mai molto lontani dal vero asserendo (1) V. Aegrit. Perd., vv. 171 segg.; Fulg., Myth., III, 2 (Ed. R. Helm., p. 61-62). Non sono del resto queste le sole differenze: fra le altre noto quella che, secondo Fulgenzio, Perdicca è un oscuro cacciatore, mentre l’autore dell’Aegritudo Perdicae pare consapevole della sua alta condizione, e ci dice com’egli ritorni a casa dopo di aver compiuto i suoi studi ad Atene. (2) V. TeurreL-ScHwABE, p. 1238, $ 480. (3) V. art. Fulgentius, col. 222: © beschliesst er plotzlich, auf die weltlichen Giiter zu verzichten und schligt den Weg ein, der ihm im J. 507 zum Episkopat von Ruspe fiihrt. Sein Leben fallt in die J. 467-532 ,. Gli argomenti dello Skutsch per provare l’identificazione mi paiono convincenti. Del resto egli non fa che corroborare l’opinione dello stesso editore di Fabio Planziade Fulgenzio, R. Helm, esposta nel Rhein. Mus., LIV (1899), p. 111-134. sul BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 59 che Draconzio fu molto imitato dall'autore dell’epillio, del resto non privo di grazia. Quanto al cenno che fa Draconzio di Perdicca, si può spiegare benissimo col fatto che egli abbia raccolto la leggenda, forse un po’ alterandola, quale correva fra gli eruditi e nelle scuole: e che Perdicca non fosse ignorato, lo dimostra il carme 220 (1) dell’Antologia Latina che ne descrive e ne celebra la bellezza, giungendo a dire: “ solus vincebat Adonem ,. A Draconzio si può attribuire ancora con sicurezza un frammento che si trova nel già citato codic» dell'archivio capitolare di Verona, che contiene tra i “ flores moralium auctoritatum , (oltre i versi di Draconzio VIII, 131 e 132; IX, 5,8 e 9)i versi seguenti (2): quia numina semper irasci miseris possunt, felicibus autem et praestare volunt. Che questo frammento dovesse appartenere ai Romu/ea (chiamerò anch’io con questo nome convenzionale tutte le poesie pagane di Draconzio) risulta non soltanto dal- l'affermazione esplicita del codice, ma anche dal suo contenuto. Molto probabilmente però appartengono ad un carme a noi ignoto, perchè non si possono inserire, io credo, in nessuna delle lacune dei carmi a noi noti, e che il Lohmeyer cita (II. 42, 127; V, 197, 232; VIII, 212). Certamente tali parole potrebbero trovar luogo, ad es., quanto al concetto nel carme V: ma quivi lo stesso Vollmer tra i versi 197 e 198 non ammette lacuna, ma solo mancanza del titolo della nuova quaestio; e al v. 232 v'è solamente corruzione del testo, nè vi si troverebbero a posto le parole citate. Anche nel carme IX potrebbero inserirsi quanto al concetto, ma non si notano lacune nel manoscritto e noi non abbiamo il diritto di supporne. Non meno sicvra è l’attribuzione a Draconzio di due poesiole: De mensibus e De origine rosarum, conservateci nella già citata Historia di Milano di Bernardino Corio, che nella più antica edizione del 1554, giustamente indicata dal Baehrens come più autorevole di quella del 1565, usata dal Riese (3), dice: “ Transimondo, conte di Capua, a laude del quale Dracontio poeta elegantemente scrisse, et l’opera del quale noi in caratteri Longobardi avendo trovata, per Giovan Cristoforo Daverio, la cui famiglia già per Federico primo a Milano fu ornata della cittadinanza, è stata tradotta in lettere latine. Onde per dignità dell’ elegante poeta, n'è parso metter questi suoi versi ,. E trascrive appunto il De mensibus e il De origine rosarum. Na- turalmente l’espressione che il Daverio tradusse in lettere latine ciò che era scritto in caratteri longobardi non significa che il Daverio abbia tradotto in latino un'opera scritta in lingua longobarda, e nemmeno che il Daverio abbia tradotto dal latino in ita- liano, come molto stranamente interpreta il Riese, ma che ha trascritto dalla serit- tura longobarda di lettura assai difficile, in quella latina, ossia nella neo-carolina (1) Credo che abbia ragione il Baehrens quando ritiene erronea l'ipotesi che questi versi siano rivolti ad un contemporaneo, e non si riferiscano al mitico Perdicca (Uned. Lat. Gedichte, p. 8), ap- punto perchè sono dello stesso tipo degli epigrammi 219: De Narciso, e 221: De Cupidine; ma per questo medesimo motivo, e anche per l’indole generale di tali poesiole dell’Antologia, non è affatto probabile che i versi su Perdicca siano un frammento di un carme più ampio. (2) V. A. Riese, Literarisches Centralblatt, 1877, p. 1689. (3) Cfr. A. Riese, Rhein. Mus., vol. XXXII (1877), p. 319; E. Barmrens, Rhein. Mus., vol. XXXIII 1878), p. 313: Neue Verse des Dracontius. 54 ETTORE PROVANA 32 od umanistica, molto bella ed elegante. L’errore col quale Bernardino Corio confonde il conte Transimondo di Capua con Trasamondo, re dei Vandali, successore di Gun- tamondo, è stato rilevato da tutti. Anche i riscontri che le due poesiole hanno con l’opera di Draconzio, ci palesano la loro paternità: esse si possono considerare come parte dei Romulea per quanto abbiano un carattere alquanto diverso, quello epigram- matico e leggiero della massima parte delle poesie dell’ Antologia Latina, dove non mancano altri componimenti della stessa natura, ed anche dello stesso argomento (1). Se poi i versi De mensibus siano anteriori o posteriori al carme VIII. dato il riscontro del y. 5 col v. 469 di quest’ultimo, è cosa impossibile a dirsi: il Lohmeyer (2) osserva che, dato che il v. 469 del carme VIII non è fuori luogo, è probabile che Draconzio abbia foggiato il verso del carme minore su quello del maggiore, e questo è vero; ma bisognerebbe provare che viceversa esso non fosse del tuito a posto nel carme De mensibus. Senza dubbio è il solo accenno (insieme forse con l’Airia Solis del verso 15) a concetti astrologici, ma è pur vero che, contrariamente a quanto asse- risce il Lohmeyer, c'è un tale concetto del marzo anche alirove, cioè nel carme 117 dell’ Antologia Latina (Laus omnium mensium) v. 5: “ Martius in campis ludens simu- lacra duelli ,. Sarà meglio quindi neppur tentare tali cronologie inutili e mal fon- date, pensando pure che quasi sempre Draconzio riesce ad amalgamare assai bene nei suoi versi ciò che egli toglie ad altri: e questo vedremo meglio in seguito. Peggio poi è il fondare la cronologia sul fatto che questi brevi carmi si trovavano nello stesso codice insieme col poema in lode di Trasamondo. Abbiamo visto già a tale proposito che l’ordine, o meglio il disordine col quale ci sono pervenute nei codici le opere di Draconzio non ha nulla a che fare con l'ordine cronologico della compo- sizione, e forse nemmeno della pubblicazione fatta da Draconzio medesimo. Vi sono ancora alcuni carmi di dubbia o anche certamente falsa attribuzione. Sono del resto povere poesiole che non meritano davvero lo scalmanarsi di taluno per accettarle o per respingerle. Così il carme 676 dell’Antologia, composto di soli 12 esametri, che incomincia: “ Me legat, annales cupiai qui noscere menses ., è un miserabile centone di otto versi della Satisfacito, più uno (1°11°) del De laudibus dei (3). Molto difficilmente si tratta di un’opera di Draconzio, una prefazione al carme De mensibus, come vorrebbe il Rossberg (4), perchè, sebbene Draconzio usi ripetersi, non cè nessun motivo di attribuirgli una compilazione così meschina, senza altra testimonianza. Quanto al fatto che i vv. 2-12 del carme 676 si trovano ripro- dotti nell'Epistola ad Hunaldum di S. Colombano (vv. 78-87), con l'omissione del v. 10 il quale è invece il verso 24 della medesima epistola, osservo solamente che è cosa di nessuna importanza, tranne quella di riconfermare l'abitudine di Colombano (1) Cfr. Anth. 117 (11 quale però è diverso di forma, essendo in distici, ed anche di contenuto, che è tutto d’indole mitologica. mentire Draconzio vi mette un po’ del suo sentimento della natura), 394, 395. Per quest’ultimo vedi un’edizione più recente in Barmazss, P. L. MI p. 205; cfr. ancora Barmzexs, P. L. M., V, p. 359 e 379. (2) Schedae Phil.. p. 73. n (3) V. A. Riese, Jahresbericht der Hass. Alteriumswiss., 1881, 2, p. 100. Cfr. Volimer, p. 128, (nota a Sat, 247). (4) C. Rossszre, De Dracontio et Orestis quae rocatur iragoediae auciore eorundem poriarum Ver- gilii, Ovidii, Lucani, Statii, Claudiani imitatoribus, Norden, 1880, p. 34 (Corollariam). . 33 BLOSSIO LMILIO DRACONZIO 55 di prendere dappertutto ciò che gli talentava. Io non credo poi, come 11 Lohmeyer dice, che la presenza nel c. 676 di quel verso 24 provi tanto all’evidenza l’anterio- rità dell'epistola sul carme: piuttosto essa sarebbe dimostrata dal fatto che il primo verso è molto probabilmente tolto a Beda, come il Vollmer ritiene. Sono pure attri- buiti falsamente, secondo me, a Draconzio i versi In Zaudem solis (1), essendo certa- mente insufficienti le vaghe somiglianze metriche, prosodiche, linguistiche, le quali abbondano nei carmi dell’Antologia, vicini quasi tutti di origine e di tempo. Lo stesso dicasi dei Versus Octaviani Caesaris Augusti (2), che, come ben osserva il Lohmeyer, trattano materia diversa da quella che Draconzio suol trattare. È pure da respin- ‘gersi per mancanza assoluta di prove l’attribuzione fatta dal Baehrens (3) a Dra- conzio dei carmi: Quis deus hoc medium vallavit vepribus aurum, è Fabula constituit toto notissima mundo; e così anche altre attribuzioni probabilmente arbitrarie fatte a Draconzio di poesie perdute, delle quali non ci è rimasto che il titolo: così nel catalogo di manoscritti Lorscher del XIII secolo (4) è citato al n° 465: Dracontii metrum de virginitute. Nello stesso catalogo vi sono i titoli (n° 469 e segg.): metrum Cresconii in Evangel., l. I: eiusdem de duis gentium luculentissimum carmen; eiusdem versus de principio mundi vel de die iudicti et resurrectione carnis (5). J. Huemer pensa a Dra- conzio, ma sono fantasie. I carmi minori di Draconzio. Prima di stabilire, con la breve discussione del precedente capitolo, quali siano i documenti autentici dell'attività letteraria di Draconzio a noi pervenuti, ci eravamo posti intorno ad essa alcune domande che ora attendono risposta. Esamineremo tutte le opere di Draconzio ricercando quanto vi sia in esse di originale, di veramente suo: sarà questa l’espressione più intima e più sincera del suo spirito, questo il vero contributo di Draconzio alla storia della letteratura latina ormai agonizzante. Esa- mineremo anzitutto le opere di argomento e di carattere pagano, la variopinta e barocca cornice, entro la quale il poeta ha racchiuso i poemetti più semplici ed omogenei, in cui esprime limpida e tersa la sua anima cristiana. Varii di tempo e d’argomento, i Romulea fanno un curioso contrasto coi carmi cristiani, pressochè con- (1) Riese, Anth. Lat., 389; BarmrENs, P. L. M., IV, p. 434. (2) Riese, Anth. Lat., 672; Barmrens, P. L. M., IV, p. 179. (3) Barmrens, P. L. M., V, p. 216-217. (4) Baenr., Geschichte d. Rim. Liter., IV, $ 34. — Cfr. Becker, Catalogi bibliothecarum antiqui, Bonnae, 1885, p. 111. (5) Wiener Studien, VII, 1885: Aus alten Biicherverzeichnissen, p. 880. Questo Cresconius sarebbe il Flavius Cresconius Corippus, poeta africano della metà del VI secolo. L'ipotesi dell’Huemer, che si fonda, non so perchè, sulla testimonianza di Isidoro di Siviglia: de vir. ill, 24, è assolutamente infondata. Nemmeno comprendo come possa l’Huemer senz’altro asserire che a Draconzio si.riferisca l'indicazione al n° 465: “ ... de fabrica mundi metrum columbani et alii versus quam plurimi ,. Cfr. E. E. di Paury-Wissowa, art. Corippus (Skutsch). 56 ETTORE PROVANA 34 temporanei nella loro composizione, strettamente collegati per i concetti, le imma- gini, gl’'intendimenti, lo spirito informatore. Ma io credo che grande sia la loro importanza, e quindi in certo senso il loro interesse, perchè ci rivelano quello che io direi la parte negativa di un’anima di poeta, tutto ciò che tenacemente lo lega alla tradizione, alla scuola. alla corrente letteraria compassata ed erudita. Se nes- suno, nemmeno chi fu o si credette ribelle, è sfuggito mai completamente alla loro influenza, meno benefica forse che nefasta, tanto meno ne andò immune Draconzio che si concedette tutto ad esse, e non sognò mai certamente di cercare in una vi- gorosa reazione la salvezza e la grandezza dell’arte. Ma tutto ciò anzichè nuocere, giova assai a riconoscere e caratterizzare l’arte sua, perchè Draconzio non è mai forse tanto poco artista come quando si studia di esserlo maggiormente. Nei fre- quenti lampi di spontaneità e di sentimento che illuminano la massiccia tetraggine dei suoi carmi minori, Draconzio si manifesta assai bene quello che egli poteva essere, quello che fu, per quanto glielo consentirono l'educazione e i tempi, nei carmi cristiani. Le due prefazioni al grammatico Feliciano (Rom., I e III) hanno entrambe ca- rattere di elogio e di raccomandazione dell’opera del poeta al maestro, senza spe- ciale attinenza colla materia trattata nei carmi II e IV. Nella prima il poeta paragona il maestro ad Orfeo che col suo canto ammansa le belve più feroci, riconciliando ed amicando nature opposte: così Feliciano col fascino della coltura e dell’arte riunisce gli elementi più disparati, Romani e barbari (1). Il Vollmer avvicina il confronto istituito da Draconzio con passi di Seneca (Erc. Oet., vv. 1031 e segg.), Claudiano (Carm. XXXIV) e Frontone (Epist., Ed. Naber, p. 58) (2): ma io dubito molto che questo riaccostamento sia legittimo. Nel coro dell’Ercole Oeteo v'è la descrizione pura e semplice del mito di Orfeo, e così in Claudio Claudiano: in Frontone noi non troviamo un confronto, ma un'interpretazione allegorica del mito, la più semplice e la più naturale, quella che verrebbe in mente a chiunque, anche senza conoscere affatto il celebre grammatico africano. Draconzio invece stabilisce evidentemente un confronto; nei vv. 10-11 egli afferma il miracolo, e non cerca di spiegarlo allego- ricamente, il che equivarrebbe a negarlo. Ne sono una riprova i tre distici dell’An- tologia latina, pure dedicati ad Orfeo. che il Vollmer cita (3): quivi l'autore dà apertamente un'interpretazione allegorica, negando che il mito di Orfeo sia, per così dire, storicamente vero. Nessun motivo speciale ce’ induce a credere che Draconzio abbia pensato piuttosto a Seneca che a Claudiano o Frontone (4): basta il pensare ch'egli udì certamente la storiella di Orfeo nella stessa scuola di Feliciano, come la (1) Notiamo per incidenza che il confronto è stilisticamente male espresso (cosa non certo rara in Draconzio), perchè il poeta riunisce i termini di confronto in questo modo: ° v. 1, Orpheum vatem enarrant ut priorum litterae... v. 12, sancte pater, o magister, taliter canendus es ,; onde i due termini del confronto enarrant e canendus es non sì corrispondono bene. (2) L’epistola di Frontone incomincia con una grossa lacuna, ma si comprende subito che si tratta del mito di Orfeo. Certamente l’accenno di Frontone alle differenti nazioni in modo speciale, si accorda assai col pensiero di Draconzio, ma la differenza fondamentale è profonda. (3) Riese, 628. È un componimento assai breve attribuito a Palladio. Cfr. i versi 7-12. (4) L'espressione “ enarrant ut priorum litterae , è generalissima e può corrispondere alla nostra “ come narrano le antiche storie _. senza mensaro 24 nn lavoro storico o leggendario par- ticolare. 35 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 57 si ode ancora nelle scuole d'oggi. Noi rileviamo piuttosto che Draconzio si pone fin da principio da un punto di vista prettamente pagano senza preoccuparsi affatto di qualsiasi interpretazione allegorica, come si usava in quei tempi nell'Africa stessa (1). — D'indole affatto diversa è il paragone che il poeta fa nella seconda prefazione : senza ingombro mitologico, con sincerità e forza di espressione, egli paragona l’opera del maestro alla fecondazione che rende fertile la terra: vi appare già quel parti- colare senso della natura che così spesso anima Draconzio; egli si compiace di fer- marsi ad esemplificare i modi, i frutti, gli aspetti varii della fecondazione; e se pure si è ricordato di qualche frase delle Bucoliche e delle Georgiche virgiliane (2), noi leggiamo versi come quelli dall’8 al 10: “... et palmes verberet ulmos — contor- tusque fluat nodo viridante corymbus — et numquam positura comas flectatur oliva ,, nei quali l’espressione ha una classica semplicità ed efficacia. Le lodi colle quali si chiudono entrambe le prefazioni, hanno un accento sincero: vi si sente ancor vivo e giovanile l'entusiasmo del discepolo per il suo maestro. E l’ultimo verso: “ nam tua sint quaecunque loquor, quaecumque canemus ,, dimostra che solo le primissime sue poesie egli dedicava allora a Feliciano, e che è perciò cosa molto mal sicura l’attri- buire l'appellativo Romulea che appare nel v. 17, a tutta una silloge completa dei carmi di Draconzio d’'argomento pagano. La patetica favola di Hylas (3), il giovinetto compagno di Ercole, che le ninfe, invaghite della sua straordinaria bellezza, rapiscono, è narrata da Draconzio nel secondo dei carmi minori con quella mescolanza di artificio e di sentimento che è caratteristica di tutti gli epillii del poeta. Se veramente, come pare dalla prefazione, essa è opera di gioventù, certo assai per tempo Draconzio possedette vasta cultura mitologica ed anche vasta conoscenza della letteratura anteriore. Conosceva non sol- tanto gli autori più in voga: Virgilio, Orazio, Ovidio, Stazio, Lucano, Claudiano, ma anche i meno noti, e, secondo il Vollmer, anche Catullo. Non vi sono novità mitologiche tranne quell’accenno a Perdicca (4), che già abbiamo avuto occasione di discutere. Molto probabilmente del resto le fonti di Draconzio per il mito furono tutte latine, ed esso appare nella sua forma più recente, come ad esempio in quello di Ganimede, rapito da Giove “ fulminis ales ipse sui , (vv. 18-19). Il carme difetta molto di unità: il poeta, dopo una breve proposizione, si diffonde dal verso 4 al 94 in una lunga digressione, che ha molto poco a che fare col mito vero e proprio, anzi è in parte in contraddizione logica col resto. In modo assai curioso benchè non nuovo (5), Draconzio riferisce un colloquio fra Venere e Cupido, nel quale la dea, afflitta ed irritata dei pettegolezzi delle ninfe sul suo conto, invoca l’aiuto del figliuolo per una degna vendetta: ciò porge occasione al ricordo di tutte le prodezze di Cupido, che ha spinto uomini e dei agli amori più illeciti e mostruosi; onde l’elenco (1) Lo dimostra l’opera del poco anteriore Marziano Capella e del poco posteriore Fulgenzio Planziade. (2) Vere., Georg., 1, 116; Bucol. 1, 48. (3) Cfr. Anthol. Lut., 69 (Riese): De Hyla et Hercule. (4) Altre novità insignificanti sono il presentarci Amore amante delle Furie (v. 120), e un'amazzone amante di Licasto (v. 119). (3) Lo troviamo ad esempio in Apuleio, Metam., I, 28-30 (ed. R. Helm, Lipsia, 1907, p. 98-99). Serie IL Tox. LXII. 8 58 ETTORE PROVANA 36 delle avventure di Giove, poi quelle di Pallade e così via fino a Mirra e a Fedra. Venere chiede a Cupido che Climene la quale canta le colpe della dea, e le ninfe che stanno ad udirla, “ noscant quid sit amor , (v. 64), e soffrano in pena “ ut vota trahantur — ipsarum in longum, donec pubescat amatus ,. Così Draconzio riunisce due motivi mitologici e cerca la causa del fatto che prende a narrare in qualche cosa di anteriore e di nuovo. Nessuno prima di lui aveva congiunto il fatto d’Hylas con l’idea d'una vendetta di Venere; ma appare subito la sproporzione del mito con l’an- tefatto, e il poco valore di fronte al mito della digressione sulle imprese audaci di Cupido. Tanto più sottile poi è il filo di unione tra l’antefatto e il mito, in quanto le ninfe non mostrano affatto di accorgersi di dover aspettare che il giovinetto amato “ pubescat ,; se mai, colpito dalla sventura appare piuttosto Hylas medesimo che si spaventa e piange. Ridono invece le ninfe, quando lo trascinano nell’acqua, e con- solano il suo pianto con quelle parole semplici e belle, che non hanno riscontro in esempi classici (vv. 132-134): non te decet ora rigare fletibus, alme puer; ploret deformis imago, non est flere tuum, mundum tibi nullus ademit. Solo e desolatissimo rimane Ercole, la cui forza brutale il poeta sa mettere in bel contrasto con l’infantile debolezza di Hylas, e che manifesta il suo dolore con un lamento sincero e commovente (vv. 157-160); ed è veramente a deplorare che l’epillio si chiuda con un freddo e vuoto aforisma. Questo primo carme di Draconzio è, ab- biamo detto, già abbastanza ricco di imitazioni (chiamiamole così dando al vocabolo il valore più tecnico, più convenzionale che gli si possa attribuire): il Vollmer ne trova anche di quelle che per me non esistono affatto, come la frase (v. 64): “ noscant quid sit amor ,, che il Vollmer accosta a quella di Virgilio (Bue., 8, 43): “ nune scio quid sit amor .; è troppo evidente che il poeta per esprimere il suo pensiero non poteva usare parole diverse. Ma quando Draconzio usa le parole altrui, quasi sempre le incastona assai bene fra le proprie, e dà loro un colore affatto nuovo. Così al v. 115, dopo aver espresso forse con frase non bella (“ cunctis respirat hiatus — oris et ad crines digiti mittuntur amantum ,) atteggiamenti veramente belli e naturali, e aggiunge: “ incipiunt fari mediaque in voce resistunt ,, evidentemente egli qui si è ricordato dell’espressione di Virgilio (Aen., 4, 76): “ incipit effari mediaque in voce resistit ,, ma essa non si trova certamente meno a suo luogo nei versi di Draconzio che in quelli di Virgilio. Esempio caratteristico del nuovo colore che può assumere in Draconzio l’espressione imitata noi lo troviamo nel verso 125: “ ut puer est visus, faciles (1) risere puellae ,, che ricorda probabilmente il “ sed faciles nymphae risere , di Virgilio (Buc., 3, 9). Ma in Virgilio il faciles si può tradurre benissimo con indul- genti, o anche pieghevoli, condiscendenti, nel senso di poco serupolose; in Draconzio (1) Il fatto che Draconzio ripete più volte questo appellativo di facilis applicato alle Ninfe non è contro la libera interpretazione, perchè cento volte accade nella poesia latina e in ogni altra poesia che anche l'aggettivo stereotipo assuma in casi speciali significati speciali, o che sia diven- tato stereotipo appunto per influsso di un caso speciale e caratteristico. Noto poi ch’esso è usato in significato analogo anche da Properzio (ciò che è sfuggito al Vollmer), I, 11, 11: © nimium fa- ciles aurem praebere puellae ,. - è È S7 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 59 invece il significato è assolutamente diverso. Già nel verso 102 il poeta dice: “ o faciles Penei numina nymphae ,, e in questo caso il faciles non può significare se non flessibili, agili, svelte. Ma qui vi si aggiunge il significato di denevole, propizie, carezzevoli (1), in relazione coll’aggettivo lentus riferito ad Hylas: le ninfe ridono faciles appunto perchè credono che il giovinetto sia /entus (2); onde l’espressione ri- veste quel carattere grazioso, veramente infantile, che dà freschezza, sentimento, vita a tutta quest'ultima parte del carme. E noi dobbiamo sinceramente riconoscere che, se in esso non manca la retorica, l'inutile e vuota erudizione mitologica, l'imitazione talora servile e inceppata, d’altra parte già vi si rivela il poeta. La stessa felice scelta dell'argomento lo aiuta a manifestarsi: Ercole, eroe invitto e terribile, si tras- forma; di fianco al piccolo Hylas, la sua grandezza anzichè giganteggiare per virtù di contrasto, si attenua piuttosto e scompare; e il fato che lo perseguita, toglien- dogli anche il debole oggetto della sua affezione, ce lo rende più umano e simpatico. Quello che compie il miracolo è il sentimento; sentimento che abbassa l'eroe da- vanti alla nostra fantasia e lo eleva davanti al nostro cuore. Fin da questo primo saggio del nostro poeta noi troviamo in lui quella prevalenza del sentimento che è l’intima animatrice della sua arte: egli riesce fin d’ora, inconsciamente forse, ad analizzarlo, a colorirne anche le sfumature. La ninfa, che vuol consolare il fanciullo Hylas, gli dice tutto ciò ch’ella tiene in serbo per lui: Giacinto e Narciso che sono giovani e belli, perchè egli non si trovi solo; e poi tutti i fiori e tutti i profumi, per abbagliarlo, per istordirlo (3). Ci voleva davvero la critica che nella ricerca mec- canica delle imitazioni e dei riscontri perde il senso del bello. per non ravvisare altro in quest'epillio che un'esercitazione scolastica. Vera declamazione invece, retorica e vuota, è il carme IV dei Komulea, intito- lato: Verba Herculis cum videret Hydrae serpentis capita pullare post caedes. Esso non ha per noi che il valore di documento di ciò che continuasse ad essere dopo secoli l'educazione nelle scuole romane; dal punto di vista filologico ed estetico il suo in- teresse è minimo. La condizione dell'eroe infelice che lotta invano contro il nuovo mostro poteva avere alcunchè di grandioso e di patetico; ma il poeta cristiano non ne sa approfittare. Non gli soccorre nemmeno questa volta l’erudizione mitologica, e non lo ispirano e nemmeno lo aiutano le reminiscenze classiche. Però se vi scar- seggia il solito uso della frase altrui, si avverte invece molto l'imitazione di Seneca, che spesso nell’Hercules furens o nell’Oetaeus (4) mette in bocca tali lamenti ad An- fitrione o ad Ercole stesso. Se nelle tragedie attribuite a Seneca non troviamo Vor- (1) Tale è del resto il significato quasi costante di facilis in Draconzio: cfr. L. d., 2,761; sat. 77 (dove nota opportunamente il Vollmer che prende il significato di bandus: ° aspera vel facilis... natura ,; e tale significato conviene ottimamente al caso nostro); X, 266; Or., 279, 963. (2) L’interpretazione che il Vollmer (ed. di Drac., p. 368) dà all’aggettivo lentus in questo caso è certamente erronea. Il Vollmer non ha inteso qui lo spirito del testo, nè ha badato al significato letterale di pufant che esclude affatto l’interpretazione: amore captae tam serum venisse dolent, tanto più che si tratta di un fanciullo non ancora giunto alla pubertà. (3) V. versi 135-136: nos rosa, nos violae, nos lilia pulchra coronant nos Hyacinthus amat, noster Narcissus alumnus. (4) Cfr. Hercules furens, vv. 205 segg.; Herc. Oetaeus, vv. 1 segg. 60 ETTORE PROVANA 38 dine delle fatiche quale ce lo dà Draconzio, nell’intonazione e nei concetti la cor- rispondenza è invece evidentissima (1). Del resto è fenomeno abbastanza comune quello che si possa talora parlare a maggior diritto di imitazione colà dove man- cano i riscontri letterali e la somiglianza sta piuttosto nel concetto. Naturalmente un giovane poeta dinanzi a un tema che non lo ispira, e non può ispirarlo, ricorre a letture e a reminiscenze poetiche, che gli forniscono un caotico materiale, ch'egli poi tratta con altre parole, illudendosi di fare opera sua. L’eroica impresa di Ercole non poteva ispirare Draconzio, che non ha nulla di eroico, ed anzi, quando tenta di esprimerlo, cade facilmente nel grottesco, come in questa stessa declamazione (2); nè lo poteva ispirare l’ infelicità dell’eroe, una cosa troppo epica, troppo sublime. Draconzio non comprende il fato: in questo non è, e nemmeno sa fingersi, pagano. E la falsità della situazione dell’eroe, e quindi del suo lamento disperato, si desume anche dal fatto ch’egli già conosce il modo di trionfare dell’idra (vv. 50 e segg.): le sue parole avrebbero dovuto perciò essere in quel momento piuttosto di speranza che di sconforto. Draconzio non sapeva, pare, in che modo terminare, e freddamente, insulsamente, dopo aver parlato del male, termina con la ricetta. Del resto non fu certamente il solo a scrivere tali declamazioni: nella stessa Antologia Latina troviamo un esempio di declamazione attribuita a un personaggio mitico: Verba Achillis in parthenone, cum tubam Diomedis audisset (198, Riese): anche qui troviamo una breve parte espositiva nella quale il protagonista stesso descrive le sue condizioni; poi una seconda parte più propriamente declamatoria. Ancora più vuota, più falsa, più plumbea è l’altra declamazione che costituisce il carme V: Controversia de statua viri fortis. Lavoro dell’età matura, essa ci dimostra quanto poco valore abbia per certe tempre artistiche lo studio e l’opera di perfeziona- mento: una maggiore maturità d’anni non giova loro affatto ad una maggiore maturità d’arte. In tale nuova declamazione Draconzio cade assolutamente nel ridicolo, tro- vando modo di esagerare ancora quanto di assurdo e di ridicolo era, si può dire, connaturale alla controversia latina dai tempi di Quintiliano e di Seneca in poi. Nella stessa enunciazione dell’argomento (3) troviamo l’assurdo, perchè è ben strano che il rieco nemico del povero domandi che appunto della sua statua si faccia, non saprei in che modo, un rifugio. Del resto tale pasticcio grottesco non è neppure invenzione (1) Così, nonostante la differenza dell’espressione, è facile vedere quanto siano affini il concetto di quel passo dell’Herc. Oet., dove Ercole stesso impreca ed invoca su di sè l'ira degli dèi (vv. 1313 segg.), e il concetto di Draconzio, che muta l’imprecazione in preghiera (vv. 40 segg.). C'è talora una specie di parafrasi del concetto di Seneca. Così nei vv. 12-16 troviamo quasi una parafrasi e un’inversione del concetto dell’Herc. furens, vv. 35 seg., dove Giunone dice di sè stessa: © dum nimis saeva impero, patrem probavi, gloriae feci locum ,. (2) V. ad es. i vv. 15-18, dove non vi sono che grosse parole; e così i vv. 41-44. In un punto solo forse troviamo la semplice e graziosa espressione del nostro poeta, là dove Ercole parla della sua eroica impresa, mentre era ancora fanciullo, vv. 24-25: terror erat visus cunetis sonitusque dracorum quos manibus ridens compressi parvulus ambo. (3) Vir fortis optet praemium quod volet . pauper et dires inimici . bellum incidit civitati . dives fortiter fecit: reversus praemii nomine statuam petitt et meruit . secundo fortiter egit: reversus petiit praemii nomine usylum fieri statuam suam et meruit . tertio fortiter fecit: reversus petiit praemii no- mine caput pauperis inimici . pauper ad statuam divitis confugit . contradicit. 39 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 61 originale di Draconzio, ma è una combinazione di motivi presi qua e là dalle con- troversie attribuite a Quintiliano, o da quelle di Seneca. L'argomento generale è uno di quegli aforismi proposti a tema, quasi norme legali a cui si deve applicare il caso particolare (1). Ma neppure l'applicazione di Draconzio è originale: il concetto del- l’inimicizia tra il povero ed il ricco si trova nelle declamazioni attribuite a Quintiliano (Declam. maior. VII e XI, ove ricorre appunto la frase: pauper et dives inimici); così l’idea del ricco che riesce vittorioso in guerra e domanda un premio s'incontra nella declamazione XI* di Quintiliano (2), quella del chiedere in premio una statua in Seneca, nella controversia citata. Quindi l’unica trovata veramente originale di Draconzio è quella di trasformare la statua in un asilo. Si tratta del resto di una vera contro- versia, secondo le regole di Quintiliano, con il suo prooemium, la narratio, le varie quaestiones, le relative refutationes e perorationes, gli ercessus e gli epilogi (3). Ma forse la stranezza maggiore della controversia è la sua composizione in versi: non si può dire che sia un’originalità del solo Draconzio, perchè ne abbiamo un altro esempio nell’ Antologia Latina (4), onde è lecito supporre che fosse invalsa tale assur- dissima abitudine in quell’ultimo rifiorire della retorica nelle terre africane. Ma non fa certo onore a Draconzio il non essersi accorto che nulla v'era di meno poetizzabile che una controversia: la mancanza assoluta di sincerità, il ragionamento sofistico e parolaio, la falsità del sentimento, lo sforzo vano della fantasia formano un com- plesso mostruoso, dal quale la poesia semplice, affettuosa, ispirata, quella che tanto sovente è la poesia di Draconzio, resta cento miglia lontana. Io non cercherò fra questi cavilli il pensiero giuridico del nostro poeta; già in Seneca e Quintiliano del resto il materiale della discussione è fornito assai più da considerazioni e da astra- zioni morali, che non dalla positiva legislazione romana. Richiamano piuttosto la nostra attenzione gli accenni storici, scelti preferibilmente dalla storia o dal mito di Cartagine (5), e il fatto, del resto molto naturale, che in essi principalmente noi troviamo i riscontri con la letteratura anteriore, che mancano quasi del tutto nelle altre parti. Del resto il pensiero dominante in tutta la controversia è sempre il medesimo; quello che il potente ed il ricco devono servirsi delle loro facoltà per beneficare, e non per opprimere i deboli; è l’imprecazione contro la guerra civile, ripetuta più volte con parole diverse. I sentimenti di mitezza e di carità che l’argo- mento induce Draconzio a palesare ed esaltare, dovrebbero, pare, anche inconscia- mente portarlo a manifestarsi cristiano: su di essi egli insiste continuamente nelle poesie cristiane, usando anche talora le stesse immagini. Nel carme V si trova non (1) V. Seneca, Contror. X, 2 (31): Vir fortis quod volet praemium optet. Quinm., Declam. maior. IV: Vir fortis optet praemium quod volet. , (2) Reversus est dives victor a bello . petit ad supplicium filios pauperis. Cfr. anche Quinr., Decl., 103, 104. (3) Cfr. Quinr., Ist. orat., III, 9, 11. (4) Riese, 21. Non mancano nemmeno esempi classici, come le epistole erotiche di Ovidio, ma fra esse e le declamazioni giuridiche in versi di Draconzio vi è ancora distanza grandissima. (5) Così per illustrare il concetto che il ricco dovrebbe piuttosto farsi protettore del debole e del povero che desiderarne la morte, cita l’esempio di Roma che volle risparmiare a Cartagine la rovina (vv. 108-110). Cfr. F/or., 1, 31, 5. Non mancano d’altra parte gli errori storici; così al v. 214 dice che Scipione “ Minturnas depulsus obit ,, confondendo Scipione con Mario. Scipione morì a Liternum. 62 ETTORE PROVANA 40) solo il confronto colla generosità del leone che risparmia la preda giacente, come nella Satisfactio, v. 137 e segg., ma vi sitrova il verso 312: “ gramina non tangunt, “ feriunt sed fulmina quercus ,, al quale corrispondono perfettamente i versi 277-280 della Satisfactio, nei quali si parla della bontà del principe, che, ad esempio della bontà divina, deve essere misericordiosa con gli umili. Ma a chi legga tutto il carme appare manifesto che il poeta si mette anche in esso da un punto di vista assoluta- mente pagano, non solo per i frequenti cenni mitologici, ma anche perchè ad un certo punto la patria esorta apertamente il potente a non farsi tiranno per meritarsi anch'egli, come già Ercole, come Castore e Polluce, l'onore della divinizzazione (1). Così proprio là, dove sembrerebbe più giustificata l’ipotesi della derivazione e della fonte letteraria, maggiormente si scopre la lontananza dello spirito e del pensiero. Nei due epitalamii che il codice napoletano ci ha conservato del nostro poeta (VI e VII), noi ritroviamo qualcuno dei tratti caratteristici di Draconzio, il quale in un genere di poesia, congiunto anch’esso indissolubilmente ad una vecchia usanza, che nulla gli offriva di per sè stesso di fresco e di originale, si sollevò alquanto al di sopra dei precedenti carmi. Naturalmente egli imitò l’indole e l’andamento dell’epitalamio, quale da Licinio Calvo e da Catullo in poi si era venuto schema- tizzando nella letteratura latina. Im Roma, dove, a differenza della Grecia, non cor- rispondeva ad una precisa usanza, l’epitalamio (2) assunse subito il carattere descrittivo e panegirico. Il canto nuziale non manca quasi mai, ma non è indipendente; inserito entro la descrizione o il racconto, sovente non consiste in un coro di giovani e di fanciulle, ma in un augurio messo in bocca ad una divinità: e questo carattere così libero e particolare va sempre più accentuandosi nei poeti più tardi e in quelli cristiani. In tutti questi epitalamii di carattere convenzionale (3) troviamo sempre i soliti elementi: riesumazione dei più celebri amori che la mitologia ricordi, elogi agli sposi e alla loro famiglia, e infine l’epitalamio vero e proprio, ossia l’invito all'amore. Talora negli ultimi epitalamii s'incontrano anche accenni di circostanza, come in quello di Claudiano: In nuptias Honorii Augusti (4), dove si trova in mas- sima parte l’elogio delle imprese guerresche dell’imperatore; e in quello di Sidonio Apollinare: Epithalamium Ruricii et Hiberiae, ed assai più nel secondo: Epithalamium x Polemii et Araneolae (5), che è tutto di natura filosofica per la qualità di filosofo (1) V. versi 321-323: accipe thura potens ut Tirynthius aris, ut Thebis partus, magnus cum Castore Pollux semidei post fata vigent. (2) V. Daremsere et SacLio, Lex. des ant. gr. et rom., art. Hymenaeus; R. Scammr, De Hymenaeo et Talasio dis veterum nuptialibus, Kiliae, 1886, p. 41. Cfr. J. MarquarDI, La vie privée des Romains (Trad.), vol. I, Paris, 1892, p. 64 segg. (3) Escludo naturalmente quelli di Catullo, del quale i carmi 61 e 62 sono veri epitalamii di tipo greco, e il 64, l’epitalamio di Peleo e di Teti, è tale soltanto dal v. 323 in poi. — Epitalamii di genere descrittivo o panegirico sono ad es. quello delle Silvae di Stazio (I, 2), l’AMlocutio spon- salis di Avito, il Cento Nuptialis di Ausonio, l’Epithalamium Fridi di Lussorio; inoltre quelli di Claudiano, quello di Paolino di Nola per Giuliano, quelli di Sidonio Apollinare, quello di Ennodio: Epithalamium Maximi. (4) V. M. G. H., Auct. Ant., X, 1892, ed. T. Birt, p. 126. (5) V. Carm., XII e XV (M. G. H., Auct. Ant., VII, 1887, ed. Luetjohann, p. 227 e 234). 41 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 63 dello sposo. Dappertutto poi in questi epitalamii abbonda lo scurrile e l’osceno; ed è notevole come l’oscenità e l’artifizio procedano quasi di pari passo, forse perchè la situazione da descriversi è sempre la stessa, od anche perchè l’oscenità, sovente purtroppo spontanea, ha bisogno dell’artifizio per farsi tollerare (1). Draconzio non poteva prescindere da questa tradizione dell’epitalamio che si era formata in Roma: eppure noi troviamo nei due epitalamii di Draconzio, molto simili del resto fra loro, una nota affatto personale. Nella poesia d’occasione Draconzio inserisce la voce del proprio dolore, o quella della propria riconoscenza ; e l’interesse del poeta incarcerato per chi vive la vita e la gioia, e il suo lamento mite ed accorato, e nell’epitalamio VI, il libero e sincerissimo giubilo di un animo riconoscente, coloriscono e ravvivano di spontaneità e di schiettezza questi componimenti convenzionali. Lo stesso apparato mitologico è meno ingombrante, trattato con una certa snellezza e senza sforzo. E l’oscenità che deturpa alcuni epitalamii della letteratura latina, è assolutamente eselusa da Draconzio, il quale pure non ha scrupoli eccessivi, e concede alla natura tutto ciò che si può e si deve concedere. Descrive anch'egli l’amplesso coniugale, e parla candidamente della violenza che la sposa deve soffrire, e l’esorta, come già altri, a non temere e a non resistere all'amore; ma colorisce tutti questi vecchi motivi dell’epitalamio di una semplicità quasi ingenua, che altrove difficilmente s’in- contra: spirito sano e sereno, parla con semplicità e naturalezza di ciò che è naturale, senza la ritrosia schifiltosa degli uni e il sogghigno sguaiato degli altri. V'è ad esempio certa delicatezza e nobiltà di espressione in quei versi 53-56 del carme VI, che pure trattano una materia scabrosa; egli dice delle due spose: has matronali societ de more catervae blanditus sub fraude dolor sub vulnere casto servatumque diu rapiat hac nocte pudorem et poenae sit merces amor, pia pignora nati (2). Potrebbe parere strano che un poeta cristiano, come Draconzio, abbia composto un carme d’indole schiettamente pagana, quale è l’epitalamio: tanto più che i suoi due epitalamii furono composti l’uno durante la prigionia e l’altro immediatamente dopo, quando cioè egli aveva già limpidamente manifestato il suo sentimento cristiano nel De laudibus dei. Io noterò non soltanto che l'esempio di Draconzio non è certamente per questo rispetto il solo, ma anche che nulla v'è negli accenni al rito pagano che sia, negli epitalamii di Draconzio, direttamente opposto al concetto cristiano del matrimonio (3): nè d’altra parte egli poteva comporre un epitalamio, togliendovi quanto sapesse di pagano, senza distruggerlo. Ma, se Draconzio ha naturalmente imitato la generale forma poetica, se ha preso a prestito da altri, ma con molta e notevole moderazione, qualche verso o qualche parola, tutto ciò non distrugge il (1) Il più caratteristico sotto questo aspetto è il famoso Cento Nuptialis di Ausonio, che dice le cose più sconce servendosi dei più innocenti versi di Virgilio; non mai il Virgilianismo, che in questi ultimi secoli della letteratura diventa cosa affatto esteriore e meccanica, cadde tanto in basso. Cfr. L. VarmaGci, IL “Virgilianismo , nella letteratura romana, “ Riv. di Fil. ,, XVIII, p. 373 segg. — V. anche D. Comparemmi, Virgilio nel Medio Evo, vol. I, p. 71 segg. (2) Vi corrispondono nel carme VII i versi 51-64, certo non meno delicati. (3) Strano è anzi il fatto che il nostro poeta trasforma talora il rito pagano dandogli un aspetto diverso. V. ad es. VII, 64 segg. 64 ETTORE PROVANA 49, merito grande della sincerità, nè il valore delle espressioni sue personali. Nell’epi- talamio VI, pieno della sua riconoscenza per gli illustri benefattori, le lodi sono temperate (1). Nell’epitalamio VII, scritto ancora dal carcere, piange pietosamente la sua sventura: al pensiero della festa che si celebra fuori delle mura che lo chiu- dono, sente un desiderio pazzo di libertà e di vita, una tristezza profonda per la sua solitudine tanto lunga e tanto buia, e manifesta tutto il suo animo nel modo più sincero. E vero ch'egli ricorre a vecchi confronti, tante volte ripetuti, ma la sincerità sua appare evidentissima, sia perchè egli è parte viva in ciò che dice, sia per il modo col quale lo dice. Io non so come avrebbe potuto meglio paragonarsi, poeta incarcerato, al cui orecchio giungono i canti festivi di chi è libero e beato, all’uccello chiuso nella rete (vv. 96-105): insidiis curvato vimine clausa, quae cantu mulcere solet sub voce canora arboreum per cuncta nemus durosque labores agricolum, silet intus habens captiva dolorem libertatis amans auras nemorumque cacumen et tacet omne melos retinens sub voce silenti; altera si resonet modulatis cantibus ales, ingenuos dat capta sonos quasi libera vernans ut credatur avis ramo cecinisse virenti illa tamen querulas miscet male garrula voces. Quanta concretezza e grandiosità di visione in quell’ “arboreum per cuncta nemus ,! E quanta profondità di sentimento in tutte le immagini, in tutte le espressioni! Il canto del povero uccello soleva mitigare non meno la selvaggia asprezza del bosco che i “ duros labores , dei contadini: così Draconzio abbraccia la natura inanimata e la natura umana in una sola immagine e in un sentimento solo. L'uccello tace perchè chiude entro di sè il suo dolore, agognando proprio la vetta degli alberi, dove c'è più aria, aria di vita e di libertà; e quando sente i gorgheggi altrui, istintiva- mente, dimenticando a un tratto il suo stato, risponde, ma il suo canto stesso, senza che esso se ne accorga, si vela del suo dolore. L’arte vera e spontanea soccorreva sempre Draconzio quando si trattava di cose che ne interessassero profondamente lo spirito. Modestissimo sempre quando parla di sè, egli esordisce invece con una solennità tutta nuova l’Epillio De Raptu Helenae (Rom. VIN), il quale non ha, mi pare, l’im- portanza particolare che gli vollero dare alcuni studiosi (2). Il poeta pare che voglia promettere grandi cose (vv. 1-3): Troiani praedonis iter raptumque Lacenae et pastorale scelerati pectoris ausum aggrediar meliore via. Naturalmente quell’ “ aggrediar meliore via , fa subito pensare come mai Draconzio presuma di narrare meglio una favola già consecrata dai più grandi e più vetusti (1) Non si può certo dire esagerato l'elogio dei primi versi, tanto più che in essi sì allude ap- punto a quella beneficenza, della quale il poeta ha avuto tante prove. (2) Vedremo parlando dell’Orestis tragoedia, che non ha nemmeno l’importanza che gli vuol dare il Barwinski (Quaest. ad Drac. et Or. trag. pertinentes; II. De rerum mythicarum tractatione, progr. Deutsch-Krone, 1888) per dimostrare l'autenticità dell’Oreste. 43 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 65 monumenti della letteratura greca e romana, e cento volte ripetuta da minori poeti e da mitografi. Ma Draconzio stesso spiega subito meglio il suo concetto (v. 3 e segg.): “ nam prodimus hostem — hospitis et thalami populantem iura mariti ,; e poco innanzi si rivolge in tono dimesso ad Omero e a Virgilio (1) scusandosi quasi di osar tanto, e dicendo che si accontenta di narrare ciò che essi hanno tralasciato, come la volpe s'accontenta dei resti del pasto del leone. Non pretende quindi Draconzio di ritrat- tare in modo artisticamente più perfetto la favola già nota, ma di dare una nuova versione, secondo lui, più razionale, sulle cause della guerra troiana: questo rile- varono già il Wagener e il Barwinski (2). Io credo che Draconzio abbia voluto alludere ad un nuovo intendimento, un intendimento morale, ch'egli sì propone trattando quel mito: tanto più che era, l'abbiamo già osservato, tendenza generale in quel tempo, ein modo particolare tra gli africani, quella di razionalizzare, o moralizzare il mito (8). Ad ogni modo noi rivedremo brevemente la ricerca che il Wagener e il Barwinski hanno fatto della fonte mitologica di Draconzio ; senza voler negare con questo sin- cerità al vanto del poeta, sia perchè tale redazione non ha precedenti poetici, sia per il motivo che già abbiamo esposto. I due dotti tedeschi hanno scoperto la fonte di Draconzio nel De excidio Troiae attribuito a Darete Frigio, composto, pare, nel quinto secolo, fonte principale nel Medio Evo di tutte le leggende relative ai cavalieri del ciclo troiano. In parecchie cose Draconzio si discosta dalla favola tradizionale, e quasi sempre s’'accorda in esse con Darete Frigio (4). Egli fa che Paride, ancora pastore sull’Ida, conosciuta la sua vera origine, ritorni a Troia, e a questo punto ricorda alcuni fatti miracolosi, che sono di sua invenzione : si piegano le torri, la terra geme, cadono in parte le mura, cadono le porte Scee : un subbisso disordinato e mostruoso, come accade sempre in Draconzio, quando vuol descrivere ciò che è ad un tempo strano e grandiosamente terribile. Nonostante tutto questo, Paride è accolto a braccia aperte da Priamo, da Ecuba, da tutto il popolo festante; e neppure servono a farlo allontanare o a mitigare gli slanci affettuosi, i foschi vaticinii di Eleno e di Cas- sandra. Qui il racconto di Draconzio comincia ad accostarsi a quello di Darete Frigio e lo segue poi con sufficiente fedeltà fino al fondo. Paride è irrequieto di dimostrare ch'egli sa fare qualche cosa di meglio che il pastore, e di andare in cerca della sua bella, quale Minerva gliela promise : allora Priamo lo manda a Salamina a reclamare (1) È curioso il modo col quale aposirofa Virgilio, prendendo occasione da un semplice episodio, per quanto lunghissimo, del suo poema (vv. 19-21): et qui Troianos invasit nocte poeta armatos dum clausit equo, qui moenia Troiae perculit et Priamum Pyrrho feriente necavit; ma ciò si può spiegare col fatto che Draconzio vuol parlare di cose attinenti alla guerra troiana, anzi anteriori ad essa, e che non avrebbe senso chiedere scusa a Virgilio di trattare ciò che egli ha trascurato, se non alludendo a una relazione qualsiasi tra i fatti che Virgilio canta, e quelli che Draconzio prende a narrare. (2) C. Wacener, Beitrag zu Dares Phrygius, Philologus, XXXVIII (1879), p. 120 segg.; BaRWINSRI, loc. cit. (3) V. la trattazione del Monceaux intorno a Marziano Capella nell’opera citata: Les Africains, p. 445-459. (4) Naturalmente in questa rassegna dei rapporti fra Draconzio e Darete non faccio che seguire i lavori del Wagener e del Barwinski. Serie II, Tox. LXII 9 66 ETTORE PROVANA 44 presso Telamone la sorella Esione, che Ercole aveva condotto colà e Telamone aveva sposato: ma, per prudenza, lo fa accompagnare da Antenore, Polidamante ed Enea (1). Così in Darete Antenore è mandato a Salamina a fare la stessa richiesta, ma quand’egli ritorna col rifiuto, Priamo manda una spedizione armata agli ordini ‘ di Paride, accompagnato da Deifobo, Enea, Polidamante. In Draconzio Paride ritor- nando dalla pacifica, ma infruttuosa spedizione, separato da una tempesta da tutti gli altri, rapisce Elena a Cipro, mentre Menelao si trattiene in Creta, e ritorna a Troia, quando già Enea e gli altri vi erano giunti, e già Priamo temeva che il figlio fosse perito in mare : allora Paride ed Elena sono accolti secondo il solito con grande affetto. In Darete Frigio la legazione guerresca approda nell'isola di Citera, dove Paride ed Elena, saputo della reciproca vicinanza, si trovano in Elea, che Paride espugna portandosi a Troia la sua Elena (2). Draconzio concorda anche con Darete nella considerazione, in cui mostra di tenere Troilo, il minore dei fratelli di Ettore, come hanno riscontrato il Wagener e il Barwinski. Io credo però che vi sia qualche differenza nel ritratto morale che noi abbiamo di Troilo in Darete e in Draconzio: nel primo è sopratutto eroe fortissimo e sterminatore di nemici: in Draconzio è pure un forte eroe, ma più gentile; vi appare un certo contrasto fra Ettore, il massimo eroe, e Troilo, giovane ed infelice. Alle giulive accoglienze fatte agli sposi Ettore è presente senza partecipare alla festa, ma anche senza timore (v. 624): “ Non invitus adest nec gaudet fortior Hector ,; ma Troilo è meno forte e più pensoso: “ quem Troilus sequitur, nec lividus, at tamen aeger — non membris sed mente gravis ,. Se dunque fra il racconto di Darete e quello di Draconzio vi sono delle somiglianze notevoli, non mancano le differenze. Ora noi dobbiamo escludere che Draconzio sia stato fonte di Darete, perchè, secondo le ottime ricerche del Wagener, molto difficil- mente le fonti di Darete sono state latine, se pure non si tratta di una traduzione o di un rifacimento dal greco. Molto importante sarebbe il poter dimostrare cate- goricamente che Darete sia stato fonte di Draconzio: sarebbe risolta la questione tanto discussa, se l'opuscolo di Darete appartenga al quinto o al sesto secolo (3); ma le differenze fra i due racconti lasciano sussistere il dubbio. L’ipotesi più proba- bile è che abbiano attinto entrambi ad una medesima fonte; non però ad una fonte singola e ben determinata, come vogliono il Wagener e il Barwinski, ma piuttosto ad una tradizione corrente e diversa da quella consecrata dalle opere classiche. Si (1) Alla spedizione di Paride si oppongono in Darete Frigio Eleno, Panto e Cassandra; così in Draconzio all'accoglimento di Paride in Troia e al suo invio a Salamina si oppongono Eleno e Cassandra; ma non si dà loro retta per l’intervento di Apollo Timbreo in favore di Paride. (2) La narrazione di Draconzio presenta somiglianze non soltanto con la versione di Darete Frigio, ma anche con quella di Servio nella sua nota ai versi dell’Eneide, X, 90-91: quae causa fuit consurgere in arma Europam Asiamque et foedera solvere furto? (3) Su questo punto, come su quello delle fonti di Darete, e ipoteticamente della sua fonte unica che avrebbe tradotto, o sunteggiato, o rimaneggiato, dura ancora l’incertezza e il dissidio fra gli studiosi. Cfr. E. Gorra, Testi inediti di storia Troiana, Torino; 1887 (Introd., p. 16-32); egli pone Darete nel VI secolo, d’accordo con quasi tutti gli altri: il Koerting, il Meister, il Wagner. Solo il Rossbach nel suo articolo nella R. Z. del Pauly ammette che quella di Darete possa essere opera. del V secolo. Il Teuffel (Gesch. d. Ròm. Lit., p. 1209) non si pronunzia. acne —— — 45 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 67 trattava adunque di leggenda ben nota, usufruita già dallo stesso Servio ; nè si deve quindi pensare che il vanto di Draconzio fosse fondato essenzialmente sulle novità introdotte nel mito. Il vero vanto di Draconzio è quello di scegliere una versione che sì presta meglio ad un'interpretazione morale della causa che condusse alla guerra troiana. E così si spiega assai meglio la proposizione dell’epillio, e si spiegano i versi immediatamente seguenti (3-6), che parrebbero a primo aspetto un’inutile divaga- zione. Come dal principio, così dalla chiusa dell’epillio risulta l’intendimento morale (vv. 654-655): orbentur superi, coelum gemat et mare plangat: crimen adulterii talis vindieta sequatur. Tutto il lungo e pesante carme di Draconzio è dominato dal concetto e dal senti- mento di riprovazione dell’adulterio : lo si sente in tutto il colloquio fra Antenore e Telamone. Il poeta insiste a descrivere l'ira di quest’ultimo per l’indegna richiesta dei Troiani (vv. 285 e segg.): at Telamon mentes armabat in iras, nam pietas affectus amor concordia proles accendunt motus in pectore fellis amari. conubium regni thalami consortia casti scindere poscebant, et quod mens nulla tulisset Aiacis haec mater erat. Bello veramente quest’ultimo pensiero del poeta al quale ricorre subito alla mente la grande nobiltà dell'ufficio materno, che già aveva celebrato in principio dell’epillio. Particolarmente interessante sotto questo aspetto è il colloquio di Paride con Elena, quando si palesano il proprio amore. Gli eroi veri e propri trattano l’amore un po alla brava, come tutto il resto; il vero eroe rifugge da ogni galanteria e da ogni sdolcinatura. Nelle parole di Elena e di Paride invece noi troviamo un vero squarcio di psicologia borghese. Elena, che già brucia di passione, fa naturalmente la ritrosa e la “ pudibunda ,, e si accontenta di invitare il giovane a palesare la sua stirpe, e come mai egli sia capitato in Cipro. Poi tace con pudibonda confusione e con reticenze espressive. Ma il perfido pastore, £ ut sensit fragiles mulieris pectore sensus , (v. 508), non si cura di rispondere subito a ciò che Elena gli ha chiesto, ma reginam laudabat amans, culpare maritum coeperat absentem quod iam pulcherrima coniunx a tepido deserta viro neglecta vacaret, e aggiunge che se a lui toccasse una moglie come quella, così splendida di bellezza, non cesserebbe naturalmente di adorarla e di servirla. Quanto alla sua stirpe, egli vi accenna in fine in modo molto misterioso, ma anche più lusinghiero. Allora anche Elena vince ogni titubanza e si concede al nuovo amante con una curiosa e impu- dente giustificazione (vv. 535-539). Da tutto questo lavorio del poeta per illuminare di luce antipatica la psicologia del rapitore e della rapita, da quel metter loro in bocca i più comuni e più artificiosi sofismi dell’adultero, appare che sopratutto egli vuole imprimere un marchio d’infamia sulla colpa, sia pure commessa dagli eroi del 68 ETTORE PROVANA 46 mito (1). E tale riprovazione sussiste, nonostante l'intervento di quel benedetto fato, che Draconzio porta in scena senza sentirlo e senza comprenderlo. Parrebbe a primo aspetto che egli dia al fato una parte preponderante nell’azione, ma in realtà non è così (2). Intanto egli confonde il fato coll’intervento divino, coll’ira degli dèi, quando dice che Paride non s’accorge del pericolo che corre giudicando Minerva, onde non egli solo è dannato alla rovina, ma con lui tutta la sua stirpe e la sua città, Troia e la Grecia. Così quando, chiedendosi anch'egli, come Virgilio, la causa di tante sven- ture, la trova nella mancata restituzione di Esione a Priamo, onde il ratto di Elena: “ Sie dolor — egli dice — exurgit divum, sic ira polorum — saevit et errantes talis vindicta coércet? , E ne dà, pare, tutta la colpa ai fati, agli empi, agli inflessibili fati (vv. 57-60); la verità è che sia gli dèi, sia i fati, ma certo più ancora i fati che gli dèi sono per lui una cosa postiecia, presa a prestito dalla tradizione, ma non penetrata affatto nel suo spirito. Naturalmente i fati ritornano nelle declamazioni di Eleno e di Cassandra, e più esplicitamente ancora nelle parole di Apollo che predice i grandi destini della stirpe troiana: ma i poveri fati cadono fin nel ridicolo nelle parole dell’adultera, secondo la quale sono proprio essi quelli che, vivente il primo marito, gliene offrono un secondo. Ben diverso sarebbe il linguaggio di chi si senta trascinato dal fato; vi sarebbe nelle sue parole qualche cosa di profondo e di solenne, qualche cosa forse di accorato e di triste, come di chi si sente domi- nato da una forza contro la quale è vana la lotta. Nelle parole di Elena non v'è ombra della tragica grandezza del fato, non c'è neppure quell’ “ amor che a nullo amato amar perdona ,, vi sono soltanto i miserabili pretesti sotto i quali si pallia la colpa. Quindi quella stessa apparente prevalenza del fato che parrebbe contraria alla mia ipotesi di un intendimento morale del poeta, si palesa invece a favore di essa, quando la si consideri un po’ attentamente. Possiamo del resto osservare che (1) È notevole che in ciò si allontana dalla tendenza di Darete Frigio, generalmente più favo- revole ai Troiani che ai Greci in tutta la sua storia, come anche nell'episodio particolare che Dra- conzio narra. (2) Per i vv. 49-56 il Vollmer muta assai l’interpunzione e quindi il significato della lezione accettata dal Dubn; ma non mi pare che in questo caso egli abbia ragione. Il Vollmer scrive: pro matris thalamo poenas dependit Achilles (unde haec causa fuit), forsan Telamonius Aiax sternitur invictus, quod mater reddita non est Hesione Priamo; sic est data causa rapinae, cur gentes cecidere simul, cum sexus uterque concidit, infanti nullus post bella pepercit. sie dolor exsurgit divum, sic ira poloram saevit et errantes talis vindicta coercet? Dalla lezione del Vollmer risulterebbe quindi che il poeta negasse affatto altra causa di tutte le sventure tranne quella dell’empio fato. Ma ciò è in aperta contraddizione con quanto dice poco prima (vw. 37 segg.), dove dà chiaramente per causa della guerra troiana il giudizio di Paride e la conseguente ira di Minerva. Evidentemente qui il poeta pensa a tre cause, o meglio due: quella, per così dire, storica e quella religiosa dell’ira degli dèi che non distingue bene da quella del fato. Quindi meglio è tenersi alla lezione del Duhn, perchè in essa le cause sono ben distinte; il ratto è prodotto dall'ira degli dèi e insieme dal fato, che ad esso spingono Paride, la sventura di Troia è causata dal ratto. Del resto ad interpretare le parole: “ unde haec causa fuit , (v. 50) come una interrogazione, induce anche il confronto con Virgilio, Aen., X. 90-91. ” 47 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 69 appunto là dove egli parla del fato, o di argomento prettamente pagano, riesce maggiormente vuoto e declamatorio: così il vaticinio di Cassandra è una breve, ma perfetta suasoria (1). A dispetto invece della logica e del fato, Draconzio rivela qua e là i suoi lati migliori. Egli non può immaginare che Paride, riconosciuto per figlio al suo ritorno a Troia, non abbia dai genitori accoglienza affettuosa. Primo è il padre (2), il quale sente la vergogna di avere allontanato da sè quel figliuolo e lo abbraccia; e se la madre giunge più tardi, la colpa è dell’età assai più, che del sentimento. Insieme con questa pittura del sentimento imperfetta, ma vera, troviamo ben espresso l’amore alla vita semplice, pastorale. Certamente anche per questo elemento, come per quello epico, il carme è tutto pieno di Virgilio, e quando Dra- conzio fa dire ad Apollo: “ ego pastor Apollo — ipse fui domibusque canens pecus omne coegi, — cum procul a villa fumantia tecta viderem , (vv. 206-208), più che lo spirito di Virgilio si appropria le parole stesse (3); ma il sereno ricordo del dio, che vuole nobilitare col suo esempio la condizione di pastore, è molto opportuna- mente messo a contrasto con le solenni espressioni di prima. E si sente tutta la delicatezza e la semplicità del poeta là dove dice la trasformazione che si compie nell'animo di Paride che disprezza il gregge, le fonti, le umili case, i pascoli, le selve, i fiumi, i campi; disprezza persino la buona compagna sua fino a quel tempo, la ninfa Enone; egli al quale Venere “ talem promisit in Ida, — qualis nuda fuit , (vv. 64-65). Così in questo epillio, dove manifestamente il poeta ha voluto fare qualche cosa di più che negli altri carmi, sono accumulati tutti i difetti che guastano le sue opere minori: il vano sforzo di giungere all’espressione epica, la vuota declamazione, il traviamento di fondamentali concetti pagani, il contrasto fra l’ordine morale e quello cieco impreteribile del fato, fra la sublimità eroica e la bassezza borghese. Perciò il poeta non riesce a nulla di quanto si era proposto : riesce invece, inconscia- mente, a taluna di quelle espressioni semplici ed affettuose che sempre gli cadono dalla penna, quando una materia ribelle non gl’inaridisce il sentimento. Ill carme IX: Deliberativa Achillis an corpus Hectoris vendat, è forse il più infelice di tutti: è questa volta un esempio di deliberativa, vera falsificazione di una delle più grandi e più commoventi scene che l’arte greca abbia saputo dipingere. Nulla di più pazzo, di più irragionevole, di più fanciullesco che l’ira del divino Achille sempre, e più che mai quando fa inutile strazio del corpo dell’eroe infelice; nulla di più sublime di quella commozione un po’ ruvida e fiera che lo induce a cedere alle lagrime di Priamo. Ma Achille agisce sempre a scatti e ad impulsi: chiunque altro potrà ragionare, Achille non ragiona mai: e proprio a lui il buon poeta rivolge la sua suasoria composta secondo tutte le buone regole di Quintiliano. Notevole è il concetto col quale egli esordisce: nulla più importa all’anima delle vicende di quel corpo dal quale è uscita come dal carcere; e questo è evidentemente un con- cetto cristiano, per quanto non affatto nuovo nella poesia pagana (4), tanto più che (1) Vi si possono riscontrare persino le varie parti della declamazione: il prooemium dal v. 135 al 144, la narratio dal 144 al 159, poi le varie perorazioni dal 159 al fine; non manca neppure una quaestio, della quale naturalmente non compare che la risposta nei versi 169-175. (2) V. versi 106-111. x (3) Cfr. Vere., Buc., 6, 85; 1, 82. — V. anche Horar., Carm., 1, 2, 1. (4) V. ad es. Lucano, VI, 720-722; cfr. anche Mario Virrore, Alethia, vv. 50-52. 70 ETTORE PROVANA 48 il poeta v’insiste lungamente. Non certo agli eroi d’Omero, che anche nella pace degli Elisi vivono sospirando il dolce sole, potevano riuscire persuasive le ascetiche parole di Draconzio (cfr. vv. 23-30). Infatti al poeta stesso s’affaccia subito alla mente la quaestio: “ at inquies: si pest vitam animae corpora sua despiciunt, pro Hectore cur rogamus? , È come se ciò potesse avere un valore per Achille, gli dice che egli non prega per Ettore, ma per la madre, la sposa, il figlio di lui. per quella Troia che ha perduto il suo più grande eroe. Anche in questo carme come nel IV egli termina col rimedio preparato già fin dal principio: venda Achille il cadavere del suo nemico, e rechi così un nuovo danno ai Troiani coll’immiserirli. Più mise- rabile davvero non potrebbe essere la conclusione di un carme, il quale del resto non lasciava sperare nulla di meglio. Anche in quegli spunti patetici nei quali il sentimento di Draconzio poteva trovare alimento e vita, le tinte sono troppo cariche, e la vuota declamazione guasta ogni cosa, come nei versi 149-183, ove descrive Andromaca, Ecuba, Priamo che cercano disperatamente i resti dispersi del loro Ettore. Qualche pennellata più viva e più vera egli riesce a tracciare, quando descrive la bambinesca incoscienza del piccolo Astianatte (vv. 173-176): o quando contrappone al dolore tutto lacrime e lamenti della moglie di Ettore, Andromaca, quello più com- posto e meno rumoroso della sorella Polissena (1). Peccato che egli guasti subito la bella scena con un enfatico : “ cognosce puellam ,. Quanto a noi non spenderemo altre parole attorno a questo carme, che non dovremo forse più ricordare. Nessuna novità importante troviamo nell’ultimo epillio che il codice napoletano ci ha tramandato, il carme X: il poeta non ha qui altro intento, che quello di nar- rare le gesta di Medea, la potenza prodigiosa della sua arte magica. D'altra parte i versi coi quali l’epillio si chiude sono una protesta contro tutte le irrazionalità e le barbarie del mito: e l’orrendo e il mostruoso che il poeta sparge a piene mani in questo epillio ribadiscono l'ipotesi che esso sia una piccola battaglia contro il mito, che persiste, non già come fondamento della fede del tempo, ma come elemento caro alla cultura e oggetto preferito dall'arte. Ma questo cenno finale può esser semplice- mente diretto a lasciar trapelare quale fosse la vera credenza del poeta; del resto egli prende il mito sul serio (2), con perfetta finzione artistica. Egli anzi accoglie il mito di Medea tale e quale senza introdurre modificazioni di sorta, e lo attinge naturalmente, più che da un determinato autore, dalla tradizione ancor viva, special- mente nella scuola. Il Vollmer indica quali fonti di Draconzio Apollonio Rodio e Valerio Flacco: anche Ovidio (3) qua e là è imitato, ma non si tratta che di riscontri verbali assai sparsi, e non collegati nè nel loro complesso, nè caso per caso con l'argomento speciale che Draconzio tratta. Per Valerio Flacco invece, per il quale si tratterebbe di argomento affine, i riscontri sono molto scarsi ed anche, secondo me, molto dubbi: (1) Opportunamente il Vollmer nella sua nota al v. 43, che riaccosta a Six. Im., 6, 567: © Vultu interdum sine voce precati ,, respinge la correzione del Rossberg che vorrebbe, in conseguenza di tale raffronto, mutare il nutu di Drac. in rultu. A me pare che si può davvero fare a meno di ri- correre a Silio Italico per spiegare le naturalissime parole di Draconzio (vv. 38-43). (2) Cfr. i primi versi dell’epillio (1-6). (3) Quasi tutte le reminiscenze di Ovidio provengono dalle Metamorfosi. CIT) i 49 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 71 certamente non sì può negare che Draconzio si sia ricordato nello scrivere la sua Medea dell’Argonautica di Valerio Flacco, tanto più che lo imita qua e là anche all'infuori di questo epillio; ma la disposizione della materia, il modo della trat- tazione appare subito anche ad una superficiale considerazione molto differente, e fa credere che Draconzio non abbia cercato di imitare Valerio Flacco più che altri poeti e mitografi, che trattarono lo stesso argomento. Più impressionante forse riesce il raccostamento di Draconzio al poemetto famoso di Apollonio Rodio che fu quello che fissò, si può dire definitivamente, nelle sue linee fondamentali, il mito degli Argo- nauti e in gran parte quello di Giasone e di Medea (1). In entrambi i poeti Giunone interviene in favore del suo Giasone, inducendo Venere ad invitare il protervo figlio- letto a ferire il cuore di Medea colle sue freccie (2): anzi il verso 55 di Draconzio “ est nimis acceptus iuvenis mihi pulcher Iason ,, ricorda benissimo quello di Apol- lonio Rodio (3, 66): “ xaì d° @Zl20s éu xaè mov éuoì uéya piAtav ’INo@v ,, dove Giunone dice il suo affetto per Giasone, che un giorno era stato pietoso con lei, ap- parsagli in figura di vecchia. Io non negherò una lontana derivazione di Draconzio da Apollonio, perchè la stessa autorità del grande alessandrino contribuì a fissare nella leggenda mitica certi luoghi comuni, passati poi nella tradizione. Nè d’altra parte ha troppa importanza il riscontro letterale citato: i due poeti trovarono en- trambi cosa troppo naturale che Giunone ricordasse il motivo della sua predilezione per Giasone; ma Draconzio chiama Istro (3) e Apollonio Anauro il fiume attraverso il quale l'eroe avrebbe portato la dea: ora ben difficilmente Draconzio avrebbe mutato nome al fiume se avesse seguìto anche in questo solo episodio l’alessandrino. Quanto al resto le narrazioni dei due poeti sono assai differenti: in Apollonio non soltanto Giunone, ma anche Minerva si reca a perorare la causa dell’eroe; inoltre Venere non va ella stessa in cerca di Amore, ma spedisce Imeneo, il quale non trova Amore nell'Olimpo, occupato in trastulli con Ganimede; ma Amore gli balza dinanzi dal fondo del mare. Ma più ancora che in queste varianti di particolari, la differenza dei due racconti si rileva dal fatto che in Apollonio abbiamo un congruo svolgimento di tutte le parti, mentre in Draconzio troviamo piuttosto un complesso di episodii mal riuniti. A me pare più naturale il supporre che Draconzio, così avvezzo all’am- plificazione retorica di particolari insignificanti, abbia se mai cercato fonti più suc- cinte ed anche a lui più vicine. Tutto lo svolgimento del fatto quale Draconzio lo narra, si trova nella favola XXV di Igino, intitolata appunto Medea (4); è un racconto (1) Per il mito di Medea cfr. DaremBERG ET SagLio, Dictionnaire des antiquités grec. et rom., ar- ticoli Medea e Jason; R. E. del Pauty, art. Argonautai; Roscner, Ausfiihr. Lexicon der griech. und rim. Mythologie, art. Jason e Medeia. (2) Notiamo che in Apollonio non è per nulla accennato il fatto della prigionia di Giasone e della sua condanna ad essere sacrificato a Diana. (8) Le parole di Draconzio sono (vv. 56 segg.): est nimis acceptus iuvenis mihi pulcher Iason, qui gelidum quondam mecum transnaverat Istrun et nune infelix trabitur captivus ad aulam. Nel verso 57 Draconzio non fa che ripetere una frase di Claudiano, Carm., XXVI, 489 (ed. Bir., M. G. H., Auct. Ant. X, p. 271). 1 (4) V. Hygini Fabulae, ed. M. Schmidt, Iena, 1872, p. 55. Draconzio per rendere la cosa più ter- ribile fa che Medea stessa, e non i suoi figli, presentino la corona alla sposa. 72 ETTORE PROVANA 50 affatto schematico, ma che presenta tutti i tratti caratteristici della favola di Dra- conzio, come l’innamoramento di Giasone per Glauce, la figlia di Creonte; onde la gelosia e l'ira di Medea, la quale con una corona avvelenata, composta di materie infiammabili, fa perire nelle fiamme Glauce insieme con Giasone e Creonte ; poi uccide ella medesima i figli che ebbe da Giasone, Mermero e Ferete. Molto probabilmente insieme con la versione corrente del mito e insieme con le favole di Igino, Draconzio ha avuto presente anche la curiosa tragedia intitolata Medea, un centone virgiliano che il codice Salmasiano dell’antologia latina ci ha conservato, e che Tertulliano attribuisce ad Hosidius Geta (1). Un indizio lo si può scorgere nella presenza di quella nutrice che nella tragedia di Geta compare appena (vv. 374-381) quale com- plice nell’uccisione dei due figlioletti, e nell’epillio di Draconzio (225-238) cerca di vincere le esitanze di Medea, mentre essa sta per uccidere Giasone. Del resto tutta la tragedia di Geta presenta il mito quale Draconzio lo narra: solo nell’incendio finale non perisce anche Giasone, al quale però Medea “ ex alto , predice la morte. Lo scarso interesse che l’epillio di Draconzio presenta per quanto riguarda la leg- genda, diminuisce ancor più se noi ne consideriamo la composizione. Sotto questo punto di vista il confronto con Apollonio riesce disastroso ; la viva grazia infantile che allieta i versi dell’Alessandrino non trova che qualche debole riflesso in Dra- conzio. La prima parte dell’epillio ha un’intonazione graziosa e delicata, ma senza anima, senza sincerità : il sorger di Amore dal mare è tutta una pittura secentistica. Più vero e più efficace riesce il poeta là ove descrive i figli di Medea che cercano rifugio dalle fiamme in seno alla madre che li ucciderà (vv. 531-536). Anche qui tuttavia il fatto è più narrato che descritto, più pensiero che sentimento ed imma- gine. Tutta poi la psicologia di Medea è falsa ed assurda. Il mito, aggravando man mano i delitti e le colpe di Medea, cercò sempre di farne una vittima infelice della passione e del fato, e di temperare l’atrocità che la circonda con l’immensità tre- menda del suo stesso dolore. In Draconzio v'è l’atroce e il mostruoso, e manca qual- siasì cosa, che possa renderci non dico simpatica, ma tollerabile Medea. Ella giusti- fica tutte le atrocità non tanto colla gelosia e la passione chela trascina, quanto col _ desiderio di lavare una colpa più grave: la sua infedeltà quale sacerdotessa di Diana. In fondo la passione più forte che domina Medea è, per Draconzio, un feroce egoismo : ella teme l’ira divina, e commette i delitti più orrendi per placarla ed evitarne la vendetta. Non v'è dubbio che Draconzio ha voluto fare più che altro un lavoro retorico dando grande rilievo ai contrasti; così se la prima parte dell’epillio è tutta soave ed idillica, la seconda è tutta una pittura a colori foschi: la Medea della prima parte contrasta con quella della seconda, e tutto l’epillio è diretto ad illuminare tale contrasto, mentre le imprese di Giasone sono accennate appena. Draconzio del resto non descrive affatto nemmeno lo svolgimento dei sentimenti di Medea e trasvola sull’episodio dell'uccisione di Absirto con tre versi frettolosi e pedestri (363-365): (1) Riese, 67; Barurens, P. L. M., IV, p. 219. Cfr. ScHanz, Gesch. d. rim. Lit., parte III, p. 44-45. 51 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 73 dormierat serpens: pellis subtracta marito traditur, et pariter fugerunt fratre necato. accipiunt natos et singula pignora portant (1). Il poeta aveva fretta di passare alla seconda parte (che incomincia appunto dal verso 366), per mettere in chiara evidenza il contrasto della Medea odiatrice con la Medea amante. E Giasone nell’epillio di Draconzio non è nulla: da principio egli implora la pietà di Medea, e le concede tutto, non per riuscire a compiere le sue imprese, ma per aver salva la vita. Draconzio che a tante cose rinunzia in que- st’epillio, affinchè ne spicchi precisa e viva la figura di Medea, non riesce affatto a plasmare questo carattere, perchè lo porta oltre i confini del reale e del possibile, e ne falsa il posto che esso occupava nel mito, senza farne una creazione nuova. Insieme coi carmi minori di Draconzio va considerata anche quella curiosa Orestis tragoedia, attorno alla quale già la critica si è esercitata non poco (2), spe- cialmente per quanto ne riguarda l’autenticità, la quale del resto è ormai innegabile ed evidente. Persino la storia di tutto questo lavoro critico è già stata fatta recen- temente dal Giarratano nella quarta parte delle sue Commentationes Dracontianae. È strano che quest'altro epillio di Draconzio abbia avuto una certa fortuna nel medio evo, e persino forse nel rinascimento, come appare dalle citazioni che ne conser- viamo (3); perchè, se per ampiezza e anche per l’importanza dell’argomento può ap- parire quale il maggiore degli epillii di Draconzio, non ha certo alcun valore parti- colare. Il Barwinski, dopo di aver studiato le peculiarità linguistiche nell’Oreste, e di averle dimostrate molto affini a quelle di Draconzio, cercò di confermare i risultati della sua ricerca, con quella di particolarità mitologiche e di composizione, che di- mostrano l’identità dei due autori (4). Ame non pare ammissibile la congettura del Barwinski che nei primi versi (22-27) del carme VIII vi possa essere un accenno a quest Oreste che Draconzio aveva già scritto o intendeva di scrivere. E nemmeno ha, secondo me, valore di prova il fatto che sia nell’Oreste, sia nel carme VIII s'incontrano novità mitologiche, tanto più che neppure il Barwinski può provare che esse deri- vino da una stessa fonte e nemmeno da una stessa tradizione. Il fatto che Servio, commentando il verso dell’ Eneide, XI, 268, fa cenno ad un’altra versione del mito (5), (1) V. anche i versi seguenti più sciatti e più prosaici ancora (366-370). — Di fronte all’esiguità della narrazione vera e propria sta la lunghezza e il gran numero dei discorsi, posti in bocca agli dèi e agli eroi, che occupano circa la metà di tutto l’epillio. (2) Ricordiamo qui i lavori principali che trattano dell’Orestis tragoedia: L. Miner, Anonimi Orestis tragoedia, Rhein. Musewmn, 21 (1866), p. 455 (oltre alla solita critica del testo l'A. fa alcune osservazioni filologiche); A. Roramaer, Jahrbb. f. kl. Phil., 95 (1867), p. 861; H. Hacen, Philologus, 27 (1867), p. 157 (tratta dell’autenticità); B. WesrHorr, Quaestiones Grammaticae ad Dracontii car- mina minora et Orestis tragoediam spectantes, Diss. Monaco, 1883. Inoltre i lavori citati del Barwinski e del Giarratano. (3) V. Voruxer, prefaz. all’ed. di Drac., p. x, nota 15, p. xxx segg. (p. xxxv: Proverbia Orestis). Cfr. G. Carpucei, Opere, vol. XX: Cavalleria e Umanesimo, Bologna, 1909, p. 133. (4) V. Quaestiones cit.: II. De rerum mythicarum tractatione. (5) Osserviamo tuttavia che dal cenno di Servio parrebbe che l'iniziativa e l’esecuzione del de- litto spettasse ad Egisto in particolare, mentre in Draconzio Egisto è tutto pauroso e titubante, e solo si lascia indurre al delitto dalle esortazioni di Clitemnestra, la quale ne è veramente l’ispira- trice e anche l’esecutrice principale. Ciò del resto potè essere consigliato a Draconzio dal suo solito gusto di fare le cose tremende ed efferate quanto più è possibile. Serie II. Tox. LXII. 10 74 ETTORE PROVANA i 52 quella che noi troviamo in Draconzio, nel racconto dell’assassinio di Agamernone, mentre d’altra parte la versione del mito nel Ratto d’Elena, corrisponde a quella accolta da Servio nel commento a Virgilio, Eneide, X, 90 e segg., non conduce ad. alcuna conclusione veramente ragionevole e sicura. Che poi da quelle parole del com- mento di Servio: “ in ipso limine imperii, id est in litore, quia Clytaemnestra Aga- memnoni occurrit et illie eum susceptum cum adultero interemit ,, possa essere derivata l’idea di Draconzio di porre Micene in riva al mare, mi pare molto dubbio, sia per il fatto che egli espone la seconda versione e non la prima, sia perchè le parole: “ in ipso limine imperii, id est in litore , inducono piuttosto a pensare che Micene fosse distante dal lido, se il commentatore pone in rilievo il fatto che Cli- temnestra andò ad attendere il marito fino al confine dei suoi dominii. Inoltre altri elementi di tale versione, come quello di aver usato lo stratagemma di una veste “ clauso capite ,, si trovano già, come osserva il Barwinski stesso, in molti altri poeti. In conclusione non è certo che Servio sia stato fonte di Draconzio per il Ratto d’Elena, nè per alcuni particolari fonte dell’Oreste, e quand’anche lo fosse, ciò non avrebbe valore di sorta per attribuire a Draconzio la paternità dell’Orestis tragoedia. Lo Schenkl (1), prima del Barwinski, rilevò altre novità mitologiche, come V’in- contro in Tauride di Agamennone di ritorno da Troia e di Ifigenia, ch'egli credeva morta, e invece si trova colà sacerdotessa di Diana, il nome di Dorylas (2) dato al pedagogo di Oreste, la spedizione di Oreste in terra straniera per sfuggire alle in- sidie di Molosso, Oreste chiamato in giudizio da quest’ultimo nel tempio di Minerva in Atene. Sono tutte novità abbastanza strane, ed io credo che siano frutto dell’im- maginazione di Draconzio stesso. Può darsi che glie le abbiano suggerite, come vuole il Barwinski, analoghe situazioni che s'incontrano nell’Eneide o nelle Metamorfosi d’Ovidio; ma in tal caso, osservando che altre d’indole non diversa vi corrispondono nella Medea e nel Ratto d’Elena, mi pare che vi si possa aggiungere un altro movente: la tendenza del poeta, specialmente nei carmi minori, a destare l’interesse e l’attenzione del lettore più colla novità e colla stranezza delle situazioni che per forza di fan- tasia e di sentimento. Questa ed altre particolari caratteristiche dell’arte del poeta possono aiutarci forse meglio di ogni altra cosa a riconoscerlo: e il Barwinski stesso opportunamente ricorre a questi speciali caratteri per confortare la sua tesi. Primo fra tutti è la quasi esclusione dell'intervento divino: gli dèi sono nominati per tradi- zionale vezzo letterario in principio e in fine dei carmi, e non hanno alcuna efficace ingerenza nello svolgimento dell’azione. Veramente l’intervento divino ha una certa importanza nella Medea; nel Ratto d’Elena sta più nelle affermazioni del poeta che nel fatto stesso; nell’Oreste è quasi nullo. Noi possiamo aggiungere l’osservazione che nemmeno Draconzio cerca di descrivere un naturale svolgimento di passioni e di sentimenti che diano impulso all’azione. Ma da tutti e tre i suoi maggiori epillii appare che una passione, un sentimento solo egli mette in fondo all’azione: l’amore sensuale o illegittimo, che conduce inevitabilmente alla catastrofe. Abbiamo veduto come nel Ratto d’ Elena egli volesse dimostrare le funeste conseguenze dell’adulterio : “ (1) Nella sua edizione dell’Orestis tragoedia, Praga, 1867. (2) Il Barwinski osserva che tale nome può essere stato tolto o da Ovidio (Met., 5, 130; 12, 380) o da Stazio (Theb., 2, 571; 3, 13). 53 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 75 nella Medea invece appare evidente che, mentre l’amore illecito è quello di Glauce e di Giasone, il poeta colorisce in modo assai più antipatico l’amore di Medea e di Giasone (1), più subìto e tollerato, che non desiderato da quest’ultimo, e la catastrofe, se ha per causa indiretta l’adulterio di Giasone, è provocata piuttosto dall’egoismo e dalla gelosia furibonda di Medea. Nell’Oreste non v'è traccia di un intento qual- siasi: nei primi versi il poeta non fa che enunciare il suo argomento, negli ultimi esce in una vuota declamazione contro la mitologia, o meglio contro la crudeltà di essa (2). Del resto il carme è vuoto e declamatorio tutto intiero, pieno di quei pro- cedimenti secenteschi di stile, che guastano un po’ tutta la poesia di Draconzio. Sopratutto poi vi domina l’antitesi; non si leggono dieci versi senza incontrare queste antitesi rafforzate da giuochi di parola di pessimo-conio. Tutti questi procedimenti artificiosi e formali, se da un lato contribuiscono ad escludere che Draconzio avesse un serio intendimento dimostrativo, dall’altro confermano che la materia dal poeta trattata era assolutamente estranea al suo spirito, ponendosi egli forzatamente anche in questo epillio da un punto di vista pagano. Io non credo che si possa affermare con tanta sicurezza insieme con lo Schenkl e col Barwinski (3), che siano veramente indizi di fede cristiana alcune espressioni d’indole molto generale, come “ clementia coeli , del v. 949, “ origo polorum, naturae caelestis amor , dei vv. 857 e seg.; e così quella “ sapientes lumine cordis , del v. 911, e il v. 923: “ dum medicinalem tribuunt per corda salutem ,. Invece i versi 470-473 si possono considerare forse più d’ogni altra quale vera espressione di fede cristiana, specialmente per la scelta delle frasi (ad es.: “ si transitus est mors ,). Quanto alla frase “ armentur pietate manus , del v. 607 non occorre certo ricorrere, come fa il Barwinski, a tanti passi della Vulgata per ispiegarla (4); nè si trova in essa vero indizio della fede cristiana del- l’autore. L’Orestis tragoedia adunque, che tanto ha dato da fare alla critica, ha per noi un minimo interesse; perchè, se poco importa per la storia del mito una sua tarda manifestazione, quando il mito stesso nell’animo del poeta è cosa morta, tanto (1) Tutta la pittura graziosa e attraente che il poeta cerca di fare dell'amore nella prima parte dell’epillio, è cosa generica, che non ha intima relazione col caso speciale di Medea e Giasone. Medea anzi non è mai tenera e carezzevole nel suo amore, le sue parole sono sempre od incolori od aspre; ella non prega, anzi comanda e trionfa (vv. 138-139): mox thalamos subiere pares, laetatur Tason sponsus et in castris Veneris Medea triumphat. (2) Infatti solo pochi versi prima dice tutto il contrario nelle parole che pone in bocca ad Oreste, quando parla in sua difesa (vv. 920-924): non de lite mea sententia vestra ferenda est, sed de iure deum, qui me purgasse probantur, dum medicinalem tribuunt per corda salutem. nemo poli servare deum puto velle iniquum. Cfr. anche i vv. 279-281. (3) Op. cit.; ugualmente si dica di quasi tutte le citazioni che il Duhn fa a questo proposito nell’indice della sua edizione di Draconzio, a p. 90. (4) Osserviamo del resto che nessuna delle espressioni della Vu/gata, citate dal BarwInsKI, Epist. Petr., 1, 4, 1: © Christo igitur passo in carne et vos eadem cogitatione armamini ,; Corinth., 2, 6,1: 5 per arma iustitiae ,; Rom., 6, 13: “ arma iniquitatis... arma iustitiae ,; Ephes., 6, 14: “ succineti lumbos vestros in veritate et induti loricam iustitiae ,, corrispondono bene alla frase di Draconzio. 76 ETTORE PROVANA 54 meno ci può interessare una favola di questo genere, quando l’arte del poeta non sappia farci sentire vivamente l'elemento umano del mito. E Draconzio non fa nè l’una cosa nè l’altra (1), benchè qualche espressione viva e fortunata gli cada anche qui dalla penna. Ecco ad esempio le prime parole colle quali Clitemnestra eccita il debole Egisto al delitto (vv. 162-166): quae sexus armata dolis sub fraude latenti incipit effari: “ iuvenis, dic quid sit agendum. occidimus, redit ille meus post bella maritus victor et armatus zelo mordente minatur moribus argolicis leges inducere castas ,. Le parole dell’adultera sono veramente insinuanti, piene di astuzia e di fiele; specialmente la frase: “ redit ille meus post bella maritus victor , esprime mirabil- mente tutto l’odio e il disprezzo di un animo travolto da una nuova passione. Ma sono rapidi tocchi, che si smarriscono nella farragine vuota e sonora di tutto il resto. L’epillio, singolarmente pieno di reminiscenze, usate molto sovente a sproposito, corona degnamente i carmi minori di Draconzio; o forse essi meritavano un corona- mento migliore, perchè il poeta, che pure qualche parola sincera di affetto e di dolore aveva sparso qua e là, si concede qui a tutti i peggiori artifizi del suo stile, mentre il tema gli offriva spesso occasione di manifestare le particolari attitudini del suo spi- rito e della sua arte. La Satisfactio. La Satisfactio è stata composta (e noi l’abbiamo a suo luogo dimostrato) in un momento di grave pericolo per il poeta: e la disgregazione e il disordine delle varie sue parti sono prova della fretta e del turbamento di spirito del poeta nel comporre questo carme singolare. Noi troviamo, è vero. delle lunghe digressioni, ma in esse non si perde del tutto, oziosamente, il concetto e il sentimento informatore di tutto il carme. Un poeta che per lunga abitudine si è avvezzato a certi procedimenti nelle sue composizioni, non smette di punto in bianco l’abito suo, quando gli accada di dover scrivere dietro un impulso affatto spontaneo, e per un motivo imprevisto. Se mai trasformerà l’abito suo, lo colorirà in un determinato modo, ma non lo svestirà mai del tutto. D'altra parte noi troviamo nella Satisfactio ripetuti pensieri, immagini, motivi del De laudibus dei (2); ma dobbiamo pensare che al poeta, chiuso in carcere, naturalmente nacquero, o rinacquero in cuore sentimenti che ne informarono per tutto quel tempo il pensiero, l’opera letteraria, l’azione. Se tanto rieca si palesa nei (1) Anche nelle scene più delicate di sentimento e di affetto, Draconzio riesce in questo epillio quanto mai esagerato e ridicolo; cfr. ad es. l’incontro di Agamennone e di Ifigenia in Tauride (vv. 60-64). (2) Il concetto e il procedimento col quale il poeta incomincia la Satisfactio, è il medesimo col quale incomincia il secondo e il terzo libro del De laudibus dei, e molto analogamente, sebbene con parole differenti, anche il primo. 55 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 77 Romulea la sua cultura mitologica, mentre nei carmi cristiani ricorrono con curiosa insistenza gli stessi esempi e spesso le stesse parole, tratte più o meno liberamente dalla Sacra Scrittura, ciò non è indizio d'una minor conoscenza dei libri sacri che di quelli profani, nè (se pure per altri motivi la nostra conclusione potrà essere questa) di una certa povertà di fantasia nell’autore, ma piuttosto del naturalissimo predominio di certe idee e di certe immagini. La fretta stessa che trascina il poeta a ripetersi è quella che lo porta, secondo me, alla più lunga digressione del carme, quella sul tempo e le sue influenze sopra le vicende umane (1): egli segue il suo pensiero ciecamente, in tutte le divagazioni, e non lo interrompe invece, o lo violenta, come avviene nelle digressioni artificiosamente e studiatamente introdotte. Egli si stacca man mano dal concetto fondamentale, ma poi ad esso ritorna. Il poeta in sostanza vuol dire : la vita e la morte dei cittadini non devono essere all’arbitrio del principe, poichè dipendono da una legge estranea, quella del tempo, che regola tutte le cose. Del resto i punti di contatto della Satisfactio cogli altri carmi furono molto esagerati dal Lohmeyer (2): solo una dozzina di luoghi nei 316 versi del carme, hanno riscontro in altri carmi di Draconzio, e spesso si tratta di poche parole. E nessuno vorrà negare che il poeta parli con vivo accento di sincerità sia dove confessa la sua colpa, dicendo con umile e robusta frase (vv. 41-42): ast ego peccando regi dominoque deoque peior sum factus deteriorque cane, “ sia dove ricorda al principe la sua fama e le sue benemerenze, quale “ rex dominusque pius ,, sia dove ne implora il perdono, e ricorda le belle parole del libro della Sa- pienza: “ etsi peccavi sum tamen ipse tuus , (vv. 307-311) (3). Naturalissimo questo prevalere di reminiscenze della Scrittura, che offriva al poeta tante belle espressioni di pentimento e di dolore, e gli poteva servire in certo modo quale documento di difesa davanti al principe. Certamente la Satisfactio non è, nemmeno parzialmente, un’opera d’arte; ma Draconzio probabilmente si trovò inceppato dalla necessità di trovare materia poetica gradita al principe, cercando nel tempo stesso di patrocinare la propria causa e di commuoverlo. Poco avrebbe giovato a Draconzio il semplice e libero sfogo del suo dolore, mentre forse Guntamondo meditava di aggravargli la pena: e d’altra parte nei momenti del pericolo parla assai più la preoccupazione per il futuro che non l’affanno presente. La difficoltà del còmpito, l’ansia del pericolo, il timore di dir troppo o troppo poco, o male, dovettero essere ostacoli gravi per il nostro poeta alla libera ed artistica espressione di ciò che gli agitava lo spirito. Della Satisfactio, come di buona parte del De laudibus dei, conserviamo un rima- neggiamento di Eugenio, vescovo di Toledo (4), che per incitamento di Chindasvinto re dei Visigoti (642-649), sottopose ad una revisione parte dei carmi cristiani di Draconzio. Era poeta anch'egli, e di lui conserviamo un certo numero di. poesiole di (1) Comprende i vv. 219-264. V. sopra, la nostra discussione a proposito di essi. (2) De Dracontii carminum ordine, Schedae Phil. cit. (3) V. Sap., 15, 2: “ Etenim si peccaverimus, tui sumus, scientes magnitudinem tuam ,. (4) Per gli elementi di una biografia di Eugenio, vedi Vollmer, ediz. di Draconzio, Index no- minwn, p. 300. 78 ETTORE PROVANA 56 carattere panegirico e morale (1); ma sia per i tempi assai più tardi nei quali visse, sia per la mancanza assoluta di ogni ingegno poetico, resta molto al di sotto del poeta africano. Ma, pur riconoscendolo egli stesso nella prefazione poetica ai libelli Dracontii, com'egli li chiama (vv. 13-17), egli pretende di fare. (e lo dice chiaramente nella dedica a Chindasvinto) anzitutto una correzione estetica dell’opera di Dra- conzio (2). Sebbene Eugenio abbia rimaneggiato anche parte del De laudibus dei, pure la sua lima si esercitò maggiormente sulla Satisfactio. È strano che Eugenio la con- sideri quale “ liber secundus , dopo il primo libro del De /laudidus dei (3): più strano ancora che nell’ “ argumentum , che ad essa premette, distingua due colpe per le quali Draconzio l'avrebbe scritta: l'una verso Dio, e sarebbe un errore con- tenuto nel primo libro del De laudibus dei; l’altra verso il principe, il quale sarebbe, secondo Eugenio, Teodosio II. Si tratta evidentemente di errori di Eugenio : lo dimo- strano non solo la subscriptio della Sutisfactio autentica di Draconzio, ma anche gli accenni interni dell’elegia, come quello agli Asdingi, quello ad Ansila, quello a Vin- comalo. E se è vero che Draconzio chiede perdono prima a Dio e poi al principe, appare chiaro che la sua colpa è una sola da quei versi nei quali, dopo aver detto che essa era di aver taciuto le glorie dei suoi principi e di aver celebrato un si- gnore ignoto, prima che al suo re ne chiede perdono a Dio: “ quem non ulla iuvat ultio, sed venia — cuius sancta manus sustentat corda regentum , (102-103) (4). Ma la correzione di Eugenio non ha esclusivamente uno scopo estetico: lo di- mostra a priori, secondo taluni, il fatto che egli si pone a quel lavoro per esortazione del re Chindasvinto. I carmi di Draconzio dovevano avere una certa diffusione in Ispagna, se Chindasvinto stesso se ne occupava: ma probabilmente non correvano per le mani dei lettori nella loro integrità ; già prima di Eugenio, il primo libro del De laudibus dei doveva essere stato pubblicato a parte, e unito poi con la Satisfactio, se Eugenio di Toledo limita la sua correzione a questi brani dell’opera di Draconzio, classificandoli come libro primo e secondo (5). Ma che Eugenio abbia avuto nella sua revisione anche un intento politico, come sostennero coloro che la ricordarono, asso- lutamente non credo. Si pensò a questo intento politico per due motivi: per ispiegare l'intervento del re in questa revisione, e il fatto che Eugenio ha voluto, pare, omet- tere tutti i brani dove più Draconzio elogiava il suo re, perchè si diceva che non poteva certo piacere ad un re cattolico quella lode ad un principe ariano e vandalo. Ma contro tale asserzione stanno le parole citate di Eugenio e le allusioni di Ilde- (1) Lo stesso volume dei M. G. H., che ci dà l'edizione di Draconzio, ci dà pure, opera anche essa del Vollmer, l’ediz. di queste poesiole di Eugenio. (2) Così pensa pure Ildefonso che tributa grandi lodi al suo compatriota per tale correzione; De vir. ill., 14. (3) Alla fine del rimaneggiamento del libro primo sta la subscriptio: Explicit Dracontii Liber Primus De Fabrica Mundi. E poi di seguito: Argumentum — hoc sequenti libello auctoris Satisfactio continetur, qua omnipotenti deo veniam petit, ne praecedenti carmine aliquid incautus èrrasset, dein Theodorico iuniori Augusto precem defert, cur de triumphis illius eodem opere tacuisset. — Segue l’'inscriptio della Satisfactio: Incipit Liber Secundus Dracontii Satisfactio pro se. (4) Cfr. Proverb., 21, 1: sicut divisiones aquarum, ita cor regis in manu domini; quocumque voluerit inclinabit illum. (5) Cosa notevole è che Eugenio parla dell’opera di Draconzio come molto esigua (Praef., vv. 23-25). 57 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 79 fonso a lui quasi contemporaneo, e suo immediato successore nella sede episcopale di Toledo (1). Im primo luogo nè l'uno nè l’altro dei due vescovi accenna se non ad un intento estetico ; in secondo luogo sarebbe troppo naturale che Eugenio, il quale era assai ben visto da Chindasvinto, nè gli risparmiava lodi ed omaggi, si vantasse di correzioni quali gli si vollero attribuire, anzichè tacerne. Moltre egli erede che la Sutisfactio fosse rivolta a Teodosio II, che non era nè ariano nè vandalo. A me sembra che basti supporre che il re visigoto abbia invitato il dotto vescovo ad una revisione di quei carmi senz'altro intento che quello letterario, pensando sul serio ch’egli fosse capace a migliorarli. Vi fu in quel tempo in Ispagna una vera rinascita letteraria, e fu lungamente famosa la biblioteca di Reccesvinto, il figlio e successore di Chindasvinto (2). Notiamo ancora che alcuni dei passi che sarebbero stati corretti da Eugenio, avrebbero suonato tutt’altro che male all’orecchio di Chindasvinto, il quale con una politica molto energica riuscì a domare l'anarchia fino allora spadro- neggiante in Ispagna, e ciò anche contro il clero, uno dei principali istigatori delle sommosse (3). Se tale era il dispotismo del re, come mai Eugenio avrebbe soppresso nella Satisfactio versi come quelli dal 112 al 114, nei quali dice che come ai suoi sudditi il re è benigno, così pure con lui sit pietate sua, sit bonus et placidus. nam tua sunt quaecunque gerit, quaecunque iubebit, iudiciumque dei regia verba ferunt? E nemmeno avrebbe soppresso i versi 125-128 (4). Quindi parecchie delle omis- sioni di Eugenio sono invece una nuova prova che i carmi di Draconzio giunsero nelle sue mani già mutilati e rimaneggiati; il che è confermato dalla mancanza di una parte rilevante del carme (Eugenio si ferma al v. 200 corrispondente al 251 della Satisfactio di Draconzio), senza ch’essa sia giustificata da motivi di sorta (5). Le mutilazioni del carme avvennero probabilmente, appunto per le lodi tributate ad un principe ariano e vandalo, in un tempo anteriore, mentre durava ancora l'impero vandalico in Africa, duravano le rivalità fra i due popoli, nè era avvenuta ancora intorno ai carmi di Draconzio quella confusione che poi fece Eugenio. Insieme con l’intento estetico, Eugenio ha senza dubbio un intento religioso. Draconzio si lascia talora sfuggire espressioni apparentemente poco ortodosse, ed (1) V. H. LecLerco, L’Espagne chrétienne, Paris, 1906, p. 347 segg. (2) Cfr. LecLerco, op. cit., p. 313 segg. (8) Lo dimostra il primo canone del VII° concilio di Toledo (646) radunato da Chindasvinto, ove è detto che,se vivente il re, un ecclesiastico, sia egli vescovo o no, si mette dalla parte di un pre- tendente al trono, sarà scomunicato fino alla morte. Il re vuole che il concilio dichiari che nem- meno i suoi successori potranno mutare le severe disposizioni. Cfr. C. J. Herrre, Histoire des Con- ciles (trad. Leclercq), tom. III, parte 1%, Parigi, 1909, p. 285 segg. (£) “ Chindasvinto (dice il Leclercq, p. 313) fece uccidere tutti coloro che aveva visto sollevarsi contro i re precedentemente detronizzati... Si dice ch’egli abbia fatto morire duecento personaggi della più alta condizione fra i Goti, cinquecento di condizione media, e finchè non fu sicuro d'aver domato la viziosa abitudine (di sollevarsi contro il sovrano) dei suoi compatrioti, non cessò di far morire coloro ch’egli sospettava ,. Cfr. i vv. 133-136, pure omessi da Eugenio. (3) L'ipotesi che ciò dipenda da guasto dei codici non è accettabile, perchè segue la subscriptio: Explicit eiusdem Dracontii liber secundus. E subito dopo: Incipit monostica recapitulationis septem dierum. 80 ETTORE PROVANA 58 Eugenio si fa sempre premura di mutarle, affermando anche talora tutto il contrario. Così nei vv. 13-16 nei quali corregge e, ampliando, spiega i vv. 15-16 di Draconzio, così nei vv. 19-20 nei quali molto ingegnosamente egli corregge i corrispondenti versi di Draconzio. Ma in generale dove Eugenio pretende di correggere, riesce in- vece a guastare, e talvolta dimostra di non comprendere. Interessante può riuscire a questo proposito il confronto dei versi 216-224 di Draconzio coi corrispondenti versi 186-192 di Eugenio. Questi muta il regit, molto preciso, del v. 216 in un più vago gerît; salta i due versi 217-218, perchè molto probabilmente non ha inteso il processo del pensiero di Draconzio; muta nel 219 la bella espressione: “ cum tem- pore cuncta trahuntur ,, nell’altra insignificante: “ vuol essere più preciso nel v. 220 cambiando il primo eunt in sunt e il secondo in erunt, e toglie all’espressione il suo senso della vicenda continua delle cose; al “ procul usque senectam , del v. 221, che indica bene il protrarsi della vita fino all'ultima vecchiaia, sostituisce quel “ cuiusque senectae ,, che fa dire al poeta una sciocchezza; caccia l’adulterio nel v. 223, dove proprio esso non ha nulla a che fare (se mai, l’adulterio fugge più che può gli strepitus, e non li va certo a cercare), e toglie la necessaria antitesi fra la virilità e l’infanzia ; nel v. 224 infine guasta la semplice efficacia dell’Radet col suo preferito gerit. In conclusione dovremmo più deplorare questa correzione di Eugenio che rallegrarcene, se non servisse di docu- mento della completa assenza di senso poetico nel rifacitore e nei contemporanei suoi, dei quali nessuno può dirsi per questo rispetto superiore ad Eugenio, e di sussidio (da usarsi però con molta cautela) a ristabilire qua e là il testo del nostro poeta. cum tempore cuncta creantur ,; Il De laudibus dei. Nel poema maggiore di Draconzio, frammezzo a tutti i difetti che la varia analisi fatta sinora dell’opera sua ci ha rivelato, noi troviamo finalmente vivo ed intero il poeta; il poeta modesto che nella vecchia materia sa infondere un calore nuovo di sentimento personale; una voce triste e buona che nell’ora della sventura loda Iddio e la sua bontà e l’opera sua. Egli che amò ed ama la natura e gli uo- mini non rinnega questi sentimenti profondamente umani per annientarsi davanti al suo principe nè davanti a Dio; egli giunge a Dio attraverso il suo amore e il suo dolore. In questo sentimento personale che informa ed avviva tutto il poemetto di Draconzio sta il suo vero elemento sintetico dal punto di vista dell’arte. Il Vollmer riconobbe in esso una trama fondamentale, un filo conduttore; ma non affermò in tal modo che un’unità esteriore e meccanica. Altri cercarono e scoprirono il con- cetto dominante in quello della misericordia divina, che, spesso smarrito nei parti- colari, domina però senza dubbio tutto il poema; ma anche costoro non pensarono affatto a chiedersi se il concetto diventava nell’opera di Draconzio sentimento e il sentimento arte, perchè, se il concetto può essere l’elemento sintetico di un’opera di scienza, non lo è, non lo può essere dell’opera d’arte. Noi piuttosto chiederemo al poeta stesso quale sia stato il suo intendimento, e, senza fare il riassunto del 59 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 81 poemetto che giù da parecchi è stato fatto (1), lo seguiremo con una libera analisi nel corso dei suoi pensieri e delle sue immaginazioni. Subito, nei due primi versi Draconzio ci dice il suo scopo: Qui cupit iratum placidumve scire tonantem hoc carmen, sed mente legat, dum voce recenset. Pare che il poeta voglia narrarci più che la bontà l'ira di Dio: e nei versi seguenti insiste nel darci una immagine grandiosa e tremenda dell’onnipotenza di- vina. Ma ben presto il tono delle sue parole muta, ed egli non si ricorda più che della pietas, della bontà indulgente di Dio che benefica e perdona. Il primo beneficio divino è la creazione, e la storia di esso occupa quasi tutto il primo libro; ma poichè l’uomo ha peccato, è necessario il beneficio della redenzione, e in lode e rin- graziamento di essa è quasi tutto il secondo; l’infinita misericordia divina che pre- viene e premonisce l’uomo, e ancora gli perdona dopo la colpa, è l'argomento fonda- mentale del terzo libro, e in certo senso quello di tutto il poema. Infatti, fin dal principio il poeta parla degli strani fenomeni naturali, coi quali Iddio previene, se- condo lui, il peccatore (vv. 89 e segg.): 7 » nemo ferire volens se praemonet ante cavendum, sed qui terret, amat; sic indulgentia poenam praevenit et nullos capiunt tormenta reatus. Potremmo chiederci se in questa prefazione di Draconzio abbiamo un riflesso della sua infelice condizione, e se anzi tutto il carme non abbia in qualche modo un intento affine a quello della Satisfactio. Se si vuole da questo proemio, come ta- luno volle, ricavare una prova che tutto il carme sia stato composto nella prigionia, si fa, a mio parere, un’induzione troppo ardita: solo dagli ultimi duecento versi del libro terzo risulta in modo esplicito che il poeta gemeva in carcere; onde nulla si opporrebbe all'ipotesi che il libro terzo sia stato aggiunto in seguito, tanto più che vi si trovano ripetute molte cose già dette, e che più degli altri esso appare fram- mentario e disgregato. Può sembrare anzi strano che un poeta, il quale si dimostra nel De laudibus dei così profondamente cristiano, abbia aspettato l’ora della sven- tura per ispirare ai concetti e alle smaglianti immagini del mondo cristiano la sua musa (2). Io trovo invece assai naturale il rinascere del sentimento religioso nella sventura, o almeno il suo manifestarsi in modo vivo e spontaneo. Mai forse la co- scienza di ciò che veramente e intimamente vive nel nostro spirito è tanto spenta come nella gioia più spensierata, mai tanto desta e profonda quanto in un grande dolore; e forse l’ora della sventura è l’ora di Dio, perchè è la più vera e la più sublime. Ed è cosa naturalissima, mi pare, il supporre che Draconzio, il quale nei giorni della fortuna non aveva visto altro nella poesia che un frivolo ed elegante (1) Così VEsert, Hist. générale de la litt. du M. A. en Occident (Trad.), vol. I, p. 408 segg.; M. Ma- mms, G. d. christ.-lat. Potsie, p. 331 segg.; Vorumer, R. E. di Paury-Wissowa, art. Dracontius. (2) Veramente noi abbiamo supposto che fosse d’indole cristiana il carme inviato al principe straniero, causa delle sue sventure; ma certo, se qualche accenno alla fede cattolica si trova in esso, la sua indole generale doveva essere piuttosto panegirica e profana. Quindi altri carmi reli- giosi o dal nostro poeta non furono scritti o andarono smarriti. Serie II. Tox. LXII. 11 82 ETTORE PROVANA 60 esercizio retorico, abbia poi sentito nei momenti tristi del bisogno una vena sincera e feconda, e si sia servito del verso per esprimere il sentimento religioso rinascente in lui limpido e spontaneo. Per tutti questi motivi io credo di dover escludere che Draconzio nello scrivere il De laudibus dei abbia avuto altro scopo che quello di render lode a Dio e di chiedergli perdono delle sue colpe, alle quali attribuisce in gran parte le sventure che lo hanno colpito. Veramente anche nella Satisfactio il poeta chiede perdono della sua colpa prima a Dio che al suo principe: e ciò indur- rebbe a credere che egli in quel carme, causa di tutte le sue sciagure, non abbia celebrato un principe cristiano in quanto cristiano. Ma occorre notare che nella Satisfactio egli tenta di conciliare per quanto è possibile il suo pensiero religioso con la fede politica, insistendo anzi sul concetto che da Cristo stesso deriva l’autorità del principe. Nel De laudibus dei invece professa apertamente la fede cattolica, e chiede umilmente perdono, senza alcuna particolare menzione, di tutte le sue colpe, le quali non sono, a quanto pare, nè poche nè leggiere. E lo confessa con espres- sioni che sembrano iperboliche, ma hanno in fondo un tono sincero, perchè la ridon- danza della frase dipende dall'immagine biblica, potente e sublime, della quale il poeta si serve (3, 588 e segg.) (1). Se adunque il contatto fra il De laudibus dei e la Satisfactio non è molto stretto, se fra i due poemetti non v'è affinità di intenti, dovremo anche escludere che le tristi condizioni del poeta trovino un’eco più nel- l'introduzione del carme maggiore che in tutta la rimanente parte di esso. Sarebbe molto strano che il poeta nell’esecuzione del suo piano seguisse poi tutt'altro cri- terio da quello che si era proposto da principio. Piuttosto a difesa dell’unità di concezione del poemetto, noi potremo addurre il fatto che il suo proemio allude chia- ramente al contenuto di tutti e tre i libri che seguono, segnando uno svolgimento molto logico e naturale del pensiero che condurrà infine il poeta a invocare verso di sè la pietas divina. La massima parte del primo libro del De laudibus dei è costituita dal racconto della creazione del mondo e dell’uomo, della prima colpa e del suo castigo. Il tema è tutt'altro che nuovo; anzi nello stesso quinto secolo troviamo altri quattro poe- metti che trattano lo stesso argomento con varia ampiezza e con vario scopo (2). Anzitutto la Genesis di un tal Cipriano, composta fra il 397 e il 450; in secondo luogo l’Alethia in tre libri, attribuita a Claudio Mario Vittore di Marsiglia, morto alla metà del secolo quinto; in terzo luogo il Metrum in Genesim di un Ilario, com- posto fra il 440 e il 461; infine il De spiritalis historiae gestis di S. Avito, vescovo di Vienne, composto prima dell’anno 507. Si può dire che tutta la fioritura della poesia latina nel quinto secolo si compendia in questi poemi della Genesi, che rap- presentano i primi tentativi di porre in forma epica la storia religiosa del Cristia- nesimo. Il Gamber (3) si pone a ragione il problema perchè mai questi poeti abbiano attinto il loro argomento ai fatti primordiali della Genesi, anzichè a quelli più vicini e d’interesse enormemente maggiore della vita di Cristo e delle lotte della Cristia- (1) Cfr. Psalm., 17, 5; 68, 2, 3. (2) V. Gamer, Le livre de la Genèse dans la Poésie latine au V° siècle, Paris, 1899, cap. I, p. 12 segg. (3) Op. cit., cap. II, p. 32 segg. 61 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 83 nità primitiva contro i persecutori. E il Gamber lo risolve osservando che questi ultimi erano fatti troppo grandiosi per le limitate facoltà poetiche di quei tardi poeti, ed anche troppo vicini ad essi per poter essere veduti nelle linee più generali della loro epica grandezza (p. 52). Sono cose molto ovvie quelle che il Gamber os- serva, ma assumono nel nostro caso un valore speciale, tanto più che questa deter- minata scelta del materiale poetico si ricollega col fatto più generale del tardo ap- parire della poesia nella letteratura cristiana, mentre essa avrebbe dovuto sorgere molto spontaneamente tra un popolo agitato da tanti sentimenti nuovi, nel quale una profonda trasformazione spirituale si andava compiendo (1). Io non credo affatto che la causa si debba ricercare, come vuole il Gamber, nel fatto che nel momento della lotta non v'era tempo a pensare all'espressione poetica, che il bisogno pratico distruggeva il lavoro della fantasia, l’azione uccideva la parola. Il Gamber dice che vi sono dei momenti nei quali lo spettacolo stesso delle lotte è troppo vicino, nei quali la verità è troppo forte per fare dei poeti, essa non può fare che dei martiri. E cita le parole di un critico di autorità molto discussa, Saint-Marec Girardin (2): “ Elle se refuse è la poésie, comme à une sorte de frivolité et de faiblesse: elle l’anéantit parce qu'elle la surpasse ,. Per me questo è un argomento che ha valore molto relativo: esso vale sol- tanto nel senso che in quei dati periodi di tempo è impossibile un lungo lavoro riflesso, e le manifestazioni poetiche sono necessariamente più frammentarie, più brevi, meno elaborate. Ma è assurdo, mi pare, il supporre che in quei periodi tem- pestosi taccia ogni espressione dei sentimenti che agitano gli animi; se esiste il sentimento, esiste la sua espressione: sarà espressione più o meno perfetta, più o meno adeguata (e ciò può dipendere da innumerevoli altre cause), ma una qualche espressione non potrà mancare mai. Peggio poi è il supporre che in determinate condizioni tutti siano martiri, o apologisti, o polemisti. È impossibile che nella mol- titudine dei cristiani mancassero affatto le nature poetiche, contemplative, ricche di fantasia e di sentimento, ribelli per natura all’azione, alla lotta, alla polemica. Io sono perciò convinto che il ritardo della poesia non sia dovuto che in minima parte a tutti questi motivi e che la vera cagione vada ricercata soltanto nella tradizione classica che signoreggiava tutte le forme letterarie. Nella letteratura latina la poesia e il culto degli dèi e l'imitazione pedestre dei grandi modelli dell’età d’oro e d’ar- gento s'erano talmente andati identificando, che per lungo tempo non si potè nem- meno concepire poesia (quella almeno che avesse forma letteraria) all'infuori di quell’orbita: e quindi la poesia di forma classica era necessariamente qualche cosa di inconciliabile per i cristiani colle loro idee e i loro sentimenti. Soltanto nel se- colo quarto, quando incomincia la conciliazione del mondo pagano col mondo cri- stiano, incomincia la poesia cristiana di forma e carattere classicheggiante, e nel secolo seguente giunge al suo massimo fiore. Ma il fatto più importante che spiega il fenomeno, ed al quale accenna appena il Gamber, mentre opportunamente vi in- (1) V. a proposito di questo problema le prime pagine del II° volume del Borssier, La fin du Paganisme. (2) Revue des Deux Mondes, III, 1849, p. 624. 84 ETTORE PROVANA 62 siste il Monceaux (1), è che non mancano affatto manifestazioni poetiche (sia pure soltanto nella sostanza) nei primi secoli cristiani: naturalmente esse andarono in gran parte perdute, ma ne abbiamo testimonianze non solo, ma trammenti e docu- menti di varia specie. Quindi la musa cristiana non rimase muta per secoli, ma non produsse opere di spiccato carattere letterario, appunto perchè la forza della tradizione impedì che lo spirito cristiano potesse manifestarsi nelle forme più nobili e più alte. A spiegare poi la scelta particolare della materia narrativa, valgono assai bene le osservazioni del Gamber: ma più ancora di lui io insisterei sul con- cetto che la letteratura classica offriva coi grandi modelli di Lucrezio, Virgilio ed Ovidio un incitamento a trattare la materia della Genesi. Questa del resto si pre- stava assai più che i Vangeli o gli Atti degli Apostoli ad una trattazione un po’ libera, ad amplificazioni, a mutamenti, a interpretazioni speciali: cose tutte neces- sarie sia per l'indispensabile originalità e libertà che debbono vivificare l’opera poe- tica, sia per lo scopo didascalico che ebbero in generale i poeti della Genesi. Anche Draconzio (il quale del resto non imita gli altri poeti che in minima proporzione) (2), ha in parte uno scopo didascalico, in parte quello di propiziarsi la benevolenza di- vina celebrandone le lodi. Il racconto della creazione è in certo modo un grosso episodio che il poeta inserisce nel De laudibus dei, e vi si sofferma perchè il tema lo trascina; ma non protrae il racconto oltre la caduta dei due progenitori e il castigo di Dio, nel quale egli ravvisa una prova della bontà anzichè dell’ira divina (8). La celebrazione di questa bontà è lo scopo principale di Draconzio pure nel lungo racconto della creazione; e questo suo intento lo conduce anche ad una maggior libertà non solo di svolgimento artistico, ma anche di interpretazione e di osserva- zioni personali. Tuttavia io non sono d’accordo col Vollmer ov’egli suppone che il poeta non abbia seguito l’ordine biblico della creazione, sia pur soltanto per ricapi- tolare o ripetere il già detto. Il Vollmer (4) ai vv. 255 e segg., che incominciano: t recapitulasse poetam res adhuc creatas antequam bestiarum et hominis creationem aggrederetur non sensit HKugenius: ideo quinto diei subiecit versus 252-272 et post 272 duos versus de suo addit ,. Infatti Eugenio muta il sexta dies in ipsa dies, e continua attribuendo al quinto giorno ciò che Draconzio attribuisce già al sesto; poi giunto al v. 272, ne “ sexta dies folium ramis et floribus herbas -— evomit ,, nota: aggiunge due di suo conio: sexta die Phoebi rutilo processerat ortu, cum natura parens gignit animantia terris. Sono d'accordo col Vollmer nel ritenere che Eugenio non ha capito Draconzio questa, come tante altre volte: ma che Draconzio si sia allontanato dal racconto biblico solo per ricapitolare non credo: piuttosto qui, come in altri punti, egli vuole (1) Hist. litt. de VAfr. chrét., ILI, lib. 7°; Les débuts de la poésie chrétienne en Afrique, p. 426 segg. (2) Imitazioni sicure non s'incontrano che per l’Alethia di Mario Virrore, ed anche queste assai poco numerose (ad es. Drac., ZL. d., 1, 199, Mar. Virr., A7., 1, 228; LZ. d., 1, 377, Al, 1,374 seg.; L. d., 1, 380, Al., 1, 380 e altrove. Spesso del resto si tratta di imitazione comune di uno stesso modello). (3) V. vv. 544 segg. (4) V. p. 36 dell’ediz. di Draconzio. 63 © BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 85 interpretare. Notiamo che, a differenza degli altri poeti (ed a torto il Gamber non lo rileva) (1), egli descrive assai bene la separazione della terra dall’acqua nel terzo giorno nei versi 152 e segg.; anzi, più che di separazione, egli parla di vera ori- gine, di vera derivazione: nè la terra soltanto, ma anche gli uccelli sorgono dalle acque (vv. 241-242), e sorgono prima degli altri animali per servir loro di cibo (2). Quindi Draconzio ravvisa tutto un ordine logico nell’ordine della creazione. Quando poi il poeta dice ai versi 255-256: “ sexta dies folium ramis et floribus herbas — evomit ,, mi pare che occorra forzare il testo per interpretare, come il Vollmer, nel senso che Draconzio ricapitoli tutta la creazione dei primi cinque giorni. Piut- tosto egli presenta le cose da un punto di vista diverso; ossia ci presenta il creato non în fieri, ma nella condizione in cui si trovava nel sesto giorno, prima della crea- zione degli animali terrestri e dell’uomo. Del resto il poeta parla in modo partico- lare della riproduzione degli uccelli (vv. 262-263), riproduzione alla quale concorre un secondo elemento, il fuoco (vv. 267 e segg.): sed cum discordent inter se elementa coacta, fetibus eductis concordant unda vel ignis unda creat volucres, producit flamma volucres. Dall’accostamento delle due forme verbali creat e producit, risulta evidente il loro vario significato e il processo del pensiero del poeta che vuole applicare la teoria degli elementi al racconto biblico. Infatti il poeta collegando in un ordine provvidenziale la creazione delle piante, la creazione e la riproduzione degli uccelli con quella degli animali terrestri (e in ciò segue molto da vicino il testo sacro) (3), nel verso 277 asserisce apertamente che “ impia terribiles producit terra leones ,. Onde ai due primi elementi Draconzio ne aggiunge un terzo, la terra, dalla quale “ erumpunt , gli animali terrestri. Tutta sua è quest’applicazione della teoria degli « elementi alla Genesi, teoria che non si trova così completa negli altri poeti della creazione. E quando passa a parlare della creazione dell’uomo, osserva ancora che egli non deriva da qualcuno degli elementi naturali, ma è foggiato dalle mani divine (4). Io non credo però che Draconzio avesse veramente un intento filosofico: la sua è piuttosto una naturale e spontanea interpretazione del testo biblico alla luce di quel principio provvidenziale che egli vuol celebrare. Del resto egli continua ad illu- strare il concetto della provvidenza divina nel descrivere la creazione della donna. Toglie al solito occasione da un versetto della Bibbia, ma gli dà un colore tutto per- sonale in quei versi mirabili nei quali descrive la triste solitudine dell’uomo in mezzo al creato. E non la descrive solo esternamente, alla superficie, ma è l'intimo sentimento del primo uomo quello che il poeta penetra e ci svela (5): si sente in quei versi la voce di lui, che, incarcerato, capiva quanto è orrenda la solitudine fisica e spirituale; quel non poter espandere, non poter comunicare la vita del corpo (1) Gaxseg, op. cit., p. 92. (2) Gamer, op. cit., p. 96-97. (3) V. vv. 270 segg. — Genesis, I, 24-25. (4) V. vv. 332 segg. — Gen., I, 20-21. (5) V. vv. 345-859. n) 86 ETTORE PROVANA 64 e dell'anima. E le solenni parole della Genesi, colle quali Iddio delibera la creazione della donna sono animate da Draconzio da un sentimento sublime della pietà divina: ‘la Genesi allude piuttosto a un motivo naturale ed etico, il poeta invece pensa che Iddio abbia voluto soddisfare a quel bisogno delle gioie famigliari che egli stesso sentiva (1). La nota sentimentale ritorna dove il poeta vuole spiegare perchè Iddio trasse Eva dal corpo di Adamo anzichè dalla polvere stessa; e pur ripetendo il pensiero, di Mario Vittore: “ semet in alterius cogens agnoscere membris ,, lo irrobustisce, esprimendo meglio l’impeto e lo slancio dell’affetto (vv. 377 e segg.) (2). Così il poeta procede sempre collegando la lode della provvidenza divina con l’espressione dei suoi sentimenti più cari: l’amore della natura e della vita in tutte le forme più semplici e più serene, l’amore della donna ch’egli non avvilisce e condanna come tanti cristiani prima di lui, ma nobilita ed esalta con religioso sentimento. Iddio: stesso ha dato all’uomo la donna perchè egli ne aveva bisogno per il suo spirito e. per i suoi sensi, per il corpo e per l’anima. In Draconzio infatti noi troviamo la conciliazione completa del senso naturalistico col sentimento religioso. La convin- zione della purezza essenziale di tutto ciò che è opera della natura, e quindi opera di Dio (anche la voluttà Iddio concede all’uomo, secondo il pensiero di Draconzio, col fine diretto che egli ne goda) (3), tale convinzione, dico, è tanto profonda in lui che egli descrive candidamente colle tinte migliori e colla compiacenza più se- rena l'apparire di Eva dinanzi ad Adamo: ella è nuda, candidissima in tutte le membra, bella del rossore che le colora le guancie, tutta tutta bella, proprio « qualem possent digiti formare tonantis , (vv. 393-397) (4). E dopo che Iddio con parole piene di epica solennità ha dato ad Adamo ed Eva il dominio del mondo (5), essi se ne vanno “ per flores et tota rosaria leti — inter odoratas messes lucosque virentes — simpliciter pecudum ritu vel more ferarum — corporibus nudis et nescia corda ruboris ,. E il poeta non dissimula la sua simpatia per questo stato ingenuo e semplice: e ingenuamente si meraviglia che, dopo la colpa, i progenitori abbiano ritenuto “ membra pudenda , quelle che non avevano concorso al peccato, mentre fu ritenuta innocente (vv. 487 e segg.) la bocca “ aditus mortis ,, la lingua “ suada, (1) V. vv. 360 segg. — Cfr. Gex., II, 18: “È Dixit quogue Dominus Deus: Non est bonum esse hominem solum: faciamus ei adiutorium simile sibi ,. (2) V. A/eth., 1, 380. Mario Vittore conserva appunto il carattere morale e dogmatico del testo biblico (vv. 373 segg... È evidente anche il fare più compassato e assai meno spontaneo e ispirato del retore marsigliese in confronto del nostro poeta. (3) Lontanissimo in questo è il concetto di Draconzio da quello di S. Agostino, che pure rap- presentava naturalmente allora lo spirito più autentico del cattolicismo ortodosso. S. Agostino, che conosce bene la vita, sostiene che tutto ciò che nell'amore è voluttà e senso è frutto del peccato originale, ed è quindi essenzialmente impuro (Cfr. De civ. deî, XIV, 10 segg.). (4) È strano che Draconzio il quale esprime così bene la solitudine e la tristezza di Adamo, non ne descriva affatto la gioia all’apparire della sua compagna. La splendida visione si presenta piuttosto alla fantasia innamorata del poeta, che agli occhi stupefatti del primo uomo, al quale egli in certo modo si sostituisce. (5) V. vv. 404-411. Sono veramente forti e grandi pennellate che dànno un’impressione profonda; in quelle parole poi: © dum luna tenebras — dissipat et puro lucent mea sidera caelo , c'è vera- mente una grandiosità lucreziana. 6 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 87 UU mali , e le orecchie “ limina mortis ,. Nè aveva tutti i torti il povero poeta, a cui le ciarle maligne, troppo facilmente credute, avevano procurato tanti dolori. Così Draconzio prosegue colorendo continuamente dei sentimenti suoi l’opera della pietà divina: ricordando la pena di morte inflitta da Dio ai progenitori, dirà (v. 528): “ poena mori cerudelis erat, sed vivere peius ,, alludendo alle infinite miserie che affliggono la vita (1); e in fine del libro, sciolto l’inno allo spirito di Dio che anima tutte le cose, ripeterà, parafrasandole, nei suoi versi le sublimi parole che il Vangelo di Luca pone in bocca a Maria (1,32): “ deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles ,. Fra il racconto della punizione inflitta ai progenitori, e l’inno alla bontà di Dio, Draconzio si diffonde in una lunga descrizione delle vicende naturali: e l'ampia vi- sione del creato posto al servizio dell’uomo nonostante la sua colpa, conduce il poeta a descrivere l’opera incessante e perenne della natura, e a sviluppare in fondo la medesima idea sulla quale tanto insiste Lucrezio nel suo primo libro dell’incorrut- tibilità della materia nonostante l’apparente consumo. È davvero interessante questo contatto fra il nostro poeta e quel Lucrezio la cui opera e il cui pensiero dovevano essere tanto lontani da chi era cristiano, e scriveva per dimostrare l’opera prov- videnziale di Dio, che Lucrezio recisamente nega. Non è una novità questa imi- tazione di Lucrezio da parte di poeti cristiani (2): e quanto a Draconzio, è abba- stanza naturale che gli ricorressero alla mente per virtù di contrasto i versi del poeta epicureo, e che egli si accorgesse come gli stessi pensieri e le stesse immagini di Lucrezio gli potevano servire a dimostrare il perenne influsso della provvidenza nel conservare intatte le cose nonostante le loro mutue vicende. Ma ciò che poteva trascinare Draconzio ad una speciale simpatia per Lucrezio è quel profondo senso della natura, che anima anche il poeta africano, quel valore che egli dà agli ele- menti naturali nonostante il concorso divino. Del resto non solo di Lucrezio si è molto ricordato Draconzio in questo primo canto, ma naturalmente anche di Ovidio (specialmente, come ben osserva il Gamber, nella descrizione del paradiso terrestre) (3) e di Virgilio: sono le frasi del grande poeta che cadono spontaneamente dalla penna di tutti questi poeti della decadenza, che della sua lettura e del suo studio, nella scuola e fuori, hanno fatto il fondamento della propria cultura artistica. Natural- mente però questo primo libro s’ispira anzitutto alla Genesî: certo il poeta amplia, parafrasa, colorisce, interpreta: ma in fondo la fonte che gli suggerisce i pensieri e talora le immagini è sempre quella. Sarebbe molto interessante il poter stabilire se Draconzio abbia seguito il testo della Vu/gata, o quello della più antica versione Itala (4): ricerca molto difficile, perchè, trattandosi di poesia, le espressioni tratte (1) Del resto lo dice chiaro alcuni versi dopo, 555 segg. (2) V. J. Puiciepe, Luerèce dans la théologie chrétienne du III au XIII sidele, in Revue de VHis- toire des Religions, 1905, vol. XXXII, p. 284 segg. (3) Op. cit., p. 110 segg. (4) Sulla storia della Bibbia lutina in Africa, vedi la lunga trattazione del Moncr4ux, Mist. litt. de VAfr. chrét., vol. I, cap. 3°. Cfr. Herzoc, Realeneyklopidie fiir prot. Theol. und Kirche, vol. III, art. Bibeliibersetzungen, n. 2, p. 24 segg. — I frammenti dell'antica Itala più importanti (quelli del Pentateuco, di Giosuè, della maggior parte del libro dei Giudici) trovati in un manoscritto del sec. V° o VI° a Lione, furono pubblicati da Lord AsaBuRnHAM (Londra, 1868) e dal Rosert, Pentateuchi 88 ETTORE PROVANA 66 letteralmente dal testo biblico sono assai poche. Ma è mia convinzione che Dra- conzio seguisse la Vu/gata, sia perchè questa doveva già a quel tempo aver acqui- stato diffusione e autorità anche in Africa, sia perchè le parole che Draconzio cita trovano abbastanza fedele riscontro nella VulZgata. Del resto se ciò può avere una relativa importanza per la storia della Vulgata, non l’ha certo per noi, perchè le differenze tra le due versioni (specialmente per quanto riguarda i Vangeli, che Dra- conzio ha pure qua e là sott'occhio) sono di forma, piuttosto che di sostanza: nè è da supporre che, se il poeta avesse avuto sott'occhio una versione diversa, avrebbe pure svolto il suo tema diversamente. Anche di questo primo libro del De laudibus dei conserviamo un rifacimento di ‘ Eugenio di Toledo: meno gli avviene di doverlo mutare per motivi dogmatici, ma talora lo vuol conciliare meglio col testo della Scrittura, o perchè non interpreta bene il poeta o perchè non gli concede troppa libertà. Cosa notevole è ch'egli inco- mincia al verso 118 di Draconzio, ossia là ove s’inizia il racconto della creazione : e questa è una prova di più che Eugenio non aveva sott'occhio il testo del De lau- dibus dei, ma un rifacimento, o meglio un estratto contenente soltanto il racconto della creazione fino al termine del primo libro (1). Eugenio vi aggiunge di suo sei monostici, che ricapitolano l’opera dei sei giorni e una trentina di versi nei quali parla del riposo divino nel settimo giorno; infine considerazioni religiose e morali. Termina col paragonare l’opera dei sei giorni alle sei età della vita umana. Il concetto informatore del secondo libro è sempre quello della bontà divina, che si esplica inviando Cristo in terra alla rigenerazione dell’uomo, il quale nono- stante i benefizi ricevuti, ha peccato innumerevoli volte: ma esso si smarrisce quasi in divagazioni e continui ritorni a concetti già precedentemente svolti o accennati. Numerosissime poi le esemplificazioni, giustificate del resto dall’indole didascalica del lavoro: tutti i poemi didascalici trovano la loro debolezza e la loro forza insieme in questa esemplificazione. Naturalmente ne scapita alquanto l’interna connessione, e l’unità organica della trattazione; ma d’altra parte la fantasia si libera e si esplica, e ci dà l’opera d’arte. Esempio sommo è e sarà sempre il De rerum natura di Lu- crezio, nel quale il poeta sublime sa far scaturire il pensiero filosofico dalle sue plastiche visioni fortemente immaginate e profondamente sentite. In Lucrezio il pen- siero è sentimento e il sentimento è immagine: di qui la potente sintesi artistica che anima il suo poema. Tuttavia nessuno vorrà negare che anche nel De rerum natura non si avverta talora certa dissonanza fra la parte teorica e quella fanta- versio lat. antiquissima, Parigi, 1881, e Lione, 1900. — Cfr. Rònsca, Itala und Vulgata, 2* ed., Mar- burg, 1875. Per il Nuovo Testamento vedi la recente pubblicazione di Hans FreIHERR von Sopen. Das Lateinische neue Testament in Afrika zur Zeit Cyprians, edito in Texte und Untersuchungen di A. Harnack e C. Schmidt, XXXIII, 1909. (1) Che Eugenio non avesse notizia se non di un Hexaemeron di Draconzio, lo prova anche il fatto ch'egli aggiunge un cenno sul settimo giorno. Dice egli stesso nella dedica a Chindasvinto: “ idcirco in fine libelli, quamvis pedestri sermone, sex dierum recapitulationem singulis versiculis, quos olim condidi, renotavi; de die vero septimo quae visa sunt dicenda subnexui ,. Dunque, come crede anche Ildefonso (De vir. è0l., 14), Eugenio pensava incompleta l’opera di Draconzio, mancan- dovi ogni cenno al settimo giorno, e quindi non si avvide punto che per Draconzio, il quale voleva celebrare la bontà divina nell'opera della creazione, non serviva affatto ricordare il riposo del set- timo giorno. 67 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 89 stica: il che dipende, mi pare, dal fatto che Lucrezio non si accontenta di illustrare nelle linee più generali il suo pensiero, ma vuol discendere allo svolgimento parti- colareggiato della sua teoria. Draconzio invece non ha tutta una teoria da svolgere, i suoi concetti sono pochi e molto semplici: onde la diffusione della parte esempli- ficativa non conferisce molto alla bellezza del suo lavoro, perchè gli esempi sono accumulati gli uni sugli altri senza che se ne veda il motivo o se ne senta il bi- sogno. Inoltre i suoi esempi sono tutti d’un colore, tutti veduti da un lato solo; per quanto una certa varietà non manchi nemmeno nel De laudidus dei. Descriven- doci i miracoli di Cristo, egli tocca di preferenza quelli, dove Gesù manifestò una pietas più gentile ed affettuosa, ad esempio la risurrezione di Lazzaro e della figlia di Giairo; mentre di ciò che nella vita di Cristo è più importante e sostanziale, la morte e la risurrezione, tocca appena rapidamente (vv. 149 e segg.). Poi, ritornando al concetto del modo col quale Iddio conserva le cose create, pare che abbia ancora presenti le idee di Lucrezio, osservando che Iddio tiene le cose opportunamente congiunte e disgiunte (vv. 196 e segg.). Insieme con la varietà, per quanto relativa, delle esemplificazioni, troviamo anche una certa varietà descrittiva: ora è descri- zione ampia a grandi pennellate, come nei versi nei quali il poeta dice che tutte le creature celebrano Iddio, che le anima e le investe tutte (vv. 223 e segg.) (1), ora sono descrizioni a rapidi tratti, incisivi ed efficaci, come la seguente (vv. 347-348): splendet sole dies, illustrat Cynthia noctes et quasi gemmatum distingunt sidera caelum. Generalmente poi tali descrizioni non sono vuote, fredde, puramente oggettive: vi spira un certo impeto lirico o di lode o di riconoscenza o di tristezza: l’idea stessa della provvidenza divina che è in fondo a tutte, se dà loro da un lato intonazione uniforme, dall’altro riesce a presentarci vive e operanti anche le cose inanimate. Anche in questo libro del resto fa qua e là capolino l’atteggiamento di spirito del poeta stesso con le sue ire spontanee o contro l’arianesimo, o contro le divinità pa- gane (2), o contro la malvagità degli uomini, con quella calda simpatia che lo lega alla natura, con quell’umiltà sincerissima che gli fa dire: “ est homo grande malum , (3). E ciò che più lo colpisce è la preveggenza pietosa di Dio che prima ancora di creare l’uomo aveva pensato a redimere la colpa: egli loda la fretta che Iddio ha avuto di venire in aiuto all’uomo, appunto perchè la pietà odia le dilazioni. Iddio ha lasciato al nostro arbitrio anche il credere, disposto poi sempre a perdonare: anche Giuda, se avesse sperato, avrebbe ottenuto il perdono. Nonostante le curiose reminiscenze mitologiche, Draconzio si dimostra profondamente cristiano in questo libro sopratutto per il profondo senso di umiltà come peccatore, per quell’accento commosso col quale lo riconosce. Notevolissima è poi la frequenza colla quale egli ricorda la liberazione del popolo Ebreo dalla schiavitù dell'Egitto: un’eco forse del suo dolore di prigioniero, certo un’aspirazione potente alla libertà e alla vita. An- (1) V. un’altra belia descrizione di questo tipo ai vv. 377-396, che descrivono il diluvio universale. (2) V. vv. 590 segg. (3) V. vv. 360 sego. V'è in questi versi la solita esuberanza draconziana, ma non si può negare che vi sia anche della forza sincera. Serie II. Tox. LXII. 12 90 ETTORE PROVANA 68 cora negli ultimi versi (788 e segg.) egli ricorda con efficaci parole l'apparizione di Dio, avvolto nelle fiamme, a Mosè, per venire in soccorso del suo popolo “ pro libertate gementis , (1). Nel terzo libro l’elemento personale prende decisamente il sopravvento, con l’in- vocazione finale che il poeta rivolge a Dio, affinchè gli perdoni le sue colpe e lo liberi dai suoî dolori. Parve a taluni che il terzo libro sia il più debole di tutti, perchè non aggiunge nulla allo svolgimento del concetto; anzi è tutto una ripeti- zione di argomenti e di esempi già noti. Sono osservazioni vere, ma soltanto in parte: tralasciando anche i versi che si possono considerare la chiusa generale del poema, là dove il poeta parla di sè stesso (dal v. 565 in poi), a me pare che noi troviamo in questo libro illustrato molto chiaramente il concetto che, se Iddio è stato pietoso e buono con tutti gli uomini, lo è stato in modo speciale col popolo suo, mentre il paganesimo non ha fatto altro che accumulare delitti, coprendo col manto della virtù il delitto stesso. Draconzio s'avvede che, come cristiano, deve ricordare la predile- zione che Iddio aveva dimostrato per il popolo ebreo prima e per il cristiano poi. Chiunque avrebbe potuto fargli l’obbiezione: ma la bontà di Dio si manifesta forse solo nel perdonare la colpa, o non anche nel premiare la virtù? E ancora: ma le virtù e gli eroismi del paganesimo non dimostrano una certa superiorità dei pagani sui cristiani, non dimostrano, se mai, che Iddio è ingiusto, e che, se al suo popolo perdona le colpe, a chi non crede in lui concede la fortuna e la gloria? È quindi un vero e naturalissimo progresso del concetto fondamentale quello che il terzo libro ci presenta. Il poeta osserva da principio che Iddio è buono sopratutto con l’infelice e l’oppresso, e adduce l’esempio del ricco epulone. E lo stesso sacrificio di Isacco dimostra che l’uomo deve essere pronto a qualunque cosa per la divinità, ma, nello stesso tempo, che Iddio non vuole nè la morte degli innocenti nè quella dei colpe- voli (2), che serba al perdono. E per trarre tale conclusione il poeta trasforma la frase esplicita della Bibbia (Gen., XXII, 1): “ tentavit Deus Abraham , nell’altra affatto opposta che Iddio (v. 131) “ non est temptator habendus ,, osservando, ma- nifestamente contro lo spirito della Bibbia (3), e con intima contraddizione, che Iddio non voleva provare per mezzo di un “ tam grande nefas , la fedeltà di Abramo e Isacco, ma voleva dimostrare fino a che punto egli vuol essere amato: noi sappiamo, e Draconzio non doveva ignorare, che il sacrificio di Abramo in quanto consigliato ed accettato, era cosa moralmente compiuta. Ma la conseguenza più importante che Draconzio trae dall’esempio di Isacco è quella che dobbiamo disprezzare la vita pre- sente per la futura: Iddio soccorre chi è pronto al sacrificio della vita, come ha soc- corso Daniele salvandolo dai leoni e dalle fiamme (4). È vero, dice il poeta, che tali (1) Cfr. Esod., IIl, 7: © Vidi afflietionem populi mei in Aegypto, et clamorem eius audivi propter duritiam eorum qui praesunt operibus .. (2) V. vv. 125-127. Pochi versi prima ha ricordato invece il mito di Saturno che divorava i suoi figli. (3) Il Vollmer cita a questo proposito il passo della Bibbia, Jacob., 1, 13: © nemo cum temptatur, dicat quoniam a deo temptatur; deus enim intemptator malorum est, ipse autem neminem temptat ,; ma è certo, mi pare, che il fentarit della Genesi vuole significare che Iddio ha messo in prova Abramo, vedendo se era disposto anche al sacrificio inumano del figlio pur di serbarsi fedele. (4) V. vv. 171 segg. 69 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 9l benefiche e portentose imprese sono dal mito pagano attribuite anche ad Ercole, del quale ricorda l'uccisione del leone nemeo; ma, senza togliere ogni fede al fatto, ag- “ si tamen hune vera per saecula fama locuta est ,; e si affretta a contrapporre l’apostolato miracoloso e benefico di Pietro e Paolo alla crudeltà del culto di Diana: “ quae solet insontum fuso gaudere cruore , (v. 118), paragonando la catastrofe di Simon Mago a quella di Salmoneo fulminato da Giove per aver vo- luto imitare il fulmine (1). E dopo questi confronti più casuali che sottoposti ad un generale disegno, il poeta si fa chiaramente l’obbiezione che anche i pagani, Romani e Greci, furono felici pur non adorando il vero Dio: e, percorrendo rapidamente la storia greca e romana, sì propone di dimostrare che nè vera felicità nè virtù vera s'incontra presso i pagani (vv. 257 e segg.). È, pare, l’orrore del sangue quello che perseguita Draconzio: in ciò egli si dimostra non soltanto cristiano, ma uomo debole, che rifugge da tutto ciò che costa sangue e lacrime, e lo condanna senza badare assolutamente nè ai motivi nè agli scopi (2). Così, ricordando alcuni episodi della storia antica, condanna insieme con la violenza irragionevole e delittuosa anche quella che può essere un dovere, o quella che, disapprovata da una morale più progredita e più illuminata, non si può tuttavia confondere con la pura efferatezza. Egli invece mette in un fascio le atrocità e le sventure dei Labdacidi, le stragi avvenute fra i Persiani in occasione dell’assalto notturno di Leonida (3), l'episodio dei fratelli Fileni narrato da Sallustio (4), e le violenze che permise quello che il poeta chiama in tono di sprezzo romanus amor (v. 322): l'uccisione del figlio di Bruto, di Virginia, di Manlio Torquato. Ricorda poi l’episodio di Scevola e quello di Curzio (e qui trova modo di sfoggiare ancora una volta la sua erudizione mitologica) (5); e per colpire insieme col romanus amor anche la romana fides cita il tipico esempio di Regolo, la cui fedeltà alla parola data non trova meno riprovevole che quella di Sagunto all’a- micizia di Roma, e quella di Numanzia alla propria libertà. Ma la storia di Grecia e di Roma ci presenta numerosi esempi di violenze commesse da parte di donne: e il poeta paragona anche qui la donna ebrea, Giuditta, colle donne pagane: Semiramide, Tomiri, Euadne, Didone, Lucrezia. E conclude (vv. 521 e segg.): giunge (v. 214): milia femineis numerantur ubique catervis exempla scelerum: modicae vel laudis amore aut certe fecere pie pro numine vano. (1) V. vv. 237-239. (2) Senza dubbio la morale cristiana non può approvare la rigidezza violenta della morale ro- mana che non teneva conto dei vincoli del sangue, o puniva la violenza con la violenza, o appro- vava il suicidio per sfuggire al disonore o alla schiavitù; ma in fondo il punto di vista di Draconzio non è quello della morale cristiana: questa parte dal concetto dell’inviolabilità della vita umana, sulla quale ha diritti assoluti Iddio solo, Draconzio invece parte dal concetto che l’affetto a sè stesso o ai congiunti deve essere superiore ad ogni altro sentimento, e deve tenerci lontani dalla violenza. (3) In questa interpretazione Draconzio risente naturalmente anche l’influenza delle sue fonti, ad es. Paolo Orosio (Ad Pag., II, 9,8 segg.). Fonti di Draconzio furono anche Giustino e Valerio Mas- simo, come ben osserva il Vollmer. Questo excursus storico va dal v. 257 al v. 467. (4) Cfr. Bell. Jug., 19, 3.79, 5 segg. (5) Notevole è il tono declamatorio di quasi tutti questi episodii, parecchi dei quali sono molto diffusi e pieni di considerazioni soggettive e di apostrofi; caratteristici sono i versi 401-406 coi quali chiude la serie degli esempi, illustranti il f Romanus amor ,, e in particolare l'esempio di Scevola. ò Ne) DO ETTORE PROVANA 70 Si debbono considerare questi episodi che occupano tanta parte del libro terzo una semplice ed oziosa divagazione del poeta? Io credo di no: non soltanto per il nesso logico del pensiero che illustrano con quello dei due primi libri, ma anche perchè essi palesandoci bene in che luce il poeta vedeva i fatti della storia pagana, preparano opportunamente l'atto di fede e la preghiera fiduciosa e accorata che chiude e sintetizza tutto il carme. Sincerissima preghiera, perchè il poeta non cerca punto di scusarsi, nè di chiamare ingiusta la sventura che lo ha colpito; confessa anzi le sue colpe che, dice e ripete, sono innumerevoli. E se anche in essa noi tro- viamo la solita esuberanza del nostro poeta. se vi troviamo brevemente ripetuti i concetti già espressi, e gli esempi già addotti, ciò non dovrà indurci a pensare che tutto ciò sia fittizio e falso. Nulla ci dà il diritto di negare che Draconzio abbia tanto sofferto: gli stessi sconsolati lamenti, così monotoni e così stucchevoli talora ne sono una prova, appunto perchè l’esperienza c'insegna che anche il lamento più spontaneo e più sincero ci annoia e ci sazia quando non conosce il freno dell’arte: tanto più ci colpisce il breve e disperato grido di dolore, o la muta e forte rasse- gnazione. Il De laudibus dei di Draconzio che, nonostante tutte le imperfezioni, è l’espressione sintetica dell’aspirazione alla vita, della fede risorta in cuore al poeta, delle sue lunghe e gravi sofferenze, ha forse anzitutto il valore di dimostrarci che se il dolore ci può rivelare l’uomo e il poeta, esso non basta da solo nè a distrug- gerli nè a crearli. Dopo l'esame che siamo andati facendo dell’opera di Draconzio il problema che ci eravamo proposti della sua originalità e del suo valore di poeta, della sua dipen- denza più o meno diretta dalla precedente letteratura, è in gran parte risolto. Il Barwinski, il Rossberg, il Vollmer col loro lungo e diligentissimo lavoro di ricerca ci hanno fornito il materiale caotico, in mezzo al quale noi abbiamo cercato di far penetrare un po’ di luce eliminando, scegliendo, interpretando secondochè se ne presen- tava l’occasione. Certamente anche Draconzio imitava, come tutti imitavano al suo tempo: ma se noi pensiamo che i tratti più belli e più caratteristici dell’opera sua vanno immuni per lo più da ogni imitazione, non siamo in diritto di ritenere che imitasse per incapacità o per povertà d’ispirazione poetica: l’imitazione di Draconzio è per lo più incosciente, quasi mai deliberata e frutto di artificio e fatica. Io credo che non il pensiero e l’immagine altrui gli suggeriscano pensieri ed immagini, ma che quelle idee e quelle immagini che spontaneamente gli vengono in mente gli ricordino le espressioni usate dai grandi suoi modelli in casi analoghi; e se ne giovi contento di potersene giovare, contento forse di dimostrare fino a che punto egli sa valersi della sua cultura letteraria (1). Fanno certamente eccezione quei luoghi (e (1) Analoghi a quello di Draconzio sono i casi di Sidonio Apollinare e di Ennodio, a lui quasi contemporanei. Però in Sidonio troviamo anche nei passi imitati quella certa compostezza e gra- vità che è propria del suo stile; in Ennodio, oltre alla freddezza e al vuoto di contenuto che gli è proprio, troviamo una grandissima prevalenza di Virgilio sugli altri poeti imitati. diede se 71 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 93 noi li abbiamo rilevati) nei quali l'imitazione abbraccia tutta una situazione, tutto un motivo poetico che non si trova bene là ove Draconzio lo usa. Ma quando, come nella grande maggioranza dei casì, le reminiscenze di Ovidio, di Lucano, di Stazio, di Claudiano sì incrociano e si completano a vicenda, senza che le une prevalgano sulle altre, senza che per nulla si senta lo sforzo del poeta, vuol dire che nel suo spirito è avvenuta una vera conciliazione, una vera fusione del suo e dell’altrui, e che anche allora l’arte sua, benchè debolissima, non cessa di essere sincera. Noi possiamo do- mandarci: quando mai Draconzio è più lui, quando imita, o quando procede libero con le sole sue forze? Chi seguisse lo schematismo letterario, facilone, che è tanto in voga, non esiterebbe a rispondere: certamente quando non imita, anzi soltanto allora è veramente lui. Io invece non credo: fu detto che l’uomo non è mai tanto sincero come quando posa: sentenza che parrà, ed è certamente troppo assoluta. Si può dire che non tutte le qualità dell’individuo e nemmeno, in generale, le migliori, si manifestano quand’egli posa, ma certamente una o parecchie delle qualità fonda- mentali. Così mi pare che si possa dire dell’imitazione in Draconzio: è uno dei pro- cedimenti della sua arte, senza del quale, data la sua educazione letteraria, dati i tempi in cui scriveva, non avremmo forse nessuna delle sue opere, ed è anche un procedimento molto caratteristico e individuale, perchè noi sentiamo il poeta non meno nei passi imitati che in quelli più originali, perchè molte volte anche le parole di Virgilio e di Ovidio hanno un sapore draconziano. Ad illuminare il valore molto incerto di quella ricerca delle fonti, che si fonda su raccostamenti troppo spesso cervellotici, gioverà rivedere rapidamente la questione che il Barwinski si pone, se Draconzio sia imitatore di Catullo, e se per conse- guenza i suoi carmi possano smentire la convinzione lungo tempo durata che Catullo sia stato sconosciuto affatto (almeno di conoscenza diretta) negli ultimissimi tempi della letteratura romana. Il Barwinski (1) risponde citando alcuni passi di Draconzio, dai quali risulta per lui evidente l'imitazione di Catullo: io non credo affatto che gli esempi addotti dal Barwinski abbiano forza dimostrativa. V’è una serie di riscontri nei quali l'imitazione si riduce alle due ultime parole dell’esametro, e si tratta di espressioni che nei casi addotti non potrebbero essere diverse. Io mi domando se, dovendo tutti e due i poeti parlare di un amore tra madre e figlio, o tra matrigna e figliastro, potevano esprimersi diversamente che chiamando mater la madre, natus il figlio, noverca la matrigna, e usare altro verbo tranne potiri per esprimere ciò che noi diremmo conquistare (cfr. Dr., II, 38 e segg. e Cat., LXIV, 402 e segg.); o se par- lando delle candide membra di una fanciulla, sia tanto strano che entrambi usino l’espressione: “ niveos... virginis artus , (cfr. Dr., VII, 22 e Cat., LIV, 261). E se il Barwinski vuol dare tanta importanza alla collocazione delle parole, non so perchè tale importanza debba cessare quando non solo la collocazione varia, ma anche l’uso e il significato delle parole poste a riscontro (cfr. Dr., 0r., 264 e Cat., LXIV, 305-807), La stessa descrizione del leone infuriato che troviamo in Draconzio (VIII, 352 segg.), confrontata con quella di Catullo (LXIII, 81 segg.), non serve affatto, perchè si tratta (1) Quaest. ad Drac. ct Orestis Trag. pertinentes, I. De Gen. dicendi, p. 95 segg.; 106 segg. — Cfr. Barwinsxi, Rhein. Mus., XLIII (1888), p. 310-311. 94 ETTORE PROVANA 72 di frasi molto comuni e molto naturali dato l'argomento stesso che i due poeti trat- tano: la stessa immagine suggerisce naturalmente le medesime parole. Io non nego che Draconzio abbia conosciuto in qualche modo Catullo, ma eredo che non bastino le prove addotte dal Barwinski per asserirlo. Abbiamo già avuto occasione di osservare come in Draconzio s’incontrino alcuni di quei particolari caratteri che oggi vanno sotto il nome complessivo di secentismo: è fenomeno questo, che, incominciato insieme con la decadenza delle lettere latine, andò aumentando in estensione ed importanza sopratutto in Africa e nell'ambiente letterario nel quale visse il nostro poeta. Una vasta e complessiva trattazione di quest’argomento manca purtroppo ancora: solo vi supplisce in qualche modo un lavoro. assai breve di Martino Hertz (1), che scrutando acutamente nella sua rapidità il fenomeno, trascura alquanto, mi pare, lo studio delle cause. L’opera di Draconzio, che del resto non è tutta intera una manifestazione di secentismo, ci presenta il fenomeno nei suoi aspetti più comuni e più generali. Come in parecchie altre cose, così pure in questa, egli subisce l'influenza del suo tempo: e forse più ancora che della tradizione letteraria latina, quella del suo luogo d’origine, dello stesso carat- tere africano, amante per natura dell’amplificazione, dell’enfasi, della frase ampia e reboante. In Draconzio molte volte non troviamo tanto lo sforzo minuto e ingegnoso di dire tutto ciò che si può dire, senza nessun criterio di scelta, quanto una congerie indigesta e pesante di nomi e di aggettivi e di verbi, coi quali egli non riesce nem- meno a colpirci, a sbalordirci; riesce a farci sbadigliare (2). Si vede proprio che il poeta si lascia trasportare balordamente, senza alcun freno. Ma se questa tendenza all’enfasi e alla sovrabbondanza gli veniva in parte dal carattere africano e da tutta la tradizione letteraria degli Africani (l’Antologia latina è piena di un tale secen- tismo), essa era anche molto favorita dalla generale tradizione retorica della lette- ratura latina. La retorica era il pane col quale si nutrivano le giovani generazioni romane nelle scuole: essa forniva i temi, i materiali, ed era impossibile che con simili materiali si evitasse il secentismo della forma. Draconzio, avvezzatosi per sua disgrazia alla declamazione poetica, cadde talora in essa persino nei carmi cristiani. Altra grande responsabile del fittizio e del vuoto che immiseriscono la tarda lette- ratura latina è la mitologia: sostituitosi con Valerio Flacco e con Claudiano l’epillio (1) Renaissance und Rococo in der ròmischen Litteratur, Berlin, 1865. L’Hertz medesimo intitola il suo lavoro semplicemente “ ein Vortrag ,; e difatti, per quanto riguarda il barocco, limita assai il suo studio, accorgendosi a ragione che il fenomeno ebbe la più saliente manifestazione in Africa, e studia in particolare l’opera di tre grandi africani: Frontone, Aulo Gellio ed Apuleio. Per quanto riguarda Apuleio vedi anche G. Borssier, L’'Afrigue romaiîne, p. 272-299. (2) Gli esempi sono numerosissimi; ne citerò almeno uno, tolto da quel De Zaudibus dei dove pure il poeta è più poeta (vv. 11 segg.); il poeta vuol dire che di tutte le vicende umane è au- tore Iddio: miseris hince atque beatis pro meritis morum, pro certo tramite vitae paupertas mors vita salus opulentia languor gaudia nobilitas virtus prudentia laudes affectus maeror gemitus successus egestas via potestatum, trux indignatio regum. Sembra un vocabolario, senza l'ordine alfabetico. 73 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 95 mitologico alla grande epopea, l'eleganza, la minuzia, la frivolezza, frutto di studio e di artificio, rinsanguarono la decadente poesia già fra i poeti pagani (1): nei poeti cristiani, per i quali il mito era morto, costituirono tutta la poesia. Il procedimento retorico più comune che noi troviamo negli epillii di. Draconzio è quello dell’antitesi: l’Oreste è, si può dire, tutto un tessuto di antitesi. Ed anche negli epitalamii, i carmi pagani meno guasti dall’artifizio, l’antitesi abbonda; esempio interessante a questo proposito ci offrono i versi del carme VII coi quali definisce l’amore (vv. 12 segg.) (2): impubes lascivus atrox violentus amoenus, lis pacis tacitusque loquax, fur garrulus audax nudus et armatus, ferus et pius, improbus insons. Le metafore ardite, comunissimo procedimento dello stile barocco, raramente sono cercate da Draconzio, più spesso gli sono suggerite dal testo biblico, e non si può dire che sempre egli le guasti e tolga loro la robustezza e l'efficacia che hanno nella Bibbia. Un bell'esempio è quel luogo del libro terzo del De laudibus dei, dov'egli parla delle sue colpe ripetendo in sostanza le ardite metafore della Scrittura (8). Draconzio del resto è fra coloro che ricevettero meno falsa impressione dalla let- tura della Bibbia, la quale fu per i cristiani una delle maggiori fonti di secentismo: in lui v'è quasi sempre un fondo vivo e simpatico di sincerità (4). Ciò accadde forse anche perchè l'argomento condusse il poeta ad attingere dalla Scrittura sopratutto quelle espressioni che parlano fortemente e profondamente del dolore e della mal- vagità umana, oppure della grandezza di Dio e della sottomissione a lui di tutte le cose create: sentimenti tutti profondamente radicati anche nell’anima di Draconzio (5). La sincerità è quella che spesso salva Draconzio dal formalismo secentistico nel quale tanti impulsi lo indurrebbero a cadere (6). Possiamo negare del suo secentismo ciò che abbiamo affermato della sua imitazione, negare cioè che esso sia in certo modo un procedimento costitutivo della sua arte: è un difetto grave e diffuso, dal quale egli non sa liberarsi, perchè il suo spirito, privo di forza, è incapace alla ribellione. (1) Ciò avvenne pure per l’influenza dell’Alessandrinismo in Roma. La illustra assai bene l’Hertz a proposito di Frontone (op. cit., p. 29 segg.). (2) Questi versi richiamano subito alla memoria quelli che sullo stesso tema scrisse il Marino (Adone, VI): Volontaria follia, piacevol male, Stanco riposo, utilità nocente, Disperato sperar, morir vitale, Temerario timor, riso dolente, ecc. (3) V. 3, 588 segg.; cfr. Psalm., 1, 5; 37, 5; 68, 2, 3. (4) V. Moxceavx, Hist. litt. de VAfr. chrét., I, p. 173; Cfr. S. Agostino, De doct. Christ., II, 14. (5) V. 3, 611-616, 645-647. (6) Naturalmente Draconzio usa anche in abbondanza, come tutti i poeti della decadenza, le figure retoriche, quali giuochi di parola, chiasmi, epanallessi ed altre simili abbominazioni. — Cfr. Vollmer, ediz. di Drac., p. 440-441. 96 ETTORE PROVANA 7 74 L'analisi dell’opera di Draconzio ci ha in parte svelato l’uomo e il poeta, in parte ce l’ha occultato; sciogliendo i problemi minimi si scoprono e si pongono, ma non si risolvono i problemi maggiori. Noi non abbiamo aspettato sin qui a cercare la conciliazione, la sintesi degli elementi diversi che l’analisi ci ha rivelato: sopra- tutto abbiamo cercato di spiegare come sia possibile conciliare l’imitatore e il poeta originale, spontaneo; ora rimane un’altra antinomia, quella fra il poeta pagano: e il poeta cristiano. So che per molti questo problema non esiste, od è di soluzione faci- lissima; il poeta cristiano, essi dicono, ce lo danno le credenze, le convinzioni, i sentimenti personali, quello pagano la consuetudine, la tradizione letteraria, l'am- biente di educazione e di vita (1). Io non nego che si possano trovare come due anime diverse in una stessa persona, e tanto meno che un poeta conceda all’an- dazzo, alla tradizione ciò che di proprio impulso non farebbe; ma per me questo è ancora il problema e non la soluzione. Per quanto riguarda Draconzio poi, il pro- blema tanto più si presenta in quanto abbiamo visto che gli elementi pagani e cri- stiani si confondono talora nei medesimi carmi, e in quanto, se l’arte sua più vera e più spontanea è quella dei carmi cristiani, tuttavia anche nei carmi pagani vive e palpita qua e là il suo spirito. La critica letteraria ha detto finora di Draconzio che è poeta riflesso e d’imitazione senz’altro, oppure che è tale nei carmi pagani, mentre è originale, o quasi, in quelli cristiani. Noi, astenendoci da queste distinzioni e classificazioni che non penetrano nello spirito dell'autore nè in quello dell’opera sua, notiamo anzitutto che in Draconzio la questione psicologica e la questione arti- stica sono strettamente congiunte, non solo per quegli elementi di sincerità e di spontaneità che troviamo anche nei carmi pagani, ma anche per il fatto della sua prigionia che tanta influenza ebbe sul suo spirito e quindi sull’indirizzo della sua opera letteraria. La fede che abbiamo veduto rinascere in cuore al poeta sotto l’im- pulso della sventura esisteva certo già in lui, e perfettamente sincera (come fede, se non come pratica), negli anni precedenti: non sarebbe altrimenti spiegabile il ri- torno ad essa. Non si può dire, io credo, che sia avvenuta nell'anima di Draconzio un'evoluzione religiosa : questa almeno non traspare dalle opere che ci sono perve- nute, come d’altra parte, data la cronologia che di esse abbiamo fissato, non appare un'evoluzione artistica. Certamente in Draconzio non vi fu evoluzione religiosa, nel senso che le sue convinzioni siano man mano mutate, avvicinandosi sempre più al dogma cattolico: piuttosto conviene ammettere una certa evoluzione del sentimento religioso. Ricordiamo che durante il carcere, anzi forse negli ultimi tempi, egli scrisse l’epitalamio di Giovanni e Vitula. e poco dopo la liberazione, l’epitalamio i fratribus, pieni entrambi non soltanto di immagini e di simboli mitologici, ma anche di uno (1) Questa è pure la soluzione del Dill, ammirabile talora per l’acutezza e la genialità delle sue osservazioni; pure egli non va molto più innanzi nello stadio lungo e minuzioso dell’opera di Sidonio Apollinare, che presenta caratteri analoghi a quelli di Draconzio. Verissima l’influenza della scuola e della tradizione, verissima anche la sincerità del sentimento cristiano; ma ciò significa che, o fra i due fatti ugualmente veri non v'è contraddizione, o che qualche cosa di più intimo concilia nello spirito gli elementi opposti. Ma che fra le due tendenze non vi sia opposizione di sorta, è cosa assurda che nessuno vorrà ormai sostenere. Cfr. A. Grar, Roma nell’immaginazione e nelle memorie del Medio Ero, Torino, 1883, vol. II, p. 155; V. anche p. 368. 75 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 97 spirito pagano nel modo di concepire e di rappresentare l’amore. Anche nel De laudibus dei vedemmo che dell’amore e della donna il poeta serba un concetto e un sentimento in parte pagano: l’unione sessuale per lui non cessa di essere un piacere, come piacere egli la domanda al suo Dio, e nella donna egli esalta ed apprezza sopratutto la bellezza delle forme e la fecondità di madre (1). È curioso il fatto che quasi sempre nel De laudibus dei, quando vuol portarci esempi dell’ira o della bontà divina, fa consistere pena e premio nella fecondità tolta o ridonata; in principio del De raptu Helenae insiste sul valore della donna come madre, e madre nel senso di procreatrice e nulla più (2). Veramente questo concetto si avvicina assai più all’ideale cristiano della donna, che quello che la considera come puro stru- mento di piacere; ma non è ancora il vero concetto cristiano, che dà alla donna un valore indipendente, spirituale, e, come madre, la considera non solamente strumento di procreazione, ma elemento indispensabile all’educazione, alla formazione spirituale dei figli. Draconzio parla anche sovente con lode della castità; ma apprezza assai più nella donna l'onestà, la fedeltà di sposa, e nelle sue poesie non s'incontra mai il nome della Vergine, pur presentandosene più volte l'occasione. Certamente tutto questo ha un'importanza molto relativa, e non ci dà affatto il diritto di concludere che Draconzio fosse fondamentalmente uno spirito pagano: solo ci spiega in parte come anche gli argomenti pagani potessero interessare sotto un certo aspetto il suo spirito. Nè soltanto troviamo in Draconzio una tendenza paganeggiante per quanto riguarda l’amore, ma anche per ciò che riguarda il sentimento affine e più generale della natura. Il Gamber (3) osserva che la natura parla ai poeti della creazione, che egli studia comparativamente, un linguaggio nuovo e commovente, e mentre il paganesimo non vi scorgeva che linee e forme e una perpetua festa dei sensi, essi vedevano nella natura il creatore; e aggiunge: “ Sans doute, ici encore, malgré la tendance morale et religieuse qui se révèle, il arrive souvent que le pinceau demeure profane, et que l’imagination se reporte aux lieux célèbres de la fable immortalisée par les auteurs paîens ,. Sono due ottime osservazioni che si possono applicare benis- simo anche a Draconzio; ma questo sentimento della natura, se non è per nulla anticristiano, tuttavia in Draconzio non si trasforma affatto in misticismo nè pro- fondo, nè superficiale. È un puro e semplice sentimento della natura: leggendo il De laudibus dei come qualsiasi altro dei migliori brani descrittivi, vi si trova il pit- tore della natura, pieno di affetto e di ammirazione per essa, anche indipendente- mente da ogni sentimento religioso. Quando il poeta, dopo averci descritto in quel bellissimo brano da tutti citato, il volo e il canto degli uccelli, conclude dicendo “ et puto conlaudant dominum meruisse creari , (4), aggiunge molto graziosamente uno spunto religioso alla sua descrizione, ma non toglie proprio nulla, anzi corona assai bene con quel “ meruisse creari , la compiacenza tutta oggettiva e il senti- mento profondo col quale ha descritto lo spettacolo naturale, ammirandolo di per (1) Solo esempio in contrario è quello di Giuditta che (3, 480). “ Holofernem castissima finxit amare ,. (2) Cfr. vv. 6 segg. (3) Le livre de la Genèse, p. 178. (4) L. d., 1, 241 segg.; V. anche la bella descrizione dei pesci, che precede immediatamente. Serie II. Tox. LXII. 13 98 ETTORE PROVANA 76 se stesso. E così accade in molti altri casi. Quindi Draconzio non ha per nulla un sentimento mistico della natura, e tanto meno quel disprezzo che altri ebbero per essa, in nome del puro ideale cristiano, come a nemica della vita interiore dello spirito. Ed appunto in questo profondo senso della natura in tutte le forme e in tutti gli aspetti (non escluso l'aspetto umano), io trovo l'elemento conciliativo del paga- nesimo e del cristianesimo di Draconzio. È un elemento sentimentale, perchè quasi sempre quando nel campo razionale v'è inconciliabilità, bisogna cercare la concilia- zione nel campo del sentimento. In questo fondamentale amore alla natura e alla vita viva si poteva benissimo innestare tanto la tendenza pagana a dare un sommo valore all'universo e all'uomo di per se stessi, quanto quella cristiana a riconoscere nell'universo e nell'uomo null'altro che la manifestazione del divino dal quale tutte le cose dipendono. Egli è pagano quando nei Romulea o nei carmi cristiani si com- piace di ciò che la natura gli offre di bello indipendentemente da ogni altra consi- derazione, e allora anche il simbolo pagano rivive nel suo spirito, ed egli lo usa naturalmente, senza sforzo alcuno: è cristiano quando il bello e il buono della natura lo spinge a lodare la bontà provvidenziale del Creatore. Sopratutto questo sentimento della bontà divina lo rende cristiano: nel mito stesso egli vede due serie di simboli. i buoni e i malvagi; e se usa volentieri i primi, dimostra talora antipatia profonda per gli altri. Onde nella mitezza naturale del suo animo noi troviamo un altro ele- mento di conciliazione che lo porta a trasformare il suo naturalismo pagano in un sincero entusiasmo cristiano: in lui è veramente profonda e libera questa concilia- zione tra lo spirito e la materia, Dio e il mondo, la morale ed il piacere: ciò che succede in tutti i tempi in tutte le anime più miti, più serene, più buone. Draconzio è anche alquanto ingenuo, cosa naturalissima in un temperamento come il suo. Abbiamo notato in qualche punto talune sue espressioni ingenue; ma più che dai particolari, l'’ingenuità si manifesta dal tono generale, semplice e fan- ciullesco: si manifesta non soltanto nel pensiero bambino, nella facile credulità, nel- l’avversione ai problemi più gravi, ma nella semplice ed efficace espressione dei sentimenti più affettuosi e famigliari. Ed è questa ingenuità e freschezza del suo spirito quella che ce lo fa apparire talora psicologo. Pare a primo aspetto una con- iraddizione, un assurdo, perchè la psicologia vuole acutezza e maturità di riflessione; ma per il nostro poeta, come in generale per tutti i poeti, la cosa è diversa. Dra- conzio ci descrive Adamo che appena creato volge l’oechio curioso e stupefatto ad ammirare ad una ad una le cose che gli stanno intorno, e solo da ultimo rivolge l'occhio a se stesso; e poi si domanda in qual relazione mai egli sì trovi col resto del creato, e poi osservando i rapporti che passano fra gli animali, sente la propria solitudine, e si domanda perchè mai, mentre gli animali vivono in società, egli si trovi solo (1). Ora nessuno vorrà sostenere che Draconzio abbia fatto per com- porre quei yersi così spontanei e così belli, tutto uno studio psicologico sul formarsi della coscienza dall’esterno all’interno, e sull’anteriorità dell’intuizione sopra i pro- cedimenti riflessi dello spirito, fatti di confronti e di analogie. Certamente no: egli si è messo, si è sentito nella condizione stessa di Adamo e ne ha ricevute le stesse (1) V. L. d., 1, 348-359. VAI BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 99 impressioni fresche e primitive. Egli dà, è vero, del simplex ad Adamo, perchè ignora la causa e il fine della propria esistenza: ma sembra il bambino che dà dell’asino all’altro perchè non sa una cosa, mentre poi in fondo non ne ha egli stesso un'idea più chiara. Nè Draconzio ci dice affatto: “ quid sit homo, quos factus ad usus ,, il che egli rimprovera Adamo di non sapere. E questa psicologia fresca e spontanea vedemmo che si manifesta non soltanto nel De laudibus dei, ma anche nei carmi minori, come nella Fadula Hylae e qua e là nel De raptu Helenae e persino nella Medea, sopratutto poi nell’Epithalamium Joannis et Vitulae. Così l’uomo e l'artista, data la sincerità fondamentale della sua arte (che si manifesta non meno nei pregi che nei difetti), formano in Draconzio una cosa sola; onde in lui si possono e si debbono conciliare le opposte tendenze di spirito. La fantasia di Draconzio non è ricca: egli ripete molto sovente ‘le stesse imma- gini e gli stessi esempi: è piuttosto una fantasia viva, la quale riesce spesso a rap- presentare all'evidenza gli oggetti. Non è forte e creatrice, possiamo dire, mai; dove l'invenzione è tutta di Draconzio, difficilmente egli si salva dal mostruoso e dal grottesco; la sua originalità consiste piuttosto nel colorito nuovo, sentimentale di ciò che descrive. Il De laudibus dei è tutto pieno di questo sentimento, e vi si riscontra la frequenza di quei motivi, che si chiamano volgarmente romantici, come la quiete notturna, e lo splendor lunare, e le ombre dei boschi. Certo la massima parte dei carmi di Draconzio è occupata da descrizioni, e questo ne costituisce sotto un certo aspetto la debolezza. Fu osservato a ragione che la prevalenza dell’elemento descrit- tivo è fenomeno generale di tutte le letterature in decadenza; e sono descrizioni molto minute, che scendono ai minimi particolari, facendo sì che in essi si smar- risca la visione complessiva, e che il lettore resti annoiato e infastidito. Sono osser- vazioni verissime; ma io non direi che la descrizione anche minuta sia sempre condannabile: può essere anch'essa animata o da uno spirito sottile, grazioso di osservazione, o più ancora dal sentimento, dall’affetto anche per le cose minime. Draconzio, insieme con alcune descrizioni a brevi tratti efficaci, ci offre in numero considerevole descrizioni minute, aride, stucchevoli, giunge fino al più pedestre tipo della descrizione, alla semplice enumerazione. Ma spesso egli riesce a farci sentire quella specie di compiacenza, di simpatia, che lo lega all’oggetto che descrive; e allora anche la più minuta descrizione non stanca, perchè è tutta viva di calore e intimità di sentimento: sovente egli descrive la cosa îw fieri (1), sovente pur descri- vendo tutti i particolari li unifica in un concetto al quale tutti ritornano (2). Insieme con l’elemento descrittivo, occupa nella poesia di Draconzio un posto preponderante l'elemento sentimentale e passionale. Ma se l’espressione dei sentimenti proprii è quasi sempre sincera e felice, benchè talora egli insista troppo e troppo si ripeta, quella dei sentimenti altrui, sentimenti molto lontani dalla sua anima, è general- mente imperfetta, esagerata, falsa. Draconzio non riesce ad uscire da sè e a farsi per ragioni d’arte una psicologia diversa dalla propria; se egli si trasforma un momento in Adamo, o in Hylas, è perchè ad essi egli impresta, e molto felicemente, (1) Cfr. ad es. la descrizione della creazione dell’uomo, L. d., 1, 382 segg. (2) L. d., 1, 570 segg. 100 ETTORE PROVANA — BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 78 la sua anima. In sostanza i caratteri della poesia di Draconzio sono assai più lirici che epici: il lirismo sincero che egli irasfonde nell’opera sua le dà tutto il valore e tutta la vita. La poesia di Draconzio non è certamente grande, è appena mediocre; sincera manifestazione di uno spirito buono e addolorato, fra la miseria di una let- teratura tutta futile, vuota, falsa, suscita più la simpatia che l'ammirazione, ed io credo che l'antico poeta sarebbe d'accordo con me nel preferire un po’ della prima che molto della seconda. : Osservazione. — A rendere completa la presente irattazione, sarebbero necessarii ancora la ricerca e lo studio della foriuna che l’opera di Draconzio ebbe presso i contemporanei e durante il Medio Ero. Ma la ricerca è stata fatta in modo esauriente dal Vollmer nella sua prefazione (p. vin segg.); e i materiali scoperti sono tanto pochi e miserabili che ogni studio su di essi riu- scirebbe ozioso. Opporiunamente il Vollmer si oppone alle esagerazioni nelle quali è incorso per questa partie il Manitius; sarebbero forse da mettere alirettanto in dubbio le conelusioni del Helm a proposito del mitografo Fulgenzio, quale imitatore di Draconzio. io non credo sicurissimo nessimo dei riscontri stabiliti dal Helm, il quale del restio non lì da neppure come tali. — Credo opporiano solianio di dare l'elenco dei lavori che precedettero quello del Vollmer: Awaxs, De Corippo priorum poziarum imitoiore, Oldemburg, 1888. Bisre, Disseri. (su Draconzio e Patricius), Marpurg, 1891. Ezx1s, Journal of philology, V (1874), p. 252. Hz, Der Bischof Fulgentius und der Myihograph; Rhein. Mus., LIV (1899), p. Lil. Masrrros, Zeifschrifi far Gsierr. Gymnasiza, 31 (1886). p. 245 segg. e p. 407 segg. Ip. Wiener Siizungsb., CXII (1886). 2, p. 579 sese. Ip. Neues Archiv, Xi (1886), p. 553 sege. Ip. Wiener Siizungsb.. CXVII (1888). 12. p. 15. LA LOGICA ARISTOTRLICA, LA LOGICA KANTIANA RD HEGBLIANA E LA LOGICA MATEMATICA CON ACCENNO ALLA LOGICA INDIANA MEMORIA DEL SOCIO PASQUALE D’ERCOLE Approvata nell'adunanza del 10 Dicembre 1911. Dividerò e tratterò in varii punti la quintuplice forma di Logica enunciata nel titolo. Il primo punto è che questa quintuplice forma di Logica si riattacca nel modo più intimo al mio scritto già pubblicato ed intitolato: L’Essere evolutivo finale come tentamento di una nuova concezione ed orientazione del pensiero filosofico uscente dal- l’Hegelianismo. E si riattacca in guisa che la concezione, la posizione e la soluzione delle indicate forme logiche dipendono in tutto e per tutto dal medesimo. Il secondo punto concerne la importanza della trattazione delle enunciate forme logiche. La importanza, quanto alla Logica aristotelica, è addirittura immensa, in quanto sì fatta Logica conta ormai 24 secoli di esistenza, di ammirazione e di attuazione nel pensiero umano in genere e nel pensiero filosofico in ispecie. Per ciocchè concerne la importanza della Logica kantiana, benchè questa, rela- tivamente al tempo, conti poco più di un secolo di esistenza, pur la sua importanza è assai grande, in quanto, da una parte, continua ed ulteriormente esplica la Logica aristotelica, dall’altra, prepara la via, l’indirizzo e la stessa materia alla susseguente Logica di Hegel. Quanto poi alla Logica hegeliana, se la sua importanza rispetto al tempo è immensamente minore della aristotelica, e, relativamente, della stessa kantiana, con- tando appena circa un secolo di vita, pur non di meno, considerata come entità del fatto logico in sè stesso, è grandissima anch’ essa. Giacchè, la Logica hegeliana, da una parte, riattaccandosi e contrapponendosi come reale od ontologica alla aristotelica ritenuta e detta formale, e, dall’altra, sviluppando, integrando e realizzando in un compiuto organismo dialettico il tentativo ontologico kantiano, è divenuta il più impor- tante fatto e pensiero logico de’ tempi nostri. 102 PASQUALE D'ERCOLE 2 Quanto alla importanza della così detta Logica matematica, tale importanza rispetto al tempo è di bel nuovo assai minore non solo della 24 volte secolare ari- stotelica, e della poco più che secolare kantiana, ma della stessa secolare hegeliana. Giacchè la Logica detta matematica conta soltanto pochi decennii di vita, ed anzi, nella sua ultima determinata forma, appena una ventina d'anni. E da ultimo, per ciocchè concerne la importanza della Logica indiana, tale impor- tanza è grandissima anch'essa; in primo luogo, perchè la Logica indiana è una reale e vera forma logica distinta dalle altre, e pensata ed esercitata da un popolo anti- chissimo tuttora pensante e logicante con essa; in secondo luogo, perchè, rispetto alla universale evoluzione della Logica in genere, la Logica indiana è la prima ma- nifestazione, avente ragion di essere come le altre. A queste ragioni essenziali potrei aggiunger l’altra di opportunità; ed è che essa è assai poco conosciuta, ed è invece degnissima di esserlo, il che avverrà coll’accenno mentovato della medesima. Un'ultima considerazione rispetto alle predette forme logiche, e specialmente rispetto alla sequela storica delle medesime, è la seguente. Che, cioè, benchè la indiana sia la prima in ordine di tempo, pur non nuoce, anzi giova di esporla, e trat- tarla in ultimo, perchè essendo essa di un tipo abbastanza dissimile dalle altre enun- ciate, sarà più agevole di intenderne ed apprezzarne la natura dopo aver esposte quelle che rappresentano lo sviluppo maturo e razionale rispetto ad essa. Il terzo punto concerne lo scopo della trattazione delle predette Logiche. Il quale scopo è quello di determinare quale è la vera natura di ciascuna di esse, consi- derandole sì dal punto di vista storico, epperò evolutivo, sì dal punto di vista teoretico. Di tutti questi punti dunque tratterò separatamente, cominciando dalla Logica aristotelica. I La Logica aristotelica. Aristotele è stato detto il Padre della Logica. Sorge subito la quistione: Ma non c'è un’altra Logica prima della sua? e se ce n'è un’altra, in qual relazione sono quest'altra e la aristotelica, da una parte, dal punto di vista della anteriorità e della posteriorità, dall’altra, dal punto di vista della evoluzione storica dall’una all’altra ? La risposta a tal quistione sarà più opportunamente fatta e compresa dopo la trattazione e giudicazione di tutte le predette Logiche. E veniamo alla Logica ari- stotelica. Innanzi tutto è bene di allegare le Fonti della nostra esposizione e trattazione. Tutti intendono che la prima ed essenzial Fonte è Aristotele stesso e questa noi avrem sempre presente nel testo originale. Aggiungiamo solo che, come Aristo- tele, specialmente attraverso del Medio evo e del Rinascimento, è stato ripensato e riferito nella famosa traduzione latina “ interpretibus variis ,, riconosciuta come Cna Pelle Pau 3 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 103 giusta interpretatrice del grande filosofo greco, così noi ci serviremo anche di questa, allegandola persino ordinariamente accanto al testo greco. La edizione de’ due testi che noi abbiam presente e seguiamo è quella della “ Academia Regia Borussica, Berolini, 1831-1836 ,, fatta da Emanuele BeKKER e da Cristiano Augusto BRANDIS. Altre Fonti importantissime sono le seguenti : Severino Boezio (l’infelice e insigne filosofo, condannato a morte e fatto uccidere dal re Teodorico). Egli è uno de’ più benemeriti della Logica aristotelica come tradut- tore e illustratore degli scritti logici di Aristotele: Aris. StAG., Organum, Boethio Sever. interp. etc., Venetiis, 1547. Geschichte der Logik ete., von D.r Carl PraNTI, che è un’opera addirittura mo- numentale nel suo genere. System der Logik und Geschichte der Logischen Lehren von D. Friedrich UEBERWEG, 4° Aufl., Bonn, 1874: opera eccellente anche questa, dovuta al merito e alla giusta fama di quell'uomo, che ha lasciato durevole traccia di sè anche nella Storia della Filosofia. Aristotelis Organon ete., edidit Theodorus Warrz Philos. Dr. Lipsiae, MDCCCXLIV: importantissima e stimatissima opera in due volumi contenenti il testo greco e il commento di lui al medesimo. D. Eduard ZeLLer, Die Philosophie der Griechen ete., nella quale (zweiter Theil, zweite Abtheilung) vi è un volume speciale, di quasi un migliaio di pagine, trattante di Aristotele. Dello stesso Zeller è fonte anche preziosa il suo Grundriss der Geschichte der griechischen Philosophie, specialmente nella 10% edizione del 1911 (Leipzig) elaborata (bearbeitet) dal D.r Franz LortzINe. TrENDELENBURG, Elementa logices Arist., Berolini, 1836, 9* ediz. 1892: notissima e importante operetta. Barthelemy Sarnr-Hirarre, Logique d'Aristote, traduite, ecc. 4 vol. Alle Fonti già indicate, che son le più importanti, aggiungerò quella del nostro Garcuppi che ha due opere sulla Logica, l’una quella degli Elementi di Filosofia, in cui ha una lunga trattazione della Logica pura; l’altra, amplissima, quella delle Lezioni di Logica e metafisica; e, occasionalmente, forse anche qualche altra Fonte, per esempio quella di Ruggiero BoncHI. E ora vengo alla indicazione ed esposizione degli scritti logici aristotelici. Gli scritti logici o l'Organo (tò doyavor) della filosofia aristotelica. È opportuno riferire una osservazione che fa il Warrz (Arist. 0rg., II, 293 ss.), e che accoglie e riferisce anche il ZeLLeR (nel suo terzo volume precitato, pag. 187, nota 3), sulle denominazioni di Logica ed Organo. Questi cioè dice che “ presso gli “ espositori greci fino al sesto secolo , non si trova nè l’una nè l’altra di queste deno- minazioni come l’espressione tecnica e generalmente accettata degli scritti logici di Aristotele: ma che però più tardi questi vengono “ già denominati organici (6oy@- “ vizd), perchè essi si riferiscono all’doyavov (ovvero all’ooyavizòv uéo0o0s) piAo- “ COpias ,. 104 PASQUALE D'ERCOLE bi Cid posto, gli scritti logici costituenti l'Organo sono: 1° Le Categorie (Kamtzyogior): 2° De Interpretatione (I/egì “Eounveias) ;- 3° I Primi Analitici (due libri): ‘AveZvtizà m96te90:; 4° I Secondi (o Posteriori) Analitici: ‘Ava4vizà sote00; 5° I Topiei (8 libri): Toruzd; 6° Gli Elenchi Sofistici (De Sophisticis elenchis): Zoqpiotizoè “Eeyyor. Le Categorie. Questa prima parte degli scritti logici aristotelici è importantis- sima, perchè essa costituisce come un anello di congiunzione tra la Logica e la Me- tafisica di Aristotele. Il lor significato e la loro estensione appartengono e si allar- gano ad entrambe queste parti del pensiero filosofico aristotelico. Il significato è che essi esprimono i supremi pensabili, cioè, i supremi concetti sotto cui cadono e si aggruppano nel nostro pensiere gli oggetti della universale realtà. Il numero di tali supremi pensabili, ovvero delle categorie, secondo Arist., è, notoriamente, di dieci: infatti, egli dice (Xateg., cap. 4, all’inizio): TOv zatà unde- uiav ovurhozizv heyouévaov Ezactov fjTor oùciov cnuaiver 7) tocòv 7 smoròv Î 1796 t 7) où 7 motè 7) zeicdoer 7 Eyeuv 7 noreîv 7} ndoyew. La traduzione latina men- tovata di questo luogo suona : È Eorum quae sine coniunctione dicuntur, unumquodque “ aut substantiam significat aut quantum aut quale aut ad aliquid aut ubi aut quando # aut situm esse aut habere .aut agere aut pati .. Il predetto numero e la denominazione delle Categorie son anche riferiti in modo chiaro e preciso nei Topici (I, 9, al principio) come segue: éorr dè TedTA (scilie. tà yévn TtOVv zamnyogrov) tòv dorduòv déza, ti éoti, moGdv, moròv, To0s TL, ITOÙ, TOTÈ, zeicdar, Eyev, soreiv, adogewv (1). Per lo scopo che io mi propongo non posso entrare in tutte le particolarità, nelle quali entra la maravigliosa mente analizzatrice di ArisroreLe. Ma come rias- suntivo dell’essenziale a tal riguardo allegherò il seguente luogo del ZELreR (loc. cit., pag. 267). “ Fra le singole Categorie, dice questo, la più importante è di gran lunga la “ Sostanza, della quale in seguito dovrà parlarsi più diffusamente. La Sostanza, in “ senso stretto, è sostanza singola. Ciocchè si lascia dividere in parti è un Quanto — “ (ein Quantum); se queste parti son divise (getrennt), il Quantum è discreto, una “ Moltitudine (Menge): se esse sono insiem congiunte, il Quantum è una Grandezza; “ se sono in una determinata posizione (4015), la Grandezza è spaziale; se poi le « parti son soltanto in un ordine (t@É:5) senza posizione, allora la Grandezza non è (1) Vedi pei due luoghi greci Zerrer, 3° vol. citato, pag. 259; e nel testo greco stesso, vedi Arisr., Karzy., cap. 4° e Toziz@ al luogo indicato. Secondo il gusto e l’uso de’ versi memoriali, queste 10 Categorie furono espresse dal seguente distico: Arbor sex servos calore refrigerat ustos: Cras ruri stabo, sed tunicatus ero. 5 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 105 “ spaziale (ist eine unriiumliche). L’Indiviso (das Ungetheilte) o l'Unità, per mezzo “ di cui vien conosciuta (erkannt) la Grandezza, è la Misura della Grandezza stessa; “ ed è questa appunto la nota distintiva della Grandezza, che essa è misurabile, che “ ha una Misura. Come la Quantità spetta (zukommt) al Tutto sostanzialmente di- “ visibile, così la Qualità esprime le distinzioni mediante le quali vien diviso il'Tutto. “ Giacchè per Qualità in senso stretto Aristotele non intende altro che la nota distin- tiva, o la determinazione più vicina, in cui si specifica un dato Generale. E come le due specie principali delle Qualità egli designa quelle che esprimono una deter- minazione essenziale, e quelle altre che esprimono un movimento od attività. In altro luogo egli novera quattro determinazioni qualitative come le principali; ma queste però si lasciano sottordinare a quelle due, Siccome nota propria della Qua- lità vien considerato il contrapposto di Simile e Dissimile. Del resto, l’istesso Ari- stotele è imbarazzato nel conterminare questa Categoria verso altre. Al Relativo appartiene tutto ciò, la cui propria natura o essenza (Wesen) consiste in un deter- minato comportarsi verso altro; e come tale il Relativo è quella Categoria cui corrisponde la minima realtà. Aristotele distingue di esso tre specie, le quali però si lasciano ridurre a due. Ma in ciò egli non rimane eguale a sè stesso; ed ancor meno sa evitare più di una miscela (Vermischung) con altre Categorie, ovvero ot- tenere una nota sicura di quella costituente il Relativo. Le altre Categorie furono da Aristotele sì brevemente trattate nello Scritto delle Categorie, che anche noi non possiamo trattarne più diffusamente ,. E basti di ciocchè concerne le Categorie, e passo a dire del secondo scritto del- l'Organo, cioè del “ Ilegì &ounveias ,, o De Interpretatione. Rispetto al tempo in cui fu composto questo scritto, è bene di rilevare, che esso fu composto dopo gli Analitici, come lo stesso ArisrorELE dice chiaramente ed esplicitamente al cap. 10 di questi. L'oggetto di questo piccolo trattato dell’Ermeneia è la proposizione, e non nel senso di pura e semplice proposizione grammaticale, ma di proposizione logica od esprimente un pensiere logico. AristorELE, analizzatore per eccellenza, comincia coll’esaminare e stabilire gli elementi della proposizione stessa, i quali non sono altro che i nomi delle cose. E comincia a farlo con una osservazione importantissima intorno al nome (rò dvopo) e al verbo (rò é7ua), la quale è che i nomi prima della loro unione, sia tra loro sia col verbo, non esprimono nulla di vero e di falso. Ed anzi, secondo lui, quando si dice nome ($vou@) in senso lato, vi si comprende anche il verbo (é7u@). Ilegì yào (dic'egli al Capo I dell’Ermeneia) c6v3e00v zaì diaigeciv fori tò Weddos rai tò dAndés (nella corrispondente traduzione latina: “ nam in compositione et divisione est ve- “ ritas aut falsitas ,). Quando poi col collegamento e colla divisione delle parole, ossia dei nomi, co- mincia la verità e la falsità, allora il nome, come specificamente logico, è propria- mente Z6yos. Uno scrittore che ha rilevata bene la differenza di dvoua e di 46y0s è il Brese (Die Philosophie des Aristoteles, Berlin, 1835, I Bd., p. 55 e 90), dicendo che “ Z6yos designa la parola in quanto è espressiva del pensiere ,. In altri termini, A6yos è la parola logica per eccellenza. Serie II. Tox. LXII 14 106 PASQUALE D'ERCOLE 6 Altra cosa notevolissima è che, secondo Aristotele (ZZeoì ‘Eounvetas, c. 4), ogni discorso, 46yos, è significativo di alcun che (o7uavtizés);... ma non ogni discorso è enunciativo, giudicativo (&r0gartizés), si bene quello che ha che fare (6rr@0ye1) col vero e col falso. E soggiunge, ad esempio, che la preghiera (e0%7, deprecatio) è certamente un discorso, ma non è nè vera nè falsa. Son dunque la verità e la falsità che costituiscono la proposizione logica, o il giudizio, il quale senza di esse non sorgerebbe nè verrebbe ad esistenza. Che il giudizio sia da Aristotele così concepito, ha una importanza straordinaria rispetto alla quistione della Logica formale e della Logica reale od ontologica. Comunemente si dice che la Logica di Aristotele è formale. Ciò è vero in certi limiti e non in tutto e per tutto. Infatti, il dire che un giudizio è tale soltanto rispetto alla verità ed alla falsità, val tanto quanto dire che un giudizio è vero o falso se- condo che esso è conforme o non conforme alle cose, ossia alla realtà. Per forma che un giudizio non potrebbe neppure aver luogo, se, a così dire, non sorgesse ed anzi non fosse prodotto dalle stesse cose reali. Il TrENDELENBURG, autorevolissimo in tal materia, dice (1): “ Senza un tal rap- “ porto alle cose non v'è alcun giudizio ,. E, conformemente a ciò, lo stesso Tren- delenburg ne’ suoi Elem. logic. Arist., p. 63, aggiunge: Aristotelem, qui quidem enun- ciationis naturam in rerum verîtate positam esse voluit etc. Del resto, già in antico aveva pensato ed espresso lo stesso Borzio (nel cit. Arist. Stag. Organum, ete. pag. 6) dicendo: “ Sed denominationes istae (scilic. categoriae) ex rebus pendent ete. , Ciò posto, passiamo a dire del giudizio, 0, che vale lo stesso, della proposizione logica. E per l’esposizione di questo punto, ne’ limiti dello scopo che ci proponiamo, ci varremo degli stessi Analitici, i quali furon composti prima dell’Ermeneia, e nei quali Aristotele ne aveva appunto trattato. La Proposizione (Io6racis) (2). La definizione che ne dà Aristotele è la seguente: Io6taois uèv oòv gori Adyos zatapartizòs Î) daropatinòs tivÒòS rata tIVOG: cioè: “ La “ proposizione è un discorso affermante o negante alcunchè di alcunchè ,. E la fa- mosa traduzione latina ha: “ Propositio igitur est oratio affirmans vel negans aliquid “ de aliquo ,. Subito appresso, determinando l’estensione e la specifica natura della proposi- zione, o del predetto discorso, dice: oòrog dè 7) xaddAov 7) év uéger 7) dÒLdototos. Agya dè xa96Aov uèv tò mavtì 7) undevì èragyer, èv uéoer dè tÒò ivÌ 7) più) mavti brdoyewv,: dòborotov dè tÒò drrkogew 7 ui) badogerv dvev toùò xad64ov, 7) xatà né00s, oîov tò tOv évavtiov eivar tv aùtiv érot)UNv i) tò Tv Qdov)v ui) sivar dyaddv. Cioè, nella traduzione latina: “ Haec (scilic. oratio) autem aut est universalis, aut “in parte (particolare), aut indefinita. universale appello omni aut nullo inesse. in “ parte vero, alicui aut non alicui aut non omni inesse. indefinitum autem, inesse “aut non inesse absque universali aut particulari nota, veluti contrariorum eandem (4 esse scientiam, aut voluptatem non esse bonum ,. (1) In Erlauterungen zu den Elementen d. aristot. Logik, 2° Aufl. Berl., 1861, pag. 6. (2) In Warrz, Aristotelis Organon etc., vol. I, pag. 368, vi è una interessante nota sulla voce nodtacis e le corrispondenti in Cicerone, negli Stoici ecc. { LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 107 E qui ad ulteriore intelligenza della cosa, debbo ricordare al lettore, la famosa distinzione delle quattro forme di proposizioni che rappresentano una parte rilevante nella funzione del Sillogismo, cioò la universale affermativa, la universale negativa, la particolare affermativa e la particolare negativa designate nelle Logiche aristoteliche delle scuole colle note iniziali di «, e, î, 0, prendendo @ ed i da affirmo ed e ed o da nego (1). i Richiamo egualmente l’attenzione del lettore su di un’altra particolarità ricor- rente poco appresso nel luogo stesso e riattaccantesi a ciocchè è testè detto, che, cioè, il dire di una cosa che è interamente in un’altra val tanto quanto dire che essa è interamente attribuita ad un’altra (xatà martòs xatnyogeîodai); e, viceversa, che il dire che una cosa non è in alcun modo (xartà undev6s) in un’altra, valtanto quanto dire che essa non è in alcun modo attribuita all’altra. Tutti riconosceranno nelle due espressioni del x@zà mavtòs e del xatà undevòs xatnyoostoda. la famosa corrispondente espressione latina del Dictum de omni et de nullo (2). Avendo testè detto che nel trattare della Logica aristotelica mi sarei limitato ai punti fondamentali, v'è rispetto alle proposizioni un altro punto che è senza dubbio tale e che non posso a meno di riferire. Questo concerne le regole della conversione di esse, e ricorre (ibid.) al paragrafo secondo; e per migliore intelligenza ed apprez- zamento lo allego nella sua integrità. Però nell’allegarlo, sì perchè è comunemente nota la lingua francese, sì per la grande autorità che ha un traduttore delle opere aristoteliche, quale è il BarrHafLemy pe Saint-HrLatrE, mi valgo della tradu- zione di lui. “ Comme toute proposition (così quest’ultimo) exprime que la chose est sim- “ plement, ou qu'elle est nécessairement, ou qu'elle peut étre; et que dans toute “ espèce d’attribution, les propositions sont affirmatives ou négatives; comme, de “ plus, les propositions affirmatives et négatives sont tantòt universelles, tantot par- “ ticulières, tantòt indéterminées, il y a nécessité que la proposition simple univer- “ selle privative puisse se convertir en ses propres termes; par exemple, si aucun “ plaisir n’est un bien, il faut nécessairement aussi qu'aucun bien ne soit un plaisir. “ La proposition affirmative doit aussi se convertir, non pas en universelle, mais “en particulière ; si, par exemple, tout plaisir est un bien, il faut aussi que quelque “ bien soit un plaisir. Parmi les propositions particulières, l’affirmative se convertit “ nécessairement en particulière; car si quelque plaisir est un bien, il faut aussi “ que quelque bien soit un plaisir. Mais il n'y a pas de conversion nécessaire pour “ la proposition privative: en effet, si homme n'est pas attribuable è quelque animal, “ il ne s’ensuit pas que animal ne soit pas attribuable è quelque homme. “ La règle (così ibidem, al paragrafo terzo) sera Ja mèéme encore pour les pro- (1) Notoriamente in queste Logiche delle Scuole, si esprimeva ciò, dicendo: Asserit a, negat e, verum universaliter ambo: Asserit i, negat 0, verum particulariter ambo. (2) Il significato di questo Dictum de omni et de nullo è che quidquid valet de omni valet etiam de quibusdam et singulis; quidquid de nullo valet, nec de quibusdam nec de singulis valet. 108 PASQUALE D'ERCOLE 8 » positions nécessaires, c’est-à-dire que l’universelle privative se convertit en uni- verselle, et que chacune des deux affirmatives se convertit en particulière... Quant à la proposition particulièbre privative elle ne peut ici non plus se convertir, par “ la méme raison que nous avons dite plus haut. “ Pour les propositions contingentes, comme contingent se prend dans bien des sens, puisque nous disons que le non-nécessaire et le possible sont contingents, “ la conversion de toutes les propositions affirmatives se fera ici de la méme ma- «“ nière... La règle change pour la conversion des négatives; mais elle est encore la n [ai » méme pour les propositions où les choses sont dites contingentes, soit parce que “ nécessairement elles ne sont pas, soit parce qu’elles ne sont pas nécessairement. “ Par exemple, si l’on dit que l'homme peut ne pas étre cheval, et que la blancheur “ peut n’étre à aucun vétement, de ces deux choses l’une nécessairement n’est pas, “ l’autre n’est pas nécessairement. Ici donc la convertion a lieù de la méme ma- “ nière. En effet, si étre cheval peut n’appartenir à aucun homme, étre homme peut “n’appartenir aussi à aucun cheval; et si blancheur peut n’ètre è aucun vétement, “ vétement aussi peut n’ètre à aucune blancheur. Autrement, s'îl n°y a nécessité que “ vetement soit è quelque blancheur, blancheur aussi sera nécessairement è quelque “ vétement. C'est ce qu'on a démontré plus haut. Au contraire, pour les choses que l’on dit contingentes, parce qu’elles sont le plus habituellement et naturellement “ de telle facon, ce qui est la définition que nous donnons de contingent, il n°en sera plus de mème pour les conversions négatives. Ainsi la proposition universelle privative ne se convertit pas, et la proposition particulière se convertit. Ceci de- “ viendra évident quand nous traiterons du contingent. Bornons-nous ici è constater, après tout ce qui précède, que pouvoir n’étre è aucune chose ou pouvoir n'ètre “ pas è quelque chose, ont la force d’affirmation. C'est que le verbe pouvoir est placé dans la proposition comme le verbe étre; et que le verbe étre, àè quelques attributions qu’on l’ajoute, forme toujours et absolument une affirmation : par exemple, ceci est non bon, ceci est non blane; ou, d’une manière toute générale, ceci est non cela. Du reste cette théorie sera reprise et confirmée plus loin. Mais, quant aux conversions, ces propositions contingentes seront comme les autres pro- positions ,. E ciò basti per lo scopo propostomi, delle proposizioni, e passo a dire dell’ele- mento del termine. (S » ES Il Termine (590s). Questo è definito da Aristotele (ibidem), così: °O0g0v dè xa4@ sis dv diadvetar i r96va015, oiov TÒ te xatnyogovuevov zai tò rad’oò xatnyogettar 7) agoondeuévov 7) diargovuevov toù eivar raè ui) sîvar. Ossia: Io chiamo termine quello in cui la proposizione si scioglie, cioè l’attributo, e quello a cui si attribuisce, sia che si aggiunga sia che si separi l’essere o il non essere (nella traduzione latina : “ Terminum vero appello in quem dissolvitur propositio, ut attributum et id cui at- “ tribuitur, sive adiiciatur sive separetur verbum esse vel non esse ,). L’attributo e quello a cui si attribuisce sono ciocchè comunemente chiamiamo il predicato ed il soggetto. i Ciocchè è qui allegato intorno al termine concerne il concetto e la definizione del medesimo. Ma vi sono altre particolarità essenziali che si riferiscono ad esso. 9 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 109 Se non che, come queste si riferiscono più direttamente al Sillogismo, e si inten- dono meglio dopo aver detto di questo, così io passo a dir prima di questo. IL Sillogismo (cvAAoyiouds). — Prima di venire ad Aristotele stesso, è bene ricordare un importante luogo di Boezio, il qual luogo è tanto più importante, in quanto si riferisce alla natura non solo del Sillogismo, ma anche degli Analitici, che sono la teoria del Sillogismo stesso. “ Duo sunt, dice Borzro (1), in syllogismo, tamquam in homine corpus et animus. “ Im corpore est materia et dispositio ac ordo partium: in animo vis et vita et “ actio. In superioribus Analyticis (Primi Analitici) Aristoteles velut de syllogismi “ praecipit corpore, hoc est, de partibus, deque illarum nexu et compositione : ideoque “ priora nominantur. In his autem posterioribus, hoc est, interioribus, et magis re- “ conditis de anima ipsa syllogismi, nempe de demonstratione, de vi et efficacia “ rationis. Analytici libri sub Aristotelis nomine multi olim circumferebantur, sed hi “ quatuor ex orationis filo, totiusque praecipiendi rationis modo ac facie, Aristoteli “ sunt adiudicati, caeteris reiectis ,. Veniamo ora ad ARISTOTELE stesso, e primamente alla stupenda definizione che egli dà del Sillogismo, la quale è e rimarrà sempre una delle più belle, più precise e più espressive della vera natura del medesimo. ZvAloyiouòs dé fot Adyos (2) év © tedévtOv tVOV EtEOdv tl TOV zeruevov 8E dvdyans cvupaiver tO tadta eîvar. Cioè (in italiano): Il Sillogismo è un discorso, nel quale, posto alcun che, segue necessariamente qualcosa d’altro da quel che è posto, per ciò solo che è posto. E la corrispondente traduzione latina ha: “ Syllo- “ gismus autem est oratio, in qua quibusdam positis aliud quiddam diversum ab iis “ quae posita sunt, necessario accidit eo quod haec sunt ,. A spiegar meglio il modo e la necessità della consecuzione, ArisroTELE (nella predetta traduzione) soggiunge subito in continuazione: “ Dico autem eo quod haec “ sunt, propter haec evenire, ac propter haec evenire intelligo, nullo externo ter- “ mino opus esse ut sit necessaria consecutio ,. Il caso della consecuzione necessaria senza bisogno di altro termine esteriore è poi quello che costituisce il Sillogismo perfetto (ré4eros 0vA40yiouds), come AristoTELE lo appella. Che il Sillogismo imperfetto (@78%7j5) si possa poi ridurre al perfetto coi mezzi da ArIsrorELE indicati, è cosa a tutti nota, che occorre appena di rilevare. Invece è bene di rilevare intorno al concetto aristotelico del Sillogismo alcune cose degnissime di attenzione. La prima è che il rapporto delle proposizioni o de’ giudizii sillogistici ed il procedimento de’ medesimi son tali che costituiscono una necessaria connessità. Il che importa che il Sillogismo non è un fatto accidentale, ma è tale che ha una necessaria ragion di essere. La seconda è che la conclusione non è una ripetizione e riproduzione delle due premesse, ma esprime altro da quel che è espresso da esse: insomma, esprime un principio nuovo. Questa seconda cosa è tanto più importante, in quanto in tempi posteriori ad ARIsroTELE è stata messa (1) In Arisr. Srae., Organum, già mentovato, pag. 7. (2) Dic'egli subito all’inizio dei Primi mnalitici. 110 PASQUALE D ERCOLE 10 innanzi la opinione (1) che nella conclusione non si contenga un novello principio, ma soltanto la ripetizione del contenuto delle premesse. Una terza cosa è che la parola conclusione è a prendere ed intendere nel vero significato di inclusione di uno de’ termini negli altri due: per forma che la conclusione esprime addirittura il vero chiudersi de’ termini l’un nell'altro. E giacchè si è accennato al concetto del Sillogismo, è bene di accennare anche al concetto del Sofisma, il cui concetto è proprio l'opposto di quello del Sillogismo. Infatti, il concetto di quest'ultimo. come si è visto, è costituito da ciò, che le due premesse conducono ad una necessaria conclusione. Il concetto del Sofisma (rò c6- qioua) (2), al contrario, è costituito da ciò, che la conclusione è in contraddizione colle premesse, che. cioè, queste non concludono rettamente, e però concludono fal- samente. Ma del Sofisma si dirà più ampiamente in seguito. Ora è opportuno di ritornare alla esposizione dei Termini, ad integrazione di ciocchè di questi è stato testè detto. I Termini di un Sillogismo son tre, e non pos- sono essere più di tre (600: toeîc). I quali tre hanno un contenuto od estensione diversa; e sono il termine maggiore (usifov &x90r), il minore (#Zettor) e il medio (tò uéG0v). Aristotele li designa anche puramente e semplicemente coi nomi di primo (tò =0@©ror), ultimo (tò #0zetor) e medio (tò uéG0r). Il numero di soli tre termini non vien contradetto neppure dal caso del Poli- sillogismo, nel quale vi possono essere più medii. Perchè i più medii son ciascuno sempre il medio di un solo Sillogismo nei varii Sillogismi costituenti il Polisillo- gismo stesso, cominciando dal cosidetto Prosillogismo e terminando coll’Episillogismo. Indicata la denominazione e l’estensione de’ Termini, la maravigliosa e precisa mente aristotelica passa alla definizione di essi, che è la seguente: = Agyo dè usitov uèv Gxoov Èv © tò uécov Ectiv, Ehlattov dè tÒ drrò tÒò uEGov ov... Kahò dè uécov uèv è zaì aòtò év Elio zei dillo év tovtw Ectiv, è zai ti] Séoer yiyverar uécov. dr005 dè tò aùtò te èv Giio dv zaì ér © dillo Ectiv (3). Cioè (in italiano): Chiamo (termine) maggiore quello in cui è (contenuto) il medio; x e (termine) minore quello che è accolto nel medio. .....Chiamo termine medio quello il quale è esso stesso in un altro, e nel quale è alla sua volia un altro, che divien medio anche per posizione. Chiamo poi estremi sì quello che è in altro, sì quello in cui è altro. E la nota traduzione latina ha: # Maius extremum appello, in quo medium “ est, minus autem quod est sub medio... Voco autem medium quod et ipsum est “ in alio, cum aliud in ipso sit, et positione quoque sit medium. Extrema autem “ appello et id quod est in alio, et id in quo est aliud .. L’esser medio per posizione vuole uno schiarimento, che fa comprendere come questa espressione aristotelica nella dizione greca è perfettamente esatta. Infatti, nella prima Figura sillogistica (che è quella del Sillogismo perfetto) noi diciamo: B (l’uomo) è A (mortale); C (Pietro) è B: dunque C è A. ARISTOTELE, invece, nella dizione greca dice: A vale di B:; B vale di C; dunque A vale di C. (1) Opinione già espressa dagli antichi scettici, e poi ripetuta ne’ tempi moderni. (2) Arrsr., Top., 8, 11. (3) Ibid., paragr. 4. 11 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 111 Siechè dunque il medio rimane addirittura nel mezzo per posizione. Ma questa posizione mediana non è quello che costituisce veramente la vera natura del medio: tal vera natura è che esso è medio per contenenza, ossia come contenente in sè i due estremi. Ed è solo quando il medio esprime tal contenenza, che si effettua il vero Sillogismo. Va, inoltre, rilevato che i tre predetti termini nel Sillogismo ricorrono prima- mente già tutti nei due giudizii, che costituiscono le due premesse (dup@ rà dia- otmueta), dai quali due se ne deduce poi necessariamente un terzo che costituisce la conclusione. Però, quanto a numero di proposizioni nel Sillogismo, Aristotele ne fa cadere tutto il peso sulle premesse, e persino in guisa che egli dice che nel Sillogismo non vi sono che due proposizioni. E dopo aver detto constare ogni dimostrazione ed ogni Sillogismo di soli tre termini (nella traduzione latina: “ Cum autem hoc perspicuum “ sit, planum est etiam syllogismum constare ex duabus propositionibus non pluribus ,: proposizioni che qui sono indubbiamente le premissae), soggiunge: “ Nam tres ter- «“ mini sunt duae propositiones (où yo tosîs door dio roordosis), nisi quid adsu- “ matur, ut initio dictum est, ad perficiendos syllogismos..... itaque si secundum prin- “ cipales propositiones (xatà AS vgias rrgordoes) syllogismi accipiantur, omnis syllogismus ex propositionibus paribus, terminis vero imparibus constabit. uno enim € plures sunt termini quam propositiones. conclusiones (cvuregdoueta) autem erunt “ dimidia pars propositionum ,. “ Delle regole finora esposte intorno alla teoria del Sillogismo la Logica aristo- telica delle Scuole ne ha, notoriamente, composte ed espresse le principali nelle seguenti otto (ricorrenti in tutte le Logiche delle Scuole): Terminus esto triplex, medius, maiorque, minorque; Latius hos quam praemissae conclusio non vult; Nequaquam medium capiat conclusio oportet; Aut semel, aut iterum medius generaliter esto; Utraque si praemissa neget, nihil inde sequetur; Ambae affirmantes nequeunt generare negantem; Nil sequitur geminis ex particularibus unquam; Peiorem sequitur semper conclusio partem. Ad integrazione di queste regole si allegano nelle Logiche delle Scuole, anche le così dette diverse forme di Sillogismo, come sono l’Entimema, V’Epicherema, il Di- lemma, il Trilemma, il Tetralemma, il Sorite, ecc. Valendomi del citato nostro GaLLuppi (Elementi di Filosofia, Milano, 1846, pag. 95 seg.), ne allego qualche esempio. Dell’Entimema egli ricorda il celebre luogo ovidiano: “ Servare potui: perdere “ an possim, rogas , ? E lo spiega riducendolo alla forma sillogistica di tre propo- sizioni, ecc. Ricorda l’esempio ancor più celebre di ArisroTELE stesso, cioè: “ O mortale, non “ conservare un odio immortale ,. Del quale Entimema le corrispondenti parole greche (dal Galluppi non riportate) sono: “ °4A9dvarov doyiv ui qpuiorte dvntòs dv ,. | Ma di tutte le predette Forme di Sillogismo e di altre pur ricordate dal Gal- luppi mi astengo di allegarne ulteriori esemplificazioni ed illustrazioni: perchè il 112 PASQUALE D'ERCOLE 12 lettore ne trova in tutte le Logiche che vanno per le Scuole; e passo a dire delle Figure sillogistiche pur ricorrenti negli Analitici, e intimamente connesse col Sil- logismo. Le Figure (tà oguara) sillogistiche. Secondo ArisroreLE il Sillogismo è di tal natura che si distingue in tre Figure sillogistiche, delle quali la prima (cx7u@ 20©tov) poggia sul Sillogismo perfetto, la seconda e la terza (czî7jua devtegov e oyijua togitov) poggiano sul Sillogismoe im- perfetto. E qui è necessario di rilevare una cosa, che a primo aspetto pare di poco mo- mento, ma che è invece importantissima. Ed è che ArIsrorELE nella esposizione e dimostrazione delle predette tre Figure si serve come simboli delle lettere dell’Al- fabeto greco, specialmente delle prime tre del medesimo a, #, y. Il significato dell’adoperamento di tali simboli, specialmente per l'applicazione di queste alle Matematiche, sarà detto tra poco. Tornando alle Figure, è bene avvertire che Aristotele per esse si vale in com- plesso degli stessi esempi allegati per triplicità di termini, dovendo ciascun di questi rappresentare uno de’ tre termini sillogistici. Così, per darne una idea, nella prima Figura (ove adopera i simboli alfabetici @, 8,7) si vale de’ termini piacere - bene - animale; animale - uomo - cavallo; scienza - linea - medicina; bene - abito - sapienza ; bene - abito - ignoranza; bianco - cigno - neve. Nella seconda Figura (ove adopera i simboli alfabetici dò, e, £, ecc.) si vale di questi esempi, animale - cavallo - uomo; animale - inanimato - uomo; animale - scienza - animale selvaggio; corvo - neve - bianco. Nella terza Figura (ove adopera i simboli alfabetici , 0, 0) si vale di bel nuovo degli stessi esempi, che ricorrono nella prima e nella seconda. E, per essere quanto è possibile esatti, soggiungo che nelle stesse due #?- gure seconda e terza, oltre agli indicati simboli alfabetici, si vale anche dei primi tre a, 8, y. 6 : La conclusione cui giunge Aristotele nelle indicate operazioni è che “ tutti i “ sillogismi imperfetti diventan perfetti mediante la prima Figura (nel famoso testo “ latino: perspicuum est omnes imperfectos syllogismos perfici per primam figuram) ,. La maravigliosa analisi di Aristotele intorno al Sillogismo non si arresta a ciò, ma si estende alla considerazione e determinazione di altre forme del medesimo, quali sono il Sillogismo per Analogia, il Sillogismo per Riduzione all’impossibile, quello per Induzione, per Ipotesi, per Verisimiglianza, ecc. Ma noi non possiamo entrare anche nella considerazione di queste forme speciali sillogistiche, e passiamo a consi- derare la seconda delle tre predette cose. Questa seconda è quella concernente la diretta relazione delle Scienze matema- tiche colla prima Figura, o, che vale lo stesso, col Sillogismo perfetto: il qual punto è da Aristotele trattato nel Primo degli Analitici Posteriori. Prima di riferire da questi ciocchè concerne le Matematiche, rilevo che Aristo- tele anche per queste, come ha fatto per le altre discipline, si vale di esempi per chiarire e determinare la cosa. Se non che gli esempi che egli arreca per esse sono 13 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 113 sopratutto di natura matematica. Infatti (nel paragrafo 5 ibid.) allega i seguenti esempi tratti dal punto, dalla linea, dal triangolo, ecc.: “ Triangulo, dic’egli nella “ famosa traduzione latina, inest linea et lineae punctum; ed anche: Triangulo, “ qua est triangulum, insunt duo recti, quia per se triangulum est aequale duobus “ rectis, etc. ,. Ed è, inoltre, oltremodo importante per la determinazione della natura delle Scienze matematiche, che per lui (ibid., paragr. 13) “le Scienze matematiche versano “intorno alle forme, perchè le cose matematiche non sono in alcun soggetto , (“ etenim “ scientiae mathematicae circa formas versantur, quia res mathematicae non sunt in “ ullo subiecto ,) (1). Ciò posto, venendo alla considerazione della diretta relazione delle Scienze mate- matiche col Sillogismo e colle Figure sillogistiche, dice (ibid., paragr. 14): “ Delle “ Figure /4 prima è attissima a produrre la scienza; imperocchè le Scienze matematiche “ effettuano le dimostrazioni mediante tal Figura, come l’aritmetica, la geometria e “ l’ottica , (nel testo latino: “ Ex figuris autem prima est ad scientiam gignendam “ aptissima; nam mathematicae scientiae per hanc figuram demonstrationes afferunt “ ut arithmetica et geometria et optice ,). Passo alla terza ed ultima delle tre cose predette, a quella, cioè, concernente la formazione della conoscenza. La qual formazione è dal grande filosofo (al paragr. 19, ultimo. degli Analitici Posteriori) espressa come segue: “ Dal senso si genera la “ memoria..... Ma dalla memoria, formatasi dalla ripetuta riproduzione della stessa “ cosa, si genera l’esperienza; giacchè molte memorie costituiscono una sola esperienza. “ Se non che, dalla esperienza..... si genera il principio dell’arte e della scienza; “ dell’arte, se spetta alle cose della generazione (2); della scienza, se spetta a ciocchè “è ,; (nella traduzione latina: “ ex sensu igitur fit memoria..... ex memoria vero “ saepe eiusdem rei facta fit experientia; multae enim memoriae numero sunt una “ experientia; at vero experientia..... fit principium artis et scientiae, artis, si per- “ tineat ad generationem, scientiae, si pertineat ad id quod est ,) (3). La considerazione dell’arte è ciocchè con stupenda designazione poco appresso è denominato dé$e, mentre la considerazione della scienza è appellata Aoyuouòs (4). Ed ora è tempo che veniamo a determinare quale è in Aristotele il significato dell’adoperamento dei simboli alfabetici come espressione del Sillogismo e delle Figure sillogistiche. Ebbene, tal significato, brevemente indicato nella sua genericità, è che le proposizioni del Sillogismo (le premesse e la illazione) in tutte le Figure sillogi- stiche di questo vengono intese e adoperate in Forma universale, ossia in forma estensibile ed applicabile a tutti gli elementi della Realtà. Ora, questi elementi sono tre, il quantitativo, il qualitativo, e l’unità di entrambi, ossia il modale (il modo, la misura). Che questo triplice elemento sia costitutivo (1) E subbietto val qui obbietto, cioè, singola e determinata cosa della realtà. (2) La generazione concerne il sorgere e perire delle cose. (3) È Id quod est ,, nel corrispondente greco rò dv, è ciocchè nell’Hegelianismo, e propriamente nella Logica hegeliana, è stato designato come das Sein an und fi sich. (4) Anche questa denominazione di 40y.0u6s è degna della più grande considerazione, perchè Aristotele ha già con essa additato e determinato l’elemento logico come elemento scientifico per eccellenza, lasciando all’arte il carattere di elemento soltanto opinativo. Serie II. Tox. LXII. 15 114 PASQUALE D'ERCOLE 14: della Realtà, emerge indirettamente dalla stessa tavola aristotelica de’ giudizii, cioè de’ giudizii quantitativi, qualitativi e modali, come più chiaramente si sono appellati nelle posteriori Logiche aristoteliche delle Scuole. Qui basti l'avere accennato di ciò; le importanti applicazioni che ne derivano rispetto alla Scienza matematica e alla voluta corrispondente Logica matematica le faremo, quando giungeremo alla esposizione e giudicazione di quest’ultima; e ritor- niamo per ora all'argomento delle Figure sillogistiche, per prendere in considerazione, da una parte, i Modi, dall’altra, il Numero di esse. Quanto ai Modi, è di bel nuovo il caso di dire che essi sono comunemente al- legati e discussi in tutte le Logiche aristoteliche delle Scuole. Fra i tanti uomini autorevoli che potrei citare a tal riguardo, rimando il lettore alla citata Logica e Storia della dottrina logica di Friedrich UzBERWEG, che ne tratta ampiamente a pp. 296-344. Ma, per un breve ricordo di questo punto della Si/logistica, mi varrò invece del nostro insigne Galluppi. il quale, nelle Lezioni di Logica e Metafisica, Milano, Vol. I pp. 358-385. espone tal dottrina con la solita sua lucidezza e preci- sione. Della sua esposizione e discussione di questa materia, io riferirò brevemente l'essenziale. “ N Modo del sillogismo (dice egli, p. 36) consiste nella disposizione delle tre “ proposizioni secondo le loro quatiro differenze A. E, 1,0... Ora. = secondo la dotirina delle combinazioni. quatiro termini quali sono A, E, “ I, O. venendo presi tre a tre. non possono diversamente disporsi in più di 64 ma- © niere; ma di queste 64 maniere, 54 sono escluse dalle regole generali sillogistiche , che sono state innanzi allegate: “ restano perciò soli dieci Modi concludenti .. Ma ciò non vuol dire “ che solo dieci sieno le specie de’ Sillogismi, perchè un “ solo di questi Modi può formare diverse specie ,, secondo la varia disposizione de’ tre iermini innanzi detta. E qui il nostro Galluppi dispone addirittura i tre termini secondo le possibili combinazioni, e ne risulta una favola di 64 Modi, emergenti dalle quattro Figure sillogistiche, delle quali egli indica anche brevemente le diverse regole. A questo breve cenno aggiungo però volentieri due cose: l'una, alcuni versi memoriali dei Modi delle quattro Figure: l'alira, un esempio di Sillogismi secondo i predetti Modi. i I versi memoriali, fra i tanti, li allega Federico UeBERWEG, loc. cit., p. 343 seg., come segue: Barbara, Celarent primaz. Darii Ferioque. Cesare, Camesires, Festino. Baroco secundae. Tertia grande sonans recitat Darapi, Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Quartae Sunt Bamalip, Calemes. Dimatis, Fesapo, Fresison. Dinanzi a queste parole stranissime e non additanti per sè stesse alcun senso, il buon Galluppi fa la seguente sensata osservazione: “ Queste formole (dic'egli, 5 ibid.. p. 368), di cui la prima cominciava infelicemente con barbara, sembreranno in = effetto oggi molto barbare. Esse hanno ricevuto più ingiurie in un secolo, che onore “ in mille anni; esse hanno terminato col cadere in un intiero obblio; ..... coloro che 15 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELTANA, ECC. 115 “ oggi le volgono in ridicolo non si hanno sempre dato la pena di meditarle... Il filo- “ sofo che riflette con attenzione sulle regole dell'antica Logica è sorpreso nel vedere sino dove gli autori avevano portato l’analisi del ragionamento. Colla più severa imparzialità alcuno non può impedirsi di convenire che ciascuna di queste regole era di una rigorosa esattezza, e che il loro insieme era sì completo che una sola delle forme possibili del ragionamento non era loro sfuggita. Aristotele, senza dubbio non aveva sovente il soccorso dell'esperienza: era questa la disgrazia del secolo, nel quale egli nacque; ma egli è stato forse il pensatore più profondo, il genio più “ eminentemente didattico che sì sia mostrato sull’orizzonte della filosofia. Io dubito “ che siensi innalzate dopo teoriche sì belle come quelle di cui egli ci ha lasciato il “ modello ,. ; Quanto alla profondità e genialità di Aristotele, il Galluppi ha perfettamente ragione, e queste due doti spiccano di tale luce e verità proprio nella sillogistica « “ aristotelica e ne’ Modi della medesima, che i posteri non hanno avuto ad aggiungervi nulla, o nulla d’ importante. Solo che, contrariamente al Galluppi, che accoglie il pensiere, da non pochi seguito, delle quattro Figure, il grande Stagirita non ne ammette che tre con tre soli corrispondenti Modi (1). Ma del Numero delle Figure e de’ Modi fra poco. Un esempio, intanto, del ragionare e concludere secondo le quattro Figure, è pel Galluppi il seguente: (1) La favola aristotelica dei Modi, quale ricorre in Warrz, Arist. Organon, vol. I, pag. 385 {rilevando le espressioni tecniche di xazà zarròs, atà undevòs ece., sia colle corrispondenti De omni et de nullo ecc., sia colle note quattro iniziali A, E, I, 0), è la seguente: I u'. tò A xarà mavtòs toò B, 8. tò A uarà undevòs toù B, tò B xatà mavtòs toòù I, tò B xatà rmavtòs toòù IT, tò A xatà mavtòs toù I. tò A nortà undevòs toò I. II. o’ ò A xarà undevòs toù B, 8. tò A natà mavtòs toò B, tò A zarà mavtòs toù I, rò A narà undevòs toò I, tò B zatà undevòs toò IT. tò B xarà undevòs toù I. y'. tò A zatà undevòs toù B, 6’. tò A norà mavtòs toù B, tò A xarà tuvòs tod I, tò A sarà tivòs toù I' 0%, tò B zarà tivòs toùò T' od. tò B xoartà tivòs toù T' 0%. HI. @'’. rò A zatà mavtòs tod I, B'. tò A narà undevòs toù I, tò B zarà mavtòs toù I, tò B xatà mavtòs toòù I, tò A zatà twvòs toù B, tò A xarà tivòs tod B où. y. tò A zorà uvòs toù TI, d'. tò A xatà mavtòs toò I, tò B zatà mavtòs toò I, tò B zatà twvòs où T, tò A zatà tvòs toù B. tò A xarà twòs tod B. e. tò A zarà tvòs toù I' 0, E. tò A varà undevòs toò T, rtò B zatà mavtòs toù I, tò B sarà vvòs tod I, tò A sarà tvòs toù B 0% tò A narà tvòs rov B od. 116 PASQUALE D'ERCOLE 16 I Fieura (avente il medio come sogg. del magg. e predice. del minore) Ogni sostanza pensante è semplice, L'anima umana è sostanza pensante, L'anima umana è dunque semplice. II Fieura (avente il medio come predicato de’ due estremi) Niun corpo è una sostanza pensante, L'anima umana è una sostanza pensante. L'anima umana dunque non è corpo. II Fieuzs (avente il medio come soggetto de’ due estremi) Ogni sosianza pensanie è semplice. Ogni sostanza pensante è indistruttibile. Danque qualche sostanza indistruttibile è semplice. IV Fiera (avente il medio come predic. del maggiore e sogg. del minore) Qualche essere semplice è sostanza pensante, Ogni sostanza pensante è attiva, . Dungue alcune sostanze attive sono esseri semplici. Ml numero delle Figure e de Modi. — Illettore ha visto a pie’ di pagina le tre Figure e i tre corrispondenti Modi aristotelici allegati dal Waiîz. Del Waitz riferisco volentieri una osservazione concernente la seconda e la terza Figura. nelle quali ei dice (loc. cit.): * ultimum modum secundae et quintum iertiae Figurae non demonstrari nisi “ deductione facta ad absurdum DI 7 Galluppi, come si è visto, ha opinato doversi ammetter come valida anche la quarta figura e i corrispondenti Modi. Ma, francamente detto, il Sillogismo, ch'egli ne arreca ad esempio, da una parie, cammina steniatamente, dall’altra, è di difficile comprensione. In generale. potrebbe dirsi che la mente umana nel suo naturale proce- dimento logico non ragiona in quel modo. E un ragionamento logico che contraria la natura nè può considerarsi come il migliore, nè deve ammettersi come buon proce- dimento logico. i AÀ conferma di iale osservazione rilevo che in generale i grandi filosofi si son tenuti alla aristotelica triplità di Figure e di Modi. Notoriamente, è stato il famoso medico Claudio G4reno di Pergamo (1) quello che ha così “ legato il suo nome alla Dottrina del Sillogismo (2), che apparisce in “ quasi tutti i compendii della Logica, anche ne’ più triviali. Garexo, cioè, secondo l’espressione comune, ha accresciuto il numero delle tre Figure aristoteliche del Sillo- “ gismo categorico coll'aggiunzione di una quarta, nella quale il concetto (o termine) “ medio è predicato della maggiore e soggetto della minore .. Soggiunge che “la “ notizia di tale innovazione . 5 non si trova in tutta la Letteratura greco-romana ., 1) Zerrze, Grundriss d. Gesch. d. Griechischen Philosophie. nella citata 10* ediz. del 1911 del Lozrzwe, pag. 298. come anni di nascita e di morte 131-201 d. C. (2) Così Prastr, Gesch. der Logik, ete., I Bd.. pag.570 s. 17 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA RANTIANA ED HEGELIANA, ECC. IUib7: e che proviene da fonte arabica, e propriamente da Averroe. Il quale Averroe, per giunta, ne fa menzione proprio nella confutazione che fa della quarta Figura. Alcune altre particolarità importanti tanto rispetto ai Modi, quanto rispetto alle Figure sono le seguenti. Quanto ai Modi, Aristotele, per ognuna delle tre Figure da lui ammesse e cor- rispondentemente alle possibili combinazioni delle loro proposizioni secondo le indi- cate lettere A EI O, ha trovato che i Modi valevoli, perchè non contrarii alle otto regole sillogistiche, sono 4 per la prima Figura, 4 per la seconda e 6 per la terza, in tutto dunque quattordici. Galluppi, che (con Galeno) ha ammesso la quarta Figura, ha anch’egli esaminato le combinazioni e Modi che son possibili e valevoli in questa; ed ha trovato che, accanto ai molti Modi contrarii alle otto regole sillogistiche, ve ne sono però 5 validi; sicchè il nostro filosofo napoletano, invece di 14, ammette 19 Modi validi. Quanto poi alle Figure, va considerato un ultimo punto importante, cioè, quello della riduzione della 2* e 3* Figura, che dànno sillogismi imperfetti, alla 1* che sola li dà perfetti. Ora, tal riduzione, secondo Aristotele, avviene per mezzo di conversione: ‘Asì yào yiyrvetar did tijs Avtiotgogpijs cvAZoyiouds, dic'egli, Anal. Pr., I, cap. 7. Inoltre, la conversione può avvenire in due modi, cioè, o ostensivamente, ovvero per riduzione all’assurdo (7) derxmiz®s 7) toò ddvvator). E da ultimo, secondo lui, “ tutti i sillogismi, quando sono rettamente convertiti, “ si riducono a sillogismi universali della prima figura , (gavegòv oùv du mavtES dvaydioovrar eis toùs év TO T00T0 cxiuar zadbiov cvAl0yiouovS). Di quest’ultimo punto, a maggior intelligenza e a complemento della cosa, allego la solita traduzione latina non soltanto de’ passi corrispondenti a quelli da me alle- gati in greco, ma anche della rimanente parte, che è dimostrativa e illustrativa dei medesimi. La traduzione suona così: “ Semper enim fit syllogismus per conversionem, “ praeterea manifestum est pronuntiatum indefinitum pro attributivo particulari “ acceptum efficere eundem syllogismum in omnibus figuris. item perspicuum est omnes imperfectos syllogismos perfici per primam figuram. aut enim demonstratione aut per impossibile perficiuntur omnes: utroque autem modo fit prima figura. ac demonstratione quidem si perficiantur, fit prima figura, quia sic omnes perficie- bantur per conversionem: conversio autem efficiebat primam figuram. si vero per impossibile confirmentur, adhuc fit prima figura, quia posito quod falsum est, syl- logismus conficitur in prima figura. ut in postrema figura si tò @ ac vò 6 omni y, probatur rò @ inesse alicui f. nam si ò @ insit nulli f ac tò f omni y, tò @ inerit nulli y. sed antea positum erat omni inesse. similiter fit etiam in aliis. licet « “ etiam reducere omnes syllogismos ad syllogismos universales primae figurae. nam qui fiunt in secunda figura, sine dubio per illos perficiuntur, non tamen omnes eodem modo, sed universales converso pronuntiato privativo. particularium autem utergue per deductionem ad impossibile. particulares autem primae figurae perfi- ciuntur quidem per se ipsos, sed licet etiam secunda figura eos confirmare ducendo ad impossibile. ut si rò @ inest omni 8 ac tò f alicui y, tò @ inerit alicui y: nam si nulli insit, omni autem £ insit, certe nulli y tò f inerit: hoc enim scimus per secundam figuram. similiter enim in privativo syllogismo erit demonstratio. nam 118 PASQUALE D'ERCOLE 18 “ si 7ò @ nulli f ac tò f# alicui y inest, tò « alicui y non inerit. etenim si omni R insit ac nulli 8 insit, 7ò f nulli y inerit: hoc enim erat media figura. itaque cum “ omnes syllogismi mediae figurae reducantur ad syllogismos universales primae figurae, particulares autem primae ad syllogismos secundae, perspicuum est etiam “ syllogismos particulares primae figurae reduci ad syllogismos universales primae “ figurae. qui vero fiunt in tertia figura, terminis quidem universaliter acceptis statim « per eos syllogismos perficiuntur, terminis autem in parte sumptis perficiuntur per “ syllogismos particulares primae figurae. hi vero ad illos reducti sunt: quapropter “ad eosdem reducentur etiam syllogismi particulares tertiae figurae. perspicuum “ igitur est omnes reduci ad syllogismos universales primae figurae ,. E ora, ritenendo di aver detto a sufficienza della Sillogistica aristotelica, passo a dire del quinto scritto dell'Organo, cioè di quello de’ Topici. R I Topici (Toruza). — Di questo scritto del grande Stagirita Boezio (loc. cit., p. 7) dà la seguente notevole informazione e giudicazione: “ Topica: hoc est, loci, unde “ ducuntur argumenta. Opus est octo voluminibus distinetum, varium sane, hoc est, “ multae eruditionis et observationis rerum diversarum. Sed ut illa omnia primus “ ipse pariebat, non potuit tam multa simul edere, simul expolire: itaque relicta est “ velut ingens quaedam materia et dives, ad extruendum pulcherrimum aedificium ,. Questo giudizio di Boezio, primamente, è vero, come il lettore stesso se ne convincerà dal cenno che noi faremo de’ Topici; secondamente, ha grande importanza anche per l’influenza da Boezio esercitata nell’insegnamento logico delle Scuole cri- stiane medioevali (1). Accanto al giudizio di Boezio debbo riferirne un altro vera- mente acuto e profondo di PranTtL (Gesch. d. Logik im Abendlande, I° Bd., 1855, Leipzig, pag. 341) sulla grandezza speculativa della mente di Aristotele. PRANTL dice che “ la superiorità (UederZegenheit) della mente di lui era capace di esaminare secondo “ il concetto (begrifflich) e di costruire teoricamente secondo concetti adeguati anche “ campi (Gebiete) ed aspirazioni che sono al di sotto della speculazione propriamente “ detta ,, come sono il campo e la materia de’ Topici. Rispetto a’ Topici riferisco volentieri anche una circostanza rilevata dal ZELLER (2), che cioè, “ il 5° libro de’ Topici rimastoci non provenga da Aristotele, come dimostra “ PrLue, de Ar. Topicorum libro V (1908) ,. Ma, ciò nonostante, noi ne accenneremo egualmente. Cominciando dal Libro I, Aristotele subito nel primo paragrafo indica lo scopo de’ Topici in genere, il quale scopo è quello di trovare il metodo di argomentare di ogni problema proposto da’ probabili (éÉ #v06É©»v), e disputarne in guisa da non dir nulla di ripugnante. Nella traduzione latina il predetto scopo è indicato così: “ Propositum huius tractationis est invenire methodum per quam possimus argumentari (1) Tale influenza viene attestata da tutte le parti; la confermano, tra gli altri, Friedrich UxserweG-Hemze nel Grundriss d. Gesch. d. Philosoph., 8° Aufl., das Alterthum, Berl., 1894, p. 213. (2) Nel Grundriss d. Gesch. d. Griechischen Philosophie della citata ediz. 10%, 1911 del LorrzIsG, pag. 174. 19 LA LOGICA ARISPOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 119 “ de omni proposito problemate ex probabilibus, et ipsi disputationem sustinentes “ nihil dicamus repugnans , (1). E soggiunge doversi innanzi tutto dire “ che cosa sia il Sillogismo ,, estenden- dosi intorno a questo ed indicarne le diverse specie, ecc. E non ha torte di dire del Sillogismo, della sua natura, delle sue specie, ecc.; perchè, se lo scopo della tratta- zione de’ Topici è quello di trovare il metodo di argomentare, foss'anche da’ probabili, l’argomentare è un si/logizzare, e quindi bisogna conoscere come si sillogizza, ecc. Ed in generale il lettore vedrà che in questi Topici si tratta di una grande quantità di cose di cui si è già trattato nelle Categorie, nell’Ermeneia e negli Analitici tanto Primi quanto Secondi. Intanto Aristotele, sempre preciso, dice subito ivi stesso che cosa debba inten- dersi per probabile. E lo determina dicendo (nella traduzione latina): “ Probabilia “ autem sunt ea quae videntur omnibus vel plerisque vel sapientibus, atque his vel omnibus vel plerisque vel maxime notis et claris ,. “ « Nel secondo paragrafo investiga e determina “a quante e quali cose sia utile “ questa trattazione , de’ Topici. E statuisce che ella sia “ utilis ad tria, ad exerci- tationem, ad congressus, ad philosophicas scientias. quod igitur ad exercitationem sit utilis, ex his perspicuum est, quoniam hanc methodum habentes facile de omni re proposita poterimus argumentari, ad congressus autem, quia multorum opinionibus enumeratis, non ex alienis sed ex propriis singulorum sententiis poterimus cum eis agere, refellentes quod non recte dicere nobis videtur. ad philosophicas autem scientias, quia cum poterimus in utramque partem dubitare, facile in singulis per- spiciemus verum et falsum ,. DI Il predetto metodo, soggiunge egli nel terzo paragrafo, sarà perfettamente pos- seduto, quando lo si adoprerà nella retorica e nella medicina, come fanno l’oratore e il medico. Ho rilevata volentieri questa circostanza della retorica e dell’oratore, perchè tutti sanno come questa materia trattata ne’ Topici è passata realmente, se non in tutto, certo in buona parte nella Retorica: Retorica, che specialmente noi vecchi abbiamo studiata, con qualche profitto sì, ma anche con non poca pedanteria d’in- segnanti e d'insegnamento. Sono stato piuttosto diffuso nella indicazione di queste generalità del 1° Libro de’ Topici, per dare una idea della trattazione e del modo di trattazione de’ mede- simi. Ma ora procederò più speditamente e più brevemente, fermandomi però alquanto di più ne’ punti di maggiore importanza. Nel paragrafo 4 continua ad occuparsi di sillogismi e di proposizioni, ma con riguardo ai principii comuni ad entrambi, come sono il genere, il proprio, l’accidente, la differenza, la definizione, ecc.; e nei seguenti paragr. 5 e 6 determina e illustra siffatti principil. Nel paragr. 7 pone il quesito: “ Quot modis idem dicatur , ; e lo risolve dicendo: (1) Quanto alla materia de’ problemi proposti, anch'essa, secondo l’uso delle Scuole, fu espressa nel seguente verso memoriale: Quis?-quid? ubi? quibus auxiltis? cur? quomodo? quando? 120 PASQUALE D'ERCOLE 20 = Videri autem possit idem, ut typo explicem, tripertito distributum esse. aut enim 5 numero aut specie aut genere idem soliti sumus appellare, etc. ,. Più avanti al paragr. 9 si propone di definire i generi delle Categorie, e di indi- carne il numero, che è di dieci; e il relativo luogo è stato già riferito. Nei paragr. susseguenti determina la natura della proposizione dialettica, del sillagismo dialettico, della tesi (determinata al paragr. 11 come * sententia alicuius “ nobilis philosophi...... ut dicebat Antisthenes .). Nel seguente paragr. 12 si propone di “ explicare quot sint rationum dialecti- * carum species ,; e in seguito si occupa ancora de’ generi delle proposizioni, per quindi occuparsi nel paragr. 17 della simiglianza (e propriamente della “ similitudo “ consideranda in iis quae sunt in diversis generibus .). E con ciò si chiude la consi- derazione del I° Libro. j Il lettore che consideri bene la trattazione aristotelica deve convenire nell’acu- tezza e giustezza del giudizio di Boezio intorno ai Topici. Ligro Il. Nel primo paragrafo di questo, Aristotele torna ad occuparsi de’ pro- blemi, in quanto “ alia (scilic. problemata) sunt universalia, alia particularia ,; e si fa a considerarli ne’ diversi rispetti della generalità e della particolarità. Nei paragrafi immediatamente susseguenti torna a considerare i varii modi secondo cui alcunchè si dica, sia quantitativamente sia qualitativamente. Ma nel paragr. 7 passa a considerare un punto importantissimo, e propriamente quello concernente: La Opposizione e il Principio di contraddizione: il qual punto è da lui considerato nè più minuti casi ed aspetti, con relative distinzioni, suddistinzioni ece.; e noi ne riferiremo con qualche ampiezza. “ Quoniam autem contraria (dic'egli, nella traduz. latina) sex modis inter se “ coniunguntur, contrarietatem autem efficiunt quattuor modis coniuncta, oportet “ accipere contraria prout expedit evertenti et adstruenti. sex igitur modis ea coniungi manifestum est. aut enim utrumque utrique contrariorum iungitur, atque hoc bi- * fariam, ut de amicis bene mereri et de inimicis male, vel contra de amicis male “ et de inimicis bene. autem ambo de uno, et hoc quoque bifariam, ut de amicis # bene mereri et de amicis male, vel de inimicis bene mererì et de inimicis male. “ aut autem de ambobus, et hoc quoque bifariam, ut de amicis bene et de inimicis =" bene, vel de amicis male et de inimicis male. primae igitur duae coniunctiones “ quas dixi, non faciunt contrarietatem: de amicis enim bene mereri et de inimicis “ male non sunt contraria, cum ambo sint optabilia et corundem morum effectus . (badi il lettore alla circostanza e corrispondente espressione del morum effecius, che nel testo greco suona: Gugorega yùo cigetà zai toù aùtod 73F0vs). * neque item contraria “ sunt de amicis male et de inimicis bene mereri. nam et haec suni ambo fugienda - “ et eorundem morum effecius ,. E Aristotele nelle dette distinzioni e suddistinzioni non sì arresta neppur qui, ma procede ad altre, che noi omettiamo di riferire. Se non che, continuando a parlare de’ contrarii, passa a considerarli da quel rispetto, che è stato appellato il principio di contraddizione, sostenendo: * fieri nequit “ ut contraria simul eidem subiecto insint , (cioè, nel corrispondente testo greco: ddivatov yào tAvaviia due tO cbr dadoygemr). > 21 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 121 E trattandosi di un principio tanto importante, che, per giunta ha avuto poste- riormente una rigida e non sempre bene intesa applicazione, voglio allegarlo anche nella forma più compiuta in cui ricorre in Metaph. INI, 3; ciod: rò ydo aùtò dua drdoyew te xaì ui) èndogewv ddvvarov tb aùdrp xaì xatà tò aùtò (nella traduzione latina: “ idem enim simul inesse et non inesse eidem et secundum idem impossibile “ est ,). E soggiunge poco appresso che questo è il più certo di tutti i principii: av? d) nacov éorì feBeroramtn tOV @og®v (traduz. latina: “ hoc autem est omnium prin- “ cipiorum certissimum ,). Noti però il lettore che, per non fraintendere il principio aristotelico di contrad- dizione, si deve aver presente ciocchè Aristotele ha detto testè, che, cioè gli opposti non sono contraddittorii, epperò non escludentisi-{poniamo, come amici e nemici) quando siffatti opposti sono morum effectus, ossia effetto della natura di essi. L'uomo, per chiarire ancor meglio l'esempio, ha nella propria natura umana l’essere amico ed anche l'essere nemico, come per sua natura può esser buono e può essere anche cattivo. Non sarà l’una e l’altra cosa due, nel medesimo tempo; ma l’uomo è però pur sempre il medesimo soggetto, che ora è amico ora nemico, ora buono ora cat- tivo: ed inoltre, è amico e buono ne’ tali e tali uomini, ed è nemico e cattivo ne’ tali e tali altri uomini. E basti di questo importantissimo punto. Ne’ paragrafi immediatamente susseguenti sì continua a parlare dell'opposizione, si accenna anche alle simiglianze, e non ricorre altro di rilevante. Passo a dire del Ligro III. Aristotele apre questo Libro col quesito di ciocchè sia migliore e più desiderabile, e, per giunta, di esaminare e a tal riguardo “ sermonem instituere “ (paragr. 1) non de iis quae longe inter se distant et magnam differentiam habent..., “ sed de iis quae vicina sunt ,. E risolve la quistione dicendo che “ quod est diuturnius “ et constantius, magis est eligendum quam quod est minus tale ,. E nella elezione è certo anche di peso “ quod eligat vir prudens, aut lex recta..., “ aut il qui in uno quoque genere scientes sunt ,. Ne’ due seguenti paragrafi continua in grosso l'esame e soluzione dell’istesso quesito, per poi venire, ne’ paragrafi 4 e 5, a prendere in considerazione i luoghi utili a conoscere ciocchè debba eleggersi e ciocchè fuggirsi. E statuisce (paragr. 5): “ Sumendi sunt loci de eo quod magis vel maius est quam maxime universales. sic “ enim sumpti ad plura problemata utiles erunt ,. i E questa è la sostanza della ricerca e soluzione del quesito proposto in questo Libro. Passo al Ligro IV. E qui posso essere ancora più breve di quel che sono stato nell’an- tecedente Libro. Giacchè in questo IV si torna a discorrere “ de iis quae ad genus “ et proprium pertinent ,, colla considerazione di differenze, specie, distinzioni e suddistinzioni di casi, di esempii, di applicazioni (anche al principio di contraddizione), che servono ad illustrare e confermare il proposto quesito. E si giunge così al - Ligro V (che, come è detto innanzi, non proverrebbe da Aristotele). Ma in questo stesso Libro V non vi sono altri argomenti veramente nuovi, ma si torna a trattare di quelli antecedentemente trattati. Infatti questo Libro comincia così: “ Utrum autem proprium sit necne id quod est propositum, ex his locis quos deinceps exponemus considerandum est ,. E Serie II. Tox LXII. 16 « 122 PASQUALE D'ERCOLE 29 prosegue dicendo: “ Proponitur autem proprium vel per se et semper, vel per com- * parationem cum altero et interdum ,. E passa ad investigare e determinare, quando il proprio è per sè, quando per comparazione, ecc. E ne’ seguenti paragrafi 2, 3 e 4 continua ancor sempre il discorso intorno al proprio ne’ suoi più diversi aspetti e rapporti: ne’ quali aspetti e rapporti non manca la considerazione de’ principii contrarii (fatta nel paragrafo 6), e de’ principii con- trarii relativamente al proprio, per scorgere “an contrarium sit contrarii proprium , etc. In grosso è lo stesso nel paragrafo 7, in cui “ ex casibus refellitur, si ille casus “ non est illius casus proprium . etc. E finalmente, nel nono ed ultimo paragrafo, “ refellitur, si quis potestate proprium “ tradidit, etiam ad id quod non est rettulit illud potestate proprium, cum potestas le “ rei quae non est, inesse nequeat , etc. Rispetto alla predeita opinione di Prrue accennata dal ZerreR, dico rispetto a tale opinione, non contro ad essa, mi permetto di fare una personale osservazione. Ed è che, leggendo e considerando attentamente questo V Libro, la materia, il modo di pensarla, ordinarla, distinguerla e suddistinguerla ne’ suoi varii rispetti e rapporti, si mostra, da una parte, interamente simile a quella degli antecedenti Libri topici, dall’altra, interamente conforme alla mente di Aristotele. Ed ora vengo al Lisro VI. Questo si inizia coll’argomento delle definizioni, e si continua tutto con esse; ma queste stesse vengono di bel nuovo considerate ed esaminate con rife- rimento al proprio, al genere, alle differenze, ecc. Trattandosi di un argomento che ha della importanza, e che si addentra nella natura delle definizioni e nelle diverse parti costitutive di esse. allegherò un lungo luogo, in cui ciò è effettuato. Della trattazione dunque “ quae ad definitiones pertinet quinque sunt partes. vel enim definitio reprehenditur, quia omnino non vere dicitur, de quo nomen, “ etiam oratio, quandoquidem oportet hominis definitionem de omni homine vere “ dicitur. vel quia cum sit aliquod genus, non collocavit rem definitam in genere aut non collocavit in proprio genere, quoniam debet is qui definit, cum in genere definitum collocaverit, differentias adiungere, si quidem eorum quae in definitione “ ponuntur, maxime genus videtur rei definitae essentiam declarare; vel quia oratio “ non est propria (nam oportet definitionem propriam esse, quemadmodum et supra fuit): vel quia, cum omnia quae dixi perfecerit, tamen non definivit, nec dixit quidditatem rei definitae. reliquum est praeterea definitionis vitium, si definivit quidem, non tamen recte definivit. an igitur de quo nomen dicitur, non etiam “ oratio vere dicatur, ex locis ad accidens pertinentibus considerandum est. nam ibi “ quoque omnis consideratio in eo consistit ut intelligatur utrum sit verum an non verum. cum enim disserendo ostendimus accidens inesse. dicimus esse verum. cum “ autem ostendimus non inesse, dicimus non esse verum. an autem non in proprio “ genere posuerit, vel non propria sit oratio tradita, ex dictis locis, qui ad genus et ad proprium pertinent considerandum est. reliquum est ut dicamus quomodo “ disquiri debeat an non sit definitum, vel an non recte sit definitum, etc. ,. Nel susseguente paragr. 2 vien la considerazione dell'omonimo, del simmetrico, con le corrispondenti definizioni. Qui stesso Aristotele si fa a considerar la definizione in rapporto al sillogismo, e se in tal rapporto essa sia fatta chiaramente od oscuramente ecc. DO (40) LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 1293 Ne’ paragrafi 3 e 4 continua sempre l'argomento delle definizioni. Nel para- grafo 5 sì considera la definizione del corpo, determinandolo (come si è poi sempre ripetuto e si ripete tuttora, meno il caso presentemente considerato da Zòllner ed altri, della così detta 4% dimensione) siccome “id quod habet tres dimensiones ,. Nel paragr. 6 Aristotele fissa l’attenzione alle differenze, in quanto in esse “ considerandum est an generis differentias dixerit ,. Se tali differenze non sono state indicate e precisate, non vi sarebbe stata vera definizione. | Nei susseguenti paragrafi continua sempre lo stesso argomento delle definizioni, con esemplificazioni intorno all’abito (paragr. 9), alla simiglianza (paragr. 10), e si termina con la considerazione della composizione delle cose, della quale, per avere una giusta definizione, bisogna indicare tutti gli elementi che la costituiscono. E così sì passa al Ligro VII. — Gli argomenti di questo Libro sono anch'essi suppergiù i medesimi di quelli trattati negli antecedenti Libri con speciale riguardo all’Oratoria, la quale naturalmente vien congiunta coi modi e forme di sillogizzare, obbiettare, ecc., col consueto riguardo ai generi, specie, differenze, opposizioni, casi tali o tali altri. Ecco, infatti, come al principio del Libro è enunciata la materia da considerare in essa: “ Utrum autem id de quo agitur sit idem an diversum, secundum eum modum “ qui inter modos supra de eodem expositos est maxime proprius, nunc dicendum “ est. dicebatur autem maxime proprie idem esse quod est numero unum. considerare “ autem oportet atque argumenta sumere ex casibus et coniugatis et oppositis. nam “ si iustitia est idem quod fortitudo, etiam iustus est idem quod fortis, et iuste idem “ quod fortiter. similis ratio est oppositorum ete. ,. Qui stesso vien la volta di pren- dere in considerazione anche il sorgere e perire “ ortus et interitus , delle cose. Poco appresso ricorre un riferimento anche alle cose che accadono: “nam quae “ alteri accidunt, etiam alteri accidere debent ,. E ciò vien messo ivi stesso in rela- zione anche colle Categorie, in quanto “ videre oportet an non in uno categoriae “ genere ambo sint, sed alterum qualitatem, alterum quantitatem vel ad aliquid “ relationem declaret ,. Al paragrafo 3 vien la considerazione della definizione e del sillogismo, pur con riferimento ai generi, alle specie, alle differenze, non che ai contrarii, alle diffe- renze contrarie, ecc. Al paragrafo 4 si ritorna sui luoghi atti a disputa, oratoria, ecc., ma con riferi- mento all’aiuto della memoria. Infatti statuisce: “ Maxime autem locorum omnium “ apti sunt ii quos nune dixi, necnon ex casibus et coniugatis. Ideoque maxime me- “ moria tenere et in promptu habere oportet hos locos (utilissimi enim sunt ad “ plurima problemata), atque etiam ex ceteris eos qui sunt maxime communes, quo- “ niam inter reliquos sunt efficacissimi ,. Nel seguente ed ultimo paragrafo 5 ricorrono ulteriori considerazioni pur attinenti a definizione, sillogismo, a genere, proprio, ecc.; e con esse si chiude il Libro. Ligro VII. — L'argomento principale di questo Libro de’ Topici è la disposi- zione della materia del discorso, con riguardo speciale ad interrogazioni, risposte, e ritrovamento (inventio) di quegli argomenti che spettano ed importano al dialettico, al filosofo. Il quale argomento conduce naturalmente Aristotele a connettervi, come d’ordinario, i modi di argomentare, sillogizzare, ecc. Ma sentiamo Aristotele stesso. 124 PASQUALE D'ERCOLE 24 Egli indica (nella traduzione latina) lo scopo e la materia della trattazione con queste parole: “ Post haec de dispositione, et quomodo interrogare oportet, dicendum # est. primum autem debet is qui interrogaturus est, locum invenire ex quo argu- « mentetur, deinde interrogare et disponere singula ipse per se, tertio et postremo “ haec dicere contra alterum. ac loci quidem inventio aeque ad philosophum et ad # dialecticum pertinet, eorum autem quae inventa fuerunt dispositio et interrogatio =“ dialectici est propria, quoniam hoc totum adversus alterum est: philosopho autem et ei qui ipse secum veritatem inquirit, curae non est, si vera sint et nota ea ex “ quibus efficitur syllogismus, nec tamen ea ponat is qui respondet, propterea quod propinqua sint quaestioni ab initio propositae ac provideat quod eventurum sit. quin immo fortasse dat operam ut axiomata sint maxime nota et problemati pro- pinqua, quandoquidem ex his constant syllogismi qui scientiam pariunt ,. Sillogismo senza proposizioni intanto non si dà; perciò Aristotele rivolge la sua attenzione a queste. Di queste ve n’'ha di necessarie ed anche di non necessarie. «“ Necessariae autem ,, dic'egli, “ dicuntur eae ex quibus syllogismus conficitur. quae “ vero praeter has sumuntur, quattuor sunt: vel enim sumuntur inductionis causa, “ ut detur quod est universale, vel ut amplificetur oratio, vel ut celetur conclusio, “ vel ut magis perspicua sit oratio etc. ,. 3 Nell’anzidetto si contiene il pensiere aristotelico di questo Libro, e s'intende che ciocchè segue non può essere che l’ulteriore e più ampia esplicazione di ciò con applicazione a singoli casi e quesiti ed a singole corrispondenti soluzioni. A conferma di ciò, nel paragrafo 2 si pone che nel dissertare “ utendum syllo- # gismo apud dialecticos potius quam apud multos; contra inductione apud multos “ potius ,. Si fanno di ciò, ad illustrazione, applicazioni a casi vari, poniamo al caso della salute, valetudo, della malattia, mordum, ecc. Quanto alla natura della proposi- zione dialettica e al corrispondente elemento dialettico, si dice poco appresso : “ Pro- “ positio enim dialectica est, ad quam respondere licet etiam aut non ,. Al paragrafo 3 si prendono in considerazione le Aypotheses, le captiosae argu- mentationes con riferimento ai principia ultima, da cui tutte le dimostrazioni e tutti i principî subordinati traggono origine e ragione probativa. “ Nam cetera (scilic. # principia) per haec probantur, ipsa vero per alia probari non possunt ,. Nel paragrafo 4, riferendosi all’interrogare e rispondere, dice: “ De responsione autem primun determinandum est, quod eius sit officium qui recte respondet, quemad- modum eius qui recte interrogat. est autem interrogantis ita disputationem deducere, ut respondentem cogat maxime incredibilia dicere ex iis quae praeter thesim sunt necessaria; respondentis vero, ne sua culpa videatur evenire quod absurdum vel praeter opinionem est, sed propter thesim ,. “ L’istesso argomento dell’interrogare e rispondere viene svolto nei paragrafi 5, 6 e seguenti con ulteriori considerazioni di altri casi e rispetti. Ma più innanzi nel paragrafo 11, a proposito della reprehensio argumentationis, ricorre l’accenno ad argomentazioni false e vere nel senso ed intendimento di ciocchè si è discorso ed esposto negli Analitici; e il corrispondente luogo, relativo a molti modi di argomentazione, è degno di essere riferito e suona così : “ Qui vero ,, dice Aristotele, “ ex falsis verum concludunt, non possunt iure reprehendi, quoniam falsum “ quidem semper necesse est ex falsis concludi, sed verum licet interdum etiam ex 25 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 125 “ falsis concludere: hoc autem est perspicuum ex Analyticis. quando autem argu- “ mentatio quae dicta est, alicuius rei est demonstratio, si quid aliud sit quod nihil cum conclusione probanda commune habeat, profecto non erit ex eo syllogismus. “ “ sin autem videatur, sophisma erit, non demonstratio. est autem philosophema syllo- gismus demonstrativus, epicheirema vero syllogismus dialecticus, sophisma syllo- gismus contentiosus, aporema syllogismus dialecticus contradictionis ,. Per ragione del tecnicismo di queste ultime espressioni della Logica aristotelica, allego quest’ultima parte del luogo nel testo greco, il quale suona così: Hot dè piriocdpnua uèv ovAdoyiouòs drroderatinds, érugeionua dè cvAloyiouòs dialextizds, ooquoua dè ovAloyiouòs Eouotixds, arrdomua dè ovAloyiouòs dralextizòs avtIpPdoE0s. Nel seguente paragrafo 12 si stabilisce come massima che “ argumentatio est “ perspicua uno modo, eoque maxime vulgari, si ita concludat ut nihil amplius opor- “ teat interrogare ,. E dopo altre consimili considerazioni si conclude il Libro VIII con quest'altra massima di carattere generale: “ oportet paratas argumentationes “ habere adversus eiusmodi problemata, in quibus cum paucae argumentationes “ suppetant, adversus plurima problemata utiles erunt. hae vero sunt argumenta- “ tiones universales, et quas assumere ex rebus passim obviis difficile est ,. Dopo siffatte, se non diffuse, certo sufficienti indicazioni sulla materia, sullo scopo e sul modo di trattazione de’ Topici, passo a dire degli Elenchi Sofistici. Ieoì tOV copiotimov éhéyyov. — Anche per questa parte, come ho fatto per le altre, della Logica aristotelica comincio coll’allegare un notevole giudizio di Borzro, il quale (loc. cit., p. 7) dice: “ Elenchus multa significat, sed hoc loco pro redar- “ gutione sumitur. Libri sunt duo, ad cavendas sophisticas captiones, et ne in disse- rendo falsa pro veris per ignorationem colligamus, aut admittamus. Huic operi initium dedit Plato in Euthydemo : ostenduntur illic pauci quidem doli disputatoris captiosi: Aristoteles autem rem omnem, ut solet, a primis initiis complexus, digessit in ordinem et formulas ,. K “ (13 K U & A questo giudizio di Boezio si unisce PrantL, il quale colla sua autorità in tal materia, lo allarga ed integra con altre importanti osservazioni. La qual cosa egli fa nella pagina 346 della sua citata opera Gesch. d. Logik, ete., vol. I, primamente, osservando come questi Elenchi Sofistici si colleghino intimamente ai Libri topici in genere ed al Libro VIII in ispecie; e secondamente, esponendo in un breve e succoso cenno la materia e lo scopo de’ medesimi. Ma vi è stato in Italia un uomo, che, riattaccandosi ai due nominati scrittori, ha fatta una traduzione eccellente de’ primi 14 capitoli degli Elenchi, facendovi pre- cedere un elaborato ed illustrativo proemio, corredando i capitoli stessi di sommari ragionati abbastanza diffusi, estendendosi a dar sommarii anche de’ rimanenti venti capitoli, e, per giunta, a confermare ed illustrare il tutto con note amplissime e dottissime, nelle quali è abbracciata tutta la parte storica dell'argomento fino al secolo XIII inclusivamente. Quest'uomo, veramente sommo e a tutti noto, è Ruggero Bonexi, il quale non solo mostrò vastità di dottrina in questo speciale argomento della Logica aristotelica, ma ha allargato ed approfondito i suoi studi nella traduzione e illustrazione delle opere di Platone e della Metafisica di Aristotele, traducendo ed illustrando quasi tutte le opere del primo, e i primi sei Libri della Metafisica del secondo. E, per giunta, 126 PASQUALE D'ERCOLE 26 fortificò i suoi studi filosofici, oltre che collo studio della Storia della Filosofia fino agli ultimi tempi inclusivamente, anche colle sue amplissime conoscenze di Storia di tutti i tempi, e con un’ampia erudizione nelle altre discipline dello scibile. La esposizione che io, per assolvere il mio scopo e còmpito, farò di questi Elenchi, consisterà in tre diversi cenni: il primo, quello di valermi della traduzione italiana stessa e delle corrispondenti illustrazioni del Bonghi; quale migliore e più sicura guida nell'adempimento del mio scopo? il secondo, nell’allegamento di un brevissimo luogo del Boezio, riportato in nota dallo stesso Bonghi, luogo che ser- virà alla indicazione delle espressioni /atine de’ sofismi trattati da Aristotele; il terzo, nell’allegamento di un luogo importantissimo dell’Ueberweg, nel quale, in breve e succoso cenno, sono distinti e. illustrati tutti i sofismi con le relative denominazioni greche. E vengo alla esposizione. Cominciando .dal Bonghi, è bene ed utile di rilevare alcune importanti afferma- zioni e considerazioni di lui in riattaccamento a Boezio, a Prant], allo stesso sorgere e costituirsi della Sofistica, ed anche a Socrate, Platone ed Aristotele in quanto riferentisi alla medesima. Per ciocchè concerne il sorgere e costituirsi della Sofistica, benchè egli ricordi cose note, pur voglio ricordar le parole di lui. Prodico, Gorgia e Protagora (dic’egli nella prima parte dell’ Introduzione alla traduzione dell’Eutidemo, pag. 15) “ per i “ primi accettarono i nomi di sofisti e fondarono la sofistica ,. E, come essa “ è il “ principio e il fondamento dell’eloquenza e il più grande stimolo e sprone di coltura, “ essi furono maestri di eloquenza, e diffonditori di cultura in tutta la Grecia ,. Senonchè, pur troppo la sofistica degenerò in eristica. Ora, Platone (ibid., pag. 18) “ si oppose a questa perversione di giudizii ,: tanto più che “ non si sarebbe potuto “ mai far intendere il valore di Socrate, fino a che questa confusione avesse preoccu- “ pato le menti ,. Si aggiunga a ciò, che quando “ in Grecia si moltiplicò il numero “ di quei professori o maestri che si ripromettevano d’insegnare al cittadino la miglior “ maniera di condursi per sè e per gli altri nello stato ,, nacque una gran “ contra- “ rietà d’opinioni ne’ nuovi metodi d’insegnamento ,. E da questa, e dal “nome di uno degli Eristici che vi discorre , trasse origine l’Eutidemo di Platone. Vengo ora alle Confutazioni Sofistiche. Nell’avvertenza alle Confutazioni Sofistiche, come Bonghi traduce il trattato e0ì tOv copuotizòv EXéyyov (1), egli dice di essere stato indotto alla traduzione “ dal “ pensiero, che avrebbe potuto riuscire di molto interesse e utilità il vedere come una “ mente così sottile, investigatrice, sistematica (come quella di Aristotele) abbia per “la prima volta messo ordine e luce in una materia per sè così complicata e buia, “com'è questa del ragionamento usato a inganno altrui. Nell’Eutidemo Platone aveva “ rappresentata l’arte; nelle Confutazioni Sofistiche Aristotele, che vi ricorda tante volte “ l’Eutidemo e Platone, ne dette la feorica ,. Soggiunge, Aristotele “ non esser facile in nessuno suo scritto; e questo è uno “ di quelli ne’ quali è più difficile ,. Indicando la ragione, i limiti e il modo come ha » (1) Vedi Dialoghi di Platone, trad. da Ruggero Boncni, vol. IV (continuaz.), Eutidemo, 2* ediz.; Aristotele, il primo Libro Delle Confutazioni Sofistiche, ecc. Torino-Roma-Firenze, Fratelli Bocca, 1883. DO Ce | LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGRLIANA, ECC. 127 “ condotto la propria opera, dice essergli “ mancato il tempo , di condurre a termine la traduzione; ma che, ciò non ostante, “ la trattazione teorica de’ sofismi è ne’ primi “ (14 capitoli) compiuta ,, essendo “ nei seguenti (venti capitoli) solo indicate le vie “«“ praticamente utili a cavarsene fuori ,; e che, per giunta, come si è detto, anche per questi ultimi ha aggiunto “ lunghi sommarii ,; sì che il lettore finisce per aver conoscenza di tutta la materia dell'ultimo trattato logico di Aristotele. Ora ecco i punti sostanziali di questo. Aristotele nel Primo Capitolo, paragrafo 1, di questo dice che “ prende a discorrere.... delle Confutazioni Sofistiche e di quelle che paiono bensì confutazioni, “ ma sono paralogismi e non confutazioni ,. “ E nel seguente paragrafo 2 fonda questo suo giudizio con questa osservazione: “ Che de’ sillogismi alcuni son veramente tali, altri paiono e non sono, è manifesto; chè come questa apparenza ha luogo nelle altre cose per una cotal simiglianza, così accade ancora nei ragionamenti. E difatti, la persona, che altri hanno aitante, altri col gonfiarsi e acconciarsi.... paiono averla.... E delle cose inanimate è del pari; chè di queste quale è argento e oro davvero; quale non lo è, ma pare al senso; per mo’ d'esempio, d’argento quelle di stagno e di piombo; d’oro quelle tinte di giallo ,. E allo stesso modo, sillogismi e confutazioni, quali sono, quali “« K non sono, ma paiono per l’imperizia. “ Dappoichè (continua egli nel paragrafo 3, indicando la ragione dottrinale della “ differenza di sillogismo e confutazione, ossia di sofismo) il sillogismo si compone “ di alcune premesse per modo, che di necessità per via di esse proposizioni dica “ qualcosa di diverso dalle proposizioni; e confutazione è sillogismo in cui si con- “ traddice la conclusione ,,. Nel paragrafo 4, cominciando ad enumerare le cause, dice che di queste “ una fonte è più copiosa e comune di tutte, quella per via di vocaboli..... I vocaboli sono finiti di numero e i ragionamenti altresì ; dove gli oggetti sono infiniti ; sicchè è necessario che un solo ragionamento e un unico nome significhi più oggetti ,. Nel paragrafo 5 fa ulteriori esemplificazioni sulla sofistica, che si intendono e spie- gano con ciocchè è detto innanzi. Ma nel seguente Capitolo Secondo, passando ad indicare “ le specie de’ ragiona- menti sofistici ,, Aristotele, nel paragrafo 2, dice che di quelli “ che occorrono nel “ conversare, vha quattro generi: didascalici, dialettici, pirastici ed eristici. Sono : “ Didascalici (insegnativi) quelli che si sillogizzano da’ principî propri di ciascuna disciplina e non dalle opinioni di chi risponde ; (chè chi impara, deve credere): « Dialettici (discorsivi) quelli che da proposizioni probabili sillogizzano la con- “ tradittoria: « Pirastici (tentativi) quelli che lo fanno da proposizioni ammesse da chi risponde e necessarie a sapere da chi ha la scienza (e in che modo si è chiarito altrove): « Eristici (contenziosi) quelli che sillogizzano o paiono sillogizzare da proposi- Kw 193 zioni ammesse solo in apparenza, ma non in realtà ,. Nel paragrafo 3, ricordando che “ de’ ragionamenti upodittici (dimostrativi) 8° è « discorso negli Analitici, de’ dialettici e de’ pirastici altrove ,, dice doversi “ discorrere “ al presente degli agonistici (garosi) e degli eristici ,. E ciò fa nel CapiroLo III. — Aristotele, proponendosi in questo “ di fermare quante sono le 12 PASQUALE D'ERCOLE 28 0 * mire di quelli che gareggiano e si puntigliano nel ragionare ,, dice che queste “ son cinque di numero : confutazione, falsità, paradosso, solecismo, e quinto il far “ cianciare chi conversi teco (e questo è il costringerlo a dire più volte il medesimo); “o non la realtà, ma l'apparenza di ciascuna di queste cose ,. E, spiegando nel paragrafo 3, le predette cinque cose, dice che “ quello che “ sopratutto si propongono, è di parere di confutare ; in secondo luogo, di mostrare “che uno dica il falso in qualcosa; terzo, di tirarlo a un paradosso; quarto, di “ fargli commettere un solecismo ; e questo è, il fare che chi risponde, per effetto “ del ragionamento. barbarizzi; per ultimo, il fargli dire più volte la stessa cosa ,. CapiroLo IV. — In questo Capitolo, venendo alla indicazione “ dei modi di con- “ futare ,, dice esservene “ di due sorte; gli uni stanno nella dizione, gli altri fuori “ della dizione ,. Nel paragrafo 2, indicando “i motivi che per effetto della dizione generano un “ falso vedere ,, dice che di essi “ ve n’ha sei; e sono l’egquivocazione, l’anfibologia, “ Ja composizione, la divisione, l'accento, la figura della dizione. & la prova di ciò s'ha “ “ per induzione ,. E ne’ susseguenti paragrafi chiarisce e illustra con esempi i pre- detti sofismi della dizione. CapiroLo V. — In questo Capitolo passa il nostro filosofo alla designazione de’ “ paralogismi fuori della dizione ,, e ne novera “ sette specie, una dell’accidente, “la seconda dal dirsi una cosa in assoluto o non in assoluto, ma per un certo modo “o posto 0 tempo o rispetto; la terza dall’ignoranza della confutazione; la quarta dal “ susseguente; la quinta dalla petizion di principio; la sesta dal porre la non causa “ come causa; la settima dal fare di più interrogazioni una sola ,. E anche per questi paralogismi Aristotele fa nei seguenti paragrafi illustrazioni ed esemplificazioni. Notevole è in questo Capitolo ciocchè Aristotele statuisce, al paragr. 11, intorno all'ultimo de’ sette paralogismi allegati, cioè intorno a quelli che “ nascono dal fare “ di due interrogazioni una sola ,. Rispetto a questi, “ quando resti nascesto che son “ più, e come se fossero una sola, le si dia una unica risposta ,; benchè rispetto a tal caso riconosca che “ in alcune è facile scorgere che son più, .... ma in altre meno ,. CaprroLo VI. — In questo Capitolo, al paragrafo 1, pone l’alternativa che “ o “ s'hanno a distinguere così i sillogismi e confutazioni apparenti ,, come si è detto K 14 e fatto negli antecedenti paragrafi, K o a ridurre tutti all’ignoranza della confuta- zione, ponendo per principio questa: chè v'è modo di risolvere tutti i modi che se ne son detti, nella definizione della confutazione ,. E l'alternativa e corrispon- dente soluzione proposta vien discussa a proposito degli altri ultimi paralogismi allegati. CapiroLo VII. — In questo Capitolo si continua a prendere in considerazione altri degli allegati paralogismi, come quelli dall’equivocazione, dall’anfibolia, dalla composizione e dalla divisione, dall’accento e dalla figura della dizione, dall’accidente, ecc., e si indica il modo di conoscerli e confutarili. « CaprroLo VII. — “ Poichè sappiamo (si dice nel paragrafo 1) per quante vie sì generino i sillogismi apparenti, sappiamo altresì per quante si possano generare i sillogismi e le confutazioni sofistiche ,. “ & “ E dico (paragrafo 2) sillogismo e confutazione sofistica non solo il sillogismo 29 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 129 “o la confutazione che appare e non è, ma anche quello che è bensì, ma proprio della cosa appare soltanto. E cotesti sono quelli che non confutano secondo la cosa, e non mostrano che altri l’ignora, che era il caso della Pirastica. Ora, la Pirastica è parte della Dialettica; e questa può sillogizzare il falso per ragione dell’igno- ranza di chi rende ragione. Invece, le confutazioni sofistiche, quando anche sillo- gizzino la contradizione, non fanno manifesto se altri ignora; poichè anche chi sa, impacciano con siffatte argomentazioni ,. “ E che gli otteniamo (paragrafo 3) collo stesso metodo, è chiaro ; dappoichè per quante vie appare a chi ascolta, che si siano sillogizzate appunto le proposi- zioni di cui gli s'era fatta interrogazione, per altrettante potrebbe altresì parere a chi risponda; sicchè per queste, o tutte o aleune, verran fuori sillogismi falsi, chè quello che uno non interrogato crede d’aver conceduto, interrogato lo conce- derebbe. Eccettochè in alcuni paralogismi succede insieme che si dimandi quello che manca, e la falsità si chiarisca, come in quelli dalla dizione e dal solecismo ,. Si fanno, ne’ paragrafi seguenti, consimili considerazioni intorno ad altri para- logismi, come quelli risultanti dall’accidente, dal conseguente, ecc. CapiroLo IX. — In questo Capitolo, nel paragrafo 1, Aristotele statuisce che “da quanti luoghi si traggano confutazioni di quelli che son confutati, non bisogna “ provarsi a determinarlo senza la cognizione delle cose tutte. Ora, ciò non è di “ nessun’arte; stantechè le scienze sieno infinite forse, sicchè è chiaro che anche “le dimostrazioni son tali ,. “ « » “ E di confutazioni ve n’ha anche di vere; stantechè quante cose v’ha luogo a dimostrare, tante v' ha luogo a confutare a chi asserisca il contraddittorio del Vero ; p. es., se uno ha asserito commensurabile il diametro, altri lo confuterebbe col “ dimostrare ch’ è incommensurabile. Sicchè bisognerà essere scienti d’ogni cosa, ecc. ,. “ Però (paragrafo 2), anche le confutazioni false saranno del pari infinite; chè v'ha secondo ciascuna arte il sillogismo falso; p. es., secondo geometria il geo- « K « « metrico, secondo medicina il medico; e dico secondo ciascun’arte quello secondo i principî di essa ,. E ne’ seguenti paragrafi, su questi stessi principî stabiliti, si fanno consimili considerazioni. “ CapitoLo X. — In questo Capitolo si pone in discussione e si risolve la seguente importante quistione intorno a ragionamenti relativi al vocabolo e al pensiero: “ Non “ v' ha, dic’egli, tra i ragionamenti la differenza che taluni dicono ; alcuni ragiona- “ menti riferirsi al vocabolo, altri al pensiero; chè è assurdo il pensare, che altri sono i ragionamenti che si riferiscono al vocabolo, e altri quelli al pensiero, e non già i medesimi ,,. “ «x “ Poichè (paragrafo 2), che è egli mai il non riferirsi al pensiero se non quando “ uno non usi del vocabolo nel senso cui l’interrogato ha consentito, credendo che “ fosse quello che avesse nella interrogazione? Ora, questo stesso è riferirsi al voca- “ bolo. E riferirsi al pensiero è, quando l’altro pensi quello cui egli ha consentito, ecc. ,. E ne’ paragrafi immediatamente seguenti viene confermando ciò con ulteriori non meno acute illustrazioni ed applicazioni, delle quali voglio rilevare l’applicazione che ne fa alle Matematiche, che attirano in modo speciale la nostra attenzione per la trattazione della così detta Logica matematica. “I ragionamenti nelle matematiche, “ dice infatti Aristotele al paragrafo 7, si riferiscono al pensiero o no? E se ad uno Serie II. Tox. LXII. 17 130 PASQUALE D'ERCOLE 30 « pare, che il triangolo significhi più cose, e non ha ammesso, che esso sia la figura (1), “ della quale s'è coneluso, che son due retti, cotesto ragionamento s'è egli diretto “ al pensiero di questo o no? , CapiroLo XI. — In questo Capitolo il grande filosofo ritorna a fare ulteriori con- siderazioni sulla Pirastica, e conseguentemente sulla Dialettica; giacchè “ la pirastica (paragrafo 1) o arte di saggiare è una dialettica ,. La quale ultima, quando non è seguìta ed applicata nel suo vero concetto e natura, conduce alla sofistica; giacchè, “ chi riguarda (paragrafo 2) il comune a più cose secondo ciascuna è dialettico; chi “ fa questo in apparenza, è sofistico ,. Donde è condotto a ritornare sull’eristica, alla quale conducono i sofisti stessi, che “ prefiggendosi (paragrafo 3) di vincere a ogni “ modo, s’appigliano a tutto ,, come appunto “ fanno gli eristici ,. Come Aristotele è sottile, serrato, conseguente in questa materia degli Elenchi Sofistici, che è tutta nuova e da lui creata siccome una teoria di questa parte logica! CapiroLo XII. — In questo Capitolo considera e tratta della Sofistica un altro lato costitutivo di questa. “ Quanto poi al mostrare (dic’egli, infatti, al paragrafo 1) “ che alcuno dica falso in qualcosa, e menare il ragionamento in un paradosso — chè questa era la seconda parte della professione sofistica, — or bene ciò soprattutto riesce in primo luogo, quando tu dimandi in un certo modo, e per via d’inter- “ rogazione. Dappoichè l’interrogare non definendo nulla a cui si miri, è modo di caccia adatta a ciò; chè quelli che parlano a caso, errano di più; e. parlano a caso, quando non si siano proposto nulla ,. “ E l’interrogare di più cose (paragrafo 2), anche quando sia definito ciò rispetto a cui si disputa, e il richiedere altri di dire checchè gli paia, dà qualche agevo- lezza al menare in un paradosso o una falsità; e sia che, «interrogato, neghi o affermi alcuna di tali dimande, condurlo in luoghi, dove si ha copia d’attacco. Però, ora è possibile di misfare per questi mezzi assai meno di prima; stantechè chiedono: che fa mai questo a quello in principio? , “ “ Ed elemento poi (paragrafo 3) all’abbattersi a una falsità o a un paradosso è il cominciare dal non fare nessuna proposizione oggetto dell’interrogazione, ma dire d’interrogare per voglia d’imparare; dappoichè la disquisizione dà modo d’attacco ,. In questo paragrafo mi pare che Aristotele abbia presente e rilevi la maniera di fare e ragionare di Socrate. “ AI mostrare (continua Aristotele al paragrafo 4) che uno dica falso, è proprio “ luogo quello sofistico, il menare a tali cose, che s'abbia contro esse copia di argo- “ mentazioni; e questo vi sarà modo di farlo bene e non bene, secondo s'è detto “ prima ,. Rilevo un ultimo luogo importante del fare sofistico, quello relativo alla nature ed alla legge e del quale Aristotele rileva il lato paradossastico come segue: “ Il “ luogo il più copioso (paragrafo 8) del far dite paradossi è (come anche è fatto « parlare Callicle nel Gorgia, e gli antichi tutti credevano che risultasse) è da quel “ secondo natura e secondo legge; giacchè sieno contrari natura e legge, e la giustizia (1) La qual figura, se lo noti il lettore, rappresenterebbe qui l’elemento del vocabolo. Si LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 131 “ essere cosa bella secondo legge, ma secondo natura non bella. Sicchè bisogna chi “ parla secondo natura, affrontarlo secondo legge; e chi secondo legge, menarlo alla “ natura; giacchè vi sia luogo a dir paradossi ne’ due modi ,. CaprroLo XIII. — In questo Capitolo si tratta di un argomento che par futile, cioè quello del cianciare; eppur questo dà luogo a una acuta e teorica disamina della sofistica da parte di Aristotele. Prima di allegare le parole del grande filosofo, allego una osservazione inter- pretativa che fa il Bonghi in proposito, e che è questa: Col cianciare, cioè, dice quest’ultimo, “ sì passa al quarto fine del sofista, che è il forzare l’avversario a dir “ più volte la stessa cosa, che torna al cianciare o infilzar parole senza senso. Il « presupposto di tali sofismi è che il vocabolo è tutt'uno colla sua definizione e quello “ non differisce in nulla da questa, sicchè si può in una proposizione surrogare l’uno “ all'altra. P. es. doppio si definisce doppio di metà: ora, se la definizione può essere “ surrogata al definito, noi possiamo definirlo: doppio di metà di metà; e da capo “ doppio di metà di metà e così in infinito ,. . Giò posto, ecco ciocchè dice Aristotele (al paragrafo 2) intorno al discorrere per puro cianciare: “ Tutti i siffatti discorsi vogliono far questo; se non differisce “ per nulla il dire il vocabolo o la definizione, doppio e doppio di metà è tutt'uno; “ se adunque è doppio di metà, sarà doppio di metà di metà ; e di novo, se in luogo “ di doppio, si ponga doppio di metà si sarà detto tre volte: doppio di metà di metà “ di metà (1). Ed evvi egli il desiderio del piacevole? Ora, questo è appetito del “piacevole; dunque, desiderio è appetito del piacevole del piacevole, ecc. ,. CapiroLo XIV. — L’argomento di questo Capitolo è il Solecismo e la sofistica- zione in cui può incorrersi con esso. Aristotele (al paragrafo 2) parla e ragiona in questo modo: “ Questo (cioè il “ Solecismo) v'è luogo a farlo e a parere senza farlo, e a non parere facendolo; “ siceome diceva Protagora, se è w7v1s e ò xM)A7É sono un mascolino; giacchè chi “ dice odAouévnv solecizza secondo lui, ma agli altri non pare; chi odAduevov pare bensì, ma non solecizza , (Si noti che u7v15 e 274né$ son propriamente femminili). “ Sicchè è chiaro (paragrafo 3) che uno potrebbe ad arte far questo ; per il che & molti ragionamenti pur non sillogizzando un solecismo paiono di sillogizzarlo, sic- come nelle confutazioni ,. “I solecismi apparenti (paragrafo 4) hanno occasione pressochè tutti dal r6de, “ e quando la desinenza non manifesta nè maschio nè femmina, ma il di mezzo. Difatti “ oòtos significa maschio ed bt femmina; ma toto vuole bensì significare il di mezzo, pure spesso significa anche l’uno o l’altro di quelli: p. es., che è zodro? “ Calliope, legno, Corisco. D'altronde, del maschile e del femminile le desinenze de’ casi « (1) Qui mi par di vedere Aristotele (senza menomare la fina osservazione e interpretazione del nostro Bonghi) riferirsi al famoso dialettico Zenone eleate, del quale uno degli argomenti famosi, quello cioè del non potersi andare da un punto all’altro dello spazio, era pensato e condotto appunto in tal guisa: cioè, di non potersi percorrere l’intero spazio senza giungere alla metà di questo, non potersi giungere a questa metà senza percorrere la metà di questa metà, e così non potersi giungere a questa seconda senza percorrere la metà della metà della metà, ecc. in infinito, il che era impossibile a fare in un tempo finito. 132 PASQUALE D'E=-COLE 32 * differiscono tutte, ma del genere di mezzo quali sì, quali no. Ed ecco che spesso, * essendosi lor concesso rodro, sillogizzano, come se fosse stato detto todTor; e del * pari una desinenza in luogo d'un’altra. E il paralogismo si genera perchè il z6de “ è comune a più desinenze; giacchè rovro significa quando oòros quando todrovr. * Però deve significare quando l’uno e quando l’altro; con è odtos, con essere ToÙtOr, * per es., è Kogiozos, essere Kogiozov. E nei vocaboli femminili del pari ; e in quelli, * che son bensì d'utensili, ma però hanno appellazione femminile o maschile. Dap- poichè tutti quelli che terminano in o e in », hanno soli l’appellazione da utensili, * come É4or, czorviov; ma quelli che non così, l'hanno maschile o femminile, di “ cni applichiamo alcuni agli utensili; p. es. @ozòs è vocabolo maschile, 2Zivy fem- “ minile. Per il che anche rispetto a questi differirà del pari l'è e Vessere ,. “ E in un certo modo (paragrafo 5) il solecismo è simile alle confutazioni tratte = dal prendere per simili cose non simili. Giacchè come a queste accade di sole- “ cizzare sulle cose. così a quello su’ vocaboli; chè uomo e bianco sono e cosa e vocabolo .. “ Siechè è manifesto (paragrafo 6) che da simili desinenze bisogna sforzarsi di sillogizzare il solecismo. “ Le specie, dunque, de’ discorsi contenziosi e le parti delle specie e i modi son “ quelli che si son detti , Con questi estiiohe: Capitoli finisce la parie feorica degli ita Sofistici, e che, come si è detto, nei seguenti venti Capitoli si espone e fa l'applicazione dei primi quattordici. Io ometto di esporre anche questa parte applicativa, ritenendo suffi- ciente pel mio scopo la conoscenza della teoria. Passo perciò al secondo punto del triplice cenno che io voleva fare degli Elenchi predetti, cioè alla indicazione latina de’ paralogismi o sofismi, secondo la indicazione di Borzio. Questi infatti (vedi Boxexi, nota 129 alle Confutazioni Sofistiche, pag. 529) indica le tredici denominazioni.sofistiche di Aristotele così : 1° Aequivocatio; 2° amphi- bolia; 3° compositio; 4° divisio; 5° accentus; 6° figura dictionis: 7° propter accidens; 8° propter id quod simpliciter vel non simpliciter ; 9° propier redargutionis ignorantiam ; 10° propter consequens ; 11° propter id quod est in principio sumere; 12° propter id quod non est causa ut causam ponere, ovvero, propter non causam ut causam; 13° pei? plures interrogationes unam facere. In questa stessa nota 129 il Bonghi ha un notevole accenno ad Alberto Magno, che pure scrisse degli Elenchi Sofistici. E altri accenni non meno notevoli ha nella nota 160 per Alfarabi:; nella nota 161 per S. Tommaso; e nella nota 163 per Duns Scotus, il cui fractatus logicae è l’ultimo nella Scolastica, e che è intitolato De syllo- gismo sophistico sive fallaciis. Ed ora pongo termine alla mia esposizione coll’allegamento dello stupendo e comprensivo luogo dell'’UzseRWwEG (Syst. d. Logik u. Gesch. d. Logischen Lehren, citato, pag. 370), che suona come segue: “ Aristotele nel suo scritto segì tOV coguotiz@v éléyyov si è fatto guidare nelle diverse parti del medesimo dallo speciale riguardo ai sofismi molto disputati “ al suo tempo. Egli definisce (Top. VII, 11) il G6gicua come cviZoyicuòs éouotizds, “ e divide i Sofismi in due Classi principali: smag@ tiv AéÉiv e #Éo tig HéÉews. © Alla Prima Classe principale novera (De Soph. Elench., c. 4) come appartenenti La Li I GS R E » D (9) 3 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 133 sei specie: duovuzia (aequivocatio), GugeBoZie (ambiguitas), c8vdsos (fallacia a ‘ sensu diviso ad sensum compositum), deeiosors (fallacia a sensu composito ad sensum divisum), 7000@die (accentus), cy)jua 175 A85e0s (figura dictionis): de’ quali Sofismi però il terzo ed il quarto (la confusione del senso distributivo e del collettivo, ovvero la confusione di ciocchè vale in modo speciale di tutti i singoli od in ogni singolo rapporto, e di ciocchè vale della generalità come tale), in quanto appar- tenenti alle fallaccis secundum dictionem, si lasciano aggruppare (subsumere) sotto il concetto dell’anfibolia nel senso indicato di sopra. (Per oyQuata 775 AéÉe0s Aristotele intende qui le forme grammaticali de’ nomi e de’ verbi, e, secondo Pot. c. 19, in modo speciale le proposizioni grammaticali fondate sui diversi rap- porti di Predicato con Soggetto: proposizioni grammaticali, alla cui espressione servono in parte i Modi verbali, come Comando, Preghiera, Minaccia, Enunciazione, Domanda e Risposta). i “ Alla Seconda Classe principale, cioè ai Sofismi #É@ 7775 A8É806, Aristotele novera come appartenenti le seguenti sette specie: zaoà tò couteByxòs (fallacia rationis ex accidente), tò dA 7 ui) arÀ@5 (a dicto simpliciter ad dictum secundum quid), î) toù éXéyyov &yvora (ignoratio elenchi), za0@ tò émduevov (fallacia rationis ex consequente ad antecedens), zò év dog) AauBavew, aiteîcdar (petitio principi), tò uî) altiov tdEvar (fallacia de non causa ut causa), tò rà Asi éomm)uata èv mov (fallacia plurium interrogationum). “ Se non che questi errori sono in parte errori di dimostrazione (Beweisfehler; ved. appresso paragr. 137). Degli errori indicati adduce Aristotele stesso esempi nel suo scritto zzeoì tOv copiotizòv éléyywv ; si può paragonare con esso il Dialogo di Platone (o di un platonico) Kutidemo. Antiche e moderne esemplificazioni, però in gran parte già fatte, dà il Frirs (System der Logik, paragr. 109). Una diffusa ed esatta disamina di Sofismi si trova in Mitt, Log. trad. da Schiel, 2 (e 3) Ediz., pag. 398-432. Rispetto al ‘carattere nebuloso e confuso di parecchie moderne spe- culazioni, e rispetto ad innumerevoli sofismi, per mezzo de’ quali, dato l’insolvibile còmpito di derivare il pieno dal vuoto, si è creduto di ottenere l’apparenza di una soluzione, ha detto il TRENDELENBURG (El. 2u den Elem. der Arist. Log., 1842, p. 69) con ragione: “ Sarebbe tempo di tradurre secondo il tempo moderno (ins Moderne) lo scritto aristotelico degli Elenchi Sofistici ,. Questo còmpito è stato risolto sol- tanto in modo unilaterale mediante I’ Antibardarus logicus von Cajus, 1851; 28 Ediz., 1° fasc., 1853, comunque il suo autore nel campo del pensiero filosofico sappia esercitare con destrezza di Polizia certe funzioni (polizeiliche) di vigilanza ,. Chiudo la mia considerazione ed esposizione della Logica aristotelica, e concludo dicendo che questi punti fondamentali del pensiero logico aristotelico e la corrispon- dente legislazione del medesimo sono addirittura una immortale creazione, che non i soli 24 secoli passati han già confermata e glorificata, ma che continueranno a confermare e glorificare anche i secoli venturi. Una più specificata illustrazione e determinazione di tal giudizio verrà data in seguito. Ed ora vengo alla Logica kantiana. 134 > PASQUALE D'ERCOLE 34 IL La Logica kantiana. La Logica di Kant non è scompagnabile da quella di Hegel. della quale è l'im- mediata preparazione ed antecedenza. Carlo Rosenkranz, insigne conoscitore ed espo- sitore delle dottrine di entrambi, dice giustamente a tal riguardo (1), che “ l’intima = parentela e il legame de’ due grandi architettori del pensiere (Gedankenarchitekten) * Kant ed Hegel, dell’ iniziatore e del compitore di una delle più grandi epoche = della filosofia, congiungono insieme i lor sistemi nel circolo dell'eternità (2um Ring 3 der Ewigkeit) .. Fonti per l'esposizione della Logica kantiana. La fonte principale e diretta sono le stesse opere logiche di Kant, le quali son contenute ne primi ire rolumi delle opere di lui edite, come è detto, da Rosenkranz e Schubert. Vi sono però alire fonti anche importanti, che sono le seguenti. Dr. Monitz SteczeLwacHer, Die formale Logi Kant's in ihren Beziehungen 2ur transcendentalen, Breslau, 1879. Friedrich Uszerwzes Grundriss der Gesch. d. Philosophie. 37 Theil. Die Neuzeit, 1° Bd., 8° Aufi.. bearbeitet u. herausgegeben von Dr. Max Hemze, ete., Berlin, 1896 (esiste già anche la 9* edizione di questo volume). Quest'opera è indispensabile ad ogni cultore della filosofia, sopratutto per la ricchissima parte bibliografica che essa contiene; e quanto a Kant, essa contiene una esposizione, biografia, bibliografia e disamina compiutissima della filosofia di lui, e persino con estensione ai seguaci ed oppositori di Kant con notizie bibliografiche dei medesimi. Hrezr's Vorlesungen iiber die Gesch. der Philosophie herausgegeben von Dr. C.L. Mi chelet, 37 Theil, 2° verbesserte Aufiage, Berlin, 1844. Vedi pp. 499-553, nelle quali Hegel espone, giudica e apprezza la filosofia di Kant con speciale riguardo alla Cri- tica della Ragion Pura, e però alla Logica kantiana. Dr. C. L. Miceerer, Geschichte der letzten Systeme der Pilociplara in Deutschland von Kanî bis Hegel, Berlin, 1837. Michelet tratta lungamente di Kant nella 12 parte della sua opera in 218 pagine di questa; ed è stato uno de’ primi in Germania, dopo Hegel, ad esporre e trattare in modo speculativo la filosofia kantiana. Carlo RosenxrRANZ è importantissimo anch'egli non solo per la mentovata Storia della filosofia di Kani fatta nel 12° vol. delle opere kantiane, ma anche per la “ Pre- fazione alla raccolta degli scritti logico-metafisici di Kant ,. ed in generale per tutta la pubblicazione de’ primi tre volumi delle opere di Kant, i quali primi tre concer- nono appunto gli scritti logici del grande filosofo. Il Criticismo presso gl’Ttaliani. Uno dei primi a studiare, esporre ed apprezzare (1) In Immanuel Kanîs Simmiliche Werkz, herause. ron Karl Rosessranz und Friedr. Wilh. Scavszzr, Leipzig, 1838-1842. 12 Bd. Il vol. 11° contiene le Lettere di Kant e la Biografia del me- desimo scritta da Schubert, e il yol. 12° contiene la Sioria della Filosofia di Kani, scritta da Rosenkranz; il luogo allegato è di quest’ultimo volume, pas. 494. 35 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 135 il Kantismo da noi fu l'Abate A. Tesra collo scritto: Della Critica della Ragion Pura di Kant esaminata e discussa, ece., Lugano-Piacenza, 1841-1844. Altro scritto del Testa, pure relativo al Kantismo, è: Del male dello Scetticismo trascendentale e del suo rimedio, Piacenza, 1840. : Il Prof. Luigi CrepARO, con riferimento al Testa ed al Kantismo, scrisse: A. Testa o è primordii del Kantismo in Italia (in “ Rendic. Acc. Lincei ,, Roma, 1885-1886); ed anche: Quistioni Kantiane (in Filosofia d. Scuole Italiane, 1885). Ma una fonfe, ed anche più feconda di studio, esposizione ed apprezzamento del Kant ha suscitato in Italia specialmente Bertrando Spaventa fin dal 1860 con lo scritto: La filosofia di Kant, Torino, 1860. A questo scritto ne fece seguire altri, per es., La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofia italiana; Kant e Vem- pirismo; ed anche altri. I discepoli e i seguaci dello Spaventa han continuato gli studi sul Kantismo e tra essi ricordo specialmente il FrorenTINO, assai benemerito pe suoi studi e produzioni sulla Filosofia del Rinascimento. Pel Fiorentino rimando il lettore al bello ed accurato studio di lui fatto dal Prof. Giovanni GentILE (in La Critica, Rivista, ecc. diretta da B. Croce, anno IX, 20 marzo 1911); e mi associo al giudizio che, ad onta delle grandi benemerenze del Fiorentino per la Filosofia, questo rimase nell'orbita del Kantismo e “ non potè penetrare davvero nella speculazione “ hegeliana ,, cui pure aspirava. — Ricordo anche Filippo Masci con lo scritto: Una polemica su Kant, l Estetica trascendentale e le Antinomie, Napoli, 1872, ed anche con altri; Felice Tocco con gli scritti: L’ Analitica trascendentale e i suoi recenti espositori (in Filosofia delle Scuole Italiane); Filosofia di Kant (ibid.). Anche altri, non discepoli nè seguaci di Spaventa, si sono occupati del Kantismo, per es.: P. RAGNISco, La Cri- tica della Ragion Pura di Kant, Napoli; F. Cniapperri, Kant e la psicologia contem- poranea, Napoli; G. BarzeLLOTTI, La critica della conoscenza e la metafisica dopo il Kant (in Filosofia delle Scuole Italiane, vol. 20); G. Cesca, Storia e dottrina del Cri- ticismo, Verona, 1884; C. CanToNI, con un’opera di tre grossi volumi, intitolata: Emanuele Kant, e trattanti il primo la Filosofia teoretica, il secondo la Filosofia pra- tica, il terzo la Filosofia religiosa, ecc., Milano, 1884. Degno di ricordo è anche l’insigne collega di Spaventa, cioè A. Tar, il quale scrisse: Del Kantismo, Torino, 1861. A questo novero già lungo di Italiani potrei aggiungerne altri molti, come il Marani, che nella “ Nuova Antologia ,, 1866, scrisse: Del Kant e della filosofia pla- tonica, e in “ Filos. d. Scuole Italiane ,, 1870, scrisse: Kant e lontologia; R. Ma- RIANO, che in “ Atti Accad. Scienze ,, Napoli, 1888, scrisse: ZI ritorno a Kant e i neo-Kantiani ; il MaruRI, il TARANTINO, ed altri. Ma l'allegato è più che sufficiente. Notevolissime fonti sono anche A. TrEnpELENBURG e Kuno FiscHER per i loro giudizii e polemiche intorno a Kant. TRENDELENBURG scrisse: Ueder e. Liicke in Kant's Beweis v. d. ausschliessenden Subjectivitit des Raumes u. der Zeit, e Krit. und antikrit. Blòtt., negli “ Hist. Beitr. zur Philos. ,, II, 1867, pp. 215-276; ed anche: Kuno Fischer u. sein Kant, eine Entgegnung, Leipzig, 1869. Kuxo FiscHeR scrisse (ed anche con riferimento al Trendelenburg): Logik u. Metaph., 2 Aufl., p. 153 ss.; ed inoltre: Anti-Trendelenburg, eine Duplik, Jena, 1870. E, per giunta, in Gesch. d. n. Philos. ha un volume su Kant. 136 PASQUALE D'ERCOLE 6 (DS La polemica tra’ due notevoli scrittori fu seguita e riferita da molti. La riferi in modo molto particolareggiato il Dr. H. Varaiserg, Der Streit 2wisch. Trende- lenburg u. Fischer, Exrcurs in sein. Comment. 2. Kritik d. Reinen Vernunft, pp. 290-326. Notevolissimo per la famosa Cosa in sè è lo scritto di P. Asmus, Das Ich u. das Ding an sich, Gesch. ihrer begriffl. Entwicklung in der mneuesten Philosophie, Halle, 1873. È Non dimenticabile è Eduard von Hartwaxx, che scrisse, oltre al Neukantia- nismus, molte altre cose relative a Kant. E, tacendo di altri moltissimi, ricordo da ultimo due altri uomini, il Paulsen e lo Zeller: il Prof. Fed. Paursex ha uno speciale importante volume intorno a Kant intitolato: Immanuel Kant, Sein Leben u. seine Lehre; lo Zerter poi nel 1872 (in Vortrige und Abhandlungen, Leipzig, 1877, pp. 467-479), coll’accentuare il Riforno a Kant, dette un possente impulso ed incoraggiamento agli studi kantiani. Ed ora è tempo di venire alla Logica kantiana. Di Logiche il Kant non ne ba una sola, ma due: l'una puramente e semplicemente intitolata Logit, che è la logica veramente formale kantiana:; l’altra intitolata Logica trascendentale, che ricorre nella Critica della Ragion Pura. Di queste due Logiche ho già fatto un breve cenno nella * Rivista di Filosofia Neo-Scolastica , (1), e prego il lettore di prenderne notizia. Ma qui ne iratterò più lungamente. specialmente della seconda. La prima Logica, o la formale, fu pensata e scritta in un tempo nel quale in Germania dominava la Filosofia di Wolfio, alla quale s'ispirò l'istesso Kant nel suo primo periodo filosofico ancora dogmatico e antecedente al critico. È però notevole in proposito, rispetto alla Logica formale, una notizia che ci dà il RosexnxRaxz (nelle mentovate Sammiliche Werke kantiane, vol. III, p. vi) e che è la seguente. Cioè, il Kant, come guida del suo insegnamento logico © si ser- “ viva della Vernunftlehre di G. F. Meyer (Halle, 1752), che era uno dei wolfiani di “ maggior gusto, e che da Kant era pregiato in modo speciale .. Intanto, la gran mente di Kant, mai passiva, per una serie di anni, a margine della citata opera del Meyer, fece non poche postille, e dette incarico al Dr. Amedeo Jasche, libero docente all'Università di Konisberga, da lui assai stimato, di pubbli-. care la Logica (Logik) tenendo conto di tutte le predette postille. E Jàsche pubblicò l’opera kantiana nel 1800 (ibid., Rosenkranz, p. 1x). Di quest'opera, che ho dinanzi a me nel nominato III vol. delle Opere, pp. 167-344, ecco alcuni tratti importanti. Kant premette una Introduzione sul Concetto della Logica, e vi ricorrono alcuni principii generali ne’ quali a me sembra di scorgere i germi della stessa concezione Kantiana della futura Logica trascendentale. Eccone un saggio. - “ Tutto nella Natura , tanto inanimata quanto animata (pag. 169) “ avviene “ secondo Regole ,. benchè queste “ non ci sieno sempre conosciute .. La caduta delle acque, il movimento degli animali “ avvengono anche secondo Regole ,. I pesci nel- (1) Vedi in questa Rivista, anno III, 20 giugno 1911, pag. 437 ss., il mio scritto intitolato: Kant quale immediato antecessore di Hegel nella Logica ontologica. 37 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 137 “ l'acqua, gli uccelli nell'aria “ si muovono secondo Regole ,. In una parola “ tutta “la Natura non è propriamente altro che una connessità di fenomeni secondo Regole; “ed in generale non si dà irregolarità di sorta ,. “ Anche l'esercizio delle nostre forze avviene secondo certe Regole, che noi se- guiamo da prima inconsciamente, ma delle quali mano mano, con tentamenti e col lungo uso delle nostre forze stesse, giungiamo a conoscenza ,. “ Come le nostre forze, così è “ anche l'intelletto legato nelle sue azioni (pag. 170) a Regole che possiamo investigare. Sì, l'intelletto è in generale a considerare come la sorgente e la facoltà di pensare Regole. Giacchè, come la Sensibilità è la facoltà delle intuizioni (Anschauungen), così l' Intelletto è Ia facoltà di pensare, ossia di ridurre a Regole le rappresentazioni de’ sensi ,. Queste Regole però “ sono o ne- cessarie (nothwendig) o accidentali (2ufàllig) ,. Inoltre, queste Regole, in quanto accidentali “ dipendono da un determinato obbietto della conoscenza, e sono così “ varie (vielfiltig) come sono gli stessi obbietti ,. Se non che, le predette Regole possono essere anche « priori, cioè possono essere considerate come indipendenti da ogni esperienza, perchè esse, senza distinzione alcuna degli obbietti, contengono soltanto le condizioni dell’uso dell'intelletto, sia questo puro ovvero empirico ,. « « & « E di qui scende la conseguenza, che “le Regole generali e necessarie del pen- sare possono concernere soltanto la forma non la materia del medesimo. Perciò la scienza che contiene queste Regole generali e necessarie è soltanto una scienza della «“ & forma della nostra conoscenza intellettiva o del pensare ,. E “ questa scienza delle Leggi necessarie dell’Intelletto e della Ragione in ge- nere, ovvero — il che è lo stesso — della pura e semplice forma, noi l’appelliamo “ Logica ,. E germi ancor più palesi della futura Logica trascendentale contengono queste ulteriori affermazioni e conclusioni, cui Kant perviene dopo altre considerazioni e discussioni. Che, cioè, “ la Logica (ibid., pag. 175) è una scienza razionale (Vernunft- « « wissenschaft) non secondo la sola forma, ma anche secondo la materia; è una scienza a priori delle leggi necessarie del pensare; però non rispetto ad oggetti speciali, ma rispetto a tutti gli oggetti in genere; è dunque una scienza del retto uso dell’Intel- “ letto e della Ragione in genere; però non in modo soggettivo (subjectiv) (1), ossia non “ secondo principii (psicologici) empirici, siccome l’Intelletto pensa, ma in modo ogget- “ tivo (objectiv) (2), ossia secondo principii « priori, come esso deve pensare ,,. Ciò posto, passa alle principali partizioni (Hauptabtheilungen) della Logica. “ La Logica, dic’egli, vien divisa: “ 1° in Analitica e in Dialettica ,. “ L’Analitica , (ibid., pag. 176) come “ esponente i criterii formali della verità ,, e la Dialettica “ come contenente le note e le Regole, secondo cui possiamo cono- « « « scere ,. 2° Si suole dividere ulteriormente la Logica “in naturale o popolare e arti- “ ficiale o scientifica ,. (1) E noti il lettore che tal modo subbiettivo della scienza è di una scienza che procede e si costituisce soltanto @ posteriori. (2) Qui c'è in germe il pensiero hegeliano della Logica. Serie II. Tom. LXII. 18 138 PASQUALE D'ERCOLE 98° Ma questa Logica, secondo Kant, è errata. “ Perchè la Logica naturale o la “ Logica della Ragion pura (sensus communis) non è propriamente una Logica, ma una “ scienza antropologica, che ha principii soltanto empirici ,, ecc. 3° Un'altra divisione della Logica è quella in “ teoretica e pratica ,, la qual divisione è “ anche errata ,. Giacchè “ la Logica generale, che, qual semplice canone, «“ astrae da qualsiasi oggetto, non può avere una parte pratica ,. 4° La Logica vien anche divisa “ in pura e applicata (reine und angewandte) ,. Nella Logica pura noi segreghiamo l’Intelletto dalle rimanenti forze dell’animo, e questo l’Intelletto già lo fa da sè stesso per suo proprio carattere ed ufficio. La Logica applicata, al contrario, considera l’Intelletto come frammischiato (vermischt) colle altre forze dell'animo, e questo gli può dare un indirizzo storto, che “ non lo “ fa procedere secondo le leggi , 5° La divisione della Logica (ibid., pag. 179) in Logica “ dell’Intelletto comune “ e speculativo (gemeinen und speculativen) , non è una giusta divisione. Giacchè “ V'In- “ telletto comune è una facoltà che vede le Regole della conoscenza in concreto; e la “ Logica dev'essere una scienza delle Regole del pensare în abstracto ,. Fa poscia una scorsa nel campo storico della Logica, ed osserva che “ la Logica “ odierna , origina da Aristotele. “ Il modo didattico (Lehrart) di essa è molto seola- “ stico e considera l’esplicazione de’ più generali concetti, che sono a fondamento della “ Logica, e da cui non si trae alcun utile (Nutzen), perchè ogni cosa riesce a sotti- “ gliezze ,. Accenna ulteriormente all’Organo di Lambert, che ha il difetto di accrescere le usuali “ sottili partizioni ,; a quella di Leibniz; ma pensa che “ la miglior Logica “ che si ha è quella di Wolfio , concentrata dal Baumgarten e ulteriormente commen- tata dal Meyer. Fra’ nuovi logici ricorda il Crustus (pag. 182), “la cui Logica contiene principii metafisici, e quindi oltrepassa i limiti di questa scienza ,. Da ciocchè il grande filosofo pensa delle Logiche di Wolfio e di Crusio, emerge ad evidenza che egli era ancora nel punto di vista della Logica formale e subbiet- tiva e non della sua stessa posteriore Logica trascendentale, reale ed obbiettiva. E ciò, ad onta degli stessi germi di questa seconda Logica innanzi rilevati rispetto alla Logica formale. « Dalla scorsa fatta nel campo della Storia della filosofia si rileva quanto grande e anche abbastanza precisa fosse la conoscenza che Kant avea di questa. Dopo avere accennato alle tre prime Scuole greche, ionica, pitagorica, eleatica, dice che “ la più importante epoca della filosofia greca (ibid., pag. 192) comincia con “ Socrate. Giacchè fu egli che diede un indirizzo pratico del tutto nuovo allo spirito “ filosofico e a tutte le teste speculative ,. E fra tutti gli uomini egli è stato “ quasi il solo che col suo comportamento si è più avvicinato alla Idea del Saggio ,- Accenna al grande discepolo di lui PLATONE, e ai discepoli di quest’ultimo, dei quali “ fu il più celebre ArIsrorELE, che elevò di bel nuovo la filosofia speculativa ,. Dopo altri accenni all’ulteriore filosofia de’ Greci, dice che questa passò ai Ro- mani, i quali però “ rimasero sempre discepoli , de’ Greci (ibid., pag. 194). Fa ulteriori accenni alla filosofia degli Arabi, e degli Scolastici, i quali ultimi, nell’accogliere e illustrare Aristotele, spinsero all’infinito le sottigliezze del medesimo. 39 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 139 Ma un “ miglioramento avvenuto ne’ nuovi tempi la filosofia lo deve, parte, a un maggiore studio della Natura, parte, all’unione della Matematica e della Scienza naturale ,. ® » “ Il primo e maggiore investigatore della Natura nei nuovi tempi fu BAconE pa VeRULAMIO ,, il quale nelle sue investigazioni battè la via dell'esperienza. “ Un servizio non minore rese , alla filosofia speculativa “ CAaRTESIO, coll’ aver molto contribuito alla chiarezza del pensare e allo stabilimento del criterio di verità, consistente nell’evidenza della conoscenza ,. “ Tra i più grandi riformatori della filosofia ai nostri tempi son da annoverare LernIiz e Locke ,. Rispetto a quest’ultimo rileva quel tratto che è divenuto proprio e preminente nella Critica Kantiana: cioò “ Locke cercò di analizzare l’intelletto umano, e di additare quali forze animiche e quali operazioni di esse appartenessero a questa o a quella conoscenza. Però non condusse a compimento il suo tentativo ,, il quale, con tutto l’utile prodotto, ebbe il difetto di “ un procedimento dogmatico ,. Quanto a procedimento dogmatico, “ ebbero lo stesso difetto LerBNIZ e WoLrFIo ,. Rispetto alla Filosofia della Natura, fiorentissima al nostro tempo, “ nessun nome tra gl’investigatori della Natura è maggiore di quello di NEWTON ,. Nella Filosofia morale “ non abbiam progredito rispetto agli antichi ,. Per ciocchè poi concerne la Metafisica, v'è ora una specie di indifferentismo ri- spetto ad essa; si ritien persino “ come un onore di parlar di essa con disprezzo, “ siccome di una scienza di puri e semplici lambiccamenti di cervello (Gribeleien). “ Eppure la Metafisica è la vera e propria filosofia ,. f I k « S'intende bene che Kant pensa ed afferma ciò come ancora accoglitore-e seguace della filosofia di Wolfio. Come altro notevolissimo pronunziato ricorrente in questa Introduzione, vi è quello che costituisce il carattere dominante della filosofia kantiana: cioè (dic’egli ibid. a pag. 196): “ Il nostro tempo (Zeitalter) è il tempo della Critica ,. È dunque espresso il pensiere e metodo del Criticismo; e questo pronunziato, benchè espresso nella Logica formale di Kant, pur certamente ha dovuto appartenere alle ultime po- stille a margine della guida logica del Meyer, innanzi mentovate. A compimento del cenno della Logica formale kantiana, è necessario toccare dell’ulteriore contenuto di essa. Di tal contenuto considera i quattro principali punti di essa, cioè i Concetti, i Giudizii, i Sillogismi e la Metodologia (Methodenlehre), e li considera ne’ “ momenti principali (Hauptmomente, ibid., pag. 203) , della conoscenza, che sono “ la Quantità, la Qualità, la Relazione e la Modalità ,. Sono gli stessi momenti fondamentali della materia considerata nella posteriore Logica trascendentale. La differenza, naturalmente, è che tali momenti nella prima Logica son considerati dal punto di vista formale, nella seconda dal punto di vista reale od ontologico. Un brevissimo cenno di tali momenti secondo la prima Logica è il seguente, e ricorre nelle due parti appellate l’una Generale Dottrina elementare (Elementarlehre), l’altra Generale Metodologia (Methodenlehre). I Concetti. “ Tutte le conoscenze (dic’egli, ibid., pag. 269), ossia tutte le rappre- “ sentazioni (Vorstellungen) riferite consciamente ad un obbietto, sono o Intuizioni “ (Anschauungen) o Concetti (Begriffe). L’Intuizione è una rappresentazione singola; il “ Concetto una rappresentazione generale o riflessa ,. 140 PASQUALE D'ERCOLE 40 E qui comincia una serie di disamine ed osservazioni intorno ai Concetti, in ciascun de’ quali distingue la Materia e la Forma: “la Materia di essi è l’Oggetto, e la “ Forma è la Generalità ,. Inoltre, i Concetti si distinguono in empirici e puri: “ un “ Concetto puro è quello che non è tratto dall'esperienza, ma che sorge dall’Intelletto “ anche rispetto al contenuto ,. Dalle rappresentazioni, sia intuitive sia concettuali, distingue l’Idea, la quale è da lui definita “ un Concetto razionale (Vernunftbegriff), il cui obbietto non può “ ricorrere nell'esperienza , (ibid., pag. 270). Entra in ulteriori particolarità e definizioni rispetto all'origine de’ Concetti, agli atti logici della comparazione, della riflessione e dell’astrazione. Per ciocchè concerne quest’ultima, è notevole la seguente determinazione, cioè: “ Il Concetto più astratto (pag. 274) è quello che non ha niente di comune con qual- “ siasi altro distinto da esso. Tale è il Concetto di Qualcosa (Etwas); giacchè quello “ che da esso è diverso è il Nulla (Nichts) e non ha niente di comune col Qualcosa ,. Seguono ulteriori determinazioni intorno al contenuto ed estensione, al genere ed alle specie, all’ampiezza e ristrettezza de’ Concetti; e ne ometto il riferimento. I Giudizii (Urtheile). “ Un Giudizio (ibid., pag. 282) è la rappresentazione della “ unità della coscienza delle rappresentazioni stesse, ovvero è la rappresentazione del “ rapporto delle medesime, in quanto esse esprimono un Concetto ,. Seguono ulteriori determinazioni intorno ai Giudizii, tra le quali la più impor- tante è la determinazione delle forme logiche di essi secondo la Quantità, la Qualità, la Relazione e la Modalità. Secondo la Quantità i Giudizii sono notoriamente generali, particolari, singolari. Secondo la Qualità sono affermativi, negativi, infiniti. Secondo la Relazione sono categorici, ipotetici, disgiuntivi. Secondo la Modalità sono problematici, assertorii, apodittici. Seguono alcune altre investigazioni e determinazioni intorno ai principii (Grund- séitze) intuitivi e discorsivi; intorno a postulati e problemi, nonchè intorno a teoremi, corollarii, scolii, ecc.; e anche rispetto ai medesimi omettiamo di riferire. Il Sillogismo e la teoria di esso. — Il Sillogismo “ è quella funzione del pensare, “ mediante la quale un giudizio vien derivato (inferito) da un altro. Un sillogismo “è dunque la inferenza di un giudizio da un altro , (ibid., pag. 298). Anche rispetto ai Sillogismi Kant procede ad una serie di distinzioni e relative determinazioni di essi, per es., in quelle di sillogismi immediati e mediati ; sillogismi intellettivi, sillogismi razionali e sillogismi della facoltà critica (UrtheWlskraft), con l’allegamento di regole relative ad essi tutti. Ma anche di ciò non facciamo speciale rapporto, e accenniamo alle Figure sillogistiche. — Kant accenna alle quattro tradizionali Figure sillogistiche (alle tre aristoteliche e alla quarta galenica), rilevando anche come esse sorgano dalla posizione del concetto medio (Mittelbegriff), e accennando le regole mediante le quali esse vengono ridotte alla Prima Figura, che, secondo lui, “ è Za sola regolare (ibid., “ pag. 312), che è fondamento alle rimanenti, ed alla quale, mediante conversione “ delle premesse, vengono ricondotte le altre ,. La Metodologia (Methodenlehre) generale. — “ Ogni conoscenza (dic egli, ibid., “ pag. 327) ed ogni totalità della medesima dev’esser conforme ad una Regola. La 41 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 141 “ irregolarità è irrazionalità (Unvernunft) ,. Ma questa regola è o quella di modo libero, ovvero quella di un metodo obbligatorio. E qui il grande filosofo procede ad una disamina e determinazione della Forma della Scienza in conformità del Metodo; dell’oggetto e dello scopo della Metodologia; della Definizione e delle condizioni logiche della sua compiutezza; della compiutezza (Vollkommenheit) della conoscenza mediante una logica partizione de’ concetti; delle Regole di una partizione logica; della partizione dicotomica e politomica; del Metodo scientifico e del popolare; del metodo acroamatico o dell’erotematico, il quale ultimo è alla sua volta divisibile in socratito e catechistico; e. da ultimo, della meditazione, che, a senso kantiano, per esser buona, dev'essere “ un' pensare metodico , (ein me- thodisches Denken) con accompagnamento di lettura, ecc. Tali sono l’oggetto, lo scopo e i fondamentali punti trattati nella Metodologia ge- nerale, e ometto anche per essi di entrare nelle particolarità; sì perchè queste, come ingredienti della comunale logica formale delle Scuole, sono note; sì anche perchè del senso, dello spirito specificamente kantiano di concepirli, esporli e determinarli, mi sembra di aver detto ed allegato abbastanza nell’anzidetto. Prima però di passare all’esposizione della Logica trascendentale, a compimento del cenno della Logica formale kantiana, debbo ricordare un breve scritto del 1762 di Kant stesso, intitolato: La falsa sottigliezza delle quattro Figure sillogistiche (vol. I delle Opere complete, pp. 35-74). Per buona fortuna posso esser breve anche rispetto a questo scritto kantiano, perchè il pensiere di esso è stato già poco innanzi enunciato, e bastano soltanto alcuni altri tratti per ulteriormente chiarirlo e determinarlo. Kant, come in ogni suo lavoro breve o lungo, procede con un acume ed una ponderazione incomparabili. E anche qui, a giustificazione del suo pensiere, comincia col determinare la natura del giudizio (dovendo ogni sillogismo consistere di giudizi), e de’ sillogismi razionali (Vernunftschliisse), che compiono per eccellenza la funzione sillogistica; ed inoltre col distinguere i sillogismi razionali in puri e misti, e, per giunta, indicando per tutto ciò le corrispondenti regole e i corrispondenti esempi. E dopo aver fatto ciò, afferma ed esprime il suo pensiere così (La falsa sotti- gliezza, ecc., pag. 62): “ Solo nella così detta prima Figura son possibili sillogismi “ razionali puri, nelle tre rimanenti i soli misti ,. Quanto alla quarta Figura poi, osserva (ibid., pag. 64) che “ in questa il modo di concludere è così innaturale (unnatiirlich), e si basa sopra tanti possibili sillogismi intermediarii da pensarsi come interpolati (cingeschoben, interposti), che la Regola, che io dovrei trarne ed esprimere, sarebbe molto oscura ed incomprensibile ,. Egli fa persino contro sè stesso la seguente osservazione, di “ non potersi, cioè, negare che in tutte queste quattro Figure si concluda nettamente. Se non che, è incontestabile che esse, eccetto la prima, determinano la consecuzione soltanto con ambage (Umschueif, giro di parole) e sillogismi infrapposti , (ibid., pag. 67). “ Ma lo scopo della Logica (conclude egli) non è di inviluppare (verwickeln), ma “ di sciogliere e di presentare qualche cosa non in modo coperto (versteck?), ma ocu- “ larmente visibile (augenscheinlich) ,. i A compimento del cenno fatto della Logica formale kantiana in genere, e della “ Falsa sottigliezza delle quattro Figure sillogistiche , in ispecie, rimando il lettore 142 PASQUALE D’'ERCOLE 49, all'importantissimo ed eruditissimo $ 103 della citata opera di F. UeBERWEG, System d. Logik u. Gesch. der logischen Lehren, Bonn, 1874, pp. 278-296, e specialmente a pag. 293, ove si accenna a Wotrro, antecessore di Kant nella quistione, e poi a pag. 294, ove si parla di Kant stesso. E debbo dire che Ueberweg sostiene valida- mente la ragion di essere delle tre Figure aristoteliche, e combatte vittoriosamente l'opinione di Kant. E basti della Logica formale kantiana e veniamo alla Logica trascendentale. La Logica trascendentale. La data più memorabile e ad un tempo più innovatrice dell’epoca e del pen- siere moderno è quella del 1781, nel quale anno vide la luce la Critica della Ragion Pura (Kritik der Reinen Vernunft). Di opere, ed anche grandi e memorabili, Kant ne ha tante; ma senza dubbio la più importante di tutte e che delle altre tutte è fondamento, è questa Critica. Ed è da essa e per essa che il nome di Kant, prima in Germania e poi da per tutto, fu celebrato ed immortalato. FicHte, sempre grande nell'ammirazione, nella concezione e nell'esecuzione del pensiere speculativo, dopo letta e studiata la Critica, andò a Konisberga per cono- scerne l’autore. E, conosciutolo, gli scrive: “ Uomo onorando, io venni a Konisberga, “ per conoscere da vicino l’uomo, cui tutta l’ Europa onora, ma che in Europa tutta “ pochi uomini amano come me , (1). E poco appresso: “ La Sua Grandezza, o uomo “ eccellente, ha innanzi ad ogni altra pensabile umana Grandezza, quel carattere che “ distingue e somiglia la Divinità, che cioè uno si avvicina ad essa con fiducia (Ver- “ frauen) ,. E in altra lettera e in altra occasione gli scrive (Lettere, ibid., pag. 147): “ No, “o uomo altamente importante pel genere umano, i Suoi lavori non tramonteranno, “ essi porteranno ubertosi frutti, che opereranno nel medesimo un nuovo slancio e una * totale rigenerazione (Wiedergeburt) de’ suoi principii, opinioni, costituzioni ,. HeRpER, che udì le lezioni di Kant negli anni 1762-64, diceva che queste “ erano “ ricchissime di pensiere ,, condite da “ scherzi, motti spiritosi ed umorismo , e che costituivano “il più piacevole intrattenimento ,. ; Senza ulteriori citazioni, l'ammirazione e la propagazione della Scuola Critica giunse a tal punto di sublimazione, che pel Baecesen il fondatore di essa valeva “ per un secondo Messia , (2). Ed ora, venendo alla stessa Logica trascendentale di Kant, debbo premettere una importante osservazione; ed è che, l'esposizione della Logica trascendentale è ad un tempo una esposizione, e persino minuta ed integrale, della stessa Critica della Ragion pura. La quale esposizione assolverà un doppio còmpito, da una parte, l'esposizione integrale della Logica trascendentale, dall’altra, quella della Critica della Ragion pura. Il qual doppio còmpito riuscirà tanto più utile, in quanto nel (1) Im Lettere di Kant ed a Kant pubblicate da Scavszzr nel vol. 11° delle Opere complete, pag. 132. (2) Per Herder e Baggesen, vedi F. Uzserwecs-Hemze, Grundriss d. Gesch. d. Philos., opera e volume citati, pp. 237 e 239. 45 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 143 modo come è da me effettuato, non è stato ancora effettuato in altro lavoro italiano antecedente. Veniamo dunque alla Logica trascendentale. È stata già allegata la massima: “ Il nostro tempo è il tempo della Critica ,. Ma questa massima non esprime veramente e propriamente il nuovo pensiere e il nuovo indirizzo, che colla apparizione della Critica della Ragion Pura. Anzi coll’ap- parizione di questa, la predetta massima è stata più ricisamente e più integralmente espressa, e persino con una importantissima giunta rispetto a Religione e Legisla- zione (sociale), come segue: “ Il nostro tempo (così Vol. II, Op. Compl., pag. 4, in “ nota) è propriamente il tempo della Critica, alla quale tutto deve soggiacere. La “ Religione colla sua santità e la Legislazione (sociale, Gesetzgebung) colla sua maestà “ vogliono entrambe sottrarsi ad essa. Ma allora esse suscitano giustamente sospetto “ contro di sè, e non possono pretendere quella sincera stima che la Ragione accorda “ soltanto a ciò che può sostenere il suo libero e pubblico esame ,. È stata parimenti allegata la massima kantiana riferibile alla Metafisica: che, cioè, questa “ è la vera e propria filosofia ,. Ma questa seconda massima, colla fondazione e pubblicazione della predetta Critica, acquista un altro aspetto e un altro senso, in quanto che Kant comincia a dubitare della verità e realtà della Metafisica stessa. Infatti, proprio nella prima Prefazione della Critica, inizia il discorso e l’investi- gazione con queste parole: “ La Ragione umana ha lo speciale destino in una specie “ delle sue conoscenze, che essa è molestata da domande che non può respingere, “ perchè date ad essa dalla natura, e a cui essa non può rispondere, perchè oltre- “ passano la potenza (das Vermigen) della Ragione umana stessa ,. Comincia con prin- cipii (Grundsditzen), a cui “la conduce inevitabilmente l’esperienza ,: sale con essi sempre più in alto (2mmer hoòher); ma le domande non cessan mai. Cade quindi in oscurità, contraddizioni, dispute. “ Il campo di queste incessanti dispute è la Meta- S HGO, co Gli è perciò che quella che un tempo fu detta la Regina delle scienze, è ora come una matrona respinta e abbandonata, che esclama come Hecuba: Modo maxima rerum, tot generis natisque potens, nune trahor exsul inops (Ovip., Metam.). “ Il suo dominio (osserva e scrive egli ulteriormente), sotto il governo de’ Dog- “ matici, era dispotico ,. Ma, in conseguenza di guerre intestine (imnere Kriege), “ de- “ generò in piena Anarchia, e gli Scettici, che paventano ogni persistente edificazione “ del suolo, scissero di tempo in tempo l’unione sociale ,. Kant non solo pensa, investiga e determina le cose in modo ammirabile, ma le scrive e descrive in modo altrettanto stupendo ed ammirabile. Intanto il pensiero di Kant intorno alla Metafisica non è neppure sì dubitoso e sì poco confortante, come apparisce da’ luoghi allegati. E potrei dire che egli stesso non è pienamente conscio della rivoluzione che inizia ed effettua non solo intorno alla Logica, ma anche intorno alla Metafisica. Giacchè la prosecuzione del suo pensiere e della sua opera critica via via perverrà alla indispensabile unione di Logica e Meta- fisica, e quindi alla immediata preparazione della susseguente Logica hegeliana. Rispetto alla Critica sono di notevole importanza due altre cose, concernenti 144 PASQUALE D’ERCOLE 44 l’una la Prima edizione dell’opera, l’altra il principio della Subbiettività accentuan- tesi in essa. Quanto alla Prima edizione, filosofi e storici della filosofia sono in genere con- cordi nell’affermare (per es., Jacobi, Schopenhauer, Herbart, Michelet, Rosenkranz ed altri) che essa contiene e rivela il vero carattere speculativo, sì idealistico che critico, del Kant. Nelle posteriori edizioni, invece, Kant soppresse molti luoghi, ed altri mutò in conseguenza di aspre critiche ed opposizioni fattegli: le quali gli facevano il “ rimprovero che la sua dottrina fosse non altro che un rinfrescato Idealismo Berke- “ leyano , (vedi vol. II, Op. Complete, pag. XI). Ma con tali soppressioni e muta- menti, rileva ScHoPENHAUER (ibid.), “ Kant ha mutilata, sfigurata (verunstaltet), gua- “ stata la sua opera , a danno del predetto carattere. Quanto al principio della Subbiettività, quello che lo rileva è C. L. Michelet (1). Ma per intendere l’importanza di ciò, debbo premettere il luogo, al quale il Michelet fa seguire il rilievo di tal principio. Il luogo ricorre non nella Critica d. R. P., ma ne’ Prolegomena zu einer jeden kinftigen Metaphysik, pubblicati 16 anni dopo, nel DIE (2). Or bene, in questi Prolegomeni Kant disse: “ Finora si ammetteva che ogni nostra conoscenza dovesse conformarsi (sich richten, adattarsi) agli oggetti: ma “ tutti i tentativi fatti a priorî su questi per esprimere qualche cosa mediante Con- cetti, coi quali si potessero estendere (erweîtern) le nostre conoscenze, fallirono con una tale presupposizione. Si tenti perciò una volta, se nel compito della Meta- “ fisica non sarebbe meglio di progredire, ammettendo che gli oggetti debbano con- formarsi alla nostra conoscenza: il che si accorda meglio colla richiesta possibilità “ di una conoscenza di essa a priort. ..... Facendo così, faremmo secondo il primo pen- “ siere di Copernico, il quale, non potendo riuscire a spiegare i movimenti celesti “ammettendo che tutto il cielo stellato girasse intorno allo spettatore, tentò, se non “ si riuscisse meglio, quando lo spettatore girasse e le stelle invece stessero ferme “ (in Ruhe) , A tale stupendo luogo il Michelet fa seguire l’ osservazione, che “il rile- “ vare la Subbiettività del pensiere è a riconoscere come un merito imperituro “ della Filosofia kantiana. Non vi sarebbe mancato nulla, se Kant, riconducendo “ la sorgente della conoscenza all’interiorità dello spirito umano, avesse distrutta quella divisione (Scheidewand, muro divisorio) tra il Pensare e la Cosa in sè, che soltanto talvolta sembra vacillare (wanken) nel suo Sistema. In sè però (an sich) o inconsciamente (dewusstlos) (3) quella divisione è distrutta, in quanto la Cosa “ in sè, nella sua verità, a noi non si presenta altrimenti che come un Pensiero n » I ® ES R “ vuoto, un’astrazione dell’Intelletto ,. Ma io fo ulteriormente osservare che, per quanto il mio venerato maestro ed amico Michelet abbia fatto egregiamente ad allegare il luogo de’ Prolegomeni, nel quale la Subbiettività è espressa ed accentuata in modo sì chiaro e riciso, pur non manca l’istessa Critica della Ragion Pura di accennarla in modo abbastanza notevole. (1) Nella mentovata Gesch. d. Zeteten Systeme d. Philos. in Deutschland, Berlin, 1837, vol. I, p. 49. (2) Tal luogo è riportato anche al vol. II delle Opere edite da RosenKRANZ, ecc. ne' Supple- menti, pag. 670. (3) An sich è qui adoperato dal Michelet nel senso hegeliano, cioè nel senso di virtualmente, che è da lui agguagliato all’inconsciamente, o alla mancanza di coscienza saputa come tale. 45 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 145 Infatti, a pag. 644 della medesima, Kant dice: “ Se io fo astrazione da ogni contenuto della conoscenza, obbiettivamente considerato, ogni conoscenza è subbiet- “ tiva, sia storicamente, sia razionalmente. La conoscenza storica è cognitio ex datis, K x ma la conoscenza razionale è cognitio ex principtis. Una conoscenza, quale pur “ siasi la sua origine, in chi la possiede è storica, ..... provenga in lui questa da “ esperienza immediata, o da racconto od anche da istruzione (Belehrung) ,. E fa di ciò un'applicazione quasi contro di sè, facendola ad un tempo al Sistema filo- sofico Wolfiano da lui appreso e seguito. Giacchè, in continuazione ei soggiunge: “ Perciò colui che ha appreso (gelernt, imparato) un Sistema della Filosofia, per es., “ il wolfiano, benchè abbia nella testa tutti i principii (Grundsdtze), schiarimenti e “ dimostrazioni congiuntamente a tutto l’edifizio dottrinale, e possa noverare (abzéQlen) “ ogni cosa sulla punta delle dita, pur non ha se non la conoscenza compiuta storica “ della Filosofia Wolfiana; egli sa e giudica tanto quanto gli è stato dato ,. Vuol con ciò dire che il possessore e riproduttore di tal conoscenza storica, è ancora fuori della Conoscenza critica iniziata e fondata da lui appunto con la Cri- GICOMOERAE) Ed ora è tempo di passare alla esposizione del contenuto di quest’ultima. Quanto ai punti considerati di questo contenuto, abbiamo già visto innanzi che essi sono i medesimi nella Logica formale e nella trascendentale, cioè i Concetti, i Giudizii, i Sillogismi e la Metodologia. La differenza è nel modo di concezione e di trattazione. Di tal modo stesso quello costitutivo della Logica formale è stato già espresso e delineato ne’ suoi tratti fondamentali: quello costitutivo della Logica tra- scendentale nel general carattere critico, idealistico, subbiettivo è stato pure rilevato. Ora bisogna passare alle particolarità della Logica trascendentale stessa, e nel far ciò seguiremo passo a passo Kant nella effettuazione e sistemazione del suo pensiere. Una delle cose più memorabili rispetto all’origine e costituzione del Criticismo è la lettura e lo studio di quel trattato di Davide Hume, che interruppe il sonno dogmatico di Kant. Questi, infatti (nella 2* ediz. della Critica, come riferisce Michelet nella citata sua opera Gesch. d. leteten Syst. d. Philos. in Deutschland, 1 Th., pag. 43), scrisse: “ Il ricordo di Davide Hume fu appunto ciocchè molti anni fa m’interruppe “ la prima volta il sonno dogmatico, e dette un tutt'altro indirizzo alle mie ricerche “ nel campo della filosofia speculativa ,. A questo luogo kantiano Michelet fa seguire, da una parte, una sua notevole osservazione, dall’altra, un passo importantissimo della 6? edizione fatta da Kant della Critica d. R. P. L'osservazione del Michelet è, che Kant dal proprio punto di vista dogmatico- metafisico combinato coll’elemento scettico di Hume procedette “ alla fondazione di “una più alta Metafisica ,. E conferma la sua osservazione coll’allegamento del predetto passo, che è il seguente: “ Per ciocchè concerne (così Kant) gli osservatori “ di un metodo scientifico, essi han qui la scelta di procedere sistematicamente sia “in modo dogmatico, sia in modo scettico, in ogni caso poi di unire insieme (Ver- “ bindlichkeit) l'uno e l’altro modo. Se io, rispetto al primo modo nomino Wolfio, e “ rispetto al secondo Hume, posso, secondo il mio presente avviso, tralasciare di fare altri nomi. La via che rimane ancor soltanto aperta è la via critica. Se il let- “ tore avrà avuta la cortesia e la pazienza di percorrere tal via insieme con me, Senie Il. Tox LXIL 19 & 146 PASQUALE D'ERCOLE 46 “ può ora giudicare, ove gli piaccia, se non voglia contribuire ad allargare questo “ sentiero a strada regia (diesen Fusssteig zur Heerstrasse zu machen), per far sì che “ ciocchè non potettero effettuare (leisten, fare) molti secoli possa essere raggiunto prima “ che scorra il presente: in altri termini, a far sì che l’umana Ragione giunga a pie- “ namente soddisfare quel desiderio di sapere, che sempre ebbe e rimase finora pur “ sempre insoddisfatto ,. Seguendo il Kant nelle sue ricerche, incontriamo subito in una Introduzione (Einleitung) alla Filosofia trascendentale parecchie cose, la cui. notizia e determina- zione son della massima importanza. La prima di queste è quella concernente l’Esperienza (Erfahrung), intorno alla quale si esprime così: “ L’Esperienza è senza dubbio il primo prodotto dell’Intel- “ letto, in quanto questo elabora la materia greggia de’ sentimenti sensibili (sinn- “ liche Empfindungen) ,: sentimenti sensibili che in fondo son quelli che comune- mente appelliamo sensazioni. “ Essa (Esperienza) è perciò il primo ammaestramento “ (Belehrung), che nel suo ulteriore sviluppo diventa inesauribile nella produzione di “ nuova istruzione ,. Se non che il campo dell’Esperienza è limitato, in quanto essa ci dà notizia “ di ciocchè soltanto è, e non di ciocchè debba essere necessariamente così e non “ altrimenti ,. Una seconda cosa congiungentesi alla prima e progressiva rispetto a questa stessa è che, perchè la Ragione umana possa pervenire a conoscenze veramente sod- disfacenti, queste debbono avere due caratteri essenziali, cioè quelli di gereralità e di necessità. “ Tali conoscenze generali, che debbono avere anche il carattere di inte- “ riore necessità, debbono essere indipendenti dall’Esperienza, chiare e certe per sè “ stesse; e perciò si chiamano conoscenze a priorî, mentre, al contrario, ciocchè si “ toglie a prestanza dall’Esperienza, secondo la comune espressione, si chiama «& “ posteriori, ovvero empirico ,. Ma una terza cosa “ oltremodo maravigliosa è che nelle nostre Esperienze si “ mescolano (sich mengen) conoscenze, che debbono avere la loro origine @ priori, e che forse servono a procacciare un legame alle nostre rappresentazioni (Vorstel- “ lungen) de’ sensi. Giacchè, se dalle prime si toglie tutto ciocchè appartiene ai “ sensi, rimangon pur sempre certi Concetti originarii e certi giudizii prodotti da “ questi, che debbono esser sorti interamente a priori, indipendentemente dall’Espe- rienza ,. Di siffatte conoscenze, dic’egli (ib., pag. 19), £ ci porge un luminoso “ esempio la Matematica ,, la quale così ci prova “ quanto innanzi noi possiamo “ giungere in esse a priori indipendentemente dalla Esperienza ,. Ciocchè è testè esposto ci conduce ad una quarta cosa di non minore impor- tanza e pur congiunta intimamente colle anzidette, cioè alla distinzione de’ Giudizii in analitici e sintetici. Eeco come l’immortale filosofo li distingue e determina. “In tutti i Giudizii (dic’egli, ibid., pag. 21), ne’ quali è pensata la relazione “ di un Subbietto col Predicato (prendendo in considerazione soltanto i Giudizii affer- “ mativi; giacchè l’applicazione ai negativi è facile), questa relazione è possibile in “ due modi. 0 il Predicato B appartiene al Subbietto A siccome qualche cosa che “ è contenuta (in modo ascoso, versteckter Weise) in questo concetto A; ovvero B è “ interamente fuori (liegt ganz ausser) del concetto A, benchè però sia in legame n 47 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 147 « (Verbindung) con esso (1). Nel primo caso io chiamo il giudizio amaQitico, nel se- “ condo sintetico ,. Nei Giudizii analitici il collegamento (Verkniipfung) del Predicato col Subbietto è pensato come avvenente mediante identità; ed invece son sinteticì que’ Giudizii, nei quali il collegamento è pensato come avvenente senza identità. “I primi pos- “ sono essere anche appellati Giudizii di schiarimento (Erlduterungs-), gli altri, Giu- dizii di estensione (Erwezterungs-Urtheile), perchè quelli mediante il Predicato non aggiungono nulla al concetto del Subbietto, ma sciolgono questo stesso, mediante smembramento (Zergliederung, cioè mediante analisi), nei suoi concetti parziali (Theilbegriffe), che eran pensati (benchè confusamente) esistenti nel medesimo. Gli altri, al contrario, aggiungono al concetto del Subbietto un Predicato che non era pensato in esso, e che non avrebbe potuto esser tratto fuori mediante nessuno smembramento (Zergliederung, analisi). Per es., quando io dico: Tutti i corpi sono estesi, questo è un Giudizio analitico; perchè io non ho bisogno di uscire dal con- cetto che unisco alla parola corpo, per trovare l'estensione come congiunta col medesimo..... A] contrario, quando dico: Tutti i corpi sono pesanti, il Predicato è tutt'altra cosa di quel che io penso nel semplice concetto di un corpo. L'aggiun- gimento di un tal Predicato produce dunque un Giudizio sintetico ,. Dalla. distinzione e determinazione de’ Giudizi analitici e de’ sintetici trae la conseguenza, che coi primi la nostra conoscenza non si estende, e ne’ secondi, “ oltre “ al concetto del Subbietto, io debbo avere qualche altra cosa (X), su cui si ap- “ poggia l’Intelletto per conoscere come appartenente a quel Subbietto un predicato “ non esistente nel medesimo ,. « R R Questo punto dell’X incognita diventa ora per Kant una delle cose più impor- tanti della Critica della È. P., e importante sopratutto per i Giudizii sintetici @ priori. Dico sopratutto per questi ultimi, perchè “ ne’ Giudizii empirici o sperimentali non “ v'è difficoltà di sorta, in quanto che quest’X è la compiuta esperienza dell’Ob- “ bietto, che io penso mediante il concetto A, concetto A, che non è altro se non “ una parte dell’esperienza stessa ,. ..... Ma ne’ Giudizii sintetici a priori la cosa è interamente diversa. Giacchè, “ se io (ibid., pag. 23) esco dal concetto A per cono- “ scere un altro B che è con esso congiunto, che cosa è mai quello su cui mi ap- “ poggio, e per cui divien possibile la sintesi, non avendo io il vantaggio di rivol- germi all'esperienza per scoprirlo? Si prenda la proposizione: Tutto ciocchè avviene ha la sua cagione. Nel concetto di ciocchè avviene io penso bensì un esistente (ein Dasein), cui deve precedere un tempo, ecc., e da cui si lasciano trarre Giudizii analitici. Ma il concetto di una cagione mostra alcun che di diverso da quel che « 4 (N (1) Richiamo l’attenzione del lettore su questa espressione del Kant, che, cioè, B, uno degli elementi del Giudizio, sia interamente fuori dell'altro elemento, che è A. A modo mio di vedere, se fosse interamente fuori, mancherebbe tra loro quel legame, che Kant pur vuole e dice esistente. To eredo che Kant, sempre preciso e determinatamente esprimente i suoi pensieri, qui sia stato poco preciso. E il suo yero pensiere a me sembra questo, che cioè il legame vi sia tra i due, ma vi sia, come egli stesso dice, in' modo ascoso (versteckter Weise): od anche cke vi sia, ma non in ‘ modo da essere scorto immediatamente, bensì mediatamente, come avviene, per es., nel rapporto di causa e di avvenimento, esprimentesi col dire: Ciocchè avviene ha una cagione. 148 ; PASQUALE D'ERCOLE 48 “ avviene, e non è punto contenuto nel medesimo ,. Come giungo io ora a tal diverso concetto di cagione? e quale è l’X a cui l'Intelletto si appoggia per giungervi? Tanto più per Kant questo innegabile fatto è importante, in quanto esso con- tiene ed esprime una conoscenza, da una parte generale, dall’altra necessaria: cioè contiene ed esprime due elementi conoscitivi aprioristici, che son più larghi e più fondati di quel che l’esperienza può offrire. E qui Kant pone e risolve quel famoso quesito, che costituisce il pensiere nuovo, grande ed imperituro della sua Critica della R. Pura, cioè: “ Come son possibili i “ Giudizii sintetici a priori? , Il significato di tal quesito e soluzione è che Kant pone e risolve il massimo problema filosofico, cioè quello della siînfesi, ossia dell'unione dello sperimentale e del sovrasperimentale, del sensibile e del soprasensibile, dell’a posteriori e dell’a priori, del reale e dell'ideale, dell’oggettivo e del soggettivo, dell’identico e del di- verso, della logica e della metafisica, ecc.; massimo problema che può anche esser designato come il problema della relazione e conciliazione de’ principii contrarii. E si comprende e scorge subito ad un tempo che Kant diviene il padre spiri- tuale generatore di tutti i grandi filosofi a lui posteriori: di FicHTEe, che dall’Io finito e relativo kantiano perviene ad un Io infinito ed assoluto, e che con processo eri- tico-dialettico pone quest’'Io, gli contrappone il Non-Io, e compone, ossia sintetizza l’uno e l’altro nell’'Io stesso come essente ed esprimente l’universale realtà; di SczeLLING, che, movendo dal principio della fagione assoluta (che, in fondo, è la Ragion pura kantiana allargata ed obbiettivata), la concepisce e descrive come l’as- soluta indifferenza dell’Ideale e del Reale, del Soggettivo e dell’Oggettivo, dello Spi- rito e della Natura, ecc.; di Heeer, che allargando l'Io relativo kantiano, l'Io asso- luto fichtiano e la Ragione assoluta schellinghiana all’Idea assoluta, fonda l’universale Idealismo assoluto, dialetticamente e tricotomicamente esplicantesi ed organantesi a sistema assoluto come Idea logico-ontologica, Idea naturale e Idea spirituale; di HerBarr, che all’/Zealismo kantiano-fichtiano-schellinghiano-hegeliano oppone un Rea- lismo (coadiuvato nella opposizione realistica da Fries e BeNEKE), col quale, movendo dalla elaborazione de’ concetti, e trovando in questi delle contraddizioni, li chiarisce e rettifica mediante la Metafisica, la quale ultima, esaminando l'apparenza delle cose, trova in questa l’accenno all'essere, e si eleva così a quei tali Reali, che sono gli ele- menti primigenii, veri ed immutabili delle cose apparenti e mutabili; di SCHOPENHAUER, che, collegandosi ai filosofi tedeschi predetti, anche nella opposizione ad essi afferma il principio universale della Volontà esplicantesi, costituentesi e comprendentesi come l'assoluta realtà, da prima inconscia, poi mano mano divenente conscia; di Lorze che, riattaccantesi, da una parte, all’antecedente filosofo tedesco Leibniz, dall'altra, agli ultimi filosofi tedeschi predetti, nel suo Microcosmo concepisce ed effettua una specie di Monadismo spiritualistico, nel quale come elemento supremo egli pensa esi- stente la stessa Divinità siccome infinita personalità; di EpuARDO von HARTMANN, che, ricongiungendosi a Kant e ai posteriori filosofi nominati in genere, e a Scho- penhauer ed Hegel in ispecie, pone qual principio dell’universale realtà l’Inconscio, che esplicandosi in questa si fa successivamente e gradatamente conscio; della riper- cussione ed influenza delle concezioni kantiana, fichtiana, schellinghiana, hegeliana in tutta la filosofia europea (ed ora persino nell’americana), e, naturalmente, nella 49 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 149 stessa filosofia italiana, come sì vede cominciando dai grandi pensatori Rosmini e Gioberti, e continuando, con speciale riattacco alla filosofia hegeliana con Vera, Spaventa e seguaci di questa fino ai giovani Gentile e Croce nell'Italia meridionale, ed estesasi anche all'Italia settentrionale con Pietro Ceretti, una delle grandi per- sonalità filosofiche hegeliane. Chiedo venia al lettore di questa digressione dalla esposizione di Kant, ma essa era opportuna sì per meglio intendere la rivoluzione operata dal Criticismo kantiano, sì per conoscerne l'ulteriore esplicazione, la propagazione e le conseguenze. Ritorno all'esposizione del contenuto della Critica della Ragion Pura. Feci già notare come esso si divida in Dottrina elementare trascendentale e Metodologia tra- scendentale. Feci anche notare che la prima di queste due si divide in Estetica tra- scendentale e Logica trascendentale, e che la Logica trascendentale alla sua volta si suddivide in Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale, Analitica che è una ritrattazione, però in modo critico, di quel contenuto, che fu l’oggetto dell’Ana- litica di Aristotele, e Dialettica, che è una ritrattazione, parimenti in modo critico, della Dialettica di Platone. Feci innanzi ulteriormente notare quale è l’oggetto del contenuto della Metodologia trascendentale. Il mio còmpito ulteriore è di entrare nelle particolarità e nel modo di trattazione di queste diverse parti, e comincio da quella dell’Estetica trascendentale. L’ Estetica trascendentale. — La natura dell’Estetica trascendentale, l'oggetto e la scienza di essa versano e poggiano interamente sulla Sensibilità. La quale sensibilità è tanto più importante, in quanto senza di essa non divengono possibili le funzioni deli’ Intelletto e della Ragione nella costituzione e produzione de’ Concetti e delle Idee. “ La Sensibilità poi, quale pur sia il modo e il mezzo di una conoscenza relativa “ agli oggetti ,, ha per inizio e base fondamentale la intuizione (die Anschauung). La quale però ha luogo “ solo in quanto l'oggetto ci è dato ,: il che, d'altra parte, divien possibile “ solo in quanto l'oggetto affetta (afficire) in certa guisa il senti- “ mento (das Gemiith) ,. Ed in genere “ la capacità (Fahigkeit, Receptivitàt) di otte- “ nere rappresentazioni ( Vorstellungen) mediante e secondo il modo di essere affetti dagli “ oggetti si chiama Sensibilità , (loc. cit., pag. 31). A complemento di questo punto, il grande filosofo soggiunge: “ L'azione di un “ oggetto sulla capacità rappresentativa (Vorstellungsfihigkeit), in quanto siamo af- “ fetti dal medesimo, è la sensazione (Empfindung). La intuizione, che si riferisce “ all’oggetto mediante sensazione, si dice empirica. L'oggetto indeterminato di una “ intuizione empirica si dice fenomeno (Erscheinung) ,. “ Nel fenomeno, prosegue Kant, chiamo Materia ciocchè corrisponde alla sensa- “ zione; chiamo poi Forma ciocchè fa sì che la varietà (das Mannigfaltige) venga “ ordinata in certi rapporti ed intuita ,. Se non che, “ come ciò in cui le sensazioni “ si ordinano e possono essere rappresentate in una certa Forma, non può essere di “ bel nuovo sensazione, così la Materia di ogni fenomeno ci vien data bensì « poste- “ riori, ma la Forma di essa dev’esser già a priori nel sentimento, e quindi deve « poter essere considerata separatamente (abgesondert, segregata) da ogni sensazione ,. Come risultato dell’anzidetto il Kant perviene alla determinazione della Estetica trascendentale, cui egli definisce “ la Scienza di tutti i principii a priori della Sen- 4 sibilità , (ib., pag. 32). 150 PASQUALE D'ERCOLE 30 Di codesta Scienza sono elementi fondamentali lo Spazio ed il Tempo, de’ quali il filosofo passa ad indicare la natura e la funzione. Lo Spazio. — “ Lo Spazio (dice Kant, ib., pag. 34) non è un concetto empi- “ rico che possa esser tratto dalle nostre esperienze. Giacchè, perchè certe sensazioni £ possano essere riferite a qualcosa fuori di me (ossia, a qualcosa che è in un luogo « dello Spazio, in cui mi trovo) , in diverse posizioni, in diversi luoghi, ecc., è neces- sario che già vi sia “ a fondamento di ciò la rappresentazione dello Spazio , stesso. Ciò vuol dire che “lo Spazio è una necessaria rappresentazione a priori, che è “ a fondamento delle nostre rappresentazioni tutte ,. “ È su tale necessità a priori “ che si basa la certezza apodittica di tutti i principii (Grundsdtze) geometrici e la “« possibilità delle loro costruzioni a priori. Se questa rappresentazione dello Spazio * fosse un concetto acquisito a posteriori, desunto dalla generale esperienza esteriore, “i primi principii matematici non sarebbero che percezioni ( Wahrnehmungen) (1), che “ avrebbero perciò tutta l’accidentalità della percezione; e non potrebbe quindi esser necessario che tra due punti vi fosse una sola linea retta ,, ecc. Lo Spazio è una inzuizione pura, che può esser “ rappresentata siccome una grandezza infinita , (unendliche Gròsse, ib., pag. 36). Ad ulteriore schiarimento e determinazione, il filosofo di Konisberga dice che lo Spazio non è altro che la forma di tutti i fenomeni (Erscheinungen), cioè la “ condizione subbiettiva della sensibilità colla quale soltanto ci è possibile una in- “ tuizione esteriore ,, condizione che “ dev'essere 4 priorî nel sentimento ,. E da ultimo, per far intendere in tutta la sua ampiezza e determinazione ciocchè n n sia lo Spazio, Kant, dopo altre discussioni in proposito, soggiunge (ib., pag. 38): “ Le nostre discussioni insegnano la realtà (vale a dire la oggettiva validità) dello “ Spazio rispetto alle cose, quando queste vengono esaminate (erwogen, apprezzate) “ in sè stesse mediante la Ragione, ossia indipendentemente dalla natura (Beschaffen- “ heit) della nostra sensibilità. Noi sosteniamo così la realtà empirica dello Spazio “ (rispetto ad ogni esperienza possibile), comunque ad un tempo noi ammettiamo la “ trascendentale idealità del medesimo, ossia, che esso sia un Nulla (Nichfs sey), ap- “ pena che togliamo via la condizione della possibilità di ogni esperienza, e lo con- “ sideriamo come qualcosa in fondo alle cose stesse .. Vuol dire, insomma, che lo Spazio è una realtà e ad un tempo una trascendentale idealità, ma non è però qual- cosa di realmente esistente nelle cose in sè stesse, sibbene è qualcosa in noi stessi, e propriamente una rappresentazione subbiettiva. Il Tempo. — © Il Tempo (come lo Spazio, ib., pag. 40) non è un concetto empi- rico, che possa esser tratto da una qualche esperienza. Giacchè la contemporaneità o la successione (das Zugleichseyn oder Aufeinanderfolgen) non si mostrerebbe nella percezione, se in fondo a questa non vi fosse la rappresentazione del Tempo. Sol con siffatta presupposizione del Tempo noi possiamo rappresentarci che alcunchè sia nel medesimo tempo (zugleich), ovvero in tempi diversi ,. E qui in grosso Kant ripete pel Tempo le cose affermate per lo Spazio; naturalmente però nell’or- dine delle cose attinenti al Tempo. Infatti, egli dice che “il Tempo è una rappresentazione necessaria, che è in & x « 2° [4 (1) Per le quali Wahrnehmungen Kant intende percezioni sensibili. 51 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 151 “ fondo a tutte le intuizioni ,. E perciò “il Tempo è dato @ priori. Solo nel Tempo “ è possibile ogni realtà de’ fenomeni. Questi posson tutti sparire, ...ma il Tempo “ stesso non può esser soppresso (aufgelroden) ,. Inoltre, “ su questa necessità « priorî si fonda anche la possibilità di principii “ (Grundsdtze) apodittici nelle relazioni del Tempo, ovvero di assiomi del Tempo in “ genere. Esso ha una sola dimensione: Tempi diversi non son contemporanei, ma “ successivi (mentre Spazii diversi non sono l’uno dopo l’altro, ma sono nel mede- “ simo tempo, eugleich). Questi principii non possono esser tratti dall’esperienza, “ perchè questa non darebbe nè stretta generalità nè certezza apodittica ,. «“ Il Tempo non è un concetto discorsivo (ibid., pag. 41), o, come lo si appella, “ un concetto generale, ma è una forma pura (reine Form) della intuizione sensibile. “ Tempi diversi son soltanto parti del medesimo Tempo. La rappresentazione però, “ che può esser data da un solo oggetto, è una intuizione ,. “ La infinità del Zempo non significa altro se non che ogni grandezza determi- “ nata del Tempo è possibile soltanto colla limitazione (Einschrinkung) che è in fondo “ al Tempo stesso. Perciò la rappresentazione originaria di Zempo bisogna che sia “ data come illimitata ,. Dalle quali cose stabilite il grande filosofo (come per lo Spazio) inferisce che “ il Zempo non è qualcosa che sia per sè esistente, ovvero sia annessa alle cose “come una determinazione obbiettiva (ib., pag. 42) ,, ...ma “ è la condizione sub- “ biettiva, in virtù della quale possono aver luogo in noi tutte le intuizioni ,. “ Il Tempo non è altro che la Forma del senso interno, cioè dell’intuizione di “ noi stessi e del nostro stato interno. Giacchè il 7'empo non può essere una deter- minazione di fenomeni esterni; esso non appartiene nè ad una figura, nè ad una “ posizione, ecc.; al contrario, esso determina la relazione delle rappresentazioni nel R [a nostro stato interno ,. Se noi facciamo astrazione da ogni intuizione sì di cose a noi interne che di cose a noi esterne, “ il Tempo non è nulla (die Zeit ist nichts). Esso è di validità “«“ obbiettiva soltanto rispetto ai fenomeni, perchè noi ammettiamo questi come oggetti “ de’ nostri sensi. Ma esso non è più obbeettivo, quando facciamo astrazione dalla na- “ tura sensibile (Sinnlichkeit) della nostra intuizione, epperò di quel modo di rap- “ presentazione (Forstellungsart) che ci è proprio, ed in generale parla di cose ,. Ciocchè ha detto della realtà e della trascendentale idealità dello Spazio, lo dice anche del Tempo. Infatti, “ le nostre affermazioni insegnano, conformemente all’an- “ zidetto (demnach), la realtà empirica del Tempo, cioè la sua obbiettiva validità ri- “ spetto agli oggetti, che possano esser dati ai nostri sensi ,. ...Ma, all'incontro, “ proprietà che competono alle cose in sè stesse non possono esserci mai date per “ mezzo de’ sensi. Ed è in ciò che consiste la idealità trascendentale del Tempo, se- “ condo la quale il Tempo, se facciamo astrazione dalle condizioni soggettive della “ intuizione sensibile, non è nulla (nichts ist), ecc. ,. A ciocchè è detto intorno all’ Estetica trascendentale, il Kant fa seguire, a schiarimento e a rimozione di equivoci, alcune altre considerazioni; ma in queste non si aggiungono cose nuove. Ed io, tenendomi all’anzidetto, che è l’essenziale e costitutivo, passo a dire della Logica trascendentale. ur I 152 PASQUALE D'ERCOLE II. La Logica trascendentale. Rispetto alla Logica trascendentale alcune cose essenziali sono state già riferite innanzi, e non ritorno su di esse. Che essa si distingua in due speciali trattazioni, in quella della Analitica trascendentale e in quella della Dialettica trascendentale è stato pur detto, ma passo ora a dire della speciale natura di ciascuna delle due, esponendo il proprio, caratteristico ed importante delle medesime. cominciando dal- l’ Analitica. L'Analitica trascendentale. — Nella esposizione di questa, è necessario di rife- rire innanzi tutto alcuni punti cardinali concernenti la sua concezione e trattazione, i quali Kant delinea come segue. “ Questa Analitica (dic'egli, loc. cit., p. 66) è la scomposizione (Zergliederung) “ dell'intera nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura intellet- “ tiva. Rispetto a ciò sono importanti le quattro seguenti cose: 1° Che i concetti # sieno puri e non empirici; 2° Che essi non appartengano alla intuizione ed alla “ sensibilità, ma al pensare ed all’intelletto: 3° Che essi sieno concetti elementari, “ e sien distinti dai lor derivati, ovvero da’ composti che ne risultino ; 4° Che la loro “ Tavola sia compiuta, e che riempiano interamente tutto il campo dell’ Intelletto puro .. Ed inoltre, “ questa parte della Logica trascendentale (cioè la Analitica) costi- tuisce due Libri, di cui l’uno contiene i concetti, l’altro i principiî (Grundsàùtze, “ massime) dell’Intelletto puro .. Venendo alla considerazione del primo Libro rileva che © per Analitica de’ con- * cetti (ibid., p. 67) egli non intende l’Analisi di questi,..... ma l’ancor poco tentata “ scomposizione (Zergliederung, analisi) della facoltà intellettiva stessa, per ricercare la possibilità de’ concetti a priori, sì che li cerchiamo nell’Intelletto solo, come nella lor fonte di nascita, e ne esaminiamo specialmente il lor puro uso. Giacchè “ è questa propriamente la bisogna (Geschdft) di una Filosofia trascendentale: il resto “ è trattamento logico de’ concetti nella Filosofia in genere .. Passando alla più determinata funzione dell’ Intelletto puro, dice che questo, a distinzione della conoscenza sensibile, che è intuitiva. © è conoscenza discorsiva (ibid., “ p. 69. discursir) mediante concetti ,. E in modo più speciale l’Intelletto è per eccel- lenza funzione giudicativa, per forma che “ l'Intelletto (ibid., p. 70) può esser rap- “ presentato come una facoltà di giudicare ,. E come giudicare, far giudizii, non è possibile altrimenti che mediante concetti contenuti come elementi ne’ giudizii stessi; così la bisogna principale dell’ Analitica è quella di conoscere e fissare questi ele- menti, ossia questi concetti contenuti ne’ giudizii stessi. Come si comporta Kant nella effettuazione di tal bisogna ? Si comporta ricor- rendo a quella classificazione di giudizii già fatta da Aristotele e dalle logiche for- mali aristoteliche posteriori. Solo che egli fa un elenco più compiuto e più corrispon- dente alla natura categorica dell’ Intelletto puro. n 53 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 1593 Abbiamo già visto ed allegato che Kant distingue i giudizii in quattro categorie fondamentali, cioè quelle di Quantità, Qualità, Relazione e Modalità. Abbiamo pari- menti visto e allegato che, secondo lui, i giudizii quantitativi sono generali, partico- lari, singolari: i qualitativi sono affermativi, negativi, infiniti : i relativi sono categorici, ipotetici, disgiuntivi: e finalmente i modali sono assertorii, problematici, apodittici. Data questa Tavola de’ Giudizii, l’ulteriore compito del nostro filosofo è di tro- vare ed indicare i concetti, o le categorie, che si contengono ne’ Giudizii stessi. Cercatili e trovatili, ci dà la seguente Tavola de’ medesimi. Secondo la Quantità i Concetti, o Categorie, sono quelli di Unità, Moltiplicità, Totalità ; Secondo la Qualità son quelli di Realtà, Negazione, Limitazione; Secondo la Relatività i concetti sono (a paia) Sostanza e Accidente, Causa ed Effetto, e Reciprocità: Reciprocità, che alla sua volta è rappresentata da un altro paio di Concetti, o Categorie, cioè Azione e Reazione. Secondo la Modalità, essi sono (di bel nuovo a paia) Possibilità ed impossibilità; Essere e Non-essere; Necessità e Contingenza (vedi p. 79). Intorno a questa Tavola sono a fare varie importanti considerazioni, che sono le seguenti. La prima concerne il numero delle categorie: queste vengono ordinariamente indicate nel numero di dodici; ed è a maravigliare che non si veda immediatamente che il lor numero è superiore di molto. Infatti, i cosidetti dodici concetti categorici vengono collocati nella quadruplice ripartizione della Quantità, Qualità, Relatività e Modalità. Ma si rifletta che queste quattro sono concetti categorici anch’esse, e non categorici delle dodici in esse collocate. E così abbiamo non dodici ma sedici con- cetti categorici. Si rifletta, inoltre, che le categorie della Relatività e della Modalità, contengono ciascuna tre paia, cioè sei altri concetti categorici ognuna; accrescendo così di dodici altri il numero de’ concetti categorici. Sicchè nel totale non abbiamo dodici ma ventidue concetti o categorie. i E la maravigliosa mente investigatrice di Kant asserisce che non si è neppur certi sulla compiutezza del lor numero (Vollzahlichkeit, ibid., pag. 79), essendo essi inferiti soltanto mediante induzione, senza pensare che per tal via non si scorge mai perchè questi e non altri concetti sien contenuti nell’Intelletto puro ,. La seconda considerazione la fa lo stesso Kant, e concerne, da una parte, la schiettezza de’ concetti categorici, dall’altra, la parte meritoria e la difettiva di Aristotele in proposito. Infatti “ fu un disegno (Anschlag) degno della mente acuta “ di Aristotele quello di cercare questi concetti fondamentali. Ma, siccome egli non “ aveva alcun principio, li pigliò alla rinfusa (raffte er sie auf), come gli vennero “ innanzi, e ne indicò da prima dieci, che chiamò Categorie (Praedicamente). In seguito “ credette di averne trovati ancora cinque, che aggiunse ai primi col nome di Post- predicamenti. Ma la sua Tavola rimase ancor sempre manchevole. Oltre a ciò vi si trovano alcuni modi della pura Sensibilità (quando, ubi, situs; ed anche prius, simul), “ e, per giunta, anche un concetto empirico (motus), che non appartengono punto a “ questo registro genealogico (Stammregister) dell’Intelletto; ovvero, ai concetti origi- “ narii (Urbegriffe) vi son frammischiati de’ concetti derivati (actio, passio): ed alcuni « n n 14 & de’ concetti originarii mancano persino del tutto ,. Serie II. Tox. LXH 20 154 PASQUALE D'ERCOLE 54 Una terza considerazione, ancor più importante delle antecedenti, è quella che concerne la relazione e natura tricotomica delle Categorie dell’Intelletto. Lo stupendo pensiere kantiano in proposito non ricorre esplicitamente nè nella prima, nè nella seconda edizione della Critica d. E. P., ma nella terza, ed io lo rilevo e allego dal Michelet (nella sua cit. opera, pag. 63). che lo riporta, e suona così: “ Si è trovato “ rischioso (bedenklich) che le mie partizioni nella filosofia pura riescano quasi sempre “ ternarie. Ma secondo ciocchè in generale sì richiede per una unità sintetica « priori, “ cioè: 1° una condizione (Bedingung), 2° un condizionato (ein Bedingtes), 3° il con- “ cetto che sorge dalla unione del condizionato colla sua condizione, la partizione “ deve esser per necessità una tricotomia .. = In ciò, osserva ivi stesso giustamente il Michelet, si contiene addirittura la “ giusta visione della natura del metodo speculativo ,. E la osservazione del Michelet diverrà ancor più vera, quando si pensi che le categorie kantiane nella Tavola alle- gata sono allogate in guisa che ogni due di esse sono opposte e le segue una ierza che le unisce e concilia. Una quarta considerazione concerne la sintesi dei principii, posta a capo e fon- damento della Critica della R. P. colla domanda: Come son possibili î Giudizii sintetici a priori? Ebbene, una parte della risposta con la relativa soluzione era stata data nella Estetica trascendentale, ove la sintesi di principii diversi e persino opposti era stata effettuata per mezzo della Sensibilità. Qui tal sintesi è ulteriormente e progres- sivamente affermata, in quanto è fatta per mezzo dell’Inzelletto puro nella conce- zione e posizione di principii contrarii uniti, cioè sintetizzati, nel modo che si è visto testè. Tornando ora, dopo siffatte considerazioni, al nostro compito espositivo dell’ Ana- litica, e tenendoci in que’ limiti consentiti dal nostro scopo. passiamo ad accen- nare il punto principale che Kant stesso accenna dopo l’anzidetto, punto che si rife- risce alla deduzione de’ concetti a priori. A tal riguardo egli dice (loc. cit., pag. 89): “ La deduzione trascendentale di tutti i concetti a priori, ha un principio, a cui dev'essere rivolta tutta la poste- riore ricerca, cioè questo: che essi debbono essere conosciuti come condizioni a priori della possibilità delle esperienze (sia della intuizione, che si trova in essa, sia del pensare) .. E più specificatamente, e al medesimo riguardo, aggiunge (ibid., pag. 90): “ Vi son tre fonti originarie (facoltà o potenze dell’ anima), che contengono le condi- zioni della possibilità di ogni esperienza, e che non possono essere derivate da qualsiasi altra potenza del sentimento. cioè il Senso, la Fantasia e I° Appercezione. Su di ciò si fonda: 1° la Sinossi del molteplice (Synopsis des Mannigfaltigen) me- “ diante il Senso; 2° la Sintesi del molteplice mediante la Fantasia; 3° l'Unità di “ questa sintesi mediante Appercezione originaria .. E dopo una discussione illustrativa e confermativa di ciò, raccoglie il risultato della medesima dicendo (loc. cit., pag. 105): “ Tre sono le fonti conoscitive sogget- “ tive, su cui poggia in generale la possibilità di una esperienza e la conoscenza “ degli oggetti della medesima; Senso, Immaginazione ed Appercezione; ciascuna di “ esse (fonti) può esser considerata empiricamente, cioè nell’applicazione a fenomeni “ dati; ma tutti però son anche elementi o fondamenti (Grundlagen) a priori, che & 5 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 155 Ut rendon possibile questo stesso uso empirico. Il Senso presenta i fenomeni empiri- camente nella percezione, la Fantasia li presenta nella associazione (e riproduzione), l’Appercezione li presenta nella coscienza empirica dell'identità di siffatte rappresen- tazioni riproduttive coi fenomeni, con cui eran dati, e perciò con ricognizione ,. “ Se non che, a priori è a fondamento (cum Grunde) di tutte le percezioni l’in- tuizione pura (rispetto ad essa, come rappresentazione, la forma dell’intuizione interna, il Tempo); a fondamento dell’associazione la sintesi pura della fantasia; e a fon- damento della coscienza empirica l’appercezione pura, cioè la generale (durch- gingige) identità di sè in tutte le possibili rappresentazioni ,. Se vogliamo ora (continua Kant, ibid., pag. 106) cercare e seguire “ l’intimo fondamento dell’ unione (Verkniipfung, sintesi) delle rappresentazioni fino a quel punto in cui esse si raccolgono in unità ,, esso consiste in un “ principio che sta saldo « priori e può esser chiamato il principio trascendentale dell’unità di tutto il molteplice delle nostre rappresentazioni (e quindi anche nella intuizione) ,. Giunto a tal punto, Kant fa un passo ulteriore, che è quello di considerare il prodursi della fantasia e la produzione della medesima. Come il lettore sta vedendo, il grande filosofo procede di sintesi in sintesi, ed ogni sintesi posteriore, da una parte, è più larga e più complessa dell’anteriore, dall’altra, è più elevata in dignità. E veda ora in che modo stupendo egli prepara l'avvenimento e la costituzione di questa sintesi della fantasia (il cui prodotto saranno gli Schemi fantastici). Nella fattura della conoscenza e. nella progressione della sintesi, cominciando “ dal basso all’alto (von unter auf, ibid., pag. 108), il primo che ci è dato è il feno- “ meno (die Erscheinung), il quale, quando è congiunto alla coscienza, si chiama per- “ cezione (Wahrnehmung) ,- R Intanto, “ siccome ogni fenomeno contiene una molteplicità ,, fenomeno che già sappiamo esser da noi appreso mediante intuizione, così è richiesta “ una facoltà “ attiva della sintesi di questa moltiplicità (ibid., pag. 109), la quale facoltà noi “ appelliamo fantasia ,. E che cosa effettua la fantasia rispetto a “ tale moltiplicità “ dell’intuizione ,?: “ la riduce ad una immagine (Bild) ,. Se non che “ è chiaro che l’apprensione della moltiplicità non produrrebbe alcuna immagine ed alcun legame delle impressioni (Eindricke), se non vi fosse un fon- damento soggettivo (subjectiver Grund) di richiamare una percezione alla perce- zione susseguente,... cioè, se non vi fosse una facoltà riproduttiva della Fantasia ,. K « « Se le rappresentazioni riprodotte non avessero “ un determinato legame ,, e co- stituissero “ de’ mucchi senza regola di sorta (regellose Haufen), non sorgerebbe alcuna “ conoscenza ,. Vi dev’esser perciò una regola nell’ unione delle rappresentazioni. Ebbene, “ siffatto fondamento soggettivo ed empirico della riproduzione secondo regola “ lo si appella associazione delle rappresentazioni ,. Alla sua volta poi, “ se questa unità dell’associazione f(ibid., pag. 110) non avesse un fondamento oggettivo (einen objectiven Grund), .... sarebbe anche cosa del tutto accidentale, che fenomeni si unissero in un complesso collegato delle conoscenze umane ,. Ora, “ un siffatto fondamento oggettivo della associazione de’ fenomeni io lo appello affinità de' medesimi ,. k Dunque “ l’unità oggettiva (ibid., p. 111) di ogni (empirica) coscienza in una 156 PASQUALE D'ERCOLE 56 “ coscienza (dell’appercezione originaria) è persino la concezione di ogni possibile “ percezione; e l’affinità di tutti i fenomeni (vicina o lontana) è la necessaria con- “ seguenza di una sintesi nella fantasia, che è fondata « priori sopra regole ,. E per parte sua “la fantasia è anche facoltà di una sintesi a priori, per la qual cosa noi “le diamo il nome di fantasia produttiva ,. E qual è ora la produzione della fantasia ? Colla risposta a tal domanda pas- siamo a quel secondo Libro della Analitica, che Kant ha chiamata l'Analitica dei principii (Grundsdtze, massime). } E la risposta è che la Fantasia produce Schemi fantastici. Per ciocchè concerne la natura di questi, tal natura è facile a desumere e com- prendere dalla stessa natura della Fantasia. Questa “ da una parte, ha omogeneità « (Gleichartigkeit, ibid., pag. 123) colla categoria, dall’ altra col fenomeno, e rende « possibile l'applicazione della prima al secondo. Questa mediana rappresentazione “ (vermittelnde Vorstellung) dev'esser pura (senza alcunchè di empirico), e pure, da “ una parte, dev'essere intellettuale, dall’altra, sensibile. Una sì fatta è lo Schema tra- “ scendentale ,. A maggiore intelligenza e determinazione, Kant soggiunge (ibid., pag. 124): “ lo Schema è in sè in ogni tempo un prodotto della Fantasia; ma in quanto la sin- “ tesi della medesima non è una intuizione singola, ma mira all’unità nella deter- “ minazione della sensibilità, così lo Schema è a distinguere dall'immagine (Bild) ,. Tanto più quello è a distinguere da questa, in quanto l’attività fantastica muove da un concetto, ossia da qualcosa d’intellettuale, per quasi figurarla in una imma- gine. Infatti, il grande filosofo dice (ibid., pag. 125): “ La rappresentazione di un “ generale procedimento della Fantasia di procacciare (dare, verschaffen) ad un con- “ cetto la sua immagine, io lo chiamo lo Schema a tal concetto ,. E ancora: “ La “ Immagine è un prodotto della facoltà empirica della Fantasia produttiva ; lo Schema “ di concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e ad un tempo “un monogramma (ein Monogramm) della Fantasia pura 4 priori ,. Di siffatti Schemi se ne producono molti e diversi, come lo Schema della gran- dezza; lo Schema della realtà; lo Schema della sostanza; lo Schema della causa ; lo Schema della reciprocità; lo Schema della possibilità, della necessità, ecc. E, quanto a numero e natura di essi, per determinarli ordinatamente e sistematicamente, Kant dice che dobbiamo “ prender per guida la sua Tavola delle Categorie. Giacchè son “ esse appunto quelle il cui rapporto alla possibile esperienza, ed in generale il rap- “ porto alla sensibilità, deve costituire ogni conoscenza intellettiva pura @ priori , (ibid., pag. 125-132). Ciò posto, egli passa a dire quale sia il principio (Grundsatz) supremo di tutti i Giudizii analitici. Enuncia innanzi tutto una generale condizione (Bedingung) de' medesimi, la quale è che “ essi (ibid., pag. 133) non debbano contraddire a sè stessi ,. La qual condizione è richiesta dalla massima generale che * a nessuna cosa conviene (kommt 2) un “ predicato che ad essa contraddice ,. E tal massima, la riconoscono tutti, non è altra se non quella del Principio di contraddizione. Tal principio è veramente un Criterio soltanto negativo di ogni verità, in quanto è indipendente dal contenuto di questa. Ciò non ostante, si può far di esso anche DI LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 157 un uso positivo (positiven Gebrauch), non solo per evitare errore e falsità, ma anche « per conoscere verità. Giacchè, “ se un Giudizio è analitico, sia negativo, sia afferma- “ tivo, deve sempre poter essere sufficientemente conosciuto secondo il Principio di “ contraddizione ,. } E qui Kant, rispetto a tal Principio stesso, mette innanzi un tal modo di con- cepirlo ed adoperarlo, che anticipa quel modo conciliativo de’ principi contrari, che vien poi proseguito da’ suoi grandi immediati successori, Fichte, Schelling ed Hegel. Egli dice, infatti, ad esemplificazione: “ Un uomo che è giovane non può essere ad “un tempo (2ugleich) vecchio; è ben possibile però che il medesimo sia, in un tempo, “ giovane, e in un altro tempo, non giovane, ossia vecchio ,. Ed arreca quest'altro esempio: “ Un uomo che è inerudito (urgelerrt), non è erudito (gelelrt) ,: ma per dire -ciò secondo verità, bisogna aggiungere “ad un tempo (zugleich) ,; giacchè «“ quello che in un dato tempo è inerudito, può bene in un altro essere erudito , (ibid. pagg. 134-135). Continuando nell'esame e determinazione del Principio supremo de’ Giudizii sin- tetici, egli lo trova nell’ Intelletto puro, il quale “ non solo (ibid., pag. 139) è la “ Facoltà (das Vermogen) delle Regole rispetto a ciocchè avviene, ma è esso stesso “la sorgente (der Quel) de' Principii, secondo la quale ogni cosa (che può occor- “ rere come oggetto) è sottoposta a Regole, perchè senza di queste non potrebbe mai “ spettare ai fenomeni conoscenza alcuna di un corrispondente oggetto ,. “ Nell’applicazione (continua egli, ibid., pag. 140) de’ concetti puri dell’ intelletto “ all'esperienza possibile, l’uso della sintesi di questa è o matematica, ovvero dina- “ mica: perchè essa è rivolta, parte, soltanto alla intuizione, parte, alla esistenza di “ un fenomeno in generale. Le condizioni a priori della intuizione sono, rispetto ad “ una esperienza possibile, interamente necessarie; quelle della esistenza degli og- “ getti di una possibile intuizione empirica in sè stessa, soltanto accidentale ,. E volendo ora, in conformità di ciò, stabilire e delineare un sistema de’ Prin- cipii (Grundsdtze), ricorre di bel nuovo come a guida e norma alla Tavola delle Categorie, e dice che questa porge “un naturale additamento per la Tavola de’ “«“ Principii, perchè questi non sono altro che Regole dell’uso oggettivo delle prime “ (cioè, delle Categorie) ,. Onde segue che i Principii dell’ Intelletto puro sono: 1° Assiomi dell’Intuizione; 2° Anticipazioni della Percezione; 3° Analogie dell’Esperienza; 4° Postulati del pensare empirico in genere. Ed aggiunge che “ tali denominazioni le ha scelte con precauzione, tenendo conto, nella distinzione di esse, della evidenza e della esercitazione (Ausibung, pra- “ tica) di questi Principii ,. Su di una cosa richiamo l’attenzione del lettore, cioè, sul maraviglioso 0orga- nismo del pensiere kantiano anche a tal riguardo, in quanto la quadruplice divisione de’ Principii dell’Intelletto puro vien fatta, come anche realmente è, in corrispon- denza colle quattro fondamentali Categorie della Turola kantiana, cioè: Quantità, Qualità, Relazione e Modalità. & 158 PASQUALE D’'ERCOLE 58 Non posso entrare in tutte le particolarità dell'esame e delle determinazioni del nostro filosofo rispetto ai quattro Principii predetti. Allegherò qualche punto essen- ziale di ciascuno: 1° Gli Assiomi della Intuizione. — Gli Assiomi della Intuizione, che si fon- dano sulla Categoria della Quantità, hanno a base il seguente Principio dell’Intelletto puro: “ Tutti i fenomeni, secondo la Intuizione di essi, sono Grandezze esfensive , (ibid., pag. 142). E, ad illustrazione ed esemplificazione di ciò, aggiunge: “ Chiamo “ Grandezza estensiva quella, in cui la rappresentazione delle parti rende possibile la “ rappresentazione del tuto (e che quindi deve necessariamente precedere quest’ul- “ tima rappresentazione). Io non posso rappresentarmi alcuna linea, per piccola che “ sia, senza tirarla in pensiere, cioè senza produrre da un punto tutte le parti l’una “ dopo l’altra, e delinearne da prima in tal modo la Intuizione ,. È su tal principio che poggia la “ Matematica dell'estensione (Geometria) coi suoi “ Assiomi, i quali esprimono le condizioni dell’Intuizione sensibile a priori, in virtù “ di cui soltanto può venire ad esistenza lo Schema di un concetto puro del feno- “ meno esteriore; per es.: Tra due punti è possibile soltanto una linea; due linee “ rette non chiudono alcuno spazio ,. 2° Le Anticipazioni della Percezione. — Queste Anticipazioni, che avvengono secondo la Categoria della Qualità (e a proposito delle quali ricorda la 0047ws di Epicuro, ibid., pag. 145), hanno a fondamento questo Principio: “ In tutti i feno- “ meni la sensazione e il reale che le corrisponde nell’oggetto (realitas phenomenon), # hanno una Grandezza intensiva, cioè un Grado ,. Egli fa notevoli applicazioni della Grandezza intensiva ‘alla causa ed alla continuità. 3° Le Analogie della Esperienza. — Di queste Analogie, che si basano sulla Categoria della Relazione, il Principio generale è questo: “ Tutti i fenomeni (ibid., “ pag. 152), secondo la loro esistenza, sono @ priori soggetti alle Regole della de- “ terminazione del lor rapporto di subordinazione (unter einander) in un dato tempo ,. Per ciocchè riguarda poi il tempo “i tre modi di questo sono persistenza, sue- “ cessione causale, comunione (Beharrlichkeit, Folge, Zugleichseyn) (1); le quali danno “ origine ed esistenza alle seguenti tre analogie dell’Esperienza. sia L’Analogia sperimentale basantesi sul Principio della persistenza è: “ Tutti i “ fenomeni (ibid., pag. 156) contengono il Persistente (Substanz) siccome l'oggetto “ stesso, ed il Mutante (o Mutabile, das Wandelbare) siccome semplice determina- “ zione, ossia, siccome una specie del modo di esistere dell'oggetto ,. È un modo profondo e speculativo in Kant quello di vedere la relazione del Persistente o So- (1) Fo osservare che le espressioni kantiane di Folge e Zugleichseyn non sembrerebbero di cor- rispondere esattamente alla mia traduzione di esse con successione causale e comunione, ma il vero senso dato da Kant (come si vedrà meglio fra poco) è proprio quello corrispondente alla mia tra- duzione delle due parole. L’adoperamento delle due parole tedesche di Folge e Zugleichseyn è stato in Kant dipendente dal significato e concetto di tempo, tempo che è meglio espresso dalle due allegate parole tedesche. La espressione di Beharrlichkeit è poi chiaramente da Kant agguagliata a quella di sostanza. E così le tre espressioni corrispondono propriamente ai tre Principii (Grundsatze) di sostanzialità, causalità e reciprocità. 59 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 159 stanziale verso il Mutabile, il quale ultimo non è altro dal primo e fuori del primo, ma è il semplice modo di essere, di svilupparsi e determinarsi della sostanza stessa. Kant si trattiene ulteriormente su tal prima Analogia e corrispondente enun- ciata relazione per illustrarla e dimostrarla; ma io, senza seguirlo nelle particola- rità di ciò, mi limito a ricordare il principio fondamentale, mediante il quale dimostra nella sostanza (ossia in ciocchè persiste) “ la necessità che essa sia sempre esistita ,: il qual principio è: Gigni de nihilo nihil; in nihilum nil posse reverti (ibid., pag. 159). L’Analogia sperimentale della successività (Folge) si fonda su questo Principio: “ Ciocchè avviene (o comincia ad essere) presuppone qualcosa a cui segue secondo “ una Regola , (ibid., pag. 162). È, in altri termini, il Principio del nesso causale (Der Satz der Causalverknipfung). Anche qui il grande filosofo entra in una particolareggiata illustrazione e dimo- strazione: ma il principio (che, cioè, “ per sè stesso così chiaro e generalmente accettabile ed accettato, che io mi astengo di ulteriormente accennarne. La terza ed ultima Analogia dell’Esperienza si basa sul Principio della comu- ad una causa deve seguire il suo effetto ,) è nione (Grundsate der Gemeinschaft), e che suona così: “ Tutte le sostanze (ibid., p. 178), “in quanto sono ?nsieme (2ugleich, contemporaneamente), stanno fra loro in generale “ comunione (cioè in reciprocità, Wechselwirkung) » (1). Anche qui la cosa è sì chiara che mi astengo di entrare nelle particolarità di illustrazione e dimostrazione, in cui entra Kant. 4° JI Postulati del pensare empirico in genere. — Questi Postulati sono per Kant i tre seguenti: 1° “ Ciocchè coneorda (tibereinkommit) con le condizioni formali dell’Espe- “ rienza (secondo la intuizione ed i concetti) è possibile ,; 2° “ Ciocchè è collegato (2usammenhéingi) colle condizioni materiali dell’Espe- “ rienza (secondo la sensazione) è reale (wirklich) ,; 3° “ Ciò, il cui legame col reale è determinato secondo le condizioni gene- “ rali dell’Esperienza, è (eristàrt), è necessario , (ibid., pag. 183). I tre predetti Postulati, come si vede, poggiano sulle tre Categorie della Modalità, che sono appunto la possibilità, la realtà e la necessità. A ciocchè è qui detto de’ Postulati Kant fa seguire non una dimostrazione, rite- nendoli già dimostrati, ma soltanto degli-schiaràmenti (Erliuterungen) i quali non man- cano certo d’interesse e d’importanti pensieri (ibid., pagg. 183-196), ma sui quali passiamo per non esser troppo lunghi. Ci fermeremo invece all'ultimo punto considerato da Kant rispetto all’ Analitica trascendentale, e propriamente a quello che tratta “ del fondamento della distin- “ zione di tutti gli oggetti in Fenomeni e Noumeni (Phaenomena und Noumena) , : il qual punto è di importanza grandissima. (1) Qui il lettore vede chiaramente come la parola tedesca Zugleichseyn aveva il preciso signi- ficato di comunione, la quale ultima stessa dice equivalente e corrispondente a reciprocità. Del resto, alla pag. 179 Kant dice testualmente che la parola Gemeinschaft corrisponde alla latina communio. 160 PASQUALE D'ERCOLE . 60 Ne comincia il discorso e la considerazione con le seguenti bellissime parole: “ Noi abbiamo ora (ibid., pag. 196) non solo percorsa viaggiando la terra (das Land) “ dell’ Intelletto puro, e presa visione accurata d'ogni parte di essa, ma l’abbiamo “ anche interamente misurata, assegnando il proprio posto ad ogni cosa che vi è “ contenuta. Questa terra però è un'isola, che dalla stessa Natura è chiusa in im- “ mutabili confini. E la terra della verità (grazioso nome, ein reizender Name), cir- = condata da un ampio e burrascoso oceano, sede propria dell'apparenza (des Scheins), “ nella quale più d'un banco nebbioso (Nedelbank) e parecchio gelo vicino a scio- gliersi simulano (nascondono, /igi) menzogneri nuove terre; e mentre di continuo “ inganna con vane speranze il nocchiero che vi gira intorno entusiasta (herum- schwirmenden Seefahrer) a fin di scoperta, lo intrica (rerflicht) in avventure, da cui non può desistere, e cui non può condurre a termine. Prima di arrischiarci su “ questo mare, per investigarlo nella sua ampiezza, e accertarci, se vi sia a sperar “ qualche cosa, sarà utile, primamente, di gettare ancora uno sguardo sulla carta = della terra, che abbiam testè lasciata, e domandare, se non possiamo, in ogni caso, “# od anche per necessità contentarci, se altrove non v'è altro suolo, su cui inse- “ diarci; secondamente a qual titolo noi possediamo questa stessa terra, e possiamo “ conservarla contro nemiche pretese. Comunque avessimo sufficientemente risposto “ a tali domande già nel corso della Analitica, pure un bilancio (Ueberschlag) som- “ mario delle soluzioni date può rafforzarne la convinzione, riunendone i momenti in R n un sol punto ,. î Perdoni il lettore, se gli ho allegato un luogo troppo lungo, ma ho creduto di farlo per mostrargli e convincerlo, che Kant non è soltanto il grande pensatore, ma è anche tal grande scrittore da tenere in suo possesso e adoperarle le lusinghe e le grazie dello stile. Non lo seguiamo nel dilazcio che vuol rifare, ma qualche punto importante del medesimo lo rileveremo. Un primo punto è che “ i concetti puri dell’Intelletto (ibid., pag. 204) non possono “ esser mai di uso trascendentale, ma sempre di solo uso empirico, e che i principii “ (Grundsdtze) dell’Intelletto puro possono, rispetto alle generali condizioni di una “ possibile esperienza, esser riferiti soltanto agli oggetti de’ sensi, non mai alle cose “in genere (senza avere riguardo al modo come poterne avere l'intuizione) ,. “ L’Analitica trascendentale ha quindi questo importante risultato: che l’ Intel- “ letto a priori non può mai fare (/eisten) di più che anticipare la forma di una “ possibile esperienza in genere; ..... e che esso non può mai oltrepassare i limiti “ del sensibile (der Sinnlichkeit), entro i quali soltanto ci son dati degli oggetti ,. Se l'Analitica oltrepassasse questi limiti, da trascendentale si farebbe trascendente affer- mando delle cose una oggettività analiticamente non consentita. Un secondo punto della massima importanza e immediatamente risultante dal- l’anzidetto è quello che concerne la differenza di fenomeno e noumeno e il lor rapporto alla Cosa in sè (das Ding an sich). A tal riguardo dice Kant (ibid., pag. 208) che “ il concetto di un noumeno non “ è punto positivo, nè significa (bedeutet, esprime) una determinata conoscenza di una “ qualche cosa, ma soltanto il pensare (das Denken) di qualche cosa, rispetto a cui “ io astraggo da qualsiasi forma della intuizione sensibile ,. 61 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 161 Qui si vede chiarissimamente come Kant, già prima de’ suoi immediati succes- sori, aveva egli stesso ridotta la Cosa in sè a un semplice noumeno, ossia al puro e semplice nostro pensiere del fenomeno. Trattandosi di un punto di straordinaria importanza, mi permetto, ad ulteriore rincalzo del riferito, di esprimerlo colle parole, con cui Michelet (nella sua cit. opera, pag. 79 e segg.) la esprime. Cioè: “ Il fenomeno presuppone un saldo In-sè, di cui “ è la manifestazione. Senza esplicar più vicinamente il legame dei due lati, Kant, in un'ultima sezione dell’Analitica, accenna alla Cosa in sè, indicandone la rela- zione: siccome la Cosa in sè non può mai esser data in una esperienza possibile, epperò noi non possiamo, senza diventar trascendenti, arrischiarci di affermar “ qualche cosa della obbiettività di essa, così il pensar trascendentale (trascendentale “ Ansicht) intorno ad essa le assegna il suo posto unicamente nel pensare (im Denken) ,. E qui debbo dire a lode di tutti i grandi immediati successori tedeschi di Kant, che essi han soppresso appunto l'in sè come esprimente una cosa che esista oltre e di là del pensare; e debbo aggiungere a biasimo del Positivismo francese e inglese esteso all’istesso evoluzionismo spenceriano (di Comte, Littré, Stuart Mill e dell’istesso Spencer dunque), che ha ritenuta e riprodotta la Cosa în sè come realmente esistente e come impenetrabile col nostro pensiere: il qual biasimo è tanto maggiore, in quanto Positivismo ed Evoluzionismo affermano la necessità e ragion di essere dell’esperienza che dev'essere come la base del pensare. E giacchè ho accennato al biasimo del po- sitivismo francese ed inglese e dell’istesso evoluzionismo spenceriano, rilevo a titolo d'onore del positivismo italiano capitanato dall’Ardigò, che ha soppressa la Cosa în sè nel cattivo senso di essere un realmente esistente fuori e indipendente dal nostro pensiere. & «& « Un terzo punto, pur riferentesi all’Intelletto puro nella sua relazione colle cose e colla possibile esperienza di esse, è il giudizio che Kant esprime a tal riguardo rispetto a Leibniz ed a Locke. Dice del primo che egli “ prese (na7m, considerò) i “ fenomeni come Cose in sè, quindi come ?ntelligibilia, ossia come oggetti del puro “ intelletto ,: per forma che “ Leibniz intellettualizzò (intellectuirte) i fenomeni ,. Il contrario di Leibniz, dic’egli, lo fece Locke, il quale “ col proprio sistema della “ Noogonia (se mi è permesso di servirmi di tale espressione) ha sensificato (sensificirt) “ i concetti intellettuali, cioè li ha dati per non altro che concetti empirici, astratti “ per mezzo di riflessione , (vedi ibid., pagg. 217 e 222). La giudicazione e rispettiva critica è giusta. E rispetto a Leibniz e al Cartesia- nismo in genere estende la critica all’ Armonia prestabilita del primo, e alla nota Assistenza divina (Systema assistentiae) del secondo (ibid., pagg. 224 segg.). Un quarto ed ultimo punto anche importante è quello che si riferisce ai con- cetti di qualche cosa e di nulla, il quale secondo, alla sua volta, si congiunge di bel nuovo col noumeno. Intorno ad essi (e prendendo le mosse da’ già allegati concetti categorici di totalità, moltiplicità, unità) si esprime nel modo seguente. 1° Ai concetti (ibid., pag. 236) di Tutto, Molto, Uno si oppone “ un concetto che non esprime alcun oggetto, e a cui non corrisponde alcuna intuizione asse- “ gnabile, cioè il concetto di nulla (Nichts), che è un concetto senza oggetto, come “i noumeni, che non possono essere annoverati tra le possibilità, comunque perciò “ stesso non possano neppur essere tenuti per impossibili (ens rationis) ,. Serie II. Tox. LXII. 21 162 PASQUALE D'ERCOLE i 62 13] 2° “ Realtà è Qualcosa (Etwas), negazione è Nulla (Nichts), cioè un con- cetto mancante di un oggetto, come, per esempio, l'ombra, il freddo (mihi! pri- » (I vativum) ». 3° “ La semplice forma della intuizione, senza sostanza, non è in sè stesso “ alcun oggetto, ma soltanto la condizione formale di esso (come fenomeno, Er- scheinung), come, p. es., lo Spazio puro, il Tempo puro (ens imaginarium), i quali “ sono bensì qualche cosa come forme intuibili, ma mancano di oggetti che possano R LS essere intuiti ,. 4° “ L'oggetto di un concetto che contraddice a sè stesso è il NuZla (Nichts), “ perchè il concetto del Nulla è una impossibilità, come per avventura quello della figura rettilinea di due lati (nihil negativum) ,. “ La Tavola di questa divisione del concetto del Nulla (giacchè la Tavola a “ questa corrispondente della divisione del Qualche cosa consegue da sè stessa) do- » vrebbe esser allegata così: Il Nulla come 1° concetto vuoto senza oggetto: ens rationis. 2° concetto vuoto (Zeerer) di un concetto 3° intuizione vuota senza oggetto nihil privativum ens imaginarium. 4° oggetto vuoto senza concetto nihil privativum ,. Così Kant termina la trattazione dell’ Analitica trascendentale, passando a quella della Dialettica trascendentale; e fo lo stesso anch'io, terminando l'esposizione della prima e passando a quella della seconda. La Dialettica trascendentale. Il lettore non ha dimenticato che anche la Dialettica trascendentale fa parte della Logica trascendentale in genere. Va anche rilevato che Kant, come per le altre parti della Critica d. R. P. ha. sempre premesso una Introduzione, così ne premette una anche per questa terza parte. Va, inoltre, rilevato che questa terza parte si distingue dalle due prime sì per l'oggetto della conoscenza sì per l’elevazione di grado della conoscenza stessa. La prima parte (Estetica trascendentale), come grado primo ed infimo, è rappresentata dal Senso, e pel lato conoscitivo è circoscritta ne' limiti della sensibilità e dell’intuizione. La seconda parte (Analitica trascendentale), come secondo ed ulteriore grado, è rappresentata dall’Intelletto, e pel lato conoscitivo si muove nell’ambito de’ concetti; ma è, d’altra parte, pur circoscritta in questi, comunque possa rivolgersi anche agli oggetti, per applicare a questi i concetti (o le categorie), ed inoltre elevare l’intuire al pensare sotto determinate Regole. La terza parte, che imprendiamo ad esporre (la Dialettica trascendentale), come ultimo: e supremo grado, è rappresentata dalla Ragione, che pel lato conoscitivo si muove nell’ambito delle idee, idee che per natura ed oggetto conoscitivo sono nettamente da distinguere da’ concetti (o categorie) intellettivi, rappresentando i concetti prin- 69 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 163 cipii condizionati, e le idee principii incondizionati, come meglio si vedrà e determi- nerà appresso. Ciò posto, passiamo ora alla Introduzione predetta, la quale, lo dico subito, rileva il punto importantissimo dell’apparenza (des Scheins), apparenza già manife- statasi (nell’Analitica) presso l'Intelletto: ma l'apparenza dell’Intelletto e quella della Ragione sono assai diverse ed hanno un diverso significato ed uso, come dobbiamo ora chiarire e stabilire. Kant comincia per rilevare che “ la Dialettica (loc. cit., p. 238) sia in generale “ una Logica dell'apparenza (eine Logi des Scheins) ,. E stabilisce, inoltre, “ non “ doversi tener per la medesima cosa fenomeno (Erscheinung) ed apparenza. Giacchè verità od apparenza non sono nell'oggetto, in quanto viene intuito, ma nel giudizio “ sul medesimo, in quanto vien pensato ,. Fermato ciò, dice che l'apparenza di cui vogliam trattare qui “ non è l'apparenza “ empirica (come p. es. l'apparenza ottica) ,..... ma “l'apparenza trascendentale, la quale mette capo a principii (auf Grundsdtze einfliesst), il cui uso non poggia sopra alcuna esperienza ,. E, a maggior determinazione di ciocchè intende per questa « « seconda apparenza, aggiunge: “ Noi vogliamo chiamare îmmanenti i principii, la cui “ applicazione si tiene interamente ne’ limiti di una possibile esperienza, e #rascen- “ dentî quelli che li oltrepassano (berfliegen) ,; facendo quindi osservare come “ non sieno la stessa cosa (einerlei) trascendentale e trascendente ,. E ritornando sull’apparenza, come logica e come trascendentale, scrive: “ L’ap- & parenza logica (ib., p.241), che consiste nella sola imitazione della forma razionale (Vernunftform; cioè l'apparenza sofistica, der Schein der Trugschliisse), sorge unica- mente dal mancamento di attenzione alla regola logica; e perciò, appena che vien “ questa inculcata nel caso presente, essa (l’apparenza sofistica) sparisce del tutto ,. “ L’apparenza trascendentale, al contrario, non cessa anche che la si scopra e “ la si scorga mediante critica trascendentale che ne indichi chiaramente la nullità “ (come per es., l'apparenza che è nella proposizione: Il mondo, secondo il tempo, “ deve avere un cominciamento). La causa di ciò è questa: che nella nostra Ragione “ (considerata subbiettivamente come una facoltà umana conoscitiva) giacciono regole “ fondamentali (Grundregeln) e massime del suo uso, le quali hanno in tutto e per “ tutto l’aspetto di principii obbiettivi: in virtù del quale aspetto avviene che la necessità subbiettiva di un certo legame de’ nostri concetti, vien presa, a favor dell’Intelletto, per una obbiettiva necessità come determinazione delle cose in sè stesse. È questa una illusione, che è tanto inevitabile, quanto è inevitabile che il “ mare nel suo mezzo sembri più alto che alle spiagge, perchè il mezzo lo vediamo “ con raggi luminosi più alti di quelli con cui vediamo queste ultime , ecc. Sicchè dunque “ la Dialettica trascendentale deve contentarsi di scoprire l’ap- “ parenza di giudizii trascendentali, e ad un tempo evitare che questa c’inganni; “ ma che poi (come l’apparenza logica) questa sparisca e cessi di essere un inganno, ciò non potrà mai effettuare (bewerkstelligen, raggiungere); perchè abbiam che fare “ con una illusione naturale e inevitabile; che riposa sopra principii subbiettivi e li interpola (unterschiebt, inserisce) come obbiettivi ,. Ciò posto, veniamo all’obbietto diretto e conoscitivo della Dialettica trascenden- tale, il quale è costituito dalle Idee della Ragione. R f » LÌ k n DÌ 164 PASQUALE D'ERCOLE 64 Le Idee della Ragione. — Kant rivolge primamente la sua attenzione alla Ragione, per determinarne la natura e l’uso, poscia all'oggetto di essa, ossia alle Idee. Quanto alla natura della Ragione, egli dice (loc. cit., pag. 243): * Nella prima “ parte della nostra Logica trascendentale dichiarammo che l’Intelletto sia la Facoltà “ delle Regole, qui distinguiamo da esso la Ragione appellandola la Facoltà de « Principii (das Vermigen der Principien) , Intanto, continua Kant, ibid.: Siccome la Ragione è anch'essa un principio cono- scitivo, “ io chiamerei conoscenza da principii quella, nella quale io conosco il Parti- “ colare nel Generale mediante concetti. E così ogni sillogismo della Ragione ( Vernunfi- schluss) è una specie (eine Form, una forma) di inferenza (Ableitung) della conoscenza da un Principio ,. & Intanto (ibid., pag. 246). “ in ogni sillogismo della Ragione io penso primamente una Regola (major) mediante l’Intelletto. Secondamente, assumo (subsumire) una conoscenza sotto la condizione della Regola (minor) mediante la forza giudicativa (Urtheilskraft). Finalmente io determino la mia conoscenza mediante il predicato della Regola (conclusio), e perciò 4 priori mediante la Ragione. Il rapporto dunque che la Maggiore siccome Regola, rappresenta tra una conoscenza e la condizione della medesima. costituisce le diverse specie de’ Sillogismi della Ragione. Questi son dunque proprio triplici (dreifach), a quel modo che i Giudizii in genere si distin- guono nella specie secondo che essi esprimono il rapporto della conoscenza nell’In- telletto: cioè, sono sillogismi razionali (Vernunftschliisse) 0 categorici, o ipotetici, disgiuntivi .. “ Onde si scorge (conclude egli ibid., pag. 247) che la Ragione, nel concludere (im Schliessen) cerca di ridurre la grande varietà di conoscenza dell’Intelletto al minor numero de’ Principii (di condizioni generali), e perciò di raggiungere la massima unità de’ medesimi ,. Tale è la natura della Ragione. Quanto poi all'uso (Gebrauche) di essa, Kant pone il seguente quesito: # Può la Ragione venire isolata, ed in tal caso essere ancora una sorgente di concetti e giudizii, uscenti dal suo fondo stesso e riferirsi in tal modo agli oggetti (auf Gegenstinde), ovvero è una facoltà soltanto subalterna valevole a dare una certa forma (eine gewisse Form) a conoscenze date? ,. Questo quesito equivale per lui a quest'altro: * La Ragione in sè, ossia la Ra- gione pura contiene ella in sè stessa a priori principii (Grundsdtze, massime) e Regole, e in che cosa possono consistere questi principii? , E la risposta a tal quesito è: “ Primamente, il Sillogismo razionale (o il ragionamento della Ragione) ( Vernunft- scluss) verte non sopra intuizioni (Anschauungen) per ridurle a Regole {cano fa VIn- telletto colle sue Categorie), ma sopra concetti e giudizi ,. “ In secondo luogo, la Ragione nel suo uso logico cerca la condizione generale del suo giudizio (della conclusione, des Schlusssatzes), e lo stesso Sillogismo razionale non è altro che un giudizio effettuantesi mediante l'assunzione (Subsumtion) della sua condizione sotto una Regola generale (la maggiore, Obersatz). Ma siccome questa Regola è esposta di bel nuovo allo stesso sperimento della Ragione, e quindi deve esser cercata (mediante un Prosillogismo) la condizione della condizione, così n LOI R Lal 65 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 165 si vede bene che il principio generale della Ragione (nell’uso logico) sia quello di trovare l’Incondizionato alla conoscenza condizionata dell’Intelletto, affinchè si compia (vollendet wird) l’unità del medesimo ,. Senonchè “ questa massima logica (ib., p. 249) non può divenire un principio della Ragione pura altrimenti che coll’ammettere: Che, dato il condizionato, è anche data tutta la serie delle condizioni subordinate l’una all’altra, la quale è perciò incondizionata essa stessa (ossia è contenuta nell'oggetto e nel suo colle- gamento, Verknipfung). Un siffatto principio della Ragione pura è chiaramente sintetico ». Va però rilevato che “i principii (Grundséitze, massime) emergenti da tal prin- cipio supremo della Ragione pura, rispetto ai fenomeni (Erscheinungen) sono tra- scendenti, cioè il predetto principio non può mai fare un uso empirico ad esso adeguato. Ma esso è però interamente diverso da tutti i principii (Grundsdtzen, massime) dell’Intelletto (il cui uso è pienamente, vdllig, immanente, avendo essi per “tema soltanto la possibilità dell'esperienza) ,. Come ora la stia con questo salir di condizione in condizione fino all’Incondi- zionato nel procedimento dialettico della Ragione, lo vedremo distintamente da prima nell'oggetto stesso della Ragione, ossia nelle Idee, poscia ne’ Sillogismi razionali (Vernunftschliissen) trascendenti e dialettici della medesima. Delle Idee. — A differenza dei concetti intellettivi ( Verstandesbegriffe), che ven- gono pensati « prior? prima dell'esperienza e ad uso e pro (zum Behuf) dell'esperienza stessa, il Kant chiama (ib., pag. 251) anche le Idee concetti, però concetti della Ragione pura. “ La quale denominazione mostra già anticipatamente (vorliufig, preli- “ minarmente), che il concetto della Ragione non voglia contenersi entro i limiti “ dell'esperienza; giacchè esso concerne una conoscenza, della quale ogni conoscenza “ empirica è soltanto una parte (forse l’integrità dell’esperienza possibile o della sua “ sintesi empirica) ,. Venendo alla determinazione diretta delle Idee, volge primamente il proprio pensiere e quello del lettore a Platone, dal quale accoglie la denominazione di Idea. E dice: “ Platone (ib., p. 253) si serve dell’espressione Idea, dalla quale si scorge “ bene che egli per essa non solo intende qualcosa che non è mai improntata dai “ sensi, ma che oltrepassa persino i concetti dell’Intelletto, dei quali si occupava “ Aristotele, in quantochè nell’esperienza non può mai rinvenirsi qualcosa che sia “ congruente ad esse. Le Idee son per lui gli esemplari (Urdilder) stessi delle cose, e non soltanto chiavi (SehZsse) per una possibile esperienza, come le Categorie ,. E, conformemente a ciò, definisce l’Idea con le seguenti parole: “ L’Idea è un concetto da nozioni (ein Begriff aus Notionen), che trascende (tdersteigt) la possibilità dell'esperienza ,. E soggiunge stupendamente che “a chi è abituato a tal distin- zione dev'essere insopportabile di sentir chiamare Idea la rappresentazione (Vor- DI DS « K “ & & “ stellung) del color rosso ,, rappresentazione che “ non può esser chiamata neppure una nozione (Vestandesbegriff) ». E a pag. 263, ripetendo l’affermazione che all’Idea non può corrispondere alcun oggetto congruente dato da’ sensi, aggiunge che “i concetti razionali (Vernunftbe- “ griffe) così determinati sono Idee trascendentali ,. Ad integrazione ed ulteriore determinazione di ciocchè si è testè detto “ della « 166 PASQUALE D'ERCOLE 66 «“ Totalità delle condizioni e dell’Incondizionato (ib., pag. 261), siccome titolo comune « de’ concetti razionali (Vernunftbegriffe, che son poi le Idee) ,, Kant rivolge la mente ad un’altra parola generalmente nota ed anche abbastanza generalmente accolta, che ha per questi una grande importanza, cioè la parola assoluto (das Wort absolut). Questa parola, dic’egli, viene adoperata talvolta in un senso, che “ esprime #/ “ meno di ciocchè può dirsi di un oggetto ,; qualche altra volta però viene adope- rata “ per additare che qualcosa è valevole (illimitatamente) in ogni rispetto (p. es., “ il dominio, o regno, Herrschaft, assoluto) ,; in una parola, viene adoperata “ per “ additare il più (das Meiste) di ciocchè può dirsi della possibilità di una cosa ,. Ora, è in questo secondo senso che Kant accoglie e adopera la parola assoluto e l’applica alle Idee: il che vuol dire in altri termini che le Idee (o i Concetti razio- nali, Vernunftbegriffe) sono assolute, o principii assoluti, ed hanno ad oggetto l’Incon- dizionato, il quale è esso stesso assoluto come unità e fondamento della totalità delle condizioni. Ciò posto, il Kant passa addirittura a trattare delle Idee considerate nella loro sistemazione, o, come dice, “ del Sistema delle Idee trascendentali (ib., p.268 ss.) ,. E a tal riguardo già ha stabilito innanzi, che “ tutti .i Sillogismi razionali “ (Vernunftschliisse) sono o categorici, 0 ipotetici, o disgiuntivi ,. Nei quali Sillogismi “ tutte le Idee trascendentali (ib., pag. 269) si lasciano ridurre a tre Classi, delle «“ quali la prima contiene l’unità assoluta (incondizionata) del Subbietto pensante, la “ seconda l’unità assoluta della Serie delle condizioni de’ fenomeni, la terza l’assoluta “ unità della condizione di tutti gli oggetti del pensare ,. E queste tre Idee (come tutti sanno) son quelle dell'Anima, del Mondo e di Dio, e sono oggetto la prima della Psicologia, la seconda della Cosmologia e la terza della Teologia. E qui una triplice importante osservazione. La prima è, che tutti i modi del procedimento raziocinativo delle Idee “ seguono “ il filo delle Categorie. Giacchè la Ragione pura non si riferisce mai direttamente “ agli oggetti, ma ai concetti intellettivi (Verstandesbegriffe) de’ medesimi ,. La seconda è, che tutto l’esame e il risultato dell'esame, che Kant imprende ed effettua qui rispetto alle tre indicate discipline, la psicologica, la cosmologica e la teologica, e discipline costituite specialmente secondo la nota dottrina wolfiana, hanno valore di affermazione, di negazione o di limitazione secondo che il risultato del- l'esame è affermativo, negativo o limitativo. La terza è, che secondo i modi di ragionare e concludere rispetto alle tre Idee mentovate ne seguono de’ sillogismi sofistici, che non sono “ nè immaginariamente “ inventati (erdichtet, ibid., pag. 274) nè accidentalmente sorti, ma che si originano “ dalla natura stessa della Ragione. Sono, cioè, sofisticazioni non dell’uomo (des “ Menschen), ma della Ragione pura, da cui non può liberarsi neppure il più saggio ,. E di tali Sillogismi falsi, o sofisticazioni, ve n’ha tre, costituenti tre Classi, corri- spondenti alle tre Idee. Nel Sillogismo sofistico della prima Classe “ io concludo dal concetto trascen- “ dentale del Subbietto (ossia dell'Anima), che non contiene nulla di vario (di molte- “ plice, nichts Mannigfaltiges), all'unità assoluta del Subbietto stesso, unità della quale “io non ho alcun concetto (gar keinen Begriff) ,. E tal conclusione dialettica “ io “ l'appello Paralogismo trascendentale ,. 67 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA' KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 167 Nel Sillogismo sofistico della seconda Classe, poggiante sul concetto della men- tovata Totalità assoluta della Serie delle condizioni de’ fenomeni, £ io dalla incon- «“ dizionata unità sintetica della Serie, di cui in ogni tempo ho un concetto contrad- “ dittorio, concludo alla rettitudine (£icktigkeit) dell'unità opposta, della quale non ho “ parimenti alcun concetto ,. Lo stato della Ragione in questi sillogismi dialettici “ lo “ appellerò l’ Antinomia della Ragione pura ,. E finalmente nella terza Classe della Ragione sofisticante “ io dalla totalità delle “ condizioni di pensare oggetti in genere, in quanto questi mi son dati, concludo “ all’assoluta unità sintetica delle condizioni tutte delle cose ,, ossia, concludo “ ad “un Essere di tutti gli esseri, cui io conosco ancor meno mediante un concetto “ trascendentale, e della cui incondizionata necessità non posso farmi alcun concetto ,. Un sì fatto sillogismo (o ragionamento) dialettico “ io l’appellerò l’Ideale della # Ragione pura ,. Dei Paralogismi della Ragion pura, ossia della Psicologia razionale. Il Paralogismo è un ragionamento logico formalmente falso, “ quale pur sia “ (ibid., pag. 275) il contenuto del medesimo ,. Ciò posto, il Kant rileva parecchie cose importanti, che sono le seguenti. La prima è, che un sì fatto ragionamento falso, come si è detto testè, si origina dalla stessa Ragione pura, però (e qui sta l’importanza) “ la illusione da esso prodotta “ non è insolubile ,. Conosciuta la erroneità del ragionamento, la si può rettificare. La seconda è, che va rilevato e tenuto presente un Concetto, che, comunque non registrato “ nella lista generale de’ concetti trascendentali ,, pure si deve supporre come appartenente alla medesima. E questo concetto, o meglio “ Giudizio « è: Io penso ,. È facile scorgere ed intendere che esso è “ il veicolo (das Vehikel) “ di tutti i concetti in genere, quindi anche de’ concetti trascendentali ,. E, ad ulteriore intelligenza e determinazione della cosa, a pag. 276, aggiunge: “ Questa “ percezione (Wahrnehmung) interna non è altro che la semplice appercezione: o “ penso, la quale rende persin possibili tutti i concetti trascendentali, ne’ quali si “ dice: Io penso la sostanza, la causa, ecc. ,. La terza, che si riattacca alla seconda, è di una portata grandissima rispetto all'oggetto diretto della Psicologia, ossia all’Anima, ma che si estende necessaria- mente anche al Corpo, nel quale l’Anima si manifesta e agisce. La quale terza cosa importante è espressa dal nostro filosofo con queste parole: “ Io, come pensante, sono “ un oggetto del senso interno, e mi chiamo Anima. Quello che è un oggetto de’ sensi esterni si chiama Corpo ,. Si noti bene il lettore questo luogo, rispetto al quale più innanzi gli allegherò altre parole kantiane di una importanza ancora più grande. Dopo le predette indicazioni concernenti l’ Anima e i Paralogismi ad essa relativi, Kant (ib., p. 274) allega ciocchè egli chiama la Topica della Psicologia razionale, dicendo che questa Topica “ da cui dev'essere derivato soltanto ciocchè essa contiene “«“ è la seguente: “ 1° L’anima è sostanza. 2° Secondo la sua Qualità 3° Ne’ tempi diversi, in cui essa esiste (is?), è nu- è semplice mericamente identica, cioè è urità (non mol- teplicità). 4° È in relazione con possibili oggetti nello spazio ,. 168 PASQUALE D'ERCOLE 68 Da sì fatti elementi (soggiunge egli a pag. 278) sorgono tutti i concetti della Psicologia pura, o, come anche si è detto, razionale. Cioè: “ La sostanza, come og- « getto del senso interno, dà il concetto della Immaterialità; come sostanza semplice « (il concetto) della Incorruttibilità; la identità di essa, come di sostanza intellettuale, “ dà (il concetto) della Personalità; e tutte queste insieme (cioè, Immaterialità, In- “ corruttibilità e Personalità) danno la Spiritualità; la relazione cogli oggetti esistenti “ nello spazio dà il commercio .(Commercium) con corpi, quindi rappresenta la sostanza “ semplice come principio della vita nella materia ,, e finalmente ne afferma, come “ circoscritta dalla Spiritualità, la Immortalità ,. È intorno a tali concetti che si costruiscono quattro Puralogismi di una * Psi- “ cologia trascendentale, falsamente tenuti per una scienza della Ragione pura ,, ma che non hanno a fondamento e contenuto “ che una rappresentazione interamente “ vuota (ginzlich leere Vorstellung) ,. “ Mediante questo Io, o Egli, o Esso (la Cosa) “ che pensa non vien rappresentato altro che un Subbietto trascendentale de’ pen- «“ sieri = X (Durch dieses Ich, oder Er, oder Es (das Ding), welches denkt, wird nun “ nichs weiter, als ein transcendentales Subiect der Gedanken = X)..... rigirandoci “ quindi in un Circolo incessante ,. E passa alla indicazione e disamina de’ quattro Paralogismi. Primo Paralogismo della Sostanzialità. Dunque, conformemente all’anzidetto, “ Io (ibid., pag. 280) sono, come essere “ pensante (come Anima), sostanza ,. Il nostro filosofo critica come paralogica tale affermazione, ricordando come, conformemente alla parte analitica della Logica trascendentale, “ le Categorie pure “ (ibid., pag. 281), e tra queste anche quella di sostanza, non hanno per sè stesse “ (an sich selbst) alcuna significazione oggettiva, quando ad esse non sia sottoposta “ (untergelegt) una intuizione, alla cui molteplicità possano essere applicate come fun- “ zioni dell'unità sintetica ,. La qual cosa non avviene nel caso della Categoria di sostanza, rispetto alla quale “ io non posso dunque in modo alcuno concludere (schliessen), “ che io, come essere pensante, nè sorgo nè trapasso (weder entstehe noch vergehe) ,. Se si vuole quindi affermare “la proposizione: L'Anima è sostanza (ibid., pag. 282), “ si può ben lasciarla valere (gelten lussen) ,, ma senza ulteriormente ed erratamente inferirne, per es., “ la permanente durata di essa (sostanza) in tutti i mutamenti “ (Vertinderungen, alterazioni), ed anche dopo la morte dell’uomo ,. Secondo Paralogismo della Semplicità. Questo argomento, dice Kant (ibid., pag. 283), “ che è l’Achille de’ sillogismi “ dialettici della Psicologia pura ,, è dal Dogmatismo così artificiosamente tessuto, che sembra di sostenersi persino contro il più acuto esame di chi lo investiga. Esposto in modo comune e popolare, esso suona come segue. “ Ogni sostanza composta (zusammengesetzte) è un aggregato di molti, e l’azione “ di un composto, ovvero ciocchè inerisce al medesimo come tale, è un aggregato di “ molte azioni o accidenze ( Accidentien), che è distribuito tra molte sostanze. Ora, È | 4 6 n R R n x 9 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 169 una azione che sorga dalla concorrenza di molte sostanze agenti è ben possibile, quando questa azione è soltanto esteriore (come per es., l’azione di un corpo è il movimento unito di tutte le parti di esso) ,. Ma la cosa è ben diversa “ con pen- sieri, quali accidenze appartenenti ad un essere pensante. Giacchè ponete che il composto pensasse: allora ogni parte di questo conterrebbe una parte del pensiere, e tutte le parti unite insieme conterrebbero primamente il pensiere. Ora questo è contraddittorio ,. E quindi consegue che l’anima, come sostanza pensante, è “ una sola sostanza, e non un aggregato di molti, e quindi è assolutamente semplice ,. Contro siffatto argomento Kant rileva: “ Il così detto nervus probandi di questo argomento sta nella proposizione: che, per formare un pensiere, debbano esser contenute molte rappresentazioni nell’unità assoluta del Subbietto pensante. Ma una tal proposizione non può dimostrarla nes- suno da concetti. Giacchè come dovrebbe egli fare per dimostrarla ? La propo- sizione: Un pensiere può esser soltanto l’azione dell’ unità assoluta dell’ Essere pensante, non può essere trattata (derandelt) analiticamente. Perchè l’unità del pensiere, il quale consiste di molte rappresentazioni, è collettiva e può, secondo i puri e semplici concetti, riferirsi tanto all’unità collettiva delle sostanze che vi cooperano (der daran mitwirkenden Substanzen; come il movimento di un corpo è il movimento composto di tutte le parti del medesimo), quanto all'unità assoluta del Subbietto. Dunque la necessità della presupposizione di una sostanza semplice in un pensiero composto (dei einem zusammengesetzten Gedanken) non può essere concepita (eingesehen) secondo la Regola dell’identità. Che poi la stessa proposizione debba essere riconosciuta sinteticamente ed interamente a priori mediante puri e semplici concetti, non ardirà di farlo alcuno, il quale conosce la possibilità di pro- posizioni sintetiche « priorî, secondo che abbiamo innanzi esposto ,. “ È anche parimenti impossibile (ibid., pag. 284) di derivare dall'esperienza questa necessaria unità del Subbietto siccome condizione della possibilità di ogni pensiere. Perchè l’esperienza non offre alcuna necessità di conoscere, tanto più che il concetto dell’ unità assoluta è di gran lunga superiore alla sfera speri- mentale ,. E allora “ anche qui (ibid., pag. 285), come nell’antecedente Paralogismo, rimane come totale fondamento la proposizione formale dell’appercezione: Io penso: fonda- mento, sul quale la Psicologia razionale arrischia la estensione delle sue conoscenze: e proposizione, che non è esperienza di sorta, ma la forma dell’appercezione che è annessa ad ogni esperienza e la precede ,,. Sicchè in conclusione “ la proposizione: Io son semplice, dev’esser considerata come una immediata espressione dell’appercezione, a quel modo stesso che l’opi- nato sillogismo cartesiano, cogito, ergo sum, nel fatto è tanto logico, in quanto cogito (sum cogitans) esprime immediatamente la realtà ,. Trattandosi dell’Achille degli argomenti della Psicologia razionale, il grande filosofo di Konisberga entra in ulteriori illustrazioni e confermazioni della critica da lui fatta. Ma io credo che l’allegato è più che sufficiente per esprimere ed intendere quest’ultima. Serie II. Tox. LXII. 22 170 PASQUALE D'ERCOLE 70 Terzo Paralogismo della Personalità. L'argomento paralogico della predetta Psicologia è: * Ciocchè è conscio della iden- * tità di sè stesso in tempi diversi, è, come tal coscienza, una Persona. Ma l’anima ece.; “ essa è dunque una Persona .. Così ibid. a pag. 290. Ela disamina e la critica di Kant sono le seguenti. “ Se io voglio conoscere mediante esperienza l'identità numerica di un oggetto “ esteriore, farò attenzione al permanente (auf das Beharrliche) di quel fenomeno (Erscheinung), a cui si riferisce tutto il rimanente siccome a Subbietto, ed osser- vare la identità di questo nel tempo, in cui muta. Ma io sono un oggetto del senso “ interno, e la totalità del tempo (alle Zeit) è soltanto la forma del senso interno. “ Per conseguenza io riferisco tutte e singole le mie successive determinazioni al Sè (Selbsi) numericamente identico in ogni tempo, ossia nella forma della intuizione “ interna di me stesso ,. Sicchè dunque * la identità della Persona (ibid., pag. 291) è a ritrovare imman- cabilmente nella mia stessa coscienza ,. * È nell’appercezione il tiempo è rappre- 3 sentato soltanto in me ,. Il che vuol dire che da questa mia appercezione interiore “ io non posso concludere alla obbieitiva persistenza (Beharrlichkei) di me stesso ,. Kant, ad ulteriore dimostrazione, fa qualche altra considerazione e chiude la critica del terzo Paralogismo con queste parole: “ Come la identità della Persona 5 fibid.. pag. 293) non segue in modo alcuno dalla identità dell'io nella coscienza “ di tutti i tempi, nella quale io mi riconosco. così non ha potuto esser fondata su “ di essa neppure la sostanzialità dell'Anima .. r Il quarto Paralogismo della Idealità. Il filosofo di Konisberga formola da prima l'argomento concernente tal Paralo- gismo nel seguente modo: . ® Quello alla cuì esistenza (ibid., pag. 294) può concludersi soltanto come di una * causa, in date percezioni, non ha che un'esistenza dubbiosa (zweifelhafie): * Ma tutti i fenomeni esterni sono di tal natura, che la ioro esistenza (Daseiyn) ° non può essere immediatamente percepita. ma che si può concludere ad essi come “ alla causa delle percezioni date: “ Dunque la esistenza di tutti gli oggetti de’ sensi esteriori è dubbiosa. Questa ° incertezza (Ungewissheit. dubbio) io la chiamo la Idealità de’ fenomeni esterni, e la “ dottrina di questa Idealità si chiama l’/dealismo, a paragone del quale l’afferma- © zione (die Behaupiung) di una possibile certezza di oggetti de’ sensi esteriori viene * appellata il Dualismo .. A tale argomentazione il grande filosofo fa seguire la Critica di questo quarto Paralogismo. Prima però di indicare la Critica, è bene di sentire un ulteriore schiarimento di Kant intorno alla natura del predetto Idealismo. * Per Idealista (dic'egli, ibid., ° pag. 295) non bisogna intendere quello che nega l’esistenza di oggetti esteriori dei * sensi, ma soltanto quello che non ammette che essa (esistenza) si conosca mediante vai LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 171 “ percezione immediata, ma che però da ciò conclude, che noi non possiamo mai “ divenire interamente certi della loro realtà per mezzo di qualsiasi esperienza ,. E soggiunge (a pag. 301) che “ Idealista dommatico sarebbe quello che nega “ l'esistenza della materia, e Idealista scettico quello che la mette in dubbio (bezweifelt), “ perchè la crede indimostrabile ,. Il quale Idealista scettico non solo non riesce dan- noso, ma è persino “ un benefattore della Ragione umana (ibid., pag. 302), in quanto “ ci obbliga ad aprir bene gli occhi, e a non ritenere per possesso bene acquistato « quello che ci procacciamo forse soltanto surrettiziamente (was wir erschleichen) ,. Ciò posto la Critica di Kant al quarto Paralogismo, è da lui come raccolta nel seguente luogo. « Io non posso (così egli, ibid., pag. 295) propriamente percepire cose esteriori, “ ma soltanto concludere dalla mia interna percezione alla loro esistenza esteriore, “ in quanto io considero questa come l’azione (die Wirkung), rispetto a cui la causa più vicina è qualcosa di esteriore. Ma il concludere (der Schluss) da una data azione ad una causa determinata è sempre incerto; perchè l’azione può essere ori- “ « “ ginata da più di una causa. Quindi nel rapporto della percezione alla sua causa riman sempre incerto, se questa sia interiore od esteriore, se dunque tutte le così dette percezioni non sieno un semplice giuoco (eîn blosses Spiel) del nostro senso interno, ovvero si riferiscano a reali oggetti esteriori come a loro causa. L’esi- stenza di quest'ultima è almeno soltanto conclusa, e corre il rischio di tutte le conclusioni, mentre al contrario l’oggetto del senso interno (cioè, Io stesso colle mie rappresentazioni) viene immediatamente percepito, e l’esistenza del medesimo non patisce alcun dubbio ,. A ciocchè è qui detto a scopo di Critica del quarto Paralogismo si collega un altro luogo, che voglio pure allegarlo, perchè riesce addirittura memorabile rispetto ad un posteriore famoso filosofo, che vi si collega direttamente. Il luogo (collimante, del resto, col generale pensiere critico kantiano) è questo: “ Io sono (ibid., pag. 297) “a me stesso consapevole (dewusst) delle mie rappresentazioni: dunque esistono queste ed io stesso, il quale le ha. Ma gli oggetti esterni (i corpi) son soltanto fenomeni, e perciò non sono altro che una specie (eine Art, un modo) delle mie rappresen- tazioni, i cui oggetti son qualcosa soltanto mediante queste rappresentazioni, e scongiunti (abgesondert) da esse non son nulla ,. Tutti riconosceranno in questo luogo il pensiere cardinale di quell’opera che s’in- titola: “ Il Mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vostellung) , e del suo autore Arturo Schopenhauer. Ma il punto più importante che rispetto ai Paralogismi e come a conclusione di essi vien qui da Kant considerato e diffinito, è quello che concerne la relazione di Anima e Corpo in vita e dopo morte, e la conseguente immortalità dell'Anima, « & & « & « che dalla esaminata Psicologia razionale viene affermata e sostenuta. Per intendere bene il pensiere di lui debbo ricordare che esso si collega all’ap- parenza trascendentale, di cui più volte si è parlato innanzi. E affinchè il lettore abbia presente il senso e il valore di essa, gli allegherò queste parole di Kant (ibid., pag. 315): “ Si può riporre ogni apparenza (allen Schein) in ciò, che la condizione “ subbiettiva del pensare vien tenuta (gehalten) per conoscenza dell’oggetto ,. Ciò posto Kant scrive: “ Su questa apparenza trascendentale de’ nostri con- 172 PASQUALE D'ERCOLE 72, « cetti psicologici (ibid., p. 306) si fondano tre quistioni dialettiche, che costituiscono “ lo scopo proprio della Psicologia razionale, e che non possono essere risolte che dalle “ ricerche antecedenti: vale a dire: 1° quella della comunione (Gemeinschaft, com- « mercio) dell'Anima con un Corpo organico, ossia, della animalità e dello stato “ (Zustand) dell'Anima nella vita dell’uomo; 2° quella dell’ inizio (Anfang) di tale “ comunione, ossia dell'Anima nella nascita e dopo la nascita dell’uomo; 3° quella “ della cessazione di questa comunione, cioò dell'Anima nella morte e dopo la morte “ dell’uomo (la quistione della immortalità) ,. E a tali quistioni Kant risponde col seguente importantissimo luogo (della prima edizione della Critica della R. P., e omesso nelle edizioni posteriori), cioè: “ Io sostengo “ (ibid., pag. 307) che tutte le difficoltà, che vi si crede d’incontrare in tali qui- stioni, e colle quali, come con obbiezioni dommatiche, si cerca di darsi l’importanza »R ‘ di penetrare nella natura delle cose più di quel che può il comune intelletto, riposi sopra una illusione (Blendwerk, fantasma), secondo la quale si ipostatizza (4ypo- stasirt) ciocchè esiste soltanto nel pensiere: cioè la illusione di tenere l'estensione, n ES R la quale non è che un fenomeno (Erscheinung), per una sussistente qualità di cose esteriori anche senza la nostra sensibilità, e di tenere il movimento per una azione “ (Wirkung), che è in sè reale (an sich wirklich) anche fuori de’ nostri sensi. Impe- rocchè, la materia, il cui commercio coll’ Anima suscita tanti dubbii (so viel Bedenken), ‘ non è altro che la pura e semplice forma 0 una certa specie di rappresentazione di un oggetto incognito mediante quella intuizione che si chiama il senso esterno. ES ES R Può dunque esservi fuori di noi qualcosa a cui corrisponde ciocchè chiamiamo materia; però essa non è fuori di noi nella stessa qualità di un fenomeno (#r- scheinung), ma è in tutto e per tutto (lediglich) un pensiere in noi, comunque questo pensiere mediante il mentovato senso se la rappresenta come esistente (befindlich) fuori di noi. Materia dunque non significa una specie di sostanza interamente di- versa ed eterogenea dell’oggetto del senso interno (anima), ma soltanto la etero- geneità (Ungleichartigkeit) delle manifestazioni di oggetti (in sè stessi a noi inco- gniti), le cui rappresentazioni noi chiamiamo esteriori in paragone di quelle che ‘ noveriamo come pertinenti al senso interno ,. Il fare di Anima e Corpo o Materia “ due specie di sostanze (ibid., pag. 312), “ della pensante e della estesa, pone il fondamento ad un grossolano dualismo ,, e fa sì che quelle che “ sono soltanto rappresentazioni del subbietto pensante diven- “ gano cose per sè (Dinge fiir sich) ,. E la conseguenza di ciò è che noi “ ci avvol- “ giamo (ibid., pag. 314) in un circolo eterno di equivoci e di contraddizioni ,. Tra i filosofi hegeliani quello che più ha accolto, inteso e ulteriormente svilup- pato questo luogo kantiano concernente la natura e la relazione di Anima e Corpo è Pietro Ceretti, come si può chiaramente scorgere dalla mia ultima opera intorno a lui, intitolata “I Saggio di Panlogica dell’hegeliano Pietro Ceretti ,. ES ES n CS R G L’Antinomia della Ragione pura, e la Cosmologia razionale. Nell’iniziare l’esame di tal parte della Dialettica trascendentale, il Kant rileva subito tra il Paralogismo e l’Antinomia una differenza, ch’ egli dice maravigliosa x (merkwiirdig, ibid., pag. 323). La qual differenza è, che “ il Paralogismo trascenden- 73 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 173 “ tale ha un'apparenza (Schein) soltanto unilaterale rispetto alla Idea del Subbietto « del nostro pensare ,; mentre nell’Antinomia e nella “ corrispondente applicazione “ della Ragione alla Sintesi obbiettiva de’ fenomeni (Erscheinungen) ,, si mostra “ un “nuovo fenomeno della Ragione, cioè un’Antitetica interamente naturale, intorno a cui nessuno ha bisogno di lambiccarsi il cervello e tender lacciuoli artificiosi (griibeln und kiinstlich Schlingen legen), ma in cui la Ragione cade da sè stessa e “ inevitabilmente ,. Ciò posto, il nostro grande filosofo inizia l’esame di ciocchè egli chiama “ il Sistema delle Idee cosmologiche ,, rispetto al quale nota due cose. La prima è che è soltanto dall’ Intelletto (ibid., pag. 325), che possono sorgere concetti puri e tra- scendentali, e che la Ragione invece non produce (erzeuge) propriamente alcun con- cetto, ma in ogni caso libera (frei mache) soltanto il concetto intellettivo dalle inevitabili restrizioni di una possibile esperienza, e cerca di allargarlo (erweîtern) al di sopra de’ limiti dell’empirico, però in collegamento col medesimo ,. Questo allargamento, cioè superamento di limiti, si continua e sale fino all’Incondizionato. La Ragione lo cerca, fondandosi sulla massima (Grundsate): Quando è dato il condizio- nato, è data anche tutta la somma delle condizioni, e con essa è dato l’assolutamente K& “ “ & “ x o Incondizionato, mediante il quale soltanto il condizionato è possibile. Dunque le idee trascendentali son primamente non altro che Categorie allargate fino all’Incondizio- nato, e si lasceranno allogare in una Tavola, che è ordinata secondo il titolo di queste ultime. “ La seconda è però che non tutte le Categorie son buone all’uopo, “ ma soltanto quelle, in cui la sintesi costituisce una serie (Reihe), e propriamente “ quelle che son condizioni subordinate l’una dopo l’altra (non una accanto all’altra) “ad un condizionato. La totalità assoluta è dalla Ragione richiesta solo in tanto, in “ quanto concerne la serie ascendente delle condizioni ad un dato condizionato; perciò “non quando si tratta della linea discendente delle sequele (Folgen) e neppure del- “ l’aggregato di condizioni coordinate a queste sequele ,. Quanto alla Tavola delle Categorie testè mentovata, l'importante della cosa con- cerne innanzi tutto “ i due quanti (quanta, quantità) originarii di tutta la nostra “ intuizione, Zempo e Spazio (ibid., pag. 327). Il Tempo è in sè stesso una serie “ (Reihe, e la condizione formale di tutte le serie), e perciò in esso, rispetto a un «“ presente (Gegenwart), gli antecedenti (antecedentia) siccome condizioni (il Passato, “ das Vergangene) sono a distinguere da’ conseguenti (dal Futuro, dem Zukiinftigen). “ Per conseguenza la Idea trascendentale dell’assoluta totalità della serie delle con- “ dizioni ad un dato condizionato si riferisce soltanto al Tempo passato. Secondo la “ Idea della Ragione vien necessariamente pensato come dato tutto il Tempo tra- “ scorso quale condizione del momento (Augenblick, istante) dato. Per ciocchè con- “ cerne poi lo Spazio in sè stesso, in esso non vi è alcuna distinzione di progresso “e di regresso, perchè esso costituisce un aggregato e non una serze, essendo le sue “ parti tutte eguali ,. Ciocchè qui vien chiamo l’aggregato nello Spazio, aggregato che costituisce poi “ Ja realtà nello Spazio stesso , equivale a ciocchè è altrimenti appellato Materia (ibid., pag. 328). L’altro punto importante considerato nel predetto “ Sistema delle Idee cosmo-. “ logiche , è quello che concerne la Idea del Mondo. “ Noi abbiamo (dice Kant, 174 PASQUALE D'ERCOLE ui “ ibid., pag. 332) due espressioni: Mondo e Natura (Welt und Natur), che talvolta si * scambiano. La prima espressione indica la totalità matematica de’ fenomeni tutti “ e la totalità della loro sintesi, tanto nel grande quanto nel piccolo, vale a dire, “ nella progressione (Forischritt) di essi tanto mediante la composizione quanto me- “ diante la divisione. Ma quel medesimo Mondo vien anche chiamato Natura, in “ quanto vien considerato come un Tutto dinamico, e si guarda non all’aggregazione “ nello Spazio e nel Tempo, ma all’unità nella esistenza (Daseyn) de’ fenomeni .. Nella seconda Sezione concernente l’Antinomia della Ragion Pura Kant statuisce molto nettamente e determinatamente i concetti di Tetica ed Anfifetica nel modo seguente: “ Se Tetica (dic’egli, ibid., pag. 334) è ogni complesso di dottrine dom- “ matiche, per Antitetica io non intendo asserzioni dommatiche dell’opposto (des “ Gegentheils), ma il contrasto (den Widerstreit, l'opposizione) delle dottrine domma- “ tiche secondo l'apparenza (thesin cum antithesi), senza preferenza di approvazione “ dell'una rispetto all'altra .. Noi dobbiamo dunque siccome giudici imparziali del combattimento (unpar- “ teische Kampfrichter) lasciar da banda se la causa per cui i combattenti combattono sia buona o cattiva (ibid., pag. 336). Tal modo o metodo di comportarci nella giu- dicazione si può chiamare il Metodo scettico: metodo che procede verso la certezza (Gewissheit), in quanto cerca di scoprire il punto di frantendimento, e giungere alla conoscenza del difettivo che è nel contrasto. Ed ora il nostro filosofo passa addirittura alla esposizione dell’ Antinomia esi- stente nella Idea cosmologica, mettendoci dinanzi e a riscontro la Tesi e l’Antttesi. Prima Antinomia. Tesi. ANTITESI. “ Il Mondo ha un inizio nel Tempo, e, secondo lo Spazio, è anche inchiuso (einge- schlossen, confinato) in limiti ,. DmirosTRAZIONE. “ Giacchè, se si ammette che il Mondo secondo il Tempo non abbia avuto un inizio, dev'essere fino ad ogni istante dato trascorsa una eternità, ed esser quindi trascorsa una serie infinita di stati delle cose nel Mondo succedentisi l’uno all’altro. Ora, la infinità di una serie consiste appunto in ciò, che essa non può maì compiersi mediante una sintesi successiva. Dunque è impossibile una trascorsa serie del Mondo, e quindi un inizio del Mondo è una necessaria condizione della sua esi stenza: il che era primamente a dimostrare. “ Se si ammette il contrario di ciò, il Mondo diviene una infinita Totalità data di cose insieme esistenti. Ora, noi non possiamo pensare la grandezza di un quanto, dato entro “ DI Mondo non ha alcun inizio ed aleun limite nello Spazio, ma è infinito tanto rispetto al Tempo quanto rispetto allo Spazio ,. DiMosTRAZIONE. “ Giacchè, se si ammette che il Mondo abbia un inizio, come l’inizio è una esistenza, alla quale precede un Tempo, in cui la cosa (das Ding) non è, così deve aver preceduto un Tempo, in cui il Mondo non era, ossia deve esser preceduto un Tempo vuoto. Ma în un Tempo vuoto non è possibile il sorgere di alcuna cosa..... Dunque nel Mondo può bensì cominciare più di una serie di cose, ma il Mondo stesso non può avere alcun comin- ciamento, ed è quindi infinito rispetto al Tempo passato. “ Quanto alla seconda affermazione, si ammetta pure il contrario, che cioè il Mondo secondo lo Spazio è finito e limitato. Vi do- vrebbe dunque essere non soltanto una rela- =] O certi limiti di qualsiasi intuizione, in altro modo se non mediante la sintesi delle parti, e la totalità di un tal quanto soltanto me- diante la compiuta sintesi, ovvero mediante ripetuta addizione dell’unità a sè stessa. Con- formemente a ciò, per pensarsi il Mondo sic- come un Tutto, che riempie tutti gli Spazii, dovrebbe la sintesi successiva delle parti di un Mondo infinito esser considerata come com- piuta (vollendet), cioè, nel novero ( Durch- edhlung) di tutte le cose coesistenti, dovrebbe esser considerato come trascorso un tempo infinito, il che è impossibile. Quindi un ag- gregato infinito di cose reali non può esser considerato come un Tutto dato, e perciò nep- pure come contemporaneamente (zugleich) dato. Conseguentemente un Mondo, secondo l’esten- sione nello spazio, n0n è infinito, ma circo- scritto (eingeschlossen) nei suoi limiti; che era la seconda ammissione ,. LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 175 zione delle cose nello Spazio, ma anche una relazione di queste verso lo Spazio. Ma sic- come il Mondo è un Tutto assoluto, fuori di cui non può esservi aleun oggetto della in- tuizione e quindi aleun correlato del Mondo, col qual correlato questo sia in rapporto, così il rapporto del Mondo allo Spazio vuoto sa- rebbe un rapporto di quello a nessun oggetto. Ma un siffatto rapporto, e quindi anche la limitazione (Begrenzung) del Mondo mediante uno Spazio vuoto è il Nulla (Nic4?s); dunque il Mondo, secondo lo Spazio, non è limitato, ossia esso rispetto alla estensione è infinito ,. Il Kant fa delle osservazioni a questa prima Antinomia. Rispetto alla Tesi osserva che egli non ha cercato ragioni avvocatesche, ma che le ragioni, con cui la sostiene, sorgono da essa medesima. E quanto all’Antitesi osserva essergli ben noto che non manchino di quelli che credono che “ un limite del Mondo, secondo il Tempo “ e lo Spazio, sia possibile ,. Ma egli ritiene ciò errato ed adduce ulteriori illustra- zioni e dimostrazioni per sostenere la verità di ciocchè nell’Antitesi ha sostenuto. Seconda Antinomia. TESI. © Ogni sostanza composta nel Mondo con- siste di sostanze semplici, e da per tutto non esiste che il semplice, ovvero ciò che è com- posto da questo ,. DIMOSTRAZIONE. “ Giacchè, se si ammette che le sostanze composte non consistano di parti semplici, non rimarrebbe, ove ogni composizione ve- nisse soppressa (aufgehoben) in pensieri, al- cuna parte composta, e (non dandosi parti semplici) neppure alcuna parte semplice; quindi non vi rimarrebbe nulla, e conseguen- temente non vi sarebbe stata neppure alcuna sostanza. Siechè dunque, o non è possibile che si sopprima (auffieben) ogni composizione în pensieri, ovvero, dopo la soppressione di questi, deve rimaner qualche cosa di essente (Bestehendes) senza alcuna composizione, ossia deve rimanere il semplice. Ma nel primo caso ANTITESI. “ Nessuna cosa composta nel Mondo con- siste di parti semplici, e da per tutto non vi ha in alcuna alcunchè di semplice ,. DIMOSTRAZIONE. “ Si ammetta pure che una cosa composta (come Sostanza) consista di parti semplici. Siccome ogni rapporto esteriore, e quindi anche ogni composizione di sostanze è possi- bile soltanto nello Spazio, così di quante parti consiste il composto, di altrettante deve con- sistere lo Spazio occupato dal composto. Ma lo Spazio non consiste di parti semplici, ma di Spazii. Dunque ogni parte del composto deve prendere (eimnehmen, occupare) uno Spazio. Ma le parti assolutamente prime (schlechthin ersten) di ogni composto sono sem- plici. Dunque il semplice occupa uno Spazio. Ma, come ogni reale che occupa uno Spazio 176 PASQUALE D'ERCOLE 76 il composto di bel nuovo non consisterebbe di sostanze (perchè in queste la composizione è soltanto un rapporto accidentale delle so- stanze, senza il quale queste, come esseri (Wesen) permanenti, dovrebbero sussistere). Ma, come questo caso contraddice alla pre- supposizione, così non rimane che il secondo caso, che cioè nel Mondo il sostanziale com- posto consiste di parti semplici. Conseguenza immediata di ciò è che le cose del Mondo son tutte esseri ( Wesen) semplici ,. Notoriamente, questo è il pensiere dot- trinale di Leibniz. comprende in sè un molteplice (Mannigfaltige, vario) esistente esteriormente, ed è perciò com- posto, e persino, qual reale composto, non è composto di Accidenze (perchè queste senza sostanza non possono essere l’una fuori del- l’altra), ma di sostanze, così il semplice sa- rebbe un sostanzialmente composto, il che è contraddittorio. “ La seconda proposizione dell’Antitesi, che cioè nel Mondo non esiste nulla di sem- plice, deve qui significar soltanto che l’esi- stenza dell’assolutamente semplice non può esser mostrata (dargethan) da alcuna espe- rienza o percezione nè esterna, nè interna, e che l’assolutamente semplice sia una semplice Idea, la cui realtà obbiettiva non può esser mai mostrata (dargethan) in alcuna esperienza possibile, e manca quindi nella esposizione dei fenomeni di qualsiasi applicazione ed oggetto. Giacchè, se noi ammettiamo che per sì fatta Idea trascendentale si lasciasse trovare un og- getto dell’esperienza, allora la intuizione em- pirica di un qualche oggetto dovrebb’ essere conosciuta come tale, che non contiene asso- lutamente alcun molteplice (Mannigfaltiges) estrinseco e congiunto ad unità (unificato). Ma; come dalla mancanza di coscienza (Nichtbe- wusstseyn) di un tal molteplice non può con- cludersi alla totale impossibilità del medesimo in qualsiasi intuizione di un obbietto, il quale ultimo. però è assolutamente necessario alla semplicità assoluta; così segue che questa non può esser conclusa da alcuna percezione, quale pur sia ,. Così riman ferma la proposizione che nel Mondo sensibile (Sinnenwelî) £ non vi sia nulla di semplice ,. Osservazioni alla seconda Antinomia. Rispetto alla Tesi Kant dà ulteriori schiarimenti rispetto al modo come egli . intende il semplice, cioè * come elemento del composto ,. Al qual riguardo, riferen- dosi a Leibniz dice che “ il significato proprio della parola Monas (ibid., pag. 350) “ dovrebbe essere quello di semplice come sostanza, e non come elemento del “ composto ,. E, quanto all’Antitesi, dice che contro il principio sostenuto di una * infinita divi- “ sione della materia, la cui dimostrazione è soltanto matematica ,, i Monadisti op- pongono argomentazioni degne di sospetto (verdichtig), e tratte da “ concetti arbi- “ trarii, che non possono essere riferiti a cose reali , (ibid., pag. 348). E, oltre a ciò, allega ulteriori illustrazioni e argomentazioni a sostegno del proprio asserto. “I Dei LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. IC77) Terza Antinomia. Tesi. “ Secondo le leggi della Natura la Cau- salità non è la sola, da cui i fenomeni del Mondo nel lor complesso possano essere de- dotti. È anche necessario di ammettere, per la spiegazione de’ medesimi una Causalità me- diante Libertà (eine Causalitàt durch Freiheit),. DIMOSTRAZIONE. “ Si ammetta pure che non vi sia altra Causalità se non quella che è secondo le leggi della Natura, allora tutto ciocchè avviene pre- suppone uno stato antecedente, a cui imman- cabilmente segue secondo una Regola. Ma lo stato antecedente stesso dev'essere qualche cosa che è avvenuta (e avvenuta nel Tempo, perchè essa prima non era); per la ragione che, se fosse stata sempre (Jederzeit, in ogni tempo), la conseguenza di essa non sarebbe primamente sorta, ma sarebbe stata sempre. Dunque la Causalità della causa, per cui qualche cosa avviene è essa stessa (Causalità) qualche cosa di avvenuto, il quale, secondo la legge della Natura, suppone di bel nuovo uno stato precedente e la Causalità del medesimo, il quale presuppone alla sua volta uno stato di data anteriore (noch dlteren Zustand), e così di seguito. Se dunque avviene tutto sol- tanto secondo le leggi della Natura, vi è sempre un inizio (Anfang) subalterno, e giammai un primo inizio, ed in generale non vi è mai la compiutezza ( Vollstindigkeit) della Serie delle Cause orisinantisi l’una dall’altra. Ma la legge della Natura consiste appunto in ciò: che, cioè, senza una causa sufficiente- mente determinata 4 priorî, nulla avviene ,- Donde il Kant stima necessario “ doversi ammettere (ibid., pag. 354) una Causalità, me- diante la quale avvenga qualche cosa senza che la causa di questa sia determinata, se- condo necessarie leggi, da un’altra precedente, doversi, cioè, ammettere un’ assoluta sponta- neità delle Cause, perchè inizii da sè stessa una Serie di fenomeni che corra secondo leggi di Natura, e quindi una Libertà trascenden- tale, senza della quale, nel corso della Natura, la sequela (Reihenfolge) de’ fenomeni dal lato delle Cause non è mai compiuta ,. Serie II. Tox. LXIL ANTITESI. “ Non c’è alcuna Libertà, ma ogni cosa nel Mondo avviene puramente secondo leggi di Natura ,. DIMOSTRAZIONE. “ Si ammetta pure che vi sia una Libertà nell’Intelletto trascendentale (im transcenden- talen Verstande, nel senso trascendentale) sic- come una specie particolare di Causalità, se- condo cui potessero seguire (erfolgen) gli avve- nimenti del Mondo, cioè un Potere ( Vermogen) di iniziare uno stato e quindi di iniziare as- solutamente una Serie di conseguenze (Rezhe von Folgen) del medesimo: allora non sorge soltanto una Serie mediante questa Sponta- neità, ma sorge la stessa determinazione di questa Spontaneità per produrre la Serie, vale a dire, dovrà iniziarsi assolutamente la Cau- salità, in guisa che non preceda alcuna cosa per mezzo della quale l’azione avvenente sia determinata da leggi costanti. Ma ogni inizio di azione presuppone uno stato della Causa non ancora agente; e l’inizio dell’azione dina- micamente primo presuppone uno stato che non ha alcun legame (Zusammenhang) di Cau- salità con quello che precede la stessa causa, ossia non ne consegue in alcuna guisa. Dunque la Libertà trascendentale si oppone alla legge causale ,, ecc..... ‘“ Dunque non abbiamo niente altro che la Natura, nella quale dobbiamo cercare il legame e l’ordine degli avvenimenti del Mondo ,. Ibid., pag. 354. 23 178 PASQUALE D'ERCOLE 78 Osservazioni alla terza Antinomia. In queste osservazioni non ricorre nulla di nuovo rispetto alle illustrazioni ed argomentazioni arrecate nella Tesi e nell’Antitesi. Si aggiungono soltanto ulteriori considerazioni per mostrare la rettitudine delle argomentazioni fatte e la necessità di ammettere, in virtù del modo di procedere degli avvenimenti mondani, ciocchè sostengono sì la Tesi che l’Antitesi. Quarta Antinomia. Tesr. € Al Mondo appartiene qualche cosa, la quale è un Essere assolutamente necessario, o come Parte ovvero come Causa del mede- simo ,. DIMOSTRAZIONE. “ Il Mondo sensibile, siccome la totalità (das Ganze) de’ fenomeni, contiene una Serie di mutamenti. Giacchè, senza di questi non ci sarebbe data neppure la rappresentazione (Vorstellung) della Serie temporale siccome condizione della possibilità del Mondo sensi- bile. Ma ogni mutamento soggiace alla sua condizione, la quale secondo il tempo antecede (vorhergeht), e sotto la quale è necessaria (1). Intanto, ogni condizionato dato, rispetto alla sua esistenza, presuppone una Serie compiuta di condizioni fino all’ assolutamente Ineondi- zionato, il quale solo è assolutamente neces- sario ,. Ma la necessaria esistenza di un Essere assolutamente incondizionato dev’ essere ac- compagnata dalla esisenza che un sì fatto Essere non sia fuori del Mondo, ma nel Mondo stesso. Giacchè, “ se fosse fuori di esso (ibid., pag. 361), la Serie de’ cangiamenti mondani trarrebbe il suo inizio da esso, senza che questa Causa necessaria appartenesse al Mondo ,. Dunque è rel Mondo stesso che si contiene l’Essere assolutamente necessario, ecc. (1) È necessaria, cioè necessariamente avviene. ANTITESI. “ Non esiste da per tutto alcun Essere assolutamente necessario nè nel Mondo, nè fuori del Mondo come Causa del medesimo ,. DIMOSTRAZIONE. Giacchè “ si ponga pure che il Mondo sia, o nel Mondo vi sia un Essere necessario, in tal caso nella Serie de’ mutamenti mondani vi sarebbe un inizio (Arfang) incondizionata- mente necessario, e quindi senza una Causa, il che contraddice (widerstreitel) alla legge di- namica della determinazione (Bestimmung) di tutti i fenomeni nel tempo, ovvero la Serie sarebbe essa .stessa senza qualsiasi inizio; e benchè accidentale e condizionata nelle sue parti (i ihren Theilen), pur sarebbe nel tutto (im Ganzen) assolutamente necessaria ed in- condizionata, il che è contraddittorio; perchè l’esistenza di una moltitudine (Menge) non può essere necessaria quando nessuna parte di essa possiede un’esistenza in sè necessaria ,. “ Se, al contrario, sì ponga vi sia fuori del Mondo una Causa di esso (eine Weltur- sache) assolutamente necessaria, questa come il membro supremo (das oberste Glied) nella Serie delle Cause de’ mutamenti mondani, inizierebbe primamente l’esistenza e la Serie de’ medesimi. Ma allora dovrebbe anche co- minciare ad agire (iniziare l’azione), e la sua Causalità apparterrebbe al Tempo, e perciò al complesso de’ fenomeni, ossia farebbe parte del Mondo, ..... il che contraddice alla presup- posizione. Dunque non v'è nè nel Mondo, nè fuori di esso (con esso però in legame cau- sale) un Essere assolutamente necessario ,. «I [Yo] LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 179 Osservazioni alla Quarta Antinomia. Quanto alla Tesi il punto principale delle osservazioni fatte dal Kant è che l'argomento sul quale egli fonda il sostegno della medesima è un argomento cosmo- logico, che muove dal condizionato per giungere attraverso la Serie delle condizioni «ad un Essere incondizionato. E aggiunge che “ il tentare la dimostrazione (ib., “ pag. 362) dalla semplice Idea di un Essere supremo rispetto a tutti gli altri esseri “ appartiene ad un altro principio della Ragione, e una tal dimostrazione sarà fatta “ in modo speciale ,. «“ Quanto all’Antitesi, osserva che anche per essa si è valuto di una argomenta- zione parimenti cosmologica, nella quale si è potuto validamente, secondo questa “ però, sostenere il contrario della prima ,. To continuo intanto la esposizione del pensiere di Kant rispetto al modo di con- cepire e risolvere l’Antinomia dell’Idea cosmologica, e dopo esporrò la mia opinione in proposito. Il Kant passa intanto in una terza Sezione a trattare “ dell’interesse della Ra- “ gione in questo conflitto ( Widerstreite) , antinomico, e trova che la Ragione vi ha un triplice interesse. Il primo è un interesse pratico, in quanto le quattro Tesi poste e dimostrate costituiscono, secondo il nostro filosofo (ib., pag. 370), “ tante pietre “ fondamentali (Grundsteine) della Morale e della Religione ,.Il secondo è un “ inte- “ resse speculativo (ib., pag. 371) ,, mostrantesi nella stessa opposizione fatta alla Tesi, con le opposte dimostrazioni dell’Antitesi; perchè è certo un vantaggio specu- lativo “ il potere cogliere (fassen) interamente « prior: tutta la catena delle condi- “ zioni, e comprendere la deduzione del condizionato, cominciando da un Incondizio- “ nato, che l’Antitesi non dà (leîstet) ,.Il terzo è un interesse che ha “ la preferenza “ (Vorzug) della popolarità, preferenza che non costituisce la parte minima , nell’in- teresse della Ragione. « Il filosofo di Konisberga, in una quarta Sezione passa a considerare i “ compiti “ trascendentali della Ragione pura, in quanto debbono assolutamente poter essere “ risolti (aufgelòset) ,. “ Voler risolvere (dic’egli, ib., pag. 377) tutti i quesiti sarebbe tal vantamento “ e tale eccessiva vanità, da perder presto ogni fiducia ,. E, d’altra parte, vi sono scienze che possono risolvere tutti i quesiti che sorgono in esse, ed altre che non lo possono. “ Nella spiegazione de’ fenomeni della Natura (ib., pag. 378) molte cose “ debbono rimanerci incerte, molti quesiti insoluti; perchè ciocchè sappiamo della “ Natura rispetto a quello che dobbiamo spiegare è di gran lunga insufficiente in “ tutti.i casi... Quanto alla Filosofia trascendentale, alla domanda se essa possa o non possa risolvere tutti i quesiti ed in quali limiti e in qual modo lo possa, Kant risponde: “ Io sostengo che la Filosofia trascendentale rispetto alla conoscenza speculativa abbia “ questo di proprio, che nessun quesito (/rage) che concerne un dato oggetto della “ Ragione pura sia insolubile ,. ...Senonchè in tal Filosofia trascendentale “ i quesiti rispetto ai quali si può dare con diritto (mit Recht) una risposta soddisfacente sono i cosmologici, risposta che concerne la qualità (Beschaffenheit, il modo di essere) dell’oggetto ,. « “ « 180 PASQUALE D’ERCOLE so Di scienze razionali (Vernunftwissenschaften), che abbiano principii certi e pos- sano dare risposte soddisfacenti ai loro quesiti non ve n’ha che due altre, cioè la Matematica pura e la Morale pura. Rispetto alla prima di queste due non si è mai sentito dir da alcuno che “ per ignoranza delle condizioni , sia incerto il sapere = quale rapporto abbia il diametro col circolo .. E rispetto alla seconda, © nei Prin- =“ cipii generali de’ costumi non può esservi nulla d’incerto. perchè le sue massime “ (die Satze, ib., pag. 380) o non sono in modo alcuno e non hanno senso (sind “ sinnleer), ovvero debbono sorgere soltanto da’ nostri-concetti razionali ( Vernunft- = begriffen) .. Del resto, sozgiunge Kant (ib.. pag. 381), se non giungiamo alla solu- zione de’ quesiti proposti, non “ dobbiamo lagnarci dei limiti ristretti della nostra “ Ragione ,, e “ non attribuirne la colpa alla cosa che a noi rimane nascosta ,, ma “ dobbiam cercarne la causa nella nostra Idea stessa, la quale è un Problema che “ permette una soluzione. e per cui noi ostinatamente ammettiamo che alla nostra “ Idea corrisponda un reale oggetto .. Kant procede, in una quinta Sezione, a considerare le Antinomie dal punto di vista di una rappresentazione scettica rispetto ai quattro quesiti della Tesi e dell’An- titesi innanzi discorsi. Questa rappresentazione scettica e l'utile risultante da essa egli li intende in questo modo: che cioè egli torna a riesaminare criticamente gli argomenti cosmo- logici tanto della Tesi quanto dell’Antitesi. e trova che comunque questi argomenti paiano diritti, pur giungono a sostenere i secondi l'opposto di ciocchè sostengono i primi. Ora tale contraddicente conflitto di essi (dic’egli. ib., pag. 387) “ ci conduce “ al sospetto fondato, che le Idee cosmologiche . e il contrasto contraddittorio “ possan “ poggiare sopra un vuoto ed immaginario concetto rispetto al modo come ci è dato “ l'oggetto di tali Idee .. il qual sospetto ci può forse mettere “sulla traccia di “ scoprire la illusione (das Blendererk), che ci ha così lungamente fuorviati ,. Alla quinta succede una sesta Sezione pur concernente l’ Anfinomia delle Idee cosmologiche, e consistente nel sostenere “ l'Idealismo trascendentale come la chiave < della soluzione della Dialettica pura cosmologica .. A ricordo e determinazione di ciocchè Kant chiama Idealismo, egli dice qui (ib., pag. 388): “ Tutti gli oggetti di una possibile esperienza non sono altro che “ fenomeni, cioè semplici rappresentazioni (Vorstellungen). le quali, quando vengono “ rappresentate come esseri (Wesen) estesi, o Serie di mutamenti, non hanno alcuna “ fondata esistenza fuori dei nostri pensieri. Un così fatto concetto dottrinale (Lehr- begriff) io chiamo l'Idealismo trascendentale .. Ad ulteriore determinazione dell’Idealismo trascendentale e a rimuovere ogni equivoco in proposito, soggiunge: * Il Realista in senso trascendentale fa di talî “ modificazioni della nostra Sensibilità Cose in sè sussistenti, e quindi fa di semplici “ rappresentazioni Cose in sè stesse .. è “ Si farebbe a noi un torto, se si volesse attribuirci un Idealismo empirico da “ Innga pezza screditato (rerschrieenen). il quale. mentre ammette la realtà dello “ Spazio, nega, o almeno trova dubbiosa l’esistenza degli esseri estesi in esso, e non “ ammette a tal riguardo alcuna distinzione sufficientemente dimostrabile. Quanto “ ai fenomeni del senso interno nel Tempo, nei quali non trova difficoltà di tenerli “ per Cose reali, sostiene persino che la esperienza interna a sufficienza e da sola DO i LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 181 «“ dimostra la reale esistenza del suo obbietto (in sè stesso e con la determinazione “ del tempo) ,. Contrariamente a ciò “ il nostro Idealismo trascendentale (ibid., pag. 389) am- mette che gli oggetti della nostra intuizione sieno reali come sono intuiti nello “ Spazio, e come se ne rappresenta i mutamenti nel Tempo ,. “ Ma quello Spazio “ stesso e con questo il Tempo, e con essi entrambi, i fenomeni (die Erscheinungen) non sono Cose (Dinge), ma son soltanto rappresentazioni che non possono esistere “ fuori del nostro sentimento (Gemzità, come oggetto della coscienza) ,. Nella settima Sezione dell’Antinomia cosmologica Kant prende in considerazione “ la deliberazione critica della Ragione con sè stessa rispetto al conflitto (tre) cosmologico ,. ì Il nostro filosofo torna a considerare il procedimento delle argomentazioni cosmo- logiche finora fatte intorno alla Tesi ed all’Antitesi, e trova che esse sono regolar- mente fatte. E viene alla conclusione che “le dimostrazioni anteriormente fatte “ (ibid., pag. 400) intorno alle Antinomie non sono illusioni (Blendwerke), ma erano “ fondate, sotto la presupposizione però, che i fenomeni o il Mondo sensibile nel “ complesso erano Cose in sè stesse ,. Passa in una ottava Sezione pur concernente l’Antinomia predetta, a conside- rare il “ Principio regolativo della Ragione pura rispetto alle Idee cosmologiche ,. E in tal considerazione prende a norma della Ragione i seguenti principii: “ La « massima (Grundsatz, ibid., pag. 401) della Ragione è propriamente una Regola, “ che nella Serie delle condizioni di fenomeni dati prescrive un regresso, al quale “ non è mai permesso di arrestarsi ad un assolutamente Incondizionato ,. Ma tal Prin- cipio non è costitutivo; è però capace “ di estendere il concetto del Mondo sensibile “ “ al di là di ogni possibile esperienza ,. Ciò non ostante, è “ un Principio della « Ragiore che postula (postulirt, domanda) ciocchè deve avvenirci nel regresso, e non “ anticipa ciocchè è dato nell’oggetto prima di qualsiasi regresso. Perciò io lo chiamo un Principio regolativo della Ragione, mentre al contrario il principio dell’assoluta totalità della Serie delle condizioni, come data nell’oggetto (ne’ fenomeni) in sè stesso, sarebbe un Principio cosmologico costitutivo ,. Nella seguente nona Sezione, sempre intorno all’ Antinomia, tratta “ dell’uso “ empirico del Principio regolativo della Ragione rispetto a tutte le Idee cosmo- logiche ,. A maggiore illustrazione e determinazione di ciocchè Kant vuol qui fare, dice che, avendo dimostrata la (Ungiiltigkeit) invalidità della Ragione come Principio costi- tutivo, ora prende in considerazione “ la validità (die Giiltigkeit, ibid., pag. 406) del € principio razionale come Regola della continuazione (Fortsetzung) e grandezza di una “ esperienza possibile ,. E fa questo rispetto a varii punti, che sono i seguenti. Il primo di questi punti è da lui designato come “ Soluzione della Idea cosmo- “ logica, concernente la totalità della composizione de’ fenomeni di un Tutto Mon- “ dano (Weltganzen, integrità del Mondo, ibid., pag. 407 segg.) ,. Il secondo è desi- gnato come “ Soluzione della Idea cosmologica, concernente la totalità della divisione “ di un tutto dato nella intuizione , (ibid., pag. 412 segg.). Segue a questi due punti un ferzo concernente la “ Soluzione delle Idee sì matematicamente che dinami- “ camente trascendentali ,. Un quarto punto di considerazione (ibid., pag. 418 segg.) 182 PASQUALE D'ERCOLE s2 (0.6) è quello intitolato: * Soluzione delle Idee cosmologiche, concernente la Totalità “ degli avvenimenti del Mondo dalle loro Cause .. Un quinto punto concerne (ibid., pag. 422 segg.) “ la Possibilità della Causalità mediante Libertà in unione (Vereinigung) | = colla legge generale della necessità naturale .. A questo quinto punto stesso fa seguire uno schiarimento (ibid., pag. 425 segsg.). Indi il Kant passa alla considera- zione di un sesto punto designato come * Soluzione (ibid., pag. 438) della Idea = cosmologica rispetto alla Totalità della dipendenza de’ fenomeni secondo la loro “ esistenza .. i Io credo di poter dire, senza tema di errare. che. ad onta dell’interesse che suscita tutto ciocchè pensa e scrive Kant, non escluso ciocchè pensa e scrive de’ mentovati sei punti, pur non di meno non vi sono punti veramente nuovi di trattazioni: sono gli stessi punti già trattati nelle Sezioni antecedenti con ulteriori illustrazioni e di- mostrazioni. Un punto, che possiam designare come settimo ed ultimo qui rilevato e trattato, ed anche assai brevemente (ibid., pag. 442-444), è quello intitolato: “ Osservazione * finale (Schl/ussanmerkung) rispetto a tutta l'Antinomia della Ragione pura .. Kant statuisce in proposito: * Finchè coi nostri concetti razionali abbiamo ad “ oggetto soltanto la totalità delle condizioni nel Mondo sensibile e ciocchè rispetto “ ad essa può avvenire in servizio della Ragione, le nostre Idee sono bensì trascen- = dentali, ma cosmologiche. Ma appena che noi poniamo l’/ncondizionato (del quale “ propriamente abbiam che fare) in ciocchè è fuori del Mondo sensibile, e quindi “fuori di ogni possibile esperienza, le Idee divengono irascendenti ., e, come tali “ divengono esse stesse oggetti (Gegenstande) . della Ragione pura. Importantissimo è intanto di notare che “ siffatte Idee trascendenti (ibid., pa- “ gina 443) hanno un oggetto soltanto intelligibile (intelligibelen), che è bensì per- “ messo di ammettere come oggetto trascendentale, del quale però non si sa nulla ., e che è una cosa soltanto intellettuale (Gedankending). Quanto a sì fatte entità intel- letiuali, non ricorrenti in una esperienza possibile. noi non possiamo formarcene un concetto se non secondo analogia. In generale poi, nell’uscire dal Mondo sensibile, il primo passo (der erste Schritt) che siamo obbligati a fare è quello della * ricerca dell'Essere assolutamente neces- “ sario, e da’ concetti del medesimo derivare (ableiten) i concetti delle altre cose, in “ quanto sono soltanto intelligibili ,. E tal ricerca il nostro filosofo la fa in quella parte della Dialettica trascendentale che si occupa dell’'Ideale. L’Ideale della Ragione pura. La maravigliosa precisione della mentalità di Kant, come già in ogni altra cosa finora trattata, si mostra anche qui rispetto all’/deale. Questa parola, secondo lui, benchè in senso non proprio (ib., p.446). avrebbe potuto essere adoperata già nella stessa Estetica trascendentale, a proposito del prodotto della fantasia (Einbildungskraft), il prodotto della quale è appunto un “ Ideale della sensibilità, perchè è il Modello “ (Muster, esemplare) non mai raggiungibile di una possibile intuizione empirica ,. Più su e dopo delle intuizioni sensibili fantastiche vengono i Concetti intellettivi (Verstandesbegriffe): per lor mezzo non possiamo * rappresentarci oggetti di sorta 83 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 183 (ibid., pag. 444), perchè privi delle condizioni della loro realtà oggettiva, e non essenti altro che la pura e semplice forma del pensare ,. Le /dee alla lor volta sono ancor più delle Categorie “ lontane dalla realtà og- gettiva, in quanto non si dà alcun fenomeno nel quale esse possano rappresentarsi in concreto ,. “ Ma ancor più lungi che la stessa Idea, sembra di esser lontano dalla realtà oggettiva quello che io chiamo l’Ideale, pel quale io intendo: l’Idea non soltanto in concreto, ma în individuo, ossia una singola Cosa non determinata, o determi- nabile soltanto mediante l’Idea ,. A. proposito dell’ /deale il nostro filosofo si riferisce naturalmente a PLATONE, dicendo (ibid., pag. 445): “ Ciocchè un Ideale è per noi, era per Platone una Idea “ dell’Intelletto divino ,. Non entro qui nella quistione e relativa opinione, se Pla- tone ammettesse un Intelletto divino come sede delle Idee. Il grande storico della filo- sofia, Zeller, nella monumentale Philosophie der Griechen, 2 Th., 1° Abth., 3° Aufi., Leipzig, 1875, pag. 557 segg., lo nega, e con ragione e documentazione. Ma l'importante a rilevare rispetto all’Ideale kantiano è che questo “ non è, come il platonico, creatore (schòpferisch), ma è però forza pratica (come Principio rego- “ lativo), e contiene in sè la possibilità della perfezione di certe azioni ,. Per la qual ragione “ sì fatti Ideali, benchè privi di realtà (esistenza) oggettiva, pur non “ sono a considerare come fantasmi (Hirngespinnste) ,. Una ulteriore determinazione del predetto Ideale è fatta da Kant nella susse- guente seconda Sezione, che tratta “ dell’/deale trascendentale (Prototypon transcen- “ dentale) ,. A proposito di esso il nostro filosofo statuisce le seguenti cose: “ La proposi- “ zione (Der Satz, ibid., pag. 448): Ogni esistente è in tutto e per tutto determinato, “ significa non solo che di ogni due opposti predicati dati, ma anche di tutti i pre- “ dicati possibili al predetto esistente ne spetta (2utomme, conviene) sempre uno ,. Espressa in altri termini, la predetta proposizione vale tanto quanto dire: “ Per co- “ noscere una cosa (ein Ding) compiutamente, bisogna conoscerne tutta la possibilità “ (alles Méogliche) e con ciò determinarla, sia affermativamente, sia negativamente ,. “ Quando noi consideriamo (ibid., pag. 449) tutti i possibili predicati non solo logicamente, ma anche trascendentalmente, ossia secondo il lor contenuto, che può essere in essi pensato 4 priori, troviamo che mediante alcuni di essi (predicati) vien rappresentato un essere, mediante altri un semplice non-essere ,. Se non che, “ anche mediante questo totale possesso (AWlbesttz, ib., p. 450) della “ realtà è rappresentato il concetto di una cosa in sè stessa come in tutto e per tutto determinato; e il concetto di un essere realissimo (entis realissimi) è il concetto di un unico essere, perchè di tutti i possibili opposti predicati se ne trova determi- Li (A « « “ “ & & nato uno, cioè quello che appartiene assolutamente all’essere ,. Il qual concetto di un essere realissimo è poi “ l’unico Ideale propriamente detto (ib., p. 451), di cui “ è capace la Ragione umana ,. Onde segue anche che sì fatto “Ideale (ib., p. 452) è l'esemplare (Urbild, Pro- “ totypon) di tutte le cose, le quali tutte insieme sono copie difettive (ectypa) ,, che prendono da esso la materia (Stoff) della loro possibilità, “in quanto gli si appros- “< simano più o meno ,. Una ulteriore conseguenza di tale Ideale è che esso è “ l'Es- 184 PASQUALE D'ERCOLE 4 ci “ sere originario (ens originarium) ,, che, “ in quanto non ha un Essere superiore a “ sè, è l’Essere supremo (ens summum), e che, in quanto ogni cosa, come condizio- “ nata, gli è sottoposta, è appellato l’Essere degli esseri (ens entium). Se non che, “ tutto ciò non significa (bedeutet, esprime) il rapporto oggettivo di un reale oggetto “ verso altre cose. ma di una /dea rerso concetti (Idee zu Begriffen), e ci lascia in “ piena incertezza rispetto all'esistenza di un Essere di così singolare pregio , Quando noi ipostatizziamo (hypostasiren) il puro concetto (ib., p. 453) della Su- prema Realtà, o dell'Essere originario come quello “ dell'Essere unico, semplice, au- “ tosufficiente, eterno, ecc. nella incondizionata pienezza (Vollstindigkeit) di tutti i “ suoi predicati, abbiamo il concetto di Dio nel senso trascendentale, e così l' /deale “ della Ragione pura è oggetto di una Teologia trascendentale, come ho anche in- “ dicato innanzi ,. Nella terza Sezione Kant passa a trattare “ delle ragioni (o argomentazioni) = dimostrative (Beweisgriinden) della Ragione speculativa per giungere alla esistenza “ di un Essere supremo .. Prima di dire del numero e della natura degli argomenti dimostrativi dell’esi- stenza dell'Essere supremo, ossia dell’esistenza di Dio, prende in esame la mente umana ne’ procedimenti che tiene in proposito e trova appunto (ib., p. 459) che questa “ primamente, da una data esistenza (in ogni caso anche dalla mia propria) conclude “ all'esistenza di un Essere incondizionatamente necessario; secondamente, che io “ debbo considerare come assolutamente incondizionato un Essere, che contiene ogni “ realtà, e quindi ogni condizione. e che quindi sia trovato il concetto. della cosa, “ che conviene (sich schicki) alla assoluta necessità ., ece. Ma Kant trova che un tal procedimento sia giusto. E passa ad indicare i modi veramente tenuti dalla Ragione speculativa nell’argomentare all'esistenza di Dio, i quali modi, com’egli qui dimostra, on tre, e propriamente quelli dell'argomento ontologico, dell'argomento fisici (o cosmologico) e dell'argomento teleologico. L'argomento ontologico. Prima di venire alle indicate prove kantiane dell’esistenza di Dio. avverto il lettore che io, nella mia opera intitolata * Il Teismo filosofico cristiano teoricamente e storica- mente considerato ., ecc.. Torino, 1884, pp. 209-329. ho lungamente parlato e fatta esposizione di tali prove sì ne’ tempi precedenti a Kant, sì da quest’ultimo filosofo stesso; rimando quindi il lettore alla mia opera, facendogli in pari tempo conside- rare, che con tal rimando posso esser qui più breve nella esposizione delle prove kantiane. Nel rimandare il lettore alla mia opera, lo avverto di una cosa importante, ed è che Kant, già nel 1763, in unopera intitolata “ Il fondamento dimostrativo (Be- weisgrund) unicamente possibile di dimostrazione dell’esistenza di Dio , (Vedi Opere complete, ecc., vol. I, pp. 161-286), aveva creduto e tentato di dimostrare l’esistenza di Dio, allegandone persino quattro diverse dimostrazioni, delle quali però non ne riteneva legittima che una sola. Ciò fece nel tempo in cui egli era ancora seguace della filosofia teistico-wolfiana. Senonchè di questa stessa ei cominciò fin d’allora a S5 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGPELIANA, LCC. 185 dubitare, allegando i motivi del dubbio, che già spuntava, per finir poi al pensiere critico della “ Critica della Ragion pura , del 1781. Ciò posto, vengo alla prova ontologica, che nella quarta Sezione ricisamente ei dichiara come “ dimostrativamente impossibile ,. A mostrare tale impossibilità egli ritorna a ciocchè innanzi è stato più volte detto, che cioè “ il concetto di un Essere assolutamente necessario (ib., p. 462) è un “ puro concetto della Ragione, ossia una pura e semplice Idea, la cui obbiettiva realtà “ non è di gran lunga dimostrata, sol perchè la Ragione ne ha bisogno ,. E sog- giunge: “ Voi avete già posta (begargen, ib., p. 465) una contraddizione, quando voi, “ sotto qual nome simulato (versteckien) si voglia, al concetto di una cosa che pen- “ saste unicamente secondo la sua possibilità, interpolaste (Rinein brachtet) il concetto della sua esistenza ,. Questa non è che “ una pura e semplice tautologia ,. E a conferma esemplificativa di ciò, allega il famoso esempio de’ 100 talleri. Cento reali (wirkliche) talleri non contengono menomamente più di cento possibili. “ Giacchè, come questi esprimono il concetto, e quelli l'oggetto e la sua posizione in sè stesso, così, nel caso che questo contenesse più di quello, il mio concetto non esprimerebbe l’oggetto tutto intero, e quindi neppure il concetto esatto del medesimo ,. Il nostro concetto di un oggetto può dunque (ib., p. 468) contenere “ ciocchè vuole e quanto vuole, noi dobbiamo uscire da tal concetto per dargli p (ertheilen) V'esistenza ,. “«“ Gli è perciò che (ib., p. 469) nel celebre argomento ontologico (cartesiano) « dell’esistenza di un Essere supremo dedotta da concetti, son perdute ogni pena e “ fatica; e un uomo potrebbe tanto meno diventar ricco di sapere per semplici Idee, = quanto un mercante di patrimonio (Vermòogen), se questo, per migliorare la sua si- “ tuazione, volesse aggiungere alcuni zeri al suo stato di cassa (Cassendestande) ,. L'argomento cosmologico. Nella quinta Sezione Kant già ricisamente annunzia “ la impossibilità di una “ prova cosmologica dell’esistenza di Dio , ; e ne adduce la ragione nel seguente modo. “ Era qualche cosa interamente innaturale (ib., p. 470) ed una semplice innova- “ zione di artificio di scuola il voler dedurre per mezzo di sottigliezze (ausklauben) “ da un'Idea del tutto arbitrariamente abbozzata (entworfenen) la esistenza stessa “ dell'oggetto corrispondente ,, procedimento, come abbiam visto innanzi, dovuto al bisogno che sente la Ragione di elevarsi alla necessità di un Essere superiore ed incondizionato. “ L'argomento cosmologico, che vogliamo ora investigare, mantiene il legame della assoluta Necessità colla suprema Realtà; ma, diversamente dall’antecedente, invece “ di concludere dalla suprema Realtà alla Necessità dell’esistenza, conclude piuttosto “ dalla incondizionata Necessità di un Essere supremo antecedentemente (2um voraus) data alla illimitata Realtà del medesimo, facendo entrare in carreggiata (ins Geleis), “ non so se in modo razionale o razionaleggiante (verniinftelnden), un modo almeno naturale di concludere ,. E, riferendosi a Leibniz, che appellò tal modo di ragionare e concludere a con- tingentia mundi, dice che tal modo di argomentazione suona così (ib., p. 471): “ Se Serie II. Tow. LXII. 24 R n n 186 PASQUALE D'ERCOLE 86 “ qualcosa esiste, deve esistere un Essere assolutamente necessario. Ma esisto almeno “io stesso: dunque esiste un Essere assolutamente necessario. La minore contiene “ una esperienza, la maggiore esprime in generale la consecuzione (Sehlussfolge) da “ un'esperienza all'esistenza del Necessario. Dunque l'argomento comincia coll’espe- “ rienza, perciò non procede interamente a priori, od ontologicamente ,. Nell’esàme di questo argomento cosmologico dice che “ la Ragione speculativa “ (ib., p. 472) commette un’astuzia (List) palese ,. La quale astuzia è che essa co- mincia bensì dall’esperienza, ma argomenta in guisa che la vera forza probante del- l'argomento viene dall’argomento ontologico. “ È dunque (ib., p. 473) soltanto l’ar- “ gomento ontologico da puri concetti quello che nel così detto argomento cosmologico “ contiene tutta la forza probativa, e la pretesa esperienza è del tutto oziosa “ (miissig) ». Il grande Konisberghese entra in ulteriori illustrazioni ed argomentazioni per dimostrare tutta l’erroneità dell'argomento cosmologico, delle quali mi limito a rile- vare ancora che, secondo lui, tale argomento “ non solo è ingannevole (triglich), “ come l’ontologico, ma che, per giunta, merita il biasimo (dieses Tadelhafte) di com- “ mettere una ignoratio elenchi ,. Kant finisce per dire, ma dimostrandolo, che “ l’ar- “ gomento cosmologico contiene in sè ascoso (verborgen) tutto un nido (ein ganzes « Nest) di pretensioni dialettiche ,. È E giunge alla conclusione finale (ib., p. 481) che per tutte le considerazioni fatte “ l’Ideale dell'Essere supremo non è altro che un Principio regolativo della Ragione “ di vedere nel Mondo siccome tutto collegato, affinchè ne sorga una Causa auto- “ sufficientemente necessaria ,, per quindi “ affermarne la necessaria esistenza ,. L'argomento teleologico. Di questo argomento, appellato dal nostro filosofo anche argomento fisico-teo- logico, egli sostiene, nella sesta Sezione, come per tutti i precedenti, parimenti “ la “ impossibilità di dimostrazione ,. “Quando (dic’egli, ib., p. 483) nè il concetto di cose, nè l’esperienza di una “ esistenza in genere posson dare ciocchè è richiesto, non rimane che un sol mezzo “ a tentare, quello cioè, se una esperienza determinata, e quindi delle cose del Mondo “ presente, la loro qualità ed il loro ordinamento offrano una ragione dimostrativa “ (Beweisgrund), che possa esserci di aiuto a convincerci dell’esistenza di un Essere “ supremo ,. Ed egli stesso si sforza di esporre come la Ragione, nella osservazione delle cose ha dinanzi a sè “ un così incommensurabile (ib., p. 484) spettacolo di varietà, “ ordine, finalità, bellezza nell’immensità e nella illimitata divisione dello Spazio ,, scorge una tale “ catena di effetti e di cause, di mezzi e di fini, una regolarità nel “ sorgere e nello sparire , delle cose del Mondo, che gli ritorna sempre la stessa domanda e lo stesso pensiere, che “ la Totalità delle cose dovrebbe precipitare nel- “ l’abisso del Nulla ,, se non si ammetta qualche cosa, che “ fuori di questo stesso “ infinito contingente, esistendo per sè qual Causa originaria della propria origine, lo “ tenesse insieme e ne assicurasse la continuazione (Fortdauer) ,. Noi stessi (sog- DD =I LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 187 giunge egli, ib., p. 486) non solo “ non ci opponiamo alla finalità ed utilità della “ Ragione nel procedere in tal guisa, ma dobbiam persino raccomandarlo ed inco- “ raggiarlo ,. Ma, ciò non ostante, “ non possiamo approvare le pretensioni che vorrebbero ridurre un tal modo dimostrativo ad una certezza apodittica encomiabile per sè stessa e non bisognevole di alcun favore e di alcun appoggio (Unterstitzung) estraneo ,. « « & E anche per l'argomento teleologico il Kant sostiene che esso “ non può giammai “ da sè solo dimostrare l’esistenza di un Essere supremo, ma che dev’esser lasciato “ all'argomento ontologico l’integrar questo mancamento (Marge) ,; sicchè è sempre questo che contiene l’unica ragion probante possibile, a cui la Ragione umana non può sottrarsi. Nè Kant si arresta a ciò nel suo esame critico, ma procede a trovare e rile- “i momenti principali del pensato argomento fisico-teologico ,, che sono i se- guenti: 1° “ Nel Mondo si trovano da per tutto segni chiari di un ordinamento “ secondo una determinata intenzione ,; 2° “ Alle cose stesse del Mondo tale ordi- namento è interamente estraneo ed accidentale ,, se non venga posto “ in fondo ad esse da un Principio ordinante ,; 3° “ Esiste dunque una Causa superiore e sapiente (o più d’una), che sia Causa del Mondo non per cieca onnipossanza della Natura, ma dotata d’Intelligenza operante con Libertà ,;4° “ L’unità di tal Causa si lascia concludere dalla stessa reciproca relazione delle parti del Mondo ,. Ciò posto, esaminando questi stessi quattro momenti rilevati, li fa seguire, pri- mamente, da una spiegazione di essi secondo la Ragione naturale, secondamente da una spiegazione de’ medesimi secondo la Ragione critico-speculativa. Quanto alla prima spiegazione, egli dice di comprendere bene che la Ragione naturale proceda secondo “ l’Analogia di alcuni prodotti naturali ,, confrontati con quelli dell'Arte umana (“ per es., con quelli di Case, Navigli, Orologi ,), e che, mediante tale Analogia “ concluda ad una Causalità dotata d’Intelligenza e Volontà ,, ossia, “ concluda ad un’Arte sovrumana ,; conclusione, che “ la più acuta Critica “ trascendentale non potrebbe tener per legittima ,. Quanto alla seconda spiegazione, quivi stesso, con la sua mente geniale altis- sima e larghissima, egli soggiunge subito dopo che a tal Ragione naturale, così pro- cedente e argomentante, avviene pur troppo “ di far violenza (Gewalt) alla Natura, “ facendola procedere non secondo i suoi proprii fini, ma accomodandola ai fini nostri, “ derivando da un’altra, cioè da un’Arte sovrumana (ibermenschlichen Kunst) , “ la “ possibilità (lo noti il lettore, è questa la maravigliosa e geniale spiegazione della propria Ragione critico-speculativa) della Natura liberamente operante, Natura che rende possibile ogni Arte e forse primamente la stessa Ragione ,. E termina con questo monito: “ Ed ora voglio sperare (ib., p. 489) che qualcuno non osi di tenere (einzusehen) il rapporto della grandezza (secondo estensione e contenuto) del Mondo da lui osservata per onnipossanza; dell’ ordine del Mondo per suprema sapienza; della unità del Mondo per l’assoluta unità dell’autore (del creatore) ,, ecc. - vare « “ & « « 188 PASQUALE D'ERCOLE 88 “ Critica di ogni Teologia da Principii speculativi della Ragione ,. Esaurito l'esame critico de’ tre considerati argomenti dell’esistenza di Dio, non che delle speciali osservazioni rispetto a ciascuno de’ medesimi, Kant affronta la generale critica della Teologia, che ha appunto ad obbietto la considerazione e di- mostrazione di essi. E innanzi tutto, a rimozione di frantendimenti intorno alla Teologia di cui qui è parola. Kant ricorda doversi distinguere due specie di Teologia (ib., p. 491), una considerante e dimostrante l’Essere originario “ secondo la pura Ragione ,, theologia rationalis, altra secondo la Rivelazione, fheologia rerelata. Suddistingue, inoltre, la prima di queste in Teologia trascendentale, che pensa il suo oggetto soltanto me- diante la pura Ragione e per via di semplici concetti trascendentali (ens originarium, realissimum, ens entium). e in Teologia naturale. che pensa il suo oggetto mediante un concetto, che impronta, qual suprema Inielligenza dalla Natura (della nostra anima). Chi ammette soltanto una Teologia trascendentale si chiama Deista, e chi ammette anche una Teologia naturale si chiama Teista. Îl primo concede che noi possiamo in ogni caso conoscere l’esistenza di un Essere originario (Urwesens) me- diante la pura Ragione; ..... il secondo sostiene che la Ragione possà più vicina- mente determinare il suo oggetto secondo l'analogia, cioè siccome un Essere che sia il fondamento originario di tutte le altre cose mediante Intelligenza e Libertà, ece. Omettendo altre distinzioni, in cui pure entra l’immortale filosofo, una cosa è. chiara, ed è che la Critica che egli qui fa è di ogni Teologia in genere, la quale poggi sopra Principii speculativi della Ragione. E rispetto a tale Critica ei fa qui una distinzione, che, mentre da una parte conduce all’insostenibilità del procedimento e degli effetti della speculazione teoretica della Teologia. conduce, dall'altra, per via pratica, alla soluzione, da Kant tenuta vera, del problema critico-teologico dell’esistenza di Dio. A tal fine egli scrive ciocchè segue. “ Io mi contento qui (dic’egli, ib., p. 492) di dichiarare la conoscenza #eoretica 5 per una sì fatta, mediante cui io conosco ciocchè esiste (da ist). e la pratica per “ una sì fatta, mediante cui io mi rappresento (rorstelle) ciocchè dere essere (da seyn “ soll). Conformemente a ciò, l’uso teoretico della Ragione è quello, mediante il quale “ io a priori conosco (come necessario, als nothwendig), che qualche cosa sia, ma l’uso “ pratico è invece quello, mediante cui si conosce ciocchè deve avvenire .. E “ noi “ (ib.. p. 493) mostreremo in seguito delle leggi morali. che esse non solo presup- = pongono l’Esistenza di un Essere supremo, ma che sono anche, per altra conside- “ razione, assolutamente necessarie, e che a ragione postulano (postuliren), a dir vero “ soltanto praticamente, la predetta esistenza di un essere Supremo. Per ora lasciamo “ da banda questo modo di concludere .. Quanto al procedimento teoretico speculativo, “ io sostengo (ib., p. 495) che “ tutti i tentativi di un uso soltanto speculativo della Ragione rispetto alla Teologia sono tutti infruttiferi, e, per la loro intima natura, interamente nulli (null und nichtig) .. E tale risultato critico della Ragione teologica speculativa rincalza con ulteriori considerazioni tratte da ogni banda. E finisce sempre per trovare che, finchè LA ” 89 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 189 la Ragione teologica speculativa conclude da concetti razionali, non può uscir da sè, e se esce da sè e li ipostatizza, allora si fa trascendente, e tutti i suoi ragionamenti sono sofistici. Dunque la Teologia è incapace di dimostrare il suo oggetto, della quale incapacità fa altre analisi dimostrative, e perviene alla seguente conclusione finale. “ Oramai (dic’egli, ib., p. 527) possiamo porre chiaramente dinanzi agli occhi il risultato di tutta la Dialettica trascendentale, e determinar con precisione l’inten- dimento finale (die Endabsicht) delle Idee della Ragione pura, le quali divengono dialettiche soltanto per frantendimento e mancanza di cautela. La Ragione pura, infatti, non si occupa nè può occuparsi che di sè stessa, perchè ad essa son dati non gli oggetti per l’unità del concetto sperimentale, ma i concetti intellettivi (Verstandesbegriffe) per l’unità del concetto razionale (Vernunftbegriffes), ossia del- l’unione (des Zusammenhanges) in un principio ,. 4 “ E questa unità sistematica stessa la Ragione non la può pensare altrimenti che dando alla sua Idea un oggetto, il quale non può esser dato da alcuna espe- rienza, perchè l’esperienza non offre mai un esempio di perfetta unità sistematica. Questo Essere della Ragione (es rationis ratiocinatae, cioè questo Essere concepito dalla Ragione) è soltanto una semplice Idea, e non vien mai preso come qualche cosa di assolutamente reale in sè stesso, ma posto a fondamento (zum Grunde gelegt) soltanto problematicamente per vedere il legame delle cose del Mondo sen- “ sibile in guisa da pensarle fondate in questo Essere razionale , Siechè dunque la Idea dell'Anima, la Idea del Mondo e la io di Dio vengono accolte e son concepite soltanto siccome Principi regolativi, e quando la Ragione da trascendentale si fa trascendente e ne afferma la realtà oggettiva fuori della Ra- gione, non fa che ragionamenti sofistici (quali sono quelli di ignava ratio, faule Vernunft; di ragione pervertita, verkehrte Vernunft, Boteoov modtegov rationis: e di Causa ipostatizzata, ragione confusa. Vedi ib., pp. 528-536). E, avendo terminata la esposizione dell’Estetica, dell’Analitica e della Dialettica trascendentali, passo all’ultima parte della Ragion pura, cioè alla Metodologia tra- scendentale. (I CS La Metodologia trascendentale. “ Per Metodologia trascendentale (dice Kant subito, ib., p. 547) intendo la de- “ terminazione delle condizioni formali di un sistema compiuto della Ragion pura , E soggiunge che a tale intento “ avrem che fare con una Disciplina, con un Canone, “con una Architettonica e finalmente con una Storia della Ragion pura ,; e quello che con ciò si effettuerà “ costituirà una Logica pratica ,. La Disciplina della Ragion pura. Il nostro filosofo rileva innanzi tutto due cose. L’una è che “la Disciplina (ib., “ p. 550) è a distinguere dalla Coltura, la quale non deve procacciare altro che una «“ destrezza (Fertigkeit) senza bisogno di sopprimerne un’altra esistente ,. La seconda è che qui “ nella Disciplina della Ragion pura non si ha di mira (ib., p. 551) il con- “ tenuto, ma soltanto il metodo della conoscenza secondo la stessa Ragion pura ,. Ciò posto, passa a considerare la Disciplina sotto varii rispetti; che accennerò brevemente. 190 PASQUALE D'ERCOLE 90 Il primo di tali rispetti è quello concernente “ la Disciplina della Ragion pura = nell'uso dommatico ., nel qual rispetto quella che offre “ il più splendido esempio = (das glinzendsie Beispiel) è la Matematica .. E ad illustrazione di ciò. rilevando la differenza della conoscenza filosofica dalla conoscenza matematica, statuisce alcuni punti cardinali di quest'ultima. = La conoscenza filosofica (dic'egli. ib.. p, 552) è la conoscenza razionale da con- cetti (aus Begriffen); la conoscenza matematica è la costruzione de’ concetti. Costruire un concetto significa esporre (darstellen) la intuizione a priori corrispondente al medesimo ,..... “ La conoscenza filosofica (ib., p. 553) considera il particolare nel generale, la conoscenza matematica il generale nel particolare, sì persino nel sin- golo ,. Inoltre, “ la Matematica costruisce non soltanto grandezze (Quanta) come “ la Geometria, ma anche la semplice quantità (Quantifatem) ,, e “ si sceglie in “ genere una certa designazione (Bezeichnung) di tutte le costruzioni di grandezze “ (numeri, per es., di addizione, sottrazione, ecc.), estrazione della radice, ece. .. Ma il fondamento della Matematica, rileva Kant, poggia sopra Defirizioni, As- siomi e Dimostrazioni, e determina sul fondamento. 1° Le Definizioni. © Definire. come lo indica la stessa espressione (ib., p. 562) “ deve significare non altro che esporre originariamente il concetto particolareggiato “ (ausfuhrlichen) di una cosa ne' limiti della medesima. Secondo una tale esigenza, “ un concetto empirico non può esser definito, ma soltanto esplicato {erpliciri) ,. 2° Gli Assiomi. © Questi sono (ib., p.566) principii (Grundsàtze) sintetici a priori, “ in quanto sono immediatamente certi ,. Nella Filosofia “ non ricorre alcun prin- cipio che meriti il nome di Assioma. La Matematica, invece, è capace di Assiomi, “ perchè essa, mediante la costruzione de’ concetti nella intuizione dell'oggetto può © unire (rerknipfen) a priori ed immediatamente i predicati del medesimo, come, per es., che tre punti son sempre in un piano. Al contrario, un principio sintetico non può mai essere immediatamente certo per semplici concetti. come è, per es., il caso della proposizione: Tutto ciocchè avviene ha la sua cagione: perchè io non “ posso conoscere direttamente da’ concetti una tale proposizione, ma debbo pensare “ ad una terza cosa (einem Dritten), cioè alla condizione della determinazione del “ tempo in una esperienza. Ì principii discorsivi son dunque ben altro che gl’intui- tivi, ossia Assiomi ,. 3° Le Dimostrazioni. © Soltanto una dimostrazione apodittica (ib., p. 567), in quanto essa è intuitiva, può chiamarsi dimostrazione. L'esperienza c'insegna ciocchè “ esiste, non però che esso non possa essere altrimenti; quindi fondamenti (Beweis- © griinde, ragioni) empirici non possono dare alcuna dimostrazione apodittica. Da “ concetti a priori (nella conoscenza discorsiva) non può mai sorgere certezza in- “ tuente, ossia evidenza, per quanto, del resto, il giudizio può essere apoditticamente certo. Solo la Matematica dunque contiene dimostrazioni, perchè essa non deriva “ la sua conoscenza da concetti, ma dalla costruzione di essi, ossia dalla intuizione, che può esser data a priori come corrispondente ai concetti ,. Dopo di ciò Kant considera la Disciplina della Ragion pura “ rispetto al suo uso polemico .. “ Per uso polemico della Ragion pura (dic’egli. ib.. p. 572) io intende la difesa de’ suoi principii (ihrer Saize) contro le negazioni (Verneinungen, opposizioni) dom- n n n ” n n n 91 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, BOC. 191 “ matiche. Qui non è quistione se le sue affermazioni non possano essere anche false, “ ma soltanto, che nessuno possa mai sostenere il contrario con certezza apodittica € (sì anche soltanto con maggiore apparenza, Scheîme) ,. Il modo di comportarsi in proposito è che “ la Ragione dell'avversario (ib., p. 575) sia combattuta colle armi « della Ragione ,. Di sì fatti combattimenti polemici non c'è da impensierirsi nè dispiacersi; essi contribuiscono anzi (ib., p. 577) a render matura la Critica. Un altro punto della Disciplina considerato da Kant è quello della “ impossi- « bilità di una soddisfazione speculativa della Ragione pura discorde con sè stessa ,. L'essenziale di questo punto consiste in ciò, che Kant considera ed enumera i passi che fa la Ragione pura nella sua esplicazione e costituzione critica. Questi passi secondo lui son tre. Il primo è quello dommatico già indicato (ib., p. 587), e che può essere designato “ come l’età infantile (Kindesalter) della Ragione ,. Il se- condo è quello del dubbio (Zweifel); è “ il passo scettico, ed è indice (2eigt) della “ cautela della Forza giudicatrice fatta accorta (der gewitzigten Urtheilskraft) dalla “ necessario, quello dell’età virile e matura della Forza giudicatrice, che poggia sul fondamento di massime salde e provate dalla generalità ,: terzo passo, che è quello della “ Critica della Ragione, mediante la quale vengono, non soltanto presupposti, ma dimostrati per via di principii (aus Principien) non i soli limiti (Schranken), ma anche i confini determinati della stessa, nè soltanto ignoranza in una od altra parte, ma rispetto a tuttii possibili quesiti (Fragen) di una certa specie ,. (A esperienza ,. Ma vi è un terzo passo Una delle cose notevoli a proposito del mentovato triplice passo è la conside- razione e giudicazione di Hume (pp. 589-592), “ che è forse il più ingegnoso (der “« geiîstreichste) tra tutti gli scettici, e indubitabilmente il migliore (der vorziiglichste) “ rispetto all’influsso esercitato ,. Altro punto importante considerato rispetto alla Disciplina è quello concernente l'ipotesi; e si esprime in proposito così: “ Se dunque (dic’egli, ib., p. 594), mediante la Critica della nostra Ragione, “ sappiam finalmente, che noi nel suo puro e speculativo uso sappiam di fatto (en “ der That) che non possiam nulla sapere, non dovrebbe forse aprirsi un più largo “ campo alle ipotesi? ,. Le ipotesi, naturalmente, si posson sempre fare; però si richieggono certe con- dizioni che le rendano ammissibili. Una prima condizione è che “ una ipotesi trascendentale (ibid., pag. 596), nella “ quale una semplice Idea della Ragione fosse adoperata a spiegazione (Erk/drung) “ delle cose naturali, non sarebbe una spiegazione, perchè ciocchè non s'intende ab- “ bastanza mediante noti principii empirici verrebbe spiegato mediante qualche cosa, “ della quale non si comprende nulla ,. “ Una seconda condizione richiesta per l'ammissione d’una ipotesi è la suffi- cienza (ibid., pag. 597, Zulinglichkeit) della medesima a determinare @ priori le conseguenze date ,. Se è insufficiente “ bisogna ricorrere ad altre ipotesi ,. “ Le ipotesi (soggiunge, ibid., pag. 599) nel campo della Ragion pura son. per- messe come armi di guerra (Kriegswaffen), non per fondarvi su un diritto, ma sol- tanto per difendersi ,. o “ “ 192 PASQUALE D'EKCOLE 92 E conchiude © risultare dall’anzidetto {ibid., pag. 602) che nell’uso speculativo = della Ragione le ipotesi non hanno alcuna validità come opinioni in sè stesse, ma = soltanto relativamente ad opposte pretensioni (Anmaassungen) trascendenti .. L'ultimo punto considerato rispetto alla Disciplina della Ragione pura è quello concernente le sue dimostrazioni (Beweise). Rispetto al qual punto Kant ritorna in grosso sulle stesse ragioni già antecedentemente allegate intorno alla possibilità e validità delle dimostrazioni della Ragion pura critica. Queste ragioni si possono riassumere in ciò, che “ la Ragione (ibid., pag. 603) =“ in sì fatte dimostrazioni avvenenti mediante concetti non deve riferirsi all’oggetto, “ ma deve prima esporre la validità dei concetti stessi e la possibilità della sintesi = de medesimi a priori. Questo costituisce non una semplice regola necessaria di 5 precauzione, ma l'essenza stessa delle dimostrazioni .. Ad additare errori e sofismi in proposito, adduce delle regole, e propriamente le seguenti tre. “ La prima regola è questa (ibid., pag. 606). di non tentare alcuna dimostra- “ zione trascendentale senza aver prima riflettuto e giustificato onde yoglian trarsi “ i principii, su’ quali si pensa di fondare (errichfen) e con qual diritto si possa at- “ tendere da esse il buon successo de’ ragionamenti (Schlisse) ,. = La seconda proprietà de’ giudizii trascendentali è questa, che per ogni pro- 5 posizione (Safz) trascendentale possa esser trovata soltanto una sola dimostrazione .. La ragion di ciò è che “ come ogni proposizione trascendentale muove da un con- “ cetto e pone la condizione sintetica della possibilità dell'oggetto secondo questo “ concetto ., così “ la dimostrazione non può esser che una sola, perchè fuori di tal * concetto l'oggetto non potrebbe esser determinato .. ; Ciò s'intende detto anche “ per la dimostrazione trascendentale (ibid., pag. 608) ° dell’esistenza di Dio, perchè tal dimostrazione poggia sulla reciprocabilità de’ con- “ cetti dell'Essere realissimo e necessario, e non può esser cercata in altro modo ,. Perciò. soggiunge egli. “ quando si vede il dommatico farsi innanzi con dieci argo- “ menti, si può con certezza credere che egli non ne ha alcuno .. La terza regola è che le dimostrazioni trascendentali di una Disciplina “ non “ debbono essere mai apagogiche, ma sempre ostensire. La dimostrazione diretta od “ ostensiva è in ogni specie di conoscenza quella che alla convinzione della verità “ unisce le sorgenti (Quellen) della medesima. La dimostrazione apagogica, al con- “ trario, può produrre certezza. ma non comprensibilità della verità rispetto al legame “ (Zusammenhanges) coi motivi della loro possibilità .. Il modo dimostrativo apago- gico (ibid., pag. 611) è “ anche la vera illusione (Blendwer4) da cui sono stati sempre “ tenuti a bada (hingehalten, menati pel naso) gli ammiratori della fondatezza de’ ° nostri argomentatori dommatici .. Ed ora veniamo alla seconda parte della Metodologia trascendentale, cioè al Canone. Il Canone della Ragion pura. Inizia questa seconda parte con queste notevoli parole: “ È umiliante (demithigend) © per la Ragione umana, che essa nel suo puro uso (nella sua pura esercitazione) ° non riesce a nulla (nichés ausrichtet), ed ha persin bisogno di un’altra Disciplina 93 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 193 per frenave i proprii traviamenti (Aussehweifungen), e per evitare le illusioni (Blendwerke) che ne provengono ,. Venendo alla natura e significato del Canone, serive: “ To intendo, in generale, per Canone (ibid., pag. 614) il complesso de’ principii @ prior? del retto uso di certe potenze conoscitive. Così la Logica generale nella sua parte analitica è, in generale, un Canone per l’Intelletto e la Ragione, però soltanto secondo la forma, perchè essa astrae da ogni contenuto ,. Ed ora, ecco i punti fondamentali, secondo cui. Kant considera il Canone. Il primo punto è quello di considerarlo secondo “lo scopo finale dell’uso della nostra Ragione ,. “ La Ragione (dic’egli, ibid., pag. 615, a tal riguardo) è spinta da una sua propensione naturale (Hang PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO ALLA MORTE DI MANUELE COMNENO MEMORIA DI FRANCESCO COGNASSO Approvata nell’ adunanza del 5 Maggio 1912. I La Reggenza. Dal matrimonio con Berta di Sulzbach, Manuele I Comneno aveva atteso, durante anni ed anni, con ansia indicibile, un figlio maschio, erede legittimo ed incontrastato dell'impero, ch’egli si studiava, con ogni sforzo, di rendere maggiormente glorioso e potente (1). Ma la maledizione che il vecchio Cosmas, nel dì della sua deposi- zione dal trono patriarcale, aveva lanciato contro le viscere della basilissa, pareva adempirsi in tutto il suo orrore, sì che nell’animo di Manuele le più gravi inquie- (1) Il periodo di storia bizantina, oggetto del presente studio, ha già dato motivo a più lavori. Senza ricordare le trattazioni generali, ricordo Wirxen, Andronicus Comnenus, in Raumer: © Histo- risches Taschenbuch ,, II, 2831, 431-545; ParvanoeLu, Historische Bilder, Leipzig, 1879; UspPensEIJ, Alessio ed Andronico Comneno, nel “ Giornale del Ministero della Pubblica Istruzione , di Russia, 1880, vol. CCXII, 95-130 e 1881, vol. CCXIV, 52-85; Raposcit, Dova posljednja Komnena na Carigradskom prijestolju, Agsram, 1907 (a me noto solo per la recensione del Kvrrz, in “ Byzantinische Zeitschrift , 1908, XVII, pag. 182); L. pu Sowxerarp, Agnès de France, in Deux Princesses d’Orient au XII siècle, Paris, Perrin, 1907; Dreat, Figures byzantines, Il° série, Paris, 1908. Le fonti bizantine sono citate regolarmente secondo l'edizione di Bonn; ho omesso, per ragioni ovvie, sistematicamente le citazioni della Synopsis Sathas. Per la critica delle fonti (Giovanni Cin- namo, Niceta Acominato, Michele Acominato, Eustazio di Tessalonica, etc.) rinvio senz’altro a Kart KrumBacuer, Geschichte der byzantinischen Litteratur, Il ed., 1896, ed alla bibliografia ivi ricordata. Le fonti latine sono citate solo quando presentano uno speciale interesse. Per le questioni crono- logiche, vedi, con le dovute cautele, l’opera, oramai invecchiata, di E. pe Murarr, Essai de Chro- nographie byzantine (1057-1453), Saint-Pétersbourg, 1871. Abbreviazioni usate : C.= Giovanni Cinnamo, Ezr0wi; N.:=-Niceta Acominato, Xgovrxi) dejyno1s; E.= Eustazio di Tessalonica, Zvyyeupà ts rat adtijv GAbceos; WT.= Willelmi Tyrensis, Rerum in partibus transmarinis gestarum Historia; BI.= Byzantinische Zeitschrift; Viz. Vr. = Vizantijskij Vremmenik; PG. = Migne, Patrologia Graeca; HC. = Recueil des Historiens des Croisades; MG.= Monumenta Germaniae Historica. 214 FRANCESCO COGNA3SO 2 tudini si disegnavano, mentre l’irrequieta ambizione di qualche congiunto e cortigiano ritraeva da questo fatto nuovo alimento (1). Moriva l'imperatrice Irene verso il 1158, e Manuele sperò che il suo desiderio verrebbe soddisfatto col matrimonio che breve tempo dopo strinse con Maria d’An- tiochia. la seconda figlia di Raimondo di Poitiers e della principessa Costanza. Per molti anni ancora, però, l'aspettativa del basileus rimase delusa, e Manuele, scon- fortato, decise di lasciare erede del trono la porfirogenita Maria, la sola figlia rima- stagli delle due nate dal suo primo matrimonio (2). Verso il 1169, finalmente, Maria d’Antiochia divenne madre di un maschio, e Manuele, ebbro di gioia, vide, per questo fausto avvenimento, sfumare ogni preoccu- pazione per l'avvenire dell'Impero e della sua dinastia (3). Come già si era fatto per la proclamazione ad erede della Porfirogenita, tutta la popolazione della capitale con- venne nel Tempio delle Blacherne a giurare fedeltà al giovane principe Alessio — quale augurio nel nome dell’avo! — proclamate ed incoronato basileus. collega del padre nella dignità e suo successore. Tale proclamazione, però. avvenne solo nel marzo del 1171, ed appunto il giorno 24 di tal mese, il patriarca ecumenico, Michele d’Anchialo, prestò giuramento di fedeltà insieme coi ventiquattro vescovi raccoltisi per l'occasione nella capitale, impegnandosi a nome suo e dei successori suoi, a rispet- tare e sostenere le nuove disposizioni prese da Manuele per regolare stabilmente la successione nell'impero (4). (1) C., 256; N. 107. 3. Vedi Caaraxpox, Jean II Comnène ei Manuel I Comnène, Paris, 1912, pag. 212. Il libro del Chalandon mi giunse pur troppo quando già attendeyo alla correzione delle bozze. (2) C., 184, 13; 210 e 214; N., 146 e segg.; 151; WT., XIX, xv, S74 (3) La data precisa della nascita del porfirogenito Alessio è incerta. N. ne parla dopo la spe- dizione in Egitto del 1169 (219. 16); poi a pag. 356. 1, dice che alla sua morte (poco dopo il 20 set- tembre 1183) non aveva ancora compiuto 15 anni. Nel suo Byoevoòds 775 6edodofias (redine alcuni importanti frammenti in Uspensay, Il movimento filosofico in Bisanzio nel sec. XII, in © Giornale del Ministero della P. I. ,, di Russia, 1891, 315-316) dice che alla morte di Manuele, Alessio non aveva ancora 13 anni. WT.(XXII, rv, 1067) dice che Alessio, all’epoca del suo matrimonio (2 marzo 1180). non aveva ancora 13 anni; Michele il Siriaco (HC.. Doc. Arméniens, I, 383) gli da 12 anni alla morte del padre; Codino (#egì 70» darò rricews a6cuov #r@v, 159) dice che Alessio nacque il 10 settembre dell’indizione II, l’anno del mondo 6678, ed il 28 del regno di Manuele (1170). I data cronologici di Codino non sono però del tutto sicuri. È da notare anzi che negli atti della Sinodo del sennaio-feb- braio 1170 non figura più il despota Alessio-Bela (vedi sotto, pag. 215 e nota 2); e che Alessandro, scrivendo ad Enrico arcivescovo di Reims, per indurre Luigi VII a far incoronare il figlio Filippo, gli pone innanzi l'esempio del Porfirogenito fatto incoronare ° cum vix sit triennis, (Boveusr, Recueil, XV, 925, n.339), mentre la lettera, datata solo 3 agosto, non può portarsi al di là del 1172, troppo lungi dal ricordo dell’incoronazione di Alessio (1171). Il Chalandon (Jean II Comnène ete., pag. 212) accetta senza discussione la data 10 settembre 1169. Vedi in Mrrzz, Catalogue des manuscrits grecs de l’Escurial, Paris, 1866, pag. 216, l'accenno ad una orazione del didascalo ecumenico Schizino, recitata per la nascita di Alessio II, del noto codice escurialense Y. II. 10. (4) Il giuramento di Michele d’Anchialo è edito dal Paulov in Viz. Vr., II, 1895, 388 e segg. Non è senza importanza il rilevare l’uso che si aveva nel sec. XII alla Corte bizantina d’incoro- nare l'erede dell'impero, ancora vivente l’imperatore: questi aveva i titoli di dbasileus ed autocrazore, mentre l’erede portava solo quello di basileus. Così l’Ottateuco del sebastocratore Isacco Comneno fu scritto: érì facrAé0s ueyehov tv Xpiotò nuotod nai G0doddEov atrorodiopos “Popoiov “AkeEiov où Kouvrvoòù raì ‘Iodvrov peydhov facrhéas toù m0ppvpoyervizrov (Uspessz, L’Ottateuco della Biblioteca del Serraglio, in “ Bollettino dell’Istituto archeologico rasso di Costantinopoli ,, XII): vedi pure una miniatura rafficurante Cristo con ai lati Giovanni Il ed il figlio primogenito di questo, Alessio, del cod. Urbinate Greco. 2, in Scamirr, Veber den Verfasser des Spaneas, in BZ, I, 316 e segg. (2) PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 215 Della nascita — oramai davvero inaspettata — del principe Alessio, non dovette certo allietarsi gran che la porfirogenita Maria, avvezza a considerare da anni, oramai, la corona imperiale come cosa a lei spettante di diritto. Nata verso il 1153, orfana di madre pochi anni dopo, priva non molto appresso della sorella minore, che aveva ben presto raggiunto la madre nella tomba, essa era cresciuta isolata, trascurata ugualmente dal padre occupato in mille faccende di guerra e dalla giovane indifferente matrigna (1) Non aveva certo essa più di dieci anni, quando dal padre era stata fidanzata al fratello cadetto di Stefano III d'Ungheria, il principe Bela, non ostante il mal- contento della popolazione e della Corte, irritate che un principe barbaro non solo sposasse la figlia dell’autocratore dei Romani, ma diventasse l’erede del trono. Tale matrimonio, però, Manuele aveva combinato, allorchè eragli stato necessario rinun- ziare a voler far riconoscere con la forza il primato dell'Impero agli Ungheresi, nella speranza che, venendosi a spegnere presto o tardi la linea diretta della famiglia reale d’Ungheria, la figlia od i suoi discendenti potessero legittimamente pretendere a quella successione. Ed il giovanetto fu dal fratello, lieto di terminare con un matrimonio una guerra pericolosa, inviato a Bisanzio; quivi assunse il nome di Alessio ed ebbe l’altissima dignità aulica di Despota; poi, celebrato il suo fidanzamento con la Porfirogenita, fu con essa dichiarato erede dell'Impero, ed incoronato come tale in Santa Sofia (2). Lo stesso Manuele però si era rassegnato a questo matrimonio come ad una dolorosa necessità in mancanza di un erede maschio legittimo; ma già nel 1166, morto appena Guglielmo I di Sicilia, apriva tosto trattative con la vedova Mar- gherita, tutrice e reggente per il minorenne Guglielmo II, proponendo una alleanza fra i due Stati, ed il matrimonio del giovane Re con la Porfirogenita (3). Nato poi il principe Alessio, il basileus si affrettò a far sciogliere il fidanzamento di Bela con Maria, pretestando certi impedimenti canonici. Bela dovette lasciare la dignità di Despota per quella meno importante di Cesare; e quando, morto davvero, il 4 marzo 1172, senza figli, il re Stefano III, fu chiamato a succedergli il fratello minore Bela, allora Manuele, per tenerlo legato a sè ed alla sua famiglia, gli diede in isposa la Della associazione all'impero di Alessio II abbiamo traccia nelle dispute di Teoriano (Miene, PG., CXXXIII, col. 232), avvenute “ l’anno, della fondazione del mondo, 6680, trentesimo dell’impero di Manuele Porfirogenito Comneno, e secondo e tre mesi dell'impero del figlio di Manuele, il basileus Alessio Comneno ,. (1) La nascita della porfirogenita Maria è posta dagli uni nel 1153, dagli altri nel 1156. Vedi per la discussione cronologica B. Keir, in © Wiener Studien ,, XI, 1899, 106 e segg., e ParapnamRIOU, in Viz. Vr., V, 1898, 91 e segg. Il Chalandon (op. e loc. cit.) mette la nascita della principessa nel 1152. (2) Il fidanzamento di Maria con Bela e la proclamazione ad eredi dell'impero son da porsi fra il 1163 ed il 1166, nel quale anno Bela figura con il titolo di Despota (non di Sebasto, come dice il Chalandon, Jean II Comnène ete., 476), subito dopo Manuele, negli atti della Sinodo (Mai, Veterum Scriptorum Nova Collectio, IV, pag. 1). Anche il Craranpon (Jean IT Comnène ete., pag. 223, n. 2) inclina per il 1164. Sulle relazioni con l’Ungheria vedi Marrara, Geschichte der Magyaren; HuBER, Geschichte Oesterreichs, Gotha, 1885; Gror, Ir istorij Ougrij i Slavianstva v. XII viékié, Varsavia, 1899 (da me non visto); poi sopratutto H. von Kar-Herr, Die abendlindische Politi Kaisers Manuels, Strassburg. 1881, Jrrece&, Geschichte der Serben, Gotha, 1911 e Cmaranpox, Jean II Comnène etc. (3) Vedi Caaranpon, Hist. de la domination des Normands en Italie. II, pag. 358 e dello stesso, Jean II Comnène etc., pag. 570. È da notare come probabilmente queste trattative coincidano con una gravidanza sciagurata della basilissa Maria, appunto del 1166: cfr. C., 256. 15 e segg. 216 FRANCESCO COGNASSO 4 sorellastra della basilissa, Agnese di Antiochia, — nata a Costanza dal principe Rinaldo di Chatillon, e venuta con il fratello Baldovino a Bisanzio qualche anno prima, — facendogli giurare eterna amicizia, alleanza e fedeltà (1). Per la figlia Maria, il basileus pensò ora a nozze di maggiore importanza per la sua politica europea. Trattò dapprima con Federico Barbarossa per il principe Enrico e con Enrico II d’Inghilterra per il figlio minore, Giovanni, detto poi Senza Terra, poi nuovamente con Guglielmo II di Sicilia: questi accettò, e già tutto era sta- bilito; ma Manuele, all’ultimo momento, venne meno — e fu grave errore! — agli accordi. Guglielmo II invano aspettò a Taranto la nave che doveva portargli la sposa. Così la povera principessa vedeva trascorrere tristemente la sua giovinezza nel gineceo imperiale, dove dominava, superba della sua maternità, Maria d’Antiochia (2). Altri malumori aveva la nascita del porfirogenito Alessio suscitati a Corte; più d'uno dei molti cugini e nipoti di Manuele doveva aver accarezzato nel più profondo dell'animo, forse senza osare confessarlo neppure a sè stesso, una più o meno vaga aspirazione all’impero. Rancori sordi vi erano; ma se alcuno doveva poi dare tristi frutti, per ora nulla appariva, e Manuele poteva sperare in una retta esecuzione della sua volontà. Alla vigilia della sua morte, però, le condizioni generali dell'Impero eransi ag- gravate, e l'avvenire appariva fosco. Il basileus durante tutto il suo regno aveva atteso insistentemente a quella politica grandiosa di guerre e di conquiste, già ini- ziata dal padre suo Giovanni II. Egli aveva educato nel suo animo i ricordi di Roma antica, e con la mente offuscata dai sogni dei diritti imprescrittibili dei basileis di Costantinopoli al dominio del mondo, come eredi di Augusto, di Costantino e di Giustiniano, si era illuso di poter fare della sua capitale il centro, il fulcro di tutta la politica europea. Non si era però chiesto se l’Impero fosse capace degli sforzi a ciò necessari, e la complessità delle sue aspirazioni ebbe per unico risultato un im- menso e spossante dispendio di energie umane e finanziarie, mentre un profondo malcontento sorgeva da tutte le classi della popolazione e serpeggiava attorno allo stesso trono imperiale (3). A Manuele, più che per ogni altra cosa, si muoveva dai sudditi rimprovero per le sue relazioni con le potenze occidentali, per la protezione assidua e zelante che ai latini accordava nell'impero, accogliendoli perfino nelle dignità di Corte, a detri- mento degli indigeni. Il grande basileus era stato indotto a tale condotta da motivi di politica estera ed interna ad un tempo. Egli non intendeva solo allargare i con- fini dello Stato, ma anche infondervi nuova vita; a questo risultato doveva condurre la cooperazione concorde dell’elemento indigeno e dell’elemento latino, cooperazione cui avrebbe favorito la riunione delle due Chiese. (1) C., 287. 2. Cfr. pure Caaranpon, Jean II Comnène ete., pag. 491. Nella Sinodo del 1170 non fisura più Bela, vedi Penit, Documents inédits sur le concile de 1166... (Viz. Vr., XI, 490 e seggi). (2) N. 221. 17. Cfr. Gresesrecat, Geschichte der deutschen Kaiserzeit, V, 674; CnaLanDoN, Hist. de la dom., II, 371, e dello stesso, Jean II Comnène ete., 571 e 596; Chronicon anonymi canonici Lau- dunensis, MG., SS., XXVI, 447; e vedi HarpeGen, Imperial-Politit Konig Heinrichs Il von England, Heidelberg, 1905, 20 e segg. (3) Vedi il giudizio che da lo Chalandon della politica di Manuele, nella sua recente opera, Jean IT Comnòne etc., pag. 555 e segg. Ur PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 217 Mentre l'opinione publica in Bisanzio, quale, ad esempio, è rispecchiata da Niceta Acominato, il quale scriveva — è giusto notarlo — quando la politica di Manuele aveva raggiunto le estreme sue conseguenze, era avversa ai Latini, Manuele I della civiltà occidentale aveva massima stima, anzi, ammirazione; opinava che la capacità intellettuale dei latini fosse superiore a quella dei suoi sudditi, come superiore era la loro potenza militare. E come coll’adottare le costumanze militari occidentali, cogli arruolamenti numerosi di avventurieri, fossero latini od anglosassoni, egli sperava di poter accrescere la forza dell'impero, per potere competere con gli eserciti occiden- tali, bellicosi, bene armati, avidi di ricchezze e di conquiste, acerrimi nemici della Romania, così credeva di poter far fronte alla decadenza economica di Bisanzio, atti- rando nei porti e città principali commercianti latini, favorendo i loro commerci di importazione ed esportazione, per essi abbandonando, più che non avessero fatto i suoi predecessori, quella politica di rigoroso protezionismo ch’ era stata una tra- dizione secolare dell’ Impero d'Oriente. Mercò la protezione della Corte, la popola- zione latina dell'impero andò sotto il regno di Manuele sempre più aumentando: alla morte del basileus, nella sola capitale vi sarebbero stati, secondo Eustazio di Tessalonica, ben sessantamila latini. Per le necessità dei loro commerci, se una parte dei latini prendeva dimora in terra d’Impero solo temporaneamente, un’altra parte vi aveva fissato residenza stabile; ai rapporti d’ interesse e di amicizia fra latini ed indigeni avevano seguito assai spesso rapporti di parentela. Ma nonostante questo inizio di affratellamento fra i due popoli, nonostante che a molti commercianti ita- liani il basileus avesse concesso e concedesse il diritto di borghesia, assoggettandoli alle leggi ed ai tributi dello Stato, il tentativo di fondere le colonie occidentali con la classe commerciante indigena era fallito completamente. Le divergenze di civiltà, costumi, lingua, religione e tradizioni erano troppo gravi. Manuele, però, nonostante le oscillazioni della sua politica estera, era stato sempre fedele alle sue simpatie per i latini e per gli occidentali in genere, sì che di essi si serviva in guerra ed in pace, riempiendo di funzionari latini la Corte e le Cancellerie imperiali, con grave onta e danno dei greci: questi, trattati con una certa diffidenza dal basileus, con disprezzo dai latini, che riputavano la loro raffinatezza prova non dubbia di effemi- natezza, e li dicevano infingardi, doppi e smascolinati, nutrivano vivo risentimento verso Manuele ed odio terribile contro l’invisa razza latina. Tale corrente senofoba aveva seguaci in tutte le classi della popolazione, ma specialmente fra i borghesi ed i commercianti, gravemente danneggiati dai mercanti occidentali e desiderosi di liberarsi di questi terribili concorrenti (1). Per ora l’eminente figura di Manuele teneva tutti in soggezione, ma si affila- vano le spade per la lotta che s’ intuiva non lontana. Con la scelta fatta della sposa per il Porfirogenito, e dello sposo per la figlia Maria, Manuele dimostrò, ancora poco prima di morire, di volere rimanere sempre (1) N., 266. 20; per i rapporti di Manuele con l'Occidente, e la sua politica verso i latini, oltre alle note opere del Giesebrecht, dello Heyd, dello Schaube, del Chalandon, vedi sopratutto H. v. Kar-HerE, op. cit., e Norpen, Papsttum und Byzanz, Berlin, 1903; il lavoro del Gruan, Die byzantinische Politik zur Zeit der Kreuzziige, Berlin, 1904, non reca nulla di nuovo. Serie II. Tow. LXII. 28 21 (7.2) FRANCESCO COGNASSO 6 fedele alla sua politica latinofila e di desiderare che per tale via si continuasse anche per l'avvenire. Nel 1178, quando Filippo, conte di Fiandra, di ritorno dalla Palestina, era pas- sato per Costantinopoli, il basileus, accoltolo con quella sua ospitalità ben nota e celebrata in tutta Europa, lo aveva incaricato di chiedere al re di Francia, Luigi VII, la mano della figlia Agnese, natagli dalle sue terze nozze, per il porfirogenito Alessio. Non molto dopo, un’ambasciata bizantina venne — portando ricchi doni — appositamente in Francia, incaricata di conchiudere il contratto nuziale. Luigi VII, che da lunghi anni era in ottime relazioni con il basileus, aveva presto aderito. E così nel 1179, la principessa Agnese, a soli otto anni, partiva per l'Oriente; da Genova la trasportarono fino al Corno d'Oro le galee del fido del basileus, il geno- vese Baldovino Guercio. L'entrata della sposa nella Capitale avvenne fra feste sontuose: Eustazio di Tessalonica salutò la principessa con eloquente discorso, poeti di corte celebrarono l'avvenimento con epitalami, dei quali alcuno ci giunse (1). Tale matrimonio era stato già consigliato a Luigi VII, fin dal 1171, dal papa Alessandro III, quando si era sparsa voce di trattative matrimoniali fra la Corte francese e la Corte imperiale di Germania. All’arcivescovo di Reims, incaricandolo di questa proposta, il papa aveva allora promesso, il 28 gennaio 1171, di appoggiare presso il basileus la richiesta ufficiale; così a Bisanzio. Regnum et consanguinei puellae aerarium indeficiens semper invenient. Non sappiamo però se fra queste trattative del 1171 e del 1178-1179 esistano rapporti diretti. Il 2 marzo 1180, nella Basilica costantiniana del Trullo, fu solennemente celebrato il matrimonio, e lo stesso giorno, il basileus Alessio, veniva nuovamente incoronato con la sposa; questa assunse, passando alla Chiesa ortodossa, il nome di Anna (2). Contemporaneamente alle trattative con la Francia, Manuele ne aveva condotto in porto altre, di ben maggiore importanza, con il marchese di Monferrato, Gu- glielmo V l'Antico. Erano questi gli anni in cui il basileus lavorava attivamente in Occidente a riconciliarsi i vecchi amici, a procurarsene dei nuovi, mirando solo a suscitare dif- ficoltà al Barbarossa. Il trattato di Venezia del 1177 era stato una vera sconfitta diplomatica per Manuele, abbandonato perfino dal Papa nelle trattative finali, sebbene, prima, nei preliminari di Anagni, avesse potuto e voluto far comprendere l’imperatore costantinopolitano fra gli aderenti alla pace. Il grave rovescio di Myrio- Kephalon era probabilmente la vera causa dell’indebolimento diplomatico di Manuele (1) Le fonti principali sono: RantLesi DE Dicero, Chronicon (Bovever, XII, 201); RoserTI DE Moxre, Chronicon (MG., SS., 527 e sgg.); WT., (XXI, rv, 1066); Arserici Triox Foxrivy, Chronicon (Bovouer, Recueil, XIII, 708); Rosert DE Crary, ed. Hopf, pag. 12 e sgg.; Orrosoni, Annales (MG., SS., XVII, 99). Il discorso di Eustazio è in ReceL, Fontes rerum byzantinarum, Petropoli, 1893, pag. 81; per l’epitalamio cui accenno nel testo, vedi l'edizione commentata dallo Srrzy6owsxi, in BZ., X, 544, che lo attribuì alle nozze di Andronico II Paleologo o con Anna di Ungheria nel 1271 o con Irene di Monferrato nel 1285. Vedi però in contrario le buone argomentazioni del Parapnirriov, pure in BZ., XI, 452, che lo restituì alle nozze di Alessio II. L'epitalamio, di poca importanza artistica, presenta qualche curiosità sotto il punto di vista aneddotico. (2) La lettera di Alessandro III è in Bovquer, Recueil, XV, 901; cfr. A. CarreLnigrI, Philipp II- August, I, pag. 21 e Craranpon, Jean II Comnène etc., pag. 605. 7 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 11219 negli affari d’Italia (1). Tuttavia, nonostante le diffidenze degli uni, le ostilità degli altri, Manuele aveva ripreso i suoi progetti antitedeschi. La situazione era, del resto, non troppo sfavorevole per una ripresa d’armi contro Federico I; i suoi rappresentanti dovunque in Italia erano detestati per la loro oltracotanza: i Marchesi di Monferrato odiavano il Cancelliere dell’ Impero, Cristiano di Magonza, specialmente per la recente cattura di Corrado, il quale era stato liberato solo dopo il pagamento di una ingente somma; Genova e Pisa erano piuttosto favorevoli a Bisanzio per i loro commerci; il Papa era sempre lusingato dalle promesse, a volte sincere, di Manuele, per l'unione delle due chiese (2); Ungheria, Francia, Inghilterra, erano amiche (3). Con tali aderenze, poteva Manuele, non ostante la ostilità della lega veneto-nor- manna, pensare alla riscossa. Il basileus riuscì abilmente ad attirare a sè i Marchesi di Monferrato: a Guglielmo V diede ricche rendite ed ampi possessi nell’ isola di Creta, a Corrado promise aiuto d’ogni genere — specie finanziario — contro l’arci- vescovo di Magonza, a Raineri mandò invito di recarsi alla sua Corte: gli avrebbe dato alte dignità, grandi ricchezze, e la porfirogenita Maria in isposa. L’oro bizantino, come influì vivamente nel malcontento che i Comuni lombardi mostrano in questi anni contro l’Impero tedesco, così agì potentemente nella vasta cospirazione che il marchese Corrado, lungo il 1179, andò preparando nell’Italia cen- trale contro Cristiano di Magonza. Intanto, il giovane marchese Raineri, aderendo all'invito di Manuele, verso la fine dell’agosto di quell’anno, lasciava il Castello paterno, i ridenti colli del Monferrato per i miraggi orientali (4). Ebbe accoglienza magnifica: gli fu conferita — con il nuovo nome di Giovanni — la dignità di Cesare, cui furono forse aggiunte laute rendite in Macedonia. Seguì, nell'autunno, il basileus in una sua spedizione; al ritorno, secondo i patti, sposò — aveva soltanto diciassette anni — la porfirogenita Maria che era non lontana ora dai trenta (febbraio 1180) (5). (1) Vedi Craranpoxn, Hisf. de la dom. des Normands; II, pag. 380; e, dello stesso, Jean Il Com- nène etc., pag. 598. (2) Ancora il 13 novembre del 1177, scrivendo ad Ugo Eteriano di Pisa, da molti anni resi- dente alla Corte bizantina, con l’ ufficio d’interprete per le lettere latine, Alessandro III, mentre si congratulava per un suo scritto sulle differenze fra le due chiese, lo esortava a sollecitare per la unione tanto auspicata “ carissimum in Christo filium nostrum illustrem et gloriosum Constantino- politanum imperatorem ,. Mine, PL., CC., col. 1154. } (8) Per le relazioni con l’ Inghilterra, dopo le trattative matrimoniali del 1173 (vedi sopra, pag. 216) vedi in The Great Rolls of the Exchequer commonly called the Pipe Rolls, XXIII (Henry Il), London, 1905 (pag. 116, 187, 192, 208), diversi pagamenti per spese di ambasciatori inglesi a Co- stantinopoli e bizantini in Inghilterra, fra il 1176 ed il 1177. Forse gli ambasciatori bizantini, di cui ivi si tratta, portarono ad Enrico II la lettera di Manuele edita in Bovouer, XVI, 652, annun- ziante la sconfitta di Myriokephalon. Vedi pure per la corrispondenza fra Enrico Il e Manuele che chiedeva informazioni “ super insulae Britannicae situ ac natura ,, GreaLpr CamprensIS, Descriptio Cambriae, I, cap. VINI, ed. Dimock, pag. 181. (4) In base ai dati di Guglielmo di Tiro (XXII, 1v, 1067); credo che l'andata di Raineri di Mon- ferrato, dal Chalandon (Jean II Comnène etc., pag. 600) messa nell’ottobre 1179, sia da anticiparsi alla fine di agosto o principio di settembre. (5) L’età di Raineri è data da Guglielmo di Tiro, XXII, rv, 1067; l’esattezza è controllata da quanto dice N. 222. 9, e dal fatto che il 1 aprile 1177 esso è- ancora dichiarato minorenne (Mo- zionpi, Monumenta Aquensia, I, col. 635), mentre il 6 maggio 1178, Raineri riceve dalla sorella Agnese il feudo imperiale di Poggibonsi, di cui investe — ancora però con l’assistenza del padre — il Comune di Siena (Ficxer, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, IV, 206, n. 165). 220 FRANCESCO COGNASSO 8 Alle sue nozze assisteva il fratello Corrado (1), venuto poco prima a Costantinopoli a render conto dell'impresa contro il Cancelliere di Federico I, caduto verso il 29 settembre 1179, nell’insidia tesagli presso Camerino (2). Alle solenni feste celebrate, in occasione di questi due matrimoni, con il maggior sfarzo possibile alla Corte di Bisanzio, la popolazione della capitale — raccontano — partecipò con il più vivo entusiasmo (3) ed Eustazio potè celebrare con retorico eloquio il grande trionfo diplomatico del basileus; ma certo è che il partito nazionalista vide con rammarico e sdegno questi nuovi legami consacranti una politica che esso ripu- tava dannosa allo Stato (4). Questo malcontento, Manuele non lo ignorava, ora, certo. Egli stesso, più che ai successi della sua politica, riandando gli avvenimenti del suo regno, pensava con dolore alle disfatte, più numerose delle vittorie, pensava a quelle valli di Tzibritze, dove quattro anni prima era caduto il fiore dell’esercito bizantino; da quei tristi giorni del settembre 1176, nessuno più lo aveva visto ridere, chè sempre aveva presente alla mente l’onta patita ed il cordoglio di migliaia di madri. La sua salute stessa da allora era andata declinando; nel marzo del 1180, poco dopo le solenni cerimonie del (1) Erra il Chalandon (Jean II Comnène ete., pag. 600) attribuendo al vecchio Guglielmo V varie imprese del figlio Corrado, come la lotta con Cristiano di Magonza ed il viaggio a Costantinopoli ; il trattato per la liberazione di Cristiano non fu ° signé entre Christian et Conrad de Montferrat agissant pour le compte de Boniface . ma fra Cristiano e Bonifazio a nome di Corrado. (2) Per i rapporti di Manuele con i Marchesi di Monferrato, vedi N.. 220. 22; WT., XXII, 1, 1067 e sego.: Vita Henrici II, ed. Stubbs, London, 1867, I, 243; cfr. quindi GresesrREcHT, Op. cit., VI, 888; Ircen, Markgraf Conrad von Moniferrat, 54 e segg.; F. Savio, Studi storici sul marchese Gu- glielmo III di Monferrato, Torino, 1885; Braper, Bonifaz von Monferrat, Berlin, 1907; Toretti, I patti della liberazione di Cristiano di Magonza, in ° Miscellanea di Storia Italiana ,, Serie II, XII, 321 e segg.; Caaranpon, Jean Il Comnène etc., 599 e segg. L’ assenza di Bonifacio dal Monferrato nel- l'agosto 1182 non è argomento sufficiente per supporre un viaggio suo a Bisanzio, come pensa il BrapeR (op. cit., pag. 182 e segg.) fra il 1180 ed il 1182. Riguardo poi alla questione del regno di Tessalonica concesso da Manuele a Raineri in feudo (RosertI DE Monte, Chronicon, in MG., SS., IX, 528; Sicarpi CremoneNsIS, Chronicon, ib., XXX, 173; Sarmsene Parmensis, Chronicon, ib, ed. Holder-Egger, pag. 3), credo non si possa pensare ad altro che al conferimento delle rendite di quella provincia o di parte di esse: la confusione nelle narrazioni occidentali fu prodotta dalla incoronazione a Cesare, cosa conforme al cerimoniale di corte a Bisanzio. Vedi però a questo proposito le opinioni dell’Ilgen (op. cit., pag. 61) che pensa pure ad una confu- sione nata in Occidente, senza però spiegarsene l’origine; dello Holder-Egger(MG., SS., XXXI, 173, n. 6) che pensa 2 voci sparse più tardi verso il 1204, ad arte, da Bonifacio per legittimare la sua conquista di Salonicco; del Brader (op. cit., pag. 182) che obbietta allo Holder-Egger l'avere Sicardo di Cremona e Robert du Mont scritto prima del 1203, e crede ad una vera concessione in feudo di Tessalonica; del Chalandon (Jean II Comnène ete., pag. 400, n. 1) che suppone l'origine della diceria nell’altra diceria raccolta da Robert du Mont, che la Porfirogenita non avrebbe voluto sposare se non un re. Un caso consimile è forse quello ricordato da Anna Comnena (A/erias, II, 116): Alessio I, in cambio dell’aiuto chiesto a Niceforo Melisseno, avrebbe voluto conferirgli la dignità di Cesare, asse- gnandogli con una crisobolla la città di Tessalonica. La dignità di Cesare era ora la maggiore dopo quella dell'Imperatore e ben conveniva che avesse unito l’° honorem Thessalonicensium, qui est maxima potestas regni sui post civitatem Costantinopolitanam ,. Per il dono di Manuele a Gu- glielmo V di Monferrato vedi Tarer und Tuoxas, Urkunde zur Aelteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I, 503, in Fontes Rerum Austriacarum, II Abt., I, 513. (3) Se l’interpretazione è esatta, sarebbe stata battuta poco dopo le nozze la moneta, con l’ef- figie di Manuele, Alessio ed Agnese, che il Sabatier illustrò in Description générale des Monnaies Byzantines, II, 414 (cfr. tav. LVII, n. 3). (4) WT., XXII, rv, 1067; Eusrazio, Oratio in Agnesem, in ReceL, Fontes rer. byz., pag. 80 e segg. 9 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 221 matrimonio e dell’incoronazione del figlio Alessio, peggiorò ancor più, ed invano si fece trasportare al castello imperiale di Scutarion presso Damali, nella speranza che, lungi dagli affari del governo e dai rumori della popolosa capitale, le aure balsamiche della Riva d'Asia gli fossero generose di alcuna tregua nei suoi dolori. Per vero, neppure allora egli volle e potè dimenticare le cure dello Stato. Appunto fra il marzo ed il giugno 1180 fu tutto occupato dalla grave questione degli anatemi che nei libri catechici si trovavano contro i dogmi mussulmani sulla Divinità. Egli, in omaggio alla libertà religiosa, che voleva in Bisanzio protetta dallo Stato, temeva che quegli anatemi colpissero troppo duramente i mussulmani che volessero passare alla ortodossia, e propose al patriarca una correzione di quei passi e della formula di abiura. Fu lotta aspra per l’intransigenza di parte dell’episcopato, capitanato da Eustazio di Tessalonica; la vittoria del governo non fu completa, e le condizioni di salute di Manuele sentirono non lievemente il contraccolpo di queste preoccupazioni, mentre nuove inquietudini recavano gli astrologi con le loro profezie di prossimi cataclismi (1). Sovra ogni altra cosa, però, un pensiero lo angosciava: il pensiero del figlio, ancora così giovane e del tutto incapace di fronteggiare i bisogni dell’impero e le difficoltà del governo. Egli fino all’ultima ora sperò di poter trionfare del male, e quando ogni speranza svanì e sentì le forze venir meno, funeste previsioni gli si presentarono innanzi e l’ultima sua benedizione al figlio, all’imperatrice, ai famigliari, si accompagnò a profondi lamenti (24 settembre 1180) (2). “ Morto il basileus Manuele, esclama accorato Eustazio di Tessalonica, parve che ad un tratto, scomparso il sole che ci illuminava, una immensa caligine tutto ravvolgesse , (3). Ed in verità, Manuele era l'intelligenza dominatrice dello Stato; e la potenza, di cui pareva dotato l'impero, non risultanza era di energie coordinate e composte della nazione intera, ma solo creazione appariscente e fuggevole della forte volontà dell’autocratore. Come realmente fosse organizzato il governo che doveva reggere l'impero du- rante la minore età di Alessio II, noi non sappiamo con precisione. Fermo nella speranza di una pronta guarigione, non pare che Manuele abbia ascoltato i consigli del patriarca Teodosio, allorchè l’invitava a regolare minutamente la questione della Reggenza, mentre ancora gliene rimanevano le forze. Teodosio avrebbe voluto che Manuele affidasse il governo ad un uomo sicuro che si prendesse cura dell’erede e proteggesse lui e la basilissa; ma la morte impedì all’ imperatore di trattenersi a lungo con i famigliari su questo punto. Nell’incertezza in cui si trovarono i ministri, morto Manuele, si dovettero probabilmente regolare le cose in base alle disposizioni del 24 marzo 1171 (4). (1) N., 287; WT., XXI, x, 1024. (2) N., 286; E., Elogio funebre di Manuele, PG., CKXXV, 1032, n. 79; vedi in K. KrumBACHER, (op. cit., pag. 762), per una curiosa poesia che sarebbe stata composta da Alessio II con l’aiuto della madre, per la morte di Manuele. Ma la poesia, che si trova in un codice di Napoli, potrebbe ben essere opera di qualche retore, anche posteriore. (3) E., 380. 11; vedi poi lo stesso Eusrazio, in PG., CXXXV, 1032, n. 86, e Nrcera, nei fram- menti del suo 070av9ds 69dodogias, ed. Uspenskij, 316. i (4) N., 286; WT., XXII, x, 1079, dove però si dice che Alessio successe sul trono a Manuele “ tam ex testamento patris quam ex jure haereditario ,. bo DO Lo FRANCESCO COGNASSO 10 Con il giuramento prestato in quel giorno, per sè edi successori suoi, Michele d'Anchialo si era impegnato a riconoscere come futuro imperatore, Alessio II, senza che fosse necessaria, alla morte del padre, una nuova incoronazione, anche se non avesse, salendo al trono, toccato ancora i sedici anni. In questo caso, però, il potere sarebbe stato affidato alla madre, Maria d’Antiochia, che veniva quindi rico- nosciuta come tutrice del figlio e reggente del trono. Se Alessio II fosse premorto al padre, senza lasciar figli, il trono sarebbe toccato ad altro figlio che a Manuele potesse nascere, od, in mancanza di questo, alla principessa Maria. L'Imperatrice per essere considerata come la Reggente fino alla maggiore età del figlio, doveva però vestire l’abito monastico e difendere l’onore di Alessio II; identiche condizioni vi erano per la Reggenza in nome dell’altro eventuale figlio ed erede. Ma se la basilissa venisse a morire o non si comportasse nel modo anzidetto, allora sarebbe venuto meno ogni obbligo di obbedienza, che si sarebbe in questo caso dovuto osservare solo verso i Ministri ai quali Manuele avrebbe affidato il governo e l'educazione del figlio, e se quelli a loro volta fossero venuti a mancare, i Reggenti sarebbero stati scelti, per comune accordo, dagli altri più autorevoli personaggi del governo (1). Le fonti ci affermano che attorno a Maria d’Antiochia si trovava un Consiglio di tutela; uno storico orientale ci sa perfino dire che questo consiglio era formato da dodici membri. Eravi, secondo le fonti, il patriarca Teodosio, cui Manuele morente aveva raccomandato il figlio in modo particolare, Alessio Comneno, il Protovestiario, forse il protostratore Alessio, bastardo di Emanuele, poi Andronico, il famoso cugino del basileus, e forse un altro nipote di Manuele, Giovanni Comneno Vataitze (2). Il governo era dunque doppio: l'imperatrice madre, ed il Consiglio: conflitti fra le due parti potevano nascere facilmente, specialmente per la condizione imposta a Maria d’Antiochia della vita monastica. È questo un punto assai notevole. Purtroppo, le nostre fonti nulla dicono che possa aiutarci nel ricostruire la figura morale di Maria d’Antiochia. Mentre di Berta di Sulzbach conosciamo la poca avvenenza, le nobili doti della mente e del cuore (3), della principessa antiochena nulla è ricordato se non la meravigliosa bellezza che aveva destato vero entusiasmo fra i Bizantini quando i legati imperiali l'avevano condotta a Costantinopoli, per essere sposata ed incoro- nata in Santa Sofia il 25 dicembre 1161 (4). Essa era stata proclamata la più bella del suo tempo. Era allora ancora giovane, benchè già sei anni prima, nel 1155, il padrigno Renaud di Chatillon, scrivendo al re di Francia, gli parlasse delle due figlie del prin- cipe Raimondo, giunte oramai ad nubiles annos. Filippa e Maria erano allora nimis pulcherrimae, e Renaud chiedeva se non fosse possibile accasare le due nobili donzelle in Francia, perchè laggiù, in Siria, per l’arduità della terra e la loro consanguineità (1) Vedi Pautov, op. cit., in Viz. Vr., Il, pag. 390. (2) Sulla reggenza, vedi N., 292. 22; 329. 20: E., 381. 1; Grecorm AsurrB4RaGI sive Bar-HEBRAFI, Chronicum Syriacum, ed. Bruns et Kirsch, Lipsiae, 1789, pagg. 388-89; Mic®eLe x Sigiaco, Chronicon, in HC., Doc. Arm., I, 389 e segg. In SceLtxsercer, Sigillographie byzantine, 713, trovasi un sigillo di Giovanni Comneno Vatatze con il titolo di “ Tarxas._= Tutore ,. (3) C., 10, 36. 2; 277; N., 72, 23; Basrcro p'Acarma, Elogio funebre di Irene, ed. Vasiljewskij, in Viz. Vr., I, 109. 5; cfr. Diznt, op. cit., pag. 183, Caaraxpon, Jean II Comnène etc., pag. 210. (4) Sul matrimonio di Manuele con Maria d’Antiochia, vedi ora Caaraxpos, op. cit., pagg. 517-523. 11 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 223 (A V402 non v'era mezzo di trovar per esse un degno consorte. Nel 1180, alla morte di Manuele, la basilissa Maria non aveva, certo, più di trentasette anni e doveva avere conservato più che il solo ricordo della sua bellezza giovanile (1). Certo, mentre Berta di Sulzbach era troppo fredda e troppo grave per un prin- cipe di venticinque anni, ardente di voluttà, Maria d’Antiochia, bel fiore cresciuto sotto l’ardente sole di Siria, si era presto adattata all'ambiente bizantino, ed aveva senza dubbio secondato lo sposo desideroso di fare della Corte sua il centro di ogni splendore ed eleganza. Principi e cavalieri latini di Siria e d'Europa vi passavano, ed il loro soggiorno favoriva l'incremento e la maggior voga delle costumanze occi- dentali, così care al basileus. Ma aveva Manuele trovato in lei quel decoro, quella dignità ‘che gli aveva resa, se non amata, rispettata e venerata la sua prima con- sorte? L'atto del 1171 suscita i più gravi dubbi. Se era tradizione delle imperatrici bizantine il consacrarsi a vita religiosa dopo la morte del consorte, perchè farne una condizione della capacità di Maria alla reggenza? Si direbbe dunque che Ma- nuele diffidasse della consorte, più giovane di lui di vent'anni, e temesse che alla sua morte, essendo ancora fanciullo il figlio Alessio, l'imperatrice non imitasse Eudocia Macrembolissa ed adducesse al talamo ed al trono imperiale, qualche suo favorito. Manuele Comneno, nel settembre del 1180, sentendo davvero l’approssimarsi dell’ora solenne, scacciò dal suo letto i fedeli astrologhi ed indovini che si affanna- vano a predirgli lunghi anni di vita, gioconde avventure d'amore e molte gloriose imprese, e, ripudiata alla presenza del Patriarca ogni sua teoria astrologica e teo- logica non consona con i dogmi della Chiesa, desiderò, secondo l’uso di Corte, essere vestito dell’abito monastico che doveva avvolgerlo nel suo eterno riposo nella Chiesa del Pantocratore. Il basileus si chiamò ora il monaco Matteo. Fin d’ora e, crediamo, solo per volere di Manuele, l'imperatrice vestì anch'essa l’abito monastico e divenne, di imperatrice, la monaca Xene (2). Deposti i suoi imperiali abbigliamenti, sacrificato le sue chiome, non pare ab- bandonasse la basilissa il Palazzo per ritirarsi come era abitudine in un monastero, allorchè Manuele morì, benchè in ricordo del defunto fondasse il monastero detto di Ioannitza (3). Conservò però a Palazzo l’abito impostole dai voti; Eustazio di Tes- salonica, recitando non molto dopo alla presenza della Corte l’elogio funebre di (1) C., 210. 8; N., 151. 19; WT., XVIII, xx1v, 876; la lettera di Rainaud de Chatillon è in Bouquer, Recueil, XVI, 14, n. 67. Vedi una miniatura del cod. greco vaticano 1176, rappresentante Manuele e Maria d’Antiochia, in Mar, Veter. scriptorum Nova Collectio, IV, ed ora in Cmaranpon, Jean II Comnène etc., pag. 212. (2) N., 286-287; MruceR, op. cit., pag. 201; WT., XXII, 1v, 1067; Bar-HerarI, Chronicon, ed. cit., 389. Credo opportuno ricordare come per la lunga permanenza di Guglielmo di Tiro alla Corte bizantina, ed il viaggio successivo di Baldovino di Ramla e Joscellin de Courtenay, le notizie dateci da Gu- glielmo si debbono ritenere come di grande importanza. La basilissa è detta Xene in N., 381. 10. 16; 432. 22; 548. 11; E., 394. 16. Il Mircer (HC., Hist. grecs, II, 347) opina che la basilissa fosse detta dal popolo Xene (= la straniera) per disprezzo. Ma è senza dubbio invece il nome assunto come monaca; così eransi chiamate: la madre di Alessio I (Mirrosica et MiLcer, Acta et diplomata graeca, V, 327); la vedova di Giovanni II (DeLenaye, Le Synazraire de VÉglise de Constantinople, Bru- xelles, 1902, pag. 888); Irene d’Alania, cognata di Alessio I (Gerzer, Das Patriarchat Acridas, in “ Abhandlungen d. hist. K1. d. Kgl. sichs. Gesell. d. Wissens. ,, 1902, XX, 280). Vedi del resto il parere esplicito di Copmso (op. cit., 160. 5). (3) N., 548. 11. 224 FRANCESCO COGNASSO 12 Manuele, diceva della basilissa, che essa era apparsa dall'Oriente qual fulgido sole, benchè ora una nube la velasse, se pur nube si poteva dire quel nero abito mona- stico nel quale più splendido appariva il divin sole della virtù. Ma di frasi non diverse doveva servirsi alcuni anni dopo per insultarla, dicendo che alla morte del consorte, la basilissa era in età propizia agli amori che cercava di nascondere, ricoprendo il sole della sua bellezza con la rozza tonaca religiosa (1). Alessio II non aveva più di dodici anni, quando saliva al trono imperiale, e per quattro anni quasi il governo doveva essere affidato alla Reggenza. Pur prescin- dendo dal grande movimento antilatino, vi era certo in Bisanzio più d’uno malcon- tento di dovere obbedire ad una donna, neppure capace, pare, di educare seriamente il figlio. Eustazio stesso, nel suo magnificente Elogio Funebre di Manuele, diceva, non so se soltanto per adulazione, che certamente la basilissa, dopo avere condiviso, per tanti anni, con Manuele la vita e l'impero. doveva ora conoscere assai bene tutte le arti della politica, necessarie per reggere lo Stato, seguendo l’esempio del defunto, traducendo in atti i suoi ammaestramenti, sì che ora utilmente avrebbe assistito il giovane basileus Alessio; ma aggiungeva però che essi — i Bizantini — piangevano la mancanza di una mente imperiale, e desideravano un principe forte come Manuele, per difenderli contro i nemici. L'essere stato però Alessio incoronato fin dalla sua prima infanzia, doveva essere un importante elemento della stabilità della dinastia. Alessio II avrebbe accresciuto la potenza e la gloria dell'impero, compiendo l’opera alla quale il padre aveva gettato basi solidissime (2). La pace che Eustazio augurava non durò a lungo, morto Manuele. Lo Stato parve ben presto “una nave trasportata fatalmente da terribile tempesta e dalle onde impetuose ,; il pericolo sorse quasi ad un tempo internamente ed esterna- mente (3). Maria d’Antiochia, approfittando della debolezza dei suoi consiglieri, si appoggiò, nel governare, al protovestiario Alessio Comneno che divenne l'interprete, l’esecutore dei suoi voleri, mentre tutti gli altri si trovarono esclusi da ogni parte- cipazione al governo (4). Alessio Comneno, detto comunemente, dalla sua dignità, il Protovestiario, non aveva avuto finora, a differenza del fratello maggiore Giovanni, ora defunto, una notevole im- portanza nella Corte di Manuele. Erano essi figli del fratello maggiore del basileus, il sebastocratore Andronico, il quale, morto il porfirogenito Alessio, primogenito di Gio- vanni II, nel 1142, lasciando una sola figlia, era stato, per pochi mesi, l'erede pre- suntivo della corona (5). Alle cure della vedova Irene, dotta protettrice di poeti e letterati, lasciò Andronico, morendo, cinque figli: due maschi, Giovanni ed Alessio, e tre femmine; di queste, la maggiore, Maria, fidanzata a Teodoro Dasiota, sposò poi il valo- roso Giovanni Cantacuzeno; Teodora, consorte, forse, prima di un Chaluph, sposò verso il 1148 l'arciduca d’Austria, Enrico; Eudossia, vedova una prima volta, consolata (1) Mrexe, PG., CXXXV, 381, n. 16; E., 380.19. (2) Miexe, PG., CXXXV, 1025, 1023, 1013. (3) Nicera Acommsato, Byoevods tijs dododofias, frammenti editi da Uspenskij, pag. 316. (4) N., 232; E., 381. 3. (5) Vedi Craranpoxn, Jean II Comnène ete., pag. 213 e segg. 13 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 225 nella sua vedovanza dal cugino Andronico, divenne poi la consorte del generale Michele Gabra (1). Ai due nipoti, Giovanni ed Alessio, accordò Manuele tutto il suo amore, la sua protezione; egli era diventato come il loro secondo padre, esecutore premuroso delle ultime volontà del fratello (2). Poco cordiali, anzi aspri addirittura, furono invece i rapporti fra Manuele e la cognata Irene. Fin dal 1143 era scoppiato il dissidio. L’infelice principessa, su accuse che un suo fedele difensore, Teodoro Prodromo l’autore delle numerose poesie che ci illuminano in parte su questi fatti, protesta essere mere calunnie, venne incarcerata a due riprese. Soffrì privazioni ed umiliazioni terribili, forse persino la tortura (3). Quali i motivi? Aveva essa cospirato contro Manuele? Forse parteggiato per l’altro cognato, il sebastocratore Isacco? Erano, infatti, quelli gli anni in cui dopo l'apparente conciliazione con il fratello più abile e più fortunato, Isacco si agitava per i suoi piani segreti, benchè il basileus avesse cercato di ammansarlo, conferendogli la dignità di Megaduca (4). Solo più tardi, dopo quel famoso diverbio fra i membri della famiglia imperiale, avvenuto in un banchetto, dove lo stesso Manuele rimase ferito, Isacco dovette abbandonare per qualche tempo la Corte (5). D'altra parte, si desidererebbe pure conoscere quali legami poterono passare fra la persecuzione contro la sebastocratorissa Irene ed un altro episodio della vita pri- vata di Manuele. È noto come la Corte bizantina avesse smesso sotto il governo di questo principe quegli abiti di vita così severi e rigidi che l'avevano caratterizzata ai tempi di Giovanni II. Il giovane Manuele, alle cure della politica e delle guerre si compiaceva alternare i sollazzi cavallereschi e le più gioconde avventure. Fra i molti amorazzi che lo occuparono, è notevole la veemente passione dei primi anni del suo regno per la nipote Teodora, la figlia appunto del fratello Andronico, e sposa — come dicemmo — forse diun Caluph. Essa, senza ipocrisie e senza veli, visse per qualche tempo ‘a Corte, considerata come la favorita ufficiale, pretendendo persino alla scorta dei Varangi, orgogliosa e superba. Certo, questa tresca dovette precedere il matrimonio di Manuele con Berta di Sulzbach, poichè soltanto in quegli anni, la bella Teodora, fatta audace dalla nascita di un figlio, potè comportarsi come imperatrice, sperando forse di riuscire a far consacrare la sua unione con lo zio; inutilmente però, chè nel 1146, quella contessina tedesca che da più di un lustro era stata inviata dal- l’imperatore Corrado a Giovanni II perchè fosse sposa del sebastocratore Manuele, diventava per necessità di politica estera la basilissa. Teodora sposò poi l’arciduca d'Austria. Quale contegno aveva tenuto Irene di fronte alla tresca fra la figlia ed il cognato? È certo assai difficile che quella donna saggia dimostrasse l’indulgenza del figlio Giovanni e del genero Cantacuzeno, che secondavano le passioni di Manuele per ritrarne favori e si sdegnavano contro chi — come il cugino Andronico. — (1) N., 135-136. Sulla famiglia imperiale, vedi ora Caaranpon, Jean IT Comnène etc., pag. 212 e segg. (2) Cfr. la poesia di Teodoro Prodromo in HG., Hist. grecs, II, 288. : (8) Per le lotte fra Manuele e la cognata, cfr. Parapmarziov, Il È Prodromo , del Marciano etc., în Viz. Vr., X, 102 e segg.; e dello stesso, Teodoro Prodromo, Odessa, 1905, pag. 383 e segg. (4) Isacco è detto Megaduca in un sigillo della figlia Teodora (cfr. ScALUMEERGER, Op. cit., pag. 645); Cinnamo (127. 16) lo dice invece Megastratarche. (5) C. 127 e segg.; vedi Czaranpox, op. cit., pag. 215. Serie II. Tom. LXII. 29 226 FRANCESCO COGNASSO 14 osasse motteggiare su questo punto (1). E Giovanni godette tutta la benevolenza dello zio. Fu governatore della Bulgaria, poi di Cipro; ebbe il titolo di Protosebasto e la dignità di Protovestiario; era insomma uno dei personaggi più eminenti del- l'impero e la sua morte a Tzibritze addolorò gravemente Manuele (2). Alessio era il più giovane figlio di Irene: nato verso il 1142, rimase pochi mesi dopo orfano del padre; Irene, di cui era il prediletto, ebbe il cuore straziato quando ancor gio- vane dovette lasciarlo partire per il campo imperiale. D’allora Alessio era rimasto a Corte e con il fratello maggiore compare, negli atti delle Sinodi, subito dopo lo zio. Dopo la caduta in disgrazia di Alessio Asuch, Alessio ebbe dallo zio la dignità di Protostratore; dopo la morte del fratello fu nominato Protovestiario; verso il 1180, a circa 38 anni, dalla necessità delle cose era destinato a rappresentare all’ indo- mani della morte di Manuele una parte importantissima nel governo (3). AI tramonto del regno di Manuele, infatti, non erano numerosi fra l'aristocrazia di Corte gli individui dotati d’inteiletto e di volontà, capaci di pensare e di dare inizio alle cose pensate. Il volere autoeratico del basileus aveva compresso funzio- . nari e cortigiani; egli a tutto aveva voluto personalmente provvedere, e se la sua mente possente aveva infuso per tanti anni forza e vita in tutto l’ organismo dal centro alla periferia, ora, mancata questa sorgente di attività, la macchina dello Stato, stanca dopo una vita quasi millenaria. accennava ad arrestarsi. Sotto il go- verno della imperatrice Maria, gli alti funzionari delle cancellerie tosto si accorsero della mancanza di un occhio vigile come quello che li aveva fino allora guidati: si attribuirono le cariche più proficue; si divisero le provincie stesse per sfruttarle, danneggiarono l’erario con le loro malversazioni, i consigli andarono deserti e gli uffici vennero abbandonati; il privato interesse prevalse sull’utile della collettività (4). L'elemento latino era più che mai in auge: l'imperatrice ed il Protovestiario (1) N. 73. 9; 266. 3; cfr. pure K. Kruxsacner, Michael Glykas, in È Sitzungsberichte d. Kgl. Bayerl. Akad. ,, 1894, pag. 430, e, sulle sue tracce, il catalogo che il Vasilievskij dà delle nipoti di Manuele, che si chiamano Teodora, in Viz. Vr., VI, pag. 533; cfr. poi Neumana, Griechische Geschichtschreiber und Geschichtsquellen im XII. Jahrh., Leipzig, 1881, pag. 89. La cronologia proposta dal Krambacher per la relazione di Manuele con la nipote è arbitraria; se Niceta parla di questa relazione d'amore, giunto a parlare degli avvenimenti dell’anno 1151, la cosa è puramente causale; l’identificazione dell'amante del basileus con la figlia del sebastocratore ‘Andronico risulta chiara- mente da N. 136. Il primo matrimonio di Teodora risulterebbe da una lettera di Giovanni Apocauco a Giorgio Bardanes, metropolita di Corcira, ed. da Papadopoulos Kerameus in Kegxvoatzd, Viz. Vr., XIII, 1906, p. 346. È singolare il soprannome di Calusina che Teodora ha in WT. Vedi ora su questo punto l’opinione, contraria alla mia identificazione, del Cnaranpown, Jean II Comnène ete., pag. 210 e 213. (2) ParapiirRIOv, IZ “ Prodromo ,'del Marciano ete., in Viz. Vr., X, 102; C., 126.2; 178.22; 179. 3; N., 236; WT., XXI, x, 1024. Erra il Cmaranpon, in Jean IT Comnène ete., pag. 217, dicendo che dopo il 1170, Giovanni Comneno fu fatto Sebastocratore. Il passo da lui addotto, C. 51, dà al nostro Giovanni il titolo di Protosebasto, ma non fu capito dall’autore della traduzione latina inserita nella edizione di Bonn. Del resto anche in WT., XVIII, xx1v, e XXI, xn, Giovanni è detto Protosebasto. (2) Papapimimrio, Teodoro Prodromo, 383; HC., Hist. grecs, II, 288; Mar, Spicilegium Romanum, X, 58 e segg.; Mai, Vet. Script. Nora Collectio, IV, 28; Pemir, op. cit., 477. Il Lambros in é Mog- mavòs aGÒLE 524 (“ Néos “EXAnvouviuor ,, VIII, pag. 35) publica una poesia di Teodoro Prodromo per un Alessio che è detto figlio del Sebastocratore Andronico. Si tratta molto probabilmente del nostro personaggio. Avrebbe quindi avuto una moglie di nome Maria. (4) N. 292. 15 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. PAZIA si il di latini sì servivano per consigli ed aiuti, e molti ebbero famigliari, benchè non mancasse fra i latini qualche malumore riguardo al Reggente, che pare fosse alquanto avaro, od almeno, non così spensieratamente prodigo come Manuele (1). La basilissa giudicava la sua potenza incontrastata e non si accorgeva di quanto nel silenzio si andava preparando. Infatti, poichè essa era latina e proteggeva i suoi connazionali, era naturale che in lei convergessero gli odì di tutti i nazionalisti, dagli operai e commercianti attaccati ai loro interessi, al clero, tenace difensore della ortodossia; e di riverbero quell’odio, quel disprezzo si rivolgeva contro il basileus Alessio, col- pevole di essere stato portato da viscere latine. La basilissa poi aveva una fiera avversaria nella virile porfirogenita Maria, che nella matrigna non odiava tanto la straniera quanto la madre di Alessio II, e che, pensando a lottare contro di essa, mirava forse soltanto a soppiantare sul trono il fratello. Questione difficile a risolvere è quella che concerne i rapporti della basilissa con Alessio il Protosebasto. Le fonti sono unanimi, quasi, nel raccogliere l’ accusa che Maria d’Antiochia fosse l'amante del cugino, nè solo dopo la morte del consorte — ci dice l’informatissimo Guglielmo di Tiro — ma ancor prima, negli ultimi tempi della vita di Manuele, ed anche quando la basilissa aveva già vestito l’abito monastico. Altro ancora sì diceva in Bisanzio: correvano voci secondo le quali i due amanti intendevano sbarazzarsi del giovane Alessio II per regnare da soli. Quanto di vero? Certo le accuse potrebbero ben essere spiegate attribuendo loro una ‘sola origine, una sola officina, il partito dei Cesari, ma d'altra parte la loro autorevolezza è accresciuta dal vederle raccolte dalle stesse fonti latine (2). Grazie alla fiducia, all'amore della basilissa, il Protosebasto aveva raccolto nelle sue mani ogni autorità; l'appoggio dei cortigiani gli era assicurato da Maria d’An- tiochia, la quale con la bellezza del volto e lo splendore degli occhi, con l’affabilità del trattare e la dolcezza nel parlare, incatenava chiunque l’avvicinasse, sì che tutti — nel desiderio — erano a lei profondamente devoti. Ma pare che il Reggente mirasse ancora oltre, mirasse cioè a sostituirsi alla stessa imperatrice: attorno ad essa, come attorno al basileus, aveva infatti collocato persone di sua fiducia, sì da essere informato con accuratezza e sollecitudine di quanto si venisse, nel Palazzo, dicendo o facendo; non solo, ma a legittimare il proprio potere, aveva fatto firmare ad Alessio II un decreto che dichiarava validi gli atti imperiali, soltanto se oltre alla rossa firma del basileus, vi fosse stata la firma del Reggente, in inchiostro verde e l'ordine: sia eseguito. Intanto Alessio II occupava le sue giornate con caccie e giochi insieme alla schiera di giovanetti della più alta aristocrazia di Corte che secondo la tradizione lo circondava, felice nella sua spensieratezza e nell’ignoranza delle lotte che attorno al suo trono stavano per combattersi (3). (1) N. 293; WT., XXII, 1v, 1069; Vita Henrici II, ed. Stubbs, London, I, 245; SicesERTI, Conti- nuatio Aquicinctina, MG., SS., VI, 421; Robert de Clary, ed. Hopf, in Cronicques Gréco-Romanes, pag. 12. (2) N., 293; WT., XXII, iv, 1069; cfr. inoltre Gregori AsurpHaraGII, Chronicon, pag. 389; MricHELE IL Sreraco, ed. cit., 490; Varran, Storia Universale, in HC, Doc. Arm., I, 345. (3) N., 293; 299. 14; 318. 4; E., 381. 7; vedi nel “ Néog “EZAnvouviuov,, 1911, pag. 128, una poesia, adespota, per la corona preziosa offerta ad Alessio II dal Protovestiario, come prova della sua fedeltà e del suo amore. 928 FRANCESCO COGNASSO 16 Qual tempra d’uomo fosse il protosebasto Alessio, non sappiamo bene. Niceta Acominato e Guglielmo di Tiro lo dicono uomo effeminato, che dedicava al sonno ed all’ozio gran parte del giorno, ma non gli negano una certa abilità, e certo è note- vole il modo con il quale riuscì senza violenze ad impadronirsi delle redini del governo. Donazioni di denaro, concessioni di onori erano certo stati i mezzi per procurarsi l'appoggio di molti funzionari e cortigiani; ma Alessio non avrebbe dovuto dimenticare come fosse, questa, gente vile, di dubbia fede, pronta a seguire chi pro- mettesse loro maggiori favori. Gli avversari del governo trovavano, nelle tristi condizioni economiche della popolazione, acconcio argomento per eccitare gli animi. In quali proporzioni la con- correnza dei latini avesse danneggiato gl’ interessi dei commercianti indigeni, noi non sappiamo. Certo però era scomparsa l’agiatezza dei tempi in cui i bizantini erano od i soli od i principalissimi intermediari del commercio fra l'Oriente e l'Occidente, e di questo naturalmente ogni responsabilità era addossata ai latini, per quanto in realtà le vicende del commercio bizantino fossero sopratutto dipendenti dalle stesse basi giuridiche ed economiche della società greco-romana (1). Dal giorno in cui Alessio I salì al trono, non consta che in Bisanzio sia avve- nuta alcuna ribellione della popolazione, alcun tumulto, quali troviamo così sovente nell’età precedenti, ad esempio, nei secoli X e XI. Eppure le discordie nella famiglia imperiale, quelle di Giovanni II con la sorella Anna ed il fratello Isacco, di Manuele con lo zio, il fratello, il cugino Andronico, il tentativo del Cesare Roggero nel 1143, avrebbero potuto servire come eccellenti pretesti a rivolte. Il popolo non vi aveva preso parte alcuna, ed era stato invece indifferente e tranquillo, quasi che quelle lotte dinastiche, quei contrasti non di idee, ma di persone, non lo riguardassero punto; ora però non poteva rimanere calmo dinanzi a fatti che profondamente lo colpivano. Niceta invece credeva che, se, maggiormente che non in altra città, la plebe della capitale si dimostrò poi amante del chiasso, dei tumulti, questo dipendesse, unica- mente, sia dal mescolarsi di genti delle più diverse razze e nazioni, sia dal grande numero degli operai (2). L’anima popolare, ora, era profondamente colpita ed occorreva soltanto che al popolo venisse chi agitasse la bandiera della libertà, chi interpretasse i suoi pensieri e sentimenti: se questo fosse avvenuto, a tanto uomo allora la popolazione tutta si sarebbe rivolta, in lui riponendo ogni speranza. In verità, sarebbe stata necessaria una vera rigenerazione di quella società, una ricostituzione ex novo dell’organizzazione dello Stato, liberandola dai tronchi secchi di quella morta burocrazia, drizzando alla pura linfa vitale canali e vie facili ed agili. Se questo fosse allora possibile a compiersi, è problema degno di molte rifles- sioni ed esitanze per parte del critico moderno, ma era impresa che assunta da persona di grande energia ed intelletto non avrebbe potuto non dare qualche risul- tato vantaggioso. Ma come poteva sorgere un rigeneratore dell’ impero da quella (1) Vedi Zacmarrae von LincentHAL, Geschichte des ostròmischen Rechts, pag. 300; cfr. alcuni Poèmes vulgaires de Théodore Prodrome, ed. Miller, in © Revue Archéologique ,. 1874, XXVIII, 368, 374. (2) N., 304. 4. 17 PARTITI POLITICI E LOPTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 229 aristocrazia degenere, priva di ogni pensiero nobile e generoso, da quella democrazia esausta ed avvilita? I Romani dei dì nostri, esclamava con aspra rampogna Giovanni Cinnamo, per nulla si affaticano quando si tratti del bene comune e solo ogni travaglio affrontano per emergere nella folla, ma sempre soltanto per il privato interesse ‘(1). Fra le tristezze dell'ora presente, i bizantini rivolgevano il loro pensiero non al Reggente od al giovane basileus, e neppure al protostratore Alessio, il figlio di Manuele e della sua nipote Teodora, persona saggia e buona, ma timida, debole, incapace di imporsi agli amici come ai nemici: essi pensavano ad un altro Comneno, il governatore di Sinope, Andronico (2). Era figlio del sebastocratore Isacco, il fratello di Giovanni II: ad una energia poderosa univa una intelligenza aperta e profonda, abilità grandissima, acquistata durante tutta una vita di lotte e d’avventure. Ma tutte le sue qualità erano come soffocate da un’ambizione sfrenata d’imperare, avuta, come dice Giovanni Cinnamo, in eredità dal padre Isacco, il quale già era stato travagliato da questa brama insa- ziata di dominio, brama con lui nata e cresciuta. Alla morte di Alessio I, Isacco — era allora Cesare — aveva sostenuto vigo- rosamente il fratello Giovanni nello sventare le trame della madre Irene e della sorella Anna, e la riconoscenza dell’imperatore gli accordò, non sappiamo quando, quel titolo di Basileopatore che sta su qualche suo sigillo. Certo però solo alla morte del fratello Andronico ebbe la dignità di Sebastocratore. Ma in quello stesso tempo (verso il 1130) piccola causa produsse gravissimo dissidio fra i due fratelli, sì che Isacco, abban- donando la consorte ed il figlio Andronico, nato forse dieci anni prima, sì rifugiò con il figlio maggiore, Giovanni, all’estero. Poco sappiamo delle sue peregrinazioni ad Iconio e ad altre Corti turche, dove cercò, ma inutilmente, aiuto contro il pos- sente basileus, la fama delle cui gloriose imprese dovunque incuteva terrore. Dopo essersi spinto fino a Gerusalemme, rientrò Isacco, dopo quasi nove anni di vita avven- turosa, in patria: il fratello lo accolse affettuosamente e gli restituì dignità ed onori (1138). Ma la riconciliazione non era sincera, nemmeno per parte di Giovanni II che ben sapeva con quanta gioia il popolo avesse visto il suo favorito Isacco rientrare in Bisanzio (8). E di questo dissidio fra i due fratelli si ebbe presto un nuovo episodio: già due anni dopo il ritorno d’ Isacco il figlio Giovanni, il compagno delle sue peregrina- zioni, veniva in violento urto con lo zio, mentre si era all’assedio di Neocesarea. La causa era stata assai futile: più che altro, un capriccio, un fatuo puntiglio d'onore. Durante una battaglia, vedendo il basileus che non lungi da lui era stato scavalcato (1) G. 259. (2) Sul bastardo di Manuele, vedi N. 558 e segg. (3) N., 42. 20 e sgg.; cfr. ScarumERGER, Op. cit., 641; Kurrz, Unedierte Texte. aus der Zeit des Kaisers Johannes, in BZ., XVI, 1907, 101 e segg.; Parapimarriov, Teodoro Prodromo, 349; Caa- LanDon, Jean II Comnène etc., pag. 18 e 152, dove è rettificata la cronologia proposta dal Kurtz; vedi un probabile accenno ad Isacco Comneno in una poesia di Afral Eddin-Haqaiqui (o Khacani) edita dal Khanikof in £ Journal Asiatique ,, 1865, V, 296. Il Caaranpow, Jean II Comnène ete., pag. 216, pensa invece che il titolo di Basileopatore sia stato conferito ad Isacco solo più tardi dal nipote Manuele. 230 FRANCESCO COGNASSO 18 un cavaliere italiano, pregò il nipote — fornito di egregi cavalli — di cedere al cavaliere franco, il suo bel cavallo. Al rifiuto villano del nipote, Giovanni II rispose con un’'ingiunzione precisa, respingendo la proposta di decidere la cosa a singolar tenzone. Quegli dovette obbedire, ma, accecato d'ira, balzò su altro cavallo e senz'altro passò al campo turco. Nè più ritornò: accolto festosamente dai turchi, non tardò ad abiurare il cristianesimo, ed il nipote dell’Isapostolos — trasformatosi in emiro — sposava poi la figlia di Mesjoud, sultano d’Iconio (1). Si comprende come le relazioni fra Giovanni II ed Isacco, per questo incidente, dovessero peggiorare non poco: negli ultimi tempi del regno di Giovanni, il sebastocratore Isacco, per i suoi incessanti rag- giri, si trovava, pare, confinato ad Eraclea sul Ponto. Alla morte del fratello, poi, soffrì breve prigionia ordinata per precauzione dal nuovo imperatore Manuele, il quale però, appena fu sicuro sul trono, richiamò lo zio novamente ed onoratamente a Corte. Benchè avanzato negli anni oramai, non rinunziò Isacco alle sue aspirazioni ed ai suoi intrighi: sappiamo che alcuni anni dopo, durante una spedizione contro i turchi, un giorno che Manuele si era baldanzosamente avanzato a combattere contro alcuni cavalieri nemici, lo zio Isacco,.vistolo ad un tratto in procinto di essere so- praffatto, invece di portargli soccorso, si affrettò alla tenda imperiale, pronto a farsi proclamare basileus se Manuele avesse avuto la peggio. Per l’ultima volta abbiamo notizia di lui nel 1152, anno nel quale fondava il monastero della “ Theotokos Cosmosotera , a Vera non lungi dalla foce della Ma- ritza, scrivendone egli stesso il Typikon; poscia, di lui si tace del tutto. Al suo posto, nella lizza contro Manuele si fa innanzi il figlio Andronico (2). La figura di Andronico Comneno, che è con Giovanni II e Manuele I la più importante personalità di Bisanzio del secolo XII, mostra molte caratteristiche del padre, ma non tutte le qualità pregevoli. Il sebastocratore Isacco era versato in più parti dello scibile; di lui si conoscono varie opere di diversa natura, e fra i volumi della ricca biblioteca che egli donò al monastero della Cosmosotera, qualcuno conteneva anche sue poesie. Andronico invece, pur avendo anch'egli una coltura larga e degna di un Comneno, era un uomo d’azione, aveva una natura più violenta e più ribelle del padre. Agli studi, alle occupazioni serie, richiedenti una tensione di forze coordinate e costanti, egli preferiva la bella vita, gli spassi con la gioventù aristocratica, egli amava ostentare la maestà della persona, l’eleganza del vestire, l'abilità squisita nel saper ammaliare le nobili gentildonne. Aveva parola facile, dolce, insinuante, era capace di commovere ed anche di commoversi. “ E chi mai vi era “ nato da sì duro macigno, provvisto di cuore così ferreo, da poter rimanere im- “ passibile dinanzi alle lacrime di quell’uomo, alle magiche lusinghe dei discorsi che “ egli versava come fonte di fosca acqua? ,, (3). (1) N., 48. 4; 72. 8; vedi in ScHLUMBERGER, op. cit., 642, un sigillo forse di Giovanni figlio del Sebastocratore. (2) Sulle ultime avventure di Isacco, vedi C., 32. 9; 53. 17; 70. 18; per il typikon della Cosmo- sotera, vedi l’ed. di Th. Uspenskij nel “ Ljetopis istorik. philolog. obScesta pri imperat. novorossijsk. Univ., Viz. Otdjel ,, II, 1906; sul Sebastocratore Isacco, oltre al citato articolo del Kurrz (Unedierte Texte, etc.) vedi lo studio dell’Uspenskij nell’ “ Isviestja , dell'Istituto archeologico russo di Costan- tinopoli, 1907, pag. 1 e segg. (3) GC, 250; Ni, 135. 3; 317. 7. 19 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. z DO (a) gt Andronico e Manuele erano cugini e forse quasi coetanei, ma gravi contrasti non tardarono a dividere ed a rizzare l’un contro l’altro i due principi, che pure erano stati probabilmente nella fanciullezza compagni di giochi. Andronico trovava infatti, nel dissidio fra il padre e lo zio, argomento sufficiente per avversare il cu- gino, ed alla morte del padre si atteggiò tosto a rappresentante delle pretese del ramo cadetto dei Comneni. All’antagonismo politico, si aggiungeva un malanimo per- sonale. Manuele invidiava al cugino la sua forza, l'ingegno, l’eloquenza, tutte le qualità che lo facevano emergere fra i congiunti e cortigiani. Alla corte di Bisanzio i nobili torneavano e giostravano come baroni francesi, e Manuele ambiva primeg- giare: occorreva quindi non gareggiare con lui, ma adularlo, acclamarlo come face- vano i cortigiani. Andronico invece, era franco di parola, audace e sprezzante, amante di libertà ed indipendenza. Egli bramava dominare, riputava turpe l’obbedire. In guerra era valoroso: univa coraggio a fierezza. È vero che si raccontava dai maligni come durante una spedizione contro Iconio, dopo essere, un giorno, partito tutto solo, fiero e pettoruto, spirante ardore dallo sguardo e da tutta la persona, per compiere chi sa quali mirabolanti imprese, invidioso delle gesta del basileus, se ne era poi ritornato al campo, contento di condurre in trionfo i cavalli dei nemici che Manuele aveva dianzi abbattuto. La sua audacia però ben la dimostrò un giorno a Pelagonia, quando disdegnando avvolgersi in vesti femminili come gli consigliava la sua cugina ed amica Eudossia, che l’aveva avuto nella notte ospite gradito, si aprì la via auda- cemente, con la spada in pugno, fra i fratelli e famigliari della sua amante, i quali, irritati contro di lui per l’affronto fatto alla famiglia, erano venuti armati ad atten- derlo alla sua uscita dall’amoroso colloquio. “ Per l’amore di una donna come la mia Eudossia — egli diceva — nessun pericolo mi è grave , (1). Vi era in lui una insofferenza di freni, che, a parte ogni altra considerazione, doveva attirare la diffidenza ed i sospetti di Manuele, quando questi, salito al trono per volontà paterna, ma contro i diritti del fratello maggiore, era portato a scor- gere dovunque nemici e tradimenti. E Manuele non aveva fatto nulla per conciliarsi il cugino; già agli stessi inizi del regno, quando il basileus con tutta la Corte ritornava dalla Cilicia a Bisanzio, essendo caduto un giorno Andronico con Teodoro Dasiota prigioniero dei Turchi, Manuele non si fermò a tentarne con armi o con denaro la liberazione, ed Andronico dovette rimanere in prigione per non breve tempo. E la noncuranza continuò anche dopo: non pare che Andronico ottenesse mai alcuna dignità di corte, ed egli si doleva di questo e più della preferenza che il basileus mostrava per i nipoti Giovanni ed Alessio che furono sempre suoi nemici tenaci. Così grandemente fu addolorato Andronico quando Manuele diede al nipote Giovanni le dignità di Protosebasto e Protovestiario (2). (1) C., 62 e segg.; N., 137. (2) C., 132; N., 68. 2. Forse però è da riferire al nostro Andronico il sigillo pubblicato da At. Sortin-Dorieny in Sceaur et Bulles des Comnènes, in “ Revue Archéologique ,, 1877, I, pag. 83: “ Mino deod Zefaotòv “Avdoévizov Kouvnvév ozéro1s ,; è noto come il titolo di sebasto fosse comune fra tutti i cortigiani imperiali nel sec XII. Codino però (op. cit., 160) dice il nostro Andro- nico Protosebasto e Protovestiario, ma certo per confusione con il Protosebasto Alessio, nipote di Manuele. Do Do FRANCESCO COGNASSO 20 Quando Manuele diede ad Andronico qualche ufficio, lo inviò con comandi mi- litari nelle provincie più lontane, ai confini. Inviato in Cilicia con un esercito, do- veva cercare di riacquistare Mopsuestia e respingere gli Armeni. Dice Cinnamo che Andronico avrebbe certamente compiuto qualche cosa di nobile, riuscendo nell’im- presa, se non si fosse dato totalmente ai divertimenti, trascurando i nemici, che ben seppero giovarsene. Una impresa dove non vi fosse da combattere con ardore, con irruenza, ma da insistere con pazienza e costanza, non era fatta per lui. La spedizione, pare, falli: dopo un viaggio ad Antiochia, a proposito del quale corse voce che Andronico avesse stretto rapporti segreti con il sultano d’Iconio ed il re di Gerusalemme, ritornò a Bisanzio, accolto dal basileus, contro la comune aspet- tazione, con benevolenza; ma si diceva che Manuele non avesse tralasciato di muo- vergli, privatamente, grave rimprovero per la sua condotta, pur continuando in pubblico ad onorario, nel timore di irritare troppo quel così irrequieto cugino (1). Qualche anno dopo, Andronico fu inviato al confine danubiano, come duca di Nis, Branitevo e Castoria. Mosso dalla sua ambizione, dall’odio contro Manuele, come prima aveva intrigato con i principi d'Asia, ora ricorse al re d'Ungheria, cui, in cambio dell’aiuto contro Manuele, avrebbe promesso di cedere le due piazze tanto agognate di Nis e Branicevo. Per poter agire con maggior libertà, avvertì il basileus di certe sue trattative con alcuni magnati ungheresi per indurli a dichiararsi per l'impero. Manuele, pur sospettando e facendo sorvegliare il cugino, gli consigliò di continuare tranquillamente le sue trattative. Stretti gli accordi con il re d’ Un- gheria e pare anche con Federico Barbarossa, sicuro del fatto suo, Andronico partì per annunziare al basileus il buon esito della negoziazione: per verità, della per- manenza di Manuele a Pelagonia, nel cuore della Macedonia, lungi dalla capitale, egli voleva approfittare per un colpo di mano contro il cugino e sostituirsi a lui sul trono. E per ben due volte egli tentò di colpire Manuele. Sperò dapprima di poterlo sorprendere di notte nella sua tenda, durante una spedizione di caccia sulle montagne circostanti. Andronico, presi con sè alcuni dei suoi fedelissimi Isauri, si avviò segretamente dove Manuele aveva messo il suo attendamento. Appostò i se- guaci nelle vicinanze, ed egli stesso — voleva in persona godere della vendetta — si accostò nella notte alla tenda di Manuele, con il pugnale pronto nella mano. Ma la sorveglianza di cortigiani ed ufficiali attorno alla tenda imperiale gli impedì di avvicinarsi troppo; fu gridato all’armi e prima che fosse riconosciuto, avvolto nel suo ampio mantello all’ italica, dovette ritirarsi in tutta fretta con i suoi fedeli Isauri. Benchè si sospettasse di lui, Andronico ritentò la prova: ora pensò di assa- lire durante la caccia il cugino e fingere che esso fosse caduto sotto le zanne di qualche cinghiale. Le precauzioni prese dalla basilissa Irene, la quale, avvertita della partenza di Andronico dal protostratore Alessio Asuch, si affrettò ad inviare trecento uomini sul luogo della caccia, salvarono ancora una volta Manuele: ma questi fu stanco ora di tanta audacia: Andronico fu arrestato, condotto a Costan- tinopoli e rinchiuso nelle carceri Palatine (2). (1) C., 121. 24; 123. 14; 124. 6. (2) C., 124. 20; 126 e segg.; N., 133. 9; 136. 38. 21 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 239 409 X1 In quel carcere dei Numera, che Michele Glykas doveva poco dopo definire come peggiore dell’Ade (1), non pare che ad Andronico, benchè appartenesse alla famiglia imperiale, si usassero troppi riguardi. Egli, quando vide che il cugino Ma- nuele non scherzava, occupò le lunghe ore della sua solitudine nel cercare il modo di evadere. Tre anni e più passarono prima che riuscisse a combinare alcunchè. Verso il 1158, scoperta l’esistenza di un sotterraneo abbandonato, attiguo alla sua cella, riesce dopo lungo e paziente lavoro a forare la parete, ma invano si aggira nel sotterraneo per trovare una via d’uscita. Quando, stanco, rientra nella cella, vi trova la propria consorte, che, appena fra la sorpresa generale si era constatata la scom- parsa del prigioniero, era stata, come presunta complice, arrestata e gettata in quello stesso carcere. La povera donna fu davvero spaventata dell’improvviso ricom- parire del marito; e così trascorre qualche tempo: di notte Andronico tiene com- pagnia alla consorte, di giorno si nasconde nell’ignorato sotterraneo; ma poichè ora la sorveglianza — per una sola donna! — è rilassata, egli riesce finalmente a fug- gire. Con l’aiuto di qualche fido, può attraversare il Bosforo, si addentra in Bitinia fin nella valle del Sangario; ma poi da alcuni contadini è riconosciuto — chi non conosceva la gigantesca figura del figlio di Isacco? —, denunciato e ricondotto in nuovo e più forte carcere. La consorte liberata, doveva a suo tempo dare alla luce un figlio, Giovanni, generato durante una avventura così curiosa. Andronico aveva già due altri figli, Manuele e Maria. © Ora finalmente la basilissa Irene è tranquilla, tutta la Corte respira, e Manuele, dalla Cilicia, dove allora si trovava, spedisce il Logoteta Camatero ad assicurarsi della robustezza delle catene di Andronico. Questi.tace ed aspetta un'occasione più propizia. Passano gli anni: muore la basilissa Irene, un’altra imperatrice sale sul trono, avvengono guerre, principi stranieri vengono a Corte, ed il basileus non si piega ad indulgenza. Verso il 1164, finalmente, Andronico ottiene, per una improv- visa malattia, l'assistenza di un servo fedele di casa sua, e tosto si combina la fuga. Si prendono con cera le impronte delle chiavi, e poco dopo Andronico riceve dal figlio Manuele delle chiavi false. Le catene sono spezzate: la notte dà mezzo di uscire inosservato, ed Andronico si trova libero nei giardini incolti che da quella parte giungevano fino alle mura. Sta tre giorni nascosto fra i folti cespugli, ora spe- rando, ora disperando di sottrarsi alle insistenti ricerche che si fanno in tutta la capitale. Poi riesce a scavalcare il muro di cinta: sotto vi è il mare, vi è la barca salvatrice del suo fedele Crisocopulo. Ma ecco avanzarsi in barca soldati dal vicino palazzo del Bucoleon. Andronico non si perde d’animo: si finge uno schiavo fuggi- tivo, dice una fonte storica, un prigioniero per debiti, oppone un’altra: il padrone — Crisocopulo — chiede l’aiuto dei soldati per riprendere lo schiavo, e questi è dai soldati stessi respinto nella barca. Ma la casa sua, il noto Palazzo del Sebastocratore, presso il porto di Vlanga, non è rifugio sicuro; occorre che l’alba trovi Andronico lungi da Bisanzio. E dopo breve ristoro, incomincia una furiosa cavalcata attraverso alla pianura tracia. Ad Anchialo, lo stesso governatore Pupace dà al fuggitivo vettovaglie e guide per rag- (1) Cfr. Lecranp, Bibliothèque grecque vulgaire, I, 21, vv. 86 e sgg. e 169 e segg. serie IL Tos. LXII. 30 234 FRANCESCO COGNASSO 22 giungere il Danubio. Ma alcuni Valacchi lo riconoscono, ed egli ricade nelle mani dei messi inviati sulle sue traccie. Incomincia il triste viaggio di ritorno, triste per certo, dopo aver visto così da vicino la libertà tanto sospirata. Le risorse di An- dronico, però, non sono esaurite. Frequenti disturbi gastrici lo obbligano a fermarsi e ad appartarsi: la finzione è così abile, ogni volta egli riprende la sua via così docilmente, che i custodi sono tranquilli e non hanno diffidenza di sorta. Ma un giorno una sua fermata è più lunga, e quando le guardie si decidono a ricercare il principe, Andronico è già molto lontano, attraverso a boschi, prati, colline e torrenti, con tutta l’energia che gli dava il timore di ricadere fra le mani dei suoi sorveglianti che erano rimasti a sorvegliare soltanto il suo mantello che si muoveva al vento sul cespuglio cui astutamente era stato appeso. Manuele, furente, sfogò la sua collera sul povero Pupace, che fu destituito, frustato ed esposto alla berlina, come colpevole di aver soccorso un nemico del- l’impero. Andronico riusciva frattanto ad attraversare il Danubio; ad Haliteh, alla Corte del principe Iaroslaw trovò ottima accoglienza, sì che presto divenne l’amico intimo, il compagno inseparabile di quel principe. Due anni dopo, però, Manuele lo richiamò in patria, non tanto perchè gli avesse perdonato, quanto per timore dei nuovi intrighi che Andronico — si diceva — stava tessendo in Russia, e pericolosi, ora, mentre ferveva la guerra contro l'Ungheria (1). Invitato a prestare giuramento di fedeltà alla porfirogenita Maria ed al despota Alessio, proclamati eredi dell'impero, egli rifiutò, affermando essere quel giuramento inutile poichè a Manuele era ancora speranza di un erede maschio, e protestando che in ogni caso la successione non poteva toccare ad un principe barbaro. Così, fin d'allora egli si atteggiava a difensore del sentimento nazionale gravemente offeso dal basilens, e già d'allora le sue idee trovavano. presso non pochi, approva- zione, o tacita od aperta (2). 4 Poco dopo il suo ritorno, ebbe dal basileus nuovamente il governo della Cilicia e di Cipro: nuovamente doveva far guerra agli Armeni. Ma ben presto si siancò delle fatiche di quella vita fra armi e pericoli: con il tesoro di guerra si recò ad Antiochia, e tosto la lieta vita di quella Corte e l’amore per la bella Filippa, la sorella maggiore della basilissa Maria, ancora nubile, gli fecero del tutto dimenticare la guerra. Filippa. che già aveva trascorso il quinto lustro, non rimase insensibile alle dimostrazioni d’affetto del bel cavaliere. che pur contava ben circa quarantacinque anni, ed aveva moglie e tre figli. e ne divenne l'amante, sperando di esserne presto la sposa (3). Il basileus Manuele, sì tosto fu avvisato della nuova avventura del cugino, si affrettò ad inviare in Cilicia il sebasto Costantino Calamano, non solo, ma trattò con il principe d'Antiochia perchè Filippa sposasse questo stesso funzionario. (1) Per i tentativi di fuga di Andronico, le fonti sono: C., 232. 3. 22; N. 72. 22; 136. 168; per Andronico in Russia, vedi Kar-Hzrr, op. cit., 144, e Karawsrs, Histoire de l'’Empire de Russie, ed. francese di St.-Thomas, II, pag. 382; Caaraxvox, Jean JI Comnène eic., pag. 408. (2) N., 179. 14. (3) C., 250; N. 180 e segg.; WT., XX, n, 943; XXI, xi, 1026. Sulle imprese di Andronico in Cilicia, vedi Caaraxpox, op. cit., pag. 426 e segg. DO DI PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 29 Quando il sebasto Calamano venne ad Antiochia, alla proposta di nozze, Filippa rispose che per quel plebeo, per quell'uomo piccolo e brutto, essa non avrebbe mai abbandonato il suo mirabile Andronico. Purtroppo essa non conosceva la volubilità dell'amante, il quale non molto dopo, sazio di lei e di quella vita sedentaria, avido di nuove avventure, improvvisamente l’abbandonava recandosi con il figlio, decenne, Giovanni, che aveva condotto seco, in Palestina. Correva l’anno 1167; il re Amaury era allora assente, per la sua spedizione in Egitto, ed Andronico rimase ad aspettarlo a Tiro, dove conobbe — forse — Gu- glielmo, l’arcidiacono, futuro arcivescovo di quella città. Viveva solitaria ad Acri la regina Teodora, la vedova di Baldovino III. Questa nipote di Manuele — figlia del sebastocratore Isacco — era andata sposa al re di Gerusalemme nel 1158, a tredici anni; vedova dal 1162, se ne viveva ora in Acri, assegnatale come dovario dal consorte. La giovane vedovella “ formae venustate singulariter conspicua , destò l’ardore dell’intraprendente cugino, e presto giunse a Bisanzio fama dei loro amori. Era uno scandalo grave: inoltre ora con gli altri nemici di Andronico, presso il basileus agiva contro quell’avventuriero, quel seduttore, la stessa basilissa, sdegnata per l’affronto fatto alla sorella (1). Manuele non tardò a scrivere al re di Gerusa- lemme ed agli altri principi latini, chiedendo che Andronico fosse arrestato e senza altro abbacinato. Ritornato Amaury dall'Egitto, presso di lui non solo Andronico aveva trovato ottima accoglienza, ma aveva ottenuto dal re in feudo la città di Berito. Del grave pericolo che minacciava il suo amico, non tardò Teodora ad essere consapevole: essa od ora o poco prima si era portata, con il pretesto di visitare la nuova resi- denza del cugino, ad abitare secolui a Berito, e quando seppe dell'ordine di Manuele, senza indugio, Andronico, con il figlio Giovanni e la regale amante, si rifugiò in terra turca. Grave fu il dispetto di Manuele nel vedersi sfuggire la preda ancora una volta; solo forse fu più grave il dolore di quei commercianti Pisani che ad Andronico -- a corto di denaro quando da Antiochia erasi portato a Gerusalemme — avevano dato in imprestito una cospicua somma di denaro; egli si era dimenticato di pagare il debito; più tardi, durante gli anni del suo governo, i creditori non osarono certo andar a chiedere il loro denaro e si accontentarono di reclamare poi, ma con poco frutto, presso Isacco II Angelo (2). I turchi dovevano conservare ricordo del padre suo e, più ancora, del fratello Giovanni, ed Andronico trovò quindi presso di essi accoglienza cortese e grandi onori; stette qualche tempo a Damasco, ospite di Nour-ed-Din, poi fu ad Harran, dove la bella Teodora, che aveva abbandonato per suo amore lo sfarzo di una vita principesca per i disagi di tante peregrinazioni, dava alla luce un figlio, Alessio; da Harran si spinse Andronico a Mardin, poi fino nella lontana Georgia, ma respinto- da quel principe, fedele alleato di Manuele, ritornò a Kharin, in Armenia, e quivi (1) C., 250; N., 183 e segg.; WT., XVII, xxm, 857; XX, n, 943; XXI, xo, 1026. (2) Miîccee, Documenti per le relazioni delle città toscane con l'Oriente, 1873, pag. 41. 236 FRANCESCO COGNASSO 24 si fermò a lungo con la famiglia, accresciutasi frattanto di un’altra figlia, Irene (1). Andronico trovò l'amicizia e la protezione dell’emiro turco di Erzeroum, Saltouch, che gli diede un castello, di dove egli intraprese delle frequenti scorrerie verso i territori bizantini di Trebisonda, cercando di fare gran numero di prigionieri cri- stiani che poi rivendeva sui mercati dell’interno (2). Secondo Cinnamo, la chiesa di Costantinopoli, per queste sue malvagità lo avrebbe scomunicato, e forse egli era passato all’islamismo (3). Soltanto nel luglio del 1180, tre mesi prima della morte di Manuele, ritornò Andronico a Costantinopoli. Probabilmente, il basileus, amma- lato, già dubbioso per l'avvenire della dinastia, si impensieriva del contegno che alla sua morte avrebbe potuto tenere il cugino, e desiderò impadronirsi di lui. Ma ogni tentativo fallì: solo riuscì a Niceforo Paleologo, governatore di Trebisonda, di avere nelle sue mani la donna ed i figli di Andronico, che si affrettò ad inviare alla capitale. E per amore della sua Teodora, per amore dei figli, Andronico, ras- segnato, decise di sottomettersi. Ritornò a Costantinopoli: venuto a Palazzo, intro- dotto alla presenza di Manuele. gli sì gittò ai piedi, si umiliò a terra. Al collo si era messo una grossa catena e volle per essa essere trascinato da un cortigiano, in segno di umiliazione. Il basileus, commosso da questa scena, alla presenza di tutta la Corte, scese, piangendo, dal trono, abbracciò il cugino e lo sollevò da terra. Andronico giurò fedeltà a Manuele e ad Alessio II. solennemente si impegnò a pro- teggere il giovane principe contro qualsiasi nemico, ed il basileus, per avvincerlo maggiormente, morendo volle che anch'egli facesse parte della reggenza (4). Andronico era rientrato senza secondi fini, stanco — a poco meno di 60 anni — di quella vita agitata, cercando pace e riposo: però sì lui che Manuele sentivano che, dopo tutto, l’inconciliabilità dei loro caratteri era un fatto persistente, e che dalla convivenza sarebbe nata nuovamente la discordia; quindi ben volentieri l'uno fece e l’altro accettò l’offerta del governo del Ponto, a Sinope sul Mar Nero, e colà Andronico si trovava allorchè Alessio II saliva sul trono paterno (5). (1) Per il figlio di Andronico, Alessio, vedi Brosset, Histoire de là Géorgie, St.-Pétersbourg, II, 412. È da notare che quest’ultima fonte è favorevole ad Andronico di cui loda il contegno in guerra; Giorgio III avrebbe fatto grandi doni al principe esule (Brosser, op. cit., II, 396). (2) Su Saltouch, vedi Cnaranpon, Jean II Comnène etc., pag. 221. (3) C., 250. 6; N., 184. 15; Annales Colonienses Maximi, MG., SS., XVII, 790; Continuatio Zivetlensis, altera, ib., IX, 542; Continuatio Aquicinctina, ib., VI, 423. (4) È probabile che Niceta Acominato abbia avuto visione del documento di giuramento di Andronico: a pag. 297. 23, riferisce infatti evidentemente dal testo originale. Ì (5) N., 295.12; 297. 15; E., 391. 12; WT., XXII,xr, 1081. Il Caaranpon in Jean II Comnène ete., loc. cit. afferma, che Andronico si ritirasse a vita privata nei suoi possedimenti d’Asia: Guglielmo di Tiro è però esplicito: “ missus est in Pontum sub honoris praetextu praesidialis ,, ed ancora: “ evo- catus est ex Ponto cui preerat , (WT., XXII, x1, 1081). Niceta Acominato ed Eustazio di Tessalo- nica danno ad Andronico Comneno come residenza ora Sinope, ora Oinaion (Unieh); aveva cioè la © Provincia Oenei et Sinopii et Pabrei , come è detto nell’atto della divisione dell'Impero del 1204 (vedi Tafel u. Thomas, op. cit., pag. 476) il resto dell’antico Tema Armeniacon, quale si aveva nel sec. XI, dopo la formazione del Tema di Caldea con capitale Trebisonda, e dei Temi di Coloneia e del Carsiano. Do (Ai PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 297 II. La caduta della Reggenza. Contrasti di persone e conflitti di tendenze politiche, disagio economico e mal- contento popolare, disegni ambiziosi di governanti e debolezza inspiegabile nell’effet- tuarli, antagonismi religiosi, etnici e commerciali fra latini ed indigeni, concorsero a creare un ambiente tale, tale stato d'animo in Costantinopoli da suscitare i più gravi dubbi sull’avvenire più prossimo. La prima scintilla del vasto incendio doveva naturalmente partire di colà dove più violento era l’urto. Fra la basilissa, mal difesa dal suo sacro abito contro le più gravi accuse, e la Porfirogenita che non ancora aveva appreso ad essere suddita e non signora, fra la matrigna altera e la figliastra disdegnosa, il dissidio era troppo aspro perchè non finisse con il prorompere in lotta aperta. Di questo antagonismo potevano essere espressione per qualche tempo, forme piccine e basse di offese perso- nali, di ripicchi, di pettegolezzi d’anticamera e d’alcova, ma in presenza di tanti contrasti d’idee esso doveva inevitabilmente venir immedesimandosi con queste lotte politiche e determinarne lo scoppio terribile. Pochi mesi erano passati dalla morte di Manuele e già sotto la protezione e per istigazione di Maria Comnena che mal vedeva la preponderante influenza del cugino e ne temeva gli ambiziosi disegni, — il marito, il Cesare Giovanni era a lei devoto — gli avidi di cose nuove tramavano contro il governo e preparavano un colpo di Stato. Nella figlia di Manuele pareva essersi rincarnato il maschio spirito della sua ava, la porfirogenita Anna (1). Nessuna eco aveva negli animi il ricordo del defunto impera- tore, e gli ultimi accordi per la cospirazione dovettero seguire di brevi giorni la com- memorazione che di Manuele veniva fatta il 20 gennaio 1181, alla presenza, certo, di tutta la Corte (2). Il 7 febbraio successivo fu il giorno stabilito dai congiurati per la caduta e la morte del protovestiario Alessio, e per quanto affermassero con giuramento di essersi uniti solo in difesa dell’imperatore contro le insidie del Protosebasto, non oserei negare che quello non dovesse anche essere l’ultimo giorno, se non della vita, almeno del regno di Alessio II (3). Della congiura pare fossero partecipi una dozzina circa di illustri personaggi della Corte, tutta gente quant’altri mai ambiziosa (4). Vi era fra d’essi, il protostratore Alessio, il bastardo di Manuele, i due figli di Andronico Comneno, Manuele e Giovanni, la sua stessa figlia Maria, poi Andronico il Lombardo, originario italiano forse, sposo di una nipote di Manuele, Teodora, inoltre Giovanni (1) Un’allusione notevole al carattere della Porfirogenita si ha nel Chronicon di Robert du Mont, ed. cit., pag. 528: essa avrebbe detto * se numquam alicui nupturam, nisi esset rex ,. (2) Cfr. Miccer, Catalogue des manuscrits grecs de VEscurial, pag. 200. Il discorso fu pronunciato 120 giorni dopo la morte di Manuele. (8) Le fonti per la congiura del 7 febbraio sono N., 301; E., 381. 13; WT., XXII, v, 1070; Bar-Hesrarvs, 388; Warrax, 435; cfr. per la data, De Murat, op. cit., I, 212. (4) E., 382. 5. 238 FRANCESCO COGNASSO 26 Duca Camatero, Eparco di Bisanzio, personaggio autorevolissimo (1). La porfiro- genita Maria con il consorte Raineri di Monferrato era l’iniziatrice od almeno quella che ne era moralmente responsabile. Sicari prezzolati dovevano assalire il corteo imperiale, mentre nel dì di San Teo- doro, sarebbe ritornato — fra la folla dei cittadini — dalla tradizionale visita al Tempio dedicato a quel Santo, che sorgeva nella località detta al Bathyn Ryaka, meta, in quel giorno, ai pellegrinaggi popolari (2). Ma il colpo, non sappiamo perchè, fallì completamente. Solo più tardi. verso il principio del marzo, si scoperse la congiura, ed avvenne ora rapidamente l’arresto dei complici: i figli di Andronico, Giovanni Duca, Andronico Lombardo, lo stesso bastardo di Manuele, furono in breve assicurati alla vendetta di Alessio Comneno ; ma ben presto il Reggente e la basilissa Maria si accorsero che i fili della cospira- zione partivano dallo stesso palazzo imperiale (3). Dubitandosi però delle disposizioni della popolazione, e non osandosi per una certa riverenza toccare i Cesari, pare si: risolvesse di ignorare la loro partecipazione alla congiura e la loro responsabilità. Del processo contro gli arrestati fu incaricato il tribunale imperiale, del quale era presi- dente il giudice Teodoro Pantecne, uomo assai esperto. avanti negli anni, di famiglia devotissima ai Comneni; egli aveva già servito Manuele per più di 30 anni, riportan- done onori, dignità e fama di uomo abilissimo (4). Agli interrogatori degli accusati di lesa maestà assistevano così la basilissa come il giovane Alessio II, il che mostra come al processo si fosse voluto dare una impor- tanza ed una solennità non comune. Mentre Andronico Lombardo riusciva a fuggire ed a ricoverarsi all’estero, gli altri, senza quasi che fosse loro dato di difendersi, vennero condannati; gli uni abbacinati, gli altri giustiziati; i due figli di Andronico, il protostratore Alessio, Giovanni Duca, dopo aver subìto l’onta della frusta, furono. condannati al carcere. Altri che erano meno direttamente implicati nella congiura o si ritirarono nelle provincie, nelle proprie possessioni, o lasciarono l’impero. Teodoro Pantecne, forse per ricompensa della sua devozione, fu nominato Eparco invece di Giovanni Duca. Superata la crisi, non scomparve affatto il pericolo, come forse credevano i governanti. Alle maggiori prepotenze da parte dei trionfatori del momento, corri- spose un accresciuto malcontento degli avversari; ed a Palazzo la posizione non (1) Giovanni Camatero Duca era figlio del Grande Drungario, Andronico Camatero, discendente da Gregorio, che, sotto Alessio I. aveva sposato una parente dell'imperatrice Irene, trasmettendone il cognome Duca a tutti i discendenti. Da segnalarsi è la confusione con Giovanni Duca Angelo, fatta dal Rrezt, op. cit., pag. VIILIX, e pag. 16. È probabile che Giovanni Camatero sia preci- samente quel “ frater logotethe, qui canaclivi utebatur officio , di cui parla WT. loc. cit. (2) Sul tempio di S. Teodoro al Bathyn Ryaka, presso Costantinopoli. vedi Anna Comnena (Alerias), I, 393 e le note del Ducange a questo passo. Il Dersnave (Le Synazaîre de Sirmond, in © Analecta Bollandiana ,, XIV, pag. 416 e segg.) lo confonde, seguendo l’ Evaxcermes (20770, XI, 1889, 276), con il monastero del Salvatore al Bathyn Ryaka d’Asia Minore. (3) La data della scoperta della congiura * Kalendis martiis , è in WT., XXII, v, 1066. (4) Teodoro Pantecne che è detto da Eustazio (382.19) dixcioddizs ai fai 1Ov olzevazov (cfr. N. 306. 6) apparteneva certamente alla famiglia di Michele Pantecne, il medico fidato di Alessio I. Compare per la prima volta nel 1148 (cfr. “ Revue de l’Orient Chrétien ,, IV, 1909, 203). Vedi per la sua carriera, PG., CXL, 152; “ Annuario dell’Università d’Odessa ,, Sez. Byz., IL pag. 45; Mar, Vet. Script. Nova Collectio, IV; Perrr, op. cit., in Viz. Vr., IX, 479; Tzerzes, Epistulae, ed. Pressel, pag. 90; MicaeLe Acowmaro, Tà Zof6ueva, ediz. Lambros, Atene, 1879, II, 416. 16; E., 382. 21. 2 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 239 tardò a farsi insostenibile per la principessa Maria. Eustazio di Tessalonica ci dice che i giudici erano adirati contro i Cesari, ma che nascondevano dentro di sè la collera, sì che lo stesso patriarca Teodosio credette che essi fossero loro favorevoli e cercò di mantenerli in questa disposizione d’animo (1). Non sì osò attaccarli di fronte, ma incominciò una lotta sorda tale che non molto tempo dopo, una notte del marzo, la Porfirogenita ed il Cesare in preda ai più vivi timori sì rifugiarono improvvisamente in Santa Sofia, mettendosi sotto la prote- zione del patriarca contro i persecutori. Il patriarca Teodosio, che, uso alla vita pacifica del suo monastero di Boradion, non aveva saputo opporsi in alcun modo allo spadroneggiare del Protosebasto, ora, irritato così contro di questo, come contro la basilissa, forse perchè aveva infranto i suoi voti, senza esitazione accolse al proprio palazzo i principi fuggitivi, e diede loro conforto ed appoggio (2). Sotto la sua protezione, la Porfirogenita, ricuperata la calma, potè pensare fred- damente ai casi suoi. Mentre essa aveva sicuro l'appoggio potente dell'elemento ecele- siastico, la grande popolarità che godeva nella popolazione si venne ora accrescendo, così per la commiserazione naturale per i suoi casi, come per le elargizioni abbon- danti di denaro che i suoi agenti andarono facendo. Benchè l’infelice esito della congiura avesse significato per lei la perdita di molti importanti partigiani coinvolti nel processo, pure per la mancanza di abili provve- dimenti del governo che ne mostrassero la ferma volontà di eliminare le cause del malcontento generale, vi era ancora speranza di rovesciare la potenza di Alessio Comneno e di impadronirsi del governo, se la principessa Maria, anzichè farsi sga- bello del popolo per le proprie ambizioni, si fosse audacemente messa alla sua testa, sfruttando il malcontento contro i governanti e contro i latini, se essa avesse saputo e potuto assumere quell’atteggiamento che doveva dare poi ad Andronico la porpora imperiale. Ma forse essa non ebbe chiara coscienza dei bisogni dell’ora, ed inoltre essa non poteva agire in questo senso, avendo per sposo un latino. Il patriarca Teodosio, dopo avere accolto in un impeto di generosità i fuggiaschi, ben presto si avvide della difficile posizione in cui si era venuto a porre. Si giunse alla vigilia, di Pasqua (era il 14 aprile), nella qual solennità, secondo le tradizioni della Chiesa e della Corte bizantina, il patriarca doveva recarsi con il clero a Palazzo per la cerimonia del bacio di pace. Ma come avrebbe egli potuto recarsi l’indomani ad ossequiare la basilissa ed il Protovestiario, dopo essersi dichiarato così aperta- «mente loro avversario? E del resto era egli sicuro che il governo non prendesse rapida rivincita dell’affronto recatogli con l’offrir ospizio ai Cesari, e non lo facesse arrestare qualora fosse uscito di Santa Sofia? Annunciò quindi al basileus che rin- viava ad altro giorno la cerimonia, e se ne rimase rinchiuso nel Patriarcheion. Così la Pasqua del 1181 fu celebrata a Corte ed in tutta la città con un penoso senso di tristezza e di inquietudine (3). (1) N., 302; E., 382 e segg.; WT., XXII, v, 1067; Bar-Hegrarus, 388. (2) N., 302; E., 384; sul monastero del Boradion, vedi Parcorre, in BZ., XII, 449 e segg. (3) E., 385. 15; sulla cerimonia del bacio di pace, che usava svolgersi nel Triclinio dei Dician- nove Letti, cfr. Cosrantino PorriroceNnITO, De cerimoniis, 22. 26; vedi sull’ argomento, EsersoLt, Le Grand Palais de Constantinople, Paris, 1910, pag. 58 e segg. 240 FRANCESCO COGNASSO 28 Quando un mattino era stato annunziato ad Alessio Comneno ed a Maria d’An- tiochia che nella notte i Cesari avevano abbandonato il Palazzo imperiale, traspor- tandosi con i loro fedeli al Patriarcheion, essi furono spaventati da questo atto che precipitava le cose più che essi non avessero voluto. Ad impedire che le cose si aggravassero a loro svantaggio, conveniva cercare di ricondurre in qualche modo la pace e calmare la furibonda principessa. Non sappiamo se subito dopo la fuga o se solo dopo qualche tempo, ambasciatori si recarono presso i Cesari recando loro a_ nome del basileus Alessio e della imperatrice una parola di pace, l'assicurazione del loro amore, la promessa di dimenticare tutte le discordie passate. Ma era troppo tardi: essi non potevano rientrare, ora che avevano spezzato il giogo, per risottomet- tersi a quelle condizioni umilianti che avevano fuggito; forse quella mitezza nascon- deva qualche tranello, e l'ambasciata produsse un effetto contrario al desiderato. Maria Comnena rispose sdegnosamente che pace non poteva essere se non a questi patti: amnistia ai congiurati incarcerati, rinnovamento del processo per lesa maestà, espulsione da Palazzo di Alessio Comneno, la cui presenza, secondo essa diceva, era un continuo pericolo per il giovane basileus (1). A nulla giovando gli inviti pacifici, si ricorse alle minaccie, e poichè il patriarca - si rifiutò di cacciare i Cesari, si inviò loro da Palazzo un decreto firmato da Alessio II, che ingiungeva di ritornare al Palazzo imperiale al più presto, minacciandoli, qualora persistessero nella ribellione. di costringerli ad uscire da Santa Sofia a mano armata. Così in vane trattative ed in minaccie trascorse il marzo e l’aprile. Alle minaccie del Reggente, irritato in modo speciale per l'espulsione dal Palazzo, chiesta dalla Principessa, egli che non poteva star lontano dalle stanze di Maria d’Antiochia, = come il polipo dalla roccia ,, i Cesari risposero mettendosi sulle difese: furono raccolti i servi, i partigiani, e forniti di armi furono messi a custodire le entrate del Tempio e del Patriarcheion, benchè Teodosio vedesse assai di malavoglia questi preparativi bellici nella casa di Dio, e di sovente inquietandosi con i suoi princi- peschi ospiti, esortasse la Porfirogenita a badar bene a quanto stava per fare (2). Intanto agenti di fiducia di Maria Comnena andavano per i vari quartieri della città, assoldando avventurieri e mercanti, non solo indigeni, ma anche Latini e Georgiani che erano in Bisanzio numerosissimi, dediti anch'essi ai commerci. SATA Costantinopoli continuava ad essere alla fine del secolo XII il punito centrale, dove affiuivano da ogni parte pellegrini e guerrieri, commercianti ed avventurieri, d'ogni razza e nazione. Slavi e Turchi, Comani ed Arabi, Latini ed Anglosassoni, for- mavano una non trascurabile parte della popolazione immensa della capitale: perfino i musulmani erano così numerosi da avere moschee e professare liberamente il loro culto (3). Splendida era la città vista dal mare; ma ad eccezione della Mese, la grande via, che partendo dall’Augusteon, attraverso ai Fori di Costantino, di Teodosio, d’Ar- cadio, conduceva alla Porta Aurea, e di poche altre vie che da questa grande arteria (1) N., 302. 16; E., 384. 23. (2) N., 303. 8; E., 385. 10. (3) N., 303. 17; Basramisi Toperexsis, Ifinerarimm, ed. Adler, 13 e sega. 9 OT ni x 29 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 241 andavano alle altre porte di terra, ornate anch'esse di portici, palazzi, archi, colonne, monumenti, tutta la città era sporca ed oscura; nessuna sorveglianza e nessuna cura per la manutenzione delle vie, dove la sicurezza, scarsa di giorno, era di notte cosa del tutto problematica. Un latino che visitava la capitale verso la metà del secolo XII, scriveva che la popolazione viveva “ sine iure ,. I ricchi, sicuri nei loro palazzi, splendidi internamente, vasti come piccole città, lasciavano le strette vie nella penombra, regno dei poveri, che erano — dice quel latino — tutti ladri. Dalle case si gettavano tutte le immondezze sulla via, e nel sudiciume si aggiravano — già allora — a torme i cani vaganti (1). In questi quartieri, non era difficile, con denaro, radunare gente pronta a tutto, ad urlare oggi chi ieri acclamavano, ad applaudire oggi chi domani per denaro in- giurieranno (2). Esortavano poi il popolo ad accorrere in difesa dei Cesari, sacerdoti e monaci, loro partigiani. L'elemento ecclesiastico dimostrava di avere ancora alla fine del secolo XII quella stessa influenza che aveva esercitato nei secoli dell’alto medioevo. Se Manuele, come già il padre e l’avo, con doni ingenti, con crisobolle conferenti doni, privilegi, proprietà, aveva cercato di tenersi fedele il partito ecclesiastico, non aveva potuto mai ottenere d’essere da lui secondato nella sua politica di conciliazione con Roma. Un secolo dopo la chiusura delle chiese e dei monasteri latini della capitale ordinata da Michele Cerulario, con la protezione degli stessi basileis, erano sorte chiese, conventi ed ospedali latini. Tale infiltrazione occidentale non poteva non destare il malcontento del clero ortodosso, e si capisce come questo parteggiasse contro Maria d’Antiochia. E sacerdoti ornati dei loro abiti sacri, portando solennemente delle croci, scesero ora in piazza, raccogliendo dietro a sè il popolo tumultuante (3). La folla, dopo essersi per qualche giorno accontentata di scorrazzare per le vie e le piazze o di raccogliersi nella Sfendone dell’ Ippodromo, urlando imprecazioni ed inso- lenze alla imperatrice ed al Protosebasto, acclamando il nome di Alessio II, poichè vide che non trovava ostacolo di sorta, ardì ben altro e ben presto si gettò sui palazzi dell’alta aristocrazia, dei partigiani più conosciuti della basilissa, ed anzitutto del Protosebasto e di Teodoro Pantecne che fu costretto alla fuga; nel saccheggio del palazzo dell’Eparco vennero pure distrutti gli Archivi conservanti i preziosi diplomi che i vari imperatori avevano nei tempi andati conferito alla Città (4). Alessio Comneno non potè fare nulla per domare immediatamente il popolo ribelle. A Bisanzio, eccezion fatta dei Varangi, non v'era, pare, alcun presidio, ed il Reggente (1) Cfr. Oponis DE DeoGIro, Liber de via sancti Sepulchri, MG., SS., XXVI, 66; Mercati, Aneddoti di un codice bolognese, in BZ., VI, 1897, pag. 129 e segg. Per la topografia della Capitale, vedi: MorprMANN, Esquisse topographique de Constantinople, in © Revue de l'Art Chrétien ,, 1892; OreRHumMER, Constan- tinopolis, in PauLy-Wissowa, Real-Encyklopidie, III, col. 9683-1021; Mrtrincen, The walls of Constan- tinople, London, 1908; per il Palazzo Imperiale, vedi Lasarte, Le Grand Palais de Constantinople, Paris, 1861, ed FsersoLT, op. cit. (2) N., 305. 3. (3) N., 305 e segg.: E., 387. (4) N., 306. Seri II. Toxm. LXII 31 242 FRANCESCO COGNASSO 30 dovette tardare ancora qualche giorno per radunare un corpo di soldati fatti venire dai presidîì d'Asia. Intanto gli avversari provvedevano alla loro difesa. Lungo il lato meridionale di Santa Sofia si apriva l’amplissimo Fero dell’Au- gusteon, ancora oggi esistente, sebbene non più come allora lastricato di marmi e non più ornato da portici, da statue e da monumenti. Non lungi dal punto dove sboccava nel Foro la Mese, sorgeva famoso il Milliario, donde si calcolavano le distanze su le grandi strade dell'impero; per quanto anche colà sorgessero in lunga fila dalla porta di Calcé al Milion i banchi dei venditori di unguenti e di profumi, era l’Augusteon la piazza imperiale per eccellenza, il vero ombelico della città (1). Su questa piazza stava ora per decidersi il conflitto fra le due fazioni. Mentre le milizie imperiali si ordinavano nell'interno del Palazzo, di fronte, i Cesariani, ulti- mati i loro preparativi, raccolte provviste di armi e di vettovaglie, occupavano il Milliario, che dominava l’imboccatura della Mese, e la piccola chiesetta di Sant'Alessio nell'angolo N-0. della piazza; sull’alto degli edifici radunavano freccie e pietre da getto. Per facilitare la difesa furono persino abbattuti vari edifici attigui a Santa Sofia. Il 2 maggio — era un sabato — per tempissimo, gli imperiali uscirono dal Palazzo sotto il comando dell’ armeno Sabbazio e mossero all’ attacco, occupando subito qualche posizione avanzata, come il Tempietto di San Giovanni il Teologo, detto “ ai due cavalli . (Diippeion) dal gruppo dei due cavalli di bronzo che ivi presso aveva collocato l’imperatore Foca. Frattanto dall’alto dei vari edifici, specialmente dal Tomaite e dalle gallerie superiori del Tempio i Cesariani incominciarono a far piovere sugli avversari dardi e pietre in quantità (2). Ma il comandante degli imperiali rispose subito con un’azione energica e pronta; poichè il popolo che per più giorni aveva tumultuato, poteva molestare il Palazzo imperiale dalle altre parti, fu occupato dagli imperiali tutto il quartiere circostante a Santa Sofia, chiudendo l’accesso dalla Mese e da ogni altra via, in modo da impe- dire ogni relazione fra i ribelli della chiesa ed il popolo. La lotta ingaggiata nell’Au- gusteon durò vivissima e sanguinosa per tutta la giornata; molti caddero dei Cesariani, moltissimi degli assalitori che marciavano allo scoperto. Verso sera gli imperiali, più numerosi e rinforzati forse da altre schiere. riuscirono a ricacciare i Cesariani dal Foro in Santa Sofia; dopo avere inalberato lo stendardo imperiale sull’alto del Milliario, li sloggiarono dai porticati, e con le scuri impugnate, spezzate le porte del tempio, giunsero fin nel pronao, dove si ergeva la famosa statua di S. Michele trionfante; ma essendo l’ora tarda, non osarono avanzarsi nel Tempio (8). Quella sola giornata vide così rovinare tutti i sogni di Maria Comnena, ogni spe- ranza di impadronirsi dell'impero in poche ore si dileguò. Ansiosa dalle finestre del palazzo, dove il patriarca trepidava e pregava, essa aveva seguìto le diverse fasi della battaglia, aveva osservato atterrita il ripiegarsi ed il cedere dei suoi difensori. (1) Sulla posizione del Milliario, cfr. EsersoL7, op. cit., pag. 3; peri mercanti di profumi, vedi NicoLe, Le livre du Préfet, Genève, 1893, pag. 41. 22. | (2) Riguardo a S. Giovanni il T'eologo, vedi G. Lasxrms, Zamietki po drévnostiam Konstantinopolia, in Viz. Vr., VI, pag. 187 e segg. e Reser, Der Karolingische Palastbau, in È Abhand]. d. Bayer. AK. d. Wiss., ,, Hist. Clas., XIX, 757. (3) N.. 307-309. Sul tempio di Santa Sofia, vedi EsersoLr, Sainte Sophie de Constantinople, Paris, 1910. DO) nea PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 243 Su nelle sale essa ora meditava sulla sua ruina, sul forse imminente arresto, l’igno- minia, la morte forse; intanto il non ancora ventenne consorte conservava intera la padronanza di sè, e con la sua rude energia piemontese, mettendo insieme nell’in- terno del tempio i domestici della sposa, gli avventurieri arruolati, i cavalieri latini venuti probabilmente di Monferrato al suo seguito, e che Niceta paragona per le loro gravi armature a statue di bronzo, radunava ben un cento e cinquanta uomini, e dopo aver loro tenuto un discorso per infiammarli d’ardore in difesa del luogo sacro, si avanzava con essì nel vestibolo scacciandone i nemici che fin lè avevano osato spingersi. Già prima, il patriarca Teodosio, temendo che l’entrata degli imperiali nel Tempio segnasse l’inizio di un violento saccheggio, era sceso, vestito dei sacri palu- damenti, nel protecdiceo, pronto a fermare con le minaccie dell’ira divina i profa- natori della Casa di Dio (1). Passato il pericolo e ritornato il Patriarca a palazzo, attorno a lui si racco- glievano i Cesari ed i principali loro fautori per decidere sul da farsi. Quella sera stessa Teodosio inviò un suo messo al Reggente per offrire pace a nome della Porfi- rogenita; e durante la notte si svolsero le trattative fra i due palazzi. Mediatori del- l’accordo furono alcuni membri della famiglia imperiale e principalmente il megaduca Andronico Contostefano, cugino del basileus, essendo figlio di Stefano Contostefano e di Anna, sorella di Manuele I, e Giovanni Angelo Duca, mega eteriarca, figlio di Costantino Angelo e di Teodora, sorella di Giovanni II (2). Non fu cosa facile mettere d'accordo le due parti, ma al mattino, mentre forse già le milizie erano in procinto di ricominciare la lotta, le trattative riuscirono in porto. Maria Comnena, rinunciando alla pretesa di far espellere da Corte il pro- tosebasto Alessio, si accontentò che esso e la basilissa giurassero che nulla avreb- bero ordito contro di lei, nè nella persona, nè nella dignità, e che quanti l’ave- vano seguita ed .aiutata, fossero amnistiati. Così, deposte le armi, i suoi difensori sì dispersero, ed essa la sera del 3 maggio rientrava al palazzo imperiale, dove, uscendone varie settimane prima, aveva sperato di rientrare solo come trionfatrice e padrona. E davvero le poche forze, di cui poteva disporre, non le avrebbero potuto per- mettere di ostinarsi nel suo atteggiamento bellicoso. Il Reggente, infatti, dopo avere esitato sì a lungo, aveva preso delle misure energiche, chè, temendo non fossero sufficienti le forze che aveva radunato, già pensava a far uso del diritto che il go- verno aveva di chiamare sotto le armi tutti i membri delle colonie latine trovantisi in terra d’impero; tale provvedimento fu però reso superfluo dalla rapida conclu- sione della pace (3). Oramai l’azione politica di Maria Comnena era terminata con due sconfitte; essa aveva dimostrato di avere grandi ambizioni, ma di mancare di abilità pratica e di (1) N. 310; si comprende che il discorso attribuito da Niceta al marchese Raineri è di fab- brica nicetiana. (2) N. 312 e seg.; si osservi che per le trattative con il Palazzo imperiale, il Patriarca usa un messo speciale detto /aAerzzvos. (3) E., 395. 2. DA4 FRANCESCO COGNASSO 32 forza. Chiunque avesse in lei riposto una qualche speranza per risollevare lo Stato, doveva ora volgere altrove il suo sguardo. Il protosebasto Alessio aveva dunque acconsentito alla Porfirogerita di rientrare a Palazzo con la stessa dignità di prima. Fu forse questa debolezza provocata dal sentimento di parentela: forse furono le esortazioni di Andronico Contostefano, di Gio- vanni Duca, fu forse anche prudenza. Egli non volle stravincere. Una troppo grande vittoria forse gli avrebbe tolto il favore di molti dei cortigiani e dei parenti che ora l'avevano secondato. Ma se la constatazione della propria debolezza avrebbe dovuto trattenere Maria Comnena da ogni pensiero di rivincita, quella stessa gene- rosità del Reggente e della matrigna doveva profondamente umiliarla; nè essa era donna da perdonare tale affronto. Compreso che riprendere la lotta con le sole sue forze era vana speranza, su- scitò contro il governo un terribile nemico, Andronico Comneno. Questi, da quando se ne era partito per recarsi al suo governo nel Ponto, più non era ritornato a Bisanzio alla Corte, forse neppure per la morte di Manuele, benchè sapesse di essere uno dei tutori e reggenti per Alessio II. Ma d'allora, egli che aveva lasciato alla capitale la famiglia, seguiva di su le informazioni che dai figli riceveva, con grande attenzione, lo svolgersi della vita politica in Costantinopoli. Scopertasi la congiura contro il Reggente. erano stati arrestati e incarcerati i due figli di Andronico, Manuele e Giovanni, ma la sorella loro. l’ardita Maria. che an- ch’'essa aveva partecipato al movimento, temendo di venire a sua volta arrestata, riuscì a fuggire da Costantinopoli e si recò, nonostante la lunghezza edi pericoli del viaggio, a Sinope, presso il padre, per indurlo ad intervenire nelle lotte della capitale, senza però che la impressione profonda prodotta su di lui da questi avvenimenti decidesse Andronico ad uscire dal suo riserbo (1). a La sconfitta di Maria Comnena. mise in tutta evidenza quel discendente di Alessio I, come l’unico uomo che fosse capace di governare, nelle presenti condizioni, l’impero. Le dissolutezze della sua vita giovanile erano oramai state dimenticate; nel silenzio in cui pareva assorto, nei suoi lunghi viaggi, Andronico Comneno s'era quasi rifatta una verginità politica: la riconciliazione solenne con Manuele aveva se- polto definitivamente le sue antiche cupidigie e trame, e se alcuno ancora ricor- dava le sue avventure attraverso a mezzo mondo, era solo per conchiudere che avendo visti tanti paesi, conosciuti tanti uomini, di civiltà, costumi, religione, di- yersissimi fra di loro, Andronico doveva avere acquistato una grande perizia nelle cose di governo (2). Egli non era più lo zerbinotto, attillato e galante, seduttore di donne, di tren- t'anni prima, ma sessantenne, con la folta barba bianca, figura austera che conser- vava negli occhi e nelle movenze la sua vivacità giovanile, poteva sembrare a nu- merosi cittadini l’ideale del governante. L'essere l’imperatore un fanciullo, faceva più (1) N., 237. 3; E., 390. 8. (2) Vedi Micazr= Acomrsaro, op. cit., ed. Lambros, L pag. 166, a. 23. 33 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 245 che mai desiderare che lo Stato fosse retto da un uomo cui una vita lunga ed at- tiva avesse dato grande esperienza degli affari e serietà di propositi (1). Di qui il crescere rapido della popolarità di Andronico Comneno: si formò un partito a lui favorevole; anzi, in gran parte della popolazione si venne ad avere una tale idolatria per lui, che Eustazio di Tessalonica ammette che quel gaudente a riposo fosse amato da tutti più di ogni altra cosa, più di Dio stesso, od almeno, dopo Dio, subito. Andronico sarebbe stato il salvatore, il rigeneratore dell'Impero: egli sarebbe stato l’uomo forte, che senza essere avvinto da pregiudizi di sorta, senza appartenere ad alcuna congrega o partito, si sarebbe frapposto alle fazioni, avrebbe soffocato gli antagonismi di persone e di tendenze, e con l'appoggio di tutti gli uomini di buona volontà, con una visione larga e chiara dei bisogni dell’ora che passava, avrebbe atteso alla rinnovazione dell’ Impero. Non v'ha dunque da stupire se da amici e partigiani arrivassero alla sua remota residenza, inviti e scongiuri, affinchè si recasse al più presto alla capitale per dare assetto alle cose del governo, e se al suo aiuto ricorresse la Cesarissa stessa dopo il fallimento dei suoi tentativi (2). Frattanto, pareva che Alessio Comneno non s’accorgesse, tutto inteso alla sua vita oziosa, al suo amore per Maria d’Antiochia, che, nonostante l'apparente calma, non era cessato in Costantinopoli il fermento degli animi. Invece di dimenticare e fare dimenticare le passate discordie, con un altro contegno ed altre direttive nella sua politica, egli volle vendicarsi aspramente del patriarca Teodosio. Pare che dapprima il Protosebasto intendesse liberarsene, accusandolo come facinoroso e ribelle dinanzi alla Santa Sinodo, ed a questo scopo egli già si veniva preparando il terreno, comperandosi con la solita corruzione il consenso di vescovi e dignitari dell’alto clero della Capitale. L'accusa sarebbe stata doppia: di compli- cità nella ribellione all’autocratore, di profanazione sacrilega del tempio per avervi dato ricetto ad armati. Le pressioni ed il denaro del Governo avrebbero certamente saputo strappare alla Sinodo un decreto di condanna per il Patriarca, condanna che avrebbe colpito, indirettamente sì, ma non meno gravemente, gli altri ribelli e la porfirogenita Maria, tanto più poi se veniva emanata la scomunica per i profanatori del tempio. Si comprende quindi che la porfirogenita Maria, vivacemente protestasse e si opponesse ricordando l’amnistia giurata. Il Reggente rinunciò alla Sinodo, procedi- mento troppo lungo e pericoloso, qualora inaspettatamente avesse prevalso nella Sinodo la corrente antilatina e favorevole al Patriarca; ma dopo essersi consigliato con alcuni cortigiani, funzionari dello Stato e dignitari della Chiesa, risolse rapida- mente la questione, facendo improvvisamente arrestare il Patriarca e rinchiudere nel monastero di Pantepopte. Nulla doveva recare maggior danno al Reggente quanto questa violenza improvvisa, poichè lo zelo religioso di tutto il popolo sarebbe stato rinfervorato, commosso dalla (1) N., 238. 21; E., 388. (2) N., 304. 1; E., 386. 7, dove l’espulsione del patriarca è collocata subito dopo la Pasqua. È noto come Niceta abbia avuto presente lo scritto di Eustazio, quindi, dove, per gli avvenimenti della Capitale, se ne discosta, la sua versione è da considerarsi come la più sicura. 246 FRANCESCO COGNASSO 34 persecuzione del Patriarea Ecumenico. del rappresentante più sacro della tradizione religiosa dell'Impero, per parte di un governo ligio ai latini, mentire ancora era a Corte un rappresentante altissimo del Pontefice di Roma (1). Ed infatti, se l'esilio del Patriarca Teodosio non fu visto di cattivo occhio da una parte dell’alto clero bizantino. se più d'un prelato accordò al Reggente l'approvazione del suo decreto, forse non tanto per timore, quanto per invidia verso Teodosio Boradiote, e per la speranza di ottenerne la successione, il malcontento scoppiò invece grave nel popolo devoto ai suoi sacerdoti. nel basso clero, e penetrò persino a Corte. Mentre qui non pochi sorridevano di queste lotte, altri infuriati da questa prepotenza del Reggente, misero tutto il palazzo a rumore, ed alcuno riuscì persino ad arrivare presso il giovane basileus per denunciargli le mene del cugino (2). Assai probabilmente. appunto durante questi contrasti, il Reggente pubblicava in nome di Alessio II una novella nella quale questi dichiarava di voler imitare il padre anche nella protezione dei monaci — avendo grande bisogno delle loro pre- ghiere —, e confermava ai monasteri i privilegi concessi loro dagli imperatori pre- cedenti, in ispecie da Manuele, ordinando agli esattori di cancellare senz’aliro dai loro registri dei contribuenti le proprietà monastiche (luglio 1181) (3). Il governo cercava di riacquistare partigiani. : L’agitazione nuovamente prodottasi in Costantinopoli andò vieppiù crescendo, sì che il Protosebasto. dopo avere resistito a lungo. vedendo che la stessa basilissa era imbarazzata da questa condizione di cose e quasi favorevole al Patriarca, cedette e Teodosio — dopo più di un mese — potè nuovamente ritornare al Patriarcheion. Il ritorno del Patriarca, dal monastero del Pantepopto a Santa Sofia, fu come un grande dispiegamento delle forze nazionaliste pronte alla lotta contro gli occidentali. Il corieo immenso percorse trionfalmente iutti i quartieri della capitale; partito al mattino dal monastero, giunse a sera al palazzo patriarcale. Tutta Costantinopoli, tutte le classi parteciparono a quella vera apoteosi di Teodosio Boradiote; e riunito attorno al suo massimo Pastore. il popolo attinse nuova energia per la difesa della Chiesa ortodossa, nuovo odio contro i latini (4). Il governo da questa festa pare si sia tenuto lontano, e ben si comprende come per questa sua astensione, la festa venisse ad acquistare un carattere spiccatamente avryrerso al governo stesso. Oramai il Reggente si trovava in una posizione tale da non avere facile via di scampo: per la persistenza ostinata in quelle tendenze de- terminate, si era venuto siringendo in un cerchio sempre più angusto di odio per rompere il quale occorreva ben altra energia. D'altronde, dato il vento che soffiava, il continuare a favorire i latini era una vera pazzia. Il padrone della situazione era il lontano Andronico Comneno. Il popolo stanco (1) Vedi sotto, pag. 253. (2) E. 386. 13. (3) Cfr. Zaczaziaz vos Liscesraar, Jus Graeco-Romanum, III, n. SI, paz. 505. (4) N., 315-316; E., 389. 21; riguardo alla durata della relegazione di Teodosio, è da notare che E. parla di circa un mese; mentre Bar-Hebraeus (ed. cit., 389) dice che fu di nove mesi e che Teodosio lanciò l'anatema contro Costantinopoli. dd PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 247 del governo attuale vorrà esperimentare il senno politico del rappresentante del ramo cadetto, prima di esclamare, come poi farà: “ Siamo stanchi dei Comneni! , (1). E finalmente l'appello di Maria Comnena, il pensiero dei due figli rinchiusi in carcere da vari mesi, decisero Andronico a ritornare alla capitale. Iniziò la lotta indirizzando al basileus, al Patriarca, ad eminenti personaggi della Corte, lettere che erano veri proclami, dove, dopo aver ricordato le ultime volontà del defunto Ma- nuele, protestava vivamente contro l’indirizzo dato da Alessio Comneno al governo, la disorganizzazione, gli sperperi del pubblico denaro, e dichiarava la sua ferma intenzione di intervenire in nome di Manuele che a lui aveva fatto giurare di difen- dere Alessio II contro chiunque attentasse alla sua corona (2). Queste sue lettere, le minaccie in esse contenute, allorchè vennero conosciute per Bisanzio, destarono applausi ed ottennero l’approvazione quasi generale ; solo a Corte si dovette sorridere delle provocazioni di quel vecchio senz’'armi e senza sol- dati. Incoraggiati intanto dal contegno di Andronico, i suoi partigiani con maggior zelo attendevano alla propaganda contro il governo. Dove la notizia delle intenzioni di Andronico produsse maggior fermento, fu nelle classi popolari. Gli urti fra indi- geni e latini avevano prodotto necessariamente un ambiente così saturo di elettricità, da doversi dire meraviglioso il fatto che fino allora non fossero ancora successe delle lotte sanguinose. Quando fosse caduto l’ultimo ritegno alla saliente marea popolare con la ruina del governo della imperatrice, il popolo si riprometteva la più allegra vendetta di anni ed anni di continue umiliazioni. Così ai latini abitanti nella capitale l’annuncio della venuta di Andronico dovette apparire come foriero di prossimi mali. A decidere Andronico a ritornare a Bisanzio, ed a combattere il Protosebasto, non influirono soltanto le invocazioni di quanti lo aspettavano. Alla sua mente si affollavano in quei momenti tutti i ricordi della sua giovi- nezza disordinata, e, fra gli altri ricordi, assai vivo doveva essere quello dell’odio feroce nutrito verso Alessio Comneno, allora giovanissimo, ed il suo fratello Grio- vanni. La lotta ch'egli aveva sostenuta contro i due figli del sebastocratore An- dronico aveva avuto grande influenza sulla sua vita. Le cause di questo dissidio erano la preferenza di Manuele per i nipoti e la relazione amorosa stretta da Andro- nico con Eudossia, sorella di Giovanni e di Alessio. I due amanti persistettero per molto tempo nel loro amore, nonostante l'opposizione di tutta la famiglia imperiale; ai rimproveri dei parenti, Andronico rispondeva sogghignando che egli procedeva soltanto sulle orme del basileus, di Manuele. I fratelli di Eudossia giunsero a tal punto nel loro odio contro Andronico, che più di una volta meditarono di ucciderlo, sì che Andro- nico si salvò solo grazie alla sua rara abilità; poi ebbe termine la relazione amo- rosa, ma l’odio dei due fratelli contro Andronico non venne mai meno; protessero Manuele dalle insidie del cugino, fecero questo oggetto alle più gravi accuse, vere o false che esse si fossero: il basileus prestava fede ad ogni loro accusa e soltanto sotto tale influsso, molto probabilmente, egli assunse verso il cugino Andronico un con- tegno assai aspro (8). (1) N., 601. 1. (2) N., 238. 5. (8) N., 137-188. 248 FRANCESCO COGNASSO 36 Tutte queste antiche vicende doveva riandare ora nella sua mente Andronico Comneno, sì che la lotta contro il Reggente aveva, per un uomo così tenace nei suoi amori e nei suoi odî quale egli era, un colorito di passione personale che rimaneva agli estranei celato, coperto interamente dal contrasto d’idee del momento presente. Ai primi inizi della primavera del 1182, Andronico Comneno aveva finito i suoi preparativi. Gli scarsi mezzi finanziari non gli avevano permesso se non di arruo- lare una certa quantità di turchi per rinforzare quello che più che un corpo di milizie regolari era una accozzaglia di contadini male armati. Così pure il termine di flotta era certamente sproporzionato per quelle poche navi malamente equipag- giate che per suo ordine partirono da Sinope (1), accompagnando Andronico che con il suo minuscolo esercito si avanzava lungo la costa. Per spiegarsi la lentezza del viaggio, il maligno Eustazio afferma che Andronico procedeva lentamente per fare credere agli abitanti della capitale di essere seguito da ingenti forze; in realtà Andronico temporeggiava per cercare di radunare nuovi partigiani e rinforzare le magre file, prima di esporsi ad un combattimento. Per questo motivo, egli dopo essersi portato ad Eraclea, si studiò di procurarsi l'appoggio di Nicea e di Nicomedia, ed avere mezzi di comunicare con le altre pro- vincie sia dell'Asia sia d'Europa (2). Un governo forte non ‘avrebbe indugiato ad impe- dire al ribelle di avanzarsi liberamente; il Reggente invece quasi nulla fece contro Andronico. Nicea era governata in quel momento da Giovanni Angelo Duca, quegli che l’anno prima aveva procurato di riconciliare la porfirogenita Maria con la matrigna ed il Protosebasto. Il governo di Nicea era forse la ricompensa della sua fedeltà, e fedele si mostrò anche in questi frangenti, respingendo così le profferte di Andro- nico come le sue minaccie. Tentò allora Andronico di avere l’appoggio di Giovanni Comneno Vatatze, che era allora governatore della provincia di Filadelfia o, per usare la classica espressione, del Tema Tracense (3). Ma neppure in questo suo cugino, trovò Andronico aiuto e rinforzo, che anzi fu vivamente minacciato se osasse avan- zarzi (4). Furono quelle brutte ore per Andronico; dopo avere con le sue lettere minacciose e con la sua spedizione iniziate le ostilità, si trovava ora respinto dai capi delle provincie che certo preferivano un governo debole come il presente ad un governo forte, per poter essere onnipossenti nella loro provincia. Andronico però non si perdette d'animo, ed avanzatosi verso Tarsia e Nicomedia, fu accolto (1) N., 316 e segg.; E., 331. 15; sulla presenza di turchi nell'esercito di Andronico vedi la Continuatio Zwetlensis altera (MG., IX, 542), Axssermi, Historia de expeditione Federici imperatoris, Wien, 1861, pag. 16; Roserti pe MostE, Chronicon, ed. cit., pag. 547. (2) N., 318. 14; EF., 391. 21, 332. 1. (3) Non della Tracia, come dice il Caaranpon in Jean II Comnène etc., pag. 648, n. 3. (4) N. 318. Riguardo alla famiglia Vatatzes, per il sec. XII, abbiamo notizie di dubbio valore nel Bos del basileus Giovanni Vatatzes, edito dallo HrisenserG (Kaiser Johannes Batatzes der Barm- herzige), in BZ., XIV, 1905, pag. 160 e segg. In questo testo agiografico del sec. XIV, si ricorda un avo di detto imperatore, che combattè in Asia per il basileus Manuele, e che poi contrastò il trono ad Andronico; ma questo personaggio è detto Costantino, i due figli Niceforo e Teodoro. Sull’im- portanza e le fonti del testo vedi l'introduzione dell’editore. DI SI PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 249 lietamente dalla popolazione, riuscendo almeno ora a rinforzare notevolmente l’esercito. Proseguì il cammino più sicuro di sè : in una località detta Carace, Andronico si trovò il passo vietato da un esercito imperiale capitanato da Andronico Angelo Duca (1). Figlio del pansebastypertato Costantino Angelo e della porfirogenita Teodora (2), sorella minore di Giovanni II, aveva questo Andronico coperto più d’una importante carica negli ultimi tempi del regno di Manuele. Non era la sua una razza di guer- rieri, nè l'eroismo era la sua dote precipua. Famoso era certo ancora in Bisanzio il coraggio dimostrato pochi annì innanzi, nell’ultima grande guerra contro i Turchi. Capitanava insieme con Manuele Cantacuzeno un corpo d’esercito spintosi da Chonae sulla via di Iconio fin oltre Lampe. Una notte gli si annunciò l’avvicinarsi dei Turchi; ma invece di armarsi ed ordinare l’esercito a battaglia, il coraggioso gene- rale, colto da panico, balzò in sella ed al galoppo si gettò sulla via di Chonae, quasi i Turchi gli fossero alle calcagna, e corse fino a Laodicea di Frigia, dove. finalmente si fermò, forse però soltanto per lo sfinimento del cavallo. L'esercito fu salvo, grazie alla prudenza del valente Cantacuzeno; ma il basileus Manuele fu tanto sdegnato, che solo per la stretta parentela rinunciò a far condurre il vigliacco patrizio in giro per la capitale, vestito con un abbigliamento fem- minile (3). A tal generale aveva ora il governo affidato il proprio destino; e ben si com- prende come, benchè fossero truppe regolari ed avessero di fronte una folla racco- gliticcia, gl’imperiali fossero in breve respinti e dispersi da quella gente che si batteva piena di entusiasmo per il proprio capitano. Andronico Angelo si rifugiò subito a Costantinopoli senza fare altri tentativi per trattenere il nemico. A Corte si gridò al tradimento, e s'impose allo spregevole uomo di rendere conto esatto della ingente somma di denaro affidatagli per le spese di guerra. A tale intimazione, Andronico Angelo dapprima si asserragliò nel suo palazzo vicino a Porta Aurea, nel quartiere dell’Exokionion, armando sè, i figli, la numerosa servitù e molti suoi partigiani, poi, disperando di potersi sostenere, con la consorte ed i figli, s'imbarcò di nascosto e, traversato il Bosforo, si rifugiò al campo di Andronico Comneno, il quale vittorioso ed incoraggiato dalla presenza degli Angelo, si portò, senza più indugiare, per occupare Nicea e Nicomedia, a Calce- donia, per accamparsi su di un colle nelle vicinanze della città, nella località detta Peucia, ben visibile da Costantinopoli stessa (4). I maligni sussurravano che Andronico Comneno, per far credere agli abitanti della capitale più numerose le sue truppe di quello che in realtà esse si fossero, disponesse in linee molto lunghe, ma poco profonde, le tende del suo campo, e che ordinasse d’accendere a sera nel campo un maggior numero di fuochi che non fosse quello delle tende (5). (1) N., 319. 2 e segg. (2) Zowara, III, 739. 31; cfr. Dirat, op. cit., II, pag. 83. (3) N., 254. 22 e segg. (4) N., 319. 18 e seg.; E., 392. 1; sulla località dell’Exokionion, efr. Last, in Viz. Vr, IV, 524-532, e Mricuaes, op. cit., 18-20. (5) E., 392. 5 da cui dipende N., 320. “e IL 10 La 32 250 FRANCESCO COGNASSO 38 Ed al campo di Peucia incominciarono ad arrivare gli amici dalla Capitale, seguendo l'esempio di Andronico Angelo; a ragione, quando questi era giunto al - suo campo, l’arguto Andronico Comneno, traendo dal cognome del fuggiasco buon auspicio per l’esito della sua impresa, aveva ricordato sorridendo il biblico: “ Ecco, io invierò un Angelo dinanzi a te, che ti prepari la via ,. Non sappiamo quale fosse l'impressione provata da Alessio Comneno e da Maria di Antiochia, quando un mattino dalle gallerie del Grande Palazzo videro sulle alture della opposta riva d'Asia le tende di Andronico. Forse il protovestiario Alessio do- vette ricordarsi dell'episodio di tanti anni prima, quando, a Pelagonia, avendo Ma- nuele chiesto al cugino Andronico a che mai dovesse servire un cavallo ch’ei teneva lì pronto, quegli rispose essere quel cavallo destinato ad agevolargli la fuga, uccisi ch’'ei avesse i suoi nemici, i due figli del sebastocratore Andronico (1). Non era più questo, oramai, il momento di sconfessare il proprio operato e sottomettersi alla opinione popolare. Quello che al Reggente sarebbe stato possibile un anno prima, anche solo pochi mesi avanti, ora con il nemico minaccioso di fronte, sarebbe stata una viltà mostruosa. Ma in Costantinopoli non verano forze sufficienti per respingere Andronico; il fare nuove leve, troppo tempo avrebbe chiesto, mentre le provincie più vicine erano od occupate dal nemico, o dominate da governatori i quali preferivano rimanersene spettatori della lotta, per aderire poi al vincitore. La Guardia Imperiale dei Varangi a pena poteva bastare a proteggere la famiglia imperiale contro gli umori della popolazione. Al Protosebasto rimaneva l’unica spe- ranza di riuscire a proibire con la flotta il passaggio del Bosforo ad Andronico, il quale, per verità, si sarebbe trovato imbarazzato a passare sulla riva europea con le poche e deboli navi ch’egli aveva a sua disposizione. Ed in tutta fretta erasi lavorato a riattare le navi della flotta, dalla morte di Manuele trascurata assai, e nell’urgenza del bisogno si dovette, per completare gli equipaggi, ricorrere all’aiuto dei latini, ed assoldarne un certo numero, dando loro stipendi altissimi. Anzi, poichè tutti l’abbandonayano, o che passassero, apertamente, ora, al campo nemico, o che si tenessero in riserbo, in neutralità, giudicando che questo fosse già una prova grande della loro devozione, il non prendere apertamente le armi contro di lui, Alessio Comneno trattò perchè tutti gli occidentali prendessero le armi in difesa della ca- pitale, ed i latini certo non avrebbero esitato ad intervenire poichè la causa del- l’attuale governo era la loro propria. La popolazione, apprendendo queste trattative, vieppiù si inviperì; del resto, a nulla questi accordi servirono, poichè gli eventi pre- cipitarono prima che essi avessero effetto (2). Il protosebasto Alessio avrebbe voluto affidare il comando della flotta a qualche suo parente od amico fidato, ma il cugino Andronico Contostefano, che aveva da molti anni l’ufficio di megaduca, essendo successo in tale officio al padre Stefano, protestò vivamente, dicendo che a lui solo doveva toccare quell’incarico. Alessio Comneno, temendo di essere abbandonato se rifiutava, dovette accon- sentire; egli sperava — ed aveva messo a bordo, vicino al capitano, qualche suo (1) C., 130. 14. (2) N., 321. 10: E., 394. 19. 39 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 251 fidato — che in tal modo Andronico Contostefano gli si conservasse fedele, con grande suo vantaggio, nella presente lotta. Così la squadra si dispose nel’ Bosforo per intercettare il passaggio dei nemici. Ed il megaduca forse già pensava al tra- dimento (1). Per altre vie cercava pure il Reggente di sottrarsi alla bufera imminente. Per suo ordine, Giorgio Sifilino, diacono di Santa Sofia, futuro Gran Sceuofilace e Pa- triarca, andò al campo di Andronico per un ultimo tentativo di accordo. Alessio Comneno, affidando tale missione di pace ad un alto dignitario della chiesa, cercava di guadagnarsi l'appoggio del clero (2). Giorgio Sifilino rimise ad Andronico lettere di Alessio Comneno, che prometteva all'avversario perdono, pace, ricchi doni, alte dignità, qualora rinunciasse ai suoi propositi e ritornasse pacificamente al governo della sua provincia. Ma se il Proto- vestiario sperava che il prelato appoggiasse le sue proposte, errava, chè Giorgio Sifilino, seguendo l'esempio dato altra volta da Michele Psello nella lotta fra Mi- chele VI ed Isacco I, dopo aver per serupolo di coscienza riferita l'ambasciata com- messagli, privatamente — così si narrò a Costantinopoli — consigliò Andronico a persistere nel suo atteggiamento, respingendo le proposte fattegli. E così infatti Andronico Comneno incaricò il suo segreto partigiano di annunciare a Palazzo che egli solo si sarebbe ritirato qualora il protovestiario Alessio venisse destituito e sottoposto a processo, l'imperatrice Maria lasciasse il palazzo e si ritirasse in un monastero, lasciando che il giovane basileus assumesse direttamente le redini del governo (3). Questa intimazione non doveva più lasciare alcun dubbio sulle intenzioni di Andronico. Mentre al Palazzo imperiale si consumavano giornate preziose nella incertezza e nella inazione, nel campo di Peucia si lavorava vivamente a stringere nuove rela- zioni, ad intrecciare intrighi con i partigiani della capitale, e di codesta attività si videro i risultati, quando dopo pochi giorni il megaduca Andronico Contostefano riuniva le navi della flotta imperiale, ed andava a gettare l’èncora a Damali, met- tendosi completamente ai servizi di Andronico Comneno (4). Dopo questo tradimento, la partita era per il governo virtualmente perduta. Alessio Comneno fu talmente colpito dal fatto, che, senza speranza di nulla più, non pensò neppure a fuggire. Andronico Comneno trovò nella letizia del successo la ricompensa per la fiducia avuta nei primi inizi; ora che il mare era libero, i suoi partigiani poterono a frotte passare a Calcedonia per presentare al vincitore e libe- ratore i loro omaggi, sentire la sua faconda eloquenza calda ed entusiastica, ricevere ordini per il da farsi. E come sempre succede nei grandi movimenti popolari, i par- tigiani di Andronico apparvero più numerosi che in realtà non fossero; molti corti- (1) N., 321. 14. (2) Secondo il Lausros, op. cit., II, pag. 555, già sotto Andronico, Giorgio Sifilino sarebbe stato eletto Gran Sceuofilace. Vedi una lettera di Michele Acominato a Giorgio, in Laxe£0s, op. cit., II, pag. 18. (3) N., 321. 23 e segg. (4) N., 326. 16. DAS. FRANCESCO COGNASSO 40 ulti giani, perfino i Varangi, ottimi guerrieri, se ben pagati, ora parteggiavano per il vincitore (1). Andronico Comneno poteva ora sbarcare al porto del Bucoleon od a quello delle Blacherne. Ma Andronico pare abbia voluto che il governo della Reggenza crollasse per opera della cittadinanza: se, però, egli non intervenne direttamente, per lui, naturalmente, lavoravano gli amici. La rivoluzione scoppiò qualche giorno dopo il tradimento della flotta, in città ed a palazzo. Le carceri furono aperte, liberati i prigionieri politici, portati in trionfo i due figli di Andronico Comneno che da più di un anno ivi languivano; al loro posto furono gettati quanti si potè arrestare dei parenti ed intimi di Alessio Comneno. Questi, poi, fu arrestato a Palazzo dai Varangi e rinchiuso nelle carceri palatine; ma la notte stessa per maggior sicurezza venne trasferito sotto buona scorta al pa- lazzo del Patriarca (2). Così ignobilmente cadde senza speranza di rivincita il figlio della sebastocrato- rissa Irene: egli si vide affidato a quel Teodosio Boradiote che pochi mesi innanzi aveva fieramente combattuto; e perchè l'umiliazione fosse completa, al patriarca do- vette quella notte ricorrere per avere, insieme con consigli di moderazione e di calma, qualche protezione contro i suoi troppo burberi custodi. Nei quartieri latini Ja caduta del Reggente, i clamori del popolo tumultuanie destarono un vero panico; a migliaia i commercianti abbandonarono i loro fondachi e le loro dimore cercando rifugio gli uni in casa di amici e di patrizi che osassero sfidare la collera del popolo, i più sulle navi ancorate agli scali del Corno d’Oro (3). Quel che avvenisse, mentre gli avvenimenti precipitavano, al Palazzo imperiale non ci venne tramandato, ma non è difficile il ricostruirlo. L'arresto dell'amante, la notizia, venuta alcuni giorni dopo, che dopo d’essere stato condotto per la città su di un ronzino esposto ai ludibrii ed agli insulti della plebaglia, esso era stato trasportato al di là del Bosforo per comparire dinanzi ad un tribunale di guerra, fecero passare la disgraziata imperatrice di inquietudine in inquietudine, di angoscia in angoscia: le urla trionfanti del popolo poi le dovettero dire che il suo fido era stato, per ordine di Andronico, consenzienti tutti i dignitari, abbacinato e mutilato orribilmente (4). E quando su le folate del vento primaverile spirante dal Bosforo, salì ai lus- suosi triclini del Gran Palazzo il confuso rumore prodotto da mille irose voci del popolaccio precipitantesi, ebbro d’ira, sui quartieri latini, certo, allora. Maria d'An- tiochia dovette maledire l’ora in cui la cupidigia del potere ed una vana ebbrezza d'amore l'avevano tratta a violare i voti, a spregiare la tranquilla calma della vita monastica. Poichè lo sbarco di alcune compagnie dell’esercito di Andronico, determinò quello che il popolo non aveva ancora osato: l'attacco ed il saccheggio dei quartieri degli occidentali. La fuga dei latini fece sì che la furia popolare non incontrasse alcuna (1) N., 323; E., 393 (2) N., 323 e segg. (3) N., 325. 20; E., 394; WT., XXII, 1v, 1066. (4) N., 324. 20; WT., XXII, rv, 1067. 41 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 250 resistenza, chè tutti ì più validi non avevano aspettato l'assalto ritenuto da qualche giorno come inevitabile. Per più giorni durarono i saccheggi, le uccisioni, gli incendi, e nella caccia al latino mostrò la plebe quegli stessi istinti feroci apparsi già secoli innanzi nella sol- levazione della Nike. Fu strage senza pietà, senza quartiere; di qualunque età, sesso, classe, uomini e donne, vecchi e lattanti, sani ed ammalati, quanti non avevano potuto o voluto fuggire, tutti soggiacquero o sotto i colpi degli inferociti popolani, o sotto le macerie delle case rovinanti fra gli incendi. E non solo i laici soggiacquero, ma anche, e più ancora, i preti ed i monaci latini. E chiese e monasteri ed ospedali latini furono anch’essi assaliti, devastati, distrutti: il famoso senodochio di San Giovanni fu rovinato, i ricoverati uccisi; preti e monaci perirono fra crudeli torture, vittime dell’odio dei loro confratelli or- todossi, i quali, anzichè predicare parole di pace, senza ritegno alcuno, guidarono la folla all’assalto, instigandola alle stragi. Vittima illustre di queste giornate dell’aprile 1182 fu un ambasciatore ponti- ficio, il cardinale suddiacono Giovanni, venuto poco prima a Bisanzio; arrestato nella sua abitazione, donde non aveva voluto, sebbene sollecitato, fuggire, fu tra i vituperì decollato; la testa dell’infelice, legata per ludibrio alla coda di un cane, fu trascinata nel fango per le vie della città. Questo cardinale era stato inviato da Alessandro III per un nuovo tentativo di unificare le due Chiese, aderendo all’invito fatto nel marzo del 1180 da Manuele; e forse queste trattative avevano in qualche misura influito per affrettare lo scoppio di quegli odî che troppo lungo tempo avevano taciuto. Dopo nemmeno due anni dalla morte di Manuele, tutta la sua opera per la riconciliazione delle due chiese e delle due nazionalità (1) si mostrò vana. L’odio ortodosso non rispettò i portati nel seno materno, non rispettò le tombe latine; scoperti i sepoleri, estratti i cadaveri e vilipesi, trascinati per le vie e le piazze quasi illatas sentirent iniurias. Immensa fu la strage: e numerosissimi latini, più di quattromila, risparmiati, vennero, carichi di catene, tradotti in Asia ed ivi venduti ai mercanti turchi di schiavi. Per quanto la folla avesse trovato appoggio nelle milizie di Andronico, benchè da diversi giorni già si parlasse fra i latini di un movimento organizzato contro di loro, non si può però credere che la strage corrispondesse ad un disegno premedi- tato da Andronico, e che essa rientrasse nel suo piano d'azione. La strage fu la ven- detta del popolo per anni ed anni di vergognose umiliazioni mal celate, ed Andro- nico appunto per non compromettersi si astenne dall’entrare in città, pur vedendo con favore questa insurrezione del popolo contro l'elemento occidentale (2). (1) Per il cardinale Giovanni, cfr. WT., XXII, x1, 1084, Roeerti DE Monre, Chronicon, ed. cit., pag. 527; Eusrazio (396. 4 e segg.) dice di ignorare se questo latino fosse stato mandato da Roma o dalla corte di Palermo: ignorava quindi anche le trattative di Manuele con il Pontefice. Vedi sopra, pag. 246. (2) Per le stragi vedi N., 326-327; E., 394-395; WT., XXII, x, 1082 e segg.; la data, aprile, èin WT. 254 FRANCESCO COGNASSO i 49, In Bisanzio, oramai, non vi era più governo: all’imperatrice Maria più nessuno badò, ed al campo di Peucia l’un dopo l’altro si seguirono premurosi i dignitari di Corte, gli alti funzionari delle cancellerie imperiali a ricevere gli ordini del nuovo signore. Pochi giorni dopo, scortato da tutto il clero di Santa Sofia, venne in gran pompa a presentare i suoi omaggi ad Andronico il patriarca Teodosio, e tale visita significò il riconoscimento formale del nuovo governo per parte della Chiesa (1). Teodosio Boradiote aveva sempre avversato il Reggente, e con il suo contegno, dopo aver favorito la Cesarissa, aveva aiutato validamente la riscossa dell’elemento nazionalista contro il Protosebasto ed i Latini. Al suo appoggio doveva in parte Andronico la sua vittoria. Ma questo abboccamento invece di segnare il trionfale ritrovo di due alleati, segnò invece l’inizio di quella diffidenza reciproca che doveva portare fra non molto ad una rottura totale dei rapporti e più oltre ancora. A quanto pare, il patriarca Teodosio non aveva ancora avuto occasione di incontrare e cono- scere personalmente Andronico, il quale, dopo lunghi anni di assenza, era stato nel 1180 pochi giorni alla capitale — se pur non solo al palazzo di Scutarion — per riconciliarsi con Manuele, senza avere rapporti con l'elemento ecclesiastico che lo aveva sco- municato. Sceso a Damali, Teodosio procedette a cavallo al campo di Andronico. Questi gli venne incontro in segno di rispetto; ed il buon vecchio dovette guardare con viva curiosità quello strano tipo, dalla figura erculea, dalla lunga e bianca barba, vestito di un disadorno abito color violaceo, di tela di Georgia, con in capo un gran cappello a cono, pure secondo l’uso dei Georgiani. Andronico inginocchiatosi, gli baciò i piedi, lo salutò, con grande ardore, salvatore del basileus, ardente d’amore per il Bello, fiero propugnatore del Vero. Durante la conversazione, l’uno e l’altro fecero meraviglie di abilità per delu- dersi a vicenda, e se ritornando a palazzo Teodosio, che aveva appreso ora quanta energia e volontà. vi fosse in Andronico, diceva ad un suo fido che, se finora lo aveva conosciuto solo dalla descrizione fattagliene dal basileus Manuele, ora lo conosceva abbastanza di persona, Andronico Comneno, scherzando con gli amici, usò d'allora chiamare il Patriarca, il profondo, l’impenetrabile Armeno (2). Ad ogni modo, diffidenze e sospetti rimanevano per ora al fondo degli animi, e l'apparente amicizia fra i due personaggi bastò ad eliminare in chicchessia ogni pos- sibile dubbio e serupolo. (1) N., 328. 6. (2) N., 329. 15. Teodosio di Boradion era di origine armena. 43 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. DO Ut (Dai II. Il governo di Andronico Comneno. Dopo il suo trionfo, Andronico non entrò subito in Costantinopoli, ma lasciò che ì due figli Manuele e Giovanni ed i suoi fidi ponessero in ordine, secondo le sue istruzioni, gli affari del governo, che nella città, calmati i furori antilatini, scom- parse le maggiori traccie delle stragi e delle rovine, riprendesse il suo corso la vita normale (1). Se il popolo aveva accolto con grande entusiasmo il suo idolo, l’aristocrazia aspettava fredda e diffidente una qualche manifestazione politica del nuovo padrone, più esplicita di quanto si fosse fino allora avuta. Ma l’abile uomo se ne rimaneva tranquillamente nel suo accampamento a Peucia, mentre a Palazzo, la basilissa Maria attendeva anch'essa ansiosa quali deliberazioni Andronico fosse per prendere in ri- guardo del figlio suo, e del governo. Intanto il basileus Alessio continuava nella sua vita spensierata, poco comprendendo le condizioni in cui si trovava, ignaro, certo, delle tempeste che attorno al suo capo s'addensavano (2). Dopo alcuni giorni, arrivarono finalmente ordini di Andronico; il basileus Alessio e Maria d’Antiochia dovevano partirsi dal Palazzo Sacro e trasportarsi al Filopathion interno, al Palazzo di Mangane, presso le mura a mare, ed ivi attendere ulteriori disposizioni. Egli stesso poi vi sì recò: narrano, che imbarcatosi su di un dromone imperiale a Damali, contemplando dal Bosforo la città, sorridesse ed esclamasse: “ Riposa, anima mia, poichè il Signore ti beneficò, strappò la mia vita alla morte, i miei occhi alle lacrime, i miei piedi alla rovina , (3). Al Filopathion avvenne l’incontro dall'una parte come dall’altra ugualmente te- muto, chè il ritardo di Andronico ad entrare in città è forse da attribuirsi, in parte almeno, alla indecisione in cui egli si trovava sul da farsi. La vittoria sul Reggente era stata più facile e più pronta di quanto Andronico stesso si fosse pensato. Che cosa avrebbe egli ora dovuto fare ? Ritornarsene alla sua remota provincia, o pren- dere accanto al giovine basileus l’ufficio lasciato vacante dalla caduta del protove- stiario Alessio? In una delle sale del Palazzo, Andronico si incontrò con il giovane Alessio che lo attendeva, gli si gettò ai piedi, lo baciò ed abbracciò piangendo, e dichiarò so- lennemente di voler rimanere presso di lui a proteggerlo. A pochi. passi dai due stava l'imperatrice Maria: Andronico non nascose l’antico odio nutrito contro di lei, e le fece saluti brevi e freddi. Ad un inviato del Reggente egli aveva non molti giorni prima posto come condizione per accettare l’offertagli pace, il ritiro della (1) N., 330. 19. (2) Riguardo alla principessa Agnese, vedi le pagine ad essa dedicate dal Dient, op. cit., pag. 141 e segg. e lo studio citato sopra del Du Sommerarp. (3) N., 331. 6; è noto come sia da distinguere fra Filopathion interno e Filopathion esterno; cfr. N., 380. 17, e 529. 4; vedi Du Cance, Constantinopolis christiana, pag. 134 e 173, ed ora Cua- Lanpon, Jean II Comnène etc., pag. 7. 256 FRANCESCO COGNASSO 44 basilissa in un monastero; ma ora, non sappiamo per quali motivi, non osò tradurre in atto questo suo disegno. Forse giudicò la cosa ora inutile, forse credette la mossa pericolosa. Dopo quella udienza, Andronicò si ritirò in un padiglione che aveva fatto in- nalzare a poca distanza dal Palazzo, nel parco, ed attorno numerose tende avevano eretto i suoi ufficiali e molti patrizi amici. L’idolatria per Andronico già allora era tale che nella notte un povero mendicante, sorpreso in prossimità della tenda di Andronico, fu ritenuto come uno stregone intento a sue diaboliche trame contro il principe e come tale venne poi arso vivo alla presenza della folla nella Sfendone dell’Ippodromo. Dopo essersi fermato alcuni giorni in quell'ameno luogo, Andronico decise finalmente di entrare in città e recarsi al Palazzo. La solenne entrata di Andronico in città dovette certamente essere simile ai trionfi da Giovanni Il e da Manuele celebrati dopo le loro più splendide vittorie (1). Con tutti i fiori della reto- rica, ricordava Michele Acominato, in un suo discorso di non molto tempo dopo, quel solenne ingresso: “ Quale giubilo nella popolazione! Costantinopoli aveva spa- lancato tutte le sue porte: i cittadini accorrevano come sciami di api: il mare era coperto di navi e di barche...: gli stessi mostri del mare, i delfini, danzavano...; la Propontide fu come agitata o commossa da una corrente di gioia...: tutti erano desi- derosi di vedere il grande, l’eccelso Andronico, giunto finalmente, dopo tanto tempo! Egli era come una fonte da cui proveniva un fiume di pace: egli portava ai Romani miriadi di beni, lo scioglimento delle catene, il ritorno degli esuli, la caduta della tirannide, la fine dei torbidi; finalmente cessava la diuturna agitazione che trava- gliava la capitale, si aveva la liberazione dalla proterva dissipatezza del tiranno e dei Latini, si aveva la purificazione dell'impero dall’intrusione dei barbari ,. E questi erano senza dubbio i pensieri dei cittadini della capitale in quel giorno (2). Prima d'ogni altra cosa, volle Andronico recarsi al monastero del Pantocratore a visitarvi la tomba di Manuele. Dinanzi al sarcofago che racchiudeva i resti mor- tali del suo grande rivale, pianse, ci dicono, dirottamente, ma se molti per queste lacrime lo ammirarono, altri se ne fece beffe; ed avendo voluto Andronico rimanere qualche minuto solo nella cappella funeraria, alcuno più maligno affermava che avesse voluto dire al defunto cugino: “ Ora finalmente, o mio persecutore, che mi obbligasti a tante peregrinazioni e tante pene, ho vinto; e mentre tu giaci nella tomba, io pren derò le mie vendette sulla tua discendenza , (3). Quasi non potesse capacitarsi di essere il vero padrone dell’impero, Andronico andò peregrinando dall’uno all’altro palazzo imperiale, compiacendosi delle ricchezze in essi accumulate da Manuele, delle comodità che offrivano e delle quali egli faceva maggior conto ancora dopo la sua vita randagia (4). Ma presto, fermata la sua residenza al Grande Palazzo, dove meno lo turbavano i ricordi di Manuele, egli prese ad occuparsi con grande sollecitudine delle cose del governo, consacrandovi non piccola parte della sua attività; e sotto l'impulso potente (1) N., 331. (2) Mric®eLE AcommnaTo, op. cit., ed. Lambros, I, 164, n. 15. (3) N., 332. 20. (4) N., 333. 11. 45 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 257 del suo ingegno e del suo volere, una nuova vita parve ravvivare l'organismo dello Stato. Sventuratamente, in Andronico due uomini si combattevano e si contrastavano il primato: l'uomo politico, amante della patria, desideroso di farla forte, di liberarla dai vampiri che ne succhiavano il sangue, e l’uomo di parte, erede di una tradizione famigliare di lotte e turbolento egli stesso. In quell’anima ai più intensi amori si associavano gli odì più feroci; e se questi non riuscirono a soffocare del tutto la benefica attività politica e sociale di Andronico, poterono però colorirla in tal modo che i suoi propositi furono attuati con maniere violente assai spesso, feroci e san- guinose non di rado. L'aristocrazia che sotto la protezione dei Comneni si era venuta rinforzando, ed aveva rialzato il capo sì da considerarsi come la vera padrona dello Stato, doveva cercare — era logico — di opporsi alle misure riordinatrici e severe del nuovo go- verno. Quando le opposizioni furono lievi, Andronico non le curò; quando divennero veri ostacoli, egli, senza scrupoli, ricorse al carnefice. Arte di governo e morale pri- vata per lui erano cose assolutamente distinte. Per occupare il potere egli s'era giovato dell'appoggio di varî membri della famiglia imperiale, del clero, di parte della stessa aristocrazia. Tutti volevano ab- battere il protovestiario Alessio perchè erano invidiosi della sua autorità e perchè troppo pochi vantaggi dava loro; anzichè ad una purificazione del governo, mi- ravano a mettere a capo dell'Impero una persona ad essi devota, e che permettesse loro di sfruttare liberamente lo Stato. Ma Andronico non era uomo da abbandonare vilmente alla loro cupidigia insoddisfatta, alla loro libidine di guadagno, l'Impero; e trovando in lui resistenza, essi dovevano presto riprendere a combatterlo, pronti, dopo che l'avessero rovesciato, a formare un altro governo, per combattere anche questo se ancora una volta la loro avidità avesse trovato opposizione. La cesarissa Maria, determinando per la sua irrequietezza e la sua ambizione i tumulti del 1181, era stata la prima causa della venuta di Andronico, da lei desi- derato ed invocato. Quale contegno abbia tenuto essa ed il marchese Raineri, dopo l’arrivo del cugino, noi non sappiamo. Certo però, se essa credeva di potersi appoggiare ad Andronico per i suoi di- segni, si dovette ben presto accorgere del grave errore commesso, chè Andronico non aveva inteso e non intendeva certo adoprarsi in favore della cugina, e fra i due doveva quindi, a non lungo andare, manifestarsi il più vivo antagonismo. Andronico, quando aveva intrapreso la spedizione contro Costantinopoli, aveva cercato l’aiuto e l'alleanza di Giovanni Angelo Duca e di Giovanni Vatatze, personaggi di grande autorità e potenza che non gli avrebbero certo permesso di operare contro il basileus. È quindi difficile che egli già fin d’allora mirasse a sostituirsi sul trono ad Alessio, con un prestabilito piano d’azione. I pensieri ambiziosi egli dovette più pro- babilmente sviluppare ed educare dentro di sè durante la lotta ch’ei venne soste- nendo contro l’aristocrazia bizantina, osservandone l’ignavia e la incapacità. Se egli non avesse incontrato tanti ostacoli e tante battaglie, forse egli sarebbe stato contento della posizione già conquistata. Ma nella dura lotta sostenuta, il timore che il giovane basileus potesse diventare per alcuno un’arma ed una bandiera contro di lui, come già lo era stato contro il protovestiario Alessio per lui stesso, dovette Serie II. Tox. LXII 33 2 FRANCESCO COGNASSO 46 (0.0) 5 convincerlo che occorreva consacrare solennemente e legalmente il suo potere. E dalla proclamazione imperiale alla soppressione del giovane collega nell’impero breve era il passo. Come già aveva risposto a Giorgio Sifilino nel campo di Peucia, Andronico vo- leva che il governo fosse assunto personalmente dal basileus Alessio II. Nello stesso modo Romano di Lacapè aveva inteso liberare Costantino VII dalla tutela della madre Zoe. E quando fu padrone di Costantinopoli, appunto per segnare solenne- mente l’inizio del governo personale del quattordicenne Alessio, egli lo volle fare nuovamente incoronare, con Agnese di Francia, in Santa Sofia. Era la terza incoro- nazione oramai. La solenne cerimonia si svolse il 16 maggio 1182, il dì di Pente- coste. Dopo l'incoronazione, Andronico giurò fedeltà al basileus: gittatosi a terra, pose sul proprio collo il piede destro di Alessio, e per significare il suo proposito di volergli essere colonna e scudo, sollevò il cugino sulle proprie spalle. L’immensa folla accorsa dovette prorompere in clamorosi applausi diretti più al suo favorito che all'imperatore (1). La caduta del protovestiario Alessio, pare che incontrasse in molte provincie lo stesso consenso della capitale. Noi conosciamo però l'opposizione del governatore della provincia di Filadelfia, Giovanni Comneno Vatatze, Gran Domestico dell’Oriente. Aveva fatto parte della Reggenza, almeno di nome, e come già si vide, già da prin- cipio non aveya dato ad Andronico motivo di dubitare dei suoi sentimenti. Era uomo valente ed abile, ed audacemente rifiutò di riconoscere il cambiamento di governo ; non spaventato da ordini e da minaccie, decise di opporre la forza ai voleri di An- dronico. Per questo atteggiamento si ebbero in tutte le città d'Asia dissensi e lotte intestine fra i partigiani dei due contendenti; lotte più dannose all'impero, dice Niceta, che non l'invasione delle provincie d’Asia fatta poco prima dal Sultano di Ieonio (2). | Andronico non tollerò — nè poteva tollerare — una simile ribellione, ed inviò contro il Vatatze un suo partigiano, Andronico Lombardo, uno dei congiurati del- l’anno innanzi, esule poi, ed ora ritornato con il nuovo governo. Contro di lui, essendo Giovanni Vatatze caduto ammalato, scesero in campo i due suoi figli, Alessio e Ma- nuele. La battaglia avvenne presso Filadelfia. Giacchè la fortuna delle armi era incerta, e pareva piuttosto piegare verso gli imperiali, Giovanni Vatatze si fece tras- portare in lettiga su di una altura prospiciente il campo di battaglia, e le sue milizie rianimate dalla presenza del duce, riportarono bella vittoria sul nemico. Ma senza alcun risultato, chè, pochi giorni dopo, Giovanni Vatatze veniva a morte; Filadelfia sì affrettò a pronunciarsi in favore di Andronico ed a lui mandò ambasciatori per umiliarsi ed attribuire la colpa della ribellione ai Vatatze: i due fratelli Alessio e Manuele Vatatze si affrettarono a varcare il confine per rifugiarsi ad Iconio, dove speravano di trovare appoggio presso quel vecchio Sultano, allora in rotta con l'impero. Ma anche qui sol poco tempo poterono posare; il Sultano infatti rifiutò di sostenerli (1) N., 343. 8; cfr. De Muratm, op. cit., I, 215. (2) N., 340. 18; da N. 343. 8 risulta che la lotta con il Vatatze è anteriore alla incoronazione di Alessio II, della Pentecoste del 1182. 47 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 2599 con le armi, ed essi dovettero imbarcarsi per la Sicilia, senza giungervi, che, spinti da una tempesta sulle coste di Creta, e riconosciuti, per quanto il governatore dell’isola desiderasse salvarli, vennero poco dopo, per ordine di Andronico, accecati (1). La cerimonia della Pentecoste in Santa Sofia, non valse a conciliare ad An- dronico gli animi di molti malevoli. Le potenti famiglie degli Angelo e dei Conto- stefano erano, pare, il principale suo incubo. Andronico Contostefano, il megaduca, era troppo gran personaggio, per non sentirsi, almeno in parte, adombrato dalla nuova grandezza del cugino; aveva tradito una volta, una seconda volta poteva tradire (2). Andronico Comneno, che tanti anni era stato lontano dalla capitale, apparteneva ancora, per formazione intellettuale, ad un'età precedente, e poca simpatia, a parte anche ogni antagonismo politico, aveva per questa effeminata aristocrazia che con- fondeva mollezze orientali ed occidentali, incapace di ubbidire e di comandare. Nei funzionari che ebbe al suo servizio, trovò poca volontà di operare, e si comprende che Andronico si sentisse qualche volta sfiduciato, e minacciasse di volere abban- donare il governo, per ritirarsi nuovamente nella sua remota provincia. È vero che Kustazio di Tessalorica lo accusa di aver ciò detto, e non una volta sola, affinchè . il popolo lo invitasse a restare e gli confermasse i) suo appoggio, ma questo fatto mostra appunto come Andronico combattendo l’aristocrazia intendesse interpretare i desideri del popolo, e volesse assicurarsene la fiducia, prima di impegnarsi in una lotta violenta. L’aristocrazia insofferente di imposizioni, solo tollerava Andronico in quanto aveva timore del popolo, ed i suoi desideri — e la sua ignavia — inter- pretava certo quel patrizio che venuto a contesa con Andronico, alle costui minaccie di ritornarsene in Paflagonia, rispose aspramente, lo facesse pure, senza preoccuparsi dell'impero, la Odegitria sarebbe stata sufficiente a difenderlo (3). Andronico per rimediare a questo stato di cose, licenziati quanti seguivano opi- nioni a lui avverse, volle circondarsi di amici fidati, collocò nelle dignità di corte, nelle cancellerie imperiali, gente nuova, molti venuti con lui dalle provincie d'Asia, che, se ai bizantini parevano barbari, erano a lui devoti; il basileus e l'imperatrice madre furon circondati da una fitta rete di sorveglianti e di spie che controllassero ogni loro atto, ostacolando le relazioni degli estranei, dei suoi avversari in ispecie, con l’imperatrice (4). Dati i motivi per i quali Andronico era salito al potere, era a temere che alcuno, che: molti, anzi, per suo mezzo, sotto specie di punire malversazioni e malversatori, cercassero vendetta contro privati nemici. Ma benchè attorno a lui si agitasse un nugolo di adulatori e delatori, desiderosi di mettersi in evidenza, Andronico proce- dette con abilità ed oculatezza. Più: di una volta colpì con destituzioni, trasferimenti, o pene più gravi, invece che gli accusati, gli accusatori; non solo condannava seguaci del governo precedente, ma quei malversatori del pubblico erario che speravano di poter gettare un pio velo sulle loro colpe, sbracciandosi nel sostenere e magnificare il nuovo governo. Così Giovanni Cantacuzeno che si affannava ad accusare un tal (1) N., 341-342: cfr. inoltre la Vita di Giovanni Vatatze; ed. cit., in BZ, XIV, pag. 163 e segg. (2) E., 398. 11. (3) E., 398. 18; 402. 16. (N, 333: 23. 260 FRANCESCO COGNASSO 48 Tziza come colpevole di tenere relazioni politiche con il basileus Alessio, venne egli stesso colpito, e così quello stesso Teodoro Dadivreno, prefetto dei Varangi, devo- tissimo ad Andronico, fu fatto per suo ordine, una volta, frustare a sangue (1). A metterlo maggiormente in cattiva luce presso l'aristocrazia bizantina, con- tribuivano assai i suoi rapporti con i più influenti capi del popolo (2). Appunto per l'appoggio della borghesia e delle classi inferiori, Andronico aveva abbattuta la Reg- genza. E si capisce bene il perchè di questo appoggio. Solo con l’aiuto delle truppe di Andronico era stata distrutta la potenza commerciale dei latini; i vantaggi che di qui ne dovevano — od, almeno, speravasi dovessero — scaturire, spingevano tutta la classe dei commercianti e dei lavoratori verso il nuovo governo, che usò uomini nuovi, abili ed energici dei quali gli storici bizantini, se parlano con dispregio, devono riconoscere le grandi doti, la. grande capacità: venuti su dal popolo, erano delle tendenze popolari presso Andronico i rappresentanti diretti. Costantino Patreno, uomo del popolo, è per Eustazio mirabile modello di adulatore, dopo essere stato avversario di Andronico. Michele Aplucheir, affabile all’eccesso nel trattare, terribile nelle malvagità, era non solo uomo politico, ma anche poeta; Stefano Agiocristo- forite, il principal ministro di Andronico, era uomo abilissimo. Plebeo, figlio di un collettore d’imposte, aveva osato sposare una patrizia; le pene infamanti che lo ave- vano, a quanto pare, colpito, la frusta e la recisione del naso, non avevano per nulla diminuito la sua audacia e la sua influenza sul popolo. Una novelletta raccolta da Eustazio ce lo descrive come cinico fino alla spudo- ratezza, ma certo è che egli aveva già sotto Manuele raggiunto un importante ufficio nell’ esercito; Andronico, poi, ricompensò la sua devozione, facendolo Sebasto e Logoteta del Dromo; ma il popolo lo odiava: lo chiamava non Agiocristoforite, ma Anticristoforite; lo giudicava il più malvagio dei funzionari imperiali (3). Il governo di Andronico fu detto essere stato una serie innumerevole di incar- cerazioni, acciecamenti, confische, esecuzioni (4). Ma questo è solo in parte vero. Il governo di Andronico si divide in varii periodi contrassegnati da un diverso grado di violenze, cui egli arrivò via via insensibilmente, mentre cercava di compiere il suo programma. Del resto il suo rigorismo pare fosse per qualche tempo accompa- gnato dal consenso della popolazione. F La basilissa Maria, per quanto trascurata ed allontanata completamente dagli affari, non aveva sentito la convenienza di ritirarsi decisivamente a vita privata, ma se ne era rimasta a Palazzo, sperando che non si sarebbe osato toccare la madre dell’imperatore, mentre, quand’anche non fomentasse intrighi secreti contro Andronico, essa, con la sola sua presenza, doveva costantemente tenere sveglia l’attenzione e la diffidenza dell'avversario, che presto o tardi si sarebbe stancato della sua ostina- zione. Nella seconda metà del 1182 si venne rapidamente determinando la lotta fra (1) N., 335. 11 e segg.; 429. 21. (2) E., 403. 9. (3) E., 405. 1 e segg.; per Michele Aplucheir, vedi Trev in BZ., I, 1892, pag. 338-339; che Ste- fano Agiocristoforite fosse Logoteta, risulta pure dai Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 258. (4) Cfr. fra gli altri, Gerzer, Abriss der byz. Geschichte in K. Krumsacarz, Geschichte der byz. Litt., pag. 1028. 49 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 261 Andronico e la basilissa. Noi non sappiamo se allora fossero ancora ‘in vita i Cesari. Sulle voci che corsero allora in Bisanzio su quelle morti, e che Niceta ci riferisce, senza affermarne neppur egli l’esattezza, non possiamo in alcun modo decidere. Si disse che la Cesarissa fosse stata avvelenata con vivande, da un suo eunuco, tale Pterigionite, corrotto con denaro da Andronico, e tal voce parve confermata dal- l'essere seguita, a non molta distanza, la morte di Raineri di Monferrato, che fu detto anch'egli avvelenato. Fosse la loro morte procurata da Andronico, o puramente naturale, certo è che nella principessa Maria scomparve quello che sarebbe stato un grave ostacolo per Andronico Comneno (1). La rottura dei rapporti amichevoli, che erano fino allora corsi fra Bisanzio ed il Regno d'Ungheria, offri mezzo ad Andronico di liberarsi della basilissa Maria. Morto Manuele, parve infatti a Bela di potersi considerar sciolto dagli obblighi con giuramento verso di quello contratti (2). Nonostante l'educazione ricevuta alla Corte imperiale, egli, che sentiva altamente i suoi doveri verso la nazione ungherese, con- siderò come un fine da raggiungere senza esitazione, la rioccupazione di Branitevo e di Belgrad, la conquista della Dalmazia. E nel 1182, approfittando delle lotte di Bisanzio, un esercito ungherese varcò i confini mal guardati da deboli presidi, spin- gendosi fino a Sofia, di dove portò a Gran — prezioso bottino! — le reliquie di S. Giovanni di Rila. Contro di lui Andronico inviò con un esercito Alessio Brana ed Andronico Lombardo, il vincitore di Giovanni Vatatze. La guerra continuò ancora nell’anno seguente; contro gli Ungheresi appoggiati dai Serbi, rimase, per la ribel- lione del suo collega, il solo Alessio Brana. Branicevo, Belgrado, Nis ebbero nella guerra danni gravissimi, furono anzi ridotti in rovina, ma Bela non potè mantener- visi e dovette rivarcare il fiume; ancora sei anni dopo, i crociati di Federico Bar- barossa poterono vedere le ruine fatte dagli ungheresi (3). La Dalmazia che da soli quindici anni era stata riconquistata da Bisanzio e riorganizzata in un ducato fu però definitivamente perduta per l’impero (4). Ora il destino della basilissa Maria fu deciso. Andronico non aveva cessato mai, dopo il suo ritorno a Bisanzio, di accu- sarla di raggiri e di insidie al basileus Alessio ed a sè stesso, di tentativi per (1) N., 336. 21, WT., XXII, xr1, 1086, dove, a proposito della incoronazione della Pentecoste 1182, sì dice: “ sororem [di Alessio] quoque et sororis maritum, simul et matrem imperatoris, intra septa palatii, adhuc tractans humanius ,. L'ultimo ricordo di Raineri è fatto l’8 agosto 1182, nella pace fra Vercelli e Guglielmo V (cfr. Braper, op. cit., pag. 26). (2) G., 287. 6; N., 347. 1; cfr. Huser, Geschichte Oesterreichs, I, 371; JiRECECE, op. cit., I, pag. 265. (3) N., 349; 363. 18; AnsBerto, op. cit., pag. 30; cfr. Drinov, in “ Archiv fiir slavische Philo- logie ,, II, 173. (4) Cfr. Craranpon, Jean Il Comnène etc., pag. 490. Lo stesso autore in Hist. de la dom. des Norm., II, 280, crede che la provincia di Dalmazia, dopo la conquista bizantina. fosse stata deno- minata Provincia di Schiavonia: la prova sarebbe nella presenza in Dalmazia nel 1180 di un fun- zionario imperiale “ Rogerio Selavone Duca ,. Ma il doc. del 10 giugno 1180 (in Swrctrras, Codex Diplomaticus Regni Croatiae ete., II, n. 165) dice “ in ducatu Dalmatiae et Croatiae existente domino Rogerio Sclavone duca ,; dunque non ducato di Schiavonia, ma Ducato di Dalmazia e Croazia. Il duca che si chiamava davvero Roggero Sclavo, è da identificarsi non con il figlio del Cesare Rog- gero, marito di Maria, sorella di Manuele, ma con quel barone normanno di tal nome che si ribellò a Guglielmo II e, sconfitto, dovette andare in esilio, come dice Romualdo di Salerno, “ ultra mare , (MG., SS.. XIV, 432). Roggero Sclavo era figlio naturale di Simone, conte di Policastro (vedi Ugo Falcando, ed. Siragusa, pag. 63). 262 FRANCESCO COGNASSO 50 riacquistare il potere. Fossero esatte o no, queste accuse dovevano nel popolo, ecci- tato dalle non ancora dimenticate giornate di aprile, fomentare nuove agitazioni, e nuovi torbidi. L’espulsione di Maria d’Antiochia dal Palazzo fu il primo atto di Andronico. Ma occorreva far approvare tale decisione dal patriarca e da un’assemblea di giu- dici imperiali ed altri dignitari, sia perchè il provvedimento avesse alcuna veste di legalità, sia perchè l’odiosità del fatto, e ie conseguenze, non ricadessero in ogni caso sul solo Andronico (1). La risolutezza di Andronico, la pressione del popolo strapparono il consenso agli uni ed agli altri. La basilissa si sarebbe forse ancora salvata se avesse voluto volontariamente allontanarsi dal Palazzo e dalla Capitale, ma essa si ostinò a rima- nere colà, quasi avvinta da una forza segreta a quel rudere di trono che andava ruinando. Andronico chiese al Patriarca il suo consenso all’allontanamento di Maria d’Antiochia da Palazzo. Teodosio, che ricordava certo, tristemente, come egli stesso con il suo contegno nelle passate vicende avesse concorso a produrre il presente stato di cose, sentendo profonda pietà verso la sventurata principessa, cercò di op- porsi alle intenzioni di Andronico. Ma questi, gettando, forse, nuovamente la minaccia di abbandonare il governo, fece sì che il popolo si sollevasse. Nuovamente Costan- tinopoli fu in tumulto: dalle officine e botteghe a frotte si diressero gli operai verso il Foro Augusteo ed il Palazzo Patriarcale, imprecando all’ Imperatrice ed al Pa- triarca che pochi mesi prima avevano portato in trionfo come un Iddio. Irruppero, pare, nel Patriarcheion, e fra i clamori della plebe, minacciante cose peggiori, il Patriarca rinunciò alla sua resistenza, ed accettò il decreto di Andronico. Questi, d’altra parte, vinceva la resistenza incontrata nell'adunanza dei giudici, presso i quali egli stesso intervenne a presentare e ad appoggiare la sua proposta. Mentre i più servilmente inclinavano ad acconsentire, tre giudici che non ancora avevano aderito al partito di Andronico, Demetrio Tornicio, Leone Monasteriote; Costantino Patreno, osarono resistere, chiedendo se quell’adunanza fosse stata ordi- nata da un decreto imperiale. Era questa od audacia straordinaria o colossale inge- nuità. Ma Andronico, furioso di vedersi contrariato, si alzò di scatto dal suo seggio, urlando ai suoi partigiani ed armigeri: “ Eccoli, quelli che consigliavano al Proto- vestiario le sue malvagità! Arrestateli! ,. I Varangi che facevano corona al suo seggio, si slanciarono contro i tre poveretti e li spinsero fuori della sala del con- siglio, ma quivi i giudici furono assaliti dalla folla che, strappatili ai loro cu- stodi, li andò malmenando e vituperando per tutta Costantinopoli, sì che fu caso avventurato l’aver essi potuto salvar la vita (2). Sgominata così la piccola Dupri zione, Andronico ottenne dal tribunale quanto voleva. Questa violenta levata di scudi contro l’Imperatrice per parte di Andronico è strettamente connessa ad una cospirazione contro lo stesso Andronico. Gli aderenti a questa congiura avevano giurato di non darsi requie prima di aver schiacciato il . loro fiero nemico (3). Se la basilissa Maria fosse a parte di questo progetto, noi non (1) N., 343. 19; E., 400. 17. (2) N., 344 e segg. 3) N., 345. 51 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 263 sappiamo; ma era logico che Andronico colpisse con i cospiratori anche chi, legit- timamente o no, doveva essere ritenuta l’anima della congiura, chè solo a suo favore sarebbe questa riuscita. Ma tutte queste mene fallirono contro la sorveglianza di Andronico, e molti pagarono o con il carcere o con la vita stessa la loro arditezza e sfortuna. Le mag- giori famiglie del patriziato bizantino furono colpite: Andronico Angelo, ora nuova- mente propenso all’imperatrice, riuscì a fuggire con i figli, nascondendosi in una nave carica di vasi vinari; Andronico Contostefano, che, pentito forse d'aver vali- damente cooperato ad abbattere il governo della Reggenza, parteggiava anch'egli contro il nuovo governo, con quattro suoi figli fu arrestato, così pure Basilio Cama- tero, Logoteta del Dromo, nipote del famoso ministro di Alessio I e Giovanni II; tutti quanti furono abbacinati; alcuni, come il Logoteta Camatero, privato anch'esso solo di un occhio, furono poi inviati in esilio in Russia. Non pochi patrizi furono incar- cerati ed accecati anche per il solo sospetto che avessero partecipato alla cospira- zione. Poco più tardi caddero nelle mani di Andronico due figli di Andronico Angelo, poi il loro cognato Giovanni Cantacuzeno, ed anch'essi vennero abbacinati (1). Andronico Comneno rispose adunque a questa vasta cospirazione colpendo la basilissa; strappato, come sopra vedemmo, il consenso del patriarca e del tribunale imperiale, la disgraziata principessa già era stata arrestata, separata dal figlio e tradotta dal palazzo imperiale al monastero di S. Diomede, vigilata rigidamente, trattata in modo orrendo. Ora l'accusa di tradimento, di rapporti con il re d’Un- gheria, fu nuovamente presentata da Andronico al tribunale, cui chiese qual pena stabilissero per i traditori le costituzioni dell’Impero. I giudici risposero proponendo la morte: tosto una crisobolla fatta firmare al disgraziato Alessio II sancì la con- danna, ed ordinò l'esecuzione della sentenza contro la madre (2). Andronico affidò la direzione della esecuzione al figlio maggiore Manuele ed al cognato, il sebasto Giorgio (3). Si ebbe in risposta un aspro rifiuto, chè essi dichia- rarono solennemente di non approvare la condanna e di non voler quindi farsene complici. Di qui scene tragiche a Palazzo, imprecazioni di Andronico, lamenti per la sua sventura di non trovar nemmeno in famiglia fedeli esecutori dei suoi ordini. Pochi giorni appresso, grazie al fedele Costantino Tripsico ed all’eunùco Pteri- gionite, la figlia di Raimondo d’Antiochia giacque soffocata sul giaciglio della cella monastica che aveva visto le ultime sue sofferenze, e le profonde acque del Mar di Marmara l’accolsero misteriosamente (4). (1) N., 345 e segg.; riguardo alla famiglia Contostefano, cfr. le due lezioni differenti del cod. A, che attribuisce complessivamente alle due famiglie Contostefano ed Angelo sedici figli e del cod. B, che parla solo di undici figli. Poichè da N. 313. 23 pare che Andronico Angelo avesse cinque figli, è probabile che Andronico Contostefano ne avesse sei. La cattura del Cantacuzeno è narrata da N. a pag. 336, ma dal contesto appare chiaramente a quale serie di fatti si riferisce; per gli esiliati in Russia, cfr. Lamsros, op. cit., I, 346. 6. (2) N., 347. 1; E., 400. 22. (3) N., 348. 1 e segg. Non sappiamo a quale famiglia appartenesse la prima consorte di An- dronico: il nome di Giorgio dato al cognato, può forse far pensare alla famiglia Paleologa; certo non credo possa riferirsi a lui il sigillo di Giorgio Comneno, dato dallo ScaLumEERGER, Op. cit., pag. 641. (4) N. 348. 18. 264 FRANCESCO COGNASSO 52 Così la sciagurata principessa terminò la sua vita, e dopo aver goduto le gioie e gli splendori del trionfo per vent'anni, seppe alla fine tutti gli orrori della caduta. In verità non ci resiste l'animo d’imputare a Maria d’Antiochia colpa alcuna per quanto era successo. I contrasti di idee, di interessi che la vollero loro vittima, domandavano persone che avessero ben diversa capacità intellettuale del proto- sebasto Alessio e dell’imperatrice Maria. In quel terribile cozzo di due tendenze essa fu attrice inconscia ed incapace: gli eventi la sorpresero smarrita e sbigottita, senza sostegno e senza energia, e si accasciò e cadde su quel trono che tanto aveva amato (1). i Il popolo, che aveva aiutato Andronico ad abbatterla, considerò quella morte come una vendetta, e ne gioì; pochi — ed in segreto — la compiansero. Sfogata la sua libidine di vendetta, Andronico procedette con maggiore sicu- rezza e tranquillità nell'attuazione dei suoi progetti. Dopo quel primo colloquio nel campo di Damali, Andronico ed il Patriarca averano avuto modo di incontrarsi in varie circostanze, ad esempio, nella incoronazione del basileus Alessio. Ma i loro rapporti non erano punto migliorati: anzi nè l’uno nè l’altro avevano mai nascosto reciprocamente i proprii sentimenti. Ci si narra come un giorno in cui Andronico discorrendo con il patriarca Teodosio si era lagnato che questi non avesse, avanti il suo arrivo, assunto di fronte al Protovestiario la protezione dell’imperial pupillo con maggiore energia, come sarebbe stato suo dovere, Teodosio Boradiote rispose seusandosi e dicendo che, occupato come egli era in tante faccende, aveva creduto sufficiente il visitare il basileus ad intervalli, e malignamente avrebbe aggiunto avere dovuto ora, da quando egli Andronico era ritornato, rinunciare a prendersi cura qualsiasi del giovane Alessio. Con questa frase, secondo il cronista, egli avrebbe fatto sentire come egli conoscesse oramai che il basileus era bellamente spacciato. Andronico arrossì, sorpreso di questo attacco improvviso, vedendo che l’ay- versario aveva indovinato i progetti che venivano nel suo animo segretamente ma- turando, e gli intimò di spiegare le sue parole; ma il patriarca ironicamente gli disse che credeva inutile la sua protezione, essendo il basileus oramai al sicuro grazie alle cure di Andronico. Ed il discorso piegò istintivamente per parte di entrambi ad altre cose; ma queste schermaglie ben dimostravano l'animo di Andronico e di Teodosio (2). Andronico Comneno doveva aver certo compreso come ogni suo progetto avrebbe trovato sempre opposizione nell’austero monaco di Boradion: occorreva quindi cer- care di sostituirlo con un individuo più malleabile, termine che in questo caso voleva significare meno onesto. L'opposizione fatta da Teodosio alle prime intenzioni di (1) Il racconto di Niceta non ci dà elementi sufficienti per stabilire la data della morte della basilissa. Codino (op. cit., 160. 10) dice che Maria regnò con il figlio Alessio un anno, undici mesi e tre giorni; Andronico con Alessio pure un anno, undici mesi e ventiquattro giorni; Andronico solo, un anno, dieci mesi e giorni dieci. Ma i due primi dati sono probabilmente errati. Alessio II, infatti, regnò, con Andronico, dal maggio 1182 al settembre 1183; con la madre solo dal 24 set- tembre 1180 all'aprile 1182. Il De Muralt (op. cit., I, 214) mette la morte di Maria d’Antiochia alla fine dell’agosto 1182; credo che debba ritardarsi di qualche mese. È probabile che non alle gior- nate d’aprile, ma alla prigionia della basilissa si riferisca il doc. di cui vedi al cap.IV, pag. 299, n. 1. (2) L'aneddoto è narrato da E., 309. 11, dal quale lo toglie N., 328. 19. bs PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 265 Andronico riguardo alla basilissa, diede modo all’abile uomo di smorzare l'entusiasmo ortodosso del popolo e staccare questo dal patriarca, il cui prestigio soffrì non poco, additato come il protettore della basilissa Maria, colpevole di tradimento; ed è assai probabile che quando la basilissa Maria perì, Teodosio Boradiote non fosse più sul trono patriarcale di Costantinopoli. La causa fu una nuova e più grave controversia, sorta certamente ancora nel 1182. Vivevano a Corte insieme con Andronico i varii suoi figli avuti sia nel matrimonio sia nel concubinaggio con l’ex-regina di Geru- salemme, Teodora. Maria, la figlia legittima, della cui energia è prova l’ardimentosa fuga dalla metropoli fino a Sinope, sposò in questi anni un tal Teodoro Sinadeno, strin- gendo poi forse, alla morte dello sposo, nuovi legami matrimoniali con quel Romano che troviamo nel 1185 indicato come genero di Andronico (1). La figlia illegittima, Irene, volle egli unire al figlio illegittimo di Manuele, il protostratore Alessio. Il matri- monio era contrario alle leggi della chiesa bizantina in quanto Irene ed Alessio erano cugini in secondo grado, ma questo non poteva essere un ostacolo per An- dronico che si incaponì nel volere il matrimonio, sebbene la sproporzione d’età fra i due cugini non fosse piccola. Questa decisione non può trovare una spiegazione sufficiente solo nell'amore profondo che Andronico nutriva ad un tempo per la figlia e per il protostratore Alessio. Andronico obbediva a motivi in parte politici. Infatti, poichè sorsero nel clero opposizioni violente al suo progetto, Andronico presentò alla Sinodo una laconica memoria in cui giustificava il matrimonio, affermando che, mentre presentava solo piccolo difetto rispetto ai canoni sacri, esso era di grande importanza politica “ per l'unione dell'Oriente con l'Occidente, e per la liberazione dei prigio- nieri , (2). Sebbene la cosa non sia molto chiara, è probabile che Andronico inten- desse acquistarsi l’animo di quanti, conservando gelosamente nel cuore il ricordo del basileus Manuele, non s'erano ancora affezionati al suo governo. Ma in qual modo per Andronico e per l’impero, quel matrimonio significasse accordo fra l’Oriente e l'Occidente, è difficile spiegare. Forse esso significava paci- ficazione fra la tendenza nazionalista ed il partito latinofilo, nel comune amore per la dinastia e per la patria; forse esso significava un riavvicinamento con l’Occidente europeo, con l'impero tedesco. Così si dovrebbe supporre da quanto più tardi dice Niceta, ritornando su tale argomento. I partigiani del matrimonio fra Alessio ed Irene sarebbero andati affermando che per esso nuovamente si sarebbe avverato quanto col tempo era decaduto e tralasciato, e, riappacificato l’Oriente con l’Occi- dente, sarebbe cessata l’antica ostilità, si sarebbero affratellati popoli pur così diversi per lingua e per costumi, ed alla pristina inimicizia sarebbe succeduta un’'uguaglianza di costumi..... (3). È da ricordare ancora a questo proposito che nell’estate del 1182 passava per Costantinopoli, diretto in Palestina, Leopoldo d'Austria, figlio dell’ar- ciduca Enrico e di Teodora Comnena, ancora, in quell’anno, vivente (4). Sappiamo (1) E., 423. 14. (2) N., 330 e segg. (3) N, 402. 14. (4) Sull’arcidaca Leopoldo e la madre Teodora, vedi la Continuatio Zwetlensis altera, MG., SS., IX, 542; la Continuatio Claustroneoburgensis secunda, ibid., 612; la Continuatio Cluustroneoburgensis tertia, ibid., 633. Serie il. Tom. LXIL 34 266 FRANCESCO COGNASSO 54 come fosse ricevuto a Corte con grandi onori, nonostante la freddezza, l'ostilità anzi, fra i due imperi; forse il matrimonio in questione — Alessio era fratello uterino di Leopoldo — è da mettersi in rapporto con la politica estera di Andronico. Non è però da insistere troppo su tale supposizione. Riguardo poi all’essere il matrimonio necessario per la liberazione dei prigio- nieri, nulla pure si può dire: solo si può supporre che si-trattasse di avversari di Andronico, incarcerati, che egli prometteva di liberare per compiere la pacificazione degli animi. Nel luglio del 1132 usciva un importante editto di Alessio II, che as- solveva dall’accusa di lesa maestà quei patrizi che si erano uniti con giuramento, poichè non era la loro una congiura, ma un giusto giuramento fatto in favore del basileus. Sventuratamente dell’editto ci giunse solo un breve riassunto che non ci permette di precisare se si tratti di una cospirazione contro Andronico, o, come è più probabile, di quella contro il Protosebasto dell’anno precedente (1). In ogni modo, la questione del matrimonio era grave per la Sinodo: da una parte l’inflessibilità dei canoni, dall'altra la necessità politica. La discussione fu vivacissima, e finì per essere favorevole ad Andronico, che aveva a sè guadagnato, con doni, promesse e minaccie, molti prelati e giudici. Alcuno fra i giudici, gente avida di denaro ed abietta, osò anzi sostenere la perfetta legittimità del matrimonio con questo argomento: l’uno e l’altro dei fidan- zati era illegittimo e nato da matrimonio incestuoso; quindi non esisteva fra di essi alcuna parentela di natura. Era un farsi gioco del diritto e dei canoni, ma a qualche cosa poteva servire con gli ingenui. Adunque l’opposizione si ridusse presto al patriarca ed a pochi vecchi prelati; e poichè la Sinodo approvò il matrimonio, l’inflessibile Teodosio Boradiote abban- donò, sdegnato, il palazzo patriarcale, e si rifugiò nell’iscla di Anderovithos, sul Mar di Marmara. Quivi, presso alla tomba che già s'era costrutto, rimase fino alla morte avvenuta solo varii anni dopo, consolandosi nei prediletti lavori agricoli e nella cor- rispondenza con il dotto vescovo di Atene, Michele Acominato (2). Qualora Teodosio di Boradion non avesse deciso di cedere il campo spontanea- mente, noi non sappiamo se Andronico avrebbe osato procedere a misure energiche contro di lui. Ma ora che il patriarca si era ritirato, Andronico, lieto, non tardò a chiamare all'alto seggio il Cartofilace di Santa Sofia, suo devoto seguace, il diacono Basilio Camatero Filacopulo (3). Ancora prima, durante la vacanza patriarcale, il matrimonio tanto desiderato e tanto contrastato veniva benedetto dall’ arcivescovo di Bulgaria, allora presente a Costautinopoli (4). Assai probabilmente Andronico con- ferì ora al suo genero il titolo di Sebastocratore (5). (1) Vedi Zaczariae von LixGentHAL, Jus graeco-romanum, INI, 307, n. 82. (2) Sull’isola di Terebinto (= Anderovithos) cfr. Biirrner-Wossr, in BZ., VI, 98; ParGorre, Les monastères de Saint Ignace et les cinq plus petits îlots de l’Archipel des Princes, in “ Yzyvjestja , del- l'Istituto Archeologico russo di Costantinopoli, VII, pag. 64; sulla corrispondenza del patriarca Teodosio con il vescovo di Atene, vedi Laxsros, op. cit., II, 68. (3) N., 339; cfr. il catalogo dei patriarchi di Costantinopoli in Baspuri, Imperium Orientale, I, 198. (4) N., 339 e segg. (5) N., 556. 2 e segg. 55 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 267 Mentre Andronico trionfava del clero, il suo governo andava incontro ad una difficile crisi: alcuni grandi funzionari, alcuni membri di quella prepotente aristo- crazia, stanchi di quella sorveglianza incessante, di quella severa repressione di abusi e di malversazioni, si ribellarono apertamente, e qualche città d'Asia aderì ad essi. Im una città gl’ insorti sono capitanati da un Cantacuzeno, in un’altra dagli Angelo. Dopo la fuga da Costantinopoli, Andronico Angelo era giunto con i figli ad Acri, dove, forse per le sofferenze del viaggio, venne poco dopo a morte (1). Lui morto, alcuni dei figli si illusero di poter ritornare senza pericolo a Costantinopoli ; ma giuntivi, tosto furono accecati. Alcuni altri, che diffidavano, ed a ragione, di Andronico, si recarono presso il Saladino e quindi portatisi nelle provincie asiatiche dell'impero, innalzarono la bandiera della ribellione. Fra la riscossa aristocratica d'Asia e la fiducia assoluta ed immutata che il popolo della Capitale riponeva nel governo di Andronico, non era facile trovare una via conciliativa. Ed agli «aristocratici, postisi con la ribellione fuori della legge, il popolo rispose proclamando basileus il loro martello, Andronico. Poichè infatti, più che di un colpo di Stato di Andronico per soddisfare solo la propria ambizione, si tratta di una necessità riconosciuta da lui come da tutto il popolo. I ribelli di Bitinia davano al loro movimento un indirizzo recisamente avverso ad Andronico, e per giustificare la loro ribellione ed acquistarsi le simpatie dell’ele- mento devoto al giovane basileus, affermavano di voler restituire la libertà al basileus. Ad impedire che la corrente che aveva portato Andronico al governo venisse scon- fitta dalla reazione, era urgente che al più presto si investisse Andronico di una auto- rità sacra ed inviolabile (2). In una adunanza cui intervennero numerosi partigiani di Andronico, fra i quali il logoteta Stefano Agiocristoforite, il patriarca Basilio Camatero, numerosi borghesi e plebei, alcuni patrizi, fu deciso di fronteggiare gli avvenimenti, allargando i poteri di Andronico, elevandolo cioè alla dignità di basileus e collega di Alessio II (3). Certo, essi interpretavano quella che sapevano essere una vecchia aspirazione di Andronico; quanti sedevano in quel consiglio dovevano ad Andronico la loro fortuna, ed il suo innalzamento speravano che si rivolgesse anche per loro in un beneficio. Ma nessuno v'era fra essi, e neppure nella moltitudine cittadina, che non lo ripu- tasse degno della suprema dignità, e tutti giudicavano che non altrimenti l'Impero avrebbe potuto essere libero dalle agitazioni che lo travagliavano (4). Così, bal- zando in piedi, lanciarono solenne l’ acclamazione di rito: “ Ad Alessio ed An- dronico, grandi basileis ed autocratori dei Romani, Comneni, molti anni di vita!, {settembre 1183). (1) Le notizie sulla fuga degli Angelo ci sono date dalla nota “ Lettera dall'Oriente, inserta nel Chronicon Magni Presbyteri, in MG., SS., XVII, 511; vedi la critica fatta a questo documento dal Riezuer, Der Kreuzzug Kaiser Friedrichs IL in € Forschungen zur deutschen Geschichte ,, X, 37, e la difesa fattane dallo Hey», Histoire du commerce dans le Levant, I, 230. (2) N., 349; E., 407 e segg. Cfr. Lampros, op. cit., I, pag. 220 e segg. (3) N., 350-351; E., 408-409; riguardo alle fonti latine, è da ricordare la deformazione leggen- daria che vi assumono i fatti, anche se le notizie sono provenienti da fonte eccellente, come ad esempio, nei Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, pagg. 251 e segg. (4) N., 349. 18. 268 FRANCESCO COGNASSO 56 Rapidamente la notizia della proclamazione si sparse per la città; da tutte le case, da tutte le officine, popolani e borghesi accorsero come sciami d'api verso il palazzo imperiale, congratulandosi, acclamando ad ambedue i basileis, ma special mente al nuovo eletto. Nelle vie, sulle piazze, siimprovvisarono danze e canti in segno di gioia, e si videro persino dei funzionari, un giudice del velo ed un protonotario partecipare alla pazza allegria del popolo (1). La proclamazione imperiale era avvenuta nel palazzo detto di Michelitza, che faceva parte del Patriarcheion. Quando l’annunzio fu recato ad Andronico, egli dal Grande Palazzo si recò alle Blacherne. E là nel Palazzo che varii autocratori avevano innalzato, che da Manuele era stato riedificato quasi completamente ed abbellito con immenso sfarzo, sì da essere dal popolo deno- minato “ lo Splendidissimo ,, in quella sala forse che i pittori bizantini avevano ornato — solenne apoteosi di Manuele — delle rappresentazioni delle sue gesta bellicose contro i barbari, Andronico Comneno ricevette l’annuncio ufficiale della sua elezione. Stefano Agiocristoforite, il patriarca Basilio ed altri l’invitarono ad assumere la corona, e poichè egli — fosse o no sincerità — esitava e rifiutava, essi insistettero, pregarono, scongiurarono in nome del popolo e dell’impero, affinchè non chiudesse quella che era l’unica via per provvedere alle necessità urgenti. Ed alle preghiere dei varii personaggi aggiunse le sue il basileus Alessio, il quale, avvisato dell’avvenimento dalle acclamazioni festose del popolo, si era affrettato, senza comprendere la gravità della cosa, a festeggiare il cugino e protettore. i Ma Andronico si ostinava a non piegare, e gli altri maggiormente si commo- vevano ; la farsa, poichè ad un qualche cosa di simile si ridusse presto la cosa, si svolse alla perfezione: suppliche e dinieghi, terrore dei supplicanti, timore che il rifiuto fosse decisivo; tentativi di Andronico per sottrarsi alle preghiere, all’onore troppo grande — e che egli tanto desiderava —, sua fuga per le aule del palazzo, inseguimento, poi l'imposizione solenne e perentoria del patriarca e quindi la resa. Andronico fu assiso sul seggio patriarcale e, dimessi gli abiti modesti che tuttora indossava, vestì la clamide imperiale, calzò i purpurei calzari. Intanto una folla di gente, pazza di gioia, si recava al Palazzo Grande, ed andava a proclamare Andro- nico nel tempietto del Salvatore che sorgeva attiguo al palazzo di Calcè. Già il giorno appresso, in mezzo a grande concorso di popolo, Basilio Camatero incoronava i due imperatori colleghi, Alessio per la quarta volta, Andronico per la prima volta, in Santa Sofia (2). Dopo l'incoronazione, dovendo ricevere, come era tradizione, il Pane Divino, Andronico, preso in mano il calice portogli dal Patriarca, giurò ad alta voce dinanzi a tutto il popolo che egli aveva acconsentito alla elezione, solo per proteggere meglio il giovane basileus Alessio. Nuovamente avvenne l’accla- mazione ai due basileis, ma la formola era stata ora modificata: ora il popolo acclamò ad Andronico ed Alessio imperatori. I partigiani di Andronico, per giustificare il trasmutamento” di posto dei nomi dei due basileis, affermavano non essere decoroso che un giovanetto di appena quat- tordici anni fosse acclamato prima del vecchio ed illustre Andronico. In realtà era (1) N., 350, 17. (2) N., 352. 6; E., 410. 20. Ol PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 269 riconoscere che il vero imperatore oramai era il neo-eletto, e che il porfirogenito Alessio era e doveva essere trascurato. Ma Andronico dovette pensare che se per ora la sua autorità si poteva imporre al giovane porfirogenito, fra qualche anno, senza dubbio, sarebbero sorti contrasti, con male conseguenze per l'impero; necessità di Stato richiedeva un unico principe, un principe forte: il disgraziato Alessio doveva sparire. E poche settimane dopo l’inco- ronazione, al palazzo imperiale si radunava un Consiglio di amici fedeli; e questo inspirandosi al concetto della necessaria unità di governo, disponeva che il gio- vane Alessio fosse senz'altro deposto dall’impero e ridotto a vita privata. Ma non ancora forse sì era diffusa fra la popolazione questa notizia, che una novella più grave, più triste, venne alle orecchie dei cortigiani: fosse ordine di An- dronico, od iniziativa di satelliti, Alessio Comneno venne segretamente soffocato da Stefano Agiocristoforite, Costantino Tripsico, Teodoro Dadivreno, prefetto dei Varangi. “ Figlio di uno spergiuro e di una meretrice , si narrò essere stato l’elogio funebre recitatogli da Andronico; poscia due cortigiani, Giovanni Camatero prefetto del Canicleo e Teodoro Cumno Cartulario, si tolsero in una barca il corpo dell’infelice, che nella notte stessa raggiunse la madre nella. Propontide (1). La deposizione e la morte di Alessio Il non produssero alcuna emozione e nep- pure sorpresa nella popolazione bizantina. Tutto quanto erasi venuto operando, nei tre anni trascorsi dalla morte di Manuele, aveva costituito una vera preparazione — conscia od inconscia — di questi ultimi avvenimenti. Le ragioni messe innanzi dai partigiani di Andronico per spiegare e giustificare la soppressione del collega nell'impero, non erano affatto necessarie: il popolo bizantino, che era stato nel secolo X e XI così affezionato alla sua dinastia regnante, non aveva mai amato quel giovane principe nelle cui vene scorreva tanto sangue latino. Nelle provincie la notizia della incoronazione di Andronico dovette venir accolta con sensi varii; ma dovunque l’attività riformatrice di Andronico era irraggiata con benefiche conseguenze per la popolazione, essa fu certo salutata con giubilo, come valida garanzia di una più ener- gica e fruttuosa operosità del governo. Non certo ne furono liete quelle fra le famiglie nobili bizantine che erano fino allora riuscite a sottrarsi ai colpi di Andronico (2). L’incoronazione di Andronico era una sfida ai malcontenti ed ai ribelli d'Asia; e mentre questi si preparavano a sostenere una lotta senza tregua, era naturale che qualche membro di quella aristocrazia si levasse ad accettare la sfida. A capo dell’eser- ‘cito che operava sul Danubio al confine ungherese stavano i generali Alessio Brana ed Angronico il Lombardo: erano ambedue generali di grande fama acquistata com- battendo nelle guerre del basileus Manuele; ma specialmente il secondo, che aveva sposato una Teodora Comnena, era celebre, temuto per il suo valore anche dai turchi. Da tutto il suo contegno, da tutte le sue vicende dopo la morte di Manuele, parrebbe risultare che in lui Andronico Comneno aveva un fido partigiano. Per quali motivi ora la notizia della proclamazione ad imperatore di Andronico lo abbia spinto a ribel- (1) N., 353-354; E., 411. 8; cfr. LamBros, op. cit., I, 219. 21. (2) Per le monete ed i sigilli di Alessio II e di Andronico vedi Sazarier, Description générale des monnaies byzantines, II, pag. 214 e segg.; ScurumserGER, op. cit., 418; W. Wrora, Catalogue of the imperial Byzantine coins in the British Museum, London, 1908, II, pag. 582 e segg. 270 FRANCESCO COGNASSO 58 larsi a noi è ignoto. nè è facile il mettere innanzi delle ipotesi. Perchè si ribellava a chi, affidandogli ripetutamente delicati incarichi, aveva mostrato di avere in lui la maggiore fiducia? Checchè sia, i suci sentimenti non pare avessero alcuna corrispondenza nelle milizie che erano ai suoi ordini, tanto più che il collega Alessio Brana si era affret- tato ad approvare il passaggio del potere imperiale. Andronico Lombardo, sentendo essere insostenibile la sua posizione a capo di un esercito su cui non poteva far fidanza, prese congedo dal collega, cui disse di voler recarsi alla capitale a visitare il nuovo basileus, e se ne partì, dirigendosi ad Adrianopoli, sua patria, dove aveva delle sorelle, e dopo un brevissimo soggiorno in famiglia, certamente inteso a tastare il terreno e vedere se in quella regione fosse possibile costituire una base d’azione, scese di nascosto al mare con alcuni compagni, ed a Jellocastellion, su navi già all’uopo allestite, si imbarcò per l'Asia, terra sacra alle ribellioni. Frattanto la voce della sua diserzione si diffondeva e giungeva alla capitale. sorprendendo il neo-imperatore fra le feste ed i bagordi destinati a celebrare il suo fausto avvento, ed Andronico, che apprezzava davvero assai le qualità militari del ribelle, fu vivamente spaventato. Temendo la superiorità che avrebbero gli Angelo ed i Cantacuzeni acquistato se spalleggiati da quel fulmine di guerra, che, per la rapidità nel progettare e nell'eseguire il Sultano d’Iconio chiamava avoltoio (1), Andronico, non potendo proibirgli il passo, aveva scritto. con grande accortezza, ai governatori delle provincie d'Asia, avvertendoli che Andronico Lombardo veniva a suo nome per pren- dere i provvedimenti necessari per rassodare l’autorità del governo imperiale. Questa notizia, destinata ad essere pubblicata e diffusa, doveva spargere, specie fra i ribelli. diffidenza verso Andronico Lombardo, far credere la sua fuga e ribellione una semplice manovra insidiosa di Andronico per avere una spia nel campo dei ribelli. Ma a queste lettere, Andronico ne unì, senza dubbio, altre, segrete e ben diverse; e quando il fug- giasco sbarcò ad Adramittio, Cefala. ricco signore del luogo e funzionario fedele ad An- dronico, l’arrestò e lo spedì alla Capitale; quivi fu abbacinato ed internato nel monastero del Pantepopto, dove ben presto, lamentando la triste sua fortuna. morì. La consorte, Teodora, fu anch’essa rinchiusa in convento e tonsurata; i beni vennero confiscati (2). La morte di Alessio Il aveva fatto vedova, prima che sposa, la giovanetta Agnese di Francia. Che doveva farsi ora di costei? Rinviarla in patria? Rinchiu- derla in un monastero? In ambo i casi vera a temere il corruccio del fratello, Filippo II Augusto, e la situazione politica era già a sufficienza pericolosa. Poichè la principessina era stata inviata perchè fosse sposa del basileus, Andronico si decise a sposarla egli stesso, per quanto contasse quasi mezzo secolo più di lei. Così sposando la vedova del basileus. anche il suo potere avrebbe guadagnato in legittimità. Certo, Andronico la sposò solo dopo che il figlio maggiore Manuele si era rifiutato di farla propria sposa; ma tale matrimonio fu dagli avversari di Andronico considerato come una prova della sua sfroniatezza. buon argomento per la lotta contro di lui (3). (1) E.. 383. 7; su Andronico Lombardo vedi ora la poesia edita dal Lawzros nel “ Néos “E4Ay».,, VUI, pag. 177. (2) N., 359. 1 e segg.; Taropori Barsamosis, Comm. in Canones, in Micse. P. G., CXXXYVII, col.1132. (3) N., 357. 1; E_, 411. 18: Radulpbi Coggeshalensis, Chronicon, in Mazràse, Amplissima Collectio, V, 3843; Rosszzi pe Mosrz, Chronicon, ed. cit., 527, etc. 59 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 271 La devozione che il nuovo patriarca, Basilio Camatero, aveva per il suo protet- tore, apparve ben presto nell'occasione di una richiesta fatta dal basileus alla Sinodo. Obbedendo ciecamente ad Andronico, il patriarca non adempiva del resto, se non gli impegni che è detto avesse preso, con regolare atto, prima di avere la nomina a Patriarca, l'impegno cioè di appoggiare e servire Andronico in tutti i suoi disegni. Non sappiamo se veramente questo contratto simoniaco sia una realtà: certo però, dal tono delle lettere, da Michele Acominato, vescovo di Atene, indirizzate, sia allo stesso Basilio, sia ad altre persone, come al Sacellario di Atene, non si direbbe che Basilio Camatero, da Eustazio detto persona assai vivace, sia stato una persona del tutto spregevole (1). Andronico, adunque, per quanto persona spregiudicata, scevra da serupoli morali e religiosi di sorta, pensava alla impressione che su alcuno poteva fare il ricordo di quel famoso giuramento, pronunciato fra pianti e suppliche, anni prima, a Manuele ed Alessio, e consegnato in un documento scritto; e fedele al suo principio di addos- sare ad altri, per quanto fosse possibile, le responsabilità poco accette e gli insuc- cessi, volle, per impegnare maggiormente l’elemento ecclesiastico, che la Sinodo lo libe- rasse da tale impaccio. Ciò accadeva poco dopo la sua proclamazione ad imperatore. La profonda decadenza del clero, la devozione del patriarca, fecero sì che non vi fosse ostacolo di sorta ai voleri dell’autocratore. La Sinodo trattò la questione come una buona occasione per fare un ottimo affare. Andronico, in cambio della assoluzione richiesta, fece ai prelati una generosa elargizione, e concedette che nelle solenni cerimonie i vescovi potessero sedere in appositi seggi ai due lati del trono imperiale. Era una concessione alla vanità perso- nale; ma Andronico, il quale voleva che la sua potenza e la sua maestà fossero non solo reali, ma visibili, non si fece scrupolo di abrogare non molto dopo, quanto aveva concesso, facendosi beffe del clero scornato e deriso da tutti (2). i N basileus Andronico, secondo Niceta, nonostante la sua età, non aveva rinun- ciato a divertirsi, ed attorno a sè aveva sempre suonatrici di fiauto e danzatrici; si lusingava di conservare con cure speciali l’energia antica. Conduceva però una vita abbastanza regolata: non amava il bere ed il banchettare; sottoponeva il proprio organismo a regolari diete. La frugalità e le privazioni sopportate nella sua vita avventurosa avevano irrobustito il suo corpo. Sano e robusto, egli si riprometteva ancora una vita assai lunga, e sperava di chiuderla nella pace e nella tranquillità di una morte serena nel proprio letto (3). Tuttavia pensò, appena salito al trono, a regolare la propria successione. Pare che dapprima egli pensasse di dichiarare erede del trono il genero Alessio, il bastardo di Manuele. Il Sebastocratore godeva tutta la fiducia e la simpatia di Andronico che lo amava — afferma lo stesso Niceta — più che non i proprii figli; e come al suo matrimonio era stato dato un significato politico, di riconciliazione e concordia fra i partiti, così la sua proclamazione ad erede dell'impero avrebbe assunto una importanza ben maggiore (4). Ma poi questo progetto cadde. Il pensiero di farsi (1) N., 339. 19; Lam8ros, op. cit., II, 39. 46. (2) N., 357. 11 e segg. (3) N., 458. 17. (4) N., 557. 7 e segg. 272 FRANCESCO COGNASSO 60 fondatore di una nuova dinastia era naturale che dovesse allettare Andronico ed indurlo a trasmettere il potere ai figli. Questo cambiamento nei suoi progetti fu pre- sentato alla popolazione come imposto da motivi d’ordine — dirò — astrologico; fu creduto e fu affermato anche da Niceta Acominato. In quella società colta e raffinata che si aveva nel secolo XII a Bisanzio, l'astrologia e le scienze occulte godevano fama grandissima. A Corte vi sono regolarmente astrologi ed indovini: prima di una de- cisione importante, occorre trarre l'oroscopo; all’astrologia ricorrono gl’ imperatori per governare, come i ribelli per trarre motivo e giustificazione dei loro raggiri. L'opinione che in “ Ama , siano le iniziali dei nomi di tuttii basileis di Casa Comnena, presenti, passati e futuri, è comune e diffusa ovunque. Vi crede il popolo, vi credono i Comneni, vi crede forse anche lo stesso incredulo Andronico ; dunque dopo di lui deve regnare un principe, il cui nome incominci con J, non con A, altrimenti la dinastia sarebbe prossima allo spegnersi (1). Per questo motivo adunque Andronico avrebbe anteposto il figlio minore Giovanni — aveva questi venticinque anni circa — così al sebastocratore Alessio come al primogenito Manuele. Ma la preferenza al figlio cadetto è facilmente spiegabile. Andronico aveva avuto con sè nelle sue avventure in Oriente il figlio cadetto, l’affezione per lui era maggiore; in lui ritrovava maggiormente le proprie caratteristiche. Il primogenito era stato invece allevato lungi da lui, dalla madre, nel palazzo di Vlanga e poi forse alla corte di Manuele I; era di un altro temperamento, come apparve in più occasioni, quando Andronico trovò opposizione alla sua politica nel figlio primogenito. Giovanni adunque fu dichiarato erede del trono, e futosto proclamato ed incoronato basileus e collega del padre (2). Dimostratosi vano ogni timore per la ribellione di Andronico Lombardo, poichè forse sul Danubio ancora si combatteva, nè era prudente il richiamare anche solo una parte dell’esercito, il basileus dovette rinviare alla primavera del 1184 la spe- dizione contro i ribelli di Bitinia. Frattanto egli se ne andò con i suoi cortigiani alla residenza di Cipselle, sulla Maritza, centro di grandi proprietà imperiali, e dopo alcune partite di caccia, si diresse verso Vera, alla foce dello stesso fiume, dove il padre aveva, come vedemmo, nel 1152, fondato il monastero della Cosmosòtera. Andronico visitò nel monastero la tomba del padre, ed ivi soggiornò fin verso il Natale, restituendosi allora alla Capitale, per festeggiare quella grande solennità con i noti spettacoli popolari oramai tradizionali a Costantinopoli. Nei primi mesi del- l’anno nuovo, dalle varie provincie si vennero raccogliendo le leve, mentre Alessio Brana scendeva con le sue milizie da Branicevo al Bosforo (83). I ribelli intanto avevano avuto mezzo nell’inverno di rafforzare le loro posizioni; ad essi erano confluiti quanti si accordavano nell’odiare Andronico; erano stati or- ganizzati dei corpi di soldati, dove l'elemento turco, assoldato forse dai fratelli An- gelo, provenienti di recente dalla Siria, non era il meno importante (4). Nicea era occupata da Isacco Angelo e da Teodoro Cantacuzeno, forse fratello (1) N., ibidem. (2) N., 412.8; 556. 2; F., 381.19; 411.12; 429.17. In F., 485, 7, in RosertI DE Monte, Chronicon, ed. cit., pag. 533, il figlio di Andronico è detto Caloianni. (3) N., 363. 3 e segg. (4) Sulla ribellione di Bitinia e la spedizione di Andronico, vedi N., 363-374. — _—_—_—_——___———————_——————————————————————————_——_—t— 61 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 273 dell’abbacinato Giovanni Cantacuzeno, cognato degli Angelo; Prusa, era in potere di Teodoro Angelo, fratello di Isacco. Anche Lopadio, l'importante centro fortificato posto sul Rindaco, presso alla Propontide, era passato con l’aiuto del vescovo, alla parte ribelle. Questa ribellione non risultava però da un vero movimento popolare. È degna di rilievo a questo proposito una lettera che nel periodo, probabilmente, anteriore al moto ribelle, Andronico Comneno inviava a due funzionari di Prusa, Leone Sinesio e Manuele Lacana, per richiamarli al dovere. Il basileus con severa semplicità scriveva: “ Veri principi della menzogna, tu, o insensato Sinesio, e tu. o venale Lacana, la mia Maestà udì che voi commettete molte cose ingiuste; o ces- sate di operare ingiustamente o di vivere, poichè nè a Dio piace che voi operiate malvagiamente e viviate, nè a me è lecito tollerarlo , (1). Nobili arroganti, adunque, desiderosi di conservare privilegi ed abusi, burocratici corrotti e disonesti, che tra- scinavano dietro a sè la popolazione. La repressione non era per Andronico solo un diritto, ma un dovere, se egli voleva mantenersi fedele alla sua politica tutelatrice dello Stato contro le forze indiyidualistiche, tendenti alla disgregazione (2). La ribellione di Lopadio dava ai ribelli libera la via per le altre provincie asia- tiche del sud. A riacquistare quel punto fu inviato Alessio Brana con le sue mi- lizie, mentre Andronico in persona andava a mettere il campo sotto i potenti baluardi di Nicea, dove, compiuta rapidamente e senza troppe difficoltà la sua missione, venne a raggiungerlo Alessio Brana (83). Mentre dagli spalti della città si lanciavano ingiurie e contumelie agl’imperiali, questi preparavano un regolare assedio ed incominciavano a battere le mura con le macchine apposite. Andronico, ad impedire che i difensori disturbassero l'avvicinarsi delle macchine, fece condurre da Bisanzio la madre degli Angelo, Eufrosina Casta- monite, che fu legata sull’alto di una torre di legno, credendo che i figli di lei, per tema di colpirla, rinunziassero a scagliare contro la torre freccie e proiettili di sorta. Inutilmente, però, chè la difesa continuò ostinata, ed una notte i difensori riuscirono in una audace sortita ad impadronirsi delle macchine, a distruggerle, ed a portare in salvo in Nicea la madre del loro duce (4). Il successo, se rinfrancò gli assediati, irritò gravemente Andronico, che giurava, tutto furioso, di voler distruggere la città. Agitato, percorreva il campo, eccitando i soldati alla lotta, minacciando i capitani, cui rimproverava l’incertezza e le opera- zioni troppo lente. Altra sortita tentarono qualche tempo appresso gli assediati, un giorno in cui avevano scorto Andronico uscire dal campo, e portarsi con una scorta di cavalli e fanti, tutt’attorno alle mura per esplorarne le condizioni. Uscirono dalla Porta Orientale, e Teodoro Cantacuzeno si lanciò contro il basileus, ma caddegli ad un tratto il cavallo colpito da una freccia, e Teodoro, abbattuto a terra, oppresso (1) Niceta ne parla a pag. 430. 10; credo però sia da riferirsi senza dubbio veruno a questo ordine di fatti. (2) Vedi come Eustazio di Tessalonica prospetta i fatti in LaxBros, op. cit., I, 219. 22. (3) N., 363. 17 e segg. (4) N., 365 e 366. 17; che la madre di Isacco Angelo appartenesse alla famiglia Castamonite risulta da N., 511. 5, dove si parla di Teodoro Castamonite, zio di Isacco, il quale può essere zio di Isacco solo per parte di madre. Eufrosina morì quando Isacco era già basilens (cfr. Miccer, op. cit., 211). Serie I. Tox. LXII. 35 274 FRANCESCO COGNASSO 62 ed impacciato dalla cavaleatura e dalle armi, fu ben presto finito; la sua testa, re- cisa, fu su di una picca portata in trionfo alla capitale (1). Teodoro Cantacuzeno era l’anima della difesa, e con lui parve estinguersi ogni energia nei difensori già stanchi dalla lunga lotta. Isacco Angelo fu invitato a pren- dere la direzione della resistenza, ma rifiutò e si ritrasse in disparte. Tra gli asse- diati allora si sparse il timore della vendetta che Andronico avrebbe senza dubbio tratto della lord ostinazione, qualora si fosse impadronito di Nicea a viva forza, e si pensò alla resa (2). Il vescovo Niecolò, radunato il popolo, lo persuase ad implorare dal basileus perdono dell'appoggio dato ai ribelli, mostrando come oramai fosse inutile ogni resi- stenza, essendo imminente la presa della città. Con a capo il vescovo, tenente in mano i sacri evangeli, ed il clero parato a festa, tutto il popolo, a piedi scalzi, con rami di palma in mano, si avviò, chiedendo pietà, al campo imperiale. Stupito e commosso rimase Andronico dinanzi a tal moltitudine supplicante e concedette il perdono implorato. Non però generale, chè il basileus fu spietato con l’elemento aristocratico: molti furono mandati in esilio ed i loro beni confiscati, i principali e più conosciuti avversari furono precipitati dalle mura. Ma sopratutto Andronico fu inesorabile con i Turchi venuti in aiuto dei ribelli; i vigneti attornianti Nicea videro per lungo tempo gli uccelli di rapina infierire contro i corpi degli innumerevoli disgraziati appesi ai filari delle viti (3). Isacco Angelo fu risparmiato, e potè con la madre ritornare alla sua casa a Costantinopoli. Il perchè di tanta generosità di Andronico non è chiaro, per Isacco An- gelo specialmente, che aveva assistito alla famosa umiliazione di Andronico dinanzi a Manuele ed a tutta la corte, quando per suo volere precisamente il nostro Isacco lo aveva trascinato con una catena ai piedi del basileus (4). Forse Andronico volle mostrarsi grato al patrizio di aver rifiutato di assumere la direzione della difesa, cosa che aveva appunto piegato i ribelli alla sottomissione, forse fu il prezzo del tradimento. Molto dovette certamente umiliarsi Isacco e chiedere perdono, ed il suo con- tegno fiacco non poteva affatto ispirare sospetti al basileus. Nè l'uno nè l’altro pre- vedevano certo che a poco più di un anno di distanza il vinto d’oggi avrebbe de- tronizzato e mandato a morte l'avversario. La lotta e la pace di Nicea non furono fatti gloriosi per Isacco Angelo, e solo un retore come Michele Acominato, potè qualche anno dopo elogiare il basileus Isacco, per la difesa opposta al “ tiranno , in Nicea, ed esaltare i dardi lanciati dalla sua nobile mano contro il nuovo Tifone (5). Prusa ribelle, ostinata nella sua ribellione, subì tutte le conseguenze della sua pervicacia. La città, situata su di un contrafforte dell’Olimpo, era in luogo alto, naturalmente forte. Le fortificazioni di cui l'avevano munita i Comneni, per la sua (1) N., 368. (2) N., 368. 17. (3) N., 369-370; E., 414. 21. Cfr. LaxBgros, op. cit., I, pag. 222. (4) N., 296. Eustazio nel suo Panegirico ad Isacco Angelo (LaxBROs, op. cit., 1, 232, n. 41) allude a patti conchiusi a Nicea. (5) N., 371. 9; 444. 7; Law8ros, op. cit., I, 217, n. 18; 220. 63 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 275 importanza strategica, accrescevano la fiducia dei ribelli ed il disprezzo per l’esercito di Andronico. Rifiuti oltracotanti si -ebbe quindi questi, quando, portatosi all’as- sedio di quella piazza, lanciò con freccie in città proclami promettenti perdono asso- luto purchè fossero consegnati i tre capi della ribellione, Teodoro Angelo, Lacana e Sinesio. Praticate, con le macchine, varie breccie nelle mura, per il solo lato accessibile — gli altri lati erano difesi da dirupi e precipizi impervii — fra i valorosi difen- sori si sparse tal panico che abbandonarono le mura in massa, rifugiandosi e na- scondendosi nelle case. Facile fu quindi allora per le deserte fortificazioni gettarsi sulla disgraziata città, la quale, quasi piazza conquistata da nemici, vide tutti gli orrori del saccheggio e della strage. Teodoro Angelo, giovane ancora, ancora im- berbe, fu accecato, condotto su di un asino al confine turco e quivi abbandonato alla pietà di alcuni commercianti turchi di là passanti; Leone Sinesio e Manuele Lacana con quaranta altri complici furono impiccati ad alberi fuori delle mura; numerosissimi altri, accecati o mutilati (1). Andronico venne quindi a Lopadio dove punì i capi della ribellione; anche qui molti ebbero i beni confiscati, diversi — fra di essi lo stesso vescovo — furono abbacinati (2). In tal modo fu restituita la tranquillità alle provincie d'Asia, ed An- dronico ritornò trionfante a Bisanzio, accolto con entusiasmo dalla popolazione (8). L'estate del 1184 trascorse a Corte in feste, spettacoli di mimi e di buffoni, in tornei. Adunque ancora verso la metà dell’anno, durava l’idillio fra imperatore e popolo, almeno apparentemente, con quello stesso calore dell’anno precedente, ma non dove- vano tardare ad apparire i primi sintomi della non lontana rottura (4). Un fatto della più alta importanza per l'avvenire dell'impero, e per la storia del bacino orientale del Mediterraneo, si compieva frattanto, con lo staccarsi dal- limpero dell’isola di Cipro, che si costituiva in uno Stato indipendente sotto Isacco Comneno. Chi fosse questo Isacco, non ci è detto dalle fonti con tutta precisione. Niceta lo dice nato da una delle figlie del sebastocratore Isacco, fratello del basileus Ma- nuele (5). Questo principe, la cui vita si avvolge, dopo il 1143, quasi completamente nella oscurità, pare abbia avuto numerosa figliolanza. Sappiamo che due figli, Alessio e Giovanni, morirono ancora in età giovane (6). Delle figlie alcune sono invece note- (1) N., 371. 20: 372. 1. Cfr. Lamgros, op. cit., I, 223, n. 27. (2) N., 374. 22. (3) N., 375. 12. (4) Un accenno a questo malcontento si ha, forse, in N., 375. 16, dove si narra che mentre un giorno Andronico assisteva a giochi nell’ Ippodromo, improvvisamente due colonne, poco lungi dal seggio di Andronico, precipitarono, uccidendo sei persone. Andronico, spaventato, fece per riti- rarsi, ma i cortigiani lo trattennero, dicendo che se il basileus si fosse ritirato, la folla che gre- miva l’Ippodromo si sarebbe levata a tumulto. x (5) N., 376. 10; cfr. Annalium Salisburgensium additamentum, in MG., SS., XII, 238. A torto, il Craranpon (Jean II Comnène etc., pag. 526, n. 2) lo dice figlio del sebastocratore Isacco stesso. (6) Vedi Taerc, in Notices et ertraits des Manuscrits de la Nationale, VIII, 1r, 166-67, e Papapi- aorgrIOÙ, Yeodoro Prodromo, pag. 363. 276 FRANCESCO COGNASSO 64 volmente conosciute: Teodora fu consorte a Baldovino III di Gerusalemme, e, vedova, divenne, come fu detto, l'amante del nostro Andronico; Maria sposava un principe ungherese rifugiato alla Corte di Manuele (1); Eudossia sposava Guglielmo VIN di Montpellier; una quarta sposò Costantino Macroduca, ed un’altra fu la madre del nostro Isacco, ma nè di essa, nè del consorte suo, fu tramandato il nome, chè Isacco, Comneno solo si disse, come altri patrizi, per l'origine materna. Verso gli ultimi anni della vita di Manuele era stato affidato ad Isacco il co- mando di Tarso dell’importante provincia della Cilicia, sui cui confini erano incessanti le lotte sia coi Turchi, sia con gli Armeni (2). In uno scontro, il giovane ed impetuoso Isacco cadde prigioniero degli Armeni, intervenuti — pare — in aiuto del sultano d'Iconio contro gli odiati Bizantini. Poichè il Sultano non volle comperare il nobile prigioniero, gli Armeni vendettero Isacco al principe d’Antiochia Boemondo, il quale stabi — pare — per il riscatto la somma di sessantamila aurei. Era venuto infatti frattanto a morte Manuele, ed approfittando delle circostanze favorevoli, Boemondo III, nonostante che fosse fratello della imperatrice Maria, si era affrettato a ripudiare la sposa Teodora, una nipote di Manuele Comneno, rinunciando così alla alleanza ed amicizia con l'Impero bizantino. Lo scompiglio avvenuto a Bisanzio impedì che si pensasse al povero Isacco il quale rimase per vari anni a languire nelle carceri d’Antiochia. Solo quando sali al governo Andronico, Isacco potè avere speranza di aiuto, chè presso il basileus agirono ora, per ottenerne l’intervento ad Antiochia, la sua amata Teodora, zia di Isacco, e Costantino Macroduca che aveva sposata un’altra figlia — pare — del sebastocratore Isacco. Finalmente il prigioniero fu riscattato, con l'appoggio finanziario di Andronico, dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. Secondo altra fonte però, Isacco avrebbe ottenuto dalla popolazione di Cipro la metà della somma da pagare, ed in pegno per l’altra metà avrebbe dato in ostaggio al principe d'Antiochia due suoi figli (3). Certo è che invece di restituirsi a Costanti- nopoli per ringraziare Andronico, egli si portò a Cipro, dove presentò lettere apocrife dell’imperatore, facendosi riconoscere come legittimo governatore (1185). Ma presto sì proclamò principe autocratore dell'isola, si cinse la corona imperiale ed aboh l'invio dell’annuo tributo a Costantinopoli (4). Cipro era un'isola floridissima, e le sue entrate erano considerevoli, essendo il granaio degli Stati latini di Siria: un viag- giatore latino le calcolava a settanta centenari d’oro all’anno, e per le finanze dell'impero tale contributo non era cosa di poco conto (5). (1) C., 203. 8; N., 165. 7; Eudossia avrebbe sposato (verso il 1174?) Guglielmo VIII di Montpellier; a questo proposito, vedi S. SrronskIi, Le Troubadour Folquet de Marseille, Cracovie, 1910, pag. 13 e 153 sgg.; e poi la polemica Srronsgr-LaurENs, in © Annales du Midi ,, XXIII, 1911, 333 e 491. (2) N., 376.13; Neoriro, Iegì 70v xarà t)v yooav Kirgov cosa ròv, in HC., Hist. grecs, I, 559; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 254-255, dove non mancano-errori di cronologia; gran parte del racconto è poi del-tutto incontrollabile, non però da respingere. : (3) Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 254. (4) N., 377.13; NeorITo, op. cit., 559; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 255; vedi in ScHLUMBERGER, Sigillographie byzantine, 428, un sigillo di Isacco Duca Comneno, con il titolo di Despota. (5) ArnoLpi LusecensIs, Chronica Slavorum, rv, MG., SS., XXI, 178, dove sette centenari è da correggere in settanta come è proposto in HC., Hist. grecs, II, 364. 74 65 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 277 Di qui l'ira di Andronico, impotente a richiamare all'ordine il ribelle, per le disastrose condizioni della flotta; di qui il malcontento della popolazione, sdegnata che Andronico avesse lasciato ribellare quell'importante isola e non si affrettasse a domare il ribelle. Ira e timore ad un tempo provava Andronico riguardo ad Isacco Comneno; poichè, mentre ambiva vendicare l’insulto atroce e riacquistare l'isola, era spaventato dalla diffusione di certi vaticinii astrologici che affermavano un Isacco sarebbe stato nefasto all'impero di Andronico. Egli, nella sua impotenza di colpire il ribelle, si vendicò sui suoi amici (1). A Corte, erano influentissimi presso di lui Costantino Macroduca ed Andronico Duca. Erano zelantissimi partigiani del basileus,-ambedue, ma Niceta dice che tutti sorpassava, per adulazione e servilità spregevole, Andronico Duca, il quale, allorchè il basileus voleva condannare alcuno all’abbacinamento, non solo si affrettava ad approvare, ma proponeva per soprappiù che il disgraziato venisse anche mutilato, incalzando Andronico come troppo timido e mite (2). Non era questo certo il solo cat- tivo genio del basileus: con lui rivaleggiava, ad esempio, in zelo e perfidia quell’Aronne Isaac, che dopo avere servito per molti anni Manuele, era stato abbacinato per accuse di tradimento e di magia. Questi, ritornato in auge con Andronico, vedendo che il basileus limitava le sue punizioni all’abbacinamento, si affannava a predicare non essere questa una pena sufficiente, poichè anche essendo ciechi, si può parlare, vivere, muoversi, operare in mille modi, e portava come esempio sè stesso, chè, dice Niceta, usava della lingua come di affilatissima spada. In tal modo era Andronico aizzato dai cortigiani. Isacco II Angelo, quando poi salì al trono, applicò ad Aronne Isaac le sue teorie, e perchè non potesse più servirsi della sua lingua velenosa, or- dinò che glie la si strappasse (83). Ritornando adunque ad Isacco Comneno, narra Niceta che quando si era discusso se si dovesse intervenire in suo favore ad Antiochia per il riscatto, quei due corti- giani anzidetti si erano fatti garanti presso Andronico, che Isacco, se fosse stato liberato, non avrebbe esitato a riconoscere il governo nuovo, e si sarebbe messo ai suoi servigi (4). Ma ora, poichè Isacco aveva smentito — ed in qual modo! — le parole dei due zelanti mallevadori, Andronico rivolse la sua ira contro di essi, e stabilì di infliggere loro una morte non comune. Era l’Ascensione del 1185 (30 maggio); si convocarono tutti i cortigiani al Filopathion fuor delle Mura, dove allora era la Corte. Dinanzi ad essi, raccolti da- vanti al Palazzo, vennero tradotti i due disgraziati, e Stefano Agiocristoforite od Anticristoforite, come veniva più comunemente chiamato, ordinò in nome del basileus, di lapidare i due patrizi. Sorpresi, sbigottiti, non osarono ribellarsi, e durante il sup- plizio, il Logoteta instava, urgeva quanti procedessero con troppa lentezza, minac- ciandoli dell’ira dell’autocratore e di ugual morte. Poi i corpi dei due infelici vennero tolti di sotto la greve mora e messi in croce (1) N., 379. 18. (2) N., 380. 1 e segg. (3) N., 188. 5, 190. 15, 101 e segg. (4) N;, 379. 16. 278 FRANCESCO COGNASSO 66 per incutere terrore nella popolazione: l'uno a Pera, nel cimitero degli Ebrei, l’altro sulla spiaggia del Corno d'Oro, dinanzi al monastero dei Mangani (1). Con questi avvenimenti ci siamo portati fin quasi alla metà del 1185, e non molto doveva tardare la bufera travolgitrice dell'impero di Andronico. A primo aspetto, reca certo meraviglia il vedere come a due anni di distanza dagli osanna, con i quali la popolazione aveva nel 1183 accolto e festeggiato l’inco- ronazione del suo favorito, questi abbia potuto essere precipitato dal trono appunto per volere ed opera del popolo. Le molteplici cause di questo fatto possono essere sintetizzate in una frase sola: la politica popolareggiante e nazionalista di Andronico aveva fatto fallimento. Il popolo aveva chiesto al suo basileus una determinata politica interna ed estera, ma Andronico, dopo aver seguito questa via per qualche tempo, si era accorto che le condizioni generali, sia dell'impero sia dell'Europa, erano contrarie a quelle tendenze, ed egli aveva quindi recisamente virato di bordo, accostandosi alla politica di Ma- nuele. Di qui il distacco del popolo e la caduta dell’autocratore. Andronico Comneno aveva assunto le redini del governo con l’intenzione di con- durre in porto molte riforme, e senza dubbio egli in così poco tempo aveva fatto abbastanza per meritare la gratitudine dei suoi sudditi. Egli aveva saputo reagire contro l'avviamento seguito dal governo di Manuele. L’opera di rinnovamento ini- ziata da Alessio I era stata continuata dal figlio e dal nipote, ma mentre prima era stato rinnovamento interno ed esterno, fu poi solo continuato nella parte esteriore, nelle conquiste, non nell'ordinamento amministrativo e finanziario dello Stato. Troppo a lungo le guerre attirarono l’attenzione di Giovanni II e di Manuele, troppo assor- birono le loro energie, perchè essi potessero attendere ad una politica interna oculata e saggia. Perfino la stessa capitale si risentiva di questa debolezza dell'impero. A Giovanni II un anonimo, in una sua supplica assai vivace, diceva: “ Il basileus spande come acqua per terra e per mare le sue ricchezze, le spenda dunque anche per la sua patria... (2) ,. E questa frase avrebbe potuto ripetere quarant'anni dopo, circa, Eustazio di Tessalonica quando invitava Manuele a provvedere perchè la popolazione di Bisanzio più non dovesse soffrire della mancanza d’acqua, perfino nella stagione invernale (3). Il basileus Giovanni aveva però trovato una opposizione alle sue tendenze gran- diose per una parte in quel senso della misura e della convenienza, che formava una delle sue doti migliori, per l’altra parte nella resistenza del Gran Logariaste, Giovanni di Putze (4). Questo ministro delle finanze era rigorosissimo riscotitore di tributi, indemoniato ideatore di nuovi aggravi per i contribuenti. Nel suo dicastero egli era sovrano quasi indipendente; i decreti del basileus trovavano in lui poca riverenza, chè, invece di firmarli e dar loro corso, alle volte li stracciava e li an- nullava, quando nella loro generosità spensierata contraddicessero alle disposizioni da lui prese per il retto andamento dei bilanci. (1) N., 380-381. (2) Mercati, Aneddoti di un codice bolognese, in BZ., VI, 140 e segg. (3) Recet, op. cit., n. VIII, pag. 126 e segg. (4) N., 73-74. 67 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC, 279 Più facile sarebbe stato — dice lo storico — smuovere una rupe che Giovanni il Logariaste; incorruttibile, non piegava a lacrime od a suppliche di sorta; isolatosi dalla vita di corte, viveva intento ai suoi lavori, ai suoi studi; amava far poche parole e le erano comandi. Egli predicava un fiscalismo rigoroso ed una più rigorosa economia. Ma questo prineipio della economia per il quale Giovanni II aveva potuto lasciare, morendo, il tesoro imperiale fornitissimo non poteva accordarsi con le ten- denze fastose del giovane Manuele, il quale non tollerò, specie nella giovinezza, di dover essere sottomesso al Gran Logoriaste. Così il suo potere andò declinando, e dopo essere stato l’incorruttibile per eccel- lenza, accortosi ora dell’errore commesso trascurando i proprii interessi per curare solo quelli dello Stato, cedette anche lui alia corrente di corruzione che dilagava per ‘tutta la burocrazia imperiale. E volendo ricuperare il tempo perduto diceva ad un famigliare: “ Suvvia attendiamo ad arricchirci ,, ed a man salva attinse, nei tesori imperiali, denari per i suoi figli (1). Nei tesori, che il basileus Giovanni aveva lasciato al figlio, attingevano del resto i cortigiani come in un proprio tesoro privato: il nostro Niceta li paragona a sciami d’api. Manuele, specialmente quando non era ancora ben saldo sul trono, ed aveva bisogno di procurarsi la devozione di quanti più potesse, libero da ogni turpe gret- tezza, era come un mare di liberalità, un abisso di misericordia, e quanti avevano vissuto in quell'età a Corte, rimpiangevano quei tempi beati. Poichè Manuele, con il passar degli anni, accortosi della sua follia generosa, strinse i freni per quanto era ancora possibile (2). Continuò il fiscalismo gretto dei tempi passati, chè ai successori di Giovanni di Putze il basileus chiedeva incessantemente oro ed oro. Ed essi ai voleri dell’auto- crate non osavano e non volevano opporsi. I nuovi favoriti erano ora Giovanni Agio- teodorite e Teodoro Stippiote, il quale riuscì poi ad avere egli solo tutta la fiducia di Manuele; “ a lui piaceva tutto quanto voleva il basileus, donde ne veniva che questi ordinasse quanto volesse il suo ministro , (3). Per soddisfare ai bisogni della politica estera di Manuele, sia per le spese di guerra, sia per i sussidi agli alleati, occorrevano somme immense; si sa come la sola spedizione d’Italia contro i Normanni sia costata circa trecento centenari d’oro (4). Inoltre occorreva pensare alle spese della corte e dei cortigiani, costruzione di chiese, monasteri, palazzi, e poi vi era la burocrazia. Poichè le pubbliche cariche e magi- strature erano venali, ne veniva che dopo avere tanto speso per acquistarlo, i pub- blici funzionari sfruttassero quanto più era possibile il loro ufficio per ricuperare il denaro speso. E noto il caso di quel commerciante Pisano che scriveva d'aver speso per una successione ben duecentosedici aurei in donativi, poichè negli uffici imperiali omnes diligunt munera (5). Ma poichè, come ci afferma Beniamino di Tudela che visitava l'impero bizan- (1) N., 74. 22, 74. 16. (2) N., 78. 24, 79. 14. (3) N., 78. 16. Vedi Craranpon, Jean II Comnène ete., pag. 221 e segg. (4) N., 127. 20. (5) Miter, Documenti sulle relazioni delle città toscane ete., pag. 11 e segg. 280 FRANCESCO COGNASSO 6% tino verso il 1173, l'impero era ancora ricco, le entrate abbondanti, non doveva essere difficile ottenere un miglioramento. Il viaggiatore ebreo ci dice che la capitale versava al tesoro imperiale ben ventimila fiorini d’oro, sia per le imposte dirette, sia per i diritti doganali. Corfù, secondo uno scrittore inglese, ancora qualche anno dopo, nel penultimo decennio del secolo, dava al basileus, per i tributi, quindici quin- tali d’oro all'anno, cioè 1500 libbre; Cipro, settanta centenari, e così pure, ricchi tributi dovevano certo versare all’erario le altre provincie dell'impero, secondo l’os- servatore ebreo, ugualmente fertili e ricche (1). Era necessario riorganizzare l’amministrazione dello Stato, rendendo più ener- gica e più vigile l’opera del governo centrale, più operosi i governi provinciali; disciplinare il corpo dei funzionari, rinnovandolo, espellendo gl’impiegati imbelli o malvagi, impedendo che i pubblici uffici diventassero delle sinecure; poi occorreva incoraggiare e confortare la classe borghese e la plebe, sia delle città sia della cam- pagna, proteggendola contro i soprusi e le violenze dell’aristocrazia latifondista, che seguiva fatalmente tendenze eminentemente feudali: combattere poi con la nobiltà la chiesa prepotente; ecco quanto si presentò alla mente di Andronico quando giun- geva al governo dell'Impero. Ed Andronico si sobbarcò a questa impresa d’Ercole, slanciandosi nell’agone con tutta l'energia e l’impetuosità a lui particolare. Pur troppo, assai poco sappiamo delle riforme compiute o tentate dall’audace Andronico. In odio all’autore, tutto quanto era stato fatto da Andronico, venne, dopo la rivoluzione del 1185, distrutto, e per quanto era possibile, dimenticato, senza che però i suoi nemici potessero in coscienza, oltre che odiarlo, anche disprezzarlo del tutto. Così Niceta Acominato, che è come l’eco del giudizio che si dava di Andronico nell’età immediatamente seguìta, nello sfacelo dell'impero, sotto gli Angelo, giunge ad ammettere che se egli non avesse ecceduto in ferocia e crudeltà, insozzando di sangue il manto imperiale, avrebbe potuto compiere imprese grandissime ed eccellenti (2). Di qualche sua riforma ci è giunta però notizia. Data la grande estensione dell'impero e la lontananza del governo centrale, i governatori delle provincie avevano un'autorità estesissima; fu quindi fra le sue più importanti misure il riordinamento dei governi provinciali. Pare che allora le pro- vincie dell'impero fossero ancora distinte in due categorie, secondo l’estensione e l’importanza: poichè gli stipendi che godevano i governatori erano insufficienti, es- sendo essi forse stati fissati in un’età di molto anteriore, î governatori se ne rifa- cevano aggravando i poveri provinciali. Inoltre è probabile che ancora sotto i Comneni alcuni governatori non fossero pagati direttamente dallo Stato, ma attingessero per il loro onorario alle entrate della provincia stessa. Ora per liberare i contribuenti da tali aggravi, Andronico stabilì che gli strateghi di prima categoria avessero uno stipendio di ottanta mine d’oro, quelli di seconda, solo di trenta mine (3). (1) Basra: Toperensis, Ifinerarium, ed. Adler, pag. 13-14; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 204; ArnoLpi Lusecexsis, Chron. Star., ed. cit., pag. 178. (2) N., 462. 1. (3) N., 429. 1 e segg. visà. 69 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 281 Andronico voleva, e lo diceva apertamente, che i governatori non solo non fos- sero di peso ai sudditi, ma provvedessero anche a soccorrere i poveri; di gravi pene li minacciò se si rendessero colpevoli di abusi. Una piaga inveterata, e quasi insa- nabile, del sistema tributario bizantino, consisteva nell'essere il fiscalismo del governo aggravato dagli arbitrii degli esattori che esigevano troppo spesso, con il tributo per l'anno in corso, anche l'anticipo per gli anni prossimi. Andronico non indugiò a re- primere con grande severità tale inveterato ‘abuso. Riguardo ai provvedimenti di Andronico, noi conosciamo l'opinione ed i giudizi che di essi diede il vescovo di Atene, Michele Acominato, il fratello dello storico, in due orazioni pronunciate per il solenne ingresso in Atene di nuovi governatori (1). Il vescovo di Atene diceva che Andronico.-sapiente in tutte le cose, non igno- rava come e perchè le città dell'impero decadessero e giacessero inferme, come la maggior parte, anzi, già fossero oramai pressochè morte; e neppure ignorava come questo triste stato di cose fosse prodotto dalla insaziabilità del fisco, e l’oligarchia dei potenti per parte sua non opprimesse meno il povero popolo. Per questo ora egli inviò in ciascuna circonserizione un giudice che con la spada della giustizia re- primesse la mala cupidigia e ne impedisse il diffondersi (2). E dopochè Andronico si fu impadronito del potere, quando ancora era vivo il basileus Alessio, fu ad Atene inviato Niceforo Prosuch (8). Il discorso di Michele Acominato, recitato all'arrivo di Prosuch ribocca di lodi entusiastiche per Andronico, e delle affermazioni della profonda soddisfazione provata nel paese (4). Il vescovo di Atene non risparmia le adulazioni più smanciate per il basileus. Ora sono elogi ed incensi, più tardi comin- cierà a lamentare con l’ex-patriarca Teodosio la tristezza dei tempi: “ sparì oramai il pudore dalla terra; nessuno più vi ha che operi il bene, grande necessità vi sarebbe di un nuovo diluvio per distruggere la terra stessa , (5). E così sarà pronto per la palinodia completa, quando vorrà soffocare ogni possibile ingrato ricordo delle adu- lazioni di un tempo con i più fieri insulti. “ Andronico, allora dirà Michele Acomi- nato, dopo aver compiuto molte pellegrinazioni in terre deserte, dopo aver vissuto fra popoli di altra razza, adottandone i più erudeli costumi, ritornò in patria feroce sette volte più che non fosse prima della sua fuga. Trovò la pace nella casa impe- riale, egli malvagiamente provocò torbidi. Si finse fedele al basileus, bene intenzio- nato, amante del popolo, pacificatore dei sediziosi, e noi ingannati da queste appa- renze fallaci, ci affidammo, non saprei neanch'io dire come, ad un tal uomo: poi dopo, conoscemmo che nè i viaggi nè la vecchiaia avevano mutato Andronico, indu- cendolo a costumi più umani. Era invecchiato barbaro fra barbari , (6). Ora invece il retore di Chone diceva in lode di Andronico: “ Noi eravamo af- flitti da privazioni, colpiti da illegalità, da ingiustizie, eravamo servi di malvagie cupidigie, eravamo esacerbati dai dolori..... Che cosa non fece il basileus Manuele di (1) Mrcazce Acommnaro, op. cit., ed. Lambros, I, 142 e segg., 15 (2) Ibidem, I, 174, n. 40. (3) Su questo personaggio vedi C., 33. 15; N., 71. 10. (4) MicneLE Acominato, op. cit., ed. Lambros, I, 142 e segg. (5) Ibid., II, 38. 20. (6) Ibid., I, 217, n. 78 e segg. Serir Il. Toxw. LXII. 36 282 FRANCESCO COGNASSO 70 beata memoria per noi? Che cosa non fece che fosse veramente cosa nobile e degna di un imperatore? Con quanti decreti non ci difese, con quanti ordini, con quante punizioni non cì rese giustizia? Ma non era possibile, a lui solo, recidere del tutto le innumerevoli teste sempre rinascenti di questa così grave calamità; era necessario che venisse Iolao, e che questi arditamente usasse il ferro per la cancrena ,. E più sotto Michele Acominato pare approvare la condotta di Andronico verso l’aristocrazia bizantina, e specialmente la sua repressione della “ tirannide latina insinuantesi di soppiatto ,. Per il basileus Alessio, Andronico è come un secondo padre, è il salvatore, il protettore, il custode. Manuele lasciò in eredità al figlio il trono; Andronico gli salvò e conservò l’eredità paterna. E questi non ha meno: meriti che quello. Quegli lasciò il trono al figlio quando venne a morte, Andronico per proteggerlo sfida ad ogni momento mille morti. Per questo Iddio salvò il grande Andronico “ aureo fiore della stirpe Comnena ,, protettore del basileus e dei Romani, conducendolo in salvezza, dal fuoco e dall’acqua, attraverso a tanti pericoli: per noi e per l’autocratore, Andronico fu salvo. E questi non concesse sonno agli occhi, riposo al capo, finchè non fu il protettore di questo sconvolto stato, provveditore delle città romane (1). L’invio del nuovo governatore era un’opera caritatevole e pietosa del governo, per ricondurre alla primitiva dignità l’ufficio di governatore, decaduto per la malva- gità di quanti l'avevano prima d’allora tenuto. Niceforo Prosuch non deluse le spe- ranze dei provinciali greci, chè, certamente per ordine di Andronico, attese a stabi- lire un nuovo registro dei contribuenti, rinnovato in modo da eorrispondere alle vere condizioni economiche attuali (2). Per queste misure — non tutte noi le cono- sciamo — per la mitigazione di certi tributi, diminuirono forse per breve le entrate, ma poi queste, col riordinamento delle esazioni e coll’opposizione rigida al mal fare dei funzionari, divennero regolari e sicure. Grazie a questo riordinamento dei tri- buti, basato su onesti criteri, — cosa questa insolita davvero nell’amministrazione finanziaria bizantina, — le città dell’Ellade, e certamente anche delle altre provincie, ripresero a: risorgere ed a rifiorire, vicuperando una parte dell’antica floridezza, mentre la popolazione non fu più stimolata ad emigrare. Per i poveri poi Andronico pare provvedesse con elargizioni di denaro e distribuzioni di vettovaglie. Riguardo ai tributi egli diceva che non era dignitoso per il governo che alcunchè provenisse al tesoro imperiale, ingiustamente estorto ai sudditi (3). Così Michele Acominato come suo fratello Niceta — il quale, scrivendo la sua storia, forse in più di un punto ebbe presenti i discorsi di Michele, di cui ci occu- piamo —, senza alcun dubbio indulgono alle tendenze retoriche del loro tempo quando ci dicono dei meravigliosi effetti delle riforme di Andronico. Certo però la popolazione dovette, con il mitigarsi, se non proprio con lo scomparire delle violenze fiscali governative, sentire un certo sollievo; e si ha forse da prestare fede a Niceta te) 7, quando afferma che il prezzo delle granaglie e di tutte le altre vettovaglie diminuì (1) Ibid., I, 143 e segg. (2) Ibid., II, 52, lettera di Michele Acominato a Demetrio Tornicio. (3) Ibid., II, 63. 71 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 283 assai. A questo fatto contribuì probabilmente l’essersi arrestato, per conseguenza delle stragi del 1182, per qualche tempo almeno, quasi completamente il commercio di esportazione, praticato su vasta scala dai navigatori italiani, dai porti di Tracia e Macedonia verso l’Italia ed altre regioni (1). E Niceta conclude, dicendo che ogni piccolo proprietario potè ora dormire tran- quillamente nelle sue terre, all’ombra dei suoi alberi, senza tema alcuna di esattori cupidi: quando a Cesare fosse stato dato ciò che a Cesare si apparteneva, nessuno più aveva a richiedere ai provinciali alcunchè (2). Occorreva epurare il corpo dei funzionari di Stato, opporsi alla venalità ‘dei pubblici offici: a tutto questo pensò Andronico, che diresse le sue cure, in modo speciale, a fare sì che le provincie fossero affidate non più a chiunque avesse denaro sufficiente per corrompere i personaggi influenti, ed ottenere le prefetture che dove- vano poi ricompensare ampiamente delle spese fatte per ottenerle, ma solo a per- sone scelte con grande severità fra i funzionari più distinti. Essi dovevano attendere a che l’autorità dello Stato fosse rispettata, sopratutto contrastando il terreno alla classe dei potenti — l’ aristocrazia fondiaria — affinchè cessassero dalle loro vio- lenze contro i deboli, perchè questi avessero a cedere ed a vendere loro i proprii beni. Nei nuovi governatori inviati da Andronico, i piccoli proprietari sapevano di avere un appoggio ed una difesa contro i prepotenti latifondisti, senza essere co- stretti a comperare questo aiuto con gravosi doni come era stata secolare usanza (3). Morto Niceforo Prosuch, gli successe nel governo della Grecia Demetrio Drimo (4), il quale al suo arrivo ad Atene fu salutato anche lui dal vescovo come un novello Teseo, salvatore dell’Ellade e del Peloponneso, come l’uomo inviato da Dio per do- mare con le armi della giustizia quelli che sono spinti dall’assillo della cupidigia; e per la sua venuta, per la prossima liberazione dai mali, tutta la città già si ral- legra, sperando di risollevarsi dalla sua triste condizione. Di Niceforo Prosuch come del suo successore si conservò in Atene il migliore dei ricordi, ed ancor dopo l’ascen- sione al trono di Isacco II, Michele Acominato scriveva al logoteta Demetrio Tornicio che si inviassero come governatori persone simili al mirabile Drimo (5). Andronico Comneno, secondo il vescovo d’Atene, era dolce coi poveri (6). Mentre i precedenti basileis si erano sempre tenuti lontani dal popolo, Andronico permise di accedere a lui per presentare suppliche o lagnanze contro chicchessia, senza badare a dignità maggiore o minore, senza separare dal giusto il diritto, ma facendo ugual conto di personaggi illustri e di gente vile. Tale sua missione di pacificatore e di giustiziere supremo egli aveva forse voluto indicare, quando dinanzi al suo prediletto tempio dei Quaranta Martiri, aveva eretto a sè una statua che lo rappresentava non nei sontuosi abiti imperiali, ma tutto avvolto e velato in fosco manto, tenendo con una mano un’ampia e solida falce, mentre sorreggeva con l’altra un lembo del man- (1) N., 429. 11. (2) N., 421. 19. (3) N., 423. 1 e segg. (4) LauBros, op. cit., I, 157 e segg. (5) Ibid., I, 145, n. 9. (6) Ibid., II, 65. IA FRANCESCO COGNASSO 72 tello dove giaceva il corpo di un giovanetto, allusione, secondo Niceta, al basileus Alessio II (1). Gli insolenti che avevano agito ingiustamente verso le persone umili, qualora fosse manifesto il loro torto, venivano da Andronico severamente puniti. Un giorno, ci racconta Niceta, vennero al basileus Andronico alcuni contadini a lagnarsi di Teo- doro Dadivreno, fedele amico suo, uno degli assassini del basileus Alessio. Con tutto il suo seguito, aveva albergato presso di essi, facendosi provvedere tutto il necessario, ma senza dare poi ricompensa alcuna. Andronico, verificati i fatti, risaraà larga- mente quei poveretti e condannò il prepotente alla pena infamante di dodici fru- state (2). Con gli umili adunque contro i potenti, fu la divisa di Andronico: con la piccola proprietà contro il latifondo. La venuta all'impero della dinastia Comnena era stata, il trionfo dell’aristocrazia fondiaria, cui poi la nuova dinastia cercò reggere e discipli- nare, stringendola a sè con matrimoni e conferimenti di cariche e dignità. Andronico ora vi si mette risolutamente contro, inutilmente si capisce, chè gli sforzi di un individuo a nulla valgono contro l’inesorabile sviluppo di un processo storico. Alla attività riformatrice di Andronico spetta pure una crisobolla emanata an- cora nel dicembre 1182, quando ancora regnava Alessio II. Manuele I con ben due crisobolle aveva vietato che i beni, le proprietà dal basileus donate ai membri della aristocrazia potessero passare in qualsiasi modo a persona che fosse di bassa nascita. Contro queste disposizioni, che contribuirono a fare della aristocrazia la padrona perpetua di immense distese di terre, provvide ora Andronico, permettendo lo scambio, la vendita delle proprietà: la perdita della crisobolla ci impedisce di conoscere bene i provvedimenti del governo (3). Mentre si occupava degli interessi generali dell’impero, Andronico non dimenti- cava di abbellire pure la Capitale. Ad impedire la siccità che altre volte aveva afflitto la cittadinanza, egli provvide restaurando l’antieo acquedotto di Adriano, immettendo in esso e portando in città l’acqua dall'attuale Belgrad, fino alle princi- pali piazze, in fontane dove l’acqua non stagnasse, ma sempre si rinnovasse: mentre a Belgrad faceva costrurre un palazzo per residenza estiva, senza però terminarlo, chè troppo presto sopraggiunsero i torbidi politici (4). Scelto l'antico tempio dei Quaranta Martiri per costruirvi il sepolcro per sè e la famiglia, vi fece trasportare dal monastero d’Ankurion i resti della sua prima consorte, morta durante le sue peregrinazioni, e rinnovò tutto l’edificio con nuove opere e nuova magnificenza. Per abbellirlo, iniziò la spogliazione del Grande Palazzo, togliendone dai giardini una mirabile vasca di porfido sostenuta da draghi, per ador- nare il cortile precedente al tempio; ornò splendidamente l’antica leggendaria icone del Salvatore, quella stessa che aveva parlato all'imperatore Maurizio; costrusse (1) N., 432. 3. (2) N., 429. 21. (3) Vedi Zacmariae von LincentHAL, Jus graeco-romanum, INI, nn. LXIV, LXXIII, LXXXIM. (4) N., 428. 7; cfr. Hammer, Constantinopolis und der Bosphoros, Pest, 1822, I, pag. 573; Pa. Forca- zemer und I. Strzycowskt, Die Byzantinischen Wasserbehilter von Konstantinopel, Wien, 1893, pag. 10 e segg. 19 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 285 vicino alla chiesa un trielinio con portici, tutto ornato di pitture di caccie e di scene agresti, ricordanti la sua vita avventurosa attraverso l’Asia misteriosa, ed altro ancora fece, e più voleva fare: così pensò, ma non condusse a termine il progetto di erigere una propria statua di bronzo sulla altissima colonna dell’Anemodulio (1). Tutto questo però non toglieva che i cittadini della capitale non notassero che le loro speranze erano state in gran parte deluse. Andronico era sempre stato aspro e violento — Niceta dice che aveva natura in parte belluina, in parte solo umana — ed invecchiando questo suo difetto si era venuto aggravando, sì da irritare spesso non solo gli avversari, ma persino i parti- giani e gli amici suoi; poichè non agiva egli molte volte con lo scopo determinato di offendere, ma per lo più spinto dalla irrequietezza e nervosità del suo animo (2). Il suo spirito caustico procurava a cittadini ed a cortigiani frizzi e motteggi sanguinosi, talora persino per la loro cieca devozione verso di lui. Racconta Niceta, che Andronico aveva ornato i portici dell’Augusteon di trofei di caccia, formati da corna di cervi da lui stesso uccisi, e dice che nell’intenzione di Andronico quei trofei dovevano irridere alla dabbenaggine dei molti buoni mariti della capitale da lui ingannati ed ora beffati (3). Altra volta aveva ordinato di trasformare i varii ritratti che di Maria d’Antiochia si avevano qua e là in città, in figure di vecchia rugosa ed orribile a vedersi: però tosto comprese l’irreverenza e la volgarità della cosa, ed ordinò di far sostituire quelle pitture con il proprio ritratto, o solo o con la nuova e giovane basilissa Anna (4). Se‘nei primi tempi del suo governo, come sopra fu detto, l’accesso a lui era libero a quanti volessero presentargli lagnanze e suppliche, ora, quando non fosse al Filopathion od al Meludion, assai spesso si racchiudeva nel suo appartamento, rimanendo invisibile per giorni e giorni, solo dilettandosi allora di suoni e di canti; aveva a noia l’essere sempre circondato da ciambellani, cortigiani ed armigeri: il suo appartamento era affidato continuamente alla guardia di un grosso cane, che avrebbe sopraffatto magari un leone ed atterrato un guerriero armato di tutto punto. Uno storico inglese dice che Andronico era arrivato a tal punto d’arroganza che non permetteva ad alcuno dei suoi cortigiani e famigliari di sedere in sua presenza, ma voleva che tutti, di qualsiasi grado e dignità, lo servissero more servientium astantium, în palliis depositis. E queste imposizioni non potevano non produrre malu- mori pericolosi (5). Andronico era portato a questo contegno dal grande concetto che egli aveva dell’autorità imperiale, dal desiderio di far piegare tutti innanzi alla sua maestà, Se questa tendenza era stata dapprima contenuta entro certi limiti, per gli ostacoli che egli aveva dovuto superare, Andronico aveva sentito presto come il bisogno di affermare il suo potere. “ Non per nulla l’imperatore ha la spada ,, amava dire, oppure: “ Nessun ostacolo è così grave che l’imperatore non lo possa superare a (1) N., 482. 13, dove il cod. B. aggiunge: “ da z60var yvvaîres elyov tiv otmnow ,. (@) N., 433. 10. (3) N., 462. 9. (4) N., 433. 21. (5) N., 418. 7; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 259. 286 FRANCESCO COGNASSO 74 qualunque costo , (1). Quando ritornava dai suoi frequenti soggiorni in questa od in quella villa, pare che fosse come preso dal sospetto che della sua assenza aves- sero tratto profitto i suoi avversari per trame e congiure: allora, con chiunque avesse a trattare, sì irritava, e Niceta con la solita esagerazione retorica dice che Andronico avrebbe creduto essere sprecata la giornata che fosse passata senza alcuna condanna a grave pena, come l’abbacinamento e la morte, od almeno senza un qualche terribile rabbuffo ed orrenda minaccia come egli solo sapeva fare. Era simile, dice Niceta, ad un pedagogo irritato, che troppo spesso, a tempo o fuor di tempo, meni la sferza sul dorso dei suoi discepoli; egli rispondeva con colpi a qualunque cosa udisse che non gli andasse a genio. Sicchè, allora i cittadini tutti vivevano in preda allo spavento; il che scrivendo, Niceta assai probabilmente estendeva, e certamente a torto, a tutta la popolazione quanto poteva dirsi solo della coorte dei cortigiani.e dei funzionari, e solo negli ultimi tempi del suo regno. A molti, a troppi, continua il nostro storico, era il sonno non dolce riposo e ristoro, ma un tormento, chè sognavano o di Andronico e delle sue vendette atroci, o dei parenti ed amici che già ne erano stati vittima. All'età di Andronico si sa- rebbe potuto applicare quel detto biblico: “ due giaceranno nello stesso letto, e di essi uno sarà colpito, l’altro sarà lasciato ,. Il padre fu privato dei figli, i figli del padre: nelle case ove eranvi cinque persone, ve ne rimasero tre, dove tre, due. E neanche le donne furono libere dal pericolo di cadere vittima di Andronico, chè molte di esse persero la vista, soffrirono la fame, il carcere, la tortura. E dopo aver colpito nelle grandi famiglie aristocratiche i padri, i mariti, i figli, egli obbligò non poche dame a prendere l’abito monastico. Così sulle rovine dell’aristocrazia Andro- nico sperava di fondare l’impero suo e della famiglia (2). Ma tutto ciò solo indirettamente toccava il popolo: il contrasto più grave con esso era altrove. Andronico per abbattere il protovestiario Alessio e giungere al potere, aveva sfruttato i sensi latinofobi — che egli stesso, del resto, almeno in parte, condivi deva — e democratici della popolazione; ma allorchè poi si trovò a reggere uno Stato che aveva avuto fino allora una politica basantesi su un meraviglioso intreccio di accordi internazionali, dovette riconoscere che non si poteva rinunciare a questo indirizzo senza rinunziare alle cause stesse della vita. Ma se egli poteva conoscere e giudicare del vero stato di cose, il popolo, i borghesi che vedevano la realtà solo attraverso al prisma dei loro piccoli interessi, si accontentavano di paragonare quanto desideravano con quanto vedevano. E vedevano che Andronico aveva sposato la latina vedova di Alessio II, che permetteva la costruzione di chiese latine, faceva pace con Venezia, la maggiore rappresentante dei mercanti occidentali (3), e pagava loro grave tributo, che irri- deva alla Chiesa Nazionale. (1) N., 424. 11. (2) N., 419. 1 e segg. (3) Cfr. cap. IV, pag. 294. =J UL PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC, 287 Contro Andronico poi era gravemente irritato il clero bizantino, che non poteva dimenticare così il brutto scherzo dal basileus giocatogli in principio del suo regno, come il disdegno che egli non si era fatto serupolo di palesare alle volte per le cose e persone di chiesa. È vero che Andronico aveva stima per le persone dotte: amava averle presso di sè, conversare con esse su gravi argomenti, quando non fosse troppo occupato dagli affari politici, ed era largo di doni. Aveva in grande stima i filosofi e la filosofia diceva essere una scienza divina, per quanto preferisse parlare a lungo di sè, della sua vita, delle avventure, della fortuna che lo aveva condotto a salvamento, novello Davide, attraverso a tante traversìe. Detestava però le discussioni teolo- giche, e questo non doveva certo procurargli le simpatie del clero bizantino (1). È ben noto come Manuele si fosse sempre occupato di queste discussioni con grande ardore. Diversi concilî, attorno ai quali sì imperniano tutte le contese teo- logiche dibattute sotto il regno di Manuele, si svolsero con la più viva partecipa- zione e sotto la direzione del basileus stesso. Così la famosa questione sulla espres- sione evangelica “ il Padre Mio è maggiore di Me , fu risoluta dopo lunghe dispute con l'imposizione delle deliberazioni volute da Manuele (2). Morto Manuele, le agitazioni politiche fecero dimenticare per qualche tempo le questioni religiose. Ma quando Andronico si fu impadronito del potere, allora, nella calma universale, si incominciò nuovamente ad occuparsi e ad agitarsi per la famosa questione. Erano, si capisce, quelli che dopo aver visto le proprie dottrine condan- nate dai concilì e da Manuele, avevano dovuto abiurarle e piegarsi all’opinione uffi- ciale del governo. Ora essi speravano di essere per riuscire ad avere a loro volta la vittoria, a far riconoscere le loro teorie, abbattere la stele eretta in Santa Sofia nel 1166, su cui erano stati incisi i decreti della Sinodo. Andronico, in odio al cu- gino Manuele, avrebbe agito nelle questioni religiose, senza alcun dubbio, in senso contrario a quello del defunto basileus, e con il suo appoggio, essi speravano di riuscire trionfalmente nel loro intento (3). Ma i loro calcoli fallirono del tutto. Andronico non solo non aderì ai loro desi- deri, ma non volle neanche sentir parlare di nuove discussioni, dispute, concilî, dogmi. Un giorno, al campo di Lopadion, nella tenda imperiale, incominciarono a discutere sulla frase “ il Padre Mio è maggiore di Me , il segretario imperiale e noto storico Giovanni Cinnamo ed il vescovo di Neopatras, Eutimio Malaki, che ve- nuto poco prima dalla sua sede alla capitale, per una sua controversia con il vescovo di Euripo, era stato accolto dal basileus Andronico con magnificenza, sì da fargli, in dimostrazione della sua simpatia, ricchi doni, e da condurlo seco nella sua spe- dizione contro i ribelli d'Asia, durante la quale campagna appunto avvenne l’epi- sodio che ricordiamo. Andronico, che era presente, tosto che vide i due cortigiani accendersi nella disputa, proibì loro di continuare, minacciandoli, se si ostinassero, di farli gettare senz'altro nel Rindaco. Curioso modo di risolvere una controversia K (1) N., 434. 16. (2) Vedi Cratanpon, Jean II Comnène ete., pag. 646 e segg. (3) Per il contegno di Andronico nelle controversie religiose, vedi Nicera Acommato, 431. 2; e dello stesso, i frammenti del Tesoro dell'ortodossia, ed. Uspenskij, op. cit. a pag. 2, n.2. 288 FRANCESCO COGNASSO <_ 76 teologica, ma ben degno di Andronico, che non avrebbe certo esitato un istante a passare dalle minaccie all’azione (1). I retori ed i teologi non dovevano quindi avere per lui soverchia simpatia. E così il malcontento del clero, che certo, poi, lo lamentava poco generoso — non conosciamo di Andronico donazioni a chiese ed a monasteri (2) — il malcontento del popolo che egli più non accarezzava, si univano al malcortento, logico e ben naturale, dell’aristocrazia. Ed egli si rinchiudeva in sè, si isolava, perdeva contatto con l’anima popolare, che si commoveva ora, dimentica di sè e dei suoi bisogni, anche per la rovina della classe aristocratica, stata sempre l'onore della Romania. L’aumentare del numero delle condanne verso gli ultimi tempi del regno di Andronico, più che l’efferatezza sanguinosa, mostrano la debolezza del suo piedestallo, l’inquietudine che nel suo animo veniva nascendo dalla sempre più chiara coscienza che la sua popolarità an- dava via via scemando ed illanguidendo. La psiche popolare, che si nutre non di ragionamenti ma di impressioni, non comprendeva, inoltre, che potesse sussistere ancora adesso quel malessere economico che si era ingenuamente creduto di com- battere e vincere, rovinando i commerci degli occidentali: e la stessa severa eco- nomia praticata da Andronico, e da lui imposta a Corte, aveva senza dubbio finito per essere dannosa al commercio, spingendo molti che erano lesi nei loro interessi, ad aderire al movimento degli oppositori. La lotta sorda fra Andronico ed i suoi avversari mette capo a congiure che, scoperte, finiscono nel sangue: alle volte, una parola sola oziosa ma indipendente e sincera, può attirare l'ira di Giove tonante. Come Manuele, anche Andronico ha in sospetto gli indigeni ed anch'egli si circorida di stranieri e ripone unicamente la sua fiducia negli Angli, Danesi e Scandinavi della Guardia imperiale dei Varangi (8). Andronico, nella sua eccitazione, non risparmia neppure i fedeli partigiani: chi ieri aveva caro e metteva fra i suoi più intimi, oggi è capace di scacciare da sè, se non di trattare anche peggio (4). Costantino Tripsico, Grande Eteriarca, uno degli assassini di Maria d’Antiochia e di Alessio II, cade ora vittima della gelosia di un suo rivale, e della eccitazione nervosa di Andronico. Ministro zelantissimo e devotissimo, aveva sempre interpretato con il più vivo fervore gli ordini ed i voleri dell’imperatore, quasi in gara con il Logo- teta, Stefano Agiocristoforite (5). Aveva avuto grande influenza su Andronico e questi aveva a sua volta avuto in lui piena fiducia, ricontraccambiandogli il suo amore, trattandolo nelle lettere che gli scriveva, non come servo, ma come figlio. Ora è accusato da uno dei più intimi del basileus, forse dallo stessò Logoteta Agiocristo- (1) N., 431. 2; su Eutimio Malaki, vedi Treu, in AsZziov 1897, V, pag. 196 e segg.; Papapo- o pouros-Keramevus in Magveocòs, 1903. pag. 18 e segg. e Lamgros, op. cit., II, 36, 38. (2) Si ha per il periodo 1180-1185 un solo diploma, spurio, pare, per la famiglia Scordili, di Creta, attribuito ad Alessio Il (1184?), in Mixrosica et MirLer, Acta et dipl. graeca, II, pag. 235. (3) N., 418. 2; cfr. Historia de profectione Danorum in Terram Sanctam in MG., SS., XX1X, 162. (4) N., 336. 7. (5) Di Costantino Tripsico vedi il sigillo illustrato da Morprmanx in Sw les sceaua et plombs byzantins in “ Revue Archéologique ,, 1873, pag. 60. Sulla famiglia Tripsico vedi LamBros, op. cit., II, pag. 573. 7° PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 289 forite, di non mostrare più zelo alcuno per il suo ufficio, anzi di aver osato biasi- mare Andronico e lagnarsi di lui. Il basileus, nello stato d'animo in cui ora si tro- vava, si irritò vivamente per l’ingratitudine di Tripsico; e la sorte del Grande Ete- riarca fu decisa quando l’accusatore aggiunse che esso aveva osato farsi beffe del basileus Giovanni, ed aver esclamato un giorno, vedendolo passare: “ O qual razza di imperatore avrà l'Impero! ,, paragonandolo a Zinziflize, quel mostricciattolo che con i suoi giochi ed i suoi lazzi divertiva il popolino nell’Ippodromo. La vendetta di Andronico. per questo oltraggio alla maestà imperiale, raggiunse tosto Nicola Tripsico: i suoi beni furono confiscati, egli fu abbacinato (1). Poco dopo la morte di Costantino Macroduca e di Andronico Duca, due pa- trizi, i fratelli Sebasteiani, furono per ordine imperiale impiccati a Pera, sotto una accusa gravissima: avevano ordito una congiura per portare al trono il genero di Andronico, il sebastocratore Alessio. Già da qualche tempo questi era scaduto nella stima e nell'amore di Andronico, il quale ora forse diffidava di lui come di tutti, e solo più lo tollerava a Corte in quanto era il marito della sua Irene (2). Se vi fosse qualche cosa di vero in questa accusa di congiura, noi non sap- piamo; ad ogni modo Alessio fu incarcerato, abbacinato e rinchiuso in una torre a Chelai, sul Bosforo, non lungi dalla bocca nord nel Ponto; nè bastò: poichè Irene cercò interporsi in favore del disgraziato consorte, Andronico, dopo averle invano vie- tato di piangere per quel traditore, irato, la scacciò da sè. Come complici del Sebasto- cratore, non pochi fra i suoi amici furono mutilati od uccisi. Fra di essi fu un tal Mamalo, segretario del Sebastocratore, cui si imputava di aver istigato il suo signore a congiurare, mostrandogli certi scritti misteriosi, magici, che facevano profezie sui futuri imperatori; e per tale motivo, che lo stesso Niceta ritiene come giusto, quale reo di arti magiche, salì il rogo che fu acceso nella Sfendone dell’Ippodromo (3). I suoi modi contro il patriziato, contro chiunque, diventavano sempre più vio- lenti; di giorno in giorno Andronico perdeva l’energia necessaria per padroneggiarsi. I famigliari si dimostravano impensieriti, ed un giorno lo stesso suc figlio e collega, Giovanni, inquieto per l’avvenire, osservando l’accrescersi di tale malcontento, osò richiamare su di esso l’attenzione del padre, invitandolo alla mitezza. Se ne sdegnò Andronico e chiamò i figli femminuccie; egli disse volere che dopo la sua morte essi fossero veramente e senza contrasto i signori dell'impero, che essi regnassero ma- gari soltanto su macellai, su fabbri, su conciatori, ed altre classi umili di lavo- ratori, ma che fosse per sempre fiaccata, schiacciata del tutto, quella prepotente aristocrazia (4). Quante fossero le vittime di questo tramonto d’impero non sappiamo. Niceta Acominato, che scriveva nel tempo degli Angelo e non dimenticava di aver dovuto abbandonare sotto Andronico la carica di segretario imperiale, — non sappiamo se volontariamente, per timore di persecuzioni, o se ne sia stato da Andronico scac- (1) N., 410 e segg. (2) N., 384. 3 e segg. (3) N., 401. 20. (4) E., 413. 13. Serre Il. Tom. LXII. 37 290 FRANCESCO COGNASSO 78 ciato (1), — afferma che immense furono le stragi ordinate da quel fiero tiranno, ma poi non sa recare se non pochissimi esempi, tutti riferentisi ai primissimi od agli ultimi tempi del governo di Andronico, in più d’uno dei quali del resto non sapremmo biasimare l'operato del principe. D'altra parte, un cronista orientale, in- spirato ad un evidente e costante odio contro Andronico, afferma che esso fece uccidere in varii modi un migliaio di personaggi fra i più cospicui di tutto l’Im- pero (2). È questa una cifra certamente esagerata, ma quand’anche alcuno la vo- lesse ritenere come vicina alla vera, bisognerebbe ad ogni modo sempre convenire che essa nè spiega nè giustifica quella fama di sanguinario, di feroce tiranno, che da sette secoli offusca il nome di Andronico Comneno. La repressione delle ribellioni di Bitinia non è da paragonare con altre simili repressioni in paesi civili, in età moderne; mille vittime — se vi furono — sarebbero un nulla di fronte alle stragi di Ivan il Terribile. Andronico cercò sempre — egli affermava — di voler rimanere nella legalità; quando Costantino Macroduca ed Andronico Duca furono giustiziati, egli pianse e si lamentò di non aver potuto impedire alla vendetta della legge di avere il suo corso (3). Nè rifuggiva dall’accettare consigli: il giudice del velo Leone Monasteriote, che pure era stato dapprima avversario di Andronico, divenne poi suo consigliere ac- cetto ed influentissimo, sì che il basileus lo chiamava, scherzando, “ Bocca del Senato ,. Questi potè salvare dall’ira di Andronico il proprio genero, Giorgio Disypatos, ana- gnoste di Santa Sofia, che s'era attirata la collera del basileus per avere biasimato la sua condotta. Andronico, nell’eccitazione in cui si trovava negli ultimi giorni del suo regno, aveva bizzarramente ordinato di farlo arrostire infilzato su di uno spiedo, ed inviarlo poi in dono alla moglie. Leone Monasteriote ne ottenne la grazia dal basileus, e, pochi giorni dopo, avvenuta la rivoluzione, egli ricuperava la libertà (4). Abbiamo ricordato sopra Ivan IV di Russia, e senza dubbio la sua opera trova riscontro in quella di Andronico. Come questi, la prepotenza dell’aristocrazia bizantina, così quegli intende rovi- nare la potenza dei bojari, e tutti e due, ma più lo zar russo, ricorrono necessa- riamente a mezzi violenti. Era purtroppo un male, chè abbattendo l’aristocrazia, indebolirono ambedue lo Stato: Ivan IV si trovò disarmato dinanzi ai polacchi di Stefano Bathory, come Andronico dinanzi ai normanni di Guglielmo II. Ivan, signore di un popolo giovane e robusto, potè salvare l’opera sua e la Russia con pronti provvedimenti, Andronico cadde prima che l'impero si riorganizzasse e si rinforzasse. L'organismo vecchio più non si sorreggeva, ed il nuovo corpo organico, sognato da Andronico, fu confidato troppo presto a mani inette. (1) Vedi in LamBros, op. cit., I,349, quanto dice Michele Acominato nella Monodia per la morte del fratello. (2) Bar-HeBraAEUS, Chronicon, ed. cit., 393. (3) N., 383. 5. (4) N., 406. 5. 79 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 291 DVE Dall’invasione normanna all’insurrezione popolare. Dall'improvviso peggiorare delle relazioni dell'Impero con la Corte di Palermo e dalla susseguente invasione della Macedonia, doveva venire l'impulso a rovesciare il trono di Andronico I. Mentre in Bisanzio, dopo la morte di Manuele, i dissidi interni occupavano tutte le menti e paralizzavano ogni attività diplomatica, l’unione fra la Monarchia normanna e l'Impero tedesco si era andata rassodando e raffor- zando sempre più (1). Quali fossero i rapporti dell'Impero tedesco con Bisanzio negli ultimi anni della vita di Manuele, già abbiamo avuto occasione di accennare a proposito delle nozze della Porfirogenita con Raineri di Monferrato. La lettera che, verso il 1179, Fede- rico inviava a Manuele, in risposta ad una ambasciata a lui apportatrice di ricchi doni del basileus, mostra come fra i due Principi non solo vi fosse freddezza, vi fos- sero rancori reciproci, ma anche già elementi — di non dubbia importanza — preparatori di un conflitto gravissimo (2). Le reciproche lagnanze sul diritto recipro- camente contestato al titolo di Imperatore Romano, erano forse solo schermaglie diplo- matiche, e così, non altro è, evidentemente, l’aspirazione, che Federico mostra, a volersi occupare degli affari di Bisanzio, sino ad offrirsi come arbitro in certe contestazioni fra il basileus ed il patriarca bizantino. Tutto, però, contribuisce a mettere in evi- denza l’audace ingiunzione fatta da Federico a Manuele di inchinarsi alla sua supe- riorità, di riverire come massimo pastore il Pontefice Romano. Con franchezza poco men che brutale, l’imperatore svevo rilevava il contrasto stridente fra quanto pro- mettevano gli ambasciatori bizantini venuti a lui con doni e moine, e quanto invece facevano gli inviati segreti di Manuele in Italia. — Prometti — dice al -basileus — fraterno amore ed intanto ti sforzi di sedurre e di distogliere dal mio servizio con donativi ed ambascerie i miei fedeli. — E questo infatti inquietava Federico I più che il titolo di Imperator romano negatogli dalla cancelleria di Costantinopoli. Ed am- moniva ancora Manuele — Con i tuoi intrighi potrai, al più, attrarre a te i malvagi, i migliori mi resteranno fedeli: a me poco danno, a te poco onore. Ma se invece tu tenessi verso di me un contegno sincero, osservando gli accordi, io identici senti- menti avrei verso di te — Così nettamente colpiva Federico la sottile trama dell’au- (1) GiesesrecaT, op. cit., VI, 86-87; Cmaranpon, Hist. de la dom. des Norm., Il, 386 e segg. (2) La lettera della quale gli Annales Stadenses (MG., SS., XVI, 349) ci conservarono un fram- mento, fu edita da H. v. Kar-Herr, op. cit., appendice, pag. 156; cfr. GiresesgEcHT, op. cit., VI, 554. Il v. Kap-Herr attribuisce la lettera federiciana al 1177, ma penso che si debba trasportarla più tardi, ed avvicinarla al 1179, al periodo preparatorio della cattura di Cristiano di Magonza: cfr. infatti gli Annales Stadenses, ed. e loc. cit., e la Continuatio Zwetlensis altera, MG., SS., IX, 541, all'anno 1179. Per quest’ultimo passo che riguarda veramente il 1179-1180 e che trova riscontro in N., 261, vedi invece in contrario il Craranpon, Hist. de la dom. des Norm. II, 184, n. 3; però nella recente opera Jean II Comnène etc., pag. 600, n. 4, il Caaranpox ha creduto di dovere anch'esso riferirlo al periodo che segue la pace di Venezia. 299 FRANCESCO COGNASSO 80 tocratore: doni, gentilezze, attestazioni, di amicizia, a voce; in segreto, poi, preparativi attivi di guerra. Sappiamo infatti da una lettera di Alessandro III a Federico I, del principio del 1178, che, nonostante il trattato di Venezia, Manuele aveva ancora tenuto suoi rappresentanti e sue milizie nelle Marche; schiere bizantine, rinforzate — pare — da elementi normanni, avevano poco prima, molto probabilmente dalla amica Ancona, fatto incursioni nei domini imperiali marchigiani e nelle terre dello stesso Patrimonio di San Pietro. Il fatto aveva perfino destato un dissidio fra il Papa ed il Barbarossa. Questi, prestando fede — dice il Papa — a non so quali “ susur- rones et detractores , che avevano accusato Alessandro II di favorire contro di lui i Lombardi, nella loro nuova agitazione contro i tedeschi, ed i Bizantini, nei loro movimenti militari, si era affrettato a scrivere acerbamente al Pontefice (1). Alessandro HI, per scolparsi della grave accusa, inviò il suo medico personale con lettere non solo per l’imperatore, ma anche per gli arcivescovi di Colonia e di Magdeburgo. Non solo mai eccitò i Lombardi, ma piuttosto li ha sempre consigliati ad “ treugam servandam et complendam ,; si adopri piuttosto l’imperatore ad allon- tanare da sè per quanto è possibile “ omnem materiam detractionis et suspicionis ,, non pensando solo alla pace dell'impero, ma anche a quella della chiesa, compiendo “ que promissa sunt , ed osservando “ que completa sunt .. E per quanto riguardava i sospettati rapporti con l’imperatore bizantino, Ales- sandro III portava come valida prova della sua innocenza, il fatto che i bizantini invasori obbligavano le popolazioni a riconoscere come somma autorità spirituale “ quem iidem Graeci apostolicum appellant ,. Come era possibile, adunque, che essi avessero l’aiuto del Papa ? (2). Il basileus infatti era irritato del contegno tenuto a suo riguardo da Ales- sandro III a Venezia; alle tendenze aggressive dei suoi inviati il Papa doveva affret- tarsi ad opporsi, ed infatti, come ne scriveva all’imperatore tedesco, egli non aveva indugiato a sollecitare Ruggero conte d’Adria e Tancredi conte di Lecce, perchè richiamassero, sotto minaccia di confisca dei beni, quei Normanni che si trovavano agli stipendi dell’imperatore bizantino (8). Ma se Federico Barbarossa aveva di che lagnarsi perchè gli emissari di Manuele cercavano nel 1178-1179, e vedemmo con quale profitto. di eccitare gli animi degli Italiani contro di lui, d’altra parte anch'egli aveva avuto trattative con il Sultano d'Iconio per una alleanza matrimoniale (4), trattative che erano state, dal governo del Corno d'Oro, considerate come una minaccia non oscura, non ostante le proteste (1) Cfr. la lettera di Alessandro II al Barbarossa, edita dal LòwexreLn, Epistulae Pontificum ineditae, pag. 164; su di essa vedi, dello stesso autore, Die unmittelbaren Folgen des Friedens von Venedig, in È Forschungen zur deutschen Geschichte ,, XXV, 449 e segg. (2) È probabile che l’aggressione patita nel 1178 nell'Italia centrale da una ambasceria di Fede- rico I a Guglielmo Il (vedi Caarawnpox, Hist. de la dom. des Norm., II, pag. 383) sia opera di gente istigata da emissari bizantini. (3) Della tensione fra Alessandro III e Manuele nel 1178 è prova la lettera inviata dal Papa al clero di Antiochia, ordinante di stare in guardia contro i tentativi di Manuele per trarre quella Chiesa alla obbedienza del Patriarca bizantino (Vedi LiwenreLD, Epistulae, pag. 164). (4) Per i rapporti di Federico 1 con il Sultano d’Iconio, vedi, oltre la lettera di cui alla n. 1, la Continuatio Sanblasiensis in Muratori, R. I. S., VI, 883. Q n PIO STIA € sl PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 293 di Federico, che si diceva pronto a palesare tutte le trattative avute con il Sultano, senza dovere punto arrossire. A Manuele, i buoni rapporti del Barbarossa con il Sultano di Roum e con Guglielmo [I, non potevano non essere sospetti, tanto più pensando a quanto gli scriveva Federico I, del suo desiderio, cioè, che non solum Romanum imperium nostro disponatur moderamine, verum etiam regnum Greciae ad nutum nostrum regi et sub nostro gubernari debeat imperio (1). Tali essendo i rapporti diplomatici fra i due Monarchi, la cattura di Cristiano di Magonza dovette più che mai irritare Federico Barbarossa. Fece questi tutto quanto gli era possibile per liberare il suo fedele cancelliere, ma a nulla valsero i suoi sforzi. Noi non sappiamo per quali motivi Manuele abbia acconsentito alla libe- razione del fiero arcivescovo, secondo i patti stipulati da Bonifacio di Monferrato; certo però in quest'ultimo anno di sua vita è difficile che fra lui ed il Barbarossa siano intercedute trattative ed accordi fermi di pace (2). Quando Manuele scomparve dalla scena politica del tempo, il dissidio fra i due Imperi era più vivo che mai. Morto Manuele, ogni resistenza che da quel lato potesse trovare il Barbarossa ai suoi progetti in Italia venne a mancare, riuscendo quindi a condurre in porto felicemente il progettato matrimonio fra il figlio Enrico e Costanza d'Altavilla. Manuele I aveva profuso tesori per impedire l'affermarsi della casa Sveva in Italia, ed ora l’imperatore tedesco acquistava pacificamente, se non per sè, certo per i suoi discendenti, tanta parte della penisola. La gravità di questo avvenimento non poteva non impensierire i governanti del Bosforo, tanto più poi perchè quasi contemporaneamente essi si trovavano dinanzi la gravissima questione delle stragi del 1182, che parevano dover produrre gravissime complicazioni con più d'una potenza mediterranea. T profughi da Costantinopoli, non si erano riputati paghi di scorrere con le loro navi il Mar di Marmara e l’Egeo, dappertutto dove approdavano recando la desola- zione con stragi, saccheggi ed incendi; ma ritornati in patria avevano sollecitato i rispettivi governi a prender fiera vendetta dell’insulto e dei gravi danni sofferti (3). Le republiche marinare italiane, per il terribile colpo inflitto ai loro commerci trans- marini, furono gravemente corrucciate. Inoltre i malcontenti del governo di Andronico, quanti abbandonavano, volenti o nolenti, il territorio dell’Impero, sentivano l’odio contro il loro persecutore più fortemente della carità di patria. Nessun principe dimenticarono nei loro tentativi di (1) Sui rapporti fra i due Imperi ed il Papato, vedi pure NorpeNn, Pupsttum und Byzanz, pag. 112 e segg.; questi però usa i noti documenti pubblicati dal Baronio come riguardanti Fede- rigo I, mentre invece il Vasiljevskij (vedi Kurrz, in BZ., XV, 603 e segg.) dimostrò che !si riferi scono alla politica orientale di Federico II nel terzo decennio del sec. XII. Il Mirrer, The Latins in Orient, London, 1908, ritornò recentemente, ma a torto, alla vecchia opinione. (2) Sulla liberazione di Cristiano di Magonza pattuita, a quanto pare, fin dal gennaio 1180, salva però ogni approvazione di Corrado di Monferrato e di Manuele, vedi ToreLLI, op. cit., a pa- gina 330. Le diverse questioni tentate dal Torelli, se, ad es., la cattura di Cristiano abbia rela- zioni con la rivolta avvenuta a Roma contro Alessandro II e relativa nomina di un antipapa, se Cristiano doveva essere, come dice Niceta (262. 9), veramente portato a Costantinopoli, se esso fu liberato ancora vivo Manuele e con il suo consenso, e per quali motivi, non credo possansi, per insufficienza di documenti, definire neanche approssimativamente. (3) E., 415. 16 e segg.; N., 325. 10; WT., XXII, x1u, 1085 e segg. 294 FRANCESCO COGNASSO 82 procurarsi l'appoggio di qualche Potenza: il Re di Gerusalemme ed il Principe di Antiochia; il Sultano d’'Iconio ed il Saladino; le republiche italiane, il Pontefice Romano, il Re d'Ungheria, l'Imperatore tedesco; fecero sollecitazioni allo stesso Mar- chese di Monferrato. Sopratutti attivi furono i bizantini rifugiatisi in Sicilia. Vi erano fra di essi non pochi membri della maggiore aristocrazia, come un Maleino, un Dalasseno; capo ufficiale di questa emigrazione era un Alessio Comneno, figlio forse del protosebasto Giovanni, il già ricordato nipote di Manuele I. Era ancora giovane; alla corte di Manuele era stato Gran Coppiere; Andronico l'aveva esiliato in Bulgaria. Di colà, dopo essersi recato fra i Comani e poi successivamente a Kiew ed a Novgorod, riusà a portarsi a Palermo, dove con grande ardore cercava di convincere Guglielmo II ad or- ganizzare una spedizione contro Andronico I (1). Le parole del principe fuggiasco, e con lui di un notevole gruppo di Normanni che dopo avere servito Manuele ed Alessio II erano ritornati in patria all'avvento di Andronico, cadevano su terreno già pronto, chè il re Normanno da lungo tempo desiderava di misurare le proprie forze con quelle del signore della opposta riva adriatica (2). Dal padre aveva ereditato il dovere di vendicare gli attacchi di Manuele contro il Regno; inoltre Guglielmo Il non doveva avere dimenticato il grave insulto fattogli dal basileus nel 1172, rifiu- tandogli in isposa la figlia Maria, pur ufficialmente promessagli. Di fronte a tale pericolo. si comprende come Andronico Comneno giudicasse pru- dente il riavvicinarsi a Venezia, la quale in un conflitto normanno-bizantino sarebbe diventata senza dubbio l’arbitra dell’esito finale. È noto come il dissidio fra Venezia e Bisanzio non fosse stato punto provocato dalle stragi del 1182, ma già si trovasse nell’eredità politica di Manuele, che l’aveva determinato con la nota persecuzione del 1171 (3). Pace vera, dopo d’allora, più non si era conchiusa, non ostante ogni trattativa iniziata dal basileus (4). Nel 1175, Venezia era stata costretta, dalla rottura con il basileus, ad accostarsi a Guglielmo II, ottenendo, in un trattato d’alleanza per vent'anni, notevolissimi privilegi per i loro commercianti. Il trattato aveva naturalmente intenzione ostile alla Romania, come appare dall'articolo che privava di ogni diritto e privilegio quelli che contra» regnum nostrum egerint, et qui fuerint in aurilio Imperatoris Costantinopolitani ad defendendum eius imperium..... (5). Manuele, inquieto, cercò di indurre Venezia a rompere il trat- tato con il re normanno: suoi legati andarono a Venezia, legati andarono da Venezia a Costantinopoli. Non se ne fece nulla; chè Venezia dovette forse chiedere cosa troppo gravosa per l'Impero. Probabilmente però, già durante queste trattative (1) E., 415 e segg.; N., 384. 18 e 394. 11: sulle avventure di questo Alessio Comneno in Russia ed in occidente, vedi l'articolo del Lorarev nel ° Giornale del Ministero della P. I. di Russia ,, 1897, giugno, 415 e segg.; cfr. pure Craranpox, Hist. dela dom. des Norm., II, 371. (2) N. 385. 11. (3) Cfr. Besra, La cattura dei Veneziani in Oriente e le sue conseguenze nella politica interna ed estera del Comune di Venezia, in ° Antologia Veneta ,, I, 1900, pag. 35 e 111. (4) Vedi però le diverse opinioni di Herp, Histoire du commerce, I, 220; Scuause, Handels- geschichte, 224; Besra, op. cit., 115; Krerscamaya, Geschichte v. Venedig, 261; Heyxrx, Zur Entstehung des Kapitalismus in Venedig, Stuttgart, 1905. 60; Caaraxpox, Jean II Comnène ete., 592. (5) Tare und Tromas, Urkunden cur dlteren Handels-und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I, Wien, 1856, pag. 173. (00) B) PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 295 Manuele liberò i Veneziani che avevano ottenuto altra volta diritto di borghesia, indu- cendosi a reintegrarli nei loro beni e ad indennizzarli dei danni subìti (1). Dopo il trattato di Venezia, venne il basileus a nuove trattative e si venne ‘ad un accordo. Manuele avrebbe forse liberato i Veneziani che ancora erano in carcere, promettendo una indennità complessiva di quindici centenari d’oro da versarsi in più rate. Non pare però che tale promessa fosse tradotta in atto, chè Venezia, legata ora all'eterno nemico di Bisanzio Guglielmo II da un trattato assai proficuo per il suo commercio, non poteva dare a Manuele se non promesse e nulla più (2). E così, dopo queste trattative (da collocarsi forse negli ultimi tempi della vita di Manuele), Venezia si considerò ancora come in istato di ostilità verso l'Impero, e nel trattato Veneto-Pisano del 13 ottobre-23 novembre 1180, essa mette una riserva donec guerra inter nos et imperatorem Costantinopolitanum fuerit (3). È probabile però, che, tollerata da Manuele desideroso di pace, la colonia veneziana di Bisanzio si venisse ricomponendo. Le fonti.veneziane tacciono completamente delle stragi del 1182; queste però, in qualche misura, colpirono pure i commercianti veneziani; sappiamo infatti, che in quei giorni due commercianti veneziani trovarono a Naupatto quam- plures naves veneticas provenienti dal Bosforo: si non fugitis, omnes mortui estis, quia nos et omnes latini de Costantinopoli sunt discomissi (4). Gli storici veneziani tacciono del tutto sulle stragi, anzi affermano che Andronico aveva dei meriti verso Venezia: trattative sarebbero corse fra la republica ed il basileus. Soltanto ora sarebbero stati liberati i prigionieri del 1171; Andronico ut Venetos sibi favorabiles exhiberet, avrebbe acconsentito a pagare l’indennità annua, promessa forse, ma non pagata, da Manuele. Quando sarebbe avvenuto questo accordo? (5). Nel 1183, una carta privata di commercianti veneziani, stabiliti a Bisanzio, ha ancora questa riserva: excepto pe- riculo incendii et violentia Imperatoris (6). Il 17 febbraio del 1184, due commercianti veneziani in un loro contratto, prevedevano il caso che la pace firmata fuerit inter Veneciam et Costantinopolitanum imperium (7). In un altro documento fatto a Costan- tinopoli nel marzo dello stesso anno, si dichiara che due commercianti avevano pro- messo di fare un pagamento in Venezia postquam pax esset inter imperatorem Costan- tinopolitanum et Veneciam (8). Diversi documenti del 1185 parlano del versamento di una rata dell’indennità fatto da Andronico (9). Che Andronico accarezzasse, dopo gli avvenimenti del 1182, le republiche mari- nare, risulta pure dalle cure consacrate ad impedire che le navi gettate sulle coste (1) N. 225. 22; A. Danporo, Chronicon, Muratori, R. JI. S., XII, 298; cfr. però Besra, op. cit., 114. (2) Vedi Besra, op. cit., pag. 115 ed Heyxen, op. cit., pag. 58. (3) Cfr. MiLeR, op. cit., n. XVIII. (4) Il documento del giugno 1182 dell'Archivio di Venezia, S. Zaccaria, busta 1°, fu riassunto dal Ceccnerm in “ Archivio Veneto ,, II, 118. Di questo documento ho copia fornitami cortesemente dal dott. R. Cessi. (5) Anprea Danporo, ed. e loc. cit., col. 309. (6) Tare et Tomas, op. cit., I, pag. 177, n. 69; cfr. il documento edito dal Baracca in “ Archivio Veneto ,, X, 332, n. 83, del maggio 1183. (7) Cfr. SacerpotI, Le colleganze nella pratica degli affari e nella legislazione veneta, in © Atti del- l’Istituto Veneto ,, LIX, 1899-1900, 35. (8) Archivio di Stato di Venezia, Pergamene di S. Zaccaria, b. I. (9) Vedi Bxsra, op. cit., pag. 115 e segg.; Heyxen, op. cit., 61, n. 5, 67, n. 2; altri documenti dello stesso tipo mi furono comunicati dal dott. Roberto Cessi. 296 FRANCESCO COGNASSO 84 dalle tempeste, venissero saccheggiate dagli abitanti del luogo. A nulla avevano servito gli sforzi dei precedenti basileis. Quando Andronico aveva manifestato ai suoi consiglieri l'intenzione di eliminare tale abuso, essi avevano risposto dicendo che il male era insanabile. “ La volontà imperiale, rispose Andronico, è sufficiente ad impe- dire, quando veramente voglia, ogni male, purchè non manchino le sanzioni necessarie, . Ora egli voleva che i suoi ordini non svanissero' come una bolla d’aria, e dando le sue disposizioni a questo riguardo, raccomandò severamente a quanti, lì presenti, avevano governo di provincie marittime, o possedevano terre sulle coste, affinchè essi stessi incominciassero ad osservare il decreto, e lo facessero, sotto la loro perso- nale responsabilità, osservare ai loro dipendenti. E sapendo che una minaccia di Andronico non era una cosa vana, ognuno — afferma Niceta Acominato — prov- vide a far osservare fedelmente i suoi ordini (1). Adunque, proprio quando si stipulava il matrimonio normanno-svevo, il basileus si accordava con Venezia. Del trattato nulla sappiamo di preciso. Nel conflitto nor- manno-bizantino del 1185, Venezia pare conservasse una rigorosa neutralità; ma si comprende come, mentre durava il trattato veneto-normanno del 1175, Venezia ripu- tasse di concedere molto, ed Andronico, pro firmitate Imperii, di ottenere moltissimo, con la assicurazione appunto della più perfetta neutralità. Ad ogni modo la sua caduta impedì ad Andronico di soddisfare totalmente agli impegni assunti, ed Isacco Angelo, salendo al trono, doveva poi nuovamente pensare a risolvere la questione dei rapporti con le varie republiche italiane. Accenniamo ora brevemente alla politica orientale di Andronico. Dopo la scon- fitta di Myriokephalon, che tanta impressione aveva destato non solo in Asia, ma anche, e più, in Europa, Manuele aveva ripreso le armi, rivendicando i morti, e co- stringendo — pare — il Sultano d’Iconio a chiedere pace (2). Dopo la morte di Manuele, gli avvenimenti di Bisanzio avevano concesso al sultano Kylidi-Arslan la maggiore libertà di movimenti, e mentre Andronico attaccava la Reggenza, un esercito turco occupava improvvisamente la forte Sozopolis in Pisidia. Era una piazza forte del confine, di prim'ordine. Anche Kotyaion (Kutaya), centro di notevole impor- tanza, veniva occupata e distrutta. Fatti audaci dalla debolezza del governo bizan- tino, i Turchi assediarono la stessa Attaleia (Adalija). Quando però la lotta fra Andronico e Giovanni Vatatzes cessò, il Sultano non osò più muoversi e dalla sua corte dovettero allontanarsi gli emigrati bizantini (3). Andronico pare abbia rivolto l’animo ad una politica orientale nuova. Fino allora il governo bizantino aveva sempre inteso ad un accordo con gli Stati latini di Siria contro il pericolo mussulmano. Ancora negli ultimi suoi anni, Manuele aveva seguito tale ordine di idee. Nel 1177 è pronto con la fiotta ad una nuova spedizione in (1) N., 423-428. E notevole la copia di notizie su questo argomento dataci da Niceta, sì da far supporre che od egli stesso abbia presenziato l'udienza imperiale, od almeno tenga tali notizie da un testimonio oculare. (2) Sui rapporti di Manuele con i turchi nel periodo 1176-1180, vedi Craranpon, Jean IY Com- nène etc., pag. 514-515; un chiaro accenno alla pace conchiusa a richiesta del Sultano d'Iconio, trovi nel discorso di Eustazio per l’arrivo di Agnese di Francia, in ReeeL, op. cit., pag. 89, 22 e segg. (3) N., 340-9; cfr. Ramsay, The historical Geography of Asia, pag. 78 e segg. S5 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC, 297 Egitto, mentre in Asia Minore attende a vendicare la umiliazione di Myrioke- phalon (1); nel 1179 Guglielmo di Tiro viene a Bisanzio, di ritorno dal Concilio La- teranense, e riparte solo dopo la Pasqua del 1180, con ambasciatori imperiali per Antiochia, incaricato di trattative politiche (2); pochi mesi dopo, Joscellin de Cour- tenay, Gran Senescalco del re di Gerusalemme, viene a Bisanzio pro quibusdam regni negotiis, ed il suo compagno, Baldovino di Ramla, ottiene dal basileus ricco sussidio per il riscatto che deve pagare al Saladino; ambedue si fermano nella capitale anche dopo la morte di Manuele (3). Questi pensava sempre al suo progetto di Cro- ciata per ricacciare indietro i Turchi da tutte le loro posizioni maggiormente minac- ciose così per Bisanzio come per la Siria latina (4). Ora però le condizioni sono grandemente mutate: i principati latini di Siria sono debolissimi, incapaci di prestare un appoggio vivace, inoltre Antiochia è così ostile, che il principe Boemondo, dopo la morte di Manuele, osa ripudiare la propria con- sorte Teodora, nipote del basileus (5). Andronico, che nei lunghi anni della sua vita avventurosa aveva appreso a cono- scere la società mussulmana, e sapeva quanta energia vi si racchiudesse, aveva grande timore del Saladino, se questi, abbattuti gli Stati latini di Siria, avesse con- giunto al suo impero il sultanato di Roum. Se è vero quanto ci si racconta, egli avrebbe quindi osato, sfidando l'opinione publica europea e le imprecazioni dei latini di Siria, stringere accordi con lo stesso Saladino. Andronico avrebbe abbandonato al Saladino la Siria, riservando per sè l’Asia Minore fino ad Antiochia. Il tentativo di Andronicò, se esistè, era audace, difficile il tradurlo in opera (6). Intanto il pericolo che minacciava Bisanzio dall’occidente si veniva precisando. Il 29 ottobre 1184, ad Augsbourg, si celebrava il fidanzamento fra Enrico di Svevia e Costanza d’Altavilla (7); e del significato antibizantino dato a tale matrimonio dai contemporanei si fanno eco gli Annales Colonienses dicendo: Imperator, regno Grecorum infestus, filiam Ruotgeri, regis Siciliae, filio suo copulare procurat... (8). Di tale matri monio avrebbe dovuto essere inevitabilmente avversario ostinato il Papa, stretto ora dal nord e dal sud dalla stessa potenza. Se Andronico Î avesse saputo conservare con la Curia di Roma le buone relazioni corse fra Manuele ed Alessandro III, forse si sarebbe potuto impedire quell’unione che poteva riuscire nefasta ad ambedue. Manuele, fedele alla sua politica antitedesca, aveva voluto riprendere, nel suo ultimo anno di regno, ottime relazioni con il Papa, mostrando grande zelo per i suoi progetti di Crociata, promettendo ancora una volta la riunione delle chiese. Nel marzo del 1180, Manuele scriveva ad Alessandro III di avere appreso, con gioia, diceva, (1) Vedi, a questo riguardo, RomzIcar, Geschichte des Konigreichs Jerusalem, 372 e segg. (2) WT., XXI, 1v, 1066 e segg. (3) WT., XXII, 1v. 1069; Chronique d'Ernoul, ed. De Mas-Latrie, pag. 46 e segg. (4) Per i progetti di crociata di Manuele, vedi una importante lettera di Alessandro III al car- dinale Pietro del Titolo di San Crisogono, in Bovousr, Recueil, XV, pag. 952, n. 385 e vedi CHa- LANDON, Op. cit., pag. 505. (5) WT., XXII, 1, 1069; Bar-Hesrarr, Chronicon, 331. (6) La notizia di quest’accordo è data dalla Lettera dall'Oriente, MG., SS., XVII, 511. (7) Vedi Caaraxnon, Hist. de la dom. des Norm., II, 384. (8) MG., SS., XVII, 730. Serie IT. fox. LXII 38 298 FRANCESCO COGNASSO 86 l'annuncio inviatogli della partecipazione del re di Francia e d'altri principi alla prossima Crociata, che allora pareva quasi imminente. Egli si dichiarava pronto a provvedere, come ne lo pregava il Pontefice, ogni cosa che fosse necessaria ai Cro- ciati, nel viaggio attraverso al suo impero, purchè, diceva esplicitamente, essi, quidquid receperint civitatum a Turcis, quod intra confines Romaniae perstiterit, quarum catalogus missus est cum apocrisiariis Imperii mei, tradant hoc Imperio meo. Inoltre chiedeva al Papa che, per ovviare ad inconvenienti quali erano avvenuti nel passaggio di altri eserciti Crociati, inviasse a Bisanzio un cardinale a sorvegliare il transito dei Cro- ciati, ad impedire qualsiasi attentato alla integrità del suo impero, dappoichè quod in tanta multitudine non sint quidam etiam stulti, omnino impossibile est. Manifestava poi ancora Manuele il desiderio di avere notizie della salute del Papa (non est enim inconveniens ut Imperium meum crebro discat de salute tue Sanctitatis) e chiudendo la lettera, diceva ad Alessandro che se plus etiam quid vult inter nos fieri tua Sanctitas ad unionem nostri et concordiam muaiorem, ciò sarebbe stato graditissimo al governo bizantino (1). Il Papa, nonostante — probabilmente — l’opposizione di Federico I, inviò a Bisanzio un cardinale, Giovanni, che doveva, d’accordo con Manuele, trattare per revocare ecclesiam Graecorum ad instituta et subiectionem Romane ecclesie (2). Fin dove però le due parti fossero sincere, è difficile dirlo, chè da ambo le partì si inten- deva solo — probabilmente — minacciare il Barbarossa. Pura minaccia, ad esempio, al Patriarca ed ai Vescovi che s’opponevano alla desiderata correzione dei libri catechici, fu quella di Manuele quando diceva che avrebbe convocato un Concilio generale, ed a questo ed al Papa romano, sottoposto la questione (3). E già Fanno prima, al III Concilio Lateranense, pare che alcuni vescovi bizantini avessero inviato dei rappresentanti (4). Morto Manuele, quali rapporti siano corsi fra Roma e Bisanzio, la mancanza di documenti non permette di precisare. Il cardinale Giovanni, come già sappiamo, era ancora a Bisanzio nell’aprile del 1182, e fu vittima della agitazione senofoba della popolazione. Gli avvenimenti di quell’anno si conobbero in Italia solo assai lentamente: verso la fine dell’anno, in dicembre, Lucio III spediva a Bisanzio, con sue lettere, mastro Fabrizio, nipote del defunto cardinale di Sant'Angelo, Ugo Eteriano di Pisa, pro inquisitione illorum que in civitute regia noviter accidisse dicuntur, incaricandolo di una ambasceria per il basileus; e scriveva insieme all’altro zio di Fabrizio, mastro Leone Eteriano, interprete imperiale, pregandolo di inviargli un resoconto fedele fam de turbatione que in eadem civitate dicitur accidisse, quam de predicti imperatoris vel impe- (1) Bouquer, Recueil, XV, 974, n. 418 (con la data: marzo, indizione XIII). (2) Roserti DE Monte, Chronicon, ed. cit., 527. Non è possibile stabilire con precisione chi sia questo cardinal Giovanni. Osservo però che Giovanni, cardinal di Sant'Angelo, è ricordato in bolle pontificie per l’ultima volta il 28 agosto 1181; il suo successore Ugo Eteriano compare per la prima volta il 14 luglio 1182; e così pure Giovanni, cardinale dei SS. Giovanni e Paolo, è ricordato per l’ultima volta il 27 marzo 1181; nell'agosto 1182, in suo luogo vi è Raineri. Fra i due, propenderei per il secondo, che già aveva partecipato alle trattative per l'unione nel 1166, e si era recato allora a Costantinopoli (Casranpon, Hist. de la dom. des Norm., II, 358 e segg., e Jean Il Comnène etc., 565). (3) N., 287. - (4) Vedi Sigeberti Continuatio Aquicinctina (MG., SS., VI, 417). 87 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 299 ratricis et ipsius imperii statu (1), con che si riferiva probabilmente alla morte della basilissa. Allora la politica bizantina era già nelle mani di Andronico, e non sappiamo se rispondesse, e come, a Lucio III. E difficile però, data la tendenza politica da lui rappresentata, che avesse relazioni particolari con il pontefice; non è tuttavia da dimenticare quanto scrive un informatissimo cronista inglese, che Andronico, cioè, contro il volere del patriarca e del clero aveva costruito quandam ecclesiam nobilem în civitate Costantinopolitana: et eam honore et redditibus multis ditaverat, chiamando ad officiarla preti latini (2). Poichè ora l'unione con la Germania era sicura, Guglielmo II poteva ardire accin- gersi all'impresa orientale della conquista del trono imperiale, cui già eransi dimo- strati insufficienti Roberto il Guiscardo, Boemondo, il grande Ruggero, Guglielmo I. Occorreva affrettarsi, approfittare del contrasto fra il basileus e l'aristocrazia, prima che, risoltasi in qualche modo la crisi, l'impero si ricomponesse in tutta la sua com- pattezza. Il giovane Alessio Comneno prometteva al re Normanno, che lo ospitava, mari e monti, se lo avesse appoggiato nell’occupare il trono dei suoi avi, ed affer- mava che la sua venuta sarebbe stata sufficiente a determinare una sollevazione generale del popolo contro il tiranno (3). E nell'inverno dell’anno 1184-1185, Guglielmo, nonostante l’opposizione degli arci- vescovi di Palermo e Messina, si decise finalmente per la guerra; in verità però egli anzichè farsi semplicemente l’alleato disinteressato del pretendente, pensava soltanto a sfruttare il suo nome, contrapponendolo ad Andronico e riserbandosi di disfarsi di lui, qualora l'impresa fosse riuscita felicemente, per diventare egli stesso l’impera- tore d’Oriente (4). A facilitare il gioco del re Normanno, sopraggiunse in quel torno a Palermo un nuovo pretendente al trono di Bisanzio. Era questi un preteso Alessio II, che da qualche tempo destava grande rumore nelle provincie europee dell'impero. Se nel mistero che avvolgeva la scomparsa e la fine di Alessio II, i cittadini della capitale avevano saputo riconoscere senza troppa difficoltà il vero, nelle provincie lontane nulla si sapeva di preciso. Eustazio di Tessalonica ancora dieci anni dopo dichiarava di non conoscere con sicurezza il vero modo della morte di Alessio, e si comprende quale fosse la sorpresa e la gioia delle ignoranti e credule popolazioni di certe terre della Macedonia, dell'Albania, quando di bocca in bocca corse novella, essere il giovane basileus sfuggito alla morte decretatagli dal feroce tiranno, per pietà dello stesso figlio suo, e trovarsi egli ora nei loro stessi paesi, in segreto, sotto la tutela di un tale Alessio Sicunteno di Filadelfia (5), monaco, affermava lui, benchè dall’aspetto belli- coso, dall’abilità nel maneggiare la spada, lo si potesse piuttosto dire soldato. Sotto la guida di costui, viaggiava infatti un giovanetto sui quindici anni, per età e per fattezze, assai rassomigliante al giovane basileus: il Mentore suo lo trat- (1) MùcceR, op. cit., pag. 11. (2) Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 257 e segg. Nel 1184 era a Costantinopoli Assalonne, arci- vescovo di Lund (Ex Saronis Gestis Donorum, MG.. SS., XXIX, 157). (3) E., 418. 82; N., 414. 10. (4) E., 421; vedi Cnaranpox, Hist. de la dom. des Norm., II, 403. (5) E. 411. 12; 413. 20. 300 FRANCESCO COGNASSO 88 tava con i massimi riguardi, volendo, astutamente, si diceva, essere da lui trattato con alterigia di principe; con piccolo seguito e pochi bagagli viaggiando nelle regioni più infeste ad Andronico; i discorsi del monaco, i racconti che il ragazzo faceva a quanti lo visitassero, sui dolori sofferti nelle sue traversie, gli procuravano dagli ascoltatori già predisposti dall’odio contro Andronico, fede, omaggi e doni. Se alcuno poi dubitava, Alessio Sicunteno si affaccendava a mettere in evidenza tutte le ras- somiglianze del giovanetto con Alessio II, perfino la mancanza di un dente. A Costantinopoli, si diceva lo pseudo Alessio fosse soltanto un contadinetto di Vagenezia; Andronico poi, si faceva beffe del redivivo — egli era sicuro del fatto suo — e della credulità popolare (1). Era questa, senza dubbio, una impostura, ma anch'essa contribuiva a recar danno alla posizione del basileus. Dopo qualche tempo lo pseudo Alessio e la :sua guida stimarono prudente mettere fra sè ed una possibile insidia di Andronico, il mare, e si recarono in Sicilia a richiedere quel re di aiuto. Le sue affermazioni in Palermo furono credute da molti. Ibn Giobair, che appunto nella pri- mavera del 1185 visitava la Sicilia, narra come il giovanetto misterioso, sottoposto dal re Guglielmo a lungo interrogatorio, avesse dapprima serbato il suo segreto, dichiarandosi semplicemente servo del monaco suo compagno, finchè alcuni Genovesi che erano stati a Costantinopoli, avevano riconosciuto in lui veramente lo scomparso basileus. La nobiltà dei natali appariva da molti indizi; così si narrava che in un ricevimento solenne a Corte, mentre tutti i cortigiani si inchinavano profondamente dinanzi alla Maestà del Re, egli solo, non un inchino fece, ma un semplice e fiero segno di saluto, come di chi era conscio dei diritti spettantigli per la sua nascita più che reale (2). Guglielmo II l’aveva accolto ospitalmente nel suo palazzo, sottoponendolo ad una accurata sorveglianza per timore di un qualche attentato di emissari di Andro- nico, e frattanto il giovanetto sotto la guida di maestri datigli dal re andava com- piendo la sua istruzione. L'altro pretendente, Alessio Comneno, aveva dichiarato che il porfirogenito Alessio era morto e che questi era soltanto un vile impostore. Se veramente Guglielmo II lo avesse riconosciuto per Alessio II, in perfetta buona fede, è assai dubbio; al re Normanno non importava gran che; fosse o no davvero Alessio II, a lui bastava fingere di crederlo, affinchè fosse riconosciuto da tutti, per poter così ingannare le popolazioni dell'impero e mascherare le sue vere intenzioni: nel medesimo modo, Roberto il Guiscardo aveva affermato, partendo per la conquista dell’impero, di voler conquistare Bisanzio non per sè ma per quello pseudo Michele VII che si era presso di lui ricoverato. Intanto, nella maggior segretezza, negli arsenali di Sicilia si andava allestendo una potente flotta (3). Perfino nell’isola si ignorava per quale impresa si facessero tanti febbrili preparativi. Maiorca, l'Africa, l'Egitto, erano, a volta a volta, la meta che il volgo assegnava alla bella flotta che si stava armando. Guglielmo, per impe- dire che la notizia dei suoi preparativi si diffondesse e mettesse in sospetto Andronico, sul principio del 1185 fece mettere l’ “ embargo , su tutte le navi che si trovassero (1) E., 412. 3. (2) Ien Grogarr, ed. Amari, “ Bibliot. arabo-sicula ,, I, 170. (3) Sulla organizzazione della spedizione, vedi Cnaranpon, Hist. de la dom. des Norm., II, 402. $9 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 501 nei vari porti dell’isola: tutte le navi, anzi, furono requisite per il trasporto dell’eser- cito, con grave danno dei commercianti e dei pellegrini avviati in Palestina, che furono obbligati od a rinunziare od a cambiare via (1). Qualche notizia però era giunta a Bisanzio, ed Andronico si era affrettato ad inviare a Durazzo un suo parente Romano, allora in Bulgaria, e Giovanni Brana con alcune milizie. Ma Romano si era occupato solo di reprimere l’alterigia dei ricchi possi- denti che furono quindi mal disposti ora verso il governo imperiale; e prima che Giovanni Brana potesse mettere la città in condizione di respingere un attacco, la flotta nor- manna compariva dinanzi al porto, ed il 24 giugno senza difficoltà alcuna, Durazzo fu occupata. Giovanni Brana aveva fatto qualche resistenza nel castello, pur sapendo che era cosa inutile, per il piccolo numero di soldati che aveva; fu fatto prigioniero e traspor- tato in Sicilia (2). Pare che temesse l'accusa di tradimento e la vendetta di Andronico. Durazzo doveva essere per l’esercito normanno la base d’operazione. Era la tattica già seguita cent’ anni prima da Roberto il Guiscardo, ed ora, come allora, stava per dimostrarsi insufficiente. Infatti la occupazione delle provincie macedoniche doveva consumare molte energie dei Normanni, i quali solo dopo qualche mese di campagna faticosa avrebbero poi dovuto sostenere l’urto delle forze fresche degli imperiali. Un attacco all'impero bizantino sarebbe riuscito mortale, solo se portato direttamente alla capitale, isolandola dalle provincie. Fu poi la tattica della quarta Crociata. La flotta normanna, forte di più di duecento navi, sotto il comando di Tancredi, conte di Lecce, dopo avere sbarcato l’esercito a Durazzo, ripartì tosto per l’Egeo, per essere pronta a cooperare con le forze di terra, all’assedio di Tessalonica. L’eser- cito, che pare consistesse di ottantamila uomini fra truppe regolari ed avventurieri attirati dalla speranza di bottino, comandati da Riccardo d’Acerra e da un tal conte Baldovino, lasciato un presidio a Durazzo, scese lungo la via Egnazia nell’interno della Macedonia, senza incontrare nessuna opposizione, ed il 6 agosto si accampava dinanzi alle mura della seconda metropoli dell'impero (3). Non vi ha dubbio, che la marcia dei Normanni fu agevolata da quanti fra gli abitanti prestavano fede allo pseudo Alessio ed alle asserzioni dei Normanni di essere venuti solo in suo aiuto, da quanti nutrivano odio verso Andronico. D'altra parte sì comprende come, data la disorganizzazione dell'impero e la subitaneità dell’attacco, non preceduto da dichiara- zioni di guerra o da differenze diplomatiche immediate, Andronico non avesse potuto opporre tosto una resistenza efficace. L'esercito normanno aspettò allora l’arrivo della flotta che comparve il 15 agosto dinanzi a Tessalonica; tosto l’assedio di blando divenne rigido, i nemici si distesero attorno alla città come una falce da mare a mare, e già il giorno appresso avvenne un primo assalto (4). (1) Ian Grozarr, ed. cit., I, 168; Annales Colonienses Maximi, MG., SS., XVII, 790. (2) Per quanto riguarda l’assedio di Tessalonica, N. si riferisce al racconto di E. che è racconto, per questo tratto, di vita vissuta. Del conflitto normanno-bizantino vedi l’esposizione in CHALANDON, op. cit., II, 400 e segg.: e Tarer, Komnenen und Normannen, Ulm, 1852. (3) E., 425. 9; 504. 22; N., 385. 21. (4) E., 451. 2; 424. 21. Riguardo alla topografia di Tessalonica, vedi il lavoro del Tarer, De Thessalonica eiusque agro, Berolini, 1839. Per i confronti con le altre due prese di Tessalonica, del 904 e del 1430, cfr. Strucx, Die Zroberung Thessalonikas im Jahr 904, in BZ., 1905, XIV, 534-563. 302 FRANCESCO COGNASSO 90 Le vicende dell'assedio ci furono narrate con qualche ampiezza dal buon vescovo di Tessalonica, il dotto Eustazio, in uno scritto pieno di retorica, sì, ma pure assai prezioso, dal quale provengono pure quasi tutte le notizie dateci da Niceta sul con- flitto normanno-bizantino. Durante il mese di luglio, mentre i Normanni attraversavano la Macedonia, il panico aveva preso i Tessalonicesi, e tutti i più agiati si allontanarono con le loro ricchezze, diretti, per lo più, alla Capitale; Eustazio pare aver inviato pure colà alcuni giovani del clero, ed egli stesso forse se ne sarebbe andato, se non fosse stato trattenuto dal pensiero del popolo che protestò di non voler rimanere se anche il suo maggior pastore lo avesse abbandonato (1). Non sappiamo di qual branca della famiglia imperiale provenisse David Comneno, il governatore della provincia di Tessalonica. Veramente, già da non poco tempo esso sarebbe stato destituito dal basileus che aveva per lui poca simpatia, ma lo stesso figlio di Andronico, il sebastocratore Manuele, si era interposto in suo favore; David soleva, però, dire di temere sempre un improvviso arrivo di un funzionario imperiale per sostituirlo e mandarlo a morte, appunto sapendo che il solo appartenere alla famiglia Comnena gli era di danno. In questa sfiducia, anzi, in questa inimicizia vera fra Andronico e David, sta, secondo Eustazio, la causa principale della rovina di Tessalonica (2). Davide Comneno aveva goduto fino allora la stima e l’amicizia dello stesso Eustazio (3), nè era uomo del tutto spregevole, ma, disgraziatamente, era un buro- cratico, non un capitano. Appunto per questo, egli è aspramente vilipeso dall’arci- vescovo nel suo racconto, poichè durante l’assedio mai egli vestì corazza e rinserrò il capo in un elmo; burocratico cortigiano, egli si attirava gli scherni dei soldati, quando fra il piovere delle freccie e dei sassi lanciati dagli assedianti, egli attra- versava la città su di una mula, vestito di elegante abito, avendo ai piedi calzari tutti belli, in capo un cappello rosso, secondo la moda introdotta dai commercianti Georgiani, tutto a pieghe attorno, stendentesi sulla fronte a proteggere con una larga ala gli occhi ed il viso dai raggi del sole; portava freccie ed arco, ma questo — dice il maligno Eustazio — lo teneva come fosse un oggetto or ora comperato, prima ignorato, e non come un'arma. Ed un bel giorno — continua Eustazio — dalla rocca, ben sicuro, si disse che osasse scagliare una freccia (4). Eustazio lo accusa di avere trascurato i preparativi per la difesa, e molto di vero vi ha in questa accusa, molto di esagerato. Occorreva fare riparare la cisterna della rocca da molto tempo non più usata: e se il lavoro fu compiuto, a nulla servì, poichè per quanto un tal Leone Mazida, personaggio non oscuro, avesse raccomandato di non riporvi acqua prima di alcuni giorni, per aspettare che le pareti rifatte asciu- gassero, già poche ore dopo essa vien ricolma d’acqua, rovinando i lavori prima fatti. E di questo, la colpa, Eustazio l’ascrive a Davide. Eustazio si domanda se questa tras- curatezza non sia una specie di tradimento. Certo, Davide temeva per la madre ed (1) F., 425. 15; 434. 21. (2) E., 428 e sega. (3) E., 377; 428 e segg. (4) E., 439. 20. 91 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 803 il fratello che si trovavano a Bisanzio, esposti alla vendetta di Andronico, ma esso è da paragonare, dice, a quel guardiano di vigne, che per odio feroce contro il suo signore, non guasta, no, l'uva, ma rimanendo nella vigna finge di non vedere i ladri, pronto a giurare di esser sempre rimasto sul posto, e di non aver nè visto nè aiutato i ladri. Era da biasimare quindi Andronico per avere lasciato un comando così impor- tante ad un individuo tanto malvagio (1). Mancavano le freccie per gli arcieri, e inutilmente gli addetti alle macchine per lanciare sassi chiedevano a Davide, munizioni ora, ora del legno per riparare le macchine stesse; se poi si lamentavano che queste non erano adatte a sostenere i colpi lanciati da quelle degli avversari, egli rispondeva tranquillo: e che posso fare? quando però non toccavano bastonate, come a quel soldato che osò audacemente rimpro- verare al governatore la sua infingardaggine. A chi lamentasse la debolezza delle mura egli non dava alcuna soddisfazione, poi si metteva magari a sedere all’ombra, talora, al riparo dai colpi, e guardando il piover dei dardi, esclamava: — brutte cose queste! — e se ne stava tranquillo a riposare delle sue gravi fatiche mentre la battaglia ardeva (2). Ma Eustazio accusa ancora il governatore di speculare sul prezzo delle vettovaglie per fare denaro, di acconsentire che i ricchi cittadini abbandonassero la città, sotto la scorta di uomini armati, che venivano così sottratti alla difesa. È probabile che Davide Comneno non avesse coscienza del pericolo, essendo convinto di non dover sostenere un assedio troppo lungo: egli sperava che all’av- vicinarsi dell’esercito imperiale, i Normanni fossero costretti a lasciare l'assedio di Tessalonica. Certo egli avrebbe dovuto avvertire il governo di Bisanzio delle cattive condizioni delle fortificazioni, ma questo sarebbe stato confessare la sua negligenza durante tutto il tempo del suo governo, attirandosi l’ira di Andronico. Così egli per vivere in quiete e non essere destituito —- se non peggio — aveva convinto Andro- nico che le cose andavano ottimamente a Tessalonica: tutto essere pronto, nulla mancare alla difesa, non resistenza di torri, non balestre, non munizione di mura e di baluardi, non quantità e bellezza di carri, nulla insomma; così egli mentiva, nel suo interesse momentaneo, senza che alcuno, ignorando tali sue affermazioni, potesse rivelare il vero stato di cose (3). Quando ancora i nemici non avevano rinchiuso totalmente la città con le loro linee d’assedio, in una ricognizione si era fatto prigioniero un Normanno. Davide, per farsi bello agli occhi di Andronico, gonfiando la cosa, aveva scritto al basileus che la guerra procedeva bene. Altro giorno, in altra sortita, il bottino fu di due muli, più un elmo gettato da un Normanno in fuga: il tutto fu portato in città come un trofeo, e nuovamente Davide mandò un corriere ad Andronico per avvisarlo della vittoria; un duello fra due cavalieri nemici ed una diecina degli assediati divenne per opera del governatore un nuovo trionfo (4). (1) E., 435 e segg.; 449. 20. (2) E., 432. 21 e segg.; 440, 16 (3) E., 429. 3. (4) E., 427.5 e segg. E. parla (428. 5) di cavalieri #4 70d z@v Ioperevrtosvwv t3vovs; suppongo trattarsi dei noti avventurieri Brabanzoni, per i quali yedi H. GerarD, Les Routiers au XII siècle, in “ Bibl. de l'École des Chartes ,, I Série, 1841, III, 125 e segg. 304 FRANCESCO COGNASSO 92 Poi cessarono le sortite, chè l'assedio divenne più stretto così per terra come ‘per mare ed i Normanni si fecero più incalzanti. Qualche capitano del presidio avrebbe voluto fare regolari sortite per disturbare i lavori di approccio degli assedianti, ma non mai sì potè strappare il consenso del governatore: Eustazio dà a Davide Comneno gran colpa di questo, colpa di certo non molto grave nella realtà, chè egli proba- bilmente temeva un assalto improvviso dalla marina, mentre le truppe fossero occu- pate in qualche grave azione nel piano. E ad ogni esortazione perchè ordinasse una sortita, egli rispondeva di non poter farlo: a lui era stata ordinata esplicitamente dal basileus la pura e semplice difesa della città (1). È chiara dunque la tattica di Andronico: fidando che Tessalonica, come aveva assicurato ed assicurava Davide a più riprese, fosse pronta a sostenere un assedio, sì da trattenere per qualche tempo l’esercito normanno, il basileus intendeva compiere accuratamente i suoi preparativi, in modo che quando gli invasori si fossero fiaccati sotto gli spalti tessalonicesi, non potessero opporre grave resistenza all’attacco degli imperiali (2). I nemici frattanto con grande animo attendevano all'assedio. Le macchine per lanciare proiettili erano continuamente in azione; fra di esse ve ne era una più grossa e più rumorosa, capace di lanciare pesanti macigni, e gli assediati le avevano affibbiato il nomignolo di “la vecchia ,, probabilmente perchè operava lentissima- mente; ma, essendo per la sua stessa grandezza difficile a maneggiare, riusciva poco utile. Dalla parte del mare, per la poca profondità delle acque, non vi furono attacchi; non così ad oriente dove la difesa essendo più debole, più vivace ed insistente era l'attacco; delle mura speravano i Normanni di aver ragione, scavando alla loro base delle fosse, e cercavano ogni altro mezzo per riuscire presto nel loro scopo (3). Intanto l’esercito imperiale si organizzava nella Tracia. Lo comandavano il figlio stesso di Andronico, il basileus Giovanni, Alessio Guido, un latino entrato al servizio di Manuele e salito all’altissima carica di Gran Domestico dell’Oriente, inoltre An- dronico Paleologo, Manuele Camitze, ed il cartulario Teodoro Cumno. Poi venne lo stesso suo Paracoimomeno, l’eunuco Niceforo, l’uomo di fiducia del basileus, il quale scrisse a Davide avvertendolo dell’avvicinarsi dell’esercito e sollecitandolo a resistere, chè il suo esercito era così forte da temere che i Normanni non fuggissero appena conosciuto il suo venire. i Per ora, però, gli imperiali avevano ricevuto l’ordine di non attaccare i nemici, finchè i preparativi fossero finiti. Più tardi, pare che Andronico ordinasse al Paracoimomeno di cercare di entrare in città per sostituire nel comando l’imbelle Davide, le cui gesta erangli ora certa- mente note per il racconto dei Tessalonicesi rifugiatisi alla capitale; ora però nulla più si poteva fare e Niceforo arrivò la vigilia stessa della presa della città. Im questa si trovava il sebasto Giovanni Maurozoma, proveniente dal Peloponneso, e rinchiusosi in città con le milizie seco condotte: più volte ebbe contese con il governatore che non riusciva ad eccitare all’azione. (1) N. 411. 15, dove l’autore riferisce parole autentiche dell'ordine di Andronico. (2) E., 442. 7. (3) E., 431 e segg.; 452 e segg. 93 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 305 Teodoro Cumno si era accostato maggiormente alle linee degli assedianti, e riuscito ad entrare in comunicazione con la città, invitò Davide ad operare una sor- tita per un determinato giorno, mentre egli avrebbe attaccato il nemico dall'altra parte. Invito inutile: il Cartulario attaccò, ma Davide si accontentò di salire sulla piccola altura orientale dell’Acropoli, guardare la pianura dove si combatteva, fare induzioni coi suoi adulatori, chè neppure questi mancavano, sulle mosse dei due partiti e sull’esito. E Cumno dovette ritirarsi, mentre David Comneno ordinava che si richiudessero le porte dietro a quanti, senza suo ordine, anzi, contro i suoi ordini. avevano osato uscire. Dopo la presa della città, i Normanni raccontavano ai vinti che se in quel giorno avessero fatto una sortita, sarebbe stato possibile distruggere tutta la flotta ancorata nel porto e lasciata senza equipaggi (1). Di fronte alla inerzia colposa del governatore rifulge maggiormente 1’ eroismo delle poche milizie — vi erano Alani, Iberi, Serbi — e della cittadinanza, che, non ostante la fuga della classe più abbiente, tutta fervidamente attendeva alla difesa. Non solo gli uomini, ma anche le donne, non solo i validi, ma anche i fanciulli; gli stessi preti, dimenticando i divieti canonici, smesso l’abito sacerdotale, combattevano. Più di una volta, manipoli di eroi, scesi dalle mura con grave pericolo, poichè il governatore teneva loro chiuse le porte, si spinsero fino al campo nemico, portando via dalle tende dei viveri. Se la pioggia dei proiettili normanni era terribile, anche il tiro degli assediati non era innocuo; da Porta d'Oro — la gran porta Occidentale — i dardi giungevano fino al tempio di S. Nicola fuor delle mura, sulle stesse tende del nemico ivi accam- pato, e più di una volta i Normanni dovettero sloggiare dalla zona battuta dagli avversari, come dalla parte della marina, alcuna volta i Normanni dovettero ritirare dal porto le navi troppo esposte ai colpi provenienti dalle mura, benchè sull’alto degli alberi in appositi ripari stessero frombolieri a tirare sulla città. I Normanni avevano scavato gallerie per giungere sotto le mura e diroccarle: Basilio Tzisco, accortosene, aveva avvertito i capi, e dopo di aver ponderato se si potesse lasciar compiere le gallerie per poi gettarvi fasci di legna accesa e soffocare i nemici, si decise di costruire nei punti minacciati, più addentro, un nuovo muro che fermasse i Normanni quando abbattuto il primo si fossero creduti padroni della città. Ma il segreto non fu mantenuto e quel punto fu speciale bersaglio dei nemici, sì che l’impresa fu dovuta abbandonare (2). Ma non era possibile continuare a lungo, chè le munizioni mancavano ed i difen- sori erano troppo pochi. La caduta era irreparabile, mentre ad oriente gli attacchi si facevano più irruenti, dal mare alle porte degli Asomati. Il 22 agosto le mura del lato orientale — le più battute dal nemico — non avevano quasi più difensori: gli uni caduti, gli altri sfiduciati (3). A produrre lo scoramento dei cittadini contri- buivano le voci di tradimento. Manuele Abudino, per esempio, cittadino egregio e commerciante dabbene, dice Eustazio, era convinto del tradimento e lo proclamava (1) Sui preparativi di difesa, cfr. E., 430-431; su Niceforo il Paracoimomeno, E., 439. 12; per Teo- doro Maurozoma, E., 445. 9; su Teodoro Cumno ed i suoi tentativi, E., 443. 19 e N. 412-413. (2) Vedi le notizie sui diversi episodi di tradimento in E., 449. 8; E., 450; 454.7 (3) Sulla resistenza della cittadinanza vedi E., 446-459. “== MEA 39 306 FRANCESCO COGNASSO 94 apertamente, dopo la presa della città. Narrava infatti quel valentuomo che il 24 agosto, lo stesso giorno della caduta della piazza, egli si era alzato per tempissimo, ed ar- matosi, s'era avviato alle mura. Per via si era imbattuto in cinque cavalieri Alemanni, del presidio, uno dei quali, estratta la spada, gli aveva menato tal fendente da recidergli la mano destra. Nè basti: il giorno prima, altri tre Alemanni, si erano apertamente recati al campo Normanno; due giorni prima, a tarda sera, tal Teofane Probate, che già a Durazzo aveva mostrato di parteggiare per i Normanni, era riuscito ad entrare in città. A che fare, se non per preparare il tradimento? Un Leone Agioeufemite lo aveva saputo, da lui altri, ma nessuno aveva avvertito il governa- tore. Senza dubbio, ai Normanni fu di grande utilità l’aver potuto comunicare con latini abitanti in città che ragguagliavano gli assedianti su quanto avveniva fra cittadini e delle condizioni della difesa. Da una torre, quella detta dei Borghesi, i i vicino al porto, ad esempio, due fratelli facevano segnali ai Normanni, come dopo raccontava ad Eustazio un Normanno; poi, presa la città, quei due non dubitarono di darsi anch'essi al saccheggio. La notte dal 23 al 24 agosto fu finalmente aperta nelle mura, vicino al mare, dalla parte orientale, una larga breccia, presso la torre di Camedracone, e fattosi giorno i disgraziati cittadini compresero essere per loro venuta l'ora fatale (1). Davide Comneno, che aveva giurato di voler piuttosto uccidersi anzichè fuggire, di poter sostenere l'assedio per quaranta giorni, anche senza mura, ora, appena vide una lancia nemica spuntare sulle mura presso il mare, ed i marinai ed i seguaci del pirata Sifanto, e gli avventurieri francesi venuti al servizio dei Normanni nella sola speranza del bottino (&vdoes toù dilizov) (2). slanciarsi su per le rovine, assetati di sangue e di preda, si diede alla fuga, sulla sua mula, tutto ‘elegante ed aitillato, indifferente alle invocazioni dei cittadini che lo supplicavano di consiglio ed aiuto (83). Non mancarono neppure ora cittadini generosi ed audaci che ardissero aspettare il nemico a piè fermo, tentando una ultima ed inutile resistenza. Così quel Leone Cotala. uomo di grande coraggio, che rimase imperterrito al suo posto sulle mura occidentali, quando già la città era piena di nemici così quel prete Boleas che animosamente combattè, e cadde dopo aver colpito più di trenta nemici (4). I cittadini fuggenti per la città si diressero all’Acropoli sperando di trovarvi rifugio: la moltitudine dei fuggiaschi fu tale che nella ressa non pochi caddero, mentre sui loro corpi gli altri passavano, solo euranti della propria salvezza: la chiu- sura improvvisa delle porte costò la vita ad altri ancora (5). L’arcivescovo Eustazio, disdegnando la rocca, ove difettaya l’acqua, ed il tempio di San Demetrio, pieno zeppo di gente accorsa a pregare, a supplicare il Patrono della città che salvasse anche ora, come già altra volta. i suoi divoti, se ne rimase a casa, dove fu poco dopo sorpreso dai vincitori (6). (1) E, 449. (2) Vedi pag. 303, n. 4. (8) Sulla iattanza e viltà di Davide Comneno e sulla sua fuga, E., 371, 11; 374; 457. 19: 462. 4. (4) Per alcuni atti eroici dei cittadini, E., 459; 462. (5) E. 371-372. (6) E., 462-463. 95 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 307 I Normanni, entrati in città, saziarono la loro brama di strage: quanti sorpre- sero nelle vie, e, dapprima, anche nelle case, tutti furono massacrati. Chiese, conventi, ospedali non furono risparmiati: gli uomini uccisi, violentate le matrone, profanate le vergini, trastullo di quei barbari crudeli e lussuriosi. Durò la strage non più di un giorno, ma bastò perchè vi perissero settemila infelici. Sulla pubblica via i con- quistatori ne fecero poi raccogliere cinque mila; gli altri erano stati colpiti nelle loro stesse abitazioni (1). Sull'Acropoli e sulle piazze furono fatti roghi per distrug- gere rapidamente tanti cadaveri. I pirati di Sifanto non pensavano però solo a stragi, ma a far denaro, e quindi molti ragguardevoli personaggi, fra i quali l'arcivescovo e Giovanni Maurozoma, furono trasportati prima all’Ippodromo, poi al porto e rinchiusi nella nave di Sifanto, piena zeppa di prigionieri. Dice Eustazio che i cavalli usati per il loro trasporto incontra- vano difficoltà nella marcia per i cumuli di cadaveri o di roba estratta dalle case e depositata sulla via. Dopo di aver nella nave trascorsa quella notte, furono il giorno appresso condotti, onorevolmente, ad Alessio Comneno, venuto anch'egli a Tessalonica, e presso di lui rimasero finchè ebbero pagato il prezzo di riscatto. Dice Eustazio di essere stato su quella nave molto angustiato da un tale Guglielmo, latino fuggito da Nicea per causa di Andronico e che era contro i bizantini veramente furioso. Quattromila aurei dovette sborsare il povero arcivescovo; piccola cosa per lui, cui, se- condo affermavano i Normanni, l’arcivescovado rendeva cento centenari d’oro all’anno. Restituito finalmente in libertà, trovò Eustazio tutta la sua casa occupata da Normanni, ed egli dovette acconciarsi alla meglio su fieno nell'atrio del bagno e nel piccolo giardino dove i suoi non desiderati ospiti venivano a mangiar la frutta benchè ancora acerba, ed a scandalizzare Eustazio ed î suoi compagni con le loro maniere rozze e brutali, ignari delle raffinatezze della vita bizantina. Della sua roba nulla più ebbe, solo un capitano normanno gli concesse cinquanta aurei per il sostentamento (2). Anche le chiese vennero saccheggiate, ed Eustazio narra, tutto addolorato, delle innumerevoli nefandità commesse dai sacrileghi vincitori, orrori cui solo pose fine l'intervento energico di Tancredi di Lecce, che a cavallo entrò nel tempio di San Demetrio, scacciandone gli empi profanatori (3). Già lo stesso giorno della presa della città, nel pomeriggio, i capi Normanni avevano cercato di frenare i loro soldati, facendo cessare i saccheggi e le distruzioni, le morti; e si pensò a dare assetto al nuovo stato di cose, installando i soldati nelle case private, assegnati ai capi i palazzi principali, dopo averne scacciati i proprietari, cui nulla rimase, nè vesti, nè danaro, nè vettovaglie; e molti si videro degl’indigeni errare seminudi, ludibrio dei vincitori (4). Chi sfruttò quant’era possibile la triste condizione dei cittadini superstiti furono gli Ebrei e gli Armeni abitanti i paesi, posti non lungi da Tessalonica, di Crania e di Zemenico, i quali dopo aver parteggiato per gli assalitori, sfruttando la mancanza di mercati, la sospensione totale della vita commerciale, vendevano viveri a prezzi (1) E. 475.21. (2) E., 463-466. (8) E., 470. (4) E., 473. 30$ FRANCESCO COGNASSO 96 favolosi, a tre stateri, ad esempio, un pane di un obolo. Ebrei ed Armeni specula- vano pure sulla ignoranza dei Normanni, dai quali comperavano per poco denaro cose preziosissime. Avidi di oro, quei barbari cedevano a vil prezzo stoffe preziose, tessuti, abiti di seta, libri preziosissimi, dopo averne accumulati a mucchi nelle piazze, alla rin- fusa. Tenevano per sè solo le armi. Neppure ad essi piacque il vino greco, resinato, per quanto vecchio e famoso, come già era dispiaciuto a Liutprando alla Corte bizantina (1). In tanti dolori i cittadini che non erano fuggiti prima o che non partivano adesso, si raccoglievano con i loro sacerdoti attorno alla tomba del Santo, invocandone aiuto. Nel Tempio tutto era distrutto, e la desolazione era tale che lo stesso conte Baldovino volle donare all'arcivescovo del denaro per riparare ai danni più gravi, mentre egli stesso lo provvedeva di libri sacri e della suppellettile per le funzioni religiose. Nei primi giorni dopo la presa della città, naturalmente, non vi furono nelle chiese fun- zioni di sorta: solo più tardi, ricominciata una vita per quanto possibile regolare, si richiamarono i fedeli ai templi; ma, allora, i Normanni presero sospetto delle tavo- lette di legno che sostituivano in Oriente le campane, e temendo fosse il segnale di una ribellione, per poco non diedero principio ad una nuova strage. Quando i fedeli si raccoglievano in chiesa a pregare, anche i Normanni vi venivano per turbare con schiamazzi le funzioni, e poco poteva fare l'autorità del conte Baldovino, che pure cercava di ristabilire la disciplina con severe punizioni per i più prepotenti (2). Si cercava ora di lenire i dolori dei vinti, ma pure vi era fra i Normanni una tendenza recisamente avversa alla popolazione indigena, e desiderosa di espellerla in massa, anzichè stabilire con essa un modus vivendi. Questi Normanni si rammari- cavano di non avere, subito dopo la presa della città, distrutta completamente la popolazione greca, ed anche ora pensavano di chiedere al re che Tessalonica fosse concessa come abitazione solo a latini, per costituire così un vigoroso centro della latinità. Eustazio, stimato e venerato anche fra i vincitori, che le sue preghiere e suppliche in favore dei suoi concittadini ascoltavano con benevolenza, fu talmente intimorito da queste voci minacciose, che si affrettò ai generali Normanni, i quali lo rassicurarono e garantirono la sicurezza del suo popolo (3). Nonostante ogni sforzo dei capi, i Normanni tenevano verso i cittadini un con- tegno poco atto a conciliar loro la stima e l’affezione. Se si incontrasse un indigeno con un Normanno, non solo insulti, ma gli toccavano non di rado anche busse; se con un Normanno a cavallo, allora doveva affrettarsi a cedere il passo per non essere travolto; le perquisizioni sulla persona per rintracciare denaro ed armi erano fre- quenti: i Normanni avevano una antipatia speciale per le barbe degli indigeni, e non si facevano scrupolo di tagliarla a quanti incontrassero e così pure per le lunghe capigliature. Per questo i rozzi vincitori si servivano alle volte del rasoio, alle volte di un coltello od anche della spada, prendendo gioco dello spavento del malcapitato. Se alcuno ardiva ritornare alla propria casa, era dapprima ben accolto dai Nor- manni che vi si erano stanziati, ma poi volevano ad ogni costo sapere dove avesse nascosto i suoi denari, ed il poveretto assaggiava allora il bastone, se pur non veniva (1) E., 480-481. (2) E., 440. 9; 482. 8; 489. 19. (3) E., 483. 13; N., 400. 97 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 309 esposto alle esalazioni del zolfo ardente. Chi avesse fatto per ribellarsi, o li avesse minacciati di denunziarli ai superiori, allora non ne usciva più vivo dalle loro mani, ed il buon Eustazio si commoveva, pensando a quel poveretto d’un Costantino Ceca- lesmeno, ricchissimo, che, dopo essere stato sferzato a sangue affinchè rivelasse il nascondiglio del suo tesoro, poichè disse che avrebbe raccontato tutto ai Conti, fu senz'altro ucciso. Questo nel giorno; di notte era poi addirittura impossibile uscire: occorreva barricarsi e spegnere i lumi per non attirare l’attenzione delle pattuglie giranti per le vie. E le invasioni notturne delle case, anche con queste precauzioni, non erano rare; e se gli uni, ubbriachi, si accontentavano di insultare e bastonare i disgraziati, altri più petulanti ardivano rapire quella sposa o quella fanciulla che nel giorno avesse attirato la loro attenzione (1). Vi fu però una parte della cittadinanza che si adattò presto al nuovo stato di cose: la feccia della popolazione imitò nelle rapine e nel disordine i Normanni e fece peggio; donne del volgo ricevettero in dono abiti preziosi, vesti sacerdotali ed a maggiore sguaiataggine e profanazione se ne vestirono; in più di un caso un padre offrì la figlia ad un Normanno per averne protezione; altre volte le fanciulle gradi- rono gli omaggi di qualche rozzo damo; le unioni matrimoniali non mancarono, più spesso libere chè consacrate, per quanto cercasse di opporvisi lo sgomentato Eustazio, e nonostante la differenza di civiltà fra ì due popoli (2). L'assedio e la presa di Tessalonica, se poco aveva costato in tempo, aveva valso ai Normanni una perdita di più di sei mila uomini, fra i caduti in campo, edi soggia- ciuti ad una epidemia che tormentava l’esercito (3). Occorreva ora non addormentarsi sul trionfo e procedere innanzi con energia e rapidità, per sfruttare il senso di terrore destato in Costantinopoli e nelle provincie dalla presa di Tessalonica. Lasciato un considerevole presidio in questa città, per evitare possibili attacchi alle spalle, l’esercito normanno si avanzò verso Costantinopoli, su due colonne. L’una, la più forte, marciò per Bolero e Mosinopoli, diretta verso la capitale, l’altra, pro- cedendo più lentamente, occupava Serre ed Anfipoli, saccheggiando la regione: l’as- senza di un nemico che contrastasse loro il terreno passo passo, faceva sperare che la marcia fino al Bosforo non avrebbe costato maggior fatica di quella da Durazzo a Tessalonica, e tutti fidenti, senza disciplina e cautela di sorte, procedevano sac- cheggiando (4). L’esercito imperiale era sempre immobile ed inerte. Il basileus Giovanni, senza pensare a nemici ed a battaglie, se ne rimaneva a Filippopoli, occupato nelle sue caccie: gli altri generali condividevano il panico delle milizie e non ardivano avan- zarsi. Teodoro Cumno — come fu detto — aveva cercato di muovere incontro al nemico, ma' alla vista sola dei Normanni, racconta Niceta, i suoi soldati si erano dati alla fuga. Altre forze inviò Andronico con Alessio Brana, ma neanche ora si ebbe una vigorosa offensiva. I bizantini si sentivano deboli. Il loro esercito era formato da (1) E., 485 e segg.; 491-492; N., 396. (2) E., 478. 13, 493. (3) E., 504. (4) N., 413-414. 310 FRANCESCO COGNASSO 98 leve novissimamente raccolte, inesperte di guerra, e si trattava di combattere con la terribile cavalleria normanna. La caduta di Tessalonica aumentò la paura nelle file bizantine, e quando i Normanni incominciarono la lorò avanzata, gl’imperiali si misero al sicuro sulle alture, lasciando scoperta ai nemici tutta la pianura, sicchè non trovando resistenza, le due colonne normanne, dopo l'occupazione di Mosinopoli, si riunirono per marciare insieme. Accompagnava sempre i duci Normanni Alessio Comneno, che eccitandoli ad avanzarsi, giurava e spergiurava che i cittadini della capitale lo avreb- bero accolto con entusiasmo pati a quello avuto per il basileus Manuele (1). Frattanto, a Costantinopoli, Andronico con grande sollecitudine visitava le mura, ordinava riparazioni urgenti e necessarie. Si distrussero molti edifici attigui alle mura che avrebbero facilitato gli attacchi nemici (2). Si raccolsero tutte le navi da guerra giacenti negli arsenali, si riattarono e si armarono di tutto punto: se ne ebbero in tutto cento. La caduta di Tessalonica aveva destato nella cittadinanza dap- prima sorpresa, poi dolore e sdegno. Andronico, mentre getta in carcere e condanna a morte il fratello e la madre di Davide Comneno, cerca di consolare l’ afflitta popolazione, mostrando come già altra volta Tessalonica fosse caduta in potere del nemico, e come non vi fosse motivo per disperare del buon esito della guerra ;. pro- metteva che ora più che mai vi era speranza di distruggere di un sol colpo l’esercito normanno (3). i Ma tale freddezza d’animo del basileus irrita i cittadini, le notizie della immo- bilità ed inerzia dell’esercito, della presa di Anfipoli, di Mosinopoli, li atterrisce; i fuggiaschi dalla Macedonia recano una più viva impressione degli orrori che laggiù avvengono: ogni mattino i pacifici borghesi credono di vedere sventolare sullo sfondo azzurro del Mar di Marmara, le bandiere della flotta normanna. Il malcontento non è più frenato: il rivolgimento dell'anima popolare, già così devota ad Andronico, è ora completo. Se prima solo a bassa voce, ora apertamente sì protesta, e nelle offi- cine e sui mercati si accusa Andronico di trascurare gli affari dell'impero, di assi- stere indifferente alle vittoriose imprese dei nemici (4). La freddezza d’animo di Andronico era però più ostentazione per rincorare i pavidi cittadini, che una realtà: anche il basileus si trovava in uno stato d’eccita- zione assai grave. Egli vedeva che da ogni parte le cose si mettevano per lui vera- mente male. I Normanni erano oramai padroni di mezzo Impero e dominavano la situazione ; i cittadini imprecavano a lui, si auguravano ad ogni minuto la sua morte, ed egli si sentiva solo, e forse rimpiangeva d’aver tolto all'impero il presidio della aristocrazia (5). Del suo stato d’animo è prova sufficiente il seguente aneddoto. Egli era un ammiratore di San Paolo, e le sue lettere egli aveva assunto a modello per la propria corrispondenza. Ineredulo, soleva recare doni ed ornamenti ad una antichissima icone (1) N., 412 e segg.; 430. 6. (2) Dovette appunto ora avvenire la distruzione del Philopathion di S. Giorgio dei Mangani, ordinata da Andronico (N. 880. 20). (3) N., 414-415; 434; E., 480. 6. (4)) Ni, 415. 17. (5) N., 416. 11. 99 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. sli dell'Apostolo, al Tempio dei Quaranta Martiri. Un giorno — sulla fine del suo regno — sì sparse voce che quell'immagine avesse pianto. Andronico inviò tosto il suo fido Stefano Agiocristoforite a verificare il portento. Andò questi, salì su di una scala, con un panno fece per pulire al ritratto gli occhi, ma questi parevano come due fonti. Andronico, quando seppe ciò, pieno d’angoscia, scuotendo tristamente il capo, mormorò che egli ben sapeva il motivo del pianto di Paolo: egli amava Paolo, Paolo amava lui ed ora l'avvertiva di grave imminente sventura. In preda a terribile affanno, volle scrutare nel mistero del suo avvenire, ed incaricò il Logoteta Agio- cristoforite di recarsi a consultare il vecchio Seth, ben noto negromante, ed a chie- dergli chi sarebbe stato il futuro basileus. Lo stregone, secondo il racconto di Niceta, avido di narrare prodigi, rispose tracciando le lettere I ed S, e disse che Andro- nico sarebbe caduto, avanti la Festa della Esaltazione della Santa Croce, per opera di un Isacco. Andronico pensò ad Isacco Comneno, il tiranno di Cipro, e si beffò di questa profezia (1). A Stefano Agiocristoforite ed ai suoi compagni non poteva sfuggire quella agitazione del popolo, anzi, ne erano impensieriti non poco. Combattere ad un tempo i nemici interni e gli esterni era difficile: pericoloso poi, se il nemico avesse potuto, avanzandosi sotto le mura della capitale, confidare in alleati segreti ed interni, che paralizzassero l’opera del governo e magari si sollevassero nell’ora decisiva. Occor- reva provvedere senza indugi: era necessaria molta audacia per schiacciare defini- tivamente l'opposizione interna, prima che comparissero i Normanni. I cortigiani quindi urgevano il basileus affinchè fossero condannati a morte quanti già si trova- vano in carcere. Andronico finalmente vi acconsentì. Radunati a consiglio i giudici e tutti i grandi ufficiali dello Stato, l’autocratore prese la parola, e con quei gesti tragici ch'egli tanto amava, venne ricordando quante malvagità avessero i Normanni compiuto, quanti danni arrecati alle pro- vincie occidentali, quante città saccheggiate e desolate, e di tutto questo egli ren- deva responsabili i suoi nemici, i quali, non potendo avere aiuto dal popolo, assetati del suo sangue, avevano istigato i Normanni, questi nemici tradizionali dell'impero. Aggiungeva però Andronico, che non a lungo i suoi nemici avrebbero esultato, poichè — ed egli citò qui il detto di San Paolo “non faccio il bene che vorrei, faccio il male che non vorrei , — era necessario che essi stessi soffrissero ciò che si proponevano di fare soffrire a lui. Conveniva troncare le speranze che i Normanni avevano su appoggi segreti nella Capitale, ed egli terminò chiedendo che l'assemblea prendesse dei provvedimenti straordinari contro quanti si trovavano in carcere, contro 1 parenti e gli amici degli esuli. Tutti i presenti, gente interessata a non lasciar cader l’attuale regime, ad una voce acconsentirono nel desiderio del basileus, e dissero che bisognava contro quei malvagi ribelli decretare la pena di morte. Ed il decreto di proscrizione fu imme- diatamente steso dal protoasecretis, dal cancelliere, dal protonotario del Dromo. Niceta ci conservò il preambolo dell’interessante documento, notevole anche perchè i giudici sentenziavano non in nome del basileus, ma di Dio. Dicevano infatti: (1) N., 442; 461. 4; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 257. 312 FRANCESCO COGNASSO 100 “ Mossi dal volere divino, e non da un decreto del nostro potente e santo signore ed imperatore, affermiamo e deliberiamo essere utile sia alla cosa pubblica, sia ad Andronico salvatore dei Romani, in particolare, che muoiano quanti, arrestati come ribelli e sediziosi, si trovano nelle carceri, e che, di quanti si sono rifugiati all’estero, siano arrestati tutti i parenti ed aderenti, i quali tutti pure siano inviati a morte, così che sia possibile al basileus Andronico, ora per nostra buona fortuna reggente lo scettro imperiale, essere libero da affanni per lo Stato e dalle insidie dei malvagi, ed i Siciliani siano costretti a ritirarsi, più nessuno essendovi che li aiuti nelle loro male imprese contro i Romani....... » Seguivano quindi le liste dei condannati; per ciascuno era specificato il genere di morte assegnatogli. Avuto questo decreto, Andronico lo volle far firmare al figlio Manuele, cui aveva dato, in cambio della negatagli corona imperiale, la dignità di Sebastocratore, ma esso rifiutò, dicendo di non voler approvare con la sua sottoscrizione un atto non emanato dal basileus, e così Andronico dovette accontentarsi di porre la sua firma in fondo al decreto (1). Prese queste deliberazioni, fidando nell'esercito per i Normanni, nei suoi ministri per i nemici interni, Andronico credette di aver assicurata la propria posizione, e tranquillo, se ne andò — erano i primi giorni di settembre — alla sua diletta villa del Meludion sul Bosforo (2). Stefano Agiocristoforite avrebbe pensato lui a dare esecuzione al decreto. Per quanto questo riguardasse assai probabilmente solo membri della aristocrazia, nel segreto ufficialmente conservato, le voci vaghe ed esagerate, diffondendosi, dovettero agitare vieppiù la popolazione, e ciascuno potè temere per sè. Su quelle liste di proscrizione vi era pure Isacco Angelo. Soddisfatto di aver distrutta la potenza di quella famiglia, Andronico Comneno aveva permesso che Isacco abitasse nuovamente nella capitale. Abitava nella casa paterna all’Exokionion nel quartiere del Deuteron, presso il monastero del Periblepton. La sua casa era il ritrovo di tutti i malcontenti: se dobbiam crederlo, vi veniva pure di nascosto il patriarca Basilio Camatero (3). Se presso di lui si andasse ordendo qualche congiura, non sappiamo. Nel meriggio dell’11 settembre, con piccolo drappello di armati, Stefano Agiocristoforite stesso, lasciò il Grande Palazzo, per la Mese risalì in direzione della Porta Aurea, e si presentò dinanzi alla casa di Isacco Angelo. Niceta afferma che l'arresto del patrizio era stato deciso dall’Agiocristoforite per semplice misura di prudenza. A Palazzo si sarebbe bensì parlato del pericolo che quel giovane poteva presentare, ed un giudice del Velo, Giovanni Tira, affezionato fino all'eccesso al basileus, perchè gli era debitore del suo ufficio, avrebbe proposto la sua condanna a morte; ma Andronico aveva riso, non temendo punto quell'uomo debole ed inetto. Però Michele Acominato, ricordando poi in un suo discorso quella tragica (1) Credo difficile l’identificazione proposta dal Caaranpoxn (Jean II Comnène ete., pag. 481, n. 5) del figlio di Andronico con quel Manuele Comneno, per il quale vedi Caaranpox, op. e loc. cit. Del resto, contro il parere del Chalandon, Manuele dovette nascere prima del 1155, inizio della prigionia di Andronico. Manuele compare con la dignità di Sebastocratore in E., 429. 18. (2) N., 435-436; 448. 12, afferma che e la forma speciale della sentenza suddetta e la richiesta ai figli di firmarla furono pensate da Andronico per togliersi la responsabilità di quell’atto: così si sarebbe poi difeso quando fu arrestato. (3) N., 444. 14; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, 1, 257. I Tr —__r_— re — = n. 101 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 313 giornata, diceva chiaramente che Isacco avrebbe dovuto essere abbacinato, e non è dubbio che anch'esso si trovasse sulle liste di proscrizione (1). i Stefano Agiocristoforite, adunque, fece annunziare la sua venuta, e dalla via intimò ad Isacco di scendere ed arrendersi. Isacco Angelo, compreso il pericolo immi- nente, anzichè obbedire, si armò, mentre per ordine del Logoteta i soldati si accinsero a sfondare la porta per entrare a fare ricerca del patrizio. Già gli armati si slan- ciavano per l'atrio seguiti dall’Agiocristoforite, rimasto a cavallo, quando compare sotto l’atrio Isacco, il quale con la spada in pugno si apre la via fra gli armigeri, e si getta sul Logoteta. Fa questi per fuggire, ma l’altro lo raggiunge, e con quel coraggio e con quella forza che ai deboli dà alle volte la disperazione, gli menò un terribile fendente al capo. Cadde il disgraziato a terra, ed Isacco, balzato sul suo cavallo, aprendosi la via fra gli armigeri, ancora tutti in preda allo stupore, si slanciò al galoppo per le vie della città, sempre tenendo ed agitando la spada insanguinata; e mostrandola a quanti incontrava, urlava: “ Ho ucciso Stefano Agiocristoforite! ,. Non era però il suo l’aspetto di un Bruto che liberi la patria dal servaggio, ma, affannato e spaventato, mentre i cittadini si fermavano sorpresi, sempre urlando giungeva a Santa Sofia, dove, per il sacro diritto di asilo, sperava di trovare riparo (2). Rapidamente la notizia dell'accaduto si sparse per tutti i quartieri, per tutte le vie e i chiassuoli della grande città, penetrò in tutte le case, portando dappertutto lo stesso senso di meraviglia. Meraviglia e sorpresa, chè in quelle ore nessuno pensò a libertà, nessuno si infiammò delle più belle speranze per l'avvenire, come poi affer- mava Michele Acominato. Ed i buoni borghesi, piuttostochè compiacersi dell’assassinio, commiserarono il colpevole, poichè credevano che, anzi che il sole del tutto tramon- tasse, Isacco avrebbe pagato il fio della sua audacia. Ai parenti di Isacco la notizia recò il massimo terrore. Poichè Andronico per assicurarsi meglio della fedeltà dei patrizi, li aveva costretti a rendersi mallevadori gli uni degli altri, e la vendetta di Andronico avrebbe colpito con Isacco lo zio, il vecchio ed illustre Giovanni Duca Angelo, che Andronico non aveva osato fino allora toccare, suo figlio Isacco, ed altri parenti e famigliari; anche questi corsero a raggiungere il congiunto in Santa Sofia. I popolani intanto cominciavano ad accorrere a Santa Sofia per vedere l’eroe della giornata e molti aderivano alle preghiere degli Angelo, di fermarsi nel tempio per assisterli ed aiutarli. Ma, fra la maraviglia generale, mentre nuova folla conti- muava ad arrivare, non si presentavano nè soldati nè i Varangi, e neppure notizie di sorta giungevano dal Palazzo imperiale. Hi Quando finalmente corse la notizia essere Andronico non al Grande Palazzo ma al Meludion, un senso di liberazione e di soddisfazione si ebbe nel tempio; timidità e spavento cedettero luogo alla sicurezza, poi all’audacia. Circondato dai parenti, da amici, da molti popolani, Isacco passò tutta la notte appiè dell’altare, alla fioca luce di alcune lampade; ancora era tutto spaventato per quel suo atto di audacia. Il patriarca Basilio, prudentemente, non intervenne, ma (1) N., 443. 1; LamBros, op. cit., I, 225. @) N., 445 e segg.; vedi in Lam8ros, op. cit., I, pag. 225 e segg., il panegirico che Eustazio fa “ di quel nobile colpo che spezzò le catene della tirannide ,. Credo inutile elencare e riferire tutti i racconti confusi, spesso, e guasti che si trovano in molte cronache occidentali. Serie HI. Tow. LXIL 40 314 FRANCESCO COGNASSO 102 tacitamente acconsentì che tutta quella gente rimanesse in chiesa. Se non Isacco, certo i suoi famigliari preparavano la resistenza ed un grande movimento popolare per il giorno appresso (1). Gli avvenimenti dell’11 settembre mostrano chiaramente quanto fosse debole il governo di Andronico: lui assente, ucciso il suo fido ministro, tutto si era arrestato; nessuno v'era che prendesse provvedimenti per fronteggiare la situazione. La sera stessa però Andronico era al Meludion avvisato di quanto era avvenuto, ma, per nulla inquietandosene, invece di ritornare immediatamente e provvedere in persona, si accontentò di inviare a Costantinopoli un breve proclama ai cittadini esortandoli a non cedere ai sediziosi ed a rimanere calmi. Il mattino del 12 settembre, poichè le notizie che giungevano non erano rassicuranti, Andronico si imbarcò, ed evitando la città rumorosa, venne a sbarcare al porto del Bucoleon. Ma questo ritardo di poche ore gli fu fatale. Il popolo, sulla cui fedeltà egli forse sì illudeva, contando su di essa per reprimere la ribellione di pochi patrizi, aveva rinnegato decisivamente il suo favorito, ed a frotte, cittadini di ogni classe, affluivano a Santa Sofia, armati di corazza e di spada, chi le possedeva, gli altri con bastoni, picche, od arnesi da lavoro. Santa Sofia fu ben presto occupata da tutta questa folla tumultuante, dove nessuno forse sapeva precisamente quel che si dovesse fare. La proposta di detronizzare Andronico e proclamare imperatore in suo luogo Isacco Angelo, proposta partita certamente da qualche amico di quest'ultimo, trovò rapidamente favore, e sollevò entusiasmo l’idea di restaurare il diritto popolare di elezione dell’autocratore, da secoli abbandonato. Ora il movimento popolare aveva uno scopo preciso. Uno stuolo di facinorosi assalì le carceri, e ne trasse i prigionieri politici, fra i quali molti patrizi, che si unirono senz’altro agli Angelo (2). Il successo incontrastato accrebbe dei rivoltosi l’audacia ed il numero, chè i timidi, gli incerti incominciarono ad aderire al movimento, spinti dalle sollecitazioni, dai rimproveri dei più entusiasti che, a quanti trovavano per via indifferenti e disarmati, scagliavano insulti, vituperavano come gente infrollita e corrotta, che non sentiva il dovere di unirsi a tutta la cittadinanza contro l’oppressore. Mentre per tutta la città si diffondevano i tumulti ed i saccheggi, in Santa Sofia, sotto la grande cupola giustinianea, si svolgeva una scena solenne. Il popolo non solo aveva acconsentito a proclamare imperatore Isacco Angelo, ma pieno di entusiasmo, aveva voluto attuare senza indugio il progetto. Se per prudenza il patriarca non era ancora sceso fra il suo popolo, il clero della chiesa già aveva aderito, ed uno dei diaconi, salito su di una scala, si affaccendava a staccare la corona di Costantino, sospesa sul grande altare. Poscia, sull'ambone si procedette all’incoronazione. La scena era solenne, ma gli attori dappoco e spregevoli. Isacco, anzichè allietarsi di questo improvviso ed insperato trionfo, trema, vor- rebbe rifiutare: egli teme che tutto questo non riesca se non ad irritare maggiormente Andronico, ed a rendere più feroce la vendetta. Tale fiducia egli aveva in sè! Il vecchio Giovanni Angelo Duca è sdegnato che gli sia anteposto il nipote, ed appro- 103 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. SI fittando delle sue esitanze, sì toglie di capo il cappello, e, presentando al diacono che sorregge la corona, la calva testa, l’invita ad incoronare lui. Ma il popolo vince con la violenza l’esitanza dell’uno, respinge le pretese del- l’altro. Gridano i popolani, per un giorno i veri padroni dell'impero, di essere stufi d'obbedire ad un imperatore vecchio ed incapace, sotto il quale lo Stato ha provato tanti danni: essi vogliono un principe giovane e forte (1). Scende allora la corona a cingere le tempia di Isacco Angelo, e tutto il tempio echeggia delle acclamazioni rituali: “ Ad Isacco, grande basileus ed autocratore dei Romani, Angelo, molti anni di vita! , Per quanto di mal animo anch'egli teme ancora Andronico —, viene, sotto la pressione della folla, finalmente il patriarca e benedice il nuovo basileus. Isacco è portato in trionfo. Passano presso al tempio in quel momento scudieri di corte con dei cavalli: la folla se ne impadronisce; su uno di essi vi fan salire il nuovo basileus; fra le acclamazioni si muove il corteo impe- riale. Non vi partecipano, no, solenni dignitari sfarzosamente abbigliati, ma solo operai fetenti di sudore, in abiti da lavoro: non mai vi era stato in Bisanzio un trionfo così sincero e spontaneo. Ma la turba non dimentica Andronico. Isacco Angelo deve essere dal popolo, dai suoi elettori, installato a Palazzo, ed a Palazzo domina il tiranno. Poichè ora Andronico è il “ tiranno ,. Solo vero autocratore è l’eletto del popolo, ogni altro è un principe illegittimo, un usurpatore. Ed il popolo, per aprire la via al suo basileus, marcia contro il tiranno (2). Andronico, appena arrivato, compresa tosto tutta la gravità della situazione, aveva atteso alla difesa. Dall’Augusteon salivano i frastuoni della turba: acclamazioni ad Isacco, per lui, imprecazioni. I suoi cortigiani si erano, per la massima parte, dileguati: a lui pochi soldati, forse i Varangi, rimanevano fedeli, e si preparavano a respingere la folla che si addensava alla Porta Carea. Dall'alto della torre del Centenarion che rafforzava da questa parte la cerchia delle mura della residenza imperiale, Andronico contemplava, triste, la moltitudine. Anch’egli si era armato, ed irritato prese a lanciare sui tumultuanti qualche freccia, che contribuì certo solo ad aumentare il tumulto e gli sforzi che si facevano per abbattere le porte del Palazzo. Tentò un ultimo espediente per calmare e placare la moltitudine, e, dall’alto della torre, Andronico annunciò che avrebbe abdicato per sè e per il figlio Giovanni, a favore dell’altro figlio Manuele, amato assai dal popolo. Ma era troppo tardi. L'annuncio fu accolto con urla, cui tennero dietro presto grida di trionfo, e per la sfondata porta si precipitò la folla, ebbra di vendetta, nel palazzo. Dalla porta Carea e lIppodromo era possibile ai ribelli, per la vasta sala detta dei Trofei e la lunga gal- leria di Giustiniano II, limitante a sud tutte le varie costruzioni imperiali, il rendersi rapidamente padroni dei vari palazzi che costituivano l'immensa residenza del basileus. La torre del Centenarion era a poca distanza, situata fra l’Ippodromo e gli Seyla, (1) Su Isacco II Angelo ed il suo regno, mi permetto di annunciare un mio lavoro, di prossima pubblicazione, seguito al presente studio. (2) N., 450. 14 316 FRANCESCO COGNASSO 104 sicchè ad Andronico non era possibile indugiare più a lungo (1). La sua calma, la sua freddezza d’animo era oramai esaurita; si toglie i rossi calzari, buttasi in capo il cappello di un suo mercenario, si strappa dal collo la croce che soleva portare, ed abbandonati a sè i Varangi ed i pochi fedeli, attraversa di corsa i palazzi ed i giardini, giunge al porto del Bucoleon, tosto partendone sulla stessa nave che poche ore prima lo aveva colà condotto. Ritornò al Meludion; quivi tolse con sè la giovane sposa, Agnese, e Mareptica, una flautista, umile ma gradita amica, e poi ripartì per il Mar Nero (2). Abbandonava Costantinopoli tumultuante ed andava verso l'ignoto, verso una nuova vita avventurosa, chiusasi solo ora la sua più grande avventura : i due anni d’impero. Il popolo aveva vinto. Quando poco dopo, il nuovo basileus entrò nel Grande Palazzo ed andò al Crysotriclinion a prendere possesso del trono, ben dovette accor- gersi che avanti a lui già era passato il vero trionfatore, il popolo, e che era passato per il palazzo come una bufera devastatrice. L’ingente tesoro accumulato da Andronico, cioè dodici centenari d’oro, trenta d’argento, duecento di bronzo, era scomparso: i depositi di armi, saccheggiati. Isacco, dopo pochi giorni, si recò ad abitare alle Blacherne (3). Colà lo raggiunse la notizia che Andronico Comneno, sulle cui traccie aveva tosto inviato suoi messi, era stato raggiunto ed arrestato a Chelai (4). Quivi, infatti, si era recato dal Meludion, sul lento dromone imperiale, ed agli abitanti aveva ordinato di allestirgli una nave veloce. Intendeva egli recarsi in Russia, dove altra volta — venti anni prima — aveva trovato ottima accoglienza. Sbigottiti, quegli abitanti avevano obbedito — tanta era la forza dell’abitudine! — e, senza indugio, Andronico era ripartito per il Nord con le donne e qualche servo. Ma una burrasca nuova- mente lo ricaccia all’imboccatura del Bosforo, a Chelai, dove i satelliti di Isacco II lo arrestano, e l’ex-imperatore riprende, carico di catene, la via della capitale, lamen- tando il suo triste destino, paragonando il picciol stato presente alla nobiltà dei suoi natali, alla gloria delle sue imprese. Ai suoi lamenti facevano eco quelle due strane figure femminili, le ultime con- solatrici del vegliardo possente: una figlia di re, sposa di imperatori, ed una suona- trice di flauto. Andronico giacque incatenato nel castello di Anema sul Bosforo; tradotto dinanzi ad Isacco, ebbe umiliazioni, insulti, percosse: tutto sopportò. Recisagli la mano destra, accecato d’un occhio, ferito di mille ferite, trasportato per tutta Costantinopoli, ludibrio del volgo, sul dorso di un cammello, finì la sua vita meravigliosa nell’ Ip- podromo, sospeso per i piedi a due colonne (vicino al famoso gruppo di bronzo della lupa e della iena azzuffantisi), dopo avere eroicamente resistito a nuove crudeli ed (1) Sulla topografia del luogo vedi EsersoLr, op. cit., pag. 156. (2) N., 451-453. (3) N., 453. (4) È l’attuale Kitscheli liman, sulla riva d'Asia, non lungi dall'entrata nord del Bosforo. 105 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 317 odiose torture. I suoi martirizzatori e carnefici non riuscirono a strappargli un lamento. Tanto era ad essi superiore (1). Giacque il suo corpo, lacerato ed abbandonato, per più giorni, in un androne dell’Ippodromo: poscia, pietose mani lo recarono in un luogo appartato, poco lungi dai bagni dello Zeusippo, presso il monastero dell’Eforo: Isacco Angelo proibì che i resti di Andronico ricevessero sepoltura alcuna (2). (1) Vedi il racconto minuto della morte di Andronico in Drert, op. cit., pag. 130. (2) N., 453-458. Dell’impressione esercitata da Andronico sulla mente popolare, sono prova quei due o tre epigrammi riferiti da Niceta, e quel cosidetto Figlio di Andronico, in LeGrAND, Coll. de Mon., n. s.1(1874), 186-190 (cfr. K. KruxBacHER, op. cit., pag. 832, e la bibliografia ivi citata); cfr. ancora due monodie per la morte di Andronico, una di un codice barocciano, per la quale vedi Kart KeUMBACHER, Op. cit., pag. 466, e l'altra di un codice parigino, per la quale vedi pure K. Krux- BACHER, Op. cit., pag. 527. V° Si stampi: PaoLo BoseLti, Presidente. CorrADO SEGRE Segretario della Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali. GarTtANO DE SANCTIS Segretario della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. hazie CI PEVEESIETEZE RDCRDEIDE = ADI RAZAIZ TL — TTùETTTIVUTOLSUTIITY VESEYTE = CR VEEMESNEA = = NO), N YA E AZIZ == aC VA 4 sno A ARARZAAARI MARAN = = DPI av RRRSSRNNSNENSNZIAE EVI FES